Un'altra Molly

di Nisi
(/viewuser.php?uid=2440)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incipit ***
Capitolo 2: *** Apparenza esteriore ***
Capitolo 3: *** Identità e abitazione ***
Capitolo 4: *** Letture ***
Capitolo 5: *** Cose che contengono altre cose ***
Capitolo 6: *** Collaboratori ***
Capitolo 7: *** Tori per le corna ***
Capitolo 8: *** La mia cucina per la scienza ***
Capitolo 9: *** Tracey Summers live in Galway ***
Capitolo 10: *** Il Dio della Morte ***
Capitolo 11: *** Avviso ***
Capitolo 12: *** Proserpina ***



Capitolo 1
*** Incipit ***


Gli edifici governativi di Massima sicurezza, nel Regno Unito, non sono proprio quelli che ci si potrebbero aspettare. Downing Street e Buckingham Palace sono solo delle graziose cornici di rappresentanza e di fatto lo sono, luoghi presso i quali intrattenere gli ospiti in visita e far loro finalmente gustare una tazza di tè decente, senza il pericolo che alle signore si smaglino le calze. Questo davanti al quale mi trovo è un enorme complesso di capannoni, non troppo diverso da quell’orrore architettonico chiamato Baskerville. L’unica differenza è che questo gruppo di edifici deturpa il Somerset invece del Devon. Stesso grigiore, stesso tipo di struttura.
Il cartello indica “Area Industriale Hailsham” e in effetti è di questo che si tratta, ma non solo. E’ indubbiamente un’area industriale, almeno all’occhio di un osservatore poco attento e dalle scarse capacità deduttive, un calzaturificio e una fabbrica di marmellate sono le prime cose si notano. Quello che è veramente interessante di questo posto sono i sotterranei e i ripostigli nascosti ed è evidente che la letteratura internazionale ha ispirato l’architetto o gli architetti che lo hanno progettato: ripostigli nascosti e seminterrati, come nel Diario di Anna Frank,  ai quali si accede digitando dei precisi codici sulla tastiera dell’ascensore, come il famigerato numero 68442.
Come so tutto questo? Deduzione, ovviamente, oltre al fatto che un mio stretto parente occupa una posizione di secondo piano – sogghigno – all’interno del Governo del Regno Unito.
Questa, se non l’avete ancora capito, è la sede del MI6, i servizi segreti di Sua Maestà.
* * *
Un mese prima.
Questa ragazza mi mette addosso una soggezione… Anthea, ha detto di chiamarsi, ma non credo sia il suo vero nome. E’ tutto quello che io non sarò mai: bella, conturbante, sempre all’altezza di qualunque situazione. Elegantissima, credo che l’abito che indossa sia costato metà del mio stipendio, anche se non credo l’abbia pagato lei.
E’ da un mese che sto lavorando con lei, lavorando per costruire la mia nuova identità. Mi sta “riprogrammando”, per dirla con le sue parole, ma non sono mai riuscita a strapparle un sì o un no oltre a quegli educati sorrisi che mi lancia quando solleva gli occhi dal suo cellulare e ciò succede di rado.
Quando Antea mi ha visto per la prima volta, mi ha fatta accomodare su una sedia posta di fronte a lei e mi ha chiesto: “Ha mai fatto teatro, Dottoressa Hooper?”
“Beh, no, ecco… ho fatto solo la renna alla recita di Natale quando ero alle elementari, ma non ero…”
Un sorriso cortese e mi ha teso una cartella di cartoncino.
“Studi quel che c’è dentro, Dottoressa Hooper. Si impegni come se dovesse concorrere all’Oscar, ma è evidente che c’è in gioco molto di più e lei lo sa perfettamente.”
E così è cominciata la mia vita qui dentro. Non ho idea di dove siamo, so che c’entra il governo, quindi in qualche modo Mycroft e non so assolutamente dove sia andato Sherlock. E’ sparito da qualche parte con suo fratello per “preparare tutto”, ma non ho idea di che significhi.
Passo mezza giornata concentrata sul contenuto di questa maledetta cartella che dovrebbe riassumere la persona che dovrò essere da ora in poi e che non mi piace nemmeno un po’. L’altra mezza giornata se ne va in lezioni di autodifesa e poligono di tiro, perché non si sa mai, ma potrei avere necessità di dovermi difendere, anche se il pensiero mi fa venire i brividi. Me la cavo meglio coi coltelli, ho fatto osservare ad Anthea un giorno, e lei mi ha guardata in modo strano e non ha capito la mia ironia. “Data la sua professione, credo sappia molto bene dove colpire un eventuale avversario. Faremo in modo di procurarle un pugnale, Dottoressa Hooper.”
A volte sento di non farcela, credo di stare per crollare, di non poter più reggere il peso di questa vita e Anthea lo capisce. Mi viene vicino, mi stringe appena un braccio e mi dice: “Lui sta bene, tornerà presto. Se non lo vuole fare per se stessa, lo faccia per lui.”
Già, perché è per lui che mi sono trovata in questo posto dimenticato da Dio, ma tornassi indietro rifarei esattamente le stesse cose e Anthea sa benissimo che bottoni schiacciare per farmi reagire.
Il momento peggiore è stato quando è arrivata quella donna, quando Molly Hopper ha cessato di esistere.
 * * *

Buonasera! Come andiamo? Spero bene.
Ecco la mia nuova fatica partorita durante una malattia (l'influenza è boooooooring!), spero che vi piaccia. E' il seguito di "Via", ma è decisamente meno seria, anche se non escludo momenti angst. Non è nelle mie corde scrivere drammoni e se lo faccio poi mi devo disintossicare.
Ovviamente, Sherlolly e sarà una fanfiction a più capitoli, almeno sette o otto, penso.
Chiedo umilmente scusa alle autrici di Sherlolly di EFP, ma non sono ancora riuscita a leggervi. Tengo famiglia e un lavoro (per fortuna), quindi il tempo è poco.
Rimedierò!



Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Apparenza esteriore ***


Sono stato via due mesi, una settimana, tre giorni, quattro ore, dodici minuti e venti secondi. C’è voluto del tempo, ma sono riuscito a predisporre una copertura quanto meno credibile e per quanto possibile sicura per me e per Molly.
Non avrei voluto portarla con me, ma è meglio per la sua sicurezza e credo che in ogni caso mi potrà essere utile, se non altro per ricucirmi in caso di bisogno.
Il piano originale era che lei mi raggiungesse, ma qualcosa deve essere andato storto perché Anthea ha detto a Mycroft che sarebbe stato meglio che fossi tornato io a prenderla. Non dovrebbe essere il periodo del suo ciclo e ho ragione di credere che sia in ottima salute, per cui mi domando quale sia il problema.
Non ci sono controlli della sicurezza, qui. Funziona tutto a codici, a schede e ogni persona che entra qui dentro ha un raggio di azione estremamente ben delimitato, senza contare che qualsiasi cosa accade viene scrupolosamente filmata. Non ho quindi difficoltà a muovermi e ad arrivare alla stanza di Molly. Spalanco la porta (con Molly non è il caso di fare cerimonie, se lo facessi si spaventerebbe), ma la donna che c’è qui dentro non è lei. Con vivo disappunto mi accorgo di avere sbagliato perché questa persona girata di spalle è bionda coi capelli corti e porta una gonna che lascia scoperte le cosce tornite. La donna si gira e vedo che porta gli occhiali e prima che possa dire qualsiasi cosa: “Sherlock!”
La voce è quella di Molly, ma il corpo no. Cioè, non ci sono più i suoi capelli lunghi e rossicci, i suoi vestiti assurdi (non che mi dispiaccia, lei ha dei gusti atroci in fatto di abiti) e ora degli occhiali con la montatura in titanio.
“M…Molly?”
Si avvicina a me, ma rimane a distanza di sicurezza. “Sei cambiata”.
Sbatte le palpebre per un attimo e si limita a un: “Già”. Dov’è finito quel suo chiacchiericcio incessante che mi faceva dolere i timpani? Dov’è andata quella Molly sempre così irragionevolmente sorridente e che probabilmente si sarebbe gettata tra le mie braccia? “Come stai, Sherlock?”
“Come credi che stia un morto che cammina?” E’ la mia risposta brusca. Non avrei voluto, ma questa volta sono veramente sorpreso.
“Scusami. Domanda idiota, la mia.”
“Vedo che ti hanno tagliato i capelli e te li hanno tinti in un colore troppo appariscente per i tuoi gusti; è successo da poco, visto che ancora hai il riflesso di sollevare la mano per giocherellare con le ciocche che non ci sono più. Anche il tuo modo di vestire è cambiato, direi anzi che te lo hanno cambiato visto che continui a tirare verso il basso la gonna e non ti ci senti per niente a tuo agio, senza contare quella scollatura che, nonostante abbia il merito di evidenziare il tuo decolleté finalmente in maniera decente, ritieni sia troppo profonda”.
“Basta!” ha messo le dita sugli occhi. “Basta, Sherlock. Ti prego, non farlo. Non dirmi quello che già so. Se non vuoi sentire come sto, vai via, ti prego.”
Ignoro la domanda implicita nelle sue parole, come faccio tutte le volte che mi avventuro in un campo minato, emotivamente parlando, così come ignoro volutamente che per la seconda volta mi si è rivoltata contro. “Ti ascolto.” La invito, anche se posso dedurre tutto quello che mi interessa dalla sua apparenza.
“Sto seguendo un addestramento. Hanno studiato una nuova identità per me, sto imparando tecniche di autodifesa e mi stanno insegnando a usare una pistola.” A queste parole, rabbrividisce. Mi viene quasi da ridere perché Molly Hooper è capacissima di fare un’incisione a Y su un  cadavere in elevato stato di decomposizione senza battere ciglio, ma si sente inorridita al solo pensiero di tenere in mano un’arma.
“Vedo infatti che la tua corporatura risulta più sviluppata rispetto a prima. Anthea dice che hai fatto un buon lavoro. Dovresti essere fiera di te stessa, infatti non capisco la tua espressione corrucciata.”
Sospira. “Immagino che tu abbia dato un’occhiata alla mia identità di copertura.”
“No, in realtà no.”
“Questi… capelli sono orribili, è arrivata quella donna e me li ha tagliati, mi ha dato dei vestiti nuovi, sul mio profilo c’è scritto che devo dire che mi piacciono le ‘Cinquanta sfumature di grigio’ invece di Jane Austen e che devo essere convincente.”
“E’ solo una copertura, Molly”, la ammonisco.
“No, non è solo una copertura, non è questione di recitare, Sherlock. Io… mi hanno fatto diventare un’altra persona! Io non sono così come mi vedi adesso.” Mormora, gli occhi bassi. Sicuramente sta cercando di nascondere le lacrime.
Sono in imbarazzo, vorrei andarmene, queste ostentazioni emotive non necessarie  mi mettono a disagio e mi annoiano.
“Come reagiresti tu, se tutto ad un tratto ti dovessero tagliare quei bei riccioloni scuri e te li tingessero di biondo, se ti dicessero che non puoi mettere più il tuo Belstaff e la tua sciarpa blu e ti facessero indossare delle camicie da boscaiolo invece delle tue button down che ti piacciono tanto, se ti portassero via la tua vestaglia preferita e se al posto dei cerotti alla nicotina ti dessero della tisana al tiglio? Se non potessi più suonare il tuo violino?”
Si è perfino dimenticata di balbettare ed è riuscita a non piangere. Ma ha reso l’idea.
Nella mia mente ricostruisco rapidamente l’immagine di un me stesso senza ricci, senza Belstaff, senza tutto quel che è parte di Sherlock Holmes.
Oh. Oh. Sì, ho capito. Temo di aver capito.
Non la invidio.
E non sono sicuro di voler sapere come faccia Molly a conoscere tutte queste cose di me.
Mi ha dedotto?
*
E alla fine, è arrivato Mycroft. Lo supponevo, era assolutamente prevedibile. D’altronde, il sangue che scorre nelle nostre vene è sfortunatamente lo stesso, quindi sapevo già con precisione matematica che non si sarebbe fatto sfuggire per niente al mondo l’opportunità di una scena madre.
E infatti…
Siamo qui riuniti in un’aula bunker qui ad Hailsham io, Molly, Mycroft, Anthea e lo stesso individuo che abbiamo incontrato a Buckingham Palace, quello che tiene un accendino a portata di mano anche se non fuma.
“Signori”, esordisce mio fratello, guardandosi attorno nella stanza come se non l’avesse mai vista e con quel suo sorriso fintamente rassicurante che anche una persona con un quoziente intellettivo analogo a quello di Anderson correrebbe via a nascondersi dopo averlo visto. O a farsi fare una contro fattura, se dovesse credere a questo genere di sciocchezze. “Vi ringrazio per la vostra disponibilità a partecipare a questo incontro”. Con la coda dell’occhio vedo che Molly inarca le sopracciglia al massimo dello stupore, è evidente che non è abituata a trattare col Governo, che usa l’eufemismo “disponibilità” per indicare “ordine”. “Vi illustrerò brevemente”. Oh, sarebbe la prima volta! “i dettagli del trasferimento di mio fratello, Sherlock Holmes, e della signorina Hooper.” Dottor Hooper, fratello, abbi almeno rispetto del suo titolo e della fatica che ha fatto per ottenerlo.
Nella stanza cala il silenzio e tutti si girano a guardarmi. Sfortunatamente devo aver parlato ad alta voce. “del Dottor Hooper, grazie per avermi corretto, Sherlock”.
“Oh, beh, ma non c’era bis…”
“Dottor Hooper, mi creda, c’era bisogno.” Mycroft si schiarisce la gola, indossa un paio di occhiali che non gli ho mai visto - sembrano proprio degli occhiali da presbite, l’età di mio fratello coincide con quella nella quale i sintomi della presbiopia cominciano a farsi sentire in modo importante – e prende dei fogli da una cartelletta che gli ha porto Anthea. “Mio fratello Sherlock è già a conoscenza della maggior parte dei dettagli che andrò a illustrarvi, quindi questa nostra piccola riunione è più che altro per informare la sign… il Dottor Hooper. Domani mattina, alle ore sette in punto, un elicottero del governo vi porterà all’Aeroporto militare di Merryfield e da lì prenderete un volo privato che vi porterà a Galway, nella parte Nord Ovest dell’Irlanda”
“Galway?” domanda Molly con una vocetta tra l’incerto e il perplesso.
“Sì, Dottor Hooper, le porgo le mie più sincere scuse, ma purtroppo non posso evitare di mandarla tra quegli ubriaconi.” Per una volta sembra veramente contrito.
La vocetta di Molly subisce una decisa variazione verso l’adirato. “Mia madre era irlandese ed era astemia!”
Altro sorrisetto very polite-governativo. “L’eccezione che conferma la regola, Dottor Hooper. Non mi risulta che lei abbia parenti da quelle parti.”
“No, sono tutti morti e comunque la famiglia di mia madre viene dal Munster.”
“Ne ero a conoscenza. Galway perché è la città dalla quale si è sviluppata la rete di Jim Moriarty ed è da lì che si è deciso di iniziare. Lei non dovrà temere nulla, Dottor Hooper, la rete di sicurezza che abbiamo predisposto attorno a lei è di prim’ordine.
“Insomma… allora, se c’è una rete di sicurezza di prim’ordine, potrei restare a Londra, vero?”
“No!” rispondiamo all’unisono io e il Governo e dopo un attimo ci guardiamo in faccia. Faccio un gesto col capo, lui annuisce e prosegue: “Dottor Hooper, se rimanesse qui a Londra avrebbe costantemente rapporti con le persone che conoscono Sherlock e le probabilità che in qualche modo il suo segreto venga rivelato sono reali o comunque lei si troverebbe costantemente in situazioni di imbarazzo e dovrebbe sopportare un notevole stress. Inoltre, è per noi più facile gestire la situazione se vi trovate nel medesimo luogo. E ancora, Dottor Hooper, Sherlock sarà vicino a lei in caso di necessità. E’ chiaro?”
Molly annuisce senza proferire parola. Ha le mani tra le gambe e gli occhi bassi. E’ triste, probabilmente sta rimpiangendo di avermi offerto il suo aiuto. E’ evidente che non sapeva a cosa stesse andando incontro e le conseguenze sono maggiori di quelle che prevedeva. Sentimenti! Preoccuparsi per gli altri non è un vantaggio.
“Molto bene, allora continuiamo. Ci rendiamo conto che sta facendo un grosso sacrificio nel lasciare la sua vita, il suo lavoro, i suoi amici, per cui abbiamo cercato di rendere il suo sacrificio meno gravoso offrendole una posizione alla Clinica Universitaria di Galway. Lei sarà il capo patologo. Non che di patologi ce ne siano molti, sarete in tre in tutto, e d’altronde Galway è una piccola città, ma il reparto è molto rinomato. Inoltre…” e qui Mycroft fece una pausa ad effetto, guardando il suo auditorio.
Alzo gli occhi al cielo, accavallo le gambe e incrocio le braccia sul petto e Molly si gira a fissarmi; è  un po’ irritata dal fatto che si sta discutendo del suo futuro  e frustrata perché non riesce a capire il mio comportamento.
Altro sorrisetto ufficiale di Mycroft, e la fine della frase: “Inoltre, potrà essere d’aiuto a mio fratello per controllare la situazione e grazie al suo lavoro potrà fornirgli delle… distrazioni che sicuramente lui gradirà. Riguardo alla sistemazione, riceverete tutte le informazioni durante il volo. Domande?”
E’ palese che Molly muoia dalla voglia di chiedere quando potremo tornare a casa, ma persino  una persona votata al sentimento quale lei è si morde la lingua, visto che ciò non dipende da Mycroft Holmes. Dipende solo ed esclusivamente da me e da quanto tempo ci metterò a disfare quel che James Moriarty ha messo in piedi.
*
Ecco il nuovo capitolo, spero vi piaccia.
Grazie di cuore a Elena per la sua recensione.
Baci dalla Nisi.




Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Identità e abitazione ***


Mi sembra quasi di essere Michelle Obama che va a prendere l’Air Force One. Siamo all’aeroporto militare di Merryfield e ovviamente questo posto è pieno di soldati armati di tutto punto. Davanti a tutti ci sono Mycroft e Sherlock; le sue mani sono sprofondate nelle tasche e sul viso l’espressione tra l’annoiato e l’irritato che ha sempre quando parla con suo fratello*, o meglio quando suo fratello gli fa la paternale come sembra stia facendo in questo momento; proprio dietro i due Holmes, lo stesso uomo che era presente alla riunione, ma non so chi sia e cosa sia qui a fare.  Io chiudo la fila e arranco accanto ad Anthea che riesce a camminare e contemporaneamente  a scrivere velocemente sul suo telefonino. Io cerco di mantenere una dignità, il che vuol dire non slogarmi una caviglia a causa di questi trampoli che qualcuno – sempre Anthea - si ostina a chiamare tacchi, a tirare verso il basso la mini gonna che indosso; ormai alla scollatura non ci faccio più caso. E’ una causa persa, e poi non è che ci sia tanto da far vedere. Però i tacchi… i tacchi! Non sono abituata a portare questo tipo di scarpe, al Bart’s metto calzature comode e confortevoli e anche quando non sono al lavoro la mia scelta non è tanto diversa. L’ultima volta che ho messo i tacchi è stato… mi viene in mente la musica di un violino, un silenzio imbarazzato e un bacio interrotto dal gemito di una donna al culmine del piacere usato come suoneria del telefonino. Meglio non pensarci. Meglio non pensare a niente, anzi. Ci sono troppe cose che ho voglia di dimenticare, almeno per il momento e devo essere concentrata.

Sospiro e Anthea alza gli occhi da telefono per un nano secondo per lanciarmi uno sguardo in tralice che mi sembra di pena; è l’assistente personale di Mycroft e suppongo sappia meglio di chiunque altro cosa voglia dire avere a che fare con gli Holmes. Provo rabbia e ho paura, io non ho mai aspirato a una vita avventurosa. Sto lasciando casa mia per andare in un posto che ho visitato solamente a San Patrizio, quando ero troppo ubriaca per accorgermi dove fossi veramente. Il fatto di essere con Sherlock non mi è minimamente di conforto. So benissimo che non è una persona facile, è egocentrico, arrogante, maleducato e non ha peli sulla lingua. Dice che è sincero ma la maggior parte delle volte che apre bocca è solamente offensivo. Lo so, lo so. Lo amo, ma questo non mi impedisce di vedere tutti i suoi difetti e sono davvero troppi, soprattutto se concentrati in una sola persona.

Essendo un aeroporto militare, non dobbiamo fare il check in e il controllo documenti.
Anthea non si imbarca con noi. Mi volto per salutarla e faccio per baciarla sulla guancia. Lei fa un passo indietro e scuote la testa, lo stesso sorriso garbato e vuoto che ha Mycroft. “Lei ora è il  dottor Tracey Summers, non se lo scordi mai”.
Mi porge la mano e gliela stringo. Quando ci lasciamo, nel palmo trovo un biglietto microscopico con scritto quello che sembra  essere un numero di telefono. Anthea sorride ancora. “In caso di bisogno, ma solo messaggi” e china la testa in segno di congedo che ha tutta l’aria di essere definitivo.

Salgo sull’aereo, resistendo alla tentazione di voltarmi per farle un cenno di saluto. Anthea ha ragione: Molly Hooper o quello che ne è rimasto non è la donna che sta salendo sull’aereo del governo inglese. Sono l’ultima ad entrare e dopo pochi secondi il portellone si chiude dietro di me con un tonfo sordo.
*
L’interno dell’abitacolo è estremamente confortevole. Mi immagino quali personalità si siano sedute su questa stessa poltrona. E’ comodissima e c’è un sacco di posto per stendere le gambe. Le poche volte che ho volato ho sempre preso voli low cost e persone poco più alte di me si trovavano strizzate su sedili scomodi e con le ginocchia in bocca. A lato del bracciolo c’è un tavolino, davanti a me uno schermo ultrapiatto per la proiezione del film.
“Dottor Summers?” una hostess che sembra uscita da un film di Hollywood mi si avvicina con un sorriso educato e io mi sento un groppo alla gola grosso così nel sentirmi chiamare col mio nuovo nome. “Desidera un rinfresco?”
“Un t…” Mi interrompo. Molly avrebbe preso il tè, Tracey invece no. “Un gin and tonic, per favore”.
“Molto bene. Arriva subito. Se intanto vuole prendere visione dei film disponibili?”
“Certo, grazie” e prendo la brochure in cartoncino che mi porge.
C’è “L’amore a due facce”, quel film tanto carino con Barbra Streisand. No, non posso. Compongo quindi il codice che fa scorrere i titoli di testa di “Thor”. Sospiro e mi rendo conto solo ora che Mycroft mi sta fissando e mi rivolge un impercettibile gesto di approvazione. Sherlock gli siede accanto e non si è nemmeno voltato.

La hostess ritorna col mio gin tonic e ricaccio indietro le lacrime di smarrimento che ho voglia di versare, ma che devo imparare a trattenere, così come la mia emotività. Non mi piace essere tra estranei e l’unica persona che conosco qui è Sherlock e non è che sia una gran consolazione, non è certo il tipo che nei momenti di autocommiserazione ti porge la scatola dei kleenex e ti prepara qualcosa di forte da bere. Quel suo fratello governativo, poi… mi fa venire i brividi. Credo che sia il tipo che mentre ti sbrana ti offre una tazza di tè, sorride educatamente e parla del tempo.

La vicenda del film si dipana e devo ammettere che non è male. Lui è un gran bel ragazzo, ma i biondi bellocci non mi sono mai piaciuti particolarmente. Ho sempre avuto un debole per i personaggi scuri di capelli, oscuri e tormentati e non capisco se sto pensando a Jim – Moriarty, intendo o a Sherlock.
Per quanto mi riguarda, Sherlock è sicuramente più pericoloso di Moriarty. Tutto sommato anche se era un pazzo criminale, Jim è sempre stato molto gentile con me. Guardava Glee assieme a me e mi portava i marshmallows.

