Collide di Unsub (/viewuser.php?uid=105195)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
prologo
AUTORE: Unsub
TITOLO: Collide
RATING: Arancione
GENERE: generale
AVVERTIMENTI: LongFic
PERSONAGGI: squadra BAU, nuovo personaggio.
DISCLAIMER: I personaggi non mi appartengono(tranne quelli da me
inventati), sono di Jeff Davis. Criminal Minds appartiene alla CBS.
Questa storia non è a scopo di lucro.
NOTE: Questa LongFic nasce dalla mia passione per Criminal Minds e dal
folletto che vive nella mia testa. La storia è ambientata nella
terza stagione tra l’abbandono di Gideon e l’episodio 17.
Prologo
Maggio 2002 - Accademia F.B.I., Quantico, Virginia
- Non c’è posto per te nella squadra,
sarebbe… sarebbe inappropriato. Ho fatto in modo che tu venga
presa nell’Interpool, mi sembra la soluzione migliore per tutti
– l’uomo evitava di guardarla dritta in viso.
- Dove? – la ragazza cercava di ingoiare la
delusione e l’amarezza per quel tradimento inaspettato.
- In Francia, a Lione.
- Mi stai mandando in esilio?
- Ora non è il caso che tu rimanga qui, ci
sono già troppe chiacchiere in giro. Quando sarai pronta e le
acque si saranno calmate farò in modo che tu torni.
Preferisco cosi. E’ meglio per tutti.
- Voi dire che mi mandi via per quegli stupidi pettegolezzi? Ti vergogni di me? Di noi?
- Se si venisse a sapere che ti ho favorito, che ho
fatto in modo che tu venissi ammessa all’Accademia e,
soprattutto, il motivo lo scandalo sarebbe enorme e deleterio per la
tua carriera.
- La mia carriera? Perché non dici le cose
come stanno – la ragazza si alzò di scatto – Ti stai
preoccupando della TUA di carriera. Sei un porco egoista!
- Ora è meglio che tu vada a preparare i bagagli, parti fra due giorni.
- Fottiti!
Sbatté la porta e vi si poggiò contro, guardando in malo
modo gli altri cadetti che osservavano la migliore diplomanda
dell’Accademia uscire dall’ufficio dell’agente
supervisore Jason Gideon tutta rossa in volto; qualcuno si diede di
gomito sorridendo e mormorando ancora su cosa legasse l’insegnate
di profiling e la sua migliore allieva.
La ragazza socchiuse gli occhi e strinse così forte i pugni da far sbiancare le nocche.
- Me la pagherai, dovessi metterci una vita ti
porterò via la tua preziosissima squadra – mormorò
a denti stretti, per poi incamminarsi lungo il corridoio.
Aprile 2008 – Appartamento del dr. Spencer Reid
Socchiuse gli occhi quel tanto che serviva per vedere il corpo di Reid
steso al suo fianco. Sentiva ancora il sapore dei suoi baci, il modo in
cui la pelle di lui rabbrividiva al suo tocco, il modo in cui Spencer
aveva stretto a pugno le mani afferrando le lenzuola e mormorando
“Ti prego non fermarti”.
Guardò le sue labbra. Dio! Voleva assaporarle ancora e ancora.
Allungò una mano e la lasciò sospesa poco prima di
arrivare a sfiorarle. Non voleva svegliarlo, non ancora, voleva godersi
quel momento il più a lungo possibile.
Il suo cellulare cominciò a vibrare in quel momento. Girò
lo sguardo verso il comodino e la radio sveglia. Le 3.55 del mattino:
poteva significare solo una chiamata da parte del bureau. Maledizione!
Aveva sperato di potersi svegliare con calma con lui vicino, godersi il
momento in cui quegli splendidi occhi nocciola si sarebbero aperti
incrociando i suoi.
Rispose al telefono girandosi per poter continuare a godere della vista di Spencer addormentato come un bambino.
- Pronto?
- Ciao, sono JJ. Scusami, ma abbiamo un caso urgente e dovresti venire il prima possibile.
- Arrivo.
Chiuse la comunicazione, mentre il cellulare di Spencer cominciava a
suonare a sua volta e lui apriva gli occhi. Per un momento parve
sorpreso, poi le sue labbra si stirarono in un accenno di sorriso
mentre allungava la mano per afferrare il suo Nokia.
Non poteva sentire l’interlocutore, ma sapeva fin troppo bene che
sarebbe stata JJ e che le parole sarebbero state le stesse che aveva
appena udito.
- Si? – disse Spencer con voce assonnata – Certo, arrivo subito!
Si girò dall’altra parte perché lui non vedesse il
lampo di incertezza e odio nei suoi occhi. Anche se avevano fatto
sesso, anche se lui dormiva al suo fianco, non poteva dimenticare
quell’appuntamento con JJ alla partita di football, appuntamento
del quale Spencer si era sempre rifiutato di parlare con
chiunque…
Come poteva spiegare al raziocinante dottor Reid quegli attacchi di
gelosia? Come spiegargli che, quando Spencer pronunciava il nome di JJ
o le parlava in quel modo dolce, il suo unico pensiero era quello di
aprire la cassa toracica della biondina e strapparle via il cuore? Come
spiegargli che il solo pensiero che lui potesse trovare o aver trovato
l’agente Jareau attraente, o peggio ancora aver avuto una cotta
per lei, faceva andare in frantumi il suo autocontrollo e rischiava di
mandare in pezzi il suo equilibrio emotivo?
Cominciò a raccogliere i propri indumenti sparsi in giro per la
camera da letto di lui voltandogli le spalle e cercando di mandare
giù quel magone. Sicuramente la squadra aveva visto solo un lato
del suo modo di essere: duro, deciso, senza tentennamenti. Sangue
freddo e determinazione: ecco come doveva essere un profiler!
Solo a Spencer aveva concesso di vedere l’altro lato: la
sensibilità, la dolcezza e la passione che racchiudeva
gelosamente in fondo al cuore. Un lato tenuto segreto, perché
non si fidava di nessuno.
- Tutto bene? – la voce di Spencer suonava preoccupata.
Si girò e notò lo sguardo incerto del ragazzo. Aveva
paura che tutto potesse finire in un attimo e sperava che
quell’incertezza negli occhi nocciola di Spencer significasse che
anche lui aveva gli stessi timori.
Guardò il suo corpo coperto solo dai boxer e si avvicinò
fino ad allungare le mani per assaporare ancora il tepore e la
morbidezza della pelle dell’uomo che amava. Avvicinò il
suo viso a quello di Spencer per inalare ancora il suo odore che
riusciva sempre a scuotere i suoi sensi e posò un bacio delicato
e passionale allo stesso tempo sul collo di lui.
Lo sentì rabbrividire e un lampo di eccitazione attraverso il suo basso ventre.
Spencer si schiarì la voce.
- Dobbiamo sbrigarci; la squadra ci aspetta. Si
accorgeranno che porti ancora i vestiti di ieri quando hai lasciato
l’ufficio.
- Dirò di aver messo questi perché erano a portata di mano… mi cambierò sul jet.
Si voltò di nuovo e finì di vestirsi.
- Vado avanti, non vorrei che ci vedessero arrivare insieme.
- Già – mormorò lui con la tristezza nella voce.
Sapeva quello che provava. Avrebbe voluto gridare al mondo intero il
loro amore, ma era un amore proibito tra colleghi. La Strauss avrebbe
preteso le loro teste su un vassoio d’argento se solo avesse
saputo o anche solo sospettato.
Si domandava chi si sarebbe accorto per primo di quello che c’era
fra loro. Lavorare con dei profiler ha le sue controindicazioni. Oppure
non si sarebbero mai accorti di niente perché non c’era
niente di cui accorgersi.
Con Spencer non aveva affrontato l’argomento. Cosa c’era
esattamente fra di loro? Era amore? Sesso? Amicizia con privilegi?
Aveva paura di chiedere.
Vista l’ora il traffico era inesistente e arrivò
all’Accademia in un baleno. Spencer arrivo cinque minuti dopo. La
squadra si stava radunando nella sala riunioni. Con suo sommo sollievo
anche altri portavano gli stessi indumenti del giorno prima; in fin dei
conti chi si preoccupa di abbinare i vestiti quando deve correre in
ufficio alle quattro del mattino?
JJ prese subito la parola:
- Ragazzi, dobbiamo muoverci subito, i ragguagli sul
caso ve li darò sull’aereo – e senza dire altro
uscì dalla sala come un fulmine seguita dagli altri che si
avvicinarono alle scrivanie per prendere le valigie.
Guardò quei volti ormai familiari e i suoi occhi si soffermarono
un momento su Spencer. La sua mente tornò a come tutto era
cominciato… un nuovo arrivo nel team, le difficoltà di un
caso particolarmente cruento e la scoperta di un sentimento che metteva
a repentaglio la sua carriera e il suo lavoro.
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 ***
capitolo 1
Ottobre 2007
Una strada di Quantico, Virginia
Morgan, Reid e Garcia stavano tornando a casa dopo una serata trascorsa
tutti insieme in un ristorante indiano. Mentre percorrevano la strada a
bordo del SUV di Derek, Reid si lasciò scappare
un’esclamazione soffocata, guardando le luci accese in uno degli
appartamenti di un palazzo con la facciata di mattoni rossi.
- Cosa c’è, pretty boy? – chiese
Morgan non distogliendo gli occhi dalla strada – Sembra che tu
abbia visto un fantasma.
- L’hanno affittato. – disse il giovane
dottore, mentre girava la testa continuando a fissare quelle finestre.
- Cosa hanno affittato? – si intromise Garcia dal sedile del passeggero.
- Il vecchio appartamento di Gideon. – rispose Reid con stupore.
- Il proprietario sarà stato stufo di tenerlo chiuso. – tagliò corto Derek.
- Gideon è il proprietario e credevo che non volesse che ci andasse a vivere nessuno.
Rimasero tutti e tre in silenzio per il resto del tragitto, ricordando
che quella casa era stata teatro di un efferato delitto e per questo il
loro collega non vi era più entrato. Dopo che aveva abbandonato
l’unità, una ditta specializzata aveva imballato il
contenuto dell’appartamento sotto la supervisione di Stephen, il
figlio di Jason, e avevano messo il tutto in un magazzino.
Interno dell’appartamento di Jason Gideon
Erin Strauss era ferma in piedi vicino agli scatoloni aperti e guardava
di sottecchi la giovane donna che continuava a mettere a posto dei
libri negli scaffali desolatamente vuoti, come il resto
dell’appartamento. Si girò verso la camera da letto,
ritinteggiata di recente visto l’odore di vernice che ancora
aleggiava nell’aria, dove una rete singola con relativo materasso
erano tutto il mobilio presente. Il salotto non era messo meglio: oltre
la libreria che occupava tutta una parete, che era stata fatta fare su
misura dal precedente inquilino, c’era solo il divano
dall’aria malconcia.
Se si fosse messa ad indagare, avrebbe scoperto sicuramente che i
pensili dell’angolo cottura contenevano solo ragnatele, sempre
che la nuova occupante non avesse già provveduto a fare le
pulizie.
- Hai portato solo questi libri? – chiese, sbirciando dentro l’ennesimo scatolone.
- Certo che no. Ho anche i miei vestiti. – la
giovane donna mora si girò solo per prendere altri libri da
sistemare – Acquisterò mobilio e suppellettili, ma per il
momento va bene così. Non so neanche quanto mi fermerò.
Sistemò i volumi alla svelta e si voltò finalmente a
fronteggiare la sua ospite inattesa. Due occhi verdi fissavano la
caposezione, ma erano vuoti come se la ragazza non provasse il minimo
sentimento.
- Non ho fretta di sistemarmi. Potresti decidere di
rispedirmi al mittente fra un paio di settimane o appena avrò
concluso il lavoro per cui mi hai chiamata. – fece qualche passo
avanti e afferrò un'altra scatola – Sempre che decida di
aiutarti e fare quello che mi hai chiesto. Non mi hai ancora detto cosa
me ne verrebbe.
La Strauss con una mano diede un paio di colpi ad uno dei cuscini del
divano, poi si mise a sedere incrociando le gambe. Sorrise sorniona,
mentre la sua interlocutrice riprendeva a sistemare le sue cose.
- Sapevo che avresti tirato fuori l’argomento.
– poggiò le mani sul ginocchio, mentre assumeva un tono
freddo e distaccato – Cosa vorresti in cambio?
- Beh, vediamo di ricapitolare. – la ragazza si
avvicinò al piano di lavoro dell’angolo cottura, prese una
busta di carta e ne tirò fuori una bottiglia di whisky –
Tieni questa mentre cerco due bicchieri.
Erin Strauss afferrò la bottiglia, constatando che aveva in mano
un liquore pregiato e particolarmente costoso. Sogghignò, la
ragazza aveva gusti raffinati che richiedevano un buono stipendio.
Aprì la bottiglia e versò due generose dosi del liquido
ambrato nei bicchieri che la più giovane teneva in mano.
- Poggia pura la bottiglia per terra. – riprese
la padrona di casa, mentre le offriva il bicchiere prima di mettersi a
sedere dalla parte opposta del divano – Allora: tu vuoi che io
rovini la carriera di un tuo sottoposto, che raccolga informazioni in
grado di farlo sollevare dal suo incarico e che ti serva su un piatto
d’argento la possibilità di liberarti di tutte le teste
calde della squadra. Ho dimenticato qualcosa?
- Sì, hai dimenticato che voglio che siano
tutte accuse VERE. – bevve un sorso ed assaporò il liquido
dal gusto deciso – Non voglio che mi possa scoppiare in mano una
bomba, tipo informazioni false o accuse che non possono essere provate.
- Potrebbe non essere possibile. Se fosse pulito?
- Di questo non mi preoccupo: quelle persone
contravvengono continuamente agli ordini, sono teste calde che prendono
sottogamba il protocollo e che infrangono le regole.
- Quindi sarà un gioco da ragazzi. –
assentì la ragazza reclinando la testa e osservando il pavimento
– Mi hai scomodata per una bazzecola del genere?
- Non è così facile dimostrarlo: si coprono le spalle a vicenda.
La ragazza parve meditare sull’ultima asserzione della Strauss,
si piegò in avanti e un ciuffo rosso le coprì la visuale
della caposezione, che sembrava essere sui carboni ardenti mentre
attendeva una risposta. La donna più grande si spazientì
e sbatté un pugno chiuso sul bracciolo.
- Se non sei interessata, non ti sprecare a finire di
sballare le tue cose. – era rossa in volto e respirava
affannosamente – Sarah, per me puoi prendere il primo volo e
tornatene da dove sei venuta. Non ho ancora firmato l’ordine di
trasferimento.
- Collins. – rispose decisa la ragazza.
- Scusami? – Erin aggrottò le sopracciglia.
- Comincia ad esercitarti a chiamarmi agente speciale
Collins. – si alzò dal divano, si avvicinò alla
finestra e si mise ad osservare la strada deserta illuminata dai
lampioni – Non devi far capire che siamo in confidenza: se
mangiano la foglia sarà impossibile indurli ad aprirsi con me.
- Quindi accetti? – la caposezione si sentiva la vittoria in tasca.
- Non mi hai ancora detto quale sarà il mio tornaconto.
- Beh, dopo che saremo riuscite a sollevare
quell’uomo dal suo incarico, rimarrà vacante un posto come
caposquadra.
- Sono troppo giovane, la sai bene anche tu. –
si girò a guardare la donna con occhi inespressivi – Non
è fattibile, almeno per il momento. Potresti darmi
qualcos’altro.
- So cosa vuoi e non se ne parla. – Erin si
alzò indispettita, decisa a lasciare l’appartamento
– Risolverò la cosa in altro modo.
- Voglio che questo trasferimento sia definitivo.
– disse Collins, alzando leggermente il tono della voce.
Strauss si voltò sconcertata a guardarla. Non era quella la
richiesta che si aspettava dalla giovane agente che aveva davanti.
Scrollò le spalle: non era mai riuscita a capirla e dubitava di
riuscire ad inquadrarla nel futuro prossimo.
- D’accordo, affare fatto. – concesse
tornando sui suoi passi con aria soddisfatta – Ora che abbiamo
finito di discutere di affari, posso farti una domanda personale?
Sarah si limitò a fissarla con quegli occhi vuoti e spenti.
- Perché questo appartamento?
- Non capisco di cosa tu stia parlando. – mormorò, indifferente.
- Questa era la casa di Jason Gideon, il tuo istruttore in accademia.
- Mera coincidenza. – rispose posando il
bicchiere nel lavandino – Si sta facendo tardi; è meglio
che lei vada, caposezione Strauss. Ci vediamo lunedì in ufficio.
La Strauss non credette a una mera coincidenza neanche per un momento,
ma sapeva che la ragazza non le avrebbe mai detto il perché di
quella scelta. Decise di soprassedere, accontentandosi di averla
portata dalla sua parte nella crociata contro Hotchner.
- Buonanotte, Sa… agente speciale Collins.
– dicendo così recuperò borsa e giacca e
uscì lasciando la ragazza sola nella sua nuova casa.
Appena sentì la porta scattare, Sarah si girò ad
osservare l’ambiente spoglio e si concesse un sorriso diabolico.
Si leccò le labbra, gustando ancora per un attimo il sapore del
whisky immaginando il momento in cui avrebbe potuto brindare alla
realizzazione della sua vendetta.
In quel momento il cellulare prese a squillare, la ragazza assunse di
nuovo l’aria apatica che era il suo tratto caratteristico ed
afferrò l’apparecchio, soffermandosi sul messaggio di
numero privato che era apparso sul monitor. L’espressione
tornò a farsi luciferina, quel contatto lo avevano solo due
persone, una delle quali era appena uscita.
- Pronto? – assunse un tono dolce e titubante.
- Sarah, sono io. – la voce calda e avvolgente
dell’uomo le risuonò nelle orecchie – So che sei di
nuovo a Washington.
- Sì. – rispose laconica senza aggiungere altro.
- Chi ha firmato l’ordine di trasferimento?
- Il caposezione Strauss provvederà
lunedì mattina, è lei che mi ha convocato. – il
tono ora era quello di un’ingenua ragazzina – Per te
è un problema?
- Cosa vuole in cambio? Quella donna non fa mai
niente senza un secondo fine. – ci fu un momento di silenzio, ma
Sarah non aveva intenzione di rispondere alla domanda – Vuole
Aaron Hotchner e la squadra, vero?
- Anche se fosse? Che differenza vuoi che faccia? Non è una cosa che ti riguardi, non più.
- Sono brave persone, Sarah, non meritano questo
trattamento. – un sospiro accompagnò la supplica del suo
interlocutore.
- Non credo di aver capito bene… - si stava divertendo a torturarlo.
- Ti sto supplicando di non far loro del male.
- Perché dovrei fargli del male? Non capisco proprio di cosa tu stia parlando.
- D’accordo allora. – di nuovo un sospiro
– Puoi proteggerli dalla Strauss, anche se non sai cosa abbia in
mente? Puoi farlo per me?
- Vedrò cosa posso fare. – il tono ora
era sarcastico – Vuoi che protegga qualcuno in particolare?
Silenzio dall’altra parte, mentre lei tratteneva il respiro,
sperando che lui le dicesse che doveva proteggere prima di tutto se
stessa. Inviò una muta richiesta all’uomo che le aveva
telefonato, sperando che per una volta si comportasse come lei si
aspettava. Lo sentì prendere fiato ed il cuore le mancò
un colpo.
- Reid, il dottor Spencer Reid. – disse la voce dall’altro capo del telefono.
- D’accordo. – ingoiò ancora una
volta la delusione per lo scarso interesse che lui mostrava nei suoi
riguardi, poi sorrise decidendo di prendersi una piccola rivincita e
torturandolo un po’ – Spero non ti dispiaccia che abbia
ritinteggiato: sai, gli spruzzi di sangue non si intonavano con i miei
mobili.
- Dove sei esattamente? – l’uomo parve stupito ed incredulo.
- Nel tuo vecchio appartamento, dove Sarah Jacobs
è stata uccisa. – sorrise cattiva – Scusami, forse
ho urtato la tua sensibilità.
- Non è possibile, come hai fatto a…
- Dimentichi la procura che hai fatto a Stephen per
vendere quest’appartamento. Certo lui non poteva sapere chi io
fossi quando abbiamo firmato l’atto. – si permise di
gongolare all’idea del tormento di lui nel saperla in quella casa
– Buonanotte Jason, sogni d’oro.
Quattro giorni dopo, Accademia F.B.I., Quantico, Virginia
Morgan, Prentiss e Reid uscirono dall’ascensore, incontrando
Garcia ferma nell’atrio che osservava l’openspace da dietro
la porta a vetri. Visto che l’informatica non li aveva notati,
Morgan le poggiò una mano sulla spalla, facendola trasalire.
- Morgan! – esclamò appena voltata – Mi hai spaventata.
- Ehi, bambolina, cosa osserviamo con tanto
interesse? – chiese Derek guardando al di là delle vetrate
a sua volta.
- Beh, ecco… - Penelope puntò lo
sguardo su Hotch, che restava immobile davanti alle scale del corridoio
sopraelevato con un foglio in mano, osservando la scrivania di fronte a
quella di Morgan.
- Ma cosa è successo a Hotch? – chiese Spencer, notando a sua volta la scena.
- Credo abbia ricevuto l’ordine di
trasferimento del nuovo agente. – rispose laconica
l’informatica.
- Un nuovo agente? – Prentiss era perplessa
– Non ne ha fatto parola in questi due giorni in Texas.*
- Credo che lo abbia scoperto solo oggi. –
Penelope sembrava agitata – Avrei dovuto dirvelo quando ci siamo
sentiti, ma non pensavo che la Strauss non avesse avvertito Hotch.
- Vuoi dire che hai già conosciuto il nuovo
agente? – Morgan la interrogava continuando a guardare Hotch, che
in quel momento era stato raggiunto da Rossi.
- Non direi “conosciuto”. – Garcia
si guardò in giro con aria furtiva – L’ho vista
uscire dall’ufficio del caposezione e poi sistemarsi nella
scrivania davanti alla tua. Non ci siamo rivolte la parola, quella
ragazza mi spaventa.
- Perché? – Reid la guardò incuriosito.
- Non saprei dirvelo, credo sia quello sguardo vuoto.
Se non sapessi che non è possibile, direi quasi che sia…
non so qual è il termine tecnico. – sospirò
cercando di spiegarsi meglio – Sembra quasi che non si renda
conto delle persone che le sono intorno, ha quello sguardo fisso e
vuoto come se non ti vedesse. E’… è bizzarra.
- Sembra sindrome da stress post traumatico. – intervenne Emily.
- Non si chiama più così ora si dice episodio…
- Sì, Reid, lo sappiamo. – lo interruppe
subito Morgan – Direi di andare, non scopriremo molto di
più restando qui fuori. Comunque, bambolina, come si chiama e
dove ha lavorato finora.
- Oh, bel maschione, questo è ancora
più strano. – Garcia scuoteva la testa incredula –
Non mi è arrivato il suo dossier, né cartaceo né
informatico. Non sono sicura neanche di quale sia il suo nome.
Reid, Morgan e Prentiss si guardarono allibiti. Derek si mosse per
primo, seguito dagli altri tre, e si diresse deciso alla propria
scrivania. Hotch e Rossi, notando la squadra arrivare, entrarono
nell’ufficio del primo e chiusero la porta.
- Che diamine sta succedendo? – chiese Emily.
- Non lo so. – rispose Reid.
- Lo sappiamo che non lo sai. – sbuffò Morgan – Era una domanda retorica.
Il giovane dottore fece una smorfia e si mise a sedere, continuando a
guardare la porta dell’ufficio del caposquadra. Rimasero tutti in
silenzio, attendendo che Hotch e Rossi uscissero per dare loro qualche
informazione sulla nuova arrivata. L’attesa fu interrotta da JJ,
che si avvicinò alle scrivanie e diede il buongiorno a tutti.
- Sai qualcosa di questa storia? – tagliò corto Derek.
- Garcia me ne stava parlando quando sono arrivata
questa mattina, ma siamo state interrotte. – scrollò le
spalle – La Strauss mi ha convocata nel suo ufficio: quando sono
arrivata la segretaria non mi ha lasciato passare, consegnandomi la
lettera di trasferimento da dare a Hotch.
- Sei diventata il nuovo portalettere? – ironizzò Morgan.
- Come agente di collegamento devo essere informata
degli agenti in forza all’Unità. – tagliò
corto.
- Io, invece, dovrei tenere aggiornati i vostri file.
– saltò su Garcia – Eppure nessuno si è
degnato di farmi avere il dossier della nuova venuta, né di
comunicarmi il suo nome.
- Credo che il caposezione in persona stia per fare
le presentazioni. – rispose Jennifer voltando la testa verso il
corridoio interno.
Effettivamente la Strauss stava arrivando, affiancata da una ragazza
dall’aspetto giovane e dall’improbabile capigliatura. Tra i
capelli neri, tagliati cortissimi, spiccava un lungo ciuffo rosso che
arrivava fino alla spalla della strana ragazza. Indossava un paio di
jeans sdruciti e una camicia nera, mentre ai piedi calzava un paio di
stivali da motociclista. La cosa ancora più strana era il fatto
che la Strauss non sembrasse dare importanza alla cosa, nonostante le
numerose rimostranze fatte fino a quel momento a Hotch per
l’abbigliamento di Garcia, che la caposezione trovava troppo
sgargiante e poco professionale.
Erin si limitò a guardarli con aria di sufficienza prima di
cominciare a salire le scale, mentre la ragazza dagli inespressivi
occhi verdi si fermò a guardare una persona in particolare.
- Agente Prentiss. – disse facendo un cenno di saluto con la testa.
- Agente Collins. – rispose stupita la prima, corrugando le sopracciglia.
Come le due donne sparirono dietro la porta dell’ufficio di Hotch, tutti furono addosso a Emily.
- Ma allora la conosci! – esclamò Morgan spostando lo sguardo da lei alla porta chiusa.
- Non direi che la conosco, ci siamo incrociate
all’Interpol. – Prentiss si mise a sedere puntando lo
sguardo sul ripiano della scrivania – Io fui trasferita in
un’altra sezione due mesi dopo il suo arrivo, ci siamo sempre
limitate ai saluti di rito e quindi non so che tipo sia.
- Faceva parte di un’altra squadra? – chiese JJ avvicinandosi all’amica.
- A Lione funziona in modo diverso. Non ci sono
squadre, gli agenti lavorano da soli ai casi affiancando le forze
dell’ordine che hanno interpellato la sezione di Criminologia. Il
fatto che ognuno abbia il proprio ufficio non facilita la
socializzazione. – spiegò brevemente Emily.
- Un’altra persona che non condivide, proprio
come Rossi; ci mancava. Dal tuo sguardo deduco che ci sia
dell’altro. Cos’è che non vuoi dirci? – Derek
la scrutò insistente.
- Niente, stupidi pettegolezzi senza fondamento.
– tagliò corto la donna – Sai, si fanno un sacco di
chiacchiere sui tipi riservati come Collins.
- Sarà. – concesse l’uomo.
Aveva notato lo sguardo preoccupato che Prentiss aveva rivolto a Reid,
come se non volesse parlare in presenza del giovane genio
dell’unità. Decise di continuare ad interrogarla in un
secondo momento, quando fossero stati soli.
Continua…
* Riferimento all’episodio 06x3 “Mi hai visto?”
Nota dell'autore: l'aggiornamento della storia sarà settimanale da ora in poi. Spero che la nuova stesura vi piaccia.
Un grazie particolare a Ronnie89 che mi beta: grazie per la
disponibilità e l'infinita pazienza nei confronti delle mie
nevrosi XD
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 ***
2
Novembre 2007 – Accademia F.B.I., Quantico, Virginia
Hotchner era seduto dietro la sua scrivania con la lettera di
trasferimento in bella vista sul ripiano, Rossi era alle sue spalle con
le braccia incrociate, mentre le due “ospiti” erano sedute
sulle sedie di pelle di fronte a loro. Mentre Erin Strauss fronteggiava
il caposquadra con aria contrariata, Collins si era placidamente
accomodata a occhi chiusi con le mani raccolte in grembo.
- Avrebbe dovuto parlarne con me, prima di assegnare
un nuovo agente a questa squadra. – Hotch cercava di mantenere la
calma mentre fissava la caposezione negli occhi – Inoltre
quest’unità non serve a fare tirocinio.
- L’agente Collins non ha bisogno di fare
tirocinio. – puntualizzò la Strauss, molto più
rilassata perché conscia della sua posizione di predominio
– Agente Hotchner, lei aveva richiesto che qualcuno dei suoi
agenti fosse autorizzato a specializzarsi in linguaggio non verbale.
E’ corretto?
- Sì, ma non vedo cosa…
La donna lo interruppe subito alzando la mano e cominciando a parlare a sua volta.
- Ho ritenuto che fosse più proficuo usare le
risorse che il bureau ha a disposizione. – incrociò
distrattamente lo sguardo di Rossi e, vedendo l’uomo non
contrariato dalla sua decisione, proseguì più convinta
– L’angente speciale Collins ha ricoperto il ruolo di
criminologa specializzata in comunicazione non verbale per
l’Interpol, aveva fatto richiesta di essere trasferita di nuovo
in America e ho deciso di unire le esigenze di questo team con il
desiderio di un nostro agente di tornare a casa. Inoltre, vorrei
ricordarle che sono la caposezione, queste decisioni sono a mia
discrezione e non sono tenuta a darle spiegazioni in merito.
Dicendo così si alzò per uscire dalla stanza. Con stizza
si riaggiustò la giacca del tailleur e guardò in malo
modo Aaron, che aveva osato ancora una volta sfidare la sua
autorità.
- Immagino che intenda parlare con la sua nuova
agente e quindi vi lascio soli. – raggiunse la porta e
aprì, ma prima di uscire diede un’ultima stoccata al suo
insubordinato sottoposto – Si ricordi, una volta per tutte, che
le mie decisioni non sono sindacabili da parte sua.
Chiuse la porta in malo modo e scese le scale, non degnando di uno
sguardo il resto della squadra. Garcia si fece avanti e provò a
seguirla.
- Caposezione Strauss? – chiamò titubante.
- Cosa vuole, agente Garcia? – chiese Erin con aria accigliata.
- Non vorrei disturbala ma vede… insomma… - quella donna la metteva sempre in soggezione.
