The Mover

di Sophie_Lager
(/viewuser.php?uid=180319)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO 1. ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 2. ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 3. ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO 1. ***


CAPITOLO 1.

Fai un respiro, Sophie. Un respiro profondo. Andrà tutto bene. Non ti mangiano mica.

E invece si, potevano mangiarmi. E io lo sapevo bene. C'ero già passata, e lo sapevo.

Ma cosa potevo fare? Tornare indietro? Impossibile. Il cancello si era appena chiuso con un rumore metallico. Non avevo via di uscita. Dovevo andare.

Con tutto il coraggio che avevo, percorsi quella breve distanza che mi separava dalla porta di ingresso, ed entrai nella mia nuova scuola.

Nuova scuola. Nuovi professori. Nuovi orari. Nuovi compagni. 

L'ultimo punto era quello che mi preoccupava di più. Gli sguardi indagatori del primo giorno, le occhiate di critica nei giorni successivi.

Se fossi stata almeno una top-model, o una campionessa sportiva, o un tipo amichevole, sono sicura che le cose sarebbero state diverse. Ma io non ero così. Ero una ragazza normale, con un corpo normale, che amava disegnare, leggere e stare per conto suo nel suo mondo. Amavo più i libri che le persone. Preferivo trascorrere una serata a casa, leggendo o guardando un film da sola, anzi che uscire per andare a ballare, a ubriacarmi e magari a farmi di qualche cosa.

Ero quel tipo di ragazza che, insomma, passa invisibile tra gli altri, senza lasciare traccia. Ero quel tipo di ragazza che non pensavi di invitare a casa tua per passare una serata in compagnia. Ero quel tipo di ragazza che non aveva amici, o almeno amici veri.

Era triste dirlo, ma era la verità. E sinceramente, non me ne importava molto. Ero io che mi comportavo così, non mi stava obbligando nessuno a farlo. Semplicemente, quello era il mio carattere. Punto. Probabilmente, questo non era quello che gli altri cercavano. Ma, altrettanto probabilmente, questa era la mia autodifesa al giudizio degli altri.

Attraversai velocemente il corridoio, pur sapendo che avrei dovuto aspettare qualche momento prima di entrare. Il preside mi aveva avvertito, mi avrebbero presentato alla classe. Magnifico. Mi ci volevano proprio un po' di prese in giro, il primo giorno.

Mi avvicinai alla porta della mia classe, ed ascoltai. Dentro, l'insegnante -una donna- stava facendo l'appello. Ma erano sempre alla D, avevo del tempo per stare con me. Mi voltai verso le grandi finestre, e osservai gli alberi infuocati di metà ottobre. Non era un bel momento per cambiare scuola: i programmi erano già iniziati, e tra poco ci sarebbero stati gli esami del primo trimestre. Ma non avevo scelta, neanche qui. 

Dopo la morte di mia madre, mi ero trasferita con mio padre. La città dove vivevo prima era poco distante da quella di papà, ma non era possibile continuare a frequentare la scuola di prima. Così ero andata a vivere con lui, l'uomo che mi aveva messa al mondo ma che avevo visto si e no 50 volte in 16 anni. Non c'erano sentimenti particolari che ci legavano. Diciamo che lui era per me una specie di vicino di casa, ma della casa delle vacanze, quella che vedi qualche mese all'anno. I sentimenti che provavo per lui erano gratitudine, per avermi accolto in casa sua nonostante tutto, e disprezzo, perché proprio nello stesso modo in cui mi aveva accolto, come si accoglierebbe un povero gattino bagnato dalla strada, così mi aveva abbandonato 16 anni prima, come un animale indesiderato, lasciando me e mia madre a noi stesse. Non che lei facesse un lavoro poco pagato. Il suo stipendio era abbastanza da poter mantenerci entrambe, ma non ci eravamo mai concesse grandi lussi. Mio padre invece, avvocato, poteva permettersi quello che voleva. E nonostante dovesse tenere a me proprio come ad un animale, mi trattava nel migliore dei modi: camera lussuosa; auto personale; scuola privata. E questa era solo una parte.

