Ventuno giorni

di M4RT1
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tragitto ***
Capitolo 2: *** Giorno 1° - Di ospedali, giorni di troppo e Peter inopportuni ***
Capitolo 3: *** Giorno 2° - Chiedimi che cosa ho ***
Capitolo 4: *** Giorno 3° - Sara, Kate, Kate, Sara ***
Capitolo 5: *** Giorno 4° - Segreti ***
Capitolo 6: *** Giorno 5° - Colloqui inaspettati ***
Capitolo 7: *** Giorno 6° - Domande troppo ovvie e risposte poco scontate ***
Capitolo 8: *** Giorno 7° - Frodi assicurative e malati terminali ***
Capitolo 9: *** Giorno 8° - Ritratti e rapporti ***
Capitolo 10: *** Giorno 9° - Scacco ***
Capitolo 11: *** Giorno 10° - Ansia prima, ansia dopo ***
Capitolo 12: *** Giorno 11° - Rimostranze per la mostra ***
Capitolo 13: *** Giorno 12° - L'interrogatorio ***
Capitolo 14: *** Giorno 13° - Incidenti di percorso ***
Capitolo 15: *** Nomi e brutte grafie ***
Capitolo 16: *** Cappelli ***



Capitolo 1
*** Tragitto ***


Erano passati solo pochi minuti da quando la squadra speciale capitanata da James Cristopher Sallivan aveva fatto irruzione nel garage sulla Settantesima. Solo pochi minuti da quando Peter e Jones, al seguito dei ventiquattro agenti, erano entrati e avevano trovato Neal.
Neal che era vivo, per fortuna, ma che sembrava essere sull’orlo delle lacrime.
Neal che era stato ritrovato legato e imbavagliato accanto a un tubo di ferro, pieno di lividi e con una mano completamente coperta di sangue.
Neal che, al sentire la voce dell’amico, aveva emesso un suono indistinto e si era accasciato sul pavimento.
Da quell’istante, tutto era stato veloce. Peter aveva aiutato Neal ad alzarsi, l’aveva trascinato fuori, l’aveva aiutato a entrare in macchina. E ora erano lì, seduti sui sediolini posteriori, preoccupati, con Jones alla guida. I palazzi sfrecciavano veloci fuori dai finestrini.
-Come ti senti?
Solo dopo aver formulato la domanda, l’agente si accorse che non avrebbe potuto dire nulla di più stupido. Neal gli dette un’occhiata, poi tornò a battere i denti e fissare il sedile davanti, inespressivo.
Peter si dimenò per qualche secondo sul sedile, a disagio.
-Neal? Neal, parlami! Come va? Che ti hanno fatto?- ripeté, spaventato. Il ragazzo strinse le labbra, trattenendo un singhiozzo. Peter rabbrividì.
-Forse dovresti aspettare…- suggerì Jones, alla guida. L’altro agente annuì, ma poi tornò all’attacco:
-Neal? Rispondimi! Che hai?
Il ragazzo si limitò a scuotere il capo. Peter sospirò rumorosamente, cercando di calmarsi.
-Oh, insomma, Neal!- sbottò alla fine, nel panico totale.
Ma Neal dormiva. Il suo respiro discontinuo e pesante riempiva l’auto, interrotto da qualche mugolio causato da un movimento storto della mano ferita, oppure da una frenata improvvisa.
-Neal? Su, Caffrey… svegliati!- Peter provò a risvegliarlo, accompagnando le parole con qualche buffetto sulla guancia pallida del ragazzo. Dopo qualche secondo, Neal aprì gli occhi. Peter avrebbe voluto ucciderlo, probabilmente. Avrebbe voluto scuoterlo e urlargli di svegliarsi e di riprendersi. Forse gli avrebbe rinfacciato volentieri anche che, se si trovava in quelle condizioni, era tutta colpa sua. Era stato lui a insistere per infiltrarsi, lui a restare tra i criminali nonostante la sua copertura fosse quasi saltata. Lui, lui, e solo lui. Ma non lo fece.
-Vieni qui, Neal…- sussurrò, invece, con un tono irriconoscibile. Cinse le spalle del partner con un braccio e gli scompigliò i capelli. L’altro non si ritrasse. Stettero così per un po’.
L’auto continuava a camminare lungo la strada dritta.
Dopo qualche minuto, Neal si addormentò di nuovo.
Peter rimase a fissarlo per un po’. Il ragazzo aveva gambe e piedi penzoloni sul tappetino, la schiena appoggiata al torace dell’altro e la testa abbandonata contro il suo collo. Gli occhi chiusi, la bocca semiaperta, le labbra gonfie e sporche di sangue.
La mano destra era abbandonata sul ginocchio di Peter, coperta di graffi e piaghe.
-Neal? Neal?
Neal aprì gli occhi a fatica, poi si sollevò di scatto. Alzo la testa velocemente, e per un momento Peter credé di avergli fatto male. Invece l’amico si limitò a fissarlo per un paio di secondi, gli occhi ancora semichiusi, e tornò ad appoggiarsi alla sua spalla.
Peter lo sospinse:
-Ecco, così… stai tranquillo, si aggiusterà tutto.- mormorò, riprendendo quelle che erano le parole di Elizabeth ogni qualvolta succedeva qualcosa che lo agitava.

 
 
Aveva la nausea.
L’auto sbandava e sobbalzava, si fermava all’improvviso trascinandolo in avanti, per poi tornare a camminare e sospingerlo contro il petto dell’amico.
E lui aveva la nausea.
E poi c’era il dolore, quel dolore bruciante che gli percorreva il palmo della mano, il polso, fino ad arrivare alla spalla e al collo. E il freddo, che gli penetrava nelle ossa e gli faceva battere i denti troppo forte.
E lì, in mezzo a quell’inferno, c’era la mano di Peter.
Calda, troppo calda, ma piacevole nel suo tocco così pesante e familiare.
Più di una volta, Neal si addormentò per poi svegliarsi, veloce, ad un singolo movimento di Peter.
L’agente lo chiamava, lo riscuoteva, tentava di tenerlo sveglio. Neal sentiva la sua voce, ovattata, triste, spaventata. Sentiva le vibrazioni che il parlare produceva, che si trasmettevano alla gola su cui Neal poggiava la testa. Percepiva questi dettagli più del panorama fuori, più del clima o del fatto che Jones, alla guida, avesse iniziato a canticchiare.
Nello stordimento generale, non riusciva a provare nemmeno paura. Dolore, quello sì, e anche una sorta di difficoltà a respirare. Eppure, non paura.
Peter mormorò ancora qualcosa, serio. Tranquillo, forse.
La mano pulsava e prudeva e bruciava. La macchina correva per poi fermarsi. Peter dondolava leggermente sul posto.
Andava tutto storto, eppure non aveva paura.

 
 
-Neal? Neal, siamo arrivati.
-Arrivati dove…?
-All’ospedale, Neal.
Peter scosse lievemente il ragazzo, per farlo svegliare. Neal aprì l’occhio destro, livido, e mormorò qualcosa.
-Cosa, Neal? Cosa hai detto?- chiese Peter, totalmente in apprensione. Il più giovane ridacchiò:
-Sembri una mammina apprensiva, Peter.- biascicò.
Anche l’agente rise, nervosamente.
Con un po’ di sforzo, riuscì a far alzare Neal. Sostenendolo, si incamminò verso il pronto soccorso. A metà strada, due paramedici portarono una barella. Neal fu fatto sedere, poi stendere, gli furono misurate pressione e temperatura. I medici parlavano di sangue, emorragie, complicazioni, fiale.
Peter provava a seguirli, a capire le loro parole, ma senza risultato. Non riusciva a prestare attenzione. L’unica cosa che gli balzava alla vista era Neal, il suo viso, la sua espressione a metà tra il tramortito e il terrorizzato.
-Va tutto bene, Neal… stai tranquillo. Va tutto bene.- continuò a mormorargli, accarezzandogli i capelli. Uno dei medici gli si avvicinò: avrà avuto forse cinquant’anni ed era già completamente calvo, ma ciò che risaltava di più alla vista era il paio di baffi brizzolati a manubrio.
-Lei è un parente?- domandò con voce profonda e, nel contempo, sbrigativa.
-Io… in un certo senso.- rispose Peter.
-In quale senso?- sottolineò il medico: -E’ un parente o no?
-Sono… il suo tutore.
Il dottore soppesò l’altro: il suo sguardo percorse la cravatta di Peter, il suo viso preoccupato, poi indugiò sul distintivo dell’FBI. Annuì:
-Venga dentro.

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Capitolo 2
*** Giorno 1° - Di ospedali, giorni di troppo e Peter inopportuni ***


 N.d.A.: e poi boh... apri EFP, aggiorni la storia, aspetti recensioni che non arrivano e ti accorgi che *PUFF* il capitolo non c'è -.-'' allucinogeni nelle uova di Pasqua? O_o Ciancio alle bande (?), buon lettura ;))


Tiic… tiic… tiic…
No, signore, non si sa ancora…
Diana? Sì, sono in ospedale.
È in prognosi riservata.
Salve, miss FBI. No, resto io con lui.
Tiic… tiic… tiic…
Reagisce bene.
Va a dormire, Peter. Resto io qui.
Mozzie! Tranquillo, sta dormendo.
-Non più…
Quando Neal aprì gli occhi, era sera. Accanto a lui c’era una delle coppie più strane e, nel contempo, più abitudinarie che il ragazzo avesse mai visto: Elizabeth e Mozzie erano in piedi, accanto al suo letto, entrambi con l’aria preoccupata.
-Neal? Neal, come stai? Come ti senti, tesoro?
In un momento, entrambi furono attorno a lui. Neal sbattè le palpebre, troppo lento nei movimenti per provare a scacciarli.
-Hai bisogno di qualcosa, Neal? Come stai?- sussurrò Elizabeth, accarezzandogli i capelli. Lui si ritrasse di scatto. Anche la donna trasalì: -Ti ho… fatto male?- chiese, interdetta.
Scosse il capo. La luce era troppo forte, gli faceva male agli occhi.
-Hai sete, Neal?- li interruppe Mozzie, tranquillo. Se ne stava di spalle, accanto alla finestra: -Sono tre giorni che sei incosciente, finirai per disidratarti. Non mi fido molto dei medici, potrebbero sbagliare dosi, oppure…
-Piantala, Moz.- lo interruppe Elizabeth, seria.
Neal fissò la scena per qualche secondo, poi richiuse gli occhi. Sentiva la mano di Elizabeth indugiare sulla sua fronte calda.
-Hai la febbre.- constatò, fissandolo. Neal percepì il suo sguardo nonostante le palpebre chiuse.
-Lo so…- mormorò. –Elizabeth…
-Sì?
-Voglio Peter.
Riaprì gli occhi. Elizabeth lo stava ancora guardando.
-Lo… lo chiamo subito, Neal. Riposa.
Tiic… tiic… tiic…
Peter? Tesoro, ha chiesto di te.
Eccomi.
Mozzie, puoi andare. Dormi un po’.
Resto con te, tesoro.
È tardi, va a casa.
Tiic… tiic… tiic…

 
 
-Da quanto tempo sei qui?
-Quasi due ore.
-Scusa, Peter, io… io mi sono…
-…addormentato, lo vedo.
Peter si alzò dalla poltroncina su cui si era seduto e si avvicinò a Neal. Per un attimo restarono così, seri, a fissarsi. Poi l’agente si accomodò ai piedi del letto del ragazzo. Sospirò:
-Come ti senti?- chiese, accennando alla fronte con un cenno del capo.
-Io credo… credo di aver vissuto giorni migliori.- tentò Neal. Odiava lamentarsi, lo sapevano entrambi.
-Credo anch’io.- annuì l’altro. Fissò i vani tentativi che il ragazzo faceva per versarsi da bere con la sola mano sinistra. –Forse avresti bisogno d’aiuto.- constatò.
-No, io… ce la faccio da solo.
Sapevano entrambi anche questo: Neal non chiedeva aiuto, mai.
-D’accordo.
E non sarebbe stato Peter ad insistere.
Restarono ancora in silenzio. Neal riuscì a versarsi da bere con una combinazione di salto acrobatico, contorsionismo e qualcosa che includeva l’uso di una sola mano, poi tornò soddisfatto al suo posto.
-Hai usato questa tecnica per quel furto al museo di arte contemporanea?- si informò Peter, curioso. L’altro sbottò in una risatina:
-Perché mai avrei dovuto fare un furto da disteso e con una sola mano, scusa?- chiese. L’agente scosse il capo:
-Perché… non so, sei un esibizionista?- tentò.
-Fuori strada.
-Allora perché eri, non so… appeso a testa in giù con una corda?
-Ritenta, sarai più fortunato- commentò Neal, poi cambiò idea: -Anzi, no. Non tentare più di indovinare, potresti riuscirci.
L’agente sorrise:
-Ti darebbe molto fastidio, vero?- chiese, avvicinandosi.
-Devo ammetterlo: se arrivassi a capire i miei piani, non avrei pace- finse Neal, la voce un po’ impastata.
Peter sospirò.
-Tra quanto mi dimettono?- domandò allora Neal, già annoiato.
-Ventuno- rispose Peter senza fissarlo.
-Ventuno ore? E perché devo restare qui per ventuno ore, se sto bene?- cominciò a protestare il ragazzo, ma l’altro lo fermò:
-Giorni, Neal. Ventuno giorni- precisò, e l’amico parve sgonfiarsi sotto il peso di quella notizia devastante.
-Giorni, Peter?- mormorò flebilmente, accasciandosi sui cuscini.
-Neal, cerca di capire: hai passato tre giorni incosciente i medici hanno dovuto operarti perché avevi un’emorragia interna, senza contare il trauma cranico, la mano e…- elencò Peter, provando a fargli comprendere la situazione.
-Sono comunque troppi, Peter!- frignò l’altro senza ritegno.
-Piantala, Neal!
Qualcosa cominciò a vibrare.
-E’ il tuo, Peter…- mormorò Neal, la voce piatta.
L’agente si avvicinò alla finestra, poi rispose. Neal lo sentì parlare per qualche minuto, alternando i suoi sussurri alle parole della persona all’altro capo del telefono, poi la conversazione finì.
-Era Elizabeth.- lo informò: -Voleva sapere come stavi.
-A quanto pare sto male…
-E se avevi bisogno di qualcosa.
-Tipo una forcina?
-E voleva anche… una forcina?
-Per evadere, no?- replicò Neal con aria di ovvietà: -Dio, Peter, come hai fatto a prendermi? Anzi: come ho fatto a non sfuggirti?- si chiese, teatralmente.
Seguì un smorfia.

Passarono un paio d’ore, divise tra silenzio e lamentele, poi l’effetto dell’anestetico cominciò a svanire. Fu allora che Peter desiderò evadere, eclissarsi, scomparire per rimaterializzarsi in Papuasa. Perché Neal Caffrey odiava lamentarsi, ma lo faceva. Lo faceva fin troppo.
 
 
Neal cominciò a stare veramente male verso le cinque del pomeriggio.
La mano, la testa, la pancia, tutto faceva incredibilmente male. E poi c’era la stanchezza che lo prendeva a ondate, che gli impediva di stare sveglio, e allo stesso tempo gli negava un riposo duraturo.
La faccia di Peter appariva e scompariva, inghiottita dall’oscurità delle palpebre che calavano e, subito dopo, risputata fuori con la luce troppo forte. Luce bianca, asettica, che gli dava ansia.
E la mano pulsava, la fronte bruciava, il respiro era irregolare.
Non aveva mangiato, doveva essere quello… ma no, non c’entrava niente. Aveva male ovunque. Tremava, forse.
-Neal? Neal, l’infermiera deve farti l’iniezione, svegliati.
E si svegliò, a fatica. Peter lo tirò a sedere, brusco. L’ago gli entrò nel braccio, veloce, accompagnato da un leggero pizzicore.
Va tutto bene, ora starai meglio.
Va tutto bene, il dolore ti passerà in dieci minuti.
Va tutto bene, riposa.
Va tutto bene.
Buonanotte, Neal.

