THE RIVER

di Puerto Rican Jane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1- Me and Mary we met in high school ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2- Roy Orbison is singing for the lonely ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3-Sandy ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4- The everlasting kiss ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5- The river ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6- We're gonna find a way ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7- Candy's room ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8- When our love was young and bold ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9- Follow that dream (or not?) ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10- I know it's late, but we can make it if we run ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11- Downbound Train ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12- I don't know what I'm gonna find ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13- Or is it something worse? ***
Capitolo 14: *** EPILOGO ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1- Me and Mary we met in high school ***


THE RIVER

 

CAPITOLO 1 (ME AND MARY WE MET IN HIGH SCHOOL)
 

Marzo 1967, New Jersey. Mary era seduta sul suo banco di scuola, ascoltando e prendendo appunti sulla lezione. Non poteva permettersi distrazioni, non lei. Doveva prestare sempre attenzione alle parole dei professori, in modo da non perdere una sola sillaba della spiegazione, così che nei test avesse potuto prendere un voto alto: la sua famiglia non aveva molti soldi, e lei riusciva ad andare a scuola solo grazie alla borsa di studio annuale. La campanella suonò. Non le piaceva molto l’intervallo: stava sempre sola in un angolo con i suoi pensieri. Non che volesse un compagno con lei; no, era un tipo solitario e preferiva poter riflettere da sola. Più che altro non le piaceva vedere quelle oche delle sue compagne comportarsi come delle stupide, con quelle risatine forzate, per cercare di far colpo su qualche giocatore della squadra di football. Proprio non le capiva: perché rinunciare alla propria libertà e, soprattutto, alla propria dignità per piacere a un ragazzo che ti considera come un oggetto di piacere?
Mentre era assorta in questi pensieri si accorse di non essere l’unica solitaria: poco lontano da lei c’era un ragazzo, alto, con capelli e occhi molto scuri e un naso piuttosto pronunciato, che scarabocchiava qualcosa su un foglio di carta sgualcito. Si avvicinò di qualche passo: era attirata da lui, principalmente per il fatto che, come lei, sembrava non rimpiangesse la solitudine piuttosto di essere affiancato da gente sciocca. Quando si trovò a pochi metri da lui e dal suo foglio, gettò rapidamente lo sguardo sul pezzo di carta per vedere cosa ci fosse scritto. Colse solo due parole “Bruce S.”, scritte sulla prima riga: doveva essere il suo nome. Cercò di ricordare dove aveva già sentito quel nome che le suonava piuttosto familiare: Bruce, Bruce, Bruce S. … Ma certo! Fu presa da un forte imbarazzo, ricordandosi che quel “Bruce S.” non era altro che proprio un suo compagno di classe: Bruce Springsteen! Si vergognò di se stessa, ma poi cercò di giustificarsi, vanamente, dicendosi che quel ragazzo sedeva sempre in ultimo banco, non parlava mai e molte volte era assente (perché marinava la scuola). Era piuttosto impopolare a scuola, non veniva preso in considerazione e nemmeno i professori volevano avere a che fare con lui. E spesso veniva preso in giro per la sua passione (sfrenata) per la musica rock’n’roll e le chitarre. Pensando a come veniva trattato, Mary decise di farsi avanti e provare a parlargli: una conoscenza non gli avrebbe di certeìo fatto male.
-Che stai scrivendo?- chiese Mary con il tono più cortese che riuscì ad esprimere.
-Cosa?- disse lui in risposta alzando gli occhi. Aveva una voce profonda e un po’ roca: una voce virile.
-Volevo sapere cosa stavi scrivendo… Ho visto che anche tu eri solo e che stavi scrivendo, e allora ho pensato che… che… che stessi facendo i compiti di lettere, e magari ti serviva un aiuto…- In realtà Mary non credeva minimamente a ciò che aveva appena detto, perché Bruce sembrava l’ultima persona al mondo a cui importasse qualcosa dei compiti di lettere e, più in generale, della scuola, ma non aveva saputo che altro inventarsi per attaccare il discorso. “Che idiozia che ho detto!” pensò tra sé Mary.
-Lettere? No, no…- replicò lui con un’aria divertita: sembrava averle letto nel pensiero –sto buttando giù qualche pensiero. Per le canzoni, sai…-
-Canzoni?-
-Sì. Mi esibisco proprio questo sabato in un locale ad Asbury Park. Canto alcune mie canzoni e qualche cover. Non si guadagna neanche male, così ho anche i soldi per la benzina. -
-Sul serio canti? E scrivi canzoni? Wow! Mi piacerebbe sentirti, qualche volta…- disse Mary ammirata. Si era sbagliata sul suo conto: non era solo. Lui aveva il suo mondo, fatto di musica, la migliore amica dell’uomo, la compagna più fedele.
-Beh, se ti va, questo weekend alle dieci e mezza al bar S*** ad Asbury Park. Puoi sentirmi lì. -
La campanella suonò di nuovo per segnalare la ripresa delle lezioni. Bruce si alzò pigramente e si diresse verso le scale che portavano alla loro classe, con Mary dietro. Le sarebbe piaciuto molto andarlo a vedere, ma suo padre non avrebbe mai acconsentito, anche perché non avevano un auto. Mary raggiunse Bruce di nuovo, un attimo prima che entrasse nell’aula, prendendolo per un braccio.
-Hai detto di avere la macchina, no? Non potresti darmi un passaggio sabato fino a quel locale? Noi… Beh, la nostra auto è a riparare. – Si vergognava sempre un po’ a dover ammettere che la sua famiglia non poteva permettersi una macchina, ed erano perciò costretti ad utilizzare i mezzi pubblici, così Mary diceva che la loro macchina non funzionava bene: non era molto plausibile, dato che suo padre era un meccanico, ma era l’unica scusa accettabile che le veniva sempre in mente in casi come quelli.
Bruce rimase un po’ spiazzato dalla proposta di Mary, ma subito rispose:
-Ehm, certo, basta che mi dici dove abiti. Però passerò alle otto, perché io e la band dobbiamo fare le prove e sistemare le attrezzature prima, perciò dovrai aspettare un po’ lì al locale. Va bene lo stesso?-
-Oh, sì, certo!- Mary non sapeva bene perché aveva reagito così d’istinto, chiedendogli un passaggio, ma sentiva di dover ascoltare quel ragazzo.
 
Durante le due ore che seguirono l’intervallo Mary non riuscì a concentrarsi sulla lezione di matematica: la sua mente era già a qual sabato che presto sarebbe arrivato. Ma era andata anche ben oltre. Già si immaginava quel ragazzo bruno dedicarle una canzone, rivelandole che l’amava da molto tempo, ma che lei non se n’era mai accorta. Si vergognò di se stessa di nuovo quando si rese conto delle sue fantasticherie: non era la prima volta che la sua mente (una mente molto romantica) vagava libera, concedendole tristi piaceri immaginari che non si sarebbero mai realizzati, su persone che a volte non conosceva nemmeno, ma che l’attiravano. Probabilmente la sua mente agiva così perché non aveva mai trovato un vero amore, quello che molte ragazze sperano di trovare, magari non proprio come quello delle fiabe, ma le bastava che fosse reale; allora cercava in persone sconosciute un lato nascosto e immaginario che le rendeva  l’uomo della sua vita che Mary continuava a cercare.
Si riscosse dalle sue romantiche fantasticherie solo quando il professor Brown cominciò a consegnare i compiti corretti di matematica. Mary non si preoccupava per sé: sapeva di essere brava a scuola; infatti prese una “A”. Ma dopo aver dato un vago sguardo alla verifica si volse verso gli ultimi banchi: il compito di Bruce era lì, sul banco, quasi completamente bianco, a parte una grande “F” rossa. Ma lui sembrava non vederla; i suoi occhi erano persi nel vuoto, quasi sognanti: forse già si vedeva sul palco con la chitarra a tracolla e un microfono davanti, dove ogni problema svaniva e c’era solo una cosa: il rock’n’roll.
Mary lo invidiava: al suo posto si sarebbe disperata per quel voto (interiormente, naturalmente: non sopportava pianti incontrollati in pubblico), mentre lui era tranquillo e beato nel suo mondo, nel quale era una stella. Mary, accorgendosi del fatto che stava fissando Bruce da qualche minuto, si girò di scatto, cercando di sembrare assorta dalle parole del signor Brown:
-Bene ragazzi, anche se siamo già a marzo voglio ricordarvelo lo stesso: a giugno riceverete il diploma, nel caso qualcuno lo avesse dimenticato. Ma se, e solo se, i voti delle vostre materie saranno tutti positivi. Quindi consiglierei a quegli asini che hanno preso “F”- e qui gettò uno sguardo ai ragazzi seduti negli ultimi banchi- di cominciare a studiare almeno adesso, se non vogliono passare un altro anno qui con me. –
In effetti i voti di Bruce non dovevano essere proprio bellissimi. Anzi, a dire il vero, probabilmente aveva tutte le materie insufficienti: e questo significava bocciatura. Certo, lei avrebbe potuto aiutarlo con lo studio, ma non le sembrava carino: era come ammettere di essere la più brava della classe e sbattergli in faccio di essere invece solo un povero sciocco. E inoltre, stava correndo troppo: si erano scambiati solo qualche parola, e Mary non solo gli aveva già chiesto un passaggio, ma aveva passato buona parte di quelle due ore a fantasticare su un loro amore inesistente e su dei loro possibili incontri di “studio”. Aveva la brutta abitudine di credere di piacere agli sconosciuti; forse per avere la speranza di un amico, quando nessuno la consolava mai nella sua triste solitudine.
Ma non ci fu però più il bisogno di continuare a fantasticare: infatti, mentre stavano uscendo da scuola, Bruce le si avvicinò:
-Senti, Mary,- aveva detto solo due parole, ma lei era già sorpresa: non solo per il fatto che le stesse rivolgendo la parola, ma anche perché conosceva il suo nome! –forse ti sembrerò un po’ sfacciato,- (qui Mary avrebbe potuto ridere molto: lui si sentiva sfacciato? Se solo avesse saputo quali erano stati i suoi pensieri solo fino a pochi minuti prima!)- ma ho bisogno di aiuto, e tu sei l’unica che in cinque anni mi ha detto più di due parole, e per di più senza l’intenzione di prendermi per il culo. Quindi volevo chiederti se mi potresti aiutare con lo studio. Sai, sono veramente uno zero a scuola, e quest’anno rischio seriamente. Potresti venire oggi da me dopo pranzo? O anche adesso, ti porto io in auto così non devi prendere l’autobus. Potresti?-
-Sì, certo, con piacere. Aspetta solo un attimo, avverto mia madre. – Si diresse verso una cabina telefonica vicina per chiamare i suoi genitori. Mentre componeva il numero pensava:
“Èdavvero così disperato da chiedere un aiuto a me? Mi sembra così strano… E se forse…”
-Pronto?- Era sua madre. Mary spiegò che doveva aiutare un amico con lo studio e che perciò non sarebbe tornata per il pranzo. Sua madre stranamente non fece obiezioni e la lasciò andare. Mary tornò da Bruce che la stava già aspettando in macchina: la mise in moto e partì. Accese la radio, cambiando stazione fino a quando non ne trovò una dove stavano trasmettendo una canzone di Elvis Preasley.
-Lui è il mio eroe: voglio diventare come lui, anzi, migliore di lui!-
-Sono sicura che ci riuscirai. – disse Mary seria, guardandolo. Lui si voltò verso la ragazza: i loro sguardi si incontrarono per pochi, tesissimi secondi. Poi entrambi distolsero frettolosamente gli occhi: lui tornò a guardare la strada, lei sembrò assorta dal paesaggio fuori dal finestrino. Dopo un po’ ripresero a parlare di musica per colmare quel silenzio: anche a Mary piaceva “the King”, ma anche la musica psichedelica britannica dei “Beatles” e dei “Pink Floyd”. Sapeva di non essere molto patriottica, ma in quel periodo aveva perso la sua fiducia nei confronti dell’America, da quando aveva intrapreso la disastrosa guerra in Vietnam.
-Sono assolutamente d’accordo. Molti ragazzi sono andati, e molti non sono tornati. E i pochi che sono tornati non sono stati più gli stessi. Mi ricordo il batterista nella mia prima band, era venuto fuori casa mia con la sua uniforme da Marines addosso, dicendomi che stava andando ma non sapeva dove. - rimase per qualche secondo a contemplare la strada, assorto dai suoi pensieri –Inoltre credo che se non finirà presto dovrò arruolarmi: a settembre compio diciotto anni. Ma soprattutto non voglio entrare nell’esercito (a parte naturalmente il fatto che se parto ritornerò in una bara o non ritornerò affatto) perché mio padre lo vorrebbe. Odio mio padre. Li vedi i miei capelli? Questi sfottuti capelli?- disse Bruce indicandosi i ricci che aveva in testa –Bene, fino a qualche mese fa li avevo lunghi oltre le spalle: era un segno di ribellione, per me, contro la campagna in Vietnam e contro il governo. Ma mio padre non lo capiva. Poi ho avuto un incidente in motorino, dove mi sono rotto una gamba. Ero relegato a letto, non potevo muovermi, e mio padre chiamò un barbiere. E mi tagliò i capelli. Allora ho giurato di odiarlo, e che non l’avrei mai dimenticato.
-Lui è quel genere di uomo patriottico, adorante del paese, ma che non si rende conto che è proprio lui che gli toglie i soldi, dopo avergli rotto la schiena facendolo lavorare tutta una vita. –
Bruce fermò la macchina. Si trovavano davanti a una tipica casa americana, con una grande veranda. Mary fece per dirigersi verso la porta principale, ma lui la prese per un braccio, dicendole:
-No, non davanti. Non voglio che i miei ti vedano. Cominceranno a urlare qualche stronzata sul fatto che io… Non faccio mai niente, ecco. O… Cose simili. E non voglio che ti diano questa accoglienza. -
Quindi entrarono da una porta sul retro. Salirono le scale ed entrarono in una stanza dalla porta un po’ consunta.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2- Roy Orbison is singing for the lonely ***