Proprio in quel momento, la professoressa terminò l'appello. Potei sentirla chiaramente annunciare agli studenti che da quel giorno ci sarebbe stato un banco in più, in classe. E potei sentire altrettanto chiaramente le risatine e il chiacchiericcio che si era alzato tra i ragazzi. L'insegnante si alzò e si avvicinò alla porta. Ormai era una questione di secondi: la porta si sarebbe aperta e io sarei entrata. Mi lisciai nervosamente la gonna dell'uniforme scolastica, e mi sistemai con mani tremanti i capelli.

Il panico mi assalì di nuovo. 

Dai Sophie! Ancora un respiro. Ancora uno.

E la porta si aprì.

La donna che mi si avvicinò con un sorriso era di carnagione scura, vestita elegante in tailleur pantalone beige. Mi sorrise incoraggiante e si presentò. Io le rivolsi un sorriso timido, ma il più possibile sincero. 

«Forza, cara. Piacere, sono la professoressa Gutembergh» Mi disse, cingendomi le spalle. Era molto più alta di me, con i tacchi. 

«So che è difficile il primo giorno, ma ti troverai bene, qui» Mi sorrise ancora, e anche io ricambiai il sorriso, riconoscente. 

Ma quella breve sensazione di coraggio svanì immediatamente, quando mi lasciò andare le spalle e mi precedette in classe. A quel punto, fui costretta a seguirla. Oltrepassai la soglia, e mi sentii già le guance bollenti.

Oh, perfetto Sophie! Magnifico, davvero! Adesso si che sembri sicura di te!

Avevo tutti gli sguardi puntati contro. Mi sento come un animale dello zoo.

Io credo che debbano abolire questo momento da qualsiasi scuola. Cos'hanno tutti da guardare? Ho due gambe, due braccia e una testa come loro. 

Ancora più rossa in viso, guardai speranzosa verso la cattedra, sperando che l'insegnate mi salvasse. Ma lei stava firmando con calma i fogli del mio trasferimento.

Ancora più nel panico, studiai con cura la copertina del mio libro di matematica che tenevo stretto in mano come se fosse la mia ancora di salvezza. Sentii le risatine provenire da una qualche parte della classe.

Finalmente, la professoressa Gutembergh alzò gli occhi su di me. Grazie al cielo. 

Si avvicinò e mi presentò alla classe.

«Allora ragazzi. Questa sarà la vostra nuova compagna, Sophie Howord. Si fermerà con noi per tutto l'anno scolastico» 

E poi mi guardò, sempre sorridente, per farmi capire di salutare i miei nuovi amici. Fantastico.

Alzai la mano, la scossi alcune volte da destra a sinistra, e la lasciai cadere di nuovo. Tutto questo con un realistico sorriso stampato sul viso. 

Poi mi indicò un banco, quasi alla fine della classe. 

Mi diressi velocemente in quella direzione, cercando senza farmi notare di contare quanti ragazzi c'erano nell'aula. Dalla breve occhiata che diedi, erano circa trenta persone. 

Capii immediatamente da chi erano arrivate le risatine. A destra, vicino alle grandi finestre, c'erano tre ragazze che avevano l'aria di essere le più snob della classe. Erano sicuramente le cheerleader della squadra di basket della scuola: fisico asciutto e atletico, forme bene in vista, gonna volontariamente corta. Capelli e unghie perfetti. 

Cercai di immaginare come apparivo agli altri in questo momento. Capelli biondi, si, ma spettinati per il vento. Occhi verdi, si, ma sicuramente contornati da stupende occhiaie post notte in bianco. Pelle chiara, si, ma troppo chiara per essere considerata una bellezza. Non osai neanche guardarmi le unghie: me le stavo mangiucchiando, come facevo sempre quando ero agitata. 

In conclusione: un disastro.