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Capitolo 3
*** Giorno 2° - Chiedimi che cosa ho ***


Il secondo giorno cominciò con uno scroscio di pioggia mista a grandine. Neal osservava la tempesta dalla sua camera di ospedale, ermeticamente sigillata da doppi vetri e uno strato spesso di tende bianche e opache. Il ragazzo, annoiato, sedeva a letto. L’infermiera era passata un quarto d’ora prima, svegliandolo bruscamente e iniettandogli qualcosa nel braccio destro. Poi, con malgarbo, gli aveva cambiato le bende alla mano e alla fronte, sbuffando.  Era una donna vecchia, apatica e poco educata.

L’orologio segnava le 9.05 quando, con uno scatto, la porta della stanza si aprì e apparve Peter. In quel momento, però, così imbacuccato nel pesante cappotto beige e con un cappello ridicolo calato sulla fronte, avrebbe potuto essere chiunque. E Neal pensò che fosse chiunque  (un rapitore, un Marshall, Mozzie, l’infermiera…) fin quando, con un gesto irritato, l’oscuro ospite non chiuse la porta e, contemporaneamente, si tolse il copricapo.

-Peter?- si sorprese allora Neal, puntellandosi sui cuscini.
-Così dicono…- rispose l’altro, avanzando e spandendo fango sul bianco pavimento asettico.
-Gertrude ti ucciderà- constatò Neal, apprensivo.
-Gertrude? E chi sarebbe?
-L’infermiera. E, prima che tu mi lo chieda, non ho nemmeno provato a sedurla. È brutta, vecchia e ha i baffi come quelli del medico del Pronto Soccorso.- lo anticipò il truffatore, osservando poi la reazione dell’amico.
-Capisco. Anche perché non sarebbe saggio provarci con un’altra donna, non trovi?- ribattè Peter, ammiccando. Neal soppesò quelle parole:
-Un’altra?- domandò infine.
-C’è sempre Sara, no?- spiegò l’agente, sempre sorpreso della scarsa considerazione che i due piccioncini si dedicavano a vicenda. Erano palesemente cotti, stavano comunque bene insieme, eppure non riuscivano ad ammetterlo. Era un tira e molla continuo, una sequenza infinita di “no, ci siamo lasciati” e “non sappiamo bene in che rapporti siamo”, contornati, di tanto in tanto, di frasi del tipo “non ho un cambio a casa di Neal”. Niente a ché vedere con la relazione che lui aveva avuto, fin dall’inizio, con Elizabeth.
-Peter, ci sei?
-Cosa? Oh, sì, scusa Neal… riflettevo.- si schermì l’uomo, riscuotendosi.
-Sì, vedo.- annuì l’altro: -Non stavi facendo strane supposizioni sulla mia relazioni con Sara, giusto?- sussurrò poi, sbuffando alla vista della colazione che era stata poggiata sul suo comodino.
Peter chiuse gli occhi, cercando qualcosa che potesse aiutarlo a cambiare discorso.
-Non ti piace?- chiese, infine, accennando alla colazione rifiutata.
-Il latte sa di acqua, le fette biscottate sono gommose e la marmellata ha il sapore della plastica dell’imballaggio.- si giustificò il ragazzo, la voce piatta.
L’agente annuì:
-Capisco... questo vuol dire che farai ventuno giorni di digiuno?- si informò, come se la cosa fosse di scarsa importanza. L’altro alzò le spalle. –Credo di poter risolvere questo problema, sai, Neal?- concluse allora Peter, alzandosi.
Neal lo fissò:
-Vai via?- mormorò, trattenendo a stento un “già” che minacciava di uscire comunque.
-Torno subito, aspettami qui.- disse invece l’agente, ridacchiando per le sue ultime parole. –Come se potessi muoverti…
-Grazie per la battuta, ora mi sento molto meglio!- lo rimbeccò l’altro, sbuffando e incrociando le braccia. Peter se ne andò con quell’immagine impressa negli occhi.


 
 
Peter stette via per quasi due ore. Quando rientrò era quasi mezzogiorno e lui sembrava, se possibile, ancora più fradicio della prima volta.
Neal non aveva praticamente cambiato posizione: seduto, la schiena sostenuta dai cuscini, leggeva un libro con l’espressione tranquilla. Peter se ne rallegrò.
-Eccomi!- esclamò, avvicinandosi nuovamente. Le incrostazioni fangose della prima volta si sciolsero nuovamente, a contatto con nuova acqua piovana portata dalle scarpe dell’agente. –Ho rimediato un pranzo.
Neal alzò lo sguardo:
-Davvero?- chiese.
-Ecco qui!
Peter si chinò e prese una grande busta di cartone che il ragazzo non aveva notato. Si guardò intorno per un attimo, poi prese il vassoio della colazione, lo liberò e lo poggiò sul letto, in bilico sulle gambe di Neal. Lui lo lasciò fare. L’agente tirò fuori un paio di buste di carta più piccole, due lattine e quelle che sembravano le patatine fritte di un fast food.
-Burro di arachidi e funghi o formaggio svizzero con maionese?- chiese, aprendo i due pacchetti. Immediatamente si sprigionò l’odore tipico dei cibi conservati.
-Emh… sorprendimi- balbettò Neal, disgustato. Peter gli porse un pacchetto, una lattina di birra e le patatine. Cominciò a mangiare. Il ragazzo giocherellò con una patatina, nauseato.
Peter ridacchiò:
-Sai una cosa? Elizabeth mi aveva avvertito che non avresti gradito- disse, la bocca mezza piena.
-Davvero?- commentò Neal, sarcastico.
-E’ per questo che ci ho messo tanto- spiegò l’uomo, chinandosi nuovamente a prendere un contenitore di vetro: -Ha insistito per preparare questi: involtini di asparagi e pancetta, ha detto che avresti preferito.
Neal avrebbe volentieri baciato Elizabeth, ma si trattenne per dirlo a Peter. Ritrovò, invece, la sua voce di superiorità (quella che, a ben pensarci, non usava dal giorno del rapimento) e ringraziò, ma poi la messinscena fu smentita dalla velocità con cui divorò il pranzo.
Peter lo osservò, divertito. Aspettò che finisse di mangiare e poi, con lentezza, raccolse i contenitori vuoti e li ripose nel sacchetto.
-Te ne vai?- chiese Neal, sorpreso.
-Sono le quattro, Neal! Ho un lavoro, sai?- replicò Peter, ma la sua aria seriosa fu guastata da un sorriso che gli spuntò mentre parlava.
-Certo, mister FBI.
Peter sentì una stretta al cuore nel lasciarlo lì, solo. L’aveva sempre difeso, protetto, per quanto era stato in suo potere (d’accordo, magari non prima che diventassero partner, ma era comunque qualcosa). Eppure lo stava lasciando in una stanza bianca e vuota per quelle che, se per lui erano ore, per Neal dovevano sembrare giorni.
Si fermò nell’atto di aprire la porta. Restò, per un secondo, immobile, la mano sulla maniglia. Poi si voltò:
-Neal, se… se hai bisogno, noi siamo qui. Cioè, siamo a casa, ma possiamo venire quando…
Il ragazzo annuì senza lasciarlo terminare.
-Lo so, Peter. Grazie- mormorò, sbadigliando: -Ma sai com’è: credo che non avrò bisogno di niente.
Credo che non ti chiamerò in ogni caso.
-Lo so.
Sei uno stupido orgoglioso.
-Vai, non vorrai farti riprendere da Jones.
Dieci secondi dopo, Neal era solo.

 

 
-Pronto?
-Neal, sono Peter!
-Ciao, Peter.
-Come ti senti?
-Io… sto meglio, grazie. È passato anche il medico.
-Hai una strana voce, sicuro di star bene?
-Sto bene, davvero!
-Allora… ci vediamo domani, d’accordo?
Dimmi che cos’hai.
-A domani.
Chiedimi cosa ho.

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Capitolo 4
*** Giorno 3° - Sara, Kate, Kate, Sara ***


-Signor Burke? Sono Melissa Golden, primario del reparto di terapia intensiva del… sì, chiamo per Neal Caffrey. C’è stato un problema…
 
-Neal? Neal, mi senti?
Peter era lì, di fronte a lui. Aveva una faccia strana.
Lunga, pallida. Sfocata.
Faceva caldo, molto caldo.
Tutto era bianco.
C’era qualcuno, accanto a Peter. Era una donna… una donna bionda.
Non ricordava niente di lei.
Anzi: una donna c’era, una volta… com’è che si chiamava? Kate… doveva essere per forza lei.
 
Quando Sara Ellis giunse in ospedale, Peter era già sul posto. Camminava avanti e indietro, nervoso, e le spiegò in breve della crisi che Neal aveva avuto quella notte: febbre alta, dolore… credevano fosse una semplice infezione, ma per sicurezza gli avevano fatto vari accertamenti.
-Ora è sotto sedativo, ma si sta risvegliando- concluse, in ansia. Per la centesima volta, si sporse fino a sbirciare dal vetro: Neal si muoveva, ma sembrava ancora addormentato.

Mezz’ora dopo i due ottennero il permesso di entrare in corsia.
Peter lasciò che fosse Sara ad avvicinarsi per prima al ragazzo. Con una stretta allo stomaco lo fissò sobbalzare, spaventato, osservando Sara come se non la riconoscesse. Lei gli accarezzava la guancia, seduta accanto a lui.
-Come ti senti, Neal?- sussurrò. Neal, però, fissava la donna spaurito.
-Sara, l’infermiera ha detto che potrebbe essere ancora confuso- le ricordò Peter, in imbarazzo.
Stettero in silenzio per un po’. Neal guardava prima lei e poi lui, gli occhi lucidi e arrossati, la mano fasciata poggiata distrattamente su quella di Sara. Poi parlò:
-Kate…?- mormorò.
Peter incrociò lo sguardo di Sara. Lo sguardo di Sara a metà tra il confuso e l’arrabbiato.
-No, Neal…- ribattè velocemente: -E’ Sara, Neal… ricordi?
-Chi è Sara?- continuò il ragazzo, imperterrito: -Kate, chi è…- ma non fece in tempo a finire la frase, che Sara lo interruppe:
-Chi è Kate, Peter?
Peter arrossì e balbettò, imbarazzato:
-Oh… è una lunga storia, Sara- tentò di eludere la domanda.
-Strano, a me pareva che fosse una persona!- ribattè la donna, decisa.
Neal continuava a balbettare qualcosa.
-Senti, Kate è stata una ragazza di Neal, ma è morta…
-So chi è Kate!
-Allora perché me l’hai chiesto?
-Volevo assicurarmi che non ce ne fosse un’altra, no?
-Kate… ho sete…
-Zitto, Neal!
Fu dopo quelle due ultime parole, pronunciate in sincronia da entrambi i visitatori, che Neal cominciò a riprendersi. Come se si fosse appena svegliato, si sedette e girò il capo in direzione della donna. Lei ricambiò lo sguardo, furiosa. Ci furono attimi di tensione, poi le labbra di Neal pronunciarono altre due parole.
-Ciao, Sara.
Peter pregò che fossero quelle giuste.
-Ciao, Neal.
Lo erano.
-Io… devo aver detto parecchie cavolate, vero?- mormorò il ragazzo, ignorando la risatina isterica di Peter. Sara annuì, sorridendo:
-Qualcuna- rispose.
Si guardarono per un secondo, poi la donna lo abbracciò. Neal lasciò che lei lo stringesse, ancora un po’ stordito, poi ricambiò debolmente.
-Come ti senti?- chiese allora la donna, prendendo posto sul bordo del letto. Indossava uno dei suoi vestiti rossi, e Neal capì che doveva essere in servizio.
-Meglio di quel giorno in cui mi hai rincorso per il Central Park con un manganello…- mormorò, sorridendo al ricordo.
-Oh, ma quel giorno ero convinta che avessi il Raffaello con te, ricordi?
Peter roteò gli occhi, sorpreso che i due riuscissero a tirare sempre fuori quel quadro.
-Un momento- riprese la donna, fissando gli occhi blu del ragazzo: -Tu stai sviando le mie domande!- esclamò, quasi offesa. Il ragazzo sfoderò uno dei suoi sorrisi a trentadue denti, ma lei continuò, imperterrita: -Non puoi sviare le mie domande! Ti ho chiesto come ti senti!
-Non ho sviato niente!- si difese lui, stando al gioco.
-Oh, sì che l’hai fatto!

Peter lasciò la stanza pochi minuti dopo, sorridendo. A quanto pareva, per far riprendere Neal serviva uno scossone e qualche urlo…
Fu proprio mentre sorseggiava un caffè troppo acquoso accanto alla stanza del ragazzo che, velocemente, gli si avvicinò un medico. Era alto, magro, sembrava in ansia.
-Lei è Peter Burke?- chiese, spiccio.
L’uomo annuì, alzandosi. All’improvviso l’ansia del medico lo contagiò.
-Sono Carl McGalley, devo parlarle…

 

 
-Solo uno, dai!
-Non se ne parla, questa carne sa di pesce!
-Un boccone, ti prego!
Sara sbuffò, spazientita: non era tagliata per fare la madre, né tantomeno la baby-sitter; però sapeva essere molto convincente, quando voleva, e ne era consapevole.
-Neal, ti prego!- riprovò, sperando di non dover tirar fuori lo sfollagente dalla borsetta.
Il ragazzo dovette pensare la stessa cosa, perché annuì e prese la forchetta. Ci mise un po’, con la mano sinistra, a trovare la bocca, ma poi ebbe successo. Masticò lentamente, facendo smorfie esageratamente teatrali.
-Un altro?
Sara prese la forchetta e la avvicinò alla bocca del ragazzo, che mangiò obbediente.
Fu proprio in quel momento, mentre Neal masticava e Sara lo aiutava a bere, che un Peter pallido e in ansia aprì la porta.
La prima cosa che vide furono gli occhi di Neal: erano rossi, lucidi, probabilmente aveva la febbre, ma sembrava allegro come non l’aveva mai visto dal giorno del rapimento.
-Neal, devo parlarti- mormorò, teso.
Il ragazzo si girò, sbrodolandosi un po’ d’acqua sul vecchio pigiama grigio. Sara gli dette un fazzoletto per asciugarsi.

Non poteva farlo, non ora. Non poteva rovinare quel momento. Lui… lui era felice, con Sara. Era felice di essere imboccato come un bambino, felice di essere, come sempre, al centro dell’attenzione.

-Dimmi, Peter!

Non doveva farlo. Non era lui la persona adatta a dargli quella notizia.

-Io… l’orario di visita è finito. Andiamo, Sara.
Lo sguardo del ragazzo li seguì fino all’uscita. Peter indugiò, per un momento, sulla mano bendata e abbandonata sul lenzuolo. Gli si strinse il cuore.


N.d.A.: ok, non so bene come definire il genere di questo capitolo, fate vobis U.U

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Capitolo 5
*** Giorno 4° - Segreti ***


N.d.A.: dunque, prima che iniziate a leggere questo obrobrio di capitolo >.<, ci sono tre cose che vorrei dirvi:
1- fa schifo, se siete sani di mente chiudete tutto e andavene al mare (?);
2- se ancora state leggendo, allora sappiate che questo capitolo è dedicato alle tre recensitrici (?) croniche (Night Sins, ChibyLilla e Ma_AiLing), più quelli occasionali ^_^
3- non ricordo a chi avevo detto che in questo capitolo ci sarebbe stata El e che avrebbe spiegato a Neal il perchè del comportamento di Peter, comunque sia: mi sbagliavo XD c'era prima questo capitolo;
4 (so che avevo detto che erano tre u.u)- in questo capitolo ci sarà Mozzie; non ricordo chi (sono terribile, lo so ç_ç) mi aveva suggerito di approfondire un po' il legame Neal/Mozzie, e ci ho provato :)

Il capitolo è brutto, non mi piace e non so pechè, anche perchè non riesco a cambiarlo XD 
Se avete fegato, leggete. E dato che tutti abbiamo un fegato, a fine lettura sarete vivi e potrete lasciarmi una recensioncina U_U
A presto, miei prodi (?), a presto, miei brodi (?????)



