Che l'Eternità Cominci Stanotte

di Horrorealumna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Primo Incontro ***
Capitolo 2: *** Regali Di Compleanno ***
Capitolo 3: *** Una Festa Per Conoscerci ***
Capitolo 4: *** Solo Un Ballo! ***
Capitolo 5: *** Nella Tana Del Lupo ***
Capitolo 6: *** Il Ragazzo Della Festa ***
Capitolo 7: *** Sentirsi Spiati ***



Capitolo 1
*** Il Primo Incontro ***


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Il Primo Incontro
 

Ricordo perfettamente il giorno in cui lo vidi per la prima volta.
 
Sono passati esattamente quindici anni. Era il giorno del mio quarto compleanno.
Ero solo un’ingenua bambinetta a quel tempo; i miei genitori mettevano ordine in casa per la festa di quella  sera, io invece ero uscita a giocare nel piccolo giardinetto pubblico a due passi dalla mia abitazione. Doveva essere pomeriggio presto, ricordo la fioca luce del sole dietro una coltre nera di nubi.
Feci subito mia l’unica altalena dell’area, quando mi resi conto di essere l’unica persona dell’intero parco. Ero sola. Ma cosa poteva significare, allora?
 Continuai a starmene lì, a canticchiare, dondolandomi con gli occhi puntati verso il cielo nuvoloso.
Minuti passarono... e ancora nessun’automobile, né persona o bambino. Non riuscivo nemmeno a sentire più il cinguettare delle rondini primaverili.
Un’atmosfera inquietante.
Ecco perché decisi di riavviarmi verso casa, da mamma e papà.
Ma qualcosa mi costrinse a rimanere impalata e senza fiato, sulla seggiola della giostra: l’arrivo di tre individui.
Non li avevo mai visti prima, ma catturarono la mia attenzione dal primo secondo.
Erano due bambini, un maschio e una femmina, con accanto quella che probabilmente doveva essere loro madre.
 
La donna adulta aveva il viso scavato e pallido, gli occhi grandissimi e lucidi e le labbra bianche. Barcollava, tanto che i bambini erano delle volte costretti a sorreggerla. Vestiva di bianco, e notai delle strane macchie nere sulle braccia scoperte. Aveva i capelli scuri e ricci, abbastanza simili ai miei.
Era davvero orrenda. Sembrava non mangiasse da tempo.
Confesso, mi faceva davvero paura.
Rimasi bloccata dov’ero per l’orrore. Ma quell’orribile vista lasciò subito il posto a quei due bambini, dalle fattezze angeliche e pure.
Erano davvero simili e sembrava avessero la mia età. Probabilmente erano gemelli.
La bambina aveva lunghi capelli biondi e ricci, raccolti in boccoli semplicemente perfetti. La sua pelle pallida era perfetta, e gli occhi scuri erano profondi e dolci. Come faceva ad avere labbra così rosse?
Si muoveva con leggiadria e, aggraziata quasi più di una farfalla, pareva che irradiasse una strana aura luminosa.
Il fratello era molto simile: capelli biondi e riccissimi, guance paffute... ma occhi azzurri.
Non erano del tutto identici.
Non si muoveva con grazia e delicatezza come l’altra; aveva le movenze di un normale bambino. La sua pelle non era pallida, ma leggermente abbronzata.
Teneva la mano alla madre e la spinse piano verso la panchina più vicina per farla sedere, mentre la sorella volteggiava velocemente davanti a loro.
La donna ringraziò il bimbo, accarezzandogli la fronte e sussurrandogli qualcosa, scatenandogli un risolino.
 
Sembrò come se non mi avessero vista. Meglio così, visto che ero incantata davanti alla bambina danzante. Dovevo proprio sembrare una stupida.
 
Il bambino si avvicinò alla sorella e ne fermò il balletto, sempre sussurrandogli qualcosa.
Fu in quell’istante che mi scoprirono.
I bambini mi notarono, imbambolata a fissarli invidiosa della loro bellezza. Mi limitai a salutarli, amichevolmente con la mano, come di solito facevo con i miei amichetti. Sorrisi. Dopotutto adoravo fare nuove amicizie. E loro sembravano così... speciali.
La biondina ridusse gli occhi scuri a fessure e mi squadrò per benino, prima di gridarmi contro:
- Vattene! Stiamo giocando noi!
Qualcosa, in quelle parole, mi sconvolse. Sembrava una vera e propria minaccia, e le uniche frasi che avessi mai sentito fino a quel momento, con quel particolare tono di voce, erano del tipo “Non mangiare questo!” o “Vai subito a letto, prima che arrivino i mostri dal tuo armadio!”.
Abbassai lo sguardo, a fissarmi il vestito nuovo, a motivi floreali.
- Vattene! - ripeté.
- Continua a ballare - sussurrai - Non ti guarderò più.
Silenzio.
Non volevo incrociare i suoi occhi, né dare soddisfazioni a lei e al fratello, che stranamente non interveniva.
Poi, sentì qualcosa di duro e appuntito colpirmi la guancia a velocità impressionante.
Una pietra cadde sul mio grembo... insieme a qualche goccia di sangue.
- Vuoi andartene? O preferisci un altro colpo?!
 
Era stata la bambina a tirarmi quella cosa addosso. Altre pietre più o meno grandi le riempivano i pugni.
Ora alzai il capo, tremante di paura e rabbia.
La fissai, con le lacrime che minacciavano di cadere sulla ferita aperta della mia guancia destra.
Sentii il sangue scendere a rigarmi le labbra. Ora le avevo rosse proprio come lei.
E poi intervenì il fratello, che la bloccò proprio prima che ricominciasse a “lapidarmi”. O no?
I ricordi del mio infelice e sanguinante quarto compleanno, a questo punto, cominciano ad affievolirsi. Sarà per gli anni, o per il mio cervello che ha cercato in tutti i modi di cancellarmi dalla mente quegli ultimi istanti trascorsi al parco sotto casa mia.
Ricordo... gli occhi della bimba rigarsi di scarlatto. No, non per il furore o cose del genere.
Le pupille diventarono rosse, fisse sulla mia ferita sanguinante.
Il fratello la prese e la bloccò con le braccia. Credo che fallì, o fu scaraventato via da una manata della sorella.
Fui presa dal terrore. Corsi via da quelle persone, mentre sentivo un urlo alle mie spalle. Mi fiondai tra le braccia di mia madre e pregai di svegliarmi da quell’incubo.
Se è davvero andata così, non ho la più pallida idea di cosa sia successo alla bambina.
Ci vollero, però, settimane prima di levarmi di dosso quell’orribile scena. Cancellarla? Ci pensò l’inconscio.
Non fu l’unica volta, comunque.
Rividi i gemelli, quasi cinque anni fa, per l’inizio del liceo.
 
Lei, Marisol, bella, aggraziata e agile.
Lui, Jason... era rimasto quel bambino del mio quarto compleanno: capelli ricci e biondi, occhi chiari più di zaffiri...
Era diventato più alto.
E non passava certo inosservato.
Ma io ho deciso di stare lontana da quei due. Perché solo sentendoli vicini a me, i ricordi cominciano a riaffiorare.
Proprio come ora, alla consegna del diploma. Belli, invidiati da tutti...
Io starò lontana.
 
Jason Allyn viene chiamato sul palco, a parlare. E’ talmente dolce ascoltarlo parlare che quasi ricado in incantesimo. La sua gemella, Marisol, non lo ascolta.
Sussulto quando scopro che mi sta osservando. Attenta, più di una leonessa che aspetta paziente l’arrivo della sua preda.
Continua a farmi paura, ma cerco di non pensarci.
Quella sera li rivedrò, purtroppo, visto che quel genio di Tom Brein, una specie di super-secchione, ha invitato tutta la classe per una festa. Sono stata la prima a saperlo, visto che quel ragazzo passa più tempo con me che a dormire. Non rifiuto le sue attenzioni, ma non è proprio il mio tipo.
Cosa farò? Stasera sarò letteralmente braccata da ricordi e compagni di classe. Ed è anche il mio diciannovesimo compleanno.
Mi passo una mano tra i miei capelli castani, chiudo gli occhi... e con la voce di Jason dagli altoparlanti, continuo a sentire lo sguardo di fuoco di sua sorella.
La sento, mi chiama...
Gabrielle.... Gabrielle... Gabrielle...

 


SPAZIO AUTRICE:
Saaalve! :) Qui Ale, che vi parla.
Allora, questa storia non mi ha fatta dormire di notte: è cominciata come un sogno e poi il mio cervellino ha deciso di farle vedere la luce. Ne sono davvero fiera, anche se è la prima in questa sezione. Cercherò di aggiornare il prima possibile: questa storia mi ha "presa" :D
Fatemi sapere cosa ne pensate! :) Risponderò a tutte le recensioni e domande.
Vi ringrazio! Bacini bacini.
E alla prossima! :3

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Capitolo 2
*** Regali Di Compleanno ***


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Regali Di Compleanno
 
I miei genitori avevano assistito alla cerimonia e avevano insistito per riportarmi a casa. Non si fidavano di me, soprattutto se alla guida di una macchina. E da una parte potevo dar loro ragione... ma questo voleva dire che mi consideravano ancora una ragazzina?
Tornati a casa, mamma poté dare sfogo alla sua nuova passione: la fotografia. Continuava a girarmi attorno con la sua macchina fotografica, scattando immagini ogni secondo. Tutte mie.
- Mamma! - dico sorridendo, anche abbastanza imbarazzata - E’ solo il diploma. Non oso pensare cosa potresti combinare il giorno del mio matrimonio... se mai ci sarà.
Sento mio padre chiudere la portiera dell’auto e avvicinarsi:
- Certo che ti sposerai. Ma per quello, Gabrielle, ci vuole ancora tanto tempo. Sorridi... è il tuo compleanno, anche - sussurrò, mentre mamma controllava le batterie scariche dell’aggeggio.
Alza la testa, respirando a pieni polmoni e rivolgendo gli occhi sul cielo sempre nuvoloso e scuro di Rowhilton.
- E poi - aggiunge, senza guardarmi - Non credi sia triste, per un padre e una madre, veder andare via la propria figlia. In più, se non è l’uomo giusto... sai come va a finire, nel migliore dei casi.
Le sue parole mi spaventano. Credo che resterò single.
- Andiamo - conclude tornando alla realtà - Chissà cosa avrà preparato tua madre per pranzo. Stasera festeggeremo con...
Sussulto.
- Papà - dico, cominciando a sudare freddo - Stasera... non posso.
Mi guarda preoccupato; perché? Come ho fatto a dimenticarmene?!
- Gabrielle... ?
- Avevo promesso a Tom Brein che sarei andata a casa sua, per la festa di fine anno. Di addio, capito?
Pregavo. Lo stavo pregando, seppur indirettamente.
Papà passò una mano tra i capelli, un gesto che ci accumunava.
Pensava.
- ... e chi sarebbe questo Tom Brein?
- Lo conosco. E’... era il più bravo del corso - dico, mentre comincio a sentire l’impulso di scappare senza ulteriori spiegazioni: avevo diciannove anni!
- E... - balbettò prima di gridare rivolto all’ingresso di casa - TESORO! Chi è Tom Brein?!
La risposta di mamma non si fece attendere:
- Non lo s- AH! Aspetta, conosco sua madre, Tanya. Sono brave persone.
- A casa di Tom - riprende mio padre a nessuno in particolare - E ha invitato solo te?
- No. Tutta la classe.
Cosa potevo fare? Assecondare i suoi timori o restare bloccata in casa tutta la sera?
 