Cercai di non pensarci. La lezione iniziò senza indugio. Matematica era stata sempre la mia materia più odiata, ma notai con sollievo che ero avanti con il programma. La lezione successiva era di Inglese. Mi era sempre piaciuto inglese, perciò la ascoltai con interesse, prendendo appunti. Poi fu l'ora della lezione di chimica, e l'ora successiva di scienze, fino a tornare di nuovo ad inglese. 

E la mattinata si era conclusa. 

Raccolsi i miei libri, pronta ad andarmene il prima possibile da questo luogo. 

Ma quando alzai gli occhi dal mio quaderno, mi trovai davanti il terzetto. Le tre ragazze che avevano riso di me la mattina.

Le fissai, senza dire nulla, senza lasciar trasparire niente. Loro si scambiarono occhiate veloci, poi la bionda mi rivolse la parola.

«Ciao. Sono Jasmine. Piacere» E mi porse la mano. Indecisa sul da farsi, attesi qualche secondo, ma poi pensai: "Oh, insomma! Poteva anche aver sentito una barzelletta, stamattina. Perché avrebbe dovuto ridere di me? Che cosa avevo fatto di tanto divertente? E se adesso mi sta offrendo la mano…"

Così allungai la mia, e ricambiai la stretta. 

«Piacere» Risposi, accennando ad un sorriso.

Jasmine guardò le altre due, mentre mi accorsi che nella classe non era rimasto più nessuno, solo noi quattro. Si concessero un'altra insensata risata, che però fu breve, e tornarono a guardarmi, serie.

A quel punto la bionda mi si avvicinò. Io ero ancora seduta, mentre lei era davanti a me, in piedi. Fu costretta a piegarsi in avanti, sul banco. Dalla camicetta semi aperta vidi il suo seno. Lei mi prese un lembo della camicia con due dita, facendomi avvicinare a se ancora di più, finchè non fui a pochi centimetri dal suo viso. Non opposi resistenza: i suoi occhi azzurri mi congelavano come ghiaccio. 

«Se non hai ancora capito» Disse, quasi sibilando, «Qui comandiamo noi. Ti conviene non fare la furba, ne con noi ne con nessun altro. Se vuoi vivere felice, fai in modo di non farmi fastidio.» Poi mi lasciò andare, e dopo un'ultimo sguardo, si voltò e se ne andò, seguita a ruota dalle altre due.

Io rimasi immobile per alcuni secondi, ancora seduta al mio banco. Fuori stava per scoppiare un temporale, e la classe era buia e tetra. 

Senza pensarci due volte, raccolsi in fretta e furia i miei libri e me ne andai, senza passare dalla segreteria come avrei dovuto fare.

Volevo andarmene da quel posto, e da quelle persone strane e inquietanti. 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** CAPITOLO 2. ***


CAPITOLO 2.
 

Aprii la porta d'ingresso con un movimento veloce, e la richiusi altrettanto velocemente. Dopo una giornata simile, non volevo altro che starmene in casa, da sola, libera di pensare. 

Con un tempismo pazzesco, non appena appesi la giacca nell'ingresso sentii grosse gocce di pioggia cadere sul tetto di legno. 

Adoravo la pioggia. Amavo molto più l'inverno che l'estate. Beh, certo, autunno e inverno significavano scuola e compiti, ma nonostante odiassi sia l'uno che l'altro continuavo ad amare il freddo, la pioggia, il vento e la neve. 

Il ticchettio familiare dell'acqua sulla casa mi fece rilassare e sentire meno sola. Non che avessi bisogno di compagnia per sopravvivere -non ero quel tipo di persona-, ma la casa era talmente grande e vuota da farmi sentire più protetta e al sicuro, così al calduccio tra le sue mura, mentre fuori iniziava una tempesta.

Robert, mio padre, non era ancora rientrato. Ma d'altronde erano appena le 15. Non potevo pretendere troppo da lui e dal suo lavoro. Sarebbe ritornato forse per cena. Forse dopo. In questi cinque giorni precedenti, che avevo trascorso a casa, dopo il funerale di mamma, avevo potuto imparare gli orari e le abitudini del mio genitore quasi sconosciuto. 

