I'm trying to revive.

di addictedtokenji
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***


Buonasera, o buongiorno, dipende da quando leggerete la storia. E' la prima fiction che scrivo e che pubblico, e come avrete intuito, al povero Chester succederanno molte cose, alcune tristi, ma altre allegre e serene... insomma come dire, non sarò sempre a scrivere capitoli basati su livelli altissimi di depressione, ma neanche capitoli che hanno come tematiche rose e fiori.
Il personaggio principale è lui, che descrive le sue giornate, come le vive, come le affronta, come sopravvive. 
I personaggi secondari sono *rullo di tamburi* Billie Joe Armstrong, -esattamente, avete letto bene, Billie Joe, il cantante dei Green Day- e il nostro caro buon vecchio Mike. 
Il capitolo inizia, siete pronti? Okay, mi sto scaldando troppo, non vi anticipo niente, solamente di essere forti. 
Buona lettura, baci.


                                         Capitolo 1.



 
Delle immagini offuscate mi passano nella mente, sto fottutamente pensando a tutto, tutto ciò che è successo il giorno prima, ma non riesco a focalizzare nulla che mi sia d’aiuto per ripristinare ciò che vorrei. Sento delle urla di gioia, di divertimento, sembrerebbe un party, una festa alla quale tutto il liceo era stato invitato, vedo delle persone sempre più vicino a me, e sento all’improvviso una fortissima fitta allo stomaco che mi percuote tutto, facendomi sobbalzare ed uscire da quel sogno. 
La rissa, quella rissa che mi aveva procurato un occhio completamente nero, e dolore allo stomaco. Mi sveglio, e dove cazzo mi trovo? Un bagno? Ma cosa cazzarola era successo ieri sera? 
Mi alzo lentamente, e mi avvicino al lavandino, dove mi sciacquo sfregando con forza il mio viso senza toccare l’occhio, e mi sistemo meglio i capelli biondi tinti.
Resto in piedi, fissando lo specchio, sono solamente io e lo specchio, nessun anima viva. Ho una guancia gonfia e mi duole ancora lo stomaco per la rissa di ieri. Fisso ancora il mio misero riflesso e cerco di ricordare la festa di ieri, e soprattutto chi ero. 
Ho bevuto troppo, cammino e cerco di non pensare al vomito, lo stomaco è attaccato da forti fitte e non riesco a tenere completamente aperto l’occhio destro. Finalmente ricordo chi sono. Chester Bennington, sedici anni, residente di Berkeley a causa del trasloco di mia madre, altrimenti sarei sul mio letto caldo di Phoenix e tutto questo non sarebbe successo. Cerco di ricordare il motivo di quei pugni nel mio stomaco, forse sì, Elka, la mia ragazza. E’ bionda, alta, con gli occhi azzurri ed ha un carattere davvero molto comprensivo, insomma, è davvero molto bella ed ha un sorriso che le orna il viso in maniera magnifica. Ora ricordo, tutto è successo perché quella puttana usciva sia con me che con Jared, un ragazzo di quinto. Quando Jared lo scoprì, ieri sera, non la prese bene, ed ovviamente, la cavia ero io, ma cosa ne potevo sapere? Lei era di quarto liceo, ed io del terzo, sapevo che una ragazza così bella avrebbe avuto altri corteggiatori, ma non pensavo di certo che, assieme a me, aveva un altro ragazzo, d’altronde violento, e più grande. Quella puttana, ah, ed io che fino a tre minuti fa la descrivevo come una ragazza perfetta. Cerco di dimenticare ciò che mi è passato per la mente e chiudo il lavandino, mi strofino la giacca di pelle per pulirla meglio dalla sporcizia del bagno e sento qualcosa nelle tasche. Apro la zip e trovo un barattolino, completamente bianco contenente quattro, cinque pastiglie. Cosa cazzo erano? E chi me le aveva messe dentro la mia tasca del mio giaccone? Cerco invano un’etichetta ma niente, sul barattolo erano incise solamente tre lettere: BJA.