“Dottor Summers?” Alzo gli occhi e tolgo gli auricolari. Mycroft è in piedi di fianco a me. La spia luminosa che indica che le cinture di sicurezza devono essere tenute allacciate si è appena spenta e  il fratello di Sherlock non ha evidentemente perso tempo. “Mi dispiace distrarla dalla visione del suo film, ma vorrei approfittare di questo breve volo per passarle delle informazioni che la riguardano. Posso sedermi?”
“Prego.” Stendo la mano verso il sedile vuoto accanto al mio e Mycroft prende posto.
“Solo qualche informazione logistica. Lei e Sherlock abiterete in due case diverse, ma contigue che si trovano sulla strada che porta a Salthill, il sobborgo sulla costa. Ciò significa che le cantine delle due abitazioni sono comunicanti, quindi mio fratello potrà accedere alla sua casa in tutta sicurezza e senza essere visto . Ufficialmente, Sherlock si è già trasferito nella nuova abitazione tre settimane fa. In questo momento un camion dei traslochi sta consegnando i suoi nuovi effetti personali. Ovviamente, arriverete ai vostri domicili con mezzi diversi e in orari differenti. La dispensa è stata rifornita in modo di non richiedere un approvvigionamento immediato e l’abitazione dispone di tutti i comfort che renderanno il suo trasferimento per quanto possibile più agevole, anche se temo che lo stile di arredamento e le suppellettili non saranno identiche a quelle della sua residenza precedente. Prenderà servizio alla clinica universitaria domani pomeriggio alle diciassette. Avrà due sottoposte. Ha già ricevuto istruzioni sulla sua nuova identità e sulla sua storia famigliare, ma cerchi di limitare il più possibile la divulgazione di  sue informazioni personali.  Galway è una piccola città, si troverà a suo agio. Cerchi di tenere un basso profilo, Dottore, e vedrà che tutto andrà bene.”
Annuisco nemmeno troppo convinta. La mia vita si è dipanata per anni in una sequenza sempre uguale. Nessuno scossone, nessun cambiamento degno di nota se si eccettua la morte di mio padre, il mio lavoro al Bart’s e poco altro e non mi sono ancora abituata a questo stravolgimento della mia vita nel giro di pochissimi giorni.
“Bene, se non ci sono domande, la lascio al suo film.” Mycroft si alza, mi rivolge un breve cenno del capo e poi se ne va.
Domande? Avere delle domande da fare vorrebbe dire aver le idee un minimo chiare. Forse la cosa più saggia è affrontare le cose una alla volta.
*
Questa è una delle poche volte in cui potrei arrivare a dire che quasi apprezzo Mycroft.
La prima cosa che ho visto entrando nella mia nuova abitazione è stato il mio violino posato su un mobile accanto a un Belstaff appeso nell’ingresso, uguale e identico a quello che ho sempre portato e che si è irrimediabilmente rovinato nella caduta: tra il sangue, lo sporco e gli strappi sarebbe stato inutilizzabile e comunque Molly me l’ha letteralmente tagliato via di dosso quando si è occupata della mia finta-autopsia e del mio cadavere ancora in vita.

Quello che ho indossato in questi giorni non era un Belstaff, ma lei non se ne è nemmeno accorta. Non credo che distinguerebbe un Belstaff da un Burberry.
Molly mi ha visto nudo. Credo che da tempo desiderasse prendere visione del mio corpo senza l’impedimento dei  vestiti, ma ritengo che avrebbe preferito che la cosa si fosse verificata in altre condizioni.
Sogghigno beffardo. Sarà sicuramente  arrossita quando mi ha lavato. Non faccio a tempo a terminare questo pensiero che quel pizzico di umanità che John mi ha instillato dentro a furia di darmi del coglione, si fa sentire. Molly è stata fondamentale alla riuscita del mio piano e il suo gusto orripilante in fatto di abiti, il suo scarso decolleté e la sua penosa inadeguatezza alla conversazione ora sono solo secondi al suo coraggio e alla sua competenza, che comunque già avevo rilevato da tempo. Ecco, sì. Il coraggio. Non pensavo che Molly Hooper avesse un minimo di spina dorsale. Sempre qualcosa, mi sfugge sempre qualcosa.

La casa è più che accettabile, anzi direi più comoda di quella di Baker Street: di costruzione ben più recente e quindi moderna, il riscaldamento è in ottime condizioni, c’è il WiFi, un PC di ultima generazione, una TV a schermo ultrapiatto, una stanza attrezzata come un perfetto laboratorio e non vi sono le tappezzerie pesanti che ricoprivano i muri del mio vecchio appartamento, muri che ho pensato personalmente a vivacizzare a furia di revolverate. Qui le pareti sono dipinte in un semplice e gradevole color crema e comunque non posso permettermi di utilizzare una pistola, visto che in questo posto ci sono più salmoni che abitanti ed è di pubblico dominio che i salmoni non si mettano a sparare dietro agli altri pesci, dal che si deduce che a Galway è piuttosto raro che si verifichino sparatorie. Attirerei inutilmente l’attenzione.

Un punto decisamente a sfavore di questa nuova sistemazione è l’aria. E’ pulita e resa frizzante dall’oceano. Io sono abituato allo smog di Londra e dei livelli così bassi di CO2rischiano di compromettere l’equilibrio dei miei polmoni. Mi rendo conto in questo momento che posso però controbilanciare questo eccesso di salubrità fumando tonnellate di sigarette, la qual cosa mi mette in una buona predisposizione d’animo, infatti il mio umore, da solitamente pestifero, ora è virato al detestabile.

Ottimo. Immagino che la situazione richieda una visita di aggiornamento al mio palazzo mentale che, a quanto pare, si è arricchito di una dependance irlandese. Mi accomodo sulla poltrona e unisco i polpastrelli nella mia solita posizione di meditazione. Non è che sia tanto utile alla riflessione, ma mi sono reso conto che chiunque la veda pensa immediatamente a quanto io sia cool.

Devo riflettere a come considerare l’abitazione di Molly, se una dependance della dependance o una sezione staccata della stessa casa. E’ fondamentale che io conosca perfettamente i luoghi nei quali mi troverò a operare, quindi la giornata di oggi sarà dedicata a prendere confidenza con la mia nuova sistemazione e da domani mi dedicherò allo smantellamento della rete organizzata da James Moriarty, anche perché in questo posto non c’è molto altro da fare se non dedicarsi alla pesca dei salmoni di cui sopra – noioso,  all’alcool – peggio che noioso, rallenta i riflessi ,  oppure dedicarsi al turismo, perdita di tempo.

Quando le stanze del mio palazzo mentale sono state tutte rimaneggiate con la nuova organizzazione, mi accorgo che è ormai sera. Solitamente quando emergevo dalle mie lunghe riflessioni c’era una tazza di tè che mi aspettava sul tavolino. Questa volta non c’è niente. Sento freddo e vorrei tanto che John fosse qui a insultarmi e a dirmi che sono un maledetto idiota.
Nell’altra casa c’è solo uno scricciolo di patologa iperemotiva, anche se è la mia patologa e l’unica veramente competente; non è John, ma d’altronde i geni come me hanno bisogno di un pubblico. Ho deciso, andrò da lei ad approfittarmi della sua adorazione incondizionata.
*

* Licenza poetica, mi risulta che Molly abbia visto i due fratelli Holmes interagire solo in una occasione. Correggetemi se mi sbaglio. Buongiorno e buon sabato.
Ecco il nuovo capitolo.
Grazie mille a Yllel per aver recensito e a

Ekisho93
Leoale
Blue_moon
IrregolareDiBakerStreet (bel nick, a proposito)
Lady of the sea
SuperPuff
Violet79

che hanno inserito questa storia tra le preferite, le seguite, le ricordate.
Grazie assaie (Nisi si inchina e manda baci)

See you soon.











Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Letture ***



“Hai idea di quello che significhi per me?” mi dice in un sospiro.
“No, e non lo voglio sapere!” ansimo inorridita.
Lui sorride, con la bocca sul mio collo, le dita che si stringono intorno al mio volto, tenendomi forte per un momento.
“Sì che lo sai. Non ti lascerò andare via.”
“Preferirei di no e, se non le dispiace, io invece andrei”. Io gemo dall’orrore, mi divincolo da questo invasato e scappo, mentre lui inizia ad aumentare la velocità con la quale mi rincorre.
«Tu sei mia»
«Sì, tua un bel fico secco» dico senza fiato e cerco di mettere più metri possibile tra noi due.
«Mi prendo cura di ciò che è mio» sibila e nel frattempo mi ha raggiunto e cerca di mordermi l’orecchio.
Io grido. “Lasciami andare, schifoso pervertito!”
“Molly?”
Mi sveglio di soprassalto e mi ritrovo davanti Sherlock Holmes che mi fissa perplesso. Se non ho capito male, l’ho chiamato schifoso pervertito. Quando i miei occhi si sono riabituati alla luce fioca dell’abat jour, lo guardo: ha indosso una vestaglia di seta blu che fa meravigliosamente pendant  coi suoi occhi, che per fortuna non sono grigi.
“Oh, Sherlock, sei tu, m…meno male… un incubo… è stato terribile! Perché sei qui? Stai male? Senti dolore? Sei ferito?”
“No, come potrei venire ferito in questa casa di massima sicurezza? Riguardo al tuo incubo, più che altro mi sembrava un sogno dalla connotazione erotica piuttosto chiara.”
Nella penombra arrossisco furiosamente. “Ch…ristian Grey non è il protagonista dei miei sogni erotici”. Sherlock si avvicina di un passo, le mani unite dietro la schiena, si china leggermente verso di me e mi studia per qualche secondo come se fossi un coleottero di una specie appena scoperta. “Sì, è vero. Non presenti i sintomi caratteristici dell’eccitazione.”
Sintomi? Come se l’eccitazione fosse una malattia! Siccome mi sento a disagio con me sdraiata e lui che torreggia sopra di me, scosto le coperte ed esco dal letto.
Sento addosso lo sguardo perplesso di Sherlock  e mi ricordo tutt’a un tratto che se Molly Hooper per pigiama usava le vecchie magliette da rugby di suo padre, Tracey Summers porta i baby doll. Blu notte, nella fattispecie.
Oh, accidenti! Mi rifiondo sotto le coperte e me le tiro fino a sotto il mento e ripeto: “A…avevi bisogno di qualcosa?”.
In tutto questo lasso di tempo Sherlock è rimasto a fissarmi pensoso e io maledico la mia boccaccia tartagliante e le parole che mi sono involontariamente uscite nonostante tutto.
Il mio compagno di esilio esita, sembra riflettere un attimo e risponde: “Volevo un caffè. Nero, due zollette.”
Controllo l’orario sulla sveglia sul mio comodino e rimango basita: “Sh…Sherlock, sono le tre e quarantacinque del mattino e tu sei venuto in casa mia a quest’ora a chiedermi di prepararti un caffè?”. Appunto, il caffè? Pensavo fosse venuto in camera mia solo per farsi adorare dall’unica persona disponibile…
“Lo hai sempre fatto. E in questo momento sei sveglia”, ribatte col tono di chi sta puntualizzando l’ovvio e che cerca di farlo capire a un mentecatto.
“Certo, ma non a quest’ora e non sei mai entrato in camera mia, invadendo la mia privacy.”
“Dovresti essermene grata, invece: ho interrotto un sogno erotico con un partner che ti è evidentemente sgradito, ma prometto di non svegliarti quando il partner del tuo sogno sarò io”, il ghigno satanico e la soddisfazione di essere riuscito ancora una vota nelle sue brillanti deduzioni mi fa desiderare di sprofondare nelle viscere della terra mentre la mia faccia potrebbe riscaldare tutta Galway.
“Ma… cos… cosa stai dicendo?”
“Oh, andiamo, Molly, la tua infatuazione per me è di pubblico dominio. Essendo tu una donna in salute e nel pieno della tua maturità sessuale, è presumibile che tu provi degli impulsi e delle necessità. Da qui si può ragionevolmente ipotizzare che tu avverta delle pulsioni erotiche nei miei confronti che di tanto in tanto si esplicitano in attività oniriche di natura passionale, col sottoscritto in veste – o piuttosto senza veste -  di tuo partner.”
Non che quel che dice sia falso, ma volte la realtà è peggiore di qualsiasi incubo e a questo punto avrei voluto essere io quella che è saltata giù dal tetto del Bart’s, con l’unica differenza che il mio suicidio sarebbe stato definitivo. Tutto, tranne questo. Sherlock Holmes che fa la deduzione dei miei sogni… particolari è qualcosa che non si può sopportare.
Cerchiamo di trarre qualche insegnamento dal training che mi hanno fatto ad Hailsham. Sangue freddo. Autocontrollo. Padronanza di se stessi nelle situazioni di pericolo. Respiro profondo, training autogeno, meditazione.
E invece:
Vergogna, istinti omicidi repressi, frustrazione.
Autocommiserazione al parossismo.
“S… senti un attimo. Ragioniamo. Tu sei venuto in camera mia non invitato, a un orario indecente,  per chiedermi una tazza di caffè. Ho avuto un incubo orribile, domani inizio il mio nuovo lavoro e ho… ho bi… bisogno di calma e di co…co…concentrazione, io i cadaveri irlandesi non li conosco. Quindi, per favore, tornatene a casa tua e fra qualche ora ti farò il caffè che desideri.”
“Ma…”
“Ti prego, vai a casa tua. Ho… ho ancora bisogno di dormire, ma soprattutto di star tranquilla.”
Sherlock ha sempre adorato le uscite drammatiche, con un gran svolazzamento di stoffa dietro di lui. E’ per questa ragione che indossa il suo Belstaff anche il quindici di luglio. In questo caso, porta una vestaglia di seta che in quanto a svolazzi fa ancora meglio al suo scopo.
Rimango sola e prendo il libro sul comodino. Dopo aver studiato la copertina, lo tiro contro l’armadio. “Impiccati, Christian Grey, tu e i tuoi schizzi da pazzo furioso!”
Quanto mi manca Jane Austen e tutta la serie dei suoi protagonisti maschili che risultano affascinanti anche senza delle corde in mano!
*
Molly si trova in condizioni di stress da adattamento ambientale.
Non mi ha voluto fare il caffè.
E’ un segno inequivocabile delle sue difficoltà ad accettare una nuova identità e un nuovo carattere. Anche la sua recente attività onirica è un segno parziale di queste sue difficoltà. Dico parziale perché provare orrore a di accompagnarsi a uno psicolabile come pare essere questo Christian Grey del quale sembrano parlare tutti,  è un chiaro indice di un cervello funzionante.
Una volta ho visto John che leggeva quel libro, prendeva appunti  e ridacchiava; pare che questo uomo avesse un rapporto estremo  con le donne a causa di non ben precisati problemi giovanili, credo legati alla famiglia di origine. Pessima scusa, anche io ho avuto la mia parte di tragedie famigliari – mio fratello è Mycroft Holmes  – e non per questo uso esseri di sesso femminile tenendoli alla mia mercé. Beh, forse Molly è l’unica eccezione, ma la mia mercé è molto diversa da quella messa in atto da quell’individuo.
Il divano nel soggiorno di Molly è molto comodo. Non ha senso rientrare in casa per poi tornare qui fra poche ore per il mio caffè e in cantina la temperatura è poco gradevole, soprattutto per chi indossa solo pigiama e vestaglia di seta. I boxer no, sono uno strumento di costrizione al quale mi sottopongo solamente quando porto i calzoni.
Molly è di solito molto mattiniera e l’orario in cui si è svegliata farà sì che non riprenda sonno molto facilmente, ma comunque non si alzerà dal letto. Anche se non sta dormendo, ho ragione di credere che si stia crogiolando nell’autocommiserazione, lei è fatta così. Riesco a sentire i suoi pensieri anche da qui. Fanno rumore, li avverto chiaramente.
Non ho modo di sapere di preciso a che ora smetterà di rigirarsi sotto le coperte, ma non credo  manchi poi molto.
E infatti… dopo pochi minuti sento uno scalpiccio di ciabatte – Molly Hooper evidentemente trascina i piedi – le luci si accendono e Molly fa il suo ingresso nel soggiorno, avvolta in un plaid scozzese.
“Buongiorno, Molly Hooper.”
Trasale, poi trattiene il fiato. Ha i capelli scarmigliati, gli occhi ridotti a due fessure -  immagino non si sia ancora abituata alla luce -  e si stringe il plaid ancora più addosso. “Sherlock?”. Arrossisce profusamente, forse a causa della scena in camera sua. Non ne capisco la ragione, è da mesi che sono al corrente della sua fascinazione nei miei confronti, ormai avrebbe dovuto aver superato la soglia dell’imbarazzo.
“Sh…sherlock?” ripete.
“E’ questo il mio nome.  Brillante deduzione, Molly Hooper.”
“Cos… cosa ci fai qui?”
“Aspetto il caffè che mi hai promesso.”
Sbuffa e cantilena, lamentosa. “Sono le cinque e un quarto.”
“Grazie, sì. Ne ero a conoscenza. Molly, il colore dei tuoi capelli è…”
Allunga il braccio verso di me  - l’altro è sempre impegnato a tenere il plaid dove sta -  e scuote la testa. “Ho capito, ti faccio il caffè.”
Entra in cucina e io la seguo. Mi accomodo sulla sedia e attendo, mentre la guardo drappeggiarsi addosso il plaid alla bell’e meglio e fare un nodo alle cocche per impedire al tessuto di cadere. Con pochi, brevi gesti che rivelano che quell’operazione è stata compiuta migliaia di volte, Molly mette su il bollitore. Poi comincia a rovistare nei pensili per trovare la polvere di caffè e le zollette. Prevedibilmente, i cucchiaini si trovano nel cassetto. Poi apre il frigo e comincia a tirare fuori bacon, salsicce, pomodori, funghi, uova. Prende anche del black pudding, ma lo rimette dove stava. Nello stipetto accanto al lavandino trova le padelle. Accende il fuoco e comincia a preparare una full English Breakfast.
Senza che le abbia chiesto niente, biascica. “Ho fame, il tuo caffè arriva fra un attimo” e senza aspettare risposta, lascia la cucina e sparisce in direzione della camera. Ritorna quasi subito, in mano tiene una rivista medica.
La guardo in tralice. “Non credi che una vestaglia sarebbe più pratica di quel plaid à la William Wallace? Siamo in Irlanda, non in Scozia.”
Arrossisce penosamente e il balbettio si fa risentire: “Quelle nell… nell’armadio non scaldano pe…per niente e non sono de…decenti. A…Anthea ha delle idee strane sulle vestaglie.”
“Capisco”, posso solo rispondere laconicamente. Il mondo delle vestaglie come le intende Anthea, mi è al momento sconosciuto.
Aspetto che il mio caffè arrivi mentre con la coda dell’occhio guardo Molly che prepara una colazione sostanziosa. Noioso. Butto uno sguardo alla rivista che ha lasciato appoggiata sul tavolo. “The Journal Of Family Studies?” Molly si gira verso di me, allarga le braccia e fa spallucce. In mano tiene la paletta che usa per girare le uova. “E’ la cosa migliore che ho trovato in libreria.”
“Spero la scelta delle letture non sia opera di Mycroft. Mio fratello ha troppo spesso un senso dell’umorismo incomprensibile e quantomeno discutibile.”
Molly ridacchia, non dice niente e io proseguo nell’esposizione del mio pensiero. “La famiglia, una inutile pastoia che ci portiamo dietro da tempo immemore…” Molly a questo punto appoggia rumorosamente davanti a me una tazza enorme con un trifoglio verde in rilievo - mio Dio, quanto si sarà divertito Mycroft a far arredare queste due case -  un piatto pieno, una gratella con del pane tostato mentre mi guarda storto. “La famiglia non è una inutile pastoia”, mormora, arrossendo. “Ho… ho avuto un padre fantastico che mi ha amato tantissimo e che mi ha dato tutto quel che mi poteva dare.”
Sbuffo, annoiato. Molly si lascia cadere con molta poca grazia sulla sedia e il paragone con l’eleganza di Irene Adler è quasi automatico. “Tutti vogliono avere una famiglia.” La  mia risata beffarda è interrotta dallo sguardo serio di Molly. Lo stesso sguardo che mi ha rivolto nel laboratorio del San Bart’s quando mi ha detto che lei mi vedeva. Uno sguardo che mi fa rimanere immobile e zitto. “Anche tu, Sherlock, ami e proteggi la tua famiglia…”
La mia risata beffarda risuona ancora tra le mura. “Io proteggere Mycroft? Semmai è il contrario. Anzi, è il mondo che deve essere protetto da uno come lui.”
Molly si torce le mani in grembo. E’ evidente che sta cercando le parole per controbattere, ma dubito che ci riesca. Ha gli occhi bassi e non solleva lo sguardo quando riprende a parlare. “Non intendo una famiglia, uhm, biologica. Intendo quella che ti sei scelto.”
“Non mi sono scelto proprio un bel niente, Molly.”
Sorride, un po’ triste, un po’ malinconica. “Invece sì. Per strana che possa essere, la tua è una famiglia. Pensaci e vedrai che non… non mi sbaglio, nella tua ci sono tutte le figure cardine che la rappresentano: la signora Hudson potrebbe essere tua mamma, John tuo fratello e Lestrade tuo cugino. Per loro sei saltato dal tetto del Bart’s. Non l’avresti mai fatto se non fossero stati importanti per te e Moriarty non te lo avrebbe mai chiesto.”
Il ragionamento di Molly è troppo folle per non essere verosimile. Come io stesso ho affermato in parecchie occasioni, tolto l’impossibile, quel che resta è la verità, per quanto improbabile. Ma il pensiero di queste tre persone che ho lasciato indietro, soprattutto John, è per me un nervo scoperto, una dimostrazione palese che non sono ancora riuscito a recidere questi fili chiamati sentimenti. E’ però indubbio che le persone che Molly ha citato siano quelle a me più vicine, qualsiasi cosa ciò possa voler significare.
 Odio  i miei errori, odio essere colto in fallo e quando mi sfugge qualcosa,  e odio sbagliare le mie deduzioni, quindi non ho nessuna intenzione di darle ragione. “Teoria interessante, Dottor Hooper. Parliamo di te, a questo punto: lo sai che mi fido di te e che ti ho affidato la mia vita, però in questo adorabile quadretto di archetipi famigliari, tu dove ti collocheresti? Troppo vecchia per essere una nipote o una figlia, troppo giovane per essere una zia o una nonna e non abbiamo una relazione,viene quindi scartata l’ipotesi di moglie, amante o fidanzata o altri coinvolgimenti che prevedano un rapporto più o meno stretto. Abbiamo esaurito le figure famigliari di sesso femminile, ergo, la tua teoria non è benché minimamente plausibile. “
“Non è vero…” protesta debolmente. Inarco un sopracciglio. Molly Hooper che mi contraddice, anche se con la faccia nascosta per metà nel mug del caffè che sta bevendo?
Incrocio le braccia sul petto, mi appoggio meglio allo schienale della sedia e mi pregusto la vittoria di questo piccolo scontro verbale. Dirà qualcosa che io controbatterò prima ancora che lei abbia finito di parlare. Noioso, fin troppo facile. “ Cosa saresti, allora, sentiamo!”
Molly solleva il viso, arrossisce e balbetta: “Ehm, una badante?”
*



Lo so, lo so, in questo capitolo non succede un bel niente. Ma volevo cominciare a tratteggiare qualcosa della più o meno circa quasi convivenza di Sherlock e Molly, che non sta prendendo bene i cambiamenti della sua vita e lui è sempre sprofondato nel suo ego come al solito. Come avrete certamente capito, la parte iniziale che costituisce l’incubo di Molly è una liberissima interpretazione delle cinquecento sfumature di verde ramarro. Non ho letto il libro, quindi devo ringraziare il gruppo FB dedicato a quest’opera  dalla quale ho sadicamente attinto.
 
Un’altra piccola cosa: non saranno tutti capitoli ridicoli, le mie storie sono un orribile mischione di situazioni grottesche o assurde e drammoni spudorati. Sappiatelo fin da ora, qualche capitolo depresso vi toccherà.
Vi amo tutti, soprattutto se recensite. Amo molto anche la voce di Benedict Cumberbatch, ma non penso che lui lo sappia. That’s too bad!
Baci a profusione dalla Nisi (se non vi fanno schifo, eh!).

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Cose che contengono altre cose ***


Attenzione, in certe parti vi è un linguaggio un po' esplicito. Niente di trascendentale, però.



