Il sentiero delle foglie secche

di Haruakira
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


1 long reborn
IL SENTIERO DELLE FOGLIE SECCHE



Qualcuno diceva: ha qualcosa addosso, come una specie di infelicità
(A. Baricco, Seta)


Per arrivare a scuola doveva percorrere un lungo viale alberato.
Durante l' autunno i rami degli alberi sembravano più lunghi, più scheletrici.
 A volte aveva come l' impressione che si allungassero su di lui nel tentativo di afferrarlo, che si muovessero.
Quel sentiero gli incuteva un certo timore, specie nelle giornate più uggiose e cupe, quando Namimori veniva coperta da un velo di nubi fuligginose.
 In realtà, se avesse fatto una fotografia a quella strada e l' avesse sviluppata, avrebbe potuto definirla bella. Un po' malinconica e un po' romantica. Di una dolcezza e di un torpore infiniti.
 Tuttavia ogni mattina Takeshi la attraversava a passo svelto, ignorando gli alberi e camminando a testa alta con lo sguardo fisso verso la fine.
 Sentiva scricchiolare le foglie secche sotto le scarpe da ginnastica.
Inizialmente quel rumore -quel crack che sapeva di rotto- lo infastidiva, poi aveva preso ad utilizzare un paio di cuffie aumentando al massimo il volume del suo mp4 un po' vissuto.
Il rumore delle cose che si rompevano -il vaso che cade per terra, un vetro che va in frantumi, la matita che si spezza- lo infastidiva profondamente.
Ciò che si rompe non può essere aggiustato, lo aveva capito da un pezzo.
Lo aveva capito da piccolo quando sua madre aveva fatto la valigia e se ne era andata senza guardarlo.
 In quell' occasione aveva guardato suo padre con un' aria interrogativa e preoccupata. Il genitore gli aveva regalato un sorriso malfermo dicendo di non preoccuparsi.
Gli aveva scompigliato i capelli scuri e gli aveva detto:- Tu li conosci gli eroi, vero Takeshi?
Aveva annuito e il padre allora aveva continuato.
-Bene, la tua mamma è come un' eroina. Lo è di sicuro. E lo sai, gli eroi non possono stare tanto a casa perchè il mondo ha bisogno di loro. Devono correre tutto il giorno qua e là, poverini. Oggi al Polo Nord e domani al Sud, a colazione sono in Russia e a pranzo in Turchia perchè c' è sempre qualcuno che chiede aiuto. La mamma proprio ieri è stata promossa per essere il capo di una squadra di eroi.
All' epoca non sapeva dove fosse la Turchia e nemmeno la Russia, ma aveva capito che erano posti lontani.
-E... quindi non viene più?- aveva domandato poco convinto.
-Se il mondo non ha bisogno di lei, verrà.- quel "verrà" gli era sembrato detto a denti stretti, in modo un po' forzato e stentato. Come se quella parolina non volesse uscire dalla bocca del padre- Devi essere orgoglioso della tua mamma. Non tutti i bambini possono dire di avere una super mamma che salva il mondo e noi non dobbiamo essere egoisti.
Takeshi aveva sospirato e ci aveva creduto.
 Quando accendeva la televisione sperava di vedere il volto della sua mamma mentre combatteva accanto a Batman o all' Uomo ragno.
Ma non era mai successo.
Un po' il cuore gli si era gonfiato di orgoglio ma di certo prevaleva un enorme dispiacere che si era andato sempre più accentuando col passare dei giorni e dei mesi. E poi degli anni.
Gli sarebbe bastato vederla anche solo una volta, per cinque minuti.
Ma un eroe è veramente così impegnato?
Allora aveva provato a chiedere aiuto. Gridava "Aiutami super mamma, aiutami!" ma non succedeva niente, quindi aveva pensato che forse doveva essere in pericolo per davvero e si era buttato nel fiume. Lo aveva salvato il suo papà che stava pescando sulla riva.
Era stata la prima volta in cui aveva visto l' uomo piangere. Non voleva più vedere suo padre soffrire.
 Quel giorno si era impegnato affinchè suo padre fosse felice, ed era stato sempre un bambino bravo, allegro e felice.
O così, almeno, pare.
Ah, non sapeva perchè la mamma non fosse arrivata e allora aveva capito, in qualche modo, che non sarebbe mai più tornata, ragion per cui aveva cercato di non pensarci più, dimenticandola.
Gli eroi, per inciso, non gli piacevano più.

