Inside di Daymy91 (/viewuser.php?uid=20257)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** #1 Capitolo ***
Capitolo 3: *** #2 Capitolo ***
Capitolo 4: *** #3 Capitolo ***
Capitolo 5: *** #4 Capitolo ***
Capitolo 6: *** #5 Capitolo ***
Capitolo 7: *** #6 Capitolo ***
Capitolo 8: *** #7 Capitolo ***
Capitolo 9: *** #8 Capitolo ***
Capitolo 10: *** #9 Capitolo ***
Capitolo 11: *** #10 Capitolo ***
Capitolo 12: *** #11 Capitolo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Salve
a
tutti! era un pò che non mi facevo viva con qualche fanfic
su house md.
In realtà ammetto di essere un pò stupita di me
stessa per aver trovato la
passione di riprendere a scrivere su questo meraviglioso tf! ...che
dire
dunque? spero tanto la storia vi possa piacere... io ho semplicemente
provato
ad immaginare un ipotetico seguitoo del finale della 5 stagione, andato
in onda
in america la scorsa settimana.
La
storia
non è conclusa e sinceramente non so quanti capitoli
verranno fuori. Spero solo
di riuscire a portarla avanti.
Si accettano sempre commenti e/o critiche.
Enjoy
it!
Myky91
Inside
“La
solitudine è come una lente d'ingrandimento se sei solo
e stai bene stai benissimo, se sei solo e stai male stai
malissimo.”
(Giacomo
Leopardi)
“Ho
sempre creduto di
essere un uomo forte. Ho fatto i miei errori… ma son sempre
stato capace di
superarli e di andare avanti.- l’uomo sorrise amaramente
– ma credere, non
sempre basta a sfuggire alle paure e alla sofferenza.”
“Per questo sei
morto?” Gregory House riuscì ad attirare il suo
sguardo.
“Sono morto perché
così doveva essere.”
“E tu perché sei
morto?” sussurrò una giovane donna con sguardo
curioso e pungente.
House si voltò a
guardarla, infastidito “Io non sono morto. Tu lo
sei.”
Amber sorrise
“Dipende dai punti di vista.”
Kutner si mise in
piedi con fare piuttosto pacato “Sei in una clinica
psichiatrica.”
“Già. Chissà
perché!!”
“Wilson dice che
guarirai.”
“Tutti lo dicono.” bisbigliò
House zoppicando verso la finestra e fermandosi a contemplare il
paesaggio che
quel terzo piano gli regalava da ormai due mesi.
Amber si avvicinò al
suo viso “Ma nessuno ci crede.- gli sussurrò
– Tu per primo.”
Un tonfo.
Ancora.
A lui stava
benissimo… ormai non lavorava più, passava le sue
giornate chiuso in quella
stanza… gli stava bene in fin dei conti avere un
po’ di compagnia. Ciò che
invece detestava era ciò che la
“compagnia” diceva. Cose che difficilmente
potrebbero fare rimarginare ferite.
Cose che, per quanto
lui volesse dimenticare, mettere da parte, venivano invece dette e
ripetute.
Sempre.
Da chi poi?
Da se stesso.
Dal suo subconscio.
“Qui ci sono dei
bravi medici… mi rimetteranno in sesto.”
Kutner sorrise
“Fortuna che sei rinchiuso qui dentro. Ti vedessero i tuoi
collaboratori, i
tuoi ‘sottoposti’… cosa direbbero?
– fece una pausa riflessiva, poi riprese –
cosa direbbe Cuddy?”
“Lasciatemi in pace!”
“Ma... al momento non
è che dica molto – sospirò Amber, ora
seduta sulla scrivania della camera, le
gambe accavallate come di suo solito – è da quando
sei qui dentro che non si fa
sentire. Be.. del resto non c’è da stupirsi dato
che ormai non frutti più niente
al suo amato ospedale.”
“Non mi interessa.” sussurrò
House, chinando debolmente il volto mentre dava ancora le spalle al
resto della
camera.
“Pensavo ne fossi
innamorato.”
“Concordo… lo pensavo
anche io.” Kutner disse anch’egli la sua nel solito
modo ingenuo con cui
spesso, quand’era in vita, partecipava alle diagnosi.
“Sta zitto tu.”
“Un altro buco
nell’acqua. – esclamò Amber facendo
spallucce – come con Stacy del resto. Noi,
in realtà, non siamo capace di farci amare.”
A quell’esclamazione
House si voltò a guardarla, stanco di ascoltarla, stanco di
sentirsi dire tutto
ciò che lei le diceva, stanco di doversi subire se stesso.
La guardò dritta
negli occhi, uno sguardo gelido… uno sguardo vuoto.
La donna alzò
leggermente la spalla sinistra, guardandolo con rammarico “Non hai mai
fatto l’amore con lei Greg.
Smettila di crederci. Lei non è mai stata al tuo
fianco.”
Toc!
Toc! Toc!
House
trasalì
all’improvviso bussare della porta.
“Avanti!”
Un uomo con il camice
bianco l’aprì con fare deciso, lasciando spazio ad
una seconda figura: James
Wilson.
L’oncologo aspettò
che il medico che l’aveva accompagnato lì se ne
andasse. Poi iniziò:
“Hei. Come va?”
“Va.”
“Va male o va bene?”
“è un indovinello?”
Wilson sorrise,
capendo che forse era meglio cambiare discorso ma House lo precedette:
“Era da
un po’ che non venivi a trovarmi”
“Ho avuto da fare con
il lavoro. – rispose l’amico – Sono un
oncologo, ricordi?”
House lo guardò
seccato “Wilson… ho allucinazioni, non sono
rimbambito.”
“Ci mancherebbe.”
“Allora…- il diagnosta
sembrò voler lasciar perdere tutto adesso e, mostrando un
sorriso, zoppicò
verso l’amico – Cosa mi hai portato di bello questa
volta paparino? Dolcetti?
Caramelle? un bel film porno?.. ti prego dimmi di si!!”
Wilson sorrise
divertito, alzando all’altezza del viso un pacchetto
“Biscotti.”
Amber fece una
smorfia “meglio di niente.”
“Io avrei preferito
delle ciambelle.” brontolò Kutner.
“Uff… avrei
decisamente preferito un porno. Anche se le opinioni al momento
divergono…
Kutner fa il difficile.”
Wilson spacchettò il
pacco, offrendo all’amico i biscotti poi, con aria seria,
aggiunse: “Così
continui a vederlo.”
“A quanto pare si.” bofonchiò
il diagnosta, mettendosi in bocca un biscotto e cercando di mostrare
un’aria
tranquilla.
Ma nonostante tutto,
Wilson non riusciva a fare altrettanto.
“Sono due mesi che
stai qui dentro… speravo che almeno qualche progresso
l’avessi fatto.”
“Sono solo un
paziente caro James Wilson… non più il Dr. House.
La mia mente adesso è nelle
mani di quegli idioti… ops! Cioè, volevo dire,
bravi medici!”
“Piantala di fare il
cretino. – Wilson poggiò i biscotti sul
comò per poi tornare di fronte a lui –
Credi che sia facile vederti chiuso qui dentro? Venirti a trovare solo
nei
ritagli di tempo… e scoprire che nonostante tutto non sia
cambiato nulla?”
“E tu cosa credi che
sia facile per me?! – House era serio adesso, lo sguardo
fisso in quello di
Wilson – Giorno e notte chiuso qui dentro! Pagherei per poter
uscire a farmi un
giro in moto… il dolore alla gamba pulsa giorno e notte ma
nonostante tutto, ho
continuato a non prendere Vicodin. Credi che sia facile!?!”
“House… ti prego, non
adesso, non qui…”
“è facile parlare,
non è così?”
Wilson annuì, conscio
di aver sbagliato “House, scusami. Non
intendevo…”
“So benissimo cosa
intendevi. – disse il diagnosta, ora con un tono
più pacato mentre, deviando lo
sguardo di Wilson, andava a fissare il sorriso di Amber che era ancora
ferma,
immobile ed impassibile a godersi la scena – E se tanto ti
viene dura prenderti
quei 20 minuti a settimana per venire a farmi la predica…
tanto vale che te li
risparmi per leccare un altro po’ il culo a Cuddy.”
Wilson rimase
immobile, sorpreso dalla freddezza di quelle parole.
House soffriva…
soffriva più di quanto aveva sofferto negli ultimi 4 anni.
Sia emotivamente che
fisicamente.
Era stato un’idiota.
Ciò che avrebbe dovuto fare, in quanto suo amico, era
semplicemente andare da
lui.. fargli compagnia, ridere, scherzare. E invece, gli aveva fatto
pressione
e, adesso, la sua reazione era più che giustificata.
“Ok.” bisbigliò,
mettendosi le mani sul volto in un gesto di stanchezza. Avrebbe voluto
aggiungere dell’altro… ma contemporaneamente non
ne ebbe la capacità per farlo.
Fece cadere pesantemente le braccia lungo i fianchi, guardando
nuovamente il
viso di Gregory House, poi, con fare sbadato, decise di lasciare la
camera…
conscio che con quel gesto dava inizio ad un lungo periodo di
solitudine.
La
porta si chiuse.
Nella stanza tornò a
regnare il silenzio.
“Che fai? Perché non
gli vai dietro!?- esclamò Kutner, ora in piedi a lato della
porta – Diamine
House! Lui è Wilson!!”
Amber si distese
divertita sul letto “
…e adesso, Gregory
House, sei veramente solo.”
E
quelle parole rimbombarono nella sua testa per tanto, tanto
tempo.
To
be
continued…
|
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Capitolo 2 *** #1 Capitolo ***
Grazie
a
tutti per i bellissimi commenti!!!^^
Sono
contenta che la storia vi piaccia… e spero potrà
piacervi anche il seguito.
Anche perché, se così non sarà, mi
dovrò ritenere sconfitta come scrittrice.
U.U Ma
migliorerò, ve lo prometto! ç.ç
*sta facendo tutto lei*
Deliri a parte, veramente.. grazie a tutti per le bellissime
recensioni!!^^
LadyT.. vedrai lati di me che non penseresti mai di conoscere! XD
Vi lascio questo primo chap! Spero vi piaccia!^^
Enjoy
it!
Miky91
CHAP
1
I
migliori momenti
dell'amore sono quelli di una quieta e dolce malinconia dove tu piangi
e non
sai di che, e quasi ti rassegni riposatamente a
una
sventura e non sai quale.
(Giacomo
Leopardi)
La
notte era
scesa.
Il giorno si
era concluso.
Il vento
soffiava freddo tra le persiane mentre, il picchiettare della pioggia,
difficilmente avrebbe permesso a Lisa Cuddy di riuscire a far
addormentare
Rachel.
La stringeva
al petto, cullandola dolcemente. Riusciva a percepire i suoi battiti,
il suo
respiro… così tenero e così dolce.
Da quanto
tempo desiderava stringere a se una bambina? Da quanto desiderava avere
una
bambina da allattare, da accudire, da amare….?
Tre anni.
E adesso,
finalmente, sua figlia era tra le sue braccia.
Tre anni di
desideri, speranze, e, inevitabilmente, anche sofferenze. Tutte cose
che però
aveva condiviso con una persona…. con lui.
Cuddy
sorrise vedendo Rachel fare un piccolo sbadiglio mentre, ormai
assonnata, si
rannicchiava ancor di più sul suo petto.
Erano
proprio quei piccoli gesti che le riempivano il cuore di gioia, che la
facevano
stare bene sia come donna che come madre.
Che le
facevano dimenticare tutto ciò che era successo in quel
periodo… anche se per
pochi attimi.
L’ospedale
ormai senza Gregory House era come un contenitore vuoto, o forse, lo
era
semplicemente lei.
I giorni
erano monotoni, infiniti nella loro limitatezza. Il tempo, ora dopo
ora,
sembrava non aver più voglia di fuggire.
Le mancavano
i suoi scherzi, i suoi giochi di potere, i loro battibecchi, i suoi
insulti
persino.
Le mancava
tutto di lui.
Alle volte
chiudeva gli occhi e lo immaginava irrompere nel suo ufficio con in
mano dei
documenti da firmare per chissà quale impossibile
operazione, altre invece, lo
immaginava giocherellare con quella pallina rossa e grigia che tanto
amava e
che tanto gli era utile per i casi più disperati.
Ma tutto questo,
lo sapeva, non sarebbe avvenuto…perché lui non
era più al suo fianco.
Chiuse gli
occhi, cercando di ricacciar indietro quei tristi pensieri, legati poi
a dei
stupidi sentimenti di un amore impossibile.
Un amore che
lascia la sua impronta solo nella sofferenza.
Sospirò
debolmente, notando che adesso Rachel si era completamente addormentata.
“Buona notte
piccola.” le sussurrò, dandole un bacio sulla
fronte e deponendola nella culla.
Si
diresse
in cucina, mettendo sul fuoco un po’ d’acqua.
Erano le
21:00... e tuttavia non aveva cenato.
Indossava
ancora il tailleur che aveva messo per andare a lavoro e, adesso,
ciò di cui
aveva veramente bisogno era un bel bagno caldo.
Ma
l’improvviso picchettare alla porta le fece svanire ogni
speranza di un po’ di
relax.
Eppure, per
quanto stanca potesse essere, non appena aprì la porta e
vide James Wilson di
fronte a se, il suo volto si illuminò, ringraziando il cielo
che l’oncologo
fosse riuscito a trovare il tempo di venirla a trovare.
“Wilson!-
esclamò contenta – Vieni entra o ti
bagni.”
“Ciao
Cuddy…” l’oncologo seguì il
consiglio, entrando velocemente per evitare la
pioggia.
Cuddy gli
sfilò via il giaccone, attaccandolo
all’appendiabiti “Pensavo di vederti domani
a lavoro.”
“Ti avevo
detto che se ce la facevo passavo.”
Lei annuì,
facendo accomodare l’oncologo nel salone e, non appena vide
che si era
sistemato nel divanetto, iniziò:
“Com’è andata?”
Wilson
scosse il capo sospirando, mentre dal suo sguardo traspariva stanchezza
“Non
riesco più a stabilire un dialogo con lui.”
“Ma sta bene
almeno?” domandò preoccupata la dottoressa,
sedendosi al suo fianco.
“Ho parlato
con i suoi medici e mi hanno detto che hanno provato a fargli un
po’ di test di
routine… per confermare che si ratta di un problema
mentale.”
“Che
imbecilli.” sbotto Lisa seccata.
“Scoperto
che non aveva nulla di fisico, sono passati ad analizzare il problema
mentale.
L’hanno sottoposto a vari test sulla concentrazione, altri
sul linguaggio…
tutto negativo. Secondo ciò che fino adesso hanno fatto,
House è in piena
salute mentale.” concluse Wilson con rassegnazione, come se
cercasse di auto
convincersene.
Cuddy
abbassò lo sguardo “Almeno non è
schizofrenia.”
“Qualcosa
deve essere. Non posso pensarlo chiuso là dentro senza che
possa ricevere un
aiuto vero e proprio.”
“E lui… come
sta? Avete parlato?”
“È
frustato.- Wilson si portò una mano sugli occhi, facendo
tornare i pensieri a
quel che era accaduto quel pomeriggio – Non sopporta
più la mia presenza. È
arrivato al punto da cacciarmi via perché gli avevo chiesto
se c’erano
progressi. –fece una pausa, inumidendosi le labbra - Lo sto
perdendo… e non
sono capace di evitarlo.”
“Non è colpa
tua.” lo consolò Cuddy, non riuscendo
più a trattenere un’espressione di tristezza.
Wilson annuì
amaramente “Intanto sarà meglio evitare di andare
da lui per un po’. È
arrabbiato, frustrato, e soffre a causa delle allucinazioni. Se torno
da lui
gli farei ancora del male.”
Il pentolino
che pochi attimi prima Cuddy aveva messo sul fuoco iniziò a
fischiare
improvvisamente, costringendo la dottoressa ad andare a spegnere il
fornello.
Solo ora
Wilson stava notando l’abbigliamento elegante di Cuddy e,
guardando l’ora,
aveva capito che probabilmente la dottoressa non aveva avuto nemmeno il
tempo
di cambiarsi o di mangiare. Si alzò, pensando che
probabilmente era meglio
andar via… del resto ciò che le doveva dire
gliel’aveva detto. E poi anche lei
meritava un po’ di riposo.
“Sarà meglio
che vada.” urlò dal salotto, mettendosi in piedi e
prendendosi la propria
giacca.
Lisa lo
raggiunse nel corridoio qualche secondo dopo “Se
vuoi… posso andare io a
trovare House.” sussurrò.
“No.”
“Wilson…
sono due mesi che è lì dentro e io non sono
mai..”
“Ed è meglio
cosi.” esclamò l’oncologo, andando per
aprire la porta.
“Dannazione,
mi vuoi spiegare il perché!? - sbottò Cuddy,
strappandogli di mano la giacca e
costringendolo a guardarla in faccia – Mi hai detto di non
telefonargli, di non
farmi sentire… mi hai detto di non andarlo a trovare e che
mi avresti portato
tu sue notizie. Ho fatto come dicevi perché mi
fidavo…ma se adesso tu non ci
vai, se adesso non potrò sapere come sta, come pensi mi
debba comportare io!?
Dammi solo una ragione per lasciarlo marcire là dentro in
solitudine!”
Wilson abbassò lo sguardo, riflettendo sul da farsi.
Cosa avrebbe
dovuto dirle?!
‘No, non ci andare,
perché se ti vedesse starebbe
peggio? Perché
in realtà ciò che l’ha
portato a tutto questo è stato il credere di averti
amato?!’
“La cosa
migliore al momento è lasciare che i medici facciano il
proprio lavoro. – si
limitò a dire dopo un attimo di riflessione – Se
tu ci andassi, House starebbe
peggio perché capirebbe quanto gli manca la sua vita.
È per questo che io non
ci andrò più. Non voglio farlo soffrire
più di quanto già non soffra. – fece
una pausa, guardandola negli occhi – E poi… non
penso gli farebbe piacere farsi
vedere da te ridotto in quelle condizioni.”
Cuddy esitò
un attimo poi, stanca, gli porse la giacca “Ok... anche se
non penso sia una
soluzione tutto questo.”
“Diamogli
tempo. – le rispose l’oncologo, indossando
l’indumento – Spero solo che vada
tutto bene.”
“Spero solo
che tu non ti sbagli.” puntualizzò Cuddy.
Wilson annuì
colpevole, conscio che, nonostante la sofferenza che questa decisione
stava
procurando sia a Cuddy che ad House, tutto questo era la cosa migliore.
“Lo spero
anche io.” concluse, uscendo di casa e lasciando la
dottoressa immobile davanti
la porta.
Cuddy fissò
il freddo legno del portone oltre il quale immaginava la figura di
Wilson
allontanarsi.
Vide anche
un’altra figura allontanarsi… non dalla sua casa
ma da lei, e non era di certo
Wilson.
Rimase
immobile mentre le lacrime scesero silenziose sulle sue guance.
Che Wilson
le stesse nascondendo qualcosa era palese quanto il colore marrone del
cioccolato… ma la cosa che più le faceva rabbia
era che, ne era certa, in
qualche modo rientrava con House.
E il dolore
di non poter conoscere la verità, il dolore di non poterlo
vedere, di non
potergli stare accanto… la fecero immediatamente scoppiare
in un pianto dirotto
che difficilmente, quella sera, si sarebbe arrestato.
To
be continued…
|
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Capitolo 3 *** #2 Capitolo ***
CHAP
2
Il buon senso c'era: ma se ne stava nascosto
per paura del
senso comune.
(Alessandro Manzoni)
La
pioggia
aveva presto lasciato spazio ad una serena mattinata.
L’umidità
della notte si era asciugata, permettendo ora, a chiunque volesse, di
uscire a
fare un passeggiata.
Lo stesso fu
per coloro che popolavano il Myfield
Psychiatric Hospital.
“Uff…
che
noia.” Amber sospirò, portando il braccio sullo
schienale della panchina sulla
quale era seduta.
Kutner fece
spallucce, alzando lo sguardo al celo “Almeno è
una bella giornata.”
“Sai che
bello.- fu l’acida risposta di House ad entrambi –
Noia dentro, noia anche
fuori.”
“Beh, c’è un
lato positivo al fatto che siamo in tre. – Kutner sorrise.
– Potremmo sempre
inventarci un passatempo.”
House lo
guardò torvo “Come tentare di capire
perché mi state assillando la vita?”
“Beh. La
risposta è semplice: sei impazzito. Mi dispiace.”
puntualizzò il giovane
indiano con ovvietà, mettendo le mani nelle tasche del
proprio camice.
“Grazie. Ora
si che va meglio.”
“Infondo, il
problema è solo questo. Non ci sappiamo rassegnare alle
risposte che in realtà
sono… a noi serve la ricerca di ciò che
c’è dietro. Dell’impossibile.”
Amber
fece cadere il proprio braccio sul collo di House che, ignorandola,
rimase
immobile a riflettere.
“Ci sono 2 motivi per i
quali una
persona non tenta un suicidio House. – la interruppe Kutner,
come se stesse
leggendo la mente del diagnosta – O ha la forza di andare
avanti, o si tratta
di una persona che ama convivere con la vita e le sue sofferenze.
Nient’altro. È
semplicemente questa la vera ragione. Inutile perdere tempo in risposte
palesi.”
“La verità è
che non ne esiste gente felice in questo mondo. Nel mondo si distingue
la gente
capace di resistere, e la gente capace di arrendersi.” Amber
si stiracchiò le
braccia, con fare rilassato.
“Il mondo fa
schifo.” fu il secco commento di House ad entrambi, voltando
lo sguardo nel
tentativo di ignorarli. Nel tentativo di non starli a sentire.
Ma era
difficile del resto.
E difficile
fu ignorare la domanda che, poco dopo, Kutner gli fece:
“ …e tu in
cosa sei capace, House?” questa volta il giovane medico era
serio,
rispecchiando perfettamente lo stato d’animo che si poteva
leggere sul volto
del diagnosta: Cupo, duro e privo di emozioni.
“Stai forse
dicendo che dovrei suicidarmi anche io? Lasciatelo dire, non hai
proprio
fantasia.” House si sforzò di fargli un sorriso
sarcastico, ma in realtà sapeva
che non era Kutner a dire questo.
“Non te lo
sto venendo a dire io. Ricordi? ‘Io sono te tu sei
me’?”
Amber si
avvicinò al suo orecchio, iniziando a giocherellare con le
sue ciocche dorate
“Forse è questo il motivo per cui sei
così ossessionato dalla morte di Kutner.
Forse vuoi semplicemente scoprire cosa c’è al di
là… qual’è il suo vero
significato.
– gli sussurrò. Rifletté un attimo,
incerta, poi riprese -Nessuno di tutti e
tre è felice. Ci hanno messo qui dentro, rinchiusi. A
nessuno importerebbe del
resto. Perché non provare? Sarà
interessante.”
Kutner
sorrise ad Amber, squotendo debolmente il capo. Poi si rivolse ad
House: “Ma
forse c’è qualcosa che va oltre tutto questo.
Qualcosa che ti lega a tutto
questo. Non è così?”
House questa
volta rise di gusto, mettendosi una mano sugli occhi e portando il capo
all’indietro, permettendo al sole di illuminargli le gote
“Certo che sono
ridotto proprio male.” sussurrò.
“Così
sembrerebbe.”
Una voce
nuova ed improvvisa ruppe la quiete che per pochi istanti si venne a
creare.
House riaprì
gli occhi, focalizzando lo sguardo sulla nuova figura.
“Noi non ci conosciamo,
suppongo.” esclamò dubbioso, iniziandola a
squadrare.
Era una
bella ragazza, probabilmente sulla trentina. Portava i capelli, lisci e
scuri,
alla lunghezza delle spalle mentre il vestito, elegante ma non troppo,
le
risaltava le forme ed i fianchi.
Per qualche
istante House credette che fosse un’allucinazione
anch’ella.
Ormai era
ordinaria amministrazione vedere cose impossibili. Allucinazioni, gente
morta
che gli parla, ragazze da urlo che si intromettono nei suoi discorsi di
suicidio…
“Mi chiamo
Jenny Dawson – le sorrise la ragazza, porgendogli la mano in
segno di saluto –
Tu invece sei Gregory House, giusto?”
House fissò la
sua mano per qualche istante. No, decisamente non era
un’allucinazione.
“Se sei
venuta qui per rapirmi e portarmi via con te... si, sono Gregory House.
