Collide

di Unsub
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


prologo AUTORE: Unsub
TITOLO: Collide
RATING: Arancione
GENERE: generale
AVVERTIMENTI: LongFic
PERSONAGGI: squadra BAU, nuovo personaggio.
DISCLAIMER: I personaggi non mi appartengono(tranne quelli da me inventati), sono di Jeff Davis. Criminal Minds appartiene alla CBS. Questa storia non è a scopo di lucro.
NOTE: Questa LongFic nasce dalla mia passione per Criminal Minds e dal folletto che vive nella mia testa. La storia è ambientata nella terza stagione tra l’abbandono di Gideon e l’episodio 17.

Prologo

Maggio 2002 - Accademia F.B.I., Quantico, Virginia

-    Non c’è posto per te nella squadra, sarebbe… sarebbe inappropriato. Ho fatto in modo che tu venga presa nell’Interpool, mi sembra la soluzione migliore per tutti – l’uomo evitava di guardarla dritta in viso.
-    Dove? – la ragazza cercava di ingoiare la delusione e l’amarezza per quel tradimento inaspettato.
-    In Francia, a Lione.
-    Mi stai mandando in esilio?
-    Ora non è il caso che tu rimanga qui, ci sono già troppe chiacchiere in giro. Quando sarai pronta e le acque si saranno calmate farò in modo che tu torni. Preferisco cosi. E’ meglio per tutti.
-    Voi dire che mi mandi via per quegli stupidi pettegolezzi? Ti vergogni di me? Di noi?
-    Se si venisse a sapere che ti ho favorito, che ho fatto in modo che tu venissi ammessa all’Accademia e, soprattutto, il motivo lo scandalo sarebbe enorme e deleterio per la tua carriera.
-    La mia carriera? Perché non dici le cose come stanno – la ragazza si alzò di scatto – Ti stai preoccupando della TUA di carriera. Sei un porco egoista!
-    Ora è meglio che tu vada a preparare i bagagli, parti fra due giorni.
-    Fottiti!
Sbatté la porta e vi si poggiò contro, guardando in malo modo gli altri cadetti che osservavano la migliore diplomanda dell’Accademia uscire dall’ufficio dell’agente supervisore Jason Gideon tutta rossa in volto; qualcuno si diede di gomito sorridendo e mormorando ancora su cosa legasse l’insegnate di profiling e la sua migliore allieva.
La ragazza socchiuse gli occhi e strinse così forte i pugni da far sbiancare le nocche.
-    Me la pagherai, dovessi metterci una vita ti porterò via la tua preziosissima squadra – mormorò a denti stretti, per poi incamminarsi lungo il corridoio.


Aprile 2008 – Appartamento del dr. Spencer Reid

Socchiuse gli occhi quel tanto che serviva per vedere il corpo di Reid steso al suo fianco. Sentiva ancora il sapore dei suoi baci, il modo in cui la pelle di lui rabbrividiva al suo tocco, il modo in cui Spencer aveva stretto a pugno le mani afferrando le lenzuola e mormorando “Ti prego non fermarti”.
Guardò le sue labbra. Dio! Voleva assaporarle ancora e ancora. Allungò una mano e la lasciò sospesa poco prima di arrivare a sfiorarle. Non voleva svegliarlo, non ancora, voleva godersi quel momento il più a lungo possibile.
Il suo cellulare cominciò a vibrare in quel momento. Girò lo sguardo verso il comodino e la radio sveglia. Le 3.55 del mattino: poteva significare solo una chiamata da parte del bureau. Maledizione! Aveva sperato di potersi svegliare con calma con lui vicino, godersi il momento in cui quegli splendidi occhi nocciola si sarebbero aperti incrociando i suoi.
Rispose al telefono girandosi per poter continuare a godere della vista di Spencer addormentato come un bambino.
-    Pronto?
-    Ciao, sono JJ. Scusami, ma abbiamo un caso urgente e dovresti venire il prima possibile.
-    Arrivo.
Chiuse la comunicazione, mentre il cellulare di Spencer cominciava a suonare a sua volta e lui apriva gli occhi. Per un momento parve sorpreso, poi le sue labbra si stirarono in un accenno di sorriso mentre allungava la mano per afferrare il suo Nokia.
Non poteva sentire l’interlocutore, ma sapeva fin troppo bene che sarebbe stata JJ e che le parole sarebbero state le stesse che aveva appena udito.
-    Si? – disse Spencer con voce assonnata – Certo, arrivo subito!
Si girò dall’altra parte perché lui non vedesse il lampo di incertezza e odio nei suoi occhi. Anche se avevano fatto sesso, anche se lui dormiva al suo fianco, non poteva dimenticare quell’appuntamento con JJ alla partita di football, appuntamento del quale Spencer si era sempre rifiutato di parlare con chiunque…
Come poteva spiegare al raziocinante dottor Reid quegli attacchi di gelosia? Come spiegargli che, quando Spencer pronunciava il nome di JJ o le parlava in quel modo dolce, il suo unico pensiero era quello di aprire la cassa toracica della biondina e strapparle via il cuore? Come spiegargli che il solo pensiero che lui potesse trovare o aver trovato l’agente Jareau attraente, o peggio ancora aver avuto una cotta per lei, faceva andare in frantumi il suo autocontrollo e rischiava di mandare in pezzi il suo equilibrio emotivo?
Cominciò a raccogliere i propri indumenti sparsi in giro per la camera da letto di lui voltandogli le spalle e cercando di mandare giù quel magone. Sicuramente la squadra aveva visto solo un lato del suo modo di essere: duro, deciso, senza tentennamenti. Sangue freddo e determinazione: ecco come doveva essere un profiler!
Solo a Spencer aveva concesso di vedere l’altro lato: la sensibilità, la dolcezza e la passione che racchiudeva gelosamente in fondo al cuore. Un lato tenuto segreto, perché non si fidava di nessuno.
-    Tutto bene? – la voce di Spencer suonava preoccupata.
Si girò e notò lo sguardo incerto del ragazzo. Aveva paura che tutto potesse finire in un attimo e sperava che quell’incertezza negli occhi nocciola di Spencer significasse che anche lui aveva gli stessi timori.
Guardò il suo corpo coperto solo dai boxer e si avvicinò fino ad allungare le mani per assaporare ancora il tepore e la morbidezza della pelle dell’uomo che amava. Avvicinò il suo viso a quello di Spencer per inalare ancora il suo odore che riusciva sempre a scuotere i suoi sensi e posò un bacio delicato e passionale allo stesso tempo sul collo di lui.
Lo sentì rabbrividire e un lampo di eccitazione attraverso il suo basso ventre.
Spencer si schiarì la voce.
-    Dobbiamo sbrigarci; la squadra ci aspetta. Si accorgeranno che porti ancora i vestiti di ieri quando hai lasciato l’ufficio.
-    Dirò di aver messo questi perché erano a portata di mano… mi cambierò sul jet.
Si voltò di nuovo e finì di vestirsi.
-    Vado avanti, non vorrei che ci vedessero arrivare insieme.
-    Già – mormorò lui con la tristezza nella voce.
Sapeva quello che provava. Avrebbe voluto gridare al mondo intero il loro amore, ma era un amore proibito tra colleghi. La Strauss avrebbe preteso le loro teste su un vassoio d’argento se solo avesse saputo o anche solo sospettato.
Si domandava chi si sarebbe accorto per primo di quello che c’era fra loro. Lavorare con dei profiler ha le sue controindicazioni. Oppure non si sarebbero mai accorti di niente perché non c’era niente di cui accorgersi.
Con Spencer non aveva affrontato l’argomento. Cosa c’era esattamente fra di loro? Era amore? Sesso? Amicizia con privilegi? Aveva paura di chiedere.

Vista l’ora il traffico era inesistente e arrivò all’Accademia in un baleno. Spencer arrivo cinque minuti dopo. La squadra si stava radunando nella sala riunioni. Con suo sommo sollievo anche altri portavano gli stessi indumenti del giorno prima; in fin dei conti chi si preoccupa di abbinare i vestiti quando deve correre in ufficio alle quattro del mattino?
JJ prese subito la parola:
-    Ragazzi, dobbiamo muoverci subito, i ragguagli sul caso ve li darò sull’aereo – e senza dire altro uscì dalla sala come un fulmine seguita dagli altri che si avvicinarono alle scrivanie per prendere le valigie.
Guardò quei volti ormai familiari e i suoi occhi si soffermarono un momento su Spencer. La sua mente tornò a come tutto era cominciato… un nuovo arrivo nel team, le difficoltà di un caso particolarmente cruento e la scoperta di un sentimento che metteva a repentaglio la sua carriera e il suo lavoro.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


capitolo 1 Ottobre 2007

Una strada di Quantico, Virginia

Morgan, Reid e Garcia stavano tornando a casa dopo una serata trascorsa tutti insieme in un ristorante indiano. Mentre percorrevano la strada a bordo del SUV di Derek, Reid si lasciò scappare un’esclamazione soffocata, guardando le luci accese in uno degli appartamenti di un palazzo con la facciata di mattoni rossi.
-    Cosa c’è, pretty boy? – chiese Morgan non distogliendo gli occhi dalla strada – Sembra che tu abbia visto un fantasma.
-    L’hanno affittato. – disse il giovane dottore, mentre girava la testa continuando a fissare quelle finestre.
-    Cosa hanno affittato? – si intromise Garcia dal sedile del passeggero.
-    Il vecchio appartamento di Gideon. – rispose Reid con stupore.
-    Il proprietario sarà stato stufo di tenerlo chiuso. – tagliò corto Derek.
-    Gideon è il proprietario e credevo che non volesse che ci andasse a vivere nessuno.
Rimasero tutti e tre in silenzio per il resto del tragitto, ricordando che quella casa era stata teatro di un efferato delitto e per questo il loro collega non vi era più entrato. Dopo che aveva abbandonato l’unità, una ditta specializzata aveva imballato il contenuto dell’appartamento sotto la supervisione di Stephen, il figlio di Jason, e avevano messo il tutto in un magazzino.



Interno dell’appartamento di Jason Gideon

Erin Strauss era ferma in piedi vicino agli scatoloni aperti e guardava di sottecchi la giovane donna che continuava a mettere a posto dei libri negli scaffali desolatamente vuoti, come il resto dell’appartamento. Si girò verso la camera da letto, ritinteggiata di recente visto l’odore di vernice che ancora aleggiava nell’aria, dove una rete singola con relativo materasso erano tutto il mobilio presente. Il salotto non era messo meglio: oltre la libreria che occupava tutta una parete, che era stata fatta fare su misura dal precedente inquilino, c’era solo il divano dall’aria malconcia.
Se si fosse messa ad indagare, avrebbe scoperto sicuramente che i pensili dell’angolo cottura contenevano solo ragnatele, sempre che la nuova occupante non avesse già provveduto a fare le pulizie.
-    Hai portato solo questi libri? – chiese, sbirciando dentro l’ennesimo scatolone.
-    Certo che no. Ho anche i miei vestiti. – la giovane donna mora si girò solo per prendere altri libri da sistemare – Acquisterò mobilio e suppellettili, ma per il momento va bene così. Non so neanche quanto mi fermerò.
Sistemò i volumi alla svelta e si voltò finalmente a fronteggiare la sua ospite inattesa. Due occhi verdi fissavano la caposezione, ma erano vuoti come se la ragazza non provasse il minimo sentimento.
-    Non ho fretta di sistemarmi. Potresti decidere di rispedirmi al mittente fra un paio di settimane o appena avrò concluso il lavoro per cui mi hai chiamata. – fece qualche passo avanti e afferrò un'altra scatola – Sempre che decida di aiutarti e fare quello che mi hai chiesto. Non mi hai ancora detto cosa me ne verrebbe.
La Strauss con una mano diede un paio di colpi ad uno dei cuscini del divano, poi si mise a sedere incrociando le gambe. Sorrise sorniona, mentre la sua interlocutrice riprendeva a sistemare le sue cose.
-    Sapevo che avresti tirato fuori l’argomento. – poggiò le mani sul ginocchio, mentre assumeva un tono freddo e distaccato – Cosa vorresti in cambio?
-    Beh, vediamo di ricapitolare. – la ragazza si avvicinò al piano di lavoro dell’angolo cottura, prese una busta di carta e ne tirò fuori una bottiglia di whisky – Tieni questa mentre cerco due bicchieri.
Erin Strauss afferrò la bottiglia, constatando che aveva in mano un liquore pregiato e particolarmente costoso. Sogghignò, la ragazza aveva gusti raffinati che richiedevano un buono stipendio. Aprì la bottiglia e versò due generose dosi del liquido ambrato nei bicchieri che la più giovane teneva in mano.
-    Poggia pura la bottiglia per terra. – riprese la padrona di casa, mentre le offriva il bicchiere prima di mettersi a sedere dalla parte opposta del divano – Allora: tu vuoi che io rovini la carriera di un tuo sottoposto, che raccolga informazioni in grado di farlo sollevare dal suo incarico e che ti serva su un piatto d’argento la possibilità di liberarti di tutte le teste calde della squadra. Ho dimenticato qualcosa?
-    Sì, hai dimenticato che voglio che siano tutte accuse VERE. – bevve un sorso ed assaporò il liquido dal gusto deciso – Non voglio che mi possa scoppiare in mano una bomba, tipo informazioni false o accuse che non possono essere provate.
-    Potrebbe non essere possibile. Se fosse pulito?
-    Di questo non mi preoccupo: quelle persone contravvengono continuamente agli ordini, sono teste calde che prendono sottogamba il protocollo e che infrangono le regole.
-    Quindi sarà un gioco da ragazzi. – assentì la ragazza reclinando la testa e osservando il pavimento – Mi hai scomodata per una bazzecola del genere?
-    Non è così facile dimostrarlo: si coprono le spalle a vicenda.
La ragazza parve meditare sull’ultima asserzione della Strauss, si piegò in avanti e un ciuffo rosso le coprì la visuale della caposezione, che sembrava essere sui carboni ardenti mentre attendeva una risposta. La donna più grande si spazientì e sbatté un pugno chiuso sul bracciolo.
-    Se non sei interessata, non ti sprecare a finire di sballare le tue cose. – era rossa in volto e respirava affannosamente – Sarah, per me puoi prendere il primo volo e tornatene da dove sei venuta. Non ho ancora firmato l’ordine di trasferimento.
-    Collins. – rispose decisa la ragazza.
-    Scusami? – Erin aggrottò le sopracciglia.
-    Comincia ad esercitarti a chiamarmi agente speciale Collins. – si alzò dal divano, si avvicinò alla finestra e si mise ad osservare la strada deserta illuminata dai lampioni – Non devi far capire che siamo in confidenza: se mangiano la foglia sarà impossibile indurli ad aprirsi con me.
-    Quindi accetti? – la caposezione si sentiva la vittoria in tasca.
-    Non mi hai ancora detto quale sarà il mio tornaconto.
-    Beh, dopo che saremo riuscite a sollevare quell’uomo dal suo incarico, rimarrà vacante un posto come caposquadra.
-    Sono troppo giovane, la sai bene anche tu. – si girò a guardare la donna con occhi inespressivi – Non è fattibile, almeno per il momento. Potresti darmi qualcos’altro.
-    So cosa vuoi e non se ne parla. – Erin si alzò indispettita, decisa a lasciare l’appartamento – Risolverò la cosa in altro modo.
-    Voglio che questo trasferimento sia definitivo. – disse Collins, alzando leggermente il tono della voce.
Strauss si voltò sconcertata a guardarla. Non era quella la richiesta che si aspettava dalla giovane agente che aveva davanti. Scrollò le spalle: non era mai riuscita a capirla e dubitava di riuscire ad inquadrarla nel futuro prossimo.
-    D’accordo, affare fatto. – concesse tornando sui suoi passi con aria soddisfatta – Ora che abbiamo finito di discutere di affari, posso farti una domanda personale?
Sarah si limitò a fissarla con quegli occhi vuoti e spenti.
-    Perché questo appartamento?
-    Non capisco di cosa tu stia parlando. – mormorò, indifferente.
-    Questa era la casa di Jason Gideon, il tuo istruttore in accademia.
-    Mera coincidenza. – rispose posando il bicchiere nel lavandino – Si sta facendo tardi; è meglio che lei vada, caposezione Strauss. Ci vediamo lunedì in ufficio.
La Strauss non credette a una mera coincidenza neanche per un momento, ma sapeva che la ragazza non le avrebbe mai detto il perché di quella scelta. Decise di soprassedere, accontentandosi di averla portata dalla sua parte nella crociata contro Hotchner.
-    Buonanotte, Sa… agente speciale Collins. – dicendo così recuperò borsa e giacca e uscì lasciando la ragazza sola nella sua nuova casa.
Appena sentì la porta scattare, Sarah si girò ad osservare l’ambiente spoglio e si concesse un sorriso diabolico. Si leccò le labbra, gustando ancora per un attimo il sapore del whisky immaginando il momento in cui avrebbe potuto brindare alla realizzazione della sua vendetta.
In quel momento il cellulare prese a squillare, la ragazza assunse di nuovo l’aria apatica che era il suo tratto caratteristico ed afferrò l’apparecchio, soffermandosi sul messaggio di numero privato che era apparso sul monitor. L’espressione tornò a farsi luciferina, quel contatto lo avevano solo due persone, una delle quali era appena uscita.
-    Pronto? – assunse un tono dolce e titubante.
-    Sarah, sono io. – la voce calda e avvolgente dell’uomo le risuonò nelle orecchie – So che sei di nuovo a Washington.
-    Sì. – rispose laconica senza aggiungere altro.
-    Chi ha firmato l’ordine di trasferimento?
-    Il caposezione Strauss provvederà lunedì mattina, è lei che mi ha convocato. – il tono ora era quello di un’ingenua ragazzina – Per te è un problema?
-    Cosa vuole in cambio? Quella donna non fa mai niente senza un secondo fine. – ci fu un momento di silenzio, ma Sarah non aveva intenzione di rispondere alla domanda – Vuole Aaron Hotchner e la squadra, vero?
-    Anche se fosse? Che differenza vuoi che faccia? Non è una cosa che ti riguardi, non più.
-    Sono brave persone, Sarah, non meritano questo trattamento. – un sospiro accompagnò la supplica del suo interlocutore.
-    Non credo di aver capito bene… - si stava divertendo a torturarlo.
-    Ti sto supplicando di non far loro del male.
-    Perché dovrei fargli del male? Non capisco proprio di cosa tu stia parlando.
-    D’accordo allora. – di nuovo un sospiro – Puoi proteggerli dalla Strauss, anche se non sai cosa abbia in mente? Puoi farlo per me?
-    Vedrò cosa posso fare. – il tono ora era sarcastico – Vuoi che protegga qualcuno in particolare?
Silenzio dall’altra parte, mentre lei tratteneva il respiro, sperando che lui le dicesse che doveva proteggere prima di tutto se stessa. Inviò una muta richiesta all’uomo che le aveva telefonato, sperando che per una volta si comportasse come lei si aspettava. Lo sentì prendere fiato ed il cuore le mancò un colpo.
-    Reid, il dottor Spencer Reid. – disse la voce dall’altro capo del telefono.
-    D’accordo. – ingoiò ancora una volta la delusione per lo scarso interesse che lui mostrava nei suoi riguardi, poi sorrise decidendo di prendersi una piccola rivincita e torturandolo un po’ – Spero non ti dispiaccia che abbia ritinteggiato: sai, gli spruzzi di sangue non si intonavano con i miei mobili.
-    Dove sei esattamente? – l’uomo parve stupito ed incredulo.
-    Nel tuo vecchio appartamento, dove Sarah Jacobs è stata uccisa. – sorrise cattiva – Scusami, forse ho urtato la tua sensibilità.
-    Non è possibile, come hai fatto a…
-    Dimentichi la procura che hai fatto a Stephen per vendere quest’appartamento. Certo lui non poteva sapere chi io fossi quando abbiamo firmato l’atto. – si permise di gongolare all’idea del tormento di lui nel saperla in quella casa – Buonanotte Jason, sogni d’oro.


Quattro giorni dopo, Accademia F.B.I., Quantico, Virginia

Morgan, Prentiss e Reid uscirono dall’ascensore, incontrando Garcia ferma nell’atrio che osservava l’openspace da dietro la porta a vetri. Visto che l’informatica non li aveva notati, Morgan le poggiò una mano sulla spalla, facendola trasalire.
-    Morgan! – esclamò appena voltata – Mi hai spaventata.
-    Ehi, bambolina, cosa osserviamo con tanto interesse? – chiese Derek guardando al di là delle vetrate a sua volta.
-    Beh, ecco… - Penelope puntò lo sguardo su Hotch, che restava immobile davanti alle scale del corridoio sopraelevato con un foglio in mano, osservando la scrivania di fronte a quella di Morgan.
-    Ma cosa è successo a Hotch? – chiese Spencer, notando a sua volta la scena.
-    Credo abbia ricevuto l’ordine di trasferimento del nuovo agente. – rispose laconica l’informatica.
-    Un nuovo agente? – Prentiss era perplessa – Non ne ha fatto parola in questi due giorni in Texas.*
-    Credo che lo abbia scoperto solo oggi. – Penelope sembrava agitata – Avrei dovuto dirvelo quando ci siamo sentiti, ma non pensavo che la Strauss non avesse avvertito Hotch.
-    Vuoi dire che hai già conosciuto il nuovo agente? – Morgan la interrogava continuando a guardare Hotch, che in quel momento era stato raggiunto da Rossi.
-    Non direi “conosciuto”. – Garcia si guardò in giro con aria furtiva – L’ho vista uscire dall’ufficio del caposezione e poi sistemarsi nella scrivania davanti alla tua. Non ci siamo rivolte la parola, quella ragazza mi spaventa.
-    Perché? – Reid la guardò incuriosito.
-    Non saprei dirvelo, credo sia quello sguardo vuoto. Se non sapessi che non è possibile, direi quasi che sia… non so qual è il termine tecnico. – sospirò cercando di spiegarsi meglio – Sembra quasi che non si renda conto delle persone che le sono intorno, ha quello sguardo fisso e vuoto come se non ti vedesse. E’… è bizzarra.
-    Sembra sindrome da stress post traumatico. – intervenne Emily.
-    Non si chiama più così ora si dice episodio…
-    Sì, Reid, lo sappiamo. – lo interruppe subito Morgan – Direi di andare, non scopriremo molto di più restando qui fuori. Comunque, bambolina, come si chiama e dove ha lavorato finora.
-    Oh, bel maschione, questo è ancora più strano. – Garcia scuoteva la testa incredula – Non mi è arrivato il suo dossier, né cartaceo né informatico. Non sono sicura neanche di quale sia il suo nome.
Reid, Morgan e Prentiss si guardarono allibiti. Derek si mosse per primo, seguito dagli altri tre, e si diresse deciso alla propria scrivania. Hotch e Rossi, notando la squadra arrivare, entrarono nell’ufficio del primo e chiusero la porta.
-    Che diamine sta succedendo? – chiese Emily.
-    Non lo so. – rispose Reid.
-    Lo sappiamo che non lo sai. – sbuffò Morgan – Era una domanda retorica.
Il giovane dottore fece una smorfia e si mise a sedere, continuando a guardare la porta dell’ufficio del caposquadra. Rimasero tutti in silenzio, attendendo che Hotch e Rossi uscissero per dare loro qualche informazione sulla nuova arrivata. L’attesa fu interrotta da JJ, che si avvicinò alle scrivanie e diede il buongiorno a tutti.
-    Sai qualcosa di questa storia? – tagliò corto Derek.
-    Garcia me ne stava parlando quando sono arrivata questa mattina, ma siamo state interrotte. – scrollò le spalle – La Strauss mi ha convocata nel suo ufficio: quando sono arrivata la segretaria non mi ha lasciato passare, consegnandomi la lettera di trasferimento da dare a Hotch.
-    Sei diventata il nuovo portalettere? – ironizzò Morgan.
-    Come agente di collegamento devo essere informata degli agenti in forza all’Unità. – tagliò corto.
-    Io, invece, dovrei tenere aggiornati i vostri file. – saltò su Garcia – Eppure nessuno si è degnato di farmi avere il dossier della nuova venuta, né di comunicarmi il suo nome.
-    Credo che il caposezione in persona stia per fare le presentazioni. – rispose Jennifer voltando la testa verso il corridoio interno.
Effettivamente la Strauss stava arrivando, affiancata da una ragazza dall’aspetto giovane e dall’improbabile capigliatura. Tra i capelli neri, tagliati cortissimi, spiccava un lungo ciuffo rosso che arrivava fino alla spalla della strana ragazza. Indossava un paio di jeans sdruciti e una camicia nera, mentre ai piedi calzava un paio di stivali da motociclista. La cosa ancora più strana era il fatto che la Strauss non sembrasse dare importanza alla cosa, nonostante le numerose rimostranze fatte fino a quel momento a Hotch per l’abbigliamento di Garcia, che la caposezione trovava troppo sgargiante e poco professionale.
Erin si limitò a guardarli con aria di sufficienza prima di cominciare a salire le scale, mentre la ragazza dagli inespressivi occhi verdi si fermò a guardare una persona in particolare.
-    Agente Prentiss. – disse facendo un cenno di saluto con la testa.
-    Agente Collins. – rispose stupita la prima, corrugando le sopracciglia.
Come le due donne sparirono dietro la porta dell’ufficio di Hotch, tutti furono addosso a Emily.
-    Ma allora la conosci! – esclamò Morgan spostando lo sguardo da lei alla porta chiusa.
-    Non direi che la conosco, ci siamo incrociate all’Interpol. – Prentiss si mise a sedere puntando lo sguardo sul ripiano della scrivania – Io fui trasferita in un’altra sezione due mesi dopo il suo arrivo, ci siamo sempre limitate ai saluti di rito e quindi non so che tipo sia.
-    Faceva parte di un’altra squadra? – chiese JJ avvicinandosi all’amica.
-    A Lione funziona in modo diverso. Non ci sono squadre, gli agenti lavorano da soli ai casi affiancando le forze dell’ordine che hanno interpellato la sezione di Criminologia. Il fatto che ognuno abbia il proprio ufficio non facilita la socializzazione. – spiegò brevemente Emily.
-    Un’altra persona che non condivide, proprio come Rossi; ci mancava. Dal tuo sguardo deduco che ci sia dell’altro. Cos’è che non vuoi dirci? – Derek la scrutò insistente.
-    Niente, stupidi pettegolezzi senza fondamento. – tagliò corto la donna – Sai, si fanno un sacco di chiacchiere sui tipi riservati come Collins.
-    Sarà. – concesse l’uomo.
Aveva notato lo sguardo preoccupato che Prentiss aveva rivolto a Reid, come se non volesse parlare in presenza del giovane genio dell’unità. Decise di continuare ad interrogarla in un secondo momento, quando fossero stati soli.

Continua…

* Riferimento all’episodio 06x3 “Mi hai visto?”


Nota dell'autore: l'aggiornamento della storia sarà settimanale da ora in poi. Spero che la nuova stesura vi piaccia.
Un grazie particolare a Ronnie89 che mi beta: grazie per la disponibilità e l'infinita pazienza nei confronti delle mie nevrosi XD

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


2 Novembre 2007 – Accademia F.B.I., Quantico, Virginia

Hotchner era seduto dietro la sua scrivania con la lettera di trasferimento in bella vista sul ripiano, Rossi era alle sue spalle con le braccia incrociate, mentre le due “ospiti” erano sedute sulle sedie di pelle di fronte a loro. Mentre Erin Strauss fronteggiava il caposquadra con aria contrariata, Collins si era placidamente accomodata a occhi chiusi con le mani raccolte in grembo.
-    Avrebbe dovuto parlarne con me, prima di assegnare un nuovo agente a questa squadra. – Hotch cercava di mantenere la calma mentre fissava la caposezione negli occhi – Inoltre quest’unità non serve a fare tirocinio.
-    L’agente Collins non ha bisogno di fare tirocinio. – puntualizzò la Strauss, molto più rilassata perché conscia della sua posizione di predominio – Agente Hotchner, lei aveva richiesto che qualcuno dei suoi agenti fosse autorizzato a specializzarsi in linguaggio non verbale. E’ corretto?
-    Sì, ma non vedo cosa…
La donna lo interruppe subito alzando la mano e cominciando a parlare a sua volta.
-    Ho ritenuto che fosse più proficuo usare le risorse che il bureau ha a disposizione. – incrociò distrattamente lo sguardo di Rossi e, vedendo l’uomo non contrariato dalla sua decisione, proseguì più convinta – L’angente speciale Collins ha ricoperto il ruolo di criminologa specializzata in comunicazione non verbale per l’Interpol, aveva fatto richiesta di essere trasferita di nuovo in America e ho deciso di unire le esigenze di questo team con il desiderio di un nostro agente di tornare a casa. Inoltre, vorrei ricordarle che sono la caposezione, queste decisioni sono a mia discrezione e non sono tenuta a darle spiegazioni in merito.
Dicendo così si alzò per uscire dalla stanza. Con stizza si riaggiustò la giacca del tailleur e guardò in malo modo Aaron, che aveva osato ancora una volta sfidare la sua autorità.
-    Immagino che intenda parlare con la sua nuova agente e quindi vi lascio soli. – raggiunse la porta e aprì, ma prima di uscire diede un’ultima stoccata al suo insubordinato sottoposto – Si ricordi, una volta per tutte, che le mie decisioni non sono sindacabili da parte sua.
Chiuse la porta in malo modo e scese le scale, non degnando di uno sguardo il resto della squadra. Garcia si fece avanti e provò a seguirla.
-    Caposezione Strauss? – chiamò titubante.
-    Cosa vuole, agente Garcia? – chiese Erin con aria accigliata.
-    Non vorrei disturbala ma vede… insomma… - quella donna la metteva sempre in soggezione.
-    La pregherei di sbrigarsi. – la Strauss guardò l’orologio con fare annoiato – Ho un appuntamento con uno degli alti dirigenti e non intendo fare tardi.
-    Il dossier del nuovo agente non mi è stato inoltrato. – si decise a sputare fuori Penelope.
-    Poteva benissimo prendere l’iniziativa di chiamare l’ufficio del personale. – sbuffò la caposezione.
-    Ho provato, ma mi è stato detto che tutto il fascicolo è nelle mani dell’Interpol, quindi ho chiamato il nostro agente di collegamento e lui mi ha assicurato che è stato inviato alla sua attenzione. Poi ho chiesto che almeno mi fosse mandato per via informatica una copia, non ho capito bene quale fosse il problema, ma hanno cominciato a sbattermi da un interno all’altro. Avrò parlato con una decina di persone, ma non riesco a venirne a capo, ora so che lei è molto impegnata però…
-    Basta così. – Erin era chiaramente adirata – Me ne occuperò io, quando e se avrò tempo. Spero che si renda conto che è inammissibile che lei non sia riuscita a risolvere il problema.
-    Sì, caposezione Strauss. – Garcia si sentiva umiliata.
La donna si incamminò quindi lungo il corridoio interno, permettendosi un sorriso soddisfatto. Avrebbe rimesso tutti in riga, facendo capire chi comandava e che le gerarchie andavano rispettate. Sapeva benissimo che Garcia non sarebbe mai riuscita ad ottenere quel dossier, era stata sua premura assicurarsi che l’unica copia cartacea fosse al sicuro nel suo ufficio e che la copia digitalizzata non venisse inoltrata al tecnico informatico dell’unità.
Per il momento era meglio che si sapesse poco o nulla sul passato di Sarah, non voleva che si mettessero ad indagare e scoprissero il suo piano.

