Matite

di Hellionora
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Grigio ***
Capitolo 2: *** Grigio scuro ***
Capitolo 3: *** Bianco ***
Capitolo 4: *** Rosso ***
Capitolo 5: *** Sabbia, Seppia, Smeraldo... ***
Capitolo 6: *** Tramonto ***
Capitolo 7: *** Brividi ***
Capitolo 8: *** Blu notte ***
Capitolo 9: *** Sangue ***
Capitolo 10: *** Aria fresca ***
Capitolo 11: *** Buio ***
Capitolo 12: *** Candore ***
Capitolo 13: *** Pazienza ***
Capitolo 14: *** Nero ***
Capitolo 15: *** Trappola ***
Capitolo 16: *** Coraggio ***
Capitolo 17: *** Sorpresa ***
Capitolo 18: *** Terrore ***
Capitolo 19: *** Ricordi ***
Capitolo 20: *** Tremore ***
Capitolo 21: *** Guerra ***
Capitolo 22: *** Addii ***
Capitolo 23: *** Tranquillità ***



Capitolo 1
*** Grigio ***


1

Vuoto.
Tutto quello che sentivo, era il vuoto.
Quando camminavo, quando respiravo, quando dormivo: il vuoto mi perseguirava, riempiva la mia vita.
E io non reagivo, mi scioglievo dentro quel vuoto; volevo cambiare, ma non cambiavo. Volevo riempire, ma non riempivo.
Era tutto di un grigio smorto, quasi biancastro. Non era come il grigio che piaceva a me, quello era vivo, e pur essendo grigio pulsava di vita, sembrava sempre sul punto di scoppiare e rilasciare miliardi e miliardi di colori. Quella ero io: dento ero così piena di colori, di sfumature, di particolari, ma non riuscivo ad esplodere.  Ed ecco il vuoto, il grigio smorto e stagnante. Che quasi ti deprime a vederlo. Ti entra nella pelle, e ti impedisce ancora di più di esprimerti.
Mi sentivo così sola, così abbandonata a me stessa: a nessuno piace il grigio, il grigio mette tristezza. Eppure racchiude così tante cose,quel grigio che voi odiate.
Forse è per questo che nessuno mi parlava, la sciarpa che indossavo era grigia, tutto intorno a me era grigio. Entrando nella loro vita avrei colorato tutto di un triste grigio, ed erano spaventati dal monocromo.

Nessuno aveva mai provato a portare un po' di colore nella mia vita. Mia madre era troppo impegnata col suo importante lavoro, aveva fatto carriera nel suo ufficio, era quello che desiderava: io non avevo nessun diritto di rovinarle il sogno, ma a me chi ci avrebbe pensato?
Mio padre se n'era andato tempo prima, mia madre non aveva bisogno di nessun'uomo: le bastava se' stessa. Mio padre si sentiva solo, e aveva pensato bene di andarsene e lasciare me in balia di quel grigio. Ora lui aveva una bella famiglia ed era felice.
Ma ancora una volta: a me, chi avrebbe pensato?

Non condividevo niente con nessuno, io non sapevo niente di mia madre e lei non sapeva niente di me. Mi decolorai diversi ciuffi di capelli e li tinsi di rosso, lei nemmeno se ne accorse. Non c'era mai.
Mi ci rassegnai, alla fine perchè avrei dovuto rovinare il suo bel multicolor col mio monocromo.
Mi sentivo come un fantasma, non avevo uno straccio di ambizione, niente. Anche la voglia di vivere mi era passata, oramai era tutto così.... vuoto.
Camminavo con le cuffie alle orecchie, sentivo la musica ma la musica non riusciva a penetrare fino in fondo: forse perchè un fondo non c'era, dentro non c'era niente.

Camminai fino al fiume. Era un buon posto dove ritrovare se' stessi, ma io non ci ero mai riuscita, e ci rinunciai dopo un po'. Mi piaceva comunque andarci, era l'unico posto che davvero mi faceva sentire qualcosa e mi ridava un po' di speranza. La tranquillità, il verde degli alberi e l'acqua cristallina, scavavano nel mio grigio e per un po' mi facevano sentire umana. Poi l'effetto svaniva, e bisognava ricorrere alle maniere forti, lo dimostravano tutti i tagli sul mio corpo. Ognuno di quei tagli era una piccola conquista in un certo senso, voleva dire che ancora riuscivo a sentire qualcosa. Ma il loro efferro lentamente svaniva, come quello delle chiome smeraldine e l'acqua: il grigio invadeva, devastava ogni dannata cosa.
Quel giorno era più grigio del solito.
Mi sedetti sulla riva del fiume, vi immersi i piedi. Quando lo facevo mi sentivo sempre rinascere, fresca. Ora niente.
Mi sdraiai, e sentivo che le forze mi abbandonavano. Non ero sicura se fosse il sonno oppure la morte, ma non mi importava. Niente più importava, ma non era colpa mia. Io avrei tanto voluto sopravvivere, ma nessuno mi ha salvato.

Mi avete ucciso.... quasi.

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Capitolo 2
*** Grigio scuro ***


2 Aprii gli occhi e tutto era come prima: il cielo era sempre al suo posto,  le foglie svolazzavano con il leggero vento e l'acqua scorreva, bagnando ancora i miei piedi che non sentivo più per il gelo.
L'improvvisa luce mi fece coprire il volto con il braccio, e una piccola goccia di sangue cadde sulla mia guancia; l'ennesimo taglio, l'ennesima cicatrice che un tempo mi avrebbe fatto sentire quel poco abbastanza più forte per andare avanti, ma quella volta avrebbe segnato un misero fallimento.
Mi tirai su, tolsi i piedi dell'acqua e li poggiai tra l'erbetta, stetti li qualche minuto a cercare di riprendermi. Non mi ero mai sentita così rincoglionita. Non sapevo quale fosse la sensazione che si aveva quando ci si fumava una canna o ci si ubriacava; non avevo mai provato,  non ci avevo nemmeno mai pensato. Quando sentivo i compagni di classe parlare dei sabato sera "da devasto" venivano fuori parole come "troppo figo", "una meraviglia", il "paradiso", insomma sembrava una cosa magnifica, ma io non mi sentivo bene. Mi sentivo rincoglionita e basta, come quando non riesci a reggerti in piedi dalla stanchezza ma non riesci ad addormentarti, nemmeno ascoltando la Moonlight Sonata di Beethoven sperando di cadere nel sonno eterno. E' quasi straziante come cosa. E quando poi ti addormenti dormi il più bel sonno mai dormito, e quanto ti risvegli speri di star bene, mannò, sei più rincoglionita di prima. Prendere tutto questo e moltiplicarlo per dieci, almeno.

Solo quando mi misi alla ricerca dei calzini mi accorsi che c'era qualcuno seduto accanto a me.
Era una ragazza, che giocherellava con i ciuffi d'erba e sembrava tutta assorta da qualcosa. La fissai per un po' con un'espressione persa -dopotutto ero ancora in fase post-rincoglionimento-, poi lei alzò lo sguardo e si mise a fissarmi.
La situazione rimase così per qualche imbarazzante attimo.
«Cos'hai da guardare?» pronunciando quelle parole sobbalzai, non mi aspettavo parlasse. Ridacchiò, e io socchiusi gli occhi guardandola incuriosità. Lei ricambiò lo sguardo.
«Ti sei drogata o fatta di qualcosa? Sembri troppo devastata» disse diventando un po' più seria.
Feci di no con la testa, e tornai a cercare i miei calzini.
«Se cerchi queste» disse, tirando fuori le mie scarpe, «te le ho sistemate io. Pensavo ti avessero stuprata o una cosa del genere, ma quando ho visto il taglio ho pensato che fossi semplicemente svenuta» me le passò.
Le presi, indecisa se dire qualcosa o no. Mi coprii il taglio con il giacchetto e mi infilai i calzini con i piedi ancora mezzi fradici.
«Forse dovresti asciugarli prima». Mi infilai le scarpe. Non ero esattamene il ritratto della socialità.
Lei sospirò e si alzò.
«Cercavo solo di aiutare, insomma, potresti anche parlare. Non penso proprio tu sia muta», girò i tacchi e si allontanò.
Rimanetti li senza un'idea precisa di cosa fare o dire. Dovevo lasciare che se ne andasse? Dovevo dirle qualcosa? Perchè mi facevo tutte quelle domande, cosa importava?
«Scusa» esitai per un secondo, lei non si fermò.
«Se vuoi andare vai, non posso impedirtelo. Scusa... E grazie...Si insomma, per i calzini» dissi.
Fece qualche passo, poi si fermò, si girò e tornò indietro.
«In realtà potresti impedirmi di andarmene, guarda, l'hai appena fatto» disse.
Abbassai lo sguardo e mi morsi il labbro.
«Vuoi rimanere qui per sempre? Su, alzati, andiamo» disse tendendomi la mano.
«Andiamo? Dove?» le presi la mano e mi alzai.
«Boh, potremmo andare a farti fare una doccia, non sembri esattamente un bijoux»
«Cos'è tutta questa confidenza?»
«Cerco solo di aiutare» disse seria.
Iniziammo a camminare verso non so dove. Quella situazione era troppo strana per me, forse stavo sognando, o era tutto frutto della mia immaginazione nel pieno del rincoglionimento, o forse qualcuno mi aveva drogato e ora stavo avendo le allucinazioni. Ma chi spenderebbe tanti soldi per la droga per poi usarla su una mezza morta su un fiume?

«Hai una faccia conosciuta, ti ho già vista da qualche parte» dissi.
Lei non rispose, continuò a camminare per la sua strada.
«Bhe... Comunque piacere» dissi le prime cose che mi passarono per la testa.
«Piacere di cosa?»
«Di averti conosciuta...» ero perplessa. Era così difficile comprendere cosa dicevo o era lei che era un po'.. stramba?
«Già te ne vai?» chiese un po' spaesata. Iniziavo a non capirci niente.
«No, ti stò seguendo in realtà..» lei si girò a guardarmi; «perchè dovrei andare via?»
«Di solito queste frasi le sento quando qualcuno va via» rispose.
Quella conversazione non aveva senso. Sospirai e mi fermai.
«Ricominciamo. Piacere, mi chiamo Eleonora» dissi.
Lei si fermò, mi guardò e rise.
«Che ti ridi?» iniziavo a dubitare della sua sanità mentale.
«Hai un nome di merda» disse guardandomi beffarda. Aggrottai le sopracciglia e guardai altrove.
«Non me lo sono scelto io... E tu sei?»
«Forse te lo dico dopo», si girò e ricominciò a camminare.
Ero sul punto di esaurirmi; iniziai a seguirla. Non mi capitava mai di parlare con le persone, o almeno non per così tanto tempo, e proprio quando ci riesco mi capita una un po' fuori di cervello. Ero un po' disorientata. Erano tutte così le persone del resto del mondo? Se qualcuno mi aveva drogato, doveva avermi fatto di roba davvero forte.

Ma almeno, mi ero scordata di quel vuoto che poco prima mi stava portando via.

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Capitolo 3
*** Bianco ***


3

La seguii fino a quella che presumevo fosse casa sua con mille domande nella testa. Chi era lei? Perchè faceva tutto questo per me senza neanche conoscermi? Glielo avrei chiesto, perchè avevo davvero tanti dubbi.

Dentro quella casa era tutto molto colorato. Le pareti bianche erano ricoperte di cose colorate: adesivi, quadri, disegni, stencil. Al centro della stanza c'era un enorme divano bianco, con un tavolino di vetro al centro e sotto di esso un tappeto beige che sembrava morbido solo a vederlo copriva un bel parquet chiaro; c'era anche una tv, abbastanza grande, con due grandi casse stereo ai latin e una grande libreria tutto intorno, colmo fino a scoppiare di libri e cd, il tutto poggiato contro la parete. Varie piante addobbavano la stanza, e una grande portafinestra alla sinistra del divano rendeva ancora più luminosa la stanza: fuori da essa, un piccolo ma bellissimo giardino circondato da alte siepi, che davano un bellissimo senso di protezione, di casa, di tranquillità...  Il prato era verdissimo, fuori vi era un piccolo alberello con sotto una panchina, un tavolino di vimini con delle sedie, un barbecure e un coniglietto bianco, paffuto, morbido probabilmente tanto quanto il tappeto. Rimasi li a guardarmi intorno, quasi acceccata da tutta quella bellezza: non avevo mai visto così tanti colori insieme. E mischiati tutti così bene. Quasi mi sentivo a disagio, io, grigia, in mezzo a quell'apoteosi di colore. E proprio in mezzo a quella stanza, lei prendeva vita: i suoi occhi verdi brillavano, assorbivano tutta la luce ed esplodevano di bellezza; i suoi capelli rossi mostravano le loro sfumature arancioni, gialle, castane, che contrastavano col suo corpo bianco: lei stessa era l'essenza del colore. Il suo corpo snello, il suo viso e le sue guance rosse: mi erano davvero troppo, troppo familiari, ma anche scavando nella mia memoria non ricordavo di lei. Non ci riuscivo, non era presente in nessun angolo della mia mente, eppure ero sicura come la morte di averla già vista. Mi sentivo frustrata. Probabilmente lei se ne accorse.

«Il bagno è di la» mi disse sorridente.


«Perchè stai facendo tutto questo per me? Non mi conosci nemmeno, e io non conosco te»
Sembrò ferita dalle mie parole.
«Voglio solo aiutarti» disse, spegnendosi.
«Non è solo per aiutarmi, ne sono sicura» le dissi, cercando di capirci qualcosa.
«Un giorno lo scoprirai. Oggi non è quel giorno» disse seria. Poi abbozzò un sorriso: «il bagno è di la» ripetè.
Sbuffai. «Puoi almeno dirmi il tuo nome?»
Fece un attimo di silenzio.
«Chiamami come vuoi, ok?» disse, triste. Io non riuscivo a capire il suo comportamento, forse era solo un po' fuori di testa.
Nessuno ascolterebbe una tipa ritrovata accanto a sé dopo un tentato suicidio, ne tantomeno la seguirebbe fino a casa per farsi una doccia, ma lei.. Lei mi ispirava fiducia. Era strana, si.. Ma sentivo che potevo fidarmi di lei. Che volevo fidarmi di lei. Eppure era tutto così misterioso.