CAPITOLO 2 (ROY ORBISON IS SINGING FOR THE LONELY)
 
La camera di Bruce non era molto grande, era piuttosto disordinata e anche un po’ sporca, con oggetti di ogni genere sul pavimento: dai vestiti ai giornali, da carte di plastica a libri. Le uniche cose in ordine e pulite erano una chitarra “Gibson”, tutta lucida e appoggiata delicatamente sul letto, un grande poster di Elvis appeso alla parete e una pila di vinili posti ordinatamente in un angolo della stanza. La camera aveva una sola, grande finestra, che dava sulla strada, posta in una rientranza della parete, in modo da avere subito sotto una sorta di panchina. Si sedettero lì, tirarono i libri fuori dalle borse e cominciarono a fare i compiti. Mary si impegnò a spiegare chiaramente e  pazientemente tutto ciò che lui non capiva; da parte sua Bruce stette attento la maggior parte del tempo, a parte qualche momento in cui la guardava fisso, perdendosi fra i riflessi degli occhi scuri di Mary, apparentemente pensando ad altro. Mary se ne accorse e cercò di risvegliarlo:
-Ehi! Bruce! Ci sei?-
-Sì? Cosa? Oh, scusa, stavo solo… Aspetta un attimo, che ore sono?- disse guardando un orologio alla parete -Le sei…Beh, mi è venuta un po’ di fame, e a te? Dovrei avere qualche tralcio di pizza avanzato. Vado giù un attimo a prenderli. - Si alzò e uscì dalla porta. Mary intanto si rannicchiò in un angolo, abbracciandosi le gambe e appoggiando il mento sulle ginocchia, guardando fuori dalla finestra e pensando:
“Forse se n’è andato perché lo annoio o perché non può guardarmi da quanto sono brutta. Dev’essere così, probabilmente mi ha chiesto di aiutarlo solo per riuscire a passare l’esame, sorvolando inizialmente sul fatto che sono noiosa e inguardabile. Ma ora se n’è reso conto, e sarà uscito fuori con i suoi amici, con la scusa del cibo, lasciandomi qui da sola!” Turbata da questi pensieri, causati dal modo in cui Bruce aveva cercato frettolosamente una scusa per andarsene, Mary rimase a fissare la strada, aspettandosi da un momento all’altro di vederlo comparire lì e dandosi della sciocca per aver pensato anche solo per un istante di poter piacere a quel ragazzo. Qualche minuto dopo però Bruce tornò con due fette di pizza, a dispetto dei pessimistici pensieri di Mary, trovando la ragazza rannicchiata in un angolo della finestra, con i biondi capelli che le coprivano il viso. Si sedette di fronte a lei, prendendo una fetta di pizza e addentandola, continuando a fissarla.
-Tutto bene?-
-Oh, sì, certo-
-Non hai fame?-
-Non molta…- disse provando a prendere un tralcio di pizza e portandolo alla bocca, cercando di assaggiarne un pezzetto, ma inutilmente: un nodo le chiudeva lo stomaco.
-Sul serio, mi sembri un po’ giù rispetto a prima. Sicura di star bene?-
-Sì, sto benissimo, grazie! È solo che… Insomma, abbiamo studiato abbastanza per oggi, potremmo fare… Beh, qualcos’altro. -
-Ottima idea!- esclamò Bruce, decisamente sollevato. Dopo che ebbero finito di mangiare (Mary riuscì a mangiarne solo metà) uscirono di casa. Nel momento in cui l’aveva visto sorridere, dal modo in cui l’aveva guardata e dal modo in cui si era interessato a lei, capì che non la trovava noiosa e nemmeno brutta, e finalmente tornò tranquilla.
-Dove possiamo andare?- chiese Mary.
-Beh, conosco un posto carino non lontano da qui; possiamo anche andarci a piedi. – Quindi si avviarono, chiacchierando pacificamente come due vecchi amici. Dopo un quarto d’ora di strada arrivarono al bar. Vi entrarono e presero una birra in due. Il locale non era molto affollato, ma c’era una radio che trasmetteva musica a tutto volume.
-Ehi, ma questo e Roy Orbison?- disse Bruce indicando la radio, riferendosi alla canzone che stava riproducendo –Mary, questa non te la puoi perdere! Devo fartela conoscere! E per conoscerla devi ballarla: secondo me non apprezzi veramente una canzone fino a quando non l’hai ballata! Dai vieni!- disse lui, sorridente, prendendola per mano e facendola alzare.
-Aspetta! Io non so ballare! Sembro un manico di scopa!- disse lei, fra il divertito e l’imbarazzato.
-Non importa! Ti aiuto io! Non pensarci troppo! Anche se sembreremo due cretini ci divertiremo!-
-Ma…- cercò di ribattere Mary.
-Dai, balla per me, e con me. –
La portò al centro della sala; nonostante non ci fossero molte persone, quelle poche stavano  guardando divertiti quei due giovani ragazzi. Mary era molto in imbarazzo, ma fece come le aveva detto Bruce, e non ci pensò troppo. Lui, sorridente, le passò una mano dietro la schiena, e con l’altra le prese la mano. Cominciarono a ballare. Mary, inizialmente molto impacciata, non faceva che guardare in basso: sia per paura di pestargli i piedi, sia per paura di incontrare il suo sguardo. Lui invece si muoveva con movimenti fluidi e disinvolti, non doveva essere la sua prima volta: era molto bravo. Dopo un po’ Mary si rilassò, e si lasciò condurre da Bruce. Con nuovo ardore si strinse un po’ di più a lui, cominciò a ballare con più disinvoltura e, finalmente, alzò gli occhi sul suo viso: era raggiante, con un sorriso da un orecchio all’altro. Anche lei sorrise, felice di essere lì con lui. Pensò alla stranezza della situazione: fino a poche ore prima non si erano mai rivolti la parola e ora ballavano insieme! Forse aveva qualcosa che lo attirava. E anche lui aveva qualcosa che la seduceva. Gli scherzi del destino.
Dopo un ultimo volteggio la canzone finì, e loro smisero di ballare: pochi minuti prima aveva sperato che la musica finisse presto per togliersi dall’imbarazzo, ma ora avrebbe continuato per ore a ballare, solo per restare stretta a lui. Rimasero così per alcuni secondi, guardandosi; erano molto vicini, Mary poteva vedere ogni particolare del suo viso: dalla barba mal rasata alle fossette sulle sue guance, da ogni ombra nei suoi occhi scuri ad ogni riccio che gli ricadeva disinvoltamente sulla fronte. Così vicina da sentire il suo profumo, un profumo dal quale era inebriata. Lui si avvicinò ancora un po’ di più, fattosi tutto a un tratto serio, ma Mary si scostò, liberandosi dalla sua stretta e, guardandolo negli occhi, ritornò al tavolo. Non sapeva perché lo aveva fatto. Forse perché si era resa conto di quanto fosse ridicola quella circostanza: solo nove ore! Si conoscevano praticamente da nove ore! Nel momento in cui lui si era fatto serio il cervello di Mary aveva ripreso a funzionare, e con esso anche la sua razionalità, che le aveva detto una sola cosa, ma quella era bastata: “Ridicola”. Ma da quando l’amore è razionale?
Bruce la raggiunse al tavolo, dove Mary stava sorseggiando la birra, con uno sguardo triste e un po’ deluso. Lei evitò i suoi occhi: forse si aspettava che cadesse ai suoi piedi con un semplice ballo? Ma doveva ammettere che era stato veramente bello… Non sapeva perché si comportava così: dentro di lei il suo cuore e il suo cervello stavano combattendo una furiosa lotta. Mary, cercando un modo per riempire quel silenzio imbarazzante e per andarsene da lì disse:
-Sono le otto. Io dovrei andare a casa. Non preoccuparti! Non serve che mi…- qui si fermò: aveva lasciato la borsa nella stanza di Bruce. Questa non ci voleva. Avrebbe dovuto tornare lì, rischiando di cedere di nuovo alla passione. –Mi è venuto in mente: ho lasciato la borsa a casa tua. Possiamo tornare a prenderla? Ci metterò un secondo. –
-Sì, certo. –
Sulla strada del ritorno parlarono molto meno rispetto all’andata: con il rifiuto di Mary qualcosa si era raffreddato.
Quando arrivarono all’entrata della camera di Bruce, lui le aprì la porta, ma non la seguì dentro. Lei entrò, prese la borsa e uscì: un secondo. Trovandosi di fronte a lui disse un debole “Ciao, grazie di tutto” che lui contraccambiò cortesemente, e fece per andarsene. Aveva appena raggiunto le scale, quando si rese conto del suo comportamento: perché si stava facendo del male da sola? Si fermò di scatto, tornò indietro correndo da lui, ancora sulla porta e lo abbracciò forte, sussurrandogli all’orecchio di nuovo, ma con più entusiasmo: -Grazie!- Quindi gli diede un lungo bacio sulla guancia. Lui era molto sorpreso, ma ora era tornato a sorridere, felice dell’affetto che quella strana ragazza gli aveva dimostrato.
-Sicura di non volere quel passaggio?-
-A dire la verità non mi dispiacerebbe. – gli rispose Mary sorridendo.
 
 
Si girò per andarsene, questa volta definitivamente, ma ora aveva Bruce assieme a lei. Era felice. Felice di avere qualcuno che le voleva bene. Felice di sapere che là fuori c’era qualcuno che la apprezzava. Quella notte Mary non dormì molto: la sua romantica mente stava già navigando nel mare di ricordi, rivivendo ogni attimo della giornata appena trascorsa, pensando già a come rimediare al danno commesso al bar.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3-Sandy ***


CAPITOLO 3 (SANDY)

 
 
