Cronache Del Dopo - 2095

di Sikt
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Nascere (Capitolo 1) ***
Capitolo 2: *** Prima Parte: Vivere (Capitolo 2) ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Prologo: Nascere (Capitolo 1) ***


Cronache Del Dopo
“2095”


 

Con il termine “Dopo” si indica un periodo di tempo successivo ad un evento catastrofico non meglio specificato che ha colpito e danneggiato drasticamente il pianeta Terra in un’epoca non conosciuta, modificandola profondamente alla radice. I cambiamenti non hanno solo attaccato l’aspetto “naturale” del pianeta, ma anche quello “caratteriale”, le ripercussioni infatti hanno colpito l’intero genere umano. La storia che viene riportata qui di seguito segue degli eventi situati in un periodo che fa parte appunto del “Dopo” e quindi di come l’umanità e il pianeta Terra cercano di riformarsi dopo i danni subiti.







PROLOGO: NASCERE







 

CAPITOLO UNO
- 31 Dicembre 2094 Ore 23:30 -
“Il dio ordina ai magistrati di sorvegliare attentamente i bambini, di stare bene attenti al metallo che si trova mescolato alla loro anima, e se i loro figli hanno qualche parte di bronzo o di ferro, di essere per loro senza pietà e di assegnare ad essi il tipo d’onore dovuto alla loro natura, regalandoli nella classe degli artigiani e degli agricoltori; ma se da questi nasce un bambino la cui anima contiene dell’oro o dell’argento, il dio vuole che sia onorato elevandolo sia al rango di custode, sia a quello di difensore”(dalla Repubblica di Platone, 415bc)