«Il bagno è l'ultima porta a destra!» sentii gridarmi quando mi incamminai verso la direzione da lei indicata. Perchè il bagno è sempre, sempre l'ultima porta a destra? Era una cosa davvero curiosa. Entrai in quel piccolo ma accogliente bagno, non azzurro o rosa come qualunque altro bagno in cui fossi entrata, ma color beige con le mattonelle marroncine all'altezza di due metri circa. Era la casa più particolare che avessi mai visto, era bella. Forse era quello che mi seriva, un po' di colore e un po' di compagnia, qualcuno con cui parlare, un coniglietto da accarezzare.
Ma mi sentivo sempre più confusa: non riuscivo nemmeno a capire quale diavolo fosse la sua età. Sicuramente doveva essere almeno maggiorenne per avere una casa tutta sua -ammesso che sia tutta sua, magari ci viveva con la madre o col padre, o con tutti e due-, però aveva l'aspetto di qualcuno della mia età, o forse un poco più grande. Fattostà che, anche se mi sentivo confusa, pian piano il vuoto dentro me spariva, cacciato da un grande senso di familiarità. Non capivo il perchè, non capivo più niente, ero talmente confusa e stanca che decisi di non pensarci.
Entrai in doccia e lasciai che i pensieri scivolassero via con l'acqua, lontani, nello scarico, nelle tubature, fino a liberarsi in mare.
Affogate, stupidi pensieri.

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Capitolo 4
*** Rosso ***


4

Mi sentivo un po' in imbarazzo. Mi trovavo in una casa di una sconosciuta che però non sembrava essere sconosciuta, circondata da un alone di mistero nemmeno fossimo in un episodio di Super Detective Conan che però era gentile, bella e soprattutto aveva un coniglietto.

Mentre ero in doccia sentii la porta aprirsi e un po' iniziai a pentirmi di averla seguita, pensai che potesse stuprarmi, rapirmi per poi ricattare mia madre -non male come idea, perchè non avevo mai pensato di rapirmi?- o ammazzarmi.

«Ele, sono io». Ancora così tanta confidenza. «Ti ho portato alcune cose da metterti. Abbiamo la stessa taglia, presumo, penso ti staranno bene»

«Okaaay» risposi. Riconobbi la voce, ma non sapevo a chi collegarla. "Sono io": io chi? Chi diavolo era?

Uscita dalla doccia trovai il tutto sistemato su un mobiletto accanto al lavandino: due asciugamani, uno grande e uno piccolo, una felpa, un paio di jeans e dei calzini. C'era un grande specchio dietro il lavandino: potevo vedere tutto il mio corpo logorato dai tagli e dalle cicatrici. Mi venivano in mente i momenti in cui mi sfregiavo e, in qualche caso, quando mi sfregiavano. Come quando un gruppo di ragazzi mi picchiò in un parco, mi presero a calci rompendomi un braccio. Sempre in quell'occasione, ricordo lo schiaffo di mia madre e le sue urla. Ma non ricordavo esattamente il motivo - successe un bel po' di tempo prima. Mi vestii e tornai in salotto.

>Lei era sul divano, con le gambe incrociate; tra esse teneva un libro, in mano aveva una stecchetta di cioccolato che mordicchiava.

La osservai per un po' immersa nel suo colore, nel suo mondo, e mi chiedevo se rischiavo di rovinarglielo con il mio. Perchè, con tante persone da aiutare, ero stata scelta proprio io? Infondo non me la cavavo così male. Ero abbandonata a me stessa, ok, ma avevo una casa e cibo da mangiare tutti i giorni, un tetto e un letto dove dormire. L'unica cosa che mi mancava era una famiglia... Ma non era una cosa così irrimediabile.

Lei si accorse di me, tolse i suoi smeraldi dal libro e li poggiò sul mio viso. Sorrise.

«Vuoi una mano con i capelli?» mi chiese chiudendo il libro.
Realizzai che avevo ancora i capelli bagnati raccolti in un asciugamano.
«Ero venuta a chiederti del phon in realtà, ma non volevo disturbarti» dissi seguendola con lo sguardo, mentre si avvicinava a me sorridente.

«Figurati, vieni» mi disse poggiando una mano sulla mia spalla e riportandomi verso il bagno.
Mi disse di aspettare un attimo mentre andava a prendere il phon, poi tornò subito. Mi tolse l'asciugamano e mi asciugò inizialmente i capelli con quello.
«Sono davvero tanti, e davvero lunghi» disse mentre li pettinava. Erano lunghi fino al fondoschiena, quindi si, erano davvero lunghi. Li adoravo, ma asciugarli era davvero una condanna.
«Ti sei tinta delle ciocche di rosso» notò, con un tono quasi disapprovante.
«Li preferivo tutti neri» sussurrò, ma la sentii.
«Cosa?» chiesi, per essere sicura di quello che avevo sentito. Accese il phon e iniziò ad asciugare per bene i capelli.

Finito il suo lavoro, posò il phon accanto al lavandino, mettendolo al posto dei miei panni sporchi. «Te li lavo e poi vieni a prenderli» disse sorridente. Mi sorrideva sempre.
La seguii in salotto e mi sedetti sul divano, aspettando che tornasse. La situazione era sempre meno chiara, ed ero strasicura oramai di averla già vista da qualche parte e che lei avesse visto me. Ma dove, quando?
Portò un vassoio di pasticcini e lo poggiò sul tavolino, poi si sedette ed accese la tv, mettendosi nella stessa posizione di prima.
«Prendi pure, non fare complimenti» disse gentile, «se vuoi poggiare i piedi sul divano poggiali, ora hai i piedi asciutti e puliti» disse rindendo. Le sorrisi, e lei mi fece un occhiolino. Mi rannicchiai con le ginocchia al petto e mi misi a guardare il film che davano in tv. Ne approfittai per scoprire qualcosa in più su di lei.
«Quindi non vuoi proprio dirmi il tuo nome» dissi, ma lei mi ignorò. Sospirai, sapevo che mi sentiva.
«Con chi vivi?» le chiesi.
«Vivo qui con mia madre e il suo compagno» mi disse addentando un muffin al cioccolato. «Però ora non ci sono: sono partiti per un viaggio, tornano tra qualche settimana. Si sposeranno a breve, sai» addentò un altro pezzo di cioccolato.
Pensai che uno strano scherzo del destino mi avesse riportato da mio padre e nella suona nuova vita, ma che io sapessi, la donna con cui stava non aveva figli; uno dei motivi per cui se n'era andato ero anche io, però tutto poteva essere.
«Quanti anni hai?» le chiesi.
«Ti sfido ad indovinarlo» mi disse. Sbuffai.
«Cos'hai?» mi chiese, staccando finalmente gli occhi dal televisore e guardando me.
«Nulla» dissi.
«Ftai mentendo» disse con un pezzo enorme di muffin tra i denti. Nessuno si era mai preoccupato di vedere se mentivo o no, più in generale nessuno si era mai preoccupato di vedere se stavo bene o no. Avevo smesso anch'io di farlo. Lei riprese a mangiare il cioccolato, finito il muffin.
«Mi stai accanto mentre sono svenuta, aspetti che io mi svegli e mi porti in casa tua; mi fai usare la doccia e mi dai i tuoi vestiti, mi asciughi i capelli come una madre farebbe ad una figlia e mi offri dei pasticcini che sono la fine del mondo. Come se non bastasse, mi fai anche mettere i piedi sul divano, insomma come fossi a casa mia. Ma non vuoi dirmi chi sei, mi fai intendere che ci siamo già incontrate ma non mi dici ne dove ne quando. Non mi dici nemmeno la tua età, non mi dai nessun'indizio per capire. Anzi, sembra che tu voglia farmi capire, ma anche che me lo impedisca, perchè dici e non dici. E mi sputtani il cervello, così» dissi scocciata. Sorrise e tornò a guardare la tv.

«Un giorno capirai tutto, Ele. Oggi non è quel giorno» disse allungandomi un pezzo di cioccolata, notando che era della marca che piaceva tanto a me.


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Capitolo 5
*** Sabbia, Seppia, Smeraldo... ***


5 «Ti va di uscire, stasera?» disse all'improvviso. La guardai.
«Sempre se non hai altro da fare, ovvio»
«Massì, perchè no?» le risposi. Era da tanto che non uscivo con qualcuno, e avevo bisogno di svagarmi un po' dopo quella strana giornata. Poi Lei, anche se un po' stramba, era di buona compagnia: era simpatica -quando non faceva la misteriosa- ed era carina. Sembrava intenzionata a voler fare amicizia con me, ne ero felice.
«Allora ci vediamo stasera, vado a casa a vedere se c'è mia madre» le dissi. Mi guardò un po' strana.
«Puoi pranzare qui se ne hai voglia. Mi farebbe molto piacere, e io sono sola» disse un po' triste.
«Non vorrei disturbare..» iniziava a farmi un po' pena. «Perchè non vieni tu a pranzo da me? Mamma fa degli spaghetti abbastanza mangiabili» dissi. Lei sembrò rabbrividire.
«No, no, figurati» disse ridendo per scacciare la brutta espressione che aveva fatto qualche attimo prima.
«Immagino tu voglia cambiarti, e poi è giusto che avvisi che esci. Tranquilla, ci vediamo stasera.. Vediamo... In centro? Ti va?» chiese.
«Per le sette?»
«Per le sette» rispose sorridendo. Le sorrisi, per ringraziarla.
«Sei carina quando sorridi. Fallo più spesso» disse alzandosi e venendo verso di me. Mi prese le mani. Mi sentivo un po' in imbarazzo.
Quando le lasciò, vi ritrovai un pezzetto di carta con dei numeri scritti sopra.
«Questo è il mio numero. Nel caso dovessi ritardare, oppure volessi parlare, uscire, non esitare a chiamarmi» disse con un bellissimo sorriso stampato sulla faccia,
«Ti ringrazio» le dissi. «Hai fatto tanto per me... Un giorno mi sdebiterò, non so come, ma lo farò» dissi.
Mi abbracciò. «Stammi accanto e non avrai bisogno di sdebitarti . Non andartene» disse. Mi sentivo un po' spaestata, ma al tempo stesso sentivo un incredibile senso di nostalgia, di casa... Sentivo il bisogno di stare tra le sue braccia.
«Non un'altra volta...» sussurrò quasi piangendo, ma stanca di fare domande senza ricevere una risposta, stetti li, e l'abbracciai anch'io.

Volevo stare tra le sue braccia ma non me ne spiegavo il perchè. Fece per lasciarmi, ma la strinsi.
«No» dissi. Lei stette in silenzio, fece un lungo respiro e poggiò la sua testa sul mio collo.
«Mi sento bene qui tra le tue braccia, ma non capisco il perchè... Alla fine nemmeno ti conosco, forse..» dissi. Ero sicura che lei stesse sorridendo, lo sentivo, lo sentivo attraverso la sua stretta forte, dalla sua testa che carezzava la mia spalla. La sentivo felice, e quella felicità la trasmetteva anche a me. Mi vennero in mente le sue parole: "Un giorno capirai, oggi non è quel giorno", mi accontentai di quella risposta. L'abbraccio si sciolse, mi incamminai verso l'uscio.
«Allora a stasera» le dissi girandomi sorridente. Le piaceva che sorridessi e lei mi aveva dato un motivo per sorridere.
«A stasera, Ele» . Aveva un'espressione tranquillissima sul volto, mi colpì. Il modo in cui pronunciava il mio nome mi scaldava il cuore.
«Hai detto che ho un nome di merda, eppure non fai altro che ripeterlo» dissi aprendo la porta.
«Se è l'unico modo che ho per chiamarti non posso farci nulla; ma per attirare la tua attenzione sono disposta a fare questo "sacrificio"» disse poggiando le mani sulla porta.
«Mi piacerebbe poterti chiamare con il tuo nome e non aspettare che tu ti accorga di me» le dissi.
«I nomi non sono importanti, ma se proprio ci tieni, chiamami solamente S. Non voglio dirti di più»

«Allora a stasera... S» dissi. Sorrise, poi sparì dietro la porta.


Mi  incamminai verso casa, non era troppo lontana, e poi ero abituata a fare anche lunghissimi tragitti a piedi. S abitava poco fuori la città, nei pressi di un boschetto verso le montagne, dove c'erano enormi prati e campi coltivati; era uno spazio bellissimo, solo a vederlo ti sentivi libera, fuori dalla morsa dei palazzi, delle case... Io anche abitavo poco fuori città, ma verso il mare. Due parti opposte quindi, ma con una ventina di minuti sarei stata a casa. La nostra città era microscopica, diversa da quella in cui abitavo prima. Si, perchè prima di venire a vivere in questo buco, abitavo in una delle più grandi città del mio paese: Roma. La adoravo, era la mia città natale, ma non avevo più nessun ricordo di lei. Mi ero trasferita da poco, forse un anno o due, eppure la mia mente aveva cancellato qualunque cosa riguardasse Roma e quello che avvenne li. La mia mente aveva cancellato un bel po' di cose, a quanto pare. Che confusione.
Arrivai a casa, la lussuosa auto di mamma era parcheggiata cortile. Non era l'unica, ce n'erano altre, che mi pareva fossero dei suoi colleghi. Forse aveva organizzato uno dei suoi soliti pranzi tra colleghi. Odiavo il suo lavoro e odiavo lei, aveva messo sempre qualunque cosa riguardante lei o il suo lavoro al primo posto, tralasciando me. Era riuscita a fare carriera e diventare nonsocosa, nemmeno mi interessava. Contenta lei.
«Sono a casa» dissi entrando. Sentivo un gran vociare provenire dal salone da pranzo. La raggiunsi.
«Ciao, mà. Buongiorno» dissi. Il resto dei colleghi mi salutò.
«Ah, Eleonora, sei qui. Hai fame?» feci no con la testa.
«Dove sei stata?»
«In giro, come al solito»
«Potevi avvisarmi» . Faceva la mamma preoccupata davanti ai suoi colleghi.
«Te l'ho detto, e mi hai anche risposto» dissi. Era la verità.
«Me lo ricorderei, non dire stupidaggini»  disse ridacchiando. Faceva passare me per la rincoglionita di turno.
«Vabbè. Io stasera esco, te lo dico ora, così se te lo scordi ci pensano loro a ricordartelo» dissi salendo nella mia camera.
Disse qualcosa ma non la sentii. Non si accorse nemmeno che avevo vestiti diversi dai miei addosso.
Mi chiusi in camera; il modo in cui pronunciava il mio nome era del tutto diverso da come lo pronunciava S. Il suo era carico di dolcezza, mentre quello di mamma non aveva niente. Era vuoto.


Volevo essere carina quella sera, con S. Non volevo farle fare brutta figura nel caso avesse incontrato qualche suo amico, ero sempre vestita come capitava, e i capelli non erano meglio, mentre lei aveva un aspetto curato e particolare, che ti colpiva subito, e ti faceva venir voglia di continuare a guardarla per ore,perchè ci scoprivi sempre qualcosa di nuovo; così mi succedeva ogni volta che le poggiavo gli occhi addosso.
Mi impegnai a trovare un bell'abbinamento, scelsi di mettermi un vestito con le calze. Tentai di fare dei boccoli ai capelli, ottenendo scarsi risultati, e pulii le scarpe abbastanza infangate. Se mi apprezzava quando ero trasandata, figuriamoci così curata. Mi buttai sul letto, e mi addormentai per un po' col suo viso sorridente impiantato nel cervello.