La settimana che seguì volò così in fretta che quasi Mary non si rese conto che fosse già sabato: il giorno tanto aspettato. In quei sei giorni lei e Bruce si erano avvicinati molto di più: ogni momento libero durante le lezioni scolastiche lo passavano assieme, e così i pomeriggi di studio; dopo scuola Mary andava con Bruce alla casa di lui e passavano metà del pomeriggio a studiare e l’altra metà a chiacchierare. Erano molto simili: erano ambiziosi, ed entrambi desideravano andarsene da quella città di uomini morti in cui vivevano. Ma erano anche diversi: uno era aperto, passionale e ribelle, l’altra era timida e tranquilla. Diventarono presto inseparabili. Ma a scuola si andava dicendo che, però, che vi fosse del tenero tra i due: tutto a un tratto erano così affiatati e la ragazza, Mary, andava ogni giorno a casa di lui dopo scuola. Loro non prestavano ascolto a quelle dicerie, anche se Mary avrebbe voluto che fossero vere. Infatti Mary, dal momento in cui era tornata indietro da lui per abbracciarlo, si era resa conto di quanto ci tenesse, e di quanto le dispiacesse vederlo rattristato. In poche parole, aveva ammesso a se stessa di essersi innamorata. Naturalmente faceva di tutto per nasconderlo: se lui l’avesse capito… Non osava nemmeno pensarci, tale era l’imbarazzo al solo pensiero. E, cosa più importante, se lui l’avesse capito ma non contraccambiasse, la loro amicizia non sarebbe stata più la stessa, anzi probabilmente sarebbe svanita, e sarebbero tornati ad essere poco più di conoscenti.
Il sabato pomeriggio, già dalle cinque, Mary cominciò a pensare a come vestirsi: di solito non prestava molta attenzione all’abbigliamento, ma questa era un’occasione speciale; e, dopo tutto, era una ragazza anche lei. Si truccò, si sistemò i capelli e si vestì con cura. Al termine della preparazione si rimirò davanti allo specchio, per contemplare il risultato: sì, poteva andare, forse aveva qualche possibilità di farcela. Alle otto si fece trovare davanti al cancello, per aspettarlo. Lui arrivò puntuale, e per l’occasione aveva tolto il tettuccio dell’auto.
-Mary, sei uno schianto! Davvero, sei bellissima!-
-Dai, non dire cazzate…- rispose lei arrossendo violentemente, ma sorridente, compiaciuta segretamente da quel complimento. Dopo mezz’ora di macchina, durante la quale parlarono e scherzarono amabilmente, arrivarono ad Asbury Park. Il locale nel quale Bruce doveva esibirsi era molto grande, con uno spazioso palco; era già piuttosto affollato nonostante fossero solo le otto e mezza. Era frequentato soprattutto da uomini e Mary, specialmente quando poi Bruce sparì dietro le quinte, si sentì a disagio, in particolar modo a causa dei languidi sguardi che qualcuno le lanciava, ammiccando. Mary distoglieva subito gli occhi, cercando di non curarsene. Per ingannare il tempo e per non prestare attenzione alle avance dei frequentatori del locale, Mary ordinò una birra (da quando aveva conosciuto Bruce aveva scoperto la sua bellezza). Fra tutti gli uomini, in particolare uno ci stava provando spudoratamente con Mary: la copriva di squallidi e volgari “complimenti” e di occhiate desiderose; lei faceva finta di non sentire e si mostrava calma, ma alla fine la situazione si fece insostenibile quando il corteggiatore decise di sedersi al tavolo di Mary, cominciando già ad allungare le mani. Lei stava già per aprire la bocca per dirgli di alzarsi, quando una voce rabbiosa alle sue spalle la precedette:
-Ehi, amico! Alza il culo e vai a mettere le mani su qualche altra pollastra! Questa è già prenotata!-
Era stato Bruce a parlare. Era uscito un attimo, durante una pausa prima dell’esibizione, per tenere compagnia a Mary, quando aveva visto quell’uomo importunarla: una rabbia mista a gelosia lo aveva invaso e lo aveva spinto a intervenire.
L’uomo si alzò, imprecando furentemente, per cedere il posto a Bruce.
-Mary! Non posso lasciarti sola cinque minuti che già fai strage di uomini?! È così che mi tradisci?- scherzò lui. Mary rise, ma in cuor suo sperò che, con quell’ultima frase, Bruce avesse lasciato trasparire qualcuno dei suoi veri sentimenti. Finirono il boccale assieme, quindi lui tornò dietro il palco: fra cinque minuti avrebbe cominciato a suonare. Mary, impaziente sul suo tavolo in prima fila, aspettò che passassero quei maledetti cinque minuti. Finalmente Bruce salì sul palco, con la chitarra  in mano, accarezzandola nel modo in cui l’avrebbe fatto con un’amante. Mentre guardava il pubblico, avvicinandosi al microfono, un’ombra di panico gli attraversò gli occhi, per poi svanire e trasformarsi in estasi nel preciso istante in cui cominciò a cantare e a suonare la chitarra. La sua voce roca e profonda riempiva tutto il corpo di Mary: non si era mai sentita così strana, così felice e libera; così piena di vita e di voglia di seguire e realizzare i suoi sogni: sentiva che se l’avesse fatto ci sarebbe riuscita, sarebbe riuscita a fare qualunque cosa. Perché era questo che le parole, la voce e la musica di Bruce ti dicevano: vai, corri, e realizza i tuoi sogni perché solo ora puoi farlo. Lo ascoltò assorta, applaudendo fino a spellarsi le mani: quel ragazzo ci sapeva con la chitarra.
Erano arrivati ormai a fine serata, quando Bruce annunciò con quella sua voce maledettamente attraente il titolo dell’ultima canzone:
-Questo è l’ultimo pezzo, scritto da me; si chiama “Sandy”. Ed è per te, Mary. – E sorridendo affettuosamente la indicò con la mano dal palco. Lei arrossì e sorrise; dentro di lei il cuore fece tre capovolte e cominciò a battere all’impazzata: quasi si stupì che Bruce non lo sentisse. Le stava dedicando una canzone, una vera canzone! I suoi sogni e desideri più sfrenati si accesero all’attaccare della prima nota.
“Sandy, i fuochi d’artificio brillano sopra Little Eden stanotte…”
La mente di Mary già ballava fra le note e le parole di quella canzone, immaginando se stessa al posto di Sandy.

“Sandy, l’aurora sta sorgendo alle nostre spalle

Quelle luci sul molo saranno la nostra festa per sempre

Amami questa notte perché potremmo non rivederci mai più”

“Non solo questa notte e non solo sul molo ti amerò: ma sempre e ovunque.” giurò mentalmente Mary, commossa dalle parole della canzone. Mary sperò che quella serenata non finisse mai, ma naturalmente a un certo punto la voce di Bruce si spense sull’ultima nota e la chitarra smise di suonare. Mary si alzò in piedi e salì sul palco ad abbracciarlo, noncurante della folla che sbraitava. Ecco, avrebbe voluto rimanere così per sempre, aggrappata a lui, con le sue mani sulla schiena e il suo respiro sul collo.





Ciao a tutti! Volevo ringraziarvi per le molte visualizzazioni che ho ricevuto (se avete voglia magari mettete anche recensione-ina-ina: vorrei sapere se vi piace e se vale la pena continuarla!).
Se vi interessa questo è il link per sentire la canzone "Sandy" :
  https://www.youtube.com/watch?v=KgFHM8HMbWQ

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Capitolo 4
*** Capitolo 4- The everlasting kiss ***


CAPITOLO 4 (THE EVERLASTING KISS)

 
Erano le tre del mattino, e Bruce e Mary stavano correndo in macchina, con l’aria fra i capelli a causa del tettuccio abbassato, un po’ brilli, cantando il ritornello di “For you” (una canzone che Bruce aveva cantato quella sera) a pieni polmoni, su una strada deserta. Decisero di accostare l’auto e di fermarsi: era una di quelle tranquille sere limpide, ma piene di una fresca aria frizzante che riempie di vita. Entrambi appoggiarono i piedi sul cruscotto e alzarono lo sguardo al cielo: era terso e, dato che si trovavano in un luogo non illuminato e non vi era la luna quella notte, era un mare pieno di stelle splendenti.
-Mary, ti rendi conto di quanto è grande l’universo? E di quanto siamo piccoli noi? E che ce ne stiamo ancora qui, in questa città piena di perdenti? Ma io un giorno me ne andrò di qui. Per vincere. -
-Te ne andrai? E non mi porti con te?- chiese Mary provocante.
-Io ti porto ovunque.- borbottò lui.
-E io verrò ovunque con te.-
Lui si girò a guardarla,  fattosi serio. In un attimo le fu addosso e, passandole una mano tra i capelli e una su un fianco la baciò appassionatamente. Lei rispose al bacio con un trasporto forse maggiore rispetto a quello di lui. Le loro lingue finalmente si incontrarono in una danza sensuale, desiderose di percepire il sapore del compagno. Bruce, prendendola in braccio, la sollevò, passandola dal sedile del passeggero a quello del conducente, sopra di lui. Mary sentiva le sue mani toccarla dappertutto e, eccitata da quelle carezze, appassionò ancora di più il suo bacio e gli passò una mano tra quei ricci che avrebbe voluto da sempre scompigliare. Si strinse ancora di più a lui. Non seppe dire per quanto rimasero così avvinghiati, ma per entrambi furono i minuti più belli della loro vita. Quando alla fine si staccarono, Bruce, con quella sua profonda voce, sussurrò:
-Mary, sei fantastica. E sei bellissima. Bellissima. E ti amo, ti amo. E, ti prego, non amarmi solo questa notte, ma sempre.-
Ripresero a baciarsi con trasporto; la bocca di Bruce scese a baciarle il collo, ogni tanto interrotta dalle parole “Ti amo, ti adoro”, ripetute sempre con maggior passione.
Quando anche quel lungo bacio finì, Mary rimase distesa su di lui, con la testa appoggiata sul suo petto e un braccio attorno al suo fianco, con lui che le accarezzava i capelli e la guancia. Rimasero così per un po’ a contemplare le stelle e il loro amore appena dichiarato, prima che Bruce chiedesse:
-Ti è piaciuta la tua canzone?- con nuovo affetto.
-Oh, sì, è la canzone più bella che abbia mai ascoltato, anche migliore di quelle dei “Beatles”. Solo una cosa mi ha lasciato un dubbio- aggiunse poi Mary con malizia –prima, al locale, avevi detto cheio ti tradivo con il tipo del bar. E con te come la mettiamo? Questa Sandy e queste ragazze della fabbrica che promettevano di farsi slacciare i jeans?-
-E tu, Mary? Ti lasceresti slacciare i jeans?- chiese Bruce con un’espressione tra il serio e il desideroso.
-Oh, sì. Anche ora.- sussurrò Mary, anche lei fattasi seria.
-Allora andiamo.- disse lui prendendola di nuovo in braccio e rimettendola sul suo sedile. Mary, un po’ interdetta, lo guardò interrogativa. Lui rispose con uno sguardo strano, rassicurante e malizioso al tempo stesso. Accese la macchina e imboccò una stradina sterrata sulla destra.
-E da un po’ che stavo pensando a questo pezzo. È solo l’inizio, ma voglio sapere che ne pensi- disse Bruce a un tratto, quindi cominciò a cantare:

“Sono nato in fondo alla valle
Dove, signore, quando sei giovane
Ti insegnano a fare quello che faceva tuo padre.
Io e Mary ci siamo conosciuti al liceo,
Quando lei aveva solo diciassette anni.
Ci allontanammo in macchina da questa valle
Verso posti dove i campi sono verdi
Siamo andato giù al fiume,
E nel fiume ci siamo tuffati.
Oh, abbiamo guidato giù al fiume.”



-È lì che stiamo andando? Al fiume?- chiese Mary guardandolo.
-Sì, infatti.-
-È stupenda. Stupenda.-
-Questa volta non ho messo nessuna Sandy. Solo Mary. La mia Mary.-
-E nessuna amante?-
-L’unica amante di cui avrò mai bisogno è la tua soffice dolce, piccola lingua di bambina.-

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Capitolo 5
*** Capitolo 5- The river ***


CAPITOLO 5 (THE RIVER)

 
Fermarono l’auto sotto un alto e folto acero, poco distante dalla riva di un calmo fiume. Una volta scesi, Bruce e Mary si guardarono negli occhi. Bastò uno sguardo.
-Andiamo?-
-Andiamo.-
Si presero per mano e corsero verso la sponda del fiume e , senza togliersi i vestiti, si tuffarono. L’acqua, piuttosto fredda, avvolgeva i loro corpi come un dolce manto. Mary si mise prona sull’acqua, ammirando il cielo, con gocce bagnate che le scendevano lungo la fronte, le guance, il petto, i capelli fluttuanti nella corrente. Bruce fece lo stesso. Si sentivano così liberi, ma allo stesso tempo così legati l’uno all’altro in quel momento. Bruce cercò fra l’acqua la mano di Mary e l’afferrò, stringendola forte e avvicinandosi a lei.
-Com’è un bacio subacqueo?- le chiese.
-Proviamolo ora.-
La trascinò sottacqua, dove le loro labbra si incontrarono di nuovo. Sentivano il fiume entrargli dentro, ma ora erano parte del fiume. Riemersero, ansimanti, ma sorridenti.
-Il bacio più bagnato che abbia mai ricevuto!-
-Il tuo bacio più bagnato finora!- rise lui, schizzandola con l’acqua. Anche lei rispose allo scherzo ridendo. Giocarono beati per un’ora, come fossero tornati bambini, vivendo quell’infanzia felice che a entrambi era stata negata.
Quando poi cominciarono a battere i denti per il freddo, uscirono dal fiume e cercarono di asciugarsi come poterono. Mentre Bruce cercava nell’auto qualche straccio con il quale asciugarsi, Mary si sedette sulla riva del fiume, con i piedi ancora a mollo nell’acqua; la maglia di stoffa bianca, attaccata alla pelle a causa dell’acqua, lasciava intravedere il suo corpo; i capelli le ricadevano bagnati sul capo e la fronte in ciocche scomposte.
-Ecco la mia sirena!- disse Bruce alle sue spalle, tornato con un asciugamano verde un po’ logoro e coprendola con esso, accarezzandole le braccia.
-Ho trovato questo: serviva per raccogliere gli attrezzi nella macchina, ma ora ne hai più bisogno tu.- Rimanendo dietro di lei, cominciò a passarle delicatamente lo strofinaccio sul corpo, asciugandole le gocce d’acqua rimaste sulla pelle. Mary si abbandonò sul petto del compagno, chiudendo gli occhi. Udiva solo il tramestio prodotto dall’acqua del fiume, sentiva solo il caldo respiro di Bruce sulla sua pelle… E le sue mani che cominciavano a scendere fino a raggiungere il bottone dei suoi jeans. Lei aprì gli occhi pigramente e gli lanciò uno sguardo malizioso, spingendolo a continuare. Con un semplice gesto le slacciò i pantaloni, cominciando a calarli, ripercorrendo intanto con le mani la forme delle belle gambe di Mary, e con un altrettanto semplice movimento si trovò sopra di lei. Mary abbandonò la testa fra la sabbia della riva, lasciandosi sfilare anche la camicetta.
-Bruce, io…- non voleva tirarsi indietro, ma lui la zittì prima che potesse aggiungere altro posando le labbra sulla sue.
-Non parlare. Parlami solo con gli occhi.- Dagli occhi di Bruce si vedeva chiaramente un desiderio che doveva aver trattenuto ormai dall’inizio della serata. Da quelli di Mary si scorgeva un po’ di timore, ma soprattutto felicità, eccitazione e amore. Amore per quell’uomo.
Bruce, ancora completamente vestito, cominciò a baciarle il collo ed ogni centimetro della calda pelle di Mary. Lei, che ora indossava solo le sue mutande, iniziò a sfilare anche a lui i jeans, non ritenendolo giusto. Entrambi fremevano, erano ad un solo passo dal raggiungere la più estasiata felicità e piacere. Un attimo prima Bruce sussurrò appassionatamente:
-Sei mia e solo mia. Mia. Ti voglio. Ti voglio tutta per me. Ti voglio ora e per sempre.- accarezzandola tutta.
-Sono tua, tutta tua. Mi hai già.-
-Ti amo, ti adoro Mary.-



Ciao a tutti! Vorrei di nuovo ringraziarvi per le visualizzazioni e in particolare "korg" per aver recensito: mi ha fatto molto piacere sapere che la storia vi piace!
Alla prossima!

