Coming Home di _KyRa_ (/viewuser.php?uid=79577)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** One - Bravery or cowardice ***
Capitolo 3: *** Two - Start again ***
Capitolo 4: *** Three - When everything seems useless ***
Capitolo 5: *** Four - It's all because of him! ***
Capitolo 6: *** Five - Trying to get used ***
Capitolo 7: *** Six - T ***
Capitolo 8: *** Seven - Just a picture ***
Capitolo 9: *** Eight - Something about you ***
Capitolo 10: *** Nine - What's the big deal? ***
Capitolo 11: *** Ten - When everything happened ***
Capitolo 12: *** Eleven - Blackout ***
Capitolo 13: *** Twelve - Upside down ***
Capitolo 14: *** Thirteen - Getting into your life ***
Capitolo 15: *** Fourteen - Does this feel wrong? ***
Capitolo 16: *** Fifteen - New Year's resolutions ***
Capitolo 17: *** Sixteen - Past, present and future ***
Capitolo 18: *** Seventeen - The best or the worst ***
Capitolo 19: *** Eighteen - Falling to pieces ***
Capitolo 20: *** Nineteen - Facing the reality ***
Capitolo 21: *** Twenty - Crossroads ***
Capitolo 22: *** Epilogue ***
Capitolo 1 *** Prologue ***
boh
Disclaimers:
i Tokio Hotel non mi
appartengono e tutto ciò che ho scritto è frutto della mia mente.
Prologue.
I'm
coming home, I'm coming home
Tell
the world I'm coming home
Let
the rain wash away all the pain of yesterday
I
know my kingdom awaits and they've forgiven my mistakes
I'm
coming home, I'm coming home
Tell
the world that I'm coming
[Coming
home, Diddy & Skylar Grey]
Spesso,
chiedere perdono è arduo.
Inspiegabilmente
si considera una bassezza, un'umiliazione bella e buona. Ma si è mai
commesso un errore più grande di se stessi? Così tanto da mozzare
il fiato? Più grande di ogni altra umiliazione?
Lei
sì. Lei lo aveva fatto.
Ed
assieme a se stessa, aveva ferito le persone più importanti della
sua vita, senza riflettere, senza pensare a loro, da perfetta
egoista.
E
per questo doveva chinare la testa, raccogliere il fardello dei
propri sbagli ed affrontare chi aveva ferito.
Ingie
stava per farlo.
No,
non l'aveva capito subito; aveva agito d'impulso fin dall'inizio,
commesso madornali errori e continuato a commetterli, senza rendersi
conto del dolore inutile che stava procurando ad altre persone.
La
nostalgia ardeva dentro di lei come un tizzone, che la dilaniava
giorno dopo giorno.
Ed
era la nostalgia l'unica spiegazione per cui si trovava di fronte a
quella casa, intenta a torturarsi le mani umide mentre esitava sul
prossimo passo da compiere.
Non
sapeva cos'avrebbe trovato dall'altra parte. Accettazione? Rifiuto?
Un cinquanta percento di possibilità pesante come un macigno.
Ingie
si sentiva sempre più ansiosa e la tentazione di girare sui tacchi e
correre via era opprimente; ma non poteva farlo, non di nuovo. Era
giunto il momento per lei di accantonare i suoi timori, per una volta
nella vita.
Preso
un bel respiro, quindi, pigiò con l'indice quel dannato pulsante, il
quale la pose, con un trillo, di fronte ad uno spaventoso bivio.
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Note
finali
Mi
fa un po' strano postare una nuova Long, dopo quasi un anno e mezzo
di pausa. Sì, le ultime due storie che ho scritto mi hanno stremata!
Ammetto che ci ho pensato molto, prima di postarla. L'idea di
ricominciare da capo, sembra assurdo, mi spaventa un po' e non so il
motivo. Forse l'idea di tornare ad impegnarsi a scrivere velocemente,
di sperare in vostri commenti positivi, non so. Quasi non mi ricordo
come si fa, ahahah!
Comunque,
questa è una storia che mi è venuta in mente all'improvviso. Non mi
è mai capitato di avere le idee così perfettamente chiare sin
dall'inizio, tanto da scrivere un lungo riassunto su questa storia ed
un altro per il suo sequel. So già come si svolgerà e come si
concluderà questa FF e lo stesso riguardo il suo seguito. È una
cosa molto positiva, che mi permetterà di scrivere frequentemente –
eccetto cause esterne – e senza pause troppo lunghe, date da
assenza di fantasia.
Da
questo prologo non si capisce ancora nulla della storia, ma dal primo
capitolo sarà un po' più chiaro, anche se non in toto. Ci saranno
ancora molte cose non dette.
Tengo
molto a questa “creatura” e mi farebbe piacere leggere le vostre
impressioni. Ho seriamente bisogno di leggere le vostre recensioni,
perché è l'unico modo per capire se sbaglio e dove. E poi, è
sempre “ripagante” vedere che utilizzate qualche minuto per
scrivermi delle vostre impressioni, dopo l'impegno che metto per far
uscire fuori qualcosa di, spero, più che leggibile.
Spero
la possiate apprezzare.
Fatemi
sapere che ne pensate; un bacio.
Kyra
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Capitolo 2 *** One - Bravery or cowardice ***
ciao
One
Bravery
or cowardice
Cinque
mesi prima...
“L'aereo
sta per prepararsi all'atterraggio, pertanto preghiamo i signori
viaggiatori di allacciare le cinture di sicurezza.”
Si
era data un'occhiata attorno e non aveva visto null'altro che facce
intontite da tutte quelle ore di viaggio.
Non
che si aspettasse di incontrare lo Spirito Santo, ma per lo meno
aveva sperato di intravedere anche solo un semplice sorriso; ne aveva
tanto bisogno.
Con
un lieve sospiro, si strinse attorno al ventre la cintura.
Non
mancava molto; la sua nuova vita l'attendeva da lì a qualche minuto:
era una magra consolazione ma le fece momentaneamente accantonare il
macabro pensiero del suicidio. Buttarsi da un aereo in volo poteva
essere una buona idea, certo, ma lei era troppo codarda per farlo.
Si
sentiva svuotata della sua anima; si sentiva come un pesce fuor
d'acqua, come un fiore senza il suo profumo. Sentiva male al cuore.
Premendosi una mano sul petto, si rese conto di quanto labile fosse
la vita umana. Bastava un niente a stroncarla.
Affondò
le unghie nell'imbottitura del sedile, mentre delle goccioline di
sudore tracciavano linee irregolari sulla sua tempia.
Se
solo avesse potuto cambiare l'andamento di quegli avvenimenti così
inaspettati e sbagliati, sarebbe stato tutto molto più semplice e
meno doloroso da affrontare. E ce l'aveva a morte col destino, il
quale aveva deciso di farle del male, di complicarle la vita.
Finalmente
sentì la terra sotto i piedi e poté dare un'occhiata, attraverso
l'oblò, al paesaggio notturno di Amburgo. Quella era la sua nuova
casa, un luogo che non le avrebbe mai permesso di dimenticare, ma per
lo meno si sarebbe trovata abbastanza lontana dalla sua città,
dall'altra parte del mondo, che le faceva rivivere solo brutti
momenti.
Entrò
in aeroporto con il suo piccolo borsone contenente il minimo
indispensabile in fatto di vestiario. Ricordava di non aver nemmeno
controllato cosa vi avesse buttato all'interno, ma ciò non le
importava più di tanto. Ora voleva solo fumarsi una sigaretta e
trovare un albergo dove riposare.
Quando
poté respirare l'aria tedesca serale, prese a frugare nella tasca
della sua giacca in pelle nera, alla ricerca del pacchetto di
sigarette. Non appena lo trovò, ne tirò subito fuori una,
impaziente di sentirsi inebriare da un po' di sana nicotina, che di
sano non aveva decisamente nulla. In quel momento non poteva chiedere
altro per estraniarsi almeno per un attimo.
Si
incamminò, con il borsone sorretto dalla mano libera. Nonostante la
strada fosse illuminata semplicemente dai lampioni, il buio
predominava, tanto da farla sentire un po' più calma, per quanto
fosse possibile.
Avvistò
a qualche passo da lei un ponte che sovrastava un piccolo torrente
dalle acque ferme e tranquille. Proprio come avrebbe voluto essere
lei. Vi si avvicinò, fino a quando non si sedette sulla sponda,
ricoperta di erbetta umida e pungente. Il borsone se lo poggiò al
fianco e, osservando il vuoto attorno a lei, continuò a fumare,
sovrappensiero.
Le
immagini della notte precedente sfrecciavano come razzi davanti ai
suoi occhi, mozzandole il respiro.
Non
poteva essere accaduto realmente; era stato solamente un brutto sogno
che avrebbe trovato una fine da lì a qualche attimo. Più ci pensava
e più non riusciva a capacitarsene.
Si
alzò, dopo aver buttato la sigaretta ormai consunta in acqua, e si
avvicinò al fiume, scrutandolo pensierosa. Osservava la sua figura
leggermente ondulata su quella superficie cristallina, mentre la sua
mente ripercorreva ogni singolo attimo, facendole venire
improvvisamente voglia di mandare tutto al Diavolo.
“Stai
pensando se farti un bel bagno fresco o dire addio a questo mondo?”
Quell'improvvisa
domanda la spaventò. Si voltò nella direzione di quel suono e notò
che un ragazzo dal volto già visto sostava di fronte a lei, poggiato
con la schiena al muro del ponte. Tra le dita della mano destra
teneva una sigaretta a metà, mentre la sinistra era rifugiata nella
tasca dei suoi jeans.
La
scrutava con ironia, osò pensare con sarcasmo, ed un lieve sorriso
sostava sulle sue labbra rosee.
“Il
bagno non era fra le mie ipotesi, ma potrei farci un pensierino.”
rispose, con lieve diffidenza nel tono.
Da
dove sbucava quel ragazzo? E soprattutto, cosa voleva da lei?
“Non
so se ti conviene; la Germania è famosa soprattutto per il suo clima
gelido.” continuò con semplicità quello strano tipo, per poi
aspirare un altro po' di nicotina. Lei lo scrutò ancora per qualche
attimo, dubbiosa. Non aveva decisamente voglia di farsi prendere in
giro.
“Chi
sei?” gli domandò quindi, senza abbandonare quell'espressione
diffidente.
“Tom,
e tu?” A quell'affermazione sentì come un pugnale conficcarsi
nella sua schiena. Aveva stretto le dita in due pugni e la mandibola
sembrava volesse formare un tutt'uno con la mascella, mentre un gran
magone le impediva di respirare. Doveva esserci un errore; quello era
uno scherzo progettato da un destino alquanto crudele. “Qualche
problema?” le domandò nuovamente il ragazzo, dopo aver gettato la
sigaretta a terra, posandoci poi un piede sopra.
Tanti,
rispose una vocetta nel suo cervello, ma le sue labbra non si mossero
secondo il suo volere.
“No,
nessuno.” tagliò corto, voltandosi quindi nella direzione opposta
alla sua, dove il fiume scorreva lento e silenzioso.
“Beh,
non mi hai risposto.”
Quella
voce stava diventando particolarmente fastidiosa.
“Perché
ti interessa saperlo?” domandò Ingie, voltandosi di nuovo nella
sua direzione, sull'attenti. I ragazzi invadenti non le erano mai
piaciuti.
“Perché
a te è interessato sapere il mio?” sorrise lui, come stesse
spiegando un semplice problema di matematica. Presa in castagna, non
poté più tergiversare.
“Ingie.”
lo accontentò quindi, per poi dargli nuovamente le spalle e sedersi
per la seconda volta sull'erba.
“Sei
sempre così acida, Ingie?” le si avvicinò il ragazzo,
particolarmente interessato a scrutarla nella sua interezza.
Odiava
anche essere scrutata.
“Senti,
non sono dell'umore.” sbuffò la mora, facendo ben attenzione a non
incrociare quello sguardo così detestabilmente indagatore.
“Evapora.” aggiunse, come non fosse stata abbastanza chiara
l'antifona. Eppure, quel ragazzo tanto curioso quanto irritante
sembrava volesse a tutti i costi darle noia.
“Hai
uno strano accento. Sei americana?” si informò, ignorando
spudoratamente la sua provocazione.
“Exactly.”
“Di
dove?”
“New
York.”
“E
da una città così bella, sei venuta fin qui?”
“Ho
i miei buoni motivi.” Si fermò qualche istante ad osservarlo in
viso. Quella sensazione di averlo già visto da qualche parte
continuava a trapanarle il cervello, così decise di togliersi quel
madornale dubbio, poiché da sola non sarebbe giunta molto lontano.
“Tu non mi sei nuovo, pigtail.”
“Pigtail?”
“Equivalente
di treccina.”
“Carino.
Comunque forse mi hai visto suonare la chitarra in una band famosa.
Mai sentito parlare dei Tokio Hotel?”
Oh,
ora ricordava dove l'aveva visto. Era quel ragazzo tremendamente
pomposo, famoso per le sue scappatelle, che si divertiva a far morire
di crepacuore donzellette adoranti con un semplice sorriso o un
assolo con la chitarra elettrica in uno dei suoi chiassosi concerti.
A volte il mondo femminile, nonostante ne facesse parte, le incuteva
timore.
“Ne
ho sentito parlare.” lo accontentò, senza esternare troppo
interesse. “E allora che ci fa una famosa rockstar, causa di tanti
infarti, in giro per Amburgo, senza il fidato armadio a cinque ante
al fianco?”
“A
quest'ora non mi vede nessuno. Inoltre capita anche a me ogni tanto
di estraniarmi dalla solita routine.”
“Lamento
di un giovane ribelle, prigioniero della fama?”
“Una
sottospecie.”
Era
incredibile come gente che possedeva ogni cosa riuscisse comunque a
scovare un lato sdrucciolevole della sua vita perfetta. Ingie lo
aveva sempre considerato come un atto di puro egoismo, un capriccio
da rockstar viziata, vittima della noia e del troppo avere.
“Non
ne avete mai abbastanza.” commentò, scrutando distrattamente
l'acqua riflettente la luce lunare.
“Di
cosa?” domandò Tom, confuso.
“Di
possedere. Volete, volete e quando avete vi sentite ancora vuoti.
Siete troppo abituati ad ottenere tutto e subito per ricordarvi che
la gente comune si suda ciò che vuole.”
Probabilmente
il ragazzo si stava domandando cosa diavolo quella strana tizia
avesse mangiato per cena o chi fosse il suo analista.
“Perché
mi dici questo?” chiese infatti.
“Così;
mi sento sufficientemente triste ed avvilita per inoltrarmi in
discorsi filosofici.”
“Ed
il motivo di tanto avvilimento?”
“Di
certo non lo vengo a dire a te.”
“Tu
però me l'hai fatta, la ramanzina, senza nemmeno conoscermi. Ad
esempio, sei sul serio convinta che io sia uguale a tutti gli altri
personaggi famosi, come dici tu, viziati?”
“Non
siete molto differenti l'uno dall'altro.”
“È
qui che ti sbagli, dolcezza.”
“Evita
diminutivi con fine recondito, Kaulitz.”
“Come
parli complicato.”
“Per
un ragazzo dal quoziente intellettivo limitato come il tuo, è
capibile.”
“Senti,
da quanto non fai sesso?” Istantaneamente, la mano esile di Ingie
planò decisa sulla guancia ispida del ragazzo, rimasto interdetto.
“Ma sei una strega!” esclamò dolorante, le mani premute sul viso
arrossato. Mai una ragazza si era permessa di tirargli uno schiaffo,
prima di allora.
“Così
impari a farti gli affari tuoi!” si difese con tenacia la mora, la
rabbia che cresceva sempre più. Non era un bel momento per lei e
dover sopportare ulteriori stupidaggini da parte di un ragazzino
immaturo era l'ultima cosa di cui aveva bisogno.
“Scusami
tanto se ho fatto una semplice domanda!”
“Indelicata
e di cattivo gusto, oserei dire!”
“Voi
ragazze ed il vostro nauseante senso del pudore...”
“Senti,
ma che vuoi da me? Perché non te ne vai altrove ad inquietare
l'animo di un'altra povera vittima?”
“Perché
ammetto di trovare questa situazione alquanto interessante.”
“Io
invece comincio ad averne abbastanza, quindi sloggia.” Tom, in
risposta, ignorò spudoratamente il suo invito e si sedette
sull'erba, affianco a lei. Ingie gli scoccò un'occhiata tutt'altro
che amichevole. “Non ti avevo detto di levare le tende?” domandò,
con fare scocciato.
“Mi
è venuta voglia di un'altra sigaretta.” rispose il chitarrista,
con un sorriso sornione in volto.
Ingie
aveva da sempre detestato i tipi sfacciati ed insolenti, e se già la
pazienza non poteva essere annoverata fra le sue doti, quella sera
non era nemmeno intenzionata a provare ad averne. La sua testa era
tormentata da altri pensieri, molto dolorosi, ed una spina nel fianco
come quella seduta accanto a lei non rappresentava l'esatto prototipo
di antistress.
Lo
osservò qualche istante con la coda dell'occhio, mentre era intento
ad accendersi la seconda sigaretta.
Il
suo viso godeva di lineamenti dolci e delicati. La sua pelle era più
curata rispetto a quella di un normale ragazzo della sua età e la
sua abbronzatura era lieve ma del tutto naturale. Il naso dritto si
affacciava su un paio di labbra carnose e seducenti, forate a
sinistra da due anellini metallici.
Doveva
ammetterlo: raramente un ragazzo così attraente – quanto irritante
– aveva incrociato il suo cammino.
Decise
di tornare a concentrarsi con lo sguardo sull'acqua limpida che
scorreva a pochi passi da lei, stringendosi le ginocchia al petto con
le braccia, come a volersi proteggere dalla brezza notturna,
nonostante non fosse quello il suo vero problema.
A
dire il vero, aveva il bisogno di proteggersi da altri avvenimenti
molto più grandi di lei, tanto da sfuggire al controllo. Ma ormai,
la sua intera vita stava sfuggendo al suo controllo.
“Sei
una tipa stana.” esordì improvvisamente Tom, senza guardarla,
intento ad aspirare nuove quantità di fumo.
“Non
sei il primo che me lo dice.” rispose lei, quasi senza pensarci.
Tom
si voltò nella sua direzione e strinse appena le palpebre, provando
ad interpretare ciò che l'inchiostro nero era andato a marchiare
sulla pelle del collo di Ingie.
Due
lettere. Due lettere perfettamente identiche, intrecciate tra loro, a
qualche millimetro al di sotto dell'orecchio sinistro della mora.
“Per
che cosa stanno le due acca?” gli venne spontaneo chiederle.
Ingie
si sentiva sempre più violata, tanto che le mani cominciarono a
pruderle.
“Non
siamo così in confidenza, per rivelazioni simili.”
“Mi
hai tirato uno schiaffo da Guinnes, direi che di confidenza te ne sei
presa abbastanza.”
“Quello
te lo sei meritato, a prescindere dal grado di confidenza!” Tom si
limitò a sorridere appena, come soddisfatto da tale reazione. Se
c'era una cosa di cui andava terribilmente ghiotto era la
provocazione; adorava indisporre chi gli si presentava di fronte, lo
trovava assai divertente. “Smettila di fissarmi, mi urta il sistema
nervoso.” aggiunse la ragazza con risolutezza. Il chitarrista,
invece, non poté fare a meno di sbuffare contrariato.
“Mio
Dio, quante cose ti urtano.”
Ma
quella strana – se non assurda – conversazione venne interrotta
dallo squillo sonoro del cellulare di Ingie.
Quest'ultima,
come violentemente scossa e riportata nel mondo reale, si affrettò a
recuperarlo, con una strana vertigine di paura allo stomaco. Non
appena lesse il nome Luke sullo schermo, chiuse gli occhi
addolorata e così anche la telefonata, ancora prima di rispondere.
Doveva
uscire dalla sua vita, così come l'aveva fatto con i suoi genitori e
tutto il mondo che la circondava a New York.
“Scappi
da qualcuno.” constatò a quel punto il ragazzo accanto a lei.
“Non
che questo debba interessarti.” ribatté scocciata la mora, mentre
riponeva il cellulare in tasca. Un brivido di fastidio le percorse la
colonna vertebrale, nel sentire la lieve risata da parte del
chitarrista.
“D'accordo.”
la accontentò, tornando ad osservare il fiume davanti a sé, mentre
la sigaretta si consumava lenta tra le sue dita. Sì, stava scappando
per l'ennesima volta, come una codarda. Ma non aveva intenzione di
tornare indietro. Avrebbe cambiato vita, avrebbe fatto nuove
conoscenze, avrebbe dimenticato il passato, benché non fosse per
niente facile. “Bene, direi che è giunta l'ora di andarmene, per
la tua felicità.” annunciò all'improvviso il ragazzo, mentre
schiacciava sull'erba la sigaretta consunta.
Sia
ringraziato il Signore, esclamò la mente di Ingie.
“Buon
ritorno al paese dei Vip.” rispose ironica, senza guardarlo.
“Grazie.
È stato un piacere conoscerti, per quanto tu sia stramba.”
“Ciao,
ciao, pigtail.”
Poté
nuovamente udire la sua risatina divertita, per poi osservarlo
allontanarsi da lei con un'andatura apparentemente barcollante.
Se
lei era stramba, lui non era decisamente da meno.
Lo
scrutò ancora qualche istante, fino a che non sparì dalla sua
vista, permettendole di tornare a concentrarsi quindi sul fiume,
davanti a sé. L'acqua era cristallina e quasi provò un indecente
senso di invidia nei suoi confronti, poiché invece lei navigava nel
buio, nella melma, ormai da giorni. Avrebbe potuto porre una fine a
tutto quanto, se solo l'avesse voluto, o meglio, se solo avesse avuto
il coraggio. Ma, ovviamente, mancava di quest'ultimo.
Un
tuono in lontananza, la fece sobbalzare appena. Sollevò lo sguardo
verso il cielo ormai buio e notò che delle enormi nuvole si erano
addensate sopra la sua testa, segno che da lì a poco avrebbe preso a
diluviare.
La
solita fortuna.
Con
un gran sospiro, si sollevò dall'erba divenuta gelida ed afferrò la
valigia, la quale aveva sostato affianco a lei per tutto il tempo.
Non sapeva dove andare, ma un posto per la notte, con un po' di buona
volontà, l'avrebbe trovato. Si avviò lungo la strada asfaltata che,
piano piano, aveva cominciato ad inumidirsi con qualche piccola
goccia di pioggia e fece saettare gli occhi da una parte all'altra di
quella via, alla ricerca di un hotel. Le goccioline aumentavano
sempre di più, accumulandosi fastidiosamente sulle sue ciglia e
rendendo così la sua vista più appannata, mentre i suoi capelli
cominciavano a gonfiarsi appena.
Odiava
la pioggia. Così come il vento e la nebbia. Odiava tutto ciò che
non le permetteva di osservare il mondo in modo chiaro e nitido.