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Capitolo 6
*** Tramonto ***


6 Mi svegliai che erano solo le quattro. Camminavo per la stanza, accendevo il pc, mettevo su un cd, ma il tempo non passava mai. Mi ritrovai col suo numero in mano, potevo chiederle di uscire un po' prima. Però non volevo disturbare. Ma non potevo aspettare: volevo tornare tra la strana famiiarità dei suoi abbracci e vedere il suo viso. Era inspiegabile tutto ciò, tutti questi strani sentimenti.
Alla fine decisi di mandarle solo un messaggio.
"Ehi, misteriosa S, pensavo che non hai il mio numero registrato. Bhe, ora puoi memorizzaro, no? Il tempo non passa mai. A stasera, un abbraccio"
Mi sedetti sul letto e iniziai a pensare a quella
S. Ammettendo che fosse la vera iniziale del suo vero nome, come diavolo si chiamava? Mi venivano in mente tanti nomi: Serena, Sara, Sofia, Sharon... Insomma, erano tanti, alcuni particolari, ma sembravano tutti troppo banali per lei.
Sentii il telefono emettere un rumorino fastidioso.

"Ehi,bella Ele. Già, il tempo non passa mai. Usciamo prima. Tra un'oretta allo stesso posto, non rifiutare perchè so che non hai niente da fare. Baci, S" Mi sentii felice, anche lei voleva vedermi. Per la prima volta c'era qualcuno che mi cercava, che mi voleva davvero. Iniziai a saltellare per la stanza come una scema.
"Non posso rifiutare. A tra un po'
" Presi una borsa -per la prima volta non infilavo tutto dove mi capitava-, infilai tutto li dentro e uscii. Prima di uscire mia madre mi fermò.
«Dove vai, signorina?» chiese.
«Esco»
«Sembri molto felice. Con chi esci?»
«Con una» dissi. Aggrottò le sopracciglia e mi guardò molto strana.
«Quella della mia classe, mamma! Si.. Ti ricordi quella del compleanno,no? C'è anche qualche suo amico. Sono in ritardo, ciao» dissi scappando via.
Mia madre aveva sempre da ridire sui miei rapporti con le persone. Non che ne avessi tanti. Le dava fastidio che uscissi con qualcuno, preferiva che stessi sola, e io non capivo. Probabilmente, pensavo, sarà stato per quello che le ha fatto mio padre. Magari non voleva che soffrissi anch'io.
Ma non era quello il momento per pensarci. Rallentai il passo, non volevo sudare e poi puzzare. Il sole era li per li per svanire dietro l'orizzonte, era uno dei momenti in cui adoravo di più passeggiare. Tutto assumeva un colore, un significato diverso, che solo ora riuscivo a vedere. Dov'erano stati fino ad allora? Il mio mondo grigio forse stava svanendo, poco a poco, e lasciava spazio a tantissimi colori. S aveva preso in mano il grigio e aveva colorato tutto solo con quello, in così poco tempo.
Mi sedetti su una panchina; dei bambini giocavano a rincorrere i piccioni che, invece di volare via, correvano lontani, alimentando il gioco dei bambini e i richiami delle mamme. Qualcuno passava in bicicletta, qualcuno si fermava alla fontana a bere. Non c'era troppa folla, ma non era nemmeno tutto deserto: era il tipo di momento in cui mi sentivo in pace, felice.
Poi, poco dopo, arrivò lei. Ed era meravigliosa in tutta la sua semplicità. Indossava anche lei delle calze, con dei pantaloncini dalla fantasia scozzese e due bretelle che pendevano da essi; aveva una maglia bianca con un teschio formato da tanti teschietti e degli stivali. La rossa frangia era tenuta al lato da un fiocco nero e pois rossi e un po' di matita le faceva risaltare gli occhi verdissimi. Mi sentii colpita dentro, nel cuore. Era bellissima.
«Ciao» mi disse sorridente.
«Ehi». Sorridevo come una scema, davvero..
Mi abbracciò, e di nuovo quella sensazione di familiarità. Avevo le farfalle allo stomaco.
Si sedette e io mi sedetti accanto a lei.
«Perchè mi hai invitato ad uscire?» le chiesi,
«Bhe.. Volevo conoscerti meglio! Sembri una tipa curiosa». Sorrideva.
«Da come parlavi oggi, sembravi conoscermi già da un po'» dissi. Ma mi ignorò, come faceva quando non voleva rispondere. Distoglieva lo sguardo, fino a quando non si cambiava argomento.

«Bhe..» dissi dopo un po'. «Non mi sembri maggiorenne. Vai ancora a scuola? Che studi?» chiesi.
«Questo è il mio ultimo anno. Tra un po' farò diciotto anni, studio psicologia» disse.
«Carino. Sarebbe piaciuto anche a me studiarla, la mente umana è strana. La mia in particolare» dissi. Poi aggiunsi: «Sai, forse ora è tutto più chiaro». Mi guardò curiosa.
«Magari ti comporti in modo strano e non mi dice le cose perchè mi stai usando come cavia per qualche tuo studio»
Lei scoppiò a ridere e la assecondai, ma io ero seria.
«Sarebbe molto meglio se fosse così, credimi» disse. Altre frasi che non capivo.
«Dicevi che ti sarebbe piaciuto fare psicologia. Perchè, cosa studi?» chiese.
«Dovresti saperlo, sembri sapere tutto di me». Non volevo essere scontrosa, volevo solo sfidarla.
«Bhe, non lo so. Non te lo avrei chiesto, non credi?». Sospirai.
«Vado all'artistico. Mi piace disegnare, è un modo per liberarsi. Ma è da un po' che i miei disegni sono vuoti, è brutto» dissi.
«Capisco. Ti va di mostrarmeli?»
«Non li ho con me, mi dispiace»
«Non importa, li vedrò prima o poi. Dove si mangia stasera?»








Salve a tutti! Scrivo due righe per ringraziare chi mi sta seguendo in questa piccola follia. Vedere che qualcuno legge  è davvero bello! So che i primi due capitoli lasciano molto a desiderare, ma vedrò di recuperare, ho in mente una bella storia. E' un po' contorta ma prometto di non deludervi. Ho scritto questo capitolo con l'intenzione di raccontare tutta la serata, ma è tardi e domani devo andare a scuola, per questo finisce in questo modo un po' stupido. In questo racconto mischio un po' di realtà un po' di immaginazione, ci sono alcuni elementi che fanno parte della mia vita e alcuni no. E' un modo per tentare di vivere in un'altra vita, non trovate?
Mi stò dilungando. Ora vado, buonanotte a tutti, e grazie ancora!

P.S: Se avete qualunque cosa da dirmi, chiedermi, o farmi notare, non esitate a farvi sentire! E perdonate i casini con i font e la grandezza, NVU mi fa andare ai matti.

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Capitolo 7
*** Brividi ***


7 «Sbaglio o questa è la strada del McDonald's?» notai.
«Non sbagli. Adoro il McDonald's»
«Dicono che il cibo che fanno li contiene degli ormoni che ti fanno crescere le tette» dissi. Lei scoppiò a ridere.
«Allora vai a mangiarci più spesso» disse tra le risate. Non era colpa mia se ero piatta come una tavola da stiro, non ero come lei che abbondava -cavolo se abbondava-, però almeno era proporzionata. Io invece ero un misero ammasso di ossa che camminava. Ero altra quasi un metro e settanta e non raggiungevo i 50Kg, diciamo che sarei potuta volare via. Lei era un po' più bassa di me, ma aveva un fisico ben proporzionato; non era troppo magra, ma nemmeno troppo grassa, e aveva delle bellissime curve. Ti ci potevi perdere, a vederle. Come ti perdevi nei suoi grandi occhi verdi, così familiari...
«Non dirmi che te la sei presa» disse dopo un po', vedendo che non rispondevo.
«Ma no, figurati» risposi con un sorriso. Non mi importava poi così tanto.
Sorrise e mi scompigliò i capelli.
«Sei molto carina stasera» disse. Sorrisi e le diedi una spallata, facendola sbandare. Lei fece lo stesso.
«Anche tu non sei male». Ci scambiammo altri sorrisi.
«Arrivati! Stomaco caro, preparati per una scorpacciata di salutare cibo spazzatura» disse battendosi una mano sulla pancia. Le aprii la porta. Non c'era troppa gente, quindi nemmeno tanta confusione. Si stava bene.
«Tu che prendi?» mi chiese.
«In realità non ho molta fame...»
«Non ti ho invitato a cena per trovarmi a mangiare da sola». Mise il muso.
«E vabbè... Dai, un Happy Meal»
«Un Happy Meal? Bimba bella» ridacchiò. Le feci il verso.
«E tu cosa prendi, grande donna matura?»
«Ora che ci penso, non ho molta fame nemmeno io»
«Oh, wow»
«Happy Meal anche per me»
«Poi sono io la bambina, eh» le diedi una gomitata, per scherzare.
«Tutti sono un po' bambini, in fondo in fondo» ridacchiò.
Ci sedemmo ad uno di quei tavoli con i divanetti. Erano i più comodi.
«Allora, domani scuola?» mi chiede mangiucchiando una patatina.
«Si. Ma odio i lunedi. Odio anche le domeniche, sono incredibilmente noiose e monotone»
«Già, da suicidio, eh?». Tossii, mi andò di traverso il panino. Lei se la rideva.
«Non sei simpatica» le dissi.
«Massù, scherzo. Almeno questa è stata diversa, no? Almeno per me, è stata una giornata importante»
«Perchè mi hai conosciuta?»
Lei annuì mordendo il panino.
«Che affare». Lei non si limitava a guardarmi, lei mi osservava. Mi scrutava fino in fondo.
«Smettila di sminuirti» disse severa.
«Bha... Comunque sono felice di averti conosciuta. Mi piace stare in tua compagnia, hai qualcosa che mi fa stare bene. Gli altri non sono come te»
Sembrò onorata dalle mie parole.

Finimmo di mangiare e poi uscimmo fuori a fare una passeggiata. C'era un bel clima e l'universo ci offriva una bella luna, bianca, tonda. Illuminava la nostra serata con tutta la sua imponente bellezza.
Ci sedemmo sull'erba, lei tirò fuori un pacchetto di sigarette.
«Fumi?» le chiesi.
«No. Cioè, solo ogni tanto, quando mi capitano serate come questa. E allora la sigaretta è come una cioccolata calda davanti un camino, sotto le coperte. Non so se mi spiego»
«Più o meno si»
«Vuoi?» mi allungò una sigaretta.
«Non ho mai fumato» dissi.
Fece un verso, quasi come a smentire la mia affermazione.
«Riprova» disse.
«Non ci ho mai provato»
«Lo dici tu»
«Rompipalle»
«Fifona»
«Bugiarda»
«Fifona»
Mi guardò con un'espressione di sfida. Cedetti.
«E sia». Sfilai la sigaretta dalle sue dita, lei me la accese poco dopo.
Aspirai. Mi sembrava di avere un de-ja-vù, quei momenti che ti sembra di aver già vissuto insomma. Ma era diverso, non era proprio quello. Più esattamente sembrava un flashback. Era strano.
«Vedi che lo sai fare?» chiese.
«Non è poi così difficile»
«Sisi»
«Sei antipatica». Mi diede una spallata che mi fece sdraiare tra l'erba. Rimasi immobile nell'erba fresca, a godermi il piacevole giramento di testa provocato dalla sigaretta.
«Sei morta?» chiese. Feci no con la testa e la guardai con un sorriso ebete.
«Se reagisci così alla sigaretta non ti farò mai provare una canna» ridacchiò facendo un tiro. Le sue labbra erano affascinanti e sembravano morbide.

Ero ancora sdraiata quando sentii girarmi la testa più di prima, ma senza aver aspirato niente. Mi alzai di scatto.
«Che succede?» chiese preoccupata lei.
«Non lo senti?»
«Cosa dovrei sentire?» era confusa. Mi poggiai la testa tra le mani, sentivo la testa scoppiare e i cani iniziare ad abbaiare forte in lontananza.
«Ohi Ele, tutto ok?» chiese avvicinandosi. «Che cos'è sto casino?» sembrava spaesata.
Sentii la terra tremare e un terribile rumore nelle orecchie.
Ero particolarmente sensibile agli infrasuoni, sentivo i timpani scoppiare. Lei sembrò molto preoccupata.
«Cazzo Ele, vieni via» disse sollevandomi. Mi trascinò verso uno spazio più aperto mentre sentivo i timpani impazzire.




Salve lettori! Scusate il ritardo, ma ho avuto tanto da fare e alcuni problemi... Ma ora sono qui. Non sapevo cosa far succedere in questa serata e mi sono ispirata a ciò che stà accadendo qui (ci sono stati un po' di terremoti..), Speriamo non succeda niente ad Ele e alla misteriosa S!
Voglio lanciarvi una sfida: indovinate qual'è il vero nome di S. Poi deciderò il premio XD
A presto e buonanotte :)
 