Neanche lui si era fatto grandi problemi con me. 

«Questa è la tua stanza» mi aveva detto, appena arrivata. «L'ho fatta arredare con un po' di cose che penso vadano bene per la tua età… Non so, non le ho scelte io… Se non ti piacciono possiamo cambiarle. Solitamente lavoro tutti i giorni tranne la domenica, dalle 9 fino a tardi. Se per cena hai fame, mangia e non aspettarmi. Potrei rincasare tardi e avere già cenato. Una volta a settimana Angela si occupa della pulizia della casa. Ha le chiavi e non occorre che tu ti curi di lei, sa già cosa fare. Beh, adesso ti lascio ad esplorare. Vado nel mio studio.» E così dicendo era uscito, chiudendo la porta della mia nuova camera, e accennando un sorriso.

Un sorriso era il massimo che potessi avere da lui. Ma non mi importava.

Per quanto ne sapevo, il matrimonio tra lui e mia madre era finito quando lei aveva scoperto di essere incinta. Robert non voleva dei bambini, ma mia madre non voleva un'aborto. E tra loro finì. Per questo adesso mi chiedo come mai il mio vero padre mi abbia accettato in casa sua senza troppe storie. Ma immagino che una ragazza di 16 anni abbia più l'aspetto di un adulto, che di un bambino.

Salii di corsa le scale e entrai nella mia camera.

Nonostante tutto, adoravo la mia stanza: completamente di legno, come la maggior parte della casa, probabilmente una volta era un piccolo salotto al secondo piano, che poi era stato riadattato come camera da letto. C'erano il letto, un grande armadio, una scrivania, una piccola tv a muro e una porta per il mio piccolo bagno personale. Poi una grande finestra che dava sul giardino, dalla quale potevo vedere anche la strada.

Mi rannicchiai sul letto, fissando il soffitto.

Come primo giorno di scuola, era stato uno schifo.

Avevo già tre nemiche, e non avevo ancora socializzato con nessuno in classe. Come inizio andava proprio bene.

Chiusi gli occhi e tentai di fuggire nel mondo dei sogni.


***
SPAZIO AUTRICE


Salve! 
Inizio con scusarmi con quei quattro gatti che seguivano la storia per non aver continuato. Ma proprio perchè eravate solo quattro gatti, mi sono depressa così tanto che ho deciso di non continuare a scrivere. Poi ho avuto altri problemi, che tra l'altro sono tutt'ora presenti ma meglio gestibili, che mi hanno rallentato. E che sicuramente mi rallenteranno in futuro, dovendo quindi farmi mettere immediatamente le mani avanti: non posso assicurarvi una pubblicazione periodica dei capitoli.
Mi dispiace per tutto questo, perchè magari qualcuno davvero voleva conoscere la fine della FF.
Quindi ho deciso: posterò altri due o tre capitoli, per prova. Se aumenteranno le recensioni, o comunque sia le richieste affinchè la storia vada avanti, allora mi impegnerò affinchè proceda con regolarità. In caso contrario, non assicuro nulla :(

Dispiace anche a me, ma son costretta purtroppo a tagliare qualcosa... Non ce la faccio a seguire tutto.

Detto questo, non vi trattengo oltre! Spero di non avervi depresso con queste mie ultime righe di confessioni. Ci vediamo alla prossima, spero numerosi!
Bacio! :)


Sophie Lager

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** CAPITOLO 3. ***


3.

La mattina seguente mi svegliai in tempo per cambiarmi e prendere al volo la colazione.

Mio padre era seduto al tavolo, leggeva il quotidiano. Alzò appena gli occhi quando entrai in cucina. Non lo vedevo dalla mattina precedente; la sera non era tornato per cena, ed ero andata a letto senza vederlo rientrare.

«Ciao papà. Io esco.»

«Bene» disse lui, accendano un sorriso tirato.

Senza voltarmi ancora, uscii di casa.