Quel giorno a scuola era arrivato un nuovo ragazzo. Si chiamava Hayato Gokudera ed era italiano. A guardare il nome non si sarebbe mai detto, la sua famiglia -giapponese- si era trasferita nel paese del sole un paio di generazioni prima. Persino il suo aspetto non diceva nulla riguardo alla sua provenienza. Aveva un incarnato chiaro e occhi verdi, lo si sarebbe potuto dire nordico, infondo.
Quando era arrivato in classe aveva guardato tutti e nessuno senza particolare interesse.
 Aveva l' aria annoiata. Un po' triste.
Takeshi pensò che dovesse essere una persona triste.
La tristezza è una cosa che si vede.
Gli occhi di una persona infelice hanno un che di torbido, una precoce stanchezza della vita.
L' infelicità diventava un laccio intorno all' anima, la succhiava rubandole tutte le emozioni. Inevitabilmente ti cambiava rendendoti più cinico, più disincantato, meno ingenuo.
Takeshi lo sapeva perfettamente.

 Era una tiepida mattinata di metà autunno quando era arrivato, il cortile era pieno di foglie secche da giorni e le nuvole sembravano correre veloci nel cielo.
Hayato Gokudera trovava quella cittadina incredibilmente stretta.
Ah, ora che ci pensava si era detto la stessa cosa di tutti i posti in cui era stato negli ultimi anni.
 Per qualche motivo nessun posto sembrava adatto ad accoglierlo.
Ogni luogo era o troppo vuoto o troppo pieno, troppo rumoroso o viceversa silenzioso, con troppo verde o troppo asfalto.
 Era sbagliato.
 Hayato non apparteneva a niente e a nessuno, si sentiva come la pallina di un flipper, sempre sbattuto alla ricerca frenetica e ossessiva di qualcosa. Avrebbe proprio voluto saperlo, cosa? Cosa cercava? Cosa gli mancava?
Che doveva fare per sentirsi parte di qualcosa?
Non si sentiva nemmeno parte dell' umanità, certe volte.
 Guardava la gente con quel distacco un po' superiore che caratterizzava il suo modo di fare.
 Forse il problema stava nel fatto che fosse  un genio. Non c' era materia in cui non eccellesse, non c' era argomento che non conoscesse.
Era anche un po' troppo cervellotico a dirla tutta e anche piuttosto impulsivo. Ed egoista.
Odiava la gente. Tendenzialmente la evitava. Non gli piacevano le file, i luoghi affollati, gli autobus, la musica assordante e le feste studentesche e più in generale i luoghi in cui era costretto a stare a stretto contatto col vicino di turno.
Aveva un' idea di spazio personale piuttosto ampia.
Non è che avesse paura della gente o altro, semplicemente, riteneva la maggior parte degli essere umani... stupidi.
 Tutti quelli che lo circondavano sembravano essere impegnati a parlare di scemenze.
"Oh, quando finiamo devo correre immediatamente a casa che sta per incominciare X", gemette la ragazzina al suo fianco guardando tristemente l' orologio sul display del cellulare.
 Aveva confemato la sua tesi.
Durante la pausa pranzo se ne era stato seduto tranquillo al suo banco per i primi cinque minuti, poi una mandria di pecore impazzite -i suoi compagni di classe- lo aveva accerchiato guardandolo come si guarda un essere esotico e cercando, con scarsi risultati, di fare conversazione.
-Lo segui il Grande Fratello? L' ultima entrata è troppo gnocca!
Gokudera si era voltato verso il ragazzo che aveva espresso una simile perla di saggezza, la studentessa al suo fianco aveva ridacchiato:- Già s' è fatta il fratello della sua migliore amica che era entrato prima di lei.
Gokudera si chiese, giustamente, se per caso sapessero cosa stava accadendo nel mondo. O almeno cosa fosse un telegiornale -e anche lì, c' era da andarci con i piedi di piombo, almeno dalle sue parti-
-Scommetto che una di voi vuole fare la ballerina- tirò a indovinare sorridendo mellifluo.
Ci fu uno squittio provenire da più parti.
Gokudera si alzò sbuffando e uscì fuori dalla classe lasciando più pecore assai interdette.
Quegli idioti stavano violando impunemente il suo spazio vitale. Come se avesse bisogno di loro.
Nei corridoi si scontrò con un ragazzino con la faccia da pesce lesso. Quello cadde a terra gemendo come una donnetta, poi, rialzandosi, si scusò balbettando. Forse era stato perchè Gokudera lo aveva guardato torvo. Lo vide correre emettendo un suono molto simile a un "hiii"
Il ragazzo ridacchiò, quello lì stava praticamente scappando!
Aveva deciso di salire sul terrazzo, se gli andava bene poteva stare due minuti da solo. Camminando vicino alle finestre vide due ragazzi suonarsele di santa ragione, gli studenti della scuola li accerchiavano incuriositi, qualcuno stava correndo verso l' interno, probabilmente per chiamare qualche professore.
L' italiano ghignò accendendosi una sigaretta. Da lì avrebbe potuto godersi lo spettacolo. Indegno ma pur sempre spettacolo. Probabilmente non era raro che quelle due teste vuote facessero a botte per un pezzo di quartiere in cui segnare il territorio -magari pisciando negli angoli come i cani.
Ah! Ma uno dei due lo conosceva! Non era quel suo compagno dalla faccia idiota? Sì, quello seduto dietro di lui?