Vorrei liberarmene al più presto… se fosse droga? Dio mio, non voglio pensarci, non voglio pensare a nulla, né alla festa, né a Jared, né ad Elka, vorrei solo tornare a casa, ma l’alcool gioca a mio sfavore e mi provoca costanti giramenti di testa. Barcollo. Esco dalla stanza da bagno nell’intento di trovare qualcuno, ma niente, il locale è un pub degli anni settanta; la tv è ancor sintonizzata sul canale di ieri, ma ora mostra un telegiornale a cui non presto attenzione. Mi dirigo verso i divani e noto un ragazzo intento ad accordare la sua chitarra con le cuffie. Non credo mi abbia notato. E’ un ragazzo molto bello. Ha i capelli corvini e neri, uno sguardo così attento alle corde della sua Gibson, le mani ben curate, ed è vestito completamente di nero con una giacca di pelle, come la mia, con un paio di Converse. Frequenterà di sicuro il quinto, anche se la sua statura non lo direbbe, ma meglio evitarsi seghe mentali. Mi avvicino così verso di lui, che appena mi vede, toglie le cuffie, e mi scambia un sorrisino bastardo con le sue meravigliose labbra carnose. Ma che cazzo? Chester, smettila. Sei appena stato picchiato per una ragazza, ed ora ti ritrovi a pensare alle labbra carnose di quel ragazzo? Ok, sì, è molto, ma molto carino, ma non mi interessa. I suoi occhi, poi. Sono verde smeraldo e quando mi fissano, sento un brivido percorrermi dietro la schiena. Sono a contatto con i miei color nocciola, e cerco di non fissarlo a lungo, anche se mi piacerebbe. 
‘Hai dormito, eh?’ mi rivolge la parola sorridendo in maniera bastarda, come se lui sapesse tutto.
‘Posso sapere dove cazzo mi trovo?’ la mia finezza. Lui ride.
‘Non ricordi proprio nulla, eh?’ domanda divertito, ‘cavolo, quella roba deve essere davvero potente allora.’ Conclude.
‘Di che cazzo stai parlando, quale roba? Le pastiglie?’ domando incazzato indicando la strana scatola.
‘Esattamente.’ Continua divertito, wow, deve aver trovato questa storia davvero divertente. ‘Sai, ieri non eri un bello spettacolo, per nessuno. Sei stato picchiato a sangue dal Jared di quinto E, ed hai fatto ridere molte persone, perché non avevi capito proprio un cazzo di niente.’ Continua.
‘Me lo ricordo questo. Cos’altro è successo?’ 
‘Beh, hai iniziato ad urlare come una bimba piccola, e ti ho portato al bagno. Stavi davvero molto male, così ti ho messo tre di quelle nella bocca. Devono avere fatto effetto, perché non ricordi nulla, e non hai sentito più dolore, perché ti sei addormentato come un ragazzino viziato.’ Conclude strimpellando la sua chitarra divertito.
‘Cioè, tu mi avresti drogato?’ domando incazzato.
‘Nah, non è droga, è roba legale, me l’hanno regalata quattro giorni fa, non ha nessun effetto indesiderato; e poi, più che altro, direi che ti ho salvato. Stavi diventando lo zerbino di tutti, e ti stavano tutti ridendo in faccia per quanto ti contorcevi dal dolore…’ sorride. Ha un sorriso stupendo. ‘Era la tua prima rissa, vero? Dal tuo occhio nero si direbbe di sì.’ Dice divertito indicandomi l’occhio. Che cazzo si ride?
‘Non credo che saresti così divertito se fosse successo a te, sai? Quella puttana con cui uscivo si faceva sia me che Jared, ed io non lo sapevo, beh, almeno fino a ieri.’ Dico grattandomi la nuca. ‘Di certo non mi avresti drogato, o come dici tu, salvato. Giuro che se mi hai…’ mi ferma. 
‘Ancora? Non ti ho fatto assolutamente nulla. Sono normali farmaci, e poi, anche se fosse droga? La mammina si incazza con te, cosa succede? Tuo padre ti sbatte di casa?’ ride.
Ammetto che è davvero stronzo, ma mi piace, un po’ come me.
‘No, sai, la mia mammina è impegnata a scoparsi per bene i pazienti dell’ospedale dove lavora; mio padre mi ha abbandonato quando avevo otto anni, non lo vedo da molti anni, e ciò non mi dispiace, era uno stronzo, e lo avrei voluto fuori da casa mia molto tempo prima.’ Concludo sedendomi accanto a lui.
‘Ed invece, i tuoi?’ aggiungo. Fa una smorfia.
‘Mia madre è impegnata a scoparsi per bene il suo patrigno mentre io cerco in tutti i modi di impedirglielo con qualche canzone di merda, ma non ho successo.’ Risponde secco.
‘E, tuo padre?’ 
Cambia letteralmente il suo viso, nei suoi occhi c’è dolore, sofferenza e delusione. Si alza dal divano, impugnando la chitarra, prende le chiavi dal tavolino vicino e mi guarda seccato.
‘Fatti i cazzi tuoi.’ Mi risponde senza peli sulla lingua. Lo guardo un po’ stupito, prima è divertito e dopo una domanda cambia letteralmente umore?
‘Mi dispiace…’ aggiungo con fiato debole. 
‘E’ meglio che torni a casa, vieni.’ Aggiunge posando la sua Gibson sul divano ed impugnando le chiavi che fa girare tra indice e medio.
 