Odiava tutto ciò che le nascondeva i dettagli più rilevanti. Odiava
tutto ciò che la confondeva.
Improvvisamente,
un'enorme scritta lampeggiante catturò la sua attenzione. Finalmente
era giunta in prossimità di un albergo, dove avrebbe alloggiato
almeno fino a quando non avrebbe trovato una sistemazione stabile,
cosa che, più passavano i minuti, più si rendeva conto fosse
alquanto complicata.
Tirò
a sé la valigia e si affrettò a varcarne la soglia. Il tepore che
la travolse al suo interno fu quasi destabilizzante, ma le pervase
piacevolmente i sensi. Senza dubbio, il clima mutava radicalmente, se
paragonato a quello di New York, nonostante anche lì, alle volte, si
percepisse un freddo pungente. Ma la Germania era tutta un'altra
questione.
“Salve.”
si avvicinò al bancone, dietro al quale sedeva una donna di mezza
età, intenta a scribacchiare qualcosa di ignoto sul computer
portatile. “Avrei bisogno di una camera, se ce ne sono di
disponibili.” spiegò, non appena la segretaria poggiò il proprio
sguardo sulla sua figura umida e semi-disperata.
“Certo,
di singole ne abbiamo ancora.” le sorrise amabilmente, in risposta.
“Per quante notti?” le chiese successivamente.
Già,
per quante notti, Ingie? Le domandò il proprio cervello, senza
trovare risposta. Cosa poteva replicare? D'altronde non sapeva
nemmeno lei dove il suo destino l'avrebbe trascinata; non sapeva se
sarebbe riuscita a trovare un appartamento tutto suo; non sapeva se
quella pazzia che aveva appena compiuto l'avrebbe portata a qualcosa
di positivo. Come avrebbe potuto sapere per quante notti alloggiare
in quel dannato albergo?
“Ehm.”
si schiarì appena la gola. “Tre notti.”
Le
sarebbero serviti più di tre giorni, ne era certa, ma – avendo
dato un rapido sguardo al portafoglio, durante il viaggio in aereo –
si era resa conto che i suoi risparmi non le avrebbero permesso di
soddisfare tutti i suoi bisogni.
“Mi
da la sua carta di identità, per favore?” le chiese nuovamente la
segretaria, mentre controllava sulla scheda che teneva sulla
scrivania quali camere fossero disponibili.
“Ecco
a lei.” disse Ingie, porgendole il documento, il quale venne
controllato con attenzione.
“Questa
è la chiave. Buon pernottamento.”
Ingie
afferrò la chiave e si diresse con la valigia verso l'ascensore.
Un
brutto presentimento la scosse all'improvviso: nella fretta di
raggiungere quella sistemazione momentanea, non aveva fatto caso al
suo valore. Guardandosi attorno, aveva notato un certo lusso, una
certa rappresentanza, in ogni minimo angolo dell'hotel, dettaglio che
le fece sospettare fosse un qualcosa al di là dei suoi standard. Non
avrebbe potuto permettersi una cifra tremendamente salata, ma non
poteva fare altrimenti. Non poteva ugualmente correre per strada, nel
bel mezzo della notte, con un temporale in corso, alla ricerca di un
Bed & Breakfast decisamente più economico.
Non
appena giunse al piano desiderato, prese ad osservare il corridoio,
lungo il cui pavimento era stata adagiata una moquette rossa, un po'
troppo... Nobiliare, per i suoi gusti. Finalmente trovò la
sua stanza e, dopo un giro di chiave, vi fece il proprio ingresso.
Accese la luce e la scrutò nella sua interezza: era tremendamente
spaziosa, pulita e ben arredata. Se in un altro momento il tutto
fosse stato di suo gradimento, in quel preciso istante non riuscì a
tenerne conto come di una cosa positiva. Più le agevolazioni erano
numerose, più il suo portafoglio si sarebbe alleggerito.
Si
ritrovò a maledirsi mentalmente per la fretta che aveva avuto nel
prenotare quella camera, senza prima soffermarsi sui costi.
Con
un lieve sospiro, chiuse la porta e poggiò la valigia in un angolo.
D'altronde
non poté non gradire tale perfezione; forse era stata la prima cosa
ben fatta nel corso degli ultimi giorni e, per quanto precaria fosse
tale consolazione, decise di accontentarsi e cercare di non pensare a
nulla.
Si
gettò a peso morto sul letto singolo e chiuse gli occhi: avrebbe
trascorso un'altra nottata in bianco, ne era certa.
--------------------------
Note
finali
Vi
lascio questo capitolo prima di partire, spero vi piaccia! Grazie,
oltre ai recensori cui ho risposto, anche alle persone che hanno
aggiunto già questa storia fra seguite e preferite. Non siate
timidi! (: Torno la settimana prossima, spero di trovare tanti
commentini (: Un bacione!
Kyra
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Capitolo 3 *** Two - Start again ***
2
Two
Start
again
Quando
la luce dell'alba si fece viva nella stanza, non ebbe nemmeno bisogno
di aprire gli occhi, poiché le sue pupille, per tutta la notte,
erano rimaste fisse sugli annunci delle case in vendita, presenti sul
quotidiano che aveva acquistato qualche minuto dopo essersi sistemata
nella camera. Era scesa in strada, non appena fu cessato il
temporale, ed aveva trovato un giornalaio a pochi metri di distanza,
incredibilmente aperto.
Pur
dopo tutti i suoi sforzi ed il sonno che aveva accumulato, con
l'intento di avere la meglio su ciò che la stava tormentando, non
era riuscita a trovare una soluzione. Ogni singolo appartamento
presentava qualcosa che non andava; una caratteristica di troppo che
non le serviva, il prezzo troppo alto. Ostacoli del genere si
divertivano a denigrare l'intero lavoro di ricerca nel quale si stava
impegnando, demoralizzandola minuto dopo minuto.
Non
appena il sole sorse, illuminando quindi l'intera camera, decise di
rinunciarvi. Ormai era tutto inutile; aveva sfogliato più e più
volte le stesse pagine, sperando inutilmente di trovarvi qualcosa di
nuovo, nonostante avesse già controllato in precedenza. Eppure,
niente.
Si
sollevò dal materasso e prese a cambiarsi i vestiti, poiché ancora
indossava quelli del giorno prima, talmente era stata occupata a
leggere quel giornale. Il suo stomaco aveva preso improvvisamente a
brontolare, reclamando un po' di cibo – che non toccava da due
giorni – e decise quindi di scendere in sala per la colazione.
Avrebbe avuto bisogno di forze se il pomeriggio che si prospettava
appariva particolarmente pesante.
Uscì
dalla stanza e scese le scale, ignorando di gran lunga l'ascensore.
Aveva bisogno di camminare.
Una
volta giunta a destinazione, entrò nella sala mensa e notò al suo
interno una serie di tavoli numerati. Cercò con lo sguardo il suo e,
una volta individuato, vi si avvicinò per posarvi le chiavi.
La
colazione era caratterizzata di ogni singola pietanza che non si
ricordava di aver mangiato ultimamente. Il tavolo dove avrebbe dovuto
servirsi era gremito di ogni singola leccornia di cui andava matta;
anche se, quella mattina, non era in grado di esprimere il proprio
entusiasmo. Si avvicinò ad esso e posò una semplice brioche vuota
su un piattino, per poi selezionare un cappuccino alla macchinetta
delle bevande. Una volta finito il tutto, tornò al proprio tavolo,
per poi sedervisi e cominciare a mangiare.
Deglutire
del cibo fu come risvegliarsi da un sonno profondo. Aveva quasi
dimenticato che consistenza avesse, nonostante i giorni passati a
digiuno non fossero così tanti. Il punto era che gli ultimi
avvenimenti l'avevano talmente tanto uccisa nell'animo, che la
sofferenza sembrava si stesse propagando in lei da mesi e mesi,
quando in realtà quella mostruosa tragedia era avvenuta solo pochi
giorni addietro.
Non
era sicura di poter superare anche quell'ennesima piega che la sua
vita aveva preso. Aveva semplicemente paura di affrontare la realtà,
ora che si trovava sola. L'unica persona sulla quale avrebbe voluto
contare, non era lì con lei a darle conforto, ma si trovava in un
altro mondo, da molti reputato migliore e tranquillo, ma pur sempre
un mondo troppo lontano dal suo.
Sentiva
maledettamente la sua mancanza. Il suo corpo era stato privato
di ogni cosa, così come il suo spirito. Era come camminare con un
coltello perennemente conficcato nella schiena. Il dolore persisteva
e persisteva, ogni giorno, e non aveva intenzione di svanire, almeno
fino a che qualcuno non avesse deciso di strapparle via quel
coltello, ben sapendo che non sarebbe stato possibile.
“Ma
guarda che coincidenza.”
Un
fremito, proprio lungo la schiena, accompagnato da un pessimo
presentimento. Quella voce non le era perfettamente nota, ma
ricordava di averla già sentita, e non troppe ore prima.
Non
appena sollevò lo sguardo, trovò davanti a sé un Tom Kaulitz –
ancora scosso dai postumi del sonno – particolarmente sorridente,
nonostante quel sorriso somigliasse più ad una smorfia sbilenca.
“Oh,
God.” mormorò Ingie, poggiando la fronte su di una mano, con
espressione riluttante. Ovviamente, quel sussurro non sfuggì al
chitarrista, che decise subito di intavolare una sorta di
conversazione, esattamente come la sera prima.
“Buon
giorno, raggio di sole. Non sapevo alloggiassi anche tu in questo
albergo.” parlò con la soddisfazione che ardeva negli occhi.
“Eh,
già. Gli strani casi della vita.” commentò con sarcasmo la
ragazza, per poi sorseggiare un altro po' di cappuccino.
“Io
sono qui con la mia band, per l'ultimo concerto qui ad Amburgo.”
“Che
delizia.”
“Posso
unirmi a te?”
“No.”
“Mi
mancava il tuo senso dell'umorismo.”
Detto
ciò, la sorprese sedendosi accanto a lei e poggiando sul tavolo la
propria colazione.
“Tu
devi avere qualche problema di udito.” constatò fin troppo seria
la ragazza, mentre il chitarrista ridacchiava divertito.
Bene,
era contenta di divertire la gente a quella maniera.
“Tu
invece devi avere qualche problema di socializzazione.” ribatté
tranquillo Tom, mentre intingeva un biscotto nel caffè, come se
nulla fosse.
“Non
ci tengo a socializzare con te.” mise in chiaro, spezzando a sua
volta un pezzo di brioche per portarselo alla bocca.
“Peccato
perché tutte vorrebbero socializzare con il sottoscritto.”
“Come
sei egocentrico.”
“È
una delle mie migliori qualità.”
“Posso
immaginare le restanti, allora.”
“Hey,
Tom, ma dove ti sei seduto?”
Quello
che Ingie riconobbe come il fratello androgino del chitarrista, aveva
parlato avvicinandosi incuriosito al loro tavolo, con la tazza ed il
piattino in mano.
No,
la seconda versione del Kaulitz, no, pregò la sua mente.
“Lei
è Ingie, l'ho conosciuta ieri sera.” la presentò Tom, sorridendo
affabile. “Ha un pungente senso dell'umorismo.”
“Oh,
piacere, io sono Bill, il fratello intelligente.” sorrise a sua
volta amabile il vocalist, allungando la mano in direzione della
ragazza, che la strinse non del tutto entusiasta.
“Oh,
bene, mi solleva sapere che in famiglia non siete tutti come lui.”
commentò con un lieve sospiro, mentre Bill si sedeva affianco al
fratello. Non poté fare a meno di ridacchiare e la ragazza notò
quanto la sua risata e quella del chitarrista fossero simili.
“Fortunatamente
no. Mia madre ha fatto del suo meglio per non farlo uscire così, non
è colpa sua.”
“Hai
finito di fare il buffone?” intervenne a quel punto un Tom
piuttosto irritato.
“Tranquillo,
Tomi, nessuno rovinerà ulteriormente la tua già disastrata
reputazione.” sorrise angelico il biondo, prima di portarsi alla
bocca una fetta biscottata. A Ingie stava decisamente simpatico. “Sei
straniera, vero? Il tuo accento è molto carino.” parlò
successivamente, rivoltosi poi a lei, la quale annuì appena.
“Sì,
sono di New York.” confermò.
“Non
chiederle perché è venuta qua perché tanto non ti risponde.”
suggerì Tom, con sarcasmo.
“Si
chiama discrezione.” intervenne Ingie.
“Si
chiama semplice curiosità.”
“Tom,
non è educato farsi gli affari di una signorina in questo modo.”
fece Bill, con tono saccente. E intanto continuava ad acquisire punti
a suo vantaggio agli occhi di Ingie.
“Se
è per questo, anche tu le hai chiesto da dove viene.” ribatté
Tom, piccato.
“Ma
non ho scavato in questioni personali.”
Ingie
osservava la scena piuttosto accigliata. Si chiese quanto a lungo
volessero portare avanti quella discussione così futile. Si sentiva
troppo al centro dell'attenzione.
“Beh,
io ho molto da fare perciò me ne vado.” spezzò quel botta e
risposta che, a lungo andare cominciava a divenire piuttosto
fastidioso, e si alzò dalla sedia, sotto lo sguardo perplesso del
chitarrista e quello tranquillo e sorridente del vocalist.
“Senti,
perché non vieni a vedere il nostro concerto, domani sera?” la
prese in contropiede Bill. “Ci esibiamo qui vicino, è l'ultimo del
tour, prima che torniamo a Berlino, perciò... Se hai voglia, sei la
benvenuta.”
Partecipare
ad un concerto, dove una miriade di ragazzine urlanti le avrebbero
sfondato i timpani e le ossa, era decisamente l'ultima cosa che aveva
voglia di fare. Il divertimento, da giorni, non sapeva nemmeno più
cosa fosse.
“Ecco,
i concerti non fanno molto per me.”
Schietta
e sincera come sempre. D'altronde era ciò che le avevano
continuamente insegnato i suoi genitori: dire sempre la verità,
anche a costo di ferire le persone. Al contrario invece di ciò che
si aspettava, Bill mostrò un sorriso ancora più smagliante.
“Okay,
non c'è problema. Se dovessi cambiare idea, basta dirlo.” disse in
tutta calma.
Sorpresa,
Ingie si limitò ad annuire, per poi sparire dietro l'angolo, dopo
aver fatto un cenno di saluto con la mano.
***
“Mi
spiace, signorina, ma abbiamo già abbastanza personale.”
Quella
frase, l'aveva sentita almeno sei volte. E, ognuna di quelle volte,
la sua autostima e la sua forte speranza erano andate a calare sempre
di più.
“Okay,
non c'è problema. Grazie comunque.”
Ne
aveva invece, di problemi. Eccome.
I
soldi che teneva da parte non le sarebbero bastati per due settimane,
se non meno; dormiva in un hotel che da lì a due giorni ancora
l'avrebbe sbattuta fuori; non aveva una casa e nemmeno uno straccio
di lavoro. Come avrebbe potuto non finire sotto un ponte? Poteva solo
sperare in un miracolo grosso quanto il mondo, ma ultimamente non ne
aveva più molta voglia.
Con
un gran sospiro, riprese a camminare lungo il marciapiede,
guardandosi attorno, alla ricerca di un qualsiasi altro negozio, bar
o ristorante che avesse la decenza di farle almeno terminare di
leggere il suo curriculum, prima di spiattellarle in faccia un “No”
secco. Magari, anche con un'espressione schifata.
Il
vero punto della questione era che aveva appena vent'anni ed un
diploma linguistico. Chiunque l'avrebbe sempre trovata troppo giovane
ed inesperta, nonostante non fosse così.
Nel
frattempo, non poté fare a meno di notare che in ogni angolo di
quella città, si innalzavano enormi cartelloni riportanti la foto
dei Tokio Hotel, che annunciava il loro imminente concerto, al quale
proprio lei era stata invitata. Lei che partecipava ad un concerto?
Dei Tokio Hotel, per di più? Decisamente no. Era contenta di aver
rifiutato l'offerta e non essere caduta in qualche tranello.
Prendersi gioco di lei era una cosa che veniva piuttosto spontanea e
facile alla gente che la circondava.
Persino
a lui.
Prima
che lo stomaco le si contraesse in un ulteriore nodo doloroso,
rimosse dalla mente quel pensiero.
***
Si
sentiva una completa e perfetta fallita.
Le
ricerche erano proseguite per l'intera giornata e non si era presa
nemmeno un minuto di pausa. Il cibo e l'acqua si era scordata cosa
fossero, poiché nel suo cervello aveva solamente sostato l'idea di
trovare un lavoro, prima del sorgere del sole del giorno seguente.
Piano
fallito.
Si
stravaccò sul divanetto in vimini posizionato al di fuori
dell'hotel, a lato del giardino, e cercò per un attimo di
rimpossessarsi dei propri neuroni e delle proprie facoltà mentali.
Se le avessero chiesto di risolvere un semplicissimo calcolo
matematico, non ne sarebbe stata in grado.
Improvvisamente
il suo cellulare vibrò un paio di volte, per poi ammutolirsi di
nuovo. Probabilmente le era arrivato un messaggio e la cosa non le
piacque per niente, poiché immaginava di chi si potesse trattare.
Luke,
per l'appunto.
Preferì
non leggere cosa le aveva scritto e cancellò direttamente quel
messaggio ignoto. Lo stomaco le si contrasse fastidiosamente, non
appena sullo schermo del suo cellulare apparve la scritta
'Cancellato'. Sapeva perfettamente che non si stava comportando bene,
sapeva anche che in questo modo stava facendo soffrire ingiustamente
una marea di persone che teneva a lei; ma anche lei stava soffrendo e
l'unica cosa che voleva era la tranquillità. L'avrebbe trovata solo
cambiando radicalmente vita e tagliando i ponti con chiunque
conoscesse, persino con i suoi genitori, i quali forse in quel
momento erano i più bisognosi di affetto.
Una
lacrima sfuggì al suo controllo, ma la scacciò immediatamente con
un dito, per poi ricomporsi. Doveva essere forte.
Non
appena sollevò lo sguardo si accorse solo in quel momento di non
essere sola. Quello che sembrava il bassista dei Tokio Hotel, si
trovava all'estremità opposta del giardino, con la schiena poggiata
al muro bianco ed il telefono all'orecchio.
“Sì,
amore, mi comporto bene.” diceva. “Lo sai che è Tom il Playboy,
non io.”
Ingie
fece una smorfia. La cosa non la sorprendeva più di tanto,
nonostante l'atteggiamento fin troppo spavaldo ed invadente del
chitarrista non le piacesse una granché. A dire il vero, lo
detestava con tutte le proprie forze.
“Domani
sera. Sì, completamente Sold Out, siamo felicissimi.”
Erano
sul serio dei mostri talentuosi come si sentiva in giro? Non si era
mai soffermata ad ascoltare le loro canzoni, nonostante ne avesse
sentita una di sfuggita, una volta. Aveva a che fare con un qualche
strano diluvio universale, nemmeno si ricordava bene di cosa
parlasse; ma poco le importava.
Sospirando
e continuando nel frattempo ad ascoltare, senza realmente volerlo, la
telefonata del rosso, recuperò una sigaretta dal proprio pacchetto
di Marlboro e se la portò alla bocca.
“Sì,
okay, ci sentiamo domani. Anch'io ti amo. Un bacio.”
Lo
scrutò riporre il cellulare in tasca, per poi frugare anche lui nel
proprio pacchetto di sigarette. Dopo essersi tastato ripetutamente le
tasche dei pantaloni, sbuffò.
“Cazzo.”
“Tieni.”
intervenne Ingie, mostrandogli il suo accendino. “L'hai
dimenticato?” chiese. Il rosso, dal suo canto, sorrise grato e le
si avvicinò.
“Grazie
mille, sei molto gentile.” le disse, prendendo in prestito
l'accendino nero. Nero come qualsiasi cosa le appartenesse in quel
momento; compreso il suo animo.
Questo
non ha niente a che vedere con Pigtail, si ritrovò subito
a pensare, mentre attendeva che il ragazzo si accendesse la
sigaretta.
“Figurati.”
rispose senza entusiasmo, riafferrando il proprio compagno di viaggio
e riponendolo poi nella tasca della giacca di pelle.
“Comunque
io sono Georg, piacere.” si presentò lui.
“Ingie.”
si limitò a rispondere. Teneva lo sguardo fisso sulle proprie scarpe
e non aveva nessuna intenzione di sollevarlo. Forse in quello Kaulitz
aveva ragione; non era un tipo particolarmente socievole. Anzi, non
lo era per niente.
“Sei
qui in vacanza?” le domandò all'improvviso il rosso.
Che
domanda idiota, pensò immediatamente.
“Una
specie.” tagliò corto. Non aveva voglia di raccontare le proprie
disavventure agli sconosciuti.
“Io
sono qui con...”
“La
tua band, sì. Lo so.” lo interruppe.
“Ah,
sei una nostra fan?” sorrise compiaciuto il bassista, piuttosto
incuriosito.
“Assolutamente
no.” rispose secca, facendo venire la pelle d'oca persino a lei.
Non era mai stata tanto fredda in vita sua. Gli ultimi episodi
l'avevano letteralmente mutata.
Georg,
invece, scoppiò a ridere.
“Scusa,
non volevo essere vanitoso. È che qui intorno all'albergo, e a volte
anche dentro, troviamo tante di quelle fans, che ormai ci rimane
difficile distinguerle dalla gente indifferente alla nostra
presenza.”
Ma
che tenerezza, pensò scettica Ingie. L'ulteriore giornata nera
che aveva trascorso non aiutava di certo il suo umore a risollevarsi
da sotto terra.
“Non
ti preoccupare.” rispose semplicemente, per poi inspirare un'altra
boccata di fumo. “Quello con la mania di protagonismo è Kaulitz.”
aggiunse.
“Quale
dei due?” domandò Georg, incuriosito. Ingie ci pensò un po' su.
Effettivamente,
tra tutti e due non sapeva dire chi fosse peggio in quanto a
egocentrismo, ma per come li aveva conosciuti lei, sicuramente il
peso gravava più su Pigtail.
“Il
rapper mancato.” rispose con una scrollata di spalle. “Ma anche
suo fratello non scherza.”
“Oh,
hai avuto l'onore di conoscerli entrambi.” sorrise il bassista.
“Sì,
e che onore.”
Il
ragazzo soffocò una risata e questa volta nemmeno Ingie poté fare a
meno di tirare un piccolo sorriso.
“Sono
particolari. Ma sono buoni.” annuì Georg, inspirando poi un po' di
fumo.
“Sì,
dubito che Pigtail nasconda un'arma pericolosa per l'umanità.”
“Oh
e invece la possiedo eccome.”
Ingie
chiuse momentaneamente gli occhi, reprimendo un'improvvisa e
pericolosa crisi isterica. Come poteva essere possibile che in un
giorno e mezzo aveva già imparato a riconoscere quella voce ovunque?