-Yamamoto Takeshi- sibilò Hibari.
-Mi morderai a morte?- l' altro lo precedette canzonatorio- l' ho sentita questa. L' ho sentita Kyoya.- il moro portò  la mazza da baseball sulla spalla destra picchiettandola lievemente- e cosa avrei combinato questa volta, uhm?
-Hai picchiato l' intero comitato disciplinare.
Takeshi si indignò:- Comitato disciplinare un cazzo. Siete una specie di yakuza giovanile. Ohi Hibari, lo sai che questa potrebbe farti molto male?- domandò indicando la mazza.
Il disciplinare tirò fuori i tonfa:- Anche questi.

Takeshi sapeva che battersi con Hibari era un' idea stupida, tuttavia lo aveva fatto. L' istinto, l' adrenalina e una buona dose di avventatezza avevano rinchiuso il suo cervello in un sacchetto di plastica e lasciato a marcire in un angolo.
Forse, se i professori non fossero intervenuti, ora avrebbe più di un braccio rotto, più di  un paio di costole incrinate, l' occhio destro gonfio come una mongolfiera e la mascella decisamente viola.
Ridacchiò, seppur con fatica, ritenendo che l' elenco minuzioso dei suoi mali fisici assomigliasse vagamente alla lista della spesa.
Oh sì, sarebbe potuta finire decisamente peggio.
La cosa positiva, che in un certo senso lo rendeva orgoglioso di sè, o almeno un po' più soddisfatto e meno abbattuto, era che anche Hibari aveva avuto la sua giusta dose di legnate. Non quante ne aveva ricevute lui, bisogna dirlo, ma l' atleta si era fatto valere.
Non è che Takeshi si sentisse masochista... o si diceva sadomaso? O sadochista? O... com' era quel termine? Non se lo ricordava proprio.
Insomma non è che gli piacesse farsi picchiare, ecco.
Nemmeno gli piaceva particolarmente fare a botte, però se veniva sfidato apertamente non si tirava indietro.
Mai e in nessuna cosa. Potevano sfidarlo persino, per esempio, a giocare a tennis -cosa in cui era una schiappa fatta e finita- ma lui non si sarebbe tirato indietro. Si sarebbe preso qualche giorno per imparare, semmai, per poi giocare, gareggiare, battersi con tutte le sue forze.
Ora, sapeva che Hibari era dannatamente forte, che se avesse picchiato il comitato disciplinare -cosa che in effetti aveva fatto con un certo piacere- il loro capo lo avrebbe di sicuro pestato, tuttavia era una cosa a cui non era riuscito a sottrarsi.
Gli piaceva aiutare gli altri e aveva ritenuto quella di picchiare il comitato disciplinare sicuramente una buona azione.
Il comitato disciplinare era una specie di dittatura scolastica. Se non si faceva ciò che era stabilito da loro -dal "non correre nei corridoi" fino a "dammi i tuoi soldi del pranzo"- si incorreva necessariamente in gravi punizioni.
Nel corso dell' anno Yamamoto li aveva stuzzicati con scherzi innocenti, come la colla sulle sedie oppure il barattolo di vernice sulla porta. Era un modo per dire a quegli stronzi patentati che gli studenti -o per lo meno alcuni- non avevano paura.
L' unica pecca era che finiva spesso nello studio del preside ma era disposto a sopportarlo, non aveva assolutamente importanza se poteva rendersi utile.
E poi era un modo come un altro per riempire le giornate vuote e condurre una vita adolescenziale normale e spensierata.