Usciamo dal pub e ci dirigiamo verso la sua macchina, beh, macchina, è un catorcio, ma va bene così, d’altronde, è l’unico che si è prestato d’aiutarmi.
‘Mi puoi lasciare qui, me la cavo, sono piccolo ma non sono impedito.’ Sorrido ed esco, lui fa per ripartire, ma mi volto di scatto e lui abbassa il finestrino.
‘Perché mi stai aiutando? Hai detto che sono diventato lo zerbino della scuola, tu non mi pari molto zerbino, anzi, secondo me hai moltissimi amici e tantissime donne dietro. Sei un ragazzo perfetto, andiamo.’ Dico.
‘Sai, non sono un ragazzo perfetto, non mi conosci, e se lo facessi cambieresti subito idea.’ 
‘Magari potremmo parlare meglio, per conoscerci. Che ne dici di domani sera nello stesso locale di ieri?’
Annuisce ed alza velocemente il finestrino per poi dirigersi verso, chissà, forse la sua casa. Io non la ho, ma voglio risparmiarmi sempre il terzo grado di chi mi chiede tutto ininterrottamente. Anche se credo, che quel ragazzo non me lo avrebbe fatto. E’ misterioso, misterioso come me. Mi piace.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


Eccomi qua, con il secondo capitolo.
Credevate che fossi morta, eh? Non vi libererete di me molto facilmente, muhahah.
OK, questo capitolo a schifo come l'altro, lo so, ma d'altronde lo scrissi due mesi fa e non ho mai avuto il coraggio di pubblicarlo. *facepalm*.
Detto questo, vi auguro una buona lettura, e recensite se volete!
Bye. 
*si dissolve*




Era sabato, un sabato di aprile, caldo, ma non troppo, mi piaceva il tepore della primavera nei miei capelli. Mi alzo dal materasso che ho come letto in quella lurida stanza. Ebbene sì, vivo in un appartamento dentro un palazzo di merda e come coinquilino ho un ubriaco, per di più gay, che la maggior parte delle volte cerca di scoparmi. E beh, una volta credo ci sia riuscito, ma non ricordo nulla. 
 
Non avevo mai avuto niente a che fare con nessuno, mai un rapporto, e lui, beh, ubriaco come era, si sarebbe fatto anche una mucca. Mi guadagno da vivere pulendo i cessi di alcuni bagni; qui, beh, mi danno tutto ciò che hanno, come i pasti, ed i vestiti, a volte, ma per comperarmi delle cose come ad esempio nuove scarpe o un nuovo paio di occhiali, mi servono soldi extra. Certo, non vado fiero del mio lavoro, il mio capo, nonché proprietario di questo palazzo, è un bastardo, frocio anche lui, per venti dollari in più mi chiede sempre un pompino, che io faccio per procurarmi nuovi pantaloni, perché quelli che hanno loro sono larghi, e mi calano sempre. Non hanno le taglie giuste per un sedicenne anoressico, e beh, li compatisco, non riesco a farne a meno, oramai per guadagnare più soldi devo prostituirmi. Nessuno lo sa, solo io e lui, ovviamente. E’ brutto vedere ciò che sei diventato, una puttana, letteralmente una puttana. Mi ricordo ancora la prima volta, io avevo appena finito di pulire un cesso, quando lui si dirige verso di me completamente fatto, minacciandomi: ‘se non mi fai un pompino, non avrai più pane sotto i denti.’ Ovviamente io ero lì, inerme, incapace di tutto, e dovetti inginocchiarmi dinanzi a lui per procurarmi da vivere. Che strazio. Questa storia continuò per sei mesi, insomma, e continua ancora oggi, ma non ci do troppo peso, anche perché oramai è l’abitudine ed io devo procurarmi anche dei soldi per il materiale scolastico. 
 