L’orologio segnava poco meno di trenta minuti alla mezzanotte. Svuoto il bicchiere con un ultimo sorso e lo poso sul bancone, pago il barista e esco fuori in strada, rimboccandomi l’impermeabile e alzandomi il colletto. Pensavo che il Capodanno avrebbe giocato a mio favore, che i festeggiamenti nella Grande Piazza avrebbero contribuito alla realizzazione del piano: credevo che anche la scrosciante pioggia che ormai cadeva senza pausa da una settimana sul Quadrante Nove mi avrebbe aiutato. Purtroppo non sapevo che di lì a poco avrei rischiato seriamente la  mia vita, solo per salvarne un’altra. Mi chiamo Wayne Gonzales e ho ventuno anni. Non ricordo neanche più da quanto tempo è che vivo qui. L’unica cosa certa che ricordo è il suo viso prima che impallidisse fra le mie mani, prima che il suo sguardo divenne vitreo per sempre:  nostra figlia era nata da poco, ancora non eravamo riuscite a darle un nome. Mia moglie Daily morì in una manifestazione “pacifica” della Resistenza che si svolgeva nella Piazza. Il suo cadavere si andò ad accumulare a tutti gli altri che si accasciarono sul suolo quel giorno. Le cose brutte alla fine sono quelle che rimangono impresse nella nostra mente per sempre: gli ordini dei Custodi, la carneficina dei Difensori. Il sangue dappertutto, sulla strada e sui miei vestiti. I pensieri mi avevano portato altrove, non mi ero accorto di essermi ritrovate nel mezzo dei festeggiamenti, nella marmaglia di persone pronte ad alzare i bicchieri al cielo: cercai di mischiarmi nella folla. Il Signor Drake aveva avuto una soffiata: tutti i bambini dei dieci Quadranti vengono caricati sui dei camion e trasportati da una città all’altra ogni due anni. In uno degli ultimi carichi partiti dal Quadrante Nove ci sarebbe dovuta essere mia figlia. Li spostano in continuazione, non li fanno mai rimanere nello stesso luogo: è la Legge. Sanno che c’è sempre qualcuno della Resistenza pronti a liberarli. Nessuno è mai stato d’accordo su una cosa così tanto abominevole: in questo modo i bambini non sono rintracciabili dai loro genitori, li fanno viaggiare, li spostano e li educano i Custodi per anni e anni, fino a quando i genitori stessi non si dimenticano di avere dei figli, e così tutto può filare liscio nei Quadranti: nessuno reclamerà nessuno. Mr D. mi aveva confermato con certezza che il camion era partito da questo Quadrante due anni fa e proprio questa sera vi ritornava per dei controlli, evidentemente proprio per approfittare della confusione del Capodanno, per trasferire i bambini in tutta tranquillità. Mia figlia doveva trovarsi nella Costruzione 13B, uno dei palazzi di proprietà del Consiglio. La pioggia mi bagnava il viso e le gocce come un pianto scintillavano sul mio viso. La gente continuava a riversarsi in Piazza. Il portone del palazzo era davanti a me: era chiuso dall’interno, ma scassinarlo fu un gioco da ragazzi. Alla Resistenza ti insegnano questo ed altro. Mi ritrovai davanti un lungo corridoio, ai lati solo porte, di fronte a me una scrivania, probabilmente una sorta di reception. Pareva non esserci nessuno. C’era un computer lasciato accesso, incustodito: sbirciai qualche cartella. L’ultimo carico di bambini si trovava al piano di sopra, stanza Z. Mi incamminai con passo accellerato verso la rampa di scale: tutto quel silenzio e quella tranquillità mi diedero alla testa. Arrivo dal nulla il potente destro di un Difensore, e non riuscii a schivarlo. Con la faccia sul pavimento, rintronato, sentii il sangue caldo iniziare a sgorgarmi dalle labbra: cercai in tutti i modi di rialzarmi il più velocemente possibile, ma mi ritrovai immobile, bloccato dalla presa di due guardie. Un possente Difensore sedeva sopra di me, ebbi un faccia a faccia con le canne mozze di un fucile. L’altra guardia allentò la presa su di me in modo tale da chiamare i rinforzi: sono morto quindi? No. Quello sopra di me si distrasse un attimo spostando la sua attenzione sull’altro suo compagno: ne approfittai per mettere le mani sul collo del fucile, lo tirai verso di me e con tutta la forza che avevo in corpo lo sbattei violentemente sulla fronte del tipo. Il Difensore frastornato, crollò a terra, ma era tenace, stava già per ritornare in piedi. Non gli diedi un attimo di pace, dovevo sfruttare quell’occasione: dovevo liberare mia figlia! Con un’altra botta sullo stomaco, riuscii a farlo sbattere sul suo altro compagno, appena dietro di lui, che nel frattempo era riuscito a legarmi le caviglie. Era il momento buono per tagliare la corda. Scappare mi risultò molto difficile, saltavo sulle scale con i piedi legati il più velocemente possibile. Era come se non riuscissi a muovermi neanche di un millimetro, un solo salto con quelle tenaglie ai piedi era stremante. Sentivo il filo stringersi sempre di più attorno alle caviglie, pensavo che da un momento all’altro sarei crollato con le ossa rotte. Avevo il viso e i vestiti completamente inzozzati del mio sangue. Le tempie mi pulsavano e mi sentivo il cuore in gola. Ero vicino alla fine delle scale quando percepii una terribile fitta alla spalla: un proiettile mi aveva colpito, l’odore della polvere da sparo era ancora nell’aria. Un terzo Difensore era arrivato alle mie spalle. Un’altra decina lo raggiunsero. Mi accasciai sul pavimento senza avere neanche più la forza di respirare…Ricordo solamente il forte sapore di plastica degli anfibi neri dei Difensori sui denti. Le cose brutte alla fine sono quelle che rimangono impresse nella nostra mente per sempre.

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Capitolo 2
*** Prima Parte: Vivere (Capitolo 2) ***


PRIMA PARTE: VIVERE

 
 
 

 CAPITOLO DUE
- 1° Dicembre 2094 Ore 08:00 -

“Il nostro scopo nel fondare lo Stato non è di rendere felice un unico tipo di cittadini, ma che sia felice quanto più è possibile lo Stato nella sua totalità […]. Non dobbiamo distinguere nello Stato una parte di pochi cittadini da rendere felici, ma vogliamo la felicità di tutti.(dalla Repubblica di Platone, 420b-c)
 

«Nonostante le condizioni metereologiche quest’anno non siano delle migliori, come tutti gli anni le celebrazioni del Capodanno si svolgeranno dopo la mezzanotte nella Grande Piazza, e come di consuetudine in tutti i centri dei Dieci Quadranti dello Stato. Questa era l’ultima notizia per oggi. Avete seguito il Bollettino Giornaliero, grazie per la vostra attenzione.»

L’assordante suono della sirena annunciava l’inizio di una nuova giornata lavorativa. Mi misii su l’impermeabile, le nuvole in cielo annunciavano pioggia: uscii dal mio appartamento e mi diressi in strada, che era già abbastanza affollata. La presenza dei Difensori era asfissiante, controllavano ogni angolo di strada, pattugliavano ogni incrocio. Occhi aperti su tutta la popolazione del Quadrante. Prima di andare in ufficio decisi di passare al negozio del vecchio Tom a comprare qualcosa per pranzo. Svoltai un angolo, poi un altro ancora: lo stile del suo negozio era obsoleto per le costruzioni della città, sembrava di tornare indietro nel tempo fra tutto quel metallo e cemento. La porta cigolò e fece rintoccare il campanello sopra di essa. Tom Renner uscì dal retrobottega con un paio di scatole in mano che gli coprivano il volto e senza esitare mi disse:

«Wayne, buongiorno! Vieni dai, queste sono appena arrivate.»