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Capitolo 6
*** Capitolo 6- We're gonna find a way ***


CAPITOLO 6 (WE’RE GONNA FIND A WAY)

 
-Dove diavolo sei stata questa notte, Mary?- suo padre sbraitava infuriato sulla porta di casa. Era stata fuori tutta la notte al fiume con Bruce senza avvertire i suoi che, naturalmente, avevano pensato il peggio.
-Il concerto è finito tardi, e ho dovuto riaccompagnare a casa un membro della band perché non si reggeva in piedi da quanto era ubriaco. Un amico mi ha accompagnata e poi, visto che questo bassista abitava dalla parte opposta della città ed ero molto stanca, mi ha offerto una stanza in casa sua.- Mary mentì spudoratamente, ma non se ne vergognava, ormai era un’abitudine: non ricordava da quanto tempo non diceva una frase ai suoi genitori senza che in essa non vi fosse almeno una menzogna.
-Una stanza? Ah sì? Mary, hai diciotto anni, non sono uno stupido! Sono un uomo e sono stato ragazzo anch’io e…-
-Non abbiamo fatto niente, d’accordo? Lo conosco appena questo ragazzo!- urlò Mary, arrossendo violentemente, sperando che suo padre lo prendesse come un segno di indignazione. In realtà le stavano tornando in mente immagini di poche ore prima: la bocca, le mani, le carezze, i baci di Bruce ed il grande piacere provato. In quel momento ringraziò il cielo che suo padre non potesse leggere nella mente.
-Anche se non avete fatto “niente”, come dici tu, sei stata via tutta la notte senza avvertirci! Io e tua madre ci siamo spaventati non vedendoti tornare! Siamo stati svegli tutta la notte!-
In effetti Mary l’aveva già capito dalle borse sotto gli occhi.
-Scusa, mi dispiace- disse Mary a denti stretti: non le piaceva dover chiedere scusa ai suoi genitori di un qualcosa che era stata felice di fare –ora vuoi farmi entrare?- continuò, visto che suo padre l’aveva fatta rimanere sull’uscio tutto il tempo. Lui si scostò dalla porta, ma continuò poco dopo la sua predica.
-Pensi di cavartela con un “mi dispiace”? No, signorina! È il tipo da cui vai a fare le ripetizioni ogni giorno dopo scuola, vero? Come si chiama? Springsteen? È anche un ignorante! Cominci a fare la puttana a diciotto anni e ti porti a letto dei sognatori analfabeti?-
-Guai a te se mi dai ancora della puttana! Guai a te! E Bruce non è un analfabeta! Non dirlo mai più!- Mary era fuori di sé. Non poteva credere alle sue orecchie! Come si era permesso? E d’altronde era proprio suo padre! Suo padre! Le venne in mente che forse poteva aver bevuto, ma questo non sminuiva di certo la sua colpa, anzi! Mary si diresse infuriata in camera sua.
-Dove pensi di andare?-
-In qualsiasi altro posto, basta non che non ci sia anche tu!- gridò prima di sbattere la porta della sua stanza. Sentì dal piano di sotto una sonora imprecazione: suo padre non tollerava che si sbattessero le porte di casa. Mary si lasciò cadere di peso sul letto, esausta: la notte appena trascorsa l’aveva prosciugata di ogni forza, e l’accoglienza a casa non era certo stata delle migliori. Ancora le risuonava in testa la voce di suo padre che le dava della puttana: era diventata quello, una sgualdrina? Era così che veniva chiamata una giovane di diciotto anni che fa sesso con il ragazzo che le piace? Solo questo?
Per non pensarci chiuse gli occhi, e cominciò a cullarsi con i ricordi della notte passata sulla riva del fiume: rivedeva chiaramente ogni particolare del viso di Bruce sopra di lei, ogni sua espressione di piacere, risentiva ogni suo sospiro, ogni sua parola d’amore detta con quella voce terribilmente sexy. Un sorriso le increspò le labbra. Ora si sentiva pienamente felice: aveva un uomo che la amava e glielo dimostrava, un uomo fantastico e bellissimo. Che le importava di quello che succedeva a casa? Tanto a giugno avrebbero conseguito il diploma, e allora avrebbero potuto andarsene da lì, fuggire. Dove sarebbero andati? Non lo sapeva. Ma le bastava l’idea di un viaggio con il suo amore.
 
-Avete intenzione di guardarmi in questo modo e di non parlarmi fino alla fine dei miei giorni?-
La voce di Mary si levò particolarmente calma e tranquilla. Stava cenando in cucina, con entrambi i suoi genitori che la guardavano torvi. Mary sapeva che l’arrabbiatura non sarebbe passata così presto.
-No, assolutamente. Solo fino a quando avrai ammessosinceramente di aver sbagliato e avrai giurato di non farlo più- rispose suo padre, cercando di nascondere una rabbia malcelata.
-Ma l’ho già fatto! Appena arrivata! Allora lo ripeto: mi dispiace, non lo farò più. Contento?- cantilenò Mary.
-Per niente. Come se non capissi che mi stai prendendo in giro.-
-Ma io…!-
-Tu nel frattempo resterai relegata a casa per un mese, e soprattutto, niente ripetizioni! E considerati fortunata.- Con voce glaciale suo padre fece capire che il discorso era chiuso. Mary si alzò di scatto da tavola e per la seconda volta il rumore di una porta sbattuta e di una sonora imprecazione risuonarono nella casa. Perché dovevano rendere tutto così difficile? Perché dovevano per forza rovinare tutto? Per una volta, una sola volta nella sua vita, c’era qualcuno che la amava e lei ricambiava con tutto il cuore e si era offerta a lui con tutto il corpo. Ma naturalmente loro dovevani rovinarle la felicità. Cercò di tirarsi su di morale: non potevano impedirle di vederlo a scuola. Il giorno dopo l’avrebbe rivisto, e solo questo pensiero bastò a farla sorridere: nemmeno i suoi genitori potevano impedirle di incontrarlo.
 
-Mary!- Bruce la stava aspettando all’entrata di scuola, appoggiato pigramente al cancello. Si raddrizzò e la raggiunse, accogliendola con un bacio mozzafiato, senza darle il tempo di proferire una sola parola. Inizialmente Mary si imbarazzò non poco, percependo le occhiate stupite e ridacchianti dei compagni, e sentendo la mano di Bruce scendere fino ad accarezzarle il fondoschiena: non era abituata ad essere una “fidanzata”. Lui infine si staccò e, passandole un braccio attorno alla vita, l’attirò a sé. Mary, paonazza, si sentiva estremamente a disagio: come comportarsi? Cercò di non far caso agli sguardi dei ragazzi, ma fu impossibile.
“È solo perché è la prima volta. Domani sarà diverso: si sarà sparsa la voce e nessuno ci baderà più.” tentò di consolarsi.
-Ehi, sei silenziosa. Hai già deciso di piantarmi?- scherzò lui, alzandole il mento con due dita, dato che aveva tenuto lo sguardo a terra tutto il tempo: il pavimento era diventato tutto a un tratto così affascinante.
-No, no! Non pensarci nemmeno! Dovrai sopportarmi ancora per molto tempo. Ma…-
-Per sempre.- la interruppe lui, con quel sorriso dolcissimo. Mary, riscaldata enormemente da quelle due sole parole, finalmente si lasciò andare, baciandolo teneramente sulle labbra: che le importava delle risatine degli altri? Loro non avevano un Bruce da baciare e da portare a letto.
-Ah, sì, Bruce, abbiamo un problema.- ricordò poi Mary: il castigo dei suoi genitori –per un mese… Credo non potremo vederci. I miei sono incazzati per il fatto che sono tornata alle dieci di mattina.- disse incerta Mary, sperando che Bruce fosse comprensivo: dopotutto non conosceva ancora i suoi genitori.
-Un mese! Vedendoci solo a scuola? Non resisto. Troveremo un modo. I tuoi lavorano?-
-Sì, mia madre in fabbrica e mio padre come meccanico-
-E stanno via tutto il giorno?-
-Tornano all’una per pranzo e alle otto e mezza per cena.-
-E allora non c’è nessun problema! Sarò io a venire da te! Non preoccuparti, non ci scopriranno! Al massimo mi nasconderò nell’armadio.- disse Bruce sicuro e malizioso. Mary, invece, era più titubante, temeva la reazione dei suoi genitori se li avessero scoperti. E se fossero entrati proprio mentre… Non osava pensarci, era una situazione troppo imbarazzante anche solo da immaginare. La campanella di inizio lezione annunciò che stava per cominciare un’altra dura settimana. Mary sbuffò.
-Ci vediamo al cambio dell’ora, piccola.-
E con ultimo bacio si diressero verso le scale. Dopotutto la settimana non era cominciata così male.



Ciao a tutti! Ecco un altro capitolo: spero che veramente che vi piaccia! Vorrei anche ringraziere "Sun__" per aver messo la storia tra i preferiti. Non mi piace elemosinare recensioni ma... VI PREGO! Una recensioncina-ina-ina! Giusto per sapere se vi fa schifo e dove posso migliorare! Grazie per l'attenzione! Alla prossima!

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Capitolo 7
*** Capitolo 7- Candy's room ***


CAPITOLO 7 (CANDY’S ROOM)
 
-Bruce…-
Mary riusciva a dire solo quella parola al momento. Nella sua testa ogni altro pensiero era scomparso al di fuori di quell’unico nome.
-Bruce…-
Più lo ripeteva, più si rendeva conto di quanto fosse importante per lei. Più quel nome rimbombava nella sua testa, più capiva che era proprio lui ciò che le era mancato, il suo completamento. Comprendeva solo ora che ciò di cui aveva bisogno erano la sua voce calda e profonda, le sue mani forti che però sapevano accarezzarla così dolcemente, la sua bocca sorridente sulla sua, i suoi occhi scuri posati sul suo corpo, i suoi capelli ricci, bruni e disordinati nei quali affondare le mani, la sua pelle abbronzata sulla sua, le sue dolci labbra che le percorrevano il corpo. Le bastava solo Bruce e il suo amore. E solo ora lo capiva. Ma adesso che lo sapeva non l’avrebbe lasciato andare. Era suo e solo suo.
Era a questo che Mary pensava mentre il suo corpo ansimante si contorceva di piacere sotto quello di Bruce, con le mani aggrappate alla sua schiena. Infine lui si adagiò al suo fianco nel letto e, cingendola i fianchi con entrambe le braccia, l’attirò a sé.
-Sei tutto sudato!- protestò Mary, ridendo, scostandogli una ciocca di capelli dal viso imperlato di sudore.
-Perché, non ti piace?- chiese lui con aria di sfida.
-No, anzi, sei molto più sexy così- sussurrò Mary sorridendo e, lasciandogli un fugace bacio all’angolo della bocca, passò anche l’altra mano fra i suoi capelli. Lui la guardò fisso per qualche minuto, contemplandola con un’aria strana negli occhi.
-Perché mi guardi in quel modo?-
-Niente, mi stavo solo chiedendo come ha fatto una creatura angelica come te ad accettare un idiota come me-
-Come ho fatto? Perché tu sei quello che ho sempre cercato in me, ma non ho mai trovato. Sei così libero, non te ne importa del giudizio degli altri e delle regole, non ti poni limiti, segui i tuoi sogni e cerchi di realizzarli, se vuoi una cosa la ottieni… E poi, conta molto anche il fatto che tu sia terribilmente affascinante- aggiunse ridacchiando.
-Uhm, affascinante dici? Io avrei detto sexy e provocante- disse ridendo.
Quella risata. Quel sorriso. Com’era dannatamente bello quando sorrideva e quelle due adorabili fossette gli comparivano tra le guance. Mary lo guardava incantata, chiedendosi come aveva fatto a non accorgersi prima di lui.
-In effetti mi stavo chiedendo la stessa cosa: come ho fatto a non cadere prima ai tuoi piedi?- si chiese Bruce dopo che Mary gli ebbe esposto a voce il suo ultimo pensiero.
-Come ho fatto a sopravvivere al tuo fascino da “brava ragazza”? Mi piacerebbe averti conosciuta prima, avremmo avuto più tempo per conoscerci, per stare insieme… Accidenti, come ho fatto a non notare subito una bionda attraente con un fisico e un sedere da urlo come te?- continuò lui scherzando, accarezzandole i morbidi capelli.
-Devo dare ragione a mio padre e ammettere di essere un mezzo coglione…- e concluse la frase con una sonora risata. Continuarono a parlare per molto fino a quando Mary, esausta, non crollò addormentata sul petto di Bruce. Quando si risvegliò, lui si stava rivestendo, intento ad armeggiare con la cintura dei pantaloni. Doveva essersi alzato da poco anche lui, dato che doveva ancora infilarsi la maglietta. Anche Mary cominciò a rivestirsi cercando fra il pavimento i vestiti che poco prima aveva tolto con tanta irruenza. Quando qualche ora prima Bruce era arrivato, aveva parcheggiato l’auto non molto distante dalla casa di Mary; lei lo aveva fatto subito entrare e, dopo essersi detti poche parole, Bruce aveva cominciato a baciarla senza fermarsi, facendo incontrare prepotentemente la sua lingua con quella di Mary; avevano salito le scale senza mai staccarsi, fino a che non avevano raggiunto la sua camera, che ora Bruce stava guardando.
-Così è qui che portavi i tuoi amanti prima di conoscere me?- le chiese sogghignando, e vedendo che si era alzata la accolse con un dolce bacio.
-No, non ci avevo mai portato nessuno. L’ultimo fidanzatino risale ai tempi delle elementari: un’entusiasmante storia durata due giorni. Gli unici rapporti con i ragazzi che ho avuto da allora sono stati qualche bacio occasionale per il gioco della bottiglia…- disse Mary arrossendo. Certo, aveva avuto anche lei qualche pretendente, ma non aveva mai accettato nessuna proposta. Fino ad allora era stata troppo affezionata alla sua libertà e indipendenza. Ma adesso era diverso: non si era mai sentita così legata e attratta da un ragazzo fino a quel momento.
-Oh, la piccola Mary fa strage di cuori! Sono fiero di me, di tutti i ragazzi che ti hanno fatto la corte, io sono l’unico che è riuscito a conquistarti!- Mary sorrise, divertita dalle sue parole.
-Sono quasi le otto, fra un po’ i tuoi tornano: è meglio che vada, non vorrei metterti nei guai piccola…-
-Non puoi stare ancora un po’?-
-Lo sai che vorrei chiudermi con te in questa camera per sempre, ma se ci scoprono siamo fottuti-
-Allora salutami come si deve- disse Mary maliziosamente. Bruce si avvicinò con quel suo sguardo passionale e, sollevandola da terra, la baciò con trasporto, tenendola stretta fra le sue braccia.
-Ti amo così tanto-
Le parole sussurrate da Bruce arrivarono dritte al cuore di Mary, facendole scordare ogni altra cosa, a parte il fatto che in quel momento esistevano solo lui e lei, stretta fra le sue braccia.
 