Il temporale era terminato, ma aveva portato un forte vento che continuava a soffiare. Mi strinsi ancora di più la sciarpa, e maledissi le scuole che sceglievano le gonne come divise scolastiche per le ragazze. 

Il quartiere dove abitavamo era molto piccolo, ma molto vicino alla scuola che frequentavo. Dieci minuti a piedi. Non mi dispiaceva camminare. Mi avrebbe fatto bene, starmene un po' da sola nella natura.

Quella mattina avrei avuto due ore consecutive di inglese. Fortunatamente. Forse così sarei stata troppo occupata a cercare di imparare qualcosa dell'unica materia che davvero mi piaceva per poter prestare attenzione agli strani comportamenti che gli altri mi avrebbero dedicato.

Passai i grandi cancelli, e mi ritrovai nel cortile della scuola. C'erano un sacco di ragazzi che bighellonavano fuori, non desiderando altro che rimanere li per tutta la mattinata. Io li superai velocemente, e trovai con un po' di fatica la mia aula. Dovevo ancora orientarmi, non ero mai stata troppo brava a farlo. 

Entrai in classe e mi sedetti al banco del giorno prima. Senza farmi notare troppo, sbirciai con la coda dell'occhio la parte di stanza inesplorata. C'erano tre ragazzi e una ragazza che chiacchieravano. Mi sembravano amichevoli, dallo sguardo, e non feroci come le tre cheerleader di ieri. La ragazza aveva i capelli neri e gli occhi altrettanto neri. Era snella e aveva un viso aggraziato. Avrebbe potuto essere anche lei una della setta.

Improvvisamente la mora si voltò verso di me. Probabilmente mi aveva notato.

Fantastico, Sophie! Ora verrà a metterti in guardia su chi comanda in questa scuola. Di nuovo. 

Distolsi subito lo sguardo, trovando improvvisamente molto interessante il contenuto del mio zaino, finchè non sentii una voce davanti a me:

«Ciao»

Alzai lo sguardo, e mi ritrovai davanti la ragazza. Notai che i suoi amici la guardavano dall'altro lato dell'aula, senza muoversi, e -vidi con piacere- senza ridere. Forse non tutto era perduto.

«Ciao» Le risposi, sorridendo appena.

«Io sono Violet, piacere di conoscerti! Spero che ieri Il Trio non ti abbia trattato troppo male» Aggiunse, con un'aria vagamente preoccupata.

Il Trio?

«Intendi Jasmine e il suo gruppo?»

«Già!» Rispose solare Violet. «Noi le chiamiamo Il Trio perché non si separano mai. Ma non dare troppo peso a quello che dicono. Devi solo stare attenta a non attirare troppo l'attenzione di Matt. E' l'unica persona che ha dato palo a Jasmine, ma lei non l'ha mai accettato. Perciò tiene alla larga da lui tutte le persone che può» E Violet concluse il suo monologo con una risatina. Parlava sicuramente molto, ma era simpatica. La prima persona simpatica di questo posto, fino ad adesso. 

«Vedrò di non rivolgere mai la parola a Matt, allora» Le risposi, stavolta sorridendo davvero.

Ma nel frattempo la classe si era riempita. In molti mi stavano ancora squadrando, non contenti di averlo fatto per tutto il giorno precedente.

«Devo andare, adesso, ma a mensa ti voglio al mio tavolo» Mi disse Violet, prima di allontanarsi verso il suo banco. E proprio in quel momento entrò la professoressa Carls di inglese. 

«Buongiorno a tutti» esordì la nostra insegnante entrando in classe. Nessuno fece troppo caso a lei, la maggior parte continuava a chiacchierare e a bisbigliare. Io fissavo la lavagna, fingendo di essere assorta nei miei pensieri. In realtà avevo già sentito il mio cognome quattro volte, e tutte le volte da una voce diversa. 

Con la coda dell'occhio notai anche il Trio, nella fila di banchi alla mia sinistra, e da quel momento non sbirciai più in quella direzione.