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Capitolo 8
*** Blu notte ***


oj Ci sedemmo in un posto del parco dove c'erano meno alberi, ma il terremoto era già finito. Non era stato particolarmente forte, ma sentivo la testa scoppiare.
«Mi sento un po' strana anch'io e penso sia normale, ma tu sembri proprio sconvolta» mi disse.
«Ognuno reagisce in un modo diverso. Se poi hai delle orecchie come le mie, quando ci sono eventi del genere senti come se le orecchie ti si sciogliessero. E' brutto»
«Perchè, che orecchie hai tu?» chiese per allontanare un po' la tensione e la paura del terremoto.
«E' un po' difficile da spiegare. Sarò breve: i rumori, i suoni, non sono altro che vibrazioni. Qualcosa per emettere rumore deve vibrare. A seconda di quante vibrazioni vengono emesse al secondo, un suono è più o meno acuto o grave e anche forte. Mi segui?»
«Si» non sembrava convinta.
«Dai, ti faccio un esempio. Quando io faccio così» -emisi un gridolino stridulo- «Emetto più vibrazioni di quando faccio così» -e feci un verso basso, come quello delle voci molto rallentate-
«Ok, capito!» sembrava più convinta.
«Ora, queste vibrazioni si chiamano Heartz, ma si scrivono Hz. In genere, l'orecchio umano può sentire dai 20 ai 20.000Hz. I suoni al di sotto dei 20 si chiamano infrasuoni, quelli al di sopra dei 20.000 si chiamano ultrasuoni. Ci sei?»
Lei annuì.
«I cani, per esempio, possono sentire più chiaramente gli infrasuoni rispetto a noi umani. Per questo abbaiano quando c'è un terremoto, che ha vibrazioni abbastanza basse»
«Io pensavo fosse per l'istinto, pensa te» ridacchiò
«Penso sia anche per quello. Comunque, ci sono orecchi umani particolari che, essendo più sensibili, riescono a captare meglio gli infrasuoni e gli ultrasuoni. Io sono il primo caso» dissi.
«Figo! Sai un sacco di cose!» disse meravigliata.
«Mi interesso di suoni e cose del genere. Ci sarebbero discorsi lunghissimi da fare, ma te li evito» risi.
«Come mai ti piacciono questo tipo di cose?»
«L'ho sempre trovato molto curioso, e dato che non ho mai nulla da fare a volte leggo qualcosa» le sorrisi.
«Wow. Queste cose non le sapevi a quei tempi»
«Quando riuscirò a capire qualcosa di questa situazione?» le chiesi.
«Scava nei tuoi ricordi, Ele» disse poggiandomi una mano sulla spalla.
«Ci ho provato, ma non riesco a ricordarmi di te. Anche se so che ti ho già vista da qualche parte, lo sento»
La sua testa sostituì la mano sulla mia spalla. Sentii le farfalle nello stomaco e un'altra sensazione di de-ja-vù/flashback. E caldo nel cuore: solo lei mi faceva sentire così.
«Ho paura di un altro terremoto» disse, un po' spaurita.
«Ci sarà qualche scossetta di riassestamento, ma sarà leggera e nemmeno la sentirai»
«Non sei rassicurante...»
Le infilai una mano tra i capelli focosi e glieli scompigliai. Lei rise e si strinse di più a me.
«Vieni a dormire a casa mia?» chiese timida. Era la prima volta da quando l'avevo (ri)conosciuta che si comportava in quel modo: di solito era sicura di se', invece ora sembrava una bambina spaesata nel grande mondo. Le situazioni sembravano essersi invertite.
«E cosa dico a mia madre? "Ciao mamma, vado a dormire da una tipa sconosciuta"» dissi. Ridacchiammo.
«Dille che vai da un'amica,no?»
«Non ho amici, apparte te» dissi ridacchiando per nascondere l'imbarazzo.
Mi guardò e poi si strinse a me.
«Ho voglia di stare con te. Ho resistito per tutto il giorno, ma ora ti stai comportando proprio come allora. Mi sei mancata e proprio non ho voglia di lasciarti andare ancora» disse triste.
Sospirai, presi il telefono e chiamai mia madre.
«Pronto?» sentii la voce dall'altro capo del telefono.
«Ehi mà. Vado a dormire da quella con cui sono uscita. Mi ha appena ricordato che c'era una ricerca da fare e la facciamo insieme, però finiremo sul tardi e non avrebbe senso tornare a casa» dissi velocemente. Non ero molto brava a mentire.
Fece un verso di disapprovazione.
«No, torna a casa»
«Faccio quello che voglio»
«Perchè mi hai chiamato allora?»
«Per avvisarti, non sono come una certa persona che la mattina se ne va senza lasciare traccia» dissi. Sapevo che si stava infuriando.
«Torna immediatamente a casa o saran-» le chiusi il telefono il faccia e risi.
«Una volta avevi più rispetto per tua madre» mi disse S. La guardai strana.
«Davvero?» chiesi meravigliata.
«Si. Ma... Niente, lascia stare» disse ridacchiando.
Mi alzai, la presi per mano e tornammo nella sua casa. Mi aveva convinto: ormai la conoscevo da tempo. Non aveva senso fare la diffidente, tanto valeva godersela tutta, quella bella S.

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Capitolo 9
*** Sangue ***


oj Arrivammo nel vialetto di casa sua. Frugò nella sua borsa per annii prima di trovare le chiavi «Così ti impari ad uscire con borse enormi e piene di robe inutili» ridacchiai. Mi beccai un amorevole vaffanculo.
Entrammo, e anche se non mettevo piede li dentro da appena qualche ora, mi sembrava tutto cambiato: se all'inizio io le parlavo timidamente, ora ci comportavamo come se ci conoscessimo da anni. E se fino ad un giorno prima la mia vita era una massa informe e vuota che si trascinava faticosamente avanti, ora aveva preso forma e colore: aveva la forma di S, e il colore del suoi occhi.
Mi buttai sul suo divanone.
«Come se fossi a casa tua, eh» disse simpatica attaccando il suo giubotto all'attaccapanni.
«Mi hai detto stammattina che potevo farlo, ti prendo in parola» mi sedetti composta, mi tolsi le scarpe e poi andai a poggiarle vicino al muro.
«Allora andiamo a fare questa fantomatica ricerca?» chiese sedendosi accanto a me.
«E cosa ricerchiamo?»
«Boh»
«Come si chiama il coniglio?»
«Spongi»
La guardai con un'espressione assurda sul viso, poi scoppiai a ridere e lei mi seguì.
«Ma si può chiamare un coniglio Spongi?» dissi quasi alle lacrime.
«Mi piaceva Spongebob, non rompermi le palle» disse spingendomi giù dal divano.
«Sei matta?» urlai ridendo, mi alzai e le diedi una spinta.
Lei iniziò a scappare e io ad inseguirla per tutta la casa. Non mi divertivo così da chissà quanto tempo, non mi ero mai sentita così viva... O forse un tempo si. Ma non me lo ricordavo.
Corse in giardino e fu proprio li che mi catapultai addosso a lei, e finimmo tutte e due a terra, ridendo come due sceme. Prendemmo fiato e rimanemmo li a terra per un po'.
«Forse inizio a ricordare qualcosa» dissi. Lei mi guardò con gli occhi che le brillavano, aveva rubato due stelle al cielo e se le era impiantate nelle pupille.
«Davvero?» chiese speranziosa.
«La corsa, le risate, i modi di fare... Sembra tutto così familiare. E mi scalda il cuore fare tutto ciò, sai» le dissi. Poi le strinsi la mano; sapevo che le piaceva avere contatto con me, e io volevo renderla felice a tutti i costi. Sembrava che l'avessi fatta soffrire tanto, da come parlava a volte, e che avesse aspettato tanto per ritrovarmi: mi sarei fatta perdonare, qualunque cosa avessi fatto, e non l'avrei fatta soffrire più.
Sentii la sua mano stringere salda la mia. Era tutto così magico: sotto quel bel cielo, in compagnia della mia S.
«Me lo vuoi dire il tuo nome?» le chiesi.
«Non ancora Ele... Porta pazienza» disse, avvicinandosi a me. Si accoccolò tra le mie braccia e potevo vedere un bellissimo sorriso farsi strada tra le sue guance rosse. Giocai con i suoi capelli.
«Sei più grande di me, vero?» le chiesi.
Sentii la sua testa muoversi contro il mio petto, annuendo. «Eppure sembri così piccola quando sei tra le mie braccia. Più piccola di me. E mi sento come se dovessi proteggerti»
«Si, proteggimi» disse sognante, stringendosi ancora di più a me. Era deliziosa, carina e dolcissima. Le sue parole mi fecero perdere un battito.
«Andiamo a dormire, dai» le dissi tirandola su. Si poggiò sulla mia schiena e arrivammo nella sua camera così. Aveva un lettone bello grosso e grandi coperte. Si spogliò, rimanendo in intimo, e si infilò sotto le coperte.
«Non dirmi che ti vergogni» disse da li.
Ero titubante. «Il mio corpo non è esattamente uno spettacolo da vedere» dissi.
«Non dirmi che ti fai complessi perchè sei grassa»
«No, figurati, non è quello»
«E cosa allora?»
«...Prova ad immaginare»
Ci fu silenzio per un po', poi la vidi uscire dal letto. Accese la luce e iniziò a togliermi i vestiti, scoprendo il mio corpo martoriato. Il passato tornava a farmi visita: quello che pensavo aver lasciato alle spalle la mattina, eccolo che si ripresentava. Una volta sarei stata orgogliosa di quello, ma ora desideravo che sparissero.
Lei guardava scioccata.
«Non sono tutti per causa mia...» dissi, turbandola ancora di più. Ops.
«Te l'avevo detto...» dissi. I suoi occhi si spensero.
«Perchè?» chiese.
«Perchè era l'unica cosa che mi faceva sentire appagata, era diventato un hobby, qualcosa di divertente. L'unica cosa che mi ricordava che non ero morta, ma che ero viva, che potevo riprendermi da quel baratro che era diventata la mia esistenza...»
Fui invidiosa della sua pelle liscia, che sembrava di porcellana, senza nemmeno un graffio, o un livido.
Mi abbracciò forte e sembrò piangere.
«Promettimi che non lo farai più» disse.
«Te lo prometto...»
Quell'abbraccio sembrò curare ogni mio male, ogni mia ferita, scacciò via ogni cosa che era rimasta di quella mattina. Mi prese il polso, martoriato da ferite, e lo baciò delicatamente.
«Andranno via, prima o poi» disse fiduciosa. Sorrise.
Mi trascinò a letto con se, e spense la luce.
«Grazie...» dissi, poco prima di addormentarmi.
«Di cosa?»
«Di avermi dato un'altra possibilità»

Sentii la sua mano sfiorare la mia, per poi stringerla; chiusi gli occhi e mi avvicinai a lei, volevo sentirla, volevo abbracciarla, volevo quel senso di protezione che sapeva darmi solo lei.
Ci abbracciammo forte.
Quella fu la fine della mia vita.
E l'inizio di una nuova.

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Capitolo 10
*** Aria fresca ***


jn L'odore di caffè nell'aria mi svegliò, unito a quello dei biscotti e delle sue lenzuola; era la prima volta che mi svegliavo in modo così sereno, senza sentirmi stanca e pesante, nonostante fossero solamente le sei del mattino. La timida luce del sole si perdeva tra gli alberi del boschetto vicino casa sua, e colorava la sua stanza bianca di un bellissimo color pesca. Respirai a fondo quei momenti, quegli odori, poi la cercai accanto a me, ma non c'era. Al suo posto, una piccola pila di vestiti, che sembravano essere messi li apposta per me. Me li infilai e l'odore di lei mi travolse il naso; respirai a fondo, per farlo rimanere più possibile impresso. Sapeva di casa, di amore e di dolcezza.

La cercai nella cucina, ed era li: trafficava con qualcosa, già vestita con una t-shirt e dei jeans, coperti da un simpatico grembiulino. I capelli erano raccolti in una cipolla un po' stravolta, forse fatta di fretta. Era così bella, sembrava una signora padrona di casa.
«Che profumino» dissi entrando nella cucina. Lei si voltò, sorrise.
«Buongiorno Ele, pensavo ti saresti svegliata più tardi»
«Con questo buon profumo è impossibile non svegliarsi» dissi avvicinandomi a lei. Aveva appena sfornato delle brioches.
«Wow, sembrano buone. Le hai preparate tu?» dissi guardandola. Lei annuì.
«Di soito non le faccio, ma ho pensato che potessero piacerti. Iniziamo la settimana con un po' di sapore!» disse alzano il braccio in aria. Ridemmo.
«Posso aiutarti?» chiesi.
«Porta queste fuori, mangiamo all'aria aperta» disse.
Uscii fuori, l'aria era fresca ma non faceva freddo; poggiai il vassoio con le brioches sul tavolino, dove c'erano due tazze, una caffettiera fumante, un barattolo di Nutella, un contenitore pieno di biscotti e altri con non so cosa dentro e due brocche, che contenevano latte e the. Mi sedetti e aspettai che uscisse, guardando il piccolo -o la piccola, non sapevo cos'era- Spongi che saltellava nel prato e si fermava a mangiare qualche ciuffetto d'erba ogni tanto. Mi sembrava di stare in una di quelle pubblicità del Mulino Bianco o in un film americano, dove tutto è perfetto e felice. La mia vita era stata un oblio fino a quel momento, forse mi meritavo un po' di felicità. E se lo meritava anche S.
Lei accese la radio in salotto e poi uscì dalla porta finestra, sedendosi di fronte a me.
«Allora, cosa te ne pare di questa colazione?» chiese sistemandosi.
«Di solito non la faccio, ma c'è troppa buona roba per non mangiare niente». Presi la cioccolata e la spalmai su una fetta biscottata, che nel frattempo aveva portato fuori S.
«Senza complimenti» ridacchiò, poi si versò del the nella tazza. Prese un cucchiaino e iniziò a versare lo zucchero nel the. Io optai per il latte e caffè, perchè sapevo che mi sarei addormentata in classe. Mangiammo, e come sottofondo c'erano i grandi Pink Floyd con Wish you were here.
«Amo questa canzone» commentò lei.
«Me la facesti conoscere tu; la ascoltavamo sempre al parco, ed era diventata la nostra canzone..» disse nostalgica.
«Davvero? Ma perchè non riesco a ricordarmelo?» chiesi frustrata. «Che cosa mi è successo?»
«Lo scoprirai» abbassò lo sguardo verso il suo the, poi ne bevve un sorso.
Mi sentivo frustrata, volevo ricordare, volevo sapere che cosa mi era successo.
«Ti ho fatto soffrire tanto?» le chiesi.
«Non è stata colpa tua»
«E di chi?»
«Ele, un giorno lo scoprirai, o-»
«Oggi non è quel giorno, lo so» la interruppi. «Ma voglio sapere» dissi molto seria.
«Ti prometto che scoprirai tutto presto». Affondò i denti in una brioches.
«Sono venute buone, non trovi?» chiese sorridendo, cercando di scacciare i discorsi di prima e la mia brutta espressione dal viso. Le annuii dando un altro morso alle brioche. Erano davvero buone.
«Posso portarmene una a scuola per merenda?». Sembrò lusingata dalle mie parole. Sorrise in segno di consenso.
«Perchè sei venuta fuori solo ora, e non prima?» le chiesi.
«Non credere che sia stata facile per me». Ora che ci pensavo, non sapevo niente del suo passato. Ero curiosa.
«Non è stato facile cosa?»
«La cacca rosa, Ele». Mangiò un biscotto.
«Sei odiabile»
«Non saresti qui se mi odiassi» mi sorrise.
Spongi si avvicinò ai suoi piedi.
«Spongi, bella mia» disse abbassando lo sguardo su di lei.
«La vuoi la brioche, palletta?». Le allungò un pezzettino di brioche, che la "palletta" divorò in poco tempo.
«Ti fa compagnia quando i tuoi non ci sono?» chiesi.
«Si, è come una sorellina»
«Ora anch'io potrò farti compagnia quando i tuoi non ci sono. ...Sempre se lo vuoi». Lo dissi senza rendermene conto.
Lei arrossì quasi e sorrise felice. «Mi farebbe molto piacere»


Una volta finito di mangiare la aiutai a sparecchiare e poi ci sedemmo sul divano. Era ancora presto per andare.
«Come farai con i libri?» mi chiese.
«Me li presterà qualcuno. Capitano sempre situazioni del genere, e comunque se ne trova sempre qualcuno abbandonato sotto il banco. Ora che ci penso, oggi ho per la maggior parte ore di disegno»
«Ah, che fortuna, iniziavo a sentirmi in colpa» rise. Ci fu silenzio per un po', io la osservai.
Sembrava una studentessa modello: vestita carina, il grembiule aveva lasciato il posto ad un cardigan e la cipolla scompigliata ad un ordinato chignon. I libri ordinati nella cartella, il diario ben organizzato. A completare il tutto, c'erano gli occhiali che portava.
«Non li metto spesso, solo quando vado a scuola» aveva detto. Era perfetta. Io invece ero trasandata, con i capelli sciolti e un po' disordinati, ma a me piacevano così, un po' ribelli.
Venne a sedersi vicino a me e si accoccolò come un gattino.
«Che facevamo nel passato?» le chiesi.
«Quello che facciamo ora, più o meno»
«Perchè più o meno?»
«Facevamo qualcosa in più»
«Del tipo?»
Lei tacque, e si accoccolò ancora di più a me.
«Ti piaceva tanto coccolarmi»
«Eravamo tanto amiche?»
«Moltissimo». Sembrava ambigua.
«Dici che riuscirò a ricordare prima o poi?»
«Ci sono cose che possono essere cancellate dalla mente, ma non da qui» disse poggiando la mano sul mio cuore. Sussultai imbarazzata. Che diavolo stava facendo?
«Quindi posso tornare a ricordare?»
«Penso che ci riuscirai, se lo vorrai davvero»
«Io lo voglio, ma anche tu potresti aiutarmi dicendomi qualcosa»
«Il mio lavoro l'ho fatto. Ora voglio che faccia qualcosa anche tu. Io non dovrei nemmeno essere qui»
«Perchè?»
Lei mi guardò e basta.
«Va bene..» sospirai.
La strinsi e ci fu silenzio, fino a quando non venne l'ora di andare.