Hotchner aveva intrecciato le mani sul ripiano della scrivania e guardava la nuova agente con fare indagatore. Cercava di far trasparire tutto il suo disappunto per quella situazione inaspettata, ma la cosa sembrava inutile visto che la ragazza continuava a tenere gli occhi chiusi. Questo trasferimento odorava di trappola e aveva il timore che la nuova arrivata fosse una spia mandata lì per metterlo in difficoltà.
-    Allora, agente Collins. – cercò di smuoverla – Non ho il suo fascicolo a disposizione, spero non le dispiaccia farmi un riassunto della sua attività lavorativa pregressa.
-    Mi sorprende che non abbia ancora ricevuto tutti gli incartamenti. – finalmente Sarah aprì gli occhi, solo per puntare il suo sguardo apatico e vuoto sulla libreria alle spalle del suo nuovo capo.
-    L’unica cosa che ho è la lettera di trasferimento, quindi gradirei che mi parlasse brevemente del suo precedente incarico. – Aaron cercava di attirare lo sguardo della ragazza con scarsi risultati.
-    Sarah E. Collins, nata a Stafford, Virginia il 25 dicembre 1981. – elencò la ragazza come in una litania – Mi sono diplomata alla Stafford High School e ho completato i miei studi ad Harvard. Sono entrata in accademia nel 2002.
-    Aveva appena vent’anni. – la interruppe, sorpreso, Hotch.
-    Sì, ho saltato un paio di classi. – tagliò corto la ragazza – Dopo la mia abilitazione ad agente federale, sono stata assegnata alla sezione di Criminologia della sede di Lione dell’Interpol, dove ho svolto il lavoro di profiler sotto la guida del caposezione Battenberg. Da tre anni ho la qualifica di esperta in comunicazione non verbale e quindi mi occupavo prevalentemente di interrogatori e analisi delle testimonianze.
-    Deve essere stato un duro colpo per i suoi colleghi privarsi di una collaboratrice così esperta. – Rossi parlò per la prima volta da quando la ragazza era entrata.
-    Sono solo colleghi. – fece spallucce Sarah senza guardare il suo interlocutore – Ci sarà un altro agente che verrà riassegnato a quell’incarico.
Aaron aggrottò ancora di più le sopracciglia. Non avrebbe cavato niente di più da quella strana ragazza, non era un tipo molto comunicativo e sembrava del tutto indifferente a quello che la circondava. Si chiese perché avesse chiesto il trasferimento e se quel suo comportamento non fosse in realtà dovuto a un trauma di qualche genere.
-    Bene, agente Collins. – si arrese infine – Appena avrò sotto mano i suoi documenti, riprenderemo la conversazione. Per il momento può andare, vedrò di affidarle quanto prima un incarico.
-    Veramente, – lo contraddisse mentre si alzava – la caposezione ha già provveduto ad assegnarmi il riesame di alcune testimonianze relative a casi che saranno dibattuti presto in tribunale. Però, se lei ritiene di affidarmi anche altri casi, sarò felice di fare del mio meglio.
-    No, per il momento continui con i casi che le sono già stati assegnati. – Hotchner cercava di trattenere la rabbia per quella situazione, decidendo che non era giusto attaccare la ragazza per qualcosa che aveva fatto la Strauss – Ora può andare.
-    Grazie, agente Hotchner. – si avviò verso la porta e poi si girò a fissare l’uomo in piedi dietro il suo nuovo capo – Buona giornata, agente Rossi.
-    Buon lavoro, agente Collins. – l’uomo le sorrise incoraggiante.

Collins scese lentamente le scale e si fermò vicino alla scrivania di Prentiss, sotto lo sguardo indagatore del resto della squadra. Emily si alzò e le sorrise tendendo la mano, la ragazza dal canto suo sembrò non accorgersi neanche del gesto, cominciando a parlare rivolta a tutto il team.
-    Non credo che l’agente Hotchner verrà a fare le presentazioni. Quindi dovremmo arrangiarci da soli, anche se sono sicura che l’agente Prentiss vi avrà già accennato qualcosa. – fece un sorriso ironico, spostando lo sguardo sul pavimento.
-    Come vi ho già detto, questa è l’agente speciale Sarah Collins. – Emily decise di non far caso alla provocazione della sua collega – Questo è l’agente Derek Morgan, esperto di crimini ossessivi.
Sarah, finalmente alzò lo sguardo per guardare in faccia i suoi nuovi colleghi, anche se non sembrava particolarmente entusiasta o partecipe. Si limitò a fare un cenno con il capo ad ognuno di loro, mano a mano che Prentiss li introduceva.
-    La nostra agente di collegamento Jennifer Jareau.
-    Puoi chiamarmi JJ. – certa che la nuova arrivata fosse solo intimorita le prese la mano per stringerla, Collins ricambiò il gesto con una stretta vigorosa ma senza mutare il suo sguardo.
-    Poi abbiamo Penelope Garcia, è un’informatica e si occupa di cercare tutto quello che ci può servire nelle indagini.
-    Per qualsiasi cosa chiedi pure a me. – si pavoneggiò Garcia che, come JJ, decise di tentare un qualche genere di approccio – Sono a tua disposizione, francesina.
-    Francesina? – la ragazza inarcò interdetta un sopracciglio.
-    Ti ci abituerai – la rassicurò Morgan – Garcia ha un soprannome per tutti.
Sarah non parve particolarmente colpita, fino a che non si girò verso l’ultimo rimasto del team. Nonostante non fosse stato ancora presentato, lui alzò la mano in segno di saluto, ma la riabbassò sconcertato. La ragazza aveva finalmente mostrato una qualche emozione: aveva serrato le mascelle e stretto i pugni. Decisamente era uno sguardo pieno di astio.
-    Lui è il dottore Spencer Reid. – finì Prentiss, sconcertata dal comportamento di Collins.
Dal canto suo, la nuova arrivata voltò le spalle a Spencer in modo iroso e si mise a sedere alla propria scrivania afferrando un fascicolo mettendosi a lavorare. Il resto della squadra si fissò meravigliata per un attimo e poi, come per un muto accordo, ognuno tornò alla propria occupazione.


Ore dopo

Si stavano tutti preparando per uscire, mentre Morgan rivolgeva ancora uno sguardo furtivo alla nuova arrivata. La ragazza non sembrava minimamente intenzionata a tornare a casa molto presto: era ancora concentratissima su un dossier, mentre continuava a rigirarsi un CD fra le dita. Garcia apparve nell’openspace, segno evidente che era giunto il momento di lasciarsi il lavoro alle spalle.
-    Collins? – l’apostrofò Derek.
-    Sì, agente Morgan? – rispose Sarah, senza alzare gli occhi dai fogli.
-    L’orario di lavoro è finito. – le fece notare l’uomo.
-    Allora è un uomo fortunato, buona serata. – tagliò corto la ragazza non degnandolo di uno sguardo.
Il resto del team si avviò all’ascensore facendo spallucce, guardando Derek camminare contrariato dal tono che Collins aveva usato: evidentemente Hotch aveva trovato una degna rivale in quanto a straordinari.
-    Che programmi hai per la serata, Garcia? – disse JJ, cercando di alleggerire l’aria all’interno dell’ascensore.
-    Sono stanchissima, credo che andrò dritta a casa. – l’informatica sembrava ancora avvilita per il trattamento che le aveva riservato la Strauss – Voi, avete programmi?
-    Io seguirò il tuo esempio. – Jennifer continuava a tamburellare nervosamente sulla maniglia della valigetta – Tu, Spence?
-    Eh? – il ragazzo parve ridestarsi solo in quel momento – Scusami, ero distratto. Cosa stavi dicendo?
-    Volevamo sapere che programmi hai per la serata. – spiegò Prentiss con un sorriso incoraggiante.
-    Credo che finirò di leggere quelle nuove circolari che sono arrivate l’altro giorno. – rispose, tornando a fissare il vuoto.
-    Beh, stasera tutti a nanna presto. – scherzò Morgan, uscendo per ultimo dall’ascensore.
Il garage, già deserto, risuonava dei passi dei ragazzi si erano incamminati ognuno verso la propria auto dopo essersi scambiati velocemente la buona notte. Appena arrivato alla vettura, Derek si girò e fece un gesto a Prentiss, che occupava il posto auto accanto al suo. Prentiss annuì, afferrò il cellulare e inviò un SMS, per poi salire in macchina e lasciare il garage senza voltarsi indietro.

Collins finì di leggere il dossier e poi fissò interdetta il CD che teneva in mano. Si guardò in giro ed esaminò il proprio computer, per poi frugare nella borsa con scarsi risultati, visto l’aria frustrata che assunse. Sbuffò indispettita e si girò verso l’ufficio di Hotchner, che era ancora intento a sbrigare delle pratiche.
La ragazza afferrò il fascicolo, si diresse dal suo superiore, bussò alla porta ed entrò, fissando Hotch con sguardo spento e assente.
-    Posso aiutarla, Collins? – chiese serio Hotch, osservandola.
-    Mi sono resa conto che il mio computer non è fornito di cuffie e non le ho portate; inoltre, mi troverei meglio ad analizzare il materiale audio-video in un luogo più raccolto. – la ragazza batté le palpebre e fece un passo avanti, come vedendo l’uomo per la prima volta – Come vi regolate qui, sul portare il lavoro a casa?
-    Deve fare una copia, l’originale non può lasciare l’ufficio. – tagliò corto il caposquadra – Comunque preferirei che lavorasse qui senza far uscire del materiale dall'archivio. Se dovesse servirle, abbiamo una stanza apposita che affaccia sul corridoio interno.
La ragazza si voltò per guardare la porta che si apriva sull’openspace e poi si girò di nuovo verso il suo capo.
-    Potrebbe essere più preciso? Ci sono molte stanze che affacciano su quel corridoio, non vorrei entrare nell’ufficio di qualche collega senza essere autorizzata.
-    Glielo mostrerò domani. – provò Aaron, guardando l’orologio.
La ragazza non rispose, limitandosi a rimanere sulla porta con un’espressione contrariata dipinta sul viso.
-    D’accordo. – acconsentì Hotch di malavoglia – Comunque è molto tardi e lei dovrebbe già essere uscita.
-    Con tutto il rispetto, signore, anche lei dovrebbe già essere a casa. – rispose la ragazza con un sorrisetto sarcastico – Evidentemente siamo entrambi sposati con il nostro lavoro.
Hotch abbozzò un sorriso e le fece segno di seguirlo superandola: scese le scale e aspetto Sarah, per poi passare insieme per la porta a vetri che dava verso gli uffici interni. I corridoi erano deserti: non si sentiva neanche il rumore dei loro passi, attutito dalla moquette grigia. Il capo del team si ritrovò a camminare fianco a fianco con quella bizzarra ragazza, indeciso se fidarsi o meno di lei, avendo ancora la sensazione che fosse una spia della Strauss.
-    Eccoci qui. – disse, aprendo una stanza senza targhetta e accendendo la luce all’interno – Cerchi solo di non fare troppo tardi.
-    Sì, signore. – Sarah lo guardò negli occhi per la prima volta – Se permette, lei sembra molto stanco signore, forse dovrebbe andare a casa.
-    Grazie, ma ho da fare. – Aaron la guardò a sua volta – Comunque, normalmente nella squadra non siamo così formali: ci diamo del tu.
-    Capisco, signore… Hotchner.
-    Hotch. – la corresse l’uomo.
-    Hotch. – ripeté la ragazza, socchiudendo gli occhi e sorridendo per la prima volta.


Rocket Bar, Washington D.C.*

Prentiss e Morgan occuparono un tavolo d’angolo, in quel locale fumoso frequentato da motociclisti. Il barista, un giovane e bel ragazzo moro, gli aveva servito due whisky doppi e si era eclissato con discrezione.
-    Allora? – Derek tamburellò con le dita sul ripiano del tavolo – Cos’è che non volevi dire davanti al resto della squadra?
-    Beh, senti sono solo chiacchiere e secondo me anche infondate – Emily si guardò intorno, per poi chinarsi in avanti verso il suo interlocutore – Ho conosciuto le altre persone implicate in quei pettegolezzi e ho la certezza che non può essere come si dice.
-    Ma insomma, che diavolo ha combinato la Collins? – si spazientì l’uomo – Ha ucciso qualcuno?
Prentiss si inumidì le labbra e scosse la testa, spostando lo sguardo sul resto della sala.
-    Si diceva che la Collins avesse una relazione di tipo sessuale con il suo istruttore dell’accademia. – la donna prese il bicchiere e cominciò rigirarselo nelle mani – Pare che furono scoperti dalla caposezione e che la Strauss le abbia impedito di entrare nell’Unità.
-    Quindi è stata spedita in Europa per soffocare lo scandalo. – tirò ad indovinare Derek, mentre lei trangugiava il liquore.
-    No. – Emily poggiò il bicchiere ormai vuoto e cominciò a giocare nervosamente con l’unghia del pollice destro – Dicevano che il suo amante, per impedire che quella cosa nuocesse alla sua carriera, chiese dei favori ad alcuni vecchi amici e la facesse assegnare alla sezione di Criminologia dell’Interpol. E’ ancora più difficile entrare direttamente lì una volta finita l’accademia, credimi. Io ho impiegato anni prima di essere presa sul serio.
-    E’ assurdo. Se fosse così, la Strauss non le avrebbe mai permesso di rientrare a Quantico, né tantomeno l’avrebbe assegnata alla nostra squadra. – Derek parve soddisfatto delle sue deduzioni, liquidando tutta la faccenda con un gesto di noncuranza – E’ per questo che non volevi parlarne davanti al resto della squadra? Perché avevi già capito che erano solo pettegolezzi? Beh, con una storia del genere avresti tirato su di morale Garcia.
-    Non era il caso che ne parlassi davanti agli altri. – si morse un labbro e poi sputò fuori – Specialmente davanti a Reid.
-    Cosa stai cercando di dirmi? – l’attenzione di Morgan si ridestò e cominciò a riesaminare tutte le informazioni che Prentiss gli aveva fornito – Perché non davanti a Reid?
-    Beh, ecco… l’insegnate che accusavano di essere l’amante di Collins – Emily scosse nuovamente la testa – Andiamo, lo conosciamo benissimo tutti e due: è impossibile che abbia avuto una relazione con una sua studentessa o che l’abbia favorita in questo modo.
-    Chi è lui? – chiese Derek, intuendo già la risposta e capendo cosa avrebbe implicato per Spencer.
-    Si diceva che fosse la studentessa “preferita” di Jason Gideon.

Continua…

* Piccolo omaggio a Ronnie e alla sua FF “Storia di un barista e una federale”

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


capitolo 3 Auguri di Buona Pasqua a tutti i lettori!

Gennaio 2002 – Accademia F.B.I., Quantico, Virginia

La sala mensa era affollata e risuonava delle chiacchiere dei cadetti, più rumorosi del solito secondo Gideon. Dal canto suo, lui se ne stava rintanato in un angolo con davanti il suo vassoio quasi dimenticato mentre leggeva un libro. Alzò lo sguardo, notando con la coda dell’occhio un vassoio che veniva poggiato sul suo tavolo.
Sospirò rassegnato, guardando la cadetta Collins sedersi con disinvoltura, mentre il resto della sala si zittiva per guardarli. I cadetti ruppero subito il silenzio per cominciare a bisbigliare e a darsi di gomito.
-    Non credo che sia opportuno mangiare insieme. – Jason chiuse il libro, conscio che il suo momento di quiete e tranquillità era terminato – Si fanno già abbastanza chiacchiere su di noi.
-    I cadetti spettegolano in continuazione, è il loro passatempo preferito. – rispose la bella ragazza, spostando i lunghi capelli neri dietro le spalle – Non vedo cosa ci sia di male se approfitto della pausa pranzo per confrontarmi con il mio professore su alcuni punti della lezione appena conclusa.
-    Non vedi cosa ci sia di male, eh? – Gideon sorrise divertito – Non ti interessa che la tua carriera potrebbe essere stroncata?
-    Perché la mia carriera dovrebbe essere stroncata? – la ragazza sorrise di rimando, poggiando i gomiti sul tavolo e osservando il suo interlocutore – Dicono che abbiamo una relazione: anche se fosse? Non credo che questo influisca in un modo o nell’altro sulla mia preparazione.
-    Dovresti stare più attenta. Che tu ci creda o no, una volta diventata agente speciale dovrai fare molta attenzione a seguire la politica interna del bureau.
-    Uffa! Sempre la solita solfa. – si lamentò Sarah incrociando le braccia – Piuttosto, perché non parliamo della lezione di oggi su Ed Gein. E’ inquietante che si siano ispirati a lui per libri e film, non trovi?
Collins continuava a parlare, mentre Jason sorrideva bonario non prestando molta attenzione a quello che la ragazza diceva. Era più concentrato sul notare quanto bella fosse: i lunghi capelli neri, leggermente mossi, incorniciavano un viso dai lineamenti regolari; gli occhi, grandi ed espressivi, erano di un intenso color verde, che raramente il profiler aveva visto; inoltre, il suo viso era illuminato da quel sorriso spensierato che riusciva sempre a rischiarare le sue giornate.
Sarah era diventata importante nella sua vita, ma aveva paura che il loro legame potesse essere di ostacolo al desiderio della ragazza di entrare nella B.A.U. e diventare una profiler. Si concesse di sbirciare il resto della sala, incontrando solo sguardi di disapprovazione o quelli di invidia di qualche cadetto che avrebbe voluto destare l’interesse di Collins.



Novembre 2007 – Accademia F.B.I.,  Quantico, Virginia

Spencer guardò l’orologio mentre attendeva l’ascensore, constatando che era ancora presto e che sicuramente sarebbe stato il primo ad arrivare. Si girò di scatto, vedendo un’ombra al suo fianco. Tornò a guardare dritto davanti a sé, con una nuova tensione addosso, mentre le porte si aprivano con il classico rumore di campanello che annunciava che l’ascensore era al piano.
Entrambi entrarono in silenzio e Reid premette il bottone del terzo piano. Abbassò lo sguardo, deciso ad ammirarsi i piedi fino a che non avresse potuto eclissarsi.
-    Ti chiedo scusa.
La calda voce femminile lo costrinse ad alzare gli occhi sulla sua compagna di viaggio. Collins indossava abiti simili a quelli del giorno prima, in una mano teneva una tazza da viaggio e nell’altra un borsone. La ragazza guardava i numeri che lentamente si accendevano in successione, senza guardarlo direttamente.
-    Per ieri – precisò, visto il mutismo dell’altro – Credo di doverti una spiegazione.
Sorseggiò il suo caffè e poi aggrottò le sopraciglia, mentre Spencer la guardava di sottecchi.
-    Quando, tre anni fa, ci fu l’incidente di Boston io chiesi il trasferimento – fece una risatina sarcastica – Visto che si erano “liberati” dei posti, credevo che sarei stata riassegnata a questa squadra. Immagina il mio disappunto quando mi hanno riferito che Gideon mi aveva preferito un certo dottor Reid, uno appena uscito dall’accademia. Volevo tornare a casa ed invece, visto che il posto nella squadra era toccato a te, dovevo rimanermene a Lione.
-    Mi dispiace – si scusò il ragazzo, mordendosi un labbro.
-    Non devi – la ragazza fece spallucce – Non è colpa tua, evidentemente videro in te delle potenzialità che io non avevo. Quello di ieri è stato un comportamento infantile da parte mia e me ne scuso ancora.
Il ragazzo tornò ad abbassare lo sguardo, ma un leggero sorriso gli incurvò le labbra, mentre pensava che forse la nuova arrivata non era così male se sapeva chiedere scusa.
Era così preso ad esaminare ancora il comportamento di Collins e a chiedersi che tipo fosse, che non si era accorto che le porte dell’ascensore si erano aperte e la ragazza era uscita. Ora era ferma a pochi passi da lui e lo guardava con occhi spenti e apatici.
-    Dottor Reid? – chiamò piano Sarah.
-    Ehm… ero soprapensiero – si giustificò il ragazzo, aggiustandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
-    Ti capisco – la ragazza aspettò che lui uscisse per incamminarsi insieme – Capita spesso anche a me. Dicono che le persone con un Q.I. sopra i centocinquanta si perdano spesso dietro i propri pensieri.
Spencer afferrò la maniglia e aprì la porta, per poi guardare la ragazza con aria interrogativa.
-    Capita spesso anche a lei? – non era quella la domanda che voleva rivolgerle e ingoiò, impacciato.
-    Non ti allarmare – gli sorrise distratta la ragazza, rispondendo come se gli avesse letto nel pensiero – Sono solo 178. Sei ancora tu il più intelligente della squadra.
Dicendo così lo superò per andare a sedersi alla propria scrivania. Reid pensò agli uffici ancora vuoti e si chiese come avrebbe retto la tensione di stare solo con lei fino all’arrivo degli altri.



Febbraio 2002 – Accademia F.B.I., Quantico, Virginia

Jason era intento a correggere i compiti dei cadetti, sapendo che avrebbe dovuto consegnare gli esiti dell’esame entro due giorni. Annuì leggermente, mentre constatava compiaciuto che il compito che stava correggendo era ben fatto e accurato nelle conclusioni: sapeva già, senza bisogno di leggere, a chi apparteneva quello scritto che meritava il massimo dei voti. Sorrise soddisfatto, contento dei progressi che la ragazza stava facendo e di come assorbisse come una spugna tutto quello che lui diceva.
Tornò serio sentendo bussare alla porta. Guardò l’orologio a parete di fronte a lui e si accigliò. L’orario di ricevimento degli studenti era finito da circa mezz’ora e lui aveva fretta di uscire: quella sera aveva un impegno a cui non intendeva mancare. Senza aspettare risposta, il ritardatario aprì piano la porta e si affacciò.
Con grande sorpresa di Gideon, Sarah apparve sorridente sulla soglia del suo ufficio con una grande busta regalo in mano. Sbatté le palpebre interdetto, ma le fece segno di entrare.
-    E’ successo qualcosa? – chiese preoccupato.
-    Deve essere successo qualcosa perché io venga a trovarti? – rispose lei, chiudendo la porta con un sorriso birichino.
-    L’orario di ricevimento è finito e tu sei un tipo puntuale. – voleva rimproverarla, dirle che non era appropriato, ma era rapito dal sorriso raggiante della ragazza.
-    Ho pensato che fosse meglio che venissi quando tutti gli altri se ne erano andati. Come dici sempre tu, girano già abbastanza chiacchiere su di noi. – lo prese in giro, porgendogli la busta che teneva in mano – Buon Compleanno.
-    Non avresti dovuto. – farfugliò lui, prendendo il regalo e aprendo la confezione – Se me lo avessi detto, ci saremmo accordati per vederci fuori. Non è bene che io esca di qui con un regalo che mi hai fatto tu.
-    Adesso non posso più neanche fare un regalo al mio insegnante preferito? – si poggiò con le mani sul tavolo e reclinò la testa, non smettendo di sorridere neanche un attimo – Piuttosto, vedi di dirmi che sei entusiasta di quello che ho scovato per te, vecchio orso brontolone.
-    Non dovresti rivolgerti così ad un’insegnate. – la redarguì lui, con tono falsamente severo, mentre cercava di scogliere i nastri che chiudevano la busta.
-    Non mi rivolgo così ai miei insegnanti. – rispose ridendo allegra – Lo faccio solo con te.
-    Io non sono un tuo insegnante? Mi sembrava di stare appunto correggendo il tuo compito. – Jason riuscì finalmente ad aprire la confezione, ma si fermò per guardarla – Di’ la verità. Il tuo esame è andato malissimo e stai cercando di corrompermi per avere un bel voto.
-    Tu sei molto più di un’insegnate – la ragazza reclinò il capo, smettendo di sorridere e guardandolo intensamente – Noi siamo molto più che insegnante e allievo.
-    Sarah… - l’uomo fissò Collins ricambiando la forza di quello sguardo – Sarà meglio che mi decida a vedere cosa tu mi abbia regalato.
Aprì finalmente la busta e afferrò il disco in vinile che vi era dentro. Quando lo tirò fuori e vide il titolo non riuscì a soffocare un’esclamazione di sorpresa.
-    Frank Sinatra! Quest’album è introvabile in America.* – Jason guardò stralunato il disco che teneva in mano.
-    Sapevo che ti sarebbe piaciuto. – squittì Sarah battendo leggermente le mani e guardandolo contenta.
-    Avrai speso un mucchio di soldi, non dovevi. – Gideon si sentì in colpa perché non avrebbe passato quella serata con lei.
-    Più che altro ho fatto fatica a trovarlo. – fece il giro della scrivania, l’abbracciò e lo baciò su una guancia – Auguri.
-    Sarah, – lui l’allontanò delicatamente – ti ringrazio, ma ora devo proprio andare.
Dicendo così, cominciò a mettere i compiti non ancora corretti nella valigetta; poi prese il vinile e lo ripose con cura nella busta regalo.
-    Hai qualche impegno? – chiese lei, cercando di non apparire delusa.
-    Vado a cena con mio figlio. – Jason evitò il suo sguardo – Sai che abbiamo un rapporto difficile e sto cercando di ricucirlo.
-    Certo, la famiglia prima di tutto. – scosse la testa e tornò a sorridere, anche se non riusciva a nascondere la delusione – Ancora tanti auguri, divertiti.
Si avviò verso la porta, decisa a non fargli pesare il fatto che non sarebbero andati a cena insieme per festeggiare.
-    Potresti venire a cena da me, domani. – si lasciò sfuggire lui – Sempre che tu non abbia altri impegni.
La ragazza si voltò sorridendo. Jason meditò che sembrava un angelo.
-    Certo che ho un impegno. Cenerò con il mio agente federale preferito! – aprì la porta, continuando a guardarlo – Se non l’hai capito, sto parlando di te.


Novembre 2007 – Uffici B.A.U.,  Quantico, Virginia

A differenza delle aspettative di Reid, non erano i primi ad essere arrivati: Rossi sorrideva ai due ragazzi dalla porta del suo ufficio. Collins non sembrò neanche notarlo, dirigendosi spedita alla sua scrivania e sistemando il borsone da viaggio sotto di essa. Spencer, invece, la seguiva a qualche passo di distanza, fissando l’agente supervisore e chiedendosi come mai quel giorno fosse arrivato così presto.
-    Buongiorno – li salutò David, scendendo un paio di gradini – Collins, potrei parlarti?
La ragazza alzò la testa di scatto, accorgendosi solo in quel momento della presenza dell’uomo più grande. Batté le palpebre leggermente interdetta, poi fece spallucce e si diresse verso le scale. Rossi le tenne la porta aperta e la invitò ad accomodarsi con un gesto noncurante.
Collins si mise a sedere su una delle sedie davanti alla scrivania dove David si era seduto in atteggiamento rilassato.**
-    Agente Collins – esordì con tono conciliante Rossi  – Volevo parlarle in privato.
-    Di cosa, signore? – rispose la ragazza con il tono più professionale che aveva.
-    Lei è la figlia di Mary Elizabeth, vero?
-    Ha conosciuto mia madre? – la ragazza era shoccata.
-    Sì, anche se sono molti anni che non la vedo. Spero stia bene.
-    E’ attaccata ad un respiratore da otto anni – rispose la ragazza con tono indifferente – Ormai è solo un vegetale.
-    Sono mortificato – Dave sembrava estremamente partecipe – Come? Se posso…
-    Un incidente. Un guidatore ubriaco.
-    Mi dispiace molto, Collins. Le mie più sentite condoglianze.
-    E’ passato molto tempo, ormai. Non si preoccupi, l’ho superato – era diventata una bugia standard, non aveva superato un bel niente, ma aveva imparato che a nessuno importava veramente; perché mostrare un dolore di cui nessuno sarebbe stato partecipe se non per mera cortesia?
-    Sua madre era una donna eccezionale, mi dispiace moltissimo… Era anche estremamente bella ed intelligente.
-    La conosceva molto bene, dunque.
-    Sì. – sospirò alzandosi, prontamente seguito da lei – Per qualsiasi cosa il mio ufficio è sempre aperto. Anche solo per fare due chiacchiere.
-    Lo terrò presente, signore.
Rossi parve ripensarci mentre lei era già sulla porta.
-    Il suo istruttore in accademia è stato Jason Gideon, vero?
Sarah si girò ad osservarlo, mascherando il suo stupore dietro la facciata di indifferenza che ostentava sempre.
-    Sì, signore.
-    Credo sia molto orgoglioso di lei, Collins.
-    Non saprei, signore, ma sono portata a credere di no – chiuse la porta senza aspettare la risposta di Rossi.
L’openspace, nel frattempo, si era animato all’arrivo del resto degli agenti. Sembrava che tutta la squadra fosse già sul posto di lavoro, ma Sarah non avrebbe saputo dirlo, visto che Garcia e JJ avevano un proprio ufficio. Si avvicinò alla scrivania e afferrò i fascicoli che stava studiando la sera prima, limitandosi a fare un cenno di saluto a Prentiss e Morgan.
-    Se il capo mi dovesse cercare – disse, rivolgendosi a Reid – Potresti dirgli che sono nella sala audio-visivi?
-    Certo – balbettò Spencer, ancora scombussolato per la chiacchierata di prima.
Collins si incamminò a passo svelto e si chiuse a chiave nella saletta insonorizzata. Lasciò cadere a terra i dossier, mentre scivolava con la schiena lungo la porta, premendosi entrambe le mani sulla bocca per soffocare i singhiozzi che la scuotevano.