Altrimenti, mi dispiace, hai sbagliato persona.”
Lei gli
sorrise divertita, sedendosi accanto a lui sulla panchina
“Immagino ti abbiano
già parlato di me.”
Lui si pose
un dito sul mento, fingendo una finta riflessione
“Già. Il medico del secondo
piano dice che di notte fai scintille” bisbigliò,
alzando il sopracciglio
destro con espressione maliziosa.
“Sono la tua
psicologa.” le rispose lei, ignorando la battuta.
“Sul serio?
Allora mi è finita bene dopo tutto…”
“Cercando di
far finta di non sentire ogni tua allusione a fatti e/o persone che
abbiano in
comune riferimenti sessuali… - Iniziò lei con un
sorriso – Durante questo mese
dovremmo lavorare un po’ su di te. Chissà che non
riusciamo a risolvere qualche
problema.”
“E cosa ti
fa credere che io parlerò con te?”
“Parli con i
morti. Cos’è, mi reputi inferiore a
loro?”
“Questa è
cattiva.” commentò Amber allibita.
Gregory
House la fissò ancora un attimo, indeciso sul da farsi. Poi
aggiunse: “Come te
la cavi con le terapie di coppia?”
“Ti dirò…-
Jenny gli si avvicinò a pochi centimetri dal volto ma, anche
allora, House non
mosse un muscolo, tanta era la sua curiosità di studiare
quel nuovo personaggio
– Non sono molto specializzata in quel campo.”
Il diagnosta
rimase imbambolato per un attimo, poi sussurrò stordito:
“Peccato. Hai delle gran
belle doti...”
Da quanto
tempo non faceva un po’ il cascamorto con le donne?
La
verità?...troppo.
Ah, quanto
amava perdere tempo in quelle frivolezze!!
“E tu
invece? – riprese Jenny, dimostrando una forte sicurezza di
sé e delle sue
intenzioni – Come te la cavi con le terapie di
coppia?”
La domanda
aveva lo stesso tono malizioso con il quale le era stata posta da House
qualche
istante prima ma, diversamente, il significato era un altro.
E questo House
lo capì subito: si mise in piedi, serrando il bastone sotto
il palmo della mano
e ponendosi finalmente da un punto di vista più alto.
“Non
prendertela a male, Jenny, ma a prescindere… che siano
vecchi decrepiti o donne
da urlo con tanto di “prendimi-sono-tua” scritto in
fronte, io odio gli
psicologi.” esclamò con un tono improvvisamente
freddo e privo di scrupoli,
prima di voltarsi ed allontanarsi da lei e da quella maledettamente
scomoda
panchina.
Si sarebbe
aspettato un po’ più d’insistenza da
parte della ragazza, ma, non appena si
voltò a sbirciare cosa in realtà ella stesse
facendo, la vide cogliere un fiore
ed iniziare ad annusarlo come una bambina che sente per la prima volta
un
profumo. Come se, in realtà, era contenta per
qualcosa… anche se la domanda che
nacque in lui in quell’istante fu: Di
cosa?
Scosse il
capo.
“Pff!...
donne.” bisbigliò, questa volta ignorandola del
tutto.
Ma ciò che
egli non vide fu il sorriso che lei fece non appena House
entrò in clinica.
E ciò che lui
ancora non sapeva era che quello sguardo deciso e sicuro che
seguì quel gesto avrebbe
fatto, ben presto,
cadere i muri più
pesanti.
Gregory
House
entrò in clinica, seccato.
Non c’era
più alcun divertimento a prendere in giro le donne se poi
non ti inseguivano
per vendicarsi, se poi non ti venivano dietro urlando il tuo nome ed
iniziando
a discutere con te per chissà quale strana ragione.
La verità
era che fin troppo gli mancava la figura di Cuddy.
I giochini,
i battibecchi, le prese in giro… gli
mancava tutto di lei.
“Smettila di
pensarci.- tuonò Amber alle sue spalle – Lei non
ti ha mai amato. Mettitelo in
testa!”
A quelle
parole House si fermò improvvisamente, stringendo
l’impugnatura del suo bastone
fino a far diventare bianche le nocche per lo sforzo.
Kutner era
sparito. Adesso c’era solo Amber lì con lui.
“Dov’era lei
quando tu stavi male? Dov’era lei quando avevi bisogno di una
mano?... nelle
tue fantasie?! È per questo che la adori tanto?
Perché è brava nei suoi ruoli,
a recitare i tuoi siparietti? –le prole della donna gli
rimbombarono in testa.
Erano dure, fredde. Ma in realtà.. era proprio il suo
subconscio che gli stava
urlando tutto quello. E lui lo sapeva. Ma più di qualsiasi
altra cosa, per
quanto strano potesse risultare, in quei momenti, desiderava solamente
non
sentire quel lato razionale di se stesso. – E adesso che tu
avresti realmente bisogno di lei..
dov’è?”
House chinò
il capo, lasciando leggermente la presa dal bastone, favorendo
nuovamente la
circolazione del sangue.
“Tu non
esisti. Sei solo il frutto della mia fantasia.”
Amber si
mise davanti a lui, lo sguardo severo “Ma diversamente da
qualsiasi altra
fantasia… io ti dico ciò che è giusto
per il tuo bene.”
“Se l’avessi
piantata di ascoltare me stesso per il ‘mio
bene’… a quest’ora non sarei
qui.” esclamò
il diagnosta, oltrepassandola e tirando dritto per
l’ascensore.
House
finalmente aveva capito cosa legava lui con tutti i malati che stavano
in
quella clinica: le scelte.
Per tutta la
sua vita aveva sempre fatto scelte sbagliate… scelte che
l’avevano portato a
soffrire. Per cosa poi? Per il semplice piacere di farlo.
Perché
Wilson aveva sempre avuto ragione… lui amava la sofferenza.
Ma senza rendersene
conto, si era accoltellato con le sue stesse mani ed ora la ferita era
troppo
profonda per rimarginarsi.
“Le 12:00
am… Gregory House sale in camera.”
esclamò al medico posto a sorvegliarlo da
quando era uscito fuori in giardino.
“Quella si
che è una donna.” gli sorrise l’uomo,
inconsapevole della discussione che House
aveva appena avuto con ‘se stesso’, concedendosi
uno sguardo alla psicologa
fuori in giardino mentre accompagnava House all’ascensore.
House
sorrise amaramente “Si vede che non frequenti molte
donne.”
“Più di te
sicuramente.” fu l’acida risposta a quella
frecciatina.
House lo
guardò torvo “Ma come sei simpatico!”
Il medico
gli sorrise, dandogli una pacca sulla spalla “Coraggio
House… magari riuscirà
ad aiutarti. Chissà.”
“Grazie
Bill.” esclamò il diagnosta con menefreghismo,
uscendo dall’ascensore che si
era appena aperto di fronte a loro e dirigendosi verso la sua stanza.
“Mi chiamo
Jack!” urlò l’uomo con rassegnazione.
“D’accordo Bob!”
Il medico
sorrise. Del resto, per quanto Gregory House fosse odioso, non gli
dispiaceva
poi così tanto. Era un tipo interessante dopotutto.
“Fammi un
colpo quando ti va di uscire di nuovo” concluse per poi
premere il pulsante dell’ascensore
e svanendo dietro di questo.
“Come se
fosse facile…” brontolo House, aprendo la porta
della propria camera.
“Ci hanno
accollato una psicologa come ultima carta. –
brontolò Amber, incrociando le
braccia sul petto e seguendo il diagnosta dentro la stanza –
Questo sta a
significare che ormai si stanno arrendendo anche loro.” fece
per entrare nella
camera ma subito si bloccò, notando che House aveva fatto lo
stesso. Si
voltò a guardare verso la direzione che il
suo sguardo sembrava volesse indicarle.
Una donna
era davanti a loro.
Era posta
davanti la finestra della camera con una borsa alla spalla sinistra.
Portava
una collanina argentata che, alla luce della finestra, risaltava come
fosse un
raggio di sole.
Vestiva
elegante, come sempre del resto… mentre i capelli, scuri,
cadevano delicati
sulle spalle.
Amber
spalancò gli occhi. Quasi non ci credette.
Quel volto…
quello sguardo.
Era…semplicemente
lei.
“Ciao
Cuddy.” e le parole che House riuscì finalmente a
pronunciare sembrarono destare
entrambi da quella sorta di ipnosi nella quale erano caduti.
Cuddy sorrise,
in un espressione di gioia mista a nervosismo.
“Ciao
House.”
To
be continued…
|
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Capitolo 4 *** #3 Capitolo ***
Grazie a tutti per
il sostegno!
Spero che anche questo chap sia di vostro gradimento!
Enjoy it!
Miky91
Il
silenzio
li avvolse.
Il rumore
della macchine, il chiacchiericcio della gente fuori in giardino, i
passi dei
medici nel corridoio… tutto improvvisamente
sembrò svanire.
House era
perso nello sguardo di Cuddy, come lo sguardo di Cuddy era perso nel
suo.
Cosa dire in
questi momenti? Cosa dire quando finalmente ti compare davanti agli
occhi ciò
che è stato oggetto dei tuoi pensieri per tre lunghi ed
interminabili mesi?
“Un po’
tardi per venire a vedere come sto, non credi?” esclama
improvvisamente House,
rimanendo con lo sguardo fisso su di lei. No, decisamente... non era
questo ciò
che avrebbe dovuto dirle. Ma gli fu inevitabile.
E fu proprio
Cuddy che, questa volta, non riuscì a mantenere lo sguardo,
diversamente da ciò
che invece si era imposta di fare “Sono stata impegnata con
dei convegni fuori
città.” mentì, serrando le mani sui
manici della borsa che scendeva giù dalla
spalla.
House annuì
vago “Non preoccuparti, puoi dirlo che non avevi la voglia di
venire.” esclamò,
coscio della menzogna da parte della dottoressa.
“È la
verità.- Insistette lei – Sono stata occupata con
il lavoro e non ho avuto modo
di venirti a trovare. Wilson continuava a dirmi che stavi
bene… almeno, fino a
l’altro giorno.”
“Immagino ti
abbia detto che sto impazzendo sempre di più. –
House trovò finalmente il
coraggio di avvicinarsi a lei – è la
verità. E tu non hai nessun obbligo di
venire qui. Sei solo il mio ex capo.”
“Sai
benissimo che non è così. - Cuddy alzò
lo sguardo, tentando di ristabilire un
contatto visivo con i suoi occhi, ora fin troppo vicini, fin troppo
profondi e
pieni di sofferenza – Volevo vederti.”
Vi fu un
attimo di un breve ma allo stesso tempo infinito silenzio.
“Se
realmente voleva vederti... cosa l’ha fermata? Cosa
è cambiato? - sussurrò
Amber, osservando la scena alle spalle di House – tre mesi
sono tre mesi. C’è
qualcosa che non torna.”
House la
ignorò, allungando la mano verso Cuddy come se fosse stato
in attesa di
ricevere qualcosa.
“Coraggio, dammela.”
esclamò seriamente.
Cuddy lo
guardò interrogativa “Cosa…”
“Non
crederei che tu venissi a trovarmi per nessuna ragione al mondo se non
avessi
una scusa per farlo.”
La
dottoressa arrossì improvvisamente, capendo a cosa House si
riferisse.
Era
imbarazzante del resto dover ammettere che aveva ragione.
Aprì la
borsa, vi rovistò un attimo, e ne estrasse fuori una
cartella clinica che porse
immediatamente al diagnosta.
House aveva
ragione: quella cartella era la sua scusa per venirlo a trovare. Il suo
biglietto… il suo lascia passare per vederlo e non cadere in
imbarazzanti
silenzi o cercare di riprendere discorsi che probabilmente era meglio
lasciare
dove stavano.
Era il suo
modo per cercare di far tornare il loro rapporto alla
normalità.
“La tua
equipe era occupata con un altro caso. – gli
spiegò –… tu sei l’unico che
può
aiutarla.”
House le
sorrise di rimando, ringraziando il cielo per aver con se una donna
come lei.
Strinse la
cartella a se, anche se non la degnò di un minimo sguardo,
e, con un sorriso
intrigato, esclamò: “Ho bisogno di qualcuno che mi
aiuti a fare la
differenziale.”
“Sono qui anche
per questo.” gi
rispose Cuddy dopo un
attimo di esitazione.
Si… ben
presto tutto sarebbe tornato alla normalità.
CHAP
3
La coscienza regna, ma non governa.
(Paul Valèry)
House
aprì
la finestra a vetri, svelando una balconata al di là di
questa.
Fece un semi
inchino, indicando in modo ironico la direzione a Cuddy.
Lei gli
sorrise e, con fare disinvolto, uscì sul balcone con lui al
suo seguito.
La
dottoressa poggiò le braccia sul parapetto mentre House
iniziava ad aprire la
cartella clinica per vedere di cosa avrebbe dovuto iniziare a discutere
con
Lisa Cuddy. Era strano in fin dei conti… non aveva mai fatto
una differenziale
con lei… ed ora, che si ritrovava a miglia di distanza dal
luogo in cui non
l’avrebbe mai fatto, la stava facendo.
Lei però lo
precedette, troppo impaziente di attendere il suo studio “Una
donna di 42 anni
è stata ricoverata qualche giorno fa in rianimazione.
– iniziò, attirando
subito lo sguardo di House - con diagnosi di sospetta intossicazione da
atropina.”
“Se l’asma
non è una malattia mortale, dovrebbe partire direttamente
dai sintomi
interessati…” brontola Amber, dando una sbirciata
alla cartella che House stringeva
tra le mani.
Lui la ignorò.
Di nuovo.
Se c’era una
cosa che avrebbe voluto, quella era non dare ascolto ad Amber in
presenza di
Cuddy.
“Continua.” sussurrò
quindi alla dottoressa in modo pacato.
Cuddy gli
fece un debole sorriso di circostanza, notando quanto
quell’atteggiamento
risultasse strano per uno che fino a pochi mesi prima fuggiva
all’accenno di
una ‘diagnosi fiacca’.
“Ecco… la
ragazza sembrava stare piuttosto bene al momento del ricovero.
Però, quando
l’ho visitata, ho notato la presenza di contratture spastiche
ai muscoli della
mandibola e gonfiori agli arti inferiori.”
Amber
sbuffò, tamburellando le nocche contro la parete alle sue
spalle “2+2 fa ancora
4 al mio paese.”
House
sorrise, abbassando il capo per evitare che lei lo notasse.
Inevitabilmente,
lei lo notò.
E, sempre
inevitabilmente, non riuscì anch’ella a
trattenersi dal fare un sorriso
divertito. Il sorriso di House le aveva fatto capire che lui aveva
già capito.
Il diagnosta
tornò serio, passandosi un dito sulla fronte ed iniziando a
riflettere, poi,
dopo qualche istante, esclamò:
“Hai un
pennarello?”
“No…”
“Un
rossetto?” gli tese la mano, nuovamente.
Cuddy annuì
confusa, frugando nella borsa per poi porgergli un rossetto rosso-cupo.
“Che vuoi
farci?”
House si
bloccò per un istante.
Lo sguardo
fisso sull’oggetto che stava sul palmo della sua mano.
L’ultima
volta che aveva tenuto il ‘rossetto
di
Cuddy’ in mano… era sull’orlo
della pazia. Cosa sarebbe accaduto ora?...cosa
stava accadendo ora?
Improvvisamente
pensieri confusi iniziarono ad affollargli la mente: stava realmente
parlando
con Cuddy? E Wilson? Aveva realmente litigato con Wilson?!
Perché… perché,
improvvisamente, dopo mesi di assoluta solitudine, di speranza nei suoi
confronti, lei appariva nella sua vita ed iniziava a comportarsi in
modo così
naturale con lui?!? Era… solo un modo per non parlare
realmente?... o era
semplicemente ciò che lui avrebbe voluto fare o dire in un
ipotetico incontro
con Cuddy?
“House?”
La sua voce
lo destò.
“House… va
tutto bene? – Cuddy gli mise una mano sulla spalla, cercando
di capire se la
situazione fosse sostenibile o meno mentre, adesso, sentiva forte in se
la
preoccupazione di perderlo di nuovo. Come era stato l’ultima
volta che l’aveva
visto. –
Vuoi che chiamo un medico?”
Gregory
House alzò lo sguardo verso di lei, stringendo il rossetto
in un pugno.
No.
Lei era Lisa
Cuddy… ed era lì con lui.
E questo era
quanto.
“Non
preoccuparti. – rispose in modo pacato – sono solo
un po’ stanco.”
“Se vuoi ti
lascio riposare.” Cuddy era visibilmente preoccupata adesso,
come se, anche per
lei, si fossero fatti vividi dei ricordi di qualche mese prima; Come
se, in
qualche modo, l’espressione preoccupata e confusa di House le
avesse fatto
intendere che qualcosa non andava.
“No.”
Il diagnosta
entrò in camera mentre, dal forte rumore dei tacchi di lei,
sentiva la sua
presenza dietro di se.
Si diresse
verso una parete ed iniziò a scrivere i primi sintomi con il
rossetto.
“Hei!- tuonò
Cuddy improvvisamente, sbucando alle sue spalle e prendendogli il
rossetto
dalle mani – Che diavolo ti salta in mente!? Vuoi
consumarmelo tutto nel
tentativo di farti espellere dalla clinica?!?”
“Hm… mi hai
colto in fragrante, lo ammetto.”
Lei sorrise
divertita, adesso intenta nell’evitare di pensare
all’espressione che pochi
attimi prima aveva coperto il volto di House “Non te lo
permetterò! Mi è
costato un occhio della testa!”
House sbuffò
“Cuddy... ho solo quel rossetto per scrivere e farti una
differenziale.”
“Scommetto
che hai anche solo quel muro per farmi la differenziale.” lo
fulminò lei,
mettendo le mani sui fianchi.
“No... il
muro è una semplice vendetta nei confronti di
quell’inserviente che tutte le
volte mi lava il bagno come se fosse una cuccia per cani.”
Cuddy annuì
sconvolta, dando uno sguardo alla porta del bagno e capendo che,
qualsiasi cosa
fosse successa, sarebbe stato meglio non metterci piede.
“Coraggio
spruzzetto di sole…” la incitò House,
pretendendo il rossetto.
Cuddy lo
guardò per un istante, poi sospirò: “E
va bene… ma pretendo che me ne compri
uno nuovo!”
House anni “Se
mai riuscirò ad uscire da quest’inferno, lo
farò.” esclamò,
voltandosi a scrivere le parole che
avrebbero dovuto indirizzarlo alla diagnosi di quella
‘così complicata
malattia’.
“Certo che
uscirai di qui! – Lisa si sedette sul letto, in modo da avere
una panoramica di
ciò che il diagnosta stava scrivendo. – Uscirai..
e quando tornerai a lavoro,
ti faremo una festa di benvenuto!... che ti piaccia o no.”
Amber
sorrise, avvicinandosi ad House: “A me non sembra una cattiva
idea.
L’importante è che ci si organizzi prima con
Wilson per portare la roba da
bere!”
“è meglio di
no… - House si voltò a guardare Cuddy, rimettendo
il tappo al rossetto – Lo
dico per il tuo bene.” si giustificò ironico dopo
un breve istante.
Cuddy gli
lanciò un’occhiata canzonatoria
“Ho
smesso di bere alle feste dove sei protagonista
indiscusso…”
“Ah, io non
ci metterei la mano sul fuoco. – esclamò lui di
tutto punto, inarcando il
sopracciglio destro in un’espressione di ovvietà
– L’ultima volta è stato così
traumatizzante che non ho toccato io stesso alcol per un
mese.”
Cuddy
scoppiò in una risata “Spero tu stia scherzando!
Ero più sobria di te!”
“Bah..
dipende dai punti di vista.”
“Ok, vorrà
dire che ‘per il mio bene’ non ci sarà
alcol.” esclamò la dottoressa con un
sorrisino.
Amber la
fulminò con lo sguardo, lanciando poi
un’occhiataccia ad House “Hei.. qui si
sta oltrepassando il limite. Fa qualcosa!”
“…ed il tuo
di bene invece?”
Quell’esclamazione
da parte della dottoressa lo colse di sorpresa.
Era come se
Cuddy, improvvisamente, stesse tornando alla realtà di quel
momento, al fatto
che comunque.. lui era chiuso in quella clinica.
“Eccola…” la
dottoressa dai capelli biondi si accasciò a terra, stanca di
continuare a
sopportare quel dialogo.
“Non
preoccuparti Cuddy... sopravviverò ad una sera senza
party-time.” esclamò House,
facendole un occhiolino d’intesa.
Lei si mise
nuovamente in piedi e,
diversamente da
House, il suo sguardo traspariva una forte serietà mista a
preoccupazione.
“House…Non
devi pensare di non farcela… non devi arrenderti.
Perché se lo fai…”
“Ok!!
Allora, questa diagnosi?!?” le urlò lui, cercando
di far cadere il discorso e,
riprendendo a guardare la cartella continuò: “Che
vuol dire debolezza muscolare
progressiva? Non dirmi che l’hai testato
personalmente… sai, la notte
preferirei evitare di fare sogni
porno
su te e le tue pazienti.”
Cuddy gli
strappò la cartella dalla mano, infastidita dal suo
atteggiamento “adesso ha
metà corpo paralizzato!” puntualizzò.
“Ok, ok..
mamma mia come siamo permalose…” House riprese a
scrivere sulla parete,
sentendo però lo sguardo di Cuddy fisso sulle sue spalle.
Aveva
accettato di recitare quella scenetta per stare con lei… non
per parlare dei
suoi malesseri con lei.
Perché
doveva insistere nel tentare di aiutarlo?!...perché tutti
dovevano farlo?!
Al momento
l’unico che poteva aiutarlo… era semplicemente se
stesso.
Anche se,
effettivamente, non è che ne avesse poi tanta fiducia.
Si voltò a
guardare la parete piena di scritte, poi rivolse nuovamente lo sguardo
a Cuddy
che adesso sembrava non avere intenzione di proferir parola.
“La paralisi
è avvenuta improvvisamente… o no?!” le
chiese alla fine.
“No… ha
avuto rigidità muscolare prima e gli esami non hanno
mostrato nessun…”
“Nessun
pipistrello attorno ai pesci… - Cuddy lo guardò
confusa, così House si mise una
mano sulla fronte inscenando teatralmente un’improvvisa
illuminazione – Ops!
Scusa.. quelli sono i gabbiani giusto? Pf! I pipistrelli non vanno mica
dietro
i pesci…”
Cuddy scosse
il capo, infastidita.
Si stava
prendendo gioco di lei… e lei glielo stava permettendo.
Lo vide
voltarsi nuovamente verso la parete, a scrivere chissà quale
altro indizio nato
da una stupida metafora che aveva il solo scopo di umiliarla.
“Sei
arrabbiato con me. – sussurrò incerta
dopo un breve istante, facendo cadere la concentrazione che finalmente
sembrava
essersi focalizzata sul caso clinico
–Perché?”
Vide la mano
di House bloccarsi a mezz’aria, sentì il suo
respiro farsi pesante.
Eppure continuò
a darle le spalle.
Cuddy scosse
il capo al silenzio che seguì la sua domanda.
Attese
qualche attimo, incerta se continuare o meno. House
però… non sembrava avesse
voglia di parlarle.
Non sembrava
volesse avere alcun tipo di dialogo con lei che andasse oltre i vecchi
ricordi
e i battibecchi.
Sospirò,
prendendo in mano la propria borsa dal letto e mettendosela sulla
spalla.
Sentì
l’improvviso bisogno di sparire, come se avesse detto
chissà quale tremenda
cosa.
“Sono tre
mesi che sto chiuso qui dentro. – la voce di Gregory House,
fredda e rigida, la
fermò dall’uscire da quella stanza – Non
una visita, non una telefonata. Poi,
improvvisamente, vieni e ti comporti come se ci fossimo visti giusto
ieri.”
“House io…”
“Non dirmi
che sei stata impegnata con il lavoro perché non la
bevo.”
La
dottoressa rimase interdetta.
Lo sguardo
dell’uomo che aveva davanti era penetrante, come se stesse
cercando di leggerla
dentro. E sapeva che non sarebbe riuscita ad ingannarlo.
“Ero
confusa” Lisa abbassò il capo.
“Perché sei
venuta allora?”
“House...
volevo vederti. Cos’è, non posso preoccuparmi per
te?”
“Non dopo
tre mesi.”