Mi fece cenno di avvicinarmi al bancone. La scatola che vi era poggiata era sigillata da uno scotch rosso. Tom lo tolse via con un taglierino, la aprì e la spostò sotto i miei occhi. Quel che vidi mi intimorì e sorprese allo stesso tempo. Un paio di calibro 45 giacevano su un tappeto di polistirolo.

«Tom, ma che diavolo…»

E lui mi interruppe.

«Uno che fa parte della Resistenza lavora giù al confine del Quadrante...Un tizio credo classificato come “bronzeo”. E’ riuscito a farle passare senza problemi, lo scotch rosso sta per “approvate dal Consiglio”…Ma il Consiglio questa scatola non l’ha mai revisionata: Questa come le altre che stanno per arrivare.»

Non sapevo che dire. Tom infatti se ne accorse e continuò.

«Che ti prende? Se sono queste le cose che ti fanno rimanere a bocca asciutta aspetta di sentire questa : entro la prossima settimana avremo anche le informazioni su quel carico di bambini. Quello partito da qui due anni fa! Siamo piuttosto certi che tua figlia possa essere lì. La rivuoi indietro Gonzales? Allora ti serviranno per forza queste.»

Così dicendo, tirò fuori l’arma dalla scatola, la mise in un sacchetto e l’allungò verso le mie mani.

«Ovviamente ricordati della riunione di dopodomani.»

Nel frattempo mise nella busta anche un po’ di pane, degli affettati, due scatole di fagioli e una bottiglia d’acqua.

«Non so cosa dirti…»

Furono le uniche parole che mi uscirono dalla bocca quel giorno nel negozio di Renner.

«Non c’è bisogno che ringrazi. Lo facciamo per l’amore della Patria giusto? Ah, prima che mi dimentichi, non si fa giustizia senza di queste.»

E mi mise fra le mani una scatoletta di proiettili. Cercai di nascondere meglio l’arma nel sacchetto, e lui evidentemente notò il tremore nelle mie mani perché avvicino le sue alle mie e stringendomele mi disse con voce ferma:

«Ci riprenderemo tua figlia Wayne. Ci riprenderemo tutti quei bambini. Lo giuro su Dio. Lo giuro sull’esistenza del Consiglio.»

Gli voltai le spalle senza spiccicare una parola. Riuscii a malapena a salutarlo con un cenno della testa uscendo dal negozio: il campanello rintoccò un’ultima volta e nella mia testa quel rintocco risuonò come le campane suonate ad un funerale. Continuarono a farlo come se annunciassero una condanna a morte.
 
- Ore 08:45 -
Davanti a me adesso si ergeva maestosamente il Palazzo degli Uffici, dove mi recavo ogni mattina per lavorare.

«Ottantasettesimo piano.»

Squillò la voce metallica di Karen, l’intelligenza artificiale che controllava gran parte delle tecnologie nei Quadranti. Le porte si aprirono e percorsi il lungo corridoio che portava al mio ufficio: ai “bronzei” di solito vengono affidati lavori del genere, come il mio. Un semplice impiegato. Appena nasci decidono che tipo di “metallo” tu sia. Ti ritrovi con una scritta sul polso che dice “oro” o “bronzo” nel mio caso, ma nessuno ricorda mai nulla di quei momenti. Come nessuno sa che fine fanno quelli a cui non viene scritto nulla sul polso…O meglio, ce lo immaginiamo. Se esiste ancora un Dio, spero che conservi un po’ della sua misericordia per quello che fanno le persone nel Consiglio. Salutai qualche collega con dei finti e caldi “buongiorno” e finalmente potei accendere il computer. La scritta “Ventiquattro nuove email” lampeggiò a tutto schermo, eppure era stato spento solo due giorni! I Database funzionavano tranquillamente, quindi procedetti alla lettura: gente che chiedeva di risarcimenti, consigli per lo Stato, problemi della circolazione e cose così, temi quotidiani. Il mio occhio però si soffermo su ben sette email provenienti dallo stesso username, “Coyote”. Nulla di più specifico. Incuriosito ne aprii e lessi attentamente ciò che era scritto:

“Sono le guerre a plasmarci, a fare grandi le persone. Voglio vedere cose succederebbe a me. Fammi entrare nella Resistenza o ti denuncio ai Difensori.”