- La pregherei di sbrigarsi. – la Strauss
guardò l’orologio con fare annoiato – Ho un
appuntamento con uno degli alti dirigenti e non intendo fare tardi.
- Il dossier del nuovo agente non mi è stato inoltrato. – si decise a sputare fuori Penelope.
- Poteva benissimo prendere l’iniziativa di
chiamare l’ufficio del personale. – sbuffò la
caposezione.
- Ho provato, ma mi è stato detto che tutto il
fascicolo è nelle mani dell’Interpol, quindi ho chiamato
il nostro agente di collegamento e lui mi ha assicurato che è
stato inviato alla sua attenzione. Poi ho chiesto che almeno mi fosse
mandato per via informatica una copia, non ho capito bene quale fosse
il problema, ma hanno cominciato a sbattermi da un interno
all’altro. Avrò parlato con una decina di persone, ma non
riesco a venirne a capo, ora so che lei è molto impegnata
però…
- Basta così. – Erin era chiaramente
adirata – Me ne occuperò io, quando e se avrò
tempo. Spero che si renda conto che è inammissibile che lei non
sia riuscita a risolvere il problema.
- Sì, caposezione Strauss. – Garcia si sentiva umiliata.
La donna si incamminò quindi lungo il corridoio interno,
permettendosi un sorriso soddisfatto. Avrebbe rimesso tutti in riga,
facendo capire chi comandava e che le gerarchie andavano rispettate.
Sapeva benissimo che Garcia non sarebbe mai riuscita ad ottenere quel
dossier, era stata sua premura assicurarsi che l’unica copia
cartacea fosse al sicuro nel suo ufficio e che la copia digitalizzata
non venisse inoltrata al tecnico informatico dell’unità.
Per il momento era meglio che si sapesse poco o nulla sul passato di
Sarah, non voleva che si mettessero ad indagare e scoprissero il suo
piano.
Hotchner aveva intrecciato le mani sul ripiano della scrivania e
guardava la nuova agente con fare indagatore. Cercava di far trasparire
tutto il suo disappunto per quella situazione inaspettata, ma la cosa
sembrava inutile visto che la ragazza continuava a tenere gli occhi
chiusi. Questo trasferimento odorava di trappola e aveva il timore che
la nuova arrivata fosse una spia mandata lì per metterlo in
difficoltà.
- Allora, agente Collins. – cercò di
smuoverla – Non ho il suo fascicolo a disposizione, spero non le
dispiaccia farmi un riassunto della sua attività lavorativa
pregressa.
- Mi sorprende che non abbia ancora ricevuto tutti
gli incartamenti. – finalmente Sarah aprì gli occhi, solo
per puntare il suo sguardo apatico e vuoto sulla libreria alle spalle
del suo nuovo capo.
- L’unica cosa che ho è la lettera di
trasferimento, quindi gradirei che mi parlasse brevemente del suo
precedente incarico. – Aaron cercava di attirare lo sguardo della
ragazza con scarsi risultati.
- Sarah E. Collins, nata a Stafford, Virginia il 25
dicembre 1981. – elencò la ragazza come in una litania
– Mi sono diplomata alla Stafford High School e ho completato i
miei studi ad Harvard. Sono entrata in accademia nel 2002.
- Aveva appena vent’anni. – la interruppe, sorpreso, Hotch.
- Sì, ho saltato un paio di classi. –
tagliò corto la ragazza – Dopo la mia abilitazione ad
agente federale, sono stata assegnata alla sezione di Criminologia
della sede di Lione dell’Interpol, dove ho svolto il lavoro di
profiler sotto la guida del caposezione Battenberg. Da tre anni ho la
qualifica di esperta in comunicazione non verbale e quindi mi occupavo
prevalentemente di interrogatori e analisi delle testimonianze.
- Deve essere stato un duro colpo per i suoi colleghi
privarsi di una collaboratrice così esperta. – Rossi
parlò per la prima volta da quando la ragazza era entrata.
- Sono solo colleghi. – fece spallucce Sarah
senza guardare il suo interlocutore – Ci sarà un altro
agente che verrà riassegnato a quell’incarico.
Aaron aggrottò ancora di più le sopracciglia. Non avrebbe
cavato niente di più da quella strana ragazza, non era un tipo
molto comunicativo e sembrava del tutto indifferente a quello che la
circondava. Si chiese perché avesse chiesto il trasferimento e
se quel suo comportamento non fosse in realtà dovuto a un trauma
di qualche genere.
- Bene, agente Collins. – si arrese infine
– Appena avrò sotto mano i suoi documenti, riprenderemo la
conversazione. Per il momento può andare, vedrò di
affidarle quanto prima un incarico.
- Veramente, – lo contraddisse mentre si alzava
– la caposezione ha già provveduto ad assegnarmi il
riesame di alcune testimonianze relative a casi che saranno dibattuti
presto in tribunale. Però, se lei ritiene di affidarmi anche
altri casi, sarò felice di fare del mio meglio.
- No, per il momento continui con i casi che le sono
già stati assegnati. – Hotchner cercava di trattenere la
rabbia per quella situazione, decidendo che non era giusto attaccare la
ragazza per qualcosa che aveva fatto la Strauss – Ora può
andare.
- Grazie, agente Hotchner. – si avviò
verso la porta e poi si girò a fissare l’uomo in piedi
dietro il suo nuovo capo – Buona giornata, agente Rossi.
- Buon lavoro, agente Collins. – l’uomo le sorrise incoraggiante.
Collins scese lentamente le scale e si fermò vicino alla
scrivania di Prentiss, sotto lo sguardo indagatore del resto della
squadra. Emily si alzò e le sorrise tendendo la mano, la ragazza
dal canto suo sembrò non accorgersi neanche del gesto,
cominciando a parlare rivolta a tutto il team.
- Non credo che l’agente Hotchner verrà
a fare le presentazioni. Quindi dovremmo arrangiarci da soli, anche se
sono sicura che l’agente Prentiss vi avrà già
accennato qualcosa. – fece un sorriso ironico, spostando lo
sguardo sul pavimento.
- Come vi ho già detto, questa è
l’agente speciale Sarah Collins. – Emily decise di non far
caso alla provocazione della sua collega – Questo è
l’agente Derek Morgan, esperto di crimini ossessivi.
Sarah, finalmente alzò lo sguardo per guardare in faccia i suoi
nuovi colleghi, anche se non sembrava particolarmente entusiasta o
partecipe. Si limitò a fare un cenno con il capo ad ognuno di
loro, mano a mano che Prentiss li introduceva.
- La nostra agente di collegamento Jennifer Jareau.
- Puoi chiamarmi JJ. – certa che la nuova
arrivata fosse solo intimorita le prese la mano per stringerla, Collins
ricambiò il gesto con una stretta vigorosa ma senza mutare il
suo sguardo.
- Poi abbiamo Penelope Garcia, è
un’informatica e si occupa di cercare tutto quello che ci
può servire nelle indagini.
- Per qualsiasi cosa chiedi pure a me. – si
pavoneggiò Garcia che, come JJ, decise di tentare un qualche
genere di approccio – Sono a tua disposizione, francesina.
- Francesina? – la ragazza inarcò interdetta un sopracciglio.
- Ti ci abituerai – la rassicurò Morgan – Garcia ha un soprannome per tutti.
Sarah non parve particolarmente colpita, fino a che non si girò
verso l’ultimo rimasto del team. Nonostante non fosse stato
ancora presentato, lui alzò la mano in segno di saluto, ma la
riabbassò sconcertato. La ragazza aveva finalmente mostrato una
qualche emozione: aveva serrato le mascelle e stretto i pugni.
Decisamente era uno sguardo pieno di astio.
- Lui è il dottore Spencer Reid. –
finì Prentiss, sconcertata dal comportamento di Collins.
Dal canto suo, la nuova arrivata voltò le spalle a Spencer in
modo iroso e si mise a sedere alla propria scrivania afferrando un
fascicolo mettendosi a lavorare. Il resto della squadra si fissò
meravigliata per un attimo e poi, come per un muto accordo, ognuno
tornò alla propria occupazione.
Ore dopo
Si stavano tutti preparando per uscire, mentre Morgan rivolgeva ancora
uno sguardo furtivo alla nuova arrivata. La ragazza non sembrava
minimamente intenzionata a tornare a casa molto presto: era ancora
concentratissima su un dossier, mentre continuava a rigirarsi un CD fra
le dita. Garcia apparve nell’openspace, segno evidente che era
giunto il momento di lasciarsi il lavoro alle spalle.
- Collins? – l’apostrofò Derek.
- Sì, agente Morgan? – rispose Sarah, senza alzare gli occhi dai fogli.
- L’orario di lavoro è finito. – le fece notare l’uomo.
- Allora è un uomo fortunato, buona serata.
– tagliò corto la ragazza non degnandolo di uno sguardo.
Il resto del team si avviò all’ascensore facendo
spallucce, guardando Derek camminare contrariato dal tono che Collins
aveva usato: evidentemente Hotch aveva trovato una degna rivale in
quanto a straordinari.
- Che programmi hai per la serata, Garcia? –
disse JJ, cercando di alleggerire l’aria all’interno
dell’ascensore.
- Sono stanchissima, credo che andrò dritta a
casa. – l’informatica sembrava ancora avvilita per il
trattamento che le aveva riservato la Strauss – Voi, avete
programmi?
- Io seguirò il tuo esempio. – Jennifer
continuava a tamburellare nervosamente sulla maniglia della valigetta
– Tu, Spence?
- Eh? – il ragazzo parve ridestarsi solo in
quel momento – Scusami, ero distratto. Cosa stavi dicendo?
- Volevamo sapere che programmi hai per la serata.
– spiegò Prentiss con un sorriso incoraggiante.
- Credo che finirò di leggere quelle nuove
circolari che sono arrivate l’altro giorno. – rispose,
tornando a fissare il vuoto.
- Beh, stasera tutti a nanna presto. – scherzò Morgan, uscendo per ultimo dall’ascensore.
Il garage, già deserto, risuonava dei passi dei ragazzi si erano
incamminati ognuno verso la propria auto dopo essersi scambiati
velocemente la buona notte. Appena arrivato alla vettura, Derek si
girò e fece un gesto a Prentiss, che occupava il posto auto
accanto al suo. Prentiss annuì, afferrò il cellulare e
inviò un SMS, per poi salire in macchina e lasciare il garage
senza voltarsi indietro.
Collins finì di leggere il dossier e poi fissò interdetta
il CD che teneva in mano. Si guardò in giro ed esaminò il
proprio computer, per poi frugare nella borsa con scarsi risultati,
visto l’aria frustrata che assunse. Sbuffò indispettita e
si girò verso l’ufficio di Hotchner, che era ancora
intento a sbrigare delle pratiche.
La ragazza afferrò il fascicolo, si diresse dal suo superiore,
bussò alla porta ed entrò, fissando Hotch con sguardo
spento e assente.
- Posso aiutarla, Collins? – chiese serio Hotch, osservandola.
- Mi sono resa conto che il mio computer non è
fornito di cuffie e non le ho portate; inoltre, mi troverei meglio ad
analizzare il materiale audio-video in un luogo più raccolto.
– la ragazza batté le palpebre e fece un passo avanti,
come vedendo l’uomo per la prima volta – Come vi regolate
qui, sul portare il lavoro a casa?
- Deve fare una copia, l’originale non
può lasciare l’ufficio. – tagliò corto il
caposquadra – Comunque preferirei che lavorasse qui senza far
uscire del materiale dall'archivio. Se dovesse servirle, abbiamo una stanza
apposita che affaccia sul corridoio interno.
La ragazza si voltò per guardare la porta che si apriva
sull’openspace e poi si girò di nuovo verso il suo capo.
- Potrebbe essere più preciso? Ci sono molte
stanze che affacciano su quel corridoio, non vorrei entrare
nell’ufficio di qualche collega senza essere autorizzata.
- Glielo mostrerò domani. – provò Aaron, guardando l’orologio.
La ragazza non rispose, limitandosi a rimanere sulla porta con un’espressione contrariata dipinta sul viso.
- D’accordo. – acconsentì Hotch di
malavoglia – Comunque è molto tardi e lei dovrebbe
già essere uscita.
- Con tutto il rispetto, signore, anche lei dovrebbe
già essere a casa. – rispose la ragazza con un sorrisetto
sarcastico – Evidentemente siamo entrambi sposati con il nostro
lavoro.
Hotch abbozzò un sorriso e le fece segno di seguirlo
superandola: scese le scale e aspetto Sarah, per poi passare insieme
per la porta a vetri che dava verso gli uffici interni. I corridoi
erano deserti: non si sentiva neanche il rumore dei loro passi,
attutito dalla moquette grigia. Il capo del team si ritrovò a
camminare fianco a fianco con quella bizzarra ragazza, indeciso se
fidarsi o meno di lei, avendo ancora la sensazione che fosse una spia
della Strauss.
- Eccoci qui. – disse, aprendo una stanza senza
targhetta e accendendo la luce all’interno – Cerchi solo di
non fare troppo tardi.
- Sì, signore. – Sarah lo guardò
negli occhi per la prima volta – Se permette, lei sembra molto
stanco signore, forse dovrebbe andare a casa.
- Grazie, ma ho da fare. – Aaron la
guardò a sua volta – Comunque, normalmente nella squadra
non siamo così formali: ci diamo del tu.
- Capisco, signore… Hotchner.
- Hotch. – la corresse l’uomo.
- Hotch. – ripeté la ragazza, socchiudendo gli occhi e sorridendo per la prima volta.
Rocket Bar, Washington D.C.*
Prentiss e Morgan occuparono un tavolo d’angolo, in quel locale
fumoso frequentato da motociclisti. Il barista, un giovane e bel
ragazzo moro, gli aveva servito due whisky doppi e si era eclissato con
discrezione.
- Allora? – Derek tamburellò con le dita
sul ripiano del tavolo – Cos’è che non volevi dire
davanti al resto della squadra?
- Beh, senti sono solo chiacchiere e secondo me anche
infondate – Emily si guardò intorno, per poi chinarsi in
avanti verso il suo interlocutore – Ho conosciuto le altre
persone implicate in quei pettegolezzi e ho la certezza che non
può essere come si dice.
- Ma insomma, che diavolo ha combinato la Collins?
– si spazientì l’uomo – Ha ucciso qualcuno?
Prentiss si inumidì le labbra e scosse la testa, spostando lo sguardo sul resto della sala.
- Si diceva che la Collins avesse una relazione di
tipo sessuale con il suo istruttore dell’accademia. – la
donna prese il bicchiere e cominciò rigirarselo nelle mani
– Pare che furono scoperti dalla caposezione e che la Strauss le
abbia impedito di entrare nell’Unità.
- Quindi è stata spedita in Europa per
soffocare lo scandalo. – tirò ad indovinare Derek, mentre
lei trangugiava il liquore.
- No. – Emily poggiò il bicchiere ormai
vuoto e cominciò a giocare nervosamente con l’unghia del
pollice destro – Dicevano che il suo amante, per impedire che
quella cosa nuocesse alla sua carriera, chiese dei favori ad alcuni
vecchi amici e la facesse assegnare alla sezione di Criminologia
dell’Interpol. E’ ancora più difficile entrare
direttamente lì una volta finita l’accademia, credimi. Io
ho impiegato anni prima di essere presa sul serio.
- E’ assurdo. Se fosse così, la Strauss
non le avrebbe mai permesso di rientrare a Quantico, né
tantomeno l’avrebbe assegnata alla nostra squadra. – Derek
parve soddisfatto delle sue deduzioni, liquidando tutta la faccenda con
un gesto di noncuranza – E’ per questo che non volevi
parlarne davanti al resto della squadra? Perché avevi già
capito che erano solo pettegolezzi? Beh, con una storia del genere
avresti tirato su di morale Garcia.
- Non era il caso che ne parlassi davanti agli altri.
– si morse un labbro e poi sputò fuori –
Specialmente davanti a Reid.
- Cosa stai cercando di dirmi? –
l’attenzione di Morgan si ridestò e cominciò a
riesaminare tutte le informazioni che Prentiss gli aveva fornito
– Perché non davanti a Reid?
- Beh, ecco… l’insegnate che accusavano
di essere l’amante di Collins – Emily scosse nuovamente la
testa – Andiamo, lo conosciamo benissimo tutti e due: è
impossibile che abbia avuto una relazione con una sua studentessa o che
l’abbia favorita in questo modo.
- Chi è lui? – chiese Derek, intuendo
già la risposta e capendo cosa avrebbe implicato per Spencer.
- Si diceva che fosse la studentessa “preferita” di Jason Gideon.
Continua…
* Piccolo omaggio a Ronnie e alla sua FF “Storia di un barista e una federale”
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Capitolo 4 *** Capitolo 3 ***
capitolo 3
Auguri di Buona Pasqua a tutti i lettori!
Gennaio 2002 – Accademia F.B.I., Quantico, Virginia
La sala mensa era affollata e risuonava delle chiacchiere dei cadetti,
più rumorosi del solito secondo Gideon. Dal canto suo, lui se ne
stava rintanato in un angolo con davanti il suo vassoio quasi
dimenticato mentre leggeva un libro. Alzò lo sguardo, notando
con la coda dell’occhio un vassoio che veniva poggiato sul suo
tavolo.
Sospirò rassegnato, guardando la cadetta Collins sedersi con
disinvoltura, mentre il resto della sala si zittiva per guardarli. I
cadetti ruppero subito il silenzio per cominciare a bisbigliare e a
darsi di gomito.
- Non credo che sia opportuno mangiare insieme.
– Jason chiuse il libro, conscio che il suo momento di quiete e
tranquillità era terminato – Si fanno già
abbastanza chiacchiere su di noi.
- I cadetti spettegolano in continuazione, è
il loro passatempo preferito. – rispose la bella ragazza,
spostando i lunghi capelli neri dietro le spalle – Non vedo cosa
ci sia di male se approfitto della pausa pranzo per confrontarmi con il
mio professore su alcuni punti della lezione appena conclusa.
- Non vedi cosa ci sia di male, eh? – Gideon
sorrise divertito – Non ti interessa che la tua carriera potrebbe
essere stroncata?
- Perché la mia carriera dovrebbe essere
stroncata? – la ragazza sorrise di rimando, poggiando i gomiti
sul tavolo e osservando il suo interlocutore – Dicono che abbiamo
una relazione: anche se fosse? Non credo che questo influisca in un
modo o nell’altro sulla mia preparazione.
- Dovresti stare più attenta. Che tu ci creda
o no, una volta diventata agente speciale dovrai fare molta attenzione
a seguire la politica interna del bureau.
- Uffa! Sempre la solita solfa. – si
lamentò Sarah incrociando le braccia – Piuttosto,
perché non parliamo della lezione di oggi su Ed Gein. E’
inquietante che si siano ispirati a lui per libri e film, non trovi?
Collins continuava a parlare, mentre Jason sorrideva bonario non
prestando molta attenzione a quello che la ragazza diceva. Era
più concentrato sul notare quanto bella fosse: i lunghi capelli
neri, leggermente mossi, incorniciavano un viso dai lineamenti
regolari; gli occhi, grandi ed espressivi, erano di un intenso color
verde, che raramente il profiler aveva visto; inoltre, il suo viso era
illuminato da quel sorriso spensierato che riusciva sempre a
rischiarare le sue giornate.
Sarah era diventata importante nella sua vita, ma aveva paura che il
loro legame potesse essere di ostacolo al desiderio della ragazza di
entrare nella B.A.U. e diventare una profiler. Si concesse di sbirciare
il resto della sala, incontrando solo sguardi di disapprovazione o
quelli di invidia di qualche cadetto che avrebbe voluto destare
l’interesse di Collins.
Novembre 2007 – Accademia F.B.I., Quantico, Virginia
Spencer guardò l’orologio mentre attendeva
l’ascensore, constatando che era ancora presto e che sicuramente
sarebbe stato il primo ad arrivare. Si girò di scatto, vedendo
un’ombra al suo fianco. Tornò a guardare dritto davanti a
sé, con una nuova tensione addosso, mentre le porte si aprivano
con il classico rumore di campanello che annunciava che
l’ascensore era al piano.
Entrambi entrarono in silenzio e Reid premette il bottone del terzo
piano. Abbassò lo sguardo, deciso ad ammirarsi i piedi fino a
che non avresse potuto eclissarsi.
- Ti chiedo scusa.
La calda voce femminile lo costrinse ad alzare gli occhi sulla sua
compagna di viaggio. Collins indossava abiti simili a quelli del giorno
prima, in una mano teneva una tazza da viaggio e nell’altra un
borsone. La ragazza guardava i numeri che lentamente si accendevano in
successione, senza guardarlo direttamente.
- Per ieri – precisò, visto il mutismo dell’altro – Credo di doverti una spiegazione.
Sorseggiò il suo caffè e poi aggrottò le sopraciglia, mentre Spencer la guardava di sottecchi.
- Quando, tre anni fa, ci fu l’incidente di
Boston io chiesi il trasferimento – fece una risatina sarcastica
– Visto che si erano “liberati” dei posti, credevo
che sarei stata riassegnata a questa squadra. Immagina il mio
disappunto quando mi hanno riferito che Gideon mi aveva preferito un
certo dottor Reid, uno appena uscito dall’accademia. Volevo
tornare a casa ed invece, visto che il posto nella squadra era toccato
a te, dovevo rimanermene a Lione.
- Mi dispiace – si scusò il ragazzo, mordendosi un labbro.
- Non devi – la ragazza fece spallucce –
Non è colpa tua, evidentemente videro in te delle
potenzialità che io non avevo. Quello di ieri è stato un
comportamento infantile da parte mia e me ne scuso ancora.
Il ragazzo tornò ad abbassare lo sguardo, ma un leggero sorriso
gli incurvò le labbra, mentre pensava che forse la nuova
arrivata non era così male se sapeva chiedere scusa.
Era così preso ad esaminare ancora il comportamento di Collins e
a chiedersi che tipo fosse, che non si era accorto che le porte
dell’ascensore si erano aperte e la ragazza era uscita. Ora era
ferma a pochi passi da lui e lo guardava con occhi spenti e apatici.
- Dottor Reid? – chiamò piano Sarah.
- Ehm… ero soprapensiero – si
giustificò il ragazzo, aggiustandosi una ciocca di capelli
dietro l’orecchio.
- Ti capisco – la ragazza aspettò che
lui uscisse per incamminarsi insieme – Capita spesso anche a me.
Dicono che le persone con un Q.I. sopra i centocinquanta si perdano
spesso dietro i propri pensieri.
Spencer afferrò la maniglia e aprì la porta, per poi guardare la ragazza con aria interrogativa.
- Capita spesso anche a lei? – non era quella
la domanda che voleva rivolgerle e ingoiò, impacciato.
- Non ti allarmare – gli sorrise distratta la
ragazza, rispondendo come se gli avesse letto nel pensiero – Sono
solo 178. Sei ancora tu il più intelligente della squadra.
Dicendo così lo superò per andare a sedersi alla propria
scrivania. Reid pensò agli uffici ancora vuoti e si chiese come
avrebbe retto la tensione di stare solo con lei fino all’arrivo
degli altri.
Febbraio 2002 – Accademia F.B.I., Quantico, Virginia
Jason era intento a correggere i compiti dei cadetti, sapendo che
avrebbe dovuto consegnare gli esiti dell’esame entro due giorni.
Annuì leggermente, mentre constatava compiaciuto che il compito
che stava correggendo era ben fatto e accurato nelle conclusioni:
sapeva già, senza bisogno di leggere, a chi apparteneva quello
scritto che meritava il massimo dei voti. Sorrise soddisfatto, contento
dei progressi che la ragazza stava facendo e di come assorbisse come
una spugna tutto quello che lui diceva.
Tornò serio sentendo bussare alla porta. Guardò
l’orologio a parete di fronte a lui e si accigliò.
L’orario di ricevimento degli studenti era finito da circa
mezz’ora e lui aveva fretta di uscire: quella sera aveva un
impegno a cui non intendeva mancare. Senza aspettare risposta, il
ritardatario aprì piano la porta e si affacciò.
Con grande sorpresa di Gideon, Sarah apparve sorridente sulla soglia
del suo ufficio con una grande busta regalo in mano. Sbatté le
palpebre interdetto, ma le fece segno di entrare.
- E’ successo qualcosa? – chiese preoccupato.
- Deve essere successo qualcosa perché io
venga a trovarti? – rispose lei, chiudendo la porta con un
sorriso birichino.
- L’orario di ricevimento è finito e tu
sei un tipo puntuale. – voleva rimproverarla, dirle che non era
appropriato, ma era rapito dal sorriso raggiante della ragazza.
- Ho pensato che fosse meglio che venissi quando
tutti gli altri se ne erano andati. Come dici sempre tu, girano
già abbastanza chiacchiere su di noi. – lo prese in giro,
porgendogli la busta che teneva in mano – Buon Compleanno.
- Non avresti dovuto. – farfugliò lui,
prendendo il regalo e aprendo la confezione – Se me lo avessi
detto, ci saremmo accordati per vederci fuori. Non è bene che io
esca di qui con un regalo che mi hai fatto tu.
- Adesso non posso più neanche fare un regalo
al mio insegnante preferito? – si poggiò con le mani sul
tavolo e reclinò la testa, non smettendo di sorridere neanche un
attimo – Piuttosto, vedi di dirmi che sei entusiasta di quello
che ho scovato per te, vecchio orso brontolone.
- Non dovresti rivolgerti così ad
un’insegnate. – la redarguì lui, con tono falsamente
severo, mentre cercava di scogliere i nastri che chiudevano la busta.
- Non mi rivolgo così ai miei insegnanti.
– rispose ridendo allegra – Lo faccio solo con te.
- Io non sono un tuo insegnante? Mi sembrava di stare
appunto correggendo il tuo compito. – Jason riuscì
finalmente ad aprire la confezione, ma si fermò per guardarla
– Di’ la verità. Il tuo esame è andato
malissimo e stai cercando di corrompermi per avere un bel voto.
- Tu sei molto più di un’insegnate
– la ragazza reclinò il capo, smettendo di sorridere e
guardandolo intensamente – Noi siamo molto più che
insegnante e allievo.
- Sarah… - l’uomo fissò Collins
ricambiando la forza di quello sguardo – Sarà meglio che
mi decida a vedere cosa tu mi abbia regalato.
Aprì finalmente la busta e afferrò il disco in vinile che
vi era dentro. Quando lo tirò fuori e vide il titolo non
riuscì a soffocare un’esclamazione di sorpresa.
- Frank Sinatra! Quest’album è
introvabile in America.* – Jason guardò stralunato il
disco che teneva in mano.
- Sapevo che ti sarebbe piaciuto. –
squittì Sarah battendo leggermente le mani e guardandolo
contenta.
- Avrai speso un mucchio di soldi, non dovevi.
– Gideon si sentì in colpa perché non avrebbe
passato quella serata con lei.
- Più che altro ho fatto fatica a trovarlo.
– fece il giro della scrivania, l’abbracciò e lo
baciò su una guancia – Auguri.
- Sarah, – lui l’allontanò delicatamente – ti ringrazio, ma ora devo proprio andare.
Dicendo così, cominciò a mettere i compiti non ancora
corretti nella valigetta; poi prese il vinile e lo ripose con cura
nella busta regalo.
- Hai qualche impegno? – chiese lei, cercando di non apparire delusa.
- Vado a cena con mio figlio. – Jason
evitò il suo sguardo – Sai che abbiamo un rapporto
difficile e sto cercando di ricucirlo.
- Certo, la famiglia prima di tutto. – scosse
la testa e tornò a sorridere, anche se non riusciva a nascondere
la delusione – Ancora tanti auguri, divertiti.
Si avviò verso la porta, decisa a non fargli pesare il fatto che non sarebbero andati a cena insieme per festeggiare.
- Potresti venire a cena da me, domani. – si
lasciò sfuggire lui – Sempre che tu non abbia altri
impegni.
La ragazza si voltò sorridendo. Jason meditò che sembrava un angelo.
- Certo che ho un impegno. Cenerò con il mio
agente federale preferito! – aprì la porta, continuando a
guardarlo – Se non l’hai capito, sto parlando di te.
Novembre 2007 – Uffici B.A.U., Quantico, Virginia
A differenza delle aspettative di Reid, non erano i primi ad essere
arrivati: Rossi sorrideva ai due ragazzi dalla porta del suo ufficio.
Collins non sembrò neanche notarlo, dirigendosi spedita alla sua
scrivania e sistemando il borsone da viaggio sotto di essa. Spencer,
invece, la seguiva a qualche passo di distanza, fissando l’agente
supervisore e chiedendosi come mai quel giorno fosse arrivato
così presto.
- Buongiorno – li salutò David, scendendo un paio di gradini – Collins, potrei parlarti?
La ragazza alzò la testa di scatto, accorgendosi solo in quel
momento della presenza dell’uomo più grande. Batté
le palpebre leggermente interdetta, poi fece spallucce e si diresse
verso le scale. Rossi le tenne la porta aperta e la invitò ad
accomodarsi con un gesto noncurante.
Collins si mise a sedere su una delle sedie davanti alla scrivania dove David si era seduto in atteggiamento rilassato.**
- Agente Collins – esordì con tono conciliante Rossi – Volevo parlarle in privato.
- Di cosa, signore? – rispose la ragazza con il tono più professionale che aveva.
- Lei è la figlia di Mary Elizabeth, vero?
- Ha conosciuto mia madre? – la ragazza era shoccata.
- Sì, anche se sono molti anni che non la vedo. Spero stia bene.
- E’ attaccata ad un respiratore da otto anni
– rispose la ragazza con tono indifferente – Ormai è
solo un vegetale.
- Sono mortificato – Dave sembrava estremamente partecipe – Come? Se posso…
- Un incidente. Un guidatore ubriaco.
- Mi dispiace molto, Collins. Le mie più sentite condoglianze.
- E’ passato molto tempo, ormai. Non si
preoccupi, l’ho superato – era diventata una bugia
standard, non aveva superato un bel niente, ma aveva imparato che a
nessuno importava veramente; perché mostrare un dolore di cui
nessuno sarebbe stato partecipe se non per mera cortesia?
- Sua madre era una donna eccezionale, mi dispiace
moltissimo… Era anche estremamente bella ed intelligente.
- La conosceva molto bene, dunque.
- Sì. – sospirò alzandosi,
prontamente seguito da lei – Per qualsiasi cosa il mio ufficio
è sempre aperto. Anche solo per fare due chiacchiere.