Qualcosa, in quell’istante, mi costrinse a voltarmi verso il cancello. Era stato un rumore metallico ad attirare la mia attenzione, e un parlottare sommesso.
E mi sarei potuta aspettare chiunque, persino la nostra noiosa vicina.
Non Jason Allyn, in tutta la sua bellezza. Proprio come lo avevo lasciato qualche minuto prima davanti a scuola. Jeans e camicia, con i capelli biondi arruffati e sudati.
Sapeva dove abitavo? Che si ricordasse ancora dell’episodio del mio quarto compleanno?
Incredibile.
Mio padre sobbalza vedendolo.
Ma il ragazzo non lo nota minimamente.
Lo fisso, perplessa. Lui ricambia, impassibile.
 
Io e Jason non ci siamo quasi mai rivolti la parola in questi cinque anni. Può sembrare strano, ma era lui a tenere le distanze; a me stava bene. Non ci tenevo a essere sua amica.
Anche se mi sarebbe piaciuto tanto. Ma lui mi conosce a malapena... proprio come me. Sua sorella, poi, continua a farmi venire i brividi.
 
- Elle! - grida.
Sento  papà agitarsi al mio fianco. Mi volto ad osservarlo per un secondo solo: è paonazzo; quindi meglio fare in fretta.
Mi avvicino veloce al cancello, con lo sguardo basso. Sento il calore divamparmi in faccia e al petto.
Ogni passo è un insulto represso.
Arrivata a qualche centimetro dalla grata che ci separa, sibilo:
- Mi chiamo Gabrielle. Non Elle!
Rimane in silenzio a contemplarmi gli occhi. Profuma come sua sorella, di fiori. Un profumo alla lunga nauseante. Ecco perché piace a Marisol. Nauseante come lei.
- Sì, scusa. Ma credo che Elle... - sussurrò Jason.
Dio, quanto era scocciante... e dolce. A modo suo.
- Elle è un nome da bambina! - rispondo.
- Appunto... Elle mi piace - ridacchia.
Sento mio padre schiarirsi la voce: brutto segno.
- Comunque... - continua tirando fuori qualcosa dalla tasca dei pantaloni - Sono venuto per portarti questo.
E’il mio cellulare.
Ho... la tasca vuota.
- Sembra che te lo sia dimenticato... sulla sedia, Gabrielle. O che ti sia scivolato - dice porgendomelo - Lo ha recuperato mia sorella, ma ora ha da fare. Ed eccomi qui.
Lo afferro rapidamente e continuo a sentirmi il viso andare a fuoco quando sfioro la sua mano, calda e tesa verso di me.
- Tua sorella? Ringraziala, è stata gentile - mento facendo finta di niente, ricordando i suoi occhi penetranti fissi sulla mia guancia destra.
Poi...
- GABRIELLE!
Papà sembra sull’orlo di una crisi.
- Devo entrare - lo congedo con semplicità - Ci si vede.
Ma interviene ancora...
- Ci verrai stasera, a casa di Tom, vero? - chiese curioso.
- Sì, sì... a stasera! - e parto dritta verso casa, senza ulteriori saluti e senza aspettare mio padre, col telefono in tasca.
 
Non riuscii a tirarmi fuori dalla testa quel maledetto incontro. Era la prima volta, in un certo senso, che ci parlavamo, e già era in vena di nomignoli e gentilezze.
“Forse è nella sua natura, non tutti sono mostri o persone egoiste” mi ritrovai a pensare, quel pomeriggio, stesa sulle lenzuola pulite del mio letto.
Casa mia non era enorme, e nemmeno troppo piccola. Una delle solite casette a basso costo in periferia, accoglienti e calde. La mia stanza era il mio rifugio; era al piano superiore, come quella dei miei, insieme ai nostri rispettivi bagni. Le pareti erano di una giallo pallido, colore che ho sempre odiato; una piccola lampada posta sulla scrivania era la mia unica fonte di luce quando faceva buio. Odiavo tenere la finestra aperta e odiavo oltretutto guardarci fuori, visto che dava sul parchetto, oramai, in disuso dove avevo incontrato i gemelli per la prima volta.
Il cellulare era sotto il cuscino.
Quali interessi potevano aver spinto Marisol a chiedere al gemello di riportarmelo? Lei è sempre stata la diva della classe, credo che nessuno abbia mai socializzato con lei. Penso che al posto del cuore abbia un cubetto di ghiaccio... ma se davvero ha trovato il telefono...
In quel momento... il dubbio incombe più veloce di un lampo: che lei, o Jason, abbiano escogitato tutto questo solo per raccattare il mio numero e cominciare a tormentarmi a vita!?
Cerco di non pensarci. Una persona non può combinarne tante in poche ore, anche se si parla di quei due ragazzi.
Mi alzo, stanca, e balzo vicino all’armadio.
Inutile.
Per quanti anni ci abbia provato, non sono mai riuscita ad emulare quegli aggraziati ed eleganti movimenti che solo Marisol sembrava in grado di compiere. Volteggiava? Come faceva?
L’avevo osservata sfilare per la classe, anche se il più delle volte, restava seduta al suo posto per ore, senza muovere un muscolo. Mai vista sorridere, o scherzare.
Un po’ come Jason... peccato che qualche ora fa mi sia ricreduta definitivamente sul suo conto.
 
Apro le ante con un movimento secco, con l’aria dovuta allo spostamento che mi scompiglia i capelli appena asciugati. Il vestito per la festa è coperto da un velo bianco.
L’avevo preso qualche settimana fa. Qualche sfizio potevo togliermelo!
Era un vestitino, non troppo corto visto che non ci tenevo a scandalizzare i miei genitori super-apprensivi. Era completamente rosso, con merletti e nastrini neri qua e là, a decorarlo e ad impreziosirlo. Un brillante era incastonato e tenuto attaccato alla scollatura sul petto. Collant scuri e scarpe in tinta, con un filo di trucco, ed ero pronta.
I capelli li avrei raccolti a minuti in un’intricata doppia treccia con un nastro scarlatto. Me l’aveva insegnata mia nonna tempo fa, quando ero davvero piccola. Ricordo... lei era solita chiamarmi Elle...
Non che significhi qualcosa riguardo Jason. Mia nonna è morta sette anni fa e lui non la conosceva di certo.
Semplici e inquietanti coincidenze.
 
Alle otto e trenta scendo in soggiorno, pronta per la festa.
Al mio arrivo, mamma si ferma a cucinare e mi fissa con i lucciconi agli occhi:
- La mia bambina! - piagnucola, venendomi accanto e pizzicandomi dolcemente la guancia - Diciannove anni... e sei così bella! Ti farei una foto in questo magnifico vestito... ma sembra che la macchina fotografica ci abbia abbandonati.
E’ così dolce. Mia madre. Però non vorrei mai diventare come lei... non l’ho mai identificata come modello da seguire. Eppure non eravamo tanto diverse.
Mio padre all’inizio sembra abbastanza riluttante a farmi uscire di notte così, ma alla fine si abbandona ai ricordi anche lui.
Nella borsetta al mio fianco sento un leggero tremolio. Controllo...
- Allora... Gabrielle, andiamo! - esclama mio padre, dopo aver controllato l’orologio - Prima ti accompagno, prima ti vengo a prendere!
E’ un messaggio.
Da... Jason?
Come ha... ?!
Oh. No.
 
Elle, sono fuori casa tua, visto che vieni alla festa posso darti un passaggio
- Jason

 
Mi sento male.
Cosa vuole da me?!
Se lo dicessi a mio padre, mi scuoierebbe viva.
- Ehm... papà... mi ha appena contattata... Lucy... ricordi Lucy, vero? - balbetto in preda al panico.
Annuisce. Bene.
- Sta venendo a prendermi - continuo.
Mi fissa.
- Ora. Anzi... è già qui.
Continua a fissarmi. Perché quando fa così non mi fa sentire sicura?
Mamma intervenì:
- James, caro, proprio quello che volevi, no? Non c’è baseball, stasera?
Annuisco. Qualunque cosa... qualunque cosa...
- In effetti... sì - disse papà - Vai con Lucy. Ma torna presto!
Gli stampo un bacio sulla guancia per addolcirlo, saluto e attraverso il cortile. La dolce espressione lascia il posto ad un ghigno.
Cinque anni per fare amicizia... nell’ultimo giorno.
La sua macchina aveva il motore acceso. Sapeva... che sarei venuta. Ma forse non sapeva che gli avrei urlato contro per tutto il tragitto. Solo allora avrebbe davvero conosciuto Gabrielle Barnes!
Entro e sbatto la portiera più forte che posso.
Lo guarda.
Sta sorridendo.
- Buon compleanno, Elle - dice dolcemente porgendomi un pacchetto.
Perché i miei compleanni sono tutti così strani?!
 