-    Ti ha chiesto di avvertire Hotch? – JJ parve stupita e sconcertata – Beh, dopo come si è comportata con te ieri, al suo posto non mi sarei permessa di chiederti un favore.
-    Veramente – Reid arrossì lievemente, sotto lo sguardo di Garcia, Jennifer, Prentiss e Morgan – Stamattina si è scusata, più di una volta.
-    Si è scusata? – Penelope parve la più sorpresa – Miss Ghiacciolo si è scusata?
-    E’ mi ha anche spiegato perché mi ha guardato così ieri – il ragazzo si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio – Devo ammettere che a parti invertite, probabilmente anch’io proverei un po’ di rancore nei suoi confronti.
-    Perché, cosa le avresti fatto? – chiese Morgan, scambiandosi occhiate preoccupate con Prentiss.
-    Quando fece domanda di trasferimento, Gideon scelse me al suo posto – Spencer si inumidì le labbra, timoroso che gli altri non capissero il comportamento della ragazza – Voleva tornare a casa ed invece è dovuta rimanere in Francia per altri tre anni.
-    Beh, quanto meno si è scusata – gli sorrise Prentiss – Non credo che sia una cattiva ragazza, anche se sembra diversa da come la ricordavo.
-    Perché, che tipo era? – chiese Penelope, incuriosita.
-    Non aveva quello sguardo spento e non evitava di guardare gli altri negli occhi. Certo, non era un tipo espansivo, anzi era così riservata che ci siamo scambiate sempre e solo i saluti di rito – distolse lo sguardo, cercando di rievocare l’immagine della ragazza che ricordava – Portava i capelli lunghi raccolti in una coda di cavallo, indossava solo tailleur pantalone e sorrideva sempre in modo triste. Sembrava che portasse il peso del mondo sulle spalle.
-    Perfetto, era nella fase che io ho attraversato a quindici anni: quale ragazzo che gioca a fare l’incompreso non si comporta come se avesse il peso del mondo sulle proprie spalle? – scherzò Derek.
-    Forse non porterà sulle spalle il peso di tutto il mondo, – rispose Rossi, attraversando il gruppo e dirigendosi nell’area relax – però il peso del suo di mondo le basta e le avanza.
-    Perché, tu cosa sai di lei? – chiese Morgan a voce alta.
David non rispose, andando a prendersi un caffè nel cucinino.

Continua…

* Sinatra Sings Great Songs from Great Britain Il disco registrato a Londra e destinato esclusivamente al mercato inglese.
** Scena e dialogo sono ripresi dalla one-shot “Dirty little secret”.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


capitolo 5 Novembre 2007 – Accademia F.B.I.,  Quantico, Virginia

Aveva passato tutta la giornata chiusa nella sala audio-visivi, evitando la squadra anche nell’ora di pranzo. Era uscita di soppiatto dal suo nascondiglio pensando che, vista l’ora, i suoi colleghi fossero andati a casa e si era precipitata in bagno per cercare di darsi una rassettata. Il crollo emotivo che aveva avuto quella mattina era qualcosa che non si sarebbe mai aspettata, ma non si sarebbe aspettata neanche di dover parlare di sua madre in quel posto. Il fatto che Rossi l’avesse menzionata, che l’avesse conosciuta prima che lei nascesse, era qualcosa che non aveva calcolato.
Chiuse l’acqua dopo essersi lavata accuratamente il viso per cancellare le tracce di mascara colato e si guardò allo specchio. Il sospetto che David sapesse più di quello che aveva detto era un tarlo che le si era piantato nel cervello e non riusciva a scacciarlo. Il vecchio profiler era un nemico pericoloso e lei l’aveva sottovalutato: dal tono che aveva usato durante il loro breve colloquio sembrava che sapesse perché la Strauss l’aveva assegnata proprio alla squadra di Hotch.
Chinò la testa e si mise ad osservare il lavandino senza realmente vederlo: se anche i suoi dubbi erano fondati, non c’era niente che potesse fare per impedire a Rossi di mettere la squadra sul chi vive.
Si chiese distrattamente se non avrebbe fatto meglio a parlare con Erin di quella “chiacchierata fra amici” e chiedere consiglio a lei. Aveva paura che, presa in contropiede da quel nuovo sviluppo, la caposezione potesse decidere di tornare sui suoi passi e rispedirla a Lione in attesa di un’occasione più propizia. Non poteva tornare là, piuttosto avrebbe dato le dimissioni e si sarebbe cercata un lavoro. Con i suoi titoli accademici e le sue capacità non sarebbe stato difficile trovare un nuovo impiego. Forse avrebbe fatto bene a ripiegare su un’altra carriera e mollare tutto in quel preciso istante, tirandosi fuori da tutta quella storia. Scosse la testa, non poteva rinunciare alla sua vendetta nei confronti di Jason.
Le sue elucubrazioni furono interrotte dalla porta del bagno che veniva aperta. Alzò la testa di scatto, guardò l’immagine riflessa di Prentiss che se ne stava dritta in piedi dietro di lei e la guardava accigliata.
-    Tutto bene, Collins? – chiese Emily, scrutando la sua nuova collega.
-    Sì, certo. – rispose troppo velocemente – Cosa le fa pensare che ci sia qualcosa che non va?
-    Hai il viso tirato, sembri molto stanca. – fece notare Prentiss, facendo un passo avanti.
-    Non mi sono ancora abituata al cambio di fuso orario e passare tutto il giorno ad esaminare filmati mi affatica la vista. – cercò di giustificare così il rossore intorno agli occhi, dovuto al fatto che era nuovamente scoppiata in lacrime poco prima di lasciare il suo “rifugio”.
-    Certo. – minimizzò l’altra donna – Comunque se volesse parlare o andare a bere qualcosa insieme…
-    No, grazie. – decise di essere stata troppo brusca e si girò con un mezzo sorriso sulle labbra – Stasera sono molto stanca. Però potremmo andare a bere qualcosa un’altra volta.
-    Un’altra volta. – acconsentì Emily, ricambiando il sorriso di circostanza.
Sarah la superò e uscì dal bagno, rimproverandosi di essersi lasciata vincere dall’emotività e aver permesso ai suoi problemi personali di interferire con i suoi piani. Uscire a bere qualcosa “fra donne” poteva essere un ottimo modo per conquistare la fiducia di Prentiss e riuscire a carpirle qualcosa su Hotchner o qualche eventuale mancanza di uno dei loro colleghi. Se voleva tirarsi fuori da quell’intrigo il prima possibile, avrebbe fatto meglio a sfruttare tutte le occasioni per procurarsi le informazioni che interessavano alla Strauss.
Mentre ripercorreva il corridoio verso la sala audio-visivi, sentì delle voci e si girò per indagare. Contro le sue previsioni sull’orario di lavoro dei suoi colleghi, vide JJ, Garcia e Reid in piedi al centro dell’openspace, intenti a ridere e scherzare fra di loro. Da qualche stralcio di conversazione che arrivo fino a lei, capì che stavano aspettando Prentiss per uscire tutti insieme a bere qualcosa. Aggrottò le sopracciglia e si incamminò verso la sua destinazione, dando le spalle a quella scena così nuova e strana per lei.
Battenberg non avrebbe visto di buon’occhio quell’interagire fra colleghi e quei legami così stretti che esulavano dai normali rapporti di lavoro. Per il suo vecchio capo, bisognava lasciare la vita privata fuori dall’ufficio e l’ufficio fuori dalla propria vita privata. Si permise un sorriso sarcastico: quello valeva solo per lei. Sapeva benissimo che i suoi colleghi dell’Interpol uscivano abitualmente tutti insieme la sera, ma lei non era invitata e facevano di tutto per tenerlo nascosto, con scarsi risultati.
Vide la porta aperta della stanza in cui era diretta e si affrettò, ricordava perfettamente di averla chiusa prima di andare in bagno e non voleva che qualcuno mettesse mano nel suo lavoro: gli altri finivano sempre per fare un macello e lei doveva poi riordinare secondo il suo metodo. Era proprio la sua maniacalità in fatto di ordine che le rendeva difficile lavorare con gli altri: la cosa era ridicola, casa sua era un caos, ma in ufficio il cassetto della sua scrivania era organizzato in modo impeccabile.
Si affacciò, curiosa di vedere chi osasse mettere mano nei suoi dossier e si ritrovò davanti Morgan che si guardava in giro con le mani in tasca. Appena vide Collins le sorrise e le strizzò l’occhio.
-    Eccoti, finalmente!
-    Mi cercava, agente Morgan? – si chiese cosa potesse volere da lei.
-    Sei stata rintanata qui tutto il giorno e ho deciso di venire ad assicurarmi che tu fossi ancora viva. – la raggiunse sulla porta e la guardò negli occhi – Abbiamo tutti finito per oggi e stavamo per uscire. Perché non ti unisci a noi? Un bicchierino per rilassarsi, niente di ché.
-    La ringrazio, mi aveva invitato anche l’agente Prentiss, ma stasera sono troppo stanca. – rimase spiazzata dal fatto che l’avessero invitata due volte per quell’uscita.
-    Andiamo, vedrai che ti farà bene. – allungò una mano e l’afferrò per una spalla.
La reazione della ragazza lo lasciò un attimo perplesso: con un gesto brusco si liberò dalla presa e poi si afferrò la spalla che lui aveva toccato, mentre i suoi occhi si spalancarono, rendendo ancora più evidente che le pupille si erano dilatate. Rimasero fermi per qualche istante ad osservarsi: Morgan con un’aria preoccupata, Collins con lo sguardo di un animale ferito. Derek la superò, cercando di non toccarla, e chiuse la porta.
-    Stai bene? – le chiese, cercando di mantenere una certa distanza.
-    Non… non lo faccia mai più. – la ragazza aveva il respiro affannato – Non mi deve toccare!
-    Hai sporto denuncia? – l’uomo si morse la lingua e sospirò, scuotendo la testa – Se vuoi posso darti il nome di una buona analista: il sopporto psicologico in questi frangenti…
-    Non ho bisogno dello strizzacervelli! – Sarah chiuse gli occhi e cercò di recuperare il controllo di sé – Sono stanca e lei mi ha preso alla sprovvista, tutto qui.
-    Non è tutto qui e lo sappiamo entrambi. Se vuoi parlarne…
-    E lei ne vuole parlare, agente Morgan? – il suo sguardo si fece cattivo – Mi dica, visto che è tanto per la condivisione, chi è stato? Suo padre? Uno dei suoi professori? Un amico più grande?
Fu la volta di Derek di rimanere pietrificato. Si riscosse e la guardò scuotendo la testa.
-    Non so cosa credi di sapere, ma…
-    Sa che il linguaggio del corpo dice molto di una persona? Anche il comportamento aiuta a fare un profilo accurato. Sicuro di voler parlare? – si allontanò da lui per riprendere le sue cose, ma senza staccargli gli occhi da dosso.
-    Noi non ci facciamo il profilo a vicenda. – la redarguì il profiler.
-    La correggo subito: voi non vi dite quello che il vostro comportamento rivela. Sono due cose diverse. – lo sguardo era sempre malvagio – Crede che non mi sia accorta di nulla? Sa qual è la mia qualifica? Esperta in comunicazione non verbale. Sa che il protocollo vieta le relazioni fra colleghi?
-    Ascoltami bene, ragazzina. – Morgan stava per perdere il controllo – Non so chi tu creda di essere, ma qui si lavora in squadra e se non sei capace di interagire con gli altri… beh, forse è il caso che te ne torni a Lione.
Dopo aver detto questo, aprì la porta e uscì con fare imperioso, per poi richiuderla dietro di lui sbattendola. Sarah si strinse sulle spalle e si mise a sedere sull’unica sedia della stanza, visibilmente scossa e di nuovo con le lacrime agli occhi. Decisamente era ancora troppo vulnerabile emotivamente per svolgere al meglio il compito che le era stato assegnato.


Appartamento di Gideon, Quantico, Virginia.

Si svegliò di soprassalto, sudata e con il fiato corto. Si mise a sedere mentre cercava di recuperare il normale ritmo respiratorio e si guardò intorno. Cercò di focalizzare la stanza: era come quando ci si svegliava il primo giorno in vacanza e non si ricordava esattamente dove ci si trovava. Respirò a fondo e scese dal letto, decidendo che la cosa migliore per scacciare i residui del solito incubo fosse un bicchiere di whisky.
Accese la luce del soggiorno, miseramente vuoto, e si diresse verso l’angolo cottura. Sapeva che era sbagliato cercare rifugio nell’alcol, ma a volte le riusciva impossibile dormire senza quel piccolo aiuto. Era passato già un mese, eppure le sembrava che fosse tutto avvenuto solo il giorno prima. Si versò una dose generosa del liquido ambrato e si diresse alla finestra.
Vista da fuori, sembrava che lei fosse scappata per quello che era successo mentre in realtà era tutto avvenuto perché lei aveva deciso di tornare a casa. Si diede di nuovo della stupida: cosa pensava di ottenere affrontandolo? Non sarebbe dovuta andare da Mark, non avrebbe dovuto metterlo al corrente del fatto che sarebbe tornata a Washington. Eppure, sul momento, le era sembrato l’atteggiamento migliore: non voleva dare l’impressione di stare scappando da lui di nascosto, come una ladra nella notte. Voleva tornare a casa e il pensiero di lui non l’aveva sfiorata fino a quando non aveva ricevuto la telefonata della Strauss che la richiamava in America.
Scostò la tenda, sapendo già che le sarebbe apparsa solo la strada buia e vuota, illuminata dai lampioni stradali. Fu sorpresa di vedere una figura ritta sul marciapiede, specialmente quando riconobbe la persona che si stringeva il cappotto addosso.
Gli sguardi di Collins e di Reid si incrociarono, rendendo chiaro che nessuno dei due si aspettava di vedere l’altro lì. Sarah lasciò andare la tenda e fece qualche passo indietro, poi, senza riflettere, si diresse a passo sicuro verso il citofono e fece scattare il portone: non poteva certo lasciare il suo collega a morire di freddo.
-    Sali, Reid. – scandì al microfono, sospirando subito dopo.
Non era in vena di fare conversazione e aveva paura di cosa Morgan aveva raccontato al resto della squadra dopo la loro “condivisione” delle reciproche esperienze. Aveva paura che Reid fosse lì per cercare di essere d’aiuto e lei non l’avrebbe sopportato: non voleva l’aiuto di nessuno, voleva solo essere lasciata in pace. Possibile che nessuno riuscisse a capire questa semplice verità? Lei non si sentiva una vittima e non avrebbe permesso a nessuno di trattarla come tale.
Aprì la porta, pronta a trovarsi davanti Spencer che, con aria contrita, le chiedeva se poteva fare qualcosa o se le andava di parlare. Invece si trovò davanti la faccia sconcertata del ragazzo, che la guardava come se fosse un’aliena.
-    Che ci fai tu qui? – le chiese, passando a darle del tu.
-    Che domande! Ci vivo. – Collins si scostò in modo che il ragazzo potesse entrare e poi chiuse con tutte le mandate ed inserendo il chiavistello – Piuttosto cosa ci fai tu qui a quest’ora? E’ normale presentarsi a casa dei colleghi nel cuore della notte?
-    Io… non sapevo che tu vivessi qui. – Spencer cominciò a spostare il peso da un piede all’altro – L’altra settimana sono passato qui davanti e ho visto le luci accese, così mi sono chiesto… Che sciocco, tu non puoi sapere…
Collins lo guardò, studiando ogni suo minimo movimento e cercando di capire cosa frullasse nella testa del ragazzo. Bevve un sorso velocemente e poi lo superò, dirigendosi verso i pensili dell’angolo cottura, per versare anche a lui un bicchiere di whisky.
-    Perché non ti siedi e non mi spieghi cosa ha di speciale questo appartamento? – si chiese quanto fossero uniti Jason e il piccolo genio dell’Unità.
-    Era… era di un mio caro amico. – rispose Reid, accomodandosi sul vecchio divano e guardando la stanza vuota con un’espressione sconcerta.
-    Devo ancora trovare il tempo di andare a fare compere. – lo prevenne lei, avendo seguito lo sguardo del ragazzo e avendo capito come doveva apparire quel posto ai suoi occhi – Non sono molto brava come arredatrice, ma a mia discolpa posso dire che il mio trasferimento è stato piuttosto repentino e questo posto l’ho trovato da poco. Chi era questo tuo amico che viveva qui?
Si accomodò su uno degli sgabelli della penisola e cominciò a fissarlo attentamente. Ogni più piccola microespressione poteva rivelarle parecchio su cosa unisse quel giovane dall’aria timida e l’uomo che più odiava al mondo. “L’informazione è potere”*, apprezzava la verità intrinseca di quell’affermazione e trovava perfetto il fatto che l’uomo che l’aveva pronunciata aveva fondato l’Ente per cui lavoravano entrambi.
-    Jason Gideon. – Spencer sembrava triste e malinconico – Forse l’avrai conosciuto.
-    Certo, era uno dei miei insegnati quando studiavo in Accademia. – sperò che il suo tono stupito fosse stato convincente – Quindi Stephen è suo figlio? Pensavo che il cognome fosse solo una coincidenza.
-    Non sapevi che viveva qui? – il ragazzo sorrise imbarazzato.
-    Perché avrei dovuto saperlo? – Sarah fece spallucce – Non ho la più pallida idea di dove vivano i miei insegnanti.
-    Già, che sciocco. – Reid si strinse ancora più nel cappotto.
-    Devi essere gelato. – il tono della ragazza era di rimprovero – Come ti è saltato in mente di appostarti per strada di notte in pieno novembre? A Washington poi!
-    Non… non era previsto. – si giustificò, mordendosi le labbra – Passavo qui e… non so, ho avuto l’impulso di accostare e scendere a vedere.
-    Vedere cosa? – lo prese in giro lei, facendo il giro del bancone e aprendo il frigorifero – Quanto tempo ci avresti messo a diventare un ghiacciolo? Avevi intenzione di citofonare alle… - guardò l’orologio sopra il camino – Cavoli, sono le due del mattino.
-    Non mi sarei mai permesso di citofonare, non sapevo che ci vivessi tu.
-    Sei fortunato, ho del latte. – dicendo così aprì uno dei pensili e tirò fuori un pentolino – Latte caldo e cognac… beh, dovrai accontentarti del whisky, ma credo sia lo stesso. Mia madre me lo preparava sempre quando faceva freddo. Diceva che aiuta a scaldarsi.
Reid si alzò e cominciò a girare per la stanza vuota, mentre la ragazza scaldava il latte e lo controllava di sottecchi. Notò la collezione di libri, tutte edizioni rilegate, per lo più di narrativa contemporanea: abbozzò un sorriso, rendendosi conto di non conoscere la metà degli autori che la sua collega leggeva. Quei pochi che gli erano noti scrivevano di fantascienza o erano poeti. Non c’era molto altro da vedere: un divano malandato, la libreria che ricordava dai tempi di Gideon, un orologio a parete e un paio di fotografie. Si infilò le mani in tasca e osservò con attenzione le persone ritratte.
Una era una foto di famiglia: una bella donna bionda dagli occhi celesti, un uomo distinto dai capelli brizzolati ed una bambina dai lunghi capelli neri. La donna bionda aveva un ché di familiare, come se l’avesse incontrata. Aggrottò le sopraciglia e si rispose che era solo una sua impressione: se fosse stato vero, la sua memoria eidetica avrebbe saputo dirgli immediatamente chi fosse e dove si erano incontrati. Subito accanto alla prima, c’era un ritratto di una ragazzina con la tunica e il tocco: avrebbe detto che fosse sui quattordici o quindici anni, troppo giovane per essersi già diplomata. Era, evidentemente la stessa bambina della foto precedente, sempre con lunghi capelli neri e occhi verdi. Si girò a guardare la sua collega; si chiese come mai avesse deciso di cambiare così drasticamente taglio e poi si rispose che, molto semplicemente, era cresciuta e aveva cambiato gusti.
-    Scusami, Collins. – aspettò che la ragazza si voltasse verso di lui, prima di farle la sua domanda – Questa è la tua foto del diploma?
-    Perché non ti limiti a chiedere quello che vuoi veramente sapere? – per la prima volta da quando la conosceva, la vide sorridere apertamente – Puoi chiederlo senza doverci arrivare prendendola alla larga. Allora? Vuoi farmi la domanda che ti angustia tanto?
-    Quanti anni avevi? – balbettò Spencer.
-    Tredici. – il suo sorriso si fece dolce – Te l’ho già detto. Non devi temere, sei ancora tu il genio della squadra.
Il ragazzo arrossì e si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Non sapeva perché, ma era convinto che la ragazza sorridente che aveva di fronte in quel momento fosse la “vera” Sarah Collins: non quella taciturna e riservata agente federale che aveva visto fino a quel momento.
La guardò avvicinarsi con una tazza di latte caldo in mano, dopo che vi aveva versato un goccio di whisky, e si chiese cosa nascondesse dietro quegli occhi perennemente tristi. Cercò di nascondere l’imbarazzo per quel pensiero bevendo una sorsata abbondante.
-    Decisamente scalda. – disse sorridendo e spostando lo sguardo per terra.
-    Siediti. – disse Sarah accomodandosi per prima sul divano – E ora dimmi: quante me ne avete dette stasera al bar?
-    No, noi… no. – era così imbarazzato da incespicare sulle parole – Niente di male. Ci chiedevamo quando uscirai dalla sala audio-visivi e se capiterà mai che tu venga a bere qualcosa con noi dopo il lavoro.
-    Cosa vi ha detto Morgan? – lo sguardo si fece intenso e duro.
Spencer fece spallucce.
-    In realtà ha detto solo che eri troppo stanca. – prese un altro sorso, prima di aggiungere – Però sembrava arrabbiato.
-    Lo sarei anch’io al suo posto. – rispose la ragazza, mentre il suo sguardo si faceva di nuovo apatico e sospirava – Beh, è bene che sappiate che non ho vinto il premio Miss Simpatia, l’anno scorso. Dubito di essere fra le favorite quest’anno.
Reid sorrise incerto, era una battuta, però il tono usato era triste e spento. Scosse la testa e cercò di cambiare argomento.
-    Quelli sono i tuoi genitori? – chiese, indicando la foto che aveva visto sui ripiani della libreria.
-    Sì. – balbettò di rimando lei, poi si schiarì la voce e aggiunse più convinta – Mary Elisabeth e Richard Collins. Sembra preso da qualche vecchio telefilm anni cinquanta, vero? Il titolo poteva essere “La famiglia perfetta” o qualcosa del genere.
-    E lo é? – si azzardò Spencer.
-    Cosa?
-    La famiglia perfetta.
-    Sì. La famiglia migliore in cui una bambina possa crescere. – il suo sguardo si fece ancora più triste – Beh, si sta facendo tardi. Sarà meglio che tu vada.
-    Certo. – Reid si sentiva imbarazzatissimo mentre Collins lo precedeva e gli apriva la porta.
-    Buona notte, dottor Reid. – gli disse la ragazza con lo sguardo rivolto verso il pavimento.
-    Buona notte, Collins. – si fermò sulla porta, indeciso se aggiungere qualcosa o meno, sconcertato dalla fretta dimostrata dalla collega nel cercare di liquidarlo.
-    Ci vediamo domani in ufficio. – lo anticipò lei – Vai dritto a casa ed evita di fermarti sotto altre finestre.
-    A domani. – si congedò il ragazzo.
Dopo aver chiuso il chiavistello, Sarah si girò per tornare in camera e il suo sguardo si soffermò sulle foto che teneva nella libreria. Ingoiò e prese in mano quella che la ritraeva con i suoi genitori, perdendosi nel ricordo del sorriso di sua madre. Quando aveva aperto a Reid sarebbe dovuta essere così previdente da nasconderla. Sicuramente l’aveva vista e aveva notato la somiglianza: possibile che avesse capito?
Poco più sotto, mentre si chiudeva il portone alle spalle, Spencer meditò su tutto quello che era successo nell’appartamento della ragazza. La foto della madre di Collins continuava ad apparirgli davanti agli occhi. Perché aveva la sensazione di aver già visto quella donna da qualche altra parte? E se quella di Collins era una “famiglia perfetta”, perché aveva quello sguardo triste mentre ne parlava?

Continua…

* J. Edgar Hoover, è stato il sesto direttore del F.B.I. (e, forse, il più famoso). Citazione completa: “L'informazione è potere. Ci ha protetti dai comunisti nel 1919 e da allora la nostra FBI ha continuato sapientemente a raccoglierla, organizzarla e custodirla”. A lui si deve l’attuale denominazione dell’Ente, che prima era noto come B.O.I. (Bureau of Investigation).

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


capitolo 5

Novembre 2007 – Accademia F.B.I., Quantico, Virginia

Sarah continuava a trascrivere al computer le sue conclusioni in merito ai dossier che le aveva affidato la Strauss, gettando di quando in quando un occhiata furtiva alla persona che occupava la scrivania di fronte alla sua. Morgan le aveva rivolto un saluto molto disinvolto quella mattina, come se fra loro non fosse successo niente, come se lei non avesse mai detto niente la sera prima.

La ragazza non riusciva a capire quell’atteggiamento non curante che aveva assunto il suo collega in merito a tutta la faccenda: possibile che non avesse detto niente a nessuno degli altri? In fin dei conti, Reid era sembrato del tutto all’oscuro quando era andato a casa sua quella notte.

Si fermò un momento e rivolse uno sguardo apatico al dottore che era in piedi vicino alle porte del corridoio interno, intento a parlare con JJ. Non le sembrava proprio il tipo che riesce a dissimulare così bene, almeno credeva che fosse così. Si accigliò, mentre tornava a volgere lo sguardo sul monitor: non riusciva a fare il profilo a quel ragazzo, per quanto si sforzasse sembrava essere al di fuori di tutti i canoni a cui era abituata.

Era stato facile scoprire molto di tutti gli altri agenti, semplicemente standosene buona in disparte ad osservarli interagire fra loro. Essere un’esperta in comunicazione non verbale le dava la possibilità di studiarli e stilare un profilo abbastanza preciso, senza essere costretta ad interrogarli o a cercare di approfondire la loro conoscenza. Era stata una sicurezza non essere costretta ad intrattenere rapporti sociali per sapere sempre tutto di chi la circondava. Era una bambina prodigio cresciuta troppo in fretta: aveva seri problemi di diplomazia, i rapporti interpersonali e sociali non erano proprio il suo forte. Con la coda dell’occhio notò un movimento e si girò di scatto, mentre Morgan le voltava le spalle e si dirigeva placidamente al cucinino dell’aria relax. Sarah batté un paio di volte l’indice sul tavolo, ripensando alla scena della sera prima e maledicendo quel suo scatto d’ira che poteva costarle la possibilità di avere la fiducia di quelle persone. Inoltre si sentiva vicina al suo collega: aveva in comune qualcosa che non si dimentica facilmente.

Si alzò sbuffando, decisa a seguire Derek per avere la possibilità di parlargli in privato. Non era certa di cosa avrebbe potuto dirgli, di cosa fosse più giusto fare in quella situazione. Si trovava costretta per la seconda volta in due giorni a chiedere scusa a qualcuno che considerava un perfetto estraneo. La sua avventatezza le stava costando molto in termini di orgoglio, ma sua madre le aveva insegnato il rispetto per gli altri e che quando si sbaglia bisogna fare ammenda.

Si fermò sulla soglia della stanza, osservando Morgan prepararsi un caffè. Rivolse un ultimo pensiero a sua madre, dandole dell’ipocrita e chiedendosi cosa sarebbe successo se fosse stata ancora lì con lei. Scacciò quelli che riteneva pensieri inappropriati visto l’ambiente e si schiarì la voce. Derek si girò a guardarla, riservandole lo sguardo indifferente che di solito lei rivolgeva agli altri. Chiuse gli occhi e sorrise sarcastica: se l’era cercata, in fin dei conti.

-        Non le accetto, per il momento. – disse l’uomo, con tono risoluto.

Sarah alzò la testa di scatto, con un’espressione sorpresa dipinta sul volto.

-        Mi scusi? – batté le palpebre un paio di volte e si poggiò alla parete con una spalla – Cosa non accetta?

L’uomo fece alcuni passi avanti, fino a esserle ad un soffio dal viso e poi le sorrise con l’aria di chi la sapeva lunga.

-        Le scuse che è venuta a porgermi, agente Collins.

Sul volto della ragazza riapparve la solita espressione apatica e indifferente.