“Ma
qual buon vento.” mormorò sarcastica. “Da quale zoo sei evaso?
Mi spieghi perché ti incontro ovunque e in ogni momento?”
“Perché
è destino, piccola. Tom Kaulitz è onnipresente.” rispose il
chitarrista, sedendosi nel frattempo accanto a lei, con una sigaretta
in mano, mentre Georg osservava interessato la scena.
“Come
le mosche.” commentò con tetra ironia la mora.
“Vedo
che siete già in confidenza voi due.” sorrise il rosso, piuttosto
compiaciuto, mentre calpestava la sigaretta ormai consunta con una
scarpa.
“Not
at all.” rispose Ingie, con espressione schifata.
“Ci
sto lavorando, Hobbit.”
Tom
si stravaccò per bene sul divanetto e poggiò il braccio sullo
schienale, alle spalle di Ingie, che lo fulminò con lo sguardo.
“Spero
per te che le tue intenzioni siano caste e pure.” lo minacciò,
guardandolo di sottecchi.
“Ma
io sono casto e puro.”
Gli
occhioni dolci che aveva improvvisamente sfoderato non la convinsero
per niente e l'immediata risata di Georg ne fu una prova piuttosto
lampante. Ingie si voltò in direzione del rosso e lo scorse
contorcersi dalle risate, con le mani alla pancia.
“Chissà
perché le parole casto e puro non riesco ad associarle
alla tua figura.” commentò sarcastica, subito dopo aver buttato
anche lei la sigaretta a terra.
“Sei
tu che le hai associate a me.” scrollò le spalle il ragazzo, con
semplicità e quel perenne sorriso furbo stampato in viso. Ingie
roteò gli occhi al cielo e si sollevò dal divanetto. “E ora dove
vai?” aggrottò le sopracciglia la sua futura vittima.
“A
dimenticarmi della tua faccia.” rispose lei, seccata.
Tom
si sentì piuttosto offeso.
“Come
sei arida. L'ho detto, io, che hai seriamente bisogno di fare s...”
L'improvviso voltarsi di Ingie, con sguardo minaccioso e la mano
nuovamente pronta a planare sul suo viso, lo fecero immediatamente
rimediare. “... Surf. Di fare surf.”
La
mora fece finta di crederci e gli diede nuovamente la schiena.
“Ciao,
ciao, Redhead.” salutò poi Georg, battendogli un paio di
volte una mano sulla spalla, per poi dirigersi all'entrata
dell'hotel. Il bassista si voltò perplesso verso Tom, come a
chiedere spiegazioni e quest'ultimo fece un gesto svogliato con la
mano.
“Ne
ho uno anch'io, non ti preoccupare. E ti assicuro che è peggio del
tuo.”
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Capitolo 4 *** Three - When everything seems useless ***
3
Three
When
everything seems useless
“Fuck
you.” digrignò i denti, continuando a marciare seccata lungo
il marciapiede. “Fuck all of you, idiots.”
Se
il giorno prima era disperata, in quell'istante era furiosa con il
mondo intero. La sua mente formulava decisamente troppi pensieri in
una volta; pensieri per lo più di carattere offensivo, rivolti a
qualsiasi essere umano incrociasse il suo cammino. Probabilmente
qualche astro aveva cambiato posizione, era addirittura piombato a
terra, ma tutto per fare un dispetto a lei.
Come
poteva essere possibile che nemmeno quella mattina, nessun negozio
l'aveva assunta, anche solamente in prova? Era truccata male? Aveva i
capelli fuori posto? Puzzava?
“Fuck
off, everyone.”
Entrò
di soppiatto in un bar e, senza degnare nemmeno di uno sguardo il
proprietario, camminò dritta e decisa verso il bagno, dove si chiuse
dando un colpo secco alla porta. Una volta al sicuro e al riparo da
sguardi indiscreti, scoppiò in un pianto ininterrotto.
La
sua vita stava finendo a rotoli. Più passavano i giorni, più si
sentiva fuori posto, in quel mondo troppo restio alla sua presenza,
troppo diverso da lei. Ma soprattutto, troppo insignificante senza di
lui.
“Dove
sei? Perché te ne sei andato? Dovevi stare con me.” mormorò con
voce tremante, poggiando la fronte alle fredde mattonelle della
parete e tirandovi qualche pugno, di tanto in tanto. “Mi senti?!
Perché te ne sei andato?!”
Il
dolore allo stomaco diveniva sempre più acuto, logorandola secondo
dopo secondo.
“Hey,
signorina, si sente bene?” una voce maschile, al di là della porta
del bagno, si fece viva, mentre un continuo bussare la irritava al
limite della pazienza.
“Andate
a 'fanculo tutti!” urlò e, finalmente, quell'eterno bussare e
quella voce fastidiosa cessarono immediatamente.
Voleva
stare da sola; non aveva bisogno di gente sconosciuta, che non sapeva
nulla della sua vita, che le offrisse una spalla su cui piangere. Per
lei, non era nessuno e si sarebbe occupata di se stessa perfettamente
da sola.
Si
bagnò il viso con un po' di acqua fresca e, osservandosi allo
specchio, cercò di rendersi il più presentabile possibile,
nonostante un po' di trucco colato non fosse ciò che più la
spaventava. Una volta finito, aprì la porta, dietro la quale trovò
il barman ad osservarla con espressione preoccupata in viso, e senza
degnarlo di un minimo di considerazione lo superò, affrettandosi ad
uscire da quel posto.
No,
non aveva bisogno di nessuno.
***
“Ma
che fine ha fatto Bill?” domandò un David piuttosto scocciato,
guardandosi attorno.
I
Tokio Hotel, sprovvisti di vocalist, si erano radunati sul palco,
pronti per il Soundcheck, ma un piccolo imprevisto li aveva colti
impreparati.
Ed
era proprio quel tipo di imprevisti che li mandava in bestia.
“Io
giuro che divento figlio unico!” esclamò il chitarrista,
portandosi le mani alla testa. Si chiedeva quale fosse quell'assurdo,
improponibile, futile motivo per cui suo fratello non si fosse
presentato sul palco assieme a loro, in tempo. “Ci siamo entrati
insieme, in questo fottuto palazzetto; possibile che sia riuscito
comunque a perdersi?”
“Calmati,
Tom. Arriverà.” intervenne Gustav.
David
era sempre stato dell'idea che un Gustav in famiglia avrebbe
fatto comodo a chiunque. Avere un Gustav in casa voleva dire
porre fine a qualsiasi tipo di litigio o sfuriata, sul loro
nascere.
Anche
se, con i gemelli Kaulitz, quella sorta di legge naturale veniva
comunque infranta. Qualsiasi legge sarebbe stata infranta, con
i gemelli Kaulitz in giro.
“Non
mi calmo affatto! Avevo pronto uno schema mentale coi fiocchi e lui
me lo sta mandando a monte!”
“Fammi
indovinare.” parlò Georg, ormai sedutosi su una cassa. “Tale
schema mentale prevedeva due minuti di Soundcheck, arrivo in hotel
entro le cinque e sesso selvaggio con una groupie prima del
concerto?”
“Esatto.”
borbottò Tom, tirando un lieve calcio al muro.
“Beh,
allora, cancellalo immediatamente anche senza l'aiuto di Bill, perché
ci vorranno più di due minuti per il Soundcheck e lo sai bene.”
gli intimò il manager, mentre teneva il proprio cellulare
all'orecchio. “Continua a darmi occupato.” sospirò
successivamente, riponendo quindi il telefono in tasca.
“Che
razza di idiota.” commentò il chitarrista, sedendosi anche lui
sulla cassa, affianco a Georg, che picchiettava distrattamente un
piede sul pavimento. Ormai erano tutti pressoché abituati alle così
dette sviste del vocalist, ma dire che ci avevano fatto il
callo era un azzardo bello e buono. “Devo chiamare mamma per dirle
due parole riguardo l'eredità.”
Non
appena la sua mano si infilò in tasca, Gustav gli afferrò il polso
con decisione.
“Torna
in te.” gli intimò con sguardo rassegnato.
“Non
farebbe male a quella principessina dal ciclo mestruale perenne
perdere un po' di averi.” borbottò quindi, tornando a torturarsi
le dita, mentre la sua gamba non trovava tregua con quei suoi
movimenti schizofrenici.
“Oh,
mi aspettavate?”
Lo
sguardo intimidatorio di Tom avrebbe messo paura persino al più
rivoltante Mostro delle Nevi, ma questo Bill – che era finalmente
giunto alla propria postazione saltellando come nulla fosse – non
lo notò con immediatezza.
“Oh,
mi aspettavate.” sussurrò minaccioso il chitarrista. “Oh,
mi aspettavate?! Ma dico, da quale diavolo di utero animale sei
schizzato fuori? Non posso avere il tuo stesso DNA!” esclamò poi,
fuori di sé, avvicinandosi nel frattempo a suo – presunto –
fratello, con i pugni stretti.
“Che
c'è? Stavo parlando al telefono.” si difese quindi il biondo,
mentre riponeva il cellulare in tasca.
“E
con chi, di grazia? Non potevi farlo dopo?”
“Con
Ivan e no, non potevo farlo dopo. Mi ha chiamato piuttosto depresso;
che dovevo fare? Sbattergli il telefono in faccia e abbandonarlo ai
suoi problemi?”
“Che
tipo di problemi?”
“Non
ha più personale nel suo negozio e ne ha urgente bisogno, altrimenti
è costretto a chiudere.” Si prese una piccola pausa, giusto per
scrutare il viso di Tom, fattosi improvvisamente preoccupato. “In
più, Caroline l'ha lasciato e si sente parecchio giù.”
“L'ho
sempre detto, io, che quella è una stronza.”
“Ehm.”
David si schiarì la gola e i gemelli si voltarono incuriositi verso
di lui. “Tom ha fatto un casino secolare, stava per scatenare
un'Apocalisse perché Bill non arrivava e ora ve ne state lì a
chiacchierare, come nulla fosse? Che ne dite di cominciare con il
Soundcheck? Così, sapete, giusto perché stasera avete un concerto.”
Bill
e Tom, dopo quelle parole pronunciate con estrema calma, si
scambiarono un'occhiata e, senza fiatare, presero le loro posizioni
sul palco.
***
Basta.
Camminava
lungo quel marciapiede come volendo lasciarvi una fossa ad ogni suo
passo.
Vi
aveva rinunciato.
La
gente attorno a lei sembrava persino guardarla intimorita.
Se
doveva morire di fame e senza un tetto sulla testa, perfetto.
Le
mani le prudevano dal nervoso e le teneva serrate in due pugni per
evitare di sganciare un qualche destro al primo passante che le
avesse anche solo rivolto uno sguardo di troppo.
Sarebbe
andata in contro al suo destino. Almeno l'avrebbe
finalmente raggiunto.
***
Tirò
un gran sospiro. Rimettere piede sull'erba fresca ed un tantino umida
dell'albergo era stato per lei quasi confortevole. Girovagare a vuoto
per tutte quelle vie e soprattutto venire rifiutata almeno una
ventina di volte, senza un apparente motivo, l'aveva fatta sentire
ancora più distrutta di quel che era. La rabbia aveva lasciato il
posto ad una sorta di sconforto, ad una tristezza a dir poco
devastante, alla quale nessuno sarebbe riuscito a porre un limite.
Evidentemente
aveva qualcosa di sbagliato; ultimamente – visti i fatti clamorosi
che si susseguivano senza sosta nella sua vita – non faceva altro
che ripeterselo.
Camminò
a testa bassa lungo il vialetto che l'avrebbe condotta all'entrata
dell'hotel, senza minimamente curarsi di ciò che le accadeva
attorno.
Non
le importava più nulla, ormai. Aveva perso ogni aspettativa, ogni
sogno, ogni briciola di forza di volontà. Ora voleva solamente
abbandonarsi al suo destino – che fino ad allora era stato sempre
infame con lei – ad avrebbe deciso lui cos'era meglio per lei.
Avrebbe deciso lui quando farla finita con tutto quel dolore ed
assegnarle finalmente uno scopo. Che fosse ultimo non le importava.
“Hey,
Gina!”
“Ingie.”
corresse immediatamente a denti stretti e senza nemmeno controllare a
chi appartenesse quel richiamo così pieno di entusiasmo.
Quando
si voltò, Redhead le sostava di fronte, con un sorriso
smagliante in volto e le mani in tasca, probabilmente infreddolite a
causa del clima rigido. Ingie ormai non percepiva più nemmeno
quello.
“Oh,
scusa.” sorrise imbarazzato Georg.
“Figurati.”
borbottò la ragazza, per poi dargli le spalle e riprendere a
camminare con l'intento di levarselo di torno, prima che il peggio
potesse accadere.
“Ah,
c'è l'americana!”
Per
l'appunto.
Tom
camminava con il suo solito andamento quasi buffo – quasi –
in direzione del suo collega. Ingie, in risposta, gli lanciò una
fulminata che non ebbe certamente bisogno di spiegazioni.
“Mi
spiace deluderti, dolcezza, ma non posso fermarmi ad intrattenermi
con te. In camera mia mi aspetta una focosa maratona con una
cameriera dell'albergo.” si rivolse a lei il ragazzo, con un
sorrisetto alquanto furbo in viso.
Quanto
sei squallido, Pigtail.
“Ma
quale spiacevole perdita. Buon divertimento.” ribatté piuttosto
seccata.
“Se
vuoi unirti a noi, sei la benvenuta. Basto per tutte.”
“Prego?”
Quella
domanda ridotta a poco più di un sussurro, ma soprattutto gli occhi
a dir poco infuocati di Ingie, bastarono per far capire al
chitarrista di finirla lì e di volatilizzarsi.
“Scusalo.”
si intromise Bill, che era arrivato giusto in tempo per assistere
all'ultima, pietosa proposta di suo fratello.
“Già,
alla fine non è colpa sua se è nato stupido.” commentò Ingie,
facendo nuovamente per andarsene.
“Aspetta
un momento.” la fermò il vocalist. “Posso parlarti?” le
domandò. Ingie aggrottò la fronte.
“Parlare
con me?” chiese piuttosto scettica.
“Sì.”
annuì Bill, come nulla fosse. Ciò che la mora non comprendeva era
come potesse essere possibile che uno sconosciuto – non proprio
sconosciuto, visto che era una famosa rockstar mondiale, ma poco le
importava – avesse bisogno di parlare con lei; tuttavia, si limitò
ad annuire e sedersi sulla poltrona in vimini del giardino, la stessa
della sera precedente. Non aveva decisamente voglia di sentirlo
blaterare, ma non aveva comunque nulla da fare. Come alternativa
avrebbe potuto chiudersi in camera sua e crogiolarsi felicemente
nel dolore, ma anche questa, sufficientemente seccante, poteva andare
bene.
“So?”
domandò disinteressata. Il vocalist si passò una mano dietro al
collo, in evidente difficoltà, mentre il suo sguardo era fisso
sull'erba che li circondava.
“Ti
sembrerò stupido ma avevo bisogno di parlare con una persona che non
fosse come noi.” ammise. Ingie sbatté più volte le palpebre,
piuttosto sorpresa. Ne aveva di coraggio quel ragazzo. Come poteva
lei rappresentare una figura con cui poter parlare e confidarsi?
Aveva già abbastanza problemi, ma questa volta decise di tacere ed
ascoltare. “Sai, un po' mi manca la mia famiglia.” A
quell'affermazione, Ingie si irrigidì appena, stringendo i denti.
Era immediatamente scivolato in un argomento che a lei non piaceva
decisamente toccare. “Sì, ho mio fratello e per me è qualcosa di
essenziale, è un mio pezzo di anima...” Questa volta la mora
strinse i pugni. “Ma ogni tanto sento anche il bisogno di mia
madre. Penso sia normale, no? O è una cosa da stupidi?”
Ingie
scrollò le spalle. “Non è da stupidi.”
“Ogni
tanto ho voglia di andare a pescare.” Ingie si voltò nella sua
direzione con un sopracciglio inarcato ed un'espressione piuttosto
perplessa in volto. “Sì, a pescare. Sembra una cosa stupida, ma
non posso fare nemmeno quella.”
Ora
capiva dove volesse arrivare. Pescare non era ciò che voleva
seriamente fare; aveva semplicemente utilizzato un esempio sciocco
per farle capire quanto la sua vita, apparentemente perfetta, potesse
avere limiti. Effettivamente, pensò Ingie, ne aveva parecchi.
“Non
ti piace il tuo lavoro?” domandò senza guardarlo e con un tono che
non lasciava trapelare la minima curiosità. Lei era così:
apparentemente fredda.
“Oh,
non mi fraintendere, lo adoro. Adoro cantare, adoro tenere concerti,
adoro ricevere il responso da parte del pubblico.”
“Ma...?”
“Ma
ogni tanto mi pesa.” Si prese una piccola pausa. “Mi pesa non
poter fare ciò che facevo prima. Non voglio sputare sul piatto dove
mangio, anche perché ho inseguito questo sogno per anni, assieme a
mio fratello, e siamo stati davvero fortunati; sarei ipocrita a dire
il contrario. Vorrei solo trovarmi in un altro mondo, ogni tanto,
lontano da tutto e tutti, quando ho bisogno di stare da solo o con la
mia famiglia al completo.” Ingie si limitò ad annuire; non sapeva
decisamente cosa ribattere, quindi optò per il silenzio. D'altronde
non era una cosa che le riguardava, stava solamente prestando
orecchio.
“Perché
stai dicendo tutto questo a me?” chiese soltanto.
“Non
lo so.” sorrise Bill. “Mi ispiri fiducia. Sei apparentemente
fredda e distaccata, ma per lo meno sei schietta e non hai peli sulla
lingua. Dici quello che pensi; mi piace.”
“Tu
non sai come sono.”
“Senza
dubbio; non dici nulla di te. Perché non me ne parli un po'?”
“Perché
non racconto le mie cose agli estranei.”
“Io
mi sono aperto un po' con te.”
“Non
te l'ho chiesto io.”
Bill
ridacchiò appena. Era impossibile sentirsi offesi da quella ragazza.
Aveva un modo di parlare che, per quanto fosse secco e duro, non
poteva fare altro che suscitare divertimento.
“Hai
ragione. Sai sempre come fregare la gente, eh?” sorrise
compiaciuto, per poi accendersi una sigaretta.
“L'ho
imparato a mie spese.” concluse Ingie, imitandolo.
Entrambi
presero a fumare in silenzio, osservando il cielo quasi scuro. A
Ingie non importava; non disprezzava il silenzio. A volte lo
preferiva a più di mille parole. Inoltre, cosa aveva da dire a quel
tipo? Nemmeno lo conosceva.
“Sei
qui da sola?”
Un
campanello di allarme prese a suonare nel suo cervello. Quella
domanda alludeva ad un qualcosa di troppo pericoloso e la
conversazione stava prendendo una piega che non le piaceva.
“Sì.”
si limitò a rispondere, senza dare ulteriori dettagli.
“Hai
intenzione di viverci?” domandò ancora, interessato, il biondo,
poggiandosi meglio con la schiena ai cuscini.
“Se
trovo una casa, sì. Ma prima devo trovare un lavoro.” scrollò le
spalle come fosse un qualcosa di fin troppo facile.
“Che
tipo di lavoro vorresti?”
“Qualunque,
anche perché domani l'albergo mi sbatte fuori a calci e io me ne
andrò a dormire sotto un ponte.” Strinse gli occhi maledicendosi.
Si era fatta scappare dalle labbra più del dovuto. Non aveva mai
voluto raccontare i suoi fatti alla gente ed ora era seduta su una
poltrona di vimini con una famosa rockstar a spiattellarli senza
riflettervi due volte. “Dimentica quello che ho detto.” aggiunse
quindi con freddezza, mentre faceva cadere un po' di cenere dalla sua
sigaretta.
“Domani,
dici? E come farai?” sgranò gli occhi Bill.
“Non
ne voglio parlare.”
Bill
la osservò per qualche attimo in silenzio, come pensieroso. Doveva
fare qualcosa. Quella situazione si presentava al momento giusto.
Prese
a frugare nella tasca dei suoi jeans, fino a che non ne tirò fuori
il suo cellulare. Ingie non si accorse di niente; percepiva dei
movimenti strani accanto a sé, ma non si voltò nemmeno per
controllare cosa stesse facendo. Continuò a fumare trasudando
estrema tranquillità, come se le sue preoccupazioni fossero un vago
ricordo.
“Pronto,
Ivan? Ciao, scusami se ti richiamo.” Ingie tacque, ascoltando
disinteressata la conversazione, mentre il suo sguardo vagava in
direzione opposta del ragazzo e la sigaretta si consumava fra le sue
dita rilassate. “Ascolta, tu prima mi hai detto che non hai più
dipendenti, giusto?” L'orecchio della mora si tese appena, ma lei
non si smosse di un millimetro, continuando ad osservare gli alberi
attorno a lei. “Beh, te ne ho trovata una.” A quel punto, non
poté far finta di nulla e voltò il viso verso di lui, con la fronte
aggrottata. Lui nemmeno la guardava ed aveva un'espressione mista fra
il serio e il soddisfatto. “No, non sto scherzando. Qui ho
conosciuto una ragazza che cerca disperatamente un lavoro. È una in
gamba, te lo garantisco. Ha una buona parlantina e penso che trattare
con i clienti, per lei, sia un gioco da ragazzi.” Gli occhi di
Ingie si sgranarono. Possibile che lo stesse facendo sul serio?
“Quanti anni hai?” le chiese all'improvviso.
“Venti.”
rispose lei come un automa. Il fatto era che non le sembrava
possibile ciò che forse stava accadendo.
“Venti.”
ripeté Bill al telefono. “Okay, perfetto, glielo dico. Grazie
mille, amico. Ci vediamo.” Riattaccò. Si voltò verso di lei e
sorrise. “Cominci dopodomani.” Gli occhi di Ingie si sgranarono
sempre di più. Non ci poteva credere, dopo tanta fatica, finalmente
qualcosa di buono era arrivato, ed in pochi secondi. Era come se
qualcuno dall'alto, e sapeva perfettamente chi, avesse deciso di
aiutarla. Un gran magone le si formò in gola; quasi faticava a
respirare. Ma era forte e non avrebbe pianto di nuovo. “È un amico
mio e di Tom, si chiama Ivan ed ha un negozio d'abbigliamento a
Berlino. Tom va sempre lì a comprare.”
“A
Berlino?” domandò appena la mora.
“Sì.
Ti diamo uno strappo noi, domani. Tanto noi torneremo lì per
riprendere a lavorare allo studio. Per un po', con i concerti,
abbiamo finito. E per quanto riguarda la casa, non ti devi
preoccupare: nel frattempo chiederò a David, il nostro manager, di
ospitarti nel nostro studio, almeno fino a quando non avrai una casa
tutta tua.”