 
NOTE AUTRICE:
Ecco il secondo capitolo! :D
Fatemi sapere, mi raccomando, nelle recensioni, cosa ne pensate! ;) Anche perché io adoro parlare coi recensori!
A presto, col prossimo capitolo!
Baci! :3

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Capitolo 3
*** Una Festa Per Conoscerci ***


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Una Festa Per Conoscerci
 
Raccolgo il pacchetto senza smettere di fissarlo, mentre la macchina avanza, via dal vialetto di casa mia verso casa di Tom. Il passaggio sotto i lampioni illumina ad intervalli regolari i suoi capelli chiari e i suoi occhi azzurri brillano ancora più del giorno. Fa un caldo pazzesco... ma lui è vestito di tutto punto con una camicia azzurra a maniche lunghe con jeans.
- Non lo apri? - sussurra concentrato guardando la strada.
Esamino l’oggetto; deglutisco a difficoltà: non si era mai ricordato del mio compleanno, né mi aveva mai regalato qualcosa. L’unica persona estranea alla mia famiglia che sapeva il giorno in cui ero nata era Lucy, ma in quel periodo era diventato difficile vederla, visto che progettava di trasferirsi.
Tiro l’estremità del fiocco di raso bianco lentamente e butto sulle ginocchia la carta. E’ una scatola di piccola dimensioni che tengo tra le mani; tolto il coperchio, vedo davanti a me una collana.
Una bellissima e luccicante catenina d’argento, con attaccato un piccolo medaglione apribile dalla forma ovale. Mai ricevuto qualcosa del genere. Nemmeno dai miei genitori.
- Che ne pensi, Elle? - dice lui con un sorrisino strano, quando per un momento si volta ad osservare la mia espressione stupita.
- Il... regalo è stupendo... - balbetto - Ma il motivo... ?
- E’ il tuo compleanno - si giustifica lui.
- Ti sarà costato un po’ - dico osservando il ciondolo nell’oscurità.
- Non ti preoccupare...
Quel ragazzo non me la raccontava giusta; prima il cellulare, ora quello!
- Non mi hai mai... fatto regali di compleanno - dico piano distogliendo a fatica gli occhi dal gioiello - Non siamo stati amici. Veri, intendo.
Jason scosse la testa lentamente:
- Veramente me ne sono ricordato solo stamattina, e te lo avrei dato stamattina, ma te ne sei andata senza salutare...
- Io non ho mai riferito ai quattro venti la data, comunque - noto.
Non rispose.
 
La villa di Tom Breins era fuori città, lontana dalle realtà e circondata dal verde. Una bella abitazione, con un enorme giardino, che la faceva assomigliare ad un castello fiabesco. In pratica lui e i suoi genitori sguazzavano nell’oro, ma lui non era un tizio permaloso o avido... al contrario, era troppo buono. Era anche abbastanza strano, visto che negli ultimi tempi aveva cominciato a pedinarmi di giorno e a lanciarmi sassolini contro la finestra di notte. Solo per il gusto di vedermi, diceva lui.
Io non ero niente di speciale: né troppo bella, o popolare; non aveva idea di come potessi interessarlo... e di come avessi fatto. Semplicemente non accettavo le sue lusinghe. Le uniche, d’altronde, che avessi mai ricevuto prima del mio diciannovesimo compleanno.
Arriviamo dopo non molto tempo; Jason lascia la macchina accanto alle altre, in una specie di mini-parcheggio, toglie la chiave e mi guarda.
Ho la scatola in grembo, chiusa.
- Mettitela - dice allegro - Starai benissimo; la luna vi farà brillare.
Parla sempre in questo modo? Non sono abituata. Ma rifiutare un regalo sta male; mi ha anche dato un “involontario” passaggio alla villa. Gli sono riconoscente per troppe cose stanotte. Così decido di indossarla, sotto i suoi occhi. L’argento freddo mi procura piccoli brividi all’inizio, ma il risultato è davvero stupefacente. Mi sento completa con quella catenina al collo, e il piccolo medaglione proprio sotto il collo.
- Grazie - sussurro.
Ora sembra davvero soddisfatto.
- Nessun problema... ci si comporta così, tra amici - dice prima di uscire dalla vettura.
L’ultima frase mi costringe ad aprire con uno scatto la portiera e raggiungerlo; la ghiaia, sotto i nostri piedi, produce un dolce rumore ad ogni passo.
- Amici? Da quando siamo diventati... amici? - chiedo sorpresa a Jason incrociando le braccia.
- Bhè - fa lui - Credo sia naturale... dopo averti riportato il cellulare...
- Ed esserti preso il mio numero senza permesso! - borbotto.
- ... per averti dato uno strappo alla festa, per il regalo... non sono cose che fanno gli amici? - conclude.
Siamo ai due lati opposti della sua macchina. Sembra la scena di un film... o sto solo divagando.
Sospiro:
- Direi di sì. Ma potevi anche pensarci cinque anni fa. O fai così solo perché tua sorella non è nei paraggi?
Un altro sorriso gli increspa le labbra:
- Cosa ti importa di mia sorella? Voglio solo fare amicizia. Visto che di amici non ne ho.
- E io sono la perfetta cavia?
- No, credo tu saresti l’amica perfetta. Ecco perché siamo soli.
- Non sono sola. Ho Lucy...
- E poi?
Mi coglie impreparata. Lucy è Lucy. Nessun altro ha preso un posto speciale come il suo nel mio cuore.
Mi capisce; mi fa cenno di seguirlo verso la villa, scuotendo i ricci biondi:
- Andiamo alla festa, non pensiamoci più.
 
Dalla gente presente nel giardino di Tom deduco che lui abbia invitato praticamente tutto l’ultimo corso, perché è quasi impossibile muoversi. Per fortuna Jason mi fa strada tra la moltitudine di ragazzi e ragazze. Noto con piacere che la collanina ha riscosso davvero successo: al mio passaggio gli occhi cadono sul mio nuovo regalo, luccicante e brillante come la luna.
Una volta raggiunto, vedo Tom accanto al tavolo degli alcolici con le braccia distese e uno sguardo preoccupato sul viso; forse cercava di tenere lontani i curiosi dalla sua collezione di bottiglie d’alcool. Appena incrocia il mio sguardo, però, sembra subito dimenticarsene. Tom era un ragazzo di media statura, con degli spessi occhiali neri come i capelli, con due piccoli occhi grigi. Oggi sembrava più strano del solito.
- Ehi, Gabrielle. Jason - saluta amichevolmente  - Che ve ne pare?
Si riferisce alla festa?
Jason si guarda intorno, annuendo soddisfatto:
- Mi piace. C’è vita, cibo, musica... solo tu potevi pensare a tutto.
- Sì, ha ragione - mi limito a dire.
Tom si rabbuia:
- Da quando voi due state assieme, eh?
Incrocio lo sguardo di Jason e scuoto la testa:
- Non stiamo insieme. Mi ha accompagnato.
- Strano... - si lasciò sfuggire - Stamattina ti ho mandato un messaggio. Potevo accompagnarti io, Gabrielle.
Sento Jason muoversi alla mia destra.
E capisco tutto.
Ha per caso cancellato il messaggio di Tom, stamattina, quando ha ritrovato il cellulare?
- Scusatemi! - dico rabbiosa. Odio quando qualcuno cerca di controllare la mia vita.
Mi volto di scatto, corro a fatica sull’erba del curato giardino.
Ho bisogno di pensare. Mi manca l’aria. Voglio tornare a casa.
Ho già il telefonino in mano, quando una figura alta, pallida, vestita elegantemente mi prende per un braccio.
Lo identifico: un uomo, probabilmente sulla ventina inoltrata, di bell’aspetto mi guarda con occhi di brace. Letteralmente, ha gli occhi rossi! Saranno delle lenti a contatto.
E’ pallidissimo. Le labbra sono incurvate in un bellissimo sorriso. Ha i denti bianchissimi e perfetti, da far spaventare persino un dentista. Il naso, dritto e piccolo, è in proporzione al resto del viso. I capelli sono pettinati e dritti, neri.
Porta una strana camicia bianca, tutta pizzi e merletti, col colletto alto. Una giacca nera dalla fodera rossa e pantaloni neri. E’un tipo strano... e non lo conosco. Cosa vuole?
- Agnes! - mi urla addosso - Agnes! Sapevo che ti avrei trovata! Amore mio!
Agnes?!
- Scusi signore - dico cercando di reprimere una risatina - Ma deve aver sbagliato persona. Non mi chiamo Agnes.
L’uomo scosse la testa, ridacchiando:
- Impossibile, amore mio. Agnes! Non mi riconosci, tesoro? Sono io! Io...
La sua presa sul mio braccio è fortissima; era come se una catena freddissima mi impedisse il minimo movimento dell’arto.
Vedo le sue strane pupille fermarsi sulla mia collana e poi sul mio petto. Sto per mandarlo in un bel posto, quando quello sibila terrorizzato:
- Sento... qualcosa...
- Devo andare! - insisto - Non sono Agnes!
- Certo che non lo sei... lei non...
E’ pazzo.
Mi lascia il braccio e si allontana di qualche passo con gli occhi sgranati, sussurrando parole incomprensibili. Anche io faccio per allontanarmi, quando, in un attimo, sento la treccia disfarsi e i capelli cadermi sulle spalle nude. Non c’è vento... il nastrino rosso non poteva essere volato via. La pettinatura avrebbe tenuto ancora per molto.
Non capisco...
Cosa voleva quel tizio da me? E chi era Agnes? Non era da età di liceo, poteva essersi imbucato.
Rido pensando a quello che Tom potrebbe combinare se scoprisse che un estraneo si sia imbucato alla sua festa perfetta.
 
Attraverso il giardino, via dalla villa, il telefono in tasca.
Quell’uomo mi ha incuriosito. Ora voglio rimanere a questa pseudo-festa, giusto per vedere fino a che punto può arrivare la pazzia umana.
Scorgo un bellissimo gazebo in pietra, con statue greche a fare da colonne. Mi siedo sul duro e freddo muretto, lontana dalla musica e dalla confusione. Esamino lo splendente medaglione. Si apre. Dentro si possono infilare solo due piccole foto.
Deve aver speso una fortuna, se è argento vero.
Jason...
Vuole fare amicizia?
Chissà se ricorda ancora il giorno del nostro primo incontro.
 
Passa tempo... spero ore. Non voglio tornare là dentro. Ma mi sento così sola...
Ah, ecco.
Vedo arrivare dalla moltitudine di persone una figura... luminosa?
Quasi.
E subito mi ricredo quando capisco che la persona che mi sta venendo incontro è Marisol.
Bella. Stupenda. Aggraziata. I primi aggettivi che mi vengono in mente se penso a lei. E’ vestita con un bell’abito bianco a balze. Le mette in risalto il pallore della pelle, e sicuramente i capelli biondi. Si fa sempre più vicina a me.
Corre veloce a balzi, come un coniglio.
Ma credo che se dovessi associarla ad un animale, la abbinerei ad una tigre.
 