- Lo terrò presente, signore.
Rossi parve ripensarci mentre lei era già sulla porta.
- Il suo istruttore in accademia è stato Jason Gideon, vero?
Sarah si girò ad osservarlo, mascherando il suo stupore dietro la facciata di indifferenza che ostentava sempre.
- Sì, signore.
- Credo sia molto orgoglioso di lei, Collins.
- Non saprei, signore, ma sono portata a credere di
no – chiuse la porta senza aspettare la risposta di Rossi.
L’openspace, nel frattempo, si era animato all’arrivo del
resto degli agenti. Sembrava che tutta la squadra fosse già sul
posto di lavoro, ma Sarah non avrebbe saputo dirlo, visto che Garcia e
JJ avevano un proprio ufficio. Si avvicinò alla scrivania e
afferrò i fascicoli che stava studiando la sera prima,
limitandosi a fare un cenno di saluto a Prentiss e Morgan.
- Se il capo mi dovesse cercare – disse,
rivolgendosi a Reid – Potresti dirgli che sono nella sala
audio-visivi?
- Certo – balbettò Spencer, ancora scombussolato per la chiacchierata di prima.
Collins si incamminò a passo svelto e si chiuse a chiave nella
saletta insonorizzata. Lasciò cadere a terra i dossier, mentre
scivolava con la schiena lungo la porta, premendosi entrambe le mani
sulla bocca per soffocare i singhiozzi che la scuotevano.
- Ti ha chiesto di avvertire Hotch? – JJ parve
stupita e sconcertata – Beh, dopo come si è comportata con
te ieri, al suo posto non mi sarei permessa di chiederti un favore.
- Veramente – Reid arrossì lievemente,
sotto lo sguardo di Garcia, Jennifer, Prentiss e Morgan –
Stamattina si è scusata, più di una volta.
- Si è scusata? – Penelope parve la
più sorpresa – Miss Ghiacciolo si è scusata?
- E’ mi ha anche spiegato perché mi ha
guardato così ieri – il ragazzo si portò una ciocca
di capelli dietro l’orecchio – Devo ammettere che a parti
invertite, probabilmente anch’io proverei un po’ di rancore
nei suoi confronti.
- Perché, cosa le avresti fatto? – chiese Morgan, scambiandosi occhiate preoccupate con Prentiss.
- Quando fece domanda di trasferimento, Gideon scelse
me al suo posto – Spencer si inumidì le labbra, timoroso
che gli altri non capissero il comportamento della ragazza –
Voleva tornare a casa ed invece è dovuta rimanere in Francia per
altri tre anni.
- Beh, quanto meno si è scusata – gli
sorrise Prentiss – Non credo che sia una cattiva ragazza, anche
se sembra diversa da come la ricordavo.
- Perché, che tipo era? – chiese Penelope, incuriosita.
- Non aveva quello sguardo spento e non evitava di
guardare gli altri negli occhi. Certo, non era un tipo espansivo, anzi
era così riservata che ci siamo scambiate sempre e solo i saluti
di rito – distolse lo sguardo, cercando di rievocare
l’immagine della ragazza che ricordava – Portava i capelli
lunghi raccolti in una coda di cavallo, indossava solo tailleur
pantalone e sorrideva sempre in modo triste. Sembrava che portasse il
peso del mondo sulle spalle.
- Perfetto, era nella fase che io ho attraversato a
quindici anni: quale ragazzo che gioca a fare l’incompreso non si
comporta come se avesse il peso del mondo sulle proprie spalle? –
scherzò Derek.
- Forse non porterà sulle spalle il peso di
tutto il mondo, – rispose Rossi, attraversando il gruppo e
dirigendosi nell’area relax – però il peso del suo
di mondo le basta e le avanza.
- Perché, tu cosa sai di lei? – chiese Morgan a voce alta.
David non rispose, andando a prendersi un caffè nel cucinino.
Continua…
* Sinatra Sings Great Songs from Great Britain Il disco registrato a Londra e destinato esclusivamente al mercato inglese.
** Scena e dialogo sono ripresi dalla one-shot “Dirty little secret”.
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Capitolo 5 *** Capitolo 4 ***
capitolo 5
Novembre 2007 – Accademia F.B.I., Quantico, Virginia
Aveva passato tutta la giornata chiusa nella sala audio-visivi,
evitando la squadra anche nell’ora di pranzo. Era uscita di
soppiatto dal suo nascondiglio pensando che, vista l’ora, i suoi
colleghi fossero andati a casa e si era precipitata in bagno per
cercare di darsi una rassettata. Il crollo emotivo che aveva avuto
quella mattina era qualcosa che non si sarebbe mai aspettata, ma non si
sarebbe aspettata neanche di dover parlare di sua madre in quel posto.
Il fatto che Rossi l’avesse menzionata, che l’avesse
conosciuta prima che lei nascesse, era qualcosa che non aveva calcolato.
Chiuse l’acqua dopo essersi lavata accuratamente il viso per
cancellare le tracce di mascara colato e si guardò allo
specchio. Il sospetto che David sapesse più di quello che aveva
detto era un tarlo che le si era piantato nel cervello e non riusciva a
scacciarlo. Il vecchio profiler era un nemico pericoloso e lei
l’aveva sottovalutato: dal tono che aveva usato durante il loro
breve colloquio sembrava che sapesse perché la Strauss
l’aveva assegnata proprio alla squadra di Hotch.
Chinò la testa e si mise ad osservare il lavandino senza
realmente vederlo: se anche i suoi dubbi erano fondati, non c’era
niente che potesse fare per impedire a Rossi di mettere la squadra sul
chi vive.
Si chiese distrattamente se non avrebbe fatto meglio a parlare con Erin
di quella “chiacchierata fra amici” e chiedere consiglio a
lei. Aveva paura che, presa in contropiede da quel nuovo sviluppo, la
caposezione potesse decidere di tornare sui suoi passi e rispedirla a
Lione in attesa di un’occasione più propizia. Non poteva
tornare là, piuttosto avrebbe dato le dimissioni e si sarebbe
cercata un lavoro. Con i suoi titoli accademici e le sue
capacità non sarebbe stato difficile trovare un nuovo impiego.
Forse avrebbe fatto bene a ripiegare su un’altra carriera e
mollare tutto in quel preciso istante, tirandosi fuori da tutta quella
storia. Scosse la testa, non poteva rinunciare alla sua vendetta nei
confronti di Jason.
Le sue elucubrazioni furono interrotte dalla porta del bagno che veniva
aperta. Alzò la testa di scatto, guardò l’immagine
riflessa di Prentiss che se ne stava dritta in piedi dietro di lei e la
guardava accigliata.
- Tutto bene, Collins? – chiese Emily, scrutando la sua nuova collega.
- Sì, certo. – rispose troppo
velocemente – Cosa le fa pensare che ci sia qualcosa che non va?
- Hai il viso tirato, sembri molto stanca. – fece notare Prentiss, facendo un passo avanti.
- Non mi sono ancora abituata al cambio di fuso
orario e passare tutto il giorno ad esaminare filmati mi affatica la
vista. – cercò di giustificare così il rossore
intorno agli occhi, dovuto al fatto che era nuovamente scoppiata in
lacrime poco prima di lasciare il suo “rifugio”.
- Certo. – minimizzò l’altra donna
– Comunque se volesse parlare o andare a bere qualcosa
insieme…
- No, grazie. – decise di essere stata troppo
brusca e si girò con un mezzo sorriso sulle labbra –
Stasera sono molto stanca. Però potremmo andare a bere qualcosa
un’altra volta.
- Un’altra volta. – acconsentì Emily, ricambiando il sorriso di circostanza.
Sarah la superò e uscì dal bagno, rimproverandosi di
essersi lasciata vincere dall’emotività e aver permesso ai
suoi problemi personali di interferire con i suoi piani. Uscire a bere
qualcosa “fra donne” poteva essere un ottimo modo per
conquistare la fiducia di Prentiss e riuscire a carpirle qualcosa su
Hotchner o qualche eventuale mancanza di uno dei loro colleghi. Se
voleva tirarsi fuori da quell’intrigo il prima possibile, avrebbe
fatto meglio a sfruttare tutte le occasioni per procurarsi le
informazioni che interessavano alla Strauss.
Mentre ripercorreva il corridoio verso la sala audio-visivi,
sentì delle voci e si girò per indagare. Contro le sue
previsioni sull’orario di lavoro dei suoi colleghi, vide JJ,
Garcia e Reid in piedi al centro dell’openspace, intenti a ridere
e scherzare fra di loro. Da qualche stralcio di conversazione che
arrivo fino a lei, capì che stavano aspettando Prentiss per
uscire tutti insieme a bere qualcosa. Aggrottò le sopracciglia e
si incamminò verso la sua destinazione, dando le spalle a quella
scena così nuova e strana per lei.
Battenberg non avrebbe visto di buon’occhio
quell’interagire fra colleghi e quei legami così stretti
che esulavano dai normali rapporti di lavoro. Per il suo vecchio capo,
bisognava lasciare la vita privata fuori dall’ufficio e
l’ufficio fuori dalla propria vita privata. Si permise un sorriso
sarcastico: quello valeva solo per lei. Sapeva benissimo che i suoi
colleghi dell’Interpol uscivano abitualmente tutti insieme la
sera, ma lei non era invitata e facevano di tutto per tenerlo nascosto,
con scarsi risultati.
Vide la porta aperta della stanza in cui era diretta e si
affrettò, ricordava perfettamente di averla chiusa prima di
andare in bagno e non voleva che qualcuno mettesse mano nel suo lavoro:
gli altri finivano sempre per fare un macello e lei doveva poi
riordinare secondo il suo metodo. Era proprio la sua maniacalità
in fatto di ordine che le rendeva difficile lavorare con gli altri: la
cosa era ridicola, casa sua era un caos, ma in ufficio il cassetto
della sua scrivania era organizzato in modo impeccabile.
Si affacciò, curiosa di vedere chi osasse mettere mano nei suoi
dossier e si ritrovò davanti Morgan che si guardava in giro con
le mani in tasca. Appena vide Collins le sorrise e le strizzò
l’occhio.
- Eccoti, finalmente!
- Mi cercava, agente Morgan? – si chiese cosa potesse volere da lei.
- Sei stata rintanata qui tutto il giorno e ho deciso
di venire ad assicurarmi che tu fossi ancora viva. – la raggiunse
sulla porta e la guardò negli occhi – Abbiamo tutti finito
per oggi e stavamo per uscire. Perché non ti unisci a noi? Un
bicchierino per rilassarsi, niente di ché.
- La ringrazio, mi aveva invitato anche
l’agente Prentiss, ma stasera sono troppo stanca. – rimase
spiazzata dal fatto che l’avessero invitata due volte per
quell’uscita.
- Andiamo, vedrai che ti farà bene. –
allungò una mano e l’afferrò per una spalla.
La reazione della ragazza lo lasciò un attimo perplesso: con un
gesto brusco si liberò dalla presa e poi si afferrò la
spalla che lui aveva toccato, mentre i suoi occhi si spalancarono,
rendendo ancora più evidente che le pupille si erano dilatate.
Rimasero fermi per qualche istante ad osservarsi: Morgan con
un’aria preoccupata, Collins con lo sguardo di un animale ferito.
Derek la superò, cercando di non toccarla, e chiuse la porta.
- Stai bene? – le chiese, cercando di mantenere una certa distanza.
- Non… non lo faccia mai più. –
la ragazza aveva il respiro affannato – Non mi deve toccare!
- Hai sporto denuncia? – l’uomo si morse
la lingua e sospirò, scuotendo la testa – Se vuoi posso
darti il nome di una buona analista: il sopporto psicologico in questi
frangenti…
- Non ho bisogno dello strizzacervelli! – Sarah
chiuse gli occhi e cercò di recuperare il controllo di sé
– Sono stanca e lei mi ha preso alla sprovvista, tutto qui.
- Non è tutto qui e lo sappiamo entrambi. Se vuoi parlarne…
- E lei ne vuole parlare, agente Morgan? – il
suo sguardo si fece cattivo – Mi dica, visto che è tanto
per la condivisione, chi è stato? Suo padre? Uno dei suoi
professori? Un amico più grande?
Fu la volta di Derek di rimanere pietrificato. Si riscosse e la guardò scuotendo la testa.
- Non so cosa credi di sapere, ma…
- Sa che il linguaggio del corpo dice molto di una
persona? Anche il comportamento aiuta a fare un profilo accurato.
Sicuro di voler parlare? – si allontanò da lui per
riprendere le sue cose, ma senza staccargli gli occhi da dosso.
- Noi non ci facciamo il profilo a vicenda. – la redarguì il profiler.
- La correggo subito: voi non vi dite quello che il
vostro comportamento rivela. Sono due cose diverse. – lo sguardo
era sempre malvagio – Crede che non mi sia accorta di nulla? Sa
qual è la mia qualifica? Esperta in comunicazione non verbale.
Sa che il protocollo vieta le relazioni fra colleghi?
- Ascoltami bene, ragazzina. – Morgan stava per
perdere il controllo – Non so chi tu creda di essere, ma qui si
lavora in squadra e se non sei capace di interagire con gli
altri… beh, forse è il caso che te ne torni a Lione.
Dopo aver detto questo, aprì la porta e uscì con fare
imperioso, per poi richiuderla dietro di lui sbattendola. Sarah si
strinse sulle spalle e si mise a sedere sull’unica sedia della
stanza, visibilmente scossa e di nuovo con le lacrime agli occhi.
Decisamente era ancora troppo vulnerabile emotivamente per svolgere al
meglio il compito che le era stato assegnato.
Appartamento di Gideon, Quantico, Virginia.
Si svegliò di soprassalto, sudata e con il fiato corto. Si mise
a sedere mentre cercava di recuperare il normale ritmo respiratorio e
si guardò intorno. Cercò di focalizzare la stanza: era
come quando ci si svegliava il primo giorno in vacanza e non si
ricordava esattamente dove ci si trovava. Respirò a fondo e
scese dal letto, decidendo che la cosa migliore per scacciare i residui
del solito incubo fosse un bicchiere di whisky.
Accese la luce del soggiorno, miseramente vuoto, e si diresse verso
l’angolo cottura. Sapeva che era sbagliato cercare rifugio
nell’alcol, ma a volte le riusciva impossibile dormire senza quel
piccolo aiuto. Era passato già un mese, eppure le sembrava che
fosse tutto avvenuto solo il giorno prima. Si versò una dose
generosa del liquido ambrato e si diresse alla finestra.
Vista da fuori, sembrava che lei fosse scappata per quello che era
successo mentre in realtà era tutto avvenuto perché lei
aveva deciso di tornare a casa. Si diede di nuovo della stupida: cosa
pensava di ottenere affrontandolo? Non sarebbe dovuta andare da Mark,
non avrebbe dovuto metterlo al corrente del fatto che sarebbe tornata a
Washington. Eppure, sul momento, le era sembrato l’atteggiamento
migliore: non voleva dare l’impressione di stare scappando da lui
di nascosto, come una ladra nella notte. Voleva tornare a casa e il
pensiero di lui non l’aveva sfiorata fino a quando non aveva
ricevuto la telefonata della Strauss che la richiamava in America.
Scostò la tenda, sapendo già che le sarebbe apparsa solo
la strada buia e vuota, illuminata dai lampioni stradali. Fu sorpresa
di vedere una figura ritta sul marciapiede, specialmente quando
riconobbe la persona che si stringeva il cappotto addosso.
Gli sguardi di Collins e di Reid si incrociarono, rendendo chiaro che
nessuno dei due si aspettava di vedere l’altro lì. Sarah
lasciò andare la tenda e fece qualche passo indietro, poi, senza
riflettere, si diresse a passo sicuro verso il citofono e fece scattare
il portone: non poteva certo lasciare il suo collega a morire di
freddo.
- Sali, Reid. – scandì al microfono, sospirando subito dopo.
Non era in vena di fare conversazione e aveva paura di cosa Morgan
aveva raccontato al resto della squadra dopo la loro
“condivisione” delle reciproche esperienze. Aveva paura che
Reid fosse lì per cercare di essere d’aiuto e lei non
l’avrebbe sopportato: non voleva l’aiuto di nessuno, voleva
solo essere lasciata in pace. Possibile che nessuno riuscisse a capire
questa semplice verità? Lei non si sentiva una vittima e non
avrebbe permesso a nessuno di trattarla come tale.
Aprì la porta, pronta a trovarsi davanti Spencer che, con aria
contrita, le chiedeva se poteva fare qualcosa o se le andava di
parlare. Invece si trovò davanti la faccia sconcertata del
ragazzo, che la guardava come se fosse un’aliena.
- Che ci fai tu qui? – le chiese, passando a darle del tu.
- Che domande! Ci vivo. – Collins si
scostò in modo che il ragazzo potesse entrare e poi chiuse con
tutte le mandate ed inserendo il chiavistello – Piuttosto cosa ci
fai tu qui a quest’ora? E’ normale presentarsi a casa dei
colleghi nel cuore della notte?
- Io… non sapevo che tu vivessi qui. –
Spencer cominciò a spostare il peso da un piede all’altro
– L’altra settimana sono passato qui davanti e ho visto le
luci accese, così mi sono chiesto… Che sciocco, tu non
puoi sapere…
Collins lo guardò, studiando ogni suo minimo movimento e
cercando di capire cosa frullasse nella testa del ragazzo. Bevve un
sorso velocemente e poi lo superò, dirigendosi verso i pensili
dell’angolo cottura, per versare anche a lui un bicchiere di
whisky.
- Perché non ti siedi e non mi spieghi cosa ha
di speciale questo appartamento? – si chiese quanto fossero uniti
Jason e il piccolo genio dell’Unità.
- Era… era di un mio caro amico. –
rispose Reid, accomodandosi sul vecchio divano e guardando la stanza
vuota con un’espressione sconcerta.
- Devo ancora trovare il tempo di andare a fare
compere. – lo prevenne lei, avendo seguito lo sguardo del ragazzo
e avendo capito come doveva apparire quel posto ai suoi occhi –
Non sono molto brava come arredatrice, ma a mia discolpa posso dire che
il mio trasferimento è stato piuttosto repentino e questo posto
l’ho trovato da poco. Chi era questo tuo amico che viveva qui?
Si accomodò su uno degli sgabelli della penisola e
cominciò a fissarlo attentamente. Ogni più piccola
microespressione poteva rivelarle parecchio su cosa unisse quel giovane
dall’aria timida e l’uomo che più odiava al mondo.
“L’informazione è potere”*, apprezzava la
verità intrinseca di quell’affermazione e trovava perfetto
il fatto che l’uomo che l’aveva pronunciata aveva fondato
l’Ente per cui lavoravano entrambi.
- Jason Gideon. – Spencer sembrava triste e malinconico – Forse l’avrai conosciuto.
- Certo, era uno dei miei insegnati quando studiavo
in Accademia. – sperò che il suo tono stupito fosse stato
convincente – Quindi Stephen è suo figlio? Pensavo che il
cognome fosse solo una coincidenza.
- Non sapevi che viveva qui? – il ragazzo sorrise imbarazzato.
- Perché avrei dovuto saperlo? – Sarah
fece spallucce – Non ho la più pallida idea di dove vivano
i miei insegnanti.
- Già, che sciocco. – Reid si strinse ancora più nel cappotto.
- Devi essere gelato. – il tono della ragazza
era di rimprovero – Come ti è saltato in mente di
appostarti per strada di notte in pieno novembre? A Washington poi!
- Non… non era previsto. – si
giustificò, mordendosi le labbra – Passavo qui e…
non so, ho avuto l’impulso di accostare e scendere a vedere.
- Vedere cosa? – lo prese in giro lei, facendo
il giro del bancone e aprendo il frigorifero – Quanto tempo ci
avresti messo a diventare un ghiacciolo? Avevi intenzione di citofonare
alle… - guardò l’orologio sopra il camino –
Cavoli, sono le due del mattino.
- Non mi sarei mai permesso di citofonare, non sapevo che ci vivessi tu.
- Sei fortunato, ho del latte. – dicendo
così aprì uno dei pensili e tirò fuori un
pentolino – Latte caldo e cognac… beh, dovrai
accontentarti del whisky, ma credo sia lo stesso. Mia madre me lo
preparava sempre quando faceva freddo. Diceva che aiuta a scaldarsi.
Reid si alzò e cominciò a girare per la stanza vuota,
mentre la ragazza scaldava il latte e lo controllava di sottecchi.
Notò la collezione di libri, tutte edizioni rilegate, per lo
più di narrativa contemporanea: abbozzò un sorriso,
rendendosi conto di non conoscere la metà degli autori che la
sua collega leggeva. Quei pochi che gli erano noti scrivevano di
fantascienza o erano poeti. Non c’era molto altro da vedere: un
divano malandato, la libreria che ricordava dai tempi di Gideon, un
orologio a parete e un paio di fotografie. Si infilò le mani in
tasca e osservò con attenzione le persone ritratte.
Una era una foto di famiglia: una bella donna bionda dagli occhi
celesti, un uomo distinto dai capelli brizzolati ed una bambina dai
lunghi capelli neri. La donna bionda aveva un ché di familiare,
come se l’avesse incontrata. Aggrottò le sopraciglia e si
rispose che era solo una sua impressione: se fosse stato vero, la sua
memoria eidetica avrebbe saputo dirgli immediatamente chi fosse e dove
si erano incontrati. Subito accanto alla prima, c’era un ritratto
di una ragazzina con la tunica e il tocco: avrebbe detto che fosse sui
quattordici o quindici anni, troppo giovane per essersi già
diplomata. Era, evidentemente la stessa bambina della foto precedente,
sempre con lunghi capelli neri e occhi verdi. Si girò a guardare
la sua collega; si chiese come mai avesse deciso di cambiare
così drasticamente taglio e poi si rispose che, molto
semplicemente, era cresciuta e aveva cambiato gusti.
- Scusami, Collins. – aspettò che la
ragazza si voltasse verso di lui, prima di farle la sua domanda –
Questa è la tua foto del diploma?
- Perché non ti limiti a chiedere quello che
vuoi veramente sapere? – per la prima volta da quando la
conosceva, la vide sorridere apertamente – Puoi chiederlo senza
doverci arrivare prendendola alla larga. Allora? Vuoi farmi la domanda
che ti angustia tanto?
- Quanti anni avevi? – balbettò Spencer.
- Tredici. – il suo sorriso si fece dolce
– Te l’ho già detto. Non devi temere, sei ancora tu
il genio della squadra.
Il ragazzo arrossì e si portò una ciocca di capelli
dietro l’orecchio. Non sapeva perché, ma era convinto che
la ragazza sorridente che aveva di fronte in quel momento fosse la
“vera” Sarah Collins: non quella taciturna e riservata
agente federale che aveva visto fino a quel momento.
La guardò avvicinarsi con una tazza di latte caldo in mano, dopo
che vi aveva versato un goccio di whisky, e si chiese cosa nascondesse
dietro quegli occhi perennemente tristi. Cercò di nascondere
l’imbarazzo per quel pensiero bevendo una sorsata abbondante.
- Decisamente scalda. – disse sorridendo e spostando lo sguardo per terra.
- Siediti. – disse Sarah accomodandosi per
prima sul divano – E ora dimmi: quante me ne avete dette stasera
al bar?
- No, noi… no. – era così
imbarazzato da incespicare sulle parole – Niente di male. Ci
chiedevamo quando uscirai dalla sala audio-visivi e se capiterà
mai che tu venga a bere qualcosa con noi dopo il lavoro.
- Cosa vi ha detto Morgan? – lo sguardo si fece intenso e duro.
Spencer fece spallucce.
- In realtà ha detto solo che eri troppo
stanca. – prese un altro sorso, prima di aggiungere –
Però sembrava arrabbiato.
- Lo sarei anch’io al suo posto. –
rispose la ragazza, mentre il suo sguardo si faceva di nuovo apatico e
sospirava – Beh, è bene che sappiate che non ho vinto il
premio Miss Simpatia, l’anno scorso. Dubito di essere fra le
favorite quest’anno.
Reid sorrise incerto, era una battuta, però il tono usato era
triste e spento. Scosse la testa e cercò di cambiare argomento.
- Quelli sono i tuoi genitori? – chiese, indicando la foto che aveva visto sui ripiani della libreria.
- Sì. – balbettò di rimando lei,
poi si schiarì la voce e aggiunse più convinta –
Mary Elisabeth e Richard Collins. Sembra preso da qualche vecchio
telefilm anni cinquanta, vero? Il titolo poteva essere “La
famiglia perfetta” o qualcosa del genere.
- E lo é? – si azzardò Spencer.
- Cosa?
- La famiglia perfetta.
- Sì. La famiglia migliore in cui una bambina
possa crescere. – il suo sguardo si fece ancora più triste
– Beh, si sta facendo tardi. Sarà meglio che tu vada.
- Certo. – Reid si sentiva imbarazzatissimo mentre Collins lo precedeva e gli apriva la porta.
- Buona notte, dottor Reid. – gli disse la ragazza con lo sguardo rivolto verso il pavimento.
- Buona notte, Collins. – si fermò sulla
porta, indeciso se aggiungere qualcosa o meno, sconcertato dalla fretta
dimostrata dalla collega nel cercare di liquidarlo.
- Ci vediamo domani in ufficio. – lo
anticipò lei – Vai dritto a casa ed evita di fermarti
sotto altre finestre.
- A domani. – si congedò il ragazzo.
Dopo aver chiuso il chiavistello, Sarah si girò per tornare in
camera e il suo sguardo si soffermò sulle foto che teneva nella
libreria. Ingoiò e prese in mano quella che la ritraeva con i
suoi genitori, perdendosi nel ricordo del sorriso di sua madre. Quando
aveva aperto a Reid sarebbe dovuta essere così previdente da
nasconderla. Sicuramente l’aveva vista e aveva notato la
somiglianza: possibile che avesse capito?
Poco più sotto, mentre si chiudeva il portone alle spalle,
Spencer meditò su tutto quello che era successo
nell’appartamento della ragazza. La foto della madre di Collins
continuava ad apparirgli davanti agli occhi. Perché aveva la
sensazione di aver già visto quella donna da qualche altra
parte? E se quella di Collins era una “famiglia perfetta”,
perché aveva quello sguardo triste mentre ne parlava?
Continua…
* J. Edgar Hoover, è stato il sesto direttore del F.B.I. (e,
forse, il più famoso). Citazione completa: “L'informazione
è potere. Ci ha protetti dai comunisti nel 1919 e da allora la
nostra FBI ha continuato sapientemente a raccoglierla, organizzarla e
custodirla”. A lui si deve l’attuale denominazione
dell’Ente, che prima era noto come B.O.I. (Bureau of
Investigation).
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Capitolo 6 *** Capitolo 5 ***
capitolo 5
Novembre 2007 –
Accademia F.B.I., Quantico, Virginia
Sarah continuava a trascrivere al computer le sue
conclusioni in merito ai dossier che le aveva affidato la Strauss, gettando di
quando in quando un occhiata furtiva alla persona che occupava la scrivania di
fronte alla sua. Morgan le aveva rivolto un saluto molto disinvolto quella
mattina, come se fra loro non fosse successo niente, come se lei non avesse mai
detto niente la sera prima.
La ragazza non riusciva a capire quell’atteggiamento non
curante che aveva assunto il suo collega in merito a tutta la faccenda: possibile che non avesse detto niente a
nessuno degli altri? In fin dei conti, Reid era sembrato del tutto all’oscuro
quando era andato a casa sua quella notte.
Si fermò un momento e rivolse uno sguardo apatico al dottore
che era in piedi vicino alle porte del corridoio interno, intento a parlare con
JJ. Non le sembrava proprio il tipo che riesce a dissimulare così bene, almeno
credeva che fosse così. Si accigliò, mentre tornava a volgere lo sguardo sul
monitor: non riusciva a fare il profilo a quel ragazzo, per quanto si sforzasse
sembrava essere al di fuori di tutti i canoni a cui era abituata.
Era stato facile scoprire molto di tutti gli altri agenti,
semplicemente standosene buona in disparte ad osservarli interagire fra loro.
Essere un’esperta in comunicazione non verbale le dava la possibilità di
studiarli e stilare un profilo abbastanza preciso, senza essere costretta ad
interrogarli o a cercare di approfondire la loro conoscenza. Era stata una
sicurezza non essere costretta ad intrattenere rapporti sociali per sapere
sempre tutto di chi la circondava. Era una bambina prodigio cresciuta troppo in
fretta: aveva seri problemi di diplomazia, i rapporti interpersonali e sociali
non erano proprio il suo forte. Con la coda dell’occhio notò un movimento e si
girò di scatto, mentre Morgan le voltava le spalle e si dirigeva placidamente
al cucinino dell’aria relax. Sarah batté un paio di volte l’indice sul tavolo,
ripensando alla scena della sera prima e maledicendo quel suo scatto d’ira che poteva costarle la possibilità di avere la
fiducia di quelle persone. Inoltre si sentiva vicina al suo collega: aveva in
comune qualcosa che non si dimentica facilmente.
Si alzò sbuffando, decisa a seguire Derek per avere la
possibilità di parlargli in privato. Non era certa di cosa avrebbe potuto
dirgli, di cosa fosse più giusto fare in quella situazione. Si trovava
costretta per la seconda volta in due giorni a chiedere scusa a qualcuno che
considerava un perfetto estraneo. La sua avventatezza le stava costando molto
in termini di orgoglio, ma sua madre le aveva insegnato il rispetto per gli
altri e che quando si sbaglia bisogna fare ammenda.
Si fermò sulla soglia della stanza, osservando Morgan
prepararsi un caffè. Rivolse un ultimo pensiero a sua madre, dandole
dell’ipocrita e chiedendosi cosa sarebbe successo se fosse stata ancora lì con
lei. Scacciò quelli che riteneva pensieri inappropriati visto l’ambiente e si
schiarì la voce. Derek si girò a guardarla, riservandole lo sguardo
indifferente che di solito lei rivolgeva agli altri. Chiuse gli occhi e sorrise
sarcastica: se l’era cercata, in fin dei conti.
-
Non le accetto, per il momento. – disse l’uomo, con
tono risoluto.
Sarah alzò la testa di scatto, con un’espressione sorpresa
dipinta sul volto.
-
Mi scusi? – batté le palpebre un paio di volte e si
poggiò alla parete con una spalla – Cosa non accetta?