Sono una merda, una totale merda; possibile che succeda tutto a me? Cosa sono diventato? Cerco in tutti i modi di non pensarci, Elka era l’unica persona che riusciva a distrarmi da ogni pensiero negativo, ma è una puttana, come me, d’altronde, e devo accettarlo, anche perché lei mi avrebbe lasciato se avesse scoperto il rapporto che ho con il mio superiore. 
 
Ora sono solo, non ho nessuno, se non… mi fermo, fermo ogni pensiero e subito nella mia mente ritornano quegli occhi smeraldo che ieri fissavano i miei. No. Devo contenermi, non sono gay, no. E non lo sarò mai. Cerco di autoconvincermi, ma la mia mente mi trascina in ogni suo pensiero scurrile ed immagino perfino di accoccolarmi su di lui una domenica mattina. Abbracciarlo. 
 
Ma che cazzo sto dicendo? Devo riprendermi; esco dalla stanza e mi dirigo verso il bagno che periodicamente pulisco. Mi sistemo i capelli di fronte allo specchio, quello specchio, oramai rotto e riassemblato alla cazzo con qualche millilitro di colla. Quante volte ho pensato di togliermi la vita con quel fottuto vetro? Tagliarmi le vene per farla finita? Troppe volte. Sfrego gli occhi, quello destro in maniera dolce, anche perché mi fa ancora molto male. Di nuovo i miei pensieri si focalizzano su quel ragazzo con gli occhi smeraldo; stavo rivivendo ancora la conversazione di ieri, quando mi concentro su quella risposta fredda: ‘fatti i cazzi tuoi.’ Perché mi aveva risposto così? Me lo meritavo? D’altronde, aveva iniziato lui con il discorso del padre, doveva intuirlo che dopo aver confessato la professione di mia madre, e la storia di mio padre, io avrei chiesto lo stesso dei suoi. Mah, tutto è confuso; chiudo così il lavandino e mi dirigo nuovamente in camera, prendo dei pantaloni puliti e me li infilo sopra i miei boxer neri. Mi assicuro che il mio ‘amatissimo’ coinquilino non sia sveglio, e finisco nel togliermi anche la maglia per cambiarmela.
 
 Avevo parlato troppo presto, mi sento delle mani fredde sui fianchi, mi giro di colpo, e lui, Robert, fa per sbattermi al muro ed iniziare a succhiarmi il collo. Che schifo, lo ripudio, lo odio. E’ un uomo, avrà una quarantina d’anni, ed io ne ho sedici, è un pedofilo di merda, ma non posso dire niente a nessuno, o sarei cacciato via. Cerco di dimenarmi, ma mi blocca i fianchi per potermi baciare le spalle meglio. Arriva nuovamente al collo, al mento, e va a finire sulle mie labbra. Finalmente mi libero dalla sua presa spingendolo con le mani che lui stesso mi aveva bloccato, e mi struscio la maglietta nella bocca per togliermi tutto il suo sapore di dosso.
 
‘Quando cazzo cercherai di cambiare?’ domando incazzato.
 
 Mi infilo la maglietta che avevo in mano e continuo. 
 
‘Tra noi non c’è nulla, che ti piaccia o no, non puoi continuare a sbattermi al muro come se nulla fosse.’
 
‘Qualche mese fa non lo pensavi…’ sorride malizioso.
 
Mi avvicino con l’odio negli occhi ed inizio a digrignare i denti. 
 
‘Senti brutto stronzo, ero fatto, avevo bevuto, eravamo ubriachi, tu soprattutto. Mi hai usato come volevi, tu volevi scoparmi, io non capivo un cazzo e mi sono lasciato andare.’ Concludo, e mi dirigo verso la porta.
 