Finalmente mi vede.
E mi parla, sempre facendosi vicina:
- Perché non torni alla festa? - chiede.
Perché oggi gli Allyn mi parlano come se li conoscessi da sempre?!
Faccio spallucce:
- La musica è troppo forte. E tutta quella gente... meglio stare qui, per ora - dico, fissandomi le scarpe.
La seguo, con la coda dell’occhio: con un balzo agile si mette in piedi sul muretto. Ora alla mia sinistra vedo le sue scarpe tempestate di brillanti.
- Mio fratello... ti ha ridato il cellulare? - chiede dopo un minuto di imbarazzante silenzio.
- Sì. Ti ringrazio.
- Figurati. Per il tuo compleanno...
Ecco. Lo sa anche lei.
Mi tende la mano, facendomi cenno di salire sulla pietra. Mi aggrappo forte, ma lei con una forza indescrivibile mi tira su come fossi una bambolina. Ora arrivo al suo petto. E’ troppo alta, troppo bella e troppo elegante.
- Tanti auguri... - dice sorridente, baciandomi le guance - Possa tu avere sempre il sorriso sulle labbra.
Cosa... ?
- Grazie... ancora - sussurro folgorata dai suoi occhi.
Marisol viene scossa da un fremito quando l’occhio le cade sulla mia collana d’argento.
Mi sembra di rivedere la bambina nel parco giochi, la bambina che impazzì.
Dalla villa, una voce agli altoparlanti annuncia:
- TUTTI QUI, RAGAZZE E RAGAZZI! E’ L’ORA DEL BALLO IN COPPIA. VI VOGLIAMO TUTTI, NESSUNO ESCLUSO! TUTTI AL GRANDE SALONE!
Marisol mi parla dolcemente:
- Allora, andiamo a vedere questo ballo, Gabrielle? Scommetto che mio fratello farà di tutto per il primo ballo.
Mi fa arrossire. Da quando è interessata a me con suo fratello gemello?
Cammino al fianco dell’aggraziata ragazza.
Non ci riesco. Come fa a danzare così, quando cammina?
 

ANGOLO D'AUTRICE:
Eccomi, ancora, col terzo capitolo di questa serie. Sì, sì, serie u_u
Ma non voglio anticipare altro. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. E fatemelo sapere con le recensioni! :D
Alla prossima, belli!
:3


 

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Capitolo 4
*** Solo Un Ballo! ***


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Solo Un Ballo!

Sento il sangue raggelarsi nelle vene, quando Marisol poggia le sue lunghe e fredde dita affusolate sulla mia spalla nuda. Siamo davanti all’entrata della villa, dove avevo incontrato quello strano signore e dove lei stava per lasciarmi, probabilmente, in balia della festa.
Mi sorrise, angelica, mostrandomi i suoi denti perfetti e bianchissimi:
- Goditi la festa. Io ti lascio.
Cerco di non fissarla negli occhi e annuisco cordiale. Lascia la presa e si allontana con eleganza alle mie spalle, lontana dalla musica e dal mio sguardo. Solo qualche passo verso la folla e mi sento di nuovo afferrare per la spalla; stavolta, però, la presa è calda e potente. Mi volto per ritrovarmi davanti il viso di Jason. Lo guardo decisa, incrocio le braccia, in attesa di una spiegazione plausibile per il suo atteggiamento. Perché i miei compleanni sono sempre così indimenticabili? E se non è lui a renderlo tale, tanto, ci pensa la gemella.
Nota il mio sguardo duro e indagatore. Fa spallucce:
- Non ti preoccupare, tanto è passato.
La mette così? Ah, troppo facile per lui.
- Passato? Intendi... cancellato. Come l’SMS.
Si acciglia:
- Perché tante storie. Ho solo pensato che... preferissi un mio passaggio. Non abitiamo molto distanti, poi.
- Un passaggio... che qualcuno mi aveva già proposto - sibilo arrabbiata.
Proprio in quell’istante la voce del Dj risuona impetuosa nelle mie orecchie e un fascio di luce illumina me e Jason, lasciandoci impietriti.
- Ehi! - esclama dalla postazione esterna l’uomo, con le cuffie alle orecchie e uno strano piercing che gli pende dal naso - Voi due! Piccioncini! Forza, aprite le danze!
E una canzone riempie l’aria. Una canzone che conosco... è accompagnata dal pianoforte. E’ troppo.
Guardo dritto negli occhi lontani del Dj, e scuoto la testa, mentre mi sento divampare in faccia.
- Non se ne parla - dico, mentre sento mille persone fissarmi curiose. Pensare che tra loro ci possa essere Tom, o Marisol, mi rivolta lo stomaco.
Jason sembra sorpreso, anche se non tanto quanto me.
- Dai, balliamo - mi sussurra.
- Non se ne parla - ribadisco decisa.
Il Dj cerca ancora di convincermi - insieme a mezza scuola, persone che nemmeno conosco e che mi continuano a ripetere di ballare - quando lui sussurra qualcos’altro, che cattura immediatamente la mia curiosità:
- Se balliamo, ti dirò perché l’ho fatto...
Mi volto di scatto verso di lui.
Posso specchiarmi nelle pupille incorniciate di cielo. Incurva le labbra e mi tende la mano sinistra. Sento centinaia di sospiri alle mie spalle. La musica ricomincia, più dolce e lenta di prima.
Siamo ancora illuminati dalla luce, seppur più debole.
E’ come ho visto fare nei film: io incrocio la mia mano destra nella sua sinistra, mentre l’altra è poggiata sulla sua spalla. Mi cinge delicatamente il fianco; vivere con una ragazza come Marisol deve averlo abituato ad un bel po’ di cosucce.
Ruotiamo lenti e concentrati sui nostri passi barcollanti.
Il mio medaglione luccica come una stella, è impossibile da non notare. Fissarlo mi ricorda il motivo di quello stupido ballo:
- Aspetto - gli dico semplicemente - Non mi metto in ridicolo davanti a tutta la scuola senza un motivo.
Ridacchia innocentemente, mentre continua a guidarmi in tondo:
- Non ti piace ballare?
Rispondo pestandogli un piede. Vedo la sua espressione contorcersi un attimo per il leggero ma inaspettato dolore, e poi gli dico piano:
- Mi piace ballare... ma in questo caso lo faccio solo per avere delle spiegazioni, Jason.
- E... sentiamo: cosa vorresti sapere, di preciso?
Sgrano gli occhi:
- Perché? Mi sembra di essere tua amica, da sempre. E non è così. Ma tu... e tua sorella, oggi, siete strani!
- Parliamone...
Lascia in sospeso la frase. Mi fa rotare velocemente, al suo fianco. Riprendiamo a girare lenti, le nostre mani in contatto e i nostri occhi a fissi, persi, si perdono negli altri.
Riprende, sottovoce, ma allo stesso tempo forte nella mia testa:
- E’ il tuo compleanno. Pensavo che ci tenessi, poi, al cellulare.
Annuisco, cercando di non ripestargli il piede per il nervoso ch emi procura.
- Sapevo dove abiti, così te l’ho restituito. Non me ne sarei neanche accorto se mia sorella non l’avesse trovato - continua.
- Sei sicuro che l’abbia trovato lei, vero? - lo interrompo. Le bugie mascherate non mi piacciono, ma quel ragazzo è indecifrabile; mi sta prendendo in giro o no?
- Sì, te l’ho detto. Me l’ha dato e io te l’ho restituito, Elle.
- Gabrielle! - lo correggo.
Ride, ride ancora:
- Scusa.
- E come ti ricordavi dove abitavo?!
- Ti ho vista! E poi lo ricordavo benissimo: sin da bambino ti vedevo giocare là fuori - mi dice chiudendo gli occhi, paziente.
Mi sento svuotata dentro:
- Da... bambino? Quindi... - esito un secondo.
- Pensi che mi sia scordato della bambina che non si staccava mai dall’altalena vicino casa mia? - interviene divertito - Aveva... i capelli scuri, come gli occhi. Delle volte la sentivo cantare, e giocava alla principessa. Da sola.
Resto zitta.
- E tu? Ti ricordi di me, da bambino? - chiede calmo.
Ed ecco i ricordi riaffiorarmi nella testa, ancora; vividi e più veri di prima, ora che sono vicina a lui.
- Sì - gli rispondo, sorprendendolo, con uno strano sorrisetto - Mi ricordo un bambino dagli occhi azzurri e dai capelli chiari e ricci. Che sorrideva insieme a sua sorella, e che sorreggeva sua madre.
Alle mie ultime parole, il volto di Jason si rabbuia; capisco di aver toccato un punto dolente: sua madre. Non la conoscevo di persona, né si era mai fatta viva per motivi scolastici. Erano soli, e forse lo sono anche ora.
- Cosa c’è? - gli sussurro preoccupata. Sarò invasiva, ma almeno mi preoccupo.
Per tutta risposta, lui comincia a fissarmi il medaglione d’argento sul mio petto. Lo indica con un cenno del capo e sembra tornare sereno quando mi sussurra:
- E’ della mia mamma. Ha insistito che lo regalassi a te, per il tuo compleanno.
Sua madre?! Ma... !
- Perché? - chiedo curiosa - Tua madre nemmeno la conosco e lei non conosce me. Poteva benissimo darlo a tua sorella.
Mi sento in colpa, adesso, con quel gioiello addosso.
- Mia madre quasi riesce a leggermi nel pensiero. Credo di essere stato sempre il suo preferito, Gabrielle - confida serio.
- E le hai parlato di me, suppongo - dico sarcastica, e quando annuisce sorridente mi sento quasi male.
- Ti conosce di vista, naturalmente - mi spiega - Ma ti ha da sempre trovata simpatica. Quando ha capito che volevo regalarti qualcosa per i tuoi diciannove anni, mi ha espressamente raccomandato di dartelo.
Cosa dovrei dire? “Ringraziala da parte mia”? E’ davvero un bell’oggetto, ma se preferisce darmelo a me, invece che alla sua stessa figlia, ci deve essere qualcosa sotto.
- Pensa, mio padre glielo regalò... - conclude sempre lui, felice - ... proprio quando lei compì diciannove anni.
Quando la musica si ferma, mi rendo conto di essere in debito con troppe persone contemporaneamente. Troppe per un giorno solo. Ora non riesco a distogliere gli occhi dal medaglione d’argento. Spero solo che Jason, con la sua ultima frase, non mi stesse augurando lo stesso destino di sua madre. Una donna che anni fa, seppur in giovane età, sembrava debole e stanca tanto da non riuscire a restare in piedi a lungo. E suo padre... non l’avevo mai visto; chissà se abitava in città...
Ma non volevo essere ancora troppo invasiva nei suoi confronti, non gli avrei chiesto più niente della sua famiglia.
Scoppia un fragoroso applauso e le nostre mani si sciolgono, finalmente.
Mi guarda. Perché non abbandona mai quel sorrisetto infantile che si ritrova?
- E’ stato un onore danzare con te, Gabrielle - ridacchia, inchinandosi elegantemente davanti a me.
- Smettila! - gli dico, colpendolo piano sulla spalla e rialzandolo mentre attorno a noi l’aria si riempie di una canzone più agitata e le coppie più scatenate prendono il nostro posto sulle mattonelle in pietra del giardino.
 