Quel giorno Peter non sarebbe venuto. Aveva chiamato Neal alle nove del mattino, un po’ impensierito, e gli aveva parlato di una riunione, un appostamento e cento altre ragioni per cui si sarebbero potuto vedere solo il giorno successivo.
Per un momento, ma solo uno, Neal aveva avuto paura che Peter mentisse. Che si fosse, semplicemente, annoiato di fargli visita tutti i giorni. Poi aveva scacciato quel pensiero.
Alle dieci, quando la porta si aprì, il ragazzo sonnecchiava, la tv accesa su un canale di baseball.
-Neal? Stai bene?
La voce di Mozzie era inconfondibile. Neal scattò a sedere troppo velocemente, la testa prese a girargli e dovette appoggiarsi con le spalle ai cuscini per non vomitare. Sorrise debolmente:
-Hai visto, Moz? Sono anch’io nel sistema…- mormorò.
-Lo so. Ma tu ci eri da quando ti hanno arrestato- ribattè l’uomo, credendo davvero alle sue parole. Neal annuì:
-Giusto.
Mozzie girò un po’ per la stanza, sbuffando:
-Sarei venuto a trovarti anche ieri, se non ci fosse stata Sara- spiegò: -Non so, ma ho come l’impressione che mi stia spiando.
-Tu hai sempre l’impressione che qualcuno ti stia spiando, Moz.
-Perché è vero!
Neal rinunciò a quella conversazione e cambiò argomento:
-Hai portato un giornale?- chiese, sorpreso: -Non eri quello che non si fidava dei giornalisti?
-Io non mi fido di nessuno, Neal. Ma i cruciverba sono un buon modo di passare il tempo, non trovi? Ho pensato di portartene qualcuno.
Il ragazzo ringraziò e prese un giornale. Arrivato alla pagina dei cruciverba, ne scelse uno mediamente difficile e cercò una penna. Poi si ricordò della mano. Seguì un attimo di imbarazzo, subito interrotto da Mozzie, che si sedette sulla poltrona più vicina al letto e del ragazzo e prese a scrivere al suo posto.
Un’ora dopo Neal cominciò a stancarsi. Mozzie se ne accorse da come rispondeva, a monosillabi, senza più nessun interesse nello scoprire quella definizione che li aveva mandati al manicomio per parecchio tempo.
-D’accordo, basta cruciverba.
-Io… se vuoi continuare…
-Sono venuto per tenerti compagnia, mon frére!- replicò Mozzie, chiudendo di scatto il giornale. –Che cosa ti piacerebbe fare?- chiese poi, avvicinandosi al comodino per posare il quotidiano.
Neal fece spallucce:
-Credo che tra poco arriverà Gertrude- spiegò, rassegnato.
-Ti sei rattristato perché sta arrivando un’infermiera?
Neal, per un momento, pensò di mentirgli. Di dirgli che sì, era triste perché Gertrude aveva i baffi, due manone da generale e la stessa delicatezza di un elefante. Ma poi non ce la fece.
Scosse il capo.
-Neal, ti conosco da molti anni, lo sai? Riesco a capire se c’è qualcosa che non va.
-Peter ce l’ha con me.
Le parole gli sfuggirono dalle labbra prima che potesse rifletterci su.
-E perché?
-Non lo so. Ce l’ha con me, mi nasconde qualcosa. Io… non so perché, ma potrebbe essere che mi incolpa per la missione… potrebbe essere che pensi che sia colpa mia se…- balbettò, senza ritegno. All’improvviso, il dolore alla mano sembrava nulla in confronto al peso che si stava creando in petto.
Mozzie scosse il capo:
-Neal, tu sai quanto odi darti torto… quanto odi appoggiare gli sbirri, ma non credo che nessuno sano di mente ti incolperebbe di essere stato rapito- gli disse.
Il ragazzo si rigirò nel letto, inquieto:
-Allora mi nasconde qualcosa- concluse.
-Questo è plausibile. Anzi, oserei dire che è molto probabile- riprese allora Mozzie, più serio.
-E di cosa si tratta?
-Questo dovresti chiederlo a lui.

 
 
Quando Mozzie abbandonò la stanza, alle nove di quella sera, Neal cercò di mangiare qualcosa. Con fatica, utilizzando la mano sinistra per reggere il coltello e il mento per tenere la forchetta, tagliò qualche boccone di quella che, sulla carta, era “arista di maiale”, ma che somigliava esageratamente al “roast-beef” del giorno prima e alle “braciole” di quello prima ancora. Dopo due bocconi lasciò perdere.
Invece, prese il telefono e compose il numero tanto familiare di Peter. Bastarono due squilli prima che l’agente rispondesse:
-Neal? Tutto bene?
Aveva la voce preoccupata.
-Peter. Sì, tutto bene.
-Perché mi hai chiamato? È successo qualcosa?
-No, io… niente, volevo solo salutarti.
All’altro capo del telefono, Peter parve rincuorato:
-Come va la febbre?- domandò.
-Va e viene.
-Perfetto, Neal. Senti, ora ho un po’ da fare, ma possiamo sentirci domani, d’accordo? Buonanotte, Neal.
-Io… d’accordo. Buonanotte, Peter.
Sì, gli nascondeva qualcosa.

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Capitolo 6
*** Giorno 5° - Colloqui inaspettati ***


Peter non si presentò nemmeno il giorno successivo. Neal si svegliò presto, già agitato, con la febbre alta e dolori ovunque, ma ben deciso a chiarire con l’uomo.
Aspettò per parecchi minuti, teso, sporgendosi e sbirciando attraverso il vetro della porta, ma niente.
Passò tutta la mattinata così, fermo, mentre infermieri e medici gli sfilavano davanti per accertamenti vari. A mezzogiorno crollò a dormire, spossato a causa degli antibiotici e della nottata che aveva passato; fu proprio in quel momento, però, che la porta si aprì di nuovo. Neal sobbalzò e si alzò subito a sedere, ma non era Peter. Era Elizabeth
.
-Ciao, Neal- gli sorrise, un po’ tesa. Si avvicinò a piccoli passi verso di lui, indecisa su cosa fare, e lui non aiutò. Restò fermo, stupito dalla visita della donna, preoccupato per le motivazioni che potevano averla indotta a sostituire il marito.
-Che è successo a Peter?- chiese allora, sentendo di star per scoppiare.
-Niente, perché me lo chiedi?

Mentiva. Neal lo sapeva fare troppo bene per non riconoscere una principiante: lo vedeva dallo sguardo sfuggente, dai piedi inconsciamente rivolti al lato opposto rispetto a quello del letto; ma, più di tutti, sentiva la voce leggermente incrinata che la donna non aveva mai usato con lui.

-Sono due giorni che non viene, io…
Mentre parlava, Neal si rese conto di quanto sembrassero stupide le sue affermazioni: era un uomo adulto e vaccinato, non aveva bisogno che qualcuno passasse a trovarlo ogni giorno; e Peter era un agente speciale che, probabilmente, aveva molto cose da fare più importanti del fare da badante a un truffatore.

Non è così, sai che non lo è. Siamo amici.

-Ha… ha avuto da fare, ma domani verrà di sicuro- lo tranquillizzò la donna, poi si sedette sul bordo del letto e gli sorrise: -Allora, come sta il mio paziente preferito?
Il ragazzo trasse un profondo respiro, poi si richiuse a riccio come non faceva ormai da tempo. Sfoderò un sorriso e rispose:
-Meglio, grazie.
-Sono contenta…
Non lo era. Non sapeva il perché, ma Elizabeth non era sinceramente contenta.

Elizabeth non era sincera.

E, d’improvviso, Neal decise di cambiare tattica; decise di comportarsi, per una volta, non come il truffatore che credevano che fosse, ma come l’amico che dicevano che era.
-Non è vero.
-Cosa non è vero, Neal?
-Non mi sento meglio, e tu non sei contenta.
Anche quella frase, nel pronunciarla ad alta voce, divenne immensamente stupida.
-Cosa?
Elizabeth impallidì, stringendo la borsetta.
-Mi nascondete qualcosa- continuò il ragazzo, ormai troppo lanciato per fermarsi: -Sono due giorni che non viene e non si informa, e io so che Peter non è così. E poi ti vedo, sai? Non sono stupido, tu… voi mi nascondete qualcosa.
La sua voce, man mano che proseguiva nel discorso, si fece sempre più incrinata. Alla fine, si accorse che gli occhi gli bruciavano in maniera innaturale.
-E’ così, vero?- proseguì, schiacciato dal silenzio della donna: -Ma certo che lo è.
Elizabeth lo interruppe:
-Sai che non è vero, Neal. Io… è vero, non ti abbiamo detto una cosa- si arrese. Neal rabbrividì, terrorizzato: d’improvviso, si rese conto che avrebbe preferito che i Burke avessero continuato a mentirgli. –Ma non è come credi.
-E com’è?
-Io… Neal, devi promettermi che non ti arrabbierai con Peter, d’accordo?
Seguì un secondo di silenzio.
-Ci proverò- rispose il ragazzo.
Elizabeth annuì, conscia di non poter sperare di meglio:
-Qualche giorno fa una dottoressa ha parlato con Peter. Di te- specificò, poi prese coraggio: -La tua… la tua mano- esitò ancora, scossa dal brusco movimento del ragazzo: -Ci sono stati vari problemi. Non ti mentirò, Neal, rischi di perderla- concluse, veloce. Troppo veloce, quasi sperasse che il ragazzo potesse confondere le sue parole e non capirne il senso.

Seguì un silenzio troppo opprimente per definirlo tale. Elizabeth fissò il volto del ragazzo, il suo cambiamento repentino: prima impallidì, fissando il vuoto, respirando a fatica; poi provò a calmarsi, ma tremava troppo per farlo; infine, alzò lo sguardo verso la donna, che non aveva lasciato la sua mano nemmeno per un attimo, e provò a dire qualcosa.
-Cosa, Neal?
Le labbra gli tremavano troppo per parlare, ma ci provò comunque:
-Che… che vuol dire? Io… io non posso… non voglio, io…
Stava balbettando frasi senza senso, inutili, e lo sapeva. Eppure, non poteva fare a meno di pronunciarle, come se potessero portargli via un po’ di quel terrore che lo stava prendendo.
-E’ solo un’ipotesi, potresti anche farcela, ma la dottoressa ha ritenuto che dovessi saperlo.
Per un minuto, o forse dieci, o un’ora, Neal ed Elizabeth restarono immobili, spaventati dalla grandezza di quella notizia. Poi lei lo abbracciò; lui si lasciò stringere forte, abbandonandosi in quella stretta, la testa sulla spalla dell’altra. Restarono così per un tempo indefinitamente lungo, poi si separarono.
-Andrà tutto bene, Neal- mormorò ancora Elizabeth.
-Lo so.
-Adesso sei tu a mentire.
Elizabeth si sforzò di sorridere.
-Hai ragione- ammise il ragazzo, più rilassato.

 
 
Quando Elizabeth uscì dalla stanza, era passata l’ora di pranzo.
Peter aveva aspettato in corridoio tutto il tempo e la seguì, ansioso:
-Allora, com’è andata?- le chiese subito.
-Ha bisogno di tempo- rispose solo a donna. Il marito annuì. Per un attimo pensò di entrare, di vedere con i suoi occhi lo stato di Neal, ma poi si fermò.
Aveva bisogno di tempo. Di tempo per capire, comprendere il vero significato di quella notizia. Aveva bisogno di tempo e di qualcuno che sapesse fargli trovare la fora di continuare a guarire. Quel qualcuno non era lui: lui non era bravo con le parole.

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Capitolo 7
*** Giorno 6° - Domande troppo ovvie e risposte poco scontate ***


-Sono Peter Burke, vorrei vedere Neal Caffrey.
Peter si avvicinò alla reception già parlando, in modo da sprecare il minor tempo possibile.
-Un momento…
La receptionist era una ragazza minuta, carina, dai grandi occhi neri e i capelli raccolti in una treccia. Dette una veloce occhiata al registro che teneva sulla scrivania e annuì:
-Caffrey Neal, terapia intensiva. Stanza…
-Lo so, lo so. Posso?
-Certo.                     
-La ringrazio.

 
Aveva bisogno di tempo. Elizabeth glielo aveva ripetuto molte volte, quella mattina. Gli aveva detto che avrebbe potuto reagire male, che, forse, avrebbe dato a Peter l’impressione di essere arrabbiato con lui, ma che non era vero.

Aveva bisogno di tempo. Se avesse davvero perso una mano, la situazione sarebbe precipitata. Peter sapeva che, forse, Neal non aveva neanche pensato a ciò che significasse davvero. Al fatto che, senza una mano, probabilmente non avrebbe più potuto disegnare, dipingere, falsificare la sua firma giusto per il gusto di farlo. Forse non avrebbe più potuto lavorare per l’FBI.

Aveva bisogno di tempo. Doveva assorbire la notizia in tutte le sue sfaccettature, partendo dalle più leggere fino alle più gravi. E poi, forse, avrebbe potuto accettarne almeno una.

Ma era una possibilità. Poteva guarire. Poteva riprendere a usare la mano come prima, a scrivere con la sua grafia ordinata e a disegnare caricature degli agenti delle scrivanie accanto alla sua. Poteva continuare a vivere normalmente, forse.
 

Aprì la porta, teso.
Neal era a letto, forse dormiva.
-Neal?- sussurrò. Dopo quei tre giorni, la camera gli appariva quasi diversa: -Neal, dormi?
Dormiva.
Peter sospirò, sopprimendo l’impulso di svegliarlo. Raccolse un giornale dal comodino del ragazzo e prese a leggerlo, seduto sulla poltroncina accanto al letto. I cruciverba erano già completati, scritti con una grafia microscopica e sbilenca che Peter non riconobbe. Probabilmente, si disse, era di Mozzie.
Era arrivato a pagina dieci quando Neal si svegliò. Peter aspettò, forzatamente tranquillo, che il ragazzo sbadigliasse, si strofinasse gli occhi, si accorgesse della sua presenza e digerisse nuovamente il ricordo della sua conversazione con Elizabeth. Nonostante fosse un bravo giocatore di poker, certe cose Peter gliele leggeva in faccia.
-Come va, Neal?
Non rispose. L’agente sospirò:
-So che Elizabeth te l’ha detto. Non devi arrabbiarti, Neal, è che… so che mi consideri un traditore, soprattutto dopo aver parlato con Mozzie, ma davvero l’ho fatto…
-…per me.
-Per te.
-Lo immaginavo.
-E’… un rimprovero?

Non lo sapeva. Era arrabbiato, ovviamente. Arrabbiato con il mondo, che in quel momento si traduceva in Peter. Peter che era seduto accanto a lui e che non capiva, non capiva minimamente cosa stava provando in quel momento. Peter che non si rendeva conto di quel che sarebbe potuto succedere, del fatto che la sua vita sarebbe cambiata
per sempre, che sarebbe potuta diventare terribile, terribile…

-Andrà tutto bene, Neal.
-Lo dite in tanti in questi giorni, sai?
-Forse perché è vero.
-Forse perché credete che sia stupido.
Peter scosse la testa. Sospirò:
-Neal, so che sei arrabbiato, lo capisco… è solo che…
Che cosa? Cosa diavolo stava dicendo? Neal rischiava di perdere una mano e lui si metteva a fargli una predica con “è solo che…”?
-Senti, sai cosa? Per ora non pensarci. Perché non…

No, no, no. Stava sbagliando tutto!