Camminavamo nel centro città dove essa prendeva vita; i bar iniziavano ad affollarsi di vecchietti che giocavano o si riunivano per due chiacchere; le mamme iniziavano a camminare verso le scuole con i propri figli per mano. I ragazzi si riunivano per la sigaretta mattutina. In mezzo a tutto quello, c'eravamo noi, io ed S, che passeggiavamo. Alcune ragazze si avvicinarono a noi.
«Ehi, S-»
«Elena!» la interruppe S, con un'occhiata. La ragazza, e le sue amiche, fecero uno sguardo come a dire "Ah, già, è vero". Mi sentivo più confusa. Mi guardavano tutte un po' meravigliate, ed io mi sentivo terribilmente in soggezione. S se ne accorse.
«Pronte per il compito di oggi?» chiese lei.
«Latino dici? Si, ma so che andrà male, odio latino. Che palle» disse Elena, se non ricordavo male, iniziando a camminare con noi. Così le altre due.
«Io ho studiato e sono fiduciosa» disse una bionda.
«Allora mi aiuterai, vero?» disse l'ultima rimasta.
«Te lo scordi» rispose la bionda.
«Oggi chi dev'essere interrogata ad italiano?» chiese poi S. «Io volevo propormi volontaria»
Elena stava per iniziare a parlare, ma la interruppi.
«Scusate...» dissi.
«La mia scuola è di la, quindi vado...». Mi sentivo in imbarazzo.
«Ah, va bene Ele. Ci si sente più tardi?» mi sorrise.
«Se ti va, ok». Le sorrisi anch'io. Lei mi scompigliò i capelli.
«Buona giornata Ele, fa attenzione»
«Si.. Buona giornata anche a te.. E a voi» dissi salutando con la mano.
«Grazie!» rispose Elena, poi si allontanarono e io andai per la mia strada. S sembrava una di quelle ragazze che sono un po' il punto di riferimento della classe, disponibile ad aiutare tutti. La ammiravo. Io invece ero quasi trasparente; chiaccheravo con qualcuno ma passavo la maggior parte del tempo a disegnare.
Passai a comprarmi un lecca lecca, poi me ne andai a scuola.


Salve lettori! Oggi mi sento molto ispirata e stò scrivendo moltissimo! Penso che scriverò anche qualcosa da pubblicare nei prossimi giorni, così non rimarrò mai a corto di materiale XD
Sono felice di vedere così tante persone che mi seguono! Se avete qualcosa da dire vi prego non esitate, mi rendereste troppo felici! Fatemi sapere che cosa ne pensate, se secondo voi c'è qualche falla nel racconto, qualsiasi cosa, anche un disprezzo, sarò felice di ascoltarvi!
Spero di sentirvi presto, ci vediamo al prossimo capitolo!

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Capitolo 11
*** Buio ***


jn Arrivai nella scuola e c'era il solito casino. Gente che fumava tranquillamente fuori all'atrio o in giardino, chi chiaccherava, chi se la pomiciava, attendendo il suono della campanella. Come al solito mi diressi verso la mia classe. Si trovava al secondo piano, che tecnicamente era il terzo, sul corridoio che dava su un campo. Mi sedetti al mio posto, all'angolo della classe, e stetti li in silenzio.
Pensai ad S; lei non era solitaria con me, sembrava socievole e amata da tutti. Io non riuscivo ad avere un contatto con gli altri, ma non perchè non volessi, ma perchè mi bloccavo. Non riuscivo a portare avanti una discussione, trovare argomenti interessanti. Ed ero insicura. Solo con S riuscivo ad aprirmi..

La campanella suonò e tutti tornarono al proprio posto, ma facendo confusione, fino all'arrivo del professore di disegno. Ero completamente assente e lo fui per il resto della giornata.


Tornare a casa ed affrontare mia madre non mi spaventava, l'avrei semplicemente ignorata come facevo sempre. Passai per il parco pensando ad S e a cosa poteva star facendo. Chissà se anche lei pensava a me nello stesso modo...
Desiderosa di vederla aspettai un po'. Mi sedetti, infilai la cuffiette e cercai nel telefono Wish you were here, sapendo che non l'avrei trovata mai. In realtà, la canzone era li, ma io non l'avevo mai scaricata, o almeno, non me lo ricordavo.
La sentii, e mi vennero le lacrime agli occhi, perchè volevo lei; aspettai un bel po', ma lei non passava. Potevo andare a casa sua ma non volevo disturbare.
Decisi di tornarmene a casa a disegnare, per distrarmi un po'.


Aprii la porta, mamma stranamente era a casa.
Stetti per avvisare che ero a casa, ma una volta chiusa la porta me la ritrovai davanti.  Era abbastanza inquietante.
«Con chi sei stata?» mi chiese.
«Non te n'è mai importato niente di me. Cosa vuoi ora?»
«Rispondi alla domanda»
«Con la mia compagna di classe e altri amici. Te l'ho detto ieri»
«Non c'era nessuna ricerca da fare. Mi sono informata»
«Ma che cazzo vuoi da me?» urlai. Mi faceva paura, volevo andare in camera.
«Eleonora, dimmi dove sei stata» disse impedendomi ogni passaggio.
«Nella fottuta casa della mia amica. Chiamala se vuoi, cristo, ora spostati perfavore». Mi feci spazio a forza e mi chiusi in camera. Ma cosa diavolo voleva? Non capivo, non si era mai minimamente interessata di dove andassi o con chi fossi, sono stata assente più volte di notte da casa e nemmeno ci faceva caso -nonostante l'avessi sempre avvisata-. Ora eccola li, che rompeva.
«Sai chi si è trasferito qui?» chiese fuori dalla mia porta.
«No, chi?»
Ma non ricevetti risposta. Forse qualche pericoloso maniaco era arrivato in città, per questo aveva paura, ma non me lo spiegavo comunque.

Tirai fuori una tela e iniziai a disegnare; notai quanto quel nuovo disegno fosse pieno di colori, non più fermo sul grigio e le sue sfumature. Cioè, non è che questi fossero assenti, ma erano uniti agli altri colori. Il tono rosso predominava. Il rosso del sangue, della passione, dei suoi maledetti capelli. Involontariamente, disegnai lei, o qualcosa che comunque le somigliava molto.
Lo coprii con un lenzuolo, una volta asciugato, per paura che si rovinasse; lo infilai sotto il letto e poi mi riposai un po', dopo aver passato un intero pomeriggio a disegnare.
Mi svegliai un'oretta dopo. Scesi, mamma non c'era. Meno male, non volevo sentire le sue lamentele. Mi preparai un hot dog e accesi la radio. Mi sentivo dannatamente sola, ora, in quella casa così grande per una persona sola. Pensai e lei, anche lei era sola.  Si sarebbe preparata qualcosa di buono, aveva l'aria di una brava cuoca. Non riuscivo a pensare ad altro che a lei.

Il mio telefono s'illuminò, un messaggio. Era lei.
"Bella Ele! E' stata una brutta giornata senza te. Mi manchi tanto. Domani si va a scuola insieme? In centro alle 7.30 spaccate. Ti aspetto, un bacione one oneeee"
Mi spuntò un sorriso enorme. Dio, quanto era dolce, se fosse stata li davanti a me l'avrei stritolata in un abbraccio.
"Bella qualunquesiailtuonome, non ho fatto altro che pensarti e ti odio un po' per questo. Penso di averti disegnato, o almeno ho disegnato qualcosa che mi ricorda te. E' incredibile l'effetto che mi fai. Domani alle 7.30 sarò li. Un abbraccione one one one one"

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Capitolo 12
*** Candore ***


kg Mi svegliai con calma. Scesi dal letto, mi trascinai fino al bagno, cercai di sistemare bene i capelli. Volevo essere carina, volevo sembrarlo agli occhi delle sue amiche. Mi vestii e scesi; mamma non era in casa, meno male. Al suo posto, un post-it, "ti tengo d'occhio". Lo strappai e ne lasciai i miseri resti sul tavolo della cucina, così che si rendesse conto che non me ne fregava poi più di tanto di quello che diceva. Decisi di uscire un po' prima, l'aria mattutina era fresca e pulita, e passeggiare era un piacere per il cuore, per i polmoni, per la mente.
La città, come di suo solito, prendeva lentamente vita. Come faceva la gente a non accorgersi di quello che la circondava? Andavano tutti di fretta; chi suonava perchè il primo della fila non si muoveva una volta scattato verde al semaforo, e chi non riusciva ad aspettare l'arrivo del rosso.
Perchè non riuscivano a cogliere quanto c'era intorno a loro? Il sorprendente, grande mondo.  Forse erano troppo piccoli per accorgersene.
In fondo, nell'infinito Universo siamo tutti degli esserini minuscoli ed impotenti.
Controllai il telefono. Le sette e ventitre, quasi ora dell'appuntamento.
Mi avvicinai al centro della piazza e mi sedetti sul muretto, aspettando il suo arrivo e fantasticando su come poteva essere vestita in quel giorno. Magari avrebbe tenuto i capelli sciolti lungo le sue spalle bianchissime. Dopo poco le mie fantasie presero vita e lei arrivò.

Mi sembrava di non vederla da tanto tempo; bella come sempre, il suo viso era come una visione, bianco tra i capelli focosi. Si avvicinò con un sorriso gigante,uno sguardo e mi abbracciò forte, stretta, quasi da togliere il respiro. Si sedette accanto a me, senza dire niente. Ci eravamo già dette tutto con gli occhi.
«Che bello rivederti»
«Già»
Sospirò e mi arruffò i capelli.
«Quando ti toglierai questi ciuffi rossi?»
«Quando comprerò una tinta»
Fece un'espressione felice.
«Dimmi che non hai impegni oggi» disse.
«Non ho impegni oggi»
«Bene. Dopo scuola andiamo a comprare la tinta e poi vieni a casa mia. Non accetto un no»
Scrollai le spalle.
«Agli ordini, capo» sorrisi. Mi abbracciò forte.
«Se penso che mi aspetta una giornata in tua compagnia, sono più felice»
Sentii le farfalle allo stomaco.
«Sei carinissima»
Come immaginavo, aveva i capelli sciolti.
«Quanta gente, eh? E' una bella atmosfera, non trovi?» mi chiese.
«Si... Ma non mi piace la gente»
«Come mai?»
«Non mi piace la gente perchè alla gente non piacciono i miei sogni. Alla gente non piacciono i sogni di nessuno, nemmeno i loro. E li rovinano tutti, con la routine e l'egoismo»
Rimase a fissarmi.
«Oooh, che poetica»
«Se continui così non ti dico più i miei pensieri». Le diedi un spallata.
«A me importa che ci sia tu» disse.
Rimasi un po' sorpresa. Mi buttai sulla sua spalla e mi ci strusciai sopra come un gattino: cercavo di ringraziarla, delle belle parole, di tutto.
«Mi dicevi così anche in passato?»
«Si»
«E io che facevo?»
«Facevi così»
«E basta?»
«Mi davi i baci sulla guancia»
Mi guardò quasi in attesa. Mi avvicinai alla sua guancia, che diventava sempre più rossa, e le diedi un bacio. Potei sentire il suo buon profumo mischiato a quello della tinta dei capelli. Lo respirai tutto fino a riempire i polmoni.
«E tu che facevi?» chiesi poi.
«Così». E poggiò subito le labbra sulla mia guancia, facendomi rabbrividire.
«Hai le guancie morbide» sorrise.
Mi poggiai sulla sua spalla e la sentii parlare per tutto il tempo, in silezio, contemplando la sua calda voce. Poi venne l'ora di andare e le sue amiche me la portarono via; ed io mi incamminai verso scuola.

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Capitolo 13
*** Pazienza ***


kugiug La giornata scolastica non riservò nessuna sorpresa; trascorse lenta e noiosa come sempre. Ci eravamo date appuntamento nello stesso luogo in cui ci eravamo salutate, mi sedetti e paziente aspettai.
Intanto, la piazza si affollava dei ragazzi che uscivano da scuola. Tra tutti quei volti però, non riuscivo a trovare quello di S. Controllai il telefono: niente, nemmeno un messaggio. Magari si stava trattenendo a parlare con le amiche. In fondo era normale, per chi aveva degli amici.
Iniziai a calciare qualche sassolino, quando lei finalmente arrivò.
«Scusa il ritardo!» disse con il fiatone. Mi abbracciò.
«Mi sono accorta che non avevo assolutamente niente per pranzo. Sono andata a prendere gli spaghetti, immagino ti piacciano no?». Non mi diede nemmeno il tempo di replicare; «A prendere la tinta ci ho già pensato io» e mi arruffò i capelli.
«Beh.. Ciao comunque» dissi abbracciandomela ancora. «Grazie»
«Ciao, e di che!» disse euforica.
Mi prese per mano e mi trascinò verso casa sua, raccontandomi della sua mattinata; era stata interrogata in filosofia, poi si lamentò di quanto alcune sue compagne di classe fossero rumorose e la distraevano dalla lezione.
«E tu che hai fatto?» mi chiese.
«Ho dormito»
Ridacchiò.
«Ti capitava spesso, non sei cambiata poi così tanto»

Arrivammo in casa, accese la radio e si infilò subito il grembiulino; poi iniziò a cucinare. La osservai mentre cucinava tranquilla, era carina, si era raccolta i capelli, che avevano perso un po' di colore. Probabilmente se li era lavati, ed erano diventati un rosso un po' più smorto.
«Ascolti sempre la radio mentre cucini?» le chiesi.
«Si. Mi tiene compagnia» mi sorrise, poi rovesciò gli spaghetti nello scolapasta.
«Vuoi mangiare fuori?» mi chiese poi.
«Come preferisci»
«Vabbè, allora stiamo dentro» disse sorridente.
Mangiammo con tranquillità e passammo un sacco di tempo a chiaccherare prima di fare la tinta; erano per lo più argomenti stupidi, ma ci divertivamo. Adoravo sempre di più stare con lei.
D'un tratto poi si alzò, mi trascinò in bagno e mi piazzò su una sedia.
«Tinta time!» annunnciò poggiando la scatola della tinta sul lavandino di fronte a me.