Cuddy si
passò una mano sulla fronte. La situazione stava
degenerando… a quanto pareva,
il caso clinico sembrava non destare più
l’interesse del diagnosta.
“Cosa vuoi
che ti dica?” era confusa, semplicemente confusa.
“Perché?
Perché mi hai evitato tutto questo tempo?”
House le si
avvicinò, zoppicante ma deciso.
“Perché… -
Cuddy fece una pausa, guardandolo negli occhi - …Non lo
so.”
Lui la
guardò sorpreso “Non ha senso.”
“Non ha
senso nemmeno per me.” Cuddy abbassò nuovamente lo
sguardo, cercando di non
aggiungere altro.
“Non si può
non sapere il motivo per il quale si fa o non si fa una cosa.”
“Non si può
sapere il motivo di un gesto se questo fluttua senza una forma nella
tua
mente.” disse Cuddy con ovvietà, conscia di non
aver lottato a sufficienza per
convincere se stessa ad andare a trovarlo in precedenza.
House rimase
immobile davanti a lei. Lo sguardo, fisso nei suoi occhi.
Era in un
ospedale psichiatrico… l’aveva attesa tutto quel
tempo… e adesso? Le stava
dicendo che non sapeva il motivo per cui lo stava venendo a trovare? Le
cose
erano due: o continuava a mentirgli… o diceva la
verità.
E se diceva
la verità…
“Reputi i
tuoi sentimenti per me... senza una forma?”
“Che ne sai
tu dei miei sentimenti?!” Cuddy sembrò quasi
offesa da quell’esclamazione.
“Cuddy… -
House pronunciò il suo nome con dolce convinzione mentre,
con freddezza,
concluse – Se veramente non provi dei sentimenti per
me… prendi le tue cose e
va via. Perché non hai motivo di stare qui.”
La
dottoressa vide House porle il suo rossetto, la cartella clinica lo
seguì a
ruota.
Non ebbe il
coraggio di pronunciare una sola parola mentre, decisa e seccata,
andò per
aprire la porta ed uscire da quella stanza.
Mise un
piede nel corridoio, dietro di se poteva percepire la figura di House
immobile
nell’osservare i suoi movimenti.
Che diavolo
le stava saltando in mente?
Cosa stava
facendo?...cosa House stava facendo?
Le stava
dicendo: O ammetti di amarmi o vai via dalla mia vita.
E lei stava
andando via.
Perché però?
Per
ammettere a se stessa di non amarlo? Per ammettere a se stessa di non
aver
bisogno di lui… ?
No.
Non era
questo ciò che desiderava.
Si fermò
sull’uscio della porta, continuando a dargli le spalle.
Sospirò.
Lei lo
amava. Era inutile negarlo.
Si voltò
verso di lui, le guance rosate, gli occhi lucidi.
Deviò un attimo
il suo sguardo, come se stesse cercando di prendere la decisione
più importante
della sua vita.
Uscire o non
uscire da una stanza del reparto psichiatria del Myfield?
Si, realtà,
era la decisione più importante della sua vita.
Perché adesso
ciò che contava era decidere se stare o meno con Gregory
House.
Chiuse
la porta.
Al di là di
questa si sentivano ancora i passi di alcuni medici che affollavano la
clinica.
Guardò House
negli occhi.
Aveva preso
la sua decisione.
E adesso,
anche se tremendamente a disagio, era pronta ad affrontare con lui un
discorso
che, per la prima volta nella sua vita, non sarebbe stato incentrato su
dei
casi clinici… ma su loro stessi.
Perché ormai era chiusa in un stanza con
lui.*
To be continued…
*riferimento
voluto ad una puntata della 3 stagione. “Giorno nuovo, stanza
nuova”.
… e chi
vuole intendere, intenda! ;)
|
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Capitolo 5 *** #4 Capitolo ***
Salve
a tutti!!!!
Grazie
ancora per i meravigliosi commenti che, tralaltro, continuano a
spingermi e a
sostenermi nella scrittura di questa ff.
@
ChrisP:
Grazie per la tua recensione! mi ha fatto piacere leggerla... non avevo
mai visto la storia sotto quell'aspetto. Grazie!^^
@IsAnastaciaHuddy92:
Eeh, si. Dopo il finale della season 5 è dura pensare
all'Huddy e/o ad House senza piangere. Non preoccuparti
però, il bel finale ve lo regalo io... promesso! ;)
Ed
ovviamente grazie anche al sostegno di LadyT e Lady cat! ^^
Dunque...posso
dire di aver finalmente dato sfogo alla mia vena Huddy in questi ultimi
capitoli..aaah…mi
sento realizzata! XD
Ora,
con la speranza che anche questo chap possa piacervi, ve lo lascio con
qualche
piccola ed indispensabile premessa:
1-
Ho messo il rating PG13 come limite massimo… ma sinceramente
non so fin dove la
mia mente contorta potrà spingersi. Potrei benissimo
mantenermi al solito PG.
Ci tenevo a precisarlo, dato che non l’avevo fatto in
precedenza.
2- qualsiasi cosa
accada… So quel che faccio!
;)
Bene.
Dopo
di ciò, ve lo lascio.
Fatemi
sapere, mi raccomando!! ^^
Enjoy
it!
CHAP
4
Non siamo mai così privi di
difese, come nel momento in cui
amiamo.
(Sigmund
Freud)
Sentì il rumore sordo di una
porta che si chiudeva.
Era tutto finito.
Forse lei pensava che lui la
stesse osservando andar via… non era così.
Si stava odiando, odiava se
stesso e quel suo carattere dannatamente egocentrico e superbo.
La stava facendo scappare e, ciò
che era peggio, non la stava fermando.
Sentiva lo sguardo di Amber
puntato su di lui, eppure, non gli importava.
Teneva gli occhi chiusi, lo
sguardo basso.
Ormai Cuddy non sarebbe più
tornata.
“House…”
Il sentire la sua voce fu per
lui come un fulmine a ciel sereno.
Alzò lo sguardo.
Era lì, davanti a lui.
Era rimasta.
Lei era imbarazzata, sulle
guance un rossore che non le era mai appartenuto.
Lui stava
immobile a contemplarla… come se fosse stata la cosa
più bella del mondo.
Tutto
avrebbe scommesso... ma non che lei fosse rimasta per mettere in chiaro
i loro
sentimenti. Perché era questo ciò che adesso era
in ballo.
“Sei
rimasta.” House disse quelle due parole come se quasi non ci
stesse credendo.
Cuddy si
inumidì le labbra, imbarazzata “Non potevo
andarmene.”
House le
sorrise. Un sorriso puro, uno che raramente Lisa Cuddy aveva visto sul
suo
volto se non in compagnia di Wilson.
Lo vide
muoversi verso di lei, lentamente… ma non certo a causa
della gamba.
Fu a pochi
centimetri da lei nel giro di pochi istanti, gli occhi fissi nei suoi.
“Pensavo non
saresti mai riuscito a farmi arrivare fino a questo punto.”
ammise Cuddy, senza
però abbandonare il suo sguardo.
“Pensavo non
saresti mai riuscita a trovare il coraggio di affrontarmi.”
“Non sei
mica un mostro...”
“Sono
peggio.” adesso House aveva iniziato ad accarezzarle i
capelli, delicatamente,
come se avesse il timore che lei fuggisse via, anche se sapeva
benissimo che
non l’avrebbe mai fatto.
Quante cose
avrebbe voluto dirle…. ed era certo che, in
quell’istante, anche lei ne aveva
tante. Eppure, contrariamente a ciò che avrebbero dovuto
dire o fare, nessuno
dei due proferì parola… come fossero rimasti
bloccati in uno stato di trans.
Improvvisamente
gli venne in mente il bacio che tanto tempo addietro si erano scambiati
con
foga, con passione, con timore.
Riusciva
benissimo a ricordare il sapore delle sue labbra, il sapore di quel
momento.
Adesso aveva
l’opportunità di darle quel bacio. Quel bacio che
tre mesi prima si era
materializzato nella sua mente.
Un bacio
dolce.
Un bacio
delicato.
Gregory
House chinò il capo mentre Lisa Cuddy, socchiudendo gli
occhi, attendeva
impaziente di risentire sulle sue labbra il suo sapore.
“La cartella
diceva che la paralisi era scesa dal capo fino al busto, continuando
con gli
spasmi muscolari.- la voce di Amber lo frenò dal baciarla.
Vide la giovane donna
affiancare Cuddy, ponendosi davanti ai suoi occhi. – House!
Si sta sbagliando!
Devi risolvere il caso… altrimenti…”
House deviò
lo sguardo di quell’allucinazione.
Perché
dannazione!?
Perché il
suo cervello continuava a spingerlo lontano da Cuddy?...
perché la parte
razionale, quella geniale, del suo carattere.. non voleva che egli
avesse
quell’attimo che tanto aveva agognato?!
“House... va
tutto bene?” chiese Cuddy, notando la sua distrazione. Poi,
delicatamente, poggiò
la propria mano su quella del diagnosta che adesso si trovava ad
accarezzare il
suo volto.
House deviò
il suo sguardo, facendo scivolar via la propria mano da quel tocco.
“Qual è
stata la tua diagnosi?” le domandò poco dopo,
quasi costringendosi a farlo.
Del resto…
lui era Gregory House, colui che non trovava pace se qualcosa non gli
tornava.
Cuddy lo
fissò esterrefatta ma non ci volle molto per capire che
adesso per House, quel
caso clinico, aveva la priorità su tutto.
Persino su
di lei.
Ma le andava
bene anche così, era quello l’uomo di cui era
innamorata del resto.
“Encefalite.
– gli rispose quindi, squotendo il capo in un atto di resa
– ma quando la
paralisi si è estesa, ho pensato alla Sindrome di
Isacco.”
“Passami la
cartella.”
Che diamine
stava combinando!? Era solo con Lisa Cuddy, lei aveva ammesso di
amarlo, erano
soli, tranquilli, indisturbati. Eppure lui... doveva risolvere il
caso!?!
Prese la
cartella in mano, detestandosi come mai aveva fatto prima di allora.
“Non mi
avevi detto della posizione a Trisma.” rifletté
dopo una breve lettura.
“Pensavo
fosse determinata dagli spasmi. – rispose la dottoressa
– non è clinicamente
rilevante.”
House le
voltò le spalle, avvicinandosi alla parete e tornando a
studiare i sintomi che
pochi attimi prima vi aveva scritto sopra.
“Quella
tizia sta morendo.”
Cuddy lo
raggiunse in pochi istanti, preoccupata da quell’esclamazione
“Che vuoi dire?
Di che si tratta?”
“Dalle
analisi del sangue e dall’ipocalcemia, anche se di poco
inferiore alla norma,
direi che si tratta di tetano.- le rispose – e se non chiami
immediatamente
l’ospedale… non so quanto tempo ancora
rimarrà a fare da burattino ai nostri
giochini.”
La
dottoressa annuì amareggiata, prendendo il cellulare dalla
borsa e digitando il
numero dell’ospedale nel giro di pochi secondi.
House alzò lo
sguardo verso Amber, ora intenta a giocherellare con una calcolatrice.
‘Ho fatto ciò che
volevi.. ora lasciami in
pace!’ pensò furioso, lanciandole uno
sguardo minaccioso.
Amber non lo
degnò nemmeno, divertita com’era nel digitare
numeri sulla calcolatrice che stringeva
in mano. Poi l’alzò, in modo che il diagnosta
potesse vedere ciò che aveva
scritto: 2+2=3.
House la
fissò confuso.
Cosa stava
cercando di dirgli?!
“Pronto?
Sono la dottoressa Lisa Cuddy…- di sottofondo si sentiva la
dottoressa chiamare
il Princeton Plaisboro Teaching Hospital - Dovete controllare la
paziente nella
stanza 223 del secondo piano. Controllate se ha ferite o
cicatrici… e fatele i
dovuti test per il tetano. Se le analisi sono positive, iniziate subito
la
cura.”
Amber guardò
Cuddy, ora intenta a fare la sua telefonata “Come si chiamava
quel tizio?
Quello che aveva scritto quel libro noioso! –chiese poi,
rivolgendosi ad House
– Friz?.. Frud?... Fred?”
House fu
colto improvvisamente da una fitta alla testa, le orecchie iniziarono a
fischiargli.
“Al
diavolo come si chiamava. Ascolta un po’
cosa dice. - notò che adesso Amber stringeva un libro in
mano, concentrata
nella sua lettura - Tutte le scelte della psiche sono dettate dal
principio del piacere: l'uomo
desidera la sua felicità, l'appagamento immediato e
incondizionato dei suoi
desideri, ma tale desiderio si scontra quasi sempre con la
realtà,
ovvero con le costrizioni morali e le tradizioni sociali che sono
ostili al
pieno soddisfacimento del piacere.”
Il diagnosta
sentì un rumore sordo, il tonfo di un telefono.
Cuddy era
corsa da lui a sorreggerlo, lasciando cadere a terra tutto
ciò che le occupava
le mani.
“House!! –
esclamò preoccupata, vedendolo barcollare. Lo fece sedere
sul letto, tentando
di farlo riprendere – House… che succede? Stai
bene!?”
House
strinse la mano di Cuddy, cercando di reagire a quel malessere
improvviso.
Cosa stava
accadendo? Tre mesi di pura noia e adesso, che lei era finalmente con
lui, gli
succedeva tutto questo!?
“Non
preoccuparti. – bisbigliò a fatica, voltandosi a
farle un sorriso tirato - Hai
chiamato l’ospedale?”
“Si, se ne
occuperanno loro. – Cuddy gli passò una mano fra i
capelli, scostandogli una
ciocca in un gesto d’affetto – Adesso pensa solo a
riprenderti.”
House
sentiva la testa pulsare, come se stesse scoppiando, ma Amber non dava
segno di
voler smettere.
“…Il principio del piacere si scontra
con la
realtà e ne deriva l'inevitabile frustrazione dei desideri.
Ecco allora che al
principio del piacere può subentrare il
principio di realtà: esso
cerca
la soddisfazione del desiderio in relazione a ciò che la
realtà può offrire”.
Il diagnosta
avrebbe voluto ucciderla.
Quelle
parole sembravano avessero l’intento di fargli scoppiare la
testa, per quanto
strano ed assurdo fosse il loro significato.
Sospirò
pesantemente, poggiando il capo sulla spalla di Cuddy,
nell’attesa e nella
speranza che Amber smettesse.
“Come va con
la testa?” Cuddy gli stava accanto e, lo sapeva benissimo,
non se ne sarebbe
andata. E in quel momento quello fu l’unica cosa che
riuscì a farlo sentire
veramente al sicuro.
Eppure, per
quanto meglio adesso si sentisse, Gregory House venne colto
improvvisamente da
un flash:
2+2=3
Dovete controllare la paziente nella stanza
223…
Cosa
diavolo…
Si voltò a
guardarla, dubbioso “Come fai a sapere che mi fa male la
testa?”
“House...
stai male. Sei pallido...” rispose immediatamente Cuddy,
senza dar conto a ciò
che il diagnosta gli aveva chiesto.
“Non puoi
sapere che mi fa male la testa vedendo il mio viso pallido.”
“Mentre
il principio di piacere cerca la
soddisfazione immediata del desiderio in modo completamente
irrazionale, il
principio di realtà persegue l'appagamento del desiderio
ponendosi obiettivi estesi
nel tempo e sublimando
l'impossibile appagamento immediato in rappresentazioni
sostitutive.”
“No.” House sussultò,
chiudendo debolmente gli occhi, mentre le parole di Amber continuavano
a
rimbombargli nella mente.
Cuddy lo
guardò incerta, cercando di capire cosa stesse accadendo.
“House! Cosa
c’è che non va?... Dannazione House! Se non me lo
dici non posso
aiutarti!...House!!”
Lui continuò
a rimanere con gli occhi serrati mentre la sua voce si faceva sempre
più
lontana, sempre più ovattata al suono.
“…escogitando
diversi quanto necessari
appagamenti.”
Poi,
improvvisamente, il silenzio.
Amber aveva
smesso di parlare, non una parola si poteva udire attorno a lui.
Aprì gli
occhi, abbassando lo sguardo.
Si sentì
mancare appena si rese conto di ciò che era appena accaduto.
L’intuizione
che ebbe qualche attimo prima… era corretta.
Cuddy era
sparita.
Accanto a
lui, non vi era più nessuno.
Si voltò confuso
verso la parete che fino a qualche attimo prima era ricoperta di
rossetto…
nulla. Davanti ai suoi occhi c’era una semplice parete bianca.
Spostò lo
sguardo sconvolto al pavimento dove doveva starci un cellulare o una
borsa… o
qualsiasi altra cosa.
Non un
oggetto fuori posto.
Amber
schioccò le dita, sedendosi nel letto acanto a lui. Nelle
mani stringeva ancora
il vecchio libro che, guardandolo bene, era quello che Wilson gli aveva
regalato molti anni addietro.
“Freud! –
esclamò la giovane donna con un sorriso, ricordandosi il
nome dell’autore –
Ecco come si chiamava!!Era quel tizio che ha inventato la
psico-analisi, se la
memoria non mi inganna...”
House
non la
guardava nemmeno adesso, stringendosi la testa tra le mani.
Un tonfo nel
nulla, il vuoto l’assalì.
Si sentì
esausto, stanco di se stesso e di tutte quelle illusioni di cui si
rendeva
vittima.
Stava
impazzendo sempre di più… era questa la
realtà.
Non poteva
avere la sua Cuddy. Non poteva vedere nessuno.
L’unica cosa
che adesso era certa in lui era la coerenza di essere stato un bastardo
per
troppo, troppo tempo.
Era in un ospedale,
in una clinica, da solo... a parlare con le proprie allucinazioni. Non
una
persona che gli stava accanto.
Ne Cuddy, ne
Wilson, ne nessun altro.
Non più
ormai.
Perché la
cosa che più aveva amato fare nella sua vita, era
allontanare le poche persone
alle quali importasse qualcosa di lui.
Sempre.
Le lacrime
scesero lente sul suo volto, quasi involontariamente.
Sentì le
proprie mani bagnarsi al loro contatto, ma non gli importò.
Era da troppo tempo
che aveva la necessità di farlo…la
necessità di piangere.
E così fece.
“Gregory
House, come ti sei ridotto…” Amber adesso era in
piedi di fronte a lui,
osservandolo con tristezza.
“Lasciami in
pace!!!- le urlò improvvisamente House, prendendo il vaso
che stava sul
comodino a lato del letto e tirandoglielo addosso –
Sparisci!!!”
La giovane
donna inclinò debolmente il capo mentre veniva oltrepassata
dal vaso che,
inevitabilmente, a contatto con il suolo, si frantumò in
mille pezzi.
“Non dipende
da me - sussurrò seria – Io sono tua,
ricordi?”
“Sparisci…- ripeté
House, questa volta in un sussurro, coprendosi gli occhi in una
silenziosa
disperazione – te lo ordino, dannazione!!”
Amber si rannicchiò
davanti a lui, mettendosi in ginocchio in modo d’avere il
volto all’altezza del
suo; Poggiò le mani sulle sue gambe, osservandolo
silenziosamente per un breve
istante.
Poi,
improvvisamente, sussurrò:
“Dobbiamo
impegnarci entrambi per questo, lo sai vero? – quelle parole
assunsero agli
occhi di House una serietà che mai prima di allora Amber
aveva dimostrato. E fu
proprio in quel momento che, finalmente, il diagnosta alzò
il volto per
guardarla – Ma da soli non potremmo mai farcela.”
Vi fu un
improvviso silenzio. Per la prima volta, da quando era in quella
clinica, le
sue allucinazioni glielo stavano donando… perché
adesso c’era una scelta in
ballo.
House
comprese.
Per la prima
volta, House comprese a pieno il significato delle parole di Amber.
La guardò
negli occhi, titubante.
Sapeva cosa
lei le stava proponendo... e sapeva anche di esserne spaventato.
Poi, dopo un
breve attimo, annuì.
Amber aveva
ragione.
Il suo
subconscio aveva ragione.
Se veramente
voleva tornare ad essere Gregory House… doveva impegnarsi. Doveva giocarsi tutte le
carte a sua
disposizione… come aveva sempre fatto.
E adesso
gliene rimaneva solamente una.
Ore 13:00
Mensa del Myfield
Psychiatric Hospital
Era
ora di
pranzo, la mensa della clinica sembrava essere la parte più
affollata di tutta
l’intera struttura.
Si sentiva
il chiacchiericcio della gente fare da sfondo ai suoi passi.
Il tocco del
bastone e del suo passo incerto sembrava confondersi con quello di
molta altra
gente che sembrava non degnarlo di uno sguardo.
Meglio così.
Non avrebbe
mai osato farsi vedere in pubblico in quello stato… e il
solo fatto che lui si
trovasse lì andava già oltre i propri schemi. Ma
il motivo che lo spinse ad
entrare in mensa era uno solo. Il suo obbiettivo.
Si fermò.
Jenny Dawson
stava mangiando ad un tavolo poco distante da lui, non gli fu difficile
riconoscerla.
Le si
avvicinò con decisione, cercando di non mostrare
tentennamenti o paure.
Si fermò di
fronte a lei, posando il peso di entrambe le braccia sul capo del
proprio
bastone.
Jenny alzò
lo sguardo, notando la sua figura.
“Ciao Greg.-
gli sorrise – Hai già mangiato?”
Lui ignorò
quella domanda.
“Sei sicura
di avere tutta questa curiosità di conoscermi?”
esclamò, conscio del fatto che
si stava prostrando davanti a lei.
“È il mi
lavoro. – Jenny annuì amichevole, dal suo sguardo
non trasparì alcun segno di
sorpresa -Anche se sono certa che anche tu abbia questa
curiosità.”
“La tua
proposta è ancora valida?” questa volta
deviò il suo sguardo, come
vergognandosi di chiedere aiuto ad una psicologa.
Lei gli
sorrise “Non è mai stata considerata
conclusa.”
E mai come in quel momento Gregory House
aveva considerato delle parole tanto indispensabili per se stesso...
To be
continued…
Ciò
che è
posto in analisi nel capitolo, sono studi basati sulle teorie di
Freud.Non
appartengono a me, e mai mi apparterranno.
Bibliografia:
http://www.forma-mentis.net/Filosofia/Freud.html
|
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Capitolo 6 *** #5 Capitolo ***
Salve gente!!
Grazie a tutti per il sostegno, sono contenta che la ff continui a
piacervi.
So che le allucinazioni di House hanno un pò deluso le
aspettative.. ma sono state fondamentali per me, dato che in questo
modo House si è reso conto della gravità della
situazione e sia stato spinto ad accettare l'aiuto dell'antagonista
Jenny Dowson.
Vi lascio questo chap, sperando possa andare bene.. anche se,
personalmente, non mi soddisfa più di tanto. Di fatto,
consideriamolo un chap d'obbligo... che doveva esser scritto.
Per cui, non aspettatevi nulla di meraviglioso.
Spero solo possa andare bene.
Fatemi sapere in caso di errori grammaticali, etc... è
sempre buono se qualcuno li fa notare. Migliorare del resto sta nella
mia lista delle cose da fare... :P
Enjoy it!
Miky91
CHAP
5
L'umanità
ha sempre
barattato un pò di felicità per un pò
di sicurezza.
(Sigmund
Freud)
Il
sole si
era levato in cielo già da un po’ quella mattina
mentre la rugiada veniva
presto asciugata dai suoi raggi.
Erano le
10.00 del mattino ed attorno alla clinica vi era un forte silenzio.
House stava
immobile, poggiato sulla balconata che dava sul giardino. Non era stato
capace
di chiudere occhio per tutta la notte.
Quella
sarebbe stata la sua prima giornata di terapia con Jenny Dawson e,
nonostante
era stato lui stesso a confermare la sua partecipazione, adesso, si
sentiva
semplicemente un imbecille a farlo.
Dove mai si
era sentito che con una chiaccheratina si risolvevano problemi di quel
calibro?!
Eppure,
doveva fidarsi. O, per lo meno, doveva provare. Perché
quella era la sua ultima
occasione di tornare ad essere se stesso, di tornare ad essere Gregory
House.
Alzò il
capo, facendosi scompigliare i capelli da una folata di vento.
“E se… non
funzionasse?” Amber era in un angolino della stanza, in
piedi, lo sguardo fisso
a terra.
Era stata
con lui tutta la notte ma, come il diagnosta, non aveva osato proferir
parola.
Era spaventata, intimidita.