-Va bene così, Peter. Davvero, grazie.

Lo stava cacciando?

-Scusa, Neal. Lo sai, non sono bravo con le parole.
-No, infatti…- quasi rise, al pensiero di un Peter che riuscisse davvero a tirarlo un po’ su.
Anche Peter si rilassò:
-Cosa prevede il menù, oggi?- chiese, cambiando argomento e sperando che Neal approvasse la scelta.
-Qualcosa di gomma, come sempre.
Non sapeva se approvasse, ma l’aveva assecondato.
-Credo che Elizabeth ti abbia mandato qualcosa- gli annunciò allora Peter, rovistando nel suo contenitore del pranzo: -Ah, sì… dev’essere questo.
Ne tirò fuori un pacchetto di carta stagnola che recava le parole “PER NEAL” scritte con la grafia tondeggiante e troppo grossa della moglie. Sbirciò:
-Sono muffins!- esclamò Neal, contento, e Peter non potè fare a meno di provare una piccola fitta di gelosia mista ad orgoglio: El non gli preparava mai i muffins, eppure l’aveva fatto pensando a qualcosa che non richiedesse l’uso di due mani.
-Al cioccolato! Devo chiedere se ce ne sono anche per me!- esagerò Peter, giusto per vedere il vecchio Neal crogiolarsi nelle tante attenzioni che tutti gli dedicavano.
-Oh, Peter… tu non hai charme, non sai come si piace alle donne, cosa ti aspetti?- rincarò la dose il ragazzo, sbirciando nel contenitore dell’amico: -E cosa ti ha preparato? Sandwich al tacchino, come sempre! Peccato…

Peter sopportò quel giochetto ancora per un po’, poi decise di troncare: sarebbe parso ridicolo, altrimenti, e Neal avrebbe capito che lo stava assecondando, si disse. Così scosse la testa con fare deciso e cercò qualcosa di sarcastico da dire; ma mentre era in fase creativa, un’infermiera fece capolino:
-Caffrey, il medico deve visitarti- annunciò, piatta, leggendo il cognome di Neal da un foglio che aveva in mano: -Lei, signore, può accomodarsi fuori, intanto.

Peter fece spallucce e uscì. Quando rientrò in stanza, l’altro era ancora mezzo svestito e aveva l’aria un po’ infastidita.

-Che c’è, ha tentato di violentarti? Avevi abbastanza charme anche per lui?- gli domandò, soddisfatto di aver finalmente trovato la battuta giusta. Il ragazzo fece una smorfia:
-Geloso… e comunque no, aveva dei modi un po’… bruschi.
-Capisco. Vuoi una mano?- si offrì allora Peter, osservando i vani tentativi di Neal di rivestirsi con una mano sola.
-Grazie, ma credo di cavarmela. Che c’è, neanche tu resisti al mio charme?- lo rimbeccò lui, saltellando per infilarsi la manica.
-Ti aiuto.
Peter si avvicinò e per qualche secondo tentò di acchiappare la manica ciondolante del pigiama dell’amico; ci riuscì, la alzò, ma il braccio di Neal sembrava essere troppo lontano, e dovettero ricominciare. Fu proprio al secondo tentativo, precisamente, mentre Peter cercava di sbrogliarsi da una manica che, chissà come, gli era finita attorno al collo, che la porta si aprì.
Sara non interruppe la scena, troppo divertita per farli smettere, ma si mise in bella mostra in modo che, non appena i due ebbero finito di combattere col pigiama, la notassero.
-Sara!- esclamò Neal, allegro.
-Sara!- esclamò Peter, vergognandosi e ricomponendosi.
-Neal! Peter!- fece loro il verso la donna, poi continuò: -Devo preoccuparmi per il tuo orientamento sessuale, Neal? Sai, a me puoi dirlo!
-Dovresti chiederlo a lui, Sara… mi si è praticamente avventato addosso!
-Si chiama “aiutare un amico in difficoltà!”, Neal… mai sentito?- si difese Peter, arrossendo.
Neal annuì, ridacchiando. Sara si sedette accanto a lui, rubando il posto al povero Peter che si era alzato per recuperare una busta caduta a terra.
-Allora, come va?
-Sapete, mi sono rotto di rispondere ogni volta a questa domanda.
-Neal, sei in ospedale, è normale…- cominciò Sara, ma Peter la interruppe:
-E’ solo scena, Sara, non dargli corda…
-Non è vero, è davvero noioso che me lo chiediate ogni volta!
-Significa che non passeremo più a trovarti.
-Oh, sì che lo farete!
-No che non lo faremo!
-Sì che lo farete!

Quando la faccenda degenerò, Peter decise di porre un freno:
-Neal, io devo andare. Sara, se vuoi un passaggio devi muoverti.
La donna ci pensò su, incrociò lo sguardo triste di Neal e, per un momento, si lasciò intenerire:
-Non lo so, Peter…- mormorò, titubante, accennando al ragazzo: -Credevo che magari potrei…
Nel sentire quelle parole, Neal sorrise. Uno dei suoi sorrisi a trentadue denti che, di quel periodo, erano davvero rari.
-Io non mi lascerei intenerire troppo, Sara- la ammonì Peter, lanciando un’occhiata all’espressione dell’amico, che subito tornò serio.
-Tanto ti ho visto, Neal!- protestò la donna, e scosse il capo, sorridendo: -Sai, credo che Peter abbia ragione: si sta facendo tardi e abbiamo un lavoro. Ma non preoccuparti, torneremo- concluse, voltandosi in maniera teatrale.
-Oh, certo… tornerete!- enfatizzò il malato, tirandosi su a sedere.
-Hai dubbi, Neal? Perché se non ti fidi noi…

-Andate a lavorare, forza!
La porta si chiuse con un piccolo tonfo poco dopo. Neal sedette ancora appoggiato ai cuscini, a lungo, fissando il vuoto. Spaventato, terrorizzato e, insieme, felice di avere qualcuno con cui condividere il tutto.


N.d.A.: che finale di m... cacca! Dico solo questo -.-'' ma non ho saputo trovare di meglio :P
Al prossimo capitolo ^_^

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Capitolo 8
*** Giorno 7° - Frodi assicurative e malati terminali ***


Quella notte Neal riuscì a dormire, anche se si svegliò più volte in preda agli incubi. L’ultima volta che si destò, era l’alba. Si rigirò un po’ nel letto, gli occhi serrati nella speranza di tornare a dormire, ma non ci fu verso di abbandonarsi di nuovo al sonno che gli aveva offerto momenti di quiete per tutta la durata della notte.
Si sedette, piano, non potendo fare a meno di notare quanto la mano ferita fosse ancora insensibile, e prese il cellulare.


6.35

Peter doveva essere già fuori dal letto.
No, doveva aspettare. Non voleva rischiare di svegliarlo pochi minuti prima del dovuto.

6.36

Sara stava sicuramente dormendo. Non voleva disturbarla.

6.36.43”

Doveva aspettare. Mozzie non aveva un cellulare dopo aver gettato l’ultimo, quindi non poteva essere contattato. Era quello che voleva, dopotutto.

6.37

-Peter? Dormivi?
-Neal… no, mi ero appena alzato, perché?
-Così.
Silenzio.
-Come ti… emh, come va?
-Così. Ho… ho dormito, stanotte.
-Bene! E la mano?
-Come se non ci fosse.
Un sospiro, poi il nulla.
-Ci sei ancora, Peter?
-Passo a salutarti tra mezz’ora, d’accordo?
-Non ce n’è bisogno, se hai da fare… non sono un malato terminale, sai?
-Non ho da fare, oggi. Qualche scartoffia… se vuoi te ne porto un paio, che ne dici?
Una risatina, poi acconsentì.

 

 
-Un caso di frode assicurativa, due plagi, un proprietario di due catene di hotel che dichiara solo un B&B. Cosa scegli?
-E’ un gioco di prestigio, Peter?
Peter Burke aveva aperto la porta della stanza di Neal pochi minuti prima, vestito di tutto punto e con in mano quattro fascicoli verdini. Si era seduto sul letto di Neal, di fronte al ragazzo, e li aveva disposti come le carte di un mazzetto.
-Lo è. Tu non sai qual è il più interessante, no? Vediamo se indovini.
Neal sorrise tiepidamente.
-D’accordo- mormorò. –Anche se avrei potuto già vedere qual è la frode, no?
Peter annuì, accondiscendente.
-Certo che potresti- disse.
-Scelgo il terzo.
Peter gli porse il fascicolo con un sorrisetto.
Neal lesse l’intestazione:
-Frode assicurativa- esultò, la voce tremante.
-Neal Caffrey è sempre Neal Caffrey- commentò l’agente, un po’ fiero.

Neal annuì. Si sentiva stordito, i movimenti erano troppo lenti, gli dava fastidio il pensiero che, in caso di necessità, non sarebbe riuscito a reagire in tempo.
-Che cosa dovrei farne, adesso?- domandò poi, un sorrisetto impertinente sulle labbra.
-Non so… leggerla, studiarla e dirmi che ne pensi?
-Non sono in servizio, agente Burke!
-Oh, e io non sono la tua badante: quindi se vuoi che continui a portarti i pranzetti di Elizabeth, devi collaborare!
Neal si arrese, divertito:

-D’accordo, signor badante- accettò, aprendo il fascicolo con qualche difficoltà.

Lo lesse, attento, in quasi dieci minuti. Quando ebbe finito si girò verso Peter e sbuffò:
-Non ho mai letto nulla di più noioso, sai?
-E’ per questo che lavori per me, sai?
Neal incassò in silenzio.
-Allora?
-Allora cosa?
-Che ne pensi?
-Che vorrei conoscere il signore della frode- sentenziò Neal, come se fosse qualcosa di seriamente importante.
-Quindi è fatta bene?
-Bene? Peter, capisci quanti soldi ha incassato? Ci avessi pensato io, ora non saremmo qui a parlarne!
Peter ridacchiò, poi scosse il capo, incredulo:
-Stai ammettendo che c’è qualcuno migliore di te?
Neal trasalì:
-Migliore? Nient’affatto! Semmai più esperto, o un pochino più furbo, ma giusto un pochino…
-E’ migliore di te.
-Ti ho detto che…
-D’accordo, non agitarti! Devi stare tranquillo, lo sai.
-Ci risiamo: Peter, siamo giunti al punto in cui mi tratti come un povero vecchietto troppo stanco per reagire?

Peter sbuffò, stanco della discussione:
-Ne abbiamo già parlato, Neal: non sei un malato terminale, ma ci sei andato vicino. Voglio solo tenerti un po’ tranquillo, d’accordo? Non ci vedo nulla di male…
Neal stette in silenzio: Peter aveva ragione, lo sapeva, ma lui non riusciva proprio a stare buono.
-Hai ragione, Peter- si arrese –E’ solo che… non ce la faccio più a stare qui, fermo, senza poter fare niente: giuro che sto impazzendo!
-Hai ragione, ti capisco: anche io impazzirei, probabilmente. Ma devi pensare che lo facciamo per…
-… il mio bene, lo so. Non è un po’ scontata, come cosa? Sul serio, se io preferissi andarmene in giro rischiando la vita?
-Stai divagando, Neal.
Il ragazzo sorrise:
-Lo so, ma è divertente vederti arrabbiato- confessò.
Peter scosse la testa:
-Senti, io devo passare vicino casa tua per la frode. Hai bisogno di qualcosa?
 
Ripensandoci, Peter non avrebbe mai chiesto a Neal di cosa avesse bisogno.
Perché, quando entrò a casa di June, la lista che reggeva in mano contava più di venticinque oggetti, dei quali almeno quindici completamente inutili.
Eppure li prese tutti e, ridacchiando, si chiuse la porta alle spalle. Tra le mani, uno spazzolino da denti blu pervinca e “I casi celebri dell’FBI”.


N.d.A.: no, questo capitolo è orribile >.<
Prometto che cercherò di scrivere qualcosa di sensato, la prossima volta. 
Ah, ChibyLilla: ci metterò anche mooooolti dettagli medici, nel prossimo U_U

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Capitolo 9
*** Giorno 8° - Ritratti e rapporti ***


-Ti ho portato tutto.
-Grazie Peter.
-Non c’è di ché. Anche se avresti potuto avvisarmi prima che questo dannato libro era sotto una pila di fogli: ho passato venti minuti a cercarlo, sai?
-Scusa, Peter… nemmeno lo ricordavo.

Peter scosse la testa e si avvicinò, allegro.
Quella mattina era iniziata bene, senza particolari grane e senza troppi pensieri. L’uomo aveva deciso di passare da Neal prima di andare al lavoro, in modo che poi potesse dedicarsi ai casi del giorno senza interruzioni.

-Perché leggi “I casi celebri dell’FBI”?- chiese, sedendosi sul bordo del letto.
-Bisogna sempre essere informati riguardo le attività del nemico- sentenziò il ragazzo, aprendo il libro. Qualcosa però scivolò dalle pagine, finendo ai piedi del letto.

Neal si sporse, cercando di vedere cosa fosse caduto, ma Peter fu più veloce e riemerse dal pavimento con in mano un foglio piegato a metà. Era un normalissimo pezzo di carta, di quelli che si trovano a migliaia accanto alle stampanti di un qualsiasi ufficio, eppure Neal trasalì e cercò di riafferrare la pagina.
Peter, che stava per porgergliela, vedendo la reazione del ragazzo si ritrasse.
-Cosa c’è in questo foglio, Neal?- chiese curioso, facendo per aprirlo.
Il ragazzo quasi si lanciò, rischiando di farsi male con l’ago della flebo, pur di impedirgli di aprirlo. Peter restò fermo, un sorrisetto che premeva per spuntargli sulle labbra.
-Allora, Neal? Che c’è…  è qualcosa di illegale?- incalzò.
-No, non è illegale! Ma non voglio che tu lo guardi, ok?
-E perché no?
Peter rise ancora, divertito dall’espressione terrorizzata dell’altro. Neal lottò ancora contro l’ago della flebo, poi si arrese e tornò steso, pallido.
-Peter, no!- mormorò solo, stanco come se avesse corso miglia.
-D’accordo, Neal, ma non ti agitare- replicò l’altro, calmo. Poi, con mossa fulminea, aprì il foglio.
L’espressione di Neal fu impagabile: sbiancò, aprendo occhi e bocca per lo stupore; poi, mentre l’agente abbassava lo sguardo, arrossì fin sopra i capelli.
Peter non l’aveva mai visto così imbarazzato e, soprattutto, non l’aveva mai visto arrossire.

-E’ un disegno…- commentò, interessato, osservando le linee curve che andavano a formare un viso. Un viso familiare, in effetti. –Questo… questo sono io?- chiese, mordicchiandosi il labbro.
-Oh, beh… io… sì, potresti.
-Mi… perché mi hai fatto un ritratto?
-Non era un ritratto! Semplicemente, un giorno eravamo in ufficio e non avevo niente da fare e… e ho cominciato così, per gioco.

Neal tacque, aspettando quasi il responso dell’altro. L’agente osservò meglio il disegno: era ancora indefinito, si scorgevano solo i contorni del viso e degli occhi, più qualche linea abbozzata che rappresentava la posizione della bocca, ma gli assomigliava già parecchio.
-E’… è molto bello, sai?
Neal fece spallucce:
-E’ una cosa così- commentò, facendo un vago cenno con la mano. Peter sorrise:
-Perché non lo finisci?- chiese, aggiungendo in fretta: -Quando ti rimetterai, ovviamente.
Il ragazzo guardò la mano con gli occhi colmi d’ansia. Sospirò leggermente, poi annuì:
-Certo, se vuoi.
-D’accordo.