Il mio sguardo era stato ipnotizzato dalla luce elettrica dello schermo del computer, rimasi allibito scoprendo che le altre sei email dicevano esattamente la stessa cosa; la mia copertura era saltata, il panico cominciò ad aleggiare nel mio corpo nonostante la calma e la freddezza che cercavo disperatamente di mantenere. Chi poteva avermi scoperto? Il nome “Coyote” non mi diceva assolutamente niente…Qualcuno che potesse lavorare in questo Dipartimento? D’un tratto, come se fossi stato strappato via da un brutto sogno, il mio Capo bussò sulle mura divisorie del mio piccolo ufficio e mi disse:

«Buongiorno Gonzales. Dio mio che brutta cera che hai oggi.»

Le parole di Coluard mi riportano alla realtà. Con un movimento di mano velocissimo chiusi tutte le finestre sul desktop temendo che potesse leggere qualcosa: la situazione di certo non migliorò, perché adesso sullo sfondo si ergeva lo stemma dello Stato; una mano che manteneva un Pianeta Terra che eclissava il Sole. I suoi raggi spuntavano da dietro la forma ellittica del pianeta.

«Senti Wayne, devi controllare questi bilanci per i festeggiamenti di Capodanno e correggere eventuali errori.»

Le sue parole rimbombavano nelle mie orecchie.

«Ah, poi oggi tocca a te il turno per il solito checkup giù, nella stanza dei Database.»

Continuò Coluard.

Man mano recuperavo lucidità, ero ancora praticamente sconvolto. Si stavo accorgendo che c’era qualcosa che non andava, così di fretta e furia raccolsi tutte le scartoffie che mi aveva dato sulla scrivania e dissi:

«Faccio subito Capo.»

E gli lanciai un sorrisino. Il più finto che questa città uggiosa abbia mai visto.

Coluard andò via senza dire niente e incominciai così un’altra giornata di lavoro; terminato il controllo ai bilanci e decisi di prendere una tazza di caffè prima di scendere nella stanza 1984 dei Database. File e file di server si estendevano nei metri quadrati della camera, e mi diedi subito da fare con le usuali procedure: back up dei dati, formattazione, controllo di dati residui, reinserimento dei dati nel server. Procedure complicate ma necessarie, una sola falla nel Sistema e il Governo sarebbe crollato: ovviamente oro colato per la Resistenza, che già da tempo tenta di metterci le mani sopra. Io però adesso qui sono un semplice impiegato dello Stato e le operazioni sono troppo rischiose, non posso mettere a repentaglio delle vita ora che qualcuno ha anche scoperto la mia copertura…Costerebbe caro a tutti. Ero accovacciato per terra, ad ultimare le ultime cose quando improvvisamente la porta d’entrata scivolò con un suono metallico quasi impercettibile: incominciai ad udire dei passi, così mi affacciai per controllare chi fosse: Coluard era venuto a verificare come procedessero le cose. Il suo sguardo però non mi convinceva del tutto, e devo ammetterlo, credetti che fosse una sensazione di paranoia eccessiva per la brutta giornata che stavo vivendo, ma mi accorsi troppo tardi che c’era veramente qualcosa che non andava, quando iniziò a parlare direttamente al Computer Principale:

«Karen, blocca l’uscita e disattiva le telecamere della stanza. Resetta anche le tue funzionalità in questa parte di edificio, grazie.»

Parlava e si avvicinava a me. L’IA rispose qualche secondo dopo

«Comandi eseguiti Capo Dipartimento Coluard.»

e con un piccolo bip segnò il suo spegnimento. Eravamo isolati dal resto del palazzo, da tutto e da tutti.

«Qualcosa non va Capo?» gli chiesi.

Il suo scatto fu velocissimo e inaspettato: me lo ritrovai addosso, senza possibilità di muovermi, mi spingeva contro il muro e con un braccio cercava di bloccarmi alla gola.

«Da quanto tempo ci sei dentro?»

Mi sbraitò contro…In quel momento tutto mi sembrò molto più chiaro. Tenetti la bocca chiusa e lui continuò, quasi accecato dalla rabbia:

«Rispondimi Gonzales! Da quanto tempo è che sei nella Resistenza?»

Era davvero lui l’utente “Coyote”, mittente di tutte quelle email? Nella mia testa immaginai tutti i possibili scenari in cui Coluard andava denunciarmi ai Difensori: finivano tutti in un bagno di sangue…Mi sorpresi però quando con la stessa velocità con cui mi si era gettato addosso, si ritrasse, togliendo il braccio e facendomi tornare a respirare. In quel momento il mio Capo scoppiò in lacrime.