L’uomo fece alcuni passi avanti, fino a esserle ad un soffio
dal viso e poi le sorrise con l’aria di chi la sapeva lunga.
-
Le scuse che è venuta a porgermi, agente Collins.
Sul volto della ragazza riapparve la solita espressione
apatica e indifferente.
-
Capisco, al suo posto neanche io la perdonerei.
-
Non è al mio posto e non mi conosce abbastanza da poter
fare congetture sul mio modo di agire. – si infilò una mano nella tasca ed
estrasse un cartoncino che le mise in mano, poi abbassò il tono della voce che
divenne quasi un sussurro – Non accetterò le sue scuse, fino a quando non
cercherà aiuto.
Se fosse stata anche solo un passo più lontana da lui, non
avrebbe sentito. Lo guardò negli occhi alla ricerca delle motivazioni di quel
gesto, ma non trovo nulla in quello sguardo se non una sincera preoccupazione
per lei. Non le era mai successo che qualcuno pensasse a lei in modo
disinteressato: dopo l’incidente di sua madre era stata costretta a prendersi
cura di se stessa e a diffidare degli altri. Spostò lo sguardo sul biglietto da
visita che Derek teneva in mano e decise di prenderlo, anche solo per non dover
più sostenere quello sguardo.
-
Questo dottore è in gamba e, cosa più importante, è una
donna. – le mormorò avvicinandosi ancora di più al suo orecchio – Sarà più
facile e meno imbarazzante. E’ specializzata nell’aiutare le… le persone come
noi.
Sarah fece un passo indietro e lo guardo con occhi lucidi.
Si stava veramente preoccupando per lei e gli era doppiamente grata visto che
aveva evitato di usare la parola “vittima” riferito a lei.
-
Io… non posso prometterle niente. – però si infilò il
cartoncino nella tasca dei jeans.
La sua espressione era tornata di nuovo apatica e assente.
-
Tutti, nella vita, abbiamo bisogno di aiuto prima o poi.
– allungò una mano per toccarla, ma la lasciò a mezz’aria interrompendo il
gesto – Non c’è vergogna in questo. A volte parlarne aiuta.
-
Andiamo, lei era un ragazzino. – fu la volta di Sarah
di parlare in un bisbiglio – Eppure è ancora in terapia.
-
Sei più testarda di me. – le sorrise – Comunque ho
accettato di affrontare il “problema” da meno di un anno.
La ragazza annuì, spostando lo sguardo alla tazza di caffè
che il suo collega teneva in mano. Lo superò e andò a servirsi.
Maggio 2005 –
Appartamento di Jason Gideon, Quantico, Virginia[1]
Lui e Sarah non si erano più visti dopo che le aveva
comunicato che non sarebbe entrata nell’unità: era partita senza salutarlo. Era
una cosa che aveva preventivato, ma faceva male lo stesso. Egoisticamente
avrebbe voluto prenderla nella squadra, ma il loro era un lavoro pericoloso e
lo dimostravano quei sei morti nel caso di Boston. Non gli sembrava neanche
vero che fossero passati già due anni dalla partenza di lei per la Francia. Si
teneva informato tramite canali non ufficiali ed era orgoglioso di sapere che
si stava mettendo in mostra e che il suo capodivisione la considerava uno dei
migliori elementi della sua squadra.
Si soffermò sul dossier che si era portato a casa. Gli
avevano chiesto di trovare dei cadetti idonei per rimpolpare il team, visto che
erano rimasti solo Hotchner e Morgan e lui era stato sospeso ad interim dal
lavoro sul campo. Di nuovo sfogliò il fascicolo, mentre un sorriso gli piegava
le labbra. Se avesse potuto seguire i propri desideri, avrebbe smosso mari e
monti per riportare Sarah a Quantico e poterla avere vicino, cercando magari di
ricostruire un rapporto con lei. Ma aveva troppa paura che potesse succederle
qualcosa… no, meglio tenerla al sicuro anche se questo voleva dire farsi
odiare.
Il ragazzo che aveva scelto gliela ricordava per svariati
motivi. Era giovane, solo un anno più vecchio di lei, intelligente, un giovane
genio preparato e curioso. Ma le somiglianze finivano lì: Sarah era forte,
sicura determinata. Aprì il dossier ed osservò la foto del giovane cadetto:
Spencer Reid era timido, impacciato ed insicuro.
Mise da parte i dossier e prese un album di foto che teneva
nascosto dietro i libri. Il soggetto di quegli scatti era sempre lo stesso:
Sarah Collins. Tornò a sedersi sulla poltrona mentre con un dito percorreva i
lineamenti di quel volto così amato e bevve un sorso del cognac che si era
versato, riflettendo che le decisioni migliori sono solo quelle che si reputano
tali sul momento e che, spesso, sono solo il preludio ad un disastro. Brindò a
tutte le decisioni sbagliate che aveva preso in vita sua e che l’avevano
portato a ritrovarsi in un inferno personale che si era costruito con le
proprie mani.
Novembre 2007 –
Accademia F.B.I., Quantico, Virginia
Morgan l’aspettava sulla porta del cucinino con uno sguardo
incoraggiante. Le ricordava quello che le
aveva lanciato il giorno prima Rossi. Si permise di sorridere fra se: a quanto
sembrava aveva la capacità di suscitare sentimenti protettivi negli agenti che
lavoravano in quell’unità. Si girò a guardare la sua scrivania, dove era stata
posata una composizione floreale molto bella. Prentiss stava firmando il foglio
che un fattorino le porgeva, mentre JJ e Reid osservavano quei fiori
dall’aspetto costoso.
-
A quanto sembra qualcuno ha un ammiratore qui… - le
sorrise Emily, mentre restituiva ricevuta e penna al ragazzo delle consegne –
Direi che sono costati anche parecchio. Abbiamo fatto girare la testa a
qualcuno, vero?
Collins non sembrò neanche notare la battuta della collega e
andò diritta alla sua postazione, posò la tazza sbattendola leggermente e
guardò i fiori con gelido furore.
-
Collins, tutto bene? – le chiese JJ.
La ragazza parve riscuotersi e cercò gli occhi di Morgan, il
quale si era messo a sedere davanti a lei. L’uomo scosse la testa, non sapendo
cosa dire o pensare. In realtà, per quanto poteva saperne, chiunque avrebbe
potuto mandarle quei fiori, anche una persona che la ragazza odiava. Dal canto
suo Sarah respirò profondamente, decidendo che una scena isterica davanti a
tutti non era proprio l’ideale in quel momento. In realtà non sapeva neanche
chi avesse mandato la composizione, rispondendosi subito che era un illusa: chi
altri poteva mandarle un regalo del genere? Non voleva tenerli lì, ma non
poteva neanche gettarli via come una donnetta isterica. Rifletté un momento,
pensando di avere una terza opzione.
-
Dov’è l’ufficio di Garcia? – chiese rivolta a Derek.
-
In fondo al corridoio, l’ultima porta a destra. – le
spiegò lui senza perderla di vista – Se vuoi chiederle di rintracciare che ti
ha mandato i fiori, non faresti prima a leggere il biglietto?
-
Se mai lo leggo dopo. – rispose infilandolo nella tasca
posteriore dei pantaloni – Non mi piacciono i fiori, mentre Garcia mi sembra il
tipo che apprezza queste cose.
-
Sì, decisamente Garcia apprezzerà. – confermò JJ – Ma
sei sicura di non volerli?
-
Ho già detto di detestare i fiori. – affermò di nuovo,
prendendo la composizione ed incamminandosi a passo deciso nel corridoio
interno.
Erano sicuramente di Mark, quel bastardo osava mandarle dei
fiori! Era furiosa con lui, con se stessa e con il mondo intero. Voleva essere
lasciata in pace ed invece tutti si impicciavano della sua vita. Trovava
ridicolo l’interesse mostrato dagli altri per quella consegna fuori programma
indirizzata a lei: che importava a quella gente? Si fermò pronta a bussare,
chiedendosi se tutto quell’interesse non fosse dovuto al fatto che non credevano
possibile che, una come lei, potesse avere uno spasimante. Ripensò alla battuta
di Prentiss e sentì il furore invaderla di nuovo: perché risultava incredibile
che qualcuno potesse amarla? Bussò con più forza del dovuto ed entrò senza
attendere risposta.
-
Ehilà, Francesina, cosa ti porta nel mio regno? –
Garcia non sembrava turbata da quell’intrusione.
-
Volevo chiederti se... – Sarah fece scorrere lo sguardo
su tutti i ninnoli, le cartoline e le foto che riempivano l’ufficio – Ti
piacciono i fiori?
-
Io adoro i fiori. – rispose Penelope alzandosi per
ricevere la composizione – Sono per me?
-
Chi li ha mandati non mi conosce molto bene, io detesto
i fiori. – ripeté di nuovo la storia che aveva propinato agli altri – Però ho
pensato che fosse un peccato buttarli e che magari tu li avresti apprezzati di
più.
-
Hai pensato benissimo. – disse l’informatica,
strappandole letteralmente il vaso dalle mani – Io adoro i fiori, peccato che
non me li mandi mai nessuno. A parte Gideon che una volta…
-
Gideon? Gideon ti mandava dei fiori? – Collins staccò
gli occhi dai colori sgargianti delle cianfrusaglie di Garcia per guardarla
stupita.
-
Una volta sola. – ammise con aria rammaricata che fece
subito posto al suo sorriso aperto e gioviale – Ma solo perché… sai, io sono
abbastanza maniaca per quel che riguarda il mio ufficio. Durante un’indagine
lui non era partito con il resto del gruppo perché si era rotto una gamba[2] e…
diciamo che aveva portato molto scompiglio qui dentro. Per farsi perdonare mi
aveva mandato dei fiori bellissimi.
Li sistemò sul tavolo e li ammirò soddisfatta, per poi
girarsi di nuovo verso la sua ospite.
-
Ora che mi ricordo, erano molto simili a questi, sai?
Sarah sentì un colpo al cuore a
quelle parole, ma cercò di fare finta di niente preferendo non risponderle,
limitandosi ad annuire per poi uscire dalla stanza richiudendosi la porta alle
spalle. Invece di incamminarsi verso la sua scrivania, andò in bagno con il
cuore che le batteva forte. Non sapeva perché, ma quella storia e il commento
finale di Garcia le avevano fatto venire un groppo in gola. Entrò in uno dei
bagni e chiuse con il chiavistello per poi tirare fuori il biglietto che aveva
messo nella tasca dei jeans.
Jason aveva mandato dei fiori a Garcia, fiori simili a
quelli che lei aveva appena ricevuto. Le tremavano le mani, mentre osservava la
piccola busta bianca. Jason aveva inviato quei fiori perché si rendeva conto di
aver messo a soqquadro l’ufficio di Penelope; perché non avrebbe dovuto
mandarli a lei dopo averle incasinato la vita?[3]
Chiuse gli occhi cercando di immaginare cosa poteva averle scritto sul
biglietto, ma non riusciva a formulare un ipotesi.
A parti inverse se fosse stata lei a ferirlo, a rifiutarlo,
a metterlo da parte, cosa avrebbe potuto scrivergli per farsi perdonare?
Conoscendo il proprio carattere, dubitava fortemente che avrebbe trovato il
coraggio per fare un gesto di riconciliazione, non avrebbe mai saputo cosa dire
o fare per rimediare a quegli errori.
Riaprì gli occhi e fissò il biglietto che teneva in mano:
poteva fugare tutti i dubbi in quel momento, semplicemente leggendolo. Si disse
che non aveva importanza, che era meglio non sapere e non farsi illusioni. Se
fosse stato veramente di Mark sarebbe stato troppo crudele. Eppure sentiva di
dover sapere, con la speranza nel cuore. Aprì la busta ed estrasse il
cartoncino, riconoscendo subito la scrittura antiquata e obliqua che aveva
visto così spesso riempire i margini dei suoi compiti. Sentì le lacrime riempirle gli occhi mentre
leggeva.
“Best
wish for your new job
With all my love
Jason”
Febbraio 2002 –
Appartamento di Jason Gideon, Quantico, Virginia
Era seduta su di uno sgabello davanti la penisola
dell’angolo cottura, mentre Jason era intento a preparare la cena. Non le aveva
permesso di aiutarlo, sostenendo che preferiva fare da solo per essere sicuro
di non dimenticare niente. Sarah sorseggiava un bicchiere di vino rosso, cosa
che in situazioni normali non avrebbe potuto fare visto che non aveva ancora
l’età[4], ma
Gideon aveva deciso che in quella serata speciale si poteva fare un’eccezione.
In sottofondo c’era la musica di Frank Sinatra, ma non
l’album che gli aveva regalato lei. La cosa le era sembrata strana, ma aveva
deciso di soprassedere. In fin dei conti anche lei adorava “The Voice”,
ricordava la sua infanzia quando suo padre passava ore ad ascoltare i vecchi
successi del cantante italo-americano. Sospirò, mentre dagli altoparlanti
arrivavano le prime note della canzone preferita di suo padre: My Way. Decise
di cercare di intavolare qualche tipo di conversazione con il suo ospite.
-
Allora, come è andata la serata con Stephen? – prese un
sorso di vino e lo guardò di sottecchi, notando che l’uomo era rimasto
impassibile.
-
Credo che non riuscirò mai a farmi perdonare da lui. Il
divorzio da sua madre è stato traumatico e doloroso per un bambino, inoltre
sono stato un padre assente. – si girò afferrando la saliera ed evitando lo
sguardo di Collins.
-
Sai, a volte è difficile perdonare i genitori per gli
errori che hanno commesso. – la ragazza si rendeva conto di essere in un campo
minato – Stephen è un ragazzo intelligente, vedrai che capirà e potrete
costruire un rapporto.
-
Non lo conosci.
-
No, effettivamente non lo conosco, anche se mi
piacerebbe. – rispose lei laconica.
-
Sarah… il mio rapporto con lui è già difficile così,
senza che io debba spiegargli che… - la guardò abbassando le spalle in segno di
resa.
-
Capisco benissimo, figurati. – si alzò in piedi e fece
il giro della penisola – Io non pretendo niente, Jason. Voglio solo la
possibilità di stare un po’ con te.
I due si guardarono intensamente, come se le emozioni che
provavo entrambi in quel momento non potessero essere espresse con le parole.
Jason le tolse il bicchiere dalle mani e la portò al centro del salotto, per
poi passarle un braccio intorno alla vita e cominciare a ballare con lei.
-
Ascolta.
– gli ordinò la ragazza, intonando le parole – “There were
times, I'm sure you knew
When I bit off more than I could chew.”[5] Mio padre aveva sempre
un’espressione strana quando arrivava questo passaggio.
-
Mi dispiace. – Jason la guardò negli occhi e si sentì
triste.
-
Non devi. Ora so perché aveva quella faccia, ma tutti
dobbiamo mandare giù qualche rospo prima o poi: lui ha reagito meglio di molti
altri.
Rimasero in silenzio a ballare, mentre la musica finiva.
Continua…
[1] Tratto dalla one-shot “Personal hell”
[2] Episodio 1x11 “Sete di
sangue”
[3] In realtà, a fine dell’episodio 1x12, si scopre che i fiori li aveva
inviati Hotch spiegando a Gideon che a volte le persone si devono sentire
apprezzate. Jason gli risponde che aveva già fatto un regalo a Garcia: un
lettore mp3, che durava più a lungo XD e dice a voce alta che corre il rischio
che Penelope creda che la stia corteggiando. XD
[4] In America l’età minima
per bere alcolici è ventuno anni.
[5] In questa long viene fatto
riferimento alla traduzione letterale e non al significato inglese. Tradotto:
Ci sono state volte, sono sicuro lo sai, ho ingoiato più di quello che potessi
masticare.
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Capitolo 7 *** Capitolo 6 ***
capitolo 6
Novembre 2007 –
Accademia F.B.I., Quantico, Virginia
Avrebbe voluto che il tempo si fermasse e non fosse
costretta ad uscire dal suo nascondiglio. Sapeva che fuori da lì l’aspettava la
realtà che non voleva affrontare in quel momento di pura gioia: la Strauss e il
suo piano; quello che le era successo; i suoi colleghi e la decisione di
tradirli o meno. Rimise il biglietto nella busta e lo sistemò nella tasca
posteriore dei jeans, nell’attesa di tornare nel suo appartamento e trovare un
posto sicuro dove nascondere quell’unica prova
che Gideon non l’aveva abbandonata e dimenticata.
Già mentre apriva la porta dei bagni, sentì il buonumore
abbandonarla. In fin dei conti non ci voleva molto a scriverle un biglietto e
inviarle dei fiori. Jason era un profiler e la conosceva abbastanza da sapere
quali erano i tasti giusti per convincerla a proteggere la squadra a discapito
di sé stessa. Si incamminò lungo il corridoio intero, sperando che la giornata
scorresse via senza ulteriori scossoni e che le fosse lasciato il tempo di
riflettere su tutta quella storia.
Le sue speranze erano destinate ad essere disattese: la
caposezione era ferma vicino alla sua scrivania e la stava aspettando con uno
sguardo contrariato che era tutto un programma. Si limitò a fermarsi a pochi
passi da lei e guardarla indifferente; avrebbe lasciato a lei la prima mossa e
poi avrebbe agito di conseguenza.
-
Agente Collins, vorrei sapere a che punto si trova con
il lavoro che le avevo affidato. – esordì Erin guardandola dritta negli occhi –
Il procuratore distrettuale è ansioso di sapere le sue opinioni in merito a
quelle testimonianze.
Sarah si concesse un sorrisino sarcastico: sapevano entrambe
che l’incarico che le aveva affidato quella vecchia arpia non riguardava quei
fascicoli. Tornò seria e la superò prendendo dei fogli dalla stampante.
-
Ho finito di riguardare i file video e sto trascrivendo
le mie conclusioni. – sistemò i fogli in gruppi fermandoli con delle attaché,
per poi dividerli e inserirle in varie cartelline – Mi mancano ancora la metà
delle trascrizioni, ma penso di riuscire a finire per stasera… domani al
massimo.
-
Per il momento, prenda i file già pronti e li porti nel
mio ufficio. – la donna più anziana si voltò incamminandosi – Li riguarderemo
insieme prima di inviarli in procura.
-
Come desidera, caposezione. – le rispose Collins senza
guardarla.
Ricontrollò il materiale, prendendosela con molta calma
sotto lo sguardo di Morgan che controllava ogni suo più piccolo movimento.
Aveva intenzione di non affrettarsi, che la vecchia strega cuocesse nel suo
brodo: non aveva intenzione di scattare ogni volta che Erin schioccava le dita.
-
Ti conviene sbrigarti. – l’ammonì Derek – La
caposezione Strauss non è un tipo molto paziente e, fidati, non vuoi irritarla più dello stretto necessario.
-
E perché mai non dovrei irritarla? – chiese Sarah
distrattamente, senza guardarlo.
-
Può renderti la vita abbastanza difficile. – Morgan
tornò a fissare il monitor – Ti vorrei ricordare, inoltre, che può decidere di
spostare il personale come meglio crede. Ma questo sono sicuro che già lo sai.
-
Aggiungerei che lo fa senza curarsi di cosa pensa
l’agente interessato o il suo diretto superiore. – convenne lei – Tra le altre
cose, sembra che il nostro capo non sia molto contento per il modo in cui la
Strauss mi ha assegnata alla vostra squadra.
-
Ti piacciono gli eufemismi, vero? – scherzò Derek.
-
Di solito sono molto più diretta, ma non vorrei
sembrare sgarbata. – rispose con un’alzata di spalle.
L’uomo si alzò in piedi, fece il giro e si appoggiò con le
anche alla scrivania della sua collega, chinandosi verso di lei con fare
cospiratorio.
-
Fammi sentire quanto puoi essere sgarbata. – la sfidò.
-
Da piccola avevo un gatto e mio padre decise di farlo
castrare quando aveva già un paio di anni. – raccontò la ragazza all’orecchio
di Morgan – Ricordo che per tutta la settimana successiva era irritato e si
nascondeva di continuo, soffiando a chiunque osasse avvicinarsi. Beh, Hotch in
questo momento mi ricorda il mio gatto appena castrato.
Derek buttò indietro la testa scoppiando a ridere, mentre
Prentiss e Reid li guardavano interdetti non avendo sentito l’ultima parte
della conversazione. Sarah, che non aveva perso il suo sguardo serio e apatico
neanche per un momento, si sistemò fra le braccia i fascicoli che aveva finito
di sistemare e si apprestò a recarsi dalla caposezione. Appena sulla soglia del
corridoio interno si voltò a guardare Morgan e gli sorrise con aria complice.
-
Ricorda che mi sono anche trattenuta. – gli confidò con
un sogghigno – Mi vengono analogie anche meno carine, relativamente a questa
situazione.
L’uomo scosse la testa e le sorrise mentre tornava alla
propria postazione.
Hotch era in piedi con le mani dietro la schiena e guardava
dalla vetrata che dava sull’openspace. Osservò con molto interesse la scena fra
la Strauss e Collins, prima, e quella molto meno seria fra la ragazza e Morgan.
Rossi, alle sue spalle, era seduto con un piede sul ginocchio e beveva il suo
caffè; era andato nell’ufficio di Aaron circa mezz’ora prima, ma Hotch non
aveva proferito parola, limitandosi a controllare ogni minimo movimento del
resto della squadra.
David meditò che non serviva
essere un profiler con la sua esperienza per capire il nervosismo del capo
della squadra. Tutti si erano resi conto che c’era qualcosa di strano nel trasferimento
di Collins: il fatto che fosse stato così repentino e senza nessun preavviso;
il dossier della ragazza sembrava essersi volatilizzato nel nulla; la ragazza
aveva un atteggiamento schivo nei confronti di tutti. Era logico arrivare alla
conclusione che la ragazza avesse un incarico da svolgere per il caposezione e,
visto che la Strauss non sopportava Aaron per un motivo che quest’ultimo si
rifiutava di rivelare, era probabile che dovesse spiare la squadra per conto di
Erin. Il vecchio profiler lasciò che la mente vagasse libera, nell’attesa che
il suo amico si decidesse a rivelargli perché gli aveva chiesto di recarsi nel
suo ufficio.
I suoi pensieri si soffermarono su un vecchio ricordo ma che
il tempo non aveva alterato. Il viso sorridente di Mary Elisabeth: donna bella
ed intelligente, con uno spiccato senso dell’umorismo e con uno sguardo colmo
di serenità. Una persona difficile da dimenticare e che poteva cambiare la vita
di un uomo che avesse avuto la fortuna di incrociarne la strada. Si voltò a
guardare fuori dalla finestra e pensò a Sarah.
La ragazza era molto bella, ma le somiglianze con sua madre
si fermavano ai lineamenti del viso. Il colore dei capelli e degli occhi era
diverso, come diverso appariva il loro carattere. Mary era una donna allegra ed
aperta, sua figlia era taciturna e con un velo di tristezza negli occhi che non
l’abbandonava mai. Si chiese come fosse stata quella strana ragazza prima che
l’incidente di otto anni prima spazzasse via la sua famiglia. Un'altra domanda
continuava a tormentarlo: perché non gli aveva detto che anche Richard era
morto in quell’incidente? Cosa sapeva esattamente la ragazza della vita dei
suoi genitori prima della sua nascita?
-
Cosa sai di Collins? – la voce di Hotch lo riportò alla
realtà.
Si schiarì la voce e guardò il contenuto del suo bicchiere,
come se quel liquido scuro contenesse le risposte a tutte le domande.
-
Ero qui quando ti ha elencato il suo curriculum. –
rimase sul vago, incerto su cosa rivelare e cosa no – Vedrai che una volta che
gli incartamenti salteranno fuori sarà tutto molto più chiaro.
-
Tu sai molto di più di quello che Collins ci ha detto
l’altro giorno. – Aaron si girò a guardarlo in modo torvo – Ho sentito quello
che hai detto al resto della squadra sul “peso del suo mondo”.
-
Hotch, so che sembra che io ti stia nascondendo chissà
quali informazioni, ma non è così. – Rossi sospirò e ricambiò lo sguardo del
collega – Di lei, professionalmente parlando, non so molto più di voi. Posso
solo aggiungere che conoscevo sua madre molto tempo fa, ma non l’ho più vista
da prima che Collins nascesse.
-
Quindi non ne sai molto più di me. – si arrese il
caposquadra, andando a sedersi dietro la sua scrivania – Posso solo aggiungere
che, quando lei studiava in accademia, Gideon ha rischiato il suo posto e la
sua reputazione per quella ragazza.
-
Cosa intendi dire? – David si sporse in avanti,
accigliandosi.
-
Solo pettegolezzi, voci a cui io non credo. Conosco
troppo bene Gideon per dare retta alle chiacchiere di qualche cadetto geloso
del successo di una collega. – aprì uno dei fascicoli che JJ gli aveva portato
quella mattina – Nessuno dei piani altri prese provvedimenti, ma la reputazione
è tutto nel nostro ambiente e credo che Gideon avrebbe dovuto mantenere maggior
distacco. A riprova che erano solo voci, da quello che ho saputo in seguito, il
loro rapporto era molto simile a quello che poi ha instaurato con Reid.
-
Maestro e allievo. I cadetti dovrebbero studiare di più
e spettegolare di meno. – chiuse il discorso Rossi – Mi hai chiamato per
questo?
-
No. – gli allungò un dossier, con aria preoccupata – JJ
me lo ha dato questa mattina e volevo anche una tua opinione in merito.
-
Si torna al lavoro. – ironizzò David prendendo il
fascicolo.
La segretaria della Strauss alzò la testa, avvertendo una
presenza davanti alla sua scrivania. Due occhi verdi, freddi ed inespressivi,
la fissavano intensamente, tanto che la donna abbassò lo sguardo a disagio.
-
La caposezione mi ha convocata. – la voce era calda e
profonda, ma le parole erano state dette con un tono neutro – Sono l’agente
Sarah Collins.
-
Certo agente Collins. – la ricordava bene, quella era
la terza volta che la vedeva nell’ufficio del suo capo e tutte le volte si
sentiva infastidita sotto quello sguardo vuoto e apatico – Passi pure, la
caposezione la sta aspettando.
La ragazza mora la superò senza rivolgerle un saluto, come
se quella donna non esistesse per lei, come se facesse parte del mobilio. La
segretaria meditò che Collins e Strauss dovevano andare molto d’accordo:
entrambe erano altezzose e piene di sé.
Una volta chiusa la porta alle sue spalle, Sarah si avvicinò
con passo sicuro alla scrivania di Erin che la guardava sorridendo. Si fermò
quando le gambe toccarono il bordo del tavolo e lasciò andare i fascicoli, che
aveva tenuto in mano fino a quel momento, come se fossero topi morti.
-
Non ti salti più in mente di venire di là a cercarmi. –
il suo sguardo si era fatto di fuoco e si chinò con fare minaccioso verso la
Strauss – Vuoi mandare tutto all’aria?
-
Non ti permettere mai più di parlarmi così. – Erin fece
uno sforzo su sé stessa per non alzare la voce – Qui comando io. Forse anche
tu, come l’agente Hotchner, tendi a dimenticarlo.
-
Non l’ho dimenticato, ma è anche vero che tu vuoi dei
risultati. Li pretendi. – fece una smorfia con le labbra come se stesse
ringhiando – Se vedono che io vengo nel tuo ufficio, non ti salta in mente che
potrebbero insospettirsi ancora di più?
-
Hanno dei sospetti? – la donna più grande sembrò
allarmarsi – Ero convinta di aver recitato bene e…
-
Recitato bene? Hai fatto sparire il mio fascicolo, non
hai avvertito nessuno del mio trasferimento, ti permetti di affidarmi degli
incarichi scavalcando il mio diretto superiore. Non mi sembra che tu stia
recitando così bene. – si mise a sedere, continuando a guardarla in malo modo –
Ti spiego io cosa avresti dovuto fare. Quando ti ho detto che accettavo il
trasferimento, avresti dovuto paventare la possibilità dell’inserimento di un
altro agente. Quando sono arrivata, avresti dovuto fornire a Garcia il mio
dossier cartaceo, magari edulcorandolo dove necessario. Avresti dovuto proporre
quest’incarico all’agente Hotchner, sostenendo che poteva essere un buon banco
di prova per le mie capacità. Ecco cosa dovevi fare per recitare bene.
-
Non ti permetto di…
-
Non permetti, non permetti. – Sarah la guardò
disgustata – Mi hai assegnato un incarico, dicendo che per te era importante,
eppure stai facendo di tutto per mettermi i bastoni fra le ruote.
-
Quel che è fatto è fatto. – la Strauss cercò di
recuperare la situazione mostrando noncuranza – Piuttosto, mi dici a che punto
siamo? Non sei venuta ancora a fare rapporto.
-
Non verrò a fare rapporto, MAI. – sorrise in modo
arrogante – Se e quando ci sarà qualcosa da riferirti ti chiamerò sul telefono
prepagato che ti ho consegnato quando sono venuta la prima volta.
-
Ti comporti come se fossimo due agenti della CIA e
questo fosse un problema di sicurezza nazionale. – la prese in giro la donna,
assumendo un atteggiamento superiore – Ti conviene ridimensionare le tue
fantasie.
-
E a te conviene non prendere sotto gamba i tuoi
avversari. Garcia è un’ottima hacker: se decidesse di mettersi di punta,
scoprirebbe immediatamente se abbiamo parlato fuori dall’ufficio. Aaron
Hotchner non è uno stupido: se vengo troppo spesso nel tuo ufficio, saprà che i
suoi sospetti sono fondati e metterà tutta la squadra sul chi vive. – giocò con
la ciocca rossa che pendeva al lato del viso – Chi è che deve ridimensionare le
proprie fantasie? Non sei così intoccabile e potente come credi. I tuoi
subalterni potrebbero farti le scarpe in un attimo se non prendi delle
precauzioni elementari come i cellulari prepagati per parlare con me.
Erin si alzò in piedi e si diresse verso la finestra, dando
le spalle alla sua interlocutrice. Non voleva darle la soddisfazione di vedere
come le sue parole l’avessero turbata e tantomeno voleva affrontare lo sguardo
freddo e distaccato di quella ragazzina che l’aveva umiliata sbattendole in
faccia che il suo piano poteva essere scoperto.
-
Visto che ormai siamo qui, ti dispiace dirmi a che
punto sei? – si voltò di nuovo verso Sarah, una volta recuperata la calma.