 
 
 
Buondì gente!
Lo so, lo so, sono imperdonabile: è da una vita che non aggiorno e quando finalmente lo faccio vi lascio questo frammento sdolcinato (va bene lo ammetto sono una romanticona! Lo vedrete anche dal prossimo capitolo che, se Dio vuole, metterò presto!). Sembra un capitolo un po’ stupido, infatti è un capitolo di collegamento, ma volevo mettere in luce i sentimenti di Mary e Bruce. Però preparatevi, perché dal prossimo ci sarà una bella svolta!
P.S.1: Grazie “Sun_” !!!! Non hai idea di quanto mi ha fatto piacere leggere la tua recensione! Spero che scrivendo questa storia riuscirò anche a “convertire” sempre più persone al rock’n’roll e, soprattutto, a Bruce Springsteen! Ringrazio anche tutti i lettori “silenziosi”: se vi va lasciate un commento, mi fa sempre molto piacere!

P.S.2: Per chi conosce già le canzoni del Boss si sarà accorto che ho attinto molto dalle sue canzoni: innanzitutto il nome di Mary, che si ripresenta un sacco di volte nei suoi testi: mi sono sempre chiesta se questa famosa Mary,soprattutto quella delle canzoni “The river” e “Thunder road”, abbia mai fatto parte della vita di Bruce, ed è per questo che ne ho creata una io; inoltre molte frasi sono citazioni di alcune sue canzoni (“L’unica amante di cui avrò mai bisogno è la tua soffice dolce, piccola lingua di bambina” da “Rosalita; “È una città piena di perdenti, me ne sto andando da qui per vincere” da “Thunder road”).  Oltretutto anche la storia che c’è nel capitolo 1 (riguardante il suo rapporto con il padre, quando ha chiamato il barbiere mentre lui era relegato a letto, le sue considerazioni sulla guerra in Vietnam) è tutta vera, tratta dal concerto del 1985 a Los Angeles.
 
Se volete questi sono i link delle canzoni:


Rosalita: https://www.youtube.com/watch?v=XXWVSussrt0
Thunder road: https://www.youtube.com/watch?v=RMB3M43AEpc
The river (con racconto iniziale): https://www.youtube.com/watch?v=gg3DleXrT-o

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Capitolo 8
*** Capitolo 8- When our love was young and bold ***


Bruce era immobile, appoggiato alla parete, intento a scrutare le masse di ragazzi che si affollavano verso le aule. I suoi occhi percorrevano veloci tutte le facce, alla ricerca di quel viso così conosciuto. Ma Mary non si vedeva ancora da nessuna parte. Dove poteva essere finita? Le lezioni sarebbero iniziate a momenti. Certo, era possibile che non fosse venuta a scuola perchè era malata, mase invece le fosse successo qualcosa? Guardò un'ultima volta la porta principale, sperando di veder far capolino la chioma bionda di Mary, ma nonostante le sue speranze non entrò più nessuno.
Si diresse riluttante verso la sua aula, trascinando i piedi. Si sedette nel solito, caro, vecchio ultimo banco: era l'ideale per riuscire a passare illesi due ore di matematica. Il professore entrò, firmò il registro, e prese con voce monotona a spiegare. Lo sguardo di Bruce cominciò a vagare nel vuoto e, con occhi vacui, prese a fissare il suo sottobanco, come se fosse la più bella scoperta dopo l'invenzione della lampadina, senza accorgersi però di un foglio piegato, appoggiato lì solo qualche ora prima. Solo dopo qualche minuto capì che quel pezzo di carta non era suo e che non ce l'aveva messo lui. Lo preso svogliatamente e lo aprì. Una lettera. Non appena i suoi occhi cominciarono a leggere le prime righe si rizzò a sedere tutto a un tratto, come se avesse ricevuto una scossa elettrica.
-Oh, cazzo... -
"Sono passata a scuola per metterti questo biglietto sotto il banco, prima di andare in ospedale. Sì, in ospedale. Perchè sono incinta. Volevo che lo sapessi, visto che sei tu il padre. Ci troviamo alle quattro vicino al bar, è meglio se parliamo.
Mary"
 
 
 
E dopo mesi, e mesi e mesi e mesi e mesi... SONO TORNATAAA!!!! Non so veramente come farmi perdonare per avervi fatto aspettare così tanto, ma ho avuto il "blocco della scrittrice", aveva anche in mente di cancellare la storia... MA poi, mi è venuta l'illuminazione, ho stracciato la vecchia trama che mi ero fatta e ne ho scritta una completamente nuova e (a mio parere) anche decisamente migliore. Ho postato questo capitolo con il cellulare visto che il computer non funziona, perciò chiedo scusa nel caso ci siano errori grammaticali.
E ora non mi resta che salutarvi, sperare che questo corto capitolo vi sia piaciuto e pregare perchè io riesca a scrivere il prossimo il più velocemente possibile!
Ciao :D

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Capitolo 9
*** Capitolo 9- Follow that dream (or not?) ***


CAPITOLO 9- FOLLOW THAT DREAM (OR NOT?)
 
Mary era già arrivata. Era in piedi, immobile, con lo sguardo perso nel vuoto, immersa in pensieri che probabilmente erano più grandi di lei. Bruce le si avvicinò titubante: aveva le mani completamente sudate, e non era nemmeno sicuro che le gambe avrebbero continuato a sorreggerlo, tanto era il nervosismo e la tensione.
-Ciao, Mary.-
Cercò di impregnare quelle due parole di tutta la dolcezza di cui era capace. Le prese la mano, abbandonata lungo il fianco, e vi posò delicatamente le labbra. Mary lo lasciò fare. Ma continuava a non proferire parola.
- Mary... Non avrei mai voluto che questo succedesse. E... E so che è colpa mia. Vorrei solo che tu mi perdonassi.-
La ragazza alzò finalmente lo sguardo, puntando gli occhi in quelli di Bruce: la disperazione, la paura, la vergogna e l'insicurezza per il futuro regnavano in quei due pozzi nerissimi.
- Io ho fatto la mia scelta. Sono pronta ad abbandonare la scuola, la mia casa, sono anche pronta a veder andare in fumo tutti i miei sogni, ma non voglio abbandonare questo bambino. Il mio bambino. Credo di essere abbastanza forte da poterlo fare. Ma non voglio obbligare anche te ad intraprendere questa strada, che so già sarà faticosa. Non voglio che anche i tuoi sogni vadano in fumo.-
- Anch’'io ho fatto la mia scelta- la interruppe Bruce. -Sono pronto a fare quello che ogni uomo dovrebbe fare. Non voglio lasciarti imboccare questa strada da sola, voglio essere con te... E con il bambino. Io ti amo. E sono pronto...- Bruce inspirò profondamente -Sono pronto a sposarti.-
Ci aveva pensato durante tutto il giorno, ma già dal momento in cui aveva riposto quella lettera in tasca, aveva capito che quella era la scelta giusta da fare. Non era un codardo, non voleva abbandonare Mary e quel bambino, suo figlio, a loro stessi. Sarebbe rimasto con loro. Avrebbe appeso la chitarra al muro e si sarebbe trovato un lavoro onesto. Avrebbe lasciato che i suoi sogni sfumassero davanti ai suoi occhi, mentre quell'indefinito torpore della vita familiare si sarebbe fatto spazio nella sua vita, scacciando per sempre le sue ambizioni e quel sogno di diventare musicista che per tanto tempo aveva accarezzato.
- S-sul serio lo faresti? Lo sai, vero, a cosa stai andando incontro?-
Mary era quasi sorpresa dalle parole di Bruce, ma intanto una scintilla di speranza si era accesa nei suoi occhi, che lui non poté fare a meno di notare e che rese definitiva la sua decisione.
- Certo, Mary. Ma io non ti abbandonerò. Ora vieni qui.-
Bruce allargò le braccia e la accolse in un dolce abbraccio. Lasciò che Mary si abbandonasse finalmente a lui e, mentre le accarezzava distrattamente i capelli biondi, non poté fare a meno di pensare che, forse si sarebbe pentito un giorno della sua decisione. Forse fra qualche anno avrebbe rimpianto di non aver imbracciato una chitarra anziché un bambino. Forse fra qualche anno avrebbe rimpianto di non aver preso fra le sue dita un plettro anziché un anello nuziale. Ma, incrociando lo sguardo speranzoso e riconoscente di Mary, tutti quei pensieri svanirono, lasciando spazio quel giovane e ancora instabile sentimento che lo aveva spinto a fare la scelta che avrebbe condizionato tutta la sua vita. No, forse non se ne sarebbe pentito. Per lei, per Mary, ne valeva la pena.
 