Francamente non pensavo.
Non credevo proprio che dopo la mia uscita della badante, Sherlock mettesse quel muso lungo; sembrava un bambino offeso a morte, l’espressione era la stessa. Si è preso tutto il mio bacon, metà delle uova, una buona parte dei funghi, i toast e mi ha piantato lì il pomodoro - suppongo solamente perché non gli piace - e li ha divorati con un’aria di sussiego che ho visto solo assumere al principe Filippo… o forse a qualcun altro… Ah, certo! A suo fratello Mycroft.
Dopo che ha spazzolato tutto il cibo, infilzandolo come se volesse punirlo di averlo spinto giù dal tetto del Bart’s – ecco, no, forse questo è un po’ fuori luogo - Sherlock se n’è andato senza dire una parola, il solito svolazzo di seta dietro di lui ancora più accentuato. Mi sono sentita terribilmente in colpa e stavo quasi per corrergli dietro e chiedergli scusa. Ma non sarebbe comunque servito e non è stato niente in confronto a quello che mi ha detto/fatto passare lui in parecchie occasioni. Però è chiaro che quel che gli ho detto non gli è piaciuto.
Sospiro, perché piaciuto o  non piaciuto, mi ha piantato qui tutti i piatti da lavare e una marea di briciole che sono cadute dappertutto tranne che nel piatto mentre lui cercava di suicidare un pezzo di toast. Dio mio, anche questa era meglio non pensarla nemmeno.
Spero davvero che non sia così tutte le mattine di tutti i giorni, perché altrimenti vivere con Sherlock sarà davvero difficile. Non dovrei parlare così dell’uomo che amo, ma comincio a capire ancora meglio perché John Watson era considerato da tutta Nuova Scotland Yard e da almeno mezzo Bart’s l’incarnazione di un santo.
Io… lo devo ammettere, non sono abituata a condividere i miei spazi. C’è una ragione molto precisa per la quale lavoro coi morti. Sono un po’ asociale. Va beh, sono parecchio asociale, o meglio, la gente mi mette in imbarazzo e non so mai cosa dire, col risultato che faccio delle gaffes clamorose. Intendiamoci, le persone mi piacciono molto, ma ho capito che mi considerano strana, non so se per il mio lavoro, i miei vestiti oppure semplicemente perché io sono io. Fatto sta che sono abituata a stare da sola. Mi piace anche e nonostante a volte soffra di solitudine, non è affatto male. E convivere non in quel senso con un uomo difficile come Sherlock mi spaventa un po’. Anzi, ho paura delle sue uscite, delle sue deduzioni brutalmente sincere, della sua graffiante onestà che riesce a farmi sempre tanto male. E’ rimasto così poco di Molly Hooper, non vorrei che lui facesse piazza pulita della me stessa che è sopravvissuta ad Hailsham e se la mangiasse in un solo boccone come ha fatto col mio bacon che io ho cucinato.
Tutte queste elucubrazioni depresse mentre lavo i piatti e li asciugo, stavolta senza il plaid, che ho messo da parte quando Sherlock se ne è andato.
E’ presto e io non devo presentarmi in ospedale che alle cinque di questa sera, quindi ho tutto il tempo di fare le cose con calma.
In realtà non ho ancora deciso come vestirmi e non ho dato nemmeno un’occhiata al guardaroba che mi ha comprato Anthea, visto che babydoll e vestaglia erano appoggiati sul letto. E’ da ieri che rimando questo momento, credo che prima o poi dovrò prendere il coraggio a due mani e accettare che mi verrà un infarto, tanto adesso è un momento buono come un altro e non rischio di trovarmi Sherlock che mi fissa con aria di compatimento e un sopracciglio alzato mentre mi rifila una delle sue cattiverie.
Mi riprendo il plaid che in questo momento fa da coperta di Linus, ritorno in camera e mi piazzo davanti a quell’armadio – una cabina armadio, per essere precisi - monumentale. “Coraggio, Molly. Ce la puoi fare. Sei una combattente!”
Crediamoci tutti, come no? Faccio tre respiri profondi e apro con foga l’anta, che mi si spalma contro il naso, facendomi un male dell’accidente mentre davanti a me compare l’arcobaleno.
Abiti di tutti i tipi, di ottima qualità e fattura, probabilmente firmati e io sono qui a rimpiangere il mio maglione ricamato con le ciliegie. Sospiro e comincio a frugare alla disperata ricerca di qualcosa che non mi vergogni a indossare. Afferro un tailleur che sembra abbastanza sobrio, ma mi accorgo che ha  uno spacco sul davanti che definire “vaginale” parrebbe l’unico aggettivo veramente adatto. Che strano, sulla gruccia imbottita è appuntato un cartellino con un numero. Chissà cosa vorrà mai dire… Frugo ancora nell’armadio e mi accorgo che tutti gli abiti sono contrassegnati da un cartellino con un numero. Appoggiato alla cassettiera c’è un plico. Lo apro e scopro che i numeri fanno riferimento all’abito e alle occasioni per indossarlo. Mi accingo a leggere:
 
1.  Cena di lavoro
2.  Tempo libero
3. Aperitivo
4.  Cocktail
 
E via discorrendo. Il completo vaginale ha il numero

42. Piaciuto lo scherzetto? J

Maledetta Anthea! Si mette pure a prendermi in giro.
Anche la biancheria è contrassegnata da un numero

1. Lavoro
2. Palestra
3. Da indossare sotto il vestito senza spalline

E man mano che la lista continua, si fa sempre più imbarazzante.

12. Per andare a lezione da Irene Adler

Irene Adler? Mi sembra di avere già sentito questo nome. Davanti a me ho un completo di pelle nera estremamente succinto corredato da un frustino. Ah, mi ricordo, era la donna con la faccia come il… o mio Dio, no, non volevo imprecare! Intendevo che Sherlock l’ha identificata non grazie al volto. Roba da perderci la testa. Cioè… va bene,  lasciamo perdere, meglio continuare. Quindi:

13. Triangolo
14. Trombamico*
15. Pratica tantrica
16. Sesso selvaggio
17. Sesso selvaggio con Sherlock Holmes

Con mani tremanti apro il cassetto alla ricerca del completo numero diciassette. Rosso ciliegia.

Ed è un push up.

*
Sono uscito da quella cucina in uno stato esattamente contrario all’auspicabile: pancia piena e testa vuota. Molly Hooper mi ha spiazzato, con quell’uscita. Sono perfettamente abituato a sentirmi apostrofare con parole meno che gentili, ma non mi piace che lei si autodefinisca la mia badante. E’ offensivo! Come se io non fossi perfettamente in grado di prendermi cura di me stesso, che è quello che ho fatto fino a qualche giorno fa. La scelta di condividere l’appartamento con John è stata la riprova di quanto io abbia ragione e sia molto acuto nel selezionare la persona che condividerà con me gli spazi e che provvederà ai miei bisogni.
Ma Molly Hooper! La piccola patologa del Bart’s che ho usato a mio piacimento per anni, ora mi si è rivoltata contro e niente faceva presagire una risposta così fulminante da un essere balbettante quale lei è. Che sia stato quel training ad Hailsham? La presenza di Anthea, così vicina a mio fratello Mycroft? Tra parentesi, anche se non lo conoscessi come lo conosco, io non mi fiderei di uno il quale nome di battesimo è così simile a un sistema operativo che notoriamente non ha capacità deduttive di alcun genere.
Devo prendere contatto col capo della rete dei senzatetto qui a Galway. E’ il cugino di Victor, mi ha dato lui il nome. Lo conoscono col nom de plume di Stinging Ben, anche se in estate pare che il suo nome cambi in Stinkin’ Ben**. Ho bisogno di schiarirmi un po’ le idee. Credo sia opportuno che mi ritiri per un po’ nel mio palazzo mentale.
Devo ammettere che Londra mi manca, John mi manca. Lestrade mi manca. No, Anderson non mi manca, vediamo di non esagerare. E nemmeno Donovan, ma tanto quei due si fanno compagnia a vicenda.
Anche il mio divano è comodo e mi rende facile immergermi nei miei pensieri. Ma non è comodo come la mia poltrona a Baker Street. Non è il caso di farsi prendere dal sentimentalismo, i sentimenti sono una debolezza. Sono anni che li rifuggo e ho acquisito una pratica eccellente. Scivolo piano piano nel mio inconscio, nel mio palazzo, per raggiungere quell’angolo di me stesso nel quale riesco ancora meglio a raccogliere le mie idee.
Il silenzio, benedetto silenzio.
Nessuno attorno, solo pace che aumenta le mie già ragguardevoli facoltà mentali che…
SBAM!
Come “Sbam”? Non è possibile, sarà la stanchezza che mi procura allucinazioni uditive. In fondo sono solo quattro giorni che non chiudo occhio. Dicevo, le mie ragguardevoli facoltà mentali che…
SBAM!
For God’s sake, cosa sta succedendo? Il rumore sembra arrivare dal piano di sotto, dove si trova la stanzetta che ho riservato a Molly Hooper.
In realtà, più che una stanzetta, si tratta di un minuscolo sottoscala non dissimile da quello nel quale risiedeva il mago che ha fatto la fortuna della signora Rowling – John mi ha costretto a vedere tutti i film. D’altronde, le informazioni veramente utili su Molly Hooper richiedono molto meno spazio di quello che le ho riservato.
Il rumore si fa più vicino man mano che avanzo verso il sottoscala.
Un uomo di spalle sta chiudendo rumorosamente la porta della stanzetta sbattendola senza problemi.
L’uomo si gira e altri non è che…
“Moriarty?”
“Mio caro! Che piacere!” Il sorriso totalmente folle è esattamente quello che ricordavo, la luce nei suoi occhi però è ancora peggio.
“Cosa fai nel mio palazzo mentale? Tu dovresti essere morto.”
Moriarty si rabbuia per un attimo. “Sono morto, mortissimo. Più morto di te, impostore.” E mi lancia un’occhiataccia. “Già che siamo qui, dimmi, ti è piaciuta la sorpresa che ti ho fatto sul tetto del  Bart’s? Non ci eri arrivato, vero Sherlock, non te l’aspettavi?”, gongola soddisfatto.
Come già detto, odio essere sconfitto, preso in castagna, contraddetto, preso in giro. Nella fattispecie, da questo irlandese che in fondo sono arrivato a rispettare nella sua folle genialità, se non altro perché il suo cervello non funziona in modo tanto diverso dal mio. Annuisco e cambio discorso. “Dall’abbigliamento deduco che sei qui per fare un lavoro fisico, ma cosa fai qui di preciso?” ripeto. Appunto, che diavolo ci fa qui James Moriarty, nel mio palazzo mentale al quale io solo posso accedere?
Fa spallucce, si mette in bocca una gomma e con un ampio gesto della mano indica gli abiti che indossa. Sono esattamente gli stessi che portava quando ha fatto quello scherzone alla Torre di Londra.
“Trasloco. Ti pare che indossi il mio Westwood per portare avanti e indietro gli ammennicoli di Molly Hooper?”
“Cosa stai tramando, Moriarty! Parla!”
“Hey! Uuuuuhhh, ma come siamo nervosi! Mai pensato a fare un po’ di sesso per  rilassarti, Verginello?” Il mio sguardo è gelido, le battute ripetute non fanno ridere. Ma anche la prima volta quella non faceva ridere affatto. “Va bene, se proprio insisti te lo dirò. Degli oggetti che evidentemente appartengono alla nostra cara amica comune Molly Hooper…”
“Non è mia amica, tantomeno tua.”
“Oh, sì. Perdonami, tu sei quello che non ha amici, solo uno. Che noia, sai? Un veterano dell’Afghanistan, andiamo! Dovresti provare a conoscerla, Molly. Quando smette di balbettare è così divertente!”
“Io non ho tempo per divertirmi, Moriarty e tu lo sai bene. Ma sbrigati, cosa è questa storia degli oggetti di Molly.”
“Niente di che. Nell’ala del palazzo che mi hai gentilmente riservato hanno cominciato a comparire oggetti suoi. Lo sai, io sono molto geloso delle mie cose e dei miei spazi. Se me li tocco io reagisco male, malissimo!” A questo punto, la voce di Moriarty si alza di parecchi decibel poi di colpo ritorna calma. “Sto riportando le sue cose nella sua stanza, queste sono rimaste fuori perché non ci sta più niente.” Fa cenno a una scatola poggiata di fianco a lui. “E sono solo quelle di stamattina, fra un po’ ti toccherà darmi uno stipendio per quanto mi fai lavorare per tenerti in ordine il maniero.” Occhieggio il contenuto della scatola. Vedo una copia delle “Cinquanta sfumature”, del bacon – era ottimo, devo ammetterlo – e il plaid scozzese.
Anche Moriarty sbircia nel cartone e fa la sua espressione stupita così tipica di lui, gli occhi spalancati,  la sua bocca descrive una “O” tra il sorpreso e lo scandalizzato. Si china e tira fuori il baby doll blu notte che Molly ha usato per dormire. “Sherlock! Mi meraviglio di te! Devo ammettere, mi è sfuggito qualcosa! Non devi dirmi niente?” Il suo ghigno è più satanico del solito.
“Piantala, Moriarty! Metti questa roba al suo posto e torna da dove sei venuto!” e mi accingo a aprire la porta della stanzetta.
“No! Aspetta, non farl…”
Apro la porta della stanza e mi si riversa addosso una valanga di cianfrusaglie, tra cui un gatto grasso in maniera impressionante  – evidentemente è stato castrato e ipernutrito dalla sua padrona - che mi plana sulla testa.
“Toby” spiega laconico Moriarty che nel frattempo si è cacciato le mani in tasca e fa ancora spallucce. “Te l’ho detto che non ci stava più niente e ho anche cercato di avvertirti, ma tu devi sempre fare di testa tua.”
“Te ne sono infinitamente grato”, sibilo mentre cerco di aprirmi un varco tra i gattini di peluche, tutta la bibliografia di Jane Austen, quelle di Emily e Charlotte Bronte, relative biografie di autori assortiti e degli abiti di gusto orrendo di almeno due taglie in più rispetto a quella che dovrebbe portare Molly. E sì, c’è anche quel dannato cardigan con le ciliegie ricamate.
“Secondo me dovresti prendere in considerazione di assegnarle più spazio, le informazioni che stai raccogliendo su di lei stanno diventando troppe e qui non ci sta più niente.”
“Sparisci, Moriarty.”
“Ma certo, Sherlock caro. E’ stato un piacere rivederti! Ciao!”
Non posso dire la stessa cosa. In questo caso, venire nel mio palazzo mentale è stata una cattiva idea.
Pessima.
*
E rieccomi. Ho avuto un po’ di difficoltà nella parte iniziale del POV di Sherlock, ma penso che ora fili. Spero che vi piaccia, di certo mi sono divertita molto a scrivere questo capitolo, vi è toccato un altro capitolo di transizione, al prossimo entriamo di più nel vivo di tutta la faccenda. Spero abbiate apprezzato la guest star. Nonostante sia un folle crudele, a me Moriarty piace parecchio. Intendo quello interpretato da Andrew Scott, quello del film con RDJ non lo amo molto.
Grazie mille a Irregolare e a Yllel. Le vostre parole mi stimolano molto, grazie davvero.
E ora, l’angolino delle note.
*Trombamico. Esiste un’espressione corrispondente in inglese che però non rende altrettanto e che è “friend with benefits”. A voi scoprire cosa sono i benefits. Siamo in una fanfiction di Sherlock, no? Deducete!
** Stinging = pungente; stinking = puzzolente
God’s sake è un’esclamazione che Sherlock usa nei telefilm. La adoro, significa più o meno “per l’amor di Dio”. Mi piace quando la pronuncia con quel suo vocione al velluto.
Alla prossima e grazie per aver letto!
A chi recensisce, offro il completino numero diciassette – citazione autobiografica, io ne possiedo uno così, anche se mamma mi ha fatta in modo che i push up servano a poco - da usare in una serata folle con Mr. Cumberbatch. Il problema è arpionare Mr. Cumberbatch, lo riconosco. Ma per quello ci stiamo attrezzando. Tengo marito e sono più anziana del suddetto, quindi non appena lo beccherò, ve lo offrirò graziosamente.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Collaboratori ***


E’ dalle tre e mezzo che sono pronta per andare, anche se mi hanno detto che la distanza tra qui e l’ospedale si percorre in un quarto d’ora. Indosso una versione più presentabile del tailleur vaginale e le scarpe col tacco più basso che ho trovato. Sarà una bella impresa, pedalare. Eh sì, perché nella mia nuova identità sono un’appassionata di fitness, bicicletta e cibo sano – possibilmente biologico. Volevano farmi passare per vegana, ma mi piacciono troppo il fastfood, il kebab, le schifezze, il fish and chips e il glutammato monosodico del cinese perché io possa essere una vegana almeno lontanamente credibile. E nemmeno vegetariana, quindi Mycroft Holmes e la cara Anthea hanno concordato che sarebbe stato meglio che fossi una patita del bio. Il principio è “mi scofano di tutto, basta che sia bio”. Tra le altre cose, mi hanno già iscritta a un corso di cucina organica, io che a malapena so preparare la colazione e il bacon che tanto è piaciuto Sherlock è il massimo della raffinatezza gastronomica che posso offrire. Mi è sempre interessato il cibo, ma dopo aver infilato autopsie su autopsie - quindi fegati, reni, cuori e membra sanguinolente - non me la sono mai sentita più di tanto di spadellare, soprattutto con la carne, non so perché.
Dicevo… mi hanno procurato una bicicletta bionica che sembra l’Enterprise e dovrei usarla per andare al lavoro, speriamo di non cadere. Questo è un altro ostacolo, effettivamente. Ho sempre viaggiato con autobus, metro oppure taxi e la bici mi fa un po’ paura. Chissà Sherlock se anche lui ne ha una così. Non ce lo vedo proprio a pedalare, più che altro a fare qualsiasi tipo di attività fisica, oltre naturalmente a rincorrere malviventi riuscendo sempre a sembrare figo anche col fiatone. Ma a proposito, che fine ha fatto? Sarà a casa sua o avrà infilato uno di quei suoi strani travestimenti e sarà andato in giro da qualche parte?
*
Eyre Square, sono davanti alla statua di Pàdraic O Conaire, come d’accordi. Ovviamente sono en travesti – in questo caso sono vestito da hippy – per non rischiare di farmi riconoscere.
Sto aspettando che questo individuo, Stinging Ben, prenda contatto. Non ho nessuna idea di come sia fisicamente, gli homeless è difficile trovarli su Google, ma sta di fatto che sono qui da un quarto d’ora e nessuno si è ancora fatto vivo. La cosa mi irrita, la puntualità è fondamentale, soprattutto in faccende di vitale importanza come è evidentemente quella della quale mi sto occupando io in questo momento. Mi guardo in giro ancora più attentamente e vedo solo degli individui noiosi  dalle esistenze ancora più noiose: un uomo che è appena stato lasciato dalla moglie, una donna di mezza età che soffre di una carie al premolare inferiore destro, un ragazzo che ha appena passato l’esame di analisi dopo essere stato bocciato quattro, no, cinque volte, poi una fanciulla che è appena smontata dal suo turno nella caffetteria all’angolo. Inoltre un bambino che… Ehi! Il mio portafoglio!
E’ un ladruncolo, un ragazzino male in arnese che si ferma a una ventina di metri da me,  mi guarda con aria di sfida e comincia a correre nemmeno tanto velocemente tra le stradette del centro della città. Lo inseguo e tra me e me quasi sorrido perché finalmente il contatto è arrivato… e perché mi sembra di essere ritornato nella mia vecchia vita, a Londra.
Arriviamo in una piazza affollata nella quale un artista di strada si sta esibendo con una marionetta. Il pubblico sembra concentrato sul suo spettacolo e vedo il moccioso che si infila in un minuscolo caffè. Lo seguo. Faccio in tempo a vedere che il ladruncolo lancia il mio portafoglio a un uomo di circa sessant’anni, altrettanto malconcio. Solo apparentemente perché le sue mani sono curate e non sembra soffrire di alcuno dei sintomi causati da malnutrizione. La pancia è però gonfia, la qual cosa è chiaro indice di un consumo eccessivo di birra. Sempre così intemperanti, questi irlandesi! E’ lampante che l’alcool, così come quasi tutti gli eccessi, rallenti considerevolmente le facoltà intellettive. Non ci vuole certo un genio come me per capirlo!
“Allora, Englishman, vuoi sederti o pensi di aspettare la prossima migrazione dei salmoni?” L’accento è marcatamente irlandese, il tono è sornione. Spinge il borsellino verso di me.
Prendo posto al tavolo di fronte a lui e rimetto il portafoglio in tasca. “Ti ascolto.”
“Sei uno di poche parole, Englishman? Mio cugino mi aveva avvertito che non eri la simpatia fatta persona…”
“La simpatia è noiosa!” sentenzio io. Non ho tempo da perdere e comincio a sentire il cattivo odore che proviene dai vestiti di quest’uomo. Mi sposto leggermente per evitare il tanfo.
I suoi occhi hanno un brillio sinistro; mi afferra per il bavero dell’orribile giubbotto che sto indossando e mi trovo faccia a faccia con lui, i nasi quasi si toccano. “Allora, ascoltami molto bene, Englishman. Penso di sapere cosa stai cercando, quel che non ho capito è perché. Ma sono affari tuoi, io e te non ci siamo mai visti, nemmeno in fotografia. So che sono guai grossi, ma quel mio cugino giù alla Big City mi ha detto che è importante, quindi ti dirò quello che so. Lascia stare tutti i Garda (parola irlandese che indica i poliziotti NdA)  di Mill Street, loro non possono o non vogliono aiutarti. O sono in  libro paga, oppure hanno troppa paura per fermarli. L’unico cane sciolto è un ispettore con un carattere brutto quanto il tuo, giovane e con la testa rossa e calda che hanno tutti i suoi. Si chiama O’Leary. Sta indagando per conto suo, ma ha già un elenco degli affiliati, non so quanto completo. Non ho idea di come tu possa fare, ma cerca di scoprire chi sono i nomi su quell’elenco e poi fai quello che devi fare. Ma ricorda, io e te non ci siamo…”
“Mai visti, ho capito.” Ghigno sardonico. Allungo all’uomo una banconota da cinquanta euro, ma storce il naso.
“Problemi?”
“Englishman, non fare finta di non capire. Qui siamo in zona euro, c’è la crisi e poi devo anche stipendiare il mio giovane socio che ti ha portato qui.”
Allungo un biglietto da venti euro e inarca le sopracciglia. Me lo riprendo e al suo posto gli porgo un’altra banconota da cinquanta.
“Ah, Englishman, sei simpatico come la diarrea prima di un incontro con una signora, ma è un piacere fare affari con te!”
“Non ne dubito!” borbotto, mi alzo e prima di uscire sbotto: “Consideralo come un contributo per l’acquisto di un buon sapone”, anche se so perfettamente che il mio denaro andrà a finire in fumo. Anzi, in birra.
*
Inspira… espira… inspira… espira. Il cuore che mi batte come un tamburo, difficoltà respiratorie, pupille dilatate. No, non pensate male. Mi trovo davanti alla porta dell’obitorio della clinica universitaria di Galway. Grazie al cielo, non sono caduta dalla bici, non ho smagliato le calze, non mi si è rotto un tacco, non si è messo a piovere e la borsa non mi si è impigliata nella ruota. Avevo solo il vento contro, per cui invece dei quindici minuti, ce ne ho messi venticinque, anche perché non ho ancora capito come funzionano le marce. Forse dovrei smettere di preoccuparmi di stupidate e pensare alle cose più importanti. Ad esempio, al fatto che fra poco dovrò varcare questa soglia e che mi troverò in un mondo che non conosco. Un altro. Avrò due persone sotto di me, altri colleghi, un modo diverso di lavorare.
Un altro respiro profondo, solo uno anche perché non posso permettermi di andare in iperventilazione. Metto la mano sulla maniglia e apro la porta.
*
Mi sento più leggero e non sto parlando dei cento euro che mi ha spillato Stinkin’ Ben – ora mi sento in diritto di chiamarlo col suo nomignolo ampiamente meritato. Finalmente ho qualcosa su cui lavorare, finalmente qualcosa di tangibile. Attraverso il centro, passo da Merchant’s Quay per dirigermi sulla costiera che porta alla mia abitazione, oltre il ponte sul Corrib. La mia attenzione è attirata dalla vetrina di uno dei piccoli negozi. Mi fermo per qualche secondo, esito perché io queste cose non le faccio nemmeno per sbaglio, poi entro. Leggero per leggero, tanto qualche soldo in più o in meno non mi cambia la vita e almeno mi saranno risparmiate penose scene mattutine.
E’ stata una buona giornata. E credo proprio che quell’O’Leary lo troverò su Google.
*
Mi trovo davanti due donne che mi fissano senza parlare. Ho una voglia pazza di darmela a gambe prima di subito, ma devo resistere, devo restare. Farei saltare tutta la copertura di Sherlock, oltre che la mia. Qui c’è in ballo la mia vita, la sua e quella di altre persone.
Una delle due è una ragazza non troppo alta, abbastanza piazzata; i capelli scuri tagliati corti con un ciuffo che le ricade sulla fronte e sugli occhi azzurri. L’altra è magra magra, piccolina e bionda, i capelli lunghi  che quasi celano il viso sottile. Entrambe portano il camice bianco. Evidentemente, sono le ragazze che lavoreranno con me.