Del resto,
entrambi, stavano andando incontro a qualcosa a loro sconosciuto.
“Deve
funzionare.” le rispose House, anche se dal suo tono di voce
non traspariva poi
tutta quella convinzione.
La giovane
donna annuì, lasciandosi però il beneficio del
dubbio “Hai ragione. Dobbiamo
mettercela tutta… tu devi tornare a casa.”
House le
sorrise, quasi involontariamente.
Cosa stava
accadendo? Era come se… finalmente, la parte del suo
cervello che dava vita ad
Amber si fosse resa conto della gravità della cosa; Come se
il suo subconscio
volesse far sparire quelle allucinazioni, proprio come lui.
Era strano…
ma qualsiasi cosa fosse, per Gregory House, era la benvenuta.
Improvvisamente
si sentì una chiava occupare la serratura della sua stanza
poi, quasi
immediatamente dopo, la porta si aprì.
Al di là di
questa vi stava il medico che si era sempre occupato, da quando House
era stato
ricoverato, di accompagnarlo in giro per la clinica e di stare attento
ai suoi
spostamenti.
“Ciao Bill
– Iniziò House ironico – Che
notizie mi porti dal fronte?”
L’uomo
scosse il capo, rassegnato al fatto che ormai il suo secondo nome era
quello.
“Oggi inizi
la terapia con la dottoressa Dawson, lo sai vero?”
“Dici
davvero!?... strano, pensavo fosse giovedì” House
si finse sorpreso.
L’infermiere
sorrise “Coraggio, andiamo.” si scostò,
lasciandogli il passaggio libero.
“Non c’è
fretta.” bisbigliò House uscendo, quasi volesse
farlo infastidire.
“Grazie!”
Amber fece un sorriso di cortesia, varcando anch’ella la
porta della stanza.
I tre
entrarono in ascensore e l’infermiere cliccò
subito il tasto per dirigersi al
piano terra.
House guardò
dubbioso quel gesto. Sapeva che al piano terra non vi stava altro che
la mensa
e qualche sala svago… nulla di più.
“Dove stiamo
andando?” domandò incerto.
“Dalla tua
psicologa.” fu la semplice risposta dell’uomo che,
senza degnarlo di uno sguardo,
aveva iniziato ad aggeggiare con il cellulare.
“E questo
sarebbe colui che ci dovrebbe tener d’occhio!? –
sbottò Amber, incrociando le
braccia sul petto ed appoggiandosi con fare seccato alla parete
dell’ascensore
– Imbecille.”
House si
trattenne dal fare un sorrisino divertito. Del resto, era simpatico in
questi
momenti avere Amber con se.
Le porte
dell’ascensore si aprirono poco dopo, lasciando il via libera
a coloro che lo
occupavano.
“Vai
nell’atrio, la trovi lì.” gli
indicò l’uomo, lasciando che il diagnosta uscisse
in corridoio.
“E tu non
vieni con me? – House lo fissò stupito. Erano tre
mesi che era rinchiuso lì e
da tre mesi nessuno l’aveva mai lasciato vagare indisturbato
in clinica.
Qualcosa non andava. – Potrei benissimo decidere di rubare
un’auto e svignarmela…
in tal caso che faresti!?”
Non è che
amava essere pedinato ed osservato, ovvio, ma quella stranezza
risvegliò in lui
una forte curiosità.
“Non è mio
dovere sorvegliarti per oggi. – l’uomo premette il
pulsante dell’ascensore,
lasciando che le porte si chiudessero davanti a lui – Fai
come credi.”
Amber lo
guardò allibita, voltandosi poi a scambiare uno sguardo con
House.
Cosa
intendeva con “Fai come credi”??
House scosse
il capo, sorridendo intrigato, e dirigendosi verso l’atrio.
Se c’era una
cosa che detestava… era proprio non essere al corrente di
nulla; Ma se c’era
una cosa che invece amava… quella era scoprire il
perché.
“Ciao Greg!”
Jenny lo
attendeva proprio davanti la porta d’ingresso, sul viso un
sorriso vivace.
“Ciao”
rispose lui tentennante. Del resto, non era roba di tutti i giorni
essere
chiamati per nome… o, per lo meno, non era roba da tutti i
giorni essere
chiamati per nome da una ragazza. L’ultima donna che aveva
pronunciato il suo
nome… era stata Stacy del resto.
“Al volo!”
la psicologa gli lanciò qualcosa, consapevole del fatto che
nonostante il gesto
fosse stato improvviso, House l’avrebbe presa.
E così fu.
Il diagnosta
prese al volo l’oggetto, anche se non aveva ben capito di
cosa si trattasse.
Aprì la mano,
curioso di capire cosa fosse.
Erano delle
chiavi.
“Cosa
diavolo…”
“Sai
guidare, giusto?”
Amber sgranò
gli occhi “eh!?”
“Certo, ma…”
Jenny aprì la porta “Allora andiamo a farci un
giro.”
Princeton
Plaisboro Teaching Hospital
Lisa
Cuddy
era seduta alla propria scrivania da ore ormai.
Ogni tanto,
lo sguardo si posava sull’orologio… impaziente
nell’attendere l’ora di pranzo.
Quella
mattina aveva avuto due riunioni ed in più aveva fatto due
ore di visite in
ambulatorio. Ebbene si, da quando House non lavorava più in
ospedale aveva
tentato di dividere i suoi turni ai vari medici anche se con poco
risultato…
dato che comunque tutti avevano i propri compiti all’interno
della struttura.
Così si era messa in gioco anche lei.
Ma le andava
bene infondo.
Un po’ di
fatica in più nell’attesa che tutto tornasse come
prima non era un gran
sacrificio.
Perché era
questa la sua speranza.
In molti le
avevano suggerito di trovare un nuovo capo reparto di diagnostica, in
molti
avevano tentato di farla ragionare… di spiegarle che cose
simili non si
risolvono così velocemente. Un individuo come House poi, se
mai sarebbe stato
in grado di tornare “Normale”, si sarebbe preso un
tempo troppo lungo.
E non era
suo compito attenderlo.
Almeno, non
era il compito di Lisa Cuddy, la direttrice dell’ospedale.
Ma lei, per
quanto fosse consapevole di tutto questo, non volle ascoltare quelle
voci.
Ignorò tutto e tutti. Perché
l’attenderlo, il fatto di non sostituirlo a lavoro
con qualcun altro, rendeva le sue speranze più vere,
più vicine.
Un uomo solo
però era stato in grado di farsi ascoltare.
James
Wilson.
L’oncologo
era sempre stato protettivo sia nei suoi confronti che nei confronti
del
diagnosta… pur tuttavia, adesso, le chiedeva
l’impossibile. Le chiedeva di non
farsi sentire da House, di non andare da lui.
Lisa Cuddy
sapeva che la situazione era pesante da gestire, sapeva che andandolo a
trovare
si sarebbero aperte delle ferite e che probabilmente Wilson non voleva
che lei
ci andasse per questo. Forse Wilson credeva che evitando di farla
andare da
House lei non avrebbe sofferto; Forse credeva che impedendole di
sentirlo o di
vederlo in quelle condizioni lei non avrebbe fatto sciocchezze come
passare
intere giornate al suo fianco.
E forse
aveva ragione.
Non avrebbe
dovuto.
Ma la verità
era anche che lei avrebbe preferito stargli accanto ed assisterlo
piuttosto che
non vederlo o non aver la possibilità di parlargli.
Era tutto
così confuso per lei… che molte volte arrivava al
punto da detestare James
Wilson, nonostante il suo odio andava in realtà a se stessa
in quanto era lei
che continuava ad ascoltarlo.
Firmò un
ennesimo foglio, posando, ancora una volta, lo sguardo
sull’orologio.
Erano si e
no le 11:00.
Poggiò la
penna sul tavolo, distogliendo
lo
sguardo dai documenti e portandolo al telefono alla sua destra.
Fu
improvvisamente assalita da una voglia irrefrenabile di alzare la
cornetta e
digitare il numero della clinica Myfield.
No, non
doveva farlo. Wilson le aveva spiegato che House stava bene.
Ma era anche
vero che lui non andava a trovarlo da più di una settimana
ormai.
E se fosse
successo qualcosa ad House?... e se avessero scoperto cosa non andava
in lui?
Doveva saperlo.
Doveva
sentirlo.
Senza
pensarci due volte prese la cornetta e se la portò
all’orecchio, digitando
velocemente il numero della clinica che ormai sapeva a
memoria… tante erano
state le volte che aveva stretto in mano il foglio con quel numero di
telefono.
Sentì
l’apparecchio squillare.
Fu
immediatamente tentata di chiudere la chiamata, come tutte le
precedenti volte
del resto, ma alla fine trovò il coraggio di andare oltre il
terzo squillo.
“Clinica
psichiatrica Myfield, mi dica.” la voce di
un’infermiera ruppe la tensione che
quel continuo squillare le stava provocando.
Cuddy
sussultò.
Aprì la bocca
mentre, senza che se ne rendesse conto, le parole le si smorzavano in
gola.
“Salve… sono
la Dottoressa Lisa Cuddy, direttrice dell’ospedale di
Princeton. – dopo qualche
istante di silenzio, finalmente, trovò il coraggio di
parlare – Vorrei parlare
con Gregory House. So che è ricoverato lì da
voi.”
“Attenda in
linea.” un breve clic la mise in attesa.
Cuddy iniziò
a tamburellare le dita contro il freddo legno della scrivania.
Cosa stava
facendo!?... cosa avrebbe detto ad House? ‘Ciao,
come vanno le cose? Scusa se non mi son fatta sentire prima,
sai… sono stata
occupata’ !?!?
Forse lui
non avrebbe nemmeno accettato di parlarle.
Non dopo tre
mesi.
Probabilmente,
dopo tutto quel tempo, la detestava e basta.
Erano
passati 3 minuti ormai.
Adesso la
dottoressa aveva iniziato a giocherellare con la penna.
Minuto dopo
minuto, ormai era peggio di un’agonia.
5 minuti.
6 minuti.
7 minut..
Sbuffò
seccata.
Forse era
meglio chiudere la chiamata e basta.
Perché lo
stava chiamando poi!?
Un altro po’
ed avrebbe parlato con Gregory House…
“No”
sussurrò, intimidita da quel pensiero. Staccò la
cornetta dall’orecchio,
andando per deporla al proprio posto sull’apparecchio
telefonico.
“Pronto?”
Cuddy
trasalì sentendo una voce provenire da questa, annullando i
pensieri precedenti
e rimettendosela all’orecchio “Pronto,
House?!”
“Dottoressa,
al momento Gregory House è impegnato. Non posso
disturbarlo.”
“Ah…
capisco.” sussurrò la dottoressa con
un’aria tra l’infelice e il sollevato.
“Può
riprovare questa sera.”
“Certo. La
ringrazio.” chiuse la chiamata.
Cosa diamine
stava combinando!?
Scosse il
capo tristemente, rendendosi conto solo in quell’istante di
ciò che aveva
fatto.
Non stava
facendo la cosa giusta, lo sapeva.
Ripose la
cornetta al proprio posto sul telefono, rimanendo immobile a
contemplare
l’apparecchio per qualche istante.
Non sapeva
se essere felice o meno.
House non
c’era… non aveva potuto parlargli. Doveva essere
triste.
Eppure era
sollevata di questo. Perché finalmente aveva compreso una
cosa… una cosa che
quegli istanti di attesa gli avevano fatto capire.
Non era
House quello con il quale avrebbe dovuto parlare in quel momento.
Prima di
iniziare una conversazione con lui, sapeva benissimo che avrebbe dovuto
occuparsi di un’altra conversazione… quella con
James Wilson.
Si alzò in
piedi, scostando la sedia con fare deciso. Uscì
dall’ufficio, questa volta
decisa a chiarire la situazione con l’oncologo.
Perché quel
pomeriggio Lisa Cuddy sarebbe andata alla clinica Myfield.
* * *
James
Wilson
era intento a studiare una cartella clinica, chiuso nel suo ufficio.
Teneva in
mano una penna, annotando ogni
tanto ciò
che gli sembrava particolarmente rilevante dalla lettura di questa.
Era tarda
mattinata, tra un po’ sarebbe andato a pranzare e in
quell’istante finire gran
pare del suo lavoro mattutino era il primo dei suoi pensieri. Almeno,
fin
quando non senti improvvisamente l’aprirsi della porta
dell’ufficio.
Alzò lo
sguardo, notando la figura di Lisa Cuddy varcarla. Aveva
un’espressione confusa
in viso, ma decisa.
“Wilson..
dobbiamo parlare.”
“È successo
qualcosa?” l’oncologo sembrò
preoccuparsi.
La
dottoressa si sedette su una delle sedie di fronte la scrivania,
iniziando a
giocherellare nervosamente con la collana che teneva al collo. Poi,
dopo un pò,
iniziò: “Hai notizie di House?”
“Ho chiamato
la clinica ieri sera – ammise l’oncologo
– Sta iniziando una terapia con una
psicologa.”
Cuddy sgranò
gli occhi.
House con
una psicologa!?
Povera
donna.
“Non
concluderanno niente di questo passo.- disse stanca, passandosi una
mano sulla
fronte – Quante volte abbiamo tentato di fargli fare delle
terapie simili per
via della gamba?! Lui odia gli psicologi.”
“È quello
che ho tentato di spiegare anche io. – continuò
Wilson – ma a quanto pare è la
loro ultima carta.” l’ultima frase
sembrò quasi essere bisbigliata ma,
nonostante tutto, la dottoressa la sentì come se
l’oncologo gliel’avesse urlata
dentro le orecchie.
Doveva
immaginarselo del resto.
La verità
era quella…. House non sarebbe più tornato.
Rimase in
silenzio per qualche istante, lasciandosi coprire il volto dalla mano
che,
sorretta dal braccio poggiato sul bracciale della sedia, non dava segno
di
voler abbandonare il suo viso.
“Lisa io…”
“Ho provato a chiamarlo questa mattina.” lo
interruppe lei, alzando uno sguardo
rassegnato.
Wilson
rimase interdetto per qualche istante, incurvando la testa con aria
sorpresa
“Ah.”
“Probabilmente
era impegnato con la terapia. Non ho potuto parlargli.”
“Ti avevo
chiesto di non…”
“Perché?” era
strano, ma questa domanda finalmente trovò il coraggio di
uscire allo scoperto.
Erano tre
mesi che faceva ciò che Wilson le diceva… senza
mai chiedere però il vero motivo.
Ma adesso i
giochi erano finiti. House probabilmente non sarebbe mai più
uscito da quella
clinica, era questa la realtà purtroppo, e lei non avrebbe
potuto continuare in
eterno ad evitarlo.
Non se ne
parlava.
“Perché?!-
ripeté al silenzio dell’oncologo – Dimmi
la verità Wilson. Sono stanca di
andare alla cieca verso il nulla.”
“Non c’è
nessuna verità - rispose dopo poco Wilson – Ti ho
già detto i motivi per i
quali penso sia meglio tenersi a distanza da House al
momento.”
“Ma se hai
detto tu stesso che ormai non c’è più
speranza che torni!”
“Cuddy, non
mi sembra che io abbia mai fatto qualcosa che vada contro il tuo
bene…” disse
Wilson dopo una attimo di riflessione.
“Lo so. –
sussurrò Cuddy – ma mi piacerebbe sapere
ciò che dovrebbe spingermi ad
allontanarmi da House!”
Wilson non
rispose.
Si era tradito
da solo.
Come dire
certe cose dopo tutto?
Sapeva che
se Cuddy fosse andata da House… lui avrebbe sofferto. Sapeva
che House era
fragile, vulnerabile, davanti a lei.
E se c’era
qualcosa che poteva fare per l’amico, quella era evitare di
far andare Cuddy da
lui.
Ma come dire
alla dottoressa tutto questo?
Come
spiegarglielo?!
“Dannazione,
Wilson! – Cuddy si era alzata in piedi, le mani caddero
pesantemente sul freddo
legno della scrivania facendo rimbombare il colpo per tutta la stanza
– Che
diavolo succede!? Lui non ha mica il colera!!.. ha semplicemente avuto
delle
allucinazioni... dammi una sola ragione per la quale io non dovrei..-
Cuddy si
bloccò, soffermandosi sulle proprie parole.
Il respiro
le divenne pesante.
Andò a
cercare lo sguardo di Wilson, ma inutilmente. L’oncologo
aveva il volto coperto
da una mano, probabilmente alla ricerca di qualcosa da dire per evitare
che lei
capisse.
Ma era
troppo tardi.
-Mi hai insultata ed io me ne sono
andata…
non è qualcosa di mai visto in precedenza.
-No, no… non è quel che è successo. Ti
ho
detto che avevo bisogno di te. Tu mi hai aiutato!
Cuddy
tolse
le mani dalla scrivania, indietreggiando.
Improvvisamente
i ricordi di quel giorno entrarono prepotentemente nei suoi pensieri.
Ricordava
quella frase.
Ricordava
che quel “Tu mi hai aiutato” l’aveva
spinta a chiedersi il perché, nelle sue
allucinazione, lei lo aiutava… e, in tal caso, come?
Come poteva
lei aiutarlo?... come poteva averlo aiutato??
Vide Wilson
alzarsi in piedi, per poi vederlo di fronte a se nel giro di pochi
istanti.
L’oncologo la
guardò in silenzio per un breve attimo; Le prese la mano,
cercando di trovare
le giuste parole per affrontare quel momento.
Del resto,
lo sapeva benissimo, Cuddy non era una stupida.
Ho fatto sesso con lisa Cuddy!
La
dottoressa sciolse subito quel contatto, iniziando a fissare
l’oncologo con
aria allibita.
Come poteva
esser stata così cieca!?
Come aveva
fatto a non capirlo prima??
Il
comportamento di House quel giorno, il comportamento reticente di
Wilson per
tutto quel tempo.
Adesso le era
tutto chiaro.
“Perché non
mi hai detto niente?” esclamò tentennante.
Mi chiedevo se fosse il caso di vivere
insieme.
La
dottoressa si passò una mano sulla guancia destra, evitando
la scesa di una
lacrima.
Ricordò il
sorriso di House quando le sussurrava quelle parole. Gli venne in mente
la
freddezza con la quale l’aveva liquidato.
Perché la
vita era stata così assurda?!
“Lisa…
mi dispiace. – bisbigliò Wilson – Avrei
dovuto dirtelo ma… non è stato facile.”
sussurrò Wilson, capendo che ormai la
recita era finita.
La cosa che
per tanto tempo si era impegnato a nascondere, adesso, era saltata
fuori e,
inevitabilmente, andava affrontata.
Cuddy scosse
il capo, guardandolo confusa e meravigliata. Deviò poi il
suo sguardo,
superandolo e uscendo fuori dall’ufficio.
Sentì
la
porta sbattere alle sue spalle, sentì la gente fissarla
mentre percorreva i
corridoi della clinica.
Se c’era una
cosa che avrebbe voluto in quell’istante, quella era evitare
di vedere James Wilson
per il resto della sua vita.
Come aveva
osato tentare di manovrarla in quel modo senza nemmeno dirle la
verità?! …era
la diretta interessata, eppure, nessuno si era scomodato di chiarire
cosa c’era
in ballo in quella situazione.
Eppure
sapeva benissimo che l’oncologo non aveva colpa in tutto
questo, sapeva che
nessuno aveva colpa su tutto questo… perché
l’unico capo espiatorio adesso
erano solamente quei malsani sentimenti che avevano sempre legato lei e
Gregory
House.
Andò nel suo
ufficio, conscia che non sarebbe più uscita da lì
per tutto il resto della
giornata. E consapevole del fatto che, per quanto fosse dura
ammetterlo, Wilson
aveva ragione.
Se c’era una
cosa che avrebbe potuto fare per House… quella era
dimenticare tutti quei
sentimenti che lo legavano a lui.
Anche se
questa, lo sapeva benissimo, sarebbe
stata la cosa più dura del mondo.
Si sedette
alla scrivania, gli occhi appannati dalle lacrime che, comunque, non
sarebbero
mai scese. Perché lei l’avrebbe impedito.
Prese la
cornetta del telefono.
“Breda… Sono
Cuddy. Fammi un favore, appena puoi, portami in ufficio i curriculum di
quei
medici. – sospirò, conscia del suo ruolo e dei
suoi doveri – Si. Sarà meglio
che inizi a cercare un nuovo medico per il reparto
diagnostica.”
To be continued…
|
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Capitolo 7 *** #6 Capitolo ***
Salve gente!!
Grazie sempre per il sostegno che mi date!!..ve ne sono grata!!^^
Beh,
dunque, spero che anche questo capitolo vi
possa piacere dato che è il penultimo…
cioè, il penultimo per ora. Infatti il
prossimo venerdì
partirò per fare un viaggetto all’estero e mi
assenterò per un bel po’, così mi
rimane tempo per postare, dopo questo chap, solo un altro capitolo.Contemporaneamente,
direi che con
il prossimo chap si concluderà una parte importante della
storia..cioè
l’ambientazione all’interno della clinica
psichiatrica.Quindi spero
vivamente che questi
ultimi 2 chaps potranno soddisfarvi... io, per quel che mi riguarda, ne
sono
abbastanza soddisfatta. :P
Bando
alle ciance, eccovi il 6
capitolo!
Enjoy it!
CHAP
6
Il fine della psicologia è darci
un'idea completamente
diversa delle cose che conosciamo meglio.
(Paul
Valéry)
“È
uno scherzo, vero?! – Amber
guardava il tabellone che aveva davanti con aria stupita, mentre,
seduta su una
sedia, andava ad accavallare le gambe come era suo solito fare
– Stiamo
parlando di una donna Gregory… vuoi per caso
perdere!?!”
House la fulminò con lo sguardo,
iniziando a cercare una palla adatta nel mucchio che aveva di fronte.
Ci mise qualche secondo, poi,
finalmente, ne prese una color pastello.
Sorrise.
Questa volta avrebbe spaccato.
Si portò la palla sulla fronte,
concentrandosi sull’obbiettivo in fondo alla pista: i birilli.
Se c’era una cosa fondamentale
nel gioco del bowling... quella era evitare di distrarsi, anche se, in
questo
caso, Amber non lo stava aiutando per niente.
Tirò.
Vide la palla ruzzolare velocemente
lungo la pista mentre, di sottofondo, si sentivano delle vecchie
canzoni anni
80.
“Niente male.- Jenny Dawson
l’affiancò in pista, dandogli una pacca sulla
spalla – ma ti ci vorrà più di qualche
strike per raggiungermi.”
House sbuffò.
Detestava perdere contro le
donne.
In qualsiasi campo.
“Bah!” sbottò, fissando il
punteggio sul tabellone e tornandosene a sedere.
“Oh, andiamo! Perdere non fa mai
male…” lo consolò la ragazza,
focalizzando l’attenzione sui birilli.
House la guardò tirare poi, finalmente,
dopo già un quarto d’ora che stavano giocando,
iniziò: “Allora è così che
ti
guadagni i soldi… perdi tempo con i pazienti per divertirti
un po’ e poi vieni
pagata per aver fatto la psicologa.”
Lei si voltò a guardarlo con aria
stupita ma allo stesso tempo divertita
“Volevo conoscerti prima di imporre la mia
presenza nella tua mente, che
c’è di male in questo? Se nel frattempo
organizziamo un incontro di bowling...
meglio ancora. ”
“E quanto ti pagano?- la ignorò
House – Scommetto che quel gioiellino di macchina
è solo uno dei pezzi forti
del tuo garage.”
Il commento di House non era
puramente casuale.
Ebbene si, Jenny Dawson aveva una
macchina sportiva rosso fuoco che, per chissà quale grazia
divina, gli era
stato concesso di guidare. E già solo per quello, House
avrebbe fatto
volentieri una statua in onore della psicologa.
“È vero, lo ammetto – Jenny
andò
a prendere un’altra palla, pronta per il secondo tiro
– Il mio amore più grande
va alla mia moto.”
“Siamo sicuri che non sia un
uomo?” sogghignò Amber, guardando la ragazza con
ammirazione.
House sorrise “Di che cilindrata
è?”
“1255… ma la uso fuori dal
lavoro, giusto per fare qualche giro.” la dottoressa
tirò nuovamente, segnando
un ennesimo strike sul tabellone.
“Moto di questo calibro sono sprecate
per le donne.”
“Sarebbero meno sprecate per uno
zoppo?”