-        Capisco, al suo posto neanche io la perdonerei.

-        Non è al mio posto e non mi conosce abbastanza da poter fare congetture sul mio modo di agire. – si infilò una mano nella tasca ed estrasse un cartoncino che le mise in mano, poi abbassò il tono della voce che divenne quasi un sussurro – Non accetterò le sue scuse, fino a quando non cercherà aiuto.

Se fosse stata anche solo un passo più lontana da lui, non avrebbe sentito. Lo guardò negli occhi alla ricerca delle motivazioni di quel gesto, ma non trovo nulla in quello sguardo se non una sincera preoccupazione per lei. Non le era mai successo che qualcuno pensasse a lei in modo disinteressato: dopo l’incidente di sua madre era stata costretta a prendersi cura di se stessa e a diffidare degli altri. Spostò lo sguardo sul biglietto da visita che Derek teneva in mano e decise di prenderlo, anche solo per non dover più sostenere quello sguardo.

-        Questo dottore è in gamba e, cosa più importante, è una donna. – le mormorò avvicinandosi ancora di più al suo orecchio – Sarà più facile e meno imbarazzante. E’ specializzata nell’aiutare le… le persone come noi.

Sarah fece un passo indietro e lo guardo con occhi lucidi. Si stava veramente preoccupando per lei e gli era doppiamente grata visto che aveva evitato di usare la parola “vittima” riferito a lei.

-        Io… non posso prometterle niente. – però si infilò il cartoncino nella tasca dei jeans.

La sua espressione era tornata di nuovo apatica e assente.

-        Tutti, nella vita, abbiamo bisogno di aiuto prima o poi. – allungò una mano per toccarla, ma la lasciò a mezz’aria interrompendo il gesto – Non c’è vergogna in questo. A volte parlarne aiuta.

-        Andiamo, lei era un ragazzino. – fu la volta di Sarah di parlare in un bisbiglio – Eppure è ancora in terapia.

-        Sei più testarda di me. – le sorrise – Comunque ho accettato di affrontare il “problema” da meno di un anno.

La ragazza annuì, spostando lo sguardo alla tazza di caffè che il suo collega teneva in mano. Lo superò e andò a servirsi.

 

Maggio 2005 – Appartamento di Jason Gideon, Quantico, Virginia[1]

Lui e Sarah non si erano più visti dopo che le aveva comunicato che non sarebbe entrata nell’unità: era partita senza salutarlo. Era una cosa che aveva preventivato, ma faceva male lo stesso. Egoisticamente avrebbe voluto prenderla nella squadra, ma il loro era un lavoro pericoloso e lo dimostravano quei sei morti nel caso di Boston. Non gli sembrava neanche vero che fossero passati già due anni dalla partenza di lei per la Francia. Si teneva informato tramite canali non ufficiali ed era orgoglioso di sapere che si stava mettendo in mostra e che il suo capodivisione la considerava uno dei migliori elementi della sua squadra.

Si soffermò sul dossier che si era portato a casa. Gli avevano chiesto di trovare dei cadetti idonei per rimpolpare il team, visto che erano rimasti solo Hotchner e Morgan e lui era stato sospeso ad interim dal lavoro sul campo. Di nuovo sfogliò il fascicolo, mentre un sorriso gli piegava le labbra. Se avesse potuto seguire i propri desideri, avrebbe smosso mari e monti per riportare Sarah a Quantico e poterla avere vicino, cercando magari di ricostruire un rapporto con lei. Ma aveva troppa paura che potesse succederle qualcosa… no, meglio tenerla al sicuro anche se questo voleva dire farsi odiare.

Il ragazzo che aveva scelto gliela ricordava per svariati motivi. Era giovane, solo un anno più vecchio di lei, intelligente, un giovane genio preparato e curioso. Ma le somiglianze finivano lì: Sarah era forte, sicura determinata. Aprì il dossier ed osservò la foto del giovane cadetto: Spencer Reid era timido, impacciato ed insicuro.

Mise da parte i dossier e prese un album di foto che teneva nascosto dietro i libri. Il soggetto di quegli scatti era sempre lo stesso: Sarah Collins. Tornò a sedersi sulla poltrona mentre con un dito percorreva i lineamenti di quel volto così amato e bevve un sorso del cognac che si era versato, riflettendo che le decisioni migliori sono solo quelle che si reputano tali sul momento e che, spesso, sono solo il preludio ad un disastro. Brindò a tutte le decisioni sbagliate che aveva preso in vita sua e che l’avevano portato a ritrovarsi in un inferno personale che si era costruito con le proprie mani.

 

 
Novembre 2007 – Accademia F.B.I., Quantico, Virginia

Morgan l’aspettava sulla porta del cucinino con uno sguardo incoraggiante. Le ricordava quello che le aveva lanciato il giorno prima Rossi. Si permise di sorridere fra se: a quanto sembrava aveva la capacità di suscitare sentimenti protettivi negli agenti che lavoravano in quell’unità. Si girò a guardare la sua scrivania, dove era stata posata una composizione floreale molto bella. Prentiss stava firmando il foglio che un fattorino le porgeva, mentre JJ e Reid osservavano quei fiori dall’aspetto costoso.

-        A quanto sembra qualcuno ha un ammiratore qui… - le sorrise Emily, mentre restituiva ricevuta e penna al ragazzo delle consegne – Direi che sono costati anche parecchio. Abbiamo fatto girare la testa a qualcuno, vero?

Collins non sembrò neanche notare la battuta della collega e andò diritta alla sua postazione, posò la tazza sbattendola leggermente e guardò i fiori con gelido furore.

-        Collins, tutto bene? – le chiese JJ.

La ragazza parve riscuotersi e cercò gli occhi di Morgan, il quale si era messo a sedere davanti a lei. L’uomo scosse la testa, non sapendo cosa dire o pensare. In realtà, per quanto poteva saperne, chiunque avrebbe potuto mandarle quei fiori, anche una persona che la ragazza odiava. Dal canto suo Sarah respirò profondamente, decidendo che una scena isterica davanti a tutti non era proprio l’ideale in quel momento. In realtà non sapeva neanche chi avesse mandato la composizione, rispondendosi subito che era un illusa: chi altri poteva mandarle un regalo del genere? Non voleva tenerli lì, ma non poteva neanche gettarli via come una donnetta isterica. Rifletté un momento, pensando di avere una terza opzione.

-        Dov’è l’ufficio di Garcia? – chiese rivolta a Derek.

-        In fondo al corridoio, l’ultima porta a destra. – le spiegò lui senza perderla di vista – Se vuoi chiederle di rintracciare che ti ha mandato i fiori, non faresti prima a leggere il biglietto?

-        Se mai lo leggo dopo. – rispose infilandolo nella tasca posteriore dei pantaloni – Non mi piacciono i fiori, mentre Garcia mi sembra il tipo che apprezza queste cose.

-        Sì, decisamente Garcia apprezzerà. – confermò JJ – Ma sei sicura di non volerli?

-        Ho già detto di detestare i fiori. – affermò di nuovo, prendendo la composizione ed incamminandosi a passo deciso nel corridoio interno.

Erano sicuramente di Mark, quel bastardo osava mandarle dei fiori! Era furiosa con lui, con se stessa e con il mondo intero. Voleva essere lasciata in pace ed invece tutti si impicciavano della sua vita. Trovava ridicolo l’interesse mostrato dagli altri per quella consegna fuori programma indirizzata a lei: che importava a quella gente? Si fermò pronta a bussare, chiedendosi se tutto quell’interesse non fosse dovuto al fatto che non credevano possibile che, una come lei, potesse avere uno spasimante. Ripensò alla battuta di Prentiss e sentì il furore invaderla di nuovo: perché risultava incredibile che qualcuno potesse amarla? Bussò con più forza del dovuto ed entrò senza attendere risposta.

-        Ehilà, Francesina, cosa ti porta nel mio regno? – Garcia non sembrava turbata da quell’intrusione.

-        Volevo chiederti se... – Sarah fece scorrere lo sguardo su tutti i ninnoli, le cartoline e le foto che riempivano l’ufficio – Ti piacciono i fiori?

-        Io adoro i fiori. – rispose Penelope alzandosi per ricevere la composizione – Sono per me?

-        Chi li ha mandati non mi conosce molto bene, io detesto i fiori. – ripeté di nuovo la storia che aveva propinato agli altri – Però ho pensato che fosse un peccato buttarli e che magari tu li avresti apprezzati di più.

-        Hai pensato benissimo. – disse l’informatica, strappandole letteralmente il vaso dalle mani – Io adoro i fiori, peccato che non me li mandi mai nessuno. A parte Gideon che una volta…

-        Gideon? Gideon ti mandava dei fiori? – Collins staccò gli occhi dai colori sgargianti delle cianfrusaglie di Garcia per guardarla stupita.

-        Una volta sola. – ammise con aria rammaricata che fece subito posto al suo sorriso aperto e gioviale – Ma solo perché… sai, io sono abbastanza maniaca per quel che riguarda il mio ufficio. Durante un’indagine lui non era partito con il resto del gruppo perché si era rotto una gamba[2] e… diciamo che aveva portato molto scompiglio qui dentro. Per farsi perdonare mi aveva mandato dei fiori bellissimi.

Li sistemò sul tavolo e li ammirò soddisfatta, per poi girarsi di nuovo verso la sua ospite.

-        Ora che mi ricordo, erano molto simili a questi, sai?

Sarah sentì un colpo al cuore a quelle parole, ma cercò di fare finta di niente preferendo non risponderle, limitandosi ad annuire per poi uscire dalla stanza richiudendosi la porta alle spalle. Invece di incamminarsi verso la sua scrivania, andò in bagno con il cuore che le batteva forte. Non sapeva perché, ma quella storia e il commento finale di Garcia le avevano fatto venire un groppo in gola. Entrò in uno dei bagni e chiuse con il chiavistello per poi tirare fuori il biglietto che aveva messo nella tasca dei jeans.

Jason aveva mandato dei fiori a Garcia, fiori simili a quelli che lei aveva appena ricevuto. Le tremavano le mani, mentre osservava la piccola busta bianca. Jason aveva inviato quei fiori perché si rendeva conto di aver messo a soqquadro l’ufficio di Penelope; perché non avrebbe dovuto mandarli a lei dopo averle incasinato la vita?[3] Chiuse gli occhi cercando di immaginare cosa poteva averle scritto sul biglietto, ma non riusciva a formulare un ipotesi.

A parti inverse se fosse stata lei a ferirlo, a rifiutarlo, a metterlo da parte, cosa avrebbe potuto scrivergli per farsi perdonare? Conoscendo il proprio carattere, dubitava fortemente che avrebbe trovato il coraggio per fare un gesto di riconciliazione, non avrebbe mai saputo cosa dire o fare per rimediare a quegli errori.

Riaprì gli occhi e fissò il biglietto che teneva in mano: poteva fugare tutti i dubbi in quel momento, semplicemente leggendolo. Si disse che non aveva importanza, che era meglio non sapere e non farsi illusioni. Se fosse stato veramente di Mark sarebbe stato troppo crudele. Eppure sentiva di dover sapere, con la speranza nel cuore. Aprì la busta ed estrasse il cartoncino, riconoscendo subito la scrittura antiquata e obliqua che aveva visto così spesso riempire i margini dei suoi compiti. Sentì le lacrime riempirle gli occhi mentre leggeva.

Best wish for your new job

With all my love

Jason”

 
 

Febbraio 2002 – Appartamento di Jason Gideon, Quantico, Virginia

Era seduta su di uno sgabello davanti la penisola dell’angolo cottura, mentre Jason era intento a preparare la cena. Non le aveva permesso di aiutarlo, sostenendo che preferiva fare da solo per essere sicuro di non dimenticare niente. Sarah sorseggiava un bicchiere di vino rosso, cosa che in situazioni normali non avrebbe potuto fare visto che non aveva ancora l’età[4], ma Gideon aveva deciso che in quella serata speciale si poteva fare un’eccezione.

In sottofondo c’era la musica di Frank Sinatra, ma non l’album che gli aveva regalato lei. La cosa le era sembrata strana, ma aveva deciso di soprassedere. In fin dei conti anche lei adorava “The Voice”, ricordava la sua infanzia quando suo padre passava ore ad ascoltare i vecchi successi del cantante italo-americano. Sospirò, mentre dagli altoparlanti arrivavano le prime note della canzone preferita di suo padre: My Way. Decise di cercare di intavolare qualche tipo di conversazione con il suo ospite.

-        Allora, come è andata la serata con Stephen? – prese un sorso di vino e lo guardò di sottecchi, notando che l’uomo era rimasto impassibile.

-        Credo che non riuscirò mai a farmi perdonare da lui. Il divorzio da sua madre è stato traumatico e doloroso per un bambino, inoltre sono stato un padre assente. – si girò afferrando la saliera ed evitando lo sguardo di Collins.

-        Sai, a volte è difficile perdonare i genitori per gli errori che hanno commesso. – la ragazza si rendeva conto di essere in un campo minato – Stephen è un ragazzo intelligente, vedrai che capirà e potrete costruire un rapporto.

-        Non lo conosci.

-        No, effettivamente non lo conosco, anche se mi piacerebbe. – rispose lei laconica.

-        Sarah… il mio rapporto con lui è già difficile così, senza che io debba spiegargli che… - la guardò abbassando le spalle in segno di resa.

-        Capisco benissimo, figurati. – si alzò in piedi e fece il giro della penisola – Io non pretendo niente, Jason. Voglio solo la possibilità di stare un po’ con te.

I due si guardarono intensamente, come se le emozioni che provavo entrambi in quel momento non potessero essere espresse con le parole. Jason le tolse il bicchiere dalle mani e la portò al centro del salotto, per poi passarle un braccio intorno alla vita e cominciare a ballare con lei.

-        Ascolta. – gli ordinò la ragazza, intonando le parole – “There were times, I'm sure you knew
When I bit off more than I could chew.”[5] 
Mio padre aveva sempre un’espressione strana quando arrivava questo passaggio.

-        Mi dispiace. – Jason la guardò negli occhi e si sentì triste.

-        Non devi. Ora so perché aveva quella faccia, ma tutti dobbiamo mandare giù qualche rospo prima o poi: lui ha reagito meglio di molti altri.

Rimasero in silenzio a ballare, mentre la musica finiva.

 

Continua…



[1] Tratto dalla one-shot “Personal hell

[2] Episodio 1x11 “Sete di sangue”

[3] In realtà, a fine dell’episodio 1x12, si scopre che i fiori li aveva inviati Hotch spiegando a Gideon che a volte le persone si devono sentire apprezzate. Jason gli risponde che aveva già fatto un regalo a Garcia: un lettore mp3, che durava più a lungo XD e dice a voce alta che corre il rischio che Penelope creda che la stia corteggiando. XD

[4] In America l’età minima per bere alcolici è ventuno anni.

[5] In questa long viene fatto riferimento alla traduzione letterale e non al significato inglese. Tradotto: Ci sono state volte, sono sicuro lo sai, ho ingoiato più di quello che potessi masticare.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


capitolo 6

Novembre 2007 – Accademia F.B.I., Quantico, Virginia

 
Avrebbe voluto che il tempo si fermasse e non fosse costretta ad uscire dal suo nascondiglio. Sapeva che fuori da lì l’aspettava la realtà che non voleva affrontare in quel momento di pura gioia: la Strauss e il suo piano; quello che le era successo; i suoi colleghi e la decisione di tradirli o meno. Rimise il biglietto nella busta e lo sistemò nella tasca posteriore dei jeans, nell’attesa di tornare nel suo appartamento e trovare un posto sicuro dove nascondere quell’unica prova che Gideon non l’aveva abbandonata e dimenticata.

Già mentre apriva la porta dei bagni, sentì il buonumore abbandonarla. In fin dei conti non ci voleva molto a scriverle un biglietto e inviarle dei fiori. Jason era un profiler e la conosceva abbastanza da sapere quali erano i tasti giusti per convincerla a proteggere la squadra a discapito di sé stessa. Si incamminò lungo il corridoio intero, sperando che la giornata scorresse via senza ulteriori scossoni e che le fosse lasciato il tempo di riflettere su tutta quella storia.

Le sue speranze erano destinate ad essere disattese: la caposezione era ferma vicino alla sua scrivania e la stava aspettando con uno sguardo contrariato che era tutto un programma. Si limitò a fermarsi a pochi passi da lei e guardarla indifferente; avrebbe lasciato a lei la prima mossa e poi avrebbe agito di conseguenza.

-        Agente Collins, vorrei sapere a che punto si trova con il lavoro che le avevo affidato. – esordì Erin guardandola dritta negli occhi – Il procuratore distrettuale è ansioso di sapere le sue opinioni in merito a quelle testimonianze.

Sarah si concesse un sorrisino sarcastico: sapevano entrambe che l’incarico che le aveva affidato quella vecchia arpia non riguardava quei fascicoli. Tornò seria e la superò prendendo dei fogli dalla stampante.

-        Ho finito di riguardare i file video e sto trascrivendo le mie conclusioni. – sistemò i fogli in gruppi fermandoli con delle attaché, per poi dividerli e inserirle in varie cartelline – Mi mancano ancora la metà delle trascrizioni, ma penso di riuscire a finire per stasera… domani al massimo.

-        Per il momento, prenda i file già pronti e li porti nel mio ufficio. – la donna più anziana si voltò incamminandosi – Li riguarderemo insieme prima di inviarli in procura.

-        Come desidera, caposezione. – le rispose Collins senza guardarla.

Ricontrollò il materiale, prendendosela con molta calma sotto lo sguardo di Morgan che controllava ogni suo più piccolo movimento. Aveva intenzione di non affrettarsi, che la vecchia strega cuocesse nel suo brodo: non aveva intenzione di scattare ogni volta che Erin schioccava le dita.

-        Ti conviene sbrigarti. – l’ammonì Derek – La caposezione Strauss non è un tipo molto paziente e, fidati, non vuoi irritarla più dello stretto necessario.

-        E perché mai non dovrei irritarla? – chiese Sarah distrattamente, senza guardarlo.

-        Può renderti la vita abbastanza difficile. – Morgan tornò a fissare il monitor – Ti vorrei ricordare, inoltre, che può decidere di spostare il personale come meglio crede. Ma questo sono sicuro che già lo sai.

-        Aggiungerei che lo fa senza curarsi di cosa pensa l’agente interessato o il suo diretto superiore. – convenne lei – Tra le altre cose, sembra che il nostro capo non sia molto contento per il modo in cui la Strauss mi ha assegnata alla vostra squadra.

-        Ti piacciono gli eufemismi, vero? – scherzò Derek.

-        Di solito sono molto più diretta, ma non vorrei sembrare sgarbata. – rispose con un’alzata di spalle.

L’uomo si alzò in piedi, fece il giro e si appoggiò con le anche alla scrivania della sua collega, chinandosi verso di lei con fare cospiratorio.

-        Fammi sentire quanto puoi essere sgarbata. – la sfidò.

-        Da piccola avevo un gatto e mio padre decise di farlo castrare quando aveva già un paio di anni. – raccontò la ragazza all’orecchio di Morgan – Ricordo che per tutta la settimana successiva era irritato e si nascondeva di continuo, soffiando a chiunque osasse avvicinarsi. Beh, Hotch in questo momento mi ricorda il mio gatto appena castrato.

Derek buttò indietro la testa scoppiando a ridere, mentre Prentiss e Reid li guardavano interdetti non avendo sentito l’ultima parte della conversazione. Sarah, che non aveva perso il suo sguardo serio e apatico neanche per un momento, si sistemò fra le braccia i fascicoli che aveva finito di sistemare e si apprestò a recarsi dalla caposezione. Appena sulla soglia del corridoio interno si voltò a guardare Morgan e gli sorrise con aria complice.

-        Ricorda che mi sono anche trattenuta. – gli confidò con un sogghigno – Mi vengono analogie anche meno carine, relativamente a questa situazione.

L’uomo scosse la testa e le sorrise mentre tornava alla propria postazione.

 

Hotch era in piedi con le mani dietro la schiena e guardava dalla vetrata che dava sull’openspace. Osservò con molto interesse la scena fra la Strauss e Collins, prima, e quella molto meno seria fra la ragazza e Morgan. Rossi, alle sue spalle, era seduto con un piede sul ginocchio e beveva il suo caffè; era andato nell’ufficio di Aaron circa mezz’ora prima, ma Hotch non aveva proferito parola, limitandosi a controllare ogni minimo movimento del resto della squadra.

David meditò che non serviva essere un profiler con la sua esperienza per capire il nervosismo del capo della squadra. Tutti si erano resi conto che c’era qualcosa di strano nel trasferimento di Collins: il fatto che fosse stato così repentino e senza nessun preavviso; il dossier della ragazza sembrava essersi volatilizzato nel nulla; la ragazza aveva un atteggiamento schivo nei confronti di tutti. Era logico arrivare alla conclusione che la ragazza avesse un incarico da svolgere per il caposezione e, visto che la Strauss non sopportava Aaron per un motivo che quest’ultimo si rifiutava di rivelare, era probabile che dovesse spiare la squadra per conto di Erin. Il vecchio profiler lasciò che la mente vagasse libera, nell’attesa che il suo amico si decidesse a rivelargli perché gli aveva chiesto di recarsi nel suo ufficio.

I suoi pensieri si soffermarono su un vecchio ricordo ma che il tempo non aveva alterato. Il viso sorridente di Mary Elisabeth: donna bella ed intelligente, con uno spiccato senso dell’umorismo e con uno sguardo colmo di serenità. Una persona difficile da dimenticare e che poteva cambiare la vita di un uomo che avesse avuto la fortuna di incrociarne la strada. Si voltò a guardare fuori dalla finestra e pensò a Sarah.

La ragazza era molto bella, ma le somiglianze con sua madre si fermavano ai lineamenti del viso. Il colore dei capelli e degli occhi era diverso, come diverso appariva il loro carattere. Mary era una donna allegra ed aperta, sua figlia era taciturna e con un velo di tristezza negli occhi che non l’abbandonava mai. Si chiese come fosse stata quella strana ragazza prima che l’incidente di otto anni prima spazzasse via la sua famiglia. Un'altra domanda continuava a tormentarlo: perché non gli aveva detto che anche Richard era morto in quell’incidente? Cosa sapeva esattamente la ragazza della vita dei suoi genitori prima della sua nascita?

-        Cosa sai di Collins? – la voce di Hotch lo riportò alla realtà.

Si schiarì la voce e guardò il contenuto del suo bicchiere, come se quel liquido scuro contenesse le risposte a tutte le domande.

-        Ero qui quando ti ha elencato il suo curriculum. – rimase sul vago, incerto su cosa rivelare e cosa no – Vedrai che una volta che gli incartamenti salteranno fuori sarà tutto molto più chiaro.

-        Tu sai molto di più di quello che Collins ci ha detto l’altro giorno. – Aaron si girò a guardarlo in modo torvo – Ho sentito quello che hai detto al resto della squadra sul “peso del suo mondo”.

-        Hotch, so che sembra che io ti stia nascondendo chissà quali informazioni, ma non è così. – Rossi sospirò e ricambiò lo sguardo del collega – Di lei, professionalmente parlando, non so molto più di voi. Posso solo aggiungere che conoscevo sua madre molto tempo fa, ma non l’ho più vista da prima che Collins nascesse.

-        Quindi non ne sai molto più di me. – si arrese il caposquadra, andando a sedersi dietro la sua scrivania – Posso solo aggiungere che, quando lei studiava in accademia, Gideon ha rischiato il suo posto e la sua reputazione per quella ragazza.

-        Cosa intendi dire? – David si sporse in avanti, accigliandosi.

-        Solo pettegolezzi, voci a cui io non credo. Conosco troppo bene Gideon per dare retta alle chiacchiere di qualche cadetto geloso del successo di una collega. – aprì uno dei fascicoli che JJ gli aveva portato quella mattina – Nessuno dei piani altri prese provvedimenti, ma la reputazione è tutto nel nostro ambiente e credo che Gideon avrebbe dovuto mantenere maggior distacco. A riprova che erano solo voci, da quello che ho saputo in seguito, il loro rapporto era molto simile a quello che poi ha instaurato con Reid.

-        Maestro e allievo. I cadetti dovrebbero studiare di più e spettegolare di meno. – chiuse il discorso Rossi – Mi hai chiamato per questo?

-        No. – gli allungò un dossier, con aria preoccupata – JJ me lo ha dato questa mattina e volevo anche una tua opinione in merito.

-        Si torna al lavoro. – ironizzò David prendendo il fascicolo.

 

La segretaria della Strauss alzò la testa, avvertendo una presenza davanti alla sua scrivania. Due occhi verdi, freddi ed inespressivi, la fissavano intensamente, tanto che la donna abbassò lo sguardo a disagio.

-        La caposezione mi ha convocata. – la voce era calda e profonda, ma le parole erano state dette con un tono neutro – Sono l’agente Sarah Collins.

-        Certo agente Collins. – la ricordava bene, quella era la terza volta che la vedeva nell’ufficio del suo capo e tutte le volte si sentiva infastidita sotto quello sguardo vuoto e apatico – Passi pure, la caposezione la sta aspettando.

La ragazza mora la superò senza rivolgerle un saluto, come se quella donna non esistesse per lei, come se facesse parte del mobilio. La segretaria meditò che Collins e Strauss dovevano andare molto d’accordo: entrambe erano altezzose e piene di sé.

Una volta chiusa la porta alle sue spalle, Sarah si avvicinò con passo sicuro alla scrivania di Erin che la guardava sorridendo. Si fermò quando le gambe toccarono il bordo del tavolo e lasciò andare i fascicoli, che aveva tenuto in mano fino a quel momento, come se fossero topi morti.

-        Non ti salti più in mente di venire di là a cercarmi. – il suo sguardo si era fatto di fuoco e si chinò con fare minaccioso verso la Strauss – Vuoi mandare tutto all’aria?

-        Non ti permettere mai più di parlarmi così. – Erin fece uno sforzo su sé stessa per non alzare la voce – Qui comando io. Forse anche tu, come l’agente Hotchner, tendi a dimenticarlo.

-        Non l’ho dimenticato, ma è anche vero che tu vuoi dei risultati. Li pretendi. – fece una smorfia con le labbra come se stesse ringhiando – Se vedono che io vengo nel tuo ufficio, non ti salta in mente che potrebbero insospettirsi ancora di più?

-        Hanno dei sospetti? – la donna più grande sembrò allarmarsi – Ero convinta di aver recitato bene e…

-        Recitato bene? Hai fatto sparire il mio fascicolo, non hai avvertito nessuno del mio trasferimento, ti permetti di affidarmi degli incarichi scavalcando il mio diretto superiore. Non mi sembra che tu stia recitando così bene. – si mise a sedere, continuando a guardarla in malo modo – Ti spiego io cosa avresti dovuto fare. Quando ti ho detto che accettavo il trasferimento, avresti dovuto paventare la possibilità dell’inserimento di un altro agente. Quando sono arrivata, avresti dovuto fornire a Garcia il mio dossier cartaceo, magari edulcorandolo dove necessario. Avresti dovuto proporre quest’incarico all’agente Hotchner, sostenendo che poteva essere un buon banco di prova per le mie capacità. Ecco cosa dovevi fare per recitare bene.

-        Non ti permetto di…

-        Non permetti, non permetti. – Sarah la guardò disgustata – Mi hai assegnato un incarico, dicendo che per te era importante, eppure stai facendo di tutto per mettermi i bastoni fra le ruote.

-        Quel che è fatto è fatto. – la Strauss cercò di recuperare la situazione mostrando noncuranza – Piuttosto, mi dici a che punto siamo? Non sei venuta ancora a fare rapporto.

-        Non verrò a fare rapporto, MAI. – sorrise in modo arrogante – Se e quando ci sarà qualcosa da riferirti ti chiamerò sul telefono prepagato che ti ho consegnato quando sono venuta la prima volta.

-        Ti comporti come se fossimo due agenti della CIA e questo fosse un problema di sicurezza nazionale. – la prese in giro la donna, assumendo un atteggiamento superiore – Ti conviene ridimensionare le tue fantasie.

-        E a te conviene non prendere sotto gamba i tuoi avversari. Garcia è un’ottima hacker: se decidesse di mettersi di punta, scoprirebbe immediatamente se abbiamo parlato fuori dall’ufficio. Aaron Hotchner non è uno stupido: se vengo troppo spesso nel tuo ufficio, saprà che i suoi sospetti sono fondati e metterà tutta la squadra sul chi vive. – giocò con la ciocca rossa che pendeva al lato del viso – Chi è che deve ridimensionare le proprie fantasie? Non sei così intoccabile e potente come credi. I tuoi subalterni potrebbero farti le scarpe in un attimo se non prendi delle precauzioni elementari come i cellulari prepagati per parlare con me.

Erin si alzò in piedi e si diresse verso la finestra, dando le spalle alla sua interlocutrice. Non voleva darle la soddisfazione di vedere come le sue parole l’avessero turbata e tantomeno voleva affrontare lo sguardo freddo e distaccato di quella ragazzina che l’aveva umiliata sbattendole in faccia che il suo piano poteva essere scoperto.

-        Visto che ormai siamo qui, ti dispiace dirmi a che punto sei? – si voltò di nuovo verso Sarah, una volta recuperata la calma.

-        Per il momento ho delle informazioni che non posso comunicarti. – alzò la mano per troncare sul nascere la risposta di Erin – Non ho le prove di quello che so e tu mi hai detto che devono essere accuse che si possono dimostrare.

-        Come pensi di muoverti ora?

-        Per prima cosa, tira fuori il mio dossier e vediamo se ci sono cose che possono destare la loro curiosità. Oggi pomeriggio, con calma, lo porterai a Garcia, dicendole che finalmente sei riuscita a risolvere con l’ufficio del personale. – notò lo sguardo contrariato della donna e sorrise sarcastica – Forse è meglio che la convochi e le fai una lavata di testa perché hai dovuto perdere tempo a risolvere la situazione. E’ molto più nel tuo stile essere così arrogante.