Il
tutto stava divenendo assurdo. Ingie era sempre più incredula. Non
avrebbe mai e poi mai creduto che una star mondiale avesse così
tanto cuore. Forse aveva sempre raggruppato quella gente in un unico
calderone, riportante l'etichetta 'Egoisti, insensibili e viziati'.
“Perché?
Perché tutto questo? Nemmeno mi conosci.” le venne spontaneo
chiedere.
“Te
l'ho detto, mi ispiri fiducia. Vado molto a pelle e sono molto
preciso in queste cose. Mi sembri una ragazza semplice e genuina.
Inoltre ho un cuore e penso che nessuno avrebbe lasciato una ragazza
di vent'anni sotto un ponte senza avere un minimo di rimorso di
coscienza.”
“Io
non voglio disturbare.”
“Non
disturbi. Abbiamo uno studio di registrazione enorme e c'è
abbastanza posto per una squadra di calcio. Allora?”
Ingie
non poté fare altro che annuire appena.
“Grazie.”
mormorò. Si sentiva in difficoltà; non era abituata ad esternare
ciò che provava. “Scusa, non so che dire.” aggiunse.
“Dì
che stasera verrai al nostro concerto.” sorrise Bill.
***
Come
diavolo era finita lì?
Era
inaccettabile, assurdo, contro ogni principio di buon senso accettare
la richiesta del vocalist. Per natura, non era una ragazza molto
accondiscendente ed odiava dover assecondare le persone, solo per
fare loro un favore. In quel caso però si era vista costretta a
farlo; d'altronde Bill le aveva tecnicamente salvato la vita ed in
qualche modo avrebbe dovuto sdebitarsi. E se per farlo avrebbe dovuto
partecipare ad un chiassoso concerto, in mezzo ad altrettante
chiassose fans, l'avrebbe fatto.
Era
seduta sugli spalti, a braccia conserte e con le gambe accavallate
mentre invece le ragazze che le stavano attorno saltavano in piedi
già prima dell'inizio del concerto, sfoggiando le loro voci
melodiche.
Aveva
già mal di testa.
Sbuffò
appena, guardandosi attorno, mentre faceva dondolare con noncuranza
il piede della gamba accavallata, chiedendosi quando quel tormento
avesse avuto inizio. Prima avrebbe affrontato quella seccatura e
prima avrebbe potuto rannicchiarsi sotto il tepore delle lenzuola
dell'albergo. Per lo meno era riuscita a convincere Bill a non
obbligarla a partecipare anche al Backstage; sarebbe stato altamente
traumatico, altrimenti.
I
Tokio Hotel erano in ritardo di ben quarantacinque minuti. Poteva
benissimo essere una loro tattica per destare attesa ed impazienza
nelle loro fans, ma per Ingie rappresentava una seccatura ancora più
seccante.
How
boring, continuava a ripetersi nella testa.
Ma
finalmente le luci si spensero. Finalmente era uno modo di
dire, dato che le ragazze che la circondavano presero a strillare
come in preda a convulsioni, facendole aumentare drasticamente il mal
di testa.
What
the fuck!
Per
il suo compleanno si sarebbe fatta regalare da qualcuno un paio di
timpani nuovi e sapeva già a chi sarebbe toccata tale azione di
carità.
I
quattro componenti della band fecero il loro nobile ingresso,
degno di vere rockstar, sul palco, dove presero ben presto posizione.
Non ci volle molto per capire che i prediletti erano i gemelli
Kaulitz, cosa che Ingie non riusciva a comprendere. Georg e il
batterista sembravano i più normali – se mai fosse esistito un
personaggio normale in quel gruppo – ed erano quelli che, anche se
silenziosi, le infondevano più simpatia. Invece le ragazzine
urlanti, soprattutto al di sotto del palco sembravano più
intenzionate a spingersi verso sinistra, in direzione del
chitarrista, o verso il centro, in direzione del vocalist.
Ora
che vi rifletteva, il batterista, di cui ancora non sapeva il nome,
era l'unico della band che non aveva conosciuto.
Per
fortuna, pensò, se tutti sono come i Kaulitz.
Mano
a mano che i ragazzi proseguivano con le canzoni, forse, le donzelle
sedute attorno a lei cominciavano a placarsi appena, anche se non del
tutto. Si chiese da dove riuscissero a trarre così tanta energia e
così tanta voglia di urlare. Doveva ammettere che i Tokio Hotel
erano bravi e professionali – ammissione che le costò fatica fare
anche solo a se stessa – nonostante non ricreassero esattamente il
suo genere musicale; eppure non riusciva a concepire l'idea di dover
strillare dall'inizio alla fine di un concerto, senza capire
principalmente nulla.
Come
sprecare soldi, formulò scettica la sua mente.
Un
suono dolce, pareva di un pianoforte, catturò all'improvviso la sua
attenzione, portandola a puntare il proprio sguardo accigliato verso
il palco con maggiore intensità. Era una melodia completamente
differente da ciò che aveva potuto udire in precedenza. Era una
melodia malinconica, che infondeva una punta di tristezza, un
qualcosa che solo poche canzoni le trasmettevano. Non poteva credere
che quella musica fosse sul serio opera loro; così differente da ciò
che aveva ascoltato fino a quel momento. Ma la cosa che più la
lasciò sbalordita fu che quella composizione così dolce, delicata e
profonda era creata proprio dall'ultima persona che si sarebbe mai
aspettata di vedere seduta davanti ad un pianoforte, rilasciante
guizzanti fiammelle che andavano a definire al meglio l'atmosfera:
Tom Kaulitz.
Gli
occhi chiusi, la testa che si muoveva appena a ritmo delle note che
le sue dita andavano a comporre, sfiorando con immensa delicatezza ed
immenso riguardo i tasti bianchi e neri, come fossero un qualcosa di
fragile. Il ragazzo sembrava immerso in un suo intimo mondo, dove
quel concerto non esisteva, così come la gente attorno a lui, e
Ingie non poté fare a meno di rimanerne sorpresa.
Pensò
che avrebbe impiegato giorni per riprendersi da quello shock.
***
Non
aveva mai apprezzato la morbidezza di un bel letto comodo e caldo
come quella sera. La sua schiena aveva finalmente potuto dare vita ai
cori dell'Alleluia, non appena aveva toccato il materasso, e le dita
dei suoi piedi compivano movimenti minuscoli ma ripetitivi,
ringraziando probabilmente il cielo di non dover essere più
costrette in quelle scomode e dolorose scarpe da ginnastica.
Il
concerto era durato un'ora e mezza, ma a Ingie sembrò passata
un'eternità.
Mai
più concerti, si era ripetuta più volte, calcando
particolarmente quel mai. Aveva accontentato la richiesta di
Bill, giusto per sdebitarsi, nonostante non sembrasse ancora
abbastanza, e per il momento aveva concluso con tali follie; ora
voleva solo riuscire a dormire un po'.
Non
aveva avuto nemmeno la forza di togliersi quel lieve tocco di mascara
che si era data prima di uscire, giusto per non sembrare totalmente
un'evasa, nonostante i fatti reali fossero un po' quelli. La
spossatezza l'aveva sopraffatta.
Improvvisamente
però, un lieve bussare alla porta mandò a monte il suo tentativo di
assopirsi.
Rifletté
qualche istante se compiere l'indecente atto di alzarsi dal
letto ed aprire la porta o far finta di non aver sentito nulla e
richiudere gli occhi. La seconda opzione era decisamente più
allettante, ma la coscienza le diceva di optare per la prima. Con un
gran sospiro, cacciò con le gambe il piumino, che andò ad
arrotolarsi in fondo al letto, e camminò con passo strascicato verso
la porta.
“Chi
è?” domandò prima.
“L'uomo
dei tuoi sogni.”
A
Ingie non occorsero infiniti minuti per capire che dietro lo spesso
legno color crema attendeva Tom Kaulitz. La cosa non la sorprese,
poiché era sempre lui l'artefice di ogni suo fastidio, ed il suo
pisolino non poteva di certo essere interrotto da qualcuno che non
fosse lui.
“Mi
spiace, ha sbagliato porta, non lo aspettavo.” commentò
ironicamente, nascosta a braccia conserte, sperando che il ragazzo
capisse l'antifona.
“Allora
sono solo un'affascinante chitarrista che potrebbe cambiarti la
vita.”
“Oh,
questo è sicuro.” Aprì la porta. “Ma in peggio.” sorrise
sarcastica, guardandolo negli occhi. Tom fece schioccare la lingua
sul palato.
“Ritieniti
privilegiata, di Tom Kaulitz ce n'è solo uno.” le sorrise con
malizia, prima di entrare in camera sua, senza nemmeno chiedere il
permesso.
“Per
fortuna.” ribatté Ingie, mentre richiudeva la porta e si voltava
in direzione del ragazzo, che si era già seduto in fondo al letto.
“Prego, accomodati.” commentò scettica, prendendo posto sulla
sedia, di fronte a lui. “Che vuoi?”
“Ho
saputo che vivrai con noi.”
“Non
vivrò con voi. Mi darete semplicemente asilo per un breve
periodo.”
“Sì,
beh, è uguale.”
“No,
it isn't.”
“Comunque
so anche che lavorerai con Ivan.”
“Così
pare.”
“Siamo
molto amici ed io vado a comprare sempre da lui.”
L'espressione
di Ingie mutò immediatamente. Quando Bill le aveva comunicato quel
piccolo e rilevante particolare non vi aveva fatto caso più di
tanto, ma ora che aveva Tom di fronte e poteva constatare con i
propri occhi quale fosse il suo tipo di vestiario, il panico
imperversò.
“Quindi
è... Un negozio di... Hip-hop?” scandì con lentezza, timorosa
della sua risposta, nonostante la sua fosse una domanda retorica.
Poteva ben capire che si trattava proprio di quello stile.
“Già,
voi ragazze non siete molto interessate a questi capi, ma ti assicuro
che sono molto comodi.” Le nocche di Ingie avevano preso un colore
biancastro, vista l'incessante forza con cui stava stringendo i pugni
sulle proprie cosce. Si schiarì appena la voce e rispose con un
semplice 'immagino'. “Allora, come ti è sembrato il concerto?”
le domandò all'improvviso il chitarrista, scrutandola con attenzione
e con una sfumatura speranzosa nelle pagliuzze color nocciola.
Ingie
fece una smorfia, scrollando le spalle.
“Rumoroso.”
rispose secca.
“Rumoroso?”
sollevò un sopracciglio il ragazzo, con espressione divertita.
“Rumoroso.”
confermò Ingie.
“Rumoroso
e nient'altro?”
“Chiassoso.”
“Un
aggettivo che non sia un sinonimo di 'rumoroso'?”
Ingie
si prese qualche secondo per pensare.
“Un
toccasana per il mal di schiena.” Tom sorrise appena, scettico,
inclinando leggermente la testa verso destra, mentre i suoi occhi la
scrutavano con eloquenza. “Però siete bravi.” decise quindi di
accontentarlo. “Ma, con questo non voglio assolutamente dire
che mi piacete.” si affrettò a chiarire.
“Donna
orgogliosa.” commentò il moro, compiaciuto.
“No,
donna molto stanca e desiderosa di andare a dormire.”
“È
solo l'una.”
“Per
te sarà solo l'una, ma io ho sonno e gradirei che mi
lasciassi riposare.”
“Sei
sempre così diligente?”
“Non
è essere diligenti, è voler dormire e mettere a tacere i
lamenti di una povera schiena in preda ad una crisi di identità.”
“Posso
farti un massaggio, se vuoi.”
“Get
out of here, right now.” Tom si lasciò andare ad una lieve
risata e poi decise di obbedirle. Si alzò dal letto con estrema
lentezza e si stiracchiò appena, continuando ad osservarla di
sottecchi e con un'aria maliziosa che non piacque per niente ad
Ingie. “What?” domandò quest'ultima, con sospetto.
“Potrei
dormire qui con te, giusto per abituarci all'idea, prima del
trasferimento ufficiale.” sussurrò furbescamente.
“Buona
notte, Pigtail.” borbottò quindi lei, posando le mani sulla
sua schiena, per spingerlo fuori dalla stanza, sotto le sue risate.
***
“Che
c'è? Stanotte in bianco?” sorrise Gustav, percorrendo il lungo
corridoio, sul quale il chitarrista camminava silenzioso, dopo esser
stato sbattuto fuori dalla stanza di Ingie. Quella ragazza aveva
polso duro; gli sarebbe piaciuto un sacco stuzzicarla.
“Ti
piacerebbe.” rispose con malizia. “Notte, GusGus.”
Aprì
la porta della propria camera e sorrise nel momento in cui i suoi
occhi poterono posarsi su un paio di gambe lunghe e snelle,
dall'abbronzatura piuttosto pronunciata: una succulenta brasiliana,
dal nome ignoto, a sua unica disposizione, già distesa sul letto;
non avrebbe potuto trascorrere nottata migliore, dopo la stanchezza
post-concerto.
“Ti
aspettavo.” sussurrò suadente la mulatta, mentre si attorcigliava
una ciocca di capelli castani al dito.
Tom
non rispose. Si limitò a slacciarsi la camicia.
***
Sbuffò
seccata.
Di
lì a poco quella tortura avrebbe avuto una fine, ne era certa.
Si
voltò sul fianco destro.
D'altronde,
non sarebbe durata per delle ore; era tecnicamente impossibile.
Tornò
sul fianco sinistro.
Eppure,
ascoltava ormai da un'ora e quarantacinque minuti.
Sbatté
con violenza entrambe le mani sul materasso e, con un gran sospiro,
si mise in piedi, dopo aver scacciato con rabbia il caldo piumino che
le proteggeva il corpo intorpidito. Pochi passi ed era sicura
che l'avrebbe raggiunto, a constatare dai rumori. Spalancò la porta
della propria stanza e con passo pesante ed espressione furibonda, si
incamminò velocemente e con decisione verso la fonte del suo perenne
malessere.
Immediatamente
le sue nocche planarono con violenza su quella dannata porta color
panna che nascondeva la sua prossima vittima. Se c'era una cosa che
non poteva sopportare era essere disturbata nel sonno o che la gente
non le permettesse di addormentarsi.
L'inquilino
della stanza impiegò qualche istante di troppo nell'aprirle ed il
motivo le fu perfettamente chiaro nel momento in cui Tom le apparve
finalmente di fronte: si era degnato di indossare un paio di boxer.
“Ehm,
che cosa c'è? Sono un tantino occupato.” commentò il chitarrista
piuttosto a disagio, con la pelle umida di sudore, ma cercando
comunque di mantenere un tono pacato e cordiale. Ingie non fu dello
stesso avviso.
“Sì,
ho notato, a costatare dal casino che state facendo.” sbottò
ancora insonnolita, infreddolita e scossa da continue scariche
elettriche di nervosismo. “Ti avverto, Pigtail, se sento
ancora un solo rumore, un solo gemito, una semplice
lettera dell'alfabeto, io ti uccido. O meglio, te lo taglio, così
sarò sicura di non sentire più nulla.” lo minacciò con un dito
puntato sul suo viso, a pochi millimetri dal naso. “E dì alla tua
amica di infilarsi una calza in bocca, così fa un po' di silenzio:
sai, c'è gente che gradirebbe dormire. Buona notte.”
Detto
questo, girò sui propri tacchi – o meglio pantofole – con aria
altezzosa e ripercorse i metri di parquet quasi crepato dai suoi
stessi piedi, qualche minuto prima.
Tom
si limitò ad osservarla sbigottito.
***
Per
l'ennesima volta, la segreteria telefonica gli annunciò che era di
nuovo irraggiungibile.
Si
portò le mani al viso, in segno di disperazione.
Dove
ti sei cacciata?
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Capitolo 5 *** Four - It's all because of him! ***
4
Four
It's
all because of him!
Quando
scorse le occhiaie profonde e chilometriche sotto i suoi occhi, cercò
di non imprecare. Non che fosse una questione di vita o di morte, ma
si sentì sempre più ispirata nel progettare l'imminente omicidio
del chitarrista. Si sistemò come meglio poté viso e capelli, non
per chissà quale smania di apparire perfetta, ma solo per non recare
danni alla salute di chi la circondava.
La
sua valigia era pronta – non era mai stata disfatta – e sapeva
che i ragazzi l'attendevano per la colazione, sebbene avesse lo
stomaco chiuso.
Scese
le scale, accompagnata da un gran sospiro, e giunse a destinazione,
dove localizzò i diretti interessati, già seduti al tavolo ed
intenti a chiacchierare con quello che doveva essere il loro manager.
“Oh,
buongiorno, Ingie!” la salutò Bill sorridente, non appena la vide
fare il suo ingresso in sala.
“Morning.”
borbottò lei, fermandosi alle spalle di Georg, a braccia conserte.
“Vieni
a sederti qui in mezzo!” le disse ancora il vocalist, fin troppo
entusiasta per i suoi gusti, mentre sbatteva ripetutamente una mano
sulla sedia posizionata fra lui e suo fratello.
Oh,
perfetto, in mezzo ai Kaulitz, pensò scettica, prima di
avvicinarsi a loro e fare come le aveva chiesto.
“Buongiorno.”
commentò il chitarrista a bassa voce, con un mezzo sorrisetto a
sostargli in viso. “Dormito bene, poi?” le domandò senza
abbandonare il suo sorriso che avrebbe ben presto fatto perdere la
pazienza alla ragazza.
“Sparati.”
fu l'affettuosa risposta di Ingie, seguendo il suo esempio, e quindi
senza degnarlo di uno sguardo.
Durante
la notte insonne aveva deciso di non buttare totalmente all'aria
quegli interminabili istanti e si era chiesta più volte quale
divinità avrebbe dovuto invocare durante la sua permanenza allo
studio di registrazione della band, con un soggetto come Tom Kaulitz
perennemente nei paraggi. In poche ore aveva già dato il meglio di
sé e non si era presentato nel più eccellente dei modi; come
sarebbe stato viverlo per settimane? Avrebbe avuto bisogno di una
lavanda gastrica solamente al termine della prima.
“Io
sono David Jost, il manager di questi quattro squinternati.” si
presentò all'improvviso l'uomo sulla trentina con cui i ragazzi
stavano parlando prima del suo arrivo, porgendole nel frattempo la
mano.
Oh
bene, qualcuno la pensava come lei.
“Ingie
C...” si accorse in tempo di ciò che stava per pronunciare e
rimediò. “Ingie.” tagliò corto, mentre ricambiava la sua
stretta. Non voleva far sapere in giro il suo cognome, solo per
evitare piccoli inconvenienti; avrebbe fatto meglio a tacere, almeno
per un po'.
“Bene,
Ingie, armati di tanta pazienza perché vivere assieme a loro non è
facile.” le sorrise amabilmente David.
Voleva
essere un incoraggiamento?
“Lo
temevo, sì.”
***
Aveva
infilato la sua unica valigia nel furgone ed aveva atteso che anche
il resto del gruppo facesse la stessa cosa.
Da
una parte, era grata a Bill per ciò che aveva fatto per lei senza
esitazione, mettendo per un attimo a tacere tutti i pregiudizi della
gente riguardo l'egoismo e la superficialità che macchiavano
ripetutamente la figura dei personaggi famosi. Dall'altra però
sentiva dentro di sé una grande ansia. L'ansia dell'inizio di una
nuova vita; l'ansia di sbagliare ancora e ancora. Per natura, era una
ragazza forte, ma ultimamente sentiva che questa sua forza iniziava a
vacillare e la cosa le faceva tanta paura. Aveva come l'impressione
di non riuscire a reggere a lungo, se qualcuno non l'avesse
immediatamente salvata dal buco nero entro il quale stava lentamente
cadendo, solo per causa sua.
Bill
aveva rappresentato un'ancora di salvezza, almeno per il momento.
“Possiamo
andare.” annunciò David, prendendo posto sul sedile accanto
all'autista, mentre i Tokio Hotel, assieme ad Ingie, salirono sul
retro, dove vi era abbastanza spazio per tutti quanti.
La
mora gettò immediatamente lo sguardo oltre il finestrino, per fare
intendere a chiunque provasse a rivolgerle parola di voler essere
lasciata in pace. Doveva riflettere. Erano tante le cose su cui
avrebbe dovuto riflettere; così tante che nemmeno sapeva da dove
cominciare. Una piccolissima parte del suo cervello le suggeriva che
stava commettendo un grosso errore e che avrebbe dovuto riprendere il
primo aereo disponibile per New York. Ma non aveva il coraggio di
tornare alla sua vita precedente. Non aveva il coraggio di rivedere
persone e luoghi che le avrebbero trasmesso solo malinconia e dolore.
Aveva voglia di riprendere in mano la sua vita, seppur difficilmente,
e cercare di dimenticare il passato.
Certo,
quell'ultima prospettiva pareva impossibile.
“Comunque,
piacere, io sono Gustav.” Una voce accanto a lei la risvegliò
bruscamente dai suoi pensieri contorti. Quando voltò lo sguardo,
notò il batterista dal viso angelico sorriderle timidamente. “Siamo
stati talmente presi dai preparativi che non ci siamo nemmeno
presentati.” commentò divertito.
Ingie
gli strinse la mano che le stava gentilmente porgendo.
“Piacere
mio, Ingie.”
“Sono
contento che per un po' verrai a stare da noi. È come una ventata
d'aria fresca. Vivere con questi qui non è facile.” le sorrise.
“Ti
sento.” fu il borbottio di Tom, stravaccato di fronte ad Ingie, a
braccia conserte e con gli occhiali da sole sul viso, intenzionato a
dormire un po'.
“Perché
non ascolti anche tu l'i-pod come tuo fratello?” domandò il
batterista.
“Perché
devo controllare che tu non le racconti stronzate. Le farei una
brutta impressione, altrimenti.”
“Guarda
che tu mi fai già una brutta impressione.” precisò Ingie,
terribilmente sarcastica.
Tom
si calò gli occhiali da sole sulla punta del naso e la osservò al
di sopra di essi, con le sopracciglia inarcate in un'espressione
scettica.
“Ti
farò ricredere, allora.” sorrise malizioso.
“Potresti
iniziare rimettendoti a dormire, per esempio.” commentò amabile la
mora.
“Solo
perché sono particolarmente stanco.” la accontentò, rimettendosi
a posto gli occhiali e tornando poi ad incrociare le braccia al
petto.
“Se
avessi evitato di farti tutto il personale dell'albergo...”
commentò Gustav, con ironia.
Il
chitarrista, per tutta risposta, sollevò il dito medio.
***
Non
credeva ai suoi occhi. Raramente le era capitato di assistere a
qualcosa di tanto meraviglioso.
Di
fronte a lei, un'enorme villa gialla occupava la sua visuale ed
attorno non vi era altro che verde. Alberi imponenti, vastissimi
giardini ed una tranquillità di cui raramente lei stessa aveva
potuto godere. Aveva immaginato più volte l'abitazione dei ragazzi
come un luogo sicuro, certamente lontano da sguardi indiscreti, ma
non sperduto dal mondo.
Lì
non vi era anima viva.