 
 

Quando Peter guardò l’orologio, erano quasi le dieci. L’uomo sgranò gli occhi, sorpreso, poi lanciò uno sguardo al ragazzo.
Neal dormiva da quasi mezz’ora. Avevano passato un po’ di tempo a leggere di vecchi casi in cui l’FBI aveva trionfato, a scherzare, a discutere di quella frode immobiliare e a guardare un match di baseball in replica. Era stato in quel frangente che Neal era crollato.

Semplicemente, Peter si era voltato e l’aveva trovato addormentato, scomposto, la bocca semiaperta e la mano ferita abbandonata, come sempre, alla sua destra. Aveva sospirato, un po’ in ansia per quella stanchezza che non era mai appartenuta a Neal, pi aveva spento la tv.

Ora fissava il telecomando sovrappensiero, indeciso se svegliare Neal e salutarlo oppure andarsene e basta.
Alla fine optò per la prima opzione: Neal odiava che le cose cambiassero senza che se ne accorgesse, senza che potesse prepararsi o accettare la cosa. Così l’uomo si alzò e toccò il ragazzo piano sulla spalla.

Neal si svegliò subito, ipersensibile a qualsiasi cosa lo sfiorasse durante il sonno.
-Peter!- esclamò, la voce un po’ impastata.
-Neal, scusa se ti ho svegliato. Volevo dirti che scappo.
-Scappi?
-Non come faresti tu, Neal! Scappo al lavoro!
Neal ridacchiò:
-Certo, agente… quando mai avresti desiderato di scappare?
-Oh, mai!

Il ragazzo annuì, scherzoso, poi si fece più serio.  Per qualche secondo restò fermo, indeciso; Peter gli concesse ancora qualche minuto, poi  guardò l’orologio e fece cenno a Neal di sbrigarsi a dire quel che doveva –perché qualcosa c’era, ne era sicuro-.
-Peter, secondo te la mano…?
L’agente scrollò le spalle nel sentire quella domanda inespressa: se lo aspettava, sapeva che prima o poi sarebbe arrivata, eppure non aveva una risposta pronta. Sospirò:
-Andrà tutto bene, Neal.
-Questo è quello che si dice quando non è vero.
-Questo è quello che si dice quando si spera che sia vero.
Annuì.
-Sai, Peter, tra poco saprai rifilarmi scuse ambigue quasi quanto le mie- ridacchiò.
-L’allievo supera il maestro, a volte.
-Oh, non se il maestro sono io.

 
 

Peter arrivò in ufficio un’ora più tardi del previsto. Si sedette alla scrivania, veloce, agguantando a stento una tazza di caffè che Diana gli porgeva; prese a lavorare subito, leggendo file e modificando rapporti: i peggiori, come sempre, erano quelli di Neal. Odiava scrivere i rapporti, lui, ed era per questo che Peter insisteva tanto affinché qualunque cosa andasse registrata fosse affidata proprio a lui: doveva perfezionarsi, imparare come si faceva la cronaca di quelle operazioni che tanto gli piacevano. Eppure, andando avanti col tempo, si stava rendendo conto che era un caso perso: Neal non era tagliato per queste cose –o fingeva di non esserlo, perché dubitava che ci fosse qualcosa per cui il ragazzo fosse veramente poco portato- e, spesso, costringerlo a scrivere rapporti risultava più dannoso che altro.
Peter sbuffò, accartocciando l’ennesima pratica scritta con la grafia ordinata di Neal: avrebbe dovuto ricominciare daccapo, come sempre.

Fu allora che il telefono squillò. Peter lo prese subito, convinto che Elizabeth avesse finalmente ottenuto quell’incarico di cui tanto gli aveva parlato, e quasi restò deluso quando si accorse che non era la moglie: era Neal.

-Pronto, Neal?
Dall’altra parte c’era silenzio.
-Neal? Neal, mi senti?
-Peter, sì. Peter, devo dirti una cosa.
La voce di Neal era falsamente allegra, mascherata così male che l’agente pensò che lo facesse di proposito: non poteva ammettere di avere un problema, ma in fondo voleva che l’altro comprendesse.
-Dimmi tutto.
-Mi ha visitato un medico nuovo, oggi. Ha detto che sto… sto meglio.
Qualcosa frenò Peter dal sorridere:
-Ma?
-Ma che mi devono operare alla mano.
L’agente si lasciò andare a un sospiro troppo rumoroso, cercando di schiarirsi le idee: era un bene, giusto? E allora perché Neal non lo riteneva tale?
-C’è qualcosa che ti preoccupa, Neal?
-Se l’operazione andasse male…
-Non succederà.
-Sì, ma se succedesse… perderei la mano. Loro hanno detto che non è possibile, che è facile, che andrà tutto bene, ma se succedesse, io…

Qualcosa nel tono di Neal fece rabbrividire Peter. Seduto alla sua scrivania, lo sguardo fisso sull’ultimo rapporto da terminare, Peter desiderò di essere davvero al posto di Neal: perdere una mano gli sembrava qualcosa di terribile, ma non era niente in confronto a quello che avrebbe provato l’amico in tal caso.
-Quando dovrebbero operarti?
-Dopodomani, credo. Mi hanno fatto le analisi, e sono abbastanza buone, e hanno detto che è meglio non aspettare, che forse se operano subito riescono a salvarla, e che…
Continuò a parlare per un po’, di fila, senza mai prendere fiato. Peter lo lasciò sfogarsi, in silenzio, ascoltando le sue parole e annuendo per fargli capire che era lì  e gli sarebbe stato vicino.

-Certo, Neal- disse alla fine, alzandosi: -Senti, oggi ho un sopralluogo a tre isolati dall’ospedale. Vengo… vengo a trovarti e parliamo un po’, d’accordo?
-Avevi detto che saresti rimasto in ufficio!
-Lo so, ma ho… ho cambiato idea. Ci vediamo tra un’ora, d’accordo?
-Mmh mmh.
Riagganciarono.


N.d.A.: per la serie "finali che si illudono di creare suspence - parte 3" XD

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Capitolo 10
*** Giorno 9° - Scacco ***


Il giorno prima dell’operazione, Neal non aveva voglia di mangiare.

Restò per un po’ a fissare la fredda scatoletta d’alluminio poggiata sul suo comodino, deglutendo e cercando di farsi tornare l’appetito, ma invano. Infine lo disse all’infermiera di turno, Sally, una ragazza giovane alle prime armi che, a volte, sbagliava le medicazioni o le dosi di antidolorifici, ma che era simpatica e carina.
Quella mattina premé troppo il tampone sulla fronte e il taglio bruciò, costringendo il ragazzo a strizzare gli occhi.

-Scusa!- esclamò lei, prendendo una benda per pulirgli il sangue. Lui sorrise debolmente:
-Non è niente, non preoccuparti.

Lei continuò il suo lavoro, controllandogli i punti e le piccole ferite, poi gli prese la mano e srotolò le bende che la avvolgevano:

-Non senti ancora niente?
Scosse la testa.
-Comunque dovresti mangiare qualcosa, sai? Domani ti devono operare: non puoi indebolirti!
-Non ho fame, davvero.
-Ci vorrebbe quella ragazza… com’è che si chiama? Sara!
-Oh, no! Ci vorrebbe Elizabeth, con uno dei suoi piatti decenti e la sua pazienza- mormorò Neal in risposta, fissando i tagli gonfi che gli ricoprivano il dorso della mano.
-Può darsi, ma lei non è qui e tu devi mangiare comunque.
Neal sospirò, poi le chiese di passargli uno dei giornali che Mozzie gli aveva lasciato la sera prima.
-Sally… sai quanto durerà l’operazione?
-Non molto, stai tranquillo.
-Sono tranquillissimo! Perché mi ripetete tutti la stessa cosa?- sbottò il ragazzo, infastidito.

L’infermiera sorrise, uscendo.
Neal ebbe la sensazione di essere stato appena assecondato.

 

 
-Eccomi qui, un po’ di giornali nuovi! Come ti senti, Neal? Guarda che se hai cambiato idea, conosco un medico di fiducia che…
-Non preoccuparti, Mozzie: mi fido dell’ospedale, sta’ tranquillo.

Mozzie scosse il capo incredulo.
Guardandosi attorno, attento a non toccare nulla che non fosse indispensabile, si richiuse la porta alle spalle e avanzò fino al letto di Neal, poggiandogli i giornali sul comodino.

Fuori pioveva: grosse gocce d’acqua miste a grandine picchiettavano sui vetri della finestra e sul tetto dell’ospedale, monotone. Neal ne aveva osservato le scie, le strisce bagnate che lasciavano sul vetro trasparente; ne aveva studiato i contorni, le forme, aveva trovato immagini conosciute in quel miscuglio di acqua e polvere e poi, stanco, si era voltato dall’altra parte a fissare il muro.

-Sei preoccupato, Neal?
-No, Mozzie.
-Sei sicuro? Io lo sarei, al tuo posto. Sai quanti incidenti possono accadere in sala operatoria? Il chirurgo è un essere umano, può sbagliare, e anche gli assistenti… senza parlare dell’anestesista, poi: devono addormentarti? Spero di no, così almeno sarai sveglio e potrai…
-Basta così, Mozzie.

Neal si sporse oltre il letto, accogliendo con gioia la voce di Elizabeth. La donna lanciò un’occhiataccia all’altro visitatore, poi avanzò a passo svelto.
Neal ne fu felice.

Sì, ok, aveva paura dell’operazione. Chi non ne aveva, d’altronde?
Sì, ok, era una cosa stupida, ma Mozzie non aiutava, in quel modo.

Lei invece sì. Giunse fino a Neal, si sedette accanto all’uomo, fissando il ragazzo con aria da intenditrice:
-Non hai mangiato, vero?
Scosse la testa, sorpreso.
-Neal, domani hai…
-…un’operazione, e dovrei mangiare, e dovrei riposarmi, ma non ce la faccio! Davvero, El, non voglio! Non voglio sentirmi come un moribondo, io…
-Neal! Neal, calma! Non ti sto dicendo questo!- gridò lei, sovrastando il lamento dell’altro. Agitò le mani in segno di resa, poi rise:
-Volevo solo dirti che domani hai un’operazione, e che quindi è normale che tu sia agitato. Ma se per caso avessi voglia di qualcosa, qualunque cosa da mangiare, basta che tu me lo dica. D’accordo?

Neal si vergognò un po’ per la sua scenata da bambino capriccioso, quindi tenne gli occhi bassi, annuendo. La donna parve soddisfatta e cambiò argomento:

-Bene. Cosa vorresti fare?
-Fare?
-Non so… hai voglia di guardare la tv? Oppure ti passo un giornale, o…
-No, grazie. Perché non prendi gli scacchi, Moz?

L’uomo obbedì, un po’ infastidito dal ruolo secondario a cui El l’aveva segregato. Cercò la scatola degli scacchi nella valigia di Neal e riemerse poco dopo, un vassoio nell’altra mano; poggiò il tavolo improvvisato sulle ginocchia dell’amico e prese a disporre i pezzi, studiando di sottecchi l’espressione del ragazzo.
Indecifrabile, come sempre. Fissava i pezzi con moderato interesse, ma in realtà pensava ad altro; Mozzie lo sapeva, ovviamente: sapeva tutto dell’altro, ormai. Terminò di disporre gli alfieri e fissò l’amico, in attesa.

-Bianchi o neri?- chiese allora quello, confortato dal solito rito: prima di una partita, Neal poneva sempre questa domanda a Mozzie, anche se sapevano già chi avrebbe scelto un certo colore.
-Neri, naturalmente- rispose infatti l’uomo, girando la scacchiera in modo da trovarsi dal lato giusto.
Neal ridacchiò. Elizabeth, accanto a loro, fissava i loro sguardi concentrati, i movimenti svelti di Moz e quelli lenti e impacciati di Neal, che doveva giocare con la sinistra. Finì per aiutarlo: Neal le diceva le coordinate e lei spostava i pezzi, paziente.
-Cavallo in H3- mormorò il ragazzo.
-Cavallo in H3- ripeté El, e mosse il pezzo.
-Scacco- mormorò Neal.
-Scacco- ripeté El.

Fu in quel momento –mentre Mozzie cercava una soluzione per salvare il suo re e El e Neal si guardavano, trionfanti- che entrò il medico: era un uomo basso e robusto, quasi calvo; reggeva una siringa e un batuffolo di cotone, ma ciò che preoccupò Neal furono le sue braccia possenti, dall’aria di poter spezzargli qualche osso in pochi secondi.
-Mi dispiace interrompervi, ma devo fare un prelievo al signor Caffrey- disse l’uomo con voce tonante e, nel contempo, gentile: -Accertamenti di routine, sapete… per l’anestesia di domani.

Nel sentire quella parola, sia il ragazzo che Mozzie sbiancarono.

-Non preoccuparti, Neal, andrà tutto bene!- lo incoraggiò Elizabeth, facendosi da parte per lasciar spazio al medico. L’uomo scoprì velocemente il braccio del paziente e, con gesti veloci ed esperti, legò il laccio emostatico per scoprire la vena. La trovò in pochi secondi, imbevette il cotone nell’alcool e lo passò sul punto in cui, subito dopo, introdusse l’ago. Il sangue entrò svelto nella siringa, colorando il tubicino di rosso. Neal distolse lo sguardo, puntandolo sui due visitatori, ormai lanciati in una conversazione riguardo le calorie contenute in un muffin ai mirtilli.
Quando il medico uscì, Neal aveva ancora i capogiri. Elizabeth gli si avvicinò, sorridente, e lui afferrò il suo braccio come se fosse un’ancora di salvezza.

-Tutto bene, Neal?- chiese lei, apprensiva.
-Io… sì, tutto bene.
Ripresero la partita a scacchi.


N.d.A.: grazie a tutti i recensori :)) Spero vi piaccia!

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Capitolo 11
*** Giorno 10° - Ansia prima, ansia dopo ***


Neal si sedette di scatto, affannato.
Non sapeva che ore fossero, né tantomeno il perché di quel risveglio. Sapeva solo che tremava, tremava troppo per essere coperto, che era ricoperto di sudore gelido e che aveva la nausea.
Frastornato, si guardò intorno cercando l’orologio. Lo trovò e lo afferrò con le dita tremanti: 8.07.
E poi, improvvisamente, il pensiero dell’operazione lo travolse come un fiume in piena, mozzandogli il respiro. Si sedette un po’ più dritto, cercando di calmarsi, ma senza risultato. Si guardò ancora intorno, mettendo a fuoco i dettagli ormai noti della stanza, cercando un volto amico nel corridoio, ma era solo.
E, per un momento, pensò di esserlo davvero.

 
 
Peter si svegliò tardi, quel giorno. L’ansia dell’operazione, l’ansia che qualcosa andasse storto, l’avevano tenuto sveglio fino a tardi. Quando si era addormentato, alle due e dieci, stremato, aveva dimenticato di inserire la sveglia al cellulare.
E così si risvegliò alle sette e trenta minuti, consapevole di essere in un ritardo pazzesco.
Balzò giù dal letto senza nemmeno riuscire a sbadigliare, entrò in bagno e in quindici minuti era già vestito. Corse giù per le scale, baciando velocemente la moglie e mormorando un “tesoro” affrettato, poi entrò in macchina.