L’imbarazzo è palpabile, passiamo un buon minuto a studiarci a vicenda senza dire niente. Poi decido di mettere fine alla tortura e dopo essermi schiarita la voce, col tono più serio e professionale che riesco a fingere, esclamo. “Sono Tracey Summers, piacere di conoscervi”. Le mie parole squillanti sembrano cadere nel vuoto, ma dopo un attimo le spalle delle due donne sembrano rilassarsi. La ragazza col ciuffo si fa avanti e mi tende la mano. “Piacere, sono Cora Cranston. A volte mi chiamano CC”. Ritiro la mano con un sorriso esitante, perché la stretta di Ms. Cranston è parecchio vigorosa.
La biondina fa timidamente un passo avanti verso di me, ma prima che possa avere il tempo di spiccicare una lettera, Cora si piazza tra noi due ed esclama: “Dottor Summers, questa è Mellie Hoover. Gradisce un tè? Come lo prende? Va bene nero con una zolletta di zucchero, sì? Mellie, vai a prepararci un tè, spero che ti ricordi come lo prendo io. Comunque, due zollette e una nuvola di latte.”
Terrore, panico, paura, fifa nera!
Mellie Hoover? Non è possibile, anche qui si ripete la metafora della mia vita, con una ragazza che ha un nome quasi uguale al mio e che subisce come è successo a me fino a pochi giorni fa. Non ce la faccio, non riesco, io non…
“Scusate, ho un urgente bisogno di andare al bagno, dov’è?”
Cora fa un cenno col mento verso una porta di legno dalla parte opposta e prima che io mi barrichi in quello spazio angusto, la sento sbottare: “Mellie, spero che tu abbia pulito per bene, lo sai che quelli delle pulizie fanno tutto tranne quello per il quale sono pagati.”
Il cuore mi batte se possibile più velocemente di prima. Sono fuori di me dalla rabbia, un po’ con quella bullaccia di Cora, un po’ con me stessa perché sono incapace di rimetterla al suo posto anche se sono il suo superiore. Non sono mai stata capace di mettere al suo posto nemmeno il mio gatto, figuriamoci una così.
Tiro fuori il cellulare dalla borsa e mi metto a digitare furiosamente, ma non altrettanto velocemente della destinataria del mio messaggio.

Dove mi avete mandata? Qui c’è una prepotente che fa la gradassa con una poveretta identica a me e che ha un nome quasi uguale al mio.
Dopo qualche secondo, il telefono trilla per segnalare un SMS in entrata.
Davvero? Interessante. Non ero a conoscenza dei particolari.
Nemmeno io! Cosa faccio?
Qual è il problema?
Detesto come si comporta questa ragazza!
Facile, glielo dica. E’ la sua responsabile. Ora la lascio, il mio di responsabile sta per scatenare una guerra in due nazioni dell’Africa Centrale e ha bisogno di aiuto per decidere in quali.

Resto come un’ebete a fissare il mio cellulare inesorabilmente muto. Da qualche parte in Africa sta per succedere un disastro umanitario e io sono qui come una cretina a preoccuparmi di una prepotente.
Cora Cranston. Un nome chiassoso come la sua proprietaria.
Non posso stare qui all’infinito, quindi esco dal bagno con tutta la dignità di una che presumibilmente è reduce da un attacco di mal di pancia e mi risistemo gli occhiali sul naso col massimo del sussiego.
Vengo accolta dal ghigno beffardo di Cora. “Dottor Summers, tutto bene?”
Annuisco seccamente. Sono rigida come un baccalà per l’imbarazzo, spero di farlo passare per alterigia.
“Mi fa vedere il mio ufficio?”chiedo a Mellie, un po’ perché voglio evitare Cora, un po’ perché voglio che sia lei a rispondermi. Per la prima volta Mellie apre la bocca e riesco a sentire la sua voce sottile e stranamente melodiosa. “Il primo a destra sul corridoio.”
Annuisco ancora. “Ho bisogno di leggere dei documenti. Continuate pure il vostro lavoro.”
Mi chiudo nell’ufficio e cerco di calmarmi, rimpiangendo amaramente i bei tempi in cui il mio obitorio era popolato solo da silenziosi e amichevoli cadaveri. Sono nel panico più assoluto, ma non piango. Molly Hooper lo avrebbe fatto e si sarebbe lasciata andare a una solenne e quanto mai liberatoria frignata, ma Tracey Summers questo non se lo può permettere.
+ +
Buongiorno, non ci speravate più, eh?
Devo dire che in questo periodo non mi sono potuta dedicare molto alla scrittura, infatti le mie serate fino a pochi giorni fa sono state dedicate alla preparazione di un costume. Notare che io non so cucire, quindi immaginatevi il patema.
… e poi ho avuto seri problemi di comunicazione con l’editor di EFP. Se avesse funzionato, il capitolo sarebbe stato online lunedì. Lo odio, sapete?
Sherlock fa il misterioso e Molly è in panico. Spero che l’aggiornamento vi sia piaciuto. Altra carne al fuoco, altri personaggi nuovi che vedremo meglio in seguito. O’Leary credo che comparirà dal prossimo capitolo e Molly avrà una sorpresina dalla gradassa.
Un grazie speciale a Finnick_, che ha infilato cinque recensioni in due ore e mezzo. Mi hai commossa, era dai tempi della “Rivolta delle racchie” che non mi capitava.
E, al solito, un abbraccio a Irregolare e a Yllel per le loro parole di incoraggiamento e degli spunti che mi offrono.
Thanks a million!
Nisi
p.s. a Galway ci sono stata tre volte, quindi un po’ la conosco e la descrizione dei luoghi ritengo sia abbastanza fedele.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Tori per le corna ***


Buonasera, buonasera. Vi stronco subito, questo è un capitolo di transizione (un altro!). Odio scrivere questo genere di capitoli, ma era necessario per gettare le basi dei prossimi avvenimenti. Ho fatto una fatica boia, da qui l’enorme ritardo. Le cose si faranno interessanti, veramente interessanti dal prossimo. Siccome sarà decisamente più divertente da scrivere, il nuovo aggiornamento non sarà in tempi lunghi.
 
*

Allora, ha parlato con la sua collaboratrice gradassa?
Rileggo per tre o quattro volte l’SMS che è appena arrivato da Anthea.
La verità è: “No, non ci ho parlato, ho una fifa blu e non so proprio cosa dire per farla smettere e non perdere la faccia.”, ma non posso dirla.
Ci metto almeno cinque minuti per  pensare a una risposta piena di nonchalance.
No, ma non c’è fretta.
Dopo nemmeno venti secondi, un altro messaggio.
Perché? Adesso è un momento buono come un altro.
Ha ragione come al solito. Merda!
*
Mi sono precipitato a casa e ho acceso il PC di Molly. Oh, tanto ci ho messo dieci secondi a scoprire la sua password.
E’ il mio nome.
Non riesco a capire queste donne che usano i nomi degli uomini che le affascinano come parole d’ordine. E’ assurdo, troppo facile. Banale. Il  tedio supremo!
Sono indispettito dal fatto che la pagina iniziale ora sia Google.ie e non la versione inglese del motore di ricerca.
Digito il nome dell’ispettore O’Leary.
Le immagini mi rimandano la foto di un uomo tra i trenta e i quaranta coi capelli rossi ricci e spettinati e gli occhi azzurri. Lo sguardo è quello sfrontato di chi sa cosa vuole e sa come ottenerlo. E’ abbronzato, da cui si evince che ama stare all’aria aperta. Indossa spesso un Burberry. Abita vicino a Galway, ma spesso viene chiamato in varie parti del Paese per risolvere i casi più difficili e complessi. E’ piuttosto alto e snello, quindi o beneficia di un buon metabolismo o non ama indulgere nel cibo o, ancora, si sottopone sistematicamente ad esercizio fisico.
Pare che sia molto intelligente ed intuitivo.
Lavora nella polizia, ma dal momento che spesso collabora con le forze dell’ordine al di fuori della sua giurisdizione abituale –  il Connacht -  si autodefinisce l’unico Consulente Investigativo al mondo.
Oh!
*
Anthea ha ragione, ora o più tardi non cambia di una virgola. Ma cosa dire? Con che tono? Con che postura? Che sguardo?
Prendo carta e penna e butto giù qualche appunto. Dopo dieci minuti il cestino della carta straccia è pieno zeppo e mi sento peggio di uno scrittore in piena crisi creativa. Non mi sono mai trovata in una situazione simile. La Molly Hooper del Barts riceveva gli ordini, invece di darli. Era un topolino che si nascondeva tra le sue scartoffie e i suoi cadaveri. Cioè, no, non volevo dire questo. Accidenti, sembra quella scena di “Coma profondo” nella quale il tipo si nascondeva nell’obitorio e si dondolava sui cadaveri appesi al soffitto come salami.
Calma, Molly, volevo dire Tracey. Tracey! Ma che nome del cavolo mi hanno dato, avrebbero potuto sceglierne uno migliore.
Va bene, tranquilla. E già che ci sono, mi tolgo le scarpe che mi fanno un male dell’accidente.  Mi mancano da morire le mie scarpacce scrause comprate a Portobello che portavo al Barts. Comodissime, sformate, lontane anni luce da questi strumenti di tortura.
Panico da foglio bianco, dicevo.
Inutile scrivere, tanto non riuscirei a partorire niente di sensato. Meglio prendere il toro per le corna e farla finita velocemente e una volta per tutte.
Mi infilo le scarpe, poi mi alzo e apro la porta.
“Dottoressa Cranston? Potrebbe venire un momento nel mio ufficio, per favore?”
Faccio finta di non vedere e sentire Cora che mi fa il verso e mi lascio cadere sulla sedia come un sacco di patate, dimenticandomi ancora per un momento di essere Tracey Summers.
*
Dopo una breve visita al  mio palazzo mentale stabilisco che la cosa migliore, con meno rischi, più sicura e sicuramente più consigliabile è quella di entrare in possesso della lista di O’Leary e da lì cominciare a lavorare allo smantellamento della rete creata da Jim Moriarty.
Non si può essere l’unico – e rimarco, l’unico -   consulente investigativo al mondo se non si ha una rete di contatti di professionisti più o meno ufficiali ai quali rivolgersi per lo svolgimento di compiti che non si possono o non si vogliono svolgere.
Nella fattispecie il professionista che sto per contattare è un giovane di  anni diciassette e residente a Cardiff. Il suo nome in codice è Quikkeys, che indubbiamente fa riferimento alla sua indiscussa velocità nel pigiare i tasti di una tastiera. In effetti, è un nome molto più appropriato alla sua attività di hacker rispetto al “John Robert Myles Jones” col quale è registrato all’anagrafe della città e che sembra più adatto a un poeta dell’Ottocento o al limite a un pre-raffaelita.
Sì, ho scoperto il suo vero nome. Una sera non sapevo cosa fare, quindi mi sono divertito con una piccola ricerca che non ha impegnato il cervello più di tanto. Una cosa leggera, per ammazzare il tempo.
Recupero la sua mail dalla mia lista contatti e scrivo le mie istruzioni in modo chiaro e conciso.
La risposta non si fa attendere, dopo pochi minuti vedo brillare l’alert del messaggio in entrata. Quikkies, indeed.
Ma il contenuto non è quello che auspicavo che fosse: “Sorry, Mister, ma questo computer non posso hackerarlo. Non perda tempo a chiedere agli altri, le diranno la stessa cosa, che non possono entrare in quel PC: abbiamo un accordo con O’Leary. Collaboriamo con lui, ci ha tirato fuori dalla merda in tante occasioni e non ci infiltriamo nelle macchine dei colleghi. In bocca al lupo, Mister.”
Sono sorpreso, devo ammettere che non mi aspettavo un tale epilogo. Questo però prova che O’Leary non è uno sciocco, ma soprattutto che non mi annoierò ad avere a che fare con lui. Sorrido, mi sento pieno di energia. Finalmente qualcuno che si avvicina al mio livello di intelligenza. Naturalmente non gli farò passare liscio il fatto che si sia appropriato del mio titolo così, en passant.
Bene, allora non mi resta altro da fare che studiare un modo per entrare in possesso di quella lista. In altre parole, rubarla.
*
“Voleva parlarmi, dottoressa? Ma cosa sta facendo, con quel foglio davanti agli occhi? E’ per caso presbite e e i suoi occhiali non vanno bene?”
“No, dottoressa Cranston, non sono presbite.” Sospiro.
“Pene d’amore?”
“No, io… ecco…”
“Ho capito, ha lasciato Londra per colpa di un uomo.”
“Beh, più o meno, sì, ma…”
Con fare melodrammatico, Cora alza gli occhi al cielo. “Ecco, ci risiamo! Un’altra donna in gamba che manda la sua vita in vacca per colpa di un uomo!”
“Ma io, veramente…”
“Senta, dia retta a me. Lei è veramente un bel bocconcino, se si lasciano perdere quei suoi capelli biondi che si vede lontano un miglio che non le donano e che sono falsi come una moneta da tre euro. Dovesse decidere di cambiare sponda, si rivolga pure a me, io l’apprezzerei come merita e la proteggerei a costo della mia stessa vita!”
Questa poi! Non che abbia niente in contrario verso gli omosessuali, ma sentirmi fare delle avances da una donna non mi era mai capitato. Beh, almeno qualcuno mi trova attraente.
Cora è lì che aspetta una risposta da parte mia. Che le devo, se non altro per rispetto dei suoi sentimenti. So fin troppo bene cosa voglia dire amare e non essere riamati.
“Beh, dottoressa. Grazie infinite, ma, ecco, io sono… ehm, convinta che per me vadano bene gli uomini…”
Improvvisamente, Cora scoppia a ridere. “Ma certo, ma io dovevo provarci. Non sono ancora pronta per una storia seria e ho voglia di divertirmi. Se non ha voglia di spassarsela assieme a me, tanto peggio per lei, non sa cosa si perde.”
Sorrido, sollevata. “Fa benissimo, dottoressa. Si diverta quanto possibile. Ritornando a quello che volevo dirle…
Un bussare discreto ci interrompe.
“Sì, prego?”
E’ Mellie che fa capolino dalla porta: “Dottoressa? Ho finito l’autopsia della signora Mac Leod, ci sono delle cose che non mi tornano, potrebbe venire a dare un occhio?”
“La signora Mac Leod? Ma non era assegnata a…” i miei occhi si posano su Cora Cranston, che sghignazza.
Scuoto la testa. “Va bene, arrivo.”
Sul tavolo ci sono i poveri resti della signora in questione. “Buongiorno, signora Mac Leod. Sono qui per cercare di capire la causa del suo decesso.” Le do un colpetto sulla mano fredda e immobile, mano che deve essere stata calda e morbida fino a pochi giorni fa.
Mellie e Cora si scambiano uno sguardo perplesso, ma che facciano pure. Lo so che sono strana, lo so che i morti sono morti e che, accidenti, non mi possono più sentire. Ma i miei pazienti sono state persone e ci tengo a trattarli come essere umani. Per quello che può servire.
Mellie mi passa la cartelletta coi risultati e li studio bene. In effetti qualcosa che non torna c’è. La signora soffriva di diabete, ma nell’organismo non c’è traccia dei farmaci anticoagulanti che vengono assunti abitualmente dai pazienti affetti da questa patologia.
“Dottoressa Hoover. E’ la mancanza di anticoagulanti nel sangue che non le torna, vero?”
Mellie annuisce in silenzio. Sollevo il lenzuolo che copre la signora quel tanto che basta a lasciarmi vedere le sue gambe. “Dottoressa, crede che la causa di morte possa essere stata una trombosi?”
“Io… credo di sì.”
“E’ strano, però… “ faccio il giro del tavolo. Faccio per passarmi la mano sulla faccia per pensare meglio, ma all’ultimo momento mi blocco perché mi toglierei tutto quel dannato fondotinta che mi sono messa.
Sollevo ancora una volta il lenzuolo e medito ancora. Sulle gambe e in particolare sulle cosce pienotte della signora ci sono segni di capillari rotti – effetto collaterale dell’assunzione di anti-coagulanti, ma nessuno di essi pare molto recente.
Ciò sta sicuramente a significare che la paziente Mac Leod ha certamente fatto uso di queste medicine, ma non nell'ultimo periodo della sua vita. La cura è stata interrotta, ma perché?
Sulla cartella clinica non viene fatto cenno a presenza di calmanti/anti-depressivi, quindi la probabilità che la signora soffrisse di depressione non è da escludere completamente, ma nemmeno così alta, e in ogni caso se qualcuno volesse togliersi la vita, lo farebbe in modo meno incerto.
Non ha senso.
E se la morte della signora non fosse stata un caso fortuito?
“Signore, credo che la signora sia morta per cause naturali, ma tali cause siano state indotte.”
Cora Cranston sbuffa. “E ci risiamo, ci ritroveremo ancora tra le scatole quel tuo Fin… sei contenta, Mellie?”
Mi giro verso Mellie che arrossisce come un gambero e che schizza a nascondersi nel bagno mentre Cora ride sgangheratamente e io, per la prima volta, riesco a fulminarla con lo sguardo.
Al che Cora tace per un attimo, annuncia che ha bisogno di un caffè e infila l’uscita, lasciandomi sola con la silenziosa signora Mac Leod.
“Beh, signora, pare che siamo rimaste sole, io e lei…”. Le accarezzo i capelli prima di riporla nel suo cassettone.
Mi lascio cadere sulla panca, a riflettere: cosa significa questa scena, ma soprattutto, chi è questo Fin?
*
Prendo il cellulare non rintracciabile che mi ha dato Mycroft e compongo il numero della stazione dei Garda.
Imitando – perfettamente – la vocetta fessa di una vecchietta, chiedo al centralinista: “Buonaseeeera, mi scuuuusi, vorrei parlare con l’ispettooooore O’Leaaaaaaaryyyyy.”
“L’ispettore è fuori sede.” È la risposta secca.
Bene, perfetto! Quel che ci voleva!
“Caro ragaaaaaazzo, non sa quando tornerà?”
“Credo dopodomani. Posso passarle un altro collega?”
“Ohhhh, noooo, giovanotto, avevo bisoooogno prooooprio di lui. Arrivederci”.
Dopo aver riagganciato, rientro nella mia porzione di casa e vado ad aprire l’enorme ripostiglio nel quale hanno trovato posto i travestimenti che ho chiesto a Mycroft di farmi preparare.
L’armadio è enorme, ma la mia attenzione è attirata da… paillettes?
Paillettes? Tiro fuori la gruccia e vedo un cartellino appuntato a un corpetto in pizzo, semi-trasparente, coperto di piume e di svarosky. “Cher”
Mycroft, sei un idiota!
Per le mie attuali esigenze devo combinare il look di un punk alla tuta di un fattorino dell’UPS.
*
Non è passata mezz’ora quando faccio il mio ingresso al comando di polizia, reggendo tra le braccia un pacco di cartone col logo di Amazon. Del tutto plausibile, tutti comprano da Amazon e nel pacco di potrebbe essere qualsiasi cosa: libri, DVD, attrezzi da cucina, strumenti per il bricolage e altro ancora.
Al primo poliziotto che incontro chiedo: “Ehi, zio, ho un pacco per O’Leary. Ufficio?”
“In fondo al corridoio, terzo ufficio a sinistra, dopo i cessi e la macchina del caffè. Ma lui ora non…”
“Grazie, zio!”
Per l’amor del cielo, ma c’è davvero gente che parla così?
Entro nell’ufficio di O’Leary, contrassegnato da una targa in plastica trasparente.
Sono consapevole che in un commissariato ci sono telecamere dappertutto. Eccone una, lassù, sull’armadio. E un’altra, dietro allo schedario. Giro intorno alla scrivania. Questo O’Leary deve essere un disordinato di prima categoria, molto peggio di me e il suo ufficio è un autentico caos: faldoni di pratiche mischiati a volantini del Galway Oyster Festival, a un numero di Playboy, un opuscolo di “Fishing and Angling in Ireland” e a dei fumetti.
Il computer è in perfette condizioni, invece. Le lettere sulla tastiera sono nitidissime, senza aloni o macchie. Ma c'è un bel velo di polvere.
E’ quindi molto probabile che questo PC non venga usato molto e che qualsiasi documento importante O’Leary non lo tenga qui.
*
La faccenda diabete, capillari e anticoagulanti potrebbe essere piena di imprecisioni. Una persona a me vicina ne soffre, ma non ne parla molto in particolare e sono andata per deduzione. Mi scuso se le info dovessero essere errate. Bisous. Nisi
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** La mia cucina per la scienza ***