«Il mio nome completo è John Coyote Coluard…Wayne, tu devi aiutarmi! Fammi entrare nella Resistenza! Non…Non ce la faccio più a sottostare agli ordini dello Stato…Voglio scalare le vette più alte, spodestare chi comanda. Aiutiamo insieme questo Quadrante! Ho grandi idee in mente per voi…Ti prego Wayne…»

Il panico ebbe il sopravvento su di me: mi gettai con violenza contro di lui. Coluard cadde di peso sul tavolino lì vicino; sentii un inquietante “crack” quando la sua testa vi sbatte sopra, rovesciando il mio caffè tutto su un server lì vicino. L’IA Karen si riavviò all’istante facendo partire l’allarme.

«Infiltrazione nel Sistema. Danneggiamento Database, evacuare l’edificio per evitare ulteriori attacchi».

Le urla di panico degli altri impiegati si aggiungevano all’assordante rumore della sirena. Mi diressi, rintronato, verso l’uscita della stanza, fuggendo con tutte le mie forze fuori dal palazzo. La porta della stanza 1984 si richiuse dietro di me, e la voce di Karen risuonò meccanicamente un’ultima volta.

«…Messa in sicurezza dei Database, 55%...»

Prima che la porta si chiudette completamente vidi per un’ultima volta lo sguardo di Coyote Coluard ancora percettibile nella fessura. Quel momento durò un’eternità…Quegli occhi erano fissi nel vuoto o guardavano me? Avevo…Ucciso il mio Capo? Quello sguardo. Non passa giorno senza che me lo senta dentro le viscere…Una di quelle cose che non si dimenticano facilmente.

- Ore 15:15 -
La giornata lavorativa era ormai finita. Nessuno sapeva cosa avevo fatto: neanche Karen. Mi venne da vomitare e mi fermai un attimo per la strada del ritorno. Chinai la testa verso il basso stringendomi forte lo stomaco…Alcuni conati uscirono dalla mia bocca: rialzando la testa mi accorsi di essermi fermato davanti al negozio, ormai chiuso del Signor Renner. Chissà lui cosa avrebbe fatto in una situazione del genere. Ripresi fiato e continui ad incamminarmi verso casa. Arrivato all’appartamento aprii la porta, e posai la busta che mi aveva dato il vecchio R. sul tavolo. Tirai fuori la pistola dal sacchetto e la caricai con i proiettili che Tom mi aveva dato. Mi sedetti sul letto con la calibro 45 fra le mani e decisi che da quel momento, fino alla fine della mia esistenza, l’avrei sempre portata con me.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO TRE
- 3 Dicembre 2094 Ore 17:30 -