Probabilmente
le avrebbe fatto solo bene; aveva bisogno di estraniarsi per un po'
dalla confusione, di rimettere in sesto alcune cose, di prendersi del
tempo per se stessa e di certo vi sarebbe riuscita solamente immersa
nella totale quiete.
Percorse
il vialetto con la valigia in mano e seguì i ragazzi fino alla
porta. Quando questa venne aperta e lei poté finalmente fare il
proprio ingresso, restò senza parole. Aveva intuito dall'esterno la
grandezza di quello studio, ma aveva evidentemente commesso qualche
piccolo errore. L'enorme salone che le si prospettava di
fronte era solo un minuscolo dettaglio. Esso era di proporzioni quasi
esagerate, circondato da pareti color arancio, che trasmettevano una
piacevole sensazione di calore. Il camino, che occupava la parete
centrale, era spento e aveva di fronte a sé un divano color panna,
munito di chaise longue, a sua volta affiancato da un altro a tre
posti sulla sinistra e da una poltrona sulla destra. Un tavolino di
vetro fra loro, a completare l'arredo. Ingie spostò lo sguardo verso
sinistra e notò l'entrata alla cucina, anch'essa di dimensioni – a
sua veduta – cosmiche.
“Ti
piace?” le domandò un Bill piuttosto sorridente. Evidentemente
stava imparando a decifrare le espressioni del suo volto, cosa che
quasi nessuno sapeva fare.
“Mi
piace sminuirebbe tutto.” rispose, sincera.
“Fatele
fare un giro dello studio, per favore. Comportatevi da gentiluomini.”
intervenne David, impegnato ad accendere il riscaldamento, aprire le
persiane, e portare a termine ogni singolo rituale necessario durante
il ritorno in una casa, fino ad allora vuota.
“Vieni.”
le sorrise Gustav, cominciando a camminare in direzione della cucina.
Questa era di colore giallo tenue, dall'arredamento moderno e molto
spaziosa. Ingie aveva sempre adorato le grandi cucine e fino a poco
tempo prima le piaceva sperimentare nuovi piatti. Spesso si chiudeva
lì dentro, vietando a chiunque vi provasse di entrare, ed utilizzava
ogni singolo angolo della stanza, mettendo a dura prova le sue doti
culinarie. Gustav le mostrò tutto: la lavanderia, il bagno, la
camera da letto di David, la saletta di registrazione e quella
riservata al tecnico del suono. Quando cominciarono a salire le scale
per raggiungere il piano superiore, si chiese cos'altro vi avrebbe
trovato. “Qui ci sono le nostre camere da letto.” le spiegò il
batterista con un sorriso, non appena giunsero a destinazione. “E
questa è la tua.” Quando aprì la porta, Ingie la osservò da cima
a fondo. Le pareti erano di colore lilla, un colore che riusciva a
rilassarla. Il letto matrimoniale era posizionato al centro della
stanza, alla sua sinistra una scrivania color panna e alla sua destra
un enorme armadio, marrone scuro. La porta finestra alle spalle del
letto, dava sul balconcino, che a sua volta si affacciava sul vasto
giardino dello studio. “Ti piace?” le domandò il ragazzo.
“Sì.”
annuì. “Grazie.” aggiunse, senza sapere come esprimersi.
“Ti
lascio sola, allora. Così sistemi la tua roba.”
“Grazie.”
“A
dopo.”
Detto
questo, Gustav chiuse la porta e la stanza cadde nel silenzio più
totale.
Si
guardò attorno qualche minuto, prima di aprire il suo borsone.
Pareva non si fosse ancora resa conto di quello che stava accadendo
nella sua vita. Si era gettata in una nuova dimensione senza pensarvi
due volte di più; chiunque l'avrebbe considerata folle, perché non
vi era altra spiegazione: solo qualcuno di veramente folle avrebbe
fatto una cosa del genere. Doveva ammettere però che aveva avuto
anche infinito coraggio – che poteva venir considerato invece come
semplice codardia, da certi punti di vista – nell'abbandonare la
sua vita, chiunque la circondasse e sparire senza lasciare sue
notizie.
Si
portò una mano al petto e percepì il suo cuore spingere
violentemente e ripetutamente contro la gabbia toracica, come volesse
uscire da lì ed urlare tutto il proprio disappunto.
Si
sedette a terra, accanto all'armadio ed aprì la cerniera del suo
borsone. Non aveva nemmeno avuto il tempo di controllare cosa si
fosse portata dietro da New York e l'idea di ritrovare ricordi
dolorosi le metteva addosso solamente una grande ansia. Prese a
smistare i suoi vestiti, cercando di scacciare dalla mente i brutti
pensieri.
Doveva
semplicemente guardare avanti. La sua nuova vita le sarebbe piaciuta.
Ma
quando le giunse alle mani una fotografia, scoppiò in un pianto
disperato, dimenticandosi di quell'ultimo suo pensiero.
***
“Oh,
eccoti qui, giusto in tempo per la cena.” sorrise Georg non appena
scorse Ingie scendere le scale. Si era rifugiata in bagno ed aveva
lavato via dal viso ogni singola presenza di rossore post-pianto.
Odiava quando la gente le faceva domande del tipo, che hai? Va
tutto bene?
Nulla
andava bene se lei piangeva, quindi, perché chiederlo?
“Oh,
bene, io e Tom abbiamo cucinato una nostra specialità!” esclamò
Bill, che era appena uscito dalla cucina, mentre batteva entusiasta
le mani. Ingie sgranò gli occhi e si voltò immediatamente in
direzione del bassista, come per farsi assicurare che ciò che aveva
sentito non era vero. Quest'ultimo chiuse gli occhi e sollevò le
spalle, in segno di resa.
“Bene,
come inizio non è male.” borbottò Ingie, una volta fatto il
proprio ingresso in cucina, dove tutti si preparavano a sedersi a
tavola. “Pigtail, prega di aver cucinato qualcosa di
commestibile o la mia ira ti perseguiterà.” lo minacciò. Tom le
dava le spalle, intento a condire la pasta di un colore rosso
piuttosto intenso ed inquietante.
Poté
udire forte e chiaro il ghigno del ragazzo.
“La
violenza mi eccita.” sorrise, una volta che si fu voltato in
direzione del tavolo, con la pentola fra le mani.
“Tu
sei anche perverso, lo sai, vero?” domandò la mora, con un filo di
seria preoccupazione nel tono.
Tom
la ignorò divertito e prese a servire ogni singolo piatto, partendo
proprio da lei.
“Prima
le signore.” canzonò, mentre le versava la pasta. Ingie era
perplessa: non aveva mai visto una salsa o un sugo di quel colore.
Cosa diavolo avevano cucinato? “Invece di fare quella faccia
sospettosa e schifata, assaggia.” sorrise il chitarrista, dopo aver
servito tutti quanti ed essersi seduto al proprio posto, a
capotavola.
“Ma
David non mangia?” domandò improvvisamente Georg, che aveva già
infilato la forchetta tra le penne.
“Dice
che ha mal di schiena. La vecchiaia si fa sempre più vicina.”
rispose Bill, con un'allegra soddisfazione nello sguardo.
“Ce
ne ricorderemo quando avrai sessantanni, Bill.” lo stuzzicò
Gustav, con la bocca piena.
Ingie
rigirava da qualche secondo la forchetta nel piatto, ma ancora non
aveva avuto il coraggio di sperimentare la cucina dei gemelli
Kaulitz. Per venire su a quella maniera nel corso degli anni, si
dovevano essere per forza nutriti in modo del tutto ambiguo, non
poteva esservi altra spiegazione.
Si
fece coraggio e si portò il primo boccone alle labbra. Sentiva gli
occhi di tutti puntati addosso alla sua figura, impazienti di
conoscere il responso, ma lei era troppo concentrata per capire cosa
fosse quella strana salsa rossa.
“Allora?”
le domandò impaziente Tom.
“Commestibile.”
lo stuzzicò una volta ingoiato il tutto. “Non riesco solo a capire
che cosa sia questa salsa. Ha uno strano retrogusto.” aggiunse,
prima di portarsi il bicchiere d'acqua alla bocca.
“Ketchup.”
sorrise fiero il chitarrista.
Ingie
sgranò gli occhi e tirò indietro il fiato talmente in fretta che le
andò di traverso l'acqua. Tossì fino a divenire bordeaux in faccia,
mentre Gustav, seduto accanto a lei, le dava delle leggere pacche
sulla schiena e Georg le riempiva ulteriormente il bicchiere d'acqua.
Ketchup.
Ketchup! Fra tutti gli ingredienti esistenti sulla Terra, non
poteva credere che sarebbe andato a scegliere proprio quello. La
fortuna ultimamente le era decisamente avversa.
“Io
sono intollerante al Ketchup.” mormorò, come uscisse
dall'oltretomba, fulminando con sguardo tetro il chitarrista.
Quest'ultimo sgranò gli occhi.
“Cosa
intendi per intollerante?” domandò sospettoso.
“Che
potrei avere qualche piccolo problema a dormire, questa notte, brutto
cretino.”
“Perché
mi offendi? Non potevo saperlo!”
“Perché
quando mi irrito, stranamente, ci sei sempre tu di mezzo!”
“Sei
prevenuta!”
“No,
realista!”
“Acida
e presuntuosa!”
“Senti
da che pulpito!”
“Prevedo
cose interessanti.” commentò Gustav con un sorrisetto ad
increspargli le labbra.
***
Come
previsto, non riusciva nuovamente a chiudere occhio. E
nuovamente per colpa di Tom.
Tom
and his fucking Ketchup.
Stava
divenendo una legge fisica: i suoi guai erano direttamente
proporzionali all'onnipresenza del chitarrista. Per qualche strana
ragione, Tom non aveva fatto altro che darle noia in pochissimi
giorni, pur senza intenzione. A volte si chiedeva se mai sarebbe
riuscita a porre da parte l'astio con cui gli si rivolgeva. Non che
le importasse più di tanto di instaurare un qualche legame con lui;
a dire il vero, avrebbe preferito tenersene alla larga per una serie
di motivi più che validi, ma la cosa – anche se allettante – era
palesemente impossibile, considerato il fatto che sarebbero stati
soggetti ad una convivenza forzata. Che fosse per poco tempo o per
l'eternità non poteva dirlo; sperava solo di riprendersi la propria
autonomia il più presto possibile. Odiava dipendere dalle persone,
la faceva sentire più piccola di quel che era. Ma soprattutto odiava
rappresentare un peso. Lei amava la sua indipendenza, la sua
autonomia; non poteva accettare di creare disagio ad altra gente.
Con
un sospiro, decise che non vi era più speranza di potersi
appisolare, così si sedette sul morbido materasso, giusto il tempo
di incalzare le sue pantofole, e si alzò dal letto per dirigersi
verso la portafinestra. Non dimenticò di certo il pacchetto di
sigarette sul comodino e, dopo aver preso posto sulla poltroncina in
vimini, solitaria sul balconcino, lasciò che i suoi polmoni si
riempissero di nicotina ed aria fredda.
Il
fumo uccide.
Lo
scrivevano ovunque, ma nessuno lo leggeva sul serio. Si era ritrovata
a pensare che il mondo fosse un grande suicida. Perché l'essere
umano, compresa lei, era così sicuro di sé, così superficiale e
menefreghista da ignorare una pubblicità simile, a discapito di se
stesso? Se l'era sempre chiesto, rigirando fra le proprie dita il
pacchetto di Marlboro. Giunta a quel punto della sua vita, non le
importava nemmeno se quella scritta avesse presto assunto
concretezza. Si sentiva talmente vuota, talmente immune ad ulteriori
dolori, se non lo stesso che albergava nel suo cuore da giorni, che
non le importava nemmeno di danneggiarsi.
Una
sigaretta in più, una in meno, che sarà mai? Si diceva sempre.
Represse
una smorfia di disgusto, non appena percepì un altro conato salirle
in gola.
Concentrati,
si ripeteva.
Ormai
era tutta la notte che andava avanti quella tortura. Non si sapeva
spiegare come fosse possibile essere intollerante al Ketchup.
Solitamente non aveva problemi a mangiare il pomodoro e se la sua
memoria non la ingannava, poteva con certezza affermare che il
Ketchup fosse fatto proprio di quello.
Gli
strani casi della vita.
Tirò
nuovamente dalla sua sigaretta, quasi conclusa.
Di
lì a poche ore l'attendeva il fatidico colloquio di lavoro con il
presunto Ivan.
Era
stranamente agitata. Aveva paura di non essere all'altezza, aveva
paura di commettere degli errori, di non sapere più come funzionasse
quel tipo di ambiente, da lei reputato più usuale. Negli
ultimi anni si era dedicata totalmente ad altro, nonostante avesse
già avuto esperienza con negozi, bar, e postazioni simili. Forse
aveva paura di tornare alla normalità.
Era
sempre stata una ragazza particolare, una ragazza che di consuetudine
non voleva sentire nemmeno l'odore. Aveva sempre strafatto nella sua
vita, si era presa le sue soddisfazioni e poteva dire di essere stata
per lo meno serena. Gli ultimi avvenimenti erano stati un fulmine a
ciel sereno. Tutte le sue sicurezze vacillavano o forse si erano già
sgretolate. I suoi sogni, ancora irrealizzati, nemmeno li ricordava
più e l'orgoglio che bruciava nel suo sguardo aveva ceduto il posto
a semplice apatia.
Si
strinse nelle spalle, piuttosto infreddolita, ma non tornò in
stanza. Le piaceva sedere su quel balconcino, a notte fonda,
accarezzata quasi con violenza dalla brezza gelida notturna. Non le
importava nemmeno se si fosse presa un raffreddore; in ogni caso
nessuno le avrebbe impedito di uscire e andare a lavorare.
In
lontananza poteva scorgere i primi raggi del sole sbucare da dietro
gli alberi, segno che la mattina stava ormai giungendo e che lei
avrebbe dovuto prepararsi per il colloquio. Chiuse gli occhi e
sorrise appena, nel percepire quel potente ammasso di fuoco
illuminarle il viso. Un calore che le mancava, di cui necessitava ma
che non accennava a scaldarle il cuore.
Spense
la sigaretta nel posacenere che aveva trovato sul tavolino affianco
alla poltroncina e tornò in camera, tirando un sospiro di sollievo
non appena entrò nuovamente in contatto con il suo caldo tepore. Era
giunto il momento di vestirsi.
Non
aveva portato un granché in fatto di abbigliamento, ma cercò di
accontentarsi di ciò di cui disponeva.
Come
avrebbe dovuto vestirsi per un incontro di quel genere? Le pareva
tutto troppo nuovo e troppo terrificante.
Dopo
aver passato in rassegna ogni singolo capo che aveva posto
nell'armadio, alla fine optò per un paio di jeans piuttosto
attillati, ed una camicetta bianca. Ai piedi, un semplice paio di
scarpe da ginnastica bianche – anche perché era l'unico che
possedeva, assieme alle pantofole. Sulle palpebre aveva sfumato un
po' di ombretto dalla tonalità marroncina, che a malapena si
intravedeva, ed aveva reso più scure le sue ciglia con una lieve
passata di mascara.
Era
pronta.
Quando
aprì la porta della sua stanza, si accorse che alcune luci erano già
accese. Probabilmente i ragazzi si erano svegliati. Scese lentamente
le scale, reprimendo qualche sbadiglio di tanto in tanto, fino a che
non si affacciò in cucina.
“Buongiorno,
Ingie. Dormito bene?”
David
Jost le sorrideva dai fornelli, sui quali si stava scaldando un po'
di caffè.
Verità
o bugia? Si domandò la ragazza in pochi secondi.
“Benissimo,
grazie.” sorrise appena, dopo aver optato per la seconda.
“Siediti
pure, Tom e Bill scenderanno a momenti.”
Ingie
aggrottò le sopracciglia.
“Come
mai loro due?” domandò, mentre faceva come le era stato chiesto.
“Perché
ti accompagneranno loro da Ivan. È un loro amico e sapranno
certamente come parlargli e cosa dirgli.” rispose David, mentre
poggiava sul tavolo la caffettiera. “Serviti pure.”
Ingie,
senza dire nulla, si versò un po' di caffè nella tazza che aveva
recuperato dalla credenza, mischiandolo poi con un goccio di latte.
Non
la allettava particolarmente l'idea di essere accompagnata dai
gemelli.
“Che
buon odorino!” sentì improvvisamente una voce maschile provenire
dalle scale, fino a che la sua figura non apparve in cucina,
facendole calare automaticamente le palpebre. “Ma buongiorno!” le
sorrise Tom piuttosto ilare.
“Hi.”
borbottò Ingie, nascondendo poi il viso dietro la sua tazza. Osservò
con la coda dell'occhio il ragazzo che ne recuperava una dalla
credenza, mentre dava due pacche sulla testa del manager, per poi
tornare sorridente nella sua direzione. “Come fai ad essere così
pimpante di mattina?” chiese in tutta sincerità, mentre il
chitarrista le si sedeva accanto.
“Sono
un artista.” rispose semplicemente. Ingie non riuscì ben a
comprendere il senso di quella risposta, ma si disse che era stato un
Kaulitz a dargliela, quindi non si fece ulteriori domande. “Come
hai dormito stanotte?”
La
ragazza percepì il proprio sangue gelare ed una gran quantità di
nervi a fior di pelle scatenare tutta la loro ira.
“Bene.”
disse, a denti stretti. Attese solamente il momento opportuno in cui
David abbandonò la cucina e finalmente si voltò di scatto verso il
chitarrista. “Di merda, brutto stupido!” esclamò con rabbia. Il
ragazzo sgranò gli occhi. Probabilmente non si aspettava quel suo
improvviso cambiamento di umore. “Grazie alla vostra prelibatezza,
ho passato la notte in bianco, a reprimere disgustosi conati di
vomito.”
“Senti,
ti ho già detto che la colpa non è nostra. Non potevamo saperlo!
Nessuno è allergico al Ketchup a questo mondo, diamine!” si difese
il ragazzo.
“Sono
le sette di mattina e già litigate?” Bill fece il proprio ingresso
in cucina, ancora assonnato, ma con un lieve sorriso a decorargli il
viso. “Devo cominciare a sospettare che vi amiate alla follia?”
“Io
amare questo essere umano? Non diciamo idiozie.” commentò Ingie,
quasi schifata.
“Io
potrei anche amarla, se non fosse per questo suo caratterino
irritante.” borbottò Tom, per poi sorseggiare il suo caffè. Ingie
roteò gli occhi, decidendo quindi di ignorarlo. Bill nel frattempo
le si sedette di fronte.
“Pronta
per il colloquio?” le sorrise amabilmente.
“Bill,
così agiteresti anche me.” intervenne nuovamente Tom, mentre
intingeva un biscotto nel caffè. Per una volta Ingie si trovò
costretta a dargli ragione. Pensiero che, ovviamente, non esternò.
“Non
deve agitarsi, Ivan è un bravo ragazzo e ha disperatamente bisogno
di personale. Questo colloquio sarà solo una formalità.”
Speriamo,
si disse Ingie.
Una
volta che tutti e tre ebbero terminato la loro colazione, si alzarono
da tavola ed indossarono i rispettivi cappotti. Ingie si strinse
nelle spalle non appena venne a contatto con il gelo di Berlino.
Camminarono lungo il vialetto, fino a che non giunsero di fronte ad
una Q7 bianca.
Però,
commentò Ingie in silenzio.
“Siediti
pure davanti, Ingie.” le sorrise Bill, non appena notò che la
ragazza stava per aprire la portiera posteriore. Ingie ricambiò il
sorriso e si sedette affianco a Tom, come la aveva detto.
Quest'ultimo attese che suo fratello chiudesse la portiera e mise in
moto, per poi uscire lentamente dalla villa.
Si
sorprese della facilità con cui Tom guidava la sua macchina: braccio
sinistro poggiato al finestrino, le dita a tenere il volante. Il
braccio destro invece era tranquillamente poggiato sulla sua gamba. E
solo allora le venne in mente una cosa: le mancava da morire la sua
macchina. Era una delle poche cose che era riuscita ad acquistarsi da
sola, grazie al denaro guadagnato con fatica. Era stata una delle sue
più grandi soddisfazioni ed il fatto di averla lasciata in America
un po' le dispiaceva. Prima che fosse riuscita a comprarsene un'altra
– se fosse mai successo – sarebbero passati secoli. Si chiese
anche come avrebbe viaggiato in quella città ogni giorno. Lo studio
di registrazione era talmente sperduto dal mondo che si chiedeva
persino se i pullman passassero per quella strada.
“Passano
dei pullman per la vostra via?” le venne spontaneo chiedere.
“Purtroppo
no.” rispose Bill. Ingie si sentì decisamente delusa. “Per i
primi tempi ti farai accompagnare da qualcuno di noi per andare al
lavoro.”
“Mi
dispiace, non voglio disturbare.” si sentì di dire in tutta
sincerità.
“Oh,
oh, cosa sentono le mie orecchie? Questa è remissività?” la
stuzzicò Tom, cominciando a punzecchiarle un dito sul braccio. La
stava irritando ai limiti della pazienza.
“Se
non la smetti, te lo stacco, questo dito.” lo minacciò,
osservandolo con la coda dell'occhio e con sguardo di fuoco.
In
pochi minuti, finalmente giunsero a destinazione. Per tutto il
viaggio non aveva fatto altro che ignorare le provocazioni del
chitarrista e le altrettante risate di suo fratello. Sentiva che
l'esaurimento nervoso era vicino.
Quando
scesero dalla macchina, Ingie si guardò attorno. La città si
presentava finalmente davanti ai suoi occhi: era immensa. File di
negozi si susseguivano per lunghi metri e la gente entrava ed usciva
da essi in gran numero. Tom e Bill si erano coperti il più
possibile, probabilmente per passare inosservati in mezzo alla gente.
Il vocalist le posò una mano sulla schiena e la invitò a seguirli,
fino a che non fronteggiarono un negozio di abbigliamento hip-hop.
È
questo, pensò Ingie, osservandolo attentamente con una strana
agitazione addosso.
Non
appena varcò la soglia e la sua vista venne a contatto con i capi in
vendita, trattenne il fiato per un momento.
“Ivan?”
chiamò Tom, guardandosi attorno, alla ricerca dell'amico. Ingie
seguì lo sguardo del chitarrista, finché non intravide un ragazzo
biondo camminare nella loro direzione.
“Hey!”
esclamò il proprietario del negozio, con un grande sorriso in volto,
mentre li raggiungeva. “Mi siete mancati.” disse, slanciandosi in
direzione di Tom per abbracciarlo con forza. Il chitarrista ricambiò
la stretta, sorridendo.
“Mi
spiace molto per quello che è successo.” ammise.
“Ah,
non ci badare. Mi riprenderò.” rispose Ivan, per poi salutare
anche Bill. “Tu devi essere Ingie.” sorrise poi in direzione
della ragazza, alla quale venne spontaneo stringersi nelle spalle.
“Sì,
piacere.” disse, per poi tendergli la mano che il ragazzo strinse
con sicurezza.