‘Sei una sporca puttanella.’ Dice senza pensarlo, mi giro e lo guardo con pietà, ieri sera deve averci dato dentro con l’alcool, ed evito discussioni. Lo fisso, lui mi fissa ancora sorridendo, mentre io chiudo la porta per dirigermi da qualche parte.
 
Ho una maglietta a maniche corte che mi fa sembrare più robusto, fortunatamente, perché peso quarantasette chili e sono alto uno e settantaquattro. Mi si vedono le ossa ovunque e il mio viso è veramente sciupato. Da quando faccio pompini a venti dollari, non mangio regolarmente, a volte salto anche i pasti per chiudermi in camera a studiare e pensare. Mi dirigo verso l’uscita dell’edificio color salmone e vedo quel lurido uomo, quel pedofilo che mi guarda divertito. Cerco di non incrociare lo sguardo con il suo e dico freddo:
 
‘Non tornerò fino a stasera, non mi aspettare in piedi.’ 
 
Da adesso in poi devo dirgli ogni cosa che faccio, l’altra volta non sono stato presente per il suo lavoretto  e me ne ha fatti fare quattro, per dieci dollari. Che seccatura, che vita di merda. Lui annuisce bastardo e mi chiede dove vado, come sempre.
Evito di guardarlo negli occhi per la troppa umiliazione, e mi stringo i denti. 
 
‘Da amici…’ non aggiungo altro.
 
Esco da quella prigione e mi incammino per le strade di quella cittadina desolata. Mi dirigo verso quel pub, sono le dieci e mezza di mattina, ed è sabato fortunatamente, niente scuola. Odio la scuola, la considero una prigione, sono sempre stato un poco di buono, ed una volta ho anche pestato qualcuno, ma qualcuno di più debole; fui sospeso per otto giorni perché lo mandai all’ospedale. 
Non ricordo il motivo, non ne avevo uno valido, o almeno, uno, per me, c’era, la droga. Mi facevo tantissimo, costava molto, e non volevo spargere la voce a nessuno. A Phoenix tutti non sapevano. Ma ovviamente, le bugie hanno le gambe corte, così, sono stato espulso da quella scuola di merda, e mia madre è dovuta trasferirsi qui. Beve e fuma anche lei come non so cosa, e non la vedo da molti mesi, sono voluto uscire dalla vita di quella famiglia, credendo di essere forte e di avere molte possibilità, ed invece mi ritrovo a guadagnare soldi pulendo cessi.
Sono qui a Berkeley da oramai un anno, quasi. 
Arrivo al parco centrale dove mi siedo in una panchina color verde, che si mimetizza perfettamente con il prato attorno, ho ancora l’occhio nero e vengo guardato male da tutti, escludendo i cani e i bambini. 
 
Davanti a me ho un bimbo di sette anni circa che gioca felice e spensierato correndo, il padre che lo rincorre sorridendo. 
 
A volte penso spesso a mio padre, ma non mi capita di vederlo come una figura paterna, come una figura in grado di farti sentire protetto e a casa, no. Lo vedo come una persona così, indifferente. Mi chiedo spesso come io vivrei se fossimo ancora tutti assieme, e brevemente ricordo quando una volta mi venne a prendere all’asilo, era così dolce. Mi portò anche un pezzo di cioccolata. Solo questo ricordo. Sento le lacrime scendere dai miei occhi, anche dall’occhio destro oramai contornato di viola.
 
‘Almeno si è scolorito’ penso.
 
 Lacrime che fanno male, che mi scavano nella pelle e che si incidono nelle mie guance come i fottuti ricordi.
Sento le grida di gioia di quel bimbo penetrarmi nelle orecchie e chiudo gli occhi per un momento. Sento in parallelo le mie grida, ma non di gioia, di miseria, un bambino a cui è stato privato tutto, ecco cosa ero. Li riapro velocemente e vedo un ragazzo avvicinarsi a me.
 
‘Ehi, ciao, scusami, potresti indicarmi la via per un negozio di musica più vicino?’ chiede gentilmente. 
 
Tutta questa gentilezza mi da al voltastomaco, forse non sono abituato, ma cerco di aiutarlo comunque. Mi alzo dalla panchina, e cerco di ricordarmi un fottuto negozio di musica nei paraggi.
 