«Mettetevi seduti, tutti quanti! Oggi ci occuperemo di impaginazione: come strutturare un articolo di giornale dal punto di vista grafico e ortografico. Il tutto sembra molto facile, ma assolutamente non lo è; quindi fate molta attenzione, non lo ripeterò due volte! Alla fine del mese vorrei riuscire a creare un piccolo giornale scolastico prodotto esclusivamente dai ragazzi di questa classe, quindi dovrete creare degli articoli interessanti ma soprattutto ben fatti. E adesso aprite il libro a pagina 87.» Annunciò la professoressa, mentre la classe ammutoliva. 

Bene, mi piaceva questo argomento. Mi avrebbe tenuta occupata. 

Per quasi la maggior parte del tempo, la professoressa Carls ci illustrò le varie tipologie di articolo e i vari tipi di giornale, che potevano contenere articoli diversi sia come struttura che come -ovviamente- argomento. 

Avevo già studiato queste cose, ma mi erano sembrate lo stesso interessanti. Inutile ripeterlo: inglese era l'unica materia che davvero mi piaceva.

Mancava ormai meno di mezz'ora al suono della seconda campanella, ovvero alla fine dell'ora, e mi guardai intorno: nessuno stava più prendendo appunti, e anzi il chiacchiericcio di sottofondo era abbastanza evidente. Alla mia destra tre ragazzi si stavano lanciando palline di carta. 

«Bene, direi che può bastare» Interruppe la professoressa, battendo alcune volte le mani per richiamare l'attenzione.

«Possiamo iniziare a dividere i gruppi?» Chiese, attirando definitivamente tutti gli sguardi su di lei. Dall'aula si levarono lamentele.

«Silenzio. Dividerò io in gruppi da due. Un'articolo per gruppo su un argomento che sceglierò io. Iniziamo con la signorina Ammert, che sarà in coppia con…» E scelse un nome a caso nell'elenco: «…Con il signor Mortes, così forse la smetterà di consegnare temi insufficienti.»

Una risatina si levò dalla classe, mentre il signor Mortes si avvicinava sbuffando a una ragazza con i capelli rossi che sedeva in prima fila. Notai che il ragazzo era fra quelli che pochi minuti prima aveva partecipato alla guerra con le palline di carta.

«La signorina Potter sarà con… Linda Thomlinson. Roberts con Kyn, Sarah Smith con… Parker. Sophie Howord…» E il suo sguardo si levò su di me. Mi squadrò per un po', per poi cadere dalle nuvole: «Oh, la ragazza nuova!»

Questo non era molto incoraggiante. Imbarazzata, arrossii sorridendo leggermente, anche se avrei voluto correre via.

«Mmm, vediamo. La signorina Howord … Eri abbastanza brava in inglese, vedo… Beh, perché no? Signor Kingsbury, vuole accomodarsi accanto a Sophie?»

Il ragazzo si alzò, sbuffando anche lui. Era seduto nel banco dietro a quello di Mortes, e anche lui era stato partecipe della guerra con la carta. 

Oh, fantastico, pensai. Mi hanno affidato un imbecille. 

Guardandolo meglio, mentre si avvicinava, notai che era molto carino: aveva la pelle abbronzata, nonostante non ci fosse del sole da un po' di tempo, in zona; i capelli biondicci; gli occhi azzurri. O forse grigi. Non riuscivo a distinguere bene il colore.

Non appena si avvicinò, appoggiando la sedia accanto alla mia, abbassai lo sguardo. Non potevo fissarlo per sempre.

«Piacere, Matt» Mi disse, allungando la mano mentre la professoressa continuava a formare i gruppi.

«Sophie» Risposi, allungando la mia mano per stringere la sua. Era calda e amichevole. Gli dedicai un piccolo sorriso e mi voltai dall'altra parte. 

Non l'avessi mai fatto.

Jasmine mi stava fissando, senza un sorriso sulle labbra. Ma non sembrava arrabbiata: sembrava furiosa.

Poi ricordai. Matt Kingsbury. "Quel" Matt. 

Oddio, no. Avevo appena condannato la mia esistenza ad un inferno.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1695783