 
 
-Neal! Neal, scusami… mi sono svegliato tardi, io… tutto bene, Neal?
Peter si fermò sulla soglia, affannato, in maniche di camicia. Neal era seduto a letto, dritto, rigido, pallido da far paura e con la bocca sigillata. Fissò Peter con sguardo triste, distante, confuso.
-Neal, che succede? Stai male?- si preoccupò subito l’uomo, avvicinandosi. Neal scosse la testa. –Cosa succede, allora? Eh?
Neal deglutì a vuoto, inspirando, poi mormorò:
-Mi sento… mi sento come se…- richiuse la bocca, facendo un cenno vago con la mano.
-Cosa, Neal? Ti senti come cosa?
Neal sembrò stizzito dal non capire di Peter.
-Mi sento come se… ho la nausea- spiegò, svelto.
-Oh… non preoccuparti, è solo un po’ d’ansia- provò a tranquillizzarlo l’amico, sedendosi sul bordo del letto: -E’ normale, sai?
Neal annuì.
 
Si sentiva male, malissimo.
Stanco, infinitamente stanco, e agitato. Aveva i brividi, la nausea, era coperto di sudore e, nel contempo, tremava dal freddo. Riusciva a stento a mettere a fuoco Peter, che gli stringeva una mano sulla spalla. Provò ancora a deglutire, ma questa volta non ci riuscì. Si girò da un lato, in preda ai conati di vomito.
 
Peter, nel vedere Neal sul punto di vomitare, fece un balzo indietro di dimensioni inaspettate. Aspettò che l’emergenza fosse finita –finì presto, in effetto, dato che Neal non mangiava da giorni e non riuscì a vomitare- e poi si avvicinò di nuovo all’amico, provando a calmarlo.
Non aveva mai visto Neal spaventato, non in quel modo: era una paura così ovvia, così normale, che lo sorprese sapere che anche il grande Neal Caffrey potesse provarla.
-Tranquillo, Neal, tranquillo…- ripeté, meccanicamente. Il ragazzo emise una specie di gemito, poi si sdraiò, respirando a bocca aperta e cercando di evitare i conati.
Restarono così per un po’, in silenzio.
Alle otto e quarantacinque entrarono due infermieri, un uomo e una donna: lui era alto, smilzo, vestito di celeste; lei era grassottella e indossava un camice bianco e guanti di lattice.
-Signor Caffrey, dobbiamo prepararla all’operazione- lo informò lei con tono gentile ma sbrigativo. Peter lanciò un’ultima occhiata al ragazzo e uscì, sorridendogli e scandendo un “andrà tutto bene” con le labbra. Neal annuì piano.

 
***
 
Peter non seppe dire con certezza quanto fosse durata l’operazione. Mentre aspettava, camminando avanti e indietro e cercando gli sguardi preoccupati di Elizabeth, June e Mozzie, l’intervento parve durare un’eternità; ma quando un chirurgo uscì, stanco, sembrò che Neal fosse appena entrato.
Peter si mosse senza nemmeno accorgersene; si avvicinò al chirurgo e, senza nemmeno pensarci, pose la fatidica domanda:
-Com’è andata, dottore?
Il medico si prese un po’ di tempo, come d’abitudine: fissò lo sguardo preoccupato dell’uomo, quello della moglie e degli altri visitatori; poi, un po’ troppo presto, un sorrisino timido gli spuntò sulle labbra:
-Tutto bene: l’intervento non ha avuto complicazioni e il signor Caffrey tornerà a muovere la mano.
Elizabeth sorrise, annuendo.
-Con calma, però… per ora probabilmente sentirà dolore, ovviamente- specificò il medico, cercando di sovrastare il chiacchiericcio che si era diffuso tra i quattro.

 
*** 

-Neal? Neal, come ti senti? Meglio?
 
Peter era di fronte a lui, apprensivo.
Neal lo notò appena, troppo impegnato a riprendersi dal torpore che lo avvolgeva. Era un torpore piacevole, in un certo senso, così piacevole da indurlo a tornare a dormire. Ma c’era qualcosa che lo disturbava.

-Neal? Mi senti?

Un dolore. Un dolore bruciante, forte, che partiva dalla mano ferita e che gli si irradiava per tutto il braccio, a fitte.
-La mano, Peter…- mormorò, confuso: -La mano, fa male.
Peter sembrò sollevato:
-La senti, Neal?- esclamò.

Neal ci mise un po’ a capire, poi finalmente ricordò. Sorrise debolmente, annuì e cercò di dire qualcos’altro, ma fu colto da un giramento di testa e dovette chiudere gli occhi, tremante.

-La… sento.

Peter prese posto accanto a lui con fare rassicurante. Era il suo compito, secondo Elizabeth: calma Neal, fagli capire che è tutto a posto, tranquillizzalo. Ci provò.
Sorrise ancora, con un fare che sperava fosse incoraggiante e non maniacale, poi scostò una ciocca di capelli dagli occhi del ragazzo; aveva la pelle fredda e appiccicosa, ma l’uomo non se ne curò più di tanto.

-Che… che ore sono?
-Le cinque.
-Io ho… ho dormito molto?
-No, non molto.
-Mi… mi dispiace, sei dovuto restare qui mentre…
-Neal, non dirlo nemmeno!

Era seduto, ora, ancora un po’ confuso e pallido, ma molto più tranquillo. Respirava piano, a fatica, ma dava già i primi segni di insofferenza verso la flebo e il respiratore artificiale, e questo tranquillizzò Peter.
-Vuoi… vuoi vedere una cosa?- chiese allora l’agente, fiero. Neal annuì, incuriosito dall’espressione dipinta sul volto dell’uomo.
-Si tratta di qualcosa riguardo la frode immobiliare?- provò a scherzare, sorridendo. Non era il suo solito sorriso, ma era comunque un inizio.
–Ho imparato un gioco di prestigio, che ne dici?

Peter tirò fuori un mazzo di carte e le dispose in fila, diritte.
-Pesca una carta- lo incitò, e Neal obbedì. Non prestò attenzione a come Peter la rimise nel mazzo dopo che lui l’ebbe guardata. Eppure, quando l’agente la ritirò fuori senza difficoltà, gli era già chiaro il trucco.
-E’ questa, giusto? Cinque di fiori!
Neal annuì, sorridendo:
-Sei proprio un mago…- mormorò.

Peter sembrò compiaciuto, e Neal decise di rimandare la sua spiegazione dettagliata riguardo al come posizionare meglio le carte per evitare che la vittima si accorga dello scherzo. Invece, continuò a sorridere per un po’. Aveva la nausea e i brividi, ma non aveva la forza di alzarsi per andare in bagno, così spero che gli passasse senza gravi conseguenze.
-Va un po’ meglio?- domandò Peter dopo un po’, osservandolo.
-Meglio cosa?
-La nausea. Dicono che venga sempre dopo un’operazione. Ce l’hai anche tu, no?
-Io…- deglutì a fatica: -Non molta, a dire la verità…
Doveva mantenere quel briciolo di dignità che gli era rimasta, Peter lo sapeva. Eppure non poté fare a meno di infierire su un Neal Caffrey molto malconcio:
-Quindi non stai per scattare giù dal letto, correre in bagno e vomitare anche l’anima, dico bene?
Neal scosse la testa.
-D’accordo.

Era un braccio di ferro, Neal ne era consapevole: Peter era seduto sul suo letto, di fronte a lui, le braccia conserte; aspettava che cedesse.
Non doveva cedere. Non doveva cedere. Non doveva…
Neal si mosse di scatto, sbiancando. Con dita tremanti e sudate si liberò dalle coperte e camminò, sbilenco,  fino al bagno.

-Strano a dirsi, vero? Perché mi sembra proprio che tu sia corso a vomitare…
Neal si rimise a letto, odiando l’anestesia e odiando Peter.


N.d.A.: grazie a tutti i recensori dei capitoli precedenti ^^
Spero che anche questo vi piaccia ;)

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Capitolo 12
*** Giorno 11° - Rimostranze per la mostra ***


-Alza un po’ la testa, così… sì, perfetto. Gira un po’… se premo qui senti dolore?
-Non molto.
-Ma lo senti?
-Poco.
-Lo senti. Mi sa che dovrai tenere i punti per qualche altro giorno, Neal.
-Oh…
-Passiamo alla mano.
 
Peter sorrise, osservando Neal cercare di giustificarsi e rendere tutto una sciocchezza: stava impazzando, in quell’ospedale, lo sapeva. Neal non era fatto per i luoghi chiusi, non per quelli così simili a una prigione.
Quando l’infermiera uscì, il ragazzo sembrava abbattuto come non mai.

-Tutto bene, Neal? Hai una faccia…
-Ancora tre giorni con questi maledetti punti!- sbottò subito, senza darsi la pena di salutarlo. Agitò freneticamente la mano sana, indicandosi tutte le piccole ferite che lo tenevano ancora inchiodato a letto.
-Neal, ti avevo già avvertito di…
-Pensavo scherzassi, invece!

Era nervoso. Poco male, Peter era abituato a tutto, ormai. Si sedette, tranquillo.
Neal sembrava stare meglio, fisicamente parlando. Aveva ancora la febbre, e il colorito del volto tendeva ancora verso il bianco, ma era più sveglio e riusciva a bere un paio di bicchieri d’acqua al giorno senza correre a vomitarli.

-Ho un regalo per te, sai?- lo rincuorò Peter, ignorando l’occhiataccia del ragazzo.
-Un regalo?
L’agente ridacchiò, poi tirò fuori qualcosa da una tasca interna: era un pezzetto di plastica celeste, a prima vista.
-E cosa sarebbe?
-Plastilina, quella che usano i bambini all’asilo. Hai presente, no?- spiegò Peter, porgendogliela.
Neal la prese, confuso:
-Cosa dovrei farci, scusa?
-Serve a muovere un po’ la mano ferita. Sai… ci giocherelli, la modelli…- continuò l’agente: -La usi come antistress, vista la tua faccia.

Il ragazzo annuì, piano. Provò a svolgere le bende dalla mano, lasciando solo quella che gli copriva la ferita dell’operazione, e la mosse.

Faceva dannatamente male.

Si bloccò subito, pallido. Cercò lo sguardo di Peter, che annuì incoraggiante. Lui, invece, scosse la testa:
-Non ce la faccio, fa male- mormorò, la voce strozzata.
-E’ normale, Neal, ma se non cominci farà sempre male.

Annuì.
Riprovò a distendere meglio le dita, piano. Cercò di ignorare il bruciore del taglio, il formicolio del sangue, le fitte al palmo, ma si fermò di nuovo. Respirò, lentamente, provò a calmarsi. Aspettò che il dolore si placasse e ricominciò.
Pochi, semplici movimenti che aveva sempre dato per scontati. Stendere le dita, fletterle, chiudere la mano a pugno e riaprirla. E poi di nuovo: stendi, fletti, chiudi, apri. Stendi, fletti, chiudi, apri; stendi, fletti, chiudi, apri, stendi.

-Fa ancora male?

Neal mosse il capo in un gesto vago, soddisfatto.

-Per oggi basta, però- lo ammonì Peter, porgendogli la fasciatura. Neal allungò la mano e l’uomo gli riavvolse le bende, fermandogliele con il cerotto all’estremità.
-E la plastilina?
-Domani, dopodomani… hai un sacco di tempo, no?
-Non sei molto incoraggiante, così…
-Può darsi, può darsi…
Peter sorrise ancora, nel vedere il broncio dell’amico.
-Sembra quasi che tu ti diverta…- si lamentò l’altro, sospirando.
Peter cercò di restare serio:
-No, Neal, affatto… è solo che la tua faccia è così…
-Così?
-Eloquente…
-Eloquente?

Si fissarono per qualche secondo, poi Neal distolse lo sguardo. Cercò la sua espressione più innocente e tornò a fissare l’altro:
-Posso… posso chiederti una cosa, Peter?- mormorò con un fil di voce.
-Certamente! Tutto quello che vuoi.
-Proprio tutto tutto?- incalzò l’altro.
Peter fece una smorfia:
-Vediamo quel che si può fare…
-Io, ecco, io avrei una richiesta.
-Dimmi!

Neal si prese ancora un po’ di tempo, giocherellando con il bordo del lenzuolo. Raccolse tutto il suo coraggio e sfoderò uno dei suoi sorrisi che tanto facevano innervosire l’agente:

-Mercoledì c’è una mostra d’arte, io volevo…
-…volevi?
-Ecco, volevo vederla.
Seguì un attimo di silenzio.
-Peccato che sei ricoverato con ancora dieci giorni di prognosi- rispose infine Peter, cercando di chiudere il discorso.
-Ma non è questo il punto!- protestò l’altro, seccato: -Non è che potresti farmi, non so, un permesso?
-Non sono un medico, Neal, sono il responsabile della tua libertà vigilata. E non sono tuo padre, né tua madre, né tantomeno te stesso, quindi non sta a me decidere quando farti uscire.
-Ma io…
-Non fare il bambino, Neal! Guardati! Ti sei visto a uno specchio, di recente? Nessuno ti farebbe uscire da qui!
-Incoraggiante, Peter…
-Ma è la verità!

Neal sbuffò, irritato. Sembrava che nessuno riuscisse davvero a capire quanto fosse tremendo restare in quella stanza, sempre, ventiquattr’ore al giorno, solo.

-Grazie tante- concluse, distogliendo lo sguardo dall’agente e fissando intensamente la flebo nel suo braccio.
-Neal, sai che…
-Certo, Peter: lo fai per il mio bene, lo so.
-Non volevo dire questo, che comunque sarebbe vero. Volevo solo dirti che domani verranno Jones e Diana.
Neal interruppe per un secondo la sua protesta silenziosa, lasciando lo spazio alla sorpresa:
-Jones e Diana? Oh, Peter, sto davvero per morire?

Peter si mordicchiò il labbro, reprimendo la voglia di diagnosticargli una morte precoce giusto per vedere la sua reazione, poi rispose:

-Devono interrogarti. Sul rapimento, sai… io non posso farlo, perché sono troppo coinvolto, secondo Huges, ma loro no… quindi verranno qui.
-E cosa dovrei dire, scusa?

D’improvviso, Neal sentiva molto caldo.

-La verità.
-Quella che non ti ho mai raccontato?
-Non ti ho mai chiesto di farlo. A me interessa solo che tu stia bene, il resto può aspettare.
-Non per tutti, a quanto pare…
-Hai ragione. Domani dirai la verità a Diana, senza svicolare e senza sorridere.
Neal sembrò alterato per quell’ammonimento più che per tutto il resto:
-Senza sorridere, e perché?
-Perché quando sorridi in quel modo stai nascondendo qualcosa… ecco, vedi? Lo stai facendo di nuovo!
-E’ per la mostra, sai…
-Mostra che vedrai per fotografia!
-Ma io voglio vederla dal vivo!
-Se vai a quella mostra, i quadri saranno davvero più vivi di te!
La battuta poco felice dell’agente chiuse la discussione. Neal tornò a chiudersi in uno dei suoi silenzi offesi, aggiungendo solo uno smorzato:
-Preferirei morire lì, piuttosto che restare qui dentro con un ago nel braccio.
Ma anche quello, si disse Peter, era dettato solo dal suo spirito poco incline al restare fermo.

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Capitolo 13
*** Giorno 12° - L'interrogatorio ***


-Signor Caffrey, ci sono due agenti che chiedono di lei.
-Falli entrare, grazie.
                                         
Quando Jones e Diana entrarono, alle dieci di quel mattino soleggiato, Neal era seduto a letto, composto e impeccabile come sempre. Recava i segni inequivocabili di chi è stato malato a lungo e ancora lo è, ma nel complesso sembrava stare abbastanza bene. O almeno, questo fu quello che parve a Diana quando si avvicinò al ragazzo che tanto spesso l’aveva importunata, all’inizio della loro collaborazione.

-Caffrey, buongiorno- salutò, col tono che gli riservava sempre: un esatto equilibrio tra il distacco e l’ironia.
-Diana! Jones! Che piacere!- esclamò invece l’altro, quasi contento di vedere un volto “nuovo”.
-Non posso dire altrettanto, in tutta sincerità, ma poteva comunque andarmi peggio- commentò Jones, avanzando verso il letto e restando in piedi, indeciso sul da farsi.