‘Il ‘Music World’ è il più vicino, sono quattro traverse più in là, una quindicina di minuti e sei arrivato.’ Dico freddo e secco.
 
‘Grazie davvero…ehm…’ aspetta che io dica il mio nome. Chiude le labbra ed abbassa lo sguardo, per andarsene.
 
‘Chester, sono Chester.’ rivelo all’ultimo secondo. 
Lui si volta nuovamente e mi sorride.
 
‘Piacere, io sono Michael, ma puoi chiamarmi Mike.’
Accenno ad un mezzo sorriso e lui si sta per 
allontanare quando mi rivolge nuovamente la parola.
 
‘Senti scusa, non è che potresti accompagnarmi in questo ‘Music World’? Sono nuovo di qua, anzi, sono qui per una vacanza, se si può definire così, ed avevo pensato di fare un salto ad un negozio di musica per conoscere nuovi tipi di chitarra.’
 
Dio mio, ma quanto cazzo blatera? Alzo le mani, e gli rivolgo un ‘OK’ senza espressione. Infilo le mani nelle tasche dei pantaloni e mi incammino con questo Mike; che tipo strano.
 
Camminiamo, lui alterna lo sguardo tra la strada e me, mentre io lo ho fisso sul marciapiede senza pensare ad altro. Penso a quel ragazzo che avrei visto questa sera, forse era l’unico aspetto positivo nella mia vita. Sono pensieroso. Lui mi guarda.
 
‘Da quanto tempo sei qui?’ mi chiede gentilmente. Non alzo lo sguardo dal marciapiede, e continuo a camminare. 
 
‘Un anno, forse uno e mezzo, ho perso il conto.’ 
‘Beh, vedo che ti ambienti presto, allora.’ Mi rivolge un sorriso, e che sorriso, è un sorriso dolce e premuroso, è un ragazzo molto dolce, come il suo sorriso. 
Ma perché io? Perché ha voluto camminare con me? Non capisco. Lo guardo, ha gli occhi a mandorla, molto allungati.
 
‘Non mi sono presentato bene, scusami, sono Michel Kenji Shinoda, vivo a Los Angeles, ed adoro la musica.’ Aggiunge.
 
‘Piacere, Michael Kenji, io sono Chester Bennington, vivo a Berkeley e mi guadagno da vivere scopando il mio capo e facendo pompini… ah, e pulisco i cessi degli appartamenti del palazzo in cui risiedo.’ 
 
Cambia totalmente espressione, lo vedo così sofferente, per me poi, che strano, neanche mi conosce.
 
‘Mi dispiace.’ Riesce solo a dire, mormorandolo.
‘Non devi, oramai ci sono abituato e non ci do molto peso, devo guadagnarmi da vivere…’ dico ‘ah, e comunque, anche io adoro la musica.’ Aggiungo.
 
Svoltiamo l’ultima traversa e troviamo il negozio di musica davanti a noi, wow, non pensavo di ricordare così bene questo lurido quartiere.
 
‘Fantastico, grazie mille Chester.’ Conclude lui sorridendo.
 
‘Nessun problema.’ Concludo. Sto per andarmene quando lui mi trattiene per un braccio.
 
‘Senti, vuoi qualcosa, posso comprarti un cd, se vuoi.’
 
‘No.’
 
‘Dai, non desideri un cd, o qualcos’altro?’
 
‘No, grazie. Primo, non saprei che farmene, secondo, non ho ipod o cose varie per poter ascoltare niente, terzo, convivo in stanza con un gay che cerca sempre di provarci con me, e se vedesse un cd, me lo ruberebbe subito, e chiederebbe di scoparmi per ridarmelo, e quarto…’ sospiro ‘… non dipendo da nessuno. Non chiedo pietà a nessuno, ce la faccio da solo.’ Aggiungo.
 ‘Ora, se vuoi scusarmi, mi dirigo nuovamente al parco, scusami, ma sono dei brutti periodi, ciao Michael.’ Concludo.
 
‘Ciao Chester.’ Riesce a dire, solamente. E lui che voleva solo aiutarmi. 
Che bastardo che sono. Veramente bastardo, e stronzo.

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