-
Per il momento ho delle informazioni che non posso
comunicarti. – alzò la mano per troncare sul nascere la risposta di Erin – Non
ho le prove di quello che so e tu mi hai detto che devono essere accuse che si
possono dimostrare.
-
Come pensi di muoverti ora?
-
Per prima cosa, tira fuori il mio dossier e vediamo se
ci sono cose che possono destare la loro curiosità. Oggi pomeriggio, con calma,
lo porterai a Garcia, dicendole che finalmente sei riuscita a risolvere con
l’ufficio del personale. – notò lo sguardo contrariato della donna e sorrise
sarcastica – Forse è meglio che la convochi e le fai una lavata di testa perché
hai dovuto perdere tempo a risolvere la situazione. E’ molto più nel tuo stile
essere così arrogante.
-
Non osare!
Collins fece spallucce mentre un sorriso soddisfatto le si
stampò sulle labbra alla vista di Erin che si sedeva mesta e tirava fuori il
suo dossier. Finito di controllare il proprio curriculum, si alzò dalla sedia e
portò due dita unite all’altezza della fronte, a mo’ di saluto.
-
Ci sentiamo. – disse voltandosi.
-
Aspetta! – Erin si inumidì le labbra – Voglio farti una
domanda.
-
Quanto siamo curiose. – la prese in giro la ragazza più
giovane, continuando a camminare verso l’uscita.
-
Mi hai chiesto di essere assegnata in via definitiva a
Washington, se riuscirai a portare a termine l’incarico che ti ho affidato. –
sospirò, mentre il suo sguardo si faceva più intenso – Pensavo che mi chiedessi
qualcos’altro…
-
Non mi riguarda più. – fu la risposta laconica di
Sarah.
-
Che vorresti dire? Come puoi parlare così? – la Strauss
era scioccata.
-
Sentimi bene. – le intimò Collins, con uno sguardo di
fuoco – E’ tutta una farsa e l’ipocrisia con cui propinava tutte quelle sue
storie sulla lealtà, sull’onesta, sul non ferire gli altri, mi fa venire il
vomito. Ora è una cosa fra voi due, io me ne lavo le mani.
Aprì la porta e la richiuse sbattendola, lasciando Erin a
bocca aperta che cercava di riprendersi da tutto l’odio e il rancore che la
ragazza aveva sputato fuori prima di andarsene.
JJ era appena uscita dal suo ufficio e si voltò a guardarla mentre
Sarah percorreva il corridoio interno con passo deciso e un’espressione truce
sul viso. Aspettò pazientemente che la ragazza arrivasse alla sua altezza,
sorridendole in modo cordiale.
-
Tutto bene? – le chiese Jennifer.
Sarah non si degnò neanche di risponderle, superandola come
se non l’avesse vista. Era furiosa e in quel momento il suo cervello faceva
avanti e indietro fra il presente e il passato. Flash di ricordi della sua
infanzia e della sua adolescenza si alternavano a ricordi più recenti e
dolorosi. Oramai era conscia di essere solo una pedina che Jason ed Erin si stavano litigando per usarla per i loro
scopi. Non era neanche una persona: era un’arma da puntare contro il nemico.
Beh, meditò superando le porte dell’openspace, presto quei
due avrebbero avuto una sgradita sorpresa. D’ora in avanti avrebbe pensato solo
al suo tornaconto personale, se fosse stato necessario fare il doppio gioco e
fregare sia l’uno che l’altra, l’avrebbe fatto senza pensarci due volte.
Nessuno si curava di lei, perché avrebbe dovuto preoccuparsi lei degli altri?
Mentre passava posò gli occhi su Morgan. Era il primo della
lista delle persone che avrebbe dovuto fregare per portare a termine il suo
piano: tanto peggio per lui. Provò a sedersi, ma qualcosa che aveva nella tasca
davanti dei jeans le dava fastidio, così vi infilò la mano per sistemarla e
potersi sedere. Sentì la consistenza del biglietto da visita che il suo nuovo
collega le aveva dato quella mattina. Lui si era dimostrato pronto ad aiutarla
senza pretendere nulla in cambio, aveva mostrato di preoccuparsi per lei. Sentì
una fitta alla bocca dello stomaco: poteva sacrificare l’unica persona che le
aveva mostrato un po’ di calore?
I suoi pensieri furono interrotti perché, con la coda
dell’occhio, notò Rossi e Hotch che uscivano dall’ufficio di quest’ultimo. Il
loro capo teneva un fascicolo in mano e guardò ognuno di loro, compresa JJ che
era ferma vicino alla porta a vetri.
-
Vi voglio tutti in sala riunioni fra dieci minuti. –
annunciò con piglio deciso e dirigendosi lui per primo verso la stanza alla
fine del ballatoio – JJ, avverti Garcia.
-
Subito, Hotch. – rispose prontamente l’agente, ma prima
di uscire lanciò uno sguardo a Collins che continuava ad ignorarla.
Dal canto suo Sarah aprì un cassetto e tirò fuori una
cartella in pelle corredata di block notes
e l’aprì per infilarci dentro tre penne e due matite; meditò un momento
prima di aggiungere una gomma. Alzò gli occhi e incontrò lo sguardo di Derek
che scuoteva la testa con un sorriso ironico stampato sul volto.
-
Sei sicura che le penne basteranno? Vuoi aggiungere
anche un paio di evidenziatori? – la prese in giro.
-
Preferisco essere preparata. – rispose in modo sgarbato
e guardandolo con sufficienza – Prendo molto sul serio il mio lavoro.
Si alzò in piedi e si diresse verso le scale che portavano
alla sala riunioni, non degnando di uno sguardo il resto della squadra.
Continuava solo a pensare che doveva prendersi cura di sé stessa e per farlo
avrebbe dovuto fare del male a quelle persone: era meglio non allacciare
rapporti troppo stretti con loro. Avrebbe trovato il modo di raccogliere le
prove senza farsi coinvolgere emotivamente.
Entrò nella stanza e si mise a sedere vicino a Hotch,
proprio di fronte al posto occupato da Rossi. Collins si accomodò, incrociò le
gambe e poggiò le braccia sui braccioli, poi chiuse gli occhi e aspettò che la
riunione cominciasse. Non voleva vederli o interagire con loro. Stavano
rendendo tutto dannatamente difficile e lei odiava le complicazioni.
Continua…
|
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Capitolo 8 *** Capitolo 7 ***
capitolo 7
Novembre 2007 –
Accademia F.B.I., Quantico, Virginia
Morgan, Prentiss e Reid entrarono, prendendo posto attorno
al tavolo e guardando Collins per poi lanciarsi occhiate dubbiose fra di loro.
Per ultime arrivarono Garcia e JJ, quest’ultima aveva il cellulare in mano e
stava mandano un messaggio, alzò la testa e mise via l’apparecchio per prendere
subito il telecomando ed illustrare il caso. Sul monitor apparve il corpo
letteralmente sventrato di quella che una volta era una persona.
-
Jessica Hernandez, 24 anni, di origini messicane. E’ la
terza ragazza trovata uccisa al Central Park di New York nell’arco di un mese.
Le altre due vittime sono: Mary Farinacci e Kimberly O’Connor, entrambe di 21
anni. – spiegò JJ rivolta verso la squadra.
Mentre la ragazza parlava le immagini sul monitor cambiavano
accompagnando il suo racconto, mostrando
le foto delle tre vittime prima e dopo aver incontrato la furia omicida del
S.I.
-
Mary Farinacci, residente a Brooklyn studiava alla
Columbia, mentre Kimberly O’Connor studiava alla Juilliard. La Hernandez era cameriera in un bar di Manahattan.
-
Quindi,
ricapitolando, abbiamo una studentessa, una musicista e una cameriera. –
sintetizzò Morgan strofinandosi i polpastrelli – Gruppo piuttosto eterogeneo.
-
Tutte giovani, tutte carine. – Rossi si lisciava il
pizzetto.
-
Fisiognomicamente le vittime non hanno nulla in comune.
– intervenne Reid guardando verso Hotch.
Mentre la squadra continuava a parlare del caso, Sarah
fissava lo schermo senza battere ciglio, la mano sul block-notes ogni tanto
prendeva un appunto. Di punto in bianco si volto verso JJ e chiese:
-
Segni di violenza sessuale?
-
Ehm… ecco… difficile dirlo, l’utero delle tre vittime è
stato esportato totalmente.
-
Causa della morte? Le vittime sono state uccise sul
posto o semplicemente abbandonate lì?
JJ cominciò nervosamente a cercare nei fogli su cui aveva
preso appunti.
-
Queste sono le domande basilari quando si esamina un
caso. – rincarò la dose Sarah – Non sappiamo neanche se ci troviamo davanti a
degli omicidi.
-
Perché? Pensi che si siano suicidate? – ironizzò Derek.
-
Visto che la nostra agente di collegamento non ce lo sa
dire, potrebbero essere morti naturali e qualcuno ha profanato dei cadaveri. –
lo sguardo della ragazza si fece duro – Accettiamo dei casi senza sapere
esattamente cosa abbiamo per le mani?
-
Agente Collins, la pregherei di moderare i toni. –
intervenne Hotch guardandola severamente – Sono sicuro che le risposte alle sue
domande sono nei fascicoli che contengono i referti medici.
Lo sguardo di Sarah si spostò sul caposquadra e un sorriso
sarcastico le apparve sul bel viso.
-
Immagino che sia così che vi approcciate ai casi. Colpa
mia, dovrò abituarmi al lavoro approssimativo degli altri. – afferrò la
cartella di pelle e si alzò con piglio deciso – Posso sapere almeno quando
partiamo, oppure anche questo è indefinito?
-
Partiamo fra venti minuti. – disse Aaron al resto della
squadra per poi tornare a fissare Collins – Gradirei parlare in privato prima
di partire.
I loro sguardi si fissarono, Hotch era molto arrabbiato e
Sarah lo stava sfidando apertamente con un sorriso divertito stampato sul
volto. Rossi fece cenno gli altri di andarsene e la squadra si allontanò alla
chetichella, mentre l’aria all’interno della sala riunioni si era fatta irrespirabile.
Aaron aspetto che la porta si richiudesse e guardò David che non aveva seguito
gli altri e non sembrava intenzionato a lasciarli solo. Aaron fece finta che la
cosa fosse normale e si girò a fronteggiare la sua subalterna.
-
Mi ascolti bene, agente Collins, qui sono io il capo e
se c’è qualcosa che non le va bene in merito alla gestione dei casi sarò lieto
di spiegarle quello che la lascia perplessa. – il tono era bellicoso e si
avvicinò di un passo alla ragazza con fare intimidatorio – Non si permetta mai
più di riprendere una sua collega in quel modo. Se ha dei problemi li deve
risolvere con me. Sono stato chiaro?
-
Visto che ha detto che mi spiegherà quello che mi
lascia perplessa… - cominciò la ragazza con voce cantilenante – Permette sempre
ai suoi legami interpersonali con il resto della squadra di avere la meglio su
quello che sarebbe il suo dovere? E’ esatto, non dovevo essere io a riprendere
l’agente Jereau… Quello era un compito che sarebbe spettato a lei.
-
Direi di calmarci. – intervenne Rossi, sperando di fare
da paciere – Collins, sei nervosa e non ti sei ancora ambientata. Questo però
non giustifica il tuo attacco ad una collega con più esperienza di te...
-
E dove sarebbe questa esperienza? A cosa serve un
agente di collegamento se poi le informazioni le devo reperire da sola? –
sbatté con forza la cartella sul tavolo – Fate come volete, risolviamo presto
questo caso e poi provvederò a fare subito richiesta per andare in un’altra
squadra.
-
Non è necessario. – provò a calmarla Rossi.
-
Mi aspetto di vedere il modulo firmato sulla mia
scrivania appena torneremo da New York.
Hotch pose fine alla conversazione uscendo dalla stanza,
mentre Collins lo seguiva con lo sguardo e stringeva i pugni. Era visibilmente
furiosa e, non avendo altro interlocutore, rivolse la sua rabbia contro Rossi.
-
Mi meraviglio che un agente con la sua esperienza e la
sua fama possa tollerare questi atteggiamenti. – incrociò le braccia.
-
Infatti non tollero il tuo di atteggiamento. – David
sembrava molto calmo e si mise a sedere – So che non sei abituata a lavorare in
squadra e quindi è normale che all’inizio tu sia un po’ spaesata, ma aggredire
così una collega e il tuo diretto superiore non è fra le cose più intelligenti
che tu possa fare.
-
Quindi la colpa sarebbe mia? – inarcò un sopracciglio –
Le sembra normale esporre un caso senza sapere quelle cose?
-
No, ma questo è un problema che risolverà l’agente
Hotchner e che non ti riguarda. – l’uomo sorrise – Si prendono più mosche con
il miele che con l’aceto: non te lo hanno insegnato? La prossima volta, passaci
sopra e poi parlane con calma a Hotch.
-
Non ci sarà una prossima volta. – poggiò le mani sullo
schienale della sedia – Il capo è stato chiaro, no? Vuole che firmi il modulo
di trasferimento.
-
Parole dette in un momento di rabbia. – minimizzò
agitando una mano – Se proprio non puoi sopportare il fatto che il nostro
lavoro sia “approssimativo”, esci di qui e dimostraci come si comporta un
agente sul campo. Sii professionale.
Sarah gli gettò un’ultima occhiata prima di avviarsi verso
la porta. Era ormai con la mano sulla maniglia quando Rossi parlò di nuovo.
-
Spero che tu abbia portato tutto il necessario. – disse
mentre si alzava.
-
Molto gentile a preoccuparsi, agente Rossi. Ma
non affatichi troppo la sua mente, so cosa necessita per fare BENE il mio
lavoro. Sono abituata a badare a me stessa senza bisogno che la mamma venga in
mio aiuto già da un bel po’ di tempo. – gli rispose la ragazza uscendo dalla
stanza.
Interno dell’aeroplano
Prentiss, Rossi e Hotch occupavano la postazione da quattro,
mentre Reid e JJ erano seduti sul divano laterale e Morgan rimaneva in piedi
appoggiato allo schienale della poltrona e guardava di tanto in tanto Collins
che se ne stava da sola in fondo all’aereo. La ragazza non aveva più parlato
con nessuno da quando avevano lasciato l’accademia e, appena salita a bordo,
lei si era accomodata per leggere i referti medici e i vari fascicoli. Nessuno
sembrava prestarle molta attenzione mentre cominciavano a discutere del caso.
-
Quindi potrebbero essere raptus improvvisi. –
disse Prentiss in risposta ad alcune osservazioni di Rossi.
-
Non credo proprio. – si intromise Collins
alzandosi e andando verso di loro con un block notes in mano – Anzi, credo che
sia tutto pianificato scrupolosamente e che il nostro S.I. sia molto
organizzato e metodico.
-
Cosa glielo fa dire, agente Collins? – Hotch non
la guardava neanche mentre sfogliava uno dei dossier.
-
Direi “dottoressa” Collins, vero francesina? –
la voce allegra e squillante di Garcia arrivò dagli altoparlanti mentre il viso
gioviale della donna appariva sugli schermi dell’aereo – Sono lieta di
annunciarti che è finalmente arrivato il tuo dossier, dottoressa.
Si voltarono tutti a guardarla stupiti mentre lei superava
Morgan e si accomodava sulla poltrona vuota vicino a Rossi.
-
Grazie della precisazione, Garcia, ma non è mia
abitudine usare i miei titoli accademici. – si portò il ciuffo lungo dietro
l’orecchio – Anzi, mi infastidisce alquanto.
-
Io sarei fiera di avere conseguito un dottorato
in antropologia a solo sedici anni, per non parlare della laurea a quattordici.
– si stupì l’informatica.
-
Avevi saltato solo un “paio di classi”, vero? Laurea
a quattordici, dottorato a sedici… cosa hai fatto nei quattro anni fra il
dottorato e l’ingresso all’accademia? – chiese Rossi sorridendo.
-
Ha preso un altro dottorato in psicologia. –
rivelò Penelope – Decisamente sei una persona piena di sorprese.
Sarah aggrottò le sopracciglia, infastidita da tutta
l’attenzione destata dai suoi titoli accademici. Odiava ricordarli, perché
appartenevano al suo passato, ad una vita che non le apparteneva più e le
ricordavano solo tutto quello che aveva perso. Per una frazione di secondo la
sua mente tornò indietro, al giorno della cerimonia per il suo dottorato.
Maggio 1998 –
Università di Harvard, Boston, Massachusetts
Era nervosa ed emozionata mentre finiva di vestirsi davanti
allo specchio, sapeva che i suoi genitori sarebbero stati puntualissimi e aveva
paura di fare tardi. Idolatrava suo padre e lui ricambiava quel trasporto: fin
da quando era piccola, nei momenti importanti della sua vita, lui era sempre
stato al suo fianco. Sentì bussare alla porta della sua camera e andò ad aprire
credendo che fosse la sua coinquilina che aveva dimenticato qualcosa prima di
uscire.
Appena aprì la porta si trovò davanti i suoi genitori e
rimase di stucco. Per quanto potesse ricordare i suoi erano sempre state due
persone molto attente all’abbigliamento, sempre eleganti e vestite come
richiedeva l’occasione. Si era aspettata di vederli particolarmente curati,
immaginando sua madre con un tailleur dai colori pastello e suo padre in un
completo da giorno con tanto di cravatta coordinata. Le sue aspettative non
erano state disattese, però sui vestiti portavano due magliette nere con sopra
scritto in bianco: “staff personale della dottoressa Collins”. Stavano ancora
ridendo dopo avere urlato “sorpresa”.
-
Ma dico, siete impazziti? – chiese scioccata,
aggiustandosi i capelli raccolti in una coda.
-
No, siamo solo tanto fieri di te. – rispose il
padre abbracciandola e baciandola sulla fronte.
Novembre 2007 –
Interno aeroplano F.B.I.
Sarah si riscosse prontamente, rimproverandosi per essersi
lasciata andare a ricordi ormai lontani. Doveva concentrarsi sul caso e sulla
sua missione, non perdersi in stupide nostalgie.
Reid, dal canto suo, la guardava di sottecchi: ogni volta
che scopriva qualcosa di più sulla sua nuova collega e cercava di farle domande
in proposito, lei si limitava a rassicurarlo di
essere ancora il più intelligente, il genio della squadra. C’erano così tante
domande che gli frullavano nella mente e si chiedeva fino a che punto il suo
passato e quello di Collins fossero simili. Finiva sempre con il rispondersi
che dovevano essere stati molto diversi: in fin dei conti lei era così fredda,
strana, aggressiva. Soppesò l’ultimo aggettivo che gli era venuto in mente,
giudicandolo troppo duro per definirla. In fin dei conti era stata molto
gentile la notte prima, quando l’aveva scoperto fermo sul marciapiede davanti
all’appartamento che una volta era stato di Gideon. L’aveva fatto salire in
piena notte, si era preoccupata che avesse preso freddo, gli aveva preparato un
latte caldo con del whisky per farlo scaldare; era stata molto premurosa.
Eppure durante la riunione era stata molto sgarbata con JJ e, ricordando tutta
la situazione, “aggressiva” era la parola che meglio definiva l’atteggiamento
che aveva avuto. Si voltò leggermente per osservare JJ di sottecchi mentre
l’agente di collegamento si limitava a tenere lo sguardo su Hotch e Prentiss.
-
Garcia, possiamo tornare al caso? – Aaron guardò
l’ultima arrivata con uno sguardo duro.
-
Certo, capo. – cominciò a battere furiosamente
sulla sua tastiera – Le vittime non sembrano essere legate fra di loro in
nessun modo. Vivevano in zone diverse, studiavano in istituti diversi,
estrazione sociale simile per Farinacci e la Hernandez, ma non sembra esserci
alcun legame fra le due.
-
Quindi le vittime sono diverse per estrazione
sociale, quartiere, aspetto e razza. – ricapitolò Morgan – Le prime due vittime
erano bianche, mentre l’ultima era ispanica.
-
La Farinacci e la Hernandez erano more, la
O’Connor bionda. – continuò Reid, riflettendo a voce alta, per poi girarsi
verso Collins – Non hai risposto.
-
A cosa? – Sarah sbatté le palpebre interdetta.
-
Hotch ti aveva chiesto cosa ti fa dire che è
organizzato e metodico. – le ricordò il ragazzo.
-
Ho letto i referti delle autopsie e le
conclusioni del medico legale. – guardò JJ con aria di sfida – A quanto pare
sul luogo dei ritrovamenti non ci sono tracce di sangue, quindi le uccide da
qualche parte e poi le scarica a Central Park. Le analisi hanno evidenziato la
presenza di tubocurarina e tiopentale
nell’organismo.
-
Quindi le paralizza e le addormenta. – osservò
Spencer, tornado a guardare i referti.
-
Peccato che non si preoccupi di intubarle. –
rispose Sarah con una smorfia – Sono tutte morte per asfissia.
-
Le soffoca? – chiese Morgan.
-
No, la tubocurarina è un miorilassante. – cominciò
a spiegare Reid, ben presto rendendosi conto che nessuno lo seguiva.
-
Un miorilassante? – chiese infatti Prentiss.
-
Praticamente è un alcaloide che blocca le
funzioni muscolari – si intromise Collins cercando di spiegare al resto del
team – Viene usata in medicina, in combinazione con altri farmaci, per
anestetizzare completamente il paziente. Ha però un effetto collaterale: blocca
anche il riflesso alla respirazione. Mentre il tiopentale è un ipnotico e
serve a far addormentare il paziente.
-
Quindi, visto che non le intuba, le vittime
muoiono soffocate. – meditò Prentiss guardando verso Hotch.
-
Stiamo cercando qualcuno che ha conoscenze
mediche e facilità a procurarsi farmaci. – Hotch riprese il controllo della
discussione – Stiamo parlando di un uomo bianco, fra i trenta e i trentacinque
anni.
-
Non dimentichiamoci che il tiopentale causa la
perdita di coscienza. – interloquì Spencer – Quindi non è il controllo in sé
che lo eccita.
-
Usa quei farmaci solo per tenerle inermi e poter
far loro quello che vuole, non è sintomatico della sua mania di controllo? –
chiese Morgan.
-
Non necessariamente. Ci sono farmaci che hanno
lo stesso effetto ma che non fanno perdere i sensi. – riferì Collins – Io
personalmente userei la chetamina, l’atracurio o il doxacurio, che lascerebbero
le vittime paralizzate ma coscienti.
-
Sono farmaci più adatti ad un maniaco del
controllo. – si trovò d’accordo Reid.
-
Potrebbe essere chiunque. – fece notare Prentiss
– Il campo di ricerca è ancora troppo ampio.
-
Garcia, comincia a controllare se ci sono state
denuncie per il furto dei medicinali che contengono tubocurarina.
-
Subito, capo. L’oracolo di Quantico si mette all’opera.
– Penelope non interruppe il collegamento e fece una faccia strana – Collins,
un’ultima cosa, mi dispiace per i tuoi genitori.
-
Sì, mio padre è morto in un incidente d’auto.
Ora lo sa anche il resto della squadra. – sbottò la ragazza girandosi verso il
monitor – Credevo che i dossier degli agenti fossero riservati. Faccia una
bella cosa, invece di tenerlo nel suo ufficio, vada in una tipografia e faccia
fare i cartelloni. Così non dovrà più preoccuparsi di informare le persone.
La ragazza chiuse di colpo il fascicolo che teneva in mano e
lo gettò in malo modo sul tavolo, per poi alzarsi e tornare al posto che aveva
occupato fino all’inizio del confronto con il resto della squadra.
Morgan la seguì con lo sguardo, non l’aveva mai persa di
vista e aveva notato il modo in cui la mascella della ragazza si era contratta
alle parole di Garcia. La cosa strana era che per un attimo, una frazione di
secondo, aveva avuto la netta impressione che la ragazza mentisse a proposito
della morte di suo padre.
Garcia chiuse il collegamento senza aggiungere altro, ma
tutti erano consci del fatto che fosse rimasta malissimo per le parole della
nuova collega. Hotch fece finta di niente e guardò l’orologio, per poi girarsi
a guardare Rossi e riprendere la parola.
-
Tra poco atterreremo: Prentiss e Rossi andate
dal medico legale; io ricontrollerò gli interrogatori di parenti e amici delle
vittime; Reid si occuperà della vittimologia e del profilo geografico; JJ
raduna tutto il materiale e cerca di tenere occupata la stampa; Morgan e
Collins andate sulle scene dei ritrovamenti.
Collins si limitò a fare spallucce e a guardare il suo nuovo
partner di sfuggita, per poi voltarsi verso il finestrino e osservare le
nuvole.
Continua…
N.d.A.
Ho cercato di informarmi il più possibile sui farmaci usati per
le anestesie e sui loro effetti. Non essendo laureata in medicina, mi
scuso fin d'ora se dovessero esserci inesattezze relativamente alle
sostenze e ai farmaci nominati.
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Capitolo 9 *** Capitolo 8 ***
capitolo 8
Novembre 2007 – New York
Central Park
Sarah non aveva più rivolto la parola a nessuno dopo
l’ultimo scambio di battute con Garcia. Nonostante Morgan avesse tentato due
volte di intavolare una conversazione con lei, si era trovato davanti un muro
di ghiaccio e aveva gettato la spugna, così che il viaggio fino a Central Park
si era svolto nel più completo silenzio.
Collins scese dalla macchina con in mano i dossier e
cominciò subito a cercare le foto, mentre Derek faceva il giro del veicolo. Le
si fermò a pochi passi di distanza e guardò i poliziotti che sostavano circa
duecento metri da loro e che stavano facendo segno di raggiungerli.
-
Dobbiamo andare là. – disse rivolto alla ragazza che
continuava a guardare i fascicoli – Non puoi stare in silenzio per tutto il
tempo, questo lavoro è fatto soprattutto di condivisione.
Finalmente la ragazza chiuse i fascicoli, dopo averne
estratto un paio di immagini. Il suo sguardo era vuoto e assente, mentre si
guardava intorno per cercare di orientarsi. Quando finalmente fissò il proprio
compagno, sbatté le palpebre come se non si fosse accorta della sua presenza
fino a quel momento.
-
Scusami, cosa stavi dicendo? – disse con aria smarrita.
-
Senti, capisco che magari Garcia non sia stata
discreta. – cominciò lui con un sospiro – Capisco anche che Hotch ti avrà fatto
una bella lavata di capo prima di partire; capisco anche che questo non è un
momento sereno per te. Però, punto primo, devi condividere con me quello che
pensi del caso.
-
Punto secondo? – chiese lei, sempre apatica.
-
Potevi evitare di comportarti in quel modo con JJ. –
sputò fuori, incamminandosi lungo il sentiero.
-
Da quanto tempo la state coprendo? – il tono si era
fatto tagliente.
-
Di cosa stai parlando? – Morgan si girò di scatto,
tornando sui suoi passi con fare minaccioso – Cosa stai insinuando?
-
Nessuno di voi era stupito della sua impreparazione sul
caso. – lo sguardo di Collins si fece duro – Un’agente di collegamento non può
fare errori così macroscopici senza che nessuno le dica niente. Eppure nessuno
di voi sembrava particolarmente sorpreso che JJ non sapesse rispondere a quelle
domande. Deduco che non fosse la prima volta che succedeva e che voi ve lo
aspettaste.
-
Tu non sai niente. – Morgan fece una smorfia a metà
strada fra un sorriso e un ringhio, per poi andare di nuovo verso i poliziotti
che li aspettavano – Ora vuoi muoverti? Dobbiamo fare il sopralluogo di tre
scene.
Sarah sorrise mentre lo seguiva, aveva lo sguardo puntato
dritto sulle spalle di Derek e le sembrava di vedere un grosso bersaglio
disegnatoci sopra. Rallentò il passo, ripensando al biglietto da visita che le
aveva dato e meditò che forse poteva salvarlo; forse la Strauss si sarebbe
accontentata di JJ come agnello sacrificale.
Ufficio del medico
legale
Prentiss e Rossi erano in attesa del medico legale, dopo che
li avevano informati che stava finendo un’autopsia e avrebbe cercato di essere
da loro nel più breve tempo possibile. Anche loro non avevano parlato molto
dopo lo scoppio di Collins nei confronti di Garcia. Rossi le fece cenno di
sedersi su una delle sedie libere dello studio e si accomodò accanto a lei.
-
Se dobbiamo aspettare, sarà meglio metterci comodi. –
le disse dandole un colpetto sul ginocchio con la mano destra – Giornata piena
di emozioni e urla, vero?
-
Collins… la ricordavo diversa. – fu la laconica
risposta di Emily, che continuava a guardarsi intorno.
-
La conoscevi bene?
-
No, come ho già detto ci scambiavamo solo i saluti di
rito. – sospirò spostando lo sguardo sul suo interlocutore – La ricordo come
una ragazza taciturna e riservata, durante le riunioni mattutine per
l’assegnazione di casi se ne stava sempre seduta in fondo a prendere appunti.
Non è mai stata così aggressiva, non l’ho mai vista attaccare una persona in
quel modo.
Dopo aver finito la frase, spostò di nuovo lo sguardo sulle
vetrate, come attendendo il medico legale. L’unica cosa che tradiva il suo
nervosismo era il fatto che continuasse a tormentarsi le dita.
-
Sono passati due anni, la gente cambia. – Rossi usò un
tono annoiato, eppure guardava Prentiss insistentemente, come aspettando che
lei aggiungesse qualcosa.
-
Non così tanto in così poco tempo. E’ assurdo, non la
conosco così bene da poterlo dire, ma… non è più lei. Rossi, credo che le sia
successo qualcosa, qualcosa di brutto. – puntò gli occhi in quelli di David,
con uno sguardo preoccupato – Credo che la Strauss l’abbia mandata a spiare
Hotch.
Fu la volta di Dave di sospirare e spostare lo sguardo.
Corrugò le sopracciglia, come se stesse valutando quello che aveva appena detto
Prentiss e poi scosse la testa con fare rassegnato.
-
Possiamo solo aver fiducia in lei. – mormorò – Sperare
che faccia la cosa giusta.
-
Non avrebbe dovuto trattare così JJ. – disse Emily.
-
No, ma di questo se ne deve occupare Hotch. Non deve
diventare un nostro problema, perché se hai ragione ne abbiamo già troppi.
Stazione di polizia
Hotch ripensò a quello che era successo la mattina fra il
loro agente di collegamento e l’ultima arrivata della squadra, mentre camminava
per i corridoi della stazione di polizia. C’era andato giù pesante con Collins,
era furioso e non si pentiva di averle detto quelle cose. Non tollerava che la
sua leadership fosse messa in dubbio, tantomeno da un agente appena arrivato e
che gli era stato imposto dalla Strauss.