Il tempo passa veloce, quando ci si diverte.
E io stavo imparando che avere come amico uno strano ragazzo che regala cimeli di famiglia non era affatto male. Se solo l’avessi saputo prima, non l’avrei liquidato freddamente davanti a Tom; ma per il momento l’oscuro motivo per cui Jason mi aveva cancellato il suo messaggio era l’ultimo dei miei problemi.
Sediamo insieme, dentro lo spazioso salone d’ingresso della villa, con bicchieri di succo d’arancia mezzi vuoti nelle mani, e osserviamo il via vai di ragazze e ragazzi presi dalla musica e dal ballo scatenato.
Io mi sento stanca, voglio tornare a casa.
Glielo dico gridando, cercando di sovrastare la canzone da discoteca in sottofondo in quell’istante. Mi capisce subito e annuisce facendomi l’occhiolino.
Do una rapida occhiata all’orologio: le due di notte? Oddio!
Cerco di mettere fretta a Jason:
- Mio padre mi ucciderà. Devo tornare a casa!
Lui si alza di scatto:
- Andiamo, ma prima dovremo avvisare Tom - dice forte.
- E dov’è? - chiedo esasperata.
- E’ in mezzo a quella folla - prosegue  indicandomi la folla festante - Troviamolo velocemente prima di perderlo!
Lo seguo, anche se io avrei piantato tutto senza avvertire nessuno. Ma, comunque, gli do corda: non mi va di rovinare già la nostra fragile amicizia.
Tra puzza d’alcool e grida quasi animalesche, troviamo Tom con una fascia legata alla testa e la camicia sbottonata. Jason gli dice due parole e poi mi fa segno di uscire.
Neanche dopo un passo, un urlo di donna mi fa prendere un colpo.
 
Mi volto insieme a Jason, sulla scia di quel suono straziante. Anche la musica si ferma. Il Dj sembra sparto dalla sua postazione, anche se giurerei di averlo sentito urlare qualcosa qualche minuto fa.
A gridare è stata una ragazzina dai capelli biondi e corti, che non conosco. E non si trova molto lontana da noi due: è ferma, immobile, su una scalinata di marmo e con i grandi occhi sbarrati mirava ad un punto sopra di noi.
Il candeliere brillante sul soffitto, sulle nostre teste.
Alzo la testa anche io, come tutti i presenti... quando vedo, appeso alla candela più vicina, un nastrino rosso. Il mio... nastrino rosso? Quello che avevo tra i capelli?
Un rumore metallico e sento mille voci attorno a me. Una mano mi afferra il braccio e mi ritrovo seduta a terra, sul pavimento, nel buio. E’ il panico. Un fragoroso schianto...
Il candeliere è caduto.
Jason?
Mi volto verso il mio salvatore; è proprio lui, grazie al cielo.
- Stai bene? - mi chiede preoccupato senza lasciare la presa.
Annuisco, ma quando realizzo che non riesce a vedermi, gli dico forte di “Sì”.
Sento puzza di sangue e capisco che il peggio deve essere accaduto. Mi sembra di essere precipitata dal più colorato dei sogni, al più buio degli incubi. Un’altra voce familiare giunge alle mie orecchie: Marisol.
- Jason! Jason! Hanno trovato delle ragazze morte nel bagno, scappiamo!
Sembra fuori di sé, dal tono di voce.
Poi, mi sento sollevare da terra e mettere in piedi. Altre urla arrivano dai bagni: allora è vero!
- Che stai dicendo?! - grida Jason alla sorella, mentre mi aiuta a trascinarmi verso l’uscita.
- Ti giuro! Ho sentito delle ragazze uscire dal bagno che urlavano come delle galline; dicono di aver visto dei cadaveri! - spiega Marisol.
Scavalchiamo dei corpi inerti e nel nostro tragitto perdo anche una scarpa. Fantastico.
Non ho il coraggio di voltami a fissare l’orrore dietro di noi. Non voglio neanche immaginarmelo.
- Via da qui - sibilo confusa.
 
Anche all’esterno il panico è diventato qualcosa di ingestibile. Sento ragazzi chiamare ambulanze e polizia, con voce disperata invocare aiuto o chiamare amici oramai lontani. Attraversiamo il selciato più velocemente possibile, con Marisol in testa e Jason che ancora non mi lascia.
Con mani tremanti, la macchina viene aperta; la ragazza si mette al volante, mentre io gemo:
- Ahh! Jason! Guarda...
Gli indico il polpaccio destro, nel quale è infilzato un pezzo di vetro, probabilmente che una volta apparteneva al candeliere di Tom. Il pezzo sembrava incastrato in profondità, ma non sentivo dolore, anche se il sangue scendeva a fiumi.
- Mettiti dietro - mi dice velocemente. Apre la portiera e mi spinge dentro.
Marisol ha già messo in moto e, appena il fratello entra, parte in retromarcia a tutta velocità e sgomma via dal parcheggio.
- Ma che diavolo è successo!? - urla violentemente battendo una mano sullo sterzo.
- Non lo so - sussurro mentre alzo le gamba ferita sul sedile, al fianco di Jason.
- Marisol - urla lui - Apri i finestrini! Tutti!
Lo guardo perplessa, ma la gemella obbedisce, dopo un pesante sospiro:
- Cosa è successo a voi due, ora!? - dice arrabbiata.
Jason si tira indietro i capelli biondi pieni di polvere e avvicina le dita della mano destra sul pezzo di vetro nella mia carne.
Ora inizio a sentire dolore. Tanto dolore.
 
 
ANGOLO AUTRICE:
Giorno, ragazzuoli! :D
Spero, come sempre, che questo capitolone vi sia piaciuto. Fatemelo sapere nelle vostre recensioni.
Ah, per chi si stesse chiedendo che canzone fosse, quella del ballo romantico... è stata la canzone sbucata fuori dalla mia playlist mentre scrivevo del capitolo, ed è "My love" di Sia.
Vi aspetto al prossimo capitolo! :)
Ciau ciau :D

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Capitolo 5
*** Nella Tana Del Lupo ***


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Nella Tana Del Lupo

- Brucia! - sibilo irritata puntellandomi coi gomiti sul morbido sedile posteriore, mentre la macchina corre a tutta velocità sull’asfalto.
- Cerca di resistere - dice Marisol - Rowhilton è vicina.
- Non riesci a togliermelo!? - esclamo verso Jason che esitante cerca, forse, di capire come estrarmi il pezzo di vetro senza dissanguarmi la gamba.
- E’ troppo buio! - grida esasperato - E se non ci riesco?!
- Ancora un po’! - ripete sua sorella stringendo i denti e accelerando ancora di più.
La puzza di sangue si fa insopportabile, ma per fortuna i finestrini sono tutti spalancati e la brezza notturna, unita alla spaventosa accelerazione del veicolo, mi mantengono sveglissima. Il dolore al polpaccio sembra diminuire un poco quando Jason mi asciuga il sangue; si sporca le mani, ma sembra non importagli.
Vedo casa mia dopo un pezzo... un’eternità, passata a imbrattare di rosso il sedile posteriore della macchina. Finalmente Marisol può accostare. Si scompiglia i capelli con strani gesti violenti e spegne il motore.
Suo fratello è già sceso e corre al mio fianco, ad aprirmi la portiera e ad aiutarmi a stare in piedi. Sembra che la ferita sia peggiorata, e di parecchio: alla luce dei lampioni, vedo che sulla gamba ho una strana macchia nera e rossa, che ancora sanguina.
- Ce la fai a camminare? - mi chiede lui.
Provo a fare un passo, ma sembra di avere la gamba chiusa in una morsa incandescente; se ne accorge subito e, senza che gli dica una parola, mi prende in braccio. Metto il braccio attorno alla sua spalla e dondolo, ad ogni suo passo nel vialetto di casa.
Mi volto indietro in cerca di Marisol, e la vedo ancora in macchina, col naso fuori dai finestrini. Forse è meglio che i miei genitori non la vedano, in effetti; loro credevano che Lucy mi avesse portato alla festa... quindi presentare loro i due strani gemelli e la mia gamba ferita era troppo per una sera. La sera del mio compleanno.
- Ho le chiavi, ho le chiavi - sussurro al “cavaliere” frugando la piccola borsetta al mio fianco... per scoprire che l’oggetto sembra sparito.
- Che c’è? - chiede lui.
- Ho... ho perso le chiavi! - esclamo guardandolo storto - Devo averle perse durante l’incidente nell’ingresso. Le avevo!
- Le troveremo dopo - taglia corto; mi mette in piedi, sempre sorretta dalle sue calde braccia illese mentre con la mano sinistra bussa forte alla porta.
- Mamma! Papà! - chiamo.
Silenzio.
Casa sembra deserta. Le luci sono tutte spente, ma i miei non potevano essere andati a letto senza prima avere mie notizie.
Marisol grida dalla macchina, dietro di noi:
- Qual è adesso il problema?!
Jason si volta scocciato e le spiega la situazione:
- Sembra che i suoi genitori non siano in casa!
- Forse stanno dormendo e non ci sentono - sparo, aspettando una loro risposta... che non arriva.
Piuttosto la bella gemella esce dalla macchina e a grandi balzi arriva al nostro fianco, si schiarisce la melodiosa voce e con una forza sovrumana batte sulla porta d’ingresso col pugno. La forza dei suoi colpi è un qualcosa di strano e straordinario allo stesso tempo: mi era sembrato di aver sentito i muri tremare.
- Se non ci hanno sentiti adesso... - sussurrò Jason sarcastico.
Ancora vuoto e silenzio.
- Evidentemente non ci sono - constato scoraggiata. E ora? E cosa ci facevano i miei genitori fuori a quest’ora.
- Salite in macchina! - sbotta la ragazza nervosa.
 
Ritorno a sedermi sul sedile macchiato; ora il dolore è un qualcosa d’atroce. Ma non conoscevano dei trucchi di pronto soccorso?!
- Andiamo a casa nostra. Lì abbiamo il necessario per... aiutarti - mi sussurrò Jason.
E dopo pochissimi istanti mi rividi portare ancora in braccio per un altro vialetto, verso casa dei gemelli. Non ci ero mai stata, naturalmente, ma sapevo che abitavano da quelle parti. Era un casa semplice e moderna, simile alla mia ma molto più grande.
Il giardino, però, era poco curato, lasciato quasi a sé stesso.
Marisol, stavolta, dovette rialzare i vetri dei finestrini e lasciare l’automobile. Ci accompagnò, leggiadra come sempre, e aprì la porta.
 