E’ passata ormai un’altra giornata da quel…Come definirlo…”Incidente”. Per fortuna avrei avuto più tempo comunque per svuotare la mente e dedicare tutto me stesso alla riunione della Resistenza. Si sarebbe tenuta di lì a poco in mezz’ora. Decisi comunque di uscire prima di casa, così, per passeggiare un po’ tranquillo prima dell’incontro. Nonostante la grigia città di metallo e cemento, e le difficili condizioni in cui eravamo costretti tutti a vivere, il lungomare del Quadrante Nove era il più rinomato fra tutti e dieci: fu lì che mi diressi. Una lunga distesa di acqua salata costeggiava la stragrande maggioranza della città, divisa in una moltitudine di quartieri collegati tra di loro con ponti e ponticelli. In lontananza nonostante il cielo nuvoloso, si poteva scorgere il Confine. Tanta spensieratezza mi riempiva la testa in quel momento, quasi da farmi dimenticare chi fossi e cosa stessi facendo. Mi soffermai a guardare il movimento delle acque, piccole onde frastagliate. Mi rilassai e poggiai le braccia conserte sulla ringhiera. Poche persone passeggiavano lì quel pomeriggio: un coppia portava a spasso un cane; un paio di impiegati con annessa valigetta correvano chissà dove, ed un uomo si sedette in quel momento su un panchina non troppo distante da me. Lo guardai per un attimo un po’ perplesso, perché indossavo degli occhiali da sole molto sottili. Occhiali da sole con il tempo che c’era? Nulla ormai poteva sorprenderti più di tanto nella realtà in cui vivevamo. Decisi di non pensarci più di tanto e mi incamminai di nuovo per terminare la passeggiata prima di presenziare alla riunione. La coda dell’occhio però non potè fare a meno di notare che l’uomo sulla panchina si mosse insieme a me: di nuovo una situazione di paranoia eccessiva? Le giornate si stavano facendo stressanti, ma no: io andavo a destra e l’uomo con gli occhiali da solo andava a destra; io a sinistra e lui pure. Qualcuno mi stava pedinando e lo stava facendo anche male. Aveva a che fare con la faccenda Coyote? Qualcuno poteva aver sentito o visto la nostra conversazione? Sicuramente avranno identificato la morte di Coluard come un attacco di panico andato male a causa della frettolosa evacuazione del Dipartimento. Cosa volevano ancora da me? Svoltai velocemente un angolo, uscendo quindi dal lungomare e mi nascosi dietro il muro. Anche se avevo la pistola adesso sempre con me, non avevo intenzione di utilizzarla, almeno non al momento, così presi in mano il coperchio di un bidone lì vicino e aspettai, sapendo che anche quel tizio avrebbe svoltato in quest’angolo. Lo fece. La prima cosa che spuntò dall’angolo furono quei maledetti occhiali da sole: mi stavano dando alla testa. Colsi l’uomo di sorpresa colpendolo dritto sul suo naso; probabilmente glielo ruppi, perché Il tipo cadde per terra e in un attimo ebbe la faccia piena di sangue. I suoi occhiali erano andati completamente in frantumi, ma il suo viso ormai di un colorito rosso mi impedì di capire chi fosse. Feci appena in tempo a posare il coperchio per terra che lui, con un calcio mirato alla mia caviglia, mi fece sbattere di schiena per terra. In un attimo il tipo fu sopra di me: altri scenari si affacciarono nella mia testa. Sempre il solito bagno di sangue. Il mio. Cercai di dimenarmi in tutti i modi possibili e gli misi le mani in faccia per allontanarlo da me, ma l’unico risultato fu qualche goccia rossa sui miei vestiti. Mi accorsi però che ormai la sua faccia si era pulita e adesso aveva un senso…I miei occhi cedettero a tanta incredulità. Rivoli di lacrime di paura bagnarono le mie guance. John Coyote Coluard era resuscitato per farmela pagare? Stavo forse impazzendo per l’eccessivo stress delle ultime giornate? Il fantasma non aprì bocca: aveva lo stesso terribile e inquietante sguardo di due giorni fa, quando lo vidi per l’ultima volta prima di fuggire. Allungò le mani e mirò al mio collo: iniziò a strangolarmi. Mi ci volle poco per capire che se non avessi fatto qualcosa di lì a poco sarei sicuramente morto e nessuno l’avrebbe saputo, né tantomeno quelli della Resistenza. Io e Coluard ci saremmo rivisti all’Inferno. Un altro dolore si stava aggiungendo alle ormai terribili pulsazioni della testa e alla vista annebbiata…Qualcosa mi premeva forte sul fianco destra. La pistola! D’un tratto mi ricordai della pistola. Solo Dio sa dove trovatti la forza per estrarla. Col collo della pistola inizia a picchiarlo violentemente sulla tempia, man mano sentivo la presa attorno al mio collo allentarsi. L’adrenalina scorreva inesorabile ormai nel mio corpo e mi fece rinvenire: l’uomo che stavo colpendo non era una creatura dell’oltretomba, Coyote non era morto, una lunga e profonda cucitura sulla tempia dove lo stavo attaccando era l’unica cosa che gli rimaneva. Il punto dove aveva sbattuto cadendo sul tavolino! Sangue iniziò a sgorgare a fiotti e Coluard si arrese al dolore, cadendo all’indietro e coprendosi il volto con le sue mani. Ero riuscito ad alzarmi, e adesso puntavo la pistola proprio contro il suo petto. La mano mi tremava, stavo sudando. L’adrenalina mi aiutò a vivere un momento della mia vita che mai dimenticherò: la mente si svuotò, tutto si focalizzò in quell’unico attimo, come se fossi nato in quel momento e stessi per morire in quello stesso istante. L’enorme castello di carta formatosi nei due precedenti giorni adesso di reggeva su quei pochi secondi che mi separavano dall’ucciderlo. Non potevo fare altro. Anche il vicolo attorno a me parve svuotarsi. Bianco come l’infinito. La città si svuotò e l’interò mondo divenne vuoto: rimanemmo solo io, lui e il proiettile che gli avevo appena impiantato nel torace. Coyote sussultò per un attimo. Forse i laghi di sangue che mi ero immaginato nelle precedente ore non appartenevano a me. in una giornata che sicuramente sarebbe stata la più lunga di tutta la mia vita, il suo e il mio dolore scomparvero. Finalmente John chiuse gli occhi e per un attimo, fu come se il suo inquietante sguardo non fosse mai esistito.