Sapeva che quella ragazza era stata assegnata alla loro
squadra per spiarli, non aveva dubbi al riguardo. Non era particolarmente
preoccupato della cosa, sapeva che la caposezione lo teneva costantemente sotto
osservazione e che aspettava solo un suo passo falso. Se quella donna avesse
deciso di liberarsi di lui avrebbe trovato il modo, che ci fosse una
motivazione o meno.
Per mantenere al sicuro la squadra avrebbe dovuto fare in
modo che nessuno di loro fosse attaccabile, questo lo aveva capito già da
tempo. Eppure aveva mancato al suo compito di assicurarsi che nessuno dei suoi
agenti fosse nella posizione di essere sostituito.
Raggiunse JJ nella sala fax, osservò un attimo la collega e
si assicurò che non ci fosse nessun’altro lì con loro prima di chiudere la
porta. Avrebbe dovuto parlare con lei già da tempo ed invece aveva sempre
rimandato, con il risultato che quella mattina qualcun altro era venuto a
conoscenza di quel problema.
-
JJ, dobbiamo parlare. – disse chiudendo la porta
alle proprie spalle.
-
Dimmi Hotch. – Jennifer si girò a guardarlo,
sembrava ancora scossa.
-
Riguarda il tuo rendimento sul lavoro e quello
che è successo stamani mentre esponevi il caso… non so come dirlo in modo
gentile, quindi sarò diretto. JJ che cosa ti sta succedendo? Sei sempre
soprapensiero, sei approssimativa nel tuo lavoro e certe volte rendi le cose
ancora più difficili a tutta la squadra.
JJ sgranò gli occhi blu e rimase un momento in silenzio.
Sentiva le lacrime arrivare e cercò di rimandarle indietro.
-
Hotch, mi dispiace se questo è quello che pensi…
-
Non è quello che penso, è quello che vedo. –
disse il capo della squadra guardandola fisso - JJ la tua vita privata non mi
riguarda, ma se qualcosa ti turba puoi venire a parlarmene tranquillamente.
Sono il capo della squadra ma pensavo che fossimo anche amici e il tuo comportamento
mi mette in difficoltà in tutte e due i ruoli.
Le mise una mano sulla spalla e aspettò che la ragazza
alzasse gli occhi su di lui.
-
Sai che ti sto coprendo, che nessuno al di fuori
della squadra sa che ultimamente sei molto “distratta”. – era ancora più serio
del solito e contrasse la mascella prima di proseguire – Dovrei dire che
“nessuno lo sapeva”. Collins è nuova… non è una di noi, se capisci cosa voglio
dire.
-
Potrebbe riferirlo alla Strauss. – annuì
Jennifer – In quel caso io sarei nei guai.
-
Sarei nei guai anch’io, per averti coperto. Ora
non ci possiamo permettere di essere bersagli facili per la caposezione.
-
Lo so Hotch, scusami. Ti prometto che non
capiterà più. Anche se so che non è una giustificazione sto passando un periodo
difficile. – JJ sembrava sicura e decisa – Sai quanto questo lavoro sia
importante per me! Ti giuro che non capiterà mai più una cosa del genere. Mi
concentrerò sul lavoro e terrò i miei problemi personali fuori dall’ufficio.
Hotch fece un leggero sorriso, ma sembrava ancora molto
preoccupato. La ragazza parve capire quella sua tensione e si asciugò una
lacrima che era sfuggita al suo controllo, prima di parlare di nuovo.
-
Hotch, Collins non mi piace. – disse tutto d’un
fiato – Non è per come mi ha trattato durante la riunione o per quello che ha
detto, anche perché devo ammettere che aveva ragione…
-
Non avrebbe dovuto permettersi. – provò ad
intervenire l’uomo.
-
No, aveva ragione, anche se ha usato quei modi
così aggressivi. – lo fermò subito JJ – No, è qualcosa di diverso. Non so come
spiegarlo: c’è qualcosa in lei che non mi convince.
Aaron annuì e le diede una pacca sulla spalla, prima di
girarsi nuovamente verso la porta per raggiungere Reid, che era rimasto nella
stanza che la polizia aveva messo a loro disposizione.
New York, Central Park
Morgan era fermo davanti alla scena dell’ultimo ritrovamento,
era ancora visibile la sagoma del corpo disegnata da quelli della scientifica.
Lasciò che il suo sguardo spaziasse per osservare il parco intorno a lui. Erano
sotto un ponticello che sormontava un piccolo corso d’acqua, spostando lo
sguardo sulla sinistra poteva vedere il Ritz che svettava subito fuori dal
parco. Si voltò ad osservare Collins, che continuava a fissare la foto scattata
dalla scientifica, senza curarsi di nient’altro.
-
Ehi, bell’addormentata. – la chiamò Derek
facendo un passo verso di lei.
-
Non sto dormendo. – fu la laconica risposta
della ragazza.
-
Posso dirti due paroline? – le si avvicinò e
cominciò a parlare a voce bassa, anche se i poliziotti erano troppo distanti
per sentirli – Dobbiamo concentraci sulla scena, a meno che tu non abbia notato
qualcosa nelle foto.
-
No, veramente no. – Sarah ripose l’immagine e si
voltò a fronteggiare il suo collega – Scusami, è il mio primo sopralluogo dal
vero.
-
Cosa? Non hai mai analizzato una scena del
crimine? – chiese l’uomo esterrefatto.
-
No, almeno non dal vivo. – la ragazza fece
spallucce – Di solito ci limitavamo ad analizzare le foto. Te l’ho detto, noi
non agivamo in squadra e non c’era molta interazione. Loro ci mandavano i
dossier e noi li analizzavamo, si stilava un profilo e si rinviava tutto alle
forze dell’ordine.
-
Una novellina, quindi. – la prese in giro lui,
facendole segno di seguirlo.
-
Sono cinque anni che faccio la profiler. –
rispose piccata – Non sono una novellina.
-
Relativamente alle scene del crimine, direi che
lo sei. – le sorrise lui.
-
Ora fai lo spiritoso e mi sorridi? Non sei più
arrabbiato con me perché ho “strapazzato” la biondina? – lo superò per
accucciarsi vicino alla sagoma del corpo.
-
Non ho ancora deciso se sei antipatica.
-
Lo sono, fidati. – gli rispose, concentrandosi
però sulle pietre del ponte – Non mi sopporto neanche io.
-
Se non ti sopporti da sola, hai un bel problema.
– Derek si accucciò accanto a lei, cercando di capire cosa avesse destato
l’interesse della ragazza.
Collins estrasse un paio di guanti in nitrile e
tastò le pietre sotto lo sguardo attento del suo collega. Si guardò in torno e
grugnì indispettita.
-
Per caso hai una torcia?
Non si vede niente qui sotto – chiese Sarah senza voltarsi.
-
Io no, però possiamo rimediare subito. – si alzò
e chiamò a gran voce i poliziotti che sostavano a qualche metro di distanza –
Ehi, ragazzi. Qualcuno ha una torcia?
-
Subito, signore. – rispose il più giovane
correndogli incontro.
-
Visto? E’ più facile quando c’è interazione. –
la prese in giro Morgan.
-
Lo terrò presente. – sorrise di rimando Collins,
senza spostare la mano – Credo di aver trovato qualcosa, ma non ne posso essere
sicura prima di poter controllare con una luce adatta e prima di aver visionato
le altre scene dei ritrovamenti.
Il poliziotto era arrivato e stava tendendo la torcia a
Morgan che la prese e la puntò accesa verso la mano di Sarah.
-
Finalmente un po’ di interazione. Era così
difficile? – le chiese sarcastico.
-
Basta che l’interazione si fermi sul campo. – lo
redarguì strappandogli di mano la torcia per illuminare meglio quello che aveva
trovato – Anche perché non credo di essere il tuo tipo, visto il tipo di
persone che ti piacciono.
Derek ricordò improvvisamente quello che lei gli aveva detto
nella sala audiovisivi, quando aveva usato la propria preparazione in
comunicazione non verbale per ferirlo. Sospirò e chiuse gli occhi, ricordando a
sé stesso che in quel momento la ragazza non era del tutto lucida e che poi si
era scusata. Se lei era così brava nel suo lavoro, era inutile negare, ma
avrebbe dovuto chiarire con la ragazza che quella era un’informazione
riservata.
Ufficio del medico
legale
La dottoressa era appena entrata nel proprio ufficio,
Prentiss e Rossi prontamente si alzarono in piedi per stringerle la mano. Era
una donna sulla cinquantina, dai capelli castani raccolti in un austero chignon
e dall’aspetto stanco.
-
Sono la dottoressa Black. – si presentò con voce
ferma – Immagino siate qui per le ragazze trovate a Central Park. Il capitano
Berger mi aveva avvisato di una vostra possibile visita.
-
Sono l’agente David Rossi. – si presentò l’uomo
per poi indicare la donna al suo fianco – E questa è la mia collega, l’agente
Emily Prentiss. Effettivamente siamo qui per quei tre omicidi.
La dottoressa si mise a sedere facendo cenno ai due agenti
federali di accomodarsi a loro volta. Aprì i tre fascicoli che teneva sulla
scrivania, proprio davanti a lei e cominciò a ricapitolare le sue conclusioni.
-
Le tre donne sono state sedate con dei farmaci
per anestesia. – disse, confermando le conclusioni di Reid e Collins – La morte
è avvenuta per asfissia, visto che non sono state intubate e la tubocurarina
causa un blocco del riflesso respiratorio. Se non fosse stato queste ad
ucciderle, ci avrebbe pensato la forte emorragia dovuta alle estese ferite
all’addome, causate dalla rimozione dell’utero.
-
Quindi stiamo parlando di isterectomie. – disse
Prentiss corrugando la fronte.
-
No. Almeno non nel senso tradizionale del
termine. – la dottoressa si inumidì le labbra – Chiunque abbia fatto questo,
non intendeva sterilizzarle.
Dicendo così, prese alcune foto e le mostrò ai suoi
interlocutori. Il ventre delle donne era stato aperto e l’utero rimosso, ma
c’erano anche altre ferite sull’addome.
-
Dopo l’asportazione dell’utero, ha infierito
sulle donne con violenza. – precisò la Black.
-
Qualsiasi dottore può fare un intervento del
genere? – chiese Rossi, ripassandole le foto.
-
Non è stato un intervento chirurgico, si è
comportato come un macellaio. – la dottoressa scosse la testa e si girò verso
Prentiss – Dovete fermarlo.
-
Può dirci altro, dottoressa? Qualcosa che non
era nei referti? – chiese Emily, prendendo il taccuino per gli appunti.
-
Dopo l’arrivo dell’ultima vittima, ho sbagliato
a compilare il foglio per la richiesta delle analisi. Non ne ho dimenticata
qualcuna, per sbaglio ho spuntato un’altra casella. – si inumidì di nuovo le
labbra – L’ultima vittima era incinta, o almeno lo era stata fino a poco prima.
I valori della Beta-HCG erano elevati.
-
Anche le altre vittime erano incinta? – Rossi
era turbato da quello sviluppo.
-
Non lo so. Non ancora, almeno. – la donna
intrecciò le mani sulla scrivania – Per precauzione, tengo sempre dei vetrini
di sangue in più, quando si tratta di vittime di omicidi. Sapete, non si è mai
abbastanza cauti. Qualche avvocato difensore potrebbe decidere di smuovere le
acque…
-
Può richiedere quelle analisi? – David si alzò.
-
L’ho fatto questa mattina, appena ho ricevuto i
referti del caso Hernandez. – la Black si alzò a sua volta e li accompagnò fino
alla porta.
-
Le saremmo grati se potesse farceli avere il
prima possibile. – Rossi tese la mano per stringere quella
dell’anatomopatologa.
-
Ve li invierò per fax, non appena il laboratorio
avrà i risultati. – garantì, mentre si girava per stringere la mano di
Prentiss.
Central Park
Morgan riguadagnò la posizione eretta, mentre controllava
che la foto digitale appena scattata fosse venuta bene. Sarah, invece, rimaneva
accucciata vicino alla panchina. Era il terzo sopralluogo che facevano quel
giorno e il sole stava tramontando. In ordine cronologico, l’assassino aveva
lasciato la sua prima vittima proprio su quella panchina. Collins finalmente si
alzò e si guardò intorno. Erano davanti al lago e quella fila di panchine in
legno sembrava corrervi tutto a torno.
-
Sembra un posto piuttosto frequentato. –
rifletté a voce alta.
-
Durante il giorno, sì. – le rispose il
poliziotto più giovane, quello che aveva portato la torcia – Di notte qui non
viene mai nessuno. Almeno non le brave persone.
Indicò un punto lontano alla loro destra, dove l’arco
formato dalla file di sedili in legno scompariva dietro la ringhiera che
circondava l’acqua.
-
Laggiù, la sera, si riempie di teppisti e
spacciatori. – precisò, gongolando nell’essere così informato.
-
E voi non intervenite? – Sarah si girò
perplessa.
-
Li vedrebbero arrivare da lontano. – si
intromise Morgan – E’ un’area facile da controllare, si riesce ad individuare
chiunque si stia avvicinando da qualunque direzione.
-
Eppure il nostro assassino è venuto qui a
scaricare il primo corpo. – meditò lei cominciando a battersi un dito sulle
labbra che stavano assumendo una preoccupante colorazione blu – Sarà meglio
andarcene, si sta facendo freddo.
-
Sì. Abbiamo le foto e direi che non c’è altro
che possiamo fare qui. – si trovò d’accordo Derek, incamminandosi lungo la riva
– Andiamo, che ti offro un caffè caldo.
-
Dovrei essere io ad offrirlo a te. – gli
trotterellò dietro la ragazza.
-
E perché?
-
Perché non hai ancora accettato le mie scuse. –
fece spallucce – Scuse che per altro non ti ho ancora fatto.
-
Ancora con questa vecchia storia? – sorrise
accelerando il passo – Oggi non è ieri, è un giorno nuovo.
Il poliziotto più giovane assisteva a quello scambio, senza
riuscire a capire di cosa stessero parlando, mentre li inseguiva per non essere
lasciato indietro.
Continua…
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Capitolo 10 *** Capitolo 9 ***
capitolo 9
Novembre 2007
Central Park, New York
Erano arrivati in prossimità del SUV, che Derek aveva
parcheggiato a un centinaio di metri dal lago, e Sarah camminava guardando
dritto davanti a sé mentre il giovane agente di polizia continuava a
chiacchierare cercando di starle dietro. Morgan allungò la falcata e si fermò
accanto allo sportello della macchina sorridendo: era chiaro che Collins era
infastidita da tutto quel parlare del ragazzo che doveva essere poco più grande
di lei.
La ragazza si fermò bruscamente e si voltò verso il poliziotto,
che si ammutolì sotto lo sguardo gelido e rabbioso di Sarah. Rimasero a
fissarsi per qualche istante, finché il ragazzo non resse più a quel silenzio e
girò la testa verso il collega che era vicino a loro.
-
Suppongo che il sopralluogo sia finito, vero Al? –
chiese rivolto all’uomo più grande – Comunque, se dovesse servirvi il nostro
aiuto…
-
Vi chiameremo sicuramente. – si intromise Morgan per
togliere dall’impaccio il giovane – Come avete detto di chiamarvi?
-
Io sono Stevens. – ripeté il più anziano – Mentre il
pivello è Johnson.
-
Allora, agenti, se dovessimo avere bisogno del vostro
aiuto spero sarete ancora così disponibili. – Derek cercava di essere il più
conciliante possibile.
-
Sicuramente, agente. – il ragazzo fece un gesto di
commiato toccandosi la visiera del cappello.
Sarah aspettò che i due agenti si incamminassero e poi si
voltò a sua volta verso il collega. Aveva il viso tirato, era visibilmente
stanca e infreddolita, ma non si lamentava. Derek le sorrise e le fece un cenno
con la testa.
-
Sarà meglio andarcene prima che faccia buio. Ci
fermeremo ad una caffetteria lungo la strada. – la informò pescando le chiavi
dalla tasca del giubbotto.
-
Sia chiaro che pagherò io, non accetto discussioni in
merito.
-
Mai pensato di essere io ad offrire.
Morgan aprì la portiera della macchina e salì, prontamente
imitato da Collins. La ragazza attese che l’uomo mettesse in moto per accendere
il riscaldamento al massimo e mise le mani davanti ai bocchettoni. Le punte
delle dita avevano assunto una preoccupante colorazione bluastra.
-
Stai bene? – si informò Derek.
-
Starò bene appena terrò in mano un tazza di cioccolata
bollente. – rispose strofinandosi le mani – Colpa mia, non avevo preso in
considerazione che a New York fa più freddo che a Washigton.
-
Mettici anche che questa giornata nuvolosa non ha
aiutato la temperatura ad alzarsi. Credo sia il caso che ti compri un paio di
guanti.
-
Spero di non dover fare altri sopralluoghi all’aperto.
– armeggiò con il riscaldamento e fece uscire l’aria verso i piedi – Comunque i
guanti li ho portati, sono nella valigia.
-
Che è con tutte le altre nel SUV di Hotch. – Morgan si
immise nel traffico, appena fuori dal parco – Mossa sbagliata mia cara.
-
Come molte che ho fatto negli ultimi giorni. – si era
messa le mani sotto le ascelle e aveva allungato le gambe per scaldarsi i piedi
– Sembra che io non riesca a farne una giusta da quando mi sono unita a voi.
-
A proposito di cose giuste… - Derek storse la bocca,
imbarazzato dalle domande che voleva e doveva farle – Cosa ti ha fatto capire
che noi abbiamo “qualcosa” in comune?
Sarah sbarrò gli occhi e si voltò verso il finestrino.
Sapeva di aver fatto una stupidaggine quando era scattata in quel modo la sera
prima con lui. Cosa poteva dirgli? Come giustificare quello che lei sapeva? I
suoi pensieri andarono all’appuntamento che aveva avuto il giorno prima di
incontrare i suoi nuovi colleghi.
Lincoln Memorial, Washington D.C.
Si era appoggiata ad un colonna, intenta ad osservare la
folla di turisti che invadeva il monumento al sedicesimo presidente degli Stati
Uniti. Erano tutti intenti ad osservare la statua di Lincoln e ad ascoltare la
guida. Il suo sguardo spaziò verso la gradinata, dove altri visitatori si
riposavano. Cominciava a diventare nervosa via via che l’ora pattuita si
avvicinava.
Quella mattina si era alzata prima che la sveglia suonasse,
cosa che aveva attribuito al cambio di fuso orario che non aveva ancora
metabolizzato. In realtà un voce dentro la sua testa aveva cominciato a
martellarla ricordandole che quel giorno avrebbe rivisto Jason dopo quasi tre
anni. L’ultima volta che si erano visti lei gli aveva detto addio, lasciandolo
solo all’alba per le strade di Lione.
Era agitata e sentiva il desiderio di scappare da quel
posto. Una parte di lei non voleva rivederlo, specialmente sapendo che lui
aveva chiesto quell’incontro solo per convincerla a proteggere la squadra e il
dottor Reid. Sentiva già di detestare quel ragazzo, nonostante non sapesse
neanche che aspetto avesse. Le faceva saltare i nervi il pensiero che Jason
tenesse tanto a lui, che l’avesse preferito a lei quando c’era stata
l’opportunità di far entrare un nuovo elemento nel team, che si preoccupasse
ancora di quello che avrebbe dovuto essere solo un allievo ed ex collega. Le
era insopportabile sentire di non contare niente nella vita di Gideon.
Lo vide arrivare ai piedi della scalinata e si nascose
dietro la colonna con il cuore in tumulto: quell’uomo l’aveva ferita e
allontanata, cancellandola con un colpo di spugna come se non fosse mai
esistita. Quello dolore acuto che sentiva in quel momento era la dimostrazione
che lei non era riuscita a sopprimere i suoi sentimenti e che la speranza
riposta in Jason era ancora viva da qualche parte nel cuore che pensava ormai
arido.
-
Sei sempre bellissima, anche con quel taglio di
capelli. – era al suo fianco, ma non cercò di toccarla, limitandosi a
guardarla.
-
Sei qui per i tuoi “ragazzi”, vero? – riuscì a dare un
tono incolore alla domanda, come se non fosse importante.
-
Te l’ho già detto: sono brave persone e non si meritano
questo trattamento. – si voltò, incamminandosi in un angolo appartato del
tempio dorico.
-
Quindi vuoi che io li protegga. – lo seguiva, incurante
delle persone attorno a loro.
Jason si fermò proprio sotto l’iscrizione del discorso di
Gettysburg, si mise le mani in tasca e alzò gli occhi verso quelle parole.
Sarah gli si mise accanto, con le braccia lungo i fianchi, scrutando il profilo
di lui.
-
Perché dovrei aiutarli? – lo chiese con amarezza –
Dammi una buona ragione.
-
Per me. – si girò verso di lei e rimasero a fissarsi
intensamente – So di averti deluso, so di non essermi comportato come tu ti
saresti aspettata. Forse non ho il diritto di chiederti questo favore…
-
Non forse. – gli occhi di Collins trasmettevano tutta
la sua ira – Tu hai perso questo diritto, se mai lo hai avuto.
Gideon annuì, come dandole ragione, e poi le sorrise in modo
dolce prendendole una mano. Sarah stava combattendo contro le lacrime che
rischiavano di sfuggire al suo controllo, stupita di quel gesto così tenero.
-
Non vale, stai giocando in modo scorretto. – lo ammonì
con un sorriso, mentre distoglieva lo sguardo.
-
Non è un gioco. Anche perché, se fosse un gioco, il
giocatore scorretto non sarei io. – si inumidì le labbra e medito su come dire
certe cose – Erin sta barando e lo sappiamo entrambi. Primo perché gli altri
non conoscono le regole del suo gioco e secondo perché sta usando te contro di
loro.
-
Non credo faccia differenza chi userà. – tolse la mano
da quelle di Jason e la infilò nella tasca della giacca.
-
Sì che fa la differenza, visto che lo sta chiedendo a
te per farmi del male.
-
Come tu ne hai fatto a me? – tornò a fronteggiarlo – Mi
hai mandata via.
-
Dovevo proteggerti, ma non pretendo che tu capisca. –
scosse la testa e si strofinò le mani – Al mio posto avresti agito nello stesso
modo.
-
Non credo, non è mia abitudine far soffrire gli altri
per pararmi il sedere.
-
Non stai per fare del male a Hotch e alla squadra
perché Erin ti ha promesso qualcosa in cambio?
Sarah si trovò costretta ad abbassare la testa, conscia che
quello di cui l’aveva appena accusata era vero. Non che Jason Gideon si
trovasse nella posizione di poterla giudicare, ma l’aveva messa davanti alla
cruda realtà e lei doveva ancora decidere cosa fare.
-
Se vuoi che prenda in considerazione l’idea di
aiutarli, ti conviene dirmi tutto quello che sai di loro. – guardò il cielo
azzurro di novembre fare capolino fra le colonne – Se lei ha veramente
intenzione di far loro del male, devo sapere dove sono più deboli.
-
Cosa mi assicura che tu non userai quelle informazioni
contro di loro?
-
Niente. – sorrise perfida – Ma se vuoi che abbiano una
possibilità di cavarsela non hai altra scelta.
L’uomo sembrò vagliare le possibilità che aveva a
disposizione, sapendo che le opzioni erano molto ridotte. Poteva non fidarsi di
lei e tacere, con il rischio che lei non capisse quanto quelle persone fosse
speciali e non meritassero di soffrire ancora. Oppure poteva sperare che il
senso della giustizia fosse così radicato nel cuore di quella ragazza da
mettere al riparo i suoi ex colleghi dalle ire della caposezione.
-
Seguimi. – disse incamminandosi lungo il corridoio.
-
Dove andiamo?
-
In un posto più tranquillo, dove possa raccontarti
quanto abbiano già sofferto e per quale motivo non meritano altri guai.
Sarah gli corse dietro, sapendo di aver vinto: avrebbe
saputo tutto quello che poteva rendere più facile la sua missione per conto
della Strauss.
Central Park West, New
York
-
Allora?
La voce di Derek la riportò al presente, ancora indecisa su
cosa dire per giustificare quella sua “intuizione”. Si inumidì le labbra e fece
mente locale, cercando di ricordare un qualunque atteggiamento del collega che
potesse aiutarla a togliersi di impaccio. Pensò all’altro segreto di Morgan,
quello che aveva “trovato” da sola, e prese un bel respiro.
-
Ti piace giocare a fare il macho. – buttò lì,
rimproverandosi della castroneria che aveva appena detto.
-
Scusami? – Morgan non staccava gli occhi dalla strada,
ma le sopracciglia corrugate dicevano molto sulle sue perplessità.
-
Voglio dire… sembra quasi che tu lo faccia per
dimostrare qualcosa a te stesso, come se fosse una sfida personale. – si
maledisse per essersi addentrata in quella spiegazione così poco credibile, poi
il lampo di genio – Mentre con la persona che veramente ti interessa fai
l’amico del cuore.
Si morse le labbra. Sapeva che quelle spiegazioni non
stavano in piedi, così decise che tanto valeva sparare stupidaggini a raffica
assumendo un tono convinto.
-
Sei in conflitto con Hotch, nonostante tu lo ammiri: ne
ho deduco che hai problemi con i maschi alfa in posizione predominante. – si
sorprese di avere quel tono freddo e accademico mentre spiattellava quelle
cretinate – E’ evidente che il problema non è la competitività, altrimenti il
tuo atteggiamento nei confronti del nostro diretto superiore sarebbe diverso.
Escluso il conflitto di Edipo, visto che Hotch non è decisamente una figura
paterna, mi sembra evidente che tu abbia problemi con i maschi che detengono il
potere e…
-
Sì, credo di aver afferrato. – la interruppe Morgan,
non molto convinto.
Collins tirò un mentale sospiro di sollievo: forse era
riuscita a dire così tante stupidaggini da confondere il suo patner.
-
Invece, per qual’altra cosa… - Derek sapeva di essere
in un campo minato.
-
Voi dire il fatto che tu sia innamorato di una persona
di cui ti fingi amico? – Sarah ora si sentiva in vantaggio.
-
Noi siamo amici e io non fingo. – l’uomo serrò la
mascella.
-
Come si può essere amici della persona che amiamo? Io
non ci riuscirei. – sospirò e tornò a guardarlo – Certo io sono l’ultima
persona che può dire certe cose.
-
Perché? Non sei mai stata amica di nessuno che amavi?
-
Non credo di essere mai stata veramente innamorata di
qualcuno. – corrugò la fronte, ricordando i suoi rapporti passati – Anzi, ne
sono certa.
-
Non ti sei mai innamorata? – Derek la guardò solo un
attimo, con lo stupore dipinto sul volto – Neanche quando eri in accademia?
Scusami, fai conto che non abbia detto niente.
-
Allora Prentiss vi ha raccontato dei pettegolezzi che
giravano su di me. – assunse un aria soddisfatta – Me lo immaginavo.
-
L’ha riferito solo a me. – precisò lui – Comunque né io
né lei crediamo a una sola parola.
-
Come mai? Non credi che io possa far girare la testa ad
un uomo più grande?
-
No, non è questo. – di nuovo la guardò di sfuggita,
prima di concentrarsi sul traffico – Nonostante il tuo strano taglio di capelli
e il modo in cui ti vesti, sei comunque una bella ragazza. Il fatto è che ho
conosciuto Gideon, abbiamo lavorato fianco a fianco per anni. Non si sarebbe
mai approfittato di un cadetto.
-
E chi ti dice che non sia stata io ad essermi approfittata
di lui?
-
Gideon è troppo intelligente per farsi manipolare in
quel modo. – decise di abbandonare il discorso e riportare l’attenzione su
quello che gli premeva veramente – Devo chiederti di essere molto discreta in
merito a… insomma…
-
Senti, qualsiasi cosa ci sia fra di voi non deve
riguardare nessuno. – fece spallucce e gli sorrise – Il protocollo non tiene in
considerazione la nostra parte umana. Quello che provi e non provi per un
collega sono solo fatti tuoi. Per quel che mi riguarda, io non so niente di
niente.
-
Grazie. – Morgan si sentì sollevato.
-
Non ringraziarmi, visto che non so di cosa tu stia
parlando. – si accomodò meglio sul sedile e socchiuse gli occhi – Piuttosto di
parlare di cose che io non so e che negherò sempre di conoscere, perché non ti
fermi ad uno Starbucks così
che possa offrirti un caffè e chiederti scusa come si conviene?
-
Scusa per cosa?
-
Di non aver accettato il tuo invito a bere qualcosa e
di essermene andata senza dirti una parola. E’ stato molto scortese da parte
mia.
-
Non mi risulta che le cose si siano svolte in questo
modo.
-
Questa è la mia versione ufficiale dei fatti e mi ci
atterrò anche sotto giuramento. – rispose lei caparbiamente.
-
Sei strana, Collins, ma cominci a piacermi.
-
Punto primo, il fatto che io sia strana è una cosa che pensate
tutti. Punto secondo, non sono il tuo tipo e lo sappiamo entrambi. Punto terzo…
-
C’è anche un terzo punto?
-
Sì. – si inumidì le labbra e si lasciò scappare una
mezza risata – E’ assurdo ma comincia a piacermi anche tu, Derek.
-
Derek? Ora mi chiami per nome anche se fino a ieri mi
davi del lei?
Sarah fece spallucce e sorrise di nuovo.
-
Le cose cambiano in fretta a volte.
Morgan si fermò ad un semaforo e si girò per guardarla in
faccia. Le sorrise e le fece l’occhiolino.
-
Mi sta bene che mi chiami Derek perché ti piaccio, ma
ti avverto che il mio cuore è già occupato.
-
Non importa, cercherò di sopravvivere alla delusione.
Cosa che mi riuscirà piuttosto facilmente, visto che tu non sei decisamente il
mio tipo.
-
Chi sarebbe il tuo tipo?
-
Te lo dirò quando lo incontrerò.
-
Ci conto. Anche perché qualcuno dovrà pur avvertire
quel poveraccio del casino in cui si metterà.
-
Spiritoso. Avresti dovuto fare il comico invece
dell’agente federale – gli indicò la strada davanti a loro – Ti consiglio
vivamente di lasciar perdere la carriera di cabarettista e di ripartire. Il
semaforo è scattato.