Ingie
capiva tante cose da una semplice stretta di mano e ciò che aveva
momentaneamente dedotto da quella scambiatasi con Ivan fu che il
ragazzo doveva essere una persona molto forte, determinata e
socievole. Apprezzava la gente di quel tipo.
“Hai
già avuto esperienza in questo campo?” le domandò gentilmente,
senza abbandonare il sorriso che da minuti gli ornava il viso.
“Oh,
sì. Ho lavorato in molti negozi, bar, gelaterie e cose simili.”
annuì Ingie.
“Non
sei tedesca.” constatò il biondo.
“Sono
di New York.” confermò lei.
“Caspita,
bellissima New York. Ci sono stato due anni fa in vacanza. Non volevo
più andarmene.”
“Infatti
io mi chiedo come abbia fatto a trasferirsi in Germania.”
intervenne Tom, piuttosto perplesso.
“Ti
ho detto che ho i miei buonissimi motivi.” ribatté seccata la
mora.
“Beh,
lasciamo perdere. Non riprendete a discutere. Devi sapere, Ivan, che
dal primo giorno in cui si sono conosciuti già litigano come si
conoscessero da una vita.” prese la parola Bill, cercando di
stroncare qualsiasi tipo di discussione dalla nascita.
“Beh,
sopportare uno come Tom non è sempre facile.” scherzò Ivan,
ricevendo in cambio una sberla sul collo da parte del chitarrista,
cosa che lo fece ridere ancora di più. “Va bene, mi sembri una
sveglia, direi che non ho bisogno di sapere altro, se non vederti
direttamente in azione.” si rivolse poi ad Ingie, la quale fremeva
dalla voglia di conoscere una risposta concreta.
“D'accordo.”
annuì.
“Allora
noi passiamo a prenderti a mezzogiorno.” annunciò Bill soddisfatto
del proprio lavoro. Ingie confermò sorridendogli appena e non disse
nulla finché i gemelli non abbandonarono il negozio, dopo aver
salutato entrambi.
“Bene!”
esclamò Ivan, osservandola sereno. “Iniziamo!”
***
Il
male ai piedi era una sensazione che quasi aveva rimosso dalla
memoria. Correre a destra e a manca per soddisfare la clientela era
una cosa che non faceva da tempo e riscoprirla quel giorno era stato
per lei quasi traumatico. In poche ore era riuscita ad imbattersi in
vecchiette con problemi d'udito desiderose di fare un regalo al
nipotino senza però capire una parola di ciò che veniva loro detto,
donne di mezza età – probabilmente già vittime della menopausa –
con gravi problemi di indecisione ed insoddisfazione croniche nello
scegliere la giusta maglia per il proprio figlio viziato, uomini
sessantenni ancora speranzosi di accaparrarsi l'attenzione di qualche
ventenne semplicemente indossando dei jeans col cavallo basso,
ragazzini dodicenni già fomentati alla sola vista di una ragazza
rigorosamente vestita ed infine bambini strillanti perché troppo
affamati.
Il
mal di testa che l'aveva successivamente colpita era un insulso
dettaglio.
Ivan
le era sembrato piuttosto compiaciuto e questo le aveva trasmesso la
carica necessaria per giungere illesa – o quasi – all'ora di
pranzo.
“Te
la sei cavata molto bene.” le sorrise il ragazzo, mentre chiudeva
la serranda del negozio.
“Ho
fatto del mio meglio.” scrollò appena le spalle Ingie. “Non ero
più abituata a tutto questo via vai di gente.”
“Prima
cosa facevi?” le domandò interessato Ivan.
Ingie
irrigidì la mascella e si morse lievemente il labbro inferiore.
“Nulla.
Diciamo che giravo molto per l'America. Avevo altre occupazioni.”
Troppo
vaga, si disse, ma il biondo non sembrò porvi attenzione. Si
limitò a nascondersi le mani in tasca e poggiare un piede al muro,
dietro di sé.
“Vivevi
con l'adrenalina in corpo.”
“Già.”
Estrasse
una sigaretta dal pacchetto e se l'accese mentre osservava distratta
le automobili sfrecciare velocemente lungo la strada di fronte a sé.
“Sei
una ragazza molto discreta.” rifletté Ivan, scrutandola con un
lieve sorriso.
“Mi
piace la discrezione.” sputò il fumo, senza guardarlo.
“Io
ti sembro indiscreto?”
“No.”
si voltò nella sua direzione. “L'indiscrezione è cosa riguardante
solo i Kaulitz.”
Il
ragazzo si lasciò andare ad una piccola risata.
“Sono
tipi particolari ma ti assicuro che hanno un cuore grande.”
Ingie
rifletté qualche attimo e poi annuì.
“Beh,
che rimanga tra noi, l'ho potuto constatare quando hanno deciso di
aiutarmi.” ammise la mora. “Ma ciò non toglie che sono due palle
al piede.” sorrise successivamente.
Trascorsero
pochissimi istanti prima che l'auto dei gemelli, appena tirati in
causa, comparisse di fronte a loro, proprio affianco al marciapiede.
Il finestrino oscurato scorse lentamente verso il basso, fino a
scoprire il viso del chitarrista alla guida. Era solo.
“Parli
del diavolo...” sorrise amabilmente la mora. Tom aggrottò le
sopracciglia.
“Ti
riferisci a me?” domandò sospettoso.
“A
chi altro mi dovrei riferire, Pigtail?” borbottò Ingie,
mentre apriva la portiera della macchina, dopo aver gettato la
sigaretta a terra. Ivan al seguito.
“Vedi
come mi tratta male?” obiettò il moro, cercando sostegno nel suo
amico. Questo si limitò ad una scrollata di spalle.
“Beh,
almeno hai qualcosa da fare durante la giornata, amico mio.”
sorrise spiritoso.
Ingie
chiuse energicamente la portiera, lasciando aperto il finestrino.
“Come
se non ne avessi già abbastanza.”
Ivan
decise di ignorarlo spudoratamente, voltandosi in direzione di Ingie.
“Allora
ci vediamo domani mattina.” sorrise il commesso alla sua nuova
collega, che annuì ricambiando il gesto. “Ciao, ragazzi.” salutò
poi, prima che l'auto ripartisse, diretta allo studio di
registrazione.
“Allora,
sei riuscita a vendere un laccio di scarpe, con questo tuo adorabile
caratterino?” parlò immediatamente Tom con estrema ironia, mentre
i suoi occhi erano fissi ed attenti sulla strada. Ingie lo fulminò
con lo sguardo.
“Per
tua informazione, ho venduto dieci capi, stamattina.”
“Impressionante.”
la prese in giro con un sorriso. Ingie roteò gli occhi e si voltò
ad osservare la città al di fuori del finestrino, decisamente più
interessante dell'essere appartenente a non sapeva ancora quale
specie animale, che le sedeva affianco. “Non ti preoccupare, gli
sei piaciuta.” Quelle parole, pronunciate con un po' di serietà in
più, la fecero ammorbidire. “Ora mi dici per cosa stanno le due
acca?”
Le
sue palpebre calarono di nuovo.
“Mi
sembrava strano che fossi diventato improvvisamente serio.”
borbottò, incrociando le braccia al petto.
“Ma
io sono serio! È una domanda innocente!” si difese il ragazzo,
spostando lo sguardo da lei alla strada, più e più volte.
“Ma
lo sai che non voglio rispondere!”
“Tutto
questo mistero mi rende semplicemente curioso. Magari sei una serial
killer.”
“Oh,
sì. E la mia prossima vittima sarai sicuramente tu.”
|
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Capitolo 6 *** Five - Trying to get used ***
5
Five
Trying
to get used
“'Giorno.”
Non
appena sentì quella voce, si voltò in direzione di Gustav, con un
piccolo sorriso.
“Buongiorno,
biondo.” rispose, poggiando il fondo schiena contro il bancone
della cucina, dove era intenta a prepararsi la colazione. “Caffè?”
gli propose successivamente.
“Sì,
grazie.” sorrise il batterista, per poi sedersi al tavolo, di
fronte a lei. Aveva un'espressione rilassata, serena, come se mai
avesse subito torti nella vita.
“Sei
sempre così mattiniero e di buon umore?” gli chiese poi, mentre
finiva di scaldare il caffè.
“Qualcuno
in questo studio deve pur esserlo.”
Ingie
ridacchiò.
Gustav
le era piaciuto da subito. Aveva quella naturalezza, che sfociava
quasi in tenera ingenuità, che non faceva altro che rallegrarle la
giornata. Era l'unico coinquilino con cui riusciva a non esternare il
lato più oscuro e violento di sé, troppo presa dall'infinita
dolcezza e dal riguardo che aveva non solo nei suoi confronti ma in
quelli del mondo intero. Stava imparando a conoscerlo sempre di più,
in ogni sua sfumatura, e sentiva che sarebbero riusciti ad instaurare
un bel legame.
Riempì
le tazzine di caffè e ne porse una al ragazzo, mentre l'altra la
poggiò di fronte a sé, quando gli si sedette davanti. Chiuse gli
occhi ed inspirò con delicatezza l'aroma del liquido fumante sotto
di lei.
Ricordava
di adorare quell'odore sin da quando era piccola. Non vi era giorno
in cui non si posizionava accanto a sua madre, mentre preparava il
caffè, per godere di quel profumo così inebriante, che un po' la
rilassava.
A
ripensarci, provava una grande malinconia.
“Allora,
come ti trovi al lavoro?” le domandò all'improvviso Gustav.
Ingie
sorrise appena.
“Molto
bene. Ivan è un ragazzo simpatico ed un grande lavoratore. A volte
capitano dei clienti insopportabili, ma fa parte del contratto.”
spiegò, mentre girava il cucchiaino nella tazzina, con fare
distratto. “Lui riesce ad alleggerirmi tutto con le sue battute.”
Effettivamente
Ivan le piaceva; lo trovava persino un bel ragazzo, e sarebbe stato
sicuramente il suo tipo, con quegli occhi azzurri ed i suoi capelli
biondo cenere, se fosse stata aperta a nuove conoscenze.
Reclamava
solo un po' di solitudine, che sarebbe stata in grado di aiutarla a
smaltire alcuni pensieri opprimenti, anche se cercare di cancellarli
sarebbe stato inutile.
“Sono
contento. Sai, si vede che sei una brava ragazza e che meriti il
meglio. Vedrai che tutti i tuoi problemi si risolveranno.”
Strinse
le dita attorno alla tazzina.
Come
poteva godere di una tale intuizione? Per di più, senza essere
invadente.
Era
sempre così riservato, così tremendamente dolce ed incoraggiante.
Eppure, quasi con un solo sguardo o ascoltando una singola parola,
riusciva a scavare nel profondo di un'anima, estrapolandone
preoccupazioni e gioie. Riusciva a coglierne l'essenza ed i
sentimenti, senza troppa fatica, perché sapeva ascoltare e conoscere
chi aveva di fronte. Più trascorreva il tempo e più provava per lui
una grande ammirazione.
Sperava
sul serio che ciò che le aveva appena detto si avverasse, ma sapeva
anche che la situazione era molto più complicata di quel che
sembrava.
Lui
non poteva di certo immaginare cosa lei stessa avesse fatto.
“Lo
spero anch'io.” si limitò a rispondere con un lieve sorriso, dopo
essersi presa qualche secondo.
Si
incantò ad osservare il vuoto; per un attimo azzerò la mente.
“Dopodomani
arriva Simone.” annunciò all'improvviso il ragazzo.
Ingie
aggrottò le sopracciglia; si chiese chi mai fosse Simone. Avrebbe
dovuto saperlo?
“Chi
è?” domandò in tutta sincerità, una volta finito di bere il suo
caffè, pregando di non commettere una delle sue solite figuracce.
“La
mamma di Tom e Bill.”
Corrugò
la fronte piuttosto sorpresa.
Mamma
Kaulitz?
Non
riuscì immediatamente a comprendere il motivo per cui le parve tanto
strano e quasi illogico assimilare tale notizia. Era più che ovvio
che anche i gemelli, come tutti gli esseri umani e non, avessero una
madre. Per qualche assurdo motivo, quasi aveva escluso quell'ipotesi.
Sono
i loro modi di fare così alieni a mandarmi fuori strada.
“Oh,
non lo sapevo.” si limitò a rispondere, evitando accuratamente di
lasciar trapelare la più impercettibile perplessità.
Gustav
però sembrò comprenderla e si lasciò andare ad una lieve risata.
“Credevi
fossero esseri nati da sé?” le chiese, con quella piccola ironia
cui raramente si lasciava andare.
“Sinceramente,
sì.” ammise.
Sorrisero.
“Porterà
qui anche i cani.” continuò lui, giocherellando con il cucchiaino.
“I
cani?” ripeté Ingie, con occhi quasi sgranati. Con quante
cose ancora doveva venire a conoscenza?
“Sì,
di solito se li portano ovunque, ma questa volta non è stato
possibile. Così li hanno lasciati alla mamma. Sono molto attaccati a
loro, li trattano come figli.”
“Scusami,
ma è più forte di me: non riesco ad immaginare Tom padre.”
“Ti
ci abituerai. Non crederai mai ai tuoi occhi.”
“Di
certo tratterà meglio loro che noi esseri umani.”
“Ehm,
più o meno.”
Ingie
si curò di pulire il tavolo e lavare le stoviglie, sotto continua
obiezione di Gustav. Non aveva ancora conosciuto il lato più
cocciuto della ragazza.
“Mi
accompagni tu al lavoro?” gli propose successivamente, dopo aver
terminato il tutto. “Non ho voglia di sorbirmi i discorsi di grande
intelligenza di Pigtail.” spiegò.
“Volentieri.”
le sorrise. Trascorsero pochi minuti prima che entrambi si trovassero
chiusi nella macchina del batterista, decisamente meno vistosa di
quella dei gemelli – motivo in più per amarlo. “Non riesci
proprio a sopportarlo, eh?”
Ingie,
fino a quel momento sovrappensiero, si voltò di scatto nella sua
direzione.
“Eh?
Chi?” domandò confusa.
“Tom.”
Sollevò
le sopracciglia con fare scettico e si girò nuovamente in direzione
del finestrino.
“Diciamo
che abbiamo stili di vita completamente differenti.” buttò lì.
“Sì,
ma sembra che lo odi, nonostante tu non lo conosca.”
Sapeva
che non la stava accusando, lo capiva dal suo tono dolce e dallo
sguardo spensierato. Era semplicemente curioso di conoscere una
realtà a lui estranea.
“Non
lo odio. Mi irrita. È troppo diverso da me.”
Si
stava arrampicando sugli specchi, lo sapeva. A dire il vero, non
conosceva nemmeno lei il vero motivo per cui Tom la irritasse ai
limiti della pazienza. O meglio, sapeva che dietro quel suo
comportamento vi era una ragione, ma non voleva ammetterlo e
soprattutto voleva smettere di scavare fra ricordi che non sarebbero
mai più tornati in vita.
“Ti
sbagli.” sorrise Gustav, sorprendendola. “Tu e Tom siete
identici, è per questo che vi stuzzicate ed apparentemente non
andate d'accordo.”
“Biondo,
la mia stima nei tuoi confronti, dopo questa frase, potrebbe
vertiginosamente precipitare.” commentò quasi scioccata. “Mi hai
appena paragonato a Pigtail, dovrei sentirmi offesa.”
“Invece
no, fidati. Entrambi avete delle ottime qualità, solo che fate
fatica a mostrarle.”
Ingie
scoppiò a ridere.
“Stai
peggiorando la tua posizione.” esclamò divertita. Aveva in realtà
compreso cosa il ragazzo stesse cercando di dirle ed era
perfettamente consapevole del fatto che non volesse essere scortese.
Voleva farle un complimento, anche se a sua maniera, cosa che le fece
adorare maggiormente quel suo modo di fare, come aveva pensato
qualche attimo prima, così puro ed ingenuo.
“Non
sono bravissimo con le parole.” arrossì Gustav, concentrato nella
guida.
“Non
preoccuparti, ho capito benissimo ciò che intendevi dire.” Gli
scompigliò appena i capelli biondi con la mano, per poi tornare
composta sul suo sedile. “Parlami un po' di te. Non ami molto farti
conoscere dalla gente, mi sembra di aver capito.”
“Hai
capito bene.”
“Beh,
io sono curiosa.”
“Per
una frase del genere, hai preso Tom e Bill a pesci in faccia.”
“Ma
loro sono un caso a parte.”
Gustav
accostò l'auto ad un marciapiede, che Ingie riconobbe subito come
quello che l'avrebbe condotta al negozio.
“Avrai
occasione di conoscermi meglio nei prossimi giorni.” le sorrise.
Ingie adottò un'espressione piuttosto delusa e quasi infantile. Era
da un bel pezzo che non provava quella curiosità; forse aveva
trovato finalmente una persona con cui condividere i suoi pensieri ed
i suoi stati d'animo, perché sapeva che poteva fidarsi.
“D'accordo,
mi arrendo.” sospirò. “Grazie per il passaggio. Ci vediamo
stasera.”
“Di
niente, buon lavoro.”
La
salutò con un sorriso, prima di rimettere in moto e sparire dietro
l'angolo.
Improvvisamente
Ingie sentì il cellulare nella sua tasca vibrare. Il cuore prese a
pompare il sangue più velocemente ed anche se aveva un'idea di chi
potesse essere, decise ugualmente di leggere il mittente del
messaggio appena ricevuto.
Ma
quando lo lesse, si sentì mancare il fiato, presa in contropiede.
Mom.
***
“Ingie,
molla quello straccio.”
La
voce di Bill aveva fatto capolino all'interno dell'immenso salone,
dove Ingie, da qualche minuto, si stava dedicando alla pulizia degli
immobili. Si era resa conto che il favore che le avevano fatto i
ragazzi, accogliendola nel loro studio di registrazione, era
incommensurabile ed il minimo che poteva fare per ricambiare era
occuparsi delle faccende domestiche.
“Bill,
dovrò pur rendermi utile in qualche modo.” ribatté la ragazza,
decisa a non mollare la presa sullo strofinaccio con il quale stava
spolverando la televisione.
Bill
le si avvicinò. “Non abbiamo deciso di ospitarti perché ci serve
una donna delle pulizie.”
“Non
mi pesa, davvero.”
Non
riuscì a finire la frase, che il vocalist le tolse gentilmente di
mano il panno ormai sporco.
“Sono
intransigente. Non voglio.” le intimò, osservandola attentamente
negli occhi.
“Ed
io sono molto più intransigente di te, quindi...” non terminò la
frase. Semplicemente riafferrò il panno.
“Ha
ragione Tom: hai la testa dura.” sorrise il ragazzo.
“Senti
da che pulpito.” Sollevò un sopracciglio, riprendendo le sue
pulizie.
“L'importante
è che tu non ti senta in obbligo.”
“Assolutamente.”
Improvvisamente udirono dei passi affrettati scendere le scale, fino
a che la figura smagliante di Tom, provvisto di tuta e borsone, non
fece la propria nobile entrata in soggiorno. “Oh, eccoti, mi
mancava la tua presenza.” commentò ironica la mora, tornando poi
ad occuparsi dei mobili con immensa indifferenza.
“Grazie,
lo so.” si atteggiò il chitarrista. “Vieni con me in palestra?”
le domandò successivamente. Ingie aggrottò le sopracciglia: credeva
di non aver capito bene, ragione per cui si voltò nella sua
direzione con sguardo perplesso.
“Dici
a me?” domandò.
“No,
a quella mezza sega di mio fratello.”
Bill
lo fulminò con lo sguardo ma decise di non ribattere.
Una
giornata di palestra con Tom? Indubbiamente, se avesse avuto tendenze
autodistruttive.
“No.”
concluse Ingie.
“No,
cosa?” chiese Tom, confuso.
“No,
grazie, ma rifiuto l'invito.”
Il
chitarrista scrollò le spalle; non sembrava particolarmente toccato.
“D'accordo.” Afferrò nuovamente il suo borsone e si avviò verso
la porta. “Torno tra un paio d'ore.”
Ingie
attese che uscisse dallo studio per togliersi un madornale dubbio.
“Tom
va in palestra?”
Bill
ridacchiò qualche istante, prima di guardare la sua espressione
scioccata.
“Sì.”
rispose semplicemente. “So che non si direbbe. Ha cominciato da
poco.”
Effettivamente
si era accorta dei muscoli che il chitarrista aveva sviluppato,
seppur non eccessivamente, ma non pensava fosse un tipo dotato di
costanza.
Ad
ogni modo, se doveva essere sincera, non le sarebbe dispiaciuto
trascorrere qualche ora in palestra. Era convinta che avrebbe
solamente giovato alla sua salute, soprattutto mentale. Le mancava la
sensazione del sudore sulla pelle, del piacevole dolore ad ogni
muscolo del suo corpo, della stanchezza fisica, prima ancora che
psicologica. Eppure non le piaceva in modo smisurato l'idea di stare
con Tom. Sapeva che il suo era un blocco psicologico che aveva nei
confronti del chitarrista per svariati motivi, ma non riusciva ad
evitarlo, nonostante non vi si sforzasse nemmeno più di tanto.
Semplicemente, non doveva spartire nulla con lui.
A
parte una casa.
“Serve
qualcosa, Bill? Avrei intenzione di fare un po' di spesa.” esordì
successivamente, come risvegliatasi dalle sue riflessioni. Bill la
osservò accigliato.
“Se
vuoi andare a fare la spesa, ti accompagno.” disse tranquillo.
“Tanto, non ho nulla da fare.”
Non
aveva esattamente intenzione di trascorrere una giornata in
compagnia. Avrebbe di gran lunga gradito di più passare qualche ora
in piena solitudine, ma nemmeno il suo lato più gelido riusciva a
controbattere, allo sguardo da orata del vocalist.
“Fine.”
si limitò a rispondere, con un'alzata di spalle. Ripose nel cassetto
del mobile lo strofinaccio e si sollevò in piedi, per poi indossare
le scarpe ed il cappotto.
***
“Guarda
che meraviglia! No, questo è troppo carino!” Ingie poteva giurare
di non aver ancora del tutto compreso la psicologia di quel ragazzo.
Più passava il tempo, più lo studiava e più si rivelava un
esperimento scientifico malriuscito. “È inutile, sono un gran
figo.” Certo, aveva incontrato tipi bizzarri lungo il suo cammino,
ma non credeva possibile che il peggio dovesse ancora arrivare.
“Guarda, Ingie, non mi dona?” le chiese improvvisamente, con
sguardo luccicante.
Ingie
squadrò l'enorme cappello a tubo che il vocalist aveva
coraggiosamente posato sulla sua testa e la risposta fuoriuscì dalle
sue labbra con vergognosa sincerità.
“Fa
schifo.”
Pensò
quasi di ritrattare, allo sguardo da cuore spezzato del ragazzo, ma
decise che la cruda realtà poteva solamente giovare a lui e
soprattutto a lei. Non sarebbe riuscita nemmeno con lo sforzo più
disumano a vederlo girovagare in studio – o peggio, fuori – con
quel cappello inquietante.