Il diagnosta la guardò divertito,
cogliendo al volo la provocazione “Da quando il razzismo per
gli storpi ha
preso questa brutta piega?”
“Da quando questa brutta piega
l’ha preso anche il razzismo verso le donne!” lo
apostrofò lei con aria di
sfida.
La vide sedersi accanto a lui, iniziando
a fissarla intrigato.
Era da poco che stavano insieme
ma già aveva iniziato ad inquadrare il carattere della
donna… e, cosa più
strana, non gli dispiaceva affatto.
Si alzò, non prima di averle
tenuto testa per qualche secondo con lo sguardo.
Andò a prendere la palla, era
giunto il suo turno.
Portò nuovamente la palla sulla
fronte, concentrandosi verso i birilli. Ormai era questo il suo gesto
d’inizio.
“Così tu sei Gregory House… -
iniziò
Jenny alle sue spalle – Il più famoso diagnosta di
Princeton.”
“Così sembra.” House non distolse
lo sguardo dai birilli.
“Mi sento quasi onorata a dover
lavorare con te, lo ammetto.”
“Sei onorata nell’addestrarmi al
bowling?”
“Onorata del fatto che riuscirò a
guarirti.”
House tirò.
Vide la palla andare spedita ma,
giunta vicino ai birilli la sfera iniziò a brancolare fino a
gettarsi sulla
sponda laterale.
Si voltò seccato “Cosa ti fa
credere che tu riuscirai a guarirmi?!”
“Tu credevi che le tue
allucinazioni fossero causate dal vicodin. L’uso di oppiacei
del resto.. causa
effetti simili. Eppure non tocchi droghe da tre mesi. L’unica
causa è il
fattore psicologico.”
House scosse il capo, andando a
prendere una seconda palla e preparandosi per un altro tiro
“Se pensi di
potermi aiutare… fa pure. Ma penso sia inutile dire che per
me tutto questo non
ha valore. La psiche si basa solamente su eventi della mia vita ai
quali,
secondo psicologi montati, non riesco a dare significato. Sarei uno
scemo
secondo queste persone dunque.”
La psicologa si sistemò più
comodamente sulla sedia, distendendo le braccia sulle spalliere di
quelle
accanto “La psiche
umana non è
del tutto trasparente. Non tutto ciò che sentiamo e crediamo
di intendere in
superficie è in sé compiuto e completamente
chiaro.- iniziò - La psiche
è come un iceberg:
la parte superficiale è molto meno rilevante
della parte sommersa, immensa e misteriosa.”
House
tirò “Quindi la causa delle mie allucinazioni
è un iceberg…”
Questa
volta la palla andò a finire nella sponda di destra.
Jenny
sorrise divertita, iniziando a giocare con una ciocca di capelli
“Non sei molto
in forma.”
“Si
nota tanto?” disse House ironico.
“Che
ne sa lei se sei in forma o meno?” la voce di Amber lo
destò, facendolo
voltare.
Era
rimasta in silenzio sin da quando avevano iniziato a giocare, tranne
qualche
acido commento sui suoi modi di affrontare la donna. Ora,
improvvisamente,
aveva preso la parola.
House
la fissò in silenzio per qualche istante, voltandosi poi
verso la psicologa.
“Già…
che ne sai tu se sono in forma o meno? – esclamò
il diagnosta, guardando Jenny
con aria confusa e preoccupata, colto dall’improvviso terrore
di un’ennesima
allucinazione. Come era stato con Cuddy. Come anche era stato con il
suo
desiderio di disintossicarsi – Tu non mi hai mai visto
giocare a Bowling,
potrei anche essere una schiappa… che ne sai?!”
La
psicologa si alzò in piedi, sul suo volto un dolce sorriso
che, contrariamente
a ciò che aveva appena temuto, House trovò quasi
rassicurante.
“È
stata Amber a fartelo notare? – inclinò
leggermente il capo, incrociando le
braccia al petto – o è stato Kutner?”
“Cos’è,
hai pagato un investigatore privato per spiare il mio
subconscio?” ironizzò
House, nonostante in quell’istante la sua sorpresa fosse
più grande del suo
concetto di ironia.
La
psicologa rise di gusto, andando a scegliere poi una palla adatta per
tirare.
Adesso
era il suo turno.
“Ho
parlato con un certo Wilson… - iniziò,
concentrandosi sul tiro – ha chiamato
ieri nel mio ufficio.”
House
schioccò le dita, iniziando a capire molte cose “Ah.. parli di
quel ritardato mentale che si
spaccia per un oncologo?”
“Parlo
del tuo amico.”
“Io
non ho amici.”
“Era
preoccupato per te.”
House
si sedette accanto ad Amber, iniziando a guardarla con stanchezza
“Ti ha
parlato di Amber e Kutner?”
Deviò
il discorso sull’amicizia.
Ormai
la realtà era quella… era stanco di crederci.
Jenny
prese una piccola rincorsa, lanciando scivolare la palla con dovuta
eleganza.
Eleganza che il diagnosta, dato il problema alla gamba, non avrebbe mai
mostrato
sulla pista.
“Mi
ha detto i nomi. – gli sorrise lei – Parlarmi di
loro spetta solo a te.”
“E
se io non volessi farlo?”
“Sei stato tu a volere quest’incontro. Non penso
che le tue reali intenzioni
siano di giocare a Bowling, altrimenti non sarei qui.”
Amber
si rivolse ad House, ma senza proferir parola. Lo sguardo supplichevole
che le copriva
il volto spinse finalmente il diagnosta a prendere la parola su
quell’argomento.
Un
sospiro profondo accompagnò i suoi pensieri.
“Erano
dei miei dipendenti. – disse, grattandosi la fronte con il
pollice... come era
solito fare quando rifletteva o iniziava un discorso complicato
– Ora però sono
morti.”
“Così
vedi solo persone morte?”
la donna si
voltò, lasciando trasparire un leggero filo
d’orgoglio per il punteggio
ottenuto mentre andava a prendere la palla per l’ultimo tiro.
“Si.”
“No!
- Amber si mise in piedi, rivolgendosi verso House – Sai che
non è così! Devi
dirglielo!”
House
deviò il suo sguardo, cerando di ignorarla.
Amber
aveva ragione, lo sapeva. Ma contemporaneamente qualcosa in lui non
voleva
rivelare nulla riguardo a Cuddy.
Del
resto non era mai riuscito a farlo.
Non
era mai riuscito a dire “Sono innamorato di Lisa
Cuddy.”… non era mai riuscito
nemmeno a pensarlo direttamente. E l’ammetterlo a qualcuno
ancora sconosciuto a
lui, non era il primo dei suoi pensieri.
Non
in quel momento.
Ma
Jenny lo vide tentennare.
Posò
lo sguardo verso la sedia acanto a quella del diagnosta, capendo
all’istante
che per lui lì ci stava qualcuno.
“Che
rapporto avevi con loro?” domandò poi, consapevole
del fatto che l’insolita
reticenza che il diagnosta stava mostrando serviva ad evitare qualcosa.
E
a questo punto era suo compito scoprire cosa.
“Erano
degli idioti – disse lui acidamente – Io comandavo
e loro obbedivano.”
“Beh,
per quanto potessero essere degli idioti, il fatto che tu li veda sta a
significare che in fondo ci tenevi a loro.”
Amber
sorrise, rivolgendo uno sguardo malizioso ad House ed iniziando a
giocherellare
con una ciocca di capelli “Ammettilo, io ero proprio una
bomba.”
“Avrei
potuto benissimo odiarli a morte. Il concetto è sempre
quello del resto.” ribatté
prontamente House, colto di sorpresa, senza però essersi
prima concesso un
sorrisino d’intesa con Amber.
La
psicologa tirò.
La
palla era tutta a destra come se fosse in procinto di cadere
lateralmente. Poi,
improvvisamente, arrivata all’altezza dei birilli,
deviò verso sinistra facendo
un improvviso e potente strike.
Quello
vincente.
“Si!!
Vittoria!!!” urlò felice.
Amber
si coprì il volto con le mani, vergognandosi del suo
protetto.
“Congratulazioni.-
borbottò House, mettendosi in piedi e guardandola in modo
allusivo – ma sei
sicura di essere una donna?! Non è che sei qualche trans
travestito che si
interessa di moto, bowling e, nel tempo libero, di
psicologia?”
Jenny
si avvicinò a lui, sciogliendosi i capelli che fino ad
allora erano rimasti
attaccati a coda di cavallo.
“Donna.
E fiera di esserlo.”
House
fece un passo in avanti, accettando quella sorta di sfida che Jenny
sembrava
volesse proporgli.
“Gregory
House, molto più fiero di quel che credi.”
Jenny
sorrise, inclinando
debolmente il capo ed iniziando a fissarlo incuriosita “Fiero
di essere chiuso in
un manicomio, o fiero di quel che sei stato?”
House divenne serio, rimanendo in
silenzio davanti a lei.
Cosa diavolo voleva? Quali erano
in realtà le sue intenzioni?!
Iniziava a temere quella figura,
iniziava ad aver timore di esporsi troppo. Era troppo recettiva ai suoi
atteggiamenti.. e questo non gli piaceva affatto.
“Ero un medico rispettato.” disse
semplicemente, indietreggiando per prendere la sua giacca ma senza
staccare quel
contatto visivo con lei.
“…e adesso non lo sei più. –
disse Jenny – non lo reputi un problema?”
“È ovvio che è un problema!!”
“Allora perché non l’affronti
come tale?!”
Questa volta il tono di Jenny
sembrava non voler ammettere repliche. Era decisa, convinta e ferma
nelle sue
convinzioni. E per queste avrebbe lottato.
“Cosa dovrei fare? Scrivermi in
fronte ‘Accetto il fatto che sia un
problema’ !?!?”
La ragazza si mise la giacca
addosso, iniziando ad abbottonarsela “Potresti. O potresti
semplicemente dirmi
quello che succede quando hai un’allucinazione.”
“Tel’ho detto. Vedo due miei
dipendenti morti. So che è macabro come scenario
ma…”
“Tu odi gli psicologi.- gli fece
eco la donna, andando a posare delle monete alla cassa e dirigendosi
verso
l’uscita con House al suo seguito – Eppure sei
venuto da me. Non sono stupida,
so che è successo qualcosa.. qualcosa che ti ha spinto a
venire a chiedere il
mio aiuto.”
“Piantala di fare l’imbecille!! –
Amber era alle sue spalle ma la vide fiondarsi immediatamente davanti a
se,
iniziando a camminare all’indietro nel tentativo di stabilire
un contatto
visivo con il diagnosta – Sin dai tempi di Stacy la vita
è stata uno schifo,
ricordi? Adesso ti viene data la possibilità di
sistemarla… e se questo non
riuscirà a guarirti, per lo meno riuscirà a
mettere in chiaro tutto quello
schifo che hai in testa. Ti sembra poco?!”
Erano arrivati al parcheggio di
fronte all’uscita.
Un forte vento gelido li colpì,
costringendoli a dirigersi a passo svelto verso la macchina.
House si fermò, mentre Jenny
entrava nell’auto sportiva di fronte a loro, questa volta al
posto di guida.
Guardò Amber per un breve
istante, senza proferir parola.
“Ricordi?... è la nostra ultima
possibilità.” gli sussurrò in fine la
dottoressa dai biondi capelli, scuotendo
debolmente il capo con fare rassegnato.
House sospirò, esitante.
La sua ultima possibilità…
Ho
sempre creduto di essere un uomo forte. Ho fatto i miei
errori…
ma son sempre stato capace di superarli e di andare avanti. Ma credere,
non
sempre basta a sfuggire alle paure e alla sofferenza.
Credi
che sia facile vederti chiuso qui dentro? Venirti a trovare
solo nei ritagli di tempo… e scoprire che nonostante tutto
non sia cambiato
nulla?
…e adesso, Gregory
House, sei veramente solo.
Dobbiamo
impegnarci entrambi per questo, lo sai vero?
Ricordi dolorosi offuscarono la sua
mente.
Vide i volti di Wilson, di Cuddy,
dei suoi protetti.
Tutti lo osservavano, impazienti.
Lo aspettavano.
“È giunto il momento di smetterla
con questo gioco – Amber arrivò al suo fianco,
sussurrandogli qualcosa
all’orecchio – Perché per quanto un
gioco possa essere bello, a lungo andare
stanca… Gregory.”
House
aprì lo sportello della
macchina, sedendosi al posto accanto a Jenny.
La macchina era ancora spenta,
stranamente, eppure non ci fece caso.
Iniziò a fissare il proprio
bastone con sguardo assorto mentre, lo sapeva benissimo, la psicologa
attendeva.
Attendeva di ascoltare le sue
parole.
Perché lui aveva qualcosa da
dire.
Aveva qualcosa di cui parlare.
E lei lo sapeva.
“Forse sarà meglio che ti
racconti una storia.” sussurrò dopo un breve
istante.
“Ti ascolto.”
Jenny sapeva che per House era
dura, sapeva che qualsiasi cosa avrebbe detto lei aveva il semplice
compito di
ascoltarlo e, se possibile, di aiutarlo.
Era il suo compito. Ma,
stranamente, anche un volere.
House fece un sospiro, voltandosi
verso di lei al suono di quelle parole.
Vi fu un attimo di silenzio.
La fissò qualche istante poi,
finalmente, annuì, capendo l’importanza e la
necessità di parlarle.
“Tutto è iniziato ai tempi
dell’università, quando ancora la mia testa era
completamente vuota di nozioni
mediche mentre invece era completamente piena di film porno e
giornaletti
sconci.”
Jenny sorrise divertita “Strano,
pensavo che anche attualmente la tua mente contorta vivesse di
questo.”
Il diagnosta abbassò il capo,
imbarazzato.
Non sapeva il vero motivo per il
quale lo fosse… ma sapeva di esserlo.
Nonostante la psicologa stesse
cercando di rompere quell’atmosfera sempre più
pesante.
“Beh, fu allora che conobbi Lisa
Cuddy.”
E in quel momento Gregory House
sentì Amber sussultare, come se il pronunciare quel nome
l’avesse veramente
convinta della sua determinazione.
To
be continued…
|
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Capitolo 8 *** #7 Capitolo ***
Salve
a tutti gente!!!!!!!!!
Un grazie enorme va sempre a tutti voi che continuate a recensire e a
sostenermi nella realizzazione di questa storia:
ChrisP,
huddy4e, IsAnastaciaHuddy92, ladyT,
lady cat
e, sopratutto, un grazie speciale va a GaaRa92! GaarRa,
grazie per la bellissima recensione! Mi ha fatto molto piacere leggere
il tuo parere... ^^
Vi lascio questo chap sperando che vi possa piacere e sperando di non
aver deluso le vostre aspettative. Del resto, devo dirlo, tutto
ciò che viene sritto dalla sottoscritta, capitolo dopo
capitolo, è tremendamente premeditato! XD
Alla prossima gente! (che secondo i miei calcoli sarà verso
metà luglio :P)
Grazie ancora a tutti!!!
Miky
CHAP
7
L'intero problema si riduce a questo: la
mente umana è in
grado di dominare ciò che ha creato?
(Paul
Valéry)
Gregory
House chiuse la porta
alle sue spalle, entrando con passo lento nella sua stanza.
Era pomeriggio.
Ricordava ancora l’amaro di quel
pasticcio di cibo che lui e la psicologa Jenny Dawson avevano mangiato
in un
fast-food qualche ora prima, parlando e discutendo di cose che, per
quel che
gli riguardava, non avrebbe mai pensato di dire ad una donna, in un
ambiente
come quello per lo più.
Era stanco.
Stanco di camminare, stanco di
parlare.
Era stato in giro tutto il
giorno, con una donna veramente niente male, aveva giocato a bowling,
guidato
una macchina da urlo… si insomma, avrebbe dovuto sentirsi
soddisfatto. In fin
dei conti, non gli stava finendo poi così male.
Non del tutto.
O almeno… questo era bello
pensarlo.
Per quanto quel giorno si fosse
divertito, i dialoghi con Jenny l’avevano sfinito. E se in
precedenza aveva
creduto che lei fosse solo una poco di buono, in tutti i sensi
possibili
immaginabili, adesso si dovette ricredere.
La realtà era che adesso adorava
e temeva la figura della psicologa. Ma, soprattutto, adorava e temeva
ciò che
lei era stata in grado di dedurre da quel che lui gli aveva raccontato.
“Così,
adesso lei è il tuo capo.”
“Si.”
“E
come se la cava?” Jenny è seduta davanti a te, sul
volto uno sguardo
sorridente.
“È
odiosa… pretende di starmi dietro in ogni singolo attimo
della sua vita solo
per controllare se faccio il mio lavoro.”
Ricordi
ancora l’espressione che in quell’istante assumesti
nel parlare di lei… e, ne
sei certo, questa la stava notando anche Jenny.
“Piantala
di lamentarti. – la vedi ingoiare un boccone a fatica, tanto
era disgustoso
quel panino che stringeva in mano – Inutile negare che ne sei
innamorato.”
Sbuffi,
come se lei ti stesse dicendo qualcosa di pesante.
In
realtà è così.
Scuoti
il capo con fare seccato, per poi posare lo sguardo sul tuo panino.
“Si.”
“Così
sei riuscito ad ammetterlo
finalmente.”
La voce di un uomo lo destò da
quei ricordi, spingendolo a far vagare lo sguardo per
l’intera camera.
Poi, improvvisamente, eccolo.
Stava vicino la finestra, le mani
nascoste nelle tasche del camice che indossava.
“Kutner.”
Il giovane indiano sorrise amichevolmente
“Chi non muore si rivede.”
“Senti da che pulpito viene la
predica… – House zoppicò verso il
letto, gettando a terra lo zaino che teneva
sulle spalle – del genere: chi è già
morto si rivede sempre e comunque.”
Kutner si avvicinò ad Amber, affiancandola
ai piedi del letto e rivolgendosi ad House che, in
quell’istante, si stava
concedendo un po’ di riposo “Sai che non
è così.”
“Si, si, lo so… tu ed Amber siete
due fratellini capricciosi, sapete?!” li
rimproverò ironico.
“È il nostro compito.”
House si gettò sul letto,
portando le mani dietro la nuca ed iniziando a fissare il soffitto
“Il vostro
compito è quello di rompere le scatole?!”
“Esattamente.” Amber sorrise,
abbracciando Kutner con fare amichevole. Sembrava contenta che House li
avesse
definiti in quel modo.
Il giovane indiano le cinse i
fianchi, rivolgendosi con fare serio al diagnosta
“Ciò che ti ha detto la
psicologa è pesante. – iniziò
– Cosa pensi di fare? Hai intenzione di seguire
il suo consiglio o rimanere a crogiolarti
nell’autocommiserazione ancora per un
pò?”
Il diagnosta lo fulminò con lo
sguardo, alzando il proprio busto con i gomiti per meglio poter vedere
l’espressione che adesso il giovane medico aveva sul volto:
sorrideva.
Sapeva che Kutner voleva una
risposta, e sapeva anche che ciò che voleva era la certezza
del fatto che lui
si sarebbe deciso a prenderla.
Esitò.
Per un attimo, sentì il bisogno
di riprendere nella propria mente il discorso che qualche ora prima
Jenny
Dawson gli aveva fatto.
Le
hai raccontato tutto.
Le
hai detto della tua allucinazione con Cuddy, di quel giorno quando
urlasti a
tutto l’ospedale di essere andato a letto con lei.
Sei
imbarazzato, non osi proferir parola mentre adesso, Jenny, ti osservava
intrigata.
Come
diavolo eri riuscito a raccontarle tutto non lo sai nemmeno
tu… ti ha
praticamente strappato con la forza quelle parole. Eppure, non ne sei
dispiaciuto.
Sei
curioso di sentire cosa ne pensa, sei curioso di sentire come
interpreterà
tutto quel che ti è successo.
Eppure,
ciò che adesso lei ti dice ti stupisce alquanto:
“Era la prima volta?”
Esiti
un attimo, cercando di capire cosa lei voglia dire.
“Prego?!”
sussurri, con un tono tra l’ovvio e il confuso.
La
vedi sorridere divertita, probabilmente si è resa conto di
aver fatto una
domanda troppo criptata.
“Intendevo…
era la prima volta che avevi un’allucinazione su di
lei?”
La
guardi sconvolto, come se stesse dicendoti chissà quale
offesa “Ma ci stai
quando dico che è stata la mia prima
allucinazione?!” borbotti, dando un ultimo
morso al tuo panino al formaggio.
Se
c’era una cosa da fare dopo aver mangiato quella schifezza,
quella era andare
indubbiamente a farsi una bella lavanda gastrica.
“Ok,
scusa... hai ragione.”
“No
invece.” senti Amber sussurrare qualcosa alla tua destra.
Ti
volti, incuriosito da quella sua esclamazione.
Sta
giocherellando, tracciando con il dito disegni invisibili sul freddo
legno del
bancone del locale.
Poi
si volta a guardarti, lo sguardo deciso “Non è
stata la prima volta...”
Vedi
Jenny che si volta a guardare il bancone anch’ella, cercando
di capire cosa tu
in realtà stai guardando. Ma era ovvio che ciò
che al momento stava attirando
la tua attenzione, lei non l’avrebbe mai notato.
Vedi
Amber posare lo sguardo su di lei, poi
nuovamente su di te.
Inizia
ad accarezzarsi la gamba dolcemente, facendo scivolare la propria mano
verso
l’alto, iniziando a percorrere la coscia sinistra, in modo da
scoprire parte
del suo corpo che qualche istante prima era coperto dalla gonna.
“Che
bei ricordi… non smetterei mai di pensarci. - sussurra
maliziosa, attaccandosi
ad un palo che affiancava il bancone del negozio ed iniziando a
muoversi sinuosamente
-Rammenti Gregory?”
Curvi
leggermene il capo, guardando i suoi movimenti con interesse.
Striscia
sul palo con insolita bravura, imitando i movimenti di
qualcuno… qualcuno che tu
conosci benissimo.
Aveva
ragione, non era stata la prima volta.
“Tempo
addietro, ebbi un incidente – inizi, senza però
distogliere lo sguardo dalla
bionda dottoressa – E a causa di ciò che accadde
dopo, svenni… ed ebbi una
sorta di sogno-allucinazione su di lei.”
Jenny
ti sorride sorpresa, per qualche strana ragione adesso ti guarda
ammirata “È
stata Amber a dirtelo?!”
Ti
volti a guardarla, incuriosito dalla sua reazione.
“No,
me l’ha fatto solo ricordare.” rispondi ovvio,
gesticolando in maniera vaga con
la mano destra.
“È
strabiliante quanto si sia acuito il tuo dialogo con il tuo
subconscio.” ti sussurra
meravigliata, poggiando il mento sul palmo della mano ed iniziando a
focalizzare l’attenzione solo ed esclusivamente su di te.
“Io
lo chiamerei inquietante.” brontoli tu, lanciando di tanto in
tanto delle
piccole occhiate ad Amber.
“Però
non è stata un’allucinazione – Jenny
riesce ad attrarre nuovamente la tua
attenzione, iniziando a riflettere ad alta voce –
È stato solo un sogno.
Intendo quello dovuto all’incidente. Se dici di esser
svenuto…”
“Già,
forse ha ragione.” Vedi che Amber adesso si trova alle spalle
della psicologa,
seduta sul tavolino dietro, mentre inizia a riflettere su
quell’ultima
esclamazione.
“Si.”
bisbigli confuso, abbassando il capo nell’atto di riflettere.
In
realtà era stato solo un sogno. Lo sai benissimo.
E
adesso ti domandi come mai dalla tua bocca è uscito
quell’argomento.
“Eppure
Amber, il tuo subconscio, ha voluto che tu me lo dicessi.- la psicologa
inizia
a sorridere intrigata, e ciò che lei ha appena detto sembra
darti non poco
timore – Capisci cosa vuol dire?”
La
vedi gesticolare convinta, muovendo entrambe le mani con forte passione
mentre
quelle parole le escono dalla bocca. È come se ti stessi
guardando allo
specchio, come se stessi notando quella scintilla che ti aveva sempre
spinto
nel risolvere i tuoi amati casi clinici.
E
adesso, tu eri il suo caso.
Tu
eri diventato la sua passione, il suo mistero da svelare.
“Spiegamelo.”
le sussurri incuriosito.
Noti
che adesso anche Amber è concentrata sulla psicologa,
curiosa anch’ella del
verdetto.
“Hai
sempre pensato che il tuo problema fosse il vicodin, la tua droga.