I clacson delle macchine dietro di loro confermarono le
parole di Collins. Morgan scosse la testa sorridendo e riprese la marchia.
-
Giusto per curiosità e poi tornerò a fare quella che non
sa niente. – riprese lei guardandosi le unghie – Cos’ha di così speciale?
-
Aspetta di approfondire la sua conoscenza e poi non mi
farai mai più questa domanda. – gli piaceva poter parlare di questa cosa con
qualcuno e ne era sorpreso.
-
Sei proprio cotto, eh? – la ragazza rise buttando
indietro la testa.
-
Mi piaci di più quando fai quella che non sa niente.
-
Recepito il messaggio, Derek. – aveva un sorriso
allegro dipinto sulle labbra.
-
Dovresti sorridere più spesso. Diventi molto più
carina, sai?
Sarah fece un gesto di noncuranza con la mano, mentre
rifletteva che Derek Morgan le piaceva. Le piaceva veramente, ma non come un
uomo piace ad una donna, era qualcosa di diverso che non aveva mai provato
prima. Si chiese se non avesse trovato una persona che un giorno avrebbe potuto
chiamare “amico”. Si rabbuiò, pensando che forse sarebbe stata costretta a
tradire la fiducia di Morgan per ottenere che il suo trasferimento fosse
definitivo. Cominciava a chiedersi se ci sarebbe riuscita.
Continua…
|
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Capitolo 11 *** Capitolo 10 ***
capitolo10
Novembre 2007
Stazione di Polizia,
New York
Hotch aveva chiesto a JJ di convocare le famiglie per
interrogarle il giorno dopo e, quindi, la donna era tornata nella stanza dei
fax . Reid continuava a concentrarsi sulla pianta della città, mentre alle sue spalle
Rossi, Prentiss e Hotch stavano discutendo degli sviluppi forniti dal medico legale.
-
Quindi non sappiamo ancora se il fatto che Hernandez
fosse incinta sia rilevante. – Aaron era seduto a capotavola e guardava Rossi –
Potrebbe essere una casualità.
-
L’unica cosa che possiamo fare è aspettare i referti
delle analisi supplementari. – concordò Rossi – Certo questo darebbe
all’asportazione dell’utero tutto un altro significato.
-
Non sappiamo neanche se l’ultima vittima volesse tenere
il bambino. – constatò Emily continuando a guardare il lavoro di Reid – Come va’
con il profilo geografico?
Reid si girò e scrollò le spalle.
-
E’ difficile che giunga a qualche conclusione, visto
che non sappiamo esattamente dove sono state rapite. – prese i fascicoli e
cominciò a sfogliarli mentre ricapitolava quello che sapevano – L’ultima
vittima è uscita dal lavoro la mattina prima del ritrovamento a Central Park,
non sappiamo se è stata rapita subito o sia andata in un altro posto prima che
l’S.I. la rapisse.
Gli altri tre della squadra presero a loro volta i dossier
per seguire il riassunto di Spencer e poter intervenire.
-
Mary Farinacci era stata a lezione il martedì e
poi è sparita, il corpo è stato ritrovato giovedì
mattina da un avvocato che faceva
jogging. Il medico ha potuto stabilire l’ora della morte
approssimativamente fra le cinque e le dieci di mercoledì
pomeriggio. –
continuò il ragazzo – La O’Connor si era esibita in
un concerto per pianoforte
il venerdì sera, l’ora del decesso è stata fatta
risalire alle prime ore della
domenica mattina.
-
Tre vittime in poco più di una settimana. – intervenne
Rossi con tono preoccupato – Il nostro soggetto ignoto si sta dando da fare.
-
Se mantiene la sua tabella di marcia, rapirà un’altra
ragazza fra poche ore. Sempre che non l’abbia già fatto. – Hotch mise da parte
i fascicoli e si rivolse alla squadra – Dobbiamo concentrarci sul caso se
vogliamo riuscire a salvarla.
Rossi, attraverso i vetri della sala messa a loro
disposizione, vide Collins e Morgan uscire dall’ascensore del distretto. I due
avevano in mano dei bicchieri di polistirolo con il marchio dello Starbucks e
stavano parlando tra loro con aria complice; lo sorprese soprattutto vedere
Sarah sorridere al collega come se fossero amici di vecchia data.
-
Speriamo che Collins e Morgan abbiano scoperto
qualcosa. – Aaron, che dava le spalle alla vetrata, continuava il suo discorso
guardando l’orologio – Dovrebbero già essere rientrati.
-
Infatti stanno arrivando. – lo informò David.
Si girarono tutti a guardarli, mentre Derek sorrideva e
scuoteva la testa con aria divertita.
-
Sembra che quei due abbiano fatto amicizia. – disse
Prentiss con aria stupita.
-
Forse Morgan starà solo cercando di essere gentile con
lei. – interloquì Reid, tornando a voltarsi verso la lavagna trasparente.
Emily lo guardò scettica, prima di tornare a fissare quei
due. Sorrise, sperando che la ragazza avesse trovato qualcuno con cui aprirsi:
aveva l’impressione che Sarah fosse una persona molto sola.
-
O forse Collins non è poi così male. – ribatté con un sorriso
– Anche se quello che è successo questa mattina ci ha innervositi tutti, credo
sia il caso di darle un’altra possibilità.
Hotch guardò Rossi e sospirò. Non si fidava di quella
ragazza e non sopportava l’atteggiamento che spesso assumeva nei suoi confronti.
Aveva sempre l’impressione che lo stesse sfidando, che volesse stuzzicarlo per
vedere quale fosse il suo punto di rottura. Quella mattina ci era andato giù
pesante in risposta all’attacco che l’ultima arrivata aveva fatto a JJ, ma
anche perché si era permessa di scavalcarlo. Meditò che forse Prentiss aveva
ragione: la ragazza non era abituata a lavorare in squadra e sarebbe stato un
pessimo capo se non avesse provato ad indirizzarla sulla strada giusta.
Sarah studiò l’ambiente in cui si trovavano. Mentre il piano
terra le era apparso come nei telefilm, con il lungo bancone in mogano dietro
il quale un burbero poliziotto sovrappeso dava informazioni di malavoglia, il
primo piano era completamente diverso. Appena uscita dall’ascensore si era
ritrovata in un grande openspace, simile a quello che occupavano loro a
Quantico, pieno di scrivanie e di gente impegnata a lavorare. Sul fondo dalle
sale c’erano una serie di stanze più piccole separate fra di loro e dalla sala
principale da pareti in legno e vetro che permettevano di vedere cosa succedeva
all’interno di ognuna di esse, sempre che gli occupanti non si fossero presi la
briga di tirare giù le veneziane. La sua ispezione fu interrotta dalla voce del
collega.
-
Tu sei tutta matta. – Morgan sorrise e scosse la testa
– Come ti vengono in mente certe analogie fra Hotch e il tuo gatto castrato?
-
Perché? Trovi che non fosse centrata? – Sarah sorrise a
sua volta, bevendo un sorso di cioccolata.
-
Più che altro non l’ho trovata appropriata, ma suppongo
che siano punti di vista. – si voltò e vide Jennifer da sola all’interno di una
delle stanze più piccole – Un’altra cosa che non ho trovato appropriata è stata
la scenata di questa mattina in sala riunioni.
-
Scommetto che non hai trovato appropriato neanche il
modo in cui ho risposto a Garcia. – fissò il proprio bicchiere e sospirò – Non
mi lascerai in pace finché non andrò a chiarirmi con l’agente Jareau, giusto?
-
Chiederle scusa sarebbe un buon primo passo. – le fece
cenno verso la porta aperta della stanza dove si trovava la collega – Magari
potresti chiederle di stampare le foto che abbiamo scattato, giusto per rompere
il ghiaccio.
-
Posso anche andarglielo a chiedere e provare a
parlarci, ma non mi scuserò. Non ho detto niente che non pensassi veramente.
-
Allora perché hai chiesto scusa a me? – si fermò e la
studiò – Oppure erano solo parole?
-
E’ diverso e lo sappiamo entrambi. – si inumidì le
labbra e gli si avvicinò, cominciando a parlare a voce bassa – Ti ho chiesto
scusa perché ho usato qualcosa di tremendamente personale per ferirti, solo
perché ero spaventata e avevo perso il controllo. L’agente Jareau invece…
-
L’hai aggredita perché hai perso il controllo. – provò
Morgan.
-
No, l’ho aggredita perché ha messo in difficoltà la
squadra nello svolgimento del nostro lavoro. Sono due cose diverse. E’
moralmente inaccettabile usare quelle cose contro di te, ma è giusto riprendere
un collega che sta sbagliando e sta ostacolando le indagini.
-
Non toccava a te farlo.
-
Sei un disco rotto e non la smetterai finché non andrò
là dentro, vero? – sbuffò strappando la macchina digitale dalla mano di Derek –
Sarà sempre così? Mi farai la predica continuamente?
-
Solo quando reputerò che tu abbia sbagliato. – l’uomo
le sorrise e si incamminò verso la sala occupata da Hotch e gli altri, lasciandola
sola a rigirarsi la macchina fotografica fra le mani.
Dopo pochi passi si voltò di nuovo verso l’ultimo acquisto
del team e la guardò con sguardo severo, mentre lei sostava accanto all’ultima
fila di scrivanie.
-
Sarebbe una buona cosa se cercassi di chiarirti anche
con Garcia, capisco che tu sia una persona riservata e che non voglia che gli
altri sappiamo qualcosa del tuo passato, ma c’è modo e modo per dire le cose.
-
Abbiamo il paladino delle bionde. – alzò gli occhi al
cielo e si avviò verso il supplizio di parlare con JJ.
Entrò nella stanza dove Jennifer, girata di spalle, era
intenta a scrivere un messaggio con il cellulare. Per un momento la sua mente
le fece uno strano scherzo: non si trovava in un ufficio della stazione di
polizia, ma negli spogliatoi della palestra della scuola superiore. Aveva
addosso la stessa sensazione di quando camminava verso il suo armadietto
avvolta nell’accappatoio che copriva l’esile corpo di bambina, mentre tutte le
sue compagne adolescenti scherzavano fra di loro e non provavano vergogna nel girare
in reggiseno e mutandine. Per un momento ebbe la certezza che se si fosse
voltava si sarebbe trovata davanti Mindy, il capo delle cheerleader, che la
guardava con aria divertita e derisoria, intenta a pensare ad un nuovo “scherzo”
per tormentarla.
Strinse le labbra e chiuse la porta in malo modo, rivelando
la sua presenza a JJ che si girò a guardarla. Erano lì ferme in piedi,
studiandosi a vicenda: Jennifer con uno sguardo interrogativo e Sarah piena di
rabbia malcelata.
Collins chiuse gli occhi e prese un profondo respiro: non
era più una ragazzina di dieci anni che si aggirava smarrita per i corridoi di
una scuola superiore, era un agente federale ed era in grado di affrontare le
persone. Sapeva che la scenata di quella mattina era giustificata dal
comportamento non professionale della collega, ma si rendeva conto che la
somiglianza fra l’agente Jareau e Mindy la portava ad essere prevenuta nei
confronti di quella donna che conosceva a malapena.
-
Io e l’agente Morgan abbiamo scattato delle foto. – allungò
il braccio per mostrare la macchina digitale – Dovrei stamparle, può aiutarmi?
-
Sì, certo. – rispose Jennifer, mettendo via il telefono
– Mi dia la scheda di memoria e le stampo subito.
-
Grazie. – si avvicinò di qualche passo ed estrasse la
card per poi dargliela – Le dispiace se resto qui? Vorrei portarle a Hotchner
il prima possibile.
-
Avete trovato qualcosa? – JJ si mise a sedere davanti
al computer ed inserì il chip nel lettore.
-
Forse. – fu la laconica risposta di Collins, che si
mise in piedi alle sue spalle.
L’agente di collegamento ci mise pochi attimi prima di
lanciare la stampa e poi si alzò per fronteggiare la strana ragazza. Rimase un
attimo indecisa su cosa dirle o come dirlo, poi prese un respiro e si lanciò.
-
Mi dispiace se questa mattina lei abbia avuto
l’impressione che io non sappia fare il mio lavoro…
-
La mia impressione è stata che lei stia trascurando i
suoi doveri per questioni meramente personali. – si spostò verso la stampante
in attesa che uscissero le foto – Sicuramente di solito è più attenta, ma non
esistono casi in cui certe mancanze siano giustificate. Ogni vittima ha gli
stessi diritti delle altre.
-
Lo so benissimo. – JJ cercò di rimanere calma e non
cadere nelle provocazioni dell’altra – Ho già parlato con Hotch e abbiamo
chiarito. Non succederà più.
-
Se sta pensando che abbia intenzioni di scusarmi è
fuori strada. – si girò con le stampe in mano – So che tutti voi siete amici,
oltre che colleghi, ma questo non mi riguarda. Io sono qui per fare un lavoro e
voglio farlo bene. Spero capirà che non posso
tollerare che qualcuno me lo renda più difficile di quanto già non sia.
-
Da come parla sembra quasi che il peso di questa
indagine sia solo sulle sue spalle.
-
Proprio perché non è così ho fatto quella scenata
questa mattina. – le sorrise sarcastica – Si rende conto che lei ha messo in
seria difficoltà persone che chiama “amici”. Vuole un consiglio? Lasci il suo
cellulare a casa o, quantomeno, chieda al bell’imbusto di turno di non mandarle
messaggi mentre sta lavorando.
Jennifer sbarrò gli occhi, chiaramente sorpresa
dell’affermazione di Collins.
-
Cosa le fa pensare che…?
-
Andiamo, sono una profiler. Ho visto come salta ogni
volta che le arriva un messaggio e come si precipiti a leggerlo. Devo forse
pensare che non si tratta di un uomo? – le fece l’occhiolino senza addolcire il
sorriso che rimaneva ironico – Spero che almeno ne valga la pena.
-
La mia vita privata non la riguarda.
-
Neanche sono interessata a conoscerla, semplicemente
non reputo corretto che lei la anteponga al suo lavoro.
Rimasero a fissarsi per qualche istante, nessuna delle due
era pronta a cedere e abbassare lo sguardo. Collins si trovò, suo malgrado, a
constatare che JJ non era quella ragazza dolce e indifesa che sembrava, aveva
visto uomini sfuggire il suo sguardo quando si rendevano conto che lei non
avrebbe smesso di fissarli per prima. Sorrise, avendo capito che l’agente
Jareau usava il suo stesso trucco: in realtà non la stava guardando negli
occhi, ma osservava il suo setto nasale. Sospirò arrendendosi all’evidenza che
non si trovava davanti una sprovveduta.
-
D’accordo, cerchiamo di arrivare ad un compromesso per
il bene della squadra e dell’indagine. – continuò infine.
JJ non le risposte, incrociò le braccia e rimase in attesa
che l’altra proseguisse.
-
Noi non saremo mai amiche del cuore e la cosa,
francamente, mi sta benissimo. – fece qualche passo avanti fino a trovarsi a
pochi centimetri dalla sua antagonista – Reputo che non sia necessario
intrattenere rapporti interpersonali per svolgere il proprio lavoro con
professionalità, comunque mi rendo anche conto che le dinamiche interne alla
vostra squadra sono diverse da quelle a cui sono abituata.
Guardò attraverso i vetri che dividevano i vari uffici e
puntò i suoi occhi sugli altri membri del team. Invece di parlare fra di loro
del caso erano tutti fermi a fissare le due donne, aspettando l’esito di quello
scontro.
-
Possiamo continuare a guardarci in cagnesco e a
stuzzicarci a vicenda, rendendo le cose più difficili…
-
Io non l’ho mai stuzzicata. – puntualizzò JJ.
-
Questo glielo concedo, ma sicuramente non le sono
simpatica. Sono lieta di metterla al corrente che l’antipatia a pelle è
reciproca. – incrociò le braccia a sua volta e fece una smorfia prima di
continuare – Sia chiaro che la cosa non mi tange in nessun senso, ma certo
questo clima di tensione fra di noi non giova alla squadra. Credo di stare
parlando con una persona adulta e ragionevole, giusto?
Jennifer si limitò ad annuire.
-
Direi che non ci rimane altra scelta che sopportarci
sul lavoro, per quanto riguarda la vita privata sono sicurissima che nessuna
delle due abbia problemi ad evitare l’altra.
-
Sono pienamente d’accordo. – JJ sorrise, capendo che
quel discorso contorto era una specie di richiesta di pace – Tregua?
-
Direi che una tregua non basta per appianare le cose.
Bisognerebbe ricominciare da capo. – inaspettatamente tese la mano verso
Jennifer e le fece un sorriso tirato – Piacere, sono il nuovo agente assegnato
a questa unità. Mi chiamo Sarah Collins.
-
Piacere, sono l’agente di collegamento Jennifer Jareau.
– le strinse la mano a sua volta, prima di darle una stoccata finale – Gli
amici mi chiamano JJ.
-
Allora per me sarà l’agente Jareau. – rispose con tono
annoiato.
JJ scosse la testa mentre Sarah la superava e apriva la
porta per poi voltarsi di nuovo verso di lei.
-
Viene con me per la riunione di aggiornamento, oppure
resta qui a rispondere ai messaggi che le arrivano sul cellulare?
L’agente di collegamento la guardò male, prese il telefono e
lo spense per poi seguire quella ragazza indisponente.
Sarah entrò nella stanza seguita da JJ, sotto lo sguardo
attento di Hotch che sembrava particolarmente teso e serio. Sarah lo fissò un
attimo e gli sorrise in modo sarcastico prima di andare alla lavagna e
cominciare a sistemare le foto che aveva fatto stampare.
-
Bene, ora che siamo tutti qui vorrei sapere se ci sono novità.
– Hotch, seduto a capotavola, si voltò verso David e Emily – Cosa abbiamo?
-
L’anatomo patologa ci ha confermato la causa della morte
ed il fatto che gli uteri siano stati asportati premorte. – cominciò Rossi con
tono sicuro.
-
La dottoressa Black ci ha informati che la Hernandez
era incinta. – si intromise Prentiss – Stanno facendo degli esami per appurare
se lo fossero anche le altre due vittime.
Collins li osservava interessata mentre Reid guardava le
foto che aveva appeso alla lavagna trasparente.
-
Questo spiegherebbe la presenza di Kokopelli sulle
scene dei ritrovamenti. – interloquì il giovane dottore.
-
La presenza di chi? – chiese JJ avvicinandosi a lui.
Spencer si girò verso Collins che era rimasta di fianco alla
lavagna e lo guardava parlare con il resto del team, come in cerca di
approvazione e questa gli fece un cenno con la testa come invitandolo a
proseguire.
Reid indicò la figura di un uomo stilizzato con
un'accentuata curvatura della schiena, ritratto
mentre danzava e suonava una specie di flauto.
-
Kokopelli è una divinità Navajo. – cominciò a spiegare
il ragazzo – Nella mitologia dei nativi americani, questo Hopi trasporta i
bambini non nati sulla sua schiena e li distribuisce alle donne della tribù.
-
Se le vittime erano veramente incinta, questo
spiegherebbe anche i luoghi di abbandono. – intervenne Sarah facendo un passo
avanti ed indicando le altre foto che avevano scattato con Morgan – Come potete
vedere, Jessica Hernandez è stata trovata sotto un ponte a contatto con l’acqua
di un ruscello, Mary Farinacci è stata lasciata sotto una delle panchine che
circondano il lago. Tutte le vittime erano vicino
o a contatto dell’acqua, per la cultura dei nativi americani è un simbolo di
vita.
-
Ma la seconda vittima non era in prossimità dell’acqua.
– si intromise Morgan che aveva partecipato ai sopralluoghi – Era riversa
vicino ad un albero.
-
Sbagliato. – gli sorrise Collins, prendendo un’altra
foto dai fascicoli aperti sul tavolo – Ora non c’è acqua in quel posto, ma il
nostro soggetto ignoto l’aveva abbandonata con la testa riversa in una
pozzanghera.
Appese alla lavagna la foto
che supportava la sua teoria.
-
Aspettiamo gli esiti degli esami. – Hotch si alzò,
catalizzando l’attenzione degli altri – Prima di focalizzarci troppo su queste
teorie appuriamo che fossero tutte e tre incinta. Direi che per oggi non
possiamo fare nient’altro ed è quasi ora di cena.
-
Andiamo prima a cena o passiamo in albergo? – chiese
Prentiss, massaggiandosi il collo.
-
Credo che sia meglio andare prima a mangiare. – propose
Morgan.
-
Io sono molto stanca e non ho appetito. – Sarah
cominciò a riordinare i dossier senza guardare nessuno di loro – Se non vi
dispiace preferirei andare subito in albergo.
-
D’accordo, agente Collins. – le andò incontro Hotch –
La accompagneremo prima in albergo e poi andremo a mangiare.
-
Non sarà necessario, signore. – la ragazza continuava
ad evitare lo sguardo di tutti – Mi basterà prendere la valigia dal SUV. Non
voglio costringervi a fare una deviazione non necessaria.
-
E’ sicura? – Aaron la fissò in silenzio, finché lei non
alzò lo sguardo.
-
Sono sicura, sono solo molto stanca, signore.
Rimasero a fissarsi ancora un attimo, poi il caposquadra
annuì e fece un gesto a Morgan.
-
Dalle le chiavi della macchina, tu verrai con me e JJ.
-
Sì, Hotch. – anche se riluttante Derek passò le chiavi
a Sarah, ripromettendosi di farle un discorso sul fatto di “integrarsi” e
“interagire” con la squadra.
Continua…
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Capitolo 12 *** Capitolo 11 ***
capitolo 11
Novembre 2007 – Camera
d’albergo, New York
Appena entrata buttò la borsa sul letto perfettamente
rifatto e cominciò a disfarla velocemente. Le pratiche per registrarsi non
avevano richiesto che pochi minuti, ma a lei erano sembrate interminabili ore
mentre si chiedeva se i suoi colleghi sarebbero stati sul suo stesso piano.
Alla fine non l’aveva chiesto al portiere, preferendo correre a farsi una
doccia bollente.
Mise con cura gli indumenti puliti sul letto e sistemò il
resto delle sue cose nell’armadio con il borsone da viaggio. Entrò in bagno e
aprì la doccia, poi si tolse gli indumenti lasciandoli cadere a terra e
spingendoli via con un piede.
Si guardò allo specchio e rimase spaventata dalle profonde
occhiaie che neanche il trucco pesante riusciva a nascondere.
Entrò nella cabina ma non si mise sotto il getto d’acqua,
preferendosi prima rannicchiare nell’angolo del piatto doccia seduta e pronta
alla tempesta che sentiva arrivare. Cominciò a piangere come una bambina mentre
le immagini di quello che le ragazze le avevano fatto il suo primo anno di
superiore le scorrevano nella mente come un film a rallentatore.
Ottobre 1991 – Stafford High School, Stafford,
Virginia
L’ora di ginnastica era finita e gli spogliatoi risuonavano
delle risate delle ragazze. Sarah era la più piccola e l’unica che non avesse
ancora sviluppato; guardava di sottecchi le sue compagne che giravano
tranquillamente in biancheria intima mostrando i propri corpi. Lei, invece, era
avvolta completamente in un accappatoio e si dirigeva a sguardo basso verso il
suo armadietto: le altre avevano seni sodi e glutei dalle linee morbide, lei
era ancora una bambina di dieci anni con il corpo acerbo.
Mindy, il capitano delle cheerleader, stava parlottando con
una delle altre ragazze pon-pon e la osservava con uno sorriso divertito,
mettendola ancora di più in imbarazzo. Era arrivata al suo armadietto e
cominciò ad armeggiare con la serratura, notando appena con la coda dell’occhio
le altre ragazze che sghignazzavano e si davano di gomito.
Sapeva che ridevano di lei ma pensava che sua madre avesse
ragione: se non avesse permesso che vedessero quanto la stavano ferendo, presto
si sarebbero stufate e avrebbero rivolto le loro “attenzioni” verso qualcun
altro.
Il lucchetto scattò e l’anta si aprì da sola, rovesciandole
addosso il contenuto che le sue compagne avevano provveduto a sostituire. Non
c’erano i suoi vestiti, ma qualcosa di completamente diverso che le cadde
addosso e le sporcò una gamba. Istintivamente lanciò un urlo, inorridita e
schifata, mentre le altre cominciavano a ridere istericamente. Mindy le si
avvicinò con i vestiti che le avevano rubato in mano, lì poggiò sulla panca
vicino a lei e la guardò dritta negli occhi con un sorriso cattivo dipinto sul
volto.
-
Perché urli tanto? Sono cose da donna, no? – si batté
una mano in fronte e poi fece una faccia quasi dispiaciuta – Scusami,
mocciosetta, dimenticavo che tu sei solo una bambina e la mamma probabilmente
non ti ha ancora spiegato queste cose.
Sarah si pulì la gamba con l’accappatoio e si vestì più in
fretta che poteva, combattendo contro le lacrime di rabbia e umiliazione. Non
avrebbe mai permesso che la vedessero piangere e ringraziò il cielo che fosse
l’ultima ora. Lasciò accappatoio e asciugamano per terra e corse fuori proprio
mentre la campanella suonava. Si precipitò al pulmino e non rivolse la parola a
nessuno mentre tornava a casa.
Appena arrivata si strappò gli abiti di dosso e si infilò
sotto la doccia per pulirsi e lavare via l’umiliazione. Da quel giorno quando
tornava da scuola correva sotto la doccia a piangere, per impedire a chiunque
di sapere l’inferno che stava passando.
Novembre 2007 – Camera
d’albergo, New York
Da grande aveva mantenuto il “rituale” delle doccia, solo
che ora la faceva tutte le sere appena tornava dal lavoro. Non lavava più via
l’umiliazione, ma la tristezza e la solitudine che le attanagliavano il cuore
perché non era ancora riuscita ad indurirlo abbastanza. Si chiese quante altre
batoste la vita dovesse assestarle prima che smettesse di fare male e il suo
cuore diventasse così arido da non permetterle più di provare la minima
emozione.
Il pianto si era appena calmato, quando sentì arrivare il
flusso del sangue e scoppiò in singhiozzi accorati; non era più un pianto di
dolore ma di sollievo. Si tirò su in piedi e si mise sotto il getto di acqua
bollente, maledicendo Mark e quello che le aveva fatto. Era stata una stupida a
cominciare una storia con lui, era stata un’idiota ad andare nel suo
appartamento per dirgli che se ne tornava in America ed era stata una vera
cretina quando non aveva preso provvedimenti subito dopo.
Ottobre 2007 – Lione,
Francia
Mark l’aveva fatta entrare dopo il primo attimo di stupore
nel trovarsela alla porta di casa a quell’ora di sera. Chiuse la porta e le
sorrise in modo viscido mentre allungava le braccia per toccarla.
-
Non farti idee sbagliate. – lo ammonì facendo un passo
indietro – Non sono qui per ricominciare la nostra storia.
-
Ah, no? Eppure sei venuta nel mio appartamento di tua
spontanea iniziativa alle nove passate.
-
Sono qui solo perché non volevo che lo venissi a sapere
in ufficio a cose fatte. – lo guardò dritto negli occhi – Ho ottenuto
finalmente il trasferimento, fra una settimana parto e torno a casa.
-
Cosa? – alzò la voce e fece un passo verso di lei,
paonazzo in viso – Me lo dici così? Non puoi deciderlo da sola, noi siamo una
coppia e…
-
No! – fece un gesto stizzito – Non siamo mai stati una
coppia, noi eravamo amanti ma è finita da un anno ormai. Sono venuta solo per
mera cortesia.
-
Non puoi farmi questo, capito? – l’afferrò per un
braccio – Nessuna mi lascia, tantomeno una come te. Guardati, non eri niente
prima di incontrarmi.
-
Ero un’agente federale, proprio come ora. – cercò di
divincolarsi, ma la presa dell’uomo era troppo forte per lei – Smettila con
questa storia e lasciami il braccio, mi fai male.
-
Io ho creato la tua carriera e io posso distruggerla,
lo sai vero? – dal tono di voce e dal modo in cui la stava guardando era chiaro
che fosse furioso con lei.
-
Non dire stronzate. Non ti devo niente, la mia carriera
la devo solo alla mia preparazione e professionalità. – non provò minimamente
ad essere diplomatica.
-
Balle! Battenberg non ti avrebbe mai dato una
possibilità se non glielo avessi chiesto io. – strinse ancora di più il braccio
che le aveva afferrato.
-
Falla finita di raccontarti bugie. Avevo una carriera
prima di incontrarti e la avrò anche dopo, ora che me ne torno a Washington.
-
Tu non puoi lasciarmi! – urlò strattonandola.
-
Non ti sto chiedendo il permesso. – provò un ultima volta a divincolarsi, con lo stesso
risultato di poco prima.
Sentì l’urto dello schiaffo contro la sua guancia e vi
poggiò una mano sopra, guardandolo allibita.
-
Come ti permetti? Io ti denuncio…
Arrivò un altro schiaffo e poi un altro ancora, perse
l’equilibrio e si trovò per terra. Mark le salì sopra a cavalcioni e cercò di
sbottonarle la camicia. Sarah maledisse il fatto di essere andata da lui con
una gonna e cercò di ribellarsi, cominciando a tempestarlo di pugni sul torace.
-
Lasciami! – gridò disperata.
Lui la colpì più forte ancora, a mano chiusa e lei avvertì
un fiotto di sangue in bocca: le aveva rotto il labbro. Tentò ancora di
divincolarsi ma un altro pugno in pieno viso la intontì. Sapeva che lui era
fisicamente troppo più forte di lei e girò la testa per non guardarlo mentre le
alzava brutalmente la gonna e le strappava gli slip.
I suoi occhi si concentrarono sul gatto bianco di Mark che
si era nascosto sotto un mobile del salotto e che la guardava con gli occhi
gialli sbarrati. Sentì il dolore in mezzo alle gambe ma si impose di non urlare
e di non piangere, non voleva dare quella soddisfazione a quel porco che la
stava stuprando.
Lo sentiva muoversi senza delicatezza e il bruciore
aumentava, insieme al dolore e all’umiliazione che le stava infliggendo. In
quel momento pensò a Gideon, al fatto che nulla di tutto quello le sarebbe
successo se solo lui non l’avesse mandata in Francia per soffocare i
pettegolezzi.
Quando Mark ebbe finito rotolò lontano da lui, si tirò giù
la gonna e si alzò in piedi fuggendo verso la porta. Sentì quello schifoso
chiamarla ma non si voltò, mentre correva per le scale. Prese un taxi e si
rifugiò nel proprio appartamento, rifiutando persino di rispondere al telefono
fino al momento di imbarcarsi per tornare in America.
Novembre 2007 – Camera
d’albergo, New York
Sapeva di essersi comportata come una stupida. Avrebbe
dovuto andare in ospedale per farsi visitare, raccontare quello che era
successo e denunciarlo ma la vergogna era stata più forte della sua
razionalità. Aveva anche paura: tutti sapevano che lei e Mark erano stati
amanti, nel corridoio della Sezione di Criminologia dell’Interpol non si
parlava d’altro.
Chi poteva credere che un bell’uomo come lui avesse bisogno
di stuprarla? Non era più probabile che tutti credessero in una sua vendetta
perché lui l’aveva mollata? Già sapeva che quella sarebbe stata la versione di
quel viscido lurido verme. Riusciva persino ad immaginarsi il suo tono di voce
prostrato mentre diceva agli agenti che a lei piaceva il sesso violento e che
magari avevano esagerato un po’, poi lui aveva deciso di darle il ben servito e
quella tipa strana voleva vendicarsi. Una storia del genere non era un buon
biglietto da visita ora che si apprestava a ritornare a casa.
Aveva paura che le minacce alla sua carriera non fossero del
tutto infondate. Mark non era così “potente” o “influente” da poterle nuocere,
ma le chiacchiere potevano stroncare qualsiasi possibile promozione. Voleva
solo dimenticare e lasciarsi tutto alle spalle: era tornata a casa per rifarsi
una vita e non voleva che gli errori del passato le precludessero delle strade.
Era stata così sciocca da non pensare neanche di prendere
dei “provvedimenti” visto che lui non aveva usato il preservativo. Quando aveva
realizzato che rischiava una gravidanza erano già passate settantadue ore dal
momento dello stupro, la “pillola del giorno dopo” non sarebbe più stata
efficace e lei
aveva vissuto nella paura fino a quel momento. Non le era mai capitato di
benedire i crampi da mestruazione, quella era la prima volta in vita sua e
sperava anche l’ultima.
Si lavò per bene, si mise un’assorbante e si rivestì.
Cominciò a preparare il letto alzando la sopracoperta, quando sentì il
cellulare che squillava. Lo tirò fuori dalla tasca interna della giacca,
sapendo che non era una chiamata di lavoro visto che quello era il prepagato
che aveva comprato una settimana prima. Certo, era comunque “lavoro” ma non
ufficiale.
-
Chi è? – chiese brusca, immaginando già la Strauss che
la tampinava per sapere se c’erano novità.
-
Siamo di cattivo umore, questa sera.
La voce calda e avvolgente di Jason la prese alla
sprovvista, costringendola a sedersi. Si inumidì le labbra e serrò le palpebre,
non voleva parlare con lui in quel momento. Era ancora emotivamente troppo
vulnerabile, rischiava di vomitargli addosso tutto il rancore che sentiva per
lui e di confessargli lo stupro che aveva subito, solo per ferirlo e dargli
tutta la colpa.
-
Sarah? Sei ancora lì? – la voce era leggermente
allarmata.
La ragazza cercò di recuperare il controllo e si impose la
calma.
-
Cosa vuoi?
-
Volevo sapere se andava tutto bene.
-
La tua adorata squadra è ancora tutta intera. – non
riusciva a sopprimere il tono acido – Sempre lì a preoccuparti per loro, non
sei stanco di fare da balia asciutta a queste persone?
-
Te l’ho spiegato, ti ho parlato di loro e…
-
Di come ognuno di loro è speciale e ha già sofferto
abbastanza. – lo prevenne assumendo un tono derisorio – Tutti soffrono nella
vita, Jason. Tutti hanno dei problemi e devono fare i conti con la cattiveria
del mondo.
-
Quando parli così non ti riconosco.
-
Certo, visto che tu non mi conosci affatto. – ormai
sentiva solo il bisogno di ferirlo, come era stata ferita lei – Cosa sono per
te, eh? Un esperimento non riuscito o solo la dimostrazione che addestri bravi
profiler?
-
Sarah, tu lo sai che…
-
No! Io non so più niente e non voglio che mi chiami,
chiaro? – se fossero stati faccia a faccia l’avrebbe aggredito fisicamente – Mi
prenderò cura di loro, di tutti loro. In particolar modo del tuo adorato dottor
Reid.
-
Non farlo, Sarah.
-
Oh, vedrai come me ne prenderò cura. – con quell’ultima
minaccia chiuse la chiamata e spense l’apparecchio.
Andò all’armadio e lo buttò dentro il borsone da viaggio.
Era meglio non averlo dietro, tanto non voleva sentire neanche Erin. Era stufa
di quel gioco: non le piacevano le regole che i contendenti avevano stabilito e
decise che da quel momento in poi avrebbe dettato lei i termini.
Sentendo bussare alla porta, si svegliò e guardò l’orologio
che aveva poggiato sul comodino. Era passata poco più di un’ora da quando si
era coricata e sbuffò, maledicendo chiunque fosse. A fatica si alzò e si
trascinò verso la porta.
-
Chi è? – chiese con voce impastata.
-
Morgan. – si sentì rispondere.
Sarah socchiuse la porta con lo stupore dipinto sul viso e
rimase a fissare il suo collega che se ne stava fermo lì, con un sacchetto di
carta in una mano e una bottiglietta d’acqua nell’altra. Dopo un attimo di
smarrimento, Sarah aprì di più la porta.
-
Cosa c’è? E’ successo qualcosa? – chiese dubbiosa.
-
Posso entrare? – Derek fece un passo avanti, chiarendo
subito che non avrebbe accettato un “no” come risposta.
-
Come ti pare. – la ragazza fece spallucce e si spostò
per lasciarlo passare.
Derek si diresse al tavolo e vi poggiò sopra le cose che
teneva in mano. Poi, con molta calma, prese una sedia e si mise a sedere a
cavalcioni. Sarah, dal canto suo, fece scattare l’interruttore della luce
mentre chiudeva la porta, si tirò giù la maglietta a maniche lunghe che si era
messa per dormire e si avvicinò al letto.
-
Non so perché ma non mi sembravi il tipo da dormire con
i pantaloni della tuta e una maglietta. – provò a scherzare Morgan – Credevo
che fossi il tipo da camicia da uomo.
-
Ti piace immaginare cosa indosso quando dormo? – si
stropicciò gli occhi ancora assonnata – Come vedi, non rientro nelle tue
fantasie neanche come abbigliamento.
-
Sei tu che mi hai fatto notare che non è vero che non
ci facciamo il profilo a vicenda, semplicemente non ce lo diciamo.
-
Vuoi vedere che sono più brava di te? – lo sfidò con
aria apatica.
-
Stai per dire che dormo solo con i boxer? – sorrise
l’uomo.
-
No, tu dormi con i pantaloni del pigiama. – guardò il
collega fare un cenno con la testa e sorridere – Ma sotto non porti biancheria
intima.
Derek rischiò di strozzarsi con la propria saliva e poi la
guardò con gli occhi sbarrati.
-
E tu che ne sai?
-
Vedi, non sono solo una stronza arrogante che tratta
male le bionde della squadra, sono anche una brava profiler.
L’uomo fece spallucce e la invitò a sedersi con un gesto.
Collins aggrottò le sopracciglia ma si accomodò ugualmente sul letto. Rimasero
per qualche istante a guardarsi, finché la ragazza non ne poté più di quel
silenzio.
-
Sei venuto a fare conversazione sul tipo di indumenti
che indossiamo o meno quando andiamo a dormire?
-
No, ero venuto a vedere come stavi e a farti una lavata
di capo. – poggiò la testa sulle braccia che aveva incrociato appoggiandole
allo schienale della sedia – Ricordi la questione del condividere?
-
Mi sembra di aver esposto le mie idee durante la
riunione. – lei fece spallucce.
-
Dovresti anche cercare di interagire, te lo ricordi?
-
Infatti ho partecipato durante lo scambio di opinioni
alla centrale di polizia.
-
Cercherò di essere più esplicito, visto che hai deciso
di rendermi le cose difficili. – picchiettò il dito indice destro sull’altro
braccio – Quando parlo di interazione mi riferisco anche al fatto di cenare
tutti insieme e di uscire ogni tanto a bere qualcosa dopo una giornata passata
in ufficio.
-
Non ho cercato di evitarvi. – si difese lei, per poi
alzare gli occhi al cielo notando l’espressione poco convinta dell’altro – Ero
stanca, tutto qui. Sul serio.
-
Quindi ti sei rinchiusa qui dentro… pessima mossa.
-
Ma insomma, cosa dovevo fare? Ero stanca e sono venuta
a dormire. Non è una scusa e lo sai, mi hai svegliato.
-
Sarà. – concesse lui alla fine prima di alzarsi e
prendere la busta di carta in mano.
Le si avvicinò e le mise l’involucro sulle gambe, per poi
sorriderle.
-
Che roba è? – chiese Collins aprendo il sacchetto e
annusando l’odore che ne proveniva – Hamburger e patatine?
-
Non hai cenato e si lavora male a stomaco vuoto. – le
mise una mano sulla testa nel gesto di scompigliarle i capelli cortissimi.
-
Non dovevi disturbarti. – Sarah era spiazzata da quella
gentilezza.
-
E’ cosi che funziona in una squadra: ci prendiamo
ognuno cura degli altri. – si avviò verso la porta seguita dalla ragazza – Hai
chiamato il numero che ti ho dato?
-
E per dirgli cosa?
Morgan si girò e la guardò in tralice, mentre lei sbatteva
le palpebre assumendo un’aria innocente. Alla fine, Sarah, fece un gesto di
noncuranza sventolando una mano e sospirò.
-
E’ inutile chiamare finché siamo qui. Come posso
prendere un appuntamento se non so quando torneremo a Washington?
-
Appena torniamo, tu vai di filato dalla dottoressa. –
Derek aveva una mano sulla maniglia e aprì leggermente la porta – Domattina
vieni a fare colazione con noi e cerchi anche di partecipare alla
conversazione. Possibilmente senza saltare alla gola di nessuno, grazie.
-
Perché? – chiese Sarah richiudendo la porta per non
farlo uscire.
-
Perché, cosa?
-
Perché sei così gentile e ti preoccupi per me? – la
ragazza non riusciva veramente a capire.
-
Te l’ho detto: siamo una squadra e ognuno si prende
cura dell’altro. – con il dito indice le diede un colpetto sulla punta del naso
e le fece l’occhiolino – Visto che “ti piaccio”, anche se non in quel senso,
credo che tocchi a me preoccuparmi che tu stia bene.
-
Derek… io non sono un tipo espansivo e… - si spostò il
ciuffo rosso e sbuffò – Insomma, alcuni mi definiscono “emotivamente stitica”
perché sono molto riservata, ma ora… in questo momento… so che non ci
conosciamo così bene e che tu sei stato fin troppo gentile, però…
L’uomo notò come tirava giù forsennatamente le maniche
lunghe della maglia e provò tenerezza per quella strana ragazza.
-
Andrà tutto bene, vedrai. – le disse abbracciandola.
Sarah si abbandonò contro l’ampio torace di lui e respirò a
fondo. Era bello sentire un po’ di calore umano ed era grata a Morgan perché
glielo offriva senza secondi fini.
-
Sarà meglio che tu vada, adesso. – mormorò scostandosi.
-
Allora buonanotte, ciuffo buffo. – rispose l’uomo
provando di nuovo ad aprire la porta per lasciarla sola.
-
Ciuffo buffo? Ma non era Garcia quella che metteva
nomignoli strani a tutti? – lo prese in giro lei.
-
Non ti piace?
La ragazza meditò un attimo su quella novità e poi rise leggermente
scuotendo la testa.
-
No, anzi devo dire che mi piace come soprannome. – lo
guardò attraversare la porta e poggiò una mano sullo stipite, sporgendosi verso
di lui – Buonanotte, Derek.
-
Vedi di mangiare che sei già abbastanza magra. – si
incamminò lungo il corridoio agitando una mano in segno di saluto.
Collins chiuse la porta, afferrò il sacchetto che le aveva
portato il collega e ne estrasse due involucri di polistirolo che allineò sul
tavolo. Il profumo invitante che uscì dalla scatola dell’hamburger, quando la
aprì, le fece capire quanto in realtà fosse affamata. Si mise a sedere e diede
un bel morso al panino, masticò con calma mentre ripensava a come quell’uomo
che era un perfetto estraneo fino a pochi giorni prima si stesse prendendo cura
di lei.
-
Grazie, Derek Morgan. – disse alla stanza vuota –
Grazie.
Continua…
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Capitolo 13 *** Capitolo 12 ***
12
Novembre 2007 – Albergo,
New York
Aprì gli occhi e si voltò istintivamente verso la sveglia. Erano
appena le cinque e mezzo del mattino e Sarah sbuffò scalciando le coperte in
fondo al letto. Non si era ancora abituata al cambio di fuso orario e si era
svegliata troppo presto.
Voltò la testa verso le tende tirate e sospirò: fuori era
sicuramente ancora buio e la colazione non veniva servita prima delle sette. Si
mise a sedere chiedendosi come avrebbe occupato tutto quel tempo, decidendo che
la cosa migliore era cominciare la giornata con un’altra doccia calda.
Appena finite le abluzioni mattutine, s’infilò un paio di
jeans scuri e una maglietta, provvedendo anche a preparare un maglione pesante.
Il giorno prima era quasi congelata durante il sopralluogo a Central Park e non
voleva farsi trovare di nuovo impreparata a quel clima freddo.
Guardò di nuovo l’orologio: le sei, mancava ancora un’ora. Si
mordicchiò l’unghia del pollice e alla fine decise che tanto valeva essere
produttiva. Andò all’armadio ed estrasse dal suo borsone da viaggio il
portatile, fortunatamente l’albergo metteva a disposizione degli ospiti anche
la connessione internet.
Sorrise furba, mentre metteva il computer sul tavolo e si
metteva comoda. Grazie alla Strauss aveva pieno accesso agli archivi
informatici del bureau e voleva approfittarne ancora una volta. Richiamò la
scheda che le interessava e la studiò ancora una volta. Il discorso di Rossi la
tormentava e non sapeva come prendere la cosa che l’uomo avesse conosciuto sua
madre nel periodo che ne aveva segnato il futuro.
Sospirò, conscia che non avrebbe trovato le risposte che
cercava in quel dossier. Né la Strauss né Gideon l’avevano messa in guardia: perché
fra tutte le cose inutile e superflue che le aveva raccontato, avevano omesso
proprio quello?
Provò a navigare nel web alla ricerca di ulteriori
informazioni. Trovo solo siti che parlavano di lui come profiler o come autore
di best seller, ma niente che potesse far luce sul periodo che la vedeva
coinvolta.
Frustrata e delusa, decise di cambiare soggetto. C’era un’altra
persona del team che la incuriosiva particolarmente. Non riusciva a fare il
profilo a Spencer Reid, nonostante passasse la maggior parte del tempo a
osservarlo. C’era qualcosa d’indefinibile in quel ragazzo, qualcosa che la
metteva a disagio. Possibile che fosse veramente così ingenuo e disponibile?
Non era abituata a ragazzi così “innocenti”. Lei aveva
sempre avuto a che fare con maschi alfa dal carattere forte e con la tendenza a
prendere il sopravvento. Tutti troppo pieni di sé per rendersi conto delle
necessità delle persone che gli ruotavano attorno.
Lo sguardo cadde sul cestino dei rifiuti e si corresse. Aveva
incontrato un maschio alfa cui sembrava veramente stare a cuore il suo
benessere, senza che mostrasse di avere secondi fini. Sorrise spostandosi la
ciocca rossa dietro l’orecchio: in fin dei conti il cuore di Morgan era già
preso, anche se lei non capiva cosa il suo “amico” ci trovasse in quella
persona.
Quando ne avevano parlato in modo superficiale in macchina,
Derek le aveva detto “aspetta di approfondire la sua conoscenza e poi non mi
farai mai più questa domanda”. Beh, avrebbe aspettato, anche se la pazienza non
era fra le sue virtù.
Girò il viso verso lo specchio e i suoi occhi si fecero
tristi. In fin dei conti lei non aveva tutte queste virtù: possedeva un bel
corpo ed era brava nel suo lavoro. Decisamente i suoi difetti erano molti di
più, eppure Morgan sembrava apprezzarla così com’era. Chiuse le palpebre e
ringrazio di nuovo silenziosamente il suo nuovo amico, semplicemente perché esisteva.
La caffetteria dell’albergo non aveva ancora aperto e Sarah
era seduta su una poltrona davanti alle porte dell’ascensore a leggere il
giornale. Il disappunto era visibile sul suo volto: il solito giornalista
sciocco aveva scritto un lungo articolo sugli omicidi e il loro possibile
collegamento. Era fermamente contraria a quelle informazioni che “sfuggivano”
ai poliziotti e poi venivano pubblicate: l’assassino poteva sentirsi
infastidito da certe illazioni sulla sua virilità e decidere di sfogarsi su
qualche altra ragazza. Nel caso di criminali “impulsivi” era facile immaginare
che avrebbero agito in quel modo a prescindere dai toni degli articoli sulle
loro “imprese”.
La prospettiva cambiava radicalmente con gli S.I. scrupolosi
e metodici: in caso di scompensazione era quasi impossibile prevedere le loro
mosse. I profili erano uno strumento investigativo, che molti poliziotti
prendevano sotto gamba, e se accurati permettevano di prevedere le mosse del
criminale esaminato: in pieno scompenso tutto il loro mondo collassava e
diventavano impulsivi, mandando all’aria ore di lavoro spese per analizzare i
loro possibili comportamenti.
Detestava i cronisti che si improvvisavano psicologi e
definivano gli assassini secondo cliché che nulla avevano a che fare con la
realtà. Una parola sbagliata e la bomba che il soggetto ignoto aveva nel cervello
sarebbe potuta esplodere con conseguenze imperscrutabili. Forse sarebbe stato
meglio che qualcuno di loro parlasse con i giornalisti, magari rimanendo sul
vago, evitando che si potessero fare ipotesi di sorta. Sapeva, però, che quella
non era una decisione che spettava a lei e, dato lo scontro frontale che aveva
avuto con il suo diretto superiore il giorno prima, era titubante a proporlo a
Hotchner.
Sentì il campanello dell’ascensore suonare e abbassò il
giornale, sperando di vedere apparire Derek. Un volto amico le sarebbe stato d’aiuto
in quel momento: magari confidandogli le sue apprensioni sul caso, lui avrebbe
potuto parlarne al resto del team. Sicuramente Hotch avrebbe gradito di più un
suggerimento proveniente da una persona di cui si fidava.
Con suo disappunto vide uscire proprio il suo capo serio
come sempre, con quel cipiglio che gli dava l’aria perennemente arrabbiata. Sorrise
tornando ad alzare il giornale: se il profilo che gli aveva fatto era esatto,
Hotch era troppo “inquadrato” per sopportare qualsiasi cosa si allontanasse da
un percorso prestabilito. Chissà come aveva preso la fine del suo matrimonio? Sul
suo fascicolo non c’era niente in proposito e lui risultava ancora sposato
legalmente con una certa Haley Brooks. Il segno della fede che aveva notato il
giorno del loro primo incontro, raccontava di una separazione. Avrebbe aggiunto
che la cosa non era ben accetta a Hotch, visto che la foto di una bella donna
bionda con in braccio un bambino era ancora presente sulla sua scrivania.
Lo liquido come un altro maschio alfa che non accetta la
sconfitta o il fatto che una donna non dipenda completamente da lui. Sospettava
che l’agente supervisore un tempo fosse anche un tipo piuttosto diverso fuori
dall’ufficio, ma sicuramente quello che vedevano tutti i giorni l’aveva segnato
come chiunque di loro.
-
Buongiorno, capo. – lo apostrofò senza guardarlo.
-
Agente Collins. – il tono era particolarmente solenne –
E’ piuttosto mattutina.
-
Non mi sono ancora abituata al cambio di fuso orario,
ecco tutto. – minimizzò lei chiudendo il giornale e piegandolo accuratamente – A
quanto pare gli omicidi si sono guadagnati la prima pagina.
Passò il giornale a Hotch che cominciò a leggere l’articolo
corredato da una foto del parco in cui apparivano famiglie che giocavano. Il titolo
parlava del “Collezionista di uteri” e Aaron storse la bocca, chiaramente
contrariato da quello che stava leggendo.
-
Oltre al fatto che gli hanno già assegnato un nome e
che c’è un corposo approfondimento nella cronaca, abbiamo un altro problema. –
gli fece presente Sarah.
-
Cioè? – l’uomo piegò il giornale e lo buttò su di un
tavolo basso, evidentemente disgustato dal tono dell’articolo.
-
Il giornalista ha ipotizzato che l’S.I. sia impotente.
Si guardarono, sapendo entrambi che quella era una pessima
notizia. Sarah si alzò notando gli addetti che aprivano le porte della sala per
la colazione e si incamminò.
-
Lei cosa consiglia, Collins? – la interrogò Hotch senza
spostarsi.
-
Un caffè bello forte e tanti zuccheri. Prevedo una
giornata impegnativa.
Rimasero in silenzio a fare colazione. Hotch, che aveva
recuperato il giornale per leggere l’approfondimento in cronaca, aveva preso
solo una tazza di caffè mentre Collins si era concessa uova strapazzate, beacon
e caffè.
Il silenzio fu interrotto dall’arrivo di Morgan, seguito dal
resto del team, che si era avvicinato al tavolo sorridendo.
-
Buongiorno. – disse all’indirizzo di entrambi per poi
concentrasi su Sarah - Pensavo che fossi una piuttosto frugale a tavola.
-
E’ importante cominciare la giornata con una prima
colazione abbondante. – rispose lei sorseggiando il caffè.
-
In realtà, secondo i nutrizionisti, la colazione è il
pasto più importante della giornata. – intervenne Reid poggiando la sua tazza -
Studi epidemiologici hanno confermato che una colazione povera o assente si
associa a una maggiore incidenza di soprappeso e dell’obesità.
JJ e Prentiss si guardarono
sorridendo, era evidente che quel genere di conversazione era normale quando il
dottor Reid era nelle vicinanze.
-
Perché se non è fatta i livelli di zucchero nel sangue
si abbassano in poche ore, cosa che porta a cercare alimenti che diano una
risposta immediata. – continuò Spencer, senza notare le occhiate
che gli altri si lanciavano – I bassi livelli di glucosio nel sangue fanno
sentire stanchi, spossati e un po’ irritabili. Senza calcolare che il cervello
consuma il 60% del glucosio assimilato in una giornata, sempre considerando una
dieta equilibrata.
Agitò il coltello con cui stava
imburrando un toast e sorrise, come se la cosa fosse divertente.
-
Sapete che oltre il 60% di glucosio del fabbisogno, il
cervello brucia anche il 20% dell’ossigeno che respiriamo. La cosa bizzarra è
che in realtà il cervello ha un peso…
-
Pari a circa il 2% del totale corporeo. – lo prevenne
Collins prima di finire il suo caffè.
Reid la guardò come un bambino cui
il genitore aveva fatto un rimprovero, la ragazza al contrario gli sorrise.
-
Direi che siamo pronti. – Hotch pose fine alla
colazione di tutti alzandosi – Andremo prima tutti alla centrale di polizia e
vedremo il da farsi.
Nessuno disse nulla, si
limitarono ad alzarsi e seguirlo. Morgan lanciò un’occhiataccia a Collins, che
fece uno sguardo stupito e sospirò facendo spallucce: possibile che quello non
fosse mai soddisfatto, nonostante lei ci stesse provando?
Stazione di polizia, New York
Presero tutto posto intorno al
tavolo mentre Rossi si era fermato vicino alle scrivanie degli investigatori,
intento a rispondere a una telefonata.
-
Ricapitoliamo. – Hotch si mise a sedere dando inizio
alla riunione – Che cosa sappiamo?
-
Il soggetto ignoto prende di mira giovani ragazze sui
vent’anni, tutte giovani e carine. – cominciò Prentiss aprendo un fascicolo.
-
Non sembra interessato alla razza o altre
caratteristiche fisiognomiche. – intervenne Reid cominciando a giocare con una
matita – Non sembrano esserci altri collegamenti fra le vittime se non l’età.
-
Le droga e asporta l’utero. – continuò Morgan – La morte
è una conseguenza dei farmaci che somministra loro per eseguire l’intervento.
-
Possiamo dedurne che non è la morte delle donne lo
scopo primario. – Sarah aveva poggiato le mani sul tavolo e aveva intrecciato
le dita, non guardava nessuno di loro – Diciamo che è un “danno collaterale”.
-
Come si può definire danno collaterale l’omicidio di
tre ragazze? – JJ sembrava scandalizzata.
-
So che è un brutto termine. – ammise Hotch – Ma la
definizione che ne ha dato Collins è quella che sembra più corretta. Sappiamo altro?
-
Le abbandona a Central Park, vicino all’acqua e disegna
il profilo di una divinità dei nativi americani. – continuò Reid – Deve avere
un significato particolare per lui.
-
Forse approfondendo questa cosa riusciremo a sapere di
più sull’S.I. – convenne Derek.
-
Non c’è molto altro da dire, oltre la spiegazione che
il dottor Reid ha fornito ieri. – si intromise Sarah alzando finalmente lo
sguardo – E’ una divinità Navajo è un dio della fertilità. Oltre che in
relazione ai bambini, viene venerato anche come portatore di un buon raccolto.
In quel momento Rossi entrò,
aveva ancora il cellulare in mano. Si mise di fianco a Hotch e puntò lo sguardo
sul tabellone.
-
Era la dottoressa Black, l’anatomo patologa. – esordì –
Sono arrivati i risultati dei test di laboratorio. Tutte le vittime presentano
elevati valori di beta hCG.
-
Quindi c’era una gravidanza in corso. – interloquì Spencer.
-
Tra poco i familiari delle vittime verranno qui. – Hotch
guardò l’orologio – Prentiss, Morgan e Rossi si occuperanno di interrogarli in
merito. Collins, in qualità di esperta in comunicazione non verbale, cercherai
di individuare possibili bugie o omissioni.
-
Forse sarebbe anche il caso di sentire le amiche delle
vittime. – si intromise Collins, fissando Hotch.
-
Verranno anche loro. – li informò JJ – La compagna di
stanza di Kimberly O’Connor ha detto che non riuscirà a venire oggi.
-
Siamo sicuri di volerla interrogare qui? – chiese Collins
storcendo la bocca – Quella ragazza sarà già abbastanza traumatizzata, credo
che si sentirebbe più a suo agio in un ambiente che conosce. So che in alcuni
casi si forma una sorta di cameratismo fra compagni di alloggio. Potrebbe sentirsi
tenuta a mantenere i segreti della sua coinquilina anche ora che è morta.
-
Collins non ha del tutto torto. – intervenne Rossi,
prevenendo un altro scontro fra lei e Hotch – Forse sarebbe il caso di mandare
qualcuno che sia vicino a loro come età. Mettere una persona a suo agio è la
prima cosa per convincerla ad aprirsi.
Aaron parve riflettere sulle
parole di Rossi e poi assentì con aria severa.
-
I colloqui con le famiglie saranno videoregistrati. Per
te, Collins, si tratterà di doppio lavoro. – la ragazza distolse lo sguardo e
non rispose – Voglio essere sicuro che le famiglie non omettano niente. Obiezioni?
-
No, signore. – la ragazza posò i pugni chiusi sulle
gambe – Andrete tu e Reid, come età siete i più vicini alle vittime.
-
D’accordo. – Reid si alzò guardando la nuova collega
che, invece, fissava un punto dritto davanti a lei.
Sarah si alzò a sua volta senza
proferire parola. Evidentemente il capo voleva mettere alla prova le sue
capacità e lei si sentiva sfidata sul piano professionale. Se quell’uomo
pensava di intimidirla in qualche modo sbagliava di grosso.
- JJ, tu occupati di organizzare una conferenza stampa. Dobbiamo
porre un freno alle illazioni dei giornalisti. – Hotch indicò il giornale che
aveva portato dall’albergo e che ora giaceva sul tavolo.
-
Sanno un bel po’ di cose, specialmente l’autore dell’articolo
di punta. – Morgan guardò nuovamente l’articolo – Devono avere un informatore
all’interno della polizia.
- O dell’obitorio. – si intromise Rossi – Le informazioni
che riportano nell’articolo possono averle avute anche da qualcuno che lavora
per il medico legale.
-
Provvederò a convocare una conferenza stampa per oggi
pomeriggio. – JJ tirò fuori il cellulare, pronta a mettersi all’opera.
- Meglio domani mattina. – decise il caposquadra –
Abbiamo tutto il giorno per raccogliere nuovi indizi e stilare un profilo
preliminare. Non sarà necessario darlo anche ai giornalisti, ma dovremmo
quantomeno dare loro qualcosa che li faccia desistere dal pubblicare certe
notizie non confermate.
-
Pensate che il soggetto ignoto possa scompensare una
volta letto l’articolo in prima pagina? – Prentiss presa a sua volta il
giornale e scorse il pezzo – Come gli è venuto in mente di dire che soffre di
impotenza?
- Perché quelli che si improvvisano esperti sguazzano in
queste situazioni. – Morgan si alzò e si diresse verso la porta – JJ, sai già
che sale ci hanno assegnato? Sarà meglio preparare l’attrezzatura audio video.
-
Ti accompagno. – rispose Jennifer solerte.
-
Tutti al lavoro. – Hotch chiuse la riunione.
- Stai facendo pressione, eh? – Rossi era rientrato nella
sala, dove Hotch era intento a sfogliare i dossier.
-
Voglio solo essere sicuro che sia all’altezza. – non si
voltò neanche a guardare il vecchio amico.
-
Sicuro che non sia una ripicca per quello che è
successo fra voi ieri? – notando il silenzio dell’altro continuò – So che ti è
sembrato un atto di sfida, anzi… probabilmente lo era.
-
E’ solo lavoro, Dave. – cercò di sembrare convinto –
Non conosco ancora le sue capacità e voglio metterla alla prova.
-
Il fatto che sia una spia mandata dalla Strauss non c’entra
niente con il fatto che la vuoi mettere sotto torchio, vero? – non aspettò la
risposta e uscì dalla stanza.
Continua…
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