Salve a tutti! Scusate se aggiorno raramente ma sono piena di impegni ed è un po' un periodaccio. Spero mi seguirete comunque... Grazie della pazienza! Buona serata a tutti/e!

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Capitolo 14
*** Nero ***


jh S scomparì per un attimo, per poi ricomparire nel bagno accompagnata da una musica che mi sembrava familiare.
«Green Day. Ti piacevano tanto» disse mettendomi un asciugamano sulle spalle.
Qualche secondo dopo riconobbi il motivetto di American Idiot.
«Bhe, in realtà mi piacciono tutt'ora» dissi. Anche se non li ascoltavo da un bel po'.
«Me li hai fatti conoscere tu. A me non fanno impazzire, ma mi piace qualche canzone. Li ascoltavamo sempre insieme, sai» disse aprendo la tinta.
«Bhe, ora possiamo farlo di nuovo, no? Magari troveremo qualche altra band che piaccia a tutte e due»
Lei si girò verso di me sorridente, mischiava la tinta in una ciotolina.
«Anche i Green Day vanno bene» disse poi mettendosi dietro di me e, con molta pazienza, iniziò a tingere ciocca per ciocca i capelli.
Passò un bel po' di tempo.
«Ne hai davvero troppi» diceva spazientata ogni tanto.
«Copri solo i pezzi rossi no?»
«Questi maledetti pezzi rossi sono dappertutto, ma non avevi proprio niente da fare?»
Ridacchiai.
«Comunque sia ho finito, ora pazienta un po'» disse raccogliendomi i capelli in una sottospecie di cipolla sulla testa.
Uscimmo un po' di fuori per ammazzare il tempo; ci sedemmo nel prato e iniziammo a chiaccherare e a giocherellare un po' con Spongi.
«Hai con te i tuoi disegni?»
«No, ho lasciato il blocchetto a casa. Avevo paura che si rovinasse a portarlo sempre nello zaino, mi spiace»
«Mannò, figurati» disse sorridente.
Continuammo a parlare fino a quando non mi disse che era ora di togliere la tinta; mi lavò i capelli con cura e di nuovo me li asciugò con tanta pazienza. Dopo un'altra ora finimmo e lei, soddisfatta, ammirò il suo lavoro: finalmente ero tornata tutta nera. "La vecchia Ele" commentò.
Mi disse di tornare in giardino e di aspettarmi; poco dopo lei arrivò con delle merendine in mano e dopo aver fatto partire Jesus of Suburbia dallo stereo.
Arrivò canticchiante.
«Una delle mie preferite» dissi.
Lei mi fece un occhiolino. «Lo so»
Si sedette di fronte a me e mangiammo cantando insieme. Sembrava davvero felice, e mi sentivo felice anch'io, mi sentivo come trasportata in un'altra dimensione.
Iniziammo a cantare a squarciagola, pogando, spingendoci, saltando, ballando; arrivata la fine di St.Jimmy, iniziammo a rotolare nel prato per poi concederci una pausa.
Ancora ridenti e col fiatone eravamo vicine, io poggiata sulla sua spalla; il suo profumo si confondeva con quello dell'erba, come sottofondo il ritmo deciso di Give me Novacaine.
Chiusi gli occhi. Mi sentii strana. Mi sentivo meravigliata: ricordavo. Ricordavo quel momento, quello era già accaduto. Le risate, i balli e poi quello.
«Ricordo» sussurrai commossa.
Dal suo petto riuscii a sentire il suo cuore aumentare la velocità. «Parla»
«Balliamo e cantiamo come prima. Non ricordo bene dove, forse un giardino. Le tue risate, le tue mani che mi trascinano nell'erba. Il ritornello di Saint Jimmy, i pantaloni sporchi di erba...»
Sentii la sua mano stringere forte la mia. Il suo cuore a mille; fremeva.
«Poi?»
«Parte Give me Novacaine. Forse fumavi, ma non ne sono sicura... Mi abbracci, siamo in questa esatta posizione»
Lei stette in silenzio, aspettando che dicessi qualcos'altro.
«Il ritornello della canzone, forse, e poi tu-»
«Cavolo, adoro questa canzone» disse alzandosi.
Give me Novacaine era finita, partiva la canzone seguente.
«Piace tanto anche a me» dissi, ma mi deconcentrai; e ora il ricordo era svanito.
«Ancora non è tempo di ricordare tutto» disse.
«Perchè, che altro c'è?»
Ma lei non rispose, si mise a canticchiare tenendo tra le labbra una sigaretta e frugando nella borsa alla ricerca di un accendino.

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Capitolo 15
*** Trappola ***


hvk La osservai fumare la sua sigaretta e canticchiare.
«Perchè è meglio non ricordare questo fantomatico tutto?» le chiesi. Ma come sempre, mi ignorò.
Glielo chiesi più volte, ma non rispose. Sbuffai rumorosamente e mi alzai.
«Dove vai?» mi chiese.
«Com'è, ora rispondi? Me ne vado». Andai alla ricerca del mio zaino.
«No, non andare!» disse afferrandomi il braccio.
«Odio quando non mi rispondi». Ero arrabbiata, lei abbassò lo sguardo.
«Sono successe tante cose... Potrebbero averti messo in testa strane cose»
Come se non bastasse, altra confusione. Che diavolo mi avevano fatto? Volevo sapere, ma sembrava mortificata, così stetti zitta.
«Non voglio perderti ancora. Perciò... Abbi pazienza, facciamo un passo alla volta» mi abbracciò. Ma io non me ne accorsi nemmeno, ero assorta nei miei pensieri. Nella mia testa risuonavano le sue parole. Che cosa mi era successo? Cosa c'entrava lei?
La abbracciai. «Vorrei andare a casa»
Mi guardò con gli occhi lucidi.
«Scusa»
«Non è colpa tua... Qualunque cosa sia successo. Sono io a doverti chiedere scusa per qualunque cosa io abbia fatto. Perciò scu-»
«Non è colpa tua!» mi interruppe.
«Non mi hai fatto niente, davvero... E' stata...» dai suoi occhi lucidi iniziarono a cadere lente delle lacrime. Si coprì il viso con le mani e respirò a fondo.
«Non voglio che tu veda la me triste» disse con la voce tremante.
«Vai, scusa... Promettimi solo che tornerai»
La abbracciai forte, sentii le sue lacrime bagnarmi il collo e le spalle. Tremava ed era aggrappata a me, come se non volesse cadere, come se io fossi il suo unico punto di forza.
Le diedi un lieve bacio sulla fronte, lei sembrò calmarsi.
«A domani, lo giuro» sussurrai. Lei mi lasciò e si asciugò il viso, mi accompagnò alla porta e, dopo avermi passato lo zaino, mi sorrise con le guance arrossate e gli occhi lucidi.
«A domani» sussurrò.

La confusione regnava di nuovo nella mia testa. Non riuscivo a spiegarmi niente, non riuscivo a capire cosa voleva dirmi, ma soprattutto volevo sapere che cosa mi era successo, e perchè lei si comportava così. Vederla piangere fu come una pugnalata; aveva paura, era terrorizzata dal perdermi.... ancora. Non voleva che mi riportassero via. E io non volevo che lei piangesse ancora, volevo vedere il suo sorriso, volevo solo farla stare bene. Chiusi gli occhi e immaginai il suo bel sorriso. D'isinto mi venne da sorridere, mi venne di nuovo voglia di rivederla
Aprii la porta, mamma era in casa. Mi incamminai verso la mia camera, ma lei mi iniziò a parlare.
«Potresti salutare» disse dalla cucina.
«Potresti farlo anche tu»
«Dove sei stata?»
«A farmi i fatti miei»
«Eleonora, dimmi dov'eri»
La raggiunsi in cucina. «Ero a farmi la tinta. Vedi? Ho tolto i pezzi rossi che odiavi tanto» dissi. Lei sembrò cascarci.
«Era ora» fu il suo commento.
Stetti per un po' in silenzio seduta dietro il tavolo. Era una situazione abbastanza insolita, perchè non stavo molto spesso con mia madre, per tutto quel tempo. Di solito passavamo qualche minuto insieme solo per litigare.
«Senti, mamma» mi feci coraggio.
«Perchè ci siamo trasferite qui?»
Si fermò dal fare quel che stava facendo. Si girò ed aveva uno sguardo spiazzato.
«Perchè questa domanda?»
«Non te l'ho mai chiesto, sono curiosa. Roma mi piaceva, piaceva anche a te»
«Per lavoro» rispose velocemente, tornando alla sua attività.
«Menti. Avevi un lavoro fighissimo li. Amavi quel lavoro e lo ripetevi molto spesso»
Mancava un buco nella mia vita. Ricordavo il tempo trascorso a Roma, ma non ricordo quello che era successo tra il trasferimento e quel presente. Ricordavo solo che da quando ero in quella città, la mia vita era diventata un ammasso di inutile vuoto.
«Mi ero stancata. La vita li era troppo frenetica»
«....Esattamente come piace a te» controbattei. La faccenda si faceva ancora più misteriosa.
«A cosa vuoi arrivare, Eleonora?» disse.
«A niente. Perchè, dovrei arrivare a qualcosa?» iniziò ad irritarsi.
«Va in camera tua»

Iniziai a ragionare, ma non capivo. Roma ed S c'entravano qualcosa? E mia madre, perchè era così misteriosa?
Sentii i suoi passi salire le scale. Aprì di colpo la porta.
«L'hai vista?» chiese.
Non capii.
«Chi?»
«Dammi il telefono» disse.
«No. Ma che diavolo vuoi da me?»
«Dammi quel maledetto telefono»
«Vattene». Iniziai ad avere paura.
Lei urlò. Iniziò a minacciarmi.
Tentai di scappare, ma era più agile di quanto credessi: mi prese, prese il mio telefono, si mise sulla porta.
«Non uscirai da qui fin quando non lo dirò io» disse. Sbattè la porta della mia camera, sentii che chiudeva a chiave la porta di casa.
Ero totalmente spaesata. Non riuscivo a capire che cosa le fosse preso. Ma intanto iniziai ad impanicare: non potevo parlare con S. Dovevo avvisarla, dovevo dirle che se non potevo vederla era perchè mia madre mi aveva segregato in casa. Volevo S, volevo che mi venisse a tirare fuori da li.
iniziai a piangere, al pensiero che non potevo vederla, che si sarebbe preoccupata. Non avrei mantenuto la promessa.
Nei giorni seguenti tentai di evadere in ogni modo, ma mia madre girava per casa, mi vedeva, mi tirava dietro qualcosa, per un motivo che non riuscivo a comprendere. La mia vita tornava sempre di più un oblio, un ammasso di vuoto. Non facevo altro che disegnare S, per non dimenticare il ricordo del suo sorriso, e piangevo pensando a lei.
Dovevo evadere.
Dovevo andare via.
Dovevo rivederla.

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Capitolo 16
*** Coraggio ***


kuiug Erano giorni ormai che ero rinchiusa in casa. Giorni che erano riempiti solo dal pensiero di S, di quanto fosse preoccupata, e mi sentivo terribilmente in colpa perchè avevo infranto la mia promessa, che non me ne sarei più andata.
Dopo l'ennesima notte insonne presi coraggio e decisi di evadere da quell'inferno. Di notte non girava proprio buona gente, ma non poteva continuare in quel modo.
Mamma si era stanziata in casa e non usciva più; mi teneva d'occhio, mi ostacolava qualunque cosa decidessi di fare. Andare via di notte era l'unica soluzione. Così iniziai a frugare per la casa il più furtivamente possibile, alla ricerca di qualcosa che mi potesse essere utile. Non avevo un'idea precisa di cosa fare: una volta evasa, non potevo vivere da vagabonda, ne farmi mantenere da S e dalla sua famiglia (che razza di idea), e la cosa peggiore che poteva succedere era che mi madre mi riprendesse e mi richiudesse in casa. Ma almeno avrei avvisato S, e magari avrebbe potuto aiutarmi.
Così, trovato un borsone, ci misi qualche vestito nel caso la mia fuga sarebbe durata più giorni; andai alla ricerca di qualche torcia per potermi muovere nel buio.
Una volta trovato il tutto, mi rimaneva solo da decidere quando evadere, e trovare il coraggio.
Non riuscii a chiudere occhio nemmeno per un secondo. Quando iniziai ad intravedere i primi raggi di luce nella notte, decisi di uscire. Afferrato il mio amato giaccone mi ci chiusi dentro. Mia madre era del tutto ignara che avevo un discreto talento nello scassinare serrature; molto spesso rimanevo chiusa fuori dal cancelletto di casa, così lo scassinavo con una forcina. Quindi aprii la finestra del salotto e uscii da li, poi la richiusi il più possibile che potessi e poi iniziai la mia opera di "scassinamento". Le mani mi tremavano, ma non dal freddo. Avevo paura che mia madre mi scoprisse, ma allo stesso tempo ero emozionata perchè avrei rivisto S, avrei potuto abbracciarla di nuovo e affondare il naso nei suoi capelli rossastri.
Pochi secondi dopo il suono della libertà; la serratura del cancello si aprì, respirai a fondo, e poi iniziai a correre più veloce che potessi.
La luce iniziava a farsi strada nelle tenebre; l'aria era terribilmente fresca e sapeva di libertà. Correvo, respiravo a fondo quell'aria, la sentivo contro la pelle del viso.
Raggiunsi casa sua in pochissimo tempo. L'alba era appena iniziata, e vedere la sua casa in quell'atmosfera mi addolciva il cuore; pensare che lei si trovava così vicina a me, mi metteva allegria.
Era fin troppo presto per svegliarla, ma volevo vederla.
Forse era preoccupata, forse non lo era.
Che dovevo fare?
Avrei potuto aspettare fino ad un orario decente (anche se non avevo nemmeno un orologio), però se mia madre mi avese scoperto?
Non poteva sapere dov'ero. O forse si.
Che diavolo dovevo fare?
 