Era un’ambiente davvero molto illuminato. Il piccolo ingresso, dalle pareti candide, era pieno di mobili e scaffali stracolmi di centinai di libri. Una strana maschera esotica era appesa davanti a me, e mi rivolgeva uno sguardo minaccioso. Alla nostra destra un’enorme scalinata conduceva alle stanze da letto; continuando dritti, noi invece, arrivammo in un piccolo e grazioso soggiorno.
Era tutto così luminoso.
- Mamma starà dormendo - riflette ad alta voce Marisol, precipitandosi su per le scale.
Jason, intanto, mi trasporta e mi adagia su un morbido divanetto. Lo guardo riconoscente. Ha fatto così tanto per me, ha fatto tutto. E non potevo desiderare un amico migliore.
- Aspettami - mi dice lasciandomi la mano - Torno tra un secondo.
Si avvia lontano dalla mia vista.
Adagio la testa e chiudo gli occhi, stanca e dolorante.
 
Anche se la casa era decisamente accogliente e bella, c’era qualcosa che non mi convinceva. Anche il mio stomaco e il mio naso erano d’accordo. Non senti nessun odore. Mi aspettavo qualcosa. Ma forse era la febbre o la ferita e farmi ragionare così.
 
Marisol e sua madre anticipano Jason.
La signora, la loro mamma, è... strana. Proprio come ricordavo.
Una donna dall’aspetto smunto, con la pelle pallida intervallata da strane chiazze nere. I grandi occhi assonnati sono azzurri e lucidissimi; i capelli castani, ricci, e le arrivano fino al sedere. Veste un abito da notte color panna.
Non portava la fede.
La gemella le indica me. Cerco di mettermi seduta, per precipitare rovinosamente ancora nei morbidi cuscini bordeaux. Mi afferro la gamba ferita tra le mani e le sorrido timida e debole.
E i suoi grandi occhi chiari si illuminano quando vede cosa porto al collo.
Il suo ciondolo.
- Tu devi essere Elle - mi dice dolcemente.
La sua voce è un suono sconosciuto. Non ho mai sentito una frase detta così! Così melodiosa. Sembrava avesse appena cantato quelle quattro inutili parole. Anche le più brutte parole, con la sua voce, sarebbero diventate dolci come il miele.
Marisol mi sorride incoraggiante. Jason torna in quell’istante con delle bende in mano e, appena scorge sua madre, le salta accanto... e l’abbraccia.
E’ una scena che mi lascia senza fiato. Li vedo... e mi sento così vicina. E così inadeguata con il medaglione d’argento al collo.
Quando la stretta si scioglie lentamente, la donna si fa vicina a me. E’ così diversa dai figli, tranne per gli occhi, ma è così bella... anche se pallidissima e magrissima.
Posa una mano sul mio fianco e continuando a sorridermi mi parla ancora:
- Ti piace quel ciondolo?
Annuisco piano, ricambiando il sorriso meglio che posso.
- Mi chiamo Alicia - continua, i suoi occhi nei miei - Sei la bambina del parco.
Non è una domanda.
E lei sa.
Annuisco ancora, mentre sento i gemelli farmi qualcosa alla gamba ferita.
- Di tanti anni fa - sussurro piano.
Sono incantata dal suo sguardo. E’ una calamita.
Sento di conoscerla da sempre, anche se non è così. E mi sento bene al suo fianco...
Mi sfiora il mento con la fredda mano:
- Cos’è successo? Alla festa?
- C’è stato un incidente. Credo siano anche morte delle persone.
Ridacchia nervosa, proprio come suo figlio:
- No - riprende - So dell’incidente. Intendevo... ti sei divertita?
Annuisco ancora:
- Ringrazi Jason e Marisol. Senza di loro forse non sarei qui...
Non ho la più pallida idea di come quelle parole possano essere uscite dalla mia bocca. Mi sento stordita. Ho fame e sonno. Voglio...
La testa mi ricade sui morbido divano. Mi sento fluttuare, però.
- Sì - sussurra Alicia - Sei proprio la bambina di tanti anni fa.
Chiudo gli occhi. Non ce la faccio. Non più.
Rivedo Jason e Marisol chini sulla ferita.
Sento la donna sussurrarmi qualcosa... qualcosa di bianco... qualcosa riguardante il bianco...
Prima di addormentarmi nel nero dei miei pensieri.
 
Quando apro gli occhi il sole filtra da una finestra direttamente sul mio petto. Indosso ancora il vestito.
Il medaglione luccica e proietta mille arcobaleni sul soffitto.
- Buongiorno!
Un volto e una voce familiare sono accanto a me. Metto a fuoco Jason, con una tazza gialla in mano, con gli occhi celesti fissi su di me. Anche Marisol è qua.
Ha gli occhi gonfi e si trova vicino alla cucina. Non mi guarda.
- Casa! - sussurro sconcertata.
 

 
ANGOLO AUTRICE:
E sono ancora qui! : )
Fatemi sapere che ne pensate con una recensione. Grazie a tutti quelli che seguono e recensiscono. Come sempre, al prossimo capitolo!
Ciau ciau :D

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Capitolo 6
*** Il Ragazzo Della Festa ***


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Il Ragazzo Della Festa

Non so come, non so il perché, ma quando corro fuori da casa di Alicia e dei gemelli e arrivo nella mia, col fiatone e col cuore martellante, e attraverso con sguardo basso il soggiorno, i miei genitori sono ancora a dormire. In punta di piedi mi avvicino alla loro camera da letto, per sentire mio padre russare forte come un vulcano in eruzione. Sorrido fiduciosa; poi mi precipito nella mia stanza per darmi una pulita e per cambiarmi.
Finalmente riesco a respirare a pieni polmoni: mi tolgo il vestito velocemente, mentre l’occhio mi cade su quella che ieri sera era una gamba ferita e sanguinante. Un grosso pezzo di stoffa è stretto attorno al mio polpaccio; lo sento aderire bene e capisco che probabilmente la cicatrice si è già formata. Riesco a camminare bene, grazie al cielo.
Cambiata, pulita e sistemata, aspetto che i miei decidano di svegliarsi buttandomi sul letto e chiudendo gli occhi. Ieri sembra così lontano, visto che quasi non ricordo bene il perché della fasciatura sul polpaccio. Poi l’immagine del mio nastro per capelli appeso al candelabro appeso al soffitto, che precipita sui ragazzi, schiacciandoli sul pavimento, riaffiora nella mia testa, tanto che quasi mi sembra di sentire la puzza di sangue e di paura nell’aria. Rivedo quel giovane dai capelli scuri, che mi scambia per un’altra ragazza, e Jason che mi invita a ballare con lui. E anche Marisol che mi viene a parlare da amica nel gazebo.
Troppa confusione.
Perché il mio nastrino era finito là sopra? Non poteva sicuramente essere una coincidenza.
Il medaglione preme, freddo e liscio, sul mio petto. Non l’ho tolto. Mi ci sono un po’ affezionata, e poi mi sta anche bene.
Respiro profondamente e riapro gli occhi, godendomi dei primi veri raggi di sole che filtrano dalla tenda della mia finestra. Un’ombra proiettata sul muro giallo mi ricorda l’esile figura di Alicia. E il cinguettare degli uccellini sembra essere la sua voce.
Chissà chi era il padre di Jason e Marisol. Doveva essere biondo, visto che i gemelli lo erano, a differenza di Alicia. Probabilmente affascinate, di bell’aspetto. Non avevo mai visto un uomo del genere nel vicinato, quindi non lo nascondevano in casa; forse era morto...
Lascio quei tristi pensieri e sbadiglio senza far rumore, riabbandonandomi al dolce far niente. La scuola è finita. Mi sarei dovuta preoccupare del mio futuro, adesso. Non ero più una bambina.
Un rumore sordo ferma il mio flusso di considerazioni e mi mette all’erta. La fonte, come immaginavo, si rivela essere mia madre, che si affaccia nella mia camera mezza addormentata; i capelli sono arruffati e in disordine e porta gli stessi vestiti di ieri sera. Mi sorride dolcemente e dice, appoggiandosi allo stipite:
- Com’è andata alla festa, tesoro?
Mi metto a sedere, senza smettere di fissarla:
- Bene. Ma che ti è successo?
Dietro di lei, scorgo mio padre... nelle stesse pietose condizioni.
- Perché? - chiede mia madre aprendo le braccia, come per fare vedere che stava bene.
- Non avete indossato il pigiama? Quando siete andati a dormire?
Mi sembra di essere la loro baby-sitter ora.
Si guarda dubbiosa, poi sorride:
- Credevo di averlo addosso - risponde - Io e tuo padre non siamo stati bene ieri sera. Abbiamo chiuso la porta a chiave e siamo andati subito a letto.
Mi tranquillizzo. Dopo quello che è successo a casa di Tom niente sembra impossibile.
Il suo sguardo cade sulla gamba fasciata.
- E quello cos’è? - chiede preoccupata.
Sono costretta a mentirle, non voglio far agitare nessuno; avvertire lei significava farlo sapere anche a papà.
- Sono caduta sul vialetto -mento passandomi una mano sulle morbide bende - E... ho trovato delle bende, in un cassetta di pronto soccorso, e mi sono fasciata il graffio.
Fasci di stoffa per un graffio... come fa a bersela?
Annuisce sorridente e tranquilla:
- Meglio così. Non ti fa male, vero? Altrimenti come farai a provare il nostro regalo?
Spalanco gli occhi, sorpresa, mentre lei mi fa cenno di vestirmi e seguirla.
 