- Ore 17:55 -

«Sono Drake Hill, Capo Riunione sostituto per questo incontro della Resistenza numero uno, due, quattro, cinque, quattro: Sebastian Miles è dispiaciuto per non essere presente qui quest’oggi a presidiarla lui stesso, per questo ha chiamato me. Messo a verbale che fra gli assenti di oggi vi è solo…Wayne Gonzales giusto?»

Un vecchiaccio di fronte a me mi guardò scrutandomi dal basso verso l’alto. Sebastian me li avevi descritti i suoi compagni, credo che questo qui fosse Tom Renner.

«Dove cazzo è Miles? » mi sbraitò contro.

«Il Signor Hill non è qui presente oggi a causa di vari impegni che non ha potuto rimandare: è pur sempre un’anima d’orata no? Avrà avuto i suoi buoni motivi.»

«Lei chi è per sostituirlo?» mi domandò Felicia Sanchez.

«Sono suo cugino. E se non avete altre domande da farmi, metto a verbale i presenti: Tom Renner, Felicia Sanchez, Julia Smith, Elektra Black e Andrew Price. Sei compreso me.»

La Signorina Black era appena rientrata dal bagno e si sedette al suo posto con un aria smarrita: non vedere il solito Sebastian all’incontro doveva essere uno shock per tutti. Diciamo che era tutta una questione di fiducia di questi tempi. Elektra è appena una minorenne…Mi chiedo se non sia sbagliato strappare via una ragazzina così dalla sua giovinezza e portarla sul campo di battaglia. Il ragazzo, Andrew, le si avvicinò all’orecchio iniziandole a parlare sotto voce: Elektra annuiva e mi guardava. Probabilmente le stava spiegando che io ero il sostituto. Credo che Sebastian mi abbia detto che i due fossero fidanzati, per quanto possibile in un mondo del genere: Andrew aveva diciannove anni, lei sedici. A quanto pare dicevano di amarsi…Fortunati loro che ci riescono ancora: pagherei io come lo farebbero anche loro per vivere appena dieci anni fa. Quelli erano bei tempi. Un’altra donna, Julia Smith, stava invece nel frattempo versando un bicchiere d’acqua alla Signora Sanchez. Entrambe erano donne di una certa età: la Smith andava verso i sessanta, mentre Felicia ne aveva appena quarantacinque. Julia era vedova da ormai due anni. Suo marito, Carlos, era morto in un attentato nella Grande Piazza. Sanchez invece era orfana. Probabilmente il non avere una famiglia al suo fianco la spinse ad entrare nella Resistenza, per far sì che lei diventasse la famiglia di qualcuno, qualcuno che voleva combattere, che aveva sempre combattuto nella sua intera vita, come aveva fatto lei. Insomma, qui abbiamo dei veri e proprio combattenti.

«Direi che possiamo procedere.» disse Tom.

Le sue parole però non furono le uniche cose ad interrompere il chiacchiericcio generale della sala. La porta della stanza si aprì con forza, sbattendo contro il muro: un tonfò rimbombò. La luce che entrava adesso illuminava il pavimento, facendo brillare un paio di gocce di sangue. Un uomo adesso si poneva, a malapena, di fronte a noi. Uno stupore generale invase gli occhi degli altri presenti; io fui soltanto scosso, non conoscevo ancora bene nessuno, ma capii dalle loro facce che doveva trattarsi di Wayne. La sua giacca era imbratta di sangue, un po’ lo era anche il suo viso. I suoi occhi non traspiravano nulla, sembrava che gli mancassero le pupille. Era terrorizzato e lo capimmo tutti. Le sue mani allentarono la presa su di una pistola che si riversò al suolo: non disse una parola. Il suo sguardo ora era fisso sul pavimento e ancora altrove, probabilmente su quello che aveva potuto combinare, Dio solo lo sa.

Il vecchio Renner si alzo di scatto.

«…Wayne ma che diavolo combini?» disse.

Il Signor Gonzales ci squadrò uno a uno. Poi semplicemente svenne, accasciandosi al suolo.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO QUATTRO
- 4 Dicembre 2094 Ore 02:15 -

«Cazzo se sta dormendo profondamente.»

«Puoi smetterla di dire parolacce ogni santa volta Tom? Dio! C’è una ragazzina qui!»