 
 
Ciao a tutti! :D sono tornataa (stranamente in anticipo per i miei standard)! Beh, spero che questo capitolo vi piaccia, mi auguri che non lo troviate troppo sdolcinato o che pensiate abbia trattato male il tema della gravidanza prematura, perchè è un tema che mi sta molto a cuore. In entrambi i casi sono pronta ad ascoltare le vostre opinioni!
See you :D

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Capitolo 10
*** Capitolo 10- I know it's late, but we can make it if we run ***


CAPITOLO 10 (I KNOW IT’S LATE, BUT WE CAN MAKE IT IF WE RUN)
 
-Lo.. lo voglio-
Bruce aveva avuto solo un attimo di esitazione prima di rispondere. Guardò Mary un’ultima volta negli occhi, poi si avvicinò lentamente, fino a che le loro labbra non si furono unite in un bacio, nel quale però non v’era traccia di passione o gioia, ma solo confusione e disperazione.
Nessuno applaudì. Più che a un matrimonio sembrava di assistere a un funerale. Quando, un mese prima, Bruce aveva spiegato l’accaduto ai suoi genitori, tutto ciò che aveva ricevuto, oltre a un sonoro schiaffo da parte di suo padre, erano stati una tessera del sindacato e un abito da matrimonio. Solo con quei due oggetti gli avevano fatto capire quali sarebbero stati i suoi doveri d’ora in avanti: lavoro e fedeltà. Non c’era spazio per molto altro. Non avendo soldi entrambe le famiglie, si erano accontentati di una spoglia cerimonia in un’angusta stanza del comune, senza sorrisi, né marce nuziali, né fiori, né abiti da sposa.
Bruce non riusciva ancora a crederci: ora era sposato, e presto sarebbe diventato padre. Ecco, tutto ciò che aveva ripudiato per molti anni, la vita familiare, il lavoro spossante in una fabbrica, la monotonia di una vita che non desiderava ma che gli era stata imposta, ora stava accadendo. Ora non poteva più tornare indietro, non poteva scappare. Se prima aveva avuto qualche possibilità di fuga, ora non ne aveva più.
-Andiamo, Mary-
Bruce le prese la mano e oltrepassò a passo di marcia i suoi genitori e quelli di Mary che parlottavano con diffidenza: sapeva che se fossero rimasti lì un minuto di più si sarebbe scatenato il pandemonio; c’era già abbastanza tensione nell’aria, era meglio non alimentarla.
Attraversarono la stanza e scesero velocemente le scale senza proferire parola. Raggiunsero subito la vecchia Cadillac di suo padre e Bruce chiuse rapidamente le porte, dopo aver aiutato Mary ad entrare. Lanciò uno sguardo dubbioso al cielo: si stava rabbuiando velocemente, e grandi nuvole tempestose stavano oscurando il cielo grigio di Freehold, presto le sue strade si sarebbero trasformate in fiumi d’acqua. Fiumi… Un’ idea, per un certo verso folle, gli attraversò la testa. Perché no? Era la loro ultima possibilità per vivere ancora un po’ di quel sogno che li aveva stregati e ingannati, e alla fine attanagliati e intrappolati. Era la loro ultima possibilità per renderlo vero.
-Mary, dobbiamo tornare al fiume. È lì che tutto ha avuto inizio, ed è lì che dobbiamo tornare ora che… ora che tutto cambierà.
-Pensi che cambierà qualcosa se torniamo lì? Pensi che se torniamo lì, io non sarò più incinta e tu sarai libero di seguire la tua strada? Pensi davvero che serva a qualcosa?
-Io penso- rispose pacatamente Bruce –che tornare al fiume sia la nostra ultima occasione per riuscire a conservare un ricordo di questa storia che, lo giuro, è la cosa più bella mi sia successa, non voglio che tutto sia perduto. Non so cosa succederà in futuro, non lo posso sapere, ma non voglio, quando guarderò al mio passato, vedere rimorsi o occasioni perse. Voglio vivere questa storia fino all’ultimo. So che è tardi, ma possiamo ancora farcela, se ci sbrighiamo.
Mary abbassò lo sguardo, gli occhi socchiusi: stava evidentemente soppesando ogni parola del discorso di lui, cercando di capire se fosse veritiero. Infine riaprì gli occhi e prese la mano di Bruce, già appoggiata sul volante, nella sua, mentre finalmente un sorriso le increspava le labbra, un sorriso che Bruce non vedeva da molto tempo e che gli era mancato.
-Sì, Bruce. Torniamo al fiume. Forse possiamo ancora riuscirci.
Lui le si avvicinò e poggiò dolcemente le labbra sulle sue, in un bacio che ora aveva anche il sapore di speranza.
* * *
Il cielo ormai era scuro, nonostante fosse solo un tardo pomeriggio di aprile, e preannunciava un imminente temporale. Ma questo non sembrava fermare una vecchia Cadillac nera che, a tutta velocità, aveva svoltato in una stradina sterrata, che non portava da nessuna parte se non ad un piccolo pezzo di sponda del fiume che attraversava Freehold, grigia cittadina di operai, ormai provata dalla crisi economica e senza futuro.
La Cadillac si fermò poco lontano da riva e, mentre il motore si spegneva, le due porte si aprirono quasi contemporaneamente, dalle quali uscirono un ragazzo e una ragazza. Erano vestiti entrambi elegantemente e sembrava fossero appena usciti dai portoni di una chiesa dopo un matrimonio. Ma a nessuno dei due sembrava importare degli abiti, dato che poco dopo avevano iniziato a toglierli in modo rude. Il ragazzo, Bruce, stringeva la giovane tra le sue braccia, mentre le baciava incessantemente il collo. Le sue mani scorrevano lunga la schiena di lei e cercavano di sfilare la camicetta che indossava. Poco dopo quella scivolò a terra con un piccolo tonfo, seguita dalla gonna. Camminando in modo un po’ goffo, dato che non accennavano a staccarsi l’uno dall’altra, raggiunsero la riva del fiume e si distesero sulla sabbia umida e soffice, mentre la fredda acqua lambiva loro le gambe. Un fragoroso tuono li fece trasalire, annunciando l’arrivo di una tempesta. Le gocce cominciarono a scendere, prima rade, poi sempre più frequenti e veloci. Si posavano sui loro corpi avvinghiati, scorrevano sulla loro pelle sudata, si confondevano con le lacrime che uscivano dai loro occhi; lacrime che mettevano fine alla fiaba che avevano vissuto, lacrime per la gioia di aver potuto unire le loro vite in una cosa sola in quello che ormai era passato e lacrime per l’angoscia del futuro che si dispiegava di fronte a loro, confuso e incerto.
I loro respiri cominciarono a farsi man mano più pesanti, mentre i gemiti della ragazza aumentavano d’intensità. Bruce non cessava di baciare ogni centimetro della pelle di Mary, passando sapientemente le mani sul suo corpo e accarezzandolo, mentre questo si contorceva dal piacere.
Infine si accasciarono esausti sulla sponda uno affianco all’altra, ancora in preda ai tremori, con la pioggia che continuava ad abbattersi su di loro provocando brividi di freddo. Bruce si volse verso Mary, cingendole la vita e intrecciando le mani con le sue, e guardandola intensamente negli occhi, disse due semplici parole, che però provocarono in lei un sussulto più forte del freddo e dell’eccitazione messi assieme:
-Ti amo.
-Ti amo anch’io Bruce.
 
 
 
Ebbene sì, non sono morta! Perdonatemi (per l’ennesima volta) per il ritardo, ma un misto di fattori come “piscina”, “computer che non funziona” e, soprattutto, “blocco della scrittrice (?)” mi hanno impedito di continuare questo capitolo. Il prossimo sarà un po’ particolare perché… beh, vedrete voi perché! Ho fatto un po’ di conti, e credo che questa ff sarà finita dopo almeno altri quattro capitoli, poi credo che mi fermerò per un po’ con le storie a capitoli (mi ha tolto l’anima solo questa!).  Ringrazio tutti quelli che hanno recensito la mia ff (vi adoro, vi farei una statua!) , in particolare “MagicRat” e “33nocidicocco”, che hanno recensito il capitolo precedente e anche tutti i lettori silenziosi! Se vi va, lasciate una recensione anche in questo capitolo!
Ciao, alla prossima!

 
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11- Downbound Train ***


CAPITOLO 11 (DOWNBOUND TRAIN)
 
DIECI ANNI DOPO
Una vecchia Cadillac polverosa e dalla vernice scrostata aveva appena parcheggiato lungo il marciapiede di una buia strada secondaria, proprio di fronte ad una piccola casetta. Un tempo doveva essere stata una dimora calda e accogliente, ma ora era solo una grigia e fatiscente abitazione, consumata dalla pioggia, dalla neve, dal sole e dal vento nel corso degli anni, senza che nessuno si prendesse la briga di rinnovarla. Dalla vecchia auto scese un uomo, probabilmente di trent’anni, alto, con dei capelli ricci marrone scuro leggermente brizzolati nonostante la giovane età, con addosso ancora la divisa da lavoro blu scuro, sulla quale spiccava la scritta a lettere bianche “JOHNSTOWN COMPANY”. L’uomo si diresse verso la piccola porta della casa, trascinando i piedi, con l’aria di uno che è stato vinto dalla vita. Si fermò davanti all’entrata, trafficando nelle tasche alla ricerca delle chiavi; finalmente le trovò ma, prima di inserirle nella serratura, lanciò una veloce occhiata alla finestra alla sua sinistra: era buia, come tutta la casa d’altronde. Doveva aspettarselo. Entrò in punta di piedi nel corridoio, cercando di non fare rumore per non svegliare sua moglie e suo figlio. Una volta arrivato in cucina, si lasciò cadere di peso su una delle quattro sedie di legno, massaggiandosi le tempie per far passare il mal di testa che gli martellava il cervello dalla mattina precedente. Si sfilò l’uniforme blu, sostituendola con un paio di jeans stinti e una camicia bianca stropicciata. Prendendola in mano, Bruce sospirò: era da anni ormai che Mary non gli stirava una camicia. Avvicinò la sedia al tavolo, dove era appoggiato un piatto con dentro della pasta, ormai fredda e dura e una caraffa d’acqua tiepida. Prese svogliatamente le posate e cominciò a mangiare, assorto in altri pensieri: nella sua testa c’era una grandissima confusione di idee che, al momento, non riusciva a distinguere. Poco male, aveva tutta la notte davanti per rifletterci. Sapeva infatti che, come tutte le altre notti, non si sarebbe addormentato prima delle tre, come sapeva che anche quella nottata avrebbe trovato Mary già a letto a dormire, senza che gli rivolgesse nemmeno un saluto: il tempo del sesso, dei baci, delle carezze era già finito da molto.
Sentì dei passi leggeri scendere le scale: doveva essere Mary. Strano.
“Nomini il diavolo…”
Per un attimo la mente di Bruce fu attraversata da questo pensiero maligno, che però scacciò immediatamente, dandosi dello sciocco.
-Ciao, tesoro. - la salutò cordialmente lui.
-Ciao, Bruce. – rispose velocemente la donna. Il suo aspetto lasciava trasparire una bellezza genuina ormai perduta: aveva i capelli di un biondo spento raccolti dietro la nuca in una stretta crocchia, due vistose occhiaie sotto gli occhi marroni, la pelle molto chiara che sembrava ricoprire direttamente le ossa, tanto era magra la donna. La vestaglia rosa polvere le ricadeva cascante sul corpo, ma ne evidenziava la vita molto stretta. Bruce la guardò bene: quasi non la riconosceva, la vedeva così poco nonostante vivessero sotto lo stesso tetto, nonostante fossero sposati, nonostante avessero un figlio… ormai il loro rapporto si era ridotto al silenzio e alla sopportazione reciproca.
-Bruce… -
Male. Molto male. Quando iniziava pronunciando il suo nome con quel tono stanco e abbattuto la conversazione non portava mai a nulla di buono: l’ultima volta si era conclusa in una furiosa litigata. Tanto per cambiare.
-Bruce… Credo che ormai l’abbia capito anche tu. Tutto questo- disse facendo roteare la mano in modo da indicare la casa attorno a loro- non ha più senso. Tutto si sta trasformando in una patetica messa in scena di una apparentemente tranquilla vita familiare. Ma tu, io, e forse ormai anche Joseph, sappiamo che non è così. Non è più così da molto tempo. Quello che c’era una volta ormai non c’è più. Se n’è andato. Lasciando a te un lavoro tanto mal pagato da non riuscire quasi a pagare  l’affitto e a me un bambino da accudire da sola. Per quanto tempo questa storia deve continuare?-
Bruce sospirò, abbassando gli occhi. Doveva aspettarselo. Ma faceva comunque male. Dopotutto lei era sua moglie, la madre di suo figlio, la amava ancora nonostante la passione che aveva provato in adolescenza si fosse raffreddata. E ora lei gli stava dicendo in maniera sottile che voleva lasciarlo.
-Aspetta, Mary, ragiona. Pensa a Joseph, a tutti i sacrifici che abbiamo fatto per comprare questa casa, a tutte le cose a cui abbiamo dovuto rinunciare per permetterci una macchina, ai soldi che stiamo mettendo da parte per comprare una chitarra a nostro figlio?-
-Appunto! Io non ne posso più! Non ne posso più di tutte queste privazioni, di fare questa vita da emarginata sociale, di dover provvedere da sola a Joseph dalla mattina alla sera, di non avere i soldi nemmeno per comprargli un regalo di compleanno! Non voglio che anche lui sia costretto a fare una vita così povera! Non avevi detto che mi avresti portato via da questa città di perdenti per vincere? Guarda invece dove mi avete portato tu e i tuoi ormoni adolescenziali: in una casa grande come un buco e con un bambino ad appena diciassette anni! All’inizio c’era ancora l’attenuante del matrimonio ma ora… -
-Cosa vuoi dire Mary?- chiese Bruce allarmato. Mary non poteva voler dire quello.
-Credevo lo avessi capito, Bruce. È da tempo ormai che non ti amo più. E …- aggiunse Mary abbassando gli occhi –non credo nemmeno di averti mai amato. -
Fu come se il mondo gli fosse caduto addosso all’istante. “Non credo nemmeno di averti mai amato”. Quelle parole rimbombavano in lui con un suono martellante, perforandogli la testa. No. Doveva aver capito male. Doveva essere uno scherzo di pessimo gusto. Non poteva essere seria.
-Mary, hai dormito poco, torna a riposarti tesoro… - disse Bruce, cercando testardamente di convincersi della falsità dell’affermazione appena pronunciata da Mary. Allungò la mano verso quella della moglie per stringerla, ma lei la scostò, evitando il contatto.
-No, Bruce, io sono riposata e non sto scherzando. Non è una balla.-
-Quindi tutti questi anni sono stati una balla. Una grandissima e madornale balla. Quando hai partorito Joseph era una balla. Quando hai detto “lo voglio” era una balla. Anche quella notte al fiume, quell’ultima fottuta e bellissima notte al fiume, quando mi hai detto “ti amo Bruce” dopo che avevamo fatto l’amore, era una balla. Non è così? Tutta questa storia è stata una balla, allora!- disse Bruce alzandosi di scatto. La sua voce, che inizialmente aveva cercato di mantenere calma e  indifferente, ora cominciava ad aumentare d’intensità, il suo viso si faceva via via sempre più paonazzo, le vene sul collo cominciavano a gonfiarsi paurosamente, la rabbia e la frustrazione iniziavano ad impadronirsi di lui –Quindi io in questi dieci anni mi sono fatto il fondo in una maledetta fabbrica, facendo orari da suicidio, per una balla? Ma hai idea di quello che hai detto, Mary? Devi essere tutta pazza… Quindi ora mi stai dicendo che la mia ragione per credere, tu e Joseph, che per tutti questi anni ogni mattina, ogni giorno di lavoro, ogni sera, ogni notte mi ha spinto ad andare avanti, era una schifosa balla? Mi stai dicendo che la motivazione sulla quale ho fondato tutta la mia vita, per la quale ho speso tutta la forza e la buona volontà che avevo in corpo, era una balla? Non ci posso credere. -
Bruce spinse da parte la sedia in malo modo e, con passo furioso, si diresse verso il soggiorno, percorse le scale e, sbattendo violentemente la porta della camera degli ospiti, vi si chiuse dentro. Non voleva mettere piede nella stanza nella quale lui e Mary avevano dormito per anni assieme. Ora aveva bisogno di riflettere.
 