Ho il cervello che sta andando a velocità supersonica.
Le parole lista-O’Leary-retediMoriarty si stanno rincorrendo nella mia testa senza soluzione di continuità. Su di me camomilla, tiglio, valeriana, calmanti e antidepressivi non funzionano. Neanche rimedi più forti, già sperimentato. Devo distogliere il mio cervello da questi pensieri martellanti, altrimenti andrò in corto circuito.
Un esperimento scientifico! Ecco cosa mi ci vuole!
Un esperimento scientifico per rallentare il flusso di pensieri all’interno della mia testa… sì, facile a dirsi, ma non a farsi perché nella mia porzione di casa non dispongo di alcuna sostanza che possa essere lontanamente definita chimica. Nemmeno dell’elementare acido citrico – Mycroft non si fida su come potrei utilizzarlo, visti i miei precedenti. Non ho nemmeno della soda caustica per gli ingorghi di lavandini e toilettes (sempre Mycroft che pensa che potrei in qualche modo arrivare ad inalarne i vapori). E se in casa mia non c’è niente, figuriamoci in quella di Molly. Non ha nemmeno i cerotti alla nicotina per le emergenze, come ho già verificato a suo tempo.
Torno a casa sua – per qualche ragione la trovo più confortevole della mia nonostante sia esattamente uguale, tranne che per i libri e la persona che vi abita - e ancora una volta apro il computer.
Quando parte la connessione internet, digito “esperimenti scientifici casalinghi” e scorro la lista che è apparsa.
Un video su YouTube attira irresistibilmente la mia attenzione. Non avevo idea che con due semplici ingredienti si potesse realizzare…
Molly non mangia caramelle, ma beve spesso la Diet Coke. C’è un piccolo Boots qui nelle vicinanze che vende quel che mi serve.
Esco con ancora indosso la divisa dell’UPS e il look da punk e rientro cinque minuti dopo con una busta piena zeppa; già che c’ero ho fatto anche scorta di Diet Coke. Rientro nella cucina e dispongo il necessario sul tavolo. Per fortuna è abbastanza grande per ospitare le dieci bottiglie da due litri.
Srotolo il nastro adesivo e taglio dieci strisce sulle quali fisso  il contenuto di ogni stick. Fisso con dell’altro scotch e stappo le bottiglie. Più in fretta che posso, infilo ognuna delle strisce di Mentos in ciascuna bottiglia e riavvito il tappo in men che non si dica. La reazione chimica inizia all’istante: all’interno della plastica, la bevanda comincia a produrre schiuma color caffè che inizia a premere contro le pareti. Velocemente, di più sempre di più, tanto che le bottiglie diventano dure come il muro a causa dello sforzo di contenere tutta quell’anidride carbonica in rivolta.
Ah! Amo la scienza! Adoro come due semplici elementi combinati assieme possano dare luogo a reazioni insolite! La chimica è vita!
E’ ormai giunto il momento, il culmine del mio esperimento: una dopo l’altra, getto a terra con forza le bottiglie che esplodono, spargendo Diet Coke per tutta la cucina, bottiglie che poi schizzano verso l’alto come dei rudimentali ma quanto mai efficaci razzi.
Quando l’esperimento è giunto al termine -  pochi momenti dopo, purtroppo – grondo Diet Coke da tutte le parti. Si sono anche rotte un paio di lampadine perché una bottiglia nella sua traiettoria verso il soffitto è entrata in rotta di collisione col lampadario.
Bene, direi che il mio cervello si è rilassato e ha allentato la presa. Credo sia il caso di andare a farmi una doccia.
*
Ahhhh, finalmente a casa! Mentre salgo le scale mi tolgo queste scarpacce. Avrei una mezza idea di lanciarle fuori dalla finestra, ma purtroppo non posso farlo. Comincio a grattarmi il naso, la faccia, le guance. Mi sembra di essere una scimmia, anzi un panda visto che avrò fatto un disastro col trucco. Che meraviglia, ora una bella tazza di tè… no, il tè non posso, non fa parte del mio personaggio. Un bel bicchiere di vino bianco secco e un bel bagno caldo con taaaaaanta schiuma! Il Paradiso! Sì, il vino, dovrebbe essercene una bottiglia in fresco nel frigo, ora la vado a prendere…
MA CHE DIAVOLO E’ SUCCESSO IN QUESTA CUCINA?
Oddio, Sherlock! Spero non gli sia capitato niente! Spero stia bene! Ma questo… Questo non è sangue… Il sangue è rosso, non marrone!
Mi guardo meglio in giro e vedo… delle bottiglie di Diet? E la carta delle Mentos?
Sherlock! Stai a vedere che si è messo a fare l’esperimento delle Mentos nella Diet Coke in casa mia?
Non gli è successo niente, ma gli succederà presto. Sono livida, furibonda, nera! Dopo la Cranston, ci voleva pure lui a fare il piccolo detective chimico.
Sono qui in mezzo alla cucina, con le scarpe in mano e a piedi nudi sul pavimento che è diventato super appiccicoso e marrone scuro. Non mi capita mai di arrabbiarmi, ma oggi…
“Quell’idiota rintronato, idiota! Idiota! IDIOTA! Che idea del cavolo a fare ‘sti giochini dementi! Sarebbe un genio, quello? E io mentecatta che gli sto pure dietro! Dove lo ha messo tutto il suo cervello? Dove, dico io! L’ha buttato nel water e ha tirato l’acqua? No! E’ esploso assieme alle Mentos! Che si impicchi, quell’imbecille!” Al culmine della rabbia, pesto un piede, schizzando Diet Coke dappertutto. Tanto, ormai?
“Mi vuoi vedere morto, questa volta per davvero?”
Mi giro di scatto e sento che il rossore mi sale dagli alluci fino alla punta dei capelli: c’è Sherlock a pochi centimetri da me che mi sta guardando con un’espressione che se non lo conoscessi come lo conosco, potrei pensare che le mie parole lo abbiano fatto rimanere malissimo.
Non gli ho mai risposto male, non ce l’ho mai fatta anche se a quel party a Natale ci sono andata vicino.  Quasi mi spiace di aver parlato così, mi viene da chiedergli scusa per aver reagito in questo modo, ma rivedo la cucina ricoperta di brodaglia marrone appiccicaticcia  e di  vetri, e la rabbia mi torna facendomi vedere rosso.
“Non voglio vederti morto” mormoro stancamente, “ma voglio che questa cucina torni come prima. Sono cotta, vado a farmi un bagno e poi vado a letto.”
Me ne vado e non ho nemmeno la forza di sbattere la porta. Ma quel che ho detto è vero, sono stanca, Cora mi esaurisce e anche Mellie mi esaurisce in un altro senso perché è come vedere me stessa con gli occhi di un altro e non è facile. Pure Sherlock mi esaurisce, ma in un altro senso ancora.  Mi sta anche venendo mal di testa e vorrei disperatamente un tè.
Cinque minuti dopo sono a mollo nella vasca da bagno. Nell’acqua ho versato tutta la gamma di prodotti della Yardley. E’ bella calda, al punto giusto, quindi uscirò da qui rossa e lessa come un’aragosta e con la pelle raggrinzita come quella di un neonato.
Infatti è così. Torno in camera senza pensare alla mia cucina e mi piazzo sul letto con ancora su l’accappatoio e sotto la biancheria a darmi lo smalto sulle unghie dei piedi.
Ad un tratto la porta si apre, vedo Sherlock depositare qualcosa sul cassettone e poi ritirarsi a velocità della luce.
Camminando sui talloni per non rovinare lo smalto, mi avvicino. E’ una scatola piuttosto grande, avvolta in carta da regalo, un nastro molto elegante fissato a un angolo.
Non è Natale, non è il mio onomastico, compleanno, niente del genere. L’anniversario della mia laurea è fra un mese e mezzo, ma… apro il pacco strappando la carta.
Ohhhh.
Una vestaglia.
Ma una vestaglia di un arancio luminoso e bello.
Di kashmere.
Una vestaglia che è molto femminile e allo stesso tempo ha tutta l’aria di tenere  caldo caldo, che bellezza!
Sherlock.
Come gli è venuto in mente di fare una cosa del genere?
Mi viene un groppone alla gola grosso così. Metà delle volte penso sia un emerito stronzo, l’altra metà gli salterei addosso e lo coprirei di baci. Questa è una di quelle volte.
Però a pensarci bene lo bacerei anche quando fa lo stronzo.
Mi infilo la vestaglia ed è davvero comoda e calda come sembra e quando mi piazzo davanti allo specchio vedo che mi sta benissimo, più di quelle che ha scelto Anthea. Affondo il naso nel risvolto e sento che è morbidissima. Così soffice.
Qualcosa, devo dirgli qualcosa.
Non sono mai stata a casa sua e mi vergogno un po’ a infrattarmi; lui però questi problemi non lo sfiorano nemmeno per sbaglio, quindi cerco di vincere la mia timidezza e vado da lui. Lo trovo seduto sul divano che pizzica le corde del violino con espressione intenta.
Alza gli occhi e osserva laconico: “Ho indovinato colore e taglia, come prevedevo.”
Sollevo la mano ad accarezzare il risvolto. “Sì. Sei stato molto gentile…”
Fa spallucce. “Ne avevo abbastanza di vederti cincischiare tutte le mattine con quel plaid. La lana di quel tipo tende ad accumulare acari che sono nocivi alla salute in quanto causano allergie che è bene non sottovalutare.”
Mi sembra strano che uno come lui che tiene tranquillamente in frigo materiale ad alto rischio biologico- ambientale si preoccupi degli acari. Faccio spallucce anche io. “Beh… Grazie, comunque. Io… te ne sono grata.”
“Pensi ancora quello che hai detto?” domanda, gli occhi puntati sulle corde del violino.
Sembra vulnerabile. Mi sforzo a rispondere in modo sensato, senza balbettare e inciampare nelle parole. “Non l’ho mai pensato per davvero. Ma non devi fare quelle cose.”
“Era un esperimento come un altro.”
“Un esperimento? Sherlock, dai, quella cretinata della Mentos e Diet Coke l’hanno fatta in centinaia. Se guardi su YouTube ci sono anche i giochi di fontane.”
“Mi stavo annoiando e il mio cervello stava andando in sovraccarico.”
“Lo capisco, ma rientro dall’obitorio e trovo la mia cucina in quello stato. Sherlock, siamo qui io e te lontano da casa; non pretendo che tu ti prenda cura di me, almeno però cerca di non rendermi le cose più difficili, va bene?”
“Pensi non ne sia capace? Di prendermi cura di un’altra persona?” ora è indispettito. L’ho colto in fallo, Sherlock Holmes detesta anche la sola idea di non essere in grado di fare qualcosa.
“Non lo so, non ho mai vissuto assieme te fino a qualche giorno fa. Hai condiviso il 221B per anni con John, cosa hai fatto per lui quando aveva bisogno?”. Incrocio le braccia, in attesa della risposta.
“Gli ho preparato il caffè.”
“Drogato, a quanto pare. Altro?”
“Gli ho fatto il tè quando ha preso un virus intestinale.”
“Dopo che gli avevi fatto bere del latte al cacao scaduto da una settimana per un esperimento.”
Sherlock rimane zitto e ricomincia a pizzicare le corde del violino con espressione pensosa.
Meglio tornare a casa mia, sono stanca, ho bisogno di riposare e mi sento debole quando lui è così vicino. E non vorrei rendermi ridicola per l’ennesima volta.
Mentre sto per uscire dalla stanza, sento la sua voce: “Ti ho riordinato la cucina e domani sistemo i muri e il soffitto.”
Il groppo in gola è tornato, ma riesco a rispondere senza girarmi: “Grazie, Sherlock. Buona notte.”
“Buonanotte, Molly Hooper.”
*
Heilà, avete visto che ce l’ho fatta? E l’aggiornamento sarebbe arrivato anche prima se il mio portatile e unico computer di casa non fosse passato a miglior vita.
Allora, il video che vede Sherlock è questo: http://www.youtube.com/watch?v=2wfppG7Tt0k
Per l’amor del Cielo, che non vi venga in mente di ripetere l’esperimento in casa vostra, non vorrei che le vostre mamme mi venissero prendere a casa. Siccome non sono nuova a suggerimenti poco edificanti, io ve lo dico e scarico qualsivoglia responsabilità. Sarebbe imbarazzante anche perché più o meno potrei avere l’età delle vostre mamme.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, l’ho scritto con molto piacere. Siccome non è betato, segnalatemi orrori e schifezze. Ma con gentilezza, io ho un cuore sensibile.
Ciao dalla Nisi!
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Tracey Summers live in Galway ***


For God’s Sake! Questo posto si sta rivelando pieno dei peggiori cliché sugli irlandesi, anche quelli che non ho mai sentito.

Sono attualmente in quel di Spiddal (trasposizione in lingua civile dell’irlandese An Spideal. Segnatevelo, visto che fra meno di cinque minuti questa informazione verrà cancellata) e, precisamente, proprio di fronte al domicilio dell’Ispettore O’Leary.

Il quale si trova di fronte all’hotel-pub-ristorante più affollato del villaggio.
Il quale si trova proprio nel centro del paese, se questo agglomerato di abitazioni, pecore, fusti di Guinness e irlandesi si può chiamare tale.

Il campanello della casa – uno dei bungalow prefabbricati che sembrano andare tanto da queste parti - porta il nome dell’ispettore in fondo ad altri cinque.
E precisamente:

Aisling O’Leary
Bernadette O’Leary
Clodagh O’Leary
Dara O’Leary
Eithne O’Leary


Da quello che deduco, è ovvio che l’Ispettore è l’ultimo figlio e ha cinque sorelle, visto che il suo nome di battesimo inizia per F. E qui ritorniamo ai cliché dei quali dicevo prima: famiglie numerose, dal momento che pare che il sesso sia l’unico passatempo che conoscono in questo posto dimenticato. Vista poi l’influenza che la Chiesa cattolica esercita su queste menti semplici, tale attività serale e non, ha spesso delle gravi ripercussioni sul tasso di natalità.
In breve, un numero abnorme di figli.
Ma non divaghiamo.

Penetrare in questa casa, data la situazione e il numero imbarazzante degli persone che la abitano, è sicuramente molto pericoloso e difficile. Che differenza con Londra, nella quale vivono praticamente tutti da soli e quindi infilarsi nei vari appartamenti – così convenientemente anonimi – risulta poco più di un gioco da ragazzi. Poi con la tendenza così confortante dei Londinesi a farsi gli affar…
“Scusi, lei è un amico dell’Ispettore?”
Ecco, appunto. La tendenza tanto confortante dei Londinesi a farsi gli affari propri, contrariamente a questi autoctoni gaelici.

Mi giro e non vedo nessuno. Abbasso lo sguardo e di fianco a me noto una donna alta circa un metro e venti, dell’età stimabile tra i novantacinque e i centovent’anni, almeno a giudicare dal numero di rughe che ha sul viso rubizzo.

 “No, sono un ispettore delle tasse”.

Naturalmente, non è vero, ma questo è uno spauracchio che solitamente fa girare al largo gli scocciatori. La signora di dimensioni tascabili non sembra troppo convinta, anche perché oggi sono travestito da rasta, dreadlocks compresi e maglietta d’ordinanza di Bob Marley.

Considerando anche il fatto che gli spostamenti non sono un problema da sottovalutare, è necessario concludere che introdursi nell’abitazione degli O’Leary per vedere di recuperare quella maledetta lista, non è la soluzione ideale. Oltre alle cinque donne con le quali vive – seriamente, come si fa a stare ancora con le sorelle a trent’anni passati da un pezzo? – ci potrebbero essere degli animali rumorosi. Dopo quella faccenda incresciosa di Baskerville, i cani non sono certo diventati il mio essere vivente preferito. E il fatto che Toby – con il suo urgente bisogno di una visita presso il nutrizionista felino – abbia osato planarmi sulla testa nel bel mezzo del mio palazzo mentale, non mi ha reso quelli della sua specie molto simpatici. Solo il Grumpy Cat lo ritengo un felino minimamente dotato di una certa personalità, non so per quale ragione lo sento parecchio affine a me stesso.

Dicevo… gli spostamenti. Qui si muovono con l’autobus e per quanto riguarda i tassisti, la probabilità che il conducente sia un amico di famiglia degli O’Leary è notevole e francamente ritengo poco probabile che un tassista sia disposto ad aspettarmi mentre mi introduco in una abitazione nella quale non sono stato invitato.

E’ grottesco. Ho capito ancora una volta perché qui non succede mai niente. Perché non è umanamente possibile delinquere! Uno come Moriarty deve essere diventato matto da queste parti, quasi quasi sento pena per lui. E’ sicuramente per questo che si è spostato a Londra!
Questo posto è demoralizzante. Sono quasi vicino a desiderare persino di vedere Anderson, tanto l’unico quoziente intellettivo che sarebbe in grado di abbassare qui è quello delle pecore.

Torno a casa, qui c’è poco da fare e O’Leary dovrebbe essere di ritorno domani, non ho molto da attendere.

*

Sono due giorni che non vedo Sherlock. Ieri è sparito e l’ho solo incrociato di sfuggita. Portava una parrucca alla Bob Marley, solo che col cerone marrone era abbastanza ridicolo. Si era messo le lenti a contatto scure, ma lui è troppo inglese per sembrare giamaicano, nonostante il travestimento fosse perfetto. Il problema è che Sherlock anche troppo inglese per questo posto, se posso dirlo e di certo troppo ingessato per fare un rasta. Non ce lo vedo a fare il simbolo della pace ed esclamare: “Peeeeeace and love, fratello!”

Stamattina di lui nemmeno l’ombra. Ho fatto colazione da sola. Ho barato e mi sono fatta un tè talmente forte che avrebbe potuto risuscitare i miei pazienti.
Ieri all’obitorio giornata tranquilla: Cora era in ferie e io e Mellie abbiamo lavorato con calma. Sembrava di essere tornata al Barts, un silenzio… perché Mellie non dice una parola, ma in compenso è brava e competente e le tre autopsie con tutto il giro di carta sono state smaltite in fretta. Certo che io sono timida, ma lei raggiunge livelli patologici. Beh, certo… è una patologa! Santo cielo, che battuta orribile!

Cora è tornata, ma era stranamente tranquilla. Si vede che il giorno di ferie non è andato tanto bene, non ha nemmeno tormentato Mellie – almeno, non in mia presenza. Comunque sembrava sottotono.

Per quanto mi riguarda, devo fare in fretta: devo sistemare un paio di cose in ufficio e sbrigarmi, che qui il cielo non promette nulla di buono. E sono in bici. Non ho voglia di prendermi una doccia mentre sto pedalando verso casa.

Va bene, ora posso andare. Meno male, il cielo è scuro, ma dovrei farcela ad arrivare a casa. Però devo andare veloce, questa gonna a campana non sembra fatta per il vento irlandese e ci devo mettere del bello e del buono per farla stare giù. Non sono mica Marilyn.

Oh, devo sbrigarmi sul serio, qui sta cominciando a piovere.
Mamma mia… adesso viene il diluvio… arriverò a casa bagnata come un pulcino e mi dovrò con tutta probabilità sciroppare le tirate di Sherlock sul fatto che dovrei portarmi dietro un ombrello con questo orrido tempo irlandese. Che non è che sia tanto diverso da quello di Londra, c’è solo meno schifezza nell’aria e punto.

No, qui la situazione si fa brutta. Sono vicina al centro, vado a rifugiarmi da qualche parte ad aspettare che spiova.
Oh, bene. Tig Neachtain, un pub. Entriamo qui.

*
Mi sfugge sempre qualcosa.

Sapevo che O’Leary era dedito ai fumetti giapponesi, alle riviste pornografiche e alla pesca. Ma non sapevo fosse un valente violinista. Il suo repertorio è apparentemente rozzo – queste nostalgiche canzoni irlandesi, adatte solamente a un pub – che è esattamente dove mi trovo. Però con l’archetto se la cava bene e ha una certa abilità tecnica. Ma quello che mi interessa è quella borsa di cuoio – evidentemente molto utilizzata, a giudicare dallo stato di usura della stessa – che tiene sotto la sedia e il quale contenuto potrebbe risultare di estrema importanza per le mie ricerche.

Fuori piove a dirotto e il locale non è grandissimo. Non c’è molta gente, visto che siamo di pomeriggio e nemmeno tanto tardi.

Ma… che diavolo ci fa qui Molly?

*

Oh, che bello… che carino questo posto, tutto arredato di legno scuro. Dà proprio l’impressione di calore. E stanno suonando. Mi sembra di tornare indietro nel tempo, quando la mamma metteva su i suoi vecchi dischi.

“Cosa vuoi, cocca?”
Il proprietario al bancone. Fa impressione, ha una barbaccia nera e uno sguardo truce.
“Beh… buona… buonasera.”
“Ti sei presa proprio una bella lavata”, osserva laconico.
“Eh, sì… fuor… fuori piove”. Meraviglioso, ho ricominciato a balbettare, mentre l’uomo si mette ad armeggiare. Dopo pochi istanti mi caccia in mano un bicchiere. “Bevi!”
“Ma cosa…”
“Ho detto che devi bere!”
“Sì… sì, certo, certo.” Butto giù una bella sorsata di quello che mi sembrava tè, ma scopro a mie spese che è whiskey caldo. Comincio a tossire come una matta, mentre l’uomo sghignazza.
Quando finisco lo show, l’uomo si informa quasi gentilmente: “Sei ancora viva, cocca?”
“S…sì.”
“Brava, allora vai a sederti e non starmi tra i piedi.”
“Sedermi?”
“Sì, sederti. Sei sorda, per caso? Vicino ai musicisti. Ci sono delle sedie. Sulla sedia appoggi il tuo bel sederino. Capito, cocca?”
“Ma io…”
“Capito, cocca?”
“Va bene, va bene. Non è il caso di prendersela così…” Mi lascio cadere su una poltroncina imbottita. E’ comoda, e in mano tengo il bicchiere di hot whiskey.

una bella musica, fuori piove forte e non c’è nessuno ad aspettarmi. Magari Sherlock è pure a casa, ma non si starà di certo chiedendo che fine abbia fatto. Quindi, tanto vale che rimanga qui a rilassarmi un po’, a scaldarmi e a godermi la musica. I musicisti sono bravi. Le canzoni non le conosco, ma mi sono familiari. Mia mamma cantava sempre quando stirava o quando lavava i piatti. Diceva che la musica le faceva compagnia quando faceva quei lavori che proprio non le piacevano. E io l’ascoltavo mentre facevo i compiti al tavolo della cucina.

Il violinista è un bell’uomo. Ha i capelli rossi e gli occhi azzurri. Dovrebbe avere più o meno la mia età. Suona bene e ha un sorriso contagioso.

Oh, ma dai… hanno attaccato “Crazy Man Michael”. Questa la so, mia mamma la cantava sempre a mio papà per prenderlo in giro, visto che lui si chiamava proprio così. Ha un testo incredibilmente lungo…

E’ tantissimo che non la canto, è tantissimo che non canto in genere. Canta che ti passa, si dice?

Le parole affiorano alle mie labbra, senza fatica e a un certo punto mi accorgo che sono l’unica rimasta a sapere tutto il testo... e a cantare. Mi fermo, ma a quel punto il violinista coi capelli rossi si alza, mi si siede vicino e con un cenno della testa e un sorriso mi invita a continuare. Mi vergogno… ma sarebbe una figuraccia peggiore non farlo. Il violinista continua a sorridermi, incoraggiante, mentre le parole della canzone continuano a scorrere, fluide e melodiose.

*

Non sapevo che Molly sapesse cantare. Non ha una voce di quelle indimenticabili, ma è intonata ed è gradevole da sentire. E la canzone è quasi accettabile. Che sta facendo, O’Leary? Si è seduto vicino a Molly e la sta guardando in un modo poco appropriato. E le sta sorridendo. Non va bene, direbbe John. O’Leary è dedito ai porno e Molly Hooper ha una casistica poco felice in fatto di appuntamenti. Pessima idea che quei due si frequentino, le probabilità che Molly Hooper esca da questa storia con il cuore spezzato sono drammaticamente alte. Inoltre, un ispettore di polizia, soprattutto di animo turbolento come pare essere O’Leary, è statisticamente un pessimo compagno per una donna, soprattutto una donna come Molly Hooper, la quale ha bisogno di ben altro.

Il mio sguardo si alterna tra la borsa di cuoio e Molly Hooper.
La canzone è finita, O’Leary si china e sussurrare qualcosa nell’orecchio di Molly e all’improvviso mi assale l’impulso di infilargli l’archetto del violino in un orifizio qualsiasi – sebbene già avrei identificato quello più adatto. Non sta bene dare confidenza agli estranei, Molly Hooper!
Ora si alzano entrambi e lui le ha messo un braccio intorno alle spalle e fanno per dirigersi verso il bar. Evidentemente, lui le ha offerto da bere. La vuole fare ubriacare per approfittarsi di lei.

Sarebbe il momento perfetto per prendere la borsa. Mi alzo anche io, pronto ad avvicinarmi con due falcate e allungare il braccio.

E invece...

Al diavolo, vado a recuperare Molly!

*

Che simpatico, questo violinista. E’ molto cordiale! Ora andiamo a prendere qualcosa da bere e a fare due chiacchiere.

… chi è quest’uomo coi capelli grigi? Si è infilato tra me e il violinista e lo prende sottobraccio.
“Ah, che violinista speciale! Una performance eccezionale! Ti devo assolutamente offrire da bere!” e mi dà uno spintone facendomi barcollare. Ma come si permette?
Faccio per dirgli due parole e incontro i suoi occhi.

Sono blu ghiaccio e gelidi come il Polo Nord.

Rimango inchiodata dove sono.

Sherlock.

Ok, ho capito. Ho sconfinato e mi trovo esattamente dove non dovrei essere.
Me ne vado subito.

*

“Non arrivo a capire che bisogno c’era di quella performance da Eurofestival.”

Ma cosa mi sta dicendo? Oltre al fatto che è strano che Sherlock sappia cosa sia l’Eurofestival.

“Te l’ho detto, sono capitata lì per caso perché fuori pioveva che Dio la mandava, il barista mi ha spedito a sedermi…”

“ E tu non hai trovato di meglio che metterti in mostra e fare le moine a quel musicista.”

“Non gli ho fatto le moine! E’ stato tuo fratello a farmi riprogrammare! E’ Tracey Summers quella che si è messa a cantare quella canzone da sola! Molly Hooper si sarebbe nascosta sotto alla sedia, potendo avrebbe scavato un buco e ci si sarebbe nascosta dentro!”

Mi fissa per un attimo, poi cambia discorso: “Va bene, te lo concedo. Ma è necessario che tu presti attenzione alle persone con le quali ti accompagni. Quell’uomo potrebbe essere un pericoloso serial killer e io non posso permettermi di distogliermi dal mio compito per venire a salvarti.”

Abbasso la testa. Ha ragione, cosa posso dire? La sua logica è schiacciante come al solito. “E’ vero, scusami.”

Il suo sguardo sembra essere ora meno freddo, distante. E Sherlock mi spiazza ancora, saltando di palo in frasca: “Mi sfugge come tu possa conoscere quel tipo di canzone. Di solito ascolti disco o revival.”

“E’ per mio padre. Si chiamava Michael e mia mamma gliela cantava sempre per prenderlo in giro”.

“Sentimento, quindi.”

“Sì, certamente. Sentimento. Che altro, Sherlock? Senti, io vado a farmi una doccia e vado a letto. Vuoi qualcosa? Una tazza di tè?”

“No. Sto bene. Devo ritirarmi nel mio palazzo mentale. Se non ti spiace, Molly Hooper…”

 “Sì, certo. ‘notte Sherlock”.

*

Rimango al buio, da solo. Sul divano di Molly Hooper.
E non ho nessuna intenzione di andare nel mio palazzo mentale. Non ho davvero voglia di scoprire perché ho lasciato perdere la borsa per andare a togliere Molly dalle grinfie di O’Leary e perché le ho detto che lui è un serial killer.

*

Buonasera, buonasera.

Vi è piaciuto? I nuovi scenari?