La sorpresa si rivela essere una macchina, tutta mia, finalmente. Allora non mi considerano ancora una bambina; è quello il mio vero regalo di compleanno.
Il regalo in sé per sé non mi entusiasma: dove dovrei andare con l’auto? Allontanarsi... sì, ma per dove? Accetto il gradevole pensiero, comunque, con un grandissimo sorriso e una marea di ringraziamenti.
Giro intorno alla vettura, giro e continuo senza fermarmi... solo per calmarmi e cercare di pensare ad altro, quando sento una voce familiare alle mie spalle:
- Hai trovato le chiavi?
Può essere solo lui, il mio nuovo stalker, Jason.
Proprio come ieri è poggiato al cancello e mi guarda sorridente. Perché ho l’impressione che lo faccia apposta?
Non sono braccata dai miei, così gli vado incontro.
Eppure non riesco ad odiarlo, e non riesco a capire come avrei potuto odiarlo dopo tutto quello che lui aveva fatto per me, seppure con un briciolo di egoismo.
- Non le ho con me - rispondo piano fissandolo - Devo averle perse da Tom.
Annuisce lentamente:
- Vedrò se riesco a trovartele, allora - dice.
- No - scuoto la testa velocemente mentre quella sillaba mi scappa e si infrange davanti a lui - Hai già fatto troppo per me. Andrò io.
- Ah, nessuno ti può contraddire? - ridacchia divertito dalla mia ostinazione - E se ti dicessi l’ingresso alla villa non è più possibile?
Sgrano gli occhi, sorpresa:
- Cosa significa... ?
- Significa che qualcos’altro è successo ieri notte, dopo la nostra fuga. Non mi stupirei se ne parlassero anche in televisione.
- Portami tu, allora! - insisto.
- Per delle chiavi? Chissà dove saranno...
Rimango zitta questa volta; costringo la mia mente a non pensare a cosa potrebbe accadere se mamma e papà sapessero che ho smarrito il mio mazzo di chiavi mentre cammino mi dirigo verso la macchina.
-  Posso andarci da sola, se non te la senti - dico forte, puntando l’auto.
I suoi occhi luccicano:
- E’ tua?
Annuisco divertita; di solito i maschi adorano questo genere di cose... macchine, moto, motori, cavalli... credo sia pane anche per i suoi denti.
- E tu andresti sola nella villa? - ride appoggiandosi alle fredde sbarre del cancello.
- Perché no...
- Potrei mandarti mia sorella, visto che ieri sera andavate d’amore e d’accordo - osa sussurrare.
E’ una sfida? O sta solo scherzando?
Lo sguardo male. Molto male.
- Scherzo - dice senza smettere di ghignare divertito - Posso lasciarti da sola?
Non capisco il senso di quelle sue ultime parole:
- Intendi dire che non ti fidi di me? - chiedo dubbiosa.
- Non completamente. Perché ricorda che senza di me saresti morta - continua lui.
- Ti devo la vita.
Rimaniamo in silenzio: io per la colpa, lui sicuramente per il peso enorme che sa di dover trasportare, nascosto nell’anima. Salvare una vita umana era un gesto nobile, in ogni caso, ma lui faceva sembrare tutto questo ancora più angelico... divino.
- Lo so - si limita a sussurrarmi - Quindi non rischiarla di nuovo: non andare in quella villa. Non ci sarò sempre. E mentiresti a te stessa se pensi di riuscire a cavartela senza di me ancora una volta.
Un dubbio sorge. Chi o cosa aveva scatenato quel putiferio? E perché?
- Tu non hai idea, del perché, vero? - chiedo ancora cercando di liberare la mente dalla visione della marea di cristalli e di luci di ieri sera sopra di noi - E’ impossibile che cada un candelabro, sopra una folla di ragazzi, mentre ci sono dei cadaveri in bagno.
Mette la mani in tasca, guarda per pochi secondi al cielo e dichiara:
- No. E non credo siano coincidenza. Ma fa fare ai poliziotti il loro mestiere e preoccupati di stare a casa.
 
Dopo un breve congedo, mi trovo a pensarlo per davvero: quel ragazzo è unico. Speciale. Ed è la prima volta che provo qualcosa del genere per un uomo visto che di relazioni ne ho avute davvero poche. Basta guardare i miei pochi amici.
Tra cui spiccava Tom. Tom che aveva visto la festa dell’anno andare a rotoli. Stava bene? Non riuscivo ad immaginarmelo, ma speravo che non fosse ferito... o morto. Nello stato in cui l’avevamo trovato, non ero nemmeno sicura avesse capito cosa era effettivamente successo.
Lucy.
L’avevo tirata in ballo senza il suo consenso. Ora i miei genitori pensavano che fosse stata lei a riaccompagnarmi a casa dopo la festa. L’avevano chiamata, per ringraziarla, e lei era stata al gioco per fortuna. La mia migliore amica... mi capì al volo e sapeva della festa. E mi mancava terribilmente, visto che in quel periodo usciva raramente di casa. Naturalmente si era presentata alla consegna del diploma, ma si era limitata a sparire dopo la cerimonia, senza farmi gli auguri e soprattutto senza avvicinarsi a me. Un compostamente davvero fuori dal comune per lei, una delle ragazze più solari e vivaci che avessi mai conosciuto.
Quella sera, la contattai. Chiacchierammo come solo due amiche sanno fare, parlando del più e del meno. Trovai la sua voce squillante e cristallina come al solito. Doveva essere guarita.
Non le parlai di Jason, né della festa. Doveva guardarla negli occhi nel riferirle quelle cose. Così ci lasciammo con la promessa di vederci il giorno dopo, a casa sua, di sera.
 
Sono passati due giorni dal mio compleanno e dall’incidente della villa.
E’ sera.
Passo il pettine a sistemare l’ultimo ciuffo di capelli sfuggito alla mia ispezione e chiudo gli occhi, tranquilla e rilassata. Un giorno senza i fratelli è un giorno normale. Non credevo potesse più capitarmi una situazione di tanta normalità, pure a semplice come solo la mia vita può essere.
Sono pronta per uscire, finalmente, col mio nuovo mezzo di trasporto. Avevo già avvertito i miei, solo pochi minuti fa, che avrei fatto visita a Lucy. Tutto era a posto.
Scivolo come una saetta giù per le scale, coi capelli che svolazzano veloci e vivaci attorno al mio viso sorridente. Passo accanto al soggiorno per salutarli... ma lo trovo vuoto mentre un brusio divertito arriva dalla cucina.
Affacciandomi trovo i miei genitori, seduti ai lati di un ragazzo.
Lo sconosciuto ride spensierato rivolto a mia madre che intanto le offre dei cioccolatini, che lui rifiuta cordialmente... prima di rivolgere i due grandi occhi scuri su di me. Sembra sia sulla ventina, alto e bellissimo. I capelli neri sono pettinati all’indietro...
 
Io l’ho già visto!
E’ il ragazzo della festa!
Solo che questa volta era vestito normalmente.
 
Si illumina quando entro nella stanza. Io invece lo guardo per bene, senza sorridergli, ma sospettosa. Perché quel viso... quegli occhi... quelle labbra pallide e sottili...
E rivedo l’uomo che mi scambiò per una certa “Agnes” alla festa di Tom. Con gli occhi di brace sul ciondolo di Alicia. Intercetto il suo sguardo... osserva ancora il medaglione. E’ lui.
- Chi è lui? - chiedo scontrosa rivolta a mio padre.
- Oh, si chiama Claude. Si è trasferito da poco in città e dice di averti incontrato alla festa di avantieri - risponde lui.
Al suono del suo nome, lo sconosciuto si alza dalla comoda sedia e si avvicina a me con passi felpati. Mi afferra la mano e l’avvicina alle labbra per poi baciarla piano:
- Claude - sibila dolcemente - Ci siamo visti, come ha detto tuo padre, alla festa. Ricordi?
Ritraggo la mano, senza smettere di guardarlo:
- Ricordo, sì - dico - Mi avete scambiata per una certa Agnes. Cosa volete?
Sento lo sguardo arrabbiato di mia madre su di me, ma quel ragazzo non me la racconta giusta. Come se avesse letto nei miei pensieri, Claude aggiunge, accennando un sorriso:
- Non sono venuto a dare fastidio e mi scuso se... ho interrotto qualcosa. Volevo solo ridarle questo.
Mi porge un mazzo di chiavi. Il mio.
Non ci credo. Non riesco a crederci. Lo afferro tremante senza pensarci, né ringraziandolo.
- Devo proprio andare - sospira infine.
- Claude, per piacere, resta! - insiste mia madre, facendosi avanti a passetti veloci e decisi - Cena con noi, non hai interrotto niente di importante!
No, mi ha solo rovinato la serata!
Ma il ragazzo non vuole sentir ragione. Dice di dover fare visita a vecchi amici nei dintorni ma promette di tornare presto. Lo accompagno all’uscita, sotto ordine di mio padre; quasi brilla sotto la luce della luna, per una volta non coperta dalle nuvole, e ciò quasi mi lascia basita, perché sembrava quasi che i lineamenti giovanili e perfetti che avevo osservato sotto la luce della cucina avessero lasciato il posto ad un viso squadrato e marmoreo. Ho ancora il mazzo di chiavi in mano.
- Spero ancora di non averti disturbata - continua sui gradini esterni - E scusami... per la festa. Mi ricordavi tanto un’altra persona. Ma non importa.
Non so cosa rispondergli. Devo?
- Spero, comunque, di poterti conoscere meglio, Gabrielle. Non si incontrano tutti i giorni ragazze come te. E fa attenzione alle chiavi.
Sto per chiudere la porta ma non riesco a distogliere lo sguardo. I miei occhi sono “incollati” ai suoi. Non ci riesco.
- Buonanotte - sussurra infine, provocandomi strani brividi dappertutto. Ripete il mio nome.
E lo vedo sparire nella notte.
Anch’io esco fuori dal vialetto, senza altre parole o saluti, e arrivo alla macchina, stordita, come mai lo ero stata, scossa, forse non più pronta per incontrare Lucy.
 