– inizia
Jenny - Eppure non ti sei mai reso conto che la tua vera droga
è sempre stata
lei: Lisa Cuddy.”
“Cosa
diavolo stai blaterando…?!”
“È
così Greg! Persino il tuo subconscio cerca di fartelo
notare. Ti ha appena
fatto ricordare altre tue esperienze simili a queste allucinazioni
proprio per
questo, per sottolineare tutto questo. – ti spiega con enfasi
- …non mi
stupirei se Amber o Kutner avessero cercato di convincerti a
dimenticarla o ad
allontanarti da lei.”
Senti
un brivido percorrerti la schiena.
“Le
tua allucinazioni… tutto, è basato su di
lei.”
Guardi
Amber, cercando il suo sguardo. Noti che anche lei ti guarda ma,
contrariamente
dalla tua espressione sconvolta, lei sorride.
La
vedi abbassare lo sguardo verso Jenny, come fosse attratta dalla
genialità di
quella donna.
La
psicologa aveva ragione.
Per
tutto quel tempo il tuo subconscio aveva tentato di farti dimenticare
Lisa
Cuddy… e adesso sai il perché.
“È
così Gregory… il tuo unico
problema è lei. – Kutner lo destò dai
suoi pensieri per la seconda volta nel
giro di pochi minuti, facendogli riaccendere la frustrazione che tutto
quello
gli stava creando - È lei l’iceberg contro il
quale stai picchiando la testa.”
“Perché…?”
sussurrò tra se Gregory
House, passandosi una mano in fronte, sconvolto al ricordo di quelle
parole.
Amber si avvicinò alla sponda del
letto con passi lenti.
“Perché lei non ti ama. Tu continui
ad immaginare che non sia così… e invece lo
è. Renditene conto. – si era
fermata davanti a lui, in mano una vecchia foto dei tempi
dell’università che
man mano che lei parlava andava svanendo – Solamente in
questo modo riuscirai a
controllare te stesso.”
Il diagnosta la fissava
interdetto, conscio di ciò che quelle parole stavano a
significare.
Vide la foto di quei due giovani
svanire debolmente, sconfitto.
Si mise a sedere sulla sponda del
letto, chinando la testa sulle proprie mani.
Ciò che il destino gli stava imponendo
era dura da reggere come emozione.
Era stanco di sopportare.
“Conosci la diagnosi… adesso devi
solamente iniziare la cura. Se ne hai il coraggio. –
sentì la voce di Kutner
seguire quella di Amber, il suo tono era identico a quello della
dottoressa – E
non cercare vie traverse, perché poi, alla fine, ne rimarrai
sconfitto
comunque. Come è stato per la tua gamba.”
Sentì la propria pelle gelarsi al
suono di quelle parole.
Odiava Kutner, odiava Amber,
odiava tutto ciò che loro continuavano a sbattergli in
faccia. Ed odiava il
loro ruolo in tutto quello.
Odiava se stesso.
La porta si
aprì improvvisamente,
costringendolo ad alzare lo sguardo verso colui che aveva osato aprirla
senza
un minimo di permesso.
“Ciao – il caro vecchio Bill era
adesso davanti i suoi occhi, fermo sull’uscio della porta
– Come va?”
“Se non te ne vai, male.”
“Siamo nervosetti…- gli sorride, senza
però entrare nella stanza – Devo dedurne che con
la psicologa non è andata
molto bene.”
“Non avevi detto che oggi non mi
avresti girato intorno?!”
“Si, ma solo fin quando stavi con
Jenny Dawson.”
House gli gettò un’occhiataccia,
grattandosi il capo con fare nervoso “Perché sei
qui?”
“Volevo ricordarti che è ora di
cena. Ti aspetto all’ascensore.” si
limitò a dire l’uomo, velocemente, giusto
per assolvere al suo dovere. Poi si voltò, andando per
richiudere la porta.
Ma il suono di questa fu
praticamente assente.
House alzò nuovamente lo sguardo,
notando che il medico, bloccandosi nel suo gesto, l’aveva
riaperta.
“Ah, quasi dimenticavo – riprese
– Questa mattina ti cercavano. Ha chiamato una certa Lisa
Cuddy.”
Vi fu un attimo di silenzio.
Amber e Kutner si scambiarono due
sguardi vaghi d’intesa.
“Ok, grazie.” sussurrò House dopo
qualche istante, congedando definitivamente il medico.
Sospirò, vedendo la porta
chiudersi di fronte a sé e, mettendosi in piedi, prese il
proprio bastone tra
le mani.
Chiuse gli occhi, riflettendo sul
da farsi.
Era stanco di tutto quello che
aveva attorno.
Era stanco di continuare a vivere
una vita piena di ozio. Strano da parte sua, ma avrebbe pagato per
poter
tornare al proprio lavoro.
Avrebbe dovuto lottare e la cosa
non si sarebbe di certo rivelata facile, lo sapeva.
Ma cel’avrebbe fatta.
Era stanco delle sue
allucinazioni, dei suoi tormenti e di tutto quello che vi girava
attorno.
Sapeva benissimo che quel che Bill
qualche attimo prima gli aveva detto era solamente frutto della sua
fantasia.
Ormai aveva iniziato a capire la sua mente e le sue tattiche.
E sapeva benissimo che Cuddy non
avrebbe mai osato chiamarlo.
Non dopo tutto quel tempo.
Non così all’improvviso.
Era stata tutta un’ennesima
allucinazione, senza dubbio.
Si voltò verso Amber e Kutner,
sul volto un’espressione ferma, convinta.
Se il problema era quello, la
soluzione era solamente una: dimenticare lei.
Dimenticare tutto ciò che
rientrava in lei o che viveva nei suoi ricordi.
Doveva
dimenticare Lisa Cuddy.
“Sono
pronto.” sussurrò ai due
medici, consapevole del valore di quella affermazione.
E fu allora che, per la prima
volta dopo tre duri e pesanti mesi, le figure di Amber e Kutner
iniziarono a
svanire davanti ai suoi occhi. Sul loro volto, finalmente,
un’espressione di
vittoria.
To
be continued…
|
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Capitolo 9 *** #8 Capitolo ***
Salve gente!
Come promesso, tornata dalle vacanze, eccovi un nuovo capitolo!
Perdonatemi ancora per l'attesa!
Ve lo lascio... sperando che possa piacervi, anche se personalmente non
lo reputo una cosa fantastica. Nutro invece particolari speranze per il
prossimo... :P
Ok, basta! evitiamo anticipazioni... XD
Enjoy it!
Era
una fresca serata primaverile. Il sole stava per abbandonare cielo,
mentre
ancora si poteva sentire l’umidità della pioggia
appena caduta sovrastare la
zona.
Il rumore di una macchina accesa rompeva la silenziosa atmosfera del
giardino dietro la clinica psichiatrica, mentre si udiva perfettamente
il suono
di passi pesanti a contatto con l’erba bagnata.
L’uomo aprì il bagagliaio della macchina con fare
disinvolto, mettendoci
dentro tutto il necessario. Lo richiuse velocemente, voltandosi poi a
dare un
ultimo sguardo alla clinica alle sue spalle.
Il palazzo era imponente nel suo complesso, articolato in mille e
più
stanze.
Quanti brutti ricordi stava abbandonando lì
dentro… troppi probabilmente.
Ma adesso, a distanza di quattro mesi, stava per dire addio a quel
palazzo.
Essere felice o meno per questo, adesso, dipendeva tutto da lui.
“Dimentichi nulla?” la voce di una donna
attirò la sua attenzione mentre,
deviando velocemente lo sguardo dall’edificio, Gregory House
andava a prendere
posto all’interno dell’auto.
“No. – bisbigliò, quasi emozionato
– Andiamocene.”
CHAP
8
Così come si provocano o si
esagerano i dolori dando loro
importanza, nello stesso modo questi scompaiono quando se ne distoglie
l'attenzione.
(Sigmund
Freud)
Gregory
House sentì quasi un brivido nel girare la chiave nella
serratura
della porta che aveva di fronte. Aprì la porta di casa con
lentezza, mentre il
cigolio di questa accompagnava il suo sguardo verso il cupo interno.
Ricordò casa sua con una nostalgia che mai avrebbe pensato
di provare.
Varcò l’entrata, andando a cercare
l’interruttore della luce. Quando le
lampade si accesero ed illuminarono il salone, si poté
vedere il disordine che
vi regnava all’interno. Era normale, per lui del resto quello
era sempre stato il
vero ed assoluto ordine.
Fece qualche passo, entrando nel salone e bloccandosi al centro di
questo. Il suo sguardo vagò libero, posandosi prima sulla
fredda superficie del
pianoforte, su quei tasti bianchi e neri ancora scoperti
dall’ultima volta che
l’aveva suonato. Le sue chitarre erano ancora sulla parete,
tranne una: quella
classica. Ricordava ancora la melodia che aveva composto quella volta
quando,
stanco di una giornata lavorativa, si era deciso a comporre qualcosa di
nuovo.
Fu colto da mille ricordi, nostalgie.
La sua amata tv, il divano dove faceva dormire Wilson nei giorni
più bui
per l’oncologo, ma divertenti per lui.
Entrò zoppicando in cucina, accendendo anche lì
la luce della lampada.
Aprì il frigorifero, notando che ormai
l’apparecchio era spento e vuoto. Capì
subito che Wilson era stato a casa sua dopo il suo ricovero, per
sistemare ciò
che doveva esser sistemato. Il minimo indispensabile.
Rimase a guardare lo spoglio interno di quel frigorifero mentre la
mente
andava a ricercare ricordi passati.
Ormai non sentiva Wilson da molto tempo.
Più di una volta era tornato a trovarlo in clinica
nell’ultimo mese ma
lui aveva sempre rifiutato di vederlo o di parlare con lui,
categoricamente. In
realtà non sapeva nemmeno il perché. Il fatto che
l’ultima volta che si erano
visti l’oncologo gli aveva rinfacciato i suoi
non-progressi… l’aveva spinto a
non voler più farsi vedere nemmeno da lui. Odiava essere
commiserato. Odiava il
fatto che qualcuno gli sbattesse in faccia la vera e cruda
verità. Anche se era
strano da parte sua pensarlo, del resto quella era la cosa che aveva
sempre
fatto lui con tutti.
Eppure, solo ora si rendeva conto di quanto potesse essere dura e di
quanto i sentimenti potessero influenzare tanto un’amicizia.
Ci vogliono anni per coltivare una relazione con qualcuno, per renderla
una amicizia come quella che c’era stata tra lui e James
Wilson. Eppure, non ci
vollero nemmeno 10 minuti per distruggerla. Poche parole da parte
dell’oncologo
e lui aveva mandato all’aria tutto ciò che Wilson
per lui simboleggiava: un
amico.
Ma adesso era a casa.
Era tutto finito.
E forse sarebbe tornato tutto alla normalità.
Forse.
“Wow, non ti avevo mai visto così concentrato
nella contemplazione di un
frigorifero...”
Una voce lo destò dai suoi pensieri, costringendo a voltare
lo sguardo
“Effettivamente mi mancava il mio vecchio frigo.. ah, quanti
bei ricordi…”
“Già, non oso immaginarli. - la donna si
avvicinò a lui, chiudendo lo
sportello del frigo e guardandolo con aria sospettosa – Tutto
a posto?”
“Avevo fame, il frigo è vuoto… ma non
lo classificherei ancora come un
trauma. Aspetterei qualche ora per questo.”
Jenny Dawson gli sorrise divertita, andando ad aprire il rubinetto
della
cucina per vedere se l’acqua scendeva “Ok. Allora
aspetterò fino a questa sera
per rifarti la domanda.”
House la vide voltargli le spalle e uscire dalla cucina.
Cielo, quanto detestava quella psicologa quando non si impegnava a
rompergli le scatole!
“Non avrai intenzione di rimanere qui fino a questa sera,
spero.” la
seguì nel salone, chiudendo il rubinetto
dell’acqua che pochi istanti prima la
donna aveva aperto.
Jenny si voltò verso di lui, con aria sorpresa
“Sono già le 20.00. Se
vuoi che me ne vada… non ci sono problemi.”
House si sorprese nel vedere quanto la donna di fronte a lui avesse
preso
sul serio quelle parole.
“No.” la guardò ovvio.
Jenny sorrise amichevole, capendo, in quel momento,
l’importanza del suo
ruolo.
“Allora….- si mise le mani ai fianchi, inclinando
leggermente il capo –
Andiamo a mangiare qualcosa?”
House aprì l’armadio a muro, iniziando a rovistare
“No.”
“Credevo avessi fame.”
“Ho detto che il problema si sarebbe presentato tra qualche
ora…- spiegò
il diagnosta con ovvietà, mentre continuava a rovistare tra
vari scatoloni – Se
poi il tuo concetto di ora è così limitato, il
problema non è mio.”
“Che diavolo stai combinando?”
House sbuffò seccato, continuando la sua ricerca.
“Greg?!”
“Non dirmi che Wilson ha fatto sparire pure il
Whisky?!”
Jenny si avvicinò perplessa al diagnosta “Tu tieni
il Whisky dentro l’armadio
con le scarpe?”
House si voltò titubante, poi fece spallucce
“Storia lunga.”
“Ok, credo che il tuo amico abbia fatto, come mi sembra
doveroso che
qualcuno faccia ogni tanto, un po’ di piazza pulita in
casa.”
Gregory House sbuffò nuovamente, staccando da una cruccia un
cappotto
leggero e buttandoci dentro la giacca che teneva addosso.
“Che fai?”
“Andiamo”
“Dove di preciso?”
“A bere qualcosa.”
*
* * * * *
Gregory
House e Jenny Dawson entrarono in un piccolo locale abbastanza
frequentato, a metà strada tra casa di House e
l’ospedale di Princeton.
Luogo vicino e poco impegnativo, spesso frequentato dal diagnosta nei
primi anni lavorativi in quella città.
Eppure, nonostante la folla all’interno del locale, i due riuscirono presto a trovare
un tavolino dove
sedersi.
House ordinò subito un bicchiere di Whisky mentre Jenny
preferì qualcosa
di più leggero. Se c’era una cosa in cui lei ed
House non si assomigliavano per
niente, quella era il vizio di bere.
House beveva alcol come fosse acqua.
Jenny beveva alcol come se fosse droga, ergo: proibita.
“Ti senti meglio adesso?” sospirò
rassegnata, nel vederlo mandar giù il
terzo bicchiere di Whisky.
“Cameriere, un altro prego!” annuì
House, intonando un modo di parlare
non molto tipico della sua persona.
“Piantala o puzzerai di alcol per un mese intero!”
“Rilassati. – la rassicurò lui,
inclinando il capo nella sua direzione – È
tutto a posto. Ci vorrebbero almeno due barili di alcol puro per
rendermi
brillo.”
“Beh, non è una giustificazione per farlo! Non sai
che l’alcol fa male al
fegato?”
“Tu piuttosto, prendi qualcos’altro. Offro
io.” la ignorò lui.
Jenny scosse il capo, scossa da quel suo atteggiamento.
Il cameriere non tardò ad arrivare e nel giro di poco ad
House venne
servito anche il quarto bicchiere. House fece un sorrisino soddisfatto
nel
vedere il bicchiere posarsi sul tavolo e inarcando le sopracciglia in
un
espressione di gioia lo prese e fece per portarlo alla bocca quando,
improvvisamente, lo sentì appesantirsi.
Jenny Dawson aveva messo la mano sul bicchiere, facendo pressione in
modo
che il diagnosta fosse costretto a riposarlo sul tavolo.
“Non posso vederti fare così. –
esclamò poi – Non è tutto a posto, lo
sai
benissimo. Te lo si legge in faccia.”
House la guardò rassegnato, mollando la presa dal bicchiere.
Sbuffò.
Come al solito, Jenny aveva colpito un punto debole.
La donna si rilassò, sospirando “Cosa pensi di
fare?”
“Domani vado in ospedale. Devo riprendere a lavorare o
impazzirò
veramente.- le rispose House, assumendo un tono ed uno sguardo
piuttosto serio
– E quattro mesi di ospedale psichiatrico mi son bastati,
grazie.”
“Vuoi che ti accompagni?”
“Non
c’è bisogno. L’ho già fatto
altre volte.- la rassicurò ironico il diagnosta –
Anzi, grazie per il passaggio
a casa. Non penso avrei osato chiamare Wilson per farmi venire a
prendere.”
La psicologa lo guardò titubante, indecisa se dargli retta o
meno
“Sicuro?”
“È ora che io torni.” si
limitò a dire l’uomo.
Jenny sospirò, guardando l’ora
sull’orologio che portava al polso.
“Si è fatto tardi, devo tornare a sistemare le
ultime cose a casa. – bisbigliò,
alzandosi dalla sedia. Poi prese la giacca e, voltandosi verso House,
con un
sorriso sussurrò – Tu invece perché non
passi da Wilson? Gli farebbe piacere
sapere che sei stato dimesso.”
Il diagnosta fece spallucce “Gli farà lo stesso
piacere se mi vede
domani”
“Si ma se lo vai a trovare ora, assume tutto un altro
significato.”
“Ah, questo certamente! Soprattutto se sente che ho
bevuto!” ironizzò
House, strabuzzando gli occhi con fare disinvolto.
Jenny scosse il capo, rassegnata all’evidenza che House era
House… e che
nessuno poteva farci nulla. Anche se, e le dispiaceva, con la sua
cocciutaggine
stava allontanando tutti coloro che fino ad allora gli erano stati
vicini.
E questo, per lui, non era affatto un bene.
“Ci vediamo!” lo salutò con un cenno,
allontanandosi dal tavolino.
Sorrise nel vedere che al posto di rispondere al saluto House era
rimasto
con lo sguardo fisso sul bicchiere di Whisky ancora pieno, perso nei
suoi
pensieri.
Quello era un buon segno che fece capire subito alla psicologa
ciò che
stava passando per la testa al diagnosta.
House
rimase a fissare l’alcol contenuto nel bicchiere con insolito
interesse.
Il liquido sembrava voler scendere giù dai bordi da un
momento all’altro,
tanto ne era colmo l’oggetto di vetro.
“Fare visita a Wilson.” sorrise divertito,
prendendo finalmente in mano
il bicchiere e portandoselo alla bocca.
Bevve un sorso, poi lo riposò sul tavolo.
“Wilson.” ripeté tra sé e
sè.
La verità era che gli mancava troppo la figura
dell’amico. Gli mancavano
le serate passate a mangiare pizza, a bere e a sparlare le infermiere
più
antipatiche… o quello che l’oncologo riusciva a
portarsi a letto. Gli mancavano
i suoi rimproveri, le ramanzine, le lavate di capo che gli facevano
venire le
idee più assurde per risolvere i casi clinici più
impossibili.
Gli mancava il suo lavoro.
I suoi sottoposti.
Gli mancava lei: Lisa Cuddy.
Ebbene si, durante quell’ultimo mese che aveva passato nel
tentativo di
dimenticarla… non ne era stato capace.
L’unica cosa che l’aveva aiutato a venirne fuori
era stato il fatto di
riuscire a controllare i sentimenti per lei.
Perché per Gregory House, dimenticare Lisa Cuddy, era come
ammettere di
non sapere nulla di medicina.
Scostò la sedia con fare improvviso, ricacciando indietro
quei pensieri e
deciso in quel che doveva fare.
Si mise in piedi, prendendo in mano la giacca e posando sul tavolo un
paio di banconote.
Jenny aveva ragione.
Jenny aveva sempre ragione.
Si diresse con passo spedito verso l’uscita del locale,
salendo i due
scalini che immettevano nell’ingresso dove vi stava il
bancone.
“Me
ne dia un altro bicchiere.”
Un
sussurro.
Una voce familiare.
House bloccò il passo, sul pavimento il tonfo del bastone
rimbombò quasi
delicatamente.
Si era forse sbagliato?
Si voltò verso il bancone, notando la figura di una donna,
seduta di
spalle, mandare giù velocemente il liquido contenuto nel
bicchiere che pochi
attimi prima il barista le aveva riempito.
Era vestita con dei pantaloni scuri e una camicia color panna, mentre
dei
capelli castano scuro le scendevano un po’ sotto le spalle.
Sentì un brivido percorrergli la schiena al pensiero che
quelle spalle
potessero appartenere a Lisa Cuddy.
No, impossibile.
Lei non era il tipo da stare in locali del genere la sera tardi, da
sola poi.
Si stava sicuramente sbagliando… infondo aveva mandato
giù un bel po’ di
Whisky quella sera, no? Sa quante donne possono avere quel tipo di
capelli e la
voce identica alla sua!... mica era unica nel suo genere!
Strinse il manico del suo bastone con insolito nervosismo, senza
nemmeno
rendersi conto di essersi fermato nel bel mezzo del locale a fissare
una donna
seduta di spalle.
E destino vuole che ogni volta che una persona fissa qualcuno in
maniera
così intensa, quel qualcuno è sempre arcanamente
chiamato a voltarsi.
E questo fu quel che accadde in quell’istante.
Vide il suo viso voltarsi debolmente a guardare in dietro, gli occhi
stanchi.
No, non si era sbagliato.
Era proprio lei.
Era Cuddy.
Sentì l’impulso irrefrenabile di ignorare il suo
sguardo e di uscire
prima che lei potesse rendersi conto della sua presenza…
ciononostante rimase
immobile nella sua posizione.
La dottoressa guardava proprio nella sua direzione adesso, sul viso
un’espressione confusa. Poi, improvvisamente, il terrore.
Si era resa conto di chi aveva di fronte.
Si era resa conto che di fronte a sé ci stava Gregory House.
La vide sussultare mentre le sue labbra andavano aprendosi in un
espressione attonita.
“House?!”
La domanda adesso
era
una sola:
…sarebbe stato in grado di ignorarla ed uscire
dal locale?
To
be continued…
|
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Capitolo 10 *** #9 Capitolo ***
Salve gente!
E come sempre, settimana trascorsa, capitolo nuovo!
Però
devo scusarmi con voi... questo capitolo non era nato per essere come
tale!... infatti, mi son trovata costretta a dividerlo a
metà,
altrimenti non avrei trovato mai il tempo di postarlo oggi. (dato che
ormai posto ogni venerdì)
Purtoppo
ho avuto dei problemi a casa e ultimamente mi sto ritrovando a fare io
tutte le faccende domenstiche. Sto tutto il tempo fuori poi a fare
spesa, e a risolvere altri problemi personali.
Mi dispiace dirlo ma
penso che a breve non riuscirò più a continuare
con questa puntualità
settimanale. Prometto di mettercela tutta, ma non vi assicuro nulla.
Intanto vi lascio a questo chap.
Spero vi piaccia!
ah, un ultima cosa.
So
che quel che accadrà non sarà una cosa da voi
calcolata, ma sto
immaginando questa parte della storia da molto tempo ed ha uno scopo
ben preciso.
So, enjoy it!
La dottoressa Cuddy guardava proprio nella sua
direzione adesso, sul
viso un’espressione confusa. Poi, improvvisamente, il terrore.
Si era resa conto di chi aveva di fronte.
Si era resa conto che di fronte a sé ci stava Gregory House.
La vide sussultare mentre le sue labbra andavano aprendosi in un
espressione attonita.
“House?!”
La domanda adesso era una sola:
…sarebbe stato in grado di ignorarla ed uscire dal locale?
CHAP
9
Quello
che non può la riflessione, può e fa
l'irriflessione.
(Giacomo Leopardi)
“House?!”
Al
sentire pronunciare il suo nome con quel tono, gli sembrò
quasi d’esser
stato schiaffeggiato e risvegliato da quell’attimo di trans
confuso nel
quale era caduto.
Rimase immobile, in silenzio.
I loro sguardi
erano persi l’uno nell’altro e nessuno dei due dava
segno di voler
cedere mentre la gente attorno a loro sembrava appartenere ad un mondo
a parte.
Se una situazione del genere gli fosse accaduta qualche
mese prima lui avrebbe iniziato subito a sparare a raffica qualche
commentino acido su di lei o su un ipotetico e, probabile, stupido
motivo che l’aveva spinta ad andare a quell’ora in
un locale sola
soletta.
Si, un tempo.
Al momento, ciò che riusciva a fare era
cercare di trovare un modo per evitare uno strano ed inquietante
imbarazzo e, possibilmente, anche un dialogo.
Ma lei lo precedette.
“Non ci posso credere.- bisbigliò sorridendo
divertita, strofinandosi gli occhi con fare stanco – Ho
bevuto troppo.”