 
 
Buongiorno a tutti!
So che sto aggiornando in madornale ritardo, ma credo che ormai vi abbiate fatto l’abitudine ai miei tempi non proprio impeccabili (l’ispirazione, quella benedetta cosa che continua a farmi brutti scherzi!). Ma veniamo al capitolo: probabilmente non è quello che vi aspettavate, ma dovete sapere che detesto i finali mielosi dove tutti sono felici e contenti: non rispettano la realtà e non fanno altro che illudere la gente (come vedete in questi giorni i miei pensieri sono molto simili a quelli di Nebraska), ma non preoccupativi, mancano ancora capitoli alla fine! Spero veramente vi sia piaciuto, perché ci tengo particolarmente…
E ora ringraziamenti per il capitolo precedente: 33nocidicocco,MagicRat e Goin’_Down (che ha pregato affinché la mia ispirazione tornasse: come vedi ha funzionato!), che sono sempre gentilissime e puntuali: le vostre recensioni mi illuminano la giornata!
Scusate ma ora vi saluto: c’è un’adorabile versione che mi fa gli occhi dolci! Ciao!

P. S. Non provo nemmeno a promettervi di aggiornare presto, anche perchè la prossima settimana parto in vacanza e sicuramente non riuscirò ad aggiornare prima: probabilmente posterò il prossimo capitolo agli inizi di settembre.
P. P. S. Come potete vedere ho cambiato nickname: Puerto Rican Jane (quello che avevo prima era per una stupida scommessa: quelle scimmie delle mie amiche…), dopo aver ascoltato per quindici volte non-stop la canzone “Incident on the 57th street”, per cercare consolarmi per non essere andata a Roma…
 
 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12- I don't know what I'm gonna find ***


CAPITOLO 12 (I DON’T KNOW WHAT I’M GONNA FIND)
 
Bruce entrò nella stanza sbattendo la porta. Ogni fibra del suo corpo gridava, gridava un lamento di rabbia, di delusione, di vergogna. Com’era possibile? Com’era possibile che avesse dimenticato tutto? Cos’era successo? Cos’erano diventati? Non riusciva a trovare una spiegazione. O forse quella era troppo evidente e terribile per ammetterla. Avrebbe significato accettare che tutto contro il quale aveva lottato in quegli anni lo aveva sopraffatto, tutte le battaglie che aveva combattuto erano state inutili, uno spreco di tempo e di energie per un ideale che in realtà era solo un’illusione. Voleva andarsene. Un istinto adolescenziale represso da tempo nel fondo del suo cuore si stava risvegliando, e chiedeva di essere ascoltato. Chiedeva libertà, chiedeva ribellione, fuga, salvezza. Salvezza da quel mondo fatiscente, da quella fotocopia sbiadita e sbavata che la gente comunemente chiama “vita”. Non capiva dove aveva sbagliato. Doveva aver fatto un errore madornale per aver scatenato una così grande ira. Ma non riusciva a vederlo. Per dieci lunghi anni aveva impiegato le sue forze in una squallida fabbrica, il cui unico scopo era succhiargli il midollo dalla spina dorsale, solo per portare a casa un misero stipendio, solo per rendere la vita della sua famiglia un po’ più luminosa. Famiglia. Cosa significava ora quella parola? Un tempo lo sapeva, o aveva creduto di saperlo. La sua mente era in caduta libera, confusa da pensieri, sovraccarica di ricordi, ingombra di parole. Si lasciò cullare in quel dolce delirio di memoria dal passato, dal sottosuolo. Si lasciò trasportare da quelle sensazioni ormai polverose che riuscivano per un attimo a consolarlo, ma a ferirlo ancora più profondamente per tutti quelli successivi.
Ricordò quando aveva preso per la prima volta in braccio suo figlio. In quel momento aveva capito veramente cosa significava la parola “famiglia”. Ricordò di aver preso dalle braccia di Mary quel soldo di cacio, ricordò come le gambe gli tremavano, come i suoi occhi si erano fatti lucidi. Ricordò quando Joseph, con la sua manina morbida, gli aveva stretto un dito, l’indice per la precisione, se lo ricordava benissimo. Come si era sentito gioioso in quel momento! Così fortunato, così beato! I piccoli occhi innocenti del bambino lo avevano guardato con aria interrogativo, come se cercassero di capire se quello era un amico o un nemico. Bruce in tutta rispostagli schioccò un caldo bacio sulla fronte. Sì, era un amico.
Un altro pensiero, un altro ricordo si fece largo prepotentemente nella sua testa: era stato tanti anni prima. Le immagini, i dettagli, dapprima sfuocati, si fecero via via sempre più chiari e nitidi.
Ricordò quella notte di primavera di tanto tempo addietro, quando ancora era giovane, quando ancora tutto era più semplice. Aveva preso in prestito la macchina di suo padre, e aveva guidato, aveva guidato di nuovo assieme a Mary fino al fiume, il loro fiume. Ricordò il corpo di lei bagnato e abbronzato, morbido; loro distesi a terra. Ricordò che rimase sveglio tutto la notte solo per stringerla, per sentirla un po’ più vicina, e sentire ogni suo respiro. In quel momento aveva creduto seriamente di provare quel meraviglioso e terribile sentimento chiamato “amore. Ma era stato tanto tempo prima, erano così innocenti, così ingenui. Non si conoscevano ancora abbastanza, era successo tutto così in fretta. Tutto a causa di quel maledetto fiume. Quell’acqua che sembrava averli purificati, in realtà li aveva condannati. Era da tanto tempo che non ci andava più. Quei ricordi, quei lontani ricordi lo tormentavano, erano una maledizione, lo stavano logorando dentro… lo spingevano a tornare al fiume.
 
La sabbia sotto i suoi piedi scalzi. Lo scricchiolio dei sassolini. Il fruscio del vento che si alzava man mano. Gli era mancato, nonostante tutto. Nonostante rivedere quel luogo dopo così tanto gli causasse una fitta al petto e gli inaridisse la gola.
Ma il letto del fiume era vuoto, prosciugato. L’acqua non c’era. Fu come ricever una scossa. Inconsciamente aveva associato a quell’acqua il simbolo della purificazione, della salvezza; il fiume era stato l’inizio e la causa di tutto, il filo conduttore di quella sua nuova vita. Ma ora che lo vedeva arido, sentiva come il presentimento che presto, prestissimo, tutto sarebbe crollato, sarebbe finito una volta per tutte. Lo sentiva…
La testa gli girava. Si lasciò cadere di peso sulla sabbia dura per il freddo, fermo a contemplare il paesaggio senza vederlo. Dentro di lui un’ardua lotta si stava combattendo, confondendolo: speranza e desolazione, rabbia e gioia, rancore e perdono. Si sentiva impazzire. L’unica cosa reale erano le parole che prima Mary gli aveva detto. Non aveva nemmeno la forza, il coraggio di ripeterle mentalmente. Ma aveva detto quelle assurdità solo perché in preda alla rabbia… tempo, serviva tempo, il giorno dopo tutto si sarebbe sistemato. Ma in che modo? Avrebbero ripreso a comportarsi come degli estranei? Avrebbero ripreso a litigare davanti agli occhi impauriti del piccolo Joseph? Joseph… chissà cosa pensava della sua mamma e del suo papà con quella testolina di bambino. Aveva sempre desiderato essere per suo figlio un eroe, un esempio, un modello. Aveva sempre desiderato portarlo a pescare, a fare delle gite in montagna. Ma non c’era mai stato abbastanza denaro. Tutto era riservato ai beni di prima necessità. Maledetto denaro. Maledetto Paese. Nonostante tutto anche lui, dentro di sé,  ammetteva che alcune delle parole di Mary erano vere: era stanco di fare una vita di privazioni, una vita povera. Non per lui, ci era abituato, ma per la sua famiglia. Avrebbe voluto che fossero fieri di lui, che apprezzassero il suo lavoro, per quanto misero, che apprezzassero i suoi sforzi.
Ma non era sempre stato così, una volta era tutto diverso. Una volta si amavano, lui lo credeva; benché non avessero una vita sfarzosa, anzi, erano felici, felici solo per il fatto di essere assieme, di aiutarsi l’un l’altro, assieme erano più forti. Ecco, così doveva essere. Così doveva tornare. No, non era ancora tutto finito. Poteva ancora farcela. Dentro al suo cuore si era risvegliato un sentimento di fiducia nel futuro grazie al passato. Aveva conquistato Mary una volta, poteva farcela un?altra volta. Aveva speranze, grandi speranze. Avrebbe ricominciato a lavorare ancora più sodo, avrebbe ricevuto una promozione, avrebbe regalato a sua moglie un vestito nuovo, a suo figlio una chitarra. E che importava se quello stupido fiume era secco, tanto peggio per lui! La sua mente era ubriaca di pensieri; troppe, troppe cose la sua testa aveva elaborato in quelle poche ore, era stordito.
Si alzò barcollante sulle gambe, ma ancora indeciso sulla sua prossima azione. Il vento si fece sempre più forte, ululava, gridava… piangeva. Sembrava un flebile lamento, una preghiera.
-Mary!
Era lei, ne era sicuro. Non poteva che essere lei. Lo stava chiamando. Era un lamento che sapeva di rimorso, di perdono. Era un segno, doveva tornare a casa, tornare da lei e dalla sua famiglia. Bruce si chiuse in velocità la giacca, e cominciò a correre, a correre. Quelle gambe lo avevano portato ovunque, avrebbero percorso anche quell’ultimo tratto. Infischiandosene della sua cara automobile, Bruce corse attraverso i boschi, le strade. Era come impazzito, non dava più retta alla ragione. L’aria si schiantava violenta sul suo viso, sferzava sulla sua pelle. Il vento freddo lo faceva respirare a fatica, aveva il fiatone, ansimava. Sentiva il suo cuore dentro di lui battere freneticamente, per lo sforzo e l’emozione, l’emozione per la promessa di una nuova vita , di una nuova felicità. Il petto stava per esplodere. Sentiva le gambe che gli facevano male, diventavano sempre più rigide. Ma doveva fare un ultimo sforzo, la sua casa era così vicino, un ultimo sforzo…
Ed eccola, là, nella radura, dietro l’autostrada. La sua casetta, la sua dolce casetta. Quella corsa aveva eccitato il suo animo a dismisura, lo aveva reso quasi folle. Si fermò finalmente ad ammirarla. La luna quasi piena ne delineava il profilo, la rendeva surreale, magica. Guardando quella piccola dimora che un tempo aveva quasi detestato, ora si sentiva fiero. Tutti i suoi sforzi avevano portato a qualcosa. Ogni uomo, dall’alba dei tempi, aveva sempre desiderato avere un tetto sopra la testa e un fuoco con sui scaldarsi. Si sentiva fortunato.
Ricominciò a correre. Attraversò il giardino e alzò lo sguardo: la luce della sua camera, della loro camera, era accesa. Quasi sfondò la porta, oltrepassò l’ingresso senza nemmeno guardarsi attorno. Percorse fuori di sé le scale, inciampando un paio di volte nei gradini che faceva a tre a tre. La testa gli pulsava dolorosamente, ma doveva accantonare il male e mantenere quella poca lucidità che gli era rimasta. Aveva gli occhi spalancati, pazzi, i capelli scompigliati, le mani tremanti. Vide finalmente la porta socchiusa della loro stanza dalla quale proveniva la luce. Per la foga di raggiungerla cadde un’altra volta, ma subito si rialzò.
 