Ecco, per un bel po’ di ragioni questo è il capitolo clou di “Un’altra Molly” perché parecchie cose si svilupperanno da quello che avete appena letto.
La canzone che Molly canta al Tig Neachtain – che è un posto che esiste veramente  - è “Crazy Man Michael” dei Fairport Convention e la potete ascoltare qui.

 http://www.youtube.com/watch?v=_iCpevmITMc

Molly non ha la voce angelica di Sandy Denny, però. Ma mi sembrava particolarmente adatta alla situazione ed ha realmente un testo che non finisce più.
A presto!


 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Il Dio della Morte ***


Mi trovo in una posizione alquanto scomoda. A parte la frangia troppo lunga che mi fa un solletico terribile al naso – il mio travestimento odierno fa il verso al look dei Beatles prima maniera - è il fatto di essere legato con le braccia dietro la schiena in una posizione innaturale che mi causa un importante disagio.
Tutto questo ad opera del mio caro e prezioso informatore del bar nascosto in una vietta del centro.
“Spiacente, Englishman. Nulla di personale.”
“Certo che no”, sbuffo sogghignando. Non temo per la mia incolumità, se questo individuo avesse voluto eliminarmi, lo avrebbe già fatto.
“Bene, sei meno antipatico di quello che pensavo. Sali in macchina che ho da presentarti un amico.”
Ovviamente ho capito a quale amico si riferisce. Non penso che il viaggio in auto durerà molto. Lo spero, almeno, per le mie mucose nasali che con questo puzzo potrebbero rovinarsi irrimediabilmente e nel mio lavoro un buon olfatto è fondamentale. C’è di buono che le distanze da queste parti non sono lunghe. E infatti, qualche minuto dopo la vettura si ferma appena fuori città, davanti a una casa bianca uguale a milioni di altre case bianche.
Il mio autista mi prende per un braccio e abbastanza gentilmente mi fa entrare e mi fa sedere al tavolo della cucina.
Dall’altra parte c’è O’Leary che mi guarda sornione.
Ci fissiamo senza parlare per qualche minuto e  alla fine si alza; girando attorno al tavolo si mette alle mie spalle e mi sussurra all’orecchio, in tono beffardo. “Molto piacere, Englishman.”
“Non posso dire altrettanto, O’Leary.”
Ritorna al suo posto, ma prima di accomodarsi, sposta la sedia in modo che lo schienale si trovi dalla parte opposta.
Si siede e incrocia le braccia sullo schienale. Sorride con candore e mi risponde comprensivo. “Lo immagino”, e si schiarisce la gola. “Senti, Englishman. A me non interessa sapere chi sei. Se vai in giro travestito in quaranta modi diversi, sono solo affari tuoi. Però è da qualche giorno che mi stai attorno. Non ti interessa farmi fuori perché altrimenti lo avresti già fatto e non mi sembri un tipo violento. Ma vuoi qualcosa da me. Non ti puoi permettere di farti riconoscere, da qui il fatto che ti travesti. Ah, ecco, stavo per dimenticarmi! Ti saluta tanto mia zia Deirdre Jean. Si è divertita un sacco alla tua battuta dell’ispettore delle tasse e vorrebbe sapere dove hai trovato quella parrucca da rasta, la vorrebbe regalare a mio cugino Bertie.”
“Era tua zia, allora?”
“Beh, sì. Non è geniale? Lo sai che faccio un lavoro pericoloso e che c’è un sacco di gente che vorrebbe farmi la pelle, quindi la mia famiglia tiene d’occhio la gente che passa dalle mie parti. La mia cara zietta fa il turno di guardia del pomeriggio. Per gli altri ci sono le mie sorelle. Sono in gamba, sai? Soprattutto Dara. Il suo nome vuol dire “quercia” e la sua testa è ancora più dura. E anche Aisling – in irlandese sogno – più che un sogno, un incubo per i malviventi”.
“Notevole”, borbotto fra i denti. “Nel caso ti dovesse andare male nei Gardai, potresti avere un futuro nella pubblicità… oppure come violinista.”
Annuisce, convinto. “Me la cavo abbastanza bene, sì. Ma torniamo a noi.” Mi fissa per un po’, poi in una sola tirata. “Hai gli occhi azzurri. Quando la zia ti ha incontrato avevi le lenti castane, ma al pub non le portavi, il colore dei tuoi occhi è troppo particolare per essere quello di una lente, anche a giudicare dal colore della tua carnagione. Le tue mani sono ben tenute e curate, ma con segni e cicatrici. Armi da taglio e agenti chimici. Non sei un poliziotto e non sei un ricercatore, forse una via di mezzo di entrambe le cose. Potresti essere un consulente investigativo, ma è poco probabile, visto che il lavoro l’ho inventato io”.
Mi mordo la lingua perché non posso assolutamente far saltare la mia copertura e fargli capire – ciarlatano che non è altro - che l’unico consulente investigativo al mondo sono io e che io solo sono stato ad inventare questo lavoro. Soffoco l’impulso di provocargli del male fisico mentre penso che non mi piace essere dedotto. Ciononostante, continuo a tacere e lo ascolto nei suoi deliri.
“Sempre a giudicare dalle tue mani, dovresti essere un benestante. Non hai veramente bisogno di lavorare, forse quello che fai è per te un hobby. Un hobby al quale tieni parecchio, visto l’impegno che ci stai mettendo, ma pur sempre un hobby.”
Un sospiro da parte sua e riprende la sua tirata. “Il fatto che tu ti sia travestito vuol dire che quello che stai cercando è pericoloso. E qui entro in gioco io; la cosa più pericolosa della quale mi sto occupando è lo smantellamento della rete criminale che è stata creata da Jim Moriarty. Sì, credo che per qualche ragione tu stia cercando di fare la stessa cosa. Tu vuoi sapere chi è affiliato a questa rete. Dimmi, Englishman, che ti ha fatto Moriarty? Sei in segreto, è sicuramente una cosa personale.”
“E’ una cosa personale, sì.”
“Cosa ti ha combinato quel pazzo, che possa bruciare all’inferno?”
“Mi ha bruciato il cuore.” Rispondo piano.
Ora O’Leary sembra a disagio. “Beh, cavolo. Mi spiace. Sul serio.”
Si alza e si versa un bicchiere d’acqua da una brocca appoggiata sul lavandino. Poi torna a sedersi.
“Tu non leggi i manga, no?”
“Ho di meglio da fare”, rispondo gelido.
O’Leary scuote la testa. “Peccato. A volte possono ispirare ottime idee. Beh, non importa. Ci perdi tu. Però permettimi di parlarti di uno in particolare. Mai sentito parlare di Death Note?”
Sorrido beffardo. “Temo di dover confessare la mia ignoranza in maniera.”
“Accidenti, hai per caso inghiottito un vocabolario? Parli come un libro stampato! Vabbeh, allora, ti spiego velocemente. Un dio della morte si stava annoiando a morte – scusa il gioco di parole - quindi per fare qualcosa di diverso ha buttato un quaderno della morte sulla terra. Questo quaderno è stato trovato da uno stronzetto di studente che aveva più arie di quelle che ti dai tu. Il quaderno della morte è speciale perché se tu ci scrivi sopra il nome, la data e la causa del decesso di quella persona, tutto si avvera e il poveraccio passa a  miglior vita esattamente nel modo descritto. Questo studente ha deciso di ammazzare dei criminali e la brutta gente che si meritava di morire.”
Taccio, ma penso di cominciare a capire dove voglia andare a parare.
“Se non ti piacciono i manga, posso usare i telefilm. Dexter, mai sentito? No, certo che non lo hai mai sentito.” Sembra sinceramente dispiaciuto. “Questo Dexter è un ematologo e lavora alla polizia di Miami. Solo che in realtà è un serial killer. Suo padre adottivo, poliziotto anche lui, se ne era accorto di questa sua inclinazione e lo ha educato, indirizzando i suoi impulsi omicidi sui malviventi. Interessante, sai?”
“Quindi, tu vorresti eliminare quelli che fanno parte della rete di Moriarty?”
Ancora quell’aria affranta. “Magari potessi… Non posso, sono troppo esposto, troppo conosciuto e chi di dovere lo sa bene che sto cercando di rompergli le uova nel paniere. Lo farai tu, Englishman.” Conclude con un largo sorriso.
“Tu vuoi che sia il tuo cecchino.”
“Oh, ma che brutta parola… cecchino… Diciamo il mio socio!”
“E come fai a sapere che ti puoi fidare di me?”
“Non sbaglio spesso nel giudicare le persone, ma è vero, non so se mi posso fidare di un Englishman”
Sbuffo spazientito.
“Hai poco da sbuffare, ce ne avete combinate talmente tante.” Mi ammonisce puntandomi addosso la penna che sta cincischiando.
“Cominciamo da Cromwell oppure possiamo far partire le recriminazioni dai tempi più recenti dei Black and Tans?”
“Anche, si potrebbe. Sarebbero troppe in ogni caso!”
“… e allora? Cosa vuoi fare?”
O’Leary piega la testa da un lato e mi guarda con aria meditabonda. “Niente di complicato. Almeno per me. La mia lista è organizzata in modo particolare. Parte dal pesciolino più piccolo che non conta niente, fino ad arrivare al più efferato criminale.”
“… e quindi mi darai un nome alla volta, un nome solo. Il successivo me lo darai quando avrò fatto fuori il precedente.”
Annuisce senza parlare. “Bene, direi che hai capito, sei abbastanza intelligente. Allora, soci?”
“Non esageriamo, O’Leary.” Odio che si dica di me che sono “abbastanza intelligente”!
Sogghigna, la faccia da schiaffi. “Allora siamo d’accordo. Ora scusami, devo andare al lavoro e ti devo lasciare. Il mio amico qui che ti ha portato, ti riaccompagnerà in centro. Poi ti darà il primo nome. Buon lavoro.”
“Vedi di star zitto, O’Leary.” Lo guardo cupo. E non mi piace per niente quello che sto per essere costretto a fare.
Un detective è un detective, non un killer. Ma lo sapevo fin dall’inizio che sarebbe finita così. Faccio solo meno fatica a risalire ai nomi delle mie future vittime.
*
“Dottoressa Summers? Ecco, la signora Mac Leod è pronta per l’esame della polizia.”
“Grazie, Dottoressa Cranston. Quando pensa che arrivi il…”
Le porte dell’obitorio si spalancano rumorosamente e in un gran svolazzare di stoffa, mi ritrovo davanti il violinista. Quel violinista.
Che sbatte i tacchi, abbozza un inchino e mi fa un sorriso splendente. “Oh, ma guarda, è un piacere rivedere la nostra voce d’angelo.”
Io non trovo di meglio che arrossire furiosamente mentre il violinista legge il nome sul mio badge, si presenta e mi fa il baciamano. “Fintan O’Leary, al suo servizio dottoressa Summers. Un vero piacere.” E mi sento come se mi stessero passando ai raggi X. “Ma forse posso chiamarla Tracey?”. Senza attendere la mia risposta, si gira di scatto, individua Mellie che è forse più rossa di me. “Oh, Mellie? Un caffè. Nero con due zollette di zucchero.” Mellie rimane impietrita sul posto a fissare alternativamente me e colui che ho scoperto essere il detective O’Leary.
“Dottoressa? Tracey? Prima che vada a esaminare il cadavere delle signora Mac Leod, vorrei invitarla a bere qualcosa con me, stasera o quando è libera. Potremmo fare un duetto, che ne dice?” Mi fa l’occhiolino e senza aspettare risposta, gira sui tacchi e ci lascia sole. Mellie ha gli occhi gonfi di pianto e si fionda a nascondersi in bagno.
Guardo Cora. “Ma che sta succedendo?”
Cora sbuffa. “Ha appena conosciuto Fin. L’uomo del quale Mellie è innamorata da anni e che la tratta come una pezza da piedi. Contenta?”
No che non sono contenta. Mi sono rivista al 100% nel modo di fare di Mellie. Ero davvero tanto patetica? Sì, certo che lo ero. La risposta è sì, ero patetica e sono patetica.
Il problema è che questo ispettore violinista è anche un gran bell’uomo, ho tanto bisogno di togliermi Sherlock dalla testa e dal cuore, ma lo sguardo di Mellie potrebbe essere benissimo il mio.
Merda.
*
Buongiorno! Solitamente non aggiorno la mattina, ma domani parto per l’India e stasera avrò da fare.
Mi spiace che lo scorso capitolo sia piaciuto a pochi, speravo di sì.
Come gentilmente suggerito da Irregolare, se volete avere un’immagine di O’Leary pensate a Michael Fassbender. Prima pensavo a Domhall Gleeson (l’attore che impersona Bill Weasley in Harry Potter), ma mi sembrava troppo giovane. Fassbender è stata la quadra. Per cui, grazie a Irregolare.
La citazione “hai inghiottito un vocabolario” è un omaggio a Downton Abbey.
Come dicevo qui sopra, domani mattina prenderò l’aereo per New Delhi e rientrerò il 5 gennaio. Passate delle belle feste.

Nisi

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Avviso ***


Questa storia non verrà più aggiornata. Ho visto che la leggono in pochi e interessa ancora meno, quindi ho deciso di sospenderne la pubblicazione e a breve verrà cancellata. La fanfiction verrà finita perché nonostante tutto penso sia carina e manderò il file a chi mi ha lasciato due parole, se lo vorrà. Mi sembra il minimo nei confronti di chi ha buttato del tempo per darmi le sue impressioni.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Proserpina ***


Per
Finnick
Asteria Morgana
Yllel
Irregolare di Baker Street
Trillian87
Martiachan
Grazie!
 
“Non è possibile, è il settimo cadavere in tre giorni!”. E’ Cora a fare questa esclamazione, sbuffando esasperata. Ha ragione, qui all’obitorio della Clinica Universitaria della Città di Galway stiamo avendo quello che si chiama un picco di lavoro. A Londra ero abituata – gli straordinari ad oltranza mi sembrano un ricordo così lontano - ma in questo piccolo angolo di Irlanda, tutto ciò è abbastanza strano. In ogni caso, sono tre giorni che rientro a casa il tempo necessario per farmi la doccia e crollare sul letto per svegliarmi quattro o cinque ore più tardi al suono della sveglia perché devo tornare all’obitorio. Sto vivendo a snack bio e il mio stomaco reclama cibo spazzatura implorando pietà.
Quello  che è ancora più strano è che tutte sono morti violente. Vediamo, uno strangolamento, due sgozzamenti, uno finito a colpi di arma da fuoco, uno avvelenato  con la digitale, uno annegato e dato in pasto ai salmoni del Corrib. Un’occhiata al “nuovo arrivato” e stabilisco che è stato intossicato con l’ossido di carbonio. Se è come tutti gli altri, anche questo cadavere non porta addosso né documenti, né altri segni che ne possano aiutare l’identificazione. Gli altri sono stati identificati senza difficoltà da O’Leary e apparentemente facevano tutti parti della delinquenza locale.
Si aprono ancora le porte e Mellie annuncia pigolando: “Ne è arrivato un altro!”
Il morto deve essere di corporatura piuttosto robusta visto che Mellie ha serie difficoltà a spingere il lettino a rotelle sul quale il nostro paziente è sdraiato. Faccio per aiutarla, ma Mellie si irrigidisce istantaneamente, abbassa gli occhi e mormora: “Ce la faccio da sola”, salvo poi riprendere a spingere con tanta fatica. Sospiro perché so benissimo perché Mellie faccia così, conosco perfettamente il motivo dietro al suo comportamento,  anzi, il nome: Fintan O’Leary – per gli amici e i fan, Fin (chiedo scusa per il bisticcio di parole).
Le volte che è venuto qui O’Leary mi ha girellato intorno, ignorando completamente la povera Mellie, tranne che per trasmetterle il suo ordine per il caffè, come fosse una cameriera e non una patologa certificata.
Nero, due zollette di zucchero, che il Diavolo in persona se lo porti, lui e il suo dannato caffè.
Lo ammetto, è un bell’uomo e sono molto tentata da lui. E’ passato troppo tempo da quando avuto un compagno e una relazione minimamente soddisfacente sul piano fisico. Normalmente questo non costituisce un problema, so gestire la mia solitudine in un modo o nell’altro, ma in questo caso... credo che tutto questo abbia molto a che fare con quello che ho passato in questi ultimi mesi. Insomma, Sherlock, il mio addestramento, il fatto di essere in un posto nuovo, con gente nuova, lavoro nuovo, ritrovarmi in panni che non sono proprio i miei. Questo genere di cose, ecco, solo che non mi piace il suo non voler vedere Mellie. E’ ironico, lei ha esattamente tutte le qualità che avrei voluto che Sherlock notasse in me: oltre ad essere una patologa in gamba, è carina, molto gentile anche se paurosamente timida.
Anche se non mi sta indifferente, faccio l’indifferente. “Ispettore, se vuole dare un’occhiata agli ultimi due”.
Mi scocca un sorriso smagliante un po’ malandrino che mi ricorda troppo, troppo quello di qualcun altro. Cerco di fare finta di niente. “Quando vuole…”
Se si è accorto della mia apparente freddezza, non sembra proprio. “Va bene, vediamo subito”. Tira indietro il sudario che copre il volto del poveretto, lo studia per un momento e poi sbotta con un: “Ma guarda! Ronan O’Shaughnessy! Erano secoli che non lo vedevo, mi chiedevo dove fosse finito e ora lo so. Vabbeh, dai. Che la terra ti sia lieve, eccetera eccetera.”
Io, Cora e Mellie lo guardiamo con occhi sbarrati. Lui ci fissa sorpreso: “Beh? Lo conoscevo. Un pesce piccolo, di nessuna importanza, proprio come gli altri. E’ evidente che è in atto un massiccio regolamento dei conti, qui nel Connacht. Tranquille, signore, era solo un casinista, nessuno sentirà la sua mancanza. E sua madre è troppo ubriaca per rendersi conto della dipartita del suo caro figlioletto”.
Sono allibita, non posso fare a meno che esclamare: “E’ sempre un essere umano!”
Mi fa un sorriso che non so se classificare come quello di un pazzo o di un esaltato. Mi prende una mano tra le sue e mi fa “pat pat”, come per volermi blandire. “Cara, cara dottoressa Summers! Qui in Irlanda siamo abituati a perdere uomini, con quello che ci avete combinato voi inglesi per secoli…”
Mi ritratto bruscamente,  cercando di ignorare le farfalle allo stomaco mentre Cora si pianta una mano sul viso e scrolla vigorosamente il capo. “Ossignore, ci risiamo! Ancora con le sue menate repubblicane del popolo oppresso! Fra un po’ attacca con la storia della peste delle patate!”
Mi sembra di essere finita al nido di infanzia con questi due stanno cominciando un battibecco idiota. Sarei la responsabile, qui, e mi tocca intervenire. Tre sospiri profondi e:  “Va bene, allora se non c’è altro, Ispettore, la lasciamo al suo lavoro.”
O’Leary mi scocca un altro sorriso che questa volta trasuda fascino e testosterone. “Oh, ma di roba ce n’è tanta, mia cara dottoressa. La posso chiamare Tracey?” una mia occhiataccia e: “No, a quanto pare non la posso chiamare Tracey. Si tenga libera una sera che la porto fuori e le faccio vedere i fuochi d’artificio.”
Mellie ha la faccia di una alla quale hanno raso al suolo la casa, rapito la famiglia, appeso il gatto allo stendibiancheria e rubato i soldi, ma ce la fa a rimanere inchiodata dove sta e a non scappare a nascondersi nel bagno. La ammiro e le faccio un sorriso di incoraggiamento, solo che lei distoglie lo sguardo per non farmi vedere le lacrime che le hanno riempito gli occhi. Mellie cara, sai quante volte è successo a me e avevo a che fare con un genio idiota molto simile, anche se meno farfallone e meno impegnato politicamente? Tra le altre cose, l’ultimo fuoco che ho visto era  quello di Sant’Antonio su un paziente ottuagenario. Che la terra sia lieve pure per te, a proposito.
Un ultimo sorriso affascinante e O’Leary se ne va. Rimaniamo tutte e tre in silenzio, in piedi davanti alla porta. “Coraggio, ragazze, vediamo di finire in fretta. Stiamo tutte stanche e abbiamo bisogno di riposare per davvero.” Cora borbotta qualcosa, Mellie non dice una parola. I cadaveri sono decisamente più amichevoli. Certo che tra una innamorata dell’ispettore, un’altra che lo detesta e un’altra che non ha ancora capito bene, le cose non sono facili.
Non mi quadra il ragionamento di O’Leary. Mi va bene che possa essere un regolamento di conti in massa, ma mi ricorda tanto la mia amica Becky. Anche lei studiava patologia assieme a me, solo che l’ultima volta che l’ho sentita era sepolta viva in un ashram nel Kerala. Becky adorava giocare all’assassino, sapete quel gioco in cui bisogna ammazzare i personaggi facendo loro l’occhiolino? Lei non aveva una pistola, aveva una mitragliatrice perché il suo  occhiolino era il più veloce che avessi mai visto. Blink, blink, blink e dopo pochi secondi erano morti tutti, impressionante. Ho lavorato troppo con Sherlock per non cogliere delle incongruenze. Per esempio, i due sgozzati. Apparentemente sono stati uccisi da due persone diverse, ma non ne sono convita: quello che è stato ucciso da un mancino – taglio da destra verso sinistra – è netto e preciso. Quasi chirurgico e l’assassino sapeva quel che faceva, mentre quello ammazzato da un destrimano – taglio da sinistra verso destra – è incerto e slabbrato. Mi sembra quasi che il colpevole si sia sforzato di far apparire che questi due omicidi siano da ricondursi a due assassini diversi, però  secondo me si tratta della stessa persona che sta cercando di far fuori più gente possibile nel più breve tempo possibile. Da qui l’analogia con Becky. Ma perché?
Finiamo il lavoro in un silenzio pesante, poi inforco la bici e torno a casa.
Di solito quando torno trovo Sherlock parcheggiato sul mio divano, ma sono giorni che non lo vedo.
La luce è spenta, la cucina è ordinata in maniera preoccupante, non ci sono in giro le solite carabattole che il mio compagno di sventura ha l’abitudine di distribuire in maniera random chiamandole pomposamente “esperimenti”. Per quanto irritante Sherlock e le sue manie possano essere, ormai mi sono abituata a rincasare e a trovare qualcuno che mi aspetta o una cosa del genere. E’ confortante, non mi succedeva da tanto tempo. Da quando è morto papà, intendo.
Per la seconda volta, scelgo di avventurarmi in casa sua. Non che non possa farlo, ma ho sempre un certo timore di andare da lui. Per essere un uomo che invade gli spazi altrui con nonchalance, è molto geloso della sua privacy, delle sue cose e nessuno vuole che gliele tocchi. Mi ricordo che una volta John mi ha detto di una sfuriata alla povera signora Hudson perché aveva osato fare la polvere, quasi come se anche lo sporco di Baker Street fosse anch’esso di sua proprietà.
In punta di piedi entro in casa sua, è tutto buio, ma è una notte chiara e la luce della luna filtra attraverso il vetro. Sherlock è seduto sul divano, la testa tra le mani. Indossa la sua solita vestaglia e credo, non sono sicura, che sotto abbia il pigiama o la tuta. E’ ripiegato su se stesso ed è totalmente immobile. Da quanto tempo è lì, in quella posizione?
“Sh… Sherlock?”
Nessuna risposta.
Mi preoccupa, perché fa così? Non è da lui. Allungo un braccio a sfiorargli il polso, ma non faccio in tempo a toccarlo che lui pronuncia solo una sillaba: “No!”
E’ ancora immobile, non si è mosso, non ha sollevato la testa, solo quelle due lettere: NO.
Non so cosa fare.  Riprovo e appoggio la mano sulla sua spalla che è terribilmente contratta in un fascio di nervi.
“Ti ho detto di non toccarmi, Molly Hooper!” sibila con un tono che non gli ho mai sentito usare. Rabbia, dolore, paura e altre cose che non riesco a identificare. Con uno schiaffo scosta la mia mano, quasi fosse un insetto molesto.
Indietreggio, sono annichilita da questo Sherlock pieno di violenza repressa che non conosco e che mi fa paura.
Quasi corro verso la porta, sia per andarmene il più velocemente possibile, che per evitare di scoppiare a piangere davanti a lui, ma la sua voce mi ferma. “Aspetta!”
Mi giro e attendo che dica qualcosa, che faccia qualcosa.
Solleva il viso e capisco perché aveva il capo chinato: è sconvolto, ha gli occhi iniettati di sangue e la paura che avevo percepito nelle sue parole è così chiara, così evidente sul suo volto tanto bello.
Allunga un braccio verso di me; esitante, mi siedo sul divano accanto a lui, e aspetto.
“Hai mai fatto qualcosa che odiavi ma che era necessario fare, Molly Hooper?”
Quelle parole mi levano il velo davanti agli occhi. E’ stato Sherlock a far fuori tutta quella gente, come ho potuto non arrivarci prima? Quei morti sono, erano tutti scagnozzi di Moriarty!
Sherlock non mi guarda, forse non ne ha il coraggio.
“Certo. Quando ti ho fatto morire.”
“Era necessario, Molly Hooper.”
“Lo so, ma questo non vuol dire che mi sia piaciuto.” Esito, non so se è giusto quello che sto per dire, ma al diavolo!  “Come quello che stai facendo tu, Sherlock. Tutti quei morti sono opera tua, sono membri della rete di Moriarty e non è possibile fermarli, se non uccidendoli. E lo stai facendo il più in fretta possibile, perché ti vuoi liberare di questo macigno prima che puoi.”
Trasale, forse perché non si aspettava che capissi quello che ho capito, ma poi non fa più niente. Rimaniamo in silenzio per un tempo che non so quantificare, io seduta rigidamente su un morbido divano e Sherlock accanto a me, ancora con la testa fra le mani. Quasi non me ne accorgo quando lui, con un movimento impacciato mi prende tra le braccia e nasconde il viso sulla mia spalla. Non è l’abbraccio di un amante, questo. E nemmeno quello di un figlio a sua madre o di un fratello a sua sorella e neanche quello di un amico. Mi sembra quasi di essere un’ancora che gli impedisce di affondare, la stampella che non lo fa crollare.
“Solo un momento, Molly Hooper”, dice forse più a se stesso che a me, quasi a giustificare il suo attimo di debolezza.
“Va bene, solo un momento, Sherlock.” Mormoro a mia volta dopo avergli circondato le spalle con le mie braccia.
E non importa niente se quel momento è durato tutta la notte.
  Doppio sangue