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Capitolo 17
*** Sorpresa ***


ugyigiuygluy Mi sedetti accanto alla porta, era decisamente troppo presto per svegliare delle persone. Per ora, ero già felice di essere evasa da quella prigione e di respirare aria fresca. Avrei aspettato che il sole fosse salito completamente nel cielo.
Mi strinsi nel mio giaccone e mi rannicchiai. Pensavo alla reazione che avrebbe avuto mia madre non vedendomi più in casa, avrebbe iniziato a rompere cose, ad urlare... Non riuscivo a spiegarmi il perchè, che cosa le fosse preso. Mi aveva davvero spaventato, ma essere lontana da li ora mi metteva felicità.

Non sapevo esattamente quanto tempo trascorsi li fuori, però non ci volle molto perchè si facesse giorno; essendo quasi primavera doveva essere molto presto, ma ricordavo che quando S era già sveglia per preparare la colazione, fuori c'era quella luce. Inoltre, sentivo delle voci provenire dall'interno; forse era la radio che lei accendeva per non stare sola. Decisi di suonare.

Aspettai fuori dalla porta muovendo nervosamente il piede, provando ad immaginare che reazione avrebbe avuto S. Magari mi avrebbe cacciato via urlando furiosa, forse mi avrebbe abbracciato, forse avrebbe pianto... Non volevo piangesse. Sentii la serratura della porta aprirsi e il mio cuore battere fortissimo. Poi la porta si aprì, e scoprii un viso stupito. Ma non era quello di S. Iniziai a sudare dalla vergogna; ero sicura che la casa fosse quella.
«Emh... Scusi l'ora» dissi. Mi sentivo in difficoltà; non sapevo nemmeno il vero nome di S. Che cosa dovevo fare?
Il viso era quello di una donna, non troppo anziana. Mi guardava sopresa.
«Mannò, figurati» disse con dolcezza.
Feci per pronunciare qualche parola, quando una voce dall'interno mi fece rabbrividire.
«Chi è, mamma?»
Riconobbi la sua voce. Quella della mia S, mi mancava così tanto. Sentirla mi mosse qualcosa nell'interno.
«Penso proprio che sia per te» rispose la donna.
Sentii i suoi passi avvicinarsi; la distanza tra me e lei era sempre più corta. L'avrei rivista, lei avrebbe rivisto me. Il cuore batteva all'impazzata, potevo svenire.
E poi eccola: i capelli un po' scompigliati, mezza vestita e mezza in pigiama. In mano la spazzola.
La signora sorrise e si allontanò. Rimanemmo io e lei.
Aveva uno sguardo a dir poco sorpreso. Mi guardava immobile, come se non credesse che ero davvero li davanti, tremava quasi, mentre io tremavo davvero. Non riuscivo a pronunciare parola, ero completamente persa in lei, nei suoi capelli e nei suoi occhi che sembravano sul punto di scoppiare.
Mi morsi un labbro, feci un respiro profondo. «Mi dispiace tanto»
Nel giro di un secondo mi trovai stretta fra le sue braccia. Piangeva, ne ero sicura. La abbracciai forte, più forte che potevo.
«Non è stata colpa mia» dissi.
Lei annuì.
«So che non l'avresti mai fatto» sussurrò. Poi si allontanò e mi osservò.
«Stai bene?» mi chiese.
«Ora si». Le sorrisi, e mi sembrò che una lacrima le scese dall'occhio per quella mia frase.
Mi tirò dentro.
«Starai congelando»
«Ne è valsa la pena; e poi la città è suggestiva di notte fonda»
«Da quanto sei li fuori?»
«Un bel po'»
Mi arruffò i capelli, poi mi avvolse in una coperta.
«Ora vieni qui e mi dici che cosa è successo» disse facendomi posto sul suo letto.
Mi sistemai accanto a lei; iniziò a giocare con i miei capelli.
«Non c'è molto da dire. Mamma mi ha rinchiusa in casa e non riesco a capire il perchè»
Lei sospirò a fondo e mi abbracciò.
«Sapevo che non te ne eri andata. Me lo avevi promesso»
«Già»
Provai a sorriderle, e finalmente potei scorgere il suo bel sorriso.
«Quella che ti ha aperto è mia madre. Sai, sono tornati da quel viaggio. Per fortuna che sei venuta, oggi ci aspetta una bella gita a Roma. Hai letto il messaggio, vero?»
La guardai per un attimo.
«Mia madre ha il telefono...»
Spalancò gli occhi. «Cazzo. Io pensavo che non rispondessi perchè avessi finito i soldi» disse sconvolta.
Poi saltò giù dal letto e corse nel salotto.
«Mamma!» urlò.
«Dobbiamo andare. Ora»

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Capitolo 18
*** Terrore ***


.ljl In poco tempo si scatenò una confusione generale. S corse in camera, finì di vestirsi.
«Che stà succedendo?» chiesi allarmata.
Lei mi guardò, sospirò a fondo, e poi si allontanò con lo sguardo basso,
Nel frattempo, era sbucato fuori un altro personaggio; probabilmente il compagno della madre. Fortunatamente non era mio padre, come mi ero divertita ad immaginare. Non gli somigliva minimamente. Era alto, sembrava atletico, aveva gli occhi castani e così anche i capelli,aveva un viso simpatico. Era un bell'uomo, non sembrava nemmeno troppo avanzato con l'età. Sicuramente lui e la compagna, la mamma di S, erano uguali di età. Anche lei era una bella donna, da quello che potevo osservare. Somigliava un po' ad S, aveva i capelli castani anche lei, e gli occhi verdi. Aveva un sorriso rassicurante, che sfoggiava ogni volta che S sembrava essere in difficoltà.
Lei correva nervosa, quindi la mamma la fermava, le sorrideva e la rassicurava. Mi scaldava il cuore vedere quelle scene.
Poco dopo la confusione generale, sentii S chiamarmi.
«Andiamo Ele?» disse allungando la mano verso di me.
Mi alzai un po' confusa.
«Lascia pure li il borsone, tranquila» sorrise.
La seguii.
«Tua madre mi conosce già, vero?» le chiesi sottovoce.
«Diciamo che eri spesso ospite a casa nostra» sorrise. Sembrava molto meno agitata rispetto a prima, ma potevo cogliere un velo di nervosismo nei suoi sorrisi e nei suoi gesti, che però non riuscivo a comprendere.
Salimmo in macchina.
Mi sentivo in una situazione assurda, ma se S era al mio fianco, mi sentivo al sicuro. Partimmo, mi accoccolai contro S. Mi era mancata così tanto, ed ero davvero felice di riaverla accanto a me. Avevo un po' paura di quello che sarebbe potuto succedere con mia madre, ma in quel momento lo ignoravo. Mi importava solo di S.
Cominciò a giocare con i miei capelli.
«Tua madre ti ha fatto del male?»
«No..» dissi sbadigliando.
Mi strinse a se.
«Non dormo da un bel po'... Ero costantemente nervosa» dissi.
«Io invece ho dormito per non pensare. Ero davvero preoccupata»
«Mi dispiace..». Continuò a passarmi le mani tra i capelli.
Senza volerlo mi addormentai.

«Ehi, Ele»
La sua calda voce mi risvegliò dal sonno. Mi sentivo decisamente meglio dopo quella dormita.
«Siamo arrivati. Vieni?»
Mi tirò da una mano, io mi stiracchiai. Da quando mi ero trasferita nella nuova città non ero più tornata a Roma; vederla mi mise molto di buon umore. Eravamo al Pincio, da quel che ricordvo, ci andavo abbastanza spesso. Iniziammo a passeggiare.
«Mamma è andata a casa di una amica, torna tra un po'» mi sorrise.
«Si fida a lasciarti in giro per Roma?»
Ad un certo punto si sedette nell'erba e mi invitò a sistemarmi tra le sue gambe.
La sentii respirare molto a fondo.
«Diciamo.... Che ho vissuto qui, quindi sono pratica del posto»
Per un attimo rimasi sorpresa.
«Quindi... Ci siamo conosciute qui?» chiesi.
«Si»
Ora mi era tutto più chiaro.
«Sento che c'entri qualcosa col fatto che mi sono trasferita. Non è così?»
Sentivo il cuore battere a mille, ero agitata.
«Guardati intorno, Ele» disse lei, con voce calma.
Iniziai a scrutare il parco, la strada, gli alberi. Tutto mi sembrava cambiato.
Sentivo la testa girare. Mi venne il fiatone.
«Chiudi gli occhi e ascolta»


Chiusi gli occhi. Sentii le sue mani sulle mie, lei iniziò a canticchiare un motivetto familiare. Il rumore delle macchine, lei, la testa mi girava ancora di più, il cuore esplodeva.
Strinsi forte la sua mano.
«Che diavolo sta succedendo?»
«E' il giorno, Ele» disse calma.
Continuò a cantare il motivetto, fino a quando non smise. Non sentivo più le sue mani sulle mie.
La testa girava, girava, avevo bisogno di lei.
D'un tratto sussultai. Sentii le lacrime sul viso. Ero spaventata.

La cercai intorno a me, ma non la sentii.
Non avevo il coraggio di aprire gli occhi.
«Ricordo» dissi piangente.
«Eravamo io e te. Qui, ridevamo. Poi arrivò lei...» mi fermai. Presi aria.
«Mia madre. E i sorrisi svanirono»
Feci un'altra pausa, ero spaventata, e respiravo a fatica. Tutti quei ricordi...
«Inizia ad urlare. Mi stringi la mano, sei terrorizzata... Lo sono anch'io»
«Mi porta via... Non riesco ad oppormi...»
Strinsi forte l'erba, fino a strapparla.
«Ti vedo piangere, gridi il mio nome, ed io....»
Di scatto aprii gli occhi. Stupita.
I suoi occhi verdi davanti ai miei piangenti.
Tremavo, ero terrificata, ma lei mi guardava calma.
Respiravo forte, lei invece sembrava quasi col fiato sospeso.


«E tu?»

«Io grido il tuo....»

Le poggiai una mano sulla guancia, con il dito le sfiorai le labbra. Le scese una lacrima dagli occhi, poi un'altra, un'altra ancora.
Respirai a fondo.


«...Selene» 

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Capitolo 19
*** Ricordi ***


kjgg Selene ed Eleonora, due nomi che si contenevano l'uno nell'altro.
Selene era il nome che richiamava la luna e la sua luce, e il fatto che tale persona ne fosse illuminata. Eleonora, analogamente, voleva dire "cresciuta nella luce".
I due nomi, però, potevano anche essere accostati col significato di "compassionevole".
Forse era destino che io e lei ci trovassimo. E ritrovassimo.

Lei mi abbracciò forte. Stava in silenzio, mentre con la mia mente ripercorrevo tutto quello che successe dopo quell'episodio, e anche quello che successe prima.
Mi lasciò riflettere per un po', mi guardva tesa.

«Ricordo perchè lo fece» dissi.
Lei mi guardò, si mordeva le labbra nervosa.
«Parla, se ne hai voglia» disse.
«Ricordo tutto ora. Ricordo mia madre che mi portava dallo psicologo ogni santo giorno per farmi scordare di te... Anzi, di noi»
Il suo sguardo era sempre più nervoso. Muoveva le mani ossessivamente, se le stringeva, tamburellava con le dita.
«Ora capisco che cosa hai passato. Lo comprendo a pieno. E mi meraviglio di quanto tu sia stata forte e paziente» le dissi. Di nuovo, sembrava sul punto di star per piangere.
«Dovevi amarmi davvero tanto» pronunciai.

Ora capivo tutto. Selene mi amava. E io amavo lei.
Il nostro rapporto era qualcosa di meraviglioso, più dell'amicizia, più dell'amore.
Ma a mia madre non andava bene che io amassi una ragazza.
Per questo mi portò via da Roma e da lei, e mi fece scordare tutto attraverso degli pseudo lavaggi del cervello. Quindi lei era felice; ma io no. Io non vivevo più dopo quello, sentivo un pezzo di me mancare; quel pezzo, sfortunatamente per mia madre, tornò indietro dal passato e mi ricompletò.Il passato non lascia scampo.
Non lo lasciava nemmeno Selene.
Era venuta a rivendicarmi, a riprendermi, e a riprendere il mio diritto di essere quella che veramente ero: una ragazza felice, che amava una ragazza felice. Era segnato, e mia madre non avrebbe potuto cambiare le cose. Solo io e Selene potevamo.

«E devi amarmi ancora tanto, se hai fatto tutto questo. Se non mi hai dimenticato»
Non riuscì a trattenersi. Scoppiò a piangere, si liberò da tutte le lacrime trattenute in quegli anni, e in quei ultimi giorni.
«Non sono mai riuscita a dimenticarti» disse singhiozzando.
«Ogni giorno ogni cosa mi ricordava di te, ma tu non c'eri più... Così mi decisi che ti avrei ripresa, avrei mosso mari e monti per riaverti, anche solo come amica»
spesso i singhiozzi la interrompevano.
«So che può sembrare spaventoso, ma da quando mi sono trasferita nella tua stessa città ti ho seguita ogni giorno, per riuscire a trovare una soluzione, e non puoi nemmeno immaginare quanto male faceva vederti ma non poterti avere, non poterti parlare!»
Di nuovo singhiozzi e lacrime.
«in più non ti riconoscevo, perchè non sembravi te, eri così vuota, così spenta... Non sembravi più la Eleonora sorridente che ero abituata a vedere.... Ma non rinunciai, così quel giorno ti seguii e decisi di farmi viva. E scoprii che dentro, in realtà, non eri cambiata, che eri sempre la bella ragazza che avevo conosciuto anni prima»
Scoppiai. Piansi come non piansi mai prima.
«Mi dispiace!» le gridavo.
«Dovevo oppormi di più a mia madre, non dovevo permettere che lei facesse questo!»
Tiravo fuori tutta la rabbia stagnante dentro di me da anni, che non ero mai riuscita ad esternare.
Lei continuava a dirmi che non era colpa mia, ma non riuscivo a liberarmi dai sensi di colpa.


Ci volle molto tempo affinchè tutte e due ci calmassimo.
Del pianto rimasero solo gli occhi rossi e il viso un po' bagnato. Dopo la tempesta, era tempo che il sole uscisse fuori.
Ci sdraiammo sull'erba, abbracciate. Ma non era come gli abbracci precedenti; era come se il tempo si fosse fermato a quel giorno, prima che mia madre mi portasse via.
Ora riconoscevo i suoi occhi, il suo profumo, riconoscevo la mia casa e gli abbracci caldi.
Fronte contro fronte, ci parlavamo con gli sguardi e, quando gli occhi erano chiusi, con le carezze, con le mani che si stringevano. Ma non volava parola, non c'era bisogno di quella.
Giocava con i miei capelli, ma ora ricordavo che nel passato lei lo faceva spesso. Erano molto più corti, ma si divertiva ugualmente.
«Ricordi quando spesso ti addormentavi, mentre te li carezzavo?»
E io che riuscivo finalmente a ricordare, annuivo felice.
I nasi si toccarono; poi altri sorrisi e altri sguardi.
Quegli occhi verdi ora riucivo a leggerli nel profondo. E li comprendevo a pieno. Riconoscevo quegli occhi pieni di vita.