“Eh?” il sopracciglio di House si
inarcò, in un atto di pura sorpresa.
Cuddy
si voltò verso il barista, ignorandolo. Gli
allungò il bicchiere vuoto
che ancora teneva in mano “Guardi, me ne riempia un altro
bicchiere.”
Un
sorriso sfacciato si allargò sul volto di Gregory House,
mentre tutte
le preoccupazioni di qualche attimo prima andavano a farsi benedire.
Solo
il fatto di rivederla, di trovarsi in una situazione del genere con lei
combinata in quelle condizioni, ubriaca, lo metteva stranamente a suo
agio.
Interessante. Pensò intrigato, zoppicando
verso il bancone e sedendosi su uno sgabello accanto a lei.
Se
pochi attimi prima aveva avuto il timore di stare davanti ai suoi
occhi, adesso, come se vederla avesse riacceso in lui il proprio
spirito da buon cinico, non voleva far altro che sfruttare quella
situazione.
“Qualcosa di forte per me!” esclamò,
richiamando
l’attenzione del barista, mettendo una banconota sul bancone
ed
iniziando ad osservarla con la coda dell’occhio.
Cuddy fece finta di ignorarlo, fissando il proprio sguardo sul
bicchiere che stringeva in mano.
House
si era adagiato adesso con nonchalance, il braccio posto in verticale
sul bancone in modo che la mano sinistra potesse sostenergli il mento,
mentre la fissava incuriosito da quel suo atteggiamento.
“Ecco.”
l’uomo al di là del bancone gli mise davanti un
bicchiere colmo di
chissà cosa, voltandogli poi le spalle per tornare a
lavorare.
“Alla
salute!” fece il diagnosta, alzando il bicchiere verso Cuddy
in modo da
poter attirare la sua attenzione. Poi lo portò alla bocca,
bevendone un
bel sorso.
“Ti diverti?”
La sua voce lo portò a posare nuovamente lo sguardo su di
lei.
“Non ancora.”
Cuddy deviò di nuovo il suo sguardo, iniziando a
tamburellare le dita contro il legno del bancone.
“Che stai facendo?” al diagnosta venne spontanea la
formulazione di quella domanda.
“Evito
che la gente mi veda parlare sola.- borbottò la dottoressa,
senza
degnarlo di uno sguardo –le proprietà chimiche e
bio-chimiche contenute
in sostanze come l’alcol, sono in grado di indurre variazioni
nel
funzionamento dei neurotrasmettitori nel sistema nervoso, in modo da
alterare lo stato cosciente. Ergo: allucinazioni.”
“Hm… sei piuttosto sveglia per una che
è arrivata alla fase acuta di ubriachezza da
alcol.” commentò House sarcastico.
“Anche se ubriaca, non inizio a dare di matto come qualcuno
di mia conoscenza.”
House le fece un sorrisino sfacciato “Mia cara, tu mi
confondi con Wilson.”
Vide Cuddy voltarsi verso di lui, sul suo volto
un’espressione stanca.
“Avrei dovuto immaginarmelo. Pure se ti immagino, mi rompi le
scatole.”
“Niente di personale. Ordinaria amministrazione.”
gli sorrise House, divertito da quella situazione alquanto bizzarra.
Ma cosa stava accadendo?!
Erano
uno affianco a l’altra. Entrambi non si vedevano da un sacco
di tempo…
eppure, nessuno dei due voleva dimostrare all’altro quanto
questa
distanza fosse stata pesante da sostenere.
Cuddy era ubriaca, House
lo sapeva. E sapeva bene che per lei, in quel momento, lui era solo
un’immagine sfocata di un’ipotetica allucinazione
da sbronza.
Ma lui invece? Che stava combinando?
Si stava divertendo a fare lo stronzo come al solito.
Ma era proprio questo che lo stava mettendo a suo agio.
Abbassò
lo sguardo, dandosi dell’imbecille per quel comportamento.
Poteva,
almeno una volta, tentare di mettere da parte il bastardo che
c’era in
lui?
Beh, provare non costava poi tanto.
“Da quanto tempo sei qui?- House guardò
l’orologio che, in quel momento, segnava le 11:15 - Non devi
andare a lavoro domani?”
“C’è una bella differenza tra domani ed
oggi.”
“Già,
pari a 45 minuti da ora.- concordò il diagnosta canzonatorio
– e
Rachel? Cos’è, l’hai messa in un
collegio e te la sei svignata?”
“Non
ci posso credere. – Cuddy si coprì il volto con le
mani, corrugando la
fronte e cercando di non guardare davanti a se, gesto puramente
spontaneo quando tutto intorno a te inizia a prendere una piega troppo
caotica – Stai forse cercando di darmi delle lezione di
vita?”
“Hai
ragione. – House ci rifletté un attimo - Mi sa che
questa sera ci siamo
invertiti i ruoli. Tu ti ubriachi ed io ti rompo le scatole.”
La dottoressa lo guardò torva, come se avesse da ridire
contro quell’esclamazione. Poi abbassò lo sguardo
rassegnata.
No, forse non aveva nulla da ridire infondo.
“Va bene.- la vide alzarsi dallo sgabello, barcollante
– Me ne vado.”
“Cosa?” si alzò anche lui, tentando di
capire cosa era opportuno fare.
“Hei! Qualcuno deve pagare qui!” si
lamentò il barista, vedendo che anche lui aveva intenzioni
di andarsene.
House
roteo lo sguardo, esasperato. Aprì il portafoglio, estraendo
un po’ di
denaro che poggiò sul bancone e si diresse fuori, sperando
che Cuddy
non si fosse già infilata in qualche macchina.
Chiusa la porta del
locale alle sue spalle, non vide nessuno davanti a se e per un breve
attimo temette di averla persa di vista.
Poi, improvvisamene, un rumore alla sua destra.
Si voltò.
Cuddy era ferma, la mano destra poggiata sulla parete del locale nel
tentativo di sostenersi.
House sorrise “Ti ha mai detto nessuno che sei molto carina
quando cerchi di stare in piedi?” la sbeffeggiò.
La donna chiuse gli occhi “Se mi concentro tu
sparisci.”
“Magari fosse così facile.”
bisbigliò House tra se e se, rammentando tutto il periodo
passato in compagnia di Amber e Kutner.
Sentì il rumore dei suoi passi, pesanti e lenti, dirigersi
verso l’auto di fronte a loro: l’auto di Cuddy.
Arrivato a quel punto, da buon gentiluomo, avrebbe dovuto prenderla,
ammanettarla e costringerla a non mettersi alla guida.
D’altra parte, una vocina dentro di lui, gli urlava di
lasciarla in pace.
Tutto quel tempo nel tentativo di far sparire quei
sentimenti… e poi? Poi tornava a strisciare dietro di lei?
Cosa
sarebbe successo se si fosse lasciato andare nuovamente… se
tutto
sarebbe tornato ad essere solo una lontana illusione per lui?!
Sarebbe riuscito a resistere?
No.
Non avrebbe dovuto.
Lisa Cuddy era fiera di se stessa.
Era
passato qualche minuto, gli occhi ancora chiusi, e di House nemmeno
l’ombra. Non un suono, non una voce proveniva più
dalle sue spalle.
Se ne era andato.
Teneva
ancora gli occhi serrati mentre ogni tanto li riapriva debolmente nel
tentativo di individuare la posizione della sua auto per poi
richiuderli alla semplice percezione della luce dei lampioni che
illuminavano la strada, troppo forte da reggere nello stato in cui si
trovava.
Aveva bevuto troppo, lo sapeva. E probabilmente si stava
pure rovinando andando avanti in quel modo… ma non riusciva
a fare
altrimenti.
Fece un altro passo, ormai vicina all’auto, quando
improvvisamente sentì le gambe cederle. Poggiò
anche l’altra mano sulla
parete, nel tentativo di rimanere in piedi, quando sentì una
salda
presa cingerle la vita.
Lisa sussultò, visibilmente stordita.
Aprì gli occhi, notando che adesso Gregory House la stava
sorreggendo.
“Ti
accompagno a casa. – borbottò lui, quasi
vergognandosi di ciò che stava
dicendo – Ma solo perché da domani
dovrò tornare a lavorare. E mi
dispiacerebbe scoprirti una cerebrolesa a causa di un incidente.
Già
che dovrò tentare di farmi riassumere facendo i conti con i
postumi di
questa tua maledetta sbronza.”
Cuddy mise una mano sulla sua spalla,
cercando di rimettersi in piedi “Sei troppo gentile, non me
lo merito.”
brontolò sarcastica.
House fece una smorfia.
“Già, hai
perfettamente ragione – commentò acido mentre,
sostenendola,
l’accompagnava verso l’auto – Solamente
per il fatto che stai tentando
di stare in piedi sorreggendoti ad uno zoppo.”
Cuddy rise di gusto “Non sei cambiato per niente,
House.”
“Vorrei poter dire la stessa cosa di te.”
Sentì
le sue braccia stringerle la vita, sentì lui prenderle il
braccio e
farlo passare sopra il proprio collo così da sorreggerla
meglio; Sentì
un brivido, quasi come se avesse avuto l’impressione di
essere avvolta
in un abbraccio celato.
‘Un allucinazione…’
si disse tra se e
se, lasciando scivolare una lacrima giù lungo la guancia,
silenziosa e
veloce, coperta dall’oscurità della notte.
Sentì una folata di vento sfiorarle il volto, scompigliarle
i capelli. Le palpebre iniziarono a socchiudersi pesantemente.
Poi, improvvisamente, il buio.
To be continued….
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Capitolo 11 *** #10 Capitolo ***
Ecco quì un nuovo chap di Inside!^^
Spero possa piacere!
Purtroppo noto che ultimamente con questi ultimi capitoli sto andando
un "tantinello" OC! Perdonatemi.
Dal
prossimo in poi, dove la storia inizierà ad ambientarsi
finalmente al
PPTH, spero di riuscire a rientrare dentro i parametri dell'
IC.
Vi lascio questo chap comunque!
Enjoy it!
CHAP
10
Il
più solido piacere di questa vita, è il piacere
vano delle illusioni.
(Giacomo Leopardi)
Quante volte vi è capitato di sentirvi intrappolati?
Estranei dal mondo ma, contemporaneamente, imprigionati in esso?
Questo è ciò che in quel momento fu il suo
pensiero.
Una lotta.
Contro tutti.
Contro se stessa.
Lisa Cuddy aprì debolmente gli occhi, attorno a lei solo
confusione.
Poi tutto divenne buio, non un suono poteva intaccare quello stato di
quiete in cui era caduta.
Un ricordo le attraversò la mente.
Mangi in silenzio ciò che sta nel piatto davanti a
te.
Sei lenta nei movimenti, quasi stessi mangiando con sforzo.
Sai che lui ti sta fissando e sai anche che è preoccupato. E
questo tu non lo vuoi. Per questo hai accettato di cenare con lui.
“Sono contento che hai accettato di uscire.” ti
dice dopo poco, sorridendoti amichevole.
Tu alzi lo sguardo, mostrandogli un sorriso tirato “Si, un
po’ di svago mi fa bene. Lavoro troppo.”
Lui annuisce, orgoglioso di sentirtelo dire.
Riabbassi lo sguardo, portando una forchettata di insalata alla bocca.
Hm…non male.
“Lisa…
- ecco, lo sapevi. Era inevitabile attendersi l’attacco verso
la
propria vita privata – Come posso aiutarti? Ti vedo sempre
così giù di
morale.”
“Lascia stare, per favore.” sussurri, con un tono
che va tra il rassegnato e il frustrato.
Eppure, lui non sembra voler cedere.
Ti guarda pensieroso, sospirando un “Non è colpa
tua.” che non fa altro che farti innervosire.
“Wilson
– prendi il tovagliolo che sta sul tavolo e ti pulisci un
po’ le
labbra, lo posi nuovamente e torni a guardare il suo volto –
House è in
un manicomio a causa mia. Ne sono responsabile fino al
midollo… non ho
bisogno di sentirmi dire che non è
così.”
“House è in un manicomio
perché la sua mente è impazzita.- ti spiega lui
deciso, come per
controbattere alla tua offensiva – Le allucinazioni sono
dovute a una
disfunzione celebrale legata alle quantità di dopamina che
il cervello
usa per trasmettere i suoi impulsi. Non vedo cosa tu possa aver causato
o danneggiato, a meno che non gli hai infilato farmaci alla dopamina
dritti in gola mentre dormiva, dubito che tu possa aver scatenato
qualcosa.”
Sospiri.
La serata non sembra voler essere delle più leggere.
“Dovresti
sapere che secondo l'interpretazione freudiana è comunque
noto che a
condizionare la produzione di sostanze nel nostro organismo sono le
emozioni.” esclami stanca.
Se era una battaglia di conoscenze quella che Wilson voleva, allora
aveva trovato la persona sbagliata con cui farla.
Wilson è consapevole di star difendendo una causa persa.
Glielo leggi negli occhi.
Eppure, infondo, ti fa piacere che lui si stia adoperando tanto per
farti star meglio.
Forse lui non lo sa, ma già ti sta aiutando più
di quanto immagina.
“Lisa, voglio solo dire che…”
“Se
ti trovi in un deserto, immagini dell’acqua; Se sei morto di
fame,
immagini del cibo. – gli spieghi con ovvietà, sul
tuo viso la stessa
espressione di quando tentavi di far non-capire a Wilson che baciare
House fosse stata la cosa più bella che ti fosse accaduta
nella tua
vita - L’uomo non ha mai delle allucinazioni che non
rientrino nei suoi
desideri. Mai. Ed io ho dato ben troppo da desiderare ad
House.”
Una luce, un forte bagliore le accecò la vista di quelle
immagini.
Fece una smorfia, andando ad aprire gli occhi, anche se con fatica.
Si era forse addormentata?
Si
guardò intorno, era in una macchina. Una cintura la teneva
ben salda al
sedile mentre di fronte a lei vedeva scorrere veloci le auto che
venivano dalla corsia opposta che, ripetutamente, andavano ad
illuminarle il volto con i fari accesi.
Era buio attorno a lei.
La testa continuava a pulsarle, mentre un forte senso di nausea le
disturbava lo stomaco.
Si mise una mano sulla pancia, facendo una smorfia.
Ora ricordava… aveva bevuto.
“Finalmente ti sei svegliata.- una voce familiare
attirò subito la sua attenzione - Ti sto portando a
casa.”
Cuddy guardò la cintura con aria confusa
“È la mia macchina questa?”
“Direi
proprio di si. E non chiedermi come sono riuscito a trovare le chiavi.
Non penso ci dormiresti la notte.” disse lui, con un tono di
malizia
nella voce.
Cuddy si voltò verso sinistra, dove l’uomo era
concentrato a guadare.
Focalizzò meglio lo sguardo su di lui, per quanto le era
possibile dato il suo stato.
“House?!” sussurrò confusa.
“Si. Capisco che avresti preferito un bel macho-man
… ma per tua sfortuna sono sempre io.”
Quella
frase sembrò averla scossa alquanto. Si voltò
nuovamente verso di lui,
confusa, la fronte corrugata in un espressione dubbiosa.
Finalmente, da quando House era con lei quella sera, ebbe il coraggio
di guardare il suo volto per più di un breve istante.
Lo vide serio in viso, concentrato com’era alla guida.
Si soffermò un po’ di più sul suo
profilo.
Improvvisamente la dottoressa mostrò un debole sorriso,
anche se marcato da un misto di tristezza e dolcezza.
“Non è vero. Sono contenta che tu sia qui con
me.” sussurrò Cuddy, inclinando leggermente il
capo.
Era vero.
Qualsiasi cosa egli era, in quel momento, per la sua mente e per lei
stessa, di fronte a se aveva solamente lui. Gregory House.
Il diagnosta sussultò, voltandosi a guadare il suo viso.
“Mi
fa piacere.- si limitò a dire, concentrando poi la sua
attenzione in
una curva ben piazzata ed evitando di far trasparire la confusione che
in quel momento l’aveva assalito – anche se avrei
preferito sentirmelo
dire da una Cuddy un po’ meno ubriaca.”
Il tono di House sembrò quasi infastidito.
Lisa continuò a sorridere, chiudendo gli occhi nel tentativo
di cercare un po’ di pace “È un buon
modo, sai?”
“Ah,
si. Questo sempre.” la schernì lui, cercando di
capire di cosa in
realtà ella stesse parlando. Effettivamente tentare di
decodificare i
discorsi di Lisa Cuddy ubriaca era proprio una bella sfida!
“Mi aiuta a dimenticare. – la dottoressa aveva lo
sguardo rivolto vero il finestrino adesso – e a
sopportare.”
“Se
continui così non farai altro che rovinarti la vita. E dato
che tu non
sopporteresti una vita rovinata, impazzirai e basta.” House
non
riusciva a capire con quale sentimento aveva detto quelle parole.
Voleva forse offenderla o darle dei consigli?
Era frastornato, confuso. E questo non gli piaceva affatto.
“Almeno, avrei una scusa per andare a trovarti.”
sussurrò Cuddy con una smorfia, in un misto di vergogna e
rassegnazione.
“Oh
ma su questo non devi farti problemi. Non c’è
bisogno di impazzire per
farmi una visita. – la provocò House, quasi
volesse rimproverarla.
Ovviamente l’opzione, arrivati a quel punto, era offenderla
– Puoi
passare quando vuoi. Se poi vuoi essere ricoverata, basta che fai una
delle tue tante scenate isteriche e sta certa che in regalo ti danno
pure una camicia di forza.”
Cuddy rise di gusto, squotendo di tanto in tanto il capo.
House la guardò con la coda dell’occhio, dubbioso
se prenderla veramente sul serio. Insomma… era ubriaca, no?
Rideva sola!
“Alle
volte immagino di entrare in quella clinica – adesso Cuddy
aveva smesso
di ridere e si era voltata verso di lui, sul suo volto uno triste
sorriso – Eppure, per quanto bella può essere
un’immaginazione, ti vedo
sempre più triste. Mi guardi… ed ho quasi paura.-
fece una pausa,
chinando il capo con fare assente – So che cel’hai
con me.”
House rimase in silenzio.
Poteva
sentire il suo respiro diventare pesante, poteva immaginare il suo
petto sollevarsi ed abbassarsi al ritmo di quei respiri.
Eppure, contro ogni sua logica, non riusciva affatto ad immaginare
l’espressione del suo viso.
La macchina era buia nel suo interno. Un buio che non gli permetteva di
capire quanto serio potesse essere quel discorso.
Eppure, lo sapeva benissimo, lo era fin troppo.
“Mi manchi House.”
L’auto si fermò.
Attorno a loro il silenzio della notte che, di tanto in tanto, lasciava
udire il debole canto dei grilli.
Erano
giunti a destinazione, erano a casa di Cuddy. Adesso,
l’ultimo passo
era portarla in casa e chiamare un taxy per farsi venire a prendere.
Niente di più facile.
Nessun dialogo. Niente risposte.
Questo era quel che doveva fare per evitare il danno.
Ignorarla.
Eppure, non ne fu capace.
Rimase col capo chino a fissare il volante per qualche istante, poi
schioccò le labbra rivolgendosi verso di lei.
“Non
è vero – esclamò House con tono duro
– è bello rinfacciarmi che ti
manco, ma non tanto quanto per me lo è rinfacciarti che
è tutta una
stupida idea che ti sei messa in testa. Se veramente credessi in
ciò
che stai dicendo, ti daresti una svegliata e andresti alla clinica
Myfield. Eppure per una persona come te quello non è il
posto più
adatto… non è così? – fece
una pausa, inumidendosi le labbra – Non te
ne faccio una colpa Cuddy. Tu sei solo il mio capo. Ma non venirmi a
dire che ti manco.”
Uscì dall’auto, senza nemmeno darle il tempo o
l’occasione di ribattere. Non voleva ascoltarla.
D’altra parte, Cuddy assorbì quelle parole come
una spugna assorbe l’acqua. Sapeva di meritarsele.
Rimase in silenzio, guardando la figura del diagnosta passare davanti
l’auto e venirle ad aprire lo sportello.
Si voltò a guardarlo.
Sul volto di House uno sguardo duro, stanco.
Stanco
di ritrovarsi sempre in situazioni ingestibili con lei. Stanco di non
riuscire mai ad evitarle… perché, in fondo, era
lui il primo che se le
cercava. E lo sapeva.
“Andiamo.” disse pacato, allungandole la mano.
Lisa la strinse, guardandolo dritto negli occhi.
E fu in quel momento che si sentì, per la prima volta, quasi
intimidita da quell’uomo.
House l’aiutò ad uscire dall’auto e,
anche se con fatica, la sorresse fino all’uscio di casa.
Non una parola c’era stata tra i due in quei momenti. Non un
accenno a nulla.
Entrambi, adesso, erano coscienti del loro ruolo.
Ciò che doveva esser detto, era stato detto.
Arrivati
alla porta, House guardò Cuddy tentennante. Poi, vedendola
piuttosto
imbarazzata da quel momento, con un sospiro, decise di evitare un altro
dialogo. Anche se in quel momento la cosa che doveva chiederle era
semplicemente di dargli la chiave di casa.
Tolse il braccio di Cuddy dal proprio collo, chinandosi verso un vaso
ai lati della porta.
L’alzò, scoprendo il nascondiglio di una piccola
chiave.
Sorrise.
In fin dei conti, Lisa Cuddy era sempre stata piuttosto prevedibile.
Fino ad allora almeno.
Aprì la porta, lasciando che lei entrasse dentro.
Cuddy
entrò in casa debolmente. In quei momenti, vedeva tutto
intorno a se
girare vorticosamente. La prima cosa che avrebbe voluto fare era andare
a controllare la bambina e mettersi poi a letto. Eppure, nonostante
tutto, non ce la fece.
Entrò in corridoio, appoggiandosi alla parete e rivolgendosi
nuovamente ad House.
Non
voleva parlargli. Non voleva ribattere niente…
perché tutt’ora
continuava a vedere la tristezza nel suo volto. E tutt’ora
continuava a
temerla.
Eppure, non riusciva nemmeno a desiderare che sparisse.
Avrebbe passato l’intera notte lì con
lui… se solo avesse potuto.
“Mi dispiace.” la sua voce si levò in un
sussurro, rimbombando come non mai tra i loro sguardi.
House rimase immobile davanti a lei, senza riuscire però a
dir nulla.
La fissava, confuso.
“Wilson
continuava a dirmi che tu stavi bene. Ed io volevo crederci.-
continuò
Cuddy, abbassando lo sguardo nel tentativo di frenare le lacrime che
pulsavano prepotentemente – Diceva… che non dovevo
andare. Che stavi
bene, che andava tutto a posto.”
La fronte di House si corrugò in un espressione attonita,
muovendosi di qualche passo verso di lei “Cosa diceva
Wilson?!”
Cuddy lo ignorò, chinando il capo e ponendosi una mano sulla
fronte.
Sorrise tristemente.
“Sono
una stupida… è tutta colpa mia. Se non fosse
stato per me, tu adesso
saresti ancora a Princeton Teaching Hospital a litigare con le
infermiere, a rompere macchinari, a salvare delle vite... e a rompermi
le scatole. Cielo, quanto pagherei per poter riavere tutto
questo!”
Il diagnosta voltò lo sguardo verso una parete, piuttosto
spoglia rispetto alle altre.
Ci fu silenzio in quel momento.
House
capì che Cuddy era a conoscenza di cose che non avrebbe
dovuto sapere…
e che, qualsiasi cosa era successo, Wilson ne era il diretto
responsabile.
Fu colto da una forte e prepotente rabbia. Gli venne
subito il bisogno di scagliare un pugno contro qualcosa, contro un
certo oncologo magari.
Serrò la mano sopra il manico del bastone, facendo sbiancare
le nocche per la troppa forza.
Si voltò, intento ad uscire da quella porta.
Se
c’era una cosa che aveva imparato da tutto quello che gli era
accaduto
in quei mesi, quella era imparare a controllarsi. E adesso, per
riuscirci, doveva necessariamente uscire da quella casa.
Cuddy alzò subito lo sguardo, sentendo il rumore dei suoi
passi.
Guardò
le sue spalle allontanarsi con tristezza. Si chiese cosa diamine la
stava spingendo a rimanere lì immobile, senza muovere un
muscolo.
Era solo un’allucinazione dopo tutto.
Se se ne andava, tutto sarebbe passato.
Bastava non fermarlo.