-        Non osare!

Collins fece spallucce mentre un sorriso soddisfatto le si stampò sulle labbra alla vista di Erin che si sedeva mesta e tirava fuori il suo dossier. Finito di controllare il proprio curriculum, si alzò dalla sedia e portò due dita unite all’altezza della fronte, a mo’ di saluto.

-        Ci sentiamo. – disse voltandosi.

-        Aspetta! – Erin si inumidì le labbra – Voglio farti una domanda.

-        Quanto siamo curiose. – la prese in giro la ragazza più giovane, continuando a camminare verso l’uscita.

-        Mi hai chiesto di essere assegnata in via definitiva a Washington, se riuscirai a portare a termine l’incarico che ti ho affidato. – sospirò, mentre il suo sguardo si faceva più intenso – Pensavo che mi chiedessi qualcos’altro…

-        Non mi riguarda più. – fu la risposta laconica di Sarah.

-        Che vorresti dire? Come puoi parlare così? – la Strauss era scioccata.

-        Sentimi bene. – le intimò Collins, con uno sguardo di fuoco – E’ tutta una farsa e l’ipocrisia con cui propinava tutte quelle sue storie sulla lealtà, sull’onesta, sul non ferire gli altri, mi fa venire il vomito. Ora è una cosa fra voi due, io me ne lavo le mani.

Aprì la porta e la richiuse sbattendola, lasciando Erin a bocca aperta che cercava di riprendersi da tutto l’odio e il rancore che la ragazza aveva sputato fuori prima di andarsene.

 

JJ era appena uscita dal suo ufficio e si voltò a guardarla mentre Sarah percorreva il corridoio interno con passo deciso e un’espressione truce sul viso. Aspettò pazientemente che la ragazza arrivasse alla sua altezza, sorridendole in modo cordiale.

-        Tutto bene? – le chiese Jennifer.

Sarah non si degnò neanche di risponderle, superandola come se non l’avesse vista. Era furiosa e in quel momento il suo cervello faceva avanti e indietro fra il presente e il passato. Flash di ricordi della sua infanzia e della sua adolescenza si alternavano a ricordi più recenti e dolorosi. Oramai era conscia di essere solo una pedina che Jason ed Erin si stavano litigando per usarla per i loro scopi. Non era neanche una persona: era un’arma da puntare contro il nemico.

Beh, meditò superando le porte dell’openspace, presto quei due avrebbero avuto una sgradita sorpresa. D’ora in avanti avrebbe pensato solo al suo tornaconto personale, se fosse stato necessario fare il doppio gioco e fregare sia l’uno che l’altra, l’avrebbe fatto senza pensarci due volte. Nessuno si curava di lei, perché avrebbe dovuto preoccuparsi lei degli altri?

Mentre passava posò gli occhi su Morgan. Era il primo della lista delle persone che avrebbe dovuto fregare per portare a termine il suo piano: tanto peggio per lui. Provò a sedersi, ma qualcosa che aveva nella tasca davanti dei jeans le dava fastidio, così vi infilò la mano per sistemarla e potersi sedere. Sentì la consistenza del biglietto da visita che il suo nuovo collega le aveva dato quella mattina. Lui si era dimostrato pronto ad aiutarla senza pretendere nulla in cambio, aveva mostrato di preoccuparsi per lei. Sentì una fitta alla bocca dello stomaco: poteva sacrificare l’unica persona che le aveva mostrato un po’ di calore?

I suoi pensieri furono interrotti perché, con la coda dell’occhio, notò Rossi e Hotch che uscivano dall’ufficio di quest’ultimo. Il loro capo teneva un fascicolo in mano e guardò ognuno di loro, compresa JJ che era ferma vicino alla porta a vetri.

-        Vi voglio tutti in sala riunioni fra dieci minuti. – annunciò con piglio deciso e dirigendosi lui per primo verso la stanza alla fine del ballatoio – JJ, avverti Garcia.

-        Subito, Hotch. – rispose prontamente l’agente, ma prima di uscire lanciò uno sguardo a Collins che continuava ad ignorarla.

Dal canto suo Sarah aprì un cassetto e tirò fuori una cartella in pelle corredata di block notes e l’aprì per infilarci dentro tre penne e due matite; meditò un momento prima di aggiungere una gomma. Alzò gli occhi e incontrò lo sguardo di Derek che scuoteva la testa con un sorriso ironico stampato sul volto.

-        Sei sicura che le penne basteranno? Vuoi aggiungere anche un paio di evidenziatori? – la prese in giro.

-        Preferisco essere preparata. – rispose in modo sgarbato e guardandolo con sufficienza – Prendo molto sul serio il mio lavoro.

Si alzò in piedi e si diresse verso le scale che portavano alla sala riunioni, non degnando di uno sguardo il resto della squadra. Continuava solo a pensare che doveva prendersi cura di sé stessa e per farlo avrebbe dovuto fare del male a quelle persone: era meglio non allacciare rapporti troppo stretti con loro. Avrebbe trovato il modo di raccogliere le prove senza farsi coinvolgere emotivamente.

Entrò nella stanza e si mise a sedere vicino a Hotch, proprio di fronte al posto occupato da Rossi. Collins si accomodò, incrociò le gambe e poggiò le braccia sui braccioli, poi chiuse gli occhi e aspettò che la riunione cominciasse. Non voleva vederli o interagire con loro. Stavano rendendo tutto dannatamente difficile e lei odiava le complicazioni.

 
 

Continua…

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


capitolo 7

Novembre 2007 – Accademia F.B.I., Quantico, Virginia


Morgan, Prentiss e Reid entrarono, prendendo posto attorno al tavolo e guardando Collins per poi lanciarsi occhiate dubbiose fra di loro. Per ultime arrivarono Garcia e JJ, quest’ultima aveva il cellulare in mano e stava mandano un messaggio, alzò la testa e mise via l’apparecchio per prendere subito il telecomando ed illustrare il caso. Sul monitor apparve il corpo letteralmente sventrato di quella che una volta era una persona.

-        Jessica Hernandez, 24 anni, di origini messicane. E’ la terza ragazza trovata uccisa al Central Park di New York nell’arco di un mese. Le altre due vittime sono: Mary Farinacci e Kimberly O’Connor, entrambe di 21 anni. – spiegò JJ rivolta verso la squadra.

Mentre la ragazza parlava le immagini sul monitor cambiavano accompagnando il suo racconto,  mostrando le foto delle tre vittime prima e dopo aver incontrato la furia omicida del S.I.

-        Mary Farinacci, residente a Brooklyn studiava alla Columbia, mentre Kimberly O’Connor studiava alla Juilliard. La Hernandez era cameriera in un bar di Manahattan.

-        Quindi, ricapitolando, abbiamo una studentessa, una musicista e una cameriera. – sintetizzò Morgan strofinandosi i polpastrelli – Gruppo piuttosto eterogeneo.

-        Tutte giovani, tutte carine. – Rossi si lisciava il pizzetto.

-        Fisiognomicamente le vittime non hanno nulla in comune. – intervenne Reid guardando verso Hotch.

Mentre la squadra continuava a parlare del caso, Sarah fissava lo schermo senza battere ciglio, la mano sul block-notes ogni tanto prendeva un appunto. Di punto in bianco si volto verso JJ e chiese:

-        Segni di violenza sessuale?

-        Ehm… ecco… difficile dirlo, l’utero delle tre vittime è stato esportato totalmente.

-        Causa della morte? Le vittime sono state uccise sul posto o semplicemente abbandonate lì?

JJ cominciò nervosamente a cercare nei fogli su cui aveva preso appunti.

-        Queste sono le domande basilari quando si esamina un caso. – rincarò la dose Sarah – Non sappiamo neanche se ci troviamo davanti a degli omicidi.

-        Perché? Pensi che si siano suicidate? – ironizzò Derek.

-        Visto che la nostra agente di collegamento non ce lo sa dire, potrebbero essere morti naturali e qualcuno ha profanato dei cadaveri. – lo sguardo della ragazza si fece duro – Accettiamo dei casi senza sapere esattamente cosa abbiamo per le mani?

-        Agente Collins, la pregherei di moderare i toni. – intervenne Hotch guardandola severamente – Sono sicuro che le risposte alle sue domande sono nei fascicoli che contengono i referti medici.

Lo sguardo di Sarah si spostò sul caposquadra e un sorriso sarcastico le apparve sul bel viso.

-        Immagino che sia così che vi approcciate ai casi. Colpa mia, dovrò abituarmi al lavoro approssimativo degli altri. – afferrò la cartella di pelle e si alzò con piglio deciso – Posso sapere almeno quando partiamo, oppure anche questo è indefinito?

-        Partiamo fra venti minuti. – disse Aaron al resto della squadra per poi tornare a fissare Collins – Gradirei parlare in privato prima di partire.

I loro sguardi si fissarono, Hotch era molto arrabbiato e Sarah lo stava sfidando apertamente con un sorriso divertito stampato sul volto. Rossi fece cenno gli altri di andarsene e la squadra si allontanò alla chetichella, mentre l’aria all’interno della sala riunioni si era fatta irrespirabile. Aaron aspetto che la porta si richiudesse e guardò David che non aveva seguito gli altri e non sembrava intenzionato a lasciarli solo. Aaron fece finta che la cosa fosse normale e si girò a fronteggiare la sua subalterna.

-        Mi ascolti bene, agente Collins, qui sono io il capo e se c’è qualcosa che non le va bene in merito alla gestione dei casi sarò lieto di spiegarle quello che la lascia perplessa. – il tono era bellicoso e si avvicinò di un passo alla ragazza con fare intimidatorio – Non si permetta mai più di riprendere una sua collega in quel modo. Se ha dei problemi li deve risolvere con me. Sono stato chiaro?

-        Visto che ha detto che mi spiegherà quello che mi lascia perplessa… - cominciò la ragazza con voce cantilenante – Permette sempre ai suoi legami interpersonali con il resto della squadra di avere la meglio su quello che sarebbe il suo dovere? E’ esatto, non dovevo essere io a riprendere l’agente Jereau… Quello era un compito che sarebbe spettato a lei.

-        Direi di calmarci. – intervenne Rossi, sperando di fare da paciere – Collins, sei nervosa e non ti sei ancora ambientata. Questo però non giustifica il tuo attacco ad una collega con più esperienza di te...

-        E dove sarebbe questa esperienza? A cosa serve un agente di collegamento se poi le informazioni le devo reperire da sola? – sbatté con forza la cartella sul tavolo – Fate come volete, risolviamo presto questo caso e poi provvederò a fare subito richiesta per andare in un’altra squadra.

-        Non è necessario. – provò a calmarla Rossi.

-        Mi aspetto di vedere il modulo firmato sulla mia scrivania appena torneremo da New York.

Hotch pose fine alla conversazione uscendo dalla stanza, mentre Collins lo seguiva con lo sguardo e stringeva i pugni. Era visibilmente furiosa e, non avendo altro interlocutore, rivolse la sua rabbia contro Rossi.

-        Mi meraviglio che un agente con la sua esperienza e la sua fama possa tollerare questi atteggiamenti. – incrociò le braccia.

-        Infatti non tollero il tuo di atteggiamento. – David sembrava molto calmo e si mise a sedere – So che non sei abituata a lavorare in squadra e quindi è normale che all’inizio tu sia un po’ spaesata, ma aggredire così una collega e il tuo diretto superiore non è fra le cose più intelligenti che tu possa fare.

-        Quindi la colpa sarebbe mia? – inarcò un sopracciglio – Le sembra normale esporre un caso senza sapere quelle cose?

-        No, ma questo è un problema che risolverà l’agente Hotchner e che non ti riguarda. – l’uomo sorrise – Si prendono più mosche con il miele che con l’aceto: non te lo hanno insegnato? La prossima volta, passaci sopra e poi parlane con calma a Hotch.

-        Non ci sarà una prossima volta. – poggiò le mani sullo schienale della sedia – Il capo è stato chiaro, no? Vuole che firmi il modulo di trasferimento.

-        Parole dette in un momento di rabbia. – minimizzò agitando una mano – Se proprio non puoi sopportare il fatto che il nostro lavoro sia “approssimativo”, esci di qui e dimostraci come si comporta un agente sul campo. Sii professionale.

Sarah gli gettò un’ultima occhiata prima di avviarsi verso la porta. Era ormai con la mano sulla maniglia quando Rossi parlò di nuovo.

-        Spero che tu abbia portato tutto il necessario. – disse mentre si alzava.

-        Molto gentile a preoccuparsi, agente Rossi. Ma non affatichi troppo la sua mente, so cosa necessita per fare BENE il mio lavoro. Sono abituata a badare a me stessa senza bisogno che la mamma venga in mio aiuto già da un bel po’ di tempo. – gli rispose la ragazza uscendo dalla stanza.

 

 
Interno dell’aeroplano

Prentiss, Rossi e Hotch occupavano la postazione da quattro, mentre Reid e JJ erano seduti sul divano laterale e Morgan rimaneva in piedi appoggiato allo schienale della poltrona e guardava di tanto in tanto Collins che se ne stava da sola in fondo all’aereo. La ragazza non aveva più parlato con nessuno da quando avevano lasciato l’accademia e, appena salita a bordo, lei si era accomodata per leggere i referti medici e i vari fascicoli. Nessuno sembrava prestarle molta attenzione mentre cominciavano a discutere del caso.

-        Quindi potrebbero essere raptus improvvisi. – disse Prentiss in risposta ad alcune osservazioni di Rossi.

-        Non credo proprio. – si intromise Collins alzandosi e andando verso di loro con un block notes in mano – Anzi, credo che sia tutto pianificato scrupolosamente e che il nostro S.I. sia molto organizzato e metodico.

-        Cosa glielo fa dire, agente Collins? – Hotch non la guardava neanche mentre sfogliava uno dei dossier.

-        Direi “dottoressa” Collins, vero francesina? – la voce allegra e squillante di Garcia arrivò dagli altoparlanti mentre il viso gioviale della donna appariva sugli schermi dell’aereo – Sono lieta di annunciarti che è finalmente arrivato il tuo dossier, dottoressa.

Si voltarono tutti a guardarla stupiti mentre lei superava Morgan e si accomodava sulla poltrona vuota vicino a Rossi.

-        Grazie della precisazione, Garcia, ma non è mia abitudine usare i miei titoli accademici. – si portò il ciuffo lungo dietro l’orecchio – Anzi, mi infastidisce alquanto.

-        Io sarei fiera di avere conseguito un dottorato in antropologia a solo sedici anni, per non parlare della laurea a quattordici. – si stupì l’informatica.

-        Avevi saltato solo un “paio di classi”, vero? Laurea a quattordici, dottorato a sedici… cosa hai fatto nei quattro anni fra il dottorato e l’ingresso all’accademia? – chiese Rossi sorridendo.

-        Ha preso un altro dottorato in psicologia. – rivelò Penelope – Decisamente sei una persona piena di sorprese.

Sarah aggrottò le sopracciglia, infastidita da tutta l’attenzione destata dai suoi titoli accademici. Odiava ricordarli, perché appartenevano al suo passato, ad una vita che non le apparteneva più e le ricordavano solo tutto quello che aveva perso. Per una frazione di secondo la sua mente tornò indietro, al giorno della cerimonia per il suo dottorato.

 

 

Maggio 1998 – Università di Harvard, Boston, Massachusetts

Era nervosa ed emozionata mentre finiva di vestirsi davanti allo specchio, sapeva che i suoi genitori sarebbero stati puntualissimi e aveva paura di fare tardi. Idolatrava suo padre e lui ricambiava quel trasporto: fin da quando era piccola, nei momenti importanti della sua vita, lui era sempre stato al suo fianco. Sentì bussare alla porta della sua camera e andò ad aprire credendo che fosse la sua coinquilina che aveva dimenticato qualcosa prima di uscire.

Appena aprì la porta si trovò davanti i suoi genitori e rimase di stucco. Per quanto potesse ricordare i suoi erano sempre state due persone molto attente all’abbigliamento, sempre eleganti e vestite come richiedeva l’occasione. Si era aspettata di vederli particolarmente curati, immaginando sua madre con un tailleur dai colori pastello e suo padre in un completo da giorno con tanto di cravatta coordinata. Le sue aspettative non erano state disattese, però sui vestiti portavano due magliette nere con sopra scritto in bianco: “staff personale della dottoressa Collins”. Stavano ancora ridendo dopo avere urlato “sorpresa”.

-        Ma dico, siete impazziti? – chiese scioccata, aggiustandosi i capelli raccolti in una coda.

-        No, siamo solo tanto fieri di te. – rispose il padre abbracciandola e baciandola sulla fronte.

 

 

Novembre 2007 – Interno aeroplano F.B.I.

Sarah si riscosse prontamente, rimproverandosi per essersi lasciata andare a ricordi ormai lontani. Doveva concentrarsi sul caso e sulla sua missione, non perdersi in stupide nostalgie.

Reid, dal canto suo, la guardava di sottecchi: ogni volta che scopriva qualcosa di più sulla sua nuova collega e cercava di farle domande in proposito, lei si limitava a rassicurarlo di essere ancora il più intelligente, il genio della squadra. C’erano così tante domande che gli frullavano nella mente e si chiedeva fino a che punto il suo passato e quello di Collins fossero simili. Finiva sempre con il rispondersi che dovevano essere stati molto diversi: in fin dei conti lei era così fredda, strana, aggressiva. Soppesò l’ultimo aggettivo che gli era venuto in mente, giudicandolo troppo duro per definirla. In fin dei conti era stata molto gentile la notte prima, quando l’aveva scoperto fermo sul marciapiede davanti all’appartamento che una volta era stato di Gideon. L’aveva fatto salire in piena notte, si era preoccupata che avesse preso freddo, gli aveva preparato un latte caldo con del whisky per farlo scaldare; era stata molto premurosa. Eppure durante la riunione era stata molto sgarbata con JJ e, ricordando tutta la situazione, “aggressiva” era la parola che meglio definiva l’atteggiamento che aveva avuto. Si voltò leggermente per osservare JJ di sottecchi mentre l’agente di collegamento si limitava a tenere lo sguardo su Hotch e Prentiss.

-        Garcia, possiamo tornare al caso? – Aaron guardò l’ultima arrivata con uno sguardo duro.

-        Certo, capo. – cominciò a battere furiosamente sulla sua tastiera – Le vittime non sembrano essere legate fra di loro in nessun modo. Vivevano in zone diverse, studiavano in istituti diversi, estrazione sociale simile per Farinacci e la Hernandez, ma non sembra esserci alcun legame fra le due.

-        Quindi le vittime sono diverse per estrazione sociale, quartiere, aspetto e razza. – ricapitolò Morgan – Le prime due vittime erano bianche, mentre l’ultima era ispanica.

-        La Farinacci e la Hernandez erano more, la O’Connor bionda. – continuò Reid, riflettendo a voce alta, per poi girarsi verso Collins – Non hai risposto.

-        A cosa? – Sarah sbatté le palpebre interdetta.

-        Hotch ti aveva chiesto cosa ti fa dire che è organizzato e metodico. – le ricordò il ragazzo.

-        Ho letto i referti delle autopsie e le conclusioni del medico legale. – guardò JJ con aria di sfida – A quanto pare sul luogo dei ritrovamenti non ci sono tracce di sangue, quindi le uccide da qualche parte e poi le scarica a Central Park. Le analisi hanno evidenziato la presenza di tubocurarina e tiopentale nell’organismo.

-        Quindi le paralizza e le addormenta. – osservò Spencer, tornado a guardare i referti.

-        Peccato che non si preoccupi di intubarle. – rispose Sarah con una smorfia – Sono tutte morte per asfissia.

-        Le soffoca? – chiese Morgan.

-        No, la tubocurarina è un miorilassante. – cominciò a spiegare Reid, ben presto rendendosi conto che nessuno lo seguiva.

-        Un miorilassante? – chiese infatti Prentiss.

-        Praticamente è un alcaloide che blocca le funzioni muscolari – si intromise Collins cercando di spiegare al resto del team – Viene usata in medicina, in combinazione con altri farmaci, per anestetizzare completamente il paziente. Ha però un effetto collaterale: blocca anche il riflesso alla respirazione. Mentre il tiopentale è un ipnotico e serve a far addormentare il paziente.

-        Quindi, visto che non le intuba, le vittime muoiono soffocate. – meditò Prentiss guardando verso Hotch.

-        Stiamo cercando qualcuno che ha conoscenze mediche e facilità a procurarsi farmaci. – Hotch riprese il controllo della discussione – Stiamo parlando di un uomo bianco, fra i trenta e i trentacinque anni.

-        Non dimentichiamoci che il tiopentale causa la perdita di coscienza. – interloquì Spencer – Quindi non è il controllo in sé che lo eccita.

-        Usa quei farmaci solo per tenerle inermi e poter far loro quello che vuole, non è sintomatico della sua mania di controllo? – chiese Morgan.

-        Non necessariamente. Ci sono farmaci che hanno lo stesso effetto ma che non fanno perdere i sensi. – riferì Collins – Io personalmente userei la chetamina, l’atracurio o il doxacurio, che lascerebbero le vittime paralizzate ma coscienti.

-        Sono farmaci più adatti ad un maniaco del controllo. – si trovò d’accordo Reid.

-        Potrebbe essere chiunque. – fece notare Prentiss – Il campo di ricerca è ancora troppo ampio.

-        Garcia, comincia a controllare se ci sono state denuncie per il furto dei medicinali che contengono tubocurarina.

-        Subito, capo. L’oracolo di Quantico si mette all’opera. – Penelope non interruppe il collegamento e fece una faccia strana – Collins, un’ultima cosa, mi dispiace per i tuoi genitori.

-        Sì, mio padre è morto in un incidente d’auto. Ora lo sa anche il resto della squadra. – sbottò la ragazza girandosi verso il monitor – Credevo che i dossier degli agenti fossero riservati. Faccia una bella cosa, invece di tenerlo nel suo ufficio, vada in una tipografia e faccia fare i cartelloni. Così non dovrà più preoccuparsi di informare le persone.

La ragazza chiuse di colpo il fascicolo che teneva in mano e lo gettò in malo modo sul tavolo, per poi alzarsi e tornare al posto che aveva occupato fino all’inizio del confronto con il resto della squadra.

Morgan la seguì con lo sguardo, non l’aveva mai persa di vista e aveva notato il modo in cui la mascella della ragazza si era contratta alle parole di Garcia. La cosa strana era che per un attimo, una frazione di secondo, aveva avuto la netta impressione che la ragazza mentisse a proposito della morte di suo padre.

Garcia chiuse il collegamento senza aggiungere altro, ma tutti erano consci del fatto che fosse rimasta malissimo per le parole della nuova collega. Hotch fece finta di niente e guardò l’orologio, per poi girarsi a guardare Rossi e riprendere la parola.

-        Tra poco atterreremo: Prentiss e Rossi andate dal medico legale; io ricontrollerò gli interrogatori di parenti e amici delle vittime; Reid si occuperà della vittimologia e del profilo geografico; JJ raduna tutto il materiale e cerca di tenere occupata la stampa; Morgan e Collins andate sulle scene dei ritrovamenti.

Collins si limitò a fare spallucce e a guardare il suo nuovo partner di sfuggita, per poi voltarsi verso il finestrino e osservare le nuvole.

 

 

Continua…

 

N.d.A. Ho cercato di informarmi il più possibile sui farmaci usati per le anestesie e sui loro effetti. Non essendo laureata in medicina, mi scuso fin d'ora se dovessero esserci inesattezze relativamente alle sostenze e ai farmaci nominati.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


capitolo 8

Novembre 2007 – New York

 

 

Central Park

Sarah non aveva più rivolto la parola a nessuno dopo l’ultimo scambio di battute con Garcia. Nonostante Morgan avesse tentato due volte di intavolare una conversazione con lei, si era trovato davanti un muro di ghiaccio e aveva gettato la spugna, così che il viaggio fino a Central Park si era svolto nel più completo silenzio.

Collins scese dalla macchina con in mano i dossier e cominciò subito a cercare le foto, mentre Derek faceva il giro del veicolo. Le si fermò a pochi passi di distanza e guardò i poliziotti che sostavano circa duecento metri da loro e che stavano facendo segno di raggiungerli.

-        Dobbiamo andare là. – disse rivolto alla ragazza che continuava a guardare i fascicoli – Non puoi stare in silenzio per tutto il tempo, questo lavoro è fatto soprattutto di condivisione.

Finalmente la ragazza chiuse i fascicoli, dopo averne estratto un paio di immagini. Il suo sguardo era vuoto e assente, mentre si guardava intorno per cercare di orientarsi. Quando finalmente fissò il proprio compagno, sbatté le palpebre come se non si fosse accorta della sua presenza fino a quel momento.

-        Scusami, cosa stavi dicendo? – disse con aria smarrita.

-        Senti, capisco che magari Garcia non sia stata discreta. – cominciò lui con un sospiro – Capisco anche che Hotch ti avrà fatto una bella lavata di capo prima di partire; capisco anche che questo non è un momento sereno per te. Però, punto primo, devi condividere con me quello che pensi del caso.

-        Punto secondo? – chiese lei, sempre apatica.

-        Potevi evitare di comportarti in quel modo con JJ. – sputò fuori, incamminandosi lungo il sentiero.

-        Da quanto tempo la state coprendo? – il tono si era fatto tagliente.

-        Di cosa stai parlando? – Morgan si girò di scatto, tornando sui suoi passi con fare minaccioso – Cosa stai insinuando?

-        Nessuno di voi era stupito della sua impreparazione sul caso. – lo sguardo di Collins si fece duro – Un’agente di collegamento non può fare errori così macroscopici senza che nessuno le dica niente. Eppure nessuno di voi sembrava particolarmente sorpreso che JJ non sapesse rispondere a quelle domande. Deduco che non fosse la prima volta che succedeva e che voi ve lo aspettaste.

-        Tu non sai niente. – Morgan fece una smorfia a metà strada fra un sorriso e un ringhio, per poi andare di nuovo verso i poliziotti che li aspettavano – Ora vuoi muoverti? Dobbiamo fare il sopralluogo di tre scene.

Sarah sorrise mentre lo seguiva, aveva lo sguardo puntato dritto sulle spalle di Derek e le sembrava di vedere un grosso bersaglio disegnatoci sopra. Rallentò il passo, ripensando al biglietto da visita che le aveva dato e meditò che forse poteva salvarlo; forse la Strauss si sarebbe accontentata di JJ come agnello sacrificale.

 

 

Ufficio del medico legale

Prentiss e Rossi erano in attesa del medico legale, dopo che li avevano informati che stava finendo un’autopsia e avrebbe cercato di essere da loro nel più breve tempo possibile. Anche loro non avevano parlato molto dopo lo scoppio di Collins nei confronti di Garcia. Rossi le fece cenno di sedersi su una delle sedie libere dello studio e si accomodò accanto a lei.

-        Se dobbiamo aspettare, sarà meglio metterci comodi. – le disse dandole un colpetto sul ginocchio con la mano destra – Giornata piena di emozioni e urla, vero?

-        Collins… la ricordavo diversa. – fu la laconica risposta di Emily, che continuava a guardarsi intorno.

-        La conoscevi bene?

-        No, come ho già detto ci scambiavamo solo i saluti di rito. – sospirò spostando lo sguardo sul suo interlocutore – La ricordo come una ragazza taciturna e riservata, durante le riunioni mattutine per l’assegnazione di casi se ne stava sempre seduta in fondo a prendere appunti. Non è mai stata così aggressiva, non l’ho mai vista attaccare una persona in quel modo.

Dopo aver finito la frase, spostò di nuovo lo sguardo sulle vetrate, come attendendo il medico legale. L’unica cosa che tradiva il suo nervosismo era il fatto che continuasse a tormentarsi le dita.

-        Sono passati due anni, la gente cambia. – Rossi usò un tono annoiato, eppure guardava Prentiss insistentemente, come aspettando che lei aggiungesse qualcosa.

-        Non così tanto in così poco tempo. E’ assurdo, non la conosco così bene da poterlo dire, ma… non è più lei. Rossi, credo che le sia successo qualcosa, qualcosa di brutto. – puntò gli occhi in quelli di David, con uno sguardo preoccupato – Credo che la Strauss l’abbia mandata a spiare Hotch.

Fu la volta di Dave di sospirare e spostare lo sguardo. Corrugò le sopracciglia, come se stesse valutando quello che aveva appena detto Prentiss e poi scosse la testa con fare rassegnato.

-        Possiamo solo aver fiducia in lei. – mormorò – Sperare che faccia la cosa giusta.

-        Non avrebbe dovuto trattare così JJ. – disse Emily.

-        No, ma di questo se ne deve occupare Hotch. Non deve diventare un nostro problema, perché se hai ragione ne abbiamo già troppi.

 

 

Stazione di polizia

Hotch ripensò a quello che era successo la mattina fra il loro agente di collegamento e l’ultima arrivata della squadra, mentre camminava per i corridoi della stazione di polizia. C’era andato giù pesante con Collins, era furioso e non si pentiva di averle detto quelle cose. Non tollerava che la sua leadership fosse messa in dubbio, tantomeno da un agente appena arrivato e che gli era stato imposto dalla Strauss.

Sapeva che quella ragazza era stata assegnata alla loro squadra per spiarli, non aveva dubbi al riguardo. Non era particolarmente preoccupato della cosa, sapeva che la caposezione lo teneva costantemente sotto osservazione e che aspettava solo un suo passo falso. Se quella donna avesse deciso di liberarsi di lui avrebbe trovato il modo, che ci fosse una motivazione o meno.