Affranto,
Bill posò l'articolo dove l'aveva preso.
Aveva
appena distrutto il suo Ego, ne era consapevole, ma aveva anche
salvato l'umanità.
“Tu
non hai visto nulla di carino per te?” le domandò quindi.
“A
dire il vero, ero venuta qui con l'idea di riempire il vostro frigo,
non di fare shopping.”
“Ma
se c'è qualcosa che ti piace, non vedo perché non dovresti farci un
pensierino.”
“Non
mi interessa nulla, Bill.”
Trascorse
qualche secondo, prima che il ragazzo riprendesse la sua ispezione
per il negozio, dopo aver pronunciato un “Certo che sei proprio
strana” piuttosto eloquente.
Ovvio,
Bill non poteva sapere cosa volesse dire essere a corto di soldi; ma
soprattutto cosa volesse dire aver completamente perso ogni singola
attrattiva o semplicemente l'entusiasmo per cose – a sua veduta –
futili.
Era
convinta che non avesse mai dovuto affrontare, nella sua vita, una
tragedia grande quanto la sua. Aveva tutto: soldi, famiglia, una
casa. A lei non era rimasto nulla. Nemmeno una speranza cui
aggrapparsi ed aveva deciso di affrontare le gioie, i dolori, le
paure della vita da sola.
In
poco tempo si trovarono nel reparto dei salumi: finalmente avrebbe
potuto comprare qualcosa di commestibile, dato che nello studio di
registrazione girovagavano solamente Ketchup e birra. Non voleva
decisamente ridurre il proprio stomaco in poltiglia, nonostante
tutto.
“No!”
Sobbalzò.
La busta di prosciutto, che aveva afferrato qualche secondo prima che
Bill le distruggesse un timpano, era rovinosamente atterrata alle sue
spalle, a causa dello spavento.
“What?!”
esclamò esterrefatta, mentre si apprestava a raccogliere ciò che
aveva involontariamente lanciato.
“È
prosciutto!” esclamò Bill, come fosse ovvio. Ingie lanciò
un'occhiata alla busta con fare teatrale.
“Sì,
lo vedo.” rispose ironica.
“Noi
non mangiamo prosciutto.”
“Perché
ciò che fa bene vi fa schifo?”
“Non
si tratta di un capriccio: siamo vegetariani.”
Avesse
potuto, la mandibola di Ingie sarebbe senz'altro crollata a terra.
Con quante scoperte ancora avrebbe dovuto fare i conti? Evitava di
mettere piede nelle stanze dei ragazzi per paura di trovare bombe a
mano.
“Siete
vegetariani.” commentò atona.
“Esatto.”
“Vegetariani.”
ripeté.
“Che
c'è di tanto strano nell'essere vegetariani?”
“Il
fatto che tu e Pigtail lo siate.”
“Siamo
poco credibili?”
“Unfortunately
yes.” Bill sorrise appena, mentre Ingie gettava in ogni caso il
prosciutto nel carrello: ci avrebbe pensato lei a mangiarlo; non che
la cosa le dispiacesse. “Dunque, vediamo. Cos'altro ingurgitate voi
esseri d'altra specie non meglio identificata?” domandò poi,
riprendendo a camminare con il carrello, mentre il suo sguardo
saettava da un punto all'altro del negozio. “Il fieno vi piace?”
commentò con sarcasmo.
“Lo
mangiamo solo in occasioni particolari.” scherzò il ragazzo.
“Caramelle gommose.” decise poi, fiondandosi nel reparto dei
dolci, o meglio, della distruzione di fegato, come preferiva
definirlo Ingie.
I
can't believe it.
“Bill,
cosa stai facendo?”
“Scelgo
la qualità migliore.” rispose, setacciando le varie buste.
“Esiste
una qualità migliore tra quella robaccia?”
Il
vocalist si voltò esterrefatto nella sua direzione, come avesse
appena finito di udire un'enorme bestemmia uscire proprio dalle sue
labbra.
“Robaccia?”
domandò quasi sotto shock. “Non puoi capire quanto queste
caramelle gommose siano essenziali, oserei dire vitali, nella
mia quotidianità.” I suoi occhi scintillavano. “Riescono a
strapparmi un sorriso nelle mie giornate più buie; sono come un
arcobaleno nel bel mezzo di un diluvio, come Tom che ammette di
sbagliare, come...”
“Okay,
mi hai convinto!” sbottò Ingie, incredula. “Però il resto, lo
scelgo io o nel giro di una settimana saremo affetti da diabete.”
concluse, con fare autoritario.
“Come
vuoi.” accettò Bill, per poi fiondarsi con entusiasmo sui suoi
dolci preferiti.
***
Le
goccioline di sudore continuavano a tracciargli linee quasi
invisibili sulla fronte. Era appena uscito dalla palestra e non aveva
avuto il tempo di farsi la doccia, poiché suo fratello gli aveva
eloquentemente intimato di portare il culo a casa perché
avrebbe dovuto parlargli.
Quando
varcò la soglia dello studio di registrazione, percepì un gradevole
profumo proveniente dalla cucina e non fu difficile intuire che Bill
stava cucinando qualcosa. Eppure, l'immagine di suo fratello con
indosso un grembiule con i fiorellini, proprio non riusciva a
crearla, così, per dare una concreta spiegazione ad ogni suo dubbio,
entrò in cucina.
Come
previsto, il soggetto in questione era una graziosa donzella che gli
dava le spalle.
“Buona
sera, dolcezza.” salutò con un sorriso, mentre si avvicinava alle
spalle di Ingie, intenta a girare il mestolo all'interno della
pentola che stava scaldando qualcosa di ignoto.
“You're
late.” commentò la ragazza, ignorando del tutto la sua
presenza. “Your brother's gonna kill you.”
“Perché
devi parlare americano?”
“Perché
mi devi ronzare attorno?”
“Perché
sei deliziosamente irritante e mi piace stuzzicarti.”
“Anche
tuo fratello è irritante. Vai a stuzzicare lui.”
“Ma
con lui non c'è gusto.” Poggiò le braccia sul bancone, affianco a
lei, osservandola con un lieve sorriso. “Perché dovrebbe
uccidermi?” domandò poi, prendendo ad osservare l'ipnotico
movimento del mestolo.
“Perché
ti ha inviato un messaggio circa un'ora fa.” rispose lei,
continuando ad ignorarlo con lo sguardo. Poi, inalò più volte
l'aria, aggrottando le sopracciglia. “Vai a farti una doccia.
Puzzi.” commentò contrariata.
Tom
sorrise maggiormente. L'atteggiamento di quella strana ragazza
l'aveva da subito incuriosito ed interessato. Non riusciva bene a
darvi una spiegazione, ma inconsapevolmente lo divertiva. D'altronde,
non gli erano mai piaciute le cose semplici: la sua conosciutissima
indole di cacciatore infallibile continuava a trapanargli il
cervello, come a voler reclamare il proprio ruolo, come a volergli
ricordare che esisteva ancora.
“Vieni
con me?” le propose, furbescamente.
Lei
fece finta di pensarci su.
“Guarda,
mi piacerebbe davvero, ma purtroppo sto cucinando.” disse, con
finto dispiacere nel tono di voce. “Sarà per la prossima volta.”
Astuta,
si disse compiaciuto.
“Ci
conto.”
Il
ragazzo si sollevò e si allontanò, mentre Ingie continuava ad
occuparsi della cena, con un lieve sorriso ad ornarle il volto.
***
Bussò
un paio di volte alla porta, finché suo fratello, da dietro il legno
spesso, non gli intimò di entrare.
“Che
hai?” domandò un Tom piuttosto interrogativo, mentre faceva il
proprio ingresso nella stanza quasi buia, a causa delle tende chiuse.
Avrebbe tanto voluto chiedere al suo adorabile fratellino la
spiegazione di tale atmosfera, degna di un thriller, ma decise di
sorvolare.
Bill
era seduto sul letto, il portatile sulle gambe ed un'espressione
vacua in viso.
“Sei
in ritardo.” si limitò a soffiare, senza nemmeno degnarlo di uno
sguardo – ancora puntato sul computer, ad osservare chissà quale
sciocchezza.
“Lo
so.” scrollò le spalle Tom. “Era tanto importante?”
Il
ragazzo abbassò con un colpo secco lo schermo del portatile –
probabilmente frantumatosi – e lanciò un'occhiata focosa a suo
fratello.
“Era
tanto importante? Da quando prendi alla leggera un mio
messaggio?” esclamò offeso.
“Non
l'ho mai fatto, Bill.” si difese il chitarrista, quasi sorpreso
dalla sua reazione.
“A
me sembra di sì.”
Ci
furono attimi di silenzio che Tom sfruttò al meglio per trovare un
modo per calmare suo fratello: sapeva che, di quel passo, sarebbero
sfociati nella lotta libera. E questa volta non sarebbe stato lui a
dare il via.
“Bill,
mi spieghi cos'è successo, con calma?”
“Dev'essere
per forza successo qualcosa? Non può essere che io voglia
trascorrere un po' di tempo col sangue del mio sangue?”
Impiegò
qualche secondo a metabolizzare ciò che aveva appena udito.
Effettivamente
non riusciva a ricordare una vera conversazione con suo fratello dai
tempi dei Devilish. Allora erano piccoli ed immaturi, decisamente
poco pronti per affrontare argomenti esistenziali o qualcosa di
simile. Non aveva riflettuto sul fatto che fossero cresciuti e non
avessero tuttavia ancora trovato un momento tutto loro, alla larga
dalle folle, dal caos, dai riflettori. Forse prendersi una piccola
pausa da quel mondo non era stata una cattiva idea, soprattutto se
fosse servita per ricostruire il rapporto semi-congelato con Bill.
Sorrise
appena, per poi avvicinarsi a lui.
“Potevi
dirlo subito che volevi passare un po' di tempo con me, esattamente
come una volta. Prima che questo nuovo mondo ci sconvolgesse la
vita.” mormorò, sedendoglisi affianco, sul letto. Bill continuava
ad osservare i propri piedi. Forse era imbarazzato o solo
malinconico; nostalgico del loro rapporto complice che, nonostante
non fosse mai svanito, aveva dovuto sopportare per anni la pesantezza
di un ambiente da molti reputato pericoloso.
“Mi
mancano le nostre chiacchierate fino a notte fonda.” ammise il
vocalist, quasi vergognandosi. Tom non poté fare a meno di
sorridere. Adorava quando suo fratello trovava il coraggio di aprirsi
con lui; non voleva che si tenesse tutto dentro.
“E
facciamolo, Bill. Facciamolo. Chiacchieriamo fino a notte fonda, come
una volta. Sono qui, ora. Puoi dirmi tutto quello che ti passa per la
testa ed io farò lo stesso.”
“Non
voglio che tu ti senta in obbligo.”
“Bill,
chiacchierare con te è la cosa che mi rende più felice al mondo,
perché ti voglio bene.”
Non
poteva credere nemmeno lui che avesse pronunciato sul serio quelle
parole. Aveva sempre trovato molta, troppa difficoltà ad ammettere i
propri sentimenti e soprattutto esternarli. L'orgoglio non c'entrava
nulla, aveva semplicemente paura dei giudizi della gente.
“Anch'io
ti voglio bene, Tomi.
***
Sospirò,
una volta rifugiatasi al di sotto delle coperte calde e
particolarmente morbide. Era tardi; aveva finito di cenare da poco ma
non aveva trovato il coraggio di prendere ancora parte alle
chiacchiere di Gustav e Georg. Tom e Bill erano chiusi in camera del
biondo da molto, ormai. Si erano persino dimenticati di scendere a
mangiare, nonostante i richiami. Probabilmente si stavano prendendo
un po' di tempo per loro stessi. Aveva intuito che Bill avesse
qualcosa in sospeso con suo fratello e che sembrava inquieto o
nascondere qualcosa di irrisolto. Certo era che riuscire a parlare
con un tipo come Tom non era sempre del tutto facile.
Si
ricordò che l'indomani mattina non avrebbe lavorato ma, cosa più
importante, mamma Simone avrebbe fatto il proprio ingresso allo
studio. Era tremendamente curiosa di conoscerla e voleva seriamente
capire da cosa fosse dovuta l'anomalia dei gemelli.
Sospirò
appena, voltandosi nel letto.
A
dire il vero, era semplicemente curiosa di vedere di nuovo che
sembianze potesse avere una madre.
Chiuse
gli occhi con forza, cercando di reprimere di nuovo l'ansia che per
tutta la giornata l'aveva travolta.
Ricordava
di aver ricevuto quel messaggio e ricordava anche di essersi
rifiutata di leggerlo, ma l'idea di poter avere ancora un contatto
con sua madre – anche se unilaterale – poteva darle forza o
buttarla ancora più giù; non lo sapeva. Ora sapeva solo che
scoprirlo era ciò che più bramava.
Prese
un bel respiro e recuperò velocemente, quasi senza pensarci, il
cellulare dal comodino. Aprì la cartella dei messaggi ormai vuota,
se non per quell'unico che aveva deciso di leggere.
La
mancanza di sua madre la stava soffocando, non poteva attendere
oltre.
Tremò
quando lo aprì.
Amore
mio, dove sei finita? Sono giorni che non dormo, che non mangio, che
non sto tranquilla. Ti prego, dimmi che stai bene, che tornerai a
casa. Io e papà non possiamo permetterci di perderti, lo sai. Torna,
vedrai che insieme riusciremo a superare tutto, non ti sentire in
colpa. Non c'entri nulla e lo sappiamo. Non ci abbandonare, piccola
mia. Ti vogliamo bene.
Strinse
il cellulare fra le mani tremanti, mentre la prima goccia di infinite
lacrime cadde sullo schermo.
Aveva
commesso un enorme errore a leggere quelle dannate parole.
“Mamma.”
pianse. Sapeva che ora sarebbe stato tutto molto più difficile.
“Mamma.”
Ripeté
il suo nome per tutta la notte, ma la risposta al messaggio non
gliela inviò mai.
---------------------------------------------------
Note
finali
Perdonate
il ritardo ma il caldo atroce mi ha deliberatamente carbonizzato i
neuroni! Un bacio!
|
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Capitolo 7 *** Six - T ***
t
Six
T
Sorrise.
Una gioia enorme ed indescrivibile le riempiva il cuore, nonostante
questo mancasse di un pezzo importante della sua vita. Osservare con
quanta velocità era riuscita a mettere da parte i soldi che con
impegno aveva guadagnato, grazie al negozio, le faceva ricordare che,
forse, aveva ancora qualche chance nella vita; doveva solo trovare il
modo giusto e la forza per andare avanti.
Voltò
il capo verso il suo cuscino e, dopo aver infilato una mano sotto di
esso, ne tirò fuori la fotografia che teneva ormai da un mese con
sé.
Quegli
occhi. Quegli occhi sembravano sorridere proprio a lei e mostrarle il
suo orgoglio per ciò che stava facendo.
Ti
penso sempre.
Ignorò
il magone, si era ripromessa di non piangere più, e sospirando
appena ripose quel piccolo tesoro al di sotto del cotone. Lanciò
un'occhiata all'orologio e constatò che erano le dieci del mattino:
era sabato ed aveva la giornata libera, così decise di farsi una
bella doccia per pensare.
Si
alzò dal letto e, dopo aver recuperato un cambio della biancheria
intima dal cassetto, si avviò verso il bagno.
“'Giorno.”
Inchiodò
suoi propri piedi, subito dopo aver aperto la porta. Tom sostava di
fronte al lavandino, con lo spazzolino in bocca ed un asciugamano
legato in vita. Ingie scorse alcune goccioline d'acqua scorrere lungo
la sua colonna vertebrale, segno che aveva appena finito di fare la
doccia. Il profumo del bagnoschiuma che emanava la sua pelle ne era
la conferma.
“Scusa,
entro dopo.” borbottò, facendo per richiudere la porta.
“No,
entra pure. Tanto ho finito.” la precedette lui, continuando a
spazzolarsi i denti. Ingie decise di non fare storie, non quella
mattina, e lo affiancò recuperando dal bicchiere lo spazzolino ed il
dentifricio.
“Come
mai così mattiniero?” gli domandò sinceramente curiosa, mentre si
infilava lo spazzolino in bocca.
“Sono
le dieci.” ribatté lui, confuso.
“Sì
ma di un sabato mattina. E tu il sabato dai il meglio di te, non
facendoti vedere prima delle cinque del pomeriggio.”
“Mi
osservi, allora.”
L'espressione
compiaciuta che aveva assunto Tom, la urtò non poco. Eppure, aveva
deciso che quel giorno non si sarebbe fatta guastare il buonumore,
specialmente da lui. Si limitò quindi ad alzare gli occhi al
soffitto e continuare a lavarsi i denti come se niente fosse.
“Lascia
perdere.” tagliò corto.
Osservò
il chitarrista, attraverso lo specchio, sciacquarsi la bocca, per poi
passarvi l'asciugamano, ed in quello stesso istante non poté fare a
meno di studiare il suo fisico. Doveva ammettere che con la palestra
stava facendo dei gran passi avanti; i muscoli si stavano formando
sempre di più e non poteva negare che il suo corpo fosse
particolarmente bello ed attraente.
Se
non fosse così insopportabile.
“Vado
in palestra.” la accontentò. Ingie sollevò nuovamente lo sguardo
su di lui.
“Non
ti starai ammazzando un po' troppo in questo periodo?” domandò.
“Sento
della preoccupazione?” sorrise beffardo, osservandola con la coda
dell'occhio.
“Notavo
solo una cosa palese.”
“Tranquilla,
il mio fisico è forte.”
Passarono
qualche attimo in silenzio, in cui lui si spruzzava del deodorante e
lei si lavava la faccia.
Quella
scena le ricordava tanto le mattine trascorse assieme a lui,
intenti a scherzare e prendersi in giro, farsi le boccacce attraverso
lo specchio, per poi schizzarsi reciprocamente l'acqua sul viso.
Rammentava quei momenti con nostalgia e tristezza, mentre il sapore
amaro dell'ingiustizia tornava ad offuscarle i sensi.
“Sexy
quegli slip.”
Automaticamente,
il suo sguardo si posò sulla propria biancheria in pizzo nero,
appena menzionata con poco tatto dal chitarrista, che giaceva sul
mobile, affianco al lavandino.
“Non
perdi mai occasione, eh?” commentò seccata, mentre la raccoglieva
con gesti altrettanto stizziti. Tom si limitò a sorridere,
osservandola divertito. “Quindi, ora scenderesti in centro?”
indagò poi la mora, mentre si asciugava il viso.
“Sì,
perché?”
“Se
ti chiedessi un passaggio?”
“Mi
sorprenderei.”
“Bene,
niente di grave. Riesci ad aspettare che mi faccia la doccia?”
“Dipende.
Posso guardare?”
***
Osservava
ogni singolo angolo della città che le si stagliava davanti agli
occhi durante la corsa in macchina. Tom, al suo fianco, guidava
canticchiando qualcosa di ignoto, ma stranamente piacevole. Non
avevano parlato molto: Ingie era come presa da altri pensieri,
immersa in un altro mondo, decisa a non uscirne per un po'. Si era
letteralmente chiusa in se stessa e, ad essere sincera, non aveva
nemmeno molta voglia di chiacchierare, conoscendo perfettamente il
tipo di dialogo che ogni volta instaurava con Tom.
Ultimamente
le capitavano spesso momenti di distrazione, di vera e propria
evasione. Era come se ne sentisse la necessità; come se fosse per
lei un modo per rigenerarsi. Sapeva che per ripulirsi di tutto il
fango che l'aveva macchiata in quel periodo avrebbe dovuto attendere
anni, e forse non ci sarebbe mai riuscita; ma riponeva ancora in se
stessa una piccolissima speranza.
Nel
frattempo, aveva pensato a lungo di portare a termine ciò che aveva
in programma di fare quella mattina. Non aveva esitato, anche se
l'idea l'agitava. L'agitava perché era come mettere un punto
definitivo; come confermare un qualcosa che era accaduto e che lei
continuava, ogni giorno, a negare a se stessa. Era come porsi di
fronte alla realtà ed affrontarla per ciò che era.
Decisione
difficile, certo, ma inevitabile.
“Cazzo!”
L'esclamazione
di Tom le provocò un forte nodo alla gola. L'improvvisa frenata ed
il suono del clacson la fecero urlare, risvegliando in lei ricordi
perfettamente nitidi.
“Attento!”
Un
forte impatto.
Una
vita che si spegne.
“Porca
puttana, la gente che lascia i cani da soli, per strada! Fortuna che
non è successo nulla.” si lamentò il ragazzo, per poi voltarsi in
direzione di Ingie. “Stai bene?” Lei tremava. Tremava e respirava
con affanno. “Hey, che ti succede?” le domandò di nuovo il
ragazzo, facendosi più vicino, per controllare come stesse.
Di
nuovo quella sensazione, di nuovo quella paura.
“Fammi
scendere.” soffiò, mentre il panico prendeva il sopravvento. “Ti
prego.”
Tom
aggrottò le sopracciglia, ma non indagò oltre. Trovò un posto dove
accostare l'auto, a lato della strada, e spense il motore. Ingie, con
gesti scoordinati ed incontrollati, si affrettò ad aprire la
portiera e scendere dall'abitacolo.
Sentiva
il cuore premerle contro il petto, desideroso di sfondarle la gabbia
toracica. L'aria quasi faticava a raggiungerle i polmoni e percepiva
un forte peso sullo stomaco. La vista le si era spaventosamente
annebbiata ed i pensieri non trovavano più flusso regolare.
“Hey.”
sentì la voce di Tom che le si avvicinava, una volta sceso dalla
macchina. “Va tutto bene, non è successo niente. Calmati.” le
disse, posandole una mano sulla spalla. Ingie non riusciva a trovare
una via d'uscita. “È stato un cane ad attraversare la strada
all'improvviso, ma ho frenato in tempo.” spiegò.
Ingie
aveva lo sguardo perso nel vuoto, mentre il fiatone non accennava a
svanire.
Aveva
rivisto quelle immagini in una frazione di secondo. Aveva rivisto
ogni cosa.
Anche
i suoi occhi che si chiudevano.
Serrò
i suoi, portandosi una mano alla fronte umida. Le dita non riuscivano
a tracciare percorsi regolari sulla pelle e tutto attorno a lei era
divenuto nero. Sentì le ginocchia cederle, ma una presa forte riuscì
a sorreggerla.
Non
seppe cosa succedette dopo, si rese solo conto di essere seduta su un
divanetto, affianco al chitarrista che le reggeva davanti agli occhi
un bicchiere d'acqua.
Una
gran confusione le stava dilaniando il cervello.
“Certo
che sei strana forte.” lo sentì commentare. Lei aggrottò le
sopracciglia e fece una smorfia stanca.