Neal si trovò a disagio, nel vederli entrambi in piedi, come se stessero vegliando su di lui mentre passava a miglior vita, così fece un cenno con la mano:
-Sedetevi, eh.
-Dove?
-Non so… sul mio letto, anche- li incoraggiò il ragazzo, puntellandosi sui gomiti.
-Preferisco restare in piedi, grazie.
-Come vuoi.

I due si scambiarono un’ultima occhiata, poi Diana prese la parola:
-Tu sai perché siamo qui, vero?
-Sì.
-Quindi sai anche che dovrai risponderci sinceramente, vero?- aggiunse Jones, alzando gli occhi al cielo come se quella pantomima fosse qualcosa di inutile.
-Certo.
-Allora cominciamo.

Fu Diana la prima a fare le domande. Mentre Jones armeggiava con un registratore, prendeva appunti e segnava le parti più importanti, la ragazza parlava con Neal:

-Caffrey, avremmo voluto usare il poligrafo, a dire il vero, ma i medici ce l’hanno impedito. Quindi ti conviene parlare, e farlo sinceramente, chiaro?- si sentì in dovere di dire, alla fine.
Neal annuì ancora, teso.
-Tu sei Neal George Caffrey, partecipante al programma di reintegrazione detenuti, sotto la custodia dell’agente speciale Peter Burke?- domandò la ragazza, prendendo fiato alla fine della frase.
Neal sembrò stupito:
-Ci conosciamo da anni, ormai! Sai che sono io.
-E’ la procedura, Caffrey. Jones, segna che ha risposto correttamente, per favore.

Dalla sua sediolina –recuperata sul fondo della stanza- Jones cancellò freneticamente qualcosa.
-Sei stato rapito lunedì 15 Novembre?
-Sì, io… sono stato rapito.
-Quanti erano gli uomini?
-Non lo so.

Diana alzò gli occhi al cielo:
-Quanti ne hai visti?

Neal ci pensò: c’era il capo, ovviamente, se lo ricordava, era un uomo basso e tarchiato; poi c’erano i due sicari, le sue guardie del corpo; e i due che controllavano lui, l’ostaggio.

-Cinque- disse, infine.
Jones segnò la risposta.
-Potresti descriverceli?
Neal annuì, confuso:
-Non tutti, però… io preferirei disegnarli, ma non posso.
-Ci penserà il computer a farlo, non preoccuparti.

Li descrisse, angosciato. Rivederli nella sua mente, ripensare a quell’anello grosso che, una volta, gli aveva urtato la tempia ferendolo, o a quelle mani sporche che gli reggevano la bottiglia mentre beveva, le mani legate, fu peggio di quanto pensasse. Terminò e poi stette in silenzio, aspettando la domanda successiva, ma quella non arrivò:
-Abbiamo… abbiamo finito?- chiese, speranzoso.
Diana si riscosse:
-No, Neal… è che… lascia stare: Neal , la domanda che ti farò ora non sarà piacevole, ma devi rispondere, d’accordo?- sussurrò la ragazza, fissando preoccupata il volto dell’altro.
Neal annuì ancora.
-Cosa… cosa è successo mentre eri lì? Cosa ti hanno fatto?

Il ragazzo impallidì. Diana si fece forza, sospirando, e rivolse lo sguardo a Jones, che aspettava con la penna a mezz’aria.

-Io…- Neal borbottò qualcosa, scuotendo la testa.
-Cosa, Neal?
-Non voglio… non voglio raccontarlo.
Diana si voltò a guardarlo:
-Sapevo che sarebbe stato difficile, Neal, ma devi farlo. Altrimenti se riusciremo a prendere quei criminali, non avremo la testimonianza di cosa ti hanno fatto, no?

Neal sapeva che, alla fine, avrebbe dovuto parlare. Eppure si sentiva un groppo in gola che gli impediva di articolare suoni, quindi aspettò ancora un po’. Fissò il muro davanti a lui, richiamando alla mente immagini che, nei giorni precedenti, aveva fatto di tutto per cancellare.
-Io… loro mi hanno picchiato. Prima mi legarono a un palo con delle corde, e poi mi picchiavano- parlava in maniera confusa, come se stesse semplicemente descrivendo le immagini che gli passavano per la testa: -Erano in due, loro… loro non so che volevano.
-Potevano semplicemente volerti punire per averli traditi? Dopotutto avevano appena scoperto che eri sotto copertura, no?
Neal soppesò la questione e annuì:
-Potevano.

Diana aspettò che il collega avesse terminato di scrivere, poi riprese:
-Non ti hanno fatto nessuna richiesta, mentre eri lì?- chiese, leggendo le altre domande della lista che Peter le aveva preparato: lo seccava molto non essere lì, così aveva fatto in modo di esserci comunque, anche se non di persona.
-Loro… no, non mi pare. Solo che… loro mi hanno detto che mi avrebbero ucciso comunque.
-In che senso?
-Non lo so, ma me lo ripetevano sempre.

Jones si mosse sulla sedia.
Diana, invece, restò immobile:
-Hai paura che possano riprovarci?- chiese, sorpresa dalla serietà dello sguardo di Caffrey.
-Non ci avevo pensato, fino ad ora… ma forse potrebbero farlo- mormorò Neal in risposta, ma l’agente scosse la testa:
-Stai sviando la domanda principale: hai paura?

Neal restò in silenzio.

N.d.A.: non c'è Peter, non c'è Sara, non c'è Moz... lo so, ma prima o poi volevo inserire anche loro e l'ho fatto >.< Spero che non ve la prendiate troppo U.U

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Capitolo 14
*** Giorno 13° - Incidenti di percorso ***


Peter arrivò presto, il giorno dopo. La camera di Neal era ancora nella penombra dell’alba, ma il ragazzo era già sveglio:
-Buongiorno, Neal- salutò l’agente, entrando.
-Ciao, Peter- rispose l’altro, ancora assonnato.
-Come ti senti?
-Meglio, grazie… ieri sera ho provato a modellare la plastilina, sai?
Peter si mostrò più entusiasta del dovuto:
-Bene! Fai vedere!
Neal, attento all’ago ancora infilato nel suo braccio, si girò verso il comodino e prese il pezzetto di gomma celeste che aveva lavorato tutta la notte.
-E’ il tuo distintivo, o almeno dovrebbe.

Peter prese in mano la “scultura” del ragazzo, osservandola: non era nemmeno lontanamente precisa come quella che avrebbe potuto riprodurre con la mano sana, ma era comunque più di quanto lui, Peter, avrebbe mai potuto sperare di saper fare.

-Perché avresti riprodotto il mio distintivo?- domandò alla fine, poggiando la riproduzione sul comodino.
-Oh, non so… mi hai regalato tu la plastilina, così ho pensato a te quando dovevo decidere cosa fare.
-E il distintivo è la prima cosa che ti è venuta in mente?
-Cos’altro avrei dovuto fare, scusa?
Peter rise nel vedere l’espressione incuriosita dell’altro:
-Il mio ufficio, magari… o una mia statua, tipo quelle dei campioni olimpici che…
Neal scosse la testa, scacciando l’immagine di un Peter semivestito che lancia un giavellotto.
-No, non credo sarebbe stata una buona idea- mormorò, ristendendosi.

Peter finì di ridere e si sedette al suo fianco:
-Com’è andato ieri l’interrogatorio?- chiese, sulle spine.
-Perché me lo chiedi? Diana non ti ha detto nulla?
-Sì che mi ha parlato, Neal… ma voglio sentirlo da te- rispose Peter, fissandolo: -Com’è andata?
-Io… sono stato sincero, Peter, te lo giuro- farfugliò il ragazzo, ferito da quanto l’amico fosse sospettoso.
-Ti credo, Neal, non è questo che voglio chiederti- si affrettò a riparare l’altro, poi continuò: -E’ stato difficile parlarne?
-Non molto.
-Ma lo è stato.
-Un po’.
-Lo è stato.
Quella conversazione ne risvegliò un'altra, sommersa nella memoria di Neal.
-Devo smetterla di minimizzare le cose, tanto voi volete che la faccia tragica- mormorò, più a se stesso che a Peter.
-Cosa?
-Niente…

Peter si dimenò sul letto, inquieto.
-Neal… io ho letto il rapporto del tuo interrogatorio, stamattina- disse, fissando un punto imprecisato del muro: -Devo chiedertelo: vuoi che metta degli agenti a sorvegliare la stanza?
Neal sgranò gli occhi, ridacchiando:
-Per… per me? Per… proteggermi, Pete?- chiese.
-Certo che sì! E non chiamarmi Pete, Neal!- rispose l’altro, risentito: -Diana ha scritto che, parlando delle minacce, mostravi segni d’ansia, così…
-Certo che li mostravo, ma davvero non c’è bisogno di…
Peter fece una smorfia:
-Sapevo che sarebbe andata così, dopotutto- confessò, e l’amico sorrise:
-Allora perché l’hai chiesto?
-Mai dire mai, no? E comunque se cambiassi idea…
-Testardo, come sempre- lo interruppe il ragazzo, fissandolo.

 
***
 
-Buongiorno, Caffrey. Come va oggi?
L’infermiere –un uomo corpulento dai capelli brizzolati- interruppe sul più bello un monologo di Peter riguardo il baseball: l’altro ragazzo lo fissava, semplicemente, con aria assente e annoiata.
-Meglio, grazie. Sei nuovo?- chiese lui, sporgendosi per osservare l’addetto che, con l’aria annoiata di chi compie sempre gli stessi gesti, stava inserendo una nuova fiala nella flebo del paziente.
Peter si ritirò in un angolo, in disparte.
Quando l’uomo uscì, Neal si sistemò meglio sui cuscini, dritto, e lo fissò:
-Allora, a che eravamo?
Peter tornò accanto all’amico:
-Oh, beh, come ti dicevo…
-Non potremmo cambiare argomento, Peter?- lo implorò Neal, sbadigliando.
Peter si guardò intorno, in cerca di ispirazione, ma quando tornò a posare lo sguardo su Neal lo trovò semiaddormentato e con lo sguardo vacuo.
-Tutto bene, Neal?- gli domandò, incerto.

Il ragazzo scosse la testa per snebbiarsi la vista appannata:
-S-sì, Peter… è solo… solo un giramento di testa, credo- si giustificò, mettendosi nuovamente seduto: -Sono stanco.
-Stanco? È presto, no?
Neal annuì, lentamente. Si sentiva strano, oppresso, rallentato.
-Neal?
La voce di Peter gli sembrava lontana.
-Neal? Neal, tutto bene?
-Io credo di no, io… mi gira la testa…- biascicò il ragazzo, nel panico.

Quando tutto si fece buio, Peter era già corso a chiamare aiuto.

 
 

È stata inserita una dose doppia di medicinale nella flebo.
Non sappiamo come sia possibile, è stato un incidente…
Non rischia niente, ma dovrà stare a riposo per un po’.
Ora dorme, ma potete entrare a salutarlo.
Neal? Neal, tesoro, come stai?
Credi davvero sia stato un errore, Peter?
No, Sara, non credo.
Io non ne sarei così sicuro, sai? Gli incidenti ospedalieri sono cresciuti del…
Zitto, Mozzie!
 
Neal sbadigliò, stanco. Aprendo gli occhi, si rese conto di avere ancora la vista appannata, così li richiuse in attesa che tutto si sistemasse.
-Neal? Neal, come ti senti?
Era la voce di Sara.
Il ragazzo tentò di dire qualcosa, ma non riuscì ad emettere più di un sibilo, così annuì, piano. Riaprì gli occhi: davanti a lui c’erano tante persone, ma non tutte erano messe a fuoco; di sicuro quello in prima fila era Mozzie, pensò, e riusciva a vedere Sara, ma già Peter gli appariva sdoppiato e, in ultima fila, non distingueva chi fossero le tre figure. O erano quattro?
-Sara- riuscì a biascicare, un sapore amaro in bocca.
-Neal… come stai?
Alzò una mano, quella libera dalle flebo, e sentì le bende premere contro polso e dita; gli faceva male, ma la sentiva ancora.
-Tutto bene- fu l’unica cosa che gli venne in mente, anche se, con quel saporaccio tra le labbra e la testa pesante, non era totalmente vero.
Per qualche strana ragione, la donna rise, e con lei Peter.
-Bene?- ripetè la voce dell’agente, scherzosa: -Se lo dici tu…

C’era rumore, pensò Neal. Troppo rumore: voci, risate, respiri… la testa gli faceva male, ora, e tutta quella gente non aiutava. Pensò di dirlo a Peter, o a Sara, ma la voce sembrava nuovamente sparita, così si limitò a lanciare un’occhiata disperata in direzione di Mozzie, che capì al volo.
-Credo che Neal abbia bisogno di dormire, ora- urlò a pieni polmoni, la voce squillante che sovrastò il chiacchierio: -Ha appena terminato di smaltire due fiale di chissà che schifezza sintetica, quindi…

Peter si dette da fare per scortare fuori quella che, ora Neal riusciva a capire, era June; Diana e Jones tornarono al Bureau poco dopo ed Elizabeth, che Neal avrebbe voluto che restasse, corse ad un appuntamento con un ricco uomo d’affari alle prese con il compleanno di tre gemelli neodiciottenni. Alla fine, solo Sara e Mozzie restarono accanto a lui, entrambi impegnati a cercare di evitarsi.

-Che è successo?- chiese allora Neal,  cercando di sviare l’imbarazzo.
-L’infermiere ha sbagliato dose- gli spiegò gentilmente Sara, fissando di sbieco Mozzie: -Loro… loro dicono che si sia trattato solo di un incidente.
Il ragazzo annuì, gli occhi chiusi.
-Come ti senti?- ripetè lei, accarezzandogli i capelli.
-Non lo so… io credo di non sentirmi molto bene, ma non capisco perché- sussurrò lui, giocherellando con le lenzuola.
Sara sospirò:
-Non hai una bella faccia, sai?
-Non fate altro che ripetermi questa cosa- si lamentò lui, ma la sua voce tradiva una certa preoccupazione: -Sono davvero così… brutto?
Sara rise:
-Non brutto, Neal… sei solo tramortito.
-Tramortito?
-Sì… hai presente la faccia che avresti se ti avessi dato il manganello in testa? Ecco, più o meno così.
Neal cercò di figurarsi quell’immagine, ma non ci riuscì, così decise di cambiare argomento:
-Oggi c’era una mostra d’arte- borbottò.

Mozzie sembrò ridestarsi dalla trance in cui era caduto osservando la flebo:
-Una mostra sublime, sai? Credo che stasera…- cominciò, ma il ragazzo lo interruppe:
-Se hai intenzione di andare a vederla, non dirmelo, per favore- lo supplicò.
Sara sorrise:
-Avevi dei biglietti?- gli chiese, e il ragazzo annuì:
-Li avevo da mesi!- protestò ancora, adirato: -Io volevo… volevo portare anche te- terminò, la voce flebile.
Sara annuì, cercando di trovare una soluzione:
-Per quanti giorni ci sarà la mostra?
-Oggi e domani. Punto, stop, basta! Capisci?
-Sei ancora troppo debole, Neal, lo sai: Peter non ti permetterebbe mai di…
Neal la interruppe con un’occhiataccia, ma l’effetto fu guastato dal brivido che ebbe poco dopo e che, quasi a volergli fare un dispetto, confermò la tesi di tutti.
-Almeno vacci tu- si arrese lui con una smorfia: -Sai, ho comunque i biglietti, no?
Sara scosse la testa:
-No, Neal! Non voglio andarci da sola- rise, guardandolo tranquilla.
Neal fece spallucce, scosso da un altro brivido:
-Sicura?- mormorò.
-Sicura. Perché non li dai a Peter?