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Capitolo 20
*** Tremore ***


hg «E tu, mi ami ancora?»
Domanda che li per li mi lasciò per un secondo spiazzata. La amavo?
Era passato tanto tempo. Mi avevano strappato via l'amore per lei dalla mente.... Ma non dal cuore. Per questo sentivo che potevo fidarmi di lei sin dal primo momento che la vidi. Lei c'era sempre stata nel mio cuore.
«Bhe, sarebbe bello poter riprendere da dove ci hanno interrotto»
Sfoggiò un bellissimo sorriso.
«Si. Sarebbe davvero bello» confermò lei.
Ero dannatamente felice.
Ci sedemmo di fronte, l'una tra le gambe dell'altra, e ci abbracciamo forte.
Parlammo tanto, di qualunque cosa ci venisse in mente. Mi parlò di come aveva passato gli anni senza me, del rapporto con sua madre, e facemmo progetti futuri.
«Tra un po' sarò maggiorenne. Potremmo tornare a vivere qui a Roma» diceva, accarezzandomi il viso.
Per me sarebbe stato bellissimo poter vivere insieme a lei. Immaginavo le giornate mentre mi perdevo nei suoi occhi verdi e tra le sue carezze; sentivo la sua mano accarezzarmi tremante la guancia, poi il collo, per poi perdersi tra i capelli. Doveva essere molto emozionata per tremare in quel modo.
Avvicinò il naso al mio, lentamente. Li fece sfiorare e accompagnò il gesto con un gridolino. Però non si allontanò subito come tutte le altre volte che lo faceva.
Mi rimase vicina;  si avvicinava e poi si allontanava di pochissimo, mordendosi le labbra nervosa. Mi guardava quasi come a chiedere un permesso.
Sorrisi; afferrai il colletto della sua maglia e la tirai quel poco che bastava per avvicinarla a me.
Le sue labbra quasi sfiorarono le mie. Un brivido percorse tutte e due.
Era così vicina che mi sentivo attratta da lei, sentivo il desiderio di baciarla e di non smettere più.
Lei si fece coraggio, si avvicinò, potevo sentire il suo respiro affannato sul mio viso. Si morse ancora una volta il labbro e socchiuse gli occhi. Io ero immobile; tremavo, ma ero felice, sentivo il sorriso scolpito in faccia.
Fece sfiorare le mie labbra con le sue. Si liberò dal fiato che aveva tenuto sospeso per qualche secondo, per poi poggiare la sua bocca sulla mia.
Chiusi gli occhi, presi il suo viso tra le mani, lei mi strinse la vita. Iniziò a baciarmi con tanta passione e timidezza, io le mordevo le labbra per stuzzicarla, e lei sorrideva; affondava le mani nei miei capelli e mi baciava, mi baciava tanto. Non riuscivamo a fermarci, eravamo prese da quella sorta di danza che non finiva mai, che ricominciava e ricominciava.
La sentivo tremare come una foglia, sembrava una bambina, era fantastica.
E ne ero sicura. L'amavo. L'amavo davvero tanto, non avevo mai smesso di amarla.

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Capitolo 21
*** Guerra ***


hgfjyv Decidemmo di andare a mangiare qualcosa. La aiutai ad alzarsi e lei mi ringraziò con un bacio. «Maledette»
Ci girammo nella direzione in cui veniva la voce. Un brivido mi percorse la schiena: era mia madre. Mi spaventai e mi girai verso Selene, ma lei sembrava tranquilla. Mi strinse la mano, come a dire "ci sono. Sii forte"
«Ci avevo messo così tanto a farti tornale normale. E tu» disse rivolta a Selene 
«Hai rovinato tutto»
«Finiscila» le dissi.
«Sta zitta e muoviti a tornare a casa»
«Se torno a casa torna a casa anche Selene, assieme a me»
Rise, quasi come a prendermi in giro. «Scordatelo, scordati tutto. La tua vita è finita. E muoviti a tornare a casa»
Si avvicinò minacciosa verso di me, deisa a prendermi. Mi allontanai, ma Selene si pose tra me e lei. Per questo, si beccò uno schiaffo da mia madre. A quel punto mi sentii scoppiare dalla rabbia.
«Non ti permettere più» dissi con fermezza, scandendo per bene le parole. Ero fuoriosa.
«Stai tranuquilla Ele» disse dolcemente Selene, carezzandosi la guancia. Mi sentii inutile, avrei dovuto difenderla. Respirai a fondo, cercando di ragionare.
«Mamma. Puoi decidere alcune cose di me, ma non puoi decidere chi devo amare»
Sapevo che sarebbero state parole buttare al vento, ma tanto
valeva provare.
«Nemmeno io posso sceglierlo. L'amore arriva e ti stravolge»
«Io una figlia così non la voglio». Fece una piccola pausa.
«La preferisco morta»


Lo disse con tutta la rabbia che aveva in corpo. Vedevo l'odio nei suoi occhi. Sentivo lo stomaco rivoltarsi dallo schifo. Come si possono dire certe cose ad una figlia, ad una piccola vita che hai cresciuto e amato? La nostra vita prima che scoprisse di me e Selene era bella, la ricordavo: ci divertivamo insieme.
Poi bum. Non è assurdo quanto l'odio possa corrodere l'amore?
«Sei un essere terribile» disse Selene a mia madre.
«Fa silenzio. Allora Eleonora, muoviti»
«Io sono così e nessuno può farci niente. Non posso e non voglio cambiare. Se non vuoi accettami, allora per te sarò morta»
Mia madre mi guardò.
«Bene. Ti aspetto a casa stasera: prendi la tua roba e vattene. Non voglio più saperne niente di te»
«»Parlava come se fosse felice, sollevata, libera da un grande peso. E io non ero da meno, sapere che non avrei più sofferto per lei mi rendeva felice. Ma allo stesso tempo, mi sentivo delusa, perchè non pensavo potesse odiarmi così tanto. Non pensavo sarebbe stata capace di abbandonarmi in quel modo, ma a quanto pare mi sbagliavo. Mi scaricò li. in un parco di Roma, perchè non era capace di accettare l'amore, lo stesso amore per cui ero nata io.
Selene era immobile e silenziosa, ma vedevo che si tratteneva a stento dall'urlarle in faccia. Poi finalmente mia madre se ne andò. Selene si rivole verso me.
«Ele, non dovev-»
«L'ha voluto lei, Selene» le dissi senza lasciarle la possibilità di dire qualcosa.
Sospirò e mi abbracciò forte.
«Forse poteva andare meglio. Mi dispiace che sia finita così»
«A me no» risposi.
Mi accarezzò.
«Verrai a stare da me. Mia madre ti adora e anche Fra» che era il compagno di sua madre, Angela, se la memoria non mi ingannava «saranno felici di averti in giro per casa. E ne sarò tanto felice anch'io» disse sorridente.
«Ti amo» le dissi.
Si accese ancora di più.
«Ti amo»
Mi scompigliò i capelli e tirò fuori il telefono.
«Chiamo mamma, andiamo a mangiare, ci facciamo una passeggiata e poi ti tiriamo fuori da quell'inferno, eh piccola?»
La abbracciai e mi accoccolai a lei.
«Grazie Selli. Sei la mia salvatrice»
 

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Capitolo 22
*** Addii ***


j La giornata passò abbastanza in fretta, e per un po' riuscii a non pensare a cosa era accaduto. Passeggiai mano nella mano con Selene, ci comprammo due braccialetti uguali.
«Così guardandolo penserai a me, se saremo lontane» mi disse ridendo.
Ma appena salimmo in macchina, mi tornò in mente tutto. Cercavo di nascondermi dai brutti pensieri affondando nelle braccia di Selli, ma non riuscivo comunque a non pensarci. Non potevo ancora credere che mia madre mi avesse abbandonato in quel modo.
Il viaggio mi sembrò brevissimo. Arrivammo davanti alla mia vecchia "casa", la prigione da cui ero evasa ore prima, e nemmeno me ne accorsi. Selli mi poggiò una mano sulla spalla. Mi voltai e incontrai i suoi occhi.
«Pronta?»
Feci un lungo sospiro, poi mi incamminai verso l'entrata.

Come aveva detto, mamma era li, lo testimoniava la macchina parcheggiata fuori.
Entrai. Lei era seduta sul divano a guardare la tv. Si girò verso di me.
«Ho svuotato gli armadi e messo i vestiti sul letto. Devi solo metterli nelle valigie»
«Ok»
Non riuscivo a capire se l'avesse fatto per farmi un piacere o per togliermi di mezzo il prima possibile. Salii in camera; c'erano diverse valigie contro il muro, tutti i miei panni invece erano ripiegati sul letto. Non erano molti, fortunatamente.
Iniziai a riempire le valige, pensando a tutto il tempo che avevo trascorso in quella piccola tana, la mia bolla dentro il mondo, ma allo stesso tempo al di fuori di esso. In fondo, mi dispiaceva un po' abbandonarla.
Staccai le varie cose che avevo attaccato al muro, raccattai i miei disegni, i miei colori, i miei libri... Di me non doveva restare traccia. Dovevo morire.
Iniziai a portare le valigie di sotto, con ansiosa calma. Selene, Fra e Angela le prendevano da fuori la porta e le caricavano in macchina; mamma era immobile a guardare la tv. Forse, in fondo, stava soffrendo un po' anche lei, ma non voleva darlo a vedere. Ed era del tutto indifferente, o almeno così pareva.
Una volta finito mi avvicinai alla porta.
«Allora io vado» le dissi, sperando che mi rispondesse, che facesse qualcosa.
«Aspetta»
Si avvicinò a me, mi portò un foglio.
«E' un documento. Così Angela potrà diventare la tua tutrice. Dato che lo vuole tanto»
Il suo tono, la sua espressione, era tutto vuoto.
Presi il foglio con la mano tremante e abbassai lo sguardo, in attesa di qualcosa.
«Forse è così che doveva andare» mi disse.
«Forse così staremo meglio tutte e due»
Non una carezza, non un abbraccio, una pacca. Nulla.
«Allora addio» dissi, anche se sembrò quasi una domanda.
Guardai nei suoi occhi, nessuna espressione. Niente di niente. Fece un piccolo cenno con la testa, come a salutare.
Così uscii. Chiusi la porta, feci un lungo respiro, e scoppiai a piangere.

Selene mi portò in macchina, mi calmai dopo un po'. Mi sentivo abbandonata a me stessa.
Stavo stretta a Selene e tremavo, le sue carezze non riuscivano però a farmi smettere.
«Per quanto lei possa odiarmi, rimarrà per sempre un piccolo spazio per lei nel mio cuore» dissi, asciugandomi le lacrime.
«E io rimarrò nel suo. Sai, lei non piange mai» dissi.
«Ma chiudendo la porta, per l'ultima volta abbiamo condiviso qualcosa, abbiamo fatto qualcosa insieme. Lei piangeva con me»
 

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Capitolo 23
*** Tranquillità ***


gdt Arrivammo alla nuova casa. Da ora iniziava una nuova vita, una nuova avventura. Cercai di tirarmi su il morale; cercai di farlo per Selene, che non mi voleva triste. Ed ero stanca di piangere, dovevo farmi forza. Avrei dovuto contare su di me, nient'altro che su di me.
Prima di entrare fermai tutti.
«Vi ringrazio per tutto quello che state facendo e farete per me... Mi sdebiterò in qualche modo. Spero di non darvi fastidio e vi prego, se c'è qualunque cosa che volete farmi fare, dovete dirmi o farmi notare, non esitate» dissi.
Gli altri sorrisero.
«Figurati, Ele. Sei la benvenuta» disse abbracciandomi forte. Lo stesso fece intendere Fra con il suo sorriso. Selene, invece, sembrava molto felice: mi abbracciava, saltellava, sembrava una bambina a cui avevano appena regalato qualcosa di tanto desiderato.
Mi sistemarono in una stanza accanto a quella di Selene. Quella casa aveva tante stanze vuote, ed effettivamente era grande per solo tre persone.
Mi presi il mio tempo e sistemai le cose nel grande armadio bianco che era li; tutto era bianco. I muri, le coperte e l'arredamento. Quella stanza sapeva di pace, ne era piena.
Sistemai i miei libri sulle mensole e nella piccola libreria. C'era anche un carinissimo angolo lettura, dove vi era una poltroncina proprio sotto la finestra e una lampada tra essa e la libreria. Era la stanza adatta a me.
Poco dopo, arrivò Selli.
«Allora, ti piace?» disse.
Annuii. Mi piaceva davvero.
Si sedette accanto a me, sul letto, e mi abbracciò. Adoravo abbandonarmi alle sue coccole, era come se mi portassero via dal mondo per un po'. Ero davvero felice quando ero con lei.
«Sei sicura che non darò fastidio?» chiesi.
«Scema! Non dai nessun fastidio» disse scompigliandomi i capelli.
Sbuffai e, per vendicarmi, le diedi uno spintone che la fece finire sdraiata sul letto.
«Maledetta» disse ridendo, e mi tirò sopra di lei.
Mi diede un bacio, poi rigirò le posizioni in modo che lei stesse sopra di me, e continuò a baciarmi, ma all'improvviso sentimmo bussare alla porta.
Selli mugugnò, e si rimise seduta.
«Avanti» dissi.
Era Angela.
«Io e Fra andiamo a cena fuori. Volete venire anche voi?» chiese, con la solita gentilezza.
«Bha, io sono stanca, vorrei rimanere a casa... Tu, Ele?» mi chiese Selli.
«Rimango con Selene, vi lascio soli soletti» dissi ad Angela.
«Va bene» ci risponse, facendoci un occhiolino.
«Vi ho lasciato dei soldi in cucina. Non prendete troppe schifezze»
«Siii maaaammaaaa» disse Selene. «Dai, andate, che fate tardi»
Angela ridacchiò. «Ho capito, devo andarmene. Ciao ragazze»
«Ciao Angela, buona serata!» le dissi. Mi salutò con un sorriso, poi se ne andò.
Selene rimase immobile e in silenzio finchè non sentì sbattere la porta di casa. Poi mi saltò addosso e mi ritrovai sdraiata sotto di lei. Mi sorrideva maliziosa dall'alto. Un po' mi spaventava.
«Che vuoi fare...?» chiesi.
Mi baciò.
«Nulla... Per ora» disse, con lo stesso terribile, malizioso sorriso.

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