L’uomo non ha mai delle allucinazioni che non
rientrino nei suoi desideri.
“House!”
No, non sarebbe mai riuscita a non fermarlo.
L’uomo si bloccò, poggiando la mano sulla porta
ancora aperta e rimanendo voltato di spalle.
“Rimani con me, ti prego.”
Un
sospiro si levò, mentre la testa del diagnosta andava
inclinandosi nel
tentativo di guardare la figura della dottoressa alle sue spalle.
Tentennò.
No.
Strinse la presa della porta, tornando a guardare il giardino di fronte
a se.
“Mi dispiace. – sussurrò, chiudendosi la
porta alle spalle – Ormai ho smesso di giocare.”
To be continued…
|
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Capitolo 12 *** #11 Capitolo ***
E dopo 4 anni, ecco a voi
l'11 capitolo!! spero possa piacervi, anche se personalmente aspetto di
scrivere i prossimi. Ho tante ideuzze per questa fic, spero potranno
piacervi!
un saluto a tutti!!!
Miky91
CHAP 11
“In ogni istante della nostra vita siamo ciò che
saremo, non meno di ciò che siamo stati.”
(Oscar Wilde)
Non si era fatto notare quella mattina.
Era passato dal retro, dal parcheggio del grande ospedale. Si era ben
guardato dal farsi notare in atrio, si era ben guardato dal farsi
vedere, zoppicante come sempre ma, questa volta,anche
incerto, spaesato. Incerto su cosa fare, incerto se fare la cosa
giusta.
Aveva giurato a se stesso che avrebbe affrontato le sue paure.
l’aveva giurato. E l’avrebbe fatto.
In realtà non avrebbe mai voluto tornare in
quell’ospedale, luogo dove molti sui ricordi, sia tristi che
spensierati, si mescolavano con un inquietante chiarezza.
Memorie, sofferenze… e poi c’era lei. Sarebbe
stato in grado di affrontare questa ennesima prova? Era ormai arrivato
ad un punto dove non poteva permettersi il lusso di tornare indietro e
abbandonare l’impresa. Doveva combattere.
Fermò il passo, piantandosi al centro del corridoio che
stava attraversando. Si voltò verso la parete a vetro alla
sua sinistra e, poggiando il peso del corpo sul suo bastone, rimase a
fissarli.
I suoi ex dipendenti.
Erano lì, nel solito vecchio ufficio che aveva visto
risolvere decine e decine di casi medici.
Erano ancora lì, proprio dove lui li aveva lasciati.
Erano tutti rivolti verso la fida lavagna, intenti a proporre teorie ad
un uomo, mai visto prima, che sembrava ascoltarle con attenzione per
poi trascriverle nero su bianco.
Era così che si faceva? Si ascoltava con attenzione ogni
teoria? Si annuiva amichevolmente?
House fece un sorrisetto divertito, grattandosi la fronte col pollice
della mano libera.
Era come se avesse lasciato i propri bambini ad una babysitter che ogni
giorno compra loro gelato, dolciumi e schifezze varie…
viziandoli fino al midollo.
L’uomo che sino a quel momento aveva scritto a raffica una
serie di teorie sulla lavagna bianca, sicuramente improbabili,
posò finalmente il suo sguardo su House…
domandandosi dubbioso come mai fosse così interessato al
loro lavoro.
Tutti gli altri medici si voltarono, curiosi di individuare quel
qualcosa che aveva attratto l’attenzione dell’uomo.
Ci fu un attimo di silenzio. Se qualcuno di loro si era voltato con
noncuranza, ancora intento ad esporre una propria idea, alla vista di
House si zittì.
Il vetro sembrava rendere la scena eccessivamente teatrale, mentre la
gente nel corridoio andava e veniva come se nulla fosse, ignorando
quella particolare ed imbarazzante situazione.
House fece un sorrisino di circostanza, inclinando il capo. Ecco che si
entrava in scena.
Prese un respiro profondo…
“Scusate!- esclamò quindi, entrando zoppicante
dentro l’ufficio e attirandosi gli sguardi interdetti di
tutti i presenti -Avevo tentato di entrare nell’ufficio
affianco ma qualche balordo deve averlo chiuso a chiave!”
“House!- Foreman si era alzato in piedi, confuso –
che ci fai qui?”
“Sei stato dimesso?” azzardò Taub.
“Lei…è il Dr. House.”
l’uomo a lui sconosciuto gli rivolse un sorriso sorpreso,
allungando subito la mano per salutare quella figura leggendaria.
Era alto, magro. Non sembrava avere più di una trentina
d’anni. Vestiva in giacca e cravatta, ma per quanto elegante
fosse il suo abbigliamento, non era facile notarlo sotto quel tanto
conosciuto camice bianco. Quel camice bianco che Gregory House si era
sempre rifiutato di portare.
House rimase a fissare la sua mano sospesa a mezz’aria, senza
pensare minimamente di corrispondere il gesto, costringendolo dopo poco
ad abbandonare l’idea di avere un saluto di rimando. Lo
guardò torvo per un attimo, squadrandolo da capo a piedi
“E lei sarebbe?”
“Sono il nuovo primario di questo reparto. Posso esserle
utile?”
House rimase interdetto per qualche istante, gettando ai suoi ex
collaboratori un occhiata vaga.
Certo.
Era stato sostituito.
Ecco perché nessuno si era preso la briga di farsi sentire
anche solo per un consulto medico. Avrebbe dovuto immaginarlo
d’altronde.
“Si, volevo sapere che fine hanno fatto le cose che stavano
nel mio ufficio.”
Tutti si guardarono intontiti.
“Hai parlato con la Cuddy? Li ha presi lei, probabilmente li
ha portati a casa tua assieme a Wilson” azzardò
Foreman.
“No – House ignorò la prima domanda,
zoppicando verso il suo ex ufficio – a casa mia non ci sono.
Quindi le cose sono due: o li tiene come cimeli o li ha messi in
vendita su ebay, e se l’ha fatto… stima profonda
per le sue capacità intuitive. Quegli oggetti avevano
più valore di voi quattro messi assieme.”
“Erano robaccia” fece Taub con
nonchalance.
“Oh su via!non sminuire ulteriormente la tua
posizione!” fece House ironico, iniziando ad aprire i vari
cassetti del vecchio ufficio, nel tentativo di trovare qualcosa. O
forse nel tentativo di ficcanasare in giro.
Il nuovo capo reparto lo raggiunse, ponendosi subito tra i cassetti ed
il loro attentatore “Non troverà niente
qui, l’ufficio era stato svuotato quando mi hanno dato
l’incarico!Provi a parlare con la Dr.sa Cuddy…
sicuramente saprà aiutarla.”
House sbuffò seccato, ignorando l’uomo e tornando
nell’altro ufficio, pensieroso.
“Sei stato riassunto? Lavorerai con noi?”
domandò Tredici incuriosita.
“Figuriamoci. Non voglio mica togliervi tutto il
divertimento! Sono sicuro che avete fatto i bravi bambini mentre papino
era via…”
Mugugnò pensieroso, mentre con gli occhi percorreva
vagamente la lista di sintomi scarabocchiati sulla lavagna:
Arresto cardiaco, epistassi,… e poi vari
scarabocchi,giustamente presentati nello stile incomprensibile comune a
molti medici. più si scorreva la lista dei sintomi,
più questi diventavano illeggibili. Era forse
‘droga’ la parola che stava tentando di mettere a
fuoco??
“Infatti. Sono degli ottimi medici, li ha istruiti bene. Ma
adesso dovranno cavarsela senza di lei… - gli sorrise ancora
una volta l’uomo che sino ad allora aveva continuato a
parlare senza esser interpellato, destandolo dal tentare di decifrare
le annotazioni sulla lavagna – stia tranquillo, e si goda la
riabilitazione.”
House si voltò a guardarlo finalmente, sul viso
un’espressione di disgusto.
“Certo. Come no.”
“Dove stai andando?”
“A cercare le mie palle. Qualcuno le ha prese.”
rispose teatrale all’insulsa domanda di Foreman mentre,
uscendo nuovamente in corridoio, la sua figura svaniva tra la gente che
lo popolava.
***
“Va meglio?”
Cuddy annuì debolmente, bevendo un altro sorso di tisana
calda. Firmò un documento, poi un altro ancora, cercando di
apparire più stabile possibile.
In realtà non lo era affatto.
Wilson era preoccupato, lo sapeva. Ed aveva tutte le ragioni per
esserlo. Eppure non voleva che lo fosse, non voleva mostragli tutta
quella vulnerabilità che sino ad allora aveva faticato a
nascondere.
Certo, avrebbe dovuto pensarci prima di prendere una sbronza e non aver
le forze per alzarsi dal letto ed andare a lavoro. Prima di chiamare
Wilson per farsi venire a prendere perché incapace di
mettersi al volante. Prima di mostrarsi così come non
avrebbe dovuto. Fortunatamente per lei, il suo ritardo le aveva
permesso di modificare gli orari della babysitter, così da
poter tornare a casa più tardi quel giorno.
Era strano, ma le veniva difficile ormai gestire la bambina e tutti gli
altri problemi, sia lavorativi che non. Nelle ultime due settimane non
era riuscita a dedicarle nemmeno un weekend, e se il giorno prima
Wilson l’aveva riaccompagnata a casa con l’intento
di farle passare ‘un po di tempo con la sua bambina, lontano
dal lavoro’, lei era finita coll’approfittare della
presenza della babysitter per allontanarsi ancora una volta da casa. Si
chiedeva il perché. Certamente non era un comportamento che
una madre avrebbe dovuto avere… e se House avesse sempre
avuto ragione? E se lei non era adatta a fare la madre?
Sospirò.
“Si. Sto bene, grazie per questa
mattina.” bisbigliò, decidendo di
rompere quell’imbarazzante silenzio che sino ad allora si era
imposta di tenere.
“Saresti dovuta rimanere a casa… –
annuì l’oncologo – anzi, no. saresti
dovuta rimanere a casa ieri sera, dopo che ti ci avevo accompagnato.
Cuddy non va affatto bene!sei andata in un locale… ad
ubriacarti?”
La dottoressa si coprì il volto con una mano, imbarazzata
“Non era quello lo scopo”
“E quale era allora?”
“Avevo bisogno di riflettere… ”
Wilson scosse il capo, rassegnato “Non puoi continuare
così, sono settimane che sei in questo stato. Credi che
comportandoti così le cose miglioreranno?”
“No, certo che no!- sbottò Cuddy, posando
pesantemente la tazza sulla scrivania e facendo sghicciare qualche
goccia di tisana sui documenti ai quali stava lavorando. Odiava quando
Wilson non si faceva scrupoli a centrare il problema – ormai
è tardi per migliorare le cose! Ormai non
c’è più modo di migliorarle, lo so! Non
venire a farmi la predica James, sai benissimo che non
dovresti.”
Wilson annuì colpevole, ricevendo il colpo.
Era colpa sua d’altronde, inutile sostenere il contrario.
Aveva tenuto troppe cose nascoste alla dottoressa, aveva preteso che
per lei andasse bene a prescindere, si era illuso che tutto sarebbe
tornato alla normalità. Era questo ciò che
sperava… tornare alla normalità.
E invece cosa era successo?
House non aveva più dato sue notizie, Cuddy aveva scoperto
delle sue menzogne su di lui, aveva capito di esser stata manipolata e
che a causa di questo House non le avrebbe più rivolto la
parola, probabilmente. Ed era stato lui a condurre quel
carro… era lui il cocchiere folle di quella folle strada
intrapresa.
Non doveva biasimare Cuddy… anzi.
“Mi… mi dispiace – sussurrò,
con un tono colpevole – sono solo preoccupato per te Lisa.
Come… come sei tornata a casa ieri sera? È
pericoloso guidare ubriachi, promettimi almeno che non lo farai
un'altra volta. Se vuoi ubriacarti… - fece un
pausa, esitante – chiamami che andiamo
assieme.”
Cuddy lo guardò incredula. L’amico era passato dal
‘non farlo mai più’ a un ‘ok,
fallo, ma lascia che ti aiuti in questo’.
“Non lo farò più, non preoccuparti. Non
sono masochista fino a questo punto. – sussurrò,
facendo una smorfia per il mal di testa – anche
se… ora che mi ci fai pensare non ricordo come sia riuscita
tornare a casa. Credo che… mi abbia accompagnato
qualcuno.”
“Ah… bene.” annuì
l’oncologo dubbioso.
“Credo anche di aver visto House…”
continuò Cuddy ironica, corrugando la fronte nel tentativo
di ricordare la sera passata.
“House?” Wilson era sempre più dubbioso.
“Si, lo so… ho bevuto troppo.”
“Vai per locali nel tentativo di non pensare a lui e, una
volta attuato l’intento di affogare i pensieri
nell’alcol… vedi House. Dovresti risolvere in
altri modi il problema.”
Cuddy gli lanciò un’occhiataccia “Ad
esempio?”
Wilson esitò. Ormai, se era davvero tutto perduto, che altro
c’era da perdere?
“Prova ad andare a trovarlo. – esclamò,
spalancando le braccia in segno di resa – prova…
non so, a parlargli. Chissà, magari riuscirai ad avere sue
notizie… io sotto questo punto di vista sono off
limits.”
Cuddy si voltò totalmente verso di lui, sfoggiando uno
sguardo tra l’incredulo e l’allibito.
Cosa stava cercando di dirle? Le stava dicendo di andare da lui?! Di
andare da House?! Dopo tutto quello che avevano fatto per evitare
questo ‘pericoloso incontro’?
“Non guardarmi così, so cosa pensi..
ma… forse era meglio far così sin
dall’inizio. Sono umano, posso commettere pure io degli
errori. E poi… non voglio vederti in questo stato Lisa. Non
voglio che tu ci soffra.”
“Non sto soffrendo. – mentì lei
– sono solo preoccupata. House è un caro amico,
non voglio perderlo.”
“Giusto… perché chi trova un amico
trova un tesoro. Se si tratta di House poi…” La
schernì l’oncologo, sapendo perfettamente quanto
quelle parole fossero prive di un significato tangibile. House non era
mai stato ‘solo un amico’… e lo sapeva
fin troppo bene.
“Cosa vuol dire che sei ‘off
limits’?” deviò il discorso la
dottoressa, incuriosita dalla frase che l’amico aveva, pochi
attimi prima, enunciato.
Wilson fece cadere le braccia lungo i fianchi, pesantemente.
Si era tradito da solo.
Rifletté un attimo, giusto per ponderare se era opportuno
dire o meno la cosa.
“Ecco… ho chiamato per sapere come stava molte
volte, ma sembra che lui abbia negato il consenso ai suoi medici di far
trapelare notizie sulla sua salute, soprattutto se a chiederlo sono
io.”
Cuddy abbassò lo sguardo, avvilita
“Forse dovremmo solo lasciarlo in pace.”
Bevve un altro sorso di tisana, mentre le affioravano alla mente
ricordi vaghi di un vago sogno avuto la notte precedente. Riguardava un
uomo, alto, slanciato; un uomo che la sosteneva, l’aiutava.
Un uomo che le diceva di farsi forza. Un aspetto familiare…
La porta a vetri dell’ufficio si spalancò
improvvisamente, lasciando che la figura di un uomo la varcasse. Anche
lui era alto, anche lui era slanciato e sicuro di se, proprio come
quello del suo sogno.
Anche lui era House.
“Chi è stato l’idiota che ha assunto un
altro idiota per sostituirmi? Non è passato in mente a
nessuno che potrei anche offendermi se provate a dare il mio posto ad
uno che non sa nemmeno da che parte si fa il nodo della cravatta e che
pensa che ogni persona provenga dal paese delle
meraviglie?” irruppe melodrammatico, piazzandosi
come se niente fosse a pochi metri di distanza dalla scrivania del suo
ex capo, come era solito fare fino a non molto tempo prima.
Cuddy rimase spiazzata.
Gettò uno sguardo alla tazza di tisana che stringeva ancora
in mano, poi uno sguardo a Wilson come a chiedergli conferma di
ciò che aveva appena visto ed udito.
L’oncologo, d’altro canto, era rigido come il
gesso. In mano, teneva ancora il fascicolo che aveva preso pochi attimi
prima dalla scrivania di Cuddy.
“House?” bisbigliò incredulo, sbattendo
le palpebre nel tentativo di metterlo meglio a fuoco, come se
quell’uomo davanti a lui in realtà fosse qualcun
altro.
L’ex diagnosta schioccò le labbra con fare ovvio
“No, mio nonno.”
“Oh mio dio…” Cuddy balzò in
piedi, in un atto istintivo. Aprì nuovamente la bocca ma
prima di riuscir a proferir altro non potè fare a meno di
incrociare direttamente il proprio sguardo col suo. Finalmente, dopo
tanto tempo… dopo mesi e mesi… lui era davanti a
lei.
Le parole le si bloccarono in gola.
Qualsiasi cosa stesse per dire, svanì dalla sua mente come
fosse nebbia al mattino. Rimase immobile, quasi
pietrificata…
Fu in quell’istante che lo notò.
Cosa dire? Non aveva nulla da dire in realtà.
Improvvisamente entrambi non avevano proprio nulla da dirsi.
“Sei… scappato dalla clinica?!” fece
Wilson, ignorando lo stato di Cuddy e avvicinandosi all’amico
con fare preoccupato.
House lo fissò rassegnato, alzando in bella mostra il
bastone “ti sembro nelle condizioni di
‘scappare’?”
“Ti hanno dimesso?”
House annuì, cercando di non far trapelare quel piccolo
scintillio di orgoglio che quella domanda aveva acceso in lui.
Abbassò lo sguardo, deviandolo poi nuovamente su quello di
Cuddy. Lei era ancora in piedi, immobile, lo fissava… era
come terrorizzata. Non aveva il coraggio di parlare.
Non la biasimava.
Quello che non avrebbe dovuto avere il coraggio di parlare in quella
stanza era qualcun altro.
“Rivoglio il mio lavoro.” esclamò
convinto, con il solito atteggiamento di sempre, cercando di
farla tornare in se. Cercando di darle il giusto argomento per iniziare
una conversazione. Perché ormai, oltre al lavoro, loro non
avevano più argomenti di conversazione. E non li avrebbero
più avuti.
Lisa Cuddy corrugò la fronte, tentando di ricacciar indietro
le fitte alla testa che per tutta la mattina l’avevano
accompagnata a lavoro.
Sentì i sensi di colpa affiorarle dentro, incontenibili.
Cosa aveva fatto?!
“Ho… ho affidato il tuo reparto al Dr.
Burns” sibilò, incredula di aver appena ammesso di
fronte a House di aver creduto che lui non sarebbe più
tornato.
Lui annuì.
“Ok. Vorrà dire che proverò da qualche
altra parte…” si voltò nuovamente verso
l’uscita dell’ufficio, dando le spalle ai due come
se non considerasse che quella era la prima volta che li vedeva dopo
tanti lunghi mesi di isolamento.
“House!” lo richiamò la dottoressa,
destandosi dallo stato nel quale era precipitata. Oltrepassò
la scrivania e gli venne incontro a passi lenti, riflettendo sul da
farsi.
L’uomo tornò a guardarla, pregando di essere in
grado di riuscire ad allontanarsi da quell’ufficio il
più presto possibile.
“Posso reinserirti nella squadra. Dovrai stare alle
dipendenze del Dr. Bursn ma potrai tornare a lavorare…
dovrò anche ridurti lo stipendio però.
– fece una pausa di riflessione – lo
dovrò ridurre a tutta la squadra, ma va bene. Se questo
può farti tornare ad esercitare la
professione…”
Lui scosse la testa “No, voglio il mio vecchio
stipendio.”
“House!- lo richiamò Wilson, incredulo –
ti sta facendo un favore! Accetta, è la migliore
soluzione.”
“No, il favore lo sta facendo alla fama del suo ospedale.
Adesso che il medico zoppo è tornato tutti vorranno venire
qui. Io non ne ricevo nessun favore se mi riduce lo stipendio,
né lo riceveranno tutti gli altri medici della
squadra.”
“Lo strai facendo… per loro?” suppose
l’oncologo, stupito.
“No, per ME!”
“O questo.. o potrò permettermi solo di darti dei
turni in ambulatorio.” lo ricattò Cuddy, certa che
con questo il diagnosta avrebbe accettato.
House la fissò allibito. Era lì solo da pochi
minuti e già lo minacciava? Bene. Almeno nulla era cambiato.
“Molto bene.” annuì dopo qualche attimo
di riflessione.
Wilson gli sorrise, felice.
Anche Cuddy non riuscì a trattenere un sorriso di gioia, uno
di quelli che era solito ricordare in quei momenti bui trascorsi al
Mayfield.
Diamine, quanto gli era mancato.
“Vado subito ad informare la squadra”
“No – House bloccò
l’entusiasmo della Cuddy con voce pacata –
intendevo che accetto di fare le visite in ambulatorio.”
La dottoressa, che si era già lanciata a prendere dal
cassetto i documenti necessari alla riassunzione si bloccò,
esitante, dubbiosa sul fatto di aver realmente compreso le parole del
diagnosta.
“Come?”
Wilson la seguì a ruota “Co.. cosa?”
“Va bene se inizio domani?”
Cuddy era nuovamente rimasta senza parole, lo fissava interdetta, la
fronte corrugata nell’atto di comprendere
l’incomprensibile.
“Fammi avere gli orari via mail appena riesci
–annuì House, prendendo quel silenzio come un
consenso – Ci vediamo!”
I due medici si scambiarono degli sguardi sgomenti, interdetti. Wilson
cercò un vago sostegno in Cuddy ma anche lei stava facendo
la stessa cosa.
“A…aspetta!” fece
l’oncologo annuendo alla dottoressa e uscendo
dall’ufficio nel tentativo di bloccare House.
“Puoi parlare anche mentre cammino?sai non ho tanto tempo da
perdere… ho una casa da risistemare, …”
“Che vuol dire che farai i turni in ambulatorio.. tu odi fare
i turni in ambulatorio!”
“Infatti non voglio fare i turni in ambulatorio!”
“E allora cosa…?”
“Voglio il mio vecchio lavoro.”
“Ma non puoi avere il tuo vecchio
lavoro…”
“Quel Burns è un’idiota. Il fatto che
Cuddy ancora non se ne sia resa conto vuol dire che ancora non ha avuto
un caso serio tra le mani, e cioè… che
è stato assunto da poco. Due mesi al massimo. Io
dovrò solamente subirmi un paio di mesi di ambulatorio,
forse anche meno… da lì la squadra
inizierà a chiedermi aiuto, e Cuddy capirà che
presto dovrà restituirmi il lavoro. – fece House
ovvio, diretto verso l’uscita - Sempre meglio che
contrattare. Se faccio qualche visita, in cambio riotterò il
mio lavoro senza alcuna riduzione di stipendio e senza dover stare alle
dipendenze di un idiota.”
“Beh… ottima teoria, se solo non fosse che Burns
non è un’idiota e che Cuddy sa quel che
fa!”
“No, non è vero. Non l’ha mai saputo in
realtà. E poi l’ha assunto solo perché
ha un buon curriculum e un bel faccino… che tanto bello poi
non è, ma sappiamo tutti che i gusti della Cuddy hanno
sempre fatto schifo.”
“E il fatto che abbia un buon curriculum non ti dice
niente?”
“Mi dice tante cose in
realtà…” sogghignò ironico
il medico ma prima che riuscisse a poggiare la mano sulla maniglia
della grande porta a vetri che si affacciava sul parco del Princeton
Wilson l’afferò per un braccio, bloccandolo.
“E che mi dici di te?... che ne è stato di tutto
quel casino che ti aveva fatto andar via di qua?”
House fece spallucce, anche se continuava a mantenere un espressione
seria.
“Andato.”
“Non pensi che dovremmo parlare noi due?” lo
implorò l’oncologo, confuso
dall’atteggiamento menefreghista dell’amico.
“Lo stiamo già facendo…”
“Pensavo fossimo amici.”
“Lo pensavo anche io.” concluse House in un sibilo.
Strinse la presa attorno al bastone, voltandosi nuovamente verso
l’uscita e decidendo di abbandonare lì la
conversazione.
Wilson lo vide uscire dall’ospedale, lo vide allontanarsi da
lui a passi svelti.
Rimase immobile, incapace di reagire.
Che cosa stava accadendo?
Per la prima volta, dopo quei lunghi mesi, James Wilson, aveva iniziato
a temere la solitudine.
To be
continued…
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