E’ in ritardo.
Stinkin’ Ben non si è presentato all’appuntamento. Voglio fare in fretta e, come dice Molly, voglio togliermi questa spada di Damocle al più presto possibile. Tutto ciò è molto strano, quell’uomo ha una puntualità svizzera e quando non è riuscito a presentarsi, ha sempre mandato qualcuno di fidato al posto suo.
E’ molto strano, sì.
E’ pomeriggio e il centro è pieno di gente. Come al solito, avevamo appuntamento vicino alla statua di Padraig O Conaire in Eyre Square, ma qui non si vede nessuno. Ancora un quarto d’ora e me ne vado, poi cercherò di scoprire cosa diavolo sia successo.
Cinque minuti.
Otto.
Dodici.
Quattordici.
Sto per andarmene, quando il moccioso che ho inseguito la prima volta mi si para davanti. Non dice una parola, ma ha la faccia sconvolta. Mi fa un cenno impercettibile col capo e si incammina verso il mare. Lo seguo a debita distanza, facendo l’indifferente e con le mani sprofondate nelle tasche del giubbotto – quanto mi manca il mio Belstaff. Usciti dal centro ci dirigiamo verso il quartiere di Claddagh, una piccola lingua di terra che si allunga verso l’oceano. In una stradina nascosta, trovo Stinkin’ Ben. O meglio, il cadavere di Stinkin’ Ben. Ha una ferita profonda all’addome, di quelle che non lasciano scampo, ma che danno abbastanza tempo per sentire un dolore d’inferno, pensare a tutti i peccati commessi su questa terra e a tutte le persone che val la pena di ricordare in un momento simile. Come è prevedibile, i Gardai non sono ancora arrivati.
Povero Stinkin’ Ben, l’odore del sangue e di morte sovrasta persino quello del suo corpo non lavato.
Non è che non me lo fossi aspettato, so bene che quello che sto facendo comporta dei rischi, ma non così presto. La rete di Moriarty è evidentemente più organizzata e complessa di quanto mi aspettassi.
Per Ben non posso più fare niente, ma è evidente che io e O’Leary siamo in pericolo. Quindi devo muovermi e in fretta. Devo trovarlo e avvisarlo al più presto.
*
Sono immersa fino ai gomiti nella cavità toracica dell’ennesimo morto ammazzato, la scheda dice che il suo nome è Feargal Mulligan. Quanto ci scommettete che fra un po’ arriverà O’Leary come un falco a vedere cosa è successo?
“Dottoressa Summers!”

“Dottoressa Summers!”
Oh, già. Stanno chiamando me. A volte, quando sono così presa col lavoro, mi dimentico anche come mi chiamo, figuriamoci il mio nuovo nome.
Sta chiamando me, Fintan O’Leary. “Ah, buongiorno, sto lavorando sul signor Mulligan, se vuol dare un’occh…” rispondo senza nemmeno alzare gli occhi.
“Si frigga pure Mulligan! Tanto è morto, qualche minuto in più non fa differenza.”
Finalmente alzo lo sguardo e mi accorgo che O’Leary mi sta fissando in modo molto strano. “Ho bisogno di parlarle. Urgentemente. Ma non qui, venga!”
Sono qui da sola con Cora, grazie al cielo Mellie se ne è andata a casa, visto che il suo turno è finito da un pezzo. Guardo la ragazza che nel frattempo mi si è affiancata che a sua volta fissa O’Leary con uno sguardo ostile.
A giudicare dalla veemenza, deve essere successo qualcosa di grave. Quindi mi giro verso Cora la quale non mi lascia nemmeno aprire bocca e mi fa un cenno come per dire: “Vai… e portatelo via, possibilmente lontano da qui”.
“Va bene, Ispettore, andiamo pure. Devo solo prendere la borsa e l’impermeabile”, rispondo fingendo una sicurezza che non ho e sperando che non mi porti lontano visto che tanto per cambiare, le scarpe che Anthea mi ha comprato mi stanno facendo vedere le stelle (e no, Ispettore, non grazie a te). Lo seguo cercando di camminare il più in fretta possibile e dopo pochi minuti mi porta in un localino appartato.
Luci soffuse, lume di candela, atmosfera ovattata. Musica jazz in sottofondo.
Il locale è pieno da scoppiare, ai tavolini siedono varie coppie. In che posto mi ha portato O’Leary?
Si fa avanti un maitre in smoking che lo saluta cerimoniosamente con un profondo inchino. “Ispettore O’Leary, benvenuto. Il ristorante è al completo, ma per lei c’è sempre posto. Se lei e la sua gentile ospite vogliono seguirmi, vi accompagno al vostro tavolo.”
Lo guardo stupita – queste situazioni le ho già vissute - e lui mi informa laconico: “Ho tirato fuori dai guai la figlia minore del maitre. Da quel momento c’è sempre un tavolo libero per me, in questo ristorante”. E mi prende galantemente per il gomito per guidarmi al nostro posto, lanciandomi un sorriso un po’ lascivo.
Non appena ci accomodiamo al tavolo, esplodo: “Non aveva da dirmi niente di importante, vero? Mi ha portata in questo posto con l’inganno! Come si permette di tratt…”
Mi interrompo perché vedo l’Ispettore che si china su di me e anche un’imbranata come me capisce ancora meglio le sue intenzioni.
*
Cosa sta facendo quell’idiota irlandese con la mia patologa? Sta cercando di…baciarla?
Ancora una volta, mi è sfuggito qualcosa. E che qualcosa! Io… non riesco a sopportare le manifestazioni di affetto, soprattutto in pubblico e ancora di più in un momento simile. Non è professionale!
Io… devo uscire di qui, l’aria è soffocante. Al diavolo O’Leary, quell’uomo se la potrebbe cavare in situazioni ben peggiori, che si arrangi. Impara a comportarsi in maniera più consona e appropriata alla sua posizione.
*
O’Leary mi afferra per il polso; prende un’espressione dura che non gli ho mai visto. Di solito è scanzonato, gigione, un po’ idiota. Ma ora i suoi occhi sono freddi, calcolatori, guardinghi. Quello dell’ispettore impegnato politicamente, dedito al porno e alla pesca è evidentemente un travestimento come un altro.
“Mi dia corda, Dottoressa Summers o come diavolo si chiama. E’ da un po’ che la osservo e oggi quando non mi ha risposto quando l’ho chiamata, ho fatto due più due. E tranquilla, lei non mi interessa, tanto più che il suo “collega” è un tipo che non ama condividere, quindi niente ménage à trois”, mi sussurra all’orecchio.
Io trasalgo, mi ha scoperto nonostante tutti gli sforzi. Ma non ho capito la storia del ménage. Con Sherlock, poi?
O’Leary prosegue implacabile: “La sua copertura e quella del suo amico sono salve, per questo non si deve preoccupare. Non ho intenzione di scoprire chi siate veramente e cosa c’entri lei con quel suo collega Englishman, ma non è un caso che due inglesi arrivino qui a poco tempo l’uno dall’altro e abitino in due case comunicanti.” Alla mia espressione stupita da pesce lesso, O’Leary sbuffa: “ Galway è una piccola città, grazie al cielo è piena di gente che non si fa gli affari suoi, ho degli amici al catasto e le notizie girano veloci.” O’Leary sta strofinando la mia mano contro la sua guancia ispida. “E poi il suo adorabile concerto seguito dalla scenetta di gelosia del suo amico mi hanno taaanto divertito.” Scoppia in una risata cattiva che mi fa venire i brividi.
Gelosia? Quale scenetta di gelosia? Quest’uomo non conosce Sherlock. “So che ha capito benissimo cosa sta succedendo, nonostante il suo collega con gli occhi azzurri non sembra propenso a dire mai un fico secco. Si guardi le spalle, Tracey, e faccia finta di non sapere niente. Faccia attenzione, i suoi sentimenti le si leggono in faccia. Lo prenda come un consiglio da amico.”
Ancora quello sguardo penetrante e determinato che non sono abituata a vedere. Afferra il suo cellulare e fa finta di controllare i messaggi. “Mi regga il gioco, se qualcuno le dovesse chiedere qualcosa, ho ricevuto un messaggio urgente e ho dovuto lasciarla qui da sola; ora me ne vado, ho delle cose da sistemare. Si goda pure la cena, è tutto pagato e questo posto è sicuro. E poi se ne torni a casa, oggi ha lavorato anche troppo”.
All’improvviso, si alza, si esibisce in un baciamano d’altri tempi degno di uno strano Mr. Darcy irlandese e si avvia all’uscita. Non appena prima di infilare la porta, si volta e mi fa l’occhiolino.
“Signora? La sua ordinazione, buon appetito.”
Mi trovo davanti un bel piattone di ostriche. Costano un sacco di soldi e le ho sempre volute assaggiare. Stasera non ho niente da fare, il conto è già stato pagato, quindi… perché no?
* * *
Riesco ad arrivare a casa dopo un paio d’ore. Sono piacevolmente piena, il buon cibo mi fa sempre questo effetto; provo una leggera ebbrezza e le mie ginocchia fanno giacomo-giacomo, grazie a quel vinello bianco, fresco e traditore. Non c’è traccia di Sherlock, qui tutto è come lo avevo lasciato. Vado in bagno a togliermi tutto ‘sto cerone dalla faccia e a prepararmi per la notte. La vestaglia di Sherlock mi tiene bene al caldo e mentre mi spalmo giudiziosamente la crema per le mani, seduta sul letto a gambe incrociate, ripenso a questa strana serata.
O’Leary sbaglia, non ho capito proprio niente di quello che sta succedendo, tranne che Sherlock sta facendo fuori tutta quella gente della rete di J… Moriarty, che O’Leary lo ha beccato e che ci conosciamo.
Non è che i miei pensieri durino a lungo: nonostante la preoccupazione crollo addormentata dopo pochi minuti.
Mi sveglia lo squillo del telefono.
Apro gli occhi a fatica e vedo che fuori è ancora scuro. L’orologio sul comodino segna le tre e quarantadue.
Allungo il braccio e leggo l’ID del chiamante.
Cora? Quella Cora?
“Pronto?”
“Tr… Tracey, v…v…vieni s…subito, è un… un… un’emergenza.” E’ agitata, balbetta ed è passata a darmi del tu senza accorgersene.
“Come un’emergenza? Cos…”
“O’Leary.” Singhiozza.  “L’ho t…trovato qui in obitorio, svenuto in una p…pozza di s…s…s…sangue.”



* * *


Istinto.
Sì, è stato l’istinto ad agire che mi ha portata ad uscire di casa ancora in camicia da notte, vestaglia, ciabatte e cappottino frou frou e a montare a cavallo della mia bicicletta.
E’ stato ancora lo stesso istinto che mi ha fatto pedalare più velocemente di quanto abbia mai pedalato in vita mia, percorrendo la distanza da casa mia alla Clinica Universitaria in metà tempo senza vedere niente, letteralmente, del paesaggio che mi circondava.
Notte buia, a Galway, ma un po’ rischiarata dalle stelle che brillano sul Corrib.
Se non mi trovassi in una disperata lotta contro il tempo, potrei pensare che tutto ciò è molto romantico.
Arrivo senza fiato, butto la bici da un lato dell’edificio e mi precipito all’interno. Le maledette ciabatte mi impediscono i movimenti, quindi me le strappo via e arrivo all’obitorio a piedi nudi, trafelata, col cuore in gola e coperta di sudore nonostante il freddo.
E mi trovo davanti a uno spettacolo quantomeno singolare: CC visibilmente in stato di shock e Mellie che accudisce l’uomo che ama con una cura e una concentrazione da manuale.
“Ragazze!”, esclamo avvicinandomi. CC mi si avvinghia addosso e comincia a piangere disperatamente, mentre Mellie mi lancia uno sguardo diffidente. Poi si rivolge a me, senza guardarmi:  “Ha perso molto sangue… Ho tamponato la ferita e ho fermato l’emorragia. Ho bisogno…” esita e lancia uno sguardo a un povero O’Leary terreo e tuttora svenuto. “Penso di essere in stato di shock anche io”, pigola con la sua vocina. “Puoi suturare tu? Mi tremano le mani e ho sempre ricucito pazienti sempre e solo in rigor mortis”.
La guardo chinarsi sull’Ispettore e la sua espressione mi sembra la stessa della Pietà di Michelangelo che ho visto a Milano tanti anni fa, in gita con la scuola. E’ dolce, Mellie e lo ama sinceramente. Qualsiasi pensiero romantico nei confronti di O’Leary sparisce in un attimo.
“Non ti preoccupare, ci penso io. Mi è capitato di ricucire pazienti vivi e ho una certa pratica.  Mellie, aiutami a vestirmi, CC prepara una sutura di seta montata da 10-0 assieme al portaaghi.”
La ferita è profonda e ci metto del tempo per cercare di fare un lavoro accurato. Un paio di volte O’Leary si è lamentato per il dolore. Ma per il resto, è filato tutto liscio. Ora non ci resta che aspettare che si riprenda.
Mi strappo di dosso il camice insanguinato e mi lascio cadere su una poltrona, peggio di un sacco di patate.
Si avvicinano entrambe le ragazze. CC che regge tra le mani un vassoio con tre tazze di tè, lo zucchero, il latte e una bottiglietta di Bushmills, per una bevanda più corroborante. E Mellie, che mi si accosta minimamente e mi studia per un lungo minuto prima di parlare. “Grazie.”
Scuoto il capo. “Di nulla.”
CC mi si siede accanto. “Ho perso la testa. La verità è che a furia di rifilare il lavoro a Mellie e tenermi le cose più facili, non so più affrontare le urgenze.”
Non dico niente, in questo caso. Evidentemente è così, l’unica cosa utile che CC ha fatto è stata quella di portare il tè. E il whiskey, che mi sto versando nella tazza di tè ormai svuotata.
C’è da fare.
O’Leary non è stato ferito qui all’obitorio, evidentemente. E’ arrivato qui non si sa come e lungo il corridoio ci sono parecchie tracce del suo sangue, tracce che dobbiamo far sparire al più presto. Non penso che domattina qualcuno passerà col luminol i corridoi solitamente immacolati della Clinica Universitaria di Galway.
Mellie arriva con secchi, stracci e spazzoloni e ce li porge quasi con aria di scusa.
Ok, e sia. Siamo tutt’e tre di corvée.
Parecchio tempo dopo abbiamo finito. Vorrei andare a casa, ora, a riposare. E a cercare di salvare la bellissima vestaglia di Sherlock, che ora è coperta di sangue, ma non possiamo lasciare qui O’Leary perché sicuramente qualcuno lo starà cercando per finire il lavoro. Un po’ perché qui all’obitorio fa freddissimo, ma soprattutto per la sua sicurezza. Dobbiamo portarlo via da qui. Sì, ma dove?
Quasi facendo eco ai miei pensieri, Mellie esordisce con un: “Bisogna portarlo via da qui, non può rimanere.”
In coro io e CC domandiamo: “Sì, ma dove?”
“A casa mia”, risponde Mellie con semplicità, avvicinandosi all’ispettore dormiente e scostandogli i capelli dalla fronte con una carezza che mi fa stringere il cuore.
“Ma tu vivi con tua mamma…” sbotta CC.
“Mia mamma è invalida e vive al piano di sopra di casa mia. Non scende mai da basso.”
“Va bene, ma come ce lo portiamo a casa tua, io sono in bici, CC viene in autobus e…”
“Sono in macchina e possiamo abbassare i sedili. CC, tu guiderai e tu Tracey ci seguirai in bici a una certa distanza.” Ordina. “Io sto dietro con lui.”
CC la fissa a bocca aperta, incapace di credere che la piccola Mellie che si fa tiranneggiare sia la stessa donna dall’aria decisa che sa dannatamente cosa sta facendo.
O’Leary è un uomo alto e robusto e nelle sue condizioni, è pure un peso morto.
Tirando con cautela, sbuffando per la fatica e la stanchezza, riusciamo a spostarlo su una barella rotelle; questa volta, l’aiuto di CC è stato determinante perché è una ragazza piuttosto forte, quindi la maggior parte del “lavoro” lo ha fatto lei senza fiatare, ad eccezione di un paio di imprecazioni dirette agli ispettori rincitrulliti e deficienti che osano farsi ridurre in fin di vita sul suo luogo di lavoro.
Sono ormai le quasi le cinque e l’alba è ancora lontana. Fortunatamente siamo a fine gennaio e ci vuole del tempo perché sia giorno.
Siamo tutte stanche morte e abbiamo disperatamente bisogno di una doccia, ma ora non è possibile.
Per fortuna la casa dove vive Mellie non è lontana ed è nascosta in un vicolo.
Anche in questo caso, la forza fisica di CC è una mano santa e riusciamo a portare O’Leary in casa con la barella.
In men che non si dica, Mellie ha preparato il divano letto e l’ispettore si ritrova al caldo e sotto le coperte.
“Non possiamo lasciarlo da solo”, riflette CC, mentre Mellie annuisce quasi sovrappensiero.
“Faremo dei turni.” Annuncia Mellie.
“Sì, va bene. Ma lui non ha una famiglia? Qualcuno di preoccuperà se non lo vede più in giro.” Obietto.
“Conosco le sue cinque sorelle e le sue zie, oltre a tutta la sua famiglia.” Sospira Mellie.
“Eh?????”
E queste siamo io e CC che esclamiamo all’unisono, al colmo della sorpresa.
“Io e Fin siamo fidanzati da tre anni e mezzo e dovremmo sposarci tra sei mesi.”
Continuo a non capire.
“Fin fa un lavoro molto pericoloso, ha dei nemici. E quando ci siamo fidanzati abbiamo deciso di mantenere il segreto per evitare rischi sia per me che per lui. Lo sa la sua famiglia, ma non mia mamma. Mio papà era anche lui un poliziotto ed è stato ucciso su nel Nord, tanti anni fa.”
“Quindi… quindi tutte le tue paturnie… il suo ignorarti… il caffè” sbotta CC. “Mi hai preso in giro! Anche lui ha raccontato un sacco di balle. Vabbeh, è un uomo, ma tu… la mia collega…”
“Scusami, CC, purtroppo è stato necessario. Non abbiamo potuto evitarlo.” Sospira Mellie stancamente. “però non puoi negare che certe cose ti abbiano fatto comodo,” ridacchia maliziosamente la nostra collega ex un sacco di cose.
“Tre anni e mezzo? Tu lavori alla clinica da due anni solamente, quindi tutta questa storia è cominciata quando eri ancora alla Galway Clinic.”
Mellie si limita ad annuire.
“Ma non ti ho mai visto stare con lui, nessuno ti ha mai visto con lui.”
“Ci vediamo di notte quando sono di turno.”
“Oh”, è il mio unico commento.
CC invece va su tutte le furie: “Spero bene che non abbiate fatto sesso sulla mia scrivania!”
Mellie trattiene una risata e ci pianta in asso con la scusa di fare il tè. Quella risata soffocata mi mette addosso qualche dubbio.
Per qualche minuto CC sembra immersa nella riflessione più profonda, ma ad un tratto sbotta con un: “Ci pensi, Tracey? Non solo ci ha raccontato un sacco di balle, magari si è pure spupazzata questo mentecatto sulle nostre scrivanie. Ti immagini che schifo?”
“Ehm, forse dopo ha disinfettato tutto col Cidex?”
“Dici che ha usato il Cidex per disinfettargli pure il…”
Tiro una bella gomitata a CC, mentre Mellie rientra col vassoio del tè. “Vi ho sentite, voi due!”, CC sbotta con qualcosa di incomprensibile e io rido.
Mentre beviamo, Mellie non perde di vista O’Leary che sembra avere un sonno piuttosto agitato. Comprensibile, visto tutto quello che gli è successo.
“Dobbiamo organizzarci per i turni. CC, rientra in ospedale, tu smonti alle otto, poi arrivo io…”
In men che non si dica, Mellie ha distribuito orari per turni, riposo e lavoro in maniera impeccabile, in modo che nessuna di noi si esaurisca e che abbia lo stesso riposo.
Ha avvertito pure le famose zie, le quali hanno già cominciato a tenere d’occhio la casa, quindi O’Leary e la sorvegliante in carica sono al sicuro.
Visto che non c’è più niente per me, torno a casa, non prima che Mellie si sia raccomandata di non far parola con nessuno di quel che è successo in queste ore e mi abbia dato un cambio di vestiti per sostituire i miei, che non erano comunque decenti per andarci in giro. La vestaglia di Sherlock è persa. Troppo sangue, strappata. E’ ormai inutilizzabile. Lo so che al mondo ci sono migliaia di vestaglie, ma è l’unico regalo che lui mi abbia mai fatto, anche se per averlo ho dovuto sacrificare la mia cucina.
Torno a casa, sono distrutta. Mi volto ancora per guardare Mellie che accarezza teneramente la testa di O’Leary. Sembra dimentica di tutto, fuorché dell’uomo sdraiato sul suo divano che al tocco delle sue mani sembra tranquillizzarsi. Mi viene un tuffo al cuore, come sempre. Ho assistito a tante storie belle storie d’amore, ma non ne sono mai stata veramente la protagonista. Ho un lavoro che adoro, una vita che mi piace, ma da quando ho incontrato Sherlock, sembra che tutto ciò  che ho non sia sufficiente, non più. Eppure è molto di più di quello che hanno gli altri.
Non biasimo Mellie per ciò che ha fatto. In fondo, io non mi sono comportata diversamente da lei, anche Mellie ha mentito per proteggere l’uomo che ama. Ma a lei è andata meglio, io invece non ho niente, niente, niente…
Inforco stancamente la bicicletta e torno a casa.
*
Molly non è tornata, stanotte.
Il letto è sfatto, ma quando sono andato nella sua stanza era già freddo. Avrebbe anche potuto fare un pisolino nel pomeriggio, per quel che ne so. Non vi sono tracce della presenza di un altro uomo, intendo  residui organici od odori particolari. Di certo se ha passato la notte con O’Leary, non l’ha fatto qui. Al di fuori dell’ambiente di lavoro, Molly non è certo la persona più ordinata del mondo, quindi gli elementi in mio possesso non sono sufficienti a provare alcunché.
In ogni caso, Molly stanotte non è rientrata.
E’ rimasta fuori, molto presumibilmente con l’ispettore. E questo fa male, mi fa male un punto nel petto che non conosco e non c’è John ad aiutarmi o, eventualmente, a prendermi a calci nel sedere in modo più o meno metaforico.
Suona il cellulare, dal display vedo che è il mio caro fratello. Caro si fa per dire.
“Fratello mio?”
Prima che faccia a tempo ad aggiungere altro, lo interrompo e sbotto in un: “Dubito che a quest’ora del mattino tu abbia chiamato per informarti del mio stato di salute. Hai già fatto colazione e spazzolato i tuoi soliti dolci alla crema? Oppure ora le tue preferenze si sono spostate sul cioccolato?”
Sento Mycroft che sospira dall’altra parte del telefono. Non riesco a fare a meno di punzecchiarlo e comunque se la piantassi, credo ci resterebbe molto male. “Fratello mio, è imperativo che tu lasci l’Irlanda, per non dire l’Europa, entro le prossime due ore. Rimani in attesa di ulteriori istruzioni che ti verranno impartite al momento debito.”
La comunicazione viene chiusa bruscamente e una parte del mio cervello si chiede oziosamente in che parte dell’Europa o, molto più probabile, del mondo andrò a finire. Non spreco nemmeno le energie per domandarmi come Mycroft come abbia saputo di Ben e come si sia potuto organizzare in così breve tempo, è noioso. Aspetto che Molly rientri per comunicarle la notizia.
Come se fosse stata richiamata dal mio pensiero, la mia quasi-coinquilina compare sulla porta di casa sua. Le scarpe in mano, l’espressione stanca e indossa abiti non suoi.
“Sei arrivata, Molly. Bene, giusto in tempo. Mycroft mi ha informato che dobbiamo lasciare l’Irlanda entro le prossime due ore e…”
“Io non vengo.”
“Ma Molly, la tua sicurezza…”
“Io resto qui, Sherlock.” Il suo tono è deciso, ma ancora non mi guarda.
Molly evita i miei occhi, il suo corpo si irrigidisce e quando mi avvicino di qualche passo, avverto distintamente il profumo della colonia che usa O’Leary.
Ah.
Certo.
Ho capito.
Ora il dolore che provavo prima è diventato lancinante.
E’ innamorata di O’Leary. E come biasimarla? E’ un bell’uomo, intelligente, a suo modo colto e suppongo che il suo fascino sia più o meno irresistibile, per una donna.
Va bene, nessun problema. Star da solo mi protegge.
“Capisco. Allora le nostre strade si separano qui. Addio, Molly Hooper”.
Giro sui tacchi e aspetto la macchina di Mycroft che, sono certo, non tarderà.
*
E’ ovvio che non sono riuscita a chiudere occhio.
Ho promesso a Mellie che non avrei detto niente e non posso lasciar da sole le mie due colleghe in questa situazione, con O’Leary ancora in pericolo di vita.
Osservo dalla finestra Sherlock che sale sull’ennesimo macchinone nero – ma quante macchine tutte uguali ha il MI6?
Non un bacio sulla guancia, non una stretta di mano. Però neanche io gli ho dato alcuna spiegazione, ma non dubito che Sherlock capirà che qualcosa mi ha trattenuto qui. Di certo non un altro uomo.
Quando l’auto svolta l’angolo e scompare dalla mia vista, scoppio in un pianto dirotto.
Non ho nemmeno più la vestaglia da stringermi addosso.
 