Per mantenere al sicuro la squadra avrebbe dovuto fare in modo che nessuno di loro fosse attaccabile, questo lo aveva capito già da tempo. Eppure aveva mancato al suo compito di assicurarsi che nessuno dei suoi agenti fosse nella posizione di essere sostituito.

Raggiunse JJ nella sala fax, osservò un attimo la collega e si assicurò che non ci fosse nessun’altro lì con loro prima di chiudere la porta. Avrebbe dovuto parlare con lei già da tempo ed invece aveva sempre rimandato, con il risultato che quella mattina qualcun altro era venuto a conoscenza di quel problema.

-        JJ, dobbiamo parlare. – disse chiudendo la porta alle proprie spalle.

-        Dimmi Hotch. – Jennifer si girò a guardarlo, sembrava ancora scossa.

-        Riguarda il tuo rendimento sul lavoro e quello che è successo stamani mentre esponevi il caso… non so come dirlo in modo gentile, quindi sarò diretto. JJ che cosa ti sta succedendo? Sei sempre soprapensiero, sei approssimativa nel tuo lavoro e certe volte rendi le cose ancora più difficili a tutta la squadra.

JJ sgranò gli occhi blu e rimase un momento in silenzio. Sentiva le lacrime arrivare e cercò di rimandarle indietro.

-        Hotch, mi dispiace se questo è quello che pensi…

-        Non è quello che penso, è quello che vedo. – disse il capo della squadra guardandola fisso - JJ la tua vita privata non mi riguarda, ma se qualcosa ti turba puoi venire a parlarmene tranquillamente. Sono il capo della squadra ma pensavo che fossimo anche amici e il tuo comportamento mi mette in difficoltà in tutte e due i ruoli.

Le mise una mano sulla spalla e aspettò che la ragazza alzasse gli occhi su di lui.

-        Sai che ti sto coprendo, che nessuno al di fuori della squadra sa che ultimamente sei molto “distratta”. – era ancora più serio del solito e contrasse la mascella prima di proseguire – Dovrei dire che “nessuno lo sapeva”. Collins è nuova… non è una di noi, se capisci cosa voglio dire.

-        Potrebbe riferirlo alla Strauss. – annuì Jennifer – In quel caso io sarei nei guai.

-        Sarei nei guai anch’io, per averti coperto. Ora non ci possiamo permettere di essere bersagli facili per la caposezione.

-        Lo so Hotch, scusami. Ti prometto che non capiterà più. Anche se so che non è una giustificazione sto passando un periodo difficile. – JJ sembrava sicura e decisa – Sai quanto questo lavoro sia importante per me! Ti giuro che non capiterà mai più una cosa del genere. Mi concentrerò sul lavoro e terrò i miei problemi personali fuori dall’ufficio.

Hotch fece un leggero sorriso, ma sembrava ancora molto preoccupato. La ragazza parve capire quella sua tensione e si asciugò una lacrima che era sfuggita al suo controllo, prima di parlare di nuovo.

-        Hotch, Collins non mi piace. – disse tutto d’un fiato – Non è per come mi ha trattato durante la riunione o per quello che ha detto, anche perché devo ammettere che aveva ragione…

-        Non avrebbe dovuto permettersi. – provò ad intervenire l’uomo.

-        No, aveva ragione, anche se ha usato quei modi così aggressivi. – lo fermò subito JJ – No, è qualcosa di diverso. Non so come spiegarlo: c’è qualcosa in lei che non mi convince.

Aaron annuì e le diede una pacca sulla spalla, prima di girarsi nuovamente verso la porta per raggiungere Reid, che era rimasto nella stanza che la polizia aveva messo a loro disposizione.

 

 

New York, Central Park

Morgan era fermo davanti alla scena dell’ultimo ritrovamento, era ancora visibile la sagoma del corpo disegnata da quelli della scientifica. Lasciò che il suo sguardo spaziasse per osservare il parco intorno a lui. Erano sotto un ponticello che sormontava un piccolo corso d’acqua, spostando lo sguardo sulla sinistra poteva vedere il Ritz che svettava subito fuori dal parco. Si voltò ad osservare Collins, che continuava a fissare la foto scattata dalla scientifica, senza curarsi di nient’altro.

-        Ehi, bell’addormentata. – la chiamò Derek facendo un passo verso di lei.

-        Non sto dormendo. – fu la laconica risposta della ragazza.

-        Posso dirti due paroline? – le si avvicinò e cominciò a parlare a voce bassa, anche se i poliziotti erano troppo distanti per sentirli – Dobbiamo concentraci sulla scena, a meno che tu non abbia notato qualcosa nelle foto.

-        No, veramente no. – Sarah ripose l’immagine e si voltò a fronteggiare il suo collega – Scusami, è il mio primo sopralluogo dal vero.

-        Cosa? Non hai mai analizzato una scena del crimine? – chiese l’uomo esterrefatto.

-        No, almeno non dal vivo. – la ragazza fece spallucce – Di solito ci limitavamo ad analizzare le foto. Te l’ho detto, noi non agivamo in squadra e non c’era molta interazione. Loro ci mandavano i dossier e noi li analizzavamo, si stilava un profilo e si rinviava tutto alle forze dell’ordine.

-        Una novellina, quindi. – la prese in giro lui, facendole segno di seguirlo.

-        Sono cinque anni che faccio la profiler. – rispose piccata – Non sono una novellina.

-        Relativamente alle scene del crimine, direi che lo sei. – le sorrise lui.

-        Ora fai lo spiritoso e mi sorridi? Non sei più arrabbiato con me perché ho “strapazzato” la biondina? – lo superò per accucciarsi vicino alla sagoma del corpo.

-        Non ho ancora deciso se sei antipatica.

-        Lo sono, fidati. – gli rispose, concentrandosi però sulle pietre del ponte – Non mi sopporto neanche io.

-        Se non ti sopporti da sola, hai un bel problema. – Derek si accucciò accanto a lei, cercando di capire cosa avesse destato l’interesse della ragazza.

Collins estrasse un paio di guanti in nitrile[1] e tastò le pietre sotto lo sguardo attento del suo collega. Si guardò in torno e grugnì indispettita.

-        Per caso hai una torcia? Non si vede niente qui sotto – chiese Sarah senza voltarsi.

-        Io no, però possiamo rimediare subito. – si alzò e chiamò a gran voce i poliziotti che sostavano a qualche metro di distanza – Ehi, ragazzi. Qualcuno ha una torcia?

-        Subito, signore. – rispose il più giovane correndogli incontro.

-        Visto? E’ più facile quando c’è interazione. – la prese in giro Morgan.

-        Lo terrò presente. – sorrise di rimando Collins, senza spostare la mano – Credo di aver trovato qualcosa, ma non ne posso essere sicura prima di poter controllare con una luce adatta e prima di aver visionato le altre scene dei ritrovamenti.

Il poliziotto era arrivato e stava tendendo la torcia a Morgan che la prese e la puntò accesa verso la mano di Sarah.

-        Finalmente un po’ di interazione. Era così difficile? – le chiese sarcastico.

-        Basta che l’interazione si fermi sul campo. – lo redarguì strappandogli di mano la torcia per illuminare meglio quello che aveva trovato – Anche perché non credo di essere il tuo tipo, visto il tipo di persone che ti piacciono.

Derek ricordò improvvisamente quello che lei gli aveva detto nella sala audiovisivi, quando aveva usato la propria preparazione in comunicazione non verbale per ferirlo. Sospirò e chiuse gli occhi, ricordando a sé stesso che in quel momento la ragazza non era del tutto lucida e che poi si era scusata. Se lei era così brava nel suo lavoro, era inutile negare, ma avrebbe dovuto chiarire con la ragazza che quella era un’informazione riservata.

 

 

Ufficio del medico legale

La dottoressa era appena entrata nel proprio ufficio, Prentiss e Rossi prontamente si alzarono in piedi per stringerle la mano. Era una donna sulla cinquantina, dai capelli castani raccolti in un austero chignon e dall’aspetto stanco.

-        Sono la dottoressa Black. – si presentò con voce ferma – Immagino siate qui per le ragazze trovate a Central Park. Il capitano Berger mi aveva avvisato di una vostra possibile visita.

-        Sono l’agente David Rossi. – si presentò l’uomo per poi indicare la donna al suo fianco – E questa è la mia collega, l’agente Emily Prentiss. Effettivamente siamo qui per quei tre omicidi.

La dottoressa si mise a sedere facendo cenno ai due agenti federali di accomodarsi a loro volta. Aprì i tre fascicoli che teneva sulla scrivania, proprio davanti a lei e cominciò a ricapitolare le sue conclusioni.

-        Le tre donne sono state sedate con dei farmaci per anestesia. – disse, confermando le conclusioni di Reid e Collins – La morte è avvenuta per asfissia, visto che non sono state intubate e la tubocurarina causa un blocco del riflesso respiratorio. Se non fosse stato queste ad ucciderle, ci avrebbe pensato la forte emorragia dovuta alle estese ferite all’addome, causate dalla rimozione dell’utero.

-        Quindi stiamo parlando di isterectomie. – disse Prentiss corrugando la fronte.

-        No. Almeno non nel senso tradizionale del termine. – la dottoressa si inumidì le labbra – Chiunque abbia fatto questo, non intendeva sterilizzarle.

Dicendo così, prese alcune foto e le mostrò ai suoi interlocutori. Il ventre delle donne era stato aperto e l’utero rimosso, ma c’erano anche altre ferite sull’addome.

-        Dopo l’asportazione dell’utero, ha infierito sulle donne con violenza. – precisò la Black.

-        Qualsiasi dottore può fare un intervento del genere? – chiese Rossi, ripassandole le foto.

-        Non è stato un intervento chirurgico, si è comportato come un macellaio. – la dottoressa scosse la testa e si girò verso Prentiss – Dovete fermarlo.

-        Può dirci altro, dottoressa? Qualcosa che non era nei referti? – chiese Emily, prendendo il taccuino per gli appunti.

-        Dopo l’arrivo dell’ultima vittima, ho sbagliato a compilare il foglio per la richiesta delle analisi. Non ne ho dimenticata qualcuna, per sbaglio ho spuntato un’altra casella. – si inumidì di nuovo le labbra – L’ultima vittima era incinta, o almeno lo era stata fino a poco prima. I valori della Beta-HCG erano elevati.

-        Anche le altre vittime erano incinta? – Rossi era turbato da quello sviluppo.

-        Non lo so. Non ancora, almeno. – la donna intrecciò le mani sulla scrivania – Per precauzione, tengo sempre dei vetrini di sangue in più, quando si tratta di vittime di omicidi. Sapete, non si è mai abbastanza cauti. Qualche avvocato difensore potrebbe decidere di smuovere le acque…

-        Può richiedere quelle analisi? – David si alzò.

-        L’ho fatto questa mattina, appena ho ricevuto i referti del caso Hernandez. – la Black si alzò a sua volta e li accompagnò fino alla porta.

-        Le saremmo grati se potesse farceli avere il prima possibile. – Rossi tese la mano per stringere quella dell’anatomopatologa.

-        Ve li invierò per fax, non appena il laboratorio avrà i risultati. – garantì, mentre si girava per stringere la mano di Prentiss.

 

 

Central Park

Morgan riguadagnò la posizione eretta, mentre controllava che la foto digitale appena scattata fosse venuta bene. Sarah, invece, rimaneva accucciata vicino alla panchina. Era il terzo sopralluogo che facevano quel giorno e il sole stava tramontando. In ordine cronologico, l’assassino aveva lasciato la sua prima vittima proprio su quella panchina. Collins finalmente si alzò e si guardò intorno. Erano davanti al lago e quella fila di panchine in legno sembrava corrervi tutto a torno.

-        Sembra un posto piuttosto frequentato. – rifletté a voce alta.

-        Durante il giorno, sì. – le rispose il poliziotto più giovane, quello che aveva portato la torcia – Di notte qui non viene mai nessuno. Almeno non le brave persone.

Indicò un punto lontano alla loro destra, dove l’arco formato dalla file di sedili in legno scompariva dietro la ringhiera che circondava l’acqua.

-        Laggiù, la sera, si riempie di teppisti e spacciatori. – precisò, gongolando nell’essere così informato.

-        E voi non intervenite? – Sarah si girò perplessa.

-        Li vedrebbero arrivare da lontano. – si intromise Morgan – E’ un’area facile da controllare, si riesce ad individuare chiunque si stia avvicinando da qualunque direzione.

-        Eppure il nostro assassino è venuto qui a scaricare il primo corpo. – meditò lei cominciando a battersi un dito sulle labbra che stavano assumendo una preoccupante colorazione blu – Sarà meglio andarcene, si sta facendo freddo.

-        Sì. Abbiamo le foto e direi che non c’è altro che possiamo fare qui. – si trovò d’accordo Derek, incamminandosi lungo la riva – Andiamo, che ti offro un caffè caldo.

-        Dovrei essere io ad offrirlo a te. – gli trotterellò dietro la ragazza.

-        E perché?

-        Perché non hai ancora accettato le mie scuse. – fece spallucce – Scuse che per altro non ti ho ancora fatto.

-        Ancora con questa vecchia storia? – sorrise accelerando il passo – Oggi non è ieri, è un giorno nuovo.

Il poliziotto più giovane assisteva a quello scambio, senza riuscire a capire di cosa stessero parlando, mentre li inseguiva per non essere lasciato indietro.

 

 

Continua…

 



[1] A differenza di quello che si pensa di solito, in America i guanti usati sulle scene del crimine non sono guanti in lattice. La motivazione sta nel fatto che i guanti in nitrile non contengono talco o altre polveri che potrebbero contaminare le prove. Non so in Italia, ma credo che valga lo stesso discorso.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


capitolo 9

Novembre 2007

 

Central Park, New York

Erano arrivati in prossimità del SUV, che Derek aveva parcheggiato a un centinaio di metri dal lago, e Sarah camminava guardando dritto davanti a sé mentre il giovane agente di polizia continuava a chiacchierare cercando di starle dietro. Morgan allungò la falcata e si fermò accanto allo sportello della macchina sorridendo: era chiaro che Collins era infastidita da tutto quel parlare del ragazzo che doveva essere poco più grande di lei.

La ragazza si fermò bruscamente e si voltò verso il poliziotto, che si ammutolì sotto lo sguardo gelido e rabbioso di Sarah. Rimasero a fissarsi per qualche istante, finché il ragazzo non resse più a quel silenzio e girò la testa verso il collega che era vicino a loro.

-        Suppongo che il sopralluogo sia finito, vero Al? – chiese rivolto all’uomo più grande – Comunque, se dovesse servirvi il nostro aiuto…

-        Vi chiameremo sicuramente. – si intromise Morgan per togliere dall’impaccio il giovane – Come avete detto di chiamarvi?

-        Io sono Stevens. – ripeté il più anziano – Mentre il pivello è Johnson.

-        Allora, agenti, se dovessimo avere bisogno del vostro aiuto spero sarete ancora così disponibili. – Derek cercava di essere il più conciliante possibile.

-        Sicuramente, agente. – il ragazzo fece un gesto di commiato toccandosi la visiera del cappello.

Sarah aspettò che i due agenti si incamminassero e poi si voltò a sua volta verso il collega. Aveva il viso tirato, era visibilmente stanca e infreddolita, ma non si lamentava. Derek le sorrise e le fece un cenno con la testa.

-        Sarà meglio andarcene prima che faccia buio. Ci fermeremo ad una caffetteria lungo la strada. – la informò pescando le chiavi dalla tasca del giubbotto.

-        Sia chiaro che pagherò io, non accetto discussioni in merito.

-        Mai pensato di essere io ad offrire.

Morgan aprì la portiera della macchina e salì, prontamente imitato da Collins. La ragazza attese che l’uomo mettesse in moto per accendere il riscaldamento al massimo e mise le mani davanti ai bocchettoni. Le punte delle dita avevano assunto una preoccupante colorazione bluastra.

-        Stai bene? – si informò Derek.

-        Starò bene appena terrò in mano un tazza di cioccolata bollente. – rispose strofinandosi le mani – Colpa mia, non avevo preso in considerazione che a New York fa più freddo che a Washigton.

-        Mettici anche che questa giornata nuvolosa non ha aiutato la temperatura ad alzarsi. Credo sia il caso che ti compri un paio di guanti.

-        Spero di non dover fare altri sopralluoghi all’aperto. – armeggiò con il riscaldamento e fece uscire l’aria verso i piedi – Comunque i guanti li ho portati, sono nella valigia.

-        Che è con tutte le altre nel SUV di Hotch. – Morgan si immise nel traffico, appena fuori dal parco – Mossa sbagliata mia cara.

-        Come molte che ho fatto negli ultimi giorni. – si era messa le mani sotto le ascelle e aveva allungato le gambe per scaldarsi i piedi – Sembra che io non riesca a farne una giusta da quando mi sono unita a voi.

-        A proposito di cose giuste… - Derek storse la bocca, imbarazzato dalle domande che voleva e doveva farle – Cosa ti ha fatto capire che noi abbiamo “qualcosa” in comune?

Sarah sbarrò gli occhi e si voltò verso il finestrino. Sapeva di aver fatto una stupidaggine quando era scattata in quel modo la sera prima con lui. Cosa poteva dirgli? Come giustificare quello che lei sapeva? I suoi pensieri andarono all’appuntamento che aveva avuto il giorno prima di incontrare i suoi nuovi colleghi.

Lincoln Memorial, Washington D.C.

Si era appoggiata ad un colonna, intenta ad osservare la folla di turisti che invadeva il monumento al sedicesimo presidente degli Stati Uniti. Erano tutti intenti ad osservare la statua di Lincoln e ad ascoltare la guida. Il suo sguardo spaziò verso la gradinata, dove altri visitatori si riposavano. Cominciava a diventare nervosa via via che l’ora pattuita si avvicinava.

Quella mattina si era alzata prima che la sveglia suonasse, cosa che aveva attribuito al cambio di fuso orario che non aveva ancora metabolizzato. In realtà un voce dentro la sua testa aveva cominciato a martellarla ricordandole che quel giorno avrebbe rivisto Jason dopo quasi tre anni. L’ultima volta che si erano visti lei gli aveva detto addio, lasciandolo solo all’alba per le strade di Lione[1].

Era agitata e sentiva il desiderio di scappare da quel posto. Una parte di lei non voleva rivederlo, specialmente sapendo che lui aveva chiesto quell’incontro solo per convincerla a proteggere la squadra e il dottor Reid. Sentiva già di detestare quel ragazzo, nonostante non sapesse neanche che aspetto avesse. Le faceva saltare i nervi il pensiero che Jason tenesse tanto a lui, che l’avesse preferito a lei quando c’era stata l’opportunità di far entrare un nuovo elemento nel team, che si preoccupasse ancora di quello che avrebbe dovuto essere solo un allievo ed ex collega. Le era insopportabile sentire di non contare niente nella vita di Gideon.

Lo vide arrivare ai piedi della scalinata e si nascose dietro la colonna con il cuore in tumulto: quell’uomo l’aveva ferita e allontanata, cancellandola con un colpo di spugna come se non fosse mai esistita. Quello dolore acuto che sentiva in quel momento era la dimostrazione che lei non era riuscita a sopprimere i suoi sentimenti e che la speranza riposta in Jason era ancora viva da qualche parte nel cuore che pensava ormai arido.

-        Sei sempre bellissima, anche con quel taglio di capelli. – era al suo fianco, ma non cercò di toccarla, limitandosi a guardarla.

-        Sei qui per i tuoi “ragazzi”, vero? – riuscì a dare un tono incolore alla domanda, come se non fosse importante.

-        Te l’ho già detto: sono brave persone e non si meritano questo trattamento. – si voltò, incamminandosi in un angolo appartato del tempio dorico.

-        Quindi vuoi che io li protegga. – lo seguiva, incurante delle persone attorno a loro.

Jason si fermò proprio sotto l’iscrizione del discorso di Gettysburg, si mise le mani in tasca e alzò gli occhi verso quelle parole. Sarah gli si mise accanto, con le braccia lungo i fianchi, scrutando il profilo di lui.

-        Perché dovrei aiutarli? – lo chiese con amarezza – Dammi una buona ragione.

-        Per me. – si girò verso di lei e rimasero a fissarsi intensamente – So di averti deluso, so di non essermi comportato come tu ti saresti aspettata. Forse non ho il diritto di chiederti questo favore…

-        Non forse. – gli occhi di Collins trasmettevano tutta la sua ira – Tu hai perso questo diritto, se mai lo hai avuto.

Gideon annuì, come dandole ragione, e poi le sorrise in modo dolce prendendole una mano. Sarah stava combattendo contro le lacrime che rischiavano di sfuggire al suo controllo, stupita di quel gesto così tenero.

-        Non vale, stai giocando in modo scorretto. – lo ammonì con un sorriso, mentre distoglieva lo sguardo.

-        Non è un gioco. Anche perché, se fosse un gioco, il giocatore scorretto non sarei io. – si inumidì le labbra e medito su come dire certe cose – Erin sta barando e lo sappiamo entrambi. Primo perché gli altri non conoscono le regole del suo gioco e secondo perché sta usando te contro di loro.

-        Non credo faccia differenza chi userà. – tolse la mano da quelle di Jason e la infilò nella tasca della giacca.

-        Sì che fa la differenza, visto che lo sta chiedendo a te per farmi del male.

-        Come tu ne hai fatto a me? – tornò a fronteggiarlo – Mi hai mandata via.

-        Dovevo proteggerti, ma non pretendo che tu capisca. – scosse la testa e si strofinò le mani – Al mio posto avresti agito nello stesso modo.

-        Non credo, non è mia abitudine far soffrire gli altri per pararmi il sedere.

-        Non stai per fare del male a Hotch e alla squadra perché Erin ti ha promesso qualcosa in cambio?

Sarah si trovò costretta ad abbassare la testa, conscia che quello di cui l’aveva appena accusata era vero. Non che Jason Gideon si trovasse nella posizione di poterla giudicare, ma l’aveva messa davanti alla cruda realtà e lei doveva ancora decidere cosa fare.

-        Se vuoi che prenda in considerazione l’idea di aiutarli, ti conviene dirmi tutto quello che sai di loro. – guardò il cielo azzurro di novembre fare capolino fra le colonne – Se lei ha veramente intenzione di far loro del male, devo sapere dove sono più deboli.

-        Cosa mi assicura che tu non userai quelle informazioni contro di loro?

-        Niente. – sorrise perfida – Ma se vuoi che abbiano una possibilità di cavarsela non hai altra scelta.

L’uomo sembrò vagliare le possibilità che aveva a disposizione, sapendo che le opzioni erano molto ridotte. Poteva non fidarsi di lei e tacere, con il rischio che lei non capisse quanto quelle persone fosse speciali e non meritassero di soffrire ancora. Oppure poteva sperare che il senso della giustizia fosse così radicato nel cuore di quella ragazza da mettere al riparo i suoi ex colleghi dalle ire della caposezione.

-        Seguimi. – disse incamminandosi lungo il corridoio.

-        Dove andiamo?

-        In un posto più tranquillo, dove possa raccontarti quanto abbiano già sofferto e per quale motivo non meritano altri guai.

Sarah gli corse dietro, sapendo di aver vinto: avrebbe saputo tutto quello che poteva rendere più facile la sua missione per conto della Strauss.

 

 

Central Park West, New York

 -        Allora?

La voce di Derek la riportò al presente, ancora indecisa su cosa dire per giustificare quella sua “intuizione”. Si inumidì le labbra e fece mente locale, cercando di ricordare un qualunque atteggiamento del collega che potesse aiutarla a togliersi di impaccio. Pensò all’altro segreto di Morgan, quello che aveva “trovato” da sola, e prese un bel respiro.

-        Ti piace giocare a fare il macho. – buttò lì, rimproverandosi della castroneria che aveva appena detto.

-        Scusami? – Morgan non staccava gli occhi dalla strada, ma le sopracciglia corrugate dicevano molto sulle sue perplessità.

-        Voglio dire… sembra quasi che tu lo faccia per dimostrare qualcosa a te stesso, come se fosse una sfida personale. – si maledisse per essersi addentrata in quella spiegazione così poco credibile, poi il lampo di genio – Mentre con la persona che veramente ti interessa fai l’amico del cuore.

Si morse le labbra. Sapeva che quelle spiegazioni non stavano in piedi, così decise che tanto valeva sparare stupidaggini a raffica assumendo un tono convinto.

-        Sei in conflitto con Hotch, nonostante tu lo ammiri: ne ho deduco che hai problemi con i maschi alfa in posizione predominante. – si sorprese di avere quel tono freddo e accademico mentre spiattellava quelle cretinate – E’ evidente che il problema non è la competitività, altrimenti il tuo atteggiamento nei confronti del nostro diretto superiore sarebbe diverso. Escluso il conflitto di Edipo, visto che Hotch non è decisamente una figura paterna, mi sembra evidente che tu abbia problemi con i maschi che detengono il potere e…

-        Sì, credo di aver afferrato. – la interruppe Morgan, non molto convinto.

Collins tirò un mentale sospiro di sollievo: forse era riuscita a dire così tante stupidaggini da confondere il suo patner.

-        Invece, per qual’altra cosa… - Derek sapeva di essere in un campo minato.

-        Voi dire il fatto che tu sia innamorato di una persona di cui ti fingi amico? – Sarah ora si sentiva in vantaggio.

-        Noi siamo amici e io non fingo. – l’uomo serrò la mascella.

-        Come si può essere amici della persona che amiamo? Io non ci riuscirei. – sospirò e tornò a guardarlo – Certo io sono l’ultima persona che può dire certe cose.

-        Perché? Non sei mai stata amica di nessuno che amavi?

-        Non credo di essere mai stata veramente innamorata di qualcuno. – corrugò la fronte, ricordando i suoi rapporti passati – Anzi, ne sono certa.

-        Non ti sei mai innamorata? – Derek la guardò solo un attimo, con lo stupore dipinto sul volto – Neanche quando eri in accademia? Scusami, fai conto che non abbia detto niente.

-        Allora Prentiss vi ha raccontato dei pettegolezzi che giravano su di me. – assunse un aria soddisfatta – Me lo immaginavo.

-        L’ha riferito solo a me. – precisò lui – Comunque né io né lei crediamo a una sola parola.

-        Come mai? Non credi che io possa far girare la testa ad un uomo più grande?

-        No, non è questo. – di nuovo la guardò di sfuggita, prima di concentrarsi sul traffico – Nonostante il tuo strano taglio di capelli e il modo in cui ti vesti, sei comunque una bella ragazza. Il fatto è che ho conosciuto Gideon, abbiamo lavorato fianco a fianco per anni. Non si sarebbe mai approfittato di un cadetto.

-        E chi ti dice che non sia stata io ad essermi approfittata di lui?

-        Gideon è troppo intelligente per farsi manipolare in quel modo. – decise di abbandonare il discorso e riportare l’attenzione su quello che gli premeva veramente – Devo chiederti di essere molto discreta in merito a… insomma…

-        Senti, qualsiasi cosa ci sia fra di voi non deve riguardare nessuno. – fece spallucce e gli sorrise – Il protocollo non tiene in considerazione la nostra parte umana. Quello che provi e non provi per un collega sono solo fatti tuoi. Per quel che mi riguarda, io non so niente di niente.

-        Grazie. – Morgan si sentì sollevato.

-        Non ringraziarmi, visto che non so di cosa tu stia parlando. – si accomodò meglio sul sedile e socchiuse gli occhi – Piuttosto di parlare di cose che io non so e che negherò sempre di conoscere, perché non ti fermi ad uno Starbucks[2] così che possa offrirti un caffè e chiederti scusa come si conviene?

-        Scusa per cosa?

-        Di non aver accettato il tuo invito a bere qualcosa e di essermene andata senza dirti una parola. E’ stato molto scortese da parte mia.

-        Non mi risulta che le cose si siano svolte in questo modo.

-        Questa è la mia versione ufficiale dei fatti e mi ci atterrò anche sotto giuramento. – rispose lei caparbiamente.

-        Sei strana, Collins, ma cominci a piacermi.

-        Punto primo, il fatto che io sia strana è una cosa che pensate tutti. Punto secondo, non sono il tuo tipo e lo sappiamo entrambi. Punto terzo…

-        C’è anche un terzo punto?

-        Sì. – si inumidì le labbra e si lasciò scappare una mezza risata – E’ assurdo ma comincia a piacermi anche tu, Derek.

-        Derek? Ora mi chiami per nome anche se fino a ieri mi davi del lei?

Sarah fece spallucce e sorrise di nuovo.

-        Le cose cambiano in fretta a volte.

Morgan si fermò ad un semaforo e si girò per guardarla in faccia. Le sorrise e le fece l’occhiolino.

-        Mi sta bene che mi chiami Derek perché ti piaccio, ma ti avverto che il mio cuore è già occupato.

-        Non importa, cercherò di sopravvivere alla delusione. Cosa che mi riuscirà piuttosto facilmente, visto che tu non sei decisamente il mio tipo.

-        Chi sarebbe il tuo tipo?

-        Te lo dirò quando lo incontrerò.

-        Ci conto. Anche perché qualcuno dovrà pur avvertire quel poveraccio del casino in cui si metterà.

-        Spiritoso. Avresti dovuto fare il comico invece dell’agente federale – gli indicò la strada davanti a loro – Ti consiglio vivamente di lasciar perdere la carriera di cabarettista e di ripartire. Il semaforo è scattato.

I clacson delle macchine dietro di loro confermarono le parole di Collins. Morgan scosse la testa sorridendo e riprese la marchia.

-        Giusto per curiosità e poi tornerò a fare quella che non sa niente. – riprese lei guardandosi le unghie – Cos’ha di così speciale?

-        Aspetta di approfondire la sua conoscenza e poi non mi farai mai più questa domanda. – gli piaceva poter parlare di questa cosa con qualcuno e ne era sorpreso.