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NOTE: Riposto "Il sentiero delle foglie secche" - sono io, Haru, la ma coinquilina pazza non c' entra niente 'sta volta- dopo vari tentennamenti e finalmente col primo capitolo decente e completo. Non so che direzione prenderà la storia, credo comunque che il raiting si manterrà arancione. Se ogni tanto spunta vun verbo al presente, non preoccupatevi, è che mi piace fare così.
Ci sono un paio di ripetizioni relative alla parola tristezza nella presentazione di Gokudera, assolutamente volute.
Mi scuso per evetuali errori ma nelle ricorrezioni dei capitoli sono una schiappa.
DISCLAIMER: Katekyo Hitman Reborn e i suoi personaggi non mi appartengono. La storia non è scritta a scopo di lucro.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


c. 2 il sentiero...
C' erano dei giorni in cui Hayato si sentiva incredibilmente vuoto, tutto gli appariva privo di senso, persino la sua stessa esistenza.
Avrebbe voluto fare grandi cose ma in realtà sapeva benissimo che era destinato ad essere una goccia come tante nel mare del mondo. Non tutti siamo destinati a diventare eroi, pochi sono gli eletti che scriveranno la storia del mondo.
E' il nome dei grandi uomini che viente impresso nelle pagine dei libri e marchiato nella memoria dei secoli, le masse sono destinate ad essere trainate in un destino deciso non da un dio superiore ma da un semplice uomo come loro.
Gokudera era un genio ed era ricco. Ne era cosciente e aveva grande considerazione di sè.
Aveva le carte in regola per diventare grande e forse gli sarebbe anche piaciuto.
Ma gli mancava la volontà, era troppo pigro per essere grande.
Poteva andargli bene il suo microcosmo fatto di una vita normale. Lavorare, sposarsi, fare dei figli. Era questo lo scopo di ognuno, no?
Non si vedeva molto neppure in questa categoria tuttavia non credeva ne esistessero altre: o la grandezza o l' anonimato.
Era certo che in entrambe non avrebbe trovato ciò che cercava.
Che poi ancora doveva capirlo lo scopo della sua vita, il senso dei suo giorni.
Gli mancava qualcosa.
Qualcosa e qualcuno sono termini assai generici. Non era mai riuscito a restrinegere la sua ricerca a categorie più definite.
La logica della sua mente arguta non ne era mai stata in grado.
Trascorreva dei giorni lenti trascinandosi dietro una gioventò vecchia e malandata che non aveva mai vissuto davvero.
Solo una volta nella sua vita aveva provato dei brividi, aveva fatto ciò che fanno gli adolescenti della sua età.
Abitava ancora in Italia e tutto era incominciato con una telefonata che gli era stata fatta per sapere di un qualche compito.
Lui si chiamava Daniele ed era stato una pennellata di colori accessi sui suoi giorni grigi.
Non ricordava più come era successo ma da quel giorno si era ritrovato impegnato in lunghe telefonate fatte di tutto e di niente che lo avevano assorbito per pomeriggi interi. Andava al secondo anno del liceo classico.
Al terzo in qualche modo Daniele gli aveva detto che lo trovava interessante. Che gli piaceva.
Lo aveva spiazzato.
Si ricordava che anche quello era successo per telefono.
Un po' gli veniva da ridere se pensava che la maggior parte delle cose che erano successe tra di loro, per lo meno nel primo periodo, erano passate per le linee telefoniche.
Nonostante tutto non gli era mai sembrata una cosa priva di emozioni, non gli era mai parso che si nascondessero dietro lo schermo di un telefonino perchè incapaci di comunicare viso a viso. Non era da loro, non era per le loro anime un po' antiche e un po' moderne, fatte di libri e poesia e di un velo di cinismo.
Vivevano lontani, tutto qui. All' epoca Hayato abitava in un paesino a una decina di chilometri dalla città e Daniele... e Daniele non era mai andato a trovarlo.
Forse era troppo pigro, forse non gli piaceva abbastanza.
Nonostante tutto la loro storia gli sembrava quasi romantica, quasi dolce.
Non si erano mai detti ti amo, anzi, Daniele gli ripeteva spesso il contrario.
-Io non voglio prederti in giro, se ti dicessi ti amo mentirei. Però ti voglio bene. Ti voglio un bene immenso. Anche dirti ti voglio bene mi sembra riduttivo.
Per questo non gli diceva spesso neppure quello.
-Nemmeno io ti amo- rispondeva Gokudera fumando quel che restava delle sue prime sigarette consunte. In realtà gli faceva male, avrebbe voluto sentirsi dire almeno un ti voglio bene smozzicato qualche volta. Daniele era schietto e lo feriva ma allo stesso tempo non poteva non accettare quella sincerità disarmante. Non voleva fargli male, semplicemente, non voleva illuderlo.
In realtà, e questo lo avrebbe capito in seguito, anche Daniele mentiva a sè stesso e inevitabilmente agli altri. Più che altro si cullava nelle sue indecisioni. Daniele era grigio, proprio come lui, forse persino di una tonalità più scura.
Eppure quelle loro vite opache e chiazzate di colori cupi intrecciandosi si erano in qualche modo illuminate, colorate di tonalità pastello. Avevano bisogno l' uno dell' altro.
Ammettere la propria omosessualità per Hayato non era stato un grosso problema. Con Daniele ogni cosa sembrava andare oltre, trascendere i limiti, stava talmente bene che non gliene importava niente, che non si era mai posto il problema se fosse giusto o sbagliato.
E poi tanto non lo doveva sapere nessuno. All' epoca non si era posto neppure questo genere di problema, non gli interessava renderlo noto, passare su un percorso minato da sofferenze inutili dovute all' ottusità umana.
Stava davvero bene e tutto il resto poteva aspettare.
Erano passati dalle telefonate ai pomeriggi chiusi nella stanza di Daniele a parlare di discorsi fatti di nuvole e a baciarsi stretti sul letto troppo morbido. Non erano andati oltre, Gokudera non se la sentiva, non subito almeno.
Non seppe mai dire cosa lo bloccasse visto che ogni nervo del suo corpo sembrava gridargli di assecondare i tocchi dell' altro.
Si sentiva piccolo in realtà e stupidamente voleva aspettare il proprio compleanno.
Daniele lo aveva lasciato dopo un paio di mesi dicendo che era senza motivazioni, che non poteva renderlo felice.
Gokudera lo aveva accusato spesso di non andare mai a trovarlo, che non poteva andare sempre lui in città ma a Daniele questo da un orecchiogli  entrava e dall' altro gli usciva. Aveva pensato, da ragazzino quale era, che fosse quello il problema. Forse lo aveva asfissiato?
Si erano lasciati per telefono.
Gokudera aveva pianto come un bambino come non gli accadeva da anni. Gli aveva detto che non era necessario che andasse a trovarlo se non ne aveva voglia.
Si era umiliato senza rendersene conto.
Poi, giorni dopo, aveva sorriso dicendo che andava tutto bene, che potevano essere ancora amici.
Era un' amicizia che faceva dannatamente male, che non riusciva a capire.
Era fatta di baci rubati, di giornate passate abbraciati nella stanza di Daniele mentre lui gli parlava di altra gente, di altre cotte.
A un certo punto non ne aveva potuto più, quel legame lo stava distruggendo.
In una giornata soleggiata di Marzo, mentre il ragazzo che piaceva a Daniele passava davanti a loro con la sua ragazza, seduti su una panchina del parco in quella mattina di sciopero, gli aveva detto che non ne poteva più.
Era come se una molla fuori controllo fosse scattata nella sua testa.
-Ohi- lo aveva chiamato indolente fissando un albero verde smosso dal vento- forse è meglio se la finiamo qui. Io non ce la faccio più. Ti rendi conto che non è normale? Baci me e poi mi parli di Andrea.
Daniele lo aveva guardato:- Parli sul serio?
-Sul serio.
Era capitato altre volte un discorso del genere e tutte le volte Hayato lo chiamava un paio di giorni dopo per tornare da lui con la coda tra le gambe, quel giorno però era diverso. Si chiese se Daniele lo avesse capito.
-Non è giusto e io non ce la faccio più.
-Lo so che è sbagliato ma io... io non lo so cosa provo per te.
-No, la verità è che con me sei tranquillo. Pensi sempre che starò lì a scodinzolare per te.
-Non hai capito un cazzo, Dera. Te l' ho detto cosa provo per te. Te l' ho detto un milione di volte, sono sempre stato chiaro. Non ti ho mai preso per il culo.
-Va bene- aveva annuito- posso essermi rotto il cazzo allora? Te l' ho detto, finiamola qui. Ora come ora non riesco ad esserti nemmeno amico.
Daniele avava annuito arrabbiato e si erano alzati prendendo due strade diverse.
Quel giorno era veramente finito tutto.
Era il compleanno di Daniele e il braccialetto d' acciaio che gli aveva comprato era rimasto ben chiuso dentro lo zaino.
Vi erano incise due lettere, la D. e la H.
Daniele e Hayato.
Oppure Daniele Hagen.
Ironia della sorte. Proprio un bello scherzo, no? Tutto da ridere.
Nei mesi successivi l' unico amico di Gokudera, un amico a cui però non confidava di certo i suoi redonditi segreti, lo aveva trascinato per pub e locali, gli aveva fatto conoscere gente, lieto che il compagno di banco avesse finalmente deciso di aprirsi un po'. Sapeva persino essere divertente, Gokudera, e spensierato. Non lo avrebbe mai detto.
Poi si erano tresferiti e il pensiero di Daniele si era fatto di giorno in giorno sempre più sbiadito, sempre più raro.
Ma non era sparito.
Il braccialetto era chiuso in una scatola assieme a tutto quello che aveva significato.
Daniele lo aveva cambiato, aveva rafforzato quella parte scura del suo carattere che era andata espandendosi sempre di più, come una macchia d' olio dentro l' anima.
E se prima era solo un po' timido e imbronciato, a tratti pessimista e realista al tempo stesso, oggi era una persona pià cinica, più disincantata, un estraneo tra gli uomini, un adolescente col cuore di ghiaccio e l' anima ben serrata in una gabbia.
Era come se cuore e cervello non comunicassero più, o comunicassero male trasmettendosi vicendevolmente solo emozioni negative.


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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


3 il sentiero
Con la punta delle dita toccava un nastro multicolore, un velo fatto di tempere chiare e di sostanza irrisoria, quasi impalpabile. Di sè vedeva solo le mani che si protendevano e lambivano quel velo che si muoveva come se fosse agitato dal vento.
Non aveva freddo, non aveva caldo.
Non sentiva sensazioni sulla pelle.
Vedeva solo quel velo e null' altro.
Voleva assolutamente strapparlo con forza. Vedere cosa c' era oltre. Nutrirsi di verità celate.
Divorarle.
Ucciderle.
In qualche modo violarle.
Sapeva che oltre il velo c' era solo il Nero. Un buio che non era buio, che era pesante, potente.
Era afissiante come una scatola chiusa.
Appiccicoso come la pece. Poteva catturarlo e sporcarlo.
Poteva morirci dentro.
Eppure.
C' era qualcosa.
La sveglia suonò sul comodino, Hayato si girò a spegnerla con un gesto secco. Aprì gli occhi a fatica e gli sembava di non avere dormito un attimo.
I veli, i veli.
Doveva andare a scuola anche se non voleva.
Si alzò, si lavò e si vestì lentamente saltando la colazione e uscendo di casa senza vedere nessuno.
Certe volte si chiedeva se fosse abitata.
Forse se lo domandava anche la gente che passava davanti a casa sua, la villetta solitaria alla fine di una breve salita.
Attraversò il parco di corsa e poi un lungo sentiero cosparso di foglie secche che scricchiolavano ad ogni passo.
Un po' come la sua vita, no?
Era un sentiero lungo, sembrava senza fine, sembrava rubato ad un quadro e appiccicato alla bell e meglio alla realtà fisica.
Un quado fantastico e irreale.
Quella strada era diversa da tutto il resto. Le foglie secche coprivano il sentiero come un lungo tappetto uniforme e senza buchi. Se ci si guardava indietro ci si trovava di fronte vie strette e delicate, brevi, costeggiate da rari alberi di ogni genere e tipo e da bassi cespugli. Quel sentiero infinito e omogeneo invece sembrava un mondo altro, un a parte separato dalla realtà.
Era come mettere i piedi oltre una linea di demarcazione che separava il mondo fisico da quell' altro.
Fantasia?
Pensiero?
Coscienza?
O forse era semplice paura?
Semplice vuoto che era tale perchè dentro c' era un tutto indistinto che si muoveva e si mescolava senza requie mascherandosi sotto i silenzi di quel luogo, sotto lo scricchiolare delle foglie, sotto quel nulla apparente fatto di quiete.
Il vuoto non è mai vuoto, è sempre dannatamente pieno solo che noi non lo sappiamo.
Non possiamo saperlo.
Dobbiamo fracassare il vuoto per renderci conto che è tale solo quando ci perdiamo nei nostri pensieri che si inseguono e si attorcigliano tra di loro creando masse intricate di una confusione che è nera, che è notte e che ci atterrisce.
Non capiamo più niente in quell' indistinto, non troviamo più niente, perdiamo la strada e siamo talmente confusi da credere di non possedere più nulla, a tal punto da esserci scordati persino ciò che cercavamo. E non riusciamo a trovare quel qualcosa in quell' indistinto. Quel qualcosa che c' è, che è lì da qualche parte.
Ma dove?
E che diavolo stiamo cercando?
Non lo sappiamo.
Non lo sappiamo e allora c' è solo il nulla, il vuoto sui cui confini vagare.
E' come se ci muovessimo terrorizzati sui bordi di una voragine nera. Non siamo così stupidi da buttarci.
Siamo angosciati e ci domandiamo perchè c' è solo un niente che fa paura, perchè sentiamo quell' oppressione che ci pende sulla testa come una spada di Damocle, perchè c' è quel senso di... vuoto persino nel cuore.
Ci manca qualcosa che dovrebbe esserci e qualcos' altro che non dovrebbe esserci invece c' è.
Siamo forse pazzi?
Hayato attraversò il sentiero di corsa fingendo di essere in ritardo.
Urtò una spalla e quando si girò per chiedere scusa riconobbe una faccia conosciuta.
Un sorriso comparve sulle labbra di Takeshi mentre si toglieva le cuffie.
Era raro trovare gente a quell' ora.
-Yo- lo salutò
-Ehi- biascicò Hayato- scusa per prima- e voleva girarsi e andare via.
-Aspetta
-Che vuoi?
-Siamo nella stessa classe.
-Embè?
-Mi aiuti?- Takeshi indicò la gamba e la stampella.
Hayato sghignazzò:- Ti sei fatto pestare per bene.- mosse un paio di passi verso l' altro- che devo dare?- chiese quasi con rabbia
Takeshi sorrise:- Niente, solo farmi compagnia.
E Hayato sgranò gli occhi. Forse dopo tutto non era una cattiva idea.
Ci fu un momento di silenzio, poi Takeshi parlò:- Ti piace questa strada?
Hayato si voltò di scatto verso di lui. Che domanda era?
-Sinceramente- puntualizzò il moro.
L' italiano ci pensò su:-Vuoi la verità- ponderò
-E' strano?
-Non ti puoi accontentare di una conversazione superficiale come fa la gente normale?
-Credi che la gente faccia così?
-Di solito- tacque- spesso- rettificò.
-Lo fa quando non ha nulla da dirsi, quando è in imbarazzo- spiegò Takeshi sorridendo.
-O se ti vuole impressionare- aggiunse Hayato- cioè spesso. Quando conosci una persona cerchi sempre di fare una buona impressione. Di sembrare speciale, magari se quella persona ti attira veramente. Si finisce per strafare e quindi per fingere. E si mettono su conversazioni idiote.
-Le prime conversazioni tra due persone che si conoscono appena non possono certo essere... intime, diciamo, no?
-Credo di sì. E allora tu che diavolo vuoi?
Takeshi rise:- Voglio rompere questa specie di regola non scritta. Quella delle conversazioni idiote come le hai chiamate tu!
-Ah.- Hayato si concesse un mezzo sorriso- saltare le tappe, eh?
Takeshi si fermò al' improvviso, Hayato fece altrettanto girandosi verso di lui. Il giapponese disse:
-Credi di poterlo fare? Ti sentiresti pronto a saltare i convenevoli e buttarti in discorsi più profondi? A svelarmi qualcosa di te, a svelare quello che si cela dietro i tuoi occhi, nel tuo cervello?
-Ti facevo sinceramente più stupido- fece Hayato- e comunque la risposta e no. Dalle mie parti si dice: "fatti i fatti tuoi e campa cent' anni", ecco, fatti i cazzi tuoi.
Gli voltò le spalle infilandosi le mani nelle tasche e muovendo i primi passi.
-Sbrigati, idiota, o ti lascio qui- scosse la testa contrariato soffocando le sue parole in un borbottio sconnesso- che razza di discorsi. Di primo mattino poi.
Takeshi lo seguì sorridendo. Lo sapeva, in qualche modo quel ragazzo era come lui.
-E tanto per chiarire- aggiunse l' italiano- di te non mi fido.
E Takeshi in quel momento pensò che sarebbe stata dura con quello lì, che c' era molto da lavorare visto che il suo nuovo amico era certamente testardo come un mulo.

Alla fine delle lezioni Hayato sbirciò di sottecchi il moro. Lo vide alzarsi faticosamente dalla sedia mentre parlottava con un paio di ragazzi. L' italiano prese la tracolla e si alzò a sua volta dirigendosi verso la porta, lentamente.
-Ohi Gokudera!- quando si girò vide Takeshi zoppicare verso di lui- aspettami.
Hayato sbuffò tuttavia si fermò ugualmente.
-Facciamo la strada insieme, ti va?
-Se andiamo nella stessa direzione tanto vale...- concesse l' altro.
Takeshi sorrise:-Se ti va possiamo fare la strada insieme ogni giorno. La mattina ci possiamo vedere da qualche parte e andare a scuola assieme che dici?
-Dico che ti stai prendendo troppe confidenze.
Il tragitto fu stranamente silenzioso, a differenza della mattina, poi si fermarono solo una volta superati i cancelli del parco.
-Qui ci separiamo- disse Takeshi.
Hayato grugnì qualcosa accendendosi la seconda sigaretta del percorso.
-Domani ti aspetto qui- gli urlò l' altro allontanandosi e sventolando la mano in aria.
-Come se avessi detto che ci sarò- borbottò l' italiano.

L' indomani Hayato uscì dalla villa di fretta, con una certa agitazione nel corpo. Fremeva.
Chissà se... pensò.
Più si avvicinava ai cancelli del parco e più affrettava il passo. Eppure faceva di tutto per non pensarci, non si aspettava certo niente da quell' idiota, non si aspettava niente da nessuno, figurarsi da un tipo simile appena conosciuto.
Andava bene fare la strada da solo. Anzi, era anche meglio.
Era anche...
Si fermò al centro della strada non appena vide Takeshi appoggiato pigramente ad un muretto.
C' era, si disse.







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Ciao a tutti, capitolo confusionario, mi rendo conto, ma questa storia è talmente introspettiva da essere sfuggente, i pensieri non si toccano, assumono contorni definiti o sfumature, forme, immagini, colori o addirittura diventano il niente assoluto e qui è proprio questo che ho cercato di riprodurre anche se goffamente. Forse è difficile da seguire a volte ma non voletemene, sto sperimentando, come sempre ultimamente. Spero non sia sempre così ^^"
Scusate per gli errori ma non ho avuto tempo di ricontrollare bene.

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