Eeeeeh… sono tornata! Pensavate di esservi liberate di me! Ebbene no, sono di nuovo qui a tormentarvi con i miei scarabocchi. Non so come farmi perdonare per questa lunghissima assenza, non ci sono scuse. MA ho imparato la lezione e mi sono presa “per tempo”, infatti il prossimo (ed ultimo) capitolo è già pronto, devo solo batterlo a computer.
Ma veniamo a questo pastrocchio: ditelo pure, è un capitolo senza capo né coda, piuttosto inutile. Sembra il delirio di un pazzo (e in effetti è così che doveva sembrare). E’ pieno di emozioni contrastanti, di contraddizioni, perché io Bruce ora lo vedo sconvolto, ha visto davanti a sé cadere tutto ciò che aveva di più caro, ma non si rassegna ancora del tutto, nonostante la mente cerchi di farlo ragionare, ha ancora speranza… sarà anche questa volta disattesa? Tutto questo nel prossimo episodio!
A parte gli scherzi, volevo ringraziare tutte voi di cuore, voi che leggete i miei capitoli deliranti e li recensite, siete la mia salvezza, “my reason to believe”. Grazie, grazie di cuore.

PRJ

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Capitolo 13
*** Capitolo 13- Or is it something worse? ***


CAPITOLO 13 (OR IS IT SOMETHING WORSE?)

Agguantò la maniglia della porta. Era fredda al contatto con la sua mano sudata. Spalancò l’ingresso quasi con rabbia.
-Mary!
La voce uscì roca e spossata dalla sua gola, una voce esasperata. Una voce che non ebbe nessuna risposta.
-Mary!- ripeté, questa volta con una nota tremolante
–Mary! Dove sei? Mary! MARY!
Prese le lenzuola del letto e le scaraventò via; afferrò i cuscini una alla volta e li sbattè con rabbia a terra. Aprì l’armadio e cominciò a cavarne fuori ogni indumento. La sua mente, sconvolta dallo shock di non aver trovato la moglie ad aspettarlo, lo faceva agire in modo assolutamente insensato, facendogli credere che Mary potesse trovarsi sotto le coperte o nascosta dentro l’armadio. In preda ad un accesso di frustrazione cominciò a fare a pezzi ogni cosa che si trovava tra le sue mani. Prese a pestare i piedi a terra, le lacrime cominciarono a solcare il suo viso, si passò le mani nei capelli con disperazione.
-Joseph! – urlò a un tratto. Suo figlio, dov’era suo figlio? Uscì con furia dalla loro stanza per entrare nella cameretta del suo Joseph. La aprì con un rude calcio. Era tutto buio. Cercò l’interruttore. Luce. Un attimo di speranza. Ma anche questa fu subito disattesa.
-Joseph!
Il letto era vuoto.
-Joseph,  Joseph…- prese tra le sue mani il piccolo cuscino alla base del letto, ancora caldo, portava il segno della piccola testolina del suo bambino. Cominciò a stringerlo tra le sue braccia, ad accarezzarlo, a baciarlo.
-Joseph, Joseph… Dov’è il mio Joseph?
Le gambe alla fine cedettero sotto il peso di quell’agonia. Cadde in ginocchio, prese la testa tra le sue mani e pianse. I singhiozzi gli laceravano il petto, straziavano il suo cuore. Un caos di pensieri e la più grande confusione. Cos’era successo? Dov’era la sua famiglia? Chi li aveva presi e portati via? Perché, poco prima, se n’era andato?
Era tutto svanito, finito, volato via, fuori dalla sua portata… Molte altre domande si affollarono nella sua mente ormai provata. Si alzò barcollando, facendo uno sforzo su quelle sue gambe quasi senza forze, la vista annebbiata dalle lacrime disperate. Cominciò a camminare in uno stato di incoscienza, con uno sguardo vacuo nei suoi occhi. Guardò le pareti di quella casa: non poteva essere la sua casa, non riusciva a capacitarsene. Se non c’erano loro dentro, non poteva essere considerata tale. Si ritrovò nella cucina dove poco prima Mary aveva fatto crollare solo con dell’aria tutto ciò che aveva di più caro e che aveva costruito in tanti anni. Sul tavolo c’era un foglio di carta scritto con una calligrafia disordinata , frettolosa. Una lettera. Odiava le lettere.

“Ho commesso uno sbaglio in passato, e forse ne sto commettendo un altro, ma al momento mi sembra la cosa più razionale da fare. Ho deciso di andarmene con Joseph e tornare a vivere dai miei genitori momentaneamente, in attesa di guadagnare i soldi per una vita migliore. Da ragazzi abbiamo sbagliato a precipitarci nelle braccia l’uno nell’altra. Ci conoscevamo appena, non era amore e non poteva nemmeno diventarlo. Gli errori e le lacune si sono manifestate con il passare del tempo, degli anni, sbriciolando quella piccola felicità che credevamo di avere. E’ sempre stato tutto instabile e precario, anche le fondamenta della tua famiglia che credevi così sicure in realtà traballavano. Ho promesso a Joseph una vita migliore. E spero di riuscirci in un modo migliore del tuo.
M.”


Era tutto chiaro ora.
O forse no, era tutto ancora più scuro.
Non aveva parole, o forse no, ne aveva troppe.
Brancolava al buio in cerca di una fonte di salvezza,  ma non ce n’erano, se ne erano andate. Sua moglie se ne era andata. Suo figlio se ne era andato. Non gli rimaneva più niente. Aveva perso tutto. I ricordi che tornavano prepotentemente in lui lo stavano ammazzando. Rendevano definitiva la sua sconfitta.
E’ una bugia un sogno che non si realizza, o è qualcosa di peggiore?


*angolo autrice*
Eccoci qua. This is the end, my only friend, the end. Sono molta dispiaciuta di dover chiudere questa ff a cui ho dedicato moltissime delle mie capacità, ma soprattutto mi dispiace di lasciare VOI Blood Sisters, siete state una delle nie fonti di ispirazione, una forza.
E INFATTI ho deciso che questa NON sarà la fine! Ho pensato che non poteva lasciarvi così, di sasso, in questo modo, quindi scriverò un Epilogo vero e proprio , che credo sarà una specie di salto nel tempo di qualche anno, in cui si tirerà le somme delle vite dei due protagonisti. Che ne dite?
Per quanto riguarda questo capitolo, non so bene cosa pensare, avrei voluto farlo più lungo, più reale, avevo pensato di revisionarlo un po', ma alla fine ho deciso di pubblicare la prima bozza, dopo averla fatta leggere alla mia cara Giulia (<3) che mi ha dato il suo prezioso parere. Quindi io ora mi zittisco, torno a leggere il Signore degli Anelli, e lascio la parola a voi e alle vostre opinioni, spero vivamente che vi piaccia.

PRJ

P. S. Mi sono accorta solo ora che, pubblicando dal cellulare, nel capitolo era comparso anche il codice sorgente! Perdonatemi! Spero di aver sistemato ora!

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Capitolo 14
*** EPILOGO ***


EPILOGO
 
Si trovava di nuovo su quel piccolo e scuro palco. Aveva di nuovo una chitarra tra le mani, comprata con i soldi guadagnati lavorando in fabbrica. Ricordava con dolore quei giorni. Si era ritrovato sommerso da bollette e affitti arretrati, rate e debiti, aveva seriamente creduto di non farcela, aveva seriamente pensato di mettere fine a tutto con un unico e terribile gesto. Era stato un periodo oscuro. Ma poi un piccolo raggio di luce era comparso. Era comparso filtrando attraverso le corde della vecchia Fender che aveva avuto a diciotto anni, ritrovata per caso a casa dei suoi genitori. Periodicamente tornava in quel vecchio edificio, ogni volta andava in perlustrazione nella sua vecchia stanza e nella soffitta, circondandosi di vecchie memorie. Era proprio lì che l’aveva ritrovata, nel posto in cui l’aveva lasciata poco prima di quella giornata di svolta, il suo precoce ed avventato matrimonio. Cercava di pensare il meno possibile al passato, ma spesso i ricordi lo incatenavano di nuovo. E quelli erano momenti frustranti, momenti di “se” e di “ma”, momenti di insicurezza, momenti in cui sentiva anni e anni rovinargli violentemente sulle spalle. Ma la musica, quell’arte divina superiore ad ogni altra, la migliore creazione che un essere così imperfetto come l’uomo potesse creare, era tornata a salvarlo.
Ora era di nuovo su quel palco. Accostò l’armonica a bocca al microfono polveroso. Un attimo di panico, l’attimo che precede il salto, l’attimo in cui la tua testa è vuota e il tuo cuore batte così forte che lo senti pulsare nelle orecchie. Lasciò vagare lo sguardo sul pubblico: visi così diversi, visi in attesa. Un sorridente uomo grande e grosso di colore, un uomo con una bandana in testa dall’aria spavalda, un ragazzo da una folta chioma bionda con un espressione audace sul volto, una donna dai ricci capelli rossi…
Fece scivolare delicatamente il plettro sulle corde della chitarra, suonando il primo accordo. Prese un respiro e cominciò a soffiare nell’armonica. Era una canzone nuova, scritta da poco. Una canzone che parlava di speranza e libertà. L’aveva chiamata “Thunder road”.
 
Si concesse una birra una volta finita l’esibizione: sembravano passati anni dall’ultima volta che ne aveva bevuta una. Gli riportò alla mente ricordi amari della sua ex moglie: esattamente in quel bar molti anni prima…
Non poteva dire di aver dimenticato, non lo voleva, d’altronde. Quei ricordi erano parte di lui, l’avevano cambiato, l’avevano fatto soffrire, ma non per questo voleva eliminarli. Erano la sua forza: gli ricordavano i sacrifici che aveva fatto, quanto aveva sudato, e come, alla fine, era riuscito un po’ alla volta a rialzarsi, tenendo alta la testa.
Riusciva a vedere suo figlio Joseph regolarmente. Non quanto avrebbe voluto, ma andava bene. Era la sua più grande gioia, la sua più grande fonte di orgoglio. Gli aveva insegnato a suonare la chitarra: aveva un grande talento. Lo portava a pescare e, a volte, quando il lavoro lo permetteva, anche alle giostre.
«Sei stato formidabile prima. Hai veramente talento. Quella canzone era semplicemente fantastica. Come mai non ho sentito parlare prima di te?»
Una donna si era avvicinata, sedendosi su una sedia al suo fianco. Aveva un viso sottile, dolce, incorniciato da una chioma di vispi capelli ramati; due profondi pozzi verdi completavano il quadro. Il suo corpo era flessuoso, nascosto da una maglietta dei Blondie e da una gonna di pelle nera a vita alta.
«Me ne stavo nascosto, aspettavo il momento giusto per sfondare. Io mi chiamo Bruce.»
«Piacere, Patti» disse lei sorridendo, tendendogli la mano.
Aveva sempre preferito le rosse.
 
 
*angolo autrice*
Non ci posso credere. L’ho finita. Dopo DUE anni, ho messo la parole fine. Ora se volete potete ingiuriare contro di me e tirarmi pomodori: lo so, lo so, sono più lenta di Steven Moffat a scrivere le sceneggiature di Sherlock. Il problema è che sono l’essere più pigro che sia mai comparso sulla terra. Ma mi consolo pensando “meglio tardi che mai”. Come avete visto, per quanto ami i finali tragici, amo di più Bruce, non sopportavo di vederlo sconfitto, anche se solo sulla carta. So che Patti Scialfa in quanto contesto storico e periodo non c’entra una cippa, ma… quella donna va bene ovunque. E’ comunque un mito.
Sono veramente felice di aver finito finalmente questa fanfic, è una vera liberazione: non in senso negativo, ma per il fatto di aver finalmente portato a termine quest’impresa. Grazie a questa storia ho conosciuto persone meravigliose con la passione per Bruce Springsteen e per la scrittura, e non posso che esserne felice Le vostre parole di incoraggiamento, le vostre recensioni mi hanno aiutato più di quanto possiate immaginare, e vi sono estremamente grata. Ringrazio tutte coloro che hanno recensito: redbullholic, KimLennox, korg, Sun_, Old yellow bricks, Goin_down, MagicRat, LovingHimWasRed, Love me always; un ringraziamento particolare va a Mary_the barefoot girl, che mi ha sempre supportato (e sopportato) e, naturalmente, a trentatrenocidicocco: si dovrebbe fare non una statua, ma una cattedrale per questa ragazza.

Grazie, grazie infinte a tutte. Molte di loro scrivono fanfic sul boss: date un’occhiata alle loro pagine, meritano veramente. E a proposito di questo, so di essere terribilmente in ritardo anche nel leggere i nuovi capitoli di molte storie e nel recensire: vi prometto che pian piano mi metterò al passo.
Già che sono qua ne approfitto per fare un paio di “annunci”: il primo è che  non so quando e in un tempo indeterminato revisionerò i primi capitoli di questa fanfic (almeno fino al sesto), perché hanno seriamente bisogno di una sistemata. Ovvero sono osceni. Ma probabilmente continuerò a scrivere qualche One shot ispirata alle canzoni del Boss.
Il secondo, che però non riguarda Bruce, è che probabilmente comincerò una raccolta di gialli/thriller con protagonisti John e Sherlock (BBC), di cui ho già scritto la prima “avventura”: non so bene dove andrà a parare, ma voglio provare. Vi lascio il link se vi può interessare.
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2760977&i=1 Ora vi saluto, anche se è davvero triste per me mettere la parola fine a questa avventura.
Baci, alla prossima,
 
PRJ

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