-        Sei proprio cotto, eh? – la ragazza rise buttando indietro la testa.

-        Mi piaci di più quando fai quella che non sa niente.

-        Recepito il messaggio, Derek. – aveva un sorriso allegro dipinto sulle labbra.

-        Dovresti sorridere più spesso. Diventi molto più carina, sai?

Sarah fece un gesto di noncuranza con la mano, mentre rifletteva che Derek Morgan le piaceva. Le piaceva veramente, ma non come un uomo piace ad una donna, era qualcosa di diverso che non aveva mai provato prima. Si chiese se non avesse trovato una persona che un giorno avrebbe potuto chiamare “amico”. Si rabbuiò, pensando che forse sarebbe stata costretta a tradire la fiducia di Morgan per ottenere che il suo trasferimento fosse definitivo. Cominciava a chiedersi se ci sarebbe riuscita.

 

Continua…

 

 



[1] One-shot “Before the dawn”

[2] Famosa catena di caffetterie americana (garantisco che il caffè italiano non sappiano neanche dove sta di casa, nonostante sostengano il contrario u.u).

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


capitolo10

Novembre 2007

 

Stazione di Polizia, New York

 

Hotch aveva chiesto a JJ di convocare le famiglie per interrogarle il giorno dopo e, quindi, la donna era tornata nella stanza dei fax . Reid continuava a concentrarsi sulla pianta della città, mentre alle sue spalle Rossi, Prentiss e Hotch stavano discutendo degli sviluppi forniti dal  medico legale.

-        Quindi non sappiamo ancora se il fatto che Hernandez fosse incinta sia rilevante. – Aaron era seduto a capotavola e guardava Rossi – Potrebbe essere una casualità.

-        L’unica cosa che possiamo fare è aspettare i referti delle analisi supplementari. – concordò Rossi – Certo questo darebbe all’asportazione dell’utero tutto un altro significato.

-        Non sappiamo neanche se l’ultima vittima volesse tenere il bambino. – constatò Emily continuando a guardare il lavoro di Reid – Come va’ con il profilo geografico?

Reid si girò e scrollò le spalle.

-        E’ difficile che giunga a qualche conclusione, visto che non sappiamo esattamente dove sono state rapite. – prese i fascicoli e cominciò a sfogliarli mentre ricapitolava quello che sapevano – L’ultima vittima è uscita dal lavoro la mattina prima del ritrovamento a Central Park, non sappiamo se è stata rapita subito o sia andata in un altro posto prima che l’S.I. la rapisse.

Gli altri tre della squadra presero a loro volta i dossier per seguire il riassunto di Spencer e poter intervenire.

-        Mary Farinacci era stata a lezione il martedì e poi è sparita, il corpo è stato ritrovato giovedì mattina da un avvocato che faceva jogging. Il medico ha potuto stabilire l’ora della morte approssimativamente fra le cinque e le dieci di mercoledì pomeriggio. – continuò il ragazzo – La O’Connor si era esibita in un concerto per pianoforte il venerdì sera, l’ora del decesso è stata fatta risalire alle prime ore della domenica mattina.

-        Tre vittime in poco più di una settimana. – intervenne Rossi con tono preoccupato – Il nostro soggetto ignoto si sta dando da fare.

-        Se mantiene la sua tabella di marcia, rapirà un’altra ragazza fra poche ore. Sempre che non l’abbia già fatto. – Hotch mise da parte i fascicoli e si rivolse alla squadra – Dobbiamo concentrarci sul caso se vogliamo riuscire a salvarla.

Rossi, attraverso i vetri della sala messa a loro disposizione, vide Collins e Morgan uscire dall’ascensore del distretto. I due avevano in mano dei bicchieri di polistirolo con il marchio dello Starbucks e stavano parlando tra loro con aria complice; lo sorprese soprattutto vedere Sarah sorridere al collega come se fossero amici di vecchia data.

-        Speriamo che Collins e Morgan abbiano scoperto qualcosa. – Aaron, che dava le spalle alla vetrata, continuava il suo discorso guardando l’orologio – Dovrebbero già essere rientrati.

-        Infatti stanno arrivando. – lo informò David.

Si girarono tutti a guardarli, mentre Derek sorrideva e scuoteva la testa con aria divertita.

-        Sembra che quei due abbiano fatto amicizia. – disse Prentiss con aria stupita.

-        Forse Morgan starà solo cercando di essere gentile con lei. – interloquì Reid, tornando a voltarsi verso la lavagna trasparente.

Emily lo guardò scettica, prima di tornare a fissare quei due. Sorrise, sperando che la ragazza avesse trovato qualcuno con cui aprirsi: aveva l’impressione che Sarah fosse una persona molto sola.

-        O forse Collins non è poi così male. – ribatté con un sorriso – Anche se quello che è successo questa mattina ci ha innervositi tutti, credo sia il caso di darle un’altra possibilità.

Hotch guardò Rossi e sospirò. Non si fidava di quella ragazza e non sopportava l’atteggiamento che spesso assumeva nei suoi confronti. Aveva sempre l’impressione che lo stesse sfidando, che volesse stuzzicarlo per vedere quale fosse il suo punto di rottura. Quella mattina ci era andato giù pesante in risposta all’attacco che l’ultima arrivata aveva fatto a JJ, ma anche perché si era permessa di scavalcarlo. Meditò che forse Prentiss aveva ragione: la ragazza non era abituata a lavorare in squadra e sarebbe stato un pessimo capo se non avesse provato ad indirizzarla sulla strada giusta.

 

Sarah studiò l’ambiente in cui si trovavano. Mentre il piano terra le era apparso come nei telefilm, con il lungo bancone in mogano dietro il quale un burbero poliziotto sovrappeso dava informazioni di malavoglia, il primo piano era completamente diverso. Appena uscita dall’ascensore si era ritrovata in un grande openspace, simile a quello che occupavano loro a Quantico, pieno di scrivanie e di gente impegnata a lavorare. Sul fondo dalle sale c’erano una serie di stanze più piccole separate fra di loro e dalla sala principale da pareti in legno e vetro che permettevano di vedere cosa succedeva all’interno di ognuna di esse, sempre che gli occupanti non si fossero presi la briga di tirare giù le veneziane. La sua ispezione fu interrotta dalla voce del collega.

-        Tu sei tutta matta. – Morgan sorrise e scosse la testa – Come ti vengono in mente certe analogie fra Hotch e il tuo gatto castrato?

-        Perché? Trovi che non fosse centrata? – Sarah sorrise a sua volta, bevendo un sorso di cioccolata.

-        Più che altro non l’ho trovata appropriata, ma suppongo che siano punti di vista. – si voltò e vide Jennifer da sola all’interno di una delle stanze più piccole – Un’altra cosa che non ho trovato appropriata è stata la scenata di questa mattina in sala riunioni.

-        Scommetto che non hai trovato appropriato neanche il modo in cui ho risposto a Garcia. – fissò il proprio bicchiere e sospirò – Non mi lascerai in pace finché non andrò a chiarirmi con l’agente Jareau, giusto?

-        Chiederle scusa sarebbe un buon primo passo. – le fece cenno verso la porta aperta della stanza dove si trovava la collega – Magari potresti chiederle di stampare le foto che abbiamo scattato, giusto per rompere il ghiaccio.

-        Posso anche andarglielo a chiedere e provare a parlarci, ma non mi scuserò. Non ho detto niente che non pensassi veramente.

-        Allora perché hai chiesto scusa a me? – si fermò e la studiò – Oppure erano solo parole?

-        E’ diverso e lo sappiamo entrambi. – si inumidì le labbra e gli si avvicinò, cominciando a parlare a voce bassa – Ti ho chiesto scusa perché ho usato qualcosa di tremendamente personale per ferirti, solo perché ero spaventata e avevo perso il controllo. L’agente Jareau invece…

-        L’hai aggredita perché hai perso il controllo. – provò Morgan.

-        No, l’ho aggredita perché ha messo in difficoltà la squadra nello svolgimento del nostro lavoro. Sono due cose diverse. E’ moralmente inaccettabile usare quelle cose contro di te, ma è giusto riprendere un collega che sta sbagliando e sta ostacolando le indagini.

-        Non toccava a te farlo.

-        Sei un disco rotto e non la smetterai finché non andrò là dentro, vero? – sbuffò strappando la macchina digitale dalla mano di Derek – Sarà sempre così? Mi farai la predica continuamente?

-        Solo quando reputerò che tu abbia sbagliato. – l’uomo le sorrise e si incamminò verso la sala occupata da Hotch e gli altri, lasciandola sola a rigirarsi la macchina fotografica fra le mani.

Dopo pochi passi si voltò di nuovo verso l’ultimo acquisto del team e la guardò con sguardo severo, mentre lei sostava accanto all’ultima fila di scrivanie.

-        Sarebbe una buona cosa se cercassi di chiarirti anche con Garcia, capisco che tu sia una persona riservata e che non voglia che gli altri sappiamo qualcosa del tuo passato, ma c’è modo e modo per dire le cose.

-        Abbiamo il paladino delle bionde. – alzò gli occhi al cielo e si avviò verso il supplizio di parlare con JJ.

 

Entrò nella stanza dove Jennifer, girata di spalle, era intenta a scrivere un messaggio con il cellulare. Per un momento la sua mente le fece uno strano scherzo: non si trovava in un ufficio della stazione di polizia, ma negli spogliatoi della palestra della scuola superiore. Aveva addosso la stessa sensazione di quando camminava verso il suo armadietto avvolta nell’accappatoio che copriva l’esile corpo di bambina, mentre tutte le sue compagne adolescenti scherzavano fra di loro e non provavano vergogna nel girare in reggiseno e mutandine. Per un momento ebbe la certezza che se si fosse voltava si sarebbe trovata davanti Mindy, il capo delle cheerleader, che la guardava con aria divertita e derisoria, intenta a pensare ad un nuovo “scherzo” per tormentarla.

Strinse le labbra e chiuse la porta in malo modo, rivelando la sua presenza a JJ che si girò a guardarla. Erano lì ferme in piedi, studiandosi a vicenda: Jennifer con uno sguardo interrogativo e Sarah piena di rabbia malcelata.

Collins chiuse gli occhi e prese un profondo respiro: non era più una ragazzina di dieci anni che si aggirava smarrita per i corridoi di una scuola superiore, era un agente federale ed era in grado di affrontare le persone. Sapeva che la scenata di quella mattina era giustificata dal comportamento non professionale della collega, ma si rendeva conto che la somiglianza fra l’agente Jareau e Mindy la portava ad essere prevenuta nei confronti di quella donna che conosceva a malapena.

-        Io e l’agente Morgan abbiamo scattato delle foto. – allungò il braccio per mostrare la macchina digitale – Dovrei stamparle, può aiutarmi?

-        Sì, certo. – rispose Jennifer, mettendo via il telefono – Mi dia la scheda di memoria e le stampo subito.

-        Grazie. – si avvicinò di qualche passo ed estrasse la card per poi dargliela – Le dispiace se resto qui? Vorrei portarle a Hotchner il prima possibile.

-        Avete trovato qualcosa? – JJ si mise a sedere davanti al computer ed inserì il chip nel lettore.

-        Forse. – fu la laconica risposta di Collins, che si mise in piedi alle sue spalle.

L’agente di collegamento ci mise pochi attimi prima di lanciare la stampa e poi si alzò per fronteggiare la strana ragazza. Rimase un attimo indecisa su cosa dirle o come dirlo, poi prese un respiro e si lanciò.

-        Mi dispiace se questa mattina lei abbia avuto l’impressione che io non sappia fare il mio lavoro…

-        La mia impressione è stata che lei stia trascurando i suoi doveri per questioni meramente personali. – si spostò verso la stampante in attesa che uscissero le foto – Sicuramente di solito è più attenta, ma non esistono casi in cui certe mancanze siano giustificate. Ogni vittima ha gli stessi diritti delle altre.

-        Lo so benissimo. – JJ cercò di rimanere calma e non cadere nelle provocazioni dell’altra – Ho già parlato con Hotch e abbiamo chiarito. Non succederà più.

-        Se sta pensando che abbia intenzioni di scusarmi è fuori strada. – si girò con le stampe in mano – So che tutti voi siete amici, oltre che colleghi, ma questo non mi riguarda. Io sono qui per fare un lavoro e voglio farlo bene. Spero capirà che non posso tollerare che qualcuno me lo renda più difficile di quanto già non sia.

-        Da come parla sembra quasi che il peso di questa indagine sia solo sulle sue spalle.

-        Proprio perché non è così ho fatto quella scenata questa mattina. – le sorrise sarcastica – Si rende conto che lei ha messo in seria difficoltà persone che chiama “amici”. Vuole un consiglio? Lasci il suo cellulare a casa o, quantomeno, chieda al bell’imbusto di turno di non mandarle messaggi mentre sta lavorando.

Jennifer sbarrò gli occhi, chiaramente sorpresa dell’affermazione di Collins.

-        Cosa le fa pensare che…?

-        Andiamo, sono una profiler. Ho visto come salta ogni volta che le arriva un messaggio e come si precipiti a leggerlo. Devo forse pensare che non si tratta di un uomo? – le fece l’occhiolino senza addolcire il sorriso che rimaneva ironico – Spero che almeno ne valga la pena.

-        La mia vita privata non la riguarda.

-        Neanche sono interessata a conoscerla, semplicemente non reputo corretto che lei la anteponga al suo lavoro.

Rimasero a fissarsi per qualche istante, nessuna delle due era pronta a cedere e abbassare lo sguardo. Collins si trovò, suo malgrado, a constatare che JJ non era quella ragazza dolce e indifesa che sembrava, aveva visto uomini sfuggire il suo sguardo quando si rendevano conto che lei non avrebbe smesso di fissarli per prima. Sorrise, avendo capito che l’agente Jareau usava il suo stesso trucco: in realtà non la stava guardando negli occhi, ma osservava il suo setto nasale. Sospirò arrendendosi all’evidenza che non si trovava davanti una sprovveduta.

-        D’accordo, cerchiamo di arrivare ad un compromesso per il bene della squadra e dell’indagine. – continuò infine.

JJ non le risposte, incrociò le braccia e rimase in attesa che l’altra proseguisse.

-        Noi non saremo mai amiche del cuore e la cosa, francamente, mi sta benissimo. – fece qualche passo avanti fino a trovarsi a pochi centimetri dalla sua antagonista – Reputo che non sia necessario intrattenere rapporti interpersonali per svolgere il proprio lavoro con professionalità, comunque mi rendo anche conto che le dinamiche interne alla vostra squadra sono diverse da quelle a cui sono abituata.

Guardò attraverso i vetri che dividevano i vari uffici e puntò i suoi occhi sugli altri membri del team. Invece di parlare fra di loro del caso erano tutti fermi a fissare le due donne, aspettando l’esito di quello scontro.

-        Possiamo continuare a guardarci in cagnesco e a stuzzicarci a vicenda, rendendo le cose più difficili…

-        Io non l’ho mai stuzzicata. – puntualizzò JJ.

-        Questo glielo concedo, ma sicuramente non le sono simpatica. Sono lieta di metterla al corrente che l’antipatia a pelle è reciproca. – incrociò le braccia a sua volta e fece una smorfia prima di continuare – Sia chiaro che la cosa non mi tange in nessun senso, ma certo questo clima di tensione fra di noi non giova alla squadra. Credo di stare parlando con una persona adulta e ragionevole, giusto?

Jennifer si limitò ad annuire.

-        Direi che non ci rimane altra scelta che sopportarci sul lavoro, per quanto riguarda la vita privata sono sicurissima che nessuna delle due abbia problemi ad evitare l’altra.

-        Sono pienamente d’accordo. – JJ sorrise, capendo che quel discorso contorto era una specie di richiesta di pace – Tregua?

-        Direi che una tregua non basta per appianare le cose. Bisognerebbe ricominciare da capo. – inaspettatamente tese la mano verso Jennifer e le fece un sorriso tirato – Piacere, sono il nuovo agente assegnato a questa unità. Mi chiamo Sarah Collins.

-        Piacere, sono l’agente di collegamento Jennifer Jareau. – le strinse la mano a sua volta, prima di darle una stoccata finale – Gli amici mi chiamano JJ.

-        Allora per me sarà l’agente Jareau. – rispose con tono annoiato.

JJ scosse la testa mentre Sarah la superava e apriva la porta per poi voltarsi di nuovo verso di lei.

-        Viene con me per la riunione di aggiornamento, oppure resta qui a rispondere ai messaggi che le arrivano sul cellulare?

L’agente di collegamento la guardò male, prese il telefono e lo spense per poi seguire quella ragazza indisponente.

 

Sarah entrò nella stanza seguita da JJ, sotto lo sguardo attento di Hotch che sembrava particolarmente teso e serio. Sarah lo fissò un attimo e gli sorrise in modo sarcastico prima di andare alla lavagna e cominciare a sistemare le foto che aveva fatto stampare.

-        Bene, ora che siamo tutti qui vorrei sapere se ci sono novità. – Hotch, seduto a capotavola, si voltò verso David e Emily – Cosa abbiamo?

-        L’anatomo patologa ci ha confermato la causa della morte ed il fatto che gli uteri siano stati asportati premorte. – cominciò Rossi con tono sicuro.

-        La dottoressa Black ci ha informati che la Hernandez era incinta. – si intromise Prentiss – Stanno facendo degli esami per appurare se lo fossero anche le altre due vittime.

Collins li osservava interessata mentre Reid guardava le foto che aveva appeso alla lavagna trasparente.

-        Questo spiegherebbe la presenza di Kokopelli sulle scene dei ritrovamenti. – interloquì il giovane dottore.

-        La presenza di chi? – chiese JJ avvicinandosi a lui.

Spencer si girò verso Collins che era rimasta di fianco alla lavagna e lo guardava parlare con il resto del team, come in cerca di approvazione e questa gli fece un cenno con la testa come invitandolo a proseguire.

Reid indicò la figura di un uomo stilizzato con un'accentuata curvatura della schiena, ritratto mentre danzava e suonava una specie di flauto.

-        Kokopelli è una divinità Navajo. – cominciò a spiegare il ragazzo – Nella mitologia dei nativi americani, questo Hopi trasporta i bambini non nati sulla sua schiena e li distribuisce alle donne della tribù[1].

-        Se le vittime erano veramente incinta, questo spiegherebbe anche i luoghi di abbandono. – intervenne Sarah facendo un passo avanti ed indicando le altre foto che avevano scattato con Morgan – Come potete vedere, Jessica Hernandez è stata trovata sotto un ponte a contatto con l’acqua di un ruscello, Mary Farinacci è stata lasciata sotto una delle panchine che circondano il lago[2]. Tutte le vittime erano vicino o a contatto dell’acqua, per la cultura dei nativi americani è un simbolo di vita.

-        Ma la seconda vittima non era in prossimità dell’acqua. – si intromise Morgan che aveva partecipato ai sopralluoghi – Era riversa vicino ad un albero.

-        Sbagliato. – gli sorrise Collins, prendendo un’altra foto dai fascicoli aperti sul tavolo – Ora non c’è acqua in quel posto, ma il nostro soggetto ignoto l’aveva abbandonata con la testa riversa in una pozzanghera.

Appese alla lavagna la foto che supportava la sua teoria.

-        Aspettiamo gli esiti degli esami. – Hotch si alzò, catalizzando l’attenzione degli altri – Prima di focalizzarci troppo su queste teorie appuriamo che fossero tutte e tre incinta. Direi che per oggi non possiamo fare nient’altro ed è quasi ora di cena.

-        Andiamo prima a cena o passiamo in albergo? – chiese Prentiss, massaggiandosi il collo.

-        Credo che sia meglio andare prima a mangiare. – propose Morgan.

-        Io sono molto stanca e non ho appetito. – Sarah cominciò a riordinare i dossier senza guardare nessuno di loro – Se non vi dispiace preferirei andare subito in albergo.

-        D’accordo, agente Collins. – le andò incontro Hotch – La accompagneremo prima in albergo e poi andremo a mangiare.

-        Non sarà necessario, signore. – la ragazza continuava ad evitare lo sguardo di tutti – Mi basterà prendere la valigia dal SUV. Non voglio costringervi a fare una deviazione non necessaria.

-        E’ sicura? – Aaron la fissò in silenzio, finché lei non alzò lo sguardo.

-        Sono sicura, sono solo molto stanca, signore.

Rimasero a fissarsi ancora un attimo, poi il caposquadra annuì e fece un gesto a Morgan.

-        Dalle le chiavi della macchina, tu verrai con me e JJ.

-        Sì, Hotch. – anche se riluttante Derek passò le chiavi a Sarah, ripromettendosi di farle un discorso sul fatto di “integrarsi” e “interagire” con la squadra.

 

Continua…

 

 



[1] Per maggiori informazioni: http://it.wikipedia.org/wiki/Kokopelli

[2] Ci sono vari specchi d’acqua all’interno di Central Park, il più grande è appunto The Lake.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


capitolo 11

Novembre 2007 – Camera d’albergo, New York

 

Appena entrata buttò la borsa sul letto perfettamente rifatto e cominciò a disfarla velocemente. Le pratiche per registrarsi non avevano richiesto che pochi minuti, ma a lei erano sembrate interminabili ore mentre si chiedeva se i suoi colleghi sarebbero stati sul suo stesso piano. Alla fine non l’aveva chiesto al portiere, preferendo correre a farsi una doccia bollente.

Mise con cura gli indumenti puliti sul letto e sistemò il resto delle sue cose nell’armadio con il borsone da viaggio. Entrò in bagno e aprì la doccia, poi si tolse gli indumenti lasciandoli cadere a terra e spingendoli via con un piede.

Si guardò allo specchio e rimase spaventata dalle profonde occhiaie che neanche il trucco pesante riusciva a nascondere.

Entrò nella cabina ma non si mise sotto il getto d’acqua, preferendosi prima rannicchiare nell’angolo del piatto doccia seduta e pronta alla tempesta che sentiva arrivare. Cominciò a piangere come una bambina mentre le immagini di quello che le ragazze le avevano fatto il suo primo anno di superiore le scorrevano nella mente come un film a rallentatore.

 

 

Ottobre 1991 – Stafford High School, Stafford, Virginia

 

L’ora di ginnastica era finita e gli spogliatoi risuonavano delle risate delle ragazze. Sarah era la più piccola e l’unica che non avesse ancora sviluppato; guardava di sottecchi le sue compagne che giravano tranquillamente in biancheria intima mostrando i propri corpi. Lei, invece, era avvolta completamente in un accappatoio e si dirigeva a sguardo basso verso il suo armadietto: le altre avevano seni sodi e glutei dalle linee morbide, lei era ancora una bambina di dieci anni con il corpo acerbo.

Mindy, il capitano delle cheerleader, stava parlottando con una delle altre ragazze pon-pon e la osservava con uno sorriso divertito, mettendola ancora di più in imbarazzo. Era arrivata al suo armadietto e cominciò ad armeggiare con la serratura, notando appena con la coda dell’occhio le altre ragazze che sghignazzavano e si davano di gomito.

Sapeva che ridevano di lei ma pensava che sua madre avesse ragione: se non avesse permesso che vedessero quanto la stavano ferendo, presto si sarebbero stufate e avrebbero rivolto le loro “attenzioni” verso qualcun altro.

Il lucchetto scattò e l’anta si aprì da sola, rovesciandole addosso il contenuto che le sue compagne avevano provveduto a sostituire. Non c’erano i suoi vestiti, ma qualcosa di completamente diverso che le cadde addosso e le sporcò una gamba. Istintivamente lanciò un urlo, inorridita e schifata, mentre le altre cominciavano a ridere istericamente. Mindy le si avvicinò con i vestiti che le avevano rubato in mano, lì poggiò sulla panca vicino a lei e la guardò dritta negli occhi con un sorriso cattivo dipinto sul volto.

-        Perché urli tanto? Sono cose da donna, no? – si batté una mano in fronte e poi fece una faccia quasi dispiaciuta – Scusami, mocciosetta, dimenticavo che tu sei solo una bambina e la mamma probabilmente non ti ha ancora spiegato queste cose.

Sarah si pulì la gamba con l’accappatoio e si vestì più in fretta che poteva, combattendo contro le lacrime di rabbia e umiliazione. Non avrebbe mai permesso che la vedessero piangere e ringraziò il cielo che fosse l’ultima ora. Lasciò accappatoio e asciugamano per terra e corse fuori proprio mentre la campanella suonava. Si precipitò al pulmino e non rivolse la parola a nessuno mentre tornava a casa.

Appena arrivata si strappò gli abiti di dosso e si infilò sotto la doccia per pulirsi e lavare via l’umiliazione. Da quel giorno quando tornava da scuola correva sotto la doccia a piangere, per impedire a chiunque di sapere l’inferno che stava passando.

 

 

Novembre 2007 – Camera d’albergo, New York

 

Da grande aveva mantenuto il “rituale” delle doccia, solo che ora la faceva tutte le sere appena tornava dal lavoro. Non lavava più via l’umiliazione, ma la tristezza e la solitudine che le attanagliavano il cuore perché non era ancora riuscita ad indurirlo abbastanza. Si chiese quante altre batoste la vita dovesse assestarle prima che smettesse di fare male e il suo cuore diventasse così arido da non permetterle più di provare la minima emozione.

Il pianto si era appena calmato, quando sentì arrivare il flusso del sangue e scoppiò in singhiozzi accorati; non era più un pianto di dolore ma di sollievo. Si tirò su in piedi e si mise sotto il getto di acqua bollente, maledicendo Mark e quello che le aveva fatto. Era stata una stupida a cominciare una storia con lui, era stata un’idiota ad andare nel suo appartamento per dirgli che se ne tornava in America ed era stata una vera cretina quando non aveva preso provvedimenti subito dopo.

 

 

Ottobre 2007 – Lione, Francia

 

Mark l’aveva fatta entrare dopo il primo attimo di stupore nel trovarsela alla porta di casa a quell’ora di sera. Chiuse la porta e le sorrise in modo viscido mentre allungava le braccia per toccarla.

-        Non farti idee sbagliate. – lo ammonì facendo un passo indietro – Non sono qui per ricominciare la nostra storia.

-        Ah, no? Eppure sei venuta nel mio appartamento di tua spontanea iniziativa alle nove passate.

-        Sono qui solo perché non volevo che lo venissi a sapere in ufficio a cose fatte. – lo guardò dritto negli occhi – Ho ottenuto finalmente il trasferimento, fra una settimana parto e torno a casa.

-        Cosa? – alzò la voce e fece un passo verso di lei, paonazzo in viso – Me lo dici così? Non puoi deciderlo da sola, noi siamo una coppia e…

-        No! – fece un gesto stizzito – Non siamo mai stati una coppia, noi eravamo amanti ma è finita da un anno ormai. Sono venuta solo per mera cortesia.

-        Non puoi farmi questo, capito? – l’afferrò per un braccio – Nessuna mi lascia, tantomeno una come te. Guardati, non eri niente prima di incontrarmi.

-        Ero un’agente federale, proprio come ora. – cercò di divincolarsi, ma la presa dell’uomo era troppo forte per lei – Smettila con questa storia e lasciami il braccio, mi fai male.

-        Io ho creato la tua carriera e io posso distruggerla, lo sai vero? – dal tono di voce e dal modo in cui la stava guardando era chiaro che fosse furioso con lei.

-        Non dire stronzate. Non ti devo niente, la mia carriera la devo solo alla mia preparazione e professionalità. – non provò minimamente ad essere diplomatica.

-        Balle! Battenberg non ti avrebbe mai dato una possibilità se non glielo avessi chiesto io. – strinse ancora di più il braccio che le aveva afferrato.

-        Falla finita di raccontarti bugie. Avevo una carriera prima di incontrarti e la avrò anche dopo, ora che me ne torno a Washington.

-        Tu non puoi lasciarmi! – urlò strattonandola.

-        Non ti sto chiedendo il permesso. – provò un ultima volta a divincolarsi, con lo stesso risultato di poco prima.

Sentì l’urto dello schiaffo contro la sua guancia e vi poggiò una mano sopra, guardandolo allibita.

-        Come ti permetti? Io ti denuncio…

Arrivò un altro schiaffo e poi un altro ancora, perse l’equilibrio e si trovò per terra. Mark le salì sopra a cavalcioni e cercò di sbottonarle la camicia. Sarah maledisse il fatto di essere andata da lui con una gonna e cercò di ribellarsi, cominciando a tempestarlo di pugni sul torace.

-        Lasciami! – gridò disperata.

Lui la colpì più forte ancora, a mano chiusa e lei avvertì un fiotto di sangue in bocca: le aveva rotto il labbro. Tentò ancora di divincolarsi ma un altro pugno in pieno viso la intontì. Sapeva che lui era fisicamente troppo più forte di lei e girò la testa per non guardarlo mentre le alzava brutalmente la gonna e le strappava gli slip.

I suoi occhi si concentrarono sul gatto bianco di Mark che si era nascosto sotto un mobile del salotto e che la guardava con gli occhi gialli sbarrati. Sentì il dolore in mezzo alle gambe ma si impose di non urlare e di non piangere, non voleva dare quella soddisfazione a quel porco che la stava stuprando.

Lo sentiva muoversi senza delicatezza e il bruciore aumentava, insieme al dolore e all’umiliazione che le stava infliggendo. In quel momento pensò a Gideon, al fatto che nulla di tutto quello le sarebbe successo se solo lui non l’avesse mandata in Francia per soffocare i pettegolezzi.

Quando Mark ebbe finito rotolò lontano da lui, si tirò giù la gonna e si alzò in piedi fuggendo verso la porta. Sentì quello schifoso chiamarla ma non si voltò, mentre correva per le scale. Prese un taxi e si rifugiò nel proprio appartamento, rifiutando persino di rispondere al telefono fino al momento di imbarcarsi per tornare in America.