“Non
potevi dire di meglio, in questo momento.” borbottò tristemente
sarcastica, raddrizzandosi a sedere. Sbatté più volte le palpebre:
la vista non era ancora del tutto limpida e la testa le pulsava
fastidiosamente; poi si voltò verso il ragazzo, il quale la fissava
come stesse assistendo all'accoppiamento di una scimmia ed una
gazzella. “Come ci sono finita in un bar?” sospirò, mentre il
chitarrista le passava il bicchiere d'acqua.
“Bevi.”
le intimò. Lei obbedì, seppur con fatica. “Mi sei svenuta
addosso.”
“Lo
dici come se ti scocciasse.” ribatté lei, per poi sorseggiare un
altro po' di liquido fresco.
“Beh,
sei un po' destabilizzante, devi ammetterlo.” Ingie tacque. Scrutò
apparentemente distratta le proprie dita trattenere il bicchiere. Non
riusciva a spiegare cosa le accadesse in quei momenti. Era tutto
talmente strano e spaventoso al tempo stesso, che quasi aveva timore
a parlarne. “Cosa ti è successo?”
Quella
domanda era stata formulata con più delicatezza ed un pizzico di
preoccupazione, eppure non abbastanza da convincerla a dirgli la
verità.
“Ho
un po' paura delle auto, tutto qui.” pronunciò quella mezza verità
con un'alzata di spalle, come fosse un qualcosa di estremamente
irrilevante. “Degli incidenti, più che altro.” aggiunse, senza
guardarlo.
Lo
sentì ridacchiare.
“Allora
c'è qualcosa che ti spaventa, a questo mondo. Non sei tutta artigli
e canini affilati, come vuoi far credere.” la prese in giro. Ingie
ignorò quella deliberata provocazione – oro, per un tipo come lei
– e posò il bicchiere sul tavolo. “Va meglio?” le domandò
quindi il chitarrista.
“Sì.”
annuì lei, per poi alzarsi in piedi, con qualche indugio. “Usciamo
di qui.”
Camminò
spedita verso l'uscita del bar, con un Tom al seguito sempre più
basito, ed una volta fuori tirò un sospiro di sollievo. Non era
ancora pronta per risalire in auto, ma non aveva scelta. Aprì la
portiera e non perse tempo a sedersi in macchina, mentre Tom, sempre
più confuso, la imitò. Sentì i suoi occhi scrutarla ancora per
qualche attimo prima di rimettere in moto, come per accertarsi che
stesse veramente bene e potesse sopportare ancora qualche minuto lì
dentro.
“Dove
ti devo lasciare?” le chiese poi, senza staccare gli occhi dalla
strada, timoroso di incontrare un altro animale che l'avrebbe fatta
svenire di nuovo.
“Vicino
a dove lavoro va bene.” scrollò le spalle lei. Non era sicura, ma
credeva di aver visto ciò che cercava a qualche metro dal negozio,
un giorno in cui era di turno. Improvvisamente, la macchina accostò.
“Thanks.” mormorò, prima di scendere.
“La
palestra è a pochi metri. Se non mi vedi qui, quando hai finito di
fare quello che devi fare, raggiungimi pure. Altrimenti chiamami.”
le disse.
“D'accordo,
Pigtail.” lo prese in giro. “A dopo.”
“Vedi
di non svenire per strada.” si raccomandò prima di ripartire, con
un sorrisetto derisorio.
“Vedi
di non gonfiarti troppo!” gli urlò di rimando, per poi vederlo
sparire dietro l'angolo.
Stette
qualche attimo immobile.
Non
lo sopporto.
***
Quello
era il paradiso. Raramente gli era capitato nell'ultimo periodo di
dedicare un po' del suo tempo a se stesso, senza dover sopportare gli
schiamazzi dei suoi compagni.
Relax;
puro e sano relax.
Si
stava abbandonando alla quiete più totale, alle porte del paradiso.
La sua testa stava lentamente scivolando lungo lo schienale del
divano, mentre un rivolo di bava aveva ormai tracciato il proprio
percorso lungo la mandibola.
Sentiva
che l'Eden era vicino.
“Bill,
giù il culo dal divano, vi devo parlare.”
La
voce di David fu talmente inaspettata che in pochi secondi il
vocalist si trovò sul pavimento.
“Cazzo,
David!” protestò il biondo, portandosi una mano al petto. “Stavo
cercando di dormire!”
“Motivo
per cui sono intervenuto in tempo. Dov'è tuo fratello?”
“Sarà
in palestra.”
“Vieni
in cucina.” Seguì l'uomo con passi strascicati e pesanti, cercando
di reprimere uno sbadiglio. Sembrava già abbastanza teso. Seduti al
tavolo vi erano Georg e Gustav in attesa, anche loro perplessi e
curiosi. “Una domanda: cosa state facendo?” parlò il manager,
una volta ottenuto il silenzio e l'attenzione.
I
tre ragazzi si scambiarono un'occhiata confusa.
“In
che senso, David?” domandò un Gustav decisamente contrito.
“Bill,
stai scrivendo qualcosa, in questo periodo?” continuò l'uomo.
Bill
aggrottò le sopracciglia, sentitosi pericolosamente preso in causa.
Non riusciva a comprendere dove David volesse andare a parare con
quelle sue strane domande. Non si era mai comportato a quella maniera
e la cosa lo preoccupava.
Esitò
prima di rispondere.
“No.”
“Tuo
fratello sta lavorando su delle nuove composizioni?”
“No.”
“A
qualcuno di voi è mai balenata l'idea di mettersi a fare qualcosa,
di lavorare per il nuovo album?”
Ancora
una volta si osservarono fra loro.
“David,
abbiamo appena concluso il tour. Avevamo detto che ci saremmo presi
un attimo di pausa.” tentò di spiegare Georg, con cautela.
Bill
sapeva che David in quelle condizioni e soprattutto di quell'umore
sarebbe stato in grado di dar vita alla Terza Guerra Mondiale.
“L'attimo
di pausa è riferito alle uscite in pubblico, ai concerti. Non di
certo al vostro lavoro!” sbottò infatti il manager. “Voi avete
idea di quanto siano pericolosi per il vostro ambiente questi momenti
di stallo? Avete avuto un mese intero per rigenerarvi, non potete
perdere altro tempo. Se voi avete deciso di far parte di questo
mondo, dovete prendervi tutte le sue conseguenze. Se invece non
volete più fare gli artisti, basta che siate chiari fino in fondo.
Se non vi date una mossa sin da ora, il pubblico non vi ricorderà
per tutta la vita, come forse siete convinti. Presto si stancherà e
vi dimenticherà! Qualcun altro di più furbo arriverà e vi soffierà
il posto! È questo che volete per i Tokio Hotel?”
“David,
senti, secondo me ne stai facendo una questione di stato. Non ti
sembra di esagerare un pochino?” osò Bill.
Effettivamente
quel discorso gli pareva fin troppo melodrammatico per uno come
David. Era già capitato che la band si prendesse dei momenti di
pausa, ma mai aveva reagito a quella maniera. Dopotutto loro sapevano
fare molto bene il proprio lavoro ed erano anche perfettamente
consapevoli di cosa fare e quando farlo.
“Ti
sembra che io stia esagerando? Allora non hai capito proprio nulla
del tuo lavoro, Bill.”
Quella
frase gli fece male più del previsto. Non avrebbe mai immaginato che
David fosse capace di tanto, ma soprattutto di ferire con le sue
stesse parole. Era un lato della sua personalità che non aveva
ancora scoperto, nemmeno in tanti anni di convivenza e
collaborazione. Era chiaro che dietro quella sua reazione così
violenta ci fosse dell'altro.
“David,
sei sicuro di stare bene?” domandò con cautela. La situazione
cominciava seriamente ad angosciarlo.
“Io
sto benissimo, Bill. Non cercare di capovolgere la situazione.”
Detto
questo, il manager non aggiunse altro ed uscì dalla cucina,
lasciando i ragazzi con un tremendo sapore amaro in bocca.
***
Si
era illusa. Si era illusa di aver rimosso dalla memoria quelle
immagini ma ancora una volta le si erano mostrate con violenza,
sempre più chiare, sempre più vive. Si era ripromessa di
combatterle, di non cedervi più, ma tutto si era rivelato inutile e
di gran lunga impossibile. Proprio quando sembrava che le cose
stessero per trovare un loro equilibrio, seppur precario, le sue
certezze erano crollate, così come la sua forza di volontà. Ora
sentiva solo un grande vuoto. Di nuovo.
A
volte si domandava se era scritto da qualche parte, se era un volere
del destino, che la gente fosse costretta a vivere quel tipo di
calvario, pur desiderando il contrario. Si domandava se potesse
servire a qualcosa e soprattutto se fosse giusto. La sua anima voleva
ribellarsi, voleva urlare, voleva porre fine a tutto ma percepiva
anche una forza esterna che le impediva di farlo. Era come se una
parte di lei la riportasse con i piedi per terra, le facesse
ritrovare un piccolissimo contatto con la realtà, ben conscia del
fatto che lui ne sarebbe stato molto fiero.
Devo
pensare a lui, ma in modo più positivo, se mai sia possibile, si
ripeteva nella mente. Lui vuole il mio bene, esattamente come io
volevo il suo.
Represse
una piccola lacrima, concentrandosi sulle sue dita intrecciate.
Era
curiosa di sapere quanto tempo avrebbe impiegato per fare i conti con
la realtà ed accantonare il dolore. Vi erano momenti in cui si
spaventava e sentiva che la quiete non sarebbe mai giunta, per lei.
Solamente
un cinico, insensibile potrebbe riuscirci.
Lei
lo sapeva, non era così. Anche se a volte avrebbe tanto desiderato
essere cinica ed insensibile, a dispetto della sofferenza che le dava
la caccia.
Accavallò
le gambe, in attesa.
Sua
madre le diceva sempre che Dio sceglie le persone che sa che potranno
affrontare e superare il dolore, pur essendo buone, motivo per cui le
mette alla prova. Ma lei non aveva mai creduto a quel tipo di storie.
“L'ho
finito, venga pure.” Sollevò improvvisamente lo sguardo sull'uomo
davanti a lei e si affrettò ad alzarsi dalla sedia. Entrò agitata
nello studio e si sedette nuovamente alla scrivania. “Ecco, vede,
ho fatto tre disegni, tutti in stili differenti.”
Ingie
abbassò lo sguardo sul foglio che le stava mostrando ed osservò con
attenzione i lavori. Effettivamente, trovava molto belli tutti e tre,
ma quello al centro la rapì in particolar modo. Era fine, discreto,
un po' come lei.
Ecco,
il simbolo che avrebbe rappresentato la svolta.
“Mi
piace questo.” lo indicò.
“Allora,
facciamo questo?” le domandò quindi l'uomo, piuttosto muscoloso.
Doveva ammettere che le incuteva un certo timore, nonostante la sua
gentilezza.
Pensò
a quella domanda qualche secondo ma poi si disse che non era più
tempo di pensare, doveva solo seguire il suo istinto.
“Sì.”
rispose, convinta.
“Allora
si accomodi. Si sdrai sul lettino.”
Ingie
fece come le aveva detto.
E
non appena l'ago le trafisse la pelle, sorrise, forse consapevole di
dar vita ad un nuovo inizio.
***
Se
ne stava poggiata al muro da qualche minuto, sfiorandosi di tanto in
tanto il petto ancora pulsante. Aveva scelto di non entrare in
palestra ed aspettare Tom al di fuori di essa, con impazienza. Doveva
rifornirsi di un po' di sano ossigeno, prima di perderne ogni singolo
granello con il botta e risposta che, sapeva, avrebbe dovuto
affrontare con il chitarrista. Ormai si era arresa all'evidenza:
detestava Tom e non poteva fare a meno di provocarlo, anche se
intimamente desiderava di essere lasciata in pace, non le sembrava di
chiedere molto. Era un tipo che non demordeva facilmente e se si
fosse impegnato un minimo di più, non l'avrebbe lasciata vivere.
Sbirciò
appena attraverso il vetro e localizzò immediatamente il fulcro dei
suoi pensieri.
Era
seduto su di un attrezzo, intento a sollevare dei pesi con le
braccia. Il viso era contratto in una piccola smorfia di fatica,
palesemente umido di sudore. Osservò i bicipiti contrarsi e
rilassarsi regolarmente, mentre rifletteva su cosa avrebbe potuto
fare: odiava attendere, ancora di più che affrontare immediatamente
il problema.
Sbuffò,
mentre decise di recuperare il telefono, e scrisse velocemente un
messaggio.
Alza
il tuo culetto scarno. Sono qui fuori.
Pochi
secondi dopo, guardò il ragazzo posare il tutto e dare un'occhiata
al proprio cellulare. Successivamente, sollevò lo sguardo accigliato
su di lei – attraverso il vetro –, la quale gli fece un gesto
eloquente con la mano, accompagnato da un sorrisino ironico. Non ci
volle molto perché si alzasse con l'asciugamano in spalla e
raggiungesse lo spogliatoio maschile.
Ingie
sospirò ancora una volta e si poggiò nuovamente con la testa contro
il muro, fino a che non percepì la presenza di Tom affianco a lei.
“Sembrava
ci stessi lasciando i bicipiti, su quell'attrezzo.” commentò con
sarcasmo, senza spostarsi di un centimetro.
“Sai,
io sono abituato a fare le cose seriamente.” sorrise lui,
avvicinandosi ad Ingie, mentre poggiava una mano accanto al suo viso,
proprio sul muro.
Ingie
ignorò quella frase che sapeva tanto di doppio senso ed esercitò
una lieve pressione sul petto con la mano, facendolo così
indietreggiare.
“Davvero?”
domandò scettica, per poi dirigersi verso l'auto di Tom, che la
seguì divertito. “Torniamo a casa in fretta, sono stanca.”
aggiunse, mentre si accingeva a salire. Tutto ciò che voleva fare
era tornare a casa in tempo per godersi un breve sonnellino, prima
dell'arrivo di Simone.
“Cosa
avrai mai fatto di così estenuante.” sospirò il chitarrista, dopo
aver messo in moto ed aver imboccato la strada principale. “A
proposito, si può sapere che cosa hai combinato, nel frattempo?”
le domandò poi, senza guardarla.
Ingie
si voltò verso di lui compiaciuta.
“Stai
ancora pensando alla storia della serial killer?” ridacchiò.
“No,
cerco di auto convincermi che tu sia normale.”
“Non
devi preoccuparti, ho tutto al proprio posto.”
“Sì,
questo lo vedo.” commentò lui, lanciando al contempo un'occhiata
veloce al suo seno, cosa che non sfuggì alla ragazza.
I
hate him. Really, really hate him.
“Se
vuoi davvero rimanere in vita, ti conviene non farlo mai più.” lo
minacciò con occhi infuocati.
“Come
ti pare.” sospirò lui, tornando a concentrarsi sulla strada di
fronte a sé. “Allora, mi vuoi dare una risposta?”
Ingie
esitò qualche attimo, ma poi si rese conto che continuare a fare la
misteriosa a tutti i costi non avrebbe giovato particolarmente alla
sua salute. Sapeva che Tom le avrebbe reso la vita impossibile per
saperlo, quindi decise di giocare d'anticipo.
“Ho
fatto questo.” si arrese, scoprendosi appena il petto, in
corrispondenza del cuore, dove la pelle era ancora arrossata e
lucida. Impressa, stanziava una lettera nera, semplice, senza troppi
fronzoli.
Una
T.
Tom
aggrottò le sopracciglia, poi sorrise appena. Fu un sorriso che non
le piacque per niente; ormai aveva imparato a riconoscerlo, ad ogni
occasione.
“Non
pensavo ti fossi già affezionata così tanto a me.” esclamò
infatti, con la soddisfazione che ardeva negli occhi. “Ti offendi
se non ricambio il gesto?” le domandò poi con una vena di finto
dispiacere.
Le
palpebre di Ingie calarono vertiginosamente. Per qualche strana
ragione il suo cervello si era messo in moto, un istante prima, ed
aveva messo in preventivo una reazione ad alto tasso di ignoranza,
proprio come quella. Ancora una volta Tom le si era dimostrato il
ragazzino idiota che aveva conosciuto nella dannata Amburgo.
“Non
crederai sul serio che io mi imprima sulla pelle un idiota come te,
vero?” sollevò un sopracciglio. Si sentiva indignata, quasi
offesa. Aveva scelto di realizzare quel tatuaggio per una persona a
lei molto cara, che non avrebbe più potuto starle accanto, ed il
fatto che Tom avesse commentato con superficialità l'evento, non
faceva altro che sminuire quella persona. Ed era una cosa che non
poteva accettare.
“Beh,
sei strana. Mi aspetterei qualsiasi cosa da te. Persino di trovarti
nuda nel mio armadio.” commentò, decisamente convinto di ciò che
diceva.
Era
quello ciò che più spaventava Ingie: il fatto che le assurdità e
le idiozie che diceva quel ragazzo fossero pronunciate con la serietà
negli occhi, con tutto l'impegno possibile. Da una parte aveva
sperato che fosse il suo modo di scherzare – pur sempre discutibile
– ma aveva dovuto presto fare i conti con la cruda realtà: Tom era
stupido, fine della storia.
Non
era così impossibile da accettare, no? Aveva passato di peggio.
“Farò
finta di non aver sentito.” sospirò, arresa all'evidenza.
“Immagino
sia inutile chiederti cosa voglia dire, giusto?”
“Giusto.”
Passarono
momenti interminabili di silenzio. Momenti che Ingie conosceva bene.
Le
si erano sempre presentati attimi tranquilli come quello, ad un certo
punto della giornata. Ed era proprio in quegli attimi che le capitava
di riflettere. Da una parte le piacevano, le davano un senso di pace.
Dall'altra desiderava che qualcuno parlasse di nuovo perché, a lungo
andare, il silenzio e la solitudine la spaventavano.
L'improvvisa
suoneria di un telefono le venne in aiuto. Si guardò attorno,
cercando di capire da dove provenisse, fino a che non vide Tom
estrarre il proprio cellulare dalla tasca dei pantaloni.
“Bill.”
disse, dopo aver tirato un'occhiata al display. “Rispondi tu.”
Le
passò il telefono e lei prontamente rispose.
“Bill.”
“Tom?”
“Ti
sembro Tom?”
“Effettivamente,
c'era qualcosa che non andava.” Ingie roteò svogliatamente gli
occhi. “Dove siete?”
“In
macchina, stiamo tornando.”
“Digli
che nostra madre sta arrivando e sarebbe carino che lui fosse già a
casa per quel momento.”
“Dice
che ti devi muovere. Mamma Simone in arrivo.” si rivolse a Tom che,
se il suo sguardo avesse potuto aiutarlo, l'avrebbe di sicuro
incenerita. “Why that look?” strinse le palpebre, con
sospetto.
“Dovrei
beffarmi dei cartelli stradali, investire i vecchietti e fondere il
motore?” domandò come fosse una cosa tanto ovvia.
“Che
vuoi da me? È tuo fratello che detta legge, non io.” si difese la
ragazza, continuando a mantenere il cellulare contro l'orecchio.
“Ingie,
non importa. Vi aspetto a casa.” parlò a quel punto Bill,
dall'altro capo.
“Whatever.”
tagliò corto, riattaccando. Restituì il cellulare a Tom. “Sua
maestà deve avere i sintomi premestruali.” commentò, con
sarcasmo.
“Se
non altro, vi intendete.” ribatté il chitarrista. Trascorsero
altri cinque minuti, prima del loro arrivo allo studio di
registrazione – occupato da una macchina decisamente meno vistosa
di tutte le altre parcheggiate. “L'auto di mia madre.” sorrise il
ragazzo, prima di spegnere il motore ed uscire.
A
Ingie non era mai capitato, prima di allora, di leggere sul viso di
Tom un'espressione che racchiudeva così tanta contentezza ed
impazienza. Era proprio vero che una madre poteva cambiare la vita.
Ignorando la fitta allo stomaco, camminò alle sue spalle, fino a che
non furono dentro lo studio.
Non
fecero in tempo a guardarsi attorno, che tre cani – due grandi ed
uno piccolo – corsero loro incontro, come indemoniati. Tom scoppiò
a ridere, abbracciandoli come poteva, uno ad uno, mentre Ingie restò
imbambolata nell'ingresso ad osservare quella scena insolita.
Pareva
un'altra persona. Li stringeva a sé, li baciava, sorrideva pieno di
gioia, come ripresosi da una lunga astinenza. Tutto ciò le sembrò
quasi paradossale.
Ti
ci abituerai. Non crederai mai ai tuoi occhi.
Erano
state le parole di Gustav che, come sempre, aveva ragione.
“Eccolo,
il figlio Sono tenero ma faccio il duro!”
Sollevò
lo sguardo. Una donna bionda, bellissima, si stava avvicinando con le
braccia spalancate e gli occhi luccicanti a Tom.
Il
cuore prese ad accelerare il battito.
“Mamma.”
sorrise Tom, stringendola forte. “Mi mancavi.” ammise.
Simone
schioccò un bacio sulla guancia del figlio, più alto di lei di
almeno una decina di centimetri, e poi si voltò in direzione di
Ingie, che si sentì improvvisamente arrossire.
“E
tu sei Ingie!” esclamò la donna, avvicinandosi a lei. “Piacere
di conoscerti.”
Le
porse la mano, prendendola quasi in contropiede. Si affrettò a
stringergliela, cercando di celare come poteva l'agitazione.
Si
sentiva strana, non le era mai capitato prima di allora.
Quasi
non ricordava più quale meravigliosa sensazione si provasse ad avere
una madre al fianco.
***
“Ultimamente
Gordon sta dando un po' di matto.”
Ingie
ormai ascoltava da minuti interminabili quella conversazione, intenta
nel frattempo a giocherellare con la forchetta in mezzo all'insalata
– il primo esperimento di cucina sana nello studio di
registrazione. Alla fine, era riuscita a manipolare Bill a suo
piacimento, il quale si era arreso al suo caratterino così spiccio.
Georg e Gustav avevano accolto la novità con immensa approvazione,
stanchi anche loro di non immettere altro nello stomaco se non il
cibo spazzatura che continuavano a rifilare loro i gemelli. Tom non
aveva fatto una piega, se non per stuzzicarla, ribadendo quanto fosse
cocciuta. La risposta da parte di Ingie era stata, come sempre,
rapida e concisa.
“Come
mai?” domandò Bill a sua madre, piuttosto preoccupato.
Da
tanto Ingie si chiedeva perché lui e suo fratello non avessero mai
nominato il padre biologico. Non voleva fare domande, perché era la
prima ad odiarle, quindi continuava a riporre i tasselli del puzzle
mancante al proprio posto grazie all'intuizione e nient'altro, ma
ancora non era riuscita a completarlo.
“Perché
il lavoro continua a scarseggiare sempre di più, il guadagno è
inferiore mese dopo mese. Insomma, siamo un po' preoccupati, tutto
qui.” spiegò Simone, ormai dimentica del cibