Ume Nikki

di Ellie_x3
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La sposa di Edo ***
Capitolo 2: *** La Casa sulla Strada di Ciottoli Bianchi ***
Capitolo 3: *** Come Radici Nel Terreno ***



Capitolo 1
*** La sposa di Edo ***



Ume Nikki



Quando i miei cugini, che ora giacciono negli ossari come martiri della guerra Boshin, erano giovani e dediti allo studio del Cinese classico, io avevo l'abitudine di prendere parte alle loro lezioni. Ero solo una bambina, ma divenni stranamente brava e capivo con facilità i passaggi che loro trovavano troppo difficoltosi da comprendere e memorizzare.
Mio padre, un uomo colto, se ne dispiaceva moltissimo.
"Solo fortuna!" diceva "Che peccato che non sia nata uomo."

Sorridevo di quelle parole, un tempo. Per farlo penare di meno, mi esiliai volontariamente nel mondo dei monogatari.
All'alba del 1864, però, capii.
Da quel giorno, avrei dato qualsiasi cosa per essere in grado di combattere la guerra di coloro che amavo.

[Smile One moment
vacant stare the Next
Unbroken treads of yearning thoughts
realm of dreams ever before me.
]

Tang Xianzu; Il Padiglione delle Peonie
Du Liniang; Scena 36



.0.

La sposa di Edo

Vivevo da molti anni in stanza arredata tradizionalmente, sobria, nel bel mezzo di una villa costruita sulle sponde del Arakawa.
La mia vecchia residenza, Fuyuhara, era stata confiscata insieme a numerosi beni di famiglia, tuttavia non me ne ero curata: dopo aver vissuto con ansia la rivoluzione Meiji e i cambiamenti del mio paese, avevo smesso da molto di lasciarmi intaccare dal mondo esterno.
Lasciando che altri camminassero in mia vece, quando io non dormivo né mangiavo, avevo cercato. Per cinque anni, attraverso occhi e gambe altrui, avevo battuto le strade di Tokyo alla sua ricerca.

“Qui dentro” la invitò una cameriera, la stessa che l’aveva accompagnata per tutto il tragitto, indicando oltre la porta occidentale che insistevo per tenere aperta “La signora vi attende”.
Chizuru annuì, con l'aria perplessa. Era diventata una bella, giovane donna e aveva vissuto nel freddo di Ezo, gomito a gomito con persone importanti, ma ancora sembrava un coniglietto spaurito di fronte al lusso.
Non facevo fatica a comprendere il perchè.
Non era da sola, prima.
C’era lui, prima.
Le venne nuovamente indicata la porta e lei la superò a passi lenti, guardandosi bene attorno. Si poteva dire che avesse imparato la prudenza ben prima dei tempi Ezo, durante i suoi anni a Kyoto, e che conoscesse il valore di un’occhiata attenta.
Potevo ben immaginare il suo sconcerto nel vedersi aprire davanti davanti una grande sala bene illuminata che misurava almeno tre tatami per sei, con muri bianchissimi e due kimono appesi alla parete. Uno pareva un aquilone, con due amanti rappresentati sotto un grande pruno in fiore ricamato su gonna e maniche, mentre l’altro era più cupo ed un uomo abbigliato da kuge sembrava per essere inghiottito dalle onde.
Quei kimono. I suoi occhi vi indugiarono un istante di troppo -come se capisse, come se sapesse.
“Yukimura Chizuru.”
Chizuru si irrigidì nel sentirsi chiamare e io mi stupii di quanto fosse diventata debole la mia voce.
“S…Sono io.” Asserì, affondando in un profondo inchino.
“Lo so, lo so. Ma guardati, come ti sei fatta grande.”
La ragazza sfarfallò le ciglia, senza capire, e io mi sentii stringere lo stomaco in un nodo di nostalgia. Ma guardati…sì, avrei dovuto dirlo a me stessa.
Vedova, con i fianchi allargati da una decina di gravidanze e gli occhi arrossati dal pianto, dovevo essere l'immagine della miseria: a quarant'anni ero anziana ma non curva, con i capelli neri sciolti sulle spalle e ancora il portamento che imitava quello delle principesse d'altri tempi. Quello, quello la restaurazione non aveva potuto mutarlo.
Vestivo d’un viola acceso, una cascata di seta eliotropo drappeggiata sulle mie ossa minute.
Sapevo cosa avrebbero ricordato quel colore alla piccola Chizuru, poiché lo ricordava anche a me ogni giorno, da cinque lunghi anni.
Da quando le lettere si erano interrotte e Ezo si era rivelata per il miraggio che era -eppure Hakodate, Hakodate era reale. Troppo reale.
Le rivolsi un sorriso che desiderava essere accomodante.
“Quanti anni sono passati, Chizuru-chan.”
“Mi conoscete?” domandò, con un filo di voce. Temeva la risposta, questo era piuttosto chiaro: lo leggeva nel fondo dei suoi occhi color terra e nelle movenze scattose.
Si era nascosta dagli Oni, vivendo come un’umana nella città che l’aveva vista crescere e che sapeva essere abbastanza grande da nasconderla, ma forse aveva sempre sospettato che l’avrebbero trovata.
Era stata una sorpresa enorme, per me, scoprire la vera natura di Chizuru.
“Quando eri una bambina, sì. Ti comprai i dolcetti.”
“Perdonatemi, non ricordo.”
Risi una risata leggera come carta da Origami. La luce iniziava a ferirmi gli occhi.
“Oh, lo immagino. Ma cercando Toshi ho trovato te…e non me lo sarei mai aspettata. Che coincidenza.”
Toshi.
Chizuru spalancò le labbra e, per un momento, parve sul punto di crollare in ginocchio. Barcollò, impallidì, si sciolse davanti ai miei occhi.
“Hijikata-san?”
Di nuovo quel tono terrorizzato.
“Quando lo conoscevo io era ancora il ragazzino che attirava clienti a Matsuzakaya, il negozio di kimono.” La corressi, gentilmente. Lei era ben più piccola, all'epoca, non poteva ricordare...non poteva immaginare. “E l’ho cercato per vedere se ne era rimasto qualcosa, sotto le spoglie dell’oni.”
“Hijikata-san è…”
“Lo so. Non dirlo. E’ difficile per entrambe pronunciare quelle parole, temo.”
“Sono passati anni.” mormorò, asciutta.
Comprendevo bene perchè sembrava che non gliene importasse poi molto, vedevo sotto la maschera: aveva pianto troppo, dagli anni della Shinsengumi in poi. Aveva amato troppo.
Eravamo tutte come l'acqua in un pozzo dimenticato ed esposto ai raggi del sole: secche.
“Non sempre basta il tempo, Chizuru-chan. Lasciatelo dire da una donna ormai vecchia che sa di cosa parla...” un sorriso, sulle sue labbra spente. Sembravano essere state belle, ma ora erano pallide e sottili. “Tuttavia, non ho trovato Toshi ma te, e ti ho fatta chiamare ugualmente. Hai idea del perchè?”
La ragazza scosse la testa.
Voglio saperlo.
Voglio rendermi utile.
Anche senza parlare, era capace di farsi capire. E Toshi, diventato insofferente alle chiacchiere per sua stessa ammissione, l'aveva apprezzata proprio per quello?
“Vorrei esservi utile, Obaa-san.”
“Lo sarai.”
Voce, voce come sabbia che scorre in una clessidra. Morbida e ruvida al tempo stesso.
Non ero più abituata a parlare tanto.
“Come?”
“Desidero che tu mi leghi le caviglie, Chizuru.” fu la mia risposta. Pacata, composta, una donna non troppo vecchia che diceva di averla conosciuta quando era bambina le chiedeva assistenza nella morte. Mi rendevo conto di come dovevo apparirle strana, e Chizuru mi dedicò uno sguardo smarrito che ricambiai senza batter ciglio. “Ho formalmente posto termine alla mia vita con la morte di Hijikata Toshizou. Desidero che tu mi possa aiutare nel compimento dell'atto fisico.”
“Perchè io?”, domandò.
Aveva visto morire uomini e donne a sufficienza per due vite, quella ragazza, ma ero ben lontana dal provare pena per lei.
Al contrario, forse, la stimavo.
L'avevo conosciuta sulle strade di Edo e attraverso la scrittura affilata delle lettere di Toshi. Era incapace di provare risentimento nei confronti di quella ragazzina, e così accadeva anche a me.
Era forte.
Passiva, forse, ma forte.
“ Perchè lo conoscevi nel suo momento di maggior forza e debolezza. Ha smesso di rispondere alle lettere da troppo tempo perchè io possa conoscere l'Hijikata Toshizou che conosci tu.” mentii.
“Vorreste lui, ad assistervi.”
Ah, questo era vero.
L'aveva capito.
“Sì. Ma lui non potrebbe, poiché è una questione di donne. Ed era tanto tempo che speravo di rivederti, Chizuru-chan. Posso chiederti questo favore?”
Chizuru esitò.
Un momento troppo lungo, troppo pregno d'indecisione, tanto da farmi temere che mi avrebbe negato un favore. Non ero certa di poter sopportare un rifiuto, non da lei: la bambina incontrata per caso, con il padre medico e la risata di campanelle.
Avevo fatto così tanto affidamento, su di lei...
“Lo farò.” disse, solo, e seppi che sarebbe stata fantastica.
Lo farò.
Una promessa senza tanti complimenti.
“Bambina, hai preso così tanto dalla Shinsengumi.” commentai, non senza affetto. Avrei desiderato abbracciarla, ma le gambe non mi avrebbero retta. “Grazie. Grazie davvero.”

Non le dissi che prima avrei celebrato le nozze spettrali, poiché non v'era necessità di turbarla.
In fondo, non era Hijikata Toshizou l'uomo che volevo sposare: desideravo solo la sua compagnia oltre la morte. Forse era per questo che avevo atteso così tanto per porre fine alla mia vita, senza seguire né il primo né il secondo degli uomini che avevo amato.
Avevo aspettato il terzo.
E poi, ancora, avevo atteso la piccola Chizuru poiché non potevo far nulla senza parlarne con lei, senza renderla partecipe. Toshi non sarebbe stato felice, altrimenti -se felice poteva dirsi vedendomi legata ad uno Shiranui.
L'approvazione di Toshi.
Bah.
L'approvazione di un contadino.
Non avevo mai smesso di chiedermi, dall'estate del 1853 al giorno del mio jigai, perchè fosse così importante.



Note:

"Quando i miei cugini [...] nata uomo": Le prime righe sono prese, anche se con alcune modifiche, dai Murasaki Shikibu Nikki. 
Jigai: Suicidio rituale femminile. Serviva un'assistente, appunto, per legare le caviglie.


---Io, niente. Ecco. Sono felicissima di essere riuscita a postare Ume Nikki, finalmente. 
E' un lavoro complesso, con una quantità incredibile di citazioni classiche, ma sono fiera di poter dire che mi sto divertendo un mondo.

E, spero, potrò farla piacere a qualcuno tanto quanto a me.





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Capitolo 2
*** La Casa sulla Strada di Ciottoli Bianchi ***


Sono passati anni, oramai, da quella calda e lunga primavera che vide fiorire per l'ultima volta i ciliegi.
Indossavo un furisode o un homogi, all'epoca? Andava di moda la musica Tougaku dalla Corea o i canti di campagna Jiuta?
Non ricordo.
Il mio armadio era ben ordinato e profumato e il colore della stagione era indossato da ogni attore o attrice di Yoshiwara, ma i dettagli sono sfumati.
Anni, anni, anni.
Ora la neve si posa sui bei ponti di Tokyo e non posso fare a meno di chidermi se smetterà mai di cadere.
La mia mano trema per lo sforzo di sostenere il pennello ed ogni singolo carattere trema con me, come se avesse freddo. Freddo o paura.
Fuori dalla mia finestra si sentono mille voci, in mille dialetti, e persino il colore del cielo pare cambiato.
Eppure, se mi guardo anche solo un poco indietro, rivedo il passato; quando portavo i capelli lunghi, quando questa guerra non esisteva.

Quando lo shogun proteggeva tutti noi dai barbari, indisturbato da più di duecento anni, e le porte erano chiuse a stranieri ed assassini. 
Quando la famiglia Tokugawa, il grande drago giallo uscito vittorioso da scontri leggendari, aveva ancora potere.
Quando avevo sedici anni, questa città si chiamava Edo ed io contavo ancora qualcosa.

.I.

La casa sulla strada di ciottoli bianchi

 

[Giugno 1851]

Mi pareva di attendere da ore, seduta accanto alla grande finestra che dava sul giardino.
Intravedevo le minuscole carpe, punti rosa e bianchi sotto il velo trasparente dell'acqua, le mezze lune lignee dei ponti e le fronde degli alberi bassi. Il rigagnolo dell'Immortalità che sgorgava dalla montagnola rocciosa, posta nell'angolo canonico, brillava sotto i raggi del sole.
Era uno spettacolo tremendamente bello, con l'erba di quel delicato colore fra il verde e il giallo che prelude l'inizio dell'estate, ma così suggestivo da farmi male.
Distolsi lo sguardo.
La realtà è che, seduta, annoiata e privata della compagnia di Keisei, mi sentivo trementamente frustrata.
Quando apparve un vecchietto tutto ricurvo, vestito coi colori dei Sakakibara e col nostro stemma sulle maniche, mi sentii sollevata tanto da schizzare in piedi senza la minima grazia.
Naturalmente, finse di non accorgersene.
"Potete essere ricevuta, Sakakibara-dono".
Gli rivolsi un sorriso reverente.
"Vi ringrazio." mormorai, ad occhi bassi, e sospettai che non mi avesse sentita.
Non ero sicura che ci sentisse ancora bene; era vecchio, stropicciato come un foglio bagnato lasciato a seccare, con gli occhi neri incastonati in un mare di rughe color ocra e i capelli bianchissimi.
Vero che indossava le vesti grigie dei gokenin, gli uomini della casa fedeli alla mia famiglia, ma l'aspetto era quello di un contadino lasciato a macerare sotto il caldo sole estivo e non escludevo l'idea che potesse patire degli acciacchi dei fattori e degli uomini che ormai hanno fatto il loro tempo.
Si inchinò profondamente al mio passaggio e, senza pensarci, chinai il capo a mia volta. Ciocche lucide mi ricaddero sul viso, scivolando fuori dall'acconciatura, ma mi limitai a spostarle dietro le orecchie con un gesto sbrigativo.
Dietro le spalle ossute dell'uomo si apriva l'arco laccato della porta -della mia nuova vita, temevo- e non sapevo se ero o no pronta ad attraversarlo.
Avevo intravisto Edo solo attraverso le sue strade polverose, senza poter godere della vista delle sobrie stanze della tenuta di famiglia nè avere il tempo per sistemarmi a dovere e, anche se ero stanca, la città mi incuriosiva.
Era quella la vera capitale? I suoi abitanti erano così diversi da quelli di Kyoto come si diceva?
Mentre a Kyoto il figlio primogenito dello Shogun festeggiava la maggiore età all'ombra dei giardini di Nijo, io ero davvero tenuta a rimanermene quieta come un uccellino in gabbia?
Naturalmente la risposta era sì.
Sì, ad ogni domanda.
Sì, ad ogni restrizione.
Esattamente quello che avevo dovuto dire io stessa, rispondendo ad una chiamata troppo esosa per essere rifiutata: sì.
De
sideravo respirare, vivere ritirata in campagna in compagnia dei miei libri, ma non mi era permesso.

Attraversai la porta, passo dopo passo.
A casa, nell'intimità delle mie stanze e circondata da un capannello di amiche e cugine, mi ero preparata a camminare ben diritta nonostante l'impedimento di strati e strati di seta; su zoccoli alti, laccati di nero, sarei sembrata flessuosa come un giglio e dotata della grazia di una principessa.
Finivo sempre per ridere di mè stessa, questo è vero, ma mai avrei sospettato di fare il mio ingresso trionfale in solo un sobrio hitoe sui toni dell'azzurro, in seta imbastardata a cotone.
Mio zio, il fratello maggiore di mio padre, mi diede il benvenuto.
La sua presenza sapeva di casa, di ambienti familiari, del suono dei grilli nel giardino, ma non bastava a placare il risentimento che serbavo nell'animo.

"Kimiko." mi salutò "Prego, vieni avanti."
Obbedii, guardando bene avanti.
Agli angoli della mia visuale scorrevano pareti laccate e paraventi dipinti; distinsi distrattamente un unico, enorme quadro in stile occidentale che torreggiava sulla parete nord, proprio alle spalle dello zio, e nel quale erano ritratti i membri principali della casata Sakakibara.
Era stato dipinto anche mio padre.

Sakakibara Masamichi era seduto su un cuscino di velluto viola, anch'esso di richiamo occidentale, ed era rimasto esattamente come lo ricordavo: un uomo basso, corpulento, con un grande sorriso senza labbra aperto sul volto come una cicatrice.
Sulle maniche del suo kimono scuro riposava lo stemma di famiglia, bianco e circolare.
"Sono contenta di trovarvi in salute, zio." salutai, arrivata ormai ad una decina di passi da Masamichi ed affondando in un inchino.
Sperai che non si intravedesse il rossore che mi imporporava le guance nel sentire nuovamente l'acconciatura traballare, sciogliersi ciocca dopo ciocca dalla presa dei pettini d'argento. Erano stati di mia madre, un dono proveniente dalle miniere dello shogunato passati a me come unica figlia, tuttavia non ero certa di portarli con la dovuta grazia.
Non v'era stato il tempo di accordare niente di meglio, a causa dei ritardi subiti durante il viaggio e speravo davvero che almeno l'obi fosse stato assicurato correttamente e che durasse per tutta la durata della riunione: sarebbe stato oltremodo imbarazzante trovarsi a dover sostenere a mano tutti quei vestiti.
Lo zio rise, per tutta risposta, una risata entusiasta che mal concordava con la fredda compostezza che avevo in animo di mantenere per tutta la durata della conversazione.
Ricordavo quell'uomo per i suoi modi gentili, è vero, ma è facile dimenticare la dolcezza quando si è sottoposte al bastone una volta di troppo.
Per un momento temetti che mi stesse prendendo in giro.
"Su, bambina mia, quanta formalità. Mettiti seduta e lasciati guardare, non ti vedevo da così tanto tempo..."
"Credevo di essere stata mandata a Edo proprio per una questione formale." replicai inarcando appena un sopracciglio e rimanendo ostinatamente in piedi. Tuttavia, mi pentii subito del mio tono saccente e, diventando d'improvviso ancora più rossa in viso, aggiunsi con cautela: " Sono qui per servire nel miglior modo possibile."
Masamichi annuì, con la fronte aggrottata. La sua pelle pareva fatta d'acqua, uniforme e brillante, ma per un secondo distinsi chiaramente ogni minuscola ruga d'espressione.
Era invecchiato, o magari era solo tipico degli uomini della sua età?
Poche volte mi era stato concesso di parlare così apertamente con un parente che non fosse mio padre, il quale sembrava davvero avere la capacità di non invecchiare mai. Daigo, invece...Daigo era giovane e bello, e il tempo lo levigava come fa con l'avorio e le pietre preziose.
"Vi hanno spiegato il motivo del vostro trasferimento?" domandò lo zio.
Io, nel sollevarmi dall'ennesimo inchino in cui mi ero profusa, gli lanciai un'occhiata perplessa.
"Seguo le direttive di mio padre e mio marito." risposi.
E, sebbene la risposta fosse stata impeccabile, sentivo nella testa la voce di nonna che mi rimbrottava per il comportamento troppo sincero e il tono acido.
A nessuno piaceva una donna velenosa come una serpe, per bella che fosse.
Mi rispose uno sbuffo che proprio non riuscii a definire: sperai non stesse ridendo di me, ma ci sarebbe stato da penare se con i miei primi dieci minuti a Edo avessi già indispettito lo zio.
Non mi piaceva ignorare i pensieri altrui poichè non ero affatto abile nell'indovinarli.
Finivo per concentrarmi su quelli, mi concentravo, mi concentravo...e, inevitabilmente, dimenticavo tutto il resto.
"Ah, Kimiko. Sei venuta fino a qui senza conoscerne il significato?"
Esitai.
V'era una risposta rispettosa per quello che sembrava un buffetto sulla guancia dato ad una bambina obbediente?
Ad ogni modo, lo zio continuò accontentandosi del mio silenzio: "Ma va bene. Capisco perchè tu l'abbia fatto: provi devozione nei confronti di tuo padre?"
"Naturalmente." mi sforzai di essere docile nei modi e armoniosa nelle parole, poichè ero stata cresciuta nel segno della pietà filiale, come dettavano i precetti del Venerabile Hayashi.
"Ami tuo marito?"
Annuii nuovamente: "Sì." e, sebbene fosse una verità traballante, non suonò diversa dall'affermazione riguardo mio padre.
"Passerai in loro vece qualche mese a Edo, Kimiko. Questo l'avrai capito da sola. Il fatto importante è che prenderai parte alle direttive dello shogunato, con la tua condotta, e mostrandoti ai sovrintendenti dichiarerai la fedeltà tua e della famiglia a Tokugawa Iesada."
Chinai il capo, in segno di comprensione ed asservimento all'autorità -com'era naturale, d'altro canto.
Avevo già sentito parlare del Sankin Kotai, sapevo cosa significava: una lunga vacanza a spese della famiglia e che si poteva facilmente evitare con una tassa supplementare.
Fin'ora l'avevamo vissuta così, come se una tassa potesse allontanarci da una vita politica alla quale mio padre non era affatto interessato: lui che passava la vita all'ombra di un pino in compagnia dei suoi studi confuciani, il suo bunbu-ryodo, e delegava gli affari al fratello maggiore.
Naturalmente, la mia presenza a Edo indicava la fine di tale pratica.
"Se è necessario comprovarla in questo modo, ebbene, non mi dispiace." dissi, soppesando bene le parole. Non desideravo fare la figura della stupida "Potrò vedere Edo, così come avevo desiderato, e vivere un po' dedicandomi alla città. Sarà un bel cambiamento."
Lo zio si mostrò soddisfatto dalla mia risposta: a differenza delle mie cugine, Mawako, Noriwako e Suiko, non ero particolarmente spaventata dall'idea di vivere fuori casa.
Mi sarebbero mancati mio padre e mia madre, certo, e mia nonna...ma cos'era, quello, se non il prezzo per conoscere il mondo?
I miei genitori mi avevano considerata abbastanza marginale da spedirmi a Edo. Daigo era impegnato negli affari dell'impero. Bene.
E allora, mi chiedevo, non era forse saggio vederla come un'opportunità?
Tutto nel mondo aveva una logica.
Speravo che lo zio, guardando nei miei occhi, vi leggesse questa consapevolezza.

"Quanti vestiti hai con te?"
"Due bauli."
"Donne che possano assisterti?"
"Tre, più la mia domestica e il vecchio Komichi."
Lo zio si lisciò la sottile strisciolina di barba che gli pendeva da mento, come una cordicella nera e lucida, e aggrottò le sopracciglia.
"Necessiterai di altro personale" decretò, infine, dopo averci riflettuto un po' su "E, forse, di qualche bel vestito. Di che colore ti piacerebbe?"
Le sue parole, per quanto gentili, ebbero il terribile effetto di ricordarmi il tessuto che portavo addosso: vestiti belli come quelli che poteva comprarmi lo zio non ne avevo mai avuti.
Daigo me ne portava di meravigliosi, vero, ma erano troppo mondani.
Io ero diversa: come Kiritsubo e come Yang Guifei, simili per l'alto rango, il carattere e l'amore. Soprattutto l'amore.
Quel tipo che inibisce la ragione, che accende la bellezza e corteggia la morte in giovane età.

"Grigi." risposi, comunque, senza nemmeno pensare a declinare l'offerta per educazione. Poteva rifiutare il dono, se gli andava e se mi avesse ritenuta troppo sfacciata, anche se speravo davvero non lo facesse. "Grigi, oppure azzurri. Sono i colori che preferisco e si addicono alla stagione."
"Hai un buon gusto estetico, mia cara, adatto ad una moglie." mi sorrise, così caldamente che credetti di non aver mai visto un affetto tanto sincero "Sei nata con quello che qui chiamiamo Iki."
Iki.
Aveva un bel suono.
Sorrisi beandomi del mio nuovo essere Iki, raffinata.
"Vi ringrazio, Zio."

*

Alla fine della nostra conversazione, risultò che mi avrebbero lasciato un negozio di Kimono, parte dell'industria d'alta classe dei Matsuzakaya, di cui la mia famiglia possedeva parte delle licenze.
Non vi avrei lavorato affatto, com'era chiaro, ma avrei potuto supervisionarlo e i suoi proventi mi sarebbero serviti da sostentamento suplettivo.
Uscendo dalla residenza dello zio mi sentivo leggera; ancora un po' a disagio per via del mio aspetto scombinato, ma ritrovai con piacere il vecchio Komichi ancora al proprio posto.
Mi aspettava.
"Ben ritrovata, Kimiko-chan." mi salutò.
Appoggiato al suo bastone di legno scuro sembrava uno di quei piccoli Budda di pietra che si trovano ai bordi delle vie per proteggere il cammino.
"E' stato più facile di quanto pensassi, Oji-san. Possiamo andare."
Lui annuì e mi porse l'ombrellino di carta che aveva custodito per me; mi prese la mano nella sua.
Era stato sempre con me e con mia madre prima di me: era il nostro guardiano, ci proteggeva come faceva l'ombrello dal sole e dalla pioggia, e non mi sarei fidata tanto di nessun'altro.
"Keisei vi ha preparato il necessario per riposare." mi comunicò, sulla strada di casa: chissà quante altre volte era stato a Edo, e in mille altre città, mentre io a stento avevo percorso un frammento di Toukaido.
Soffocai uno sbadiglio, all'ombra del parasole giallo, e non risposi.
Dovevo proprio ricordarmi di chiedergli se conosceva bene la città, per farmi da guida.


Il negozio di mio padre era sulla strada, ma non vi dedicai neanche un'occhiata.
Non mi fermai nè vi prestai attenzione, troppo stanca e concentrata sui vestiti che sarebbero stati commissionati per me.
Non notai nessuno dei miei dipendenti.
No, neanche quel ragazzo dagli occhi violacei che, più tardi, avrei scoperto essere stato messo in mostra al pari dei vestiti per attirare clienti.
Posso solo supporre che non stesse facendo il suo lavoro.
Beh, non che me ne stupisca.

Non sarebbe stata la prima volta.




Note :
Risorgo dal regno dei morti [e degli esami] perchè forse ho trovato la voglia di finire Ume Nikki. I diari del Pruno. Capirete poi il perchè del titolo.
Naturalmente è una bestiaccia storica e io mi sento molto Victor Hugo a presentarvelo così, alla cià, hai mica tempo per infrittarti il cervello?, ma è pur vero che Victor Hugo ha tanti tanti pregi. Tipo Grantaire. E Jehan Prouvaire. E Enjolras. E Gringoire. 
Insomma, cercate quel che c'è di buono, ma non solo. Questo è un lavoro profondamente pensato, anche se magari uscito male, e nella testa di una delle più alte casate fudai non potevo procedere a pane-latte-pasta. Anche se mi sarebbe tanto tanto piaciuto. 
Prima di tutto, sì, mi spiace: non ho detto che fa schifo. Perchè non penso che faccia schifo, per una volta, e sono anzi molto fiera della coerenza d'insieme vista la difficoltà
Quindi niente, magari fa schifo, ma per ora ne sono contenta.
Ora che ho cambiato lidi boh, sarà dura trovare tutti i legami storico/sociali basandomi solo sul web ma...ehy, è per questo che mi piace.
Non metterò tutte le note a fine capitolo, per la semplice ragione che dovrei tradurlo nella sua interezza in termini occidentali. Se qualcosa, qualsiasi cosa, non è chiaro oppure è discutibile chiedetemelo/sindacate senza problemi: non mangio nessuno e mi fa piacere :3 

Sì, il ragazzino è chi sospettate che sia <3

 

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Capitolo 3
*** Come Radici Nel Terreno ***


Acqua.
A volte scorre lenta, altre è un fiume in piena.
Ricordo terra negli occhi di un uomo: concreta e fedele.
Ricordo ferro nei modi di un'altro, lucidi e taglienti.
Infine, v'era il verde delle foglie di bambù nel fondo dell'animo di un bushi.
Ebbi la fortuna di conoscere bene quei tre elementi, così come conoscevo l'odore della mia cipria e l'acqua prfumata del mio bagno, ed in tutti vidi fierezza, gioia, dolore, compostezza.
Giri. Dovere e potenza.
Li amai, in diverso modo, tutti quanti.

E, cadesse l'ultima stella dal cielo, non rinnegherei mai nessuno di loro.


II

Come radici nel terreno
 

Nell'angolo più in ombra del giardino alla residenza della mia famiglia, Fuyuhara, si apriva la strada un fiumiciattolo di ciottoli bianchi.
Era stretto fra due lembi di terra, accarezzato dai fiori e bastavano due passi per attraversarlo, ma mi pareva ugualmente più enrome del Sunagawa e, nel suo intrico di cascatelle che portavano al laghetto delle carpe lontano dal ruscello principale, aveva una forza tutta particolare.
Era piccolo ma potente.
Avevo finito di riposare, farmi il bagno e supervisionare il disfacimento del mio bagaglio. Avevo passato qualche giorno ad oziare sul corridoio scoperto; leggevo libri, avevo composto una poesia in maniera piuttosto frettolosa e osservato le domestiche che pulivano la residenza da cima a fondo.
Non so come notai quel fiumiciattolo.
Semplicemente, me ne innamorai come ci si innamora di una canzone o di un dipinto, e non esitai a sgattaiolare fuori dalla portata dei miei compagni per mettere a bagno i piedi ancora calzati nei tabi.
"Sembri un fantasma, signorina."
Trasalii.
"Come avete fatto a...?"
Non mi ero voltata, irrigidita in mezzo all'acqua e con il viso rivolto all'alto muro bianco, e non mi azzardai a guardare colui che mi aveva parlato.
Temetti che fosse un ladro intenzionato ad usarmi come riscatto, o un assassino inviato da chissà chi.
Non mi intimoriva mostrarmi in pubblico, al contrario, e non mi vergognai d'essere sola in presenza di un uomo: tuttavia mi chiedevo chi mai fosse colui che mi parlava con tanta familiarità. Se fosse pericoloso.
Mi spaventava la sua voce leggera come vento, portata da un luogo lontano.
"Ad entrare, dici, fiorellino?" una risata. Pareva un sogno o, ancor meglio, l'eco di un sogno narrato in versi. "Sono sempre stato qui. E puoi anche girarti, lo sai, non mordo mica."
Di nuovo, mi sentii terribilmente tesa.
"Credo sia il caso che voi ve ne andiate." sbottai.
Fortunatamente avevo avuto l'accortezza di tenere i tabi ai piedi e di lasciare che la gonna si bagnasse senza sollevarla, ma ugualmente avevo abbandonato una sopravveste di tralasciabile valore sull'erba insieme a gran parte dei miei fermagli e dei miei gioielli.
Potevano essere rubati, certo, ma improvvisamente mi interessava di più quello che lasciavo scoperto.
Rimanevo lì, immobile e spaventata, stringendomi le braccia per l'improvviso freddo che sentivo -eppure l'acqua gelida non mi aveva infastidito fino a quel momento- e sentendomi come una scimmia in gabbia.
"Ah, io non credo proprio. Prederai freddo ed è divertente vederti tremare."
"Non scherzo affatto. Andateve."
"No. Come ti chiami, hm?"
Mi morsi l'interno della guancia, sentendo un nodo di frustrazione e paura stringermi la gola.
"Andatevene."
Distinsi chiaramente il suono di un passo, poi un'altro. Lo sciaguattio dell'acqua ed una presenza troppo, troppo vicina, abbastanza da essere invadente pur senza sfiorarmi in alcun modo.
Era come leggera aria temporalesca alle mie spalle, il preludio di una battaglia, senza consistenza eppure reale.
"Non ne ho alcuna intenzione." replicò, con quella sua voce flautata.
Era così orribile, quella voce. Piacevole da sentire, certo, ma non ingannava neanche per un momento riguardo colui che la utilizzava.
"Vi devo davvero minacciare?" chiesi, alzando il mento "Vi farò uccidere."
"Ma davvero."
La sensazione delle dita sulla pelle. O era un'illusione?
"Non sto affatto minacciando invano."
Naturalmente dicevo sul serio: mio padre o mio zio avrebbero certo fatto pagare un prezzo molto, molto alto per l'introduzione indebita nella villa, ma Daigo avrebbe preteso la testa di chi osava profanare la mia casa. Avrebbe camminato sul sangue di chi, con il mio onore, rubava anche il suo. Della mia intera famiglia.
Ma tutto questo, al mio strano persecutore, importava poco.
"Oh, ripeti sempre le stesse cose come se avessi la mente offuscata, eppure non è così."
"Cosa dovrei dirvi?" sbottai, sollevando il capo e le spalle. Mi raddrizzai, ricordando d'improvviso il mio rango e il mio potere dinastico. "Se è vero che siete entrato qui, sapete anche come uscirne. Cosa che vi esorto a fare al più presto, prima che si accorgano che vi siete intrufolato dove non vi è permesso."
"Così mi piace di più. Sei educata bene, fiorellino." Di nuovo, ebbi la stessa sensazione che qualcosa mi toccasse la base del collo, spostando di lato i capelli sciolti e resi secchi dal freddo. Ma era suggestione, forse, così come lo era la presenza stessa dello sconosciuto. "In fondo, abiti la mia casa."
Socchiusi le labbra, sorpresa, lasciandomi scappare un 'oh'. Dovevo sembrare molto ingenua.
"Siete lo spirito del lago, per caso?" domandai.
Lui rise e, non so perchè, mi sembrò che scrollasse la testa come per negare.
"No, non lo sono."
"Allora rimanete un intruso."
"Un umile ospite, come lo siete voi." replicò, gentilmente, e di nuovo il tono canzonatorio delle sue parole lasciò il posto ad uno più ammaliante "Non lo siamo tutti, ospiti di un mondo che non lascia spazio alla redenzione e alla salvezza?"
"Jodo." mormorai, stupita.
Era un monaco, forse, o un Budda?
Di nuovo quella risatina, come pioggia.
"Ah, allora sei istruita per davvero."
"Mi offende il fatto che abbiate supposto il contrario." sospirai, piano. "Mi lascereste andare, per favore? Potrete presentarvi alla porta e allora vi accoglierò come si deve, una volta avuto il tempo di sistemarmi."
Improvvisamente la presenza dell'uomo, chiunque egli fosse, si fece più pesante. Più umana, nel caso non lo fosse stato in precedenza.
"Ma io non ti sto trattenendo, fiorellino." disse e, in quell'esatto momento, mi accorsi che era vero.
"Non posso girarmi." mentii "Non sono presentabile e non desidero essere vista. Vi prego, lasciatemi il modo di incontrarvi in una più consona situazione."
"Ti imbarazzo?"
La risposta era naturale, la sapeva perfettamente.
Di fronte a tanta malignità mi fu impossibile nascondere la rabbia.
"Naturalmente sì, è una domanda sciocca."
Anche se dovevo essere sembrata come un cane ringhioso, come una contadina che richiama le oche, poco mi importava: non mi piaceva il gioco dello sconosciuto, non avevo intenzione di prendervi parte.
Improvvisamente, come una frusta che torna indietro dopo aver colpito, la sensazione svanì; ogni singolo filo di tensione creato dallo sconosciuto si rilassò ed io sentii il suono dei suoi passi nell'acqua bassa.
Dovetti resistere alla tentazione di mettermi a ridere per il sollievo, o di lasciarmi cadere in ginocchio; ma -sì- fu difficile non voltarmi. Non volevo vederlo, ma al contempo ero curiosa.
Disgustosamente curiosa.
"A-aspettate."
"Oh. La signorina mi richiama indietro." mi rivolse una risatina aspra che, solitamente, immaginavo accompagnata da una parodia d'inchino "Cosa desideri, fiorellino?"
"Il vostro nome. Così potrò sapere chi siete, e prepararmi a dovere."
Un momento di silenzio, tanto che pensaii che se ne fosse andato.
Sarebbe stato coerente fino in fondo, se non altro, e io avrei forse dimenticato l'accaduto. Ma, naturalmente, nulla andava mai come speravo -e avrei pagato per la mia azione sbadata.
" Shiranui Yabai." rispose.
Fu l'unica parola che mormorò senza flessione nella voce. Nessun sentimento.
Sorrisi tra me e me. Shiranui Yabai; un nome semplice da ricordare, nella sua stranezza.
L'avrei fatto buttare fuori a calci non appena avesse osato mettere piede a Fuyuhara, mi ripromisi, e se fosse stato possibile l'avrei picchiato io stessa.
Ma non avevo mai picchiato nessuno.
Non sentii i suoi passi allontanarsi. Il rumore dell'acqua spostata fu l'unica cosa che mi fece sapere che se ne era andato.
Speravo per sempre.

*

"Wah, Sakakibara-san!"
Mi lasciai sfuggire una risatina nel vedere gli occhioni spalancati di Keisei e le mani che si era automaticamente portata alle labbra.
Mi ero cambiata, poichè le condizioni delle mie vesti e dei tabi erano state subito notate. Di conseguenza, mi avevano spedita in bagno come se fossi stata una bambinetta colta nel mezzo di un dispetto.
"Cosa c'è? Non mi sta bene?" replicai, facendo una mezza giravolta. Risi nel constatare quanto mi fosse facile il movimento: non ero abituata ad indossare un unico strato, tanto meno fatto di normalissimo cotone.
Solitamente mi era permesso indossare la seta anche nelle tenute informali e casalinghe, nonostante i tessuti importati dalla Cina fossero mantenuti unicamente per le occasioni importanti, così come i kimono dai colori più brillanti, quindi non ero affatto abituata alla pesantezza del cotone.
E, mentre le mie cugine l'avrebbero sicuramente ritenuto grezzo, volgare e fastidioso, io mi ci trovavo piuttosto bene; certo, probabilmente mi avrebbe arrossato la pelle, ma trovavo che la seta d'estate diventasse appiccicosa.
O'kaa-san aveva sempre detto che ero seageratamente viziata, e quindi bizzara, e non mi sentivo di darle torto.
Nonostante questo, però, nessuno si era azzardato a muovermi troppe critiche: ero la più grande delle ragazze in famiglia, nonchè l'unica sposata, e quindi mi tenevano in gran conto.
In quindici anni o'kaa-san non aveva saputo mettere al mondo altro che figlie e figli nati morti, ma nessuno l'aveva mai colpevolizzata per questo.
"Non sembrate..." esitò, sfiorandosi il collo con due dita senza smettere di guardarmi. Era bella come diceva il suo nome, Keisei, anche con l'aria stupida. "Ecco, non sembrate nemmeno voi."
Risi leggermente più forte, deliziata.
"Per via dei capelli raccolti?"
"Per tutto." rispose, dopo averci pensato un po' su.
Lanciai un'occhiata allo specchio che tenevo fra le mani ed esso mi restituì l'immagine di una ragazza assolutamente anonima, molto pallida, con due occhi neri troppo affusolati ed i capelli ben stretti in una crocchia fermata da pettini di stoffa colorata. Avevo lasciato scoperto il collo, senza proteggerlo con i soliti strati che arrivavano quasi fin sotto il mento, e faceva capolino solo il colletto d'un rosa slavato.
"Siete sicura che non volete neppure un po' di colore sulle labbra?" continuò Keisei, aggrottando appena le sopracciglia nel vedere che mi pizzicavo le guance per renderle più rosate, ma scossi le spalle come se la questione non avesse importanza.
"No. Per oggi vorrei passare inosservata."
Keisei abbozzò un inchino.
"Come desiderate." mormorò, e io mi chiedessi cosa ne pensasse in realtà.
Posai lo specchio sul tavolo da toeletta. La giada della cornice un suono sgradevole cozzando contro il legno ed entrambe, senza pensare, fissammo per un momento l'oggetto per paura che si fosse rotto. Fortunatamente, non avevo prodotto alcun danno.
Sospirai.
Ero una sciocca, o'kaa-san aveva ragione.

"Non si è presentato nessuno, ancora?" domandai, cercando di allontanare il pensiero di mia madre.
"I vicini sono attesi per domani."
"Nessun'altro?"
Keisei mi guardò, un poco perplessa, sbattendo le palpebre. Non ci pensò su nemmeno un momento.
"No."
Ah.
Così non s'è fatto vedere.
Non lo capivo.
Pensavo che Shiranui, se così si chiamava davvero lo sconosciuto del giardino, avrebbe avuto la faccia tosta di presentarsi alla mia porta nel giro di qualche ora, ma era passata un'intera giornata e non v'era traccia di lui.
Annuii e sorrisi.
Non potevo certo dire di volerlo vedere: egli era un nome, un insulto ed un filo di vento, nulla di più.
"Possiamo andare. Mi prenderesti il parasole azzurro, per favore?"
Keisei si inchinò nuovamente e mi precedette fuori dalla stanza in un tonfo di tabi su legno. Era un bel suono, quello delle persone che camminano sui tatami, rilassante e familiare.
Lanciai uno sguardo fuori dalla finestra, da dove riverberavano i raggi del sole estivo e una minuscola porzione del susino che dominava il giardino, quasi aspettandomi di vedere qualcosa che non fossero le solite foglie e il solito cielo.
Chissà che fine aveva fatto quello Shiranui Yabai.

 