 

 

Novembre 2007 – Camera d’albergo, New York

 

Sapeva di essersi comportata come una stupida. Avrebbe dovuto andare in ospedale per farsi visitare, raccontare quello che era successo e denunciarlo ma la vergogna era stata più forte della sua razionalità. Aveva anche paura: tutti sapevano che lei e Mark erano stati amanti, nel corridoio della Sezione di Criminologia dell’Interpol non si parlava d’altro.

Chi poteva credere che un bell’uomo come lui avesse bisogno di stuprarla? Non era più probabile che tutti credessero in una sua vendetta perché lui l’aveva mollata? Già sapeva che quella sarebbe stata la versione di quel viscido lurido verme. Riusciva persino ad immaginarsi il suo tono di voce prostrato mentre diceva agli agenti che a lei piaceva il sesso violento e che magari avevano esagerato un po’, poi lui aveva deciso di darle il ben servito e quella tipa strana voleva vendicarsi. Una storia del genere non era un buon biglietto da visita ora che si apprestava a ritornare a casa.

Aveva paura che le minacce alla sua carriera non fossero del tutto infondate. Mark non era così “potente” o “influente” da poterle nuocere, ma le chiacchiere potevano stroncare qualsiasi possibile promozione. Voleva solo dimenticare e lasciarsi tutto alle spalle: era tornata a casa per rifarsi una vita e non voleva che gli errori del passato le precludessero delle strade.

Era stata così sciocca da non pensare neanche di prendere dei “provvedimenti” visto che lui non aveva usato il preservativo. Quando aveva realizzato che rischiava una gravidanza erano già passate settantadue ore dal momento dello stupro, la “pillola del giorno dopo” non sarebbe più stata efficace[1] e lei aveva vissuto nella paura fino a quel momento. Non le era mai capitato di benedire i crampi da mestruazione, quella era la prima volta in vita sua e sperava anche l’ultima.

Si lavò per bene, si mise un’assorbante e si rivestì. Cominciò a preparare il letto alzando la sopracoperta, quando sentì il cellulare che squillava. Lo tirò fuori dalla tasca interna della giacca, sapendo che non era una chiamata di lavoro visto che quello era il prepagato che aveva comprato una settimana prima. Certo, era comunque “lavoro” ma non ufficiale.

-        Chi è? – chiese brusca, immaginando già la Strauss che la tampinava per sapere se c’erano novità.

-        Siamo di cattivo umore, questa sera.

La voce calda e avvolgente di Jason la prese alla sprovvista, costringendola a sedersi. Si inumidì le labbra e serrò le palpebre, non voleva parlare con lui in quel momento. Era ancora emotivamente troppo vulnerabile, rischiava di vomitargli addosso tutto il rancore che sentiva per lui e di confessargli lo stupro che aveva subito, solo per ferirlo e dargli tutta la colpa.

-        Sarah? Sei ancora lì? – la voce era leggermente allarmata.

La ragazza cercò di recuperare il controllo e si impose la calma.

-        Cosa vuoi?

-        Volevo sapere se andava tutto bene.

-        La tua adorata squadra è ancora tutta intera. – non riusciva a sopprimere il tono acido – Sempre lì a preoccuparti per loro, non sei stanco di fare da balia asciutta a queste persone?

-        Te l’ho spiegato, ti ho parlato di loro e…

-        Di come ognuno di loro è speciale e ha già sofferto abbastanza. – lo prevenne assumendo un tono derisorio – Tutti soffrono nella vita, Jason. Tutti hanno dei problemi e devono fare i conti con la cattiveria del mondo.

-        Quando parli così non ti riconosco.

-        Certo, visto che tu non mi conosci affatto. – ormai sentiva solo il bisogno di ferirlo, come era stata ferita lei – Cosa sono per te, eh? Un esperimento non riuscito o solo la dimostrazione che addestri bravi profiler?

-        Sarah, tu lo sai che…

-        No! Io non so più niente e non voglio che mi chiami, chiaro? – se fossero stati faccia a faccia l’avrebbe aggredito fisicamente – Mi prenderò cura di loro, di tutti loro. In particolar modo del tuo adorato dottor Reid.

-        Non farlo, Sarah.

-        Oh, vedrai come me ne prenderò cura. – con quell’ultima minaccia chiuse la chiamata e spense l’apparecchio.

Andò all’armadio e lo buttò dentro il borsone da viaggio. Era meglio non averlo dietro, tanto non voleva sentire neanche Erin. Era stufa di quel gioco: non le piacevano le regole che i contendenti avevano stabilito e decise che da quel momento in poi avrebbe dettato lei i termini.

 

Sentendo bussare alla porta, si svegliò e guardò l’orologio che aveva poggiato sul comodino. Era passata poco più di un’ora da quando si era coricata e sbuffò, maledicendo chiunque fosse. A fatica si alzò e si trascinò verso la porta.

-        Chi è? – chiese con voce impastata.

-        Morgan. – si sentì rispondere.

Sarah socchiuse la porta con lo stupore dipinto sul viso e rimase a fissare il suo collega che se ne stava fermo lì, con un sacchetto di carta in una mano e una bottiglietta d’acqua nell’altra. Dopo un attimo di smarrimento, Sarah aprì di più la porta.

-        Cosa c’è? E’ successo qualcosa? – chiese dubbiosa.

-        Posso entrare? – Derek fece un passo avanti, chiarendo subito che non avrebbe accettato un “no” come risposta.

-        Come ti pare. – la ragazza fece spallucce e si spostò per lasciarlo passare.

Derek si diresse al tavolo e vi poggiò sopra le cose che teneva in mano. Poi, con molta calma, prese una sedia e si mise a sedere a cavalcioni. Sarah, dal canto suo, fece scattare l’interruttore della luce mentre chiudeva la porta, si tirò giù la maglietta a maniche lunghe che si era messa per dormire e si avvicinò al letto.

-        Non so perché ma non mi sembravi il tipo da dormire con i pantaloni della tuta e una maglietta. – provò a scherzare Morgan – Credevo che fossi il tipo da camicia da uomo.

-        Ti piace immaginare cosa indosso quando dormo? – si stropicciò gli occhi ancora assonnata – Come vedi, non rientro nelle tue fantasie neanche come abbigliamento.

-        Sei tu che mi hai fatto notare che non è vero che non ci facciamo il profilo a vicenda, semplicemente non ce lo diciamo.

-        Vuoi vedere che sono più brava di te? – lo sfidò con aria apatica.

-        Stai per dire che dormo solo con i boxer? – sorrise l’uomo.

-        No, tu dormi con i pantaloni del pigiama. – guardò il collega fare un cenno con la testa e sorridere – Ma sotto non porti biancheria intima.

Derek rischiò di strozzarsi con la propria saliva e poi la guardò con gli occhi sbarrati.

-        E tu che ne sai?

-        Vedi, non sono solo una stronza arrogante che tratta male le bionde della squadra, sono anche una brava profiler.

L’uomo fece spallucce e la invitò a sedersi con un gesto. Collins aggrottò le sopracciglia ma si accomodò ugualmente sul letto. Rimasero per qualche istante a guardarsi, finché la ragazza non ne poté più di quel silenzio.

-        Sei venuto a fare conversazione sul tipo di indumenti che indossiamo o meno quando andiamo a dormire?

-        No, ero venuto a vedere come stavi e a farti una lavata di capo. – poggiò la testa sulle braccia che aveva incrociato appoggiandole allo schienale della sedia – Ricordi la questione del condividere?

-        Mi sembra di aver esposto le mie idee durante la riunione. – lei fece spallucce.

-        Dovresti anche cercare di interagire, te lo ricordi?

-        Infatti ho partecipato durante lo scambio di opinioni alla centrale di polizia.

-        Cercherò di essere più esplicito, visto che hai deciso di rendermi le cose difficili. – picchiettò il dito indice destro sull’altro braccio – Quando parlo di interazione mi riferisco anche al fatto di cenare tutti insieme e di uscire ogni tanto a bere qualcosa dopo una giornata passata in ufficio.

-        Non ho cercato di evitarvi. – si difese lei, per poi alzare gli occhi al cielo notando l’espressione poco convinta dell’altro – Ero stanca, tutto qui. Sul serio.

-        Quindi ti sei rinchiusa qui dentro… pessima mossa.

-        Ma insomma, cosa dovevo fare? Ero stanca e sono venuta a dormire. Non è una scusa e lo sai, mi hai svegliato.

-        Sarà. – concesse lui alla fine prima di alzarsi e prendere la busta di carta in mano.

Le si avvicinò e le mise l’involucro sulle gambe, per poi sorriderle.

-        Che roba è? – chiese Collins aprendo il sacchetto e annusando l’odore che ne proveniva – Hamburger e patatine?

-        Non hai cenato e si lavora male a stomaco vuoto. – le mise una mano sulla testa nel gesto di scompigliarle i capelli cortissimi.

-        Non dovevi disturbarti. – Sarah era spiazzata da quella gentilezza.

-        E’ cosi che funziona in una squadra: ci prendiamo ognuno cura degli altri. – si avviò verso la porta seguita dalla ragazza – Hai chiamato il numero che ti ho dato?

-        E per dirgli cosa?

Morgan si girò e la guardò in tralice, mentre lei sbatteva le palpebre assumendo un’aria innocente. Alla fine, Sarah, fece un gesto di noncuranza sventolando una mano e sospirò.

-        E’ inutile chiamare finché siamo qui. Come posso prendere un appuntamento se non so quando torneremo a Washington?

-        Appena torniamo, tu vai di filato dalla dottoressa. – Derek aveva una mano sulla maniglia e aprì leggermente la porta – Domattina vieni a fare colazione con noi e cerchi anche di partecipare alla conversazione. Possibilmente senza saltare alla gola di nessuno, grazie.

-        Perché? – chiese Sarah richiudendo la porta per non farlo uscire.

-        Perché, cosa?

-        Perché sei così gentile e ti preoccupi per me? – la ragazza non riusciva veramente a capire.

-        Te l’ho detto: siamo una squadra e ognuno si prende cura dell’altro. – con il dito indice le diede un colpetto sulla punta del naso e le fece l’occhiolino – Visto che “ti piaccio”, anche se non in quel senso, credo che tocchi a me preoccuparmi che tu stia bene.

-        Derek… io non sono un tipo espansivo e… - si spostò il ciuffo rosso e sbuffò – Insomma, alcuni mi definiscono “emotivamente stitica” perché sono molto riservata, ma ora… in questo momento… so che non ci conosciamo così bene e che tu sei stato fin troppo gentile, però…

L’uomo notò come tirava giù forsennatamente le maniche lunghe della maglia e provò tenerezza per quella strana ragazza.

-        Andrà tutto bene, vedrai. – le disse abbracciandola.

Sarah si abbandonò contro l’ampio torace di lui e respirò a fondo. Era bello sentire un po’ di calore umano ed era grata a Morgan perché glielo offriva senza secondi fini.

-        Sarà meglio che tu vada, adesso. – mormorò scostandosi.

-        Allora buonanotte, ciuffo buffo. – rispose l’uomo provando di nuovo ad aprire la porta per lasciarla sola.

-        Ciuffo buffo? Ma non era Garcia quella che metteva nomignoli strani a tutti? – lo prese in giro lei.

-        Non ti piace?

La ragazza meditò un attimo su quella novità e poi rise leggermente scuotendo la testa.

-        No, anzi devo dire che mi piace come soprannome. – lo guardò attraversare la porta e poggiò una mano sullo stipite, sporgendosi verso di lui – Buonanotte, Derek.

-        Vedi di mangiare che sei già abbastanza magra. – si incamminò lungo il corridoio agitando una mano in segno di saluto.

Collins chiuse la porta, afferrò il sacchetto che le aveva portato il collega e ne estrasse due involucri di polistirolo che allineò sul tavolo. Il profumo invitante che uscì dalla scatola dell’hamburger, quando la aprì, le fece capire quanto in realtà fosse affamata. Si mise a sedere e diede un bel morso al panino, masticò con calma mentre ripensava a come quell’uomo che era un perfetto estraneo fino a pochi giorni prima si stesse prendendo cura di lei.

-        Grazie, Derek Morgan. – disse alla stanza vuota – Grazie.

 

Continua…

 

 



[1] Il levonorgestrel, detto volgarmente “pillola del giorno dopo”, va preso entro 72 ore dal rapporto a rischio. In realtà andrebbe presa entro 12 ore dal rapporto perché abbia l’efficacia massima. http://www.vitadidonna.it/contraccezione/metodi/pillola-del-giorno-dopo-contraccezione-di-emergenza-periodo-ovulazione.html

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


12

Novembre 2007 – Albergo, New York

 

Aprì gli occhi e si voltò istintivamente verso la sveglia. Erano appena le cinque e mezzo del mattino e Sarah sbuffò scalciando le coperte in fondo al letto. Non si era ancora abituata al cambio di fuso orario e si era svegliata troppo presto.

Voltò la testa verso le tende tirate e sospirò: fuori era sicuramente ancora buio e la colazione non veniva servita prima delle sette. Si mise a sedere chiedendosi come avrebbe occupato tutto quel tempo, decidendo che la cosa migliore era cominciare la giornata con un’altra doccia calda.

Appena finite le abluzioni mattutine, s’infilò un paio di jeans scuri e una maglietta, provvedendo anche a preparare un maglione pesante. Il giorno prima era quasi congelata durante il sopralluogo a Central Park e non voleva farsi trovare di nuovo impreparata a quel clima freddo.

Guardò di nuovo l’orologio: le sei, mancava ancora un’ora. Si mordicchiò l’unghia del pollice e alla fine decise che tanto valeva essere produttiva. Andò all’armadio ed estrasse dal suo borsone da viaggio il portatile, fortunatamente l’albergo metteva a disposizione degli ospiti anche la connessione internet.

Sorrise furba, mentre metteva il computer sul tavolo e si metteva comoda. Grazie alla Strauss aveva pieno accesso agli archivi informatici del bureau e voleva approfittarne ancora una volta. Richiamò la scheda che le interessava e la studiò ancora una volta. Il discorso di Rossi la tormentava e non sapeva come prendere la cosa che l’uomo avesse conosciuto sua madre nel periodo che ne aveva segnato il futuro.

Sospirò, conscia che non avrebbe trovato le risposte che cercava in quel dossier. Né la Strauss né Gideon l’avevano messa in guardia: perché fra tutte le cose inutile e superflue che le aveva raccontato, avevano omesso proprio quello?

Provò a navigare nel web alla ricerca di ulteriori informazioni. Trovo solo siti che parlavano di lui come profiler o come autore di best seller, ma niente che potesse far luce sul periodo che la vedeva coinvolta.

Frustrata e delusa, decise di cambiare soggetto. C’era un’altra persona del team che la incuriosiva particolarmente. Non riusciva a fare il profilo a Spencer Reid, nonostante passasse la maggior parte del tempo a osservarlo. C’era qualcosa d’indefinibile in quel ragazzo, qualcosa che la metteva a disagio. Possibile che fosse veramente così ingenuo e disponibile?

Non era abituata a ragazzi così “innocenti”. Lei aveva sempre avuto a che fare con maschi alfa dal carattere forte e con la tendenza a prendere il sopravvento. Tutti troppo pieni di sé per rendersi conto delle necessità delle persone che gli ruotavano attorno.

Lo sguardo cadde sul cestino dei rifiuti e si corresse. Aveva incontrato un maschio alfa cui sembrava veramente stare a cuore il suo benessere, senza che mostrasse di avere secondi fini. Sorrise spostandosi la ciocca rossa dietro l’orecchio: in fin dei conti il cuore di Morgan era già preso, anche se lei non capiva cosa il suo “amico” ci trovasse in quella persona.

Quando ne avevano parlato in modo superficiale in macchina, Derek le aveva detto “aspetta di approfondire la sua conoscenza e poi non mi farai mai più questa domanda”. Beh, avrebbe aspettato, anche se la pazienza non era fra le sue virtù.

Girò il viso verso lo specchio e i suoi occhi si fecero tristi. In fin dei conti lei non aveva tutte queste virtù: possedeva un bel corpo ed era brava nel suo lavoro. Decisamente i suoi difetti erano molti di più, eppure Morgan sembrava apprezzarla così com’era. Chiuse le palpebre e ringrazio di nuovo silenziosamente il suo nuovo amico, semplicemente perché esisteva.

 

La caffetteria dell’albergo non aveva ancora aperto e Sarah era seduta su una poltrona davanti alle porte dell’ascensore a leggere il giornale. Il disappunto era visibile sul suo volto: il solito giornalista sciocco aveva scritto un lungo articolo sugli omicidi e il loro possibile collegamento. Era fermamente contraria a quelle informazioni che “sfuggivano” ai poliziotti e poi venivano pubblicate: l’assassino poteva sentirsi infastidito da certe illazioni sulla sua virilità e decidere di sfogarsi su qualche altra ragazza. Nel caso di criminali “impulsivi” era facile immaginare che avrebbero agito in quel modo a prescindere dai toni degli articoli sulle loro “imprese”.

La prospettiva cambiava radicalmente con gli S.I. scrupolosi e metodici: in caso di scompensazione era quasi impossibile prevedere le loro mosse. I profili erano uno strumento investigativo, che molti poliziotti prendevano sotto gamba, e se accurati permettevano di prevedere le mosse del criminale esaminato: in pieno scompenso tutto il loro mondo collassava e diventavano impulsivi, mandando all’aria ore di lavoro spese per analizzare i loro possibili comportamenti.

Detestava i cronisti che si improvvisavano psicologi e definivano gli assassini secondo cliché che nulla avevano a che fare con la realtà. Una parola sbagliata e la bomba che il soggetto ignoto aveva nel cervello sarebbe potuta esplodere con conseguenze imperscrutabili. Forse sarebbe stato meglio che qualcuno di loro parlasse con i giornalisti, magari rimanendo sul vago, evitando che si potessero fare ipotesi di sorta. Sapeva, però, che quella non era una decisione che spettava a lei e, dato lo scontro frontale che aveva avuto con il suo diretto superiore il giorno prima, era titubante a proporlo a Hotchner.

Sentì il campanello dell’ascensore suonare e abbassò il giornale, sperando di vedere apparire Derek. Un volto amico le sarebbe stato d’aiuto in quel momento: magari confidandogli le sue apprensioni sul caso, lui avrebbe potuto parlarne al resto del team. Sicuramente Hotch avrebbe gradito di più un suggerimento proveniente da una persona di cui si fidava.

Con suo disappunto vide uscire proprio il suo capo serio come sempre, con quel cipiglio che gli dava l’aria perennemente arrabbiata. Sorrise tornando ad alzare il giornale: se il profilo che gli aveva fatto era esatto, Hotch era troppo “inquadrato” per sopportare qualsiasi cosa si allontanasse da un percorso prestabilito. Chissà come aveva preso la fine del suo matrimonio? Sul suo fascicolo non c’era niente in proposito e lui risultava ancora sposato legalmente con una certa Haley Brooks. Il segno della fede che aveva notato il giorno del loro primo incontro, raccontava di una separazione. Avrebbe aggiunto che la cosa non era ben accetta a Hotch, visto che la foto di una bella donna bionda con in braccio un bambino era ancora presente sulla sua scrivania.

Lo liquido come un altro maschio alfa che non accetta la sconfitta o il fatto che una donna non dipenda completamente da lui. Sospettava che l’agente supervisore un tempo fosse anche un tipo piuttosto diverso fuori dall’ufficio, ma sicuramente quello che vedevano tutti i giorni l’aveva segnato come chiunque di loro.

-        Buongiorno, capo. – lo apostrofò senza guardarlo.

-        Agente Collins. – il tono era particolarmente solenne – E’ piuttosto mattutina.

-        Non mi sono ancora abituata al cambio di fuso orario, ecco tutto. – minimizzò lei chiudendo il giornale e piegandolo accuratamente – A quanto pare gli omicidi si sono guadagnati la prima pagina.

Passò il giornale a Hotch che cominciò a leggere l’articolo corredato da una foto del parco in cui apparivano famiglie che giocavano. Il titolo parlava del “Collezionista di uteri” e Aaron storse la bocca, chiaramente contrariato da quello che stava leggendo.

-        Oltre al fatto che gli hanno già assegnato un nome e che c’è un corposo approfondimento nella cronaca, abbiamo un altro problema. – gli fece presente Sarah.

-        Cioè? – l’uomo piegò il giornale e lo buttò su di un tavolo basso, evidentemente disgustato dal tono dell’articolo.

-        Il giornalista ha ipotizzato che l’S.I. sia impotente.

Si guardarono, sapendo entrambi che quella era una pessima notizia. Sarah si alzò notando gli addetti che aprivano le porte della sala per la colazione e si incamminò.

-        Lei cosa consiglia, Collins? – la interrogò Hotch senza spostarsi.

-        Un caffè bello forte e tanti zuccheri. Prevedo una giornata impegnativa.

 

Rimasero in silenzio a fare colazione. Hotch, che aveva recuperato il giornale per leggere l’approfondimento in cronaca, aveva preso solo una tazza di caffè mentre Collins si era concessa uova strapazzate, beacon e caffè.

Il silenzio fu interrotto dall’arrivo di Morgan, seguito dal resto del team, che si era avvicinato al tavolo sorridendo.

-        Buongiorno. – disse all’indirizzo di entrambi per poi concentrasi su Sarah - Pensavo che fossi una piuttosto frugale a tavola.

-        E’ importante cominciare la giornata con una prima colazione abbondante. – rispose lei sorseggiando il caffè.

-        In realtà, secondo i nutrizionisti, la colazione è il pasto più importante della giornata. – intervenne Reid poggiando la sua tazza - Studi epidemiologici hanno confermato che una colazione povera o assente si associa a una maggiore incidenza di soprappeso e dell’obesità.[1]

JJ e Prentiss si guardarono sorridendo, era evidente che quel genere di conversazione era normale quando il dottor Reid era nelle vicinanze.

-   Perché se non è fatta i livelli di zucchero nel sangue si abbassano in poche ore, cosa che porta a cercare alimenti che diano una risposta immediata. – continuò Spencer, senza notare le occhiate che gli altri si lanciavano – I bassi livelli di glucosio nel sangue fanno sentire stanchi, spossati e un po’ irritabili. Senza calcolare che il cervello consuma il 60% del glucosio assimilato in una giornata, sempre considerando una dieta equilibrata.

Agitò il coltello con cui stava imburrando un toast e sorrise, come se la cosa fosse divertente.

-    Sapete che oltre il 60% di glucosio del fabbisogno, il cervello brucia anche il 20% dell’ossigeno che respiriamo. La cosa bizzarra è che in realtà il cervello ha un peso…

-     Pari a circa il 2% del totale corporeo. – lo prevenne Collins prima di finire il suo caffè.

Reid la guardò come un bambino cui il genitore aveva fatto un rimprovero, la ragazza al contrario gli sorrise.

-  Direi che siamo pronti. – Hotch pose fine alla colazione di tutti alzandosi – Andremo prima tutti alla centrale di polizia e vedremo il da farsi.

Nessuno disse nulla, si limitarono ad alzarsi e seguirlo. Morgan lanciò un’occhiataccia a Collins, che fece uno sguardo stupito e sospirò facendo spallucce: possibile che quello non fosse mai soddisfatto, nonostante lei ci stesse provando?

 

 

Stazione di polizia, New York

 

Presero tutto posto intorno al tavolo mentre Rossi si era fermato vicino alle scrivanie degli investigatori, intento a rispondere a una telefonata.

-   Ricapitoliamo. – Hotch si mise a sedere dando inizio alla riunione – Che cosa sappiamo?

-   Il soggetto ignoto prende di mira giovani ragazze sui vent’anni, tutte giovani e carine. – cominciò Prentiss aprendo un fascicolo.

-        Non sembra interessato alla razza o altre caratteristiche fisiognomiche. – intervenne Reid cominciando a giocare con una matita – Non sembrano esserci altri collegamenti fra le vittime se non l’età.

-  Le droga e asporta l’utero. – continuò Morgan – La morte è una conseguenza dei farmaci che somministra loro per eseguire l’intervento.

-      Possiamo dedurne che non è la morte delle donne lo scopo primario. – Sarah aveva poggiato le mani sul tavolo e aveva intrecciato le dita, non guardava nessuno di loro – Diciamo che è un “danno collaterale”.

-    Come si può definire danno collaterale l’omicidio di tre ragazze? – JJ sembrava scandalizzata.

-      So che è un brutto termine. – ammise Hotch – Ma la definizione che ne ha dato Collins è quella che sembra più corretta. Sappiamo altro?

-   Le abbandona a Central Park, vicino all’acqua e disegna il profilo di una divinità dei nativi americani. – continuò Reid – Deve avere un significato particolare per lui.

-     Forse approfondendo questa cosa riusciremo a sapere di più sull’S.I. – convenne Derek.

-    Non c’è molto altro da dire, oltre la spiegazione che il dottor Reid ha fornito ieri. – si intromise Sarah alzando finalmente lo sguardo – E’ una divinità Navajo è un dio della fertilità. Oltre che in relazione ai bambini, viene venerato anche come portatore di un buon raccolto.

In quel momento Rossi entrò, aveva ancora il cellulare in mano. Si mise di fianco a Hotch e puntò lo sguardo sul tabellone.

-       Era la dottoressa Black, l’anatomo patologa. – esordì – Sono arrivati i risultati dei test di laboratorio. Tutte le vittime presentano elevati valori di beta hCG.

-       Quindi c’era una gravidanza in corso. – interloquì Spencer.

- Tra poco i familiari delle vittime verranno qui. – Hotch guardò l’orologio – Prentiss, Morgan e Rossi si occuperanno di interrogarli in merito. Collins, in qualità di esperta in comunicazione non verbale, cercherai di individuare possibili bugie o omissioni.

-  Forse sarebbe anche il caso di sentire le amiche delle vittime. – si intromise Collins, fissando Hotch.

-  Verranno anche loro. – li informò JJ – La compagna di stanza di Kimberly O’Connor ha detto che non riuscirà a venire oggi.

-   Siamo sicuri di volerla interrogare qui? – chiese Collins storcendo la bocca – Quella ragazza sarà già abbastanza traumatizzata, credo che si sentirebbe più a suo agio in un ambiente che conosce. So che in alcuni casi si forma una sorta di cameratismo fra compagni di alloggio. Potrebbe sentirsi tenuta a mantenere i segreti della sua coinquilina anche ora che è morta.

-    Collins non ha del tutto torto. – intervenne Rossi, prevenendo un altro scontro fra lei e Hotch – Forse sarebbe il caso di mandare qualcuno che sia vicino a loro come età. Mettere una persona a suo agio è la prima cosa per convincerla ad aprirsi.

Aaron parve riflettere sulle parole di Rossi e poi assentì con aria severa.

-  I colloqui con le famiglie saranno videoregistrati. Per te, Collins, si tratterà di doppio lavoro. – la ragazza distolse lo sguardo e non rispose – Voglio essere sicuro che le famiglie non omettano niente. Obiezioni?

-     No, signore. – la ragazza posò i pugni chiusi sulle gambe – Andrete tu e Reid, come età siete i più vicini alle vittime.

-  D’accordo. – Reid si alzò guardando la nuova collega che, invece, fissava un punto dritto davanti a lei.

Sarah si alzò a sua volta senza proferire parola. Evidentemente il capo voleva mettere alla prova le sue capacità e lei si sentiva sfidata sul piano professionale. Se quell’uomo pensava di intimidirla in qualche modo sbagliava di grosso.

-     JJ, tu occupati di organizzare una conferenza stampa. Dobbiamo porre un freno alle illazioni dei giornalisti. – Hotch indicò il giornale che aveva portato dall’albergo e che ora giaceva sul tavolo.

-    Sanno un bel po’ di cose, specialmente l’autore dell’articolo di punta. – Morgan guardò nuovamente l’articolo – Devono avere un informatore all’interno della polizia.

-    O dell’obitorio. – si intromise Rossi – Le informazioni che riportano nell’articolo possono averle avute anche da qualcuno che lavora per il medico legale.

-     Provvederò a convocare una conferenza stampa per oggi pomeriggio. – JJ tirò fuori il cellulare, pronta a mettersi all’opera.

-  Meglio domani mattina. – decise il caposquadra – Abbiamo tutto il giorno per raccogliere nuovi indizi e stilare un profilo preliminare. Non sarà necessario darlo anche ai giornalisti, ma dovremmo quantomeno dare loro qualcosa che li faccia desistere dal pubblicare certe notizie non confermate.

- Pensate che il soggetto ignoto possa scompensare una volta letto l’articolo in prima pagina? – Prentiss presa a sua volta il giornale e scorse il pezzo – Come gli è venuto in mente di dire che soffre di impotenza?

-  Perché quelli che si improvvisano esperti sguazzano in queste situazioni. – Morgan si alzò e si diresse verso la porta – JJ, sai già che sale ci hanno assegnato? Sarà meglio preparare l’attrezzatura audio video.

-        Ti accompagno. – rispose Jennifer solerte.

-        Tutti al lavoro. – Hotch chiuse la riunione.

 

-    Stai facendo pressione, eh? – Rossi era rientrato nella sala, dove Hotch era intento a sfogliare i dossier.

-        Voglio solo essere sicuro che sia all’altezza. – non si voltò neanche a guardare il vecchio amico.

-        Sicuro che non sia una ripicca per quello che è successo fra voi ieri? – notando il silenzio dell’altro continuò – So che ti è sembrato un atto di sfida, anzi… probabilmente lo era.

-        E’ solo lavoro, Dave. – cercò di sembrare convinto – Non conosco ancora le sue capacità e voglio metterla alla prova.

-        Il fatto che sia una spia mandata dalla Strauss non c’entra niente con il fatto che la vuoi mettere sotto torchio, vero? – non aspettò la risposta e uscì dalla stanza.

 

Continua…

 

 

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