Il ragazzo annuì ancora, sospirando: Peter non avrebbe apprezzato quanto loro tre nella stanza:
-Grazie- aggiunse, lieto di non dover passare la serata a immaginarsi Moz e Sara alla mostra dove anche lui sarebbe dovuto essere.
-Di che?

 

 
Sara andò via dieci minuti più tardi, stanca. Mozzie restò altra mezz’ora a far compagnia a Neal, poi scappò via perché “doveva preparasi per andare a prendere June”.
Neal lo guardò allontanarsi, un po’ depresso, poi prese a modellare di nuovo la plastilina. Mentre si svolgeva le bende, però, squillò il cellulare: era Peter.
-Pronto?
-Neal! Come va?
Dai rumori in sottofondo, sembrava che l’uomo fosse in mezzo al traffico.
-Sara è andata a casa, Mozzie è andato a casa mia a prendere June per portarla alla mia mostra d’arte e io sono qui. Come credi che vada?
-Lo so, Neal. Prenditela con l’infermiere, non con me!- provò Peter, ma l’altro scosse il capo:
-Non mi avresti mandato nemmeno prima, lo so- replicò, funereo.
Peter sospirò:
-D’accordo, hai ragione. Senti, Neal… riguardo l’incidente del medicinale, insomma, dovrei parlarti.
Neal restò in silenzio, aspettando il resto.
-Sai… noi crediamo che…
-Non sia stato un incidente?- completò il ragazzo per lui.
-Sì, è così.
-Lo immaginavo.
-Ci hai sentiti parlare.
-Dormivo, non ero in coma.
-Giusto. La prossima volta ci allontaneremo.
Sorrise.
-Passi domani?
-Credo di sì.
-Senti… potresti portarmi una cosa?
Peter annuì, poi si rese conto che Neal non poteva vederlo, così rispose:
-Certo.
-Potresti portarmi un foglio e una penna. Io voglio provare… a scrivere.
-Perfetto, Neal. A domani!


N.d.A.: in ritardo, troppo lungo, logorrico... ma è qui U.U

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Capitolo 15
*** Nomi e brutte grafie ***


N.d.A.: okay, sarebbe meglio cominciare con... non lo so nemmeno io. So che ho abbandonato questa storia un anno fa (nonostante avessi altri capitoli già scritti, come questo) e che, per non so quale ispirazione divina, l'ho ripresa. Non ho cambiato nulla dei capitoli precedenti, né tantomeno lo farò con quelli inediti già scritti, perché credo che il mio stile sia un po' cambiato e non voglio creare salti nella storia.
Comunque, credo che ormai voi tutti lettori siate andati (a comprare qualcosa di terribilmente duro da darmi in testa) e vi capisco.
Casomai qualcuno sia ancora disposto a leggere *balle di fieno*, sono qui >.<


-Un cerchietto, una codina… un cerchietto, una codina… così, perfetto.

-So come si scrive, Peter!

Neal staccò gli occhi dal foglio, seccato: erano dieci minuti che Peter continuava a dettargli le istruzioni per scrivere una semplice “a” in corsivo.

-Scusa, hai ragione- si arrese l’agente, osservando i segni sbilenchi tracciati sul foglio dal ragazzo.

-Come ti sembrano?- gli domandò lui, capovolgendo il foglio, poco convinto.

-Oh, beh… io credo che siano…

-Fanno schifo, dillo.

Neal non era fatto per avere pazienza, Peter lo sapeva. Ma Neal era anche il miglior bugiardo che avesse mai conosciuto, e con lui, strano a dirsi, si doveva per forza dire la verità.

-Non fanno schifo, Neal, ma non sono perfette- ammise, fissando una “a” particolarmente strana: -Ma stai scrivendo solo da dieci minuti, con una mano che non usi da giorni e che avresti potuto perdere, quindi non mi sembra poi così male, no?

Il ragazzo sospirò e annuì, stanco.

-Riposa un po’ la mano, adesso- gli suggerì l’agente, e lui obbedì:

-Cosa volevi dirmi riguardo l’incidente? Hai detto che probabilmente non è stato proprio… un incidente, no?

Peter sospirò, teso: aveva davvero sperato che Neal si fosse dimenticato di quella telefonata, ma naturalmente non era andata così.

-Noi crediamo che abbiano provato a… insomma, a ucciderti- gli disse, guardando altrove.

-Ne siete sicuri?- sospirò il ragazzo, fissandolo.

-No, Neal. Jones e Diana stanno cercando l’infermiere, ma purtroppo non riusciamo a trovarlo, e quindi siamo quasi sicuri che sia così. Ma non è detto- aggiunse, forse sperando di tranquillizzarlo.

Neal annuì, piano:

-Ho capito- mormorò. Sembrava preoccupato, ma non quanto Peter si sarebbe aspettato.

L’agente aspettò che il ragazzo digerisse l’informazione, poi cercò di distrarlo:

-Allora… com’è andata ieri la mostra?- chiese, ridacchiando: -Mozzie ti ha portato qualche cartolina?

Neal gli lanciò un’occhiataccia:

-O magari un quadro- rispose, stizzito.

-Un… non dici sul serio- replicò allora l’agente, ma non sembrava del tutto convinto.

-Non puoi saperlo- continuò Neal, l’ombra di un sorriso.

-Oh, beh… avremmo avuto una segnalazione…

Neal scoppiò a ridere:

-Per un momento però ci hai creduto- affermò, sicuro.

-Un momento, sì- rispose l’altro, e Neal non capì se lo avesse fatto giusto per dargli la soddisfazione.


 
Alle dieci in punto entrò il medico per visitare Neal.

Peter, come sempre, si ritirò in un angolo e attese che l’uomo controllasse bene il ragazzo: pressione, temperatura, battito, ferite varie. Dopo un quarto d’ora il medico scrisse qualcosa sul taccuino, salutò educatamente e uscì, chiudendosi la porta alle spalle.

-Che dice?- domandò Peter, riavvicinandosi. Neal si rinfilò la maglietta slabbrata del pigiama e rispose:

-Niente, come sempre. È muto, quel medico, saluta e sta zitto.

Peter sorrise:
-Se fosse qualcosa di brutto parlerebbe, però- lo incoraggiò, fissando le goccioline che scendevano lente nella flebo.

-Che c’è, hai fatto un corso di buon senso, mentre ero qui?

-Colpa di Elizabeth- confessò Peter, alzando le spalle: -Troppo ottimista, eh?

-Meglio tu che Moz… non fa altro che controllare le fialette che i medici mi iniettano quando sono in sua presenza- sbottò Neal, stanco. Restò qualche secondo in silenzio, perso nei suoi pensieri, poi si riscosse: -Secondo te posso scrivere un altro po’?- chiese.

Peter soppesò l’ipotesi, unendola alle condizioni di Neal ma anche al suo umore.

-Sì- annuì, alla fine: -Credo che tu possa scrivere ancora un po’. Che ne dici di provare con il tuo nome?- suggerì, riprendendogli il quaderno dal comodino. Gli porse la penna e lo aiutò a slegare le bende bianche.

Neal ricominciò con caparbia: tracciò una “N” con le dita tremanti, quasi la penna fosse troppo pesante da reggere. La “e” fu un po’ più facile, ma arrivato alla “a” la mano gli scivolò sul foglio e tracciò una linea obliqua che macchiò la pagina.
Peter recuperò la penna, finita sotto il letto, e lo fissò: il ragazzo sembrava arrabbiato e, nel contempo, quasi deluso. Sbuffò rumorosamente, una strana espressione dipinta in volto, e mormorò:

-Basta, Peter. Non voglio più scrivere.

La voce gli tremava.

Peter capì di essere in zona pericolo: non sapeva se Neal sarebbe scoppiato in lacrime –cosa alquanto improbabile, per fortuna-, o avrebbe sferrato un pugno all’oggetto più vicino –che, purtroppo, era lui-, così pensò di porre rimedio.

-Aspetta, Neal, ti aiuto io- propose, aiutandolo a impugnare bene la penna.

Prese un vassoio vuoto e lo poggiò sulle ginocchia dell’amico, a mo’ di tavolino; poi vi mise sopra il quaderno e si avvicinò a Neal, prendendogli la mano.

Neal fece una smorfia:
-Vuoi baciarmi, Peter?- replicò, ancora seccato.

Peter rise, poi prese a guidare la mano di Neal sul foglio, tracciando segni sbilenchi, ma più precisi.

-Non voglio usare la tua scrittura, Peter- si lamentò l’altro, palesemente soddisfatto dell’essere riuscito a scrivere “Neal” in maniera leggibile.

-Sssh! Ringraziami!- ribattè l’agente, scherzoso. Gli guidò ancora la mano, tracciando una “P”, ma il ragazzo si bloccò:

-Non potremmo scrivere “Sara”?- domandò.

-Certo che possiamo- rispose l’altro, sorridendogli.

Scrissero il nome della donna, poi Peter si offrì di guidarlo in un ritratto di loro due insieme.

-Peter, senza offesa, ma non credo si possa fare- lo congelò Neal, un po’ più allegro: -Tu… insomma, tu non sei molto… bravo- concluse in un soffio.

Peter ridacchiò:
-Hai ragione- ammise, poi ammirò il lavoro fatto: -Non sono venute tanto male, no?

Neal lo guardò a sua volta:
-No, non credo.

Peter lo guardò, soddisfatto.
 

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Capitolo 16
*** Cappelli ***


Quando Neal si svegliò, quel giorno, aveva la sensazione di essere osservato.

Si alzò di scatto, ignorando i giramenti di testa e il tubicino della flebo che gli tirava il braccio verso il basso, e si sporse oltre il letto: fuori alla porta c’erano due uomini alti e ben piazzati che lo fissavano.

Il suo stomaco ebbe un fremito, facendogli perdere quel po’ di colorito che stava faticosamente riacquistando. Sussultò e, come per un riflesso incondizionato, afferrò il cellulare con la mano sana e compose il numero di Peter. L’uomo rispose al terzo squillo, placidamente:

-Buongiorno, Neal! Già sveglio?

-Ci sono due uomini fuori camera mia, Peter!- bisbigliò il ragazzo, angosciato, lanciando occhiate per controllare che fossero ancora lì: c’erano.

-Neal, io…- cominciò Peter, ma il ragazzo lo interruppe:

-Alti, muscolosi, due brutti energumeni- descrisse, lanciato.

All’altro capo del telefono, Peter provò di nuovo a dire qualcosa, ma Neal lo fermò:

-Credo che siano loro, forse sono venuti per…

-Loro sono due agenti, Neal- riuscì finalmente a dire Peter, ridacchiando: -Dopo l’episodio dell’altro giorno, credevi che ti avremmo lasciato così, senza protezione?

Neal si sentì ferito nell’orgoglio:

-Due… due agenti?- ripetè, attonito.

-Sì, signor mi-stanno-per-uccidere, due agenti dell’FBI!

-Capisco- commentò l’altro, gelido: -La prossima volta sei pregato di avvisarmi, però: mi stavi facendo venire un colpo!- si lamentò alla fine, piagnucolando come un bambino.

Fu proprio allora che entrò Sara.
 

 
La donna avanzò lenta nella stanza, fissando con sguardo sbieco il ragazzo che, seduto nel letto e con l’aria ancora assonnata, si lamentava per telefono.

-Neal, tutto bene?- sussurrò, poggiandogli una mano sulla spalla.

Il ragazzo sobbalzò, balbettò qualcosa al cellulare e riagganciò, stiracchiandosi:

-Ciao, Sara- mormorò, la voce impastata: -Scusa, è che Peter ha messo due agenti per controllarmi senza dirmelo, e stamattina li ho visti e…- concluse, facendo un vago gesto con la mano.

Lei sorrise e lo interruppe con voce allegra:

-Però ho una sorpresa per te- lo informò, allungandogli una busta di plastica beige.

Neal sorrise debolmente:

-Che… che cos’è?

-Aprilo!- lo incitò lei, e il ragazzo obbedì.

La busta conteneva un pacco regalo: tastandolo, Neal capì che si trattava di una scatola. Squarciò con delicatezza la carta giallina e aprì la scatola grigia: dentro c’era un cappello nero, semplice, con un nastro blu scuro. Sorrise:

-Grazie, Sara!

Senza un minimo di esitazione, se lo calcò sulla testa, compiaciuto:

-Come mi sta?- chiese, e la donna rise:

-Se ti dicessi che ti sta male, cosa faresti?

Neal rise a sua volta, sprezzante:

-Non può starmi male, è impossibile!- esclamò, l’aria sicura. Sara gli resse il gioco per un po’, annuendo compiaciuta, poi gli sfilò il cappello dalla testa e lo ripose nella scatola:

-Questo lo metti la sera in cui uscirai da qui, d’accordo?- gli disse, aiutandolo a sedersi meglio.

Neal aspettò di essersi sistemato ben bene, la schiena poggiata a due cuscini rialzati e la mano ferita sul lenzuolo, poi sussurrò:

-Perché? Che dobbiamo fare la prima sera?

Sara gli sorrise di nuovo, questa volta in maniera diversa:

-Sorpresa- mormorò, accarezzandogli i capelli arruffati. Neal chiuse gli occhi, sereno, e sospirò.

Restarono così per alcuni secondi, poi Neal riaprì gli occhi e le disse:

-Devo farti vedere una cosa.

Sara lo fissò, incuriosita, mentre si chinava cercando di non aggrovigliare il filo della flebo. Alla fine si arrese e la donna si offrì di prendere la cosa al suo posto.

-E’ nella valigia, sotto il letto- la guidò Neal: -E’… è un foglio, ma non aprirlo- continuò, palesemente eccitato.

Sara obbedì, chinandosi. Riemerse con il foglio, un po’ spiegazzato, e lo porse al ragazzo:

-Tieni… dai, che c’è dentro?

Neal cercò di tenere bene il foglio, ma le bende gli tiravano da tutti i lati, così si arrese e lo riconsegnò alla destinataria, sbuffando.

-Paziente, Neal- lo ammonì lei, prendendogli la mano: -La muovi benissimo per farlo solo da un paio di giorni.

Neal roteò gli occhi, sbuffando ancora:

-Certo, come no…- mormorò, stanco.

Sara lo osservò lottare per tenere gli occhi aperti, mentre soffocava uno sbadiglio:

-Sei stanco, Neal?- gli chiese, ma lui scosse la testa:

-Sono… sono quelle medicine, sai… quelle della flebo- provò a giustificarsi.

-Non c’è problema, Neal, se vuoi dormire…

-Non voglio dormire…

-Ma se vuoi…

-Non voglio!- esplose alla fine, urlando.

Sara sobbalzò e sgranò gli occhi, colpita:

-Scusa, Neal… io… io non volevo farti arrabbiare- commentò, fissandolo.

Neal scosse la testa:

-No, scusa tu… è che non ce la faccio più, chiuso qui dentro, con i medici, la flebo, la mano che trema e…- concluse, la voce un po’ stridula. Sara sorrise,
paziente:

-Non pensarci, mancano pochi giorni- lo incoraggiò, poi si concentrò sul foglio: -Posso?- chiese, cauta.

Neal annuì, così lei aprì il foglio: la scritta “Neal Sara” troneggiava al centro, scritta in lettere sbilenche, contornata da varie macchie di inchiostro.

-L’hai… l’hai scritta tu?

Neal sorrise compiaciuto:

-Mi ha… aiutato Peter, ma l’ho fatto io- le rispose, annuendo.

-Vedi che la mano la usi!

Il sorriso del ragazzo si affievolì un pochino, ma subito tornò vivo quando lui aggiunse:

-Magari prima di uscire riesco a falsificare qualcosa!

Sara gli lanciò un’occhiataccia:

-Neal! Gli agenti…- mormorò, accennando alla porta.
 

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