Ad ogni modo, per pensare non mi furono concessi che quei pochi istanti da sola: sentii la voce di Keisei chiamarmi, chiedendomi se vi fossero problemi con i vestiti, e mi affrettai a seguirla fino all'uscita della villa. Mi porse il parasole con gentilezza, aprendolo per me ma lasciandomi l'onere di tenerlo per ripararmi: non desideravo spaventare le persone che avrebbero lavorato per me.
Nel mio piccolo, e naturalmente sotto le direttive di mio Zio, volevo dare un'impronta personale almeno alla presentazione che mi aspettava; per la gestione, poi, potevano sbrigarsela gli uomini della famiglia.
Esattamente come avevo previsto, per le strade di Edo non fui degnata nemmeno di uno sgaurdo: non ero così bella da farmi notare in abiti normali nè così brutta da sfigurarvi.
Vidi, anzi, molte ragazze che per viso e corporatura mi avrebbero potuto essere gemelle e -se la cosa da una parte mi infastidì- sentii di essere al sicuro.
Era come essere un albero nascosto in una foresta, una goccia d'acqua in un oceano: non temevo di essere additata e, una volta tanto, era bello sapere di avere l'opportunità di confondermi fra la gente.
Di tanto in tanto mi capitava di commentare riguardo questo o quel passante e Keisei rideva della mia ingenuità. Non era molto più grande di me, tuttavia aveva vissuto fuori da Fuyuhara abbastanza da farmi arrossire di stupore ed invidia ogni volta che nominava un bagno pubblico o un negozio di dolci.
Aveva visto più cose di quante, probabilmente, ne avrei viste io in una vita intera e sembrava così naturale, così...bello.
Non mi preoccupavo di guardare dove andavo, così mi stupii nel sentire un tonf ovattato e la consistenza di qualcosa di morbido che improvvisamente mi abbracciava la gonna dalle ginocchia in giù.
"Ahhh, gomennasai o'nee-san!"
Automaticamente mi guardai i piedi, sorpesa; avevo appesa alle gambe una scimmietta -no, ecco, una bambina- con il nasino rosso e le guance più paffute che avessi mai visto. Doveva avere al massimo cinque, sei anni, ma lo yukata verde pastello che indossava la faceva sembrare più piccolina.
Ci eravamo scontrate, probabilmente, ma mi rivolgeva un bellissimo sorriso sdentato.
"Oh, scusami tu, imotou." risposi, e mi chinai per scompligliarle i capelli castani. In tutta sincerità, mi sentivo anche un po' in colpa: avrei potuto farle male, con la mia disattenzione, così come avrei potuto rompere lo specchio. "Ti sei fatta male?"
Lei scosse la testa, tendendosi per accettare le mie carezze come un gattino.
"Hm-hm. No."
"Bene." lanciai un'occhiata a Keisei. Se ne stava lì a guardarci con un sopracciglio sollevato e l'ombra di una risata sul viso; anche lei aveva sorelle piccole, per quel che ne sapevo, e probabilmente gliele ricordava. "Keisei, abbiamo con noi dei dolcetti, per caso?"
La domanda parve prenderla in contropiede.
"Eh? N-no."
La bambina si lasciò sfuggire un uggiolio, ma la rassicurai.
"Andiamo a comprarli, ti va?" proposi. Non aveva importanza il negozio, poteva aspettare, e la gioia sul volto di una persona era la cosa più deliziosa che il mondo esterno potesse offrire.
Mi piaceva rifarmi sulle cugine e sorellastre più piccole, maltrattarle e far capire loro qual era il mio posto...ma era anche ben vero che le mie sorelle erano dispotiche e fastidiose, litigavano e spettegolavano. Questa bambina era dolce.
Tuttavia, non avevo considerato che ad una simile età non potesse certo girare da sola. E, subito dopo, fummo richiamate da una voce maschile, profonda.
"Chizuru."
Una sola parola, apparentemente senza significato, ma che mi bastò per alzare gli occhi e comprendere a chi si stesse riferendo: l'intonazione era autoritaria ed amorevole insieme, ben diversa da quella che si sarebbe potuta utilizzare con un cane ma non lontanamente paragonabile all'amore smodato che un uomo prova per il proprio figlio maschio.
Era il padre della bambina.
Un uomo rasato, quindi presumibilmente un medico, dalle vesti informali e lo sguardo color cioccolato.
"O'tousan!" salutò Chizuru, più allegra che mai, e subito si staccò da me per correre incontro al padre. Tuttavia, a metà strada si voltò a guardarmi, congli occhioni carichi di dispiacere e il dito poggiato sulle labbra.
"Scusami, O'nee-san, per i dolcetti. Otousan..."
Le sorrisi.
"Andremo un altro giorno, Chizuru-chan." promisi, gentilmente "Verrò a torovarti."
Una sciocchezza, dal momento che non sapevo dove vivesse.
Ma la cosa le diede conforto, la spinse a volare fra le braccia del padre, e mi parve di aver fatto la cosa giusta. Anche Keisei approvava, a considerare dall'espressione soddisfatta.
"Ci sapete fare con le bambine, Sakakibara-san." si complimentò, con un sospiro, "Se solo foste più attenta a dove andate..."
Risi del suo rimbrotto, sentendomi come se nulla potesse ferirmi, e mi guardai intorno. Non dovevamo essere molto lontane perchè, in effetti, riconobbi il Matsuzakaya dall'altro capo della strada.
Fu così che mi accorsi che il padre di Chizuru non era l'unico ad essersi goduto la scena; non so perchè mi convinsi che si era beato dell'intero siparietto, forse perchè non si degnò di toglierci gli occhi di dosso neanche quando si accorse di essere visto, ma era una sensazione piuttosto imbarazzante.
Era un ragazzo.
...Bene, forse è il caso che ammetta che era più che altro un giovane uomo di bell'aspetto. Se ne stava appoggiato al muro del negozio di kimono con le braccia incrociate ed una gamba piegata, completamente a proprio agio, ed aveva occhi impossibili. Viola. 
Naturalmente doveva essere un gioco di luci, perchè non avevo mai visto con uno sguardo tanto limpido e, nonostante le mie esperienze molto limitate, ero piuttosto certa che non fosse possibile possedere quel colore violetto.
Keisei mi si affiancò.
"Sakakibara-san..." mormorò. Aveva notato a propria volta l'insistenza del ragazzo? O si preoccupava forse del suo bell'aspetto?
Ad ogni modo, mi preoccupai che la mia copertura fosse saltata. Non capivo come, ma non c'erano tante altre spiegazioni.
"Fai finta di nulla, Keisei. Noi non nascondiamo nulla." le dissi, più per rassicurare me stessa.
Un passo.
Non smise di guardarci.
Due passi.
Giurai di averlo visto sogghignare.
Tre.
Quattro.
Iniziai a sospettare che fosse uno di quei tipi che si addormentano con gli occhi perfettamente aperti; però era troppo, ecco, troppo presente.
E, quando fummo abbastanza vicine, ci scoccò un'occhiata divertita.
"Come mai una del vostro ceto gira con abiti così modesti?" domandò, in tono amabile.
Se ne avessi saputo di più ne avrei riconosciuto la sfumatura ironica.
Ad ogni modo, se era un modo per attirarmi nel negozio non stava funzionando; al contrario, arrossii fino alla punta dei capelli per la vergogna di essere stata scoperta.
Ero così prevedibile?
Comunque, non ero abbastanza furba da negare.
"Come ve ne siete accorto?"
Lui rise. Di me, probabilmente.
"E' il mio passatempo e, signora, con tutto il rispetto, io lavoro fra i kimono." replicò, come se ciò spiegasse tutto.
Immaginai che alludesse agli acquirenti del negozio, ma non mi sembrava avesse l'età per lavorare a contatto con le clienti: piuttosto, aveva proprio l'aspetto dell'esca. Lui era bello, davvero bello, e le donne lo notavano.
C'era solo da sperare che, insieme a lui, notassero il negozio.
"Ah. Capisco." sbottai, imbronciata.
"Siete qui per...?"
Comprare, ovviamente avrei voluto rispondergli. Dei, che modi.
"Supervisionare." risposi, invece, gonfiando il petto come un pavone che fa la ruota. Al diavolo anche il piano di segretezza. "Sono Sakakibara Kimiko e da ieri sovraintendo la gestione di questo posto. E voi siete...?"
In un angolino alla mia destra, sentii Keisei sospirare rassegnata, ma non commentò nulla.
Il ragazzo non si scompose minimamente.
"Hijikata Toshizou." rispose, solo, e mi parve di intravedere un certo orgoglio. Inutile, d'altronde, dal momento che la sua famiglia era probabilmente una nullità e lui era il figlio fin troppo fortunato di un contadino. "Vi mostro dentro, Sakakibara-dono. Così potete supervisionare."

Oh, Dei.
Quel ragazzo era in cerca di schiaffi.

 

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