 

ANGOLO AUTRICE:
Capitolo nuovo e nuove emozioni. Più nuovi imprevisti XD
Ma a noi piace così! Fatemi sapere che ne pensate e come sempre... al prossimo capitolo!
Baciii :D

 
 

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Capitolo 7
*** Sentirsi Spiati ***


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Sentirsi Spiati

Accanto a me, stesa sul suo letto, con un leggero lenzuolo bianco a coprirle le gambe, Lucy fissa il soffitto mentre le parlo del suo inaspettato coinvolgimento alla festa di Tom.
Il suo vero nome era Lucilla, ma lei l’odiava. Ecco perché ogni volta che qualcuno la chiamava così, arricciava il naso, quasi schifata, e subito rispondeva di rivolgersi a lei come “Lucy”. Forse era uno dei motivi per cui odiava sua madre, ma io trovavo il suo nome completo davvero dolce; lei insinuava invece che si sentiva una stupida chiamata in quel modo. Credo che non saprò mai il vero perché di quella scelta.
Diceva di non sentirsi bene, aveva deciso di rimanere a letto fino a quando non le fosse passato; ma conoscendola sapevo che avrebbe passato qualche altra settimana sul morbido materasso. Ora sembrava tutto, tranne che malata o debole. I suoi cortissimi capelli corvini riflettevano l’oblio dei suoi grandi occhi neri e facevano a pugni con le maniche a sbuffo del suo pigiamo bianco.
La conoscevo dagli anni della scuola elementare ed ero felicissima d’averla come migliore amica, visto che la mia lista non era particolarmente lunga; per lei fu esattamente lo stesso a quel tempo, tutto fuorché timida ma con pochi veri amici.
Ascoltarla era un piacere, sapeva come farsi comprendere; era una delle tante cose che mi rendevano fiera di essere al suo fianco, vicina, come migliore amica e confidente.
- Potevo benissimo mentire, ma non l’ho fatto - sussurra sorridente alla fine del mio discorso e delle mie scuse patetiche e infantili - Ho risposto che ti accompagnavo io e ho detto loro di non preoccuparsi.
- Lo so - dico piano - Grazie mille.
- E... com’è stato? Stare con i tenebrosi gemellini? - accenna senza perdere il sorriso.
Faccio spallucce:
- Indifferente. Perché? - chiedo poi, dubbiosa - Come dovrei sentirmi?
Spalanca gli occhi, incredula e sorpresa, per poi esclamare:
- Sei stata accompagnata a una mega festa da due tra i ragazzi più strani - ma belli - della classe e non hai sentito niente.
Decido di accontentarla, altrimenti non me la sarei più levata di dosso:
- Invidia... per Marisol - dico abbassando lo sguardo - Non credo d’aver mai visto una ragazza più bella di lei.
Lucy rimane in silenzio, limitandosi ad annuire pensierosa.
- Credi che usi qualcosa? - continuo, divertita per la sua buffa espressione - Credi utilizzi strane creme di bellezza, o qualcosa per i capelli... ?
- Io credo che così... bisogna solo nascerci - risponde spalancando le braccia - Proprio come me.
No, decisamente non è malata.
Ridacchio. E’ facile per ora mascherarle quello che provo per quei due ragazzi... soprattutto per Jason; in futuro potrebbe rivelarsi tutto più difficile da spiegare.
Sussurro:
- Ma in fondo, sono brave persone.
- Quindi, presumo che la festa sia andata alla grande - brontola lei - Ci sarei venuta, davvero, se non stessi in queste condizioni.
Silenzio.
- Sono debole - ansima - Non so cosa mi sta succedendo, visto che è da un bel po’ che va avanti questa storia.
Annuisco. Perché... ?
- Sembri stare bene, Lucy - la rincuoro piano - Almeno, credo di vederti in forma.
- Scherzi? - ridacchia - Sarei venuta alla consegna del diploma e alla festa, Gabrielle! Solo che... mi sento sfinita ventiquattro ore al giorno, non ho voglia di mangiare e se mi alzo mi viene il fiatone. Mi prude dappertutto...
Affonda la testa nei cuscini, chiudendo gli occhi e sospirando.
- E mi sto preoccupando di essere... - sussurra passandosi la manica del pigiama sulla fronte.
La sua voce è roca, senza espressione. Eppure qualche secondo fa stava benissimo! Mi alzo dal letto, allarmata:
- Vuoi che chiami tua madre? - chiedo preoccupata.
- NO! - urla - Non deve sapere niente. Niente.
Rimango in piedi, col cuore martellante.
- Siediti... per favore - mi dice sottovoce - Se ci sei tu... sento più caldo. Ho i brividi... Gabrielle?
Mi siedo ancora, proprio dov’ero prima, con le labbra schiuse e gli occhi rivolti a Lucy. Cos’ha combinato per sentirsi così sciupata? Non era una tipa da vita notturna, né beveva o fumava. Di fidanzati ne aveva avuti parecchi, ma era stato qualcosa di insignificante visto che Lucy non era una di quelle ragazze che soffrono per amore.
- Ti senti la febbre?
- No, no, no. Sono gelida! - schiamazza - Sono settimane che mi sento così. Non può essere il cibo... Conclusione? Sono da ricovero!
- Shh, zitta - sibilo. Di solito era lei che mi dava forza se mi sentivo male o soffrivo, anche per la più piccola sciocchezza; i ruoli ora, a quanto pare, sembravano invertiti.
- Le ho provate di tutte - continua - Ma non sono più me stessa. Mia mamma pensa che sia un periodo normale, che io soffra per qualcuno o qualcosa... e io vorrei darle ragione.
La mano destra abbandona il caldo rifugio creato sotto il lenzuolo bianco e tasta il comodino al suo fianco, fino a trovare l’oggetto ricercato: il telecomando della piccola televisione, posta su un mobiletto davanti a noi. L’accende, rompendo il nostro silenzio; il canale scelto trasmette il telegiornale.
- Almeno so cosa succede fuori da queste mura - sorride, a occhi chiusi - Ecco perché la tua visita mi ha sorpresa, Gabrielle. Saluta Jason da parte mia, se lo vedi. E chiedi a Marisol dove compra i suoi cosmetici.
Sorrido, prima che i miei occhi cadano sulla sua mano, e sulle sue dita lunghe e magre. Bianche.
- Lo farò - la rassicuro.
Lucy...
- Raccontami - sibila dopo qualche minuto - C’era Tom?
- Sì - sospiro - Fuori di sé, ma c’era.
- Oh, avrei tanto voluto vederlo. Sarebbe stato un toccasana per il mio umore... e il mio stato, vederlo ballare e divertirsi.
- Mh-mhh...
- E quando è finito tutto? All’alba? - chiede schiudendo le palpebre per fissarmi.
- Veramente... - balbetto - C’è stato un... contrattempo. No, meglio chiamarlo incidente.
- In che senso?
Prendo un bel respiro e sparo:
- Nel bel mezzo delle serata, nel salone, è successo qualcosa di strano. Delle tizie hanno urlato di aver visto cadaveri in bagno ed è scoppiato il putiferio; poi è crollato l’enorme candelabro di cristallo appeso al soffitto. Mi sono ritrovata sotto mille pezzi di vetro.
Ha gli occhi sbarrati e lucidi, incollati ad una crepa del soffitto.
- Jason e sua sorella mi hanno portata in salvo - continuo mostrandole la cicatrice sulla gamba, ancora chiara e rosea - E medicata.
Lucy, dopo una breve occhiata a quel che resta della mia ferita, riprende ad osservare il soffitto.
- Credo che qualcuno ci sia anche rimasto... quella sera - confesso - Ricordo la puzza inconfondibile del...
- Sangue? - mi anticipa lei.
- Esatto.
- Uno strano modo di passare il tuo compleanno, eh? - ridacchia - Ma ora, Gabrielle... se non ti dispiace... potresti andare via?
Mi immobilizzo. Quella non è Lucy!
Ho sentito male o... ?
- Scusa... ma ho voglia di riposare, di dormire. E ho bisogno di rimanere sola. Ci sentiremo, sarò io a farmi viva. Scusa, ti dispiacerebbe anche chiudere la porta quando te ne vai? Grazie...
Mi metto in piedi, riluttante e timorosa:
- Buonanotte, allora - le dico piano.
- Notte... freddo... - sussurra.
 
Salutata sua madre, corro verso la macchina. Butto un ultimo sguardo in direzione della finestra di Lucy: intravedo da dietro i sottili e leggeri tendaggi la luce ancora accesa, e strani movimenti d’ombre. Rimango imbambolata a fissare le danze della luce...
Lucy stava davvero male.
Dopotutto, non si conosce mai del tutto una persona; quella ragazza ne era la prova. L’avevo sconvolta? Spaventata? Eppure non avevo colpa del suo strano temperamento.
Stanca... sfinita... senza appetito...
Chissà se...
 
Metto in moto e respiro profondamente, cercando di riordinare le idee... quando sento qualcosa di gelido sfiorarmi il mento. Qualcosa... dietro di me.
Mi giro di scatto per trovarmi a pochi centimetri di distanza da... Marisol! Sussulto, ma lei mi tiene l’indice affusolato premuto sulle mie labbra, intimandomi quindi il silenzio.
Non riesco a definirne i lineamenti, nell’ombra della notte, ma i suoi occhi sono vivi e quasi luminosi. Non hanno più il bel colore azzurro che li caratterizza: sono scarlatti, rossi come il sangue.
Involontariamente sento il mio corpo tremare.
Paura.
Timore.
Posa lo sguardo sul medaglione d’argento per un secondo, poi sussurra:
- Zitta. Resta zitta e non fiatare. Muoviti il più lentamente possibile.
Rimango immobile come ha detto.
- Non muovere gli occhi - mi rimprovera - Chiudili.
- Cosa... ? - sussurro gettando il mio respiro sulla sua unghia lucida e perfetta; questa volta non le obbedisco.
- Ci sta osservando - risponde lei.
- Chi... ?
- Come ti è venuto in mente di uscire? - mi sibila contro, furiosa - Non ti è bastato lo spavento di qualche giorno fa?!
Non capisco. Sento solo il suo sguardo di fuoco, letteralmente, su di me; per il tanto tempo trascorso a fissare quelle iridi scarlatte, mi bruciano gli occhi.
Marisol, comunque, non sembra minacciosa. Mi guarda con timore, senza muovere un muscolo.
- Sei stata in quella casa? - mi chiede velocemente.
Annuisco impercettibilmente e lentamente.
Com’era entrata nella mia auto?!
- Cretina! - mi sbraita contro.
- Marisol... calma! - dice una voce maschile, accanto a me.
Con la coda dell’occhio vedo Jason Allyn, suo fratello, accanto al posto di guida. Sono così intontita da non averli sentita entrare... oppure sono più silenziosi dei gatti?!
I suoi occhi azzurri brillano tanto quanto quelli della sorella; per fortuna, qualcosa di umano!
- Calma... - ripete dolcemente - Elle, non fiatare. Non... muoverti.
- Guida tu - sibila Marisol al fratello - Non ho alcuna voglia di farmi vedere in faccia da...
- Calma... guido io. Cerchiamo di non parlare più - sospira Jason - Chiudi gli occhi.
Ora mi sento al sicuro: posso chiudere gli occhi e distogliere l’attenzione da quegli occhi rossi. Sento che mi prende di peso, mentre si siede davanti al cruscotto e lascia il freno; siamo in movimento.
- Abbassa la testa - mi avverte - Tutt’e due. Nascondete il volto nei capelli.
Poi, con un potente strattone, la vettura parte a tutta velocità, lontana da Lucy.
- Cosa succede? Cosa sta succedendo? - sussurrò, con voce tremula e i capelli in bocca.
- Ci stava pedinando - sussurra Marisol dietro di me.
- Portatemi a casa - dico piano.
- Questo non è possibile - dice agitato Jason, alla mia sinistra - Non ora.

 
 
ANGOLO AUTRICE
Ritardo? Ahahah... lo so. Purtroppo questa sono io.
Ma meglio tardi che mai XD ed ecco il capitolo, pronto e adrenalinico.
Alla prossima :3

 
 
 
 
 
 
 
 
 

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