 

 
Epilogo – parte 1
Tre anni dopo
 
L’SMS di Lestrade mi convoca immediatamente a New Scotland Yard. In questi tre anni, Gordon è diventato sfacciato, infatti il testo del suo messaggio dice: “Vieni immediatamente, se puoi. Se non è possibile, vieni lo stesso”. Cretino! E’ comunque il suo messaggio in codice per segnalarmi un caso che è almeno un otto.
Quindi, in men che non si dica mi ritrovo sul taxi che mi conduce al commissariato.
A proposito, sì. Sono rientrato a Londra circa due anni fa, dopo aver pazientemente distrutto completamente la rete criminosa che Moriarty aveva messo in piedi. In pratica, ho continuato a fare in mezzo mondo quello che avevo iniziato a fare a Galway. Non sono fiero di me stesso, né delle azioni che ho compiuto, ma tutto quello che ho fatto era necessario e non poteva essere evitato. Ho rivisto John, il quale dopo avermi conciato per le feste, mi ha abbracciato e mi ha presentato sua moglie Mary. Donna brillante, ma c’è qualcosa di inquietante in lei che non mi convince del tutto. Dal momento che John è felice, farò finta di non avere sospetti sulla sua “adorabile” consorte. Anche Mrs. Hudson ci ha provato a stendermi e meno male che non ha più una forza sufficiente nelle braccia perché altrimenti al posto della padella in teflon,  sulla testa mi avrebbe pestato una casseruola di Le Creuset e forse non sarei qui a raccontarvela. Meno male che Lestrade si è limitato a scoppiare a piangere e ad abbracciarmi, e per fortuna che è durato poco.
Entrata drammatica nell’ufficio di Lestrade, con tanto di sciarpa blu di cashmere e Belstaff svolazzante.
“Eccomi, Gawain!”
“Per la miseria Sherlock, è Greg! Vabbeh, lasciamo perdere. Conosci la catena di pub O’Dowd? A Londra ce ne sono diversi.”
Annuisco.
“Stamattina il proprietario George O’Dowd è stato trovato morto nel suo appartamento di Londra. Ieri è capitato lo stesso anche suo fratello e comproprietario della catena Robert, solo che lui abita a Galway, in Irlanda.” Galway? Mi irrigidisco, ma Lestrade che anche lui guarda che non osserva, non si accorge di niente e prosegue. “Pare che i due fratelli fossero implicati in faccende poco chiare, cose di droga e prostituzione qui a Londra e in Irlanda. Niente di sicuro, ma di certo quei due non erano brave persone, anche se sono sempre stati abbastanza abili da non far mai ricondurre le tracce a loro.  
“Quindi ritengo sia necessario indagare qui e a…” concludo con una certa fatica, dopo tutto questo tempo il pensiero di quel posto mi disturba. “Galway.”
“Non è necessario. Sta per arrivare… Ah, eccolo. Buon giorno, Ispettor O’Leary.”
Mi giro di scatto e sulla porta vedo la faccia sogghignante di Fintan O’Leary, completo di Burberry e l’espressione da iena ridens di ordinanza. Lo so, lo so che non sono uomo da sentimenti, ma questo individuo si è preso quello che era mio e che avrebbe dovuto restare tale. Con una certa soddisfazione, noto che ha il girovita appesantito.
“Oh, ma guarda, nientepopodimeno che Sherlock Holmes.”
Devo essere diventato livido perché Lestrade mi guarda con un’espressione sinceramente preoccupata. “Sherlock stai bene?”. Al mio gesto di lasciar perdere, Gavin rivolge l’attenzione a quell’altro. “Vi siete già incontrati?”
“Oh, no… E’ che ho sentito taaaaanto parlare di lui che mi sembra di conoscerlo da anni. Almeno tre. Fintan O’Leary al tuo servizio, Sherlock Holmes”. Detto ciò, si profonde in un inchino esagerato che sembra tutto tranne che ossequioso.
Lestrade ci guarda perplesso prima di rispondere al telefono interno che ha iniziato a squillare. Dopo una breve conversazione, si alza dalla scrivania. “Devo lasciarvi per qualche minuto, torno subito.”
Rimaniamo soli, io e questa sottospecie di iena ridens irlandese.
Faccio molta fatica a guardarlo in viso soprattutto a causa dell’espressione che John chiamerebbe senz’altro “maledetta faccia da culo.”
“Rimarrò qui fino a quando il caso non sarà risolto. Mi farai da guida ai migliori pub di Londra mentre indaghiamo?”
Lo fisso torvo, sibilando: “Contaci.” E più che una promessa, sembra un insulto. “La tua famiglia non sentirà la tua mancanza?”
Fa spallucce. “Ogni tanto mia moglie è contenta di liberarsi di me.”
Un tuffo al cuore, si sono sposati.
“Tra le altre cose, adesso si trova a un congresso negli Stati Uniti perché ha appena pubblicato uno studio sul rigor mortis. Abbiamo lasciato i gemelli alle zie, sono sempre  contentissime di spupazzarseli un po’…
Due gemelli, e mi sento morire dentro, peggio di quanto mi sia capitato in questi tre anni.
“… sai, si chiamano Pat e Rosemary, in onore di Pat Finucane e di Rosemary Nelson, i due avvocati che…”
“So benissimo chi sono Pat Finucane e Rosemary Nelson. Sono felice di sapere che la tua famiglia stia bene, salutami Tracey.” Mi sfugge dalla bocca prima che possa frenarmi.
“Tracey? Ah, Molly, sì,  è da tanto che si è ripresa il suo nome! Va bene, dovrebbe venire a cena a breve…”
Venire a cena?
Venire a cena?
VENIRE A CENA?
Forse mi è sfuggito qualcosa. “Tu… tu non sei sposato con Molly, allora?”
“Molly? Perché dovrei essere sposato con Molly? Brava ragazza, intendiamoci. Anche carina e a dirla tutta mi ha salvato le chiappe quando Moriarty mi ha fatto fare quel bucone nella pancia. Ma comunque no, Molly non è la mia signora. Mia moglie è la sua collega Melanie, Mellie per gli amici, anche se quando siamo in intimità ha altri nomign…”
Lo interrompo bruscamente:  “Quindi nemmeno i gemelli sono figli di Molly.”
“Sei proprio un genio come dicono, non c’è che dire.” O’Leary mi fissa, le braccia conserte sul petto e l’espressione di chi sta cominciando a capire e a divertirsi alle mie spalle.
In quel momento torna Lestrade; ora so benissimo cosa devo fare e mi dirigo verso la porta, dietro di me la risata fragorosa di O’Leary. “Sherlock, ma che diavolo…”
Mi giro e mi fermo appena il tempo di biascicare: “Le mogli dei due fratelli sono in combutta per subentrare ai loro mariti per il traffico di droga, andate a interrogarle subito prima che lascino le rispettive città. ” e scappo via più veloce che posso, ché di tempo ne ho già perso troppo.
Appena esco dalla sede di New Scotland Yard chiamo il mio caro, caro fratello Mycroft che tuttora occupa una posizione di secondo piano all’interno del governo inglese, anche se dopo tutta la faccenda di Moriarty ha avuto una piccola promozione.
“Fratello mio. Fammi preparare l’aereo privato del governo. Si vola a Galway.”
“Si tratta di un dieci?”
“Oh, no. Diciamo almeno un quindici”.

 
 
Epilogo 2

Dalla mia permanenza in Irlanda nel mio palazzo mentale ci sono entrato molto di rado. E con “molto di rado”, intendo forse un paio di volte. Mi sono liberato definitivamente di James Moriarty, ma è anche vero che lui ha preso possesso del mio personale rifugio e lo ha trasformato nel festival dell’anarchia; il mio sancta sanctorum è diventato più qualcosa di suo, a voler ben guardare.
L’attuale situazione, però, richiede un minimo di raccoglimento. Spero vivamente che Moriarty sia impegnato a mettere ulteriormente a soqquadro l’ambiente, in modo che io possa concentrarmi sul da farsi.
Speranza vana, infatti appena accedo al mio palazzo mentale mi ritrovo davanti i due mentecatti per eccellenza: uno è il solito Moriarty, l’altro la new entry ispettore O’Leary.
Moriarty mi viene incontro con fare di amicizia. “Sherlock! Non mi avevi detto che O’Leary era uno matto come me!” e si gira verso l’ispettore, guardandolo con aperta ammirazione. “Sai, non avevo idea che tu fossi una persona tanto stimolante. Averlo saputo prima, me ne sarei rimasto in Irlanda e avrei fatto ammattire te. Di sicuro hai più senso dell’umorismo del nostro Sherlock e, come certamente saprai, una persona così alla fine o ti annoia, o ti delude oppure entrambe le cose.”.
O’Leary annuisce vigorosamente, poi rifiuta con cortesia: “No, guarda, mi è bastato quel bucone nella pancia che mi hai fatto fare da uno dei tuoi scagnozzi. E comunque io ho una famiglia alla quale badare e mia moglie è spesso via per lavoro, quindi devo badare ai bambini. Non credo che a Mellie faccia piacere che io vada in giro ad inseguire psicopatici su e giù per l’Irlanda.”
“Soprattutto perché già ne ha in casa uno!”, esclama Moriarty ed entrambi si mettono a ululare dalle risate e a darsi delle gran pacche sulla schiena. “ A proposito, scusami per l’aggressione. Niente di personale, era una cosa di lavoro. Spero non ti sarai offeso….” E ancora giù a ridere come  e peggio di una iena.
Quando si ripiglia un po’, O’Leary si asciuga le lacrime che hanno preso a scendergli copiose lungo le gote. “Oh, ma tu non sai, tu non sai. Questo qui”, e fa cenno col mento verso di me. “E’ più fuori di testa di me e te messi assieme: pensa che per tre anni ha creduto che io avessi sposato il suo ammmoooooreeeee Molly Hooper e avessi fatto i miei due bimbi assieme a lei.”
“No, ma davvero? Tre anni senza fare una mossa con Molly? Guarda, gliel’ho sempre detto che Molly è simpatica e so per certo che è l’unica santa del Regno Unito, se non di tutta l’Europa, a disposta a prendersi uno così. Ma lo hai visto? Chi se lo piglia? Per essere un bell’uomo, niente da dire. Ma per il resto… Sia quel che sia, lui… niente. Non mi ascolta… e vedi un po’ in che stato si ritrova!”
Ancora pazze risate da parte di entrambi i mentecatti e vigorose pacche sulle spalle, mentre io potrei ritenermi offeso. “Uhhhh, basta, basta, Moriarty, sei troppo simpatico. Smettila di farmi ridere, ché dopo me la faccio addos…”
Non sento la fine della frase perché me ne vado sbattendo la porta. Ne ho abbastanza, di loro. Già non li sopporto nella vita reale, figuriamoci quando occupano abusivamente il mio palazzo mentale.
Imbecilli.
E mi accorgo che l’aereo è appena atterrato.
 
* * *
Con Mellie a quel congresso, io e CC dobbiamo sobbarcarci anche i suoi turni. Non è un problema, lo abbiamo già fatto e a sua volta quando sia io che CC abbiamo dovuto assentarci, le altre due hanno fatto backup. Da quella notte di tre anni fa, le cose sono andate migliorando, intendo a livello professionale. Non dico che non ci siano problemi o non litighiamo mai, tutt’altro, ma tra noi tre si è instaurato un certo tran-tran e il lavoro fila via liscio come l’olio. Ho ragione di credere che siamo diventati uno dei reparti più efficienti dell’ospedale di Galway, peccato che i nostri pazienti non siano più in grado di mettere una buona parola per noi. In ogni caso, un paio di liti grandiose tra CC e Mellie ci sono state, più che altro perché da quella notte, Mellie ha cominciato a rispondere a tono a CC quando questa esagerava.
Per quanto mi riguarda… beh, è stato con un sospiro di sollievo che ho abbandonato i tacchi a spillo, le mini ultracorte, le scollature ombelicali e – soprattutto – quella odiosa zazzeretta bionda, falsa come una moneta da tre euro. Ora i miei capelli sono ricresciuti, ma ho conservato una certa eleganza nel vestire in quanto richiesto dalla mia posizione, forse anche perché ci sto prendendo gusto a vedermi carina. Le cose vanno bene, mi sono fatta degli amici ed esco spesso, anche se dal punto di vista sentimentale sono ancora da sola. Non che non abbia avuto delle occasioni, ma non voglio prendere in giro nessuno; semplicemente non mi sono più innamorata e non sono mai stata così disperata da mettermi con un uomo che non mi interessa per davvero.
A proposito di uomini, ho letto che Sherlock è ritornato a Londra, che la sua reputazione è stata ripristinata e che ha ricominciato a catturare i cattivi su e giù per il Regno Unito, tranne che in Irlanda, forse perché questo è il territorio di Fintan.
Ok, smettiamola, tutto questo fantasticare non mi salverà dalla pila di scartoffie che devo compilare. E aspetto ancora un paio di cadaveri, prima che la giornata lavorativa sia finita. Oh, qualcuno sta entrando, saranno i miei cadaveri. Strano, non li aspettavo prima di un paio d’ore.
“Grazie, CC, sistemali pure nell’angolo libero…” dico senza alzare gli occhi dal foglio.
“Non sono CC”, risponde una voce profonda che non ho mai dimenticato, forse quella voce l’ha riconosciuta la mia anima prima delle mie orecchie.
“Sherlock!”, mi alzo e volto di scatto e sbatto il fianco contro lo spigolo della scrivania, come succede di solito. “Ahia, chemmmale!” borbotto.
Ma il dolore passa subito e mi ritrovo a fissare Sherlock in viso.
Non è cambiato moltissimo, ma i suoi occhi hanno un’espressione stanca che non sono abituata a vedergli e ciò mi fa male. “Ciao, Sherlock, ti trovo bene”. E’ una mezza bugia, solo mezza perché lui rimane sempre uno degli uomini più affascinanti che abbia mai visto, anche se vedo dei capelli bianchi tra i suoi riccioli e una ruga che forse non c’era gli attraversa la fronte.
“Ciao, Molly Hooper.”
Perché è tornato? Non poteva rimanersene a Londra? Avevo raggiunto un equilibrio e adesso il mio cuore si è sconquassato soltanto a vederlo.
“Sei qui per un caso, vero?”
“Sì, sono qui per un caso.”
“Oh… ho capito… come posso aiutarti? Purtroppo qui non si possono dare dita od orecchie di straforo…”
“Non hai capito, Molly Hooper. Sono qui per un caso, ma stavolta si tratta di qualcosa di personale…”
Sento il colore abbandonare la mia faccia, all’improvviso. “Oddio, è successo qualcosa? John? Greg?”
“Non conosco nessun Greg, ma ti posso garantire che stanno tutti bene.”
 “Greg è Lestrade, scemo!” Mi porto la mano al petto. “Oh, meno male. Per un attimo mi sono sentita morire.”
Ghigno beffardo di Sherlock. Un’espressione amara gli attraversa gli occhi, ma potrei aver visto male.
“Molly Hooper, io mi sono sentito morire per tre anni.”
Ha i lucciconi agli occhi e immediatamente a me viene un magone che mi stringe la gola.
“Perché ti sei sentito morire?”
“Perché sei rimasta qui e perché fino a stamattina pensavo che tu fossi felicemente sposata con O’Leary. Perché non me lo hai detto?” ringhia irosamente. “Perché mi hai fatto credere che fossi innamorata di lui?”
Cado dal proverbiale pero. Ma cosa sta dicendo? Il nodo alla gola c’è ancora, più forte che mai, ma adesso è per la rabbia. “Cosa? Chi ti ha mai fatto capire che mi piacesse Fin?”
“Avevi addosso il suo profumo, quella sera. Non sei tornata a casa a dormire e non sei voluta venire via con me. Era solo logico che lo pensassi.”
“Certo che non sono venuta a casa quella sera e certo che avevo addosso il suo profumo: l’ho dovuto trascinare di peso fuori dall’obitorio e portarlo in un posto sicuro prima che mi morisse dissanguato sotto il naso… e non potevo lasciare sole le mie colleghe.”
“Non hai detto niente…”
“Ah! Questa è bella, ha parlato Mr. Io-Dico-Sempre-Tutto”. A questo punto, sono davvero arrabbiata, ma prima che riparta con un’altra tirata - lavorare con CC mi ha dato una certa esperienza in questo senso – mi blocco sul posto e respiro profondamente, fino a quando sono pronta a fare la domanda cruciale: “Sherlock, perché ti ha fatto stare male il fatto che io potessi essere sposata con Fintan? E che i miei ipotetici figli li avessi fatti con lui?”
Non riesce a guardarmi negli occhi, ha le mani affondate nelle tasche del suo Belstaff e inizia a parlare a voce molto bassa, tanto che mi devo avvicinare per sentire cosa dice.
“Perché non è con lui che devi stare.”
E rieccolo, il solito Sherlock che anni fa mi ha detto: “for the sake of law and order, I suggest you to avoid any future relationship”. Evidentemente non è cambiato di tanto così.
“Tranquillo”, sbotto amaramente. “Non c’è nessuno nella mia vita.” Evito di aggiungere l’ovvio ‘tranne te’, ma perché un po’ di amor proprio mi è rimasto. “Bene, se questo è tutto, io continuerei con le mie scartoffie. E’ stato bello vederti dopo tanto tempo, Sherl…”
Non faccio in tempo a finire la frase che l’unico e solo Sherlock Holmes mi afferra per la vita e mi dà quello che è il bacio più elettrizzante di tutta la vita.
Dura parecchio, o almeno mi sembra, perché quando rimaniamo senza fiato ci stacchiamo e scoppiamo in una risata folle.
Quando riesco a riprendermi mormoro. “E questo cosa vuol dire?”
“Quello che volevo dire, appunto.”
Gli prendo le mani tra le mie e sollevo il viso a guardarlo. “E adesso che si fa, Sherlock? Cosa siamo esattamente io e te?”
E’ a disagio ed esordisce: “Io non sono bravo coi sentimenti…”
“No, è vero. Ma sei bravo con le deduzioni.” Lo faccio sedere sulla mia sedia e  gli copro gli occhi con le mani. “Deducimi, Sherlock. Che cosa hai visto di Molly Hooper?”
Il suo viso assume l’espressione sconcertata.
“Se ti è più facile vai nel tuo palazzo mentale…”
Fa una risatina sarcastica borbottando qualcosa su un posto mal frequentato, ma congiunge i polpastrelli e porta le mani così unite sotto il mento.
* * *
Ritrovo i due pazzi furiosi seduti a un tavolo. Entrambi stanno fumando degli enormi sigari, sono in maniche di camicia – e le maniche arrotolate fin sopra i gomiti – e giocano a quello che ha tutta l’aria di essere poker.
O’Leary si è tracannato una pinta di Guinness e ne ha un’altra a metà; Moriarty è più morigerato ed è a un quarto di una bottiglia di Bushmill.
Non appena mi vede, Moriarty si alza e si precipita ad abbracciarmi. “Oh, povero Sherlock, quanto mi dispiace! Ti ha dato il due di picche, vero? Guarda, non sai come ti capisco. La cara, cara Molly Hooper ha scaricato anche me e non hai idea di quanto mi sia dispiaciuto, mai avuta una donna così…”
“Moriarty, piantala! Non capisci quando è ora di smetterla con gli scherzi! Questo poveraccio sta male, non vedi che faccia da morto in piedi? Coraggio, genio di Baker Street, cosa ti serve? Adesso ti siedi, ti bevi un bel bicchiere di whiskey e racconti.”
“Mi ha chiesto di dedurla”, borbotto cupo.
Moriarty scoppia a ridere, con quella sua risata folle. Stavolta sembra però divertirsi più sinceramente del solito. “E qual è il problema? Tu lo fai sempre con tutti!”, poi parlando fra sé e sé, biascica scuotendo il capo ripetutamente : “Hai tu visto come l’amore lo ha reso fesso?”
“Sì, ma stavolta sono cose…” esito, “personali e un po’…”
Si avvicina O’Leary e si siede a cavalcioni della sedia, lo schienale rivolto contro il suo petto proprio come quella volta a Galway, una vita fa. “Non importa. Sapessi cosa dico io a Mellie… Coraggio, esprimiti!”
Prendo fiato e… “L’Irlanda le ha fatto bene: la pelle è più luminosa e fresca; per fortuna è tornata ad avere i suoi capelli castani. Gli altri non le stavano male, ma i suoi sono talmente belli che viene voglia di toccarli. Sono contento però che abbia conservato il buon gusto nel vestire perché i suoi vecchi abiti facevano orrore solo a vederli. Però non è importante come è fisicamente, l’importante è che Molly sia Molly perché non c’è nessuna che…”
Moriarty e O’Leary sembrano svanire nel nulla e io trasalgo perché qualcosa mi è piombato in grembo a mo’ di sacco di patate. Apro gli occhi e scopro che quel qualcosa non è qualcosa, bensì Molly Hooper che prende a baciarmi in un modo che mi fa dimenticare anche come mi chiamo… e tutto l’universo mondo!
*
Sherlock e Molly in tutt’altre faccende affaccendati non si accorsero che nell’obitorio non erano più soli. D’accordo, c’erano i pazienti, ma quelli se ne stavano buonini sui loro tavoli di acciaio senza fiatare. Era però entrata CC che alla vista dei due innamorati – possiamo chiamarli così, ora? Sì? – sbuffò rumorosamente, con fare rassegnato.
“Ecco, ci risiamo. Un’altra grande donna che capitola davanti a un uomo. Io non riesco proprio a capire…. Minimo minimo, questi idioti fra un paio d’anni mi sparano fuori un’altra coppia di gemelli come hanno fatto gli altri due.
*
L’autrice di questa storia conferma che è andata proprio così.
 
Fin. Anzi… Deireadh.
Thanks for reading.
Nisi
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1698535