Felicia rivolse lo sguardo verso di me, ma in realtà le parole del vecchio non mi disturbarono affatto.

Drake si avvicinò al Signor Gonzales, che era disteso su una brandina, e gli passo due dita sotto le narici:

«Credo si stia svegliando. Mi passi l’acqua Julia?» disse.

La Signora Smith gli porse un bicchiere colmo d’acqua e mentre Drake cercava di bagnare delicatamente le labbra di Wayne, il Signor Renner glielo strappo dalle mani.

«Dà qua!» sbraitò, e getto l’acqua in faccia a Gonzales.

Wayne rinvenne di soprassalto, ansimando. Iniziò a guardarsi intorno quasi compulsivamente. Si stava orientando, ma era ovviamente sotto shock.

«Fai dei respiri profondi.» Andrew cercò di calmarlo…

…E forse ci riuscì anche fin troppo, perchè alzo la schiena di scatto e afferrò con ferocia il bavero della camicia di Tom. Lo trascinò verso di sé, e le loro facce quasi si toccavano.

«L’ho ucciso.» disse il Signor Gonzales.

«Chi…Chi hai ucciso Wayne?» Tom esitò nel domandare.

«J-John Coyote Coluard. Tom, ho ucciso il mio capo Dipartimento.»

Adesso il Capo Riunione Hill era in piedi, guardava un punto fisso nel vuoto: le sue dite iniziano a tremare piano piano.

 

- Ore 05:55 -

Wayne finì di raccontarci tutta la storia. Il vecchio Renner tirò un calcio ad una sedia, facendola rotolare per terra. Gli occhi sbarrati del Signor Hill cercavano  una soluzione. Nella sua mente, forse, stava immaginando la più veloce da utilizzare.

«Ci ha compromessi Gonzales. Dal primo all’ultimo in questa stanza, lei ha appena firmato le nostre condanne a morte.» esordì Julia.

A quanto pare Tom era totalmente d’accordo con lei:
«Cristo Santo!» disse, e come se Wayne non avesse già sofferto abbastanza, gli sferrò un forte gancio in faccia.

Per fortuna Andrew e Felicia intervenirono subito, bloccandolo, e lo misero a sedere.

«Tom, quant’è vero che adesso siete tutti sotto la mia giurisdizione, se non ti calmi io ti strappo la vita dal corpo con le mie mani. Mio cugino ti sopporta e non so come faccia, ma tu adesso…TI DEVI DARE UNA CAZZO DI CALMATA!»

Il Capo Riunione Hill ruppe il suo silenzio con una delle minacce più inquietanti che io abbia mai sentito. I nervi di tutti erano ufficialmente crollati.

La Signor Smith, a causa della sua veneranda età, non si azzardò mai ad alzare i toni. Il suo volto rimase impassibile, non mostrava alcun segno di cedimento. Io invece, per la prima volta in tutta la mia vita, avevo paura: paura che le cose potessero mettersi male, molto male.

Wayne si riprese dopo il cazzotto incassato e incominciò a parlare, per la prima volta da quando era arrivato, in modo logico e non confusionario.

«Ragazzi, Tom…Mi dispiace. L’impulsività mi ha tradito. Avevo passato dei giorni molto stressanti già a causa dell’incidente agli uffici…Io sono solo un semplice impiegato qualunque! Non riesco a pensare come voi! Mi manca lo spirito da battaglia. Il vostro ragionamento da guerriglia io non…Non ce l’ho. Non sono ancora abituato a vivere in questo modo…»

Le parole di Wayne sembrarono familiari a tutti i presenti nella stanza: nessuno ovviamente si era ancora abituato a quella situazione e non credo che mai ci avremmo fatto l’abitudine. Le vecchie memorie di tutti che aleggiavano nella stanza, vennero d’un tratto interrotte quando la linea d’emergenza della Resistenza squillo: solo i membri chiamano su quel telefono. Drake corse a rispondere per poi ritornare pochi minuti dopo.

«Per oggi la chiudiamo qui. Era Sebastian al telefono. Dice che ritorna fra tre giorni: fino a quel momento posso fare insabbiare la notizia dell’omicidio dai media, o almeno ci provo, così avremmo un po’ più di tempo per pensare. Uno che conosco della Resistenza lavora alla Stazione delle Comunicazioni e mi deve un favore, vediamo cosa riesco ad inventarmi. Ci rivediamo qui esattamente il sette dicembre, quindi fino a quel momento fatevi una doccia, sciacquatevi gli altri pensieri inutili di dosso e focalizzatevi solo sul da farsi da oggi in poi. Questo momento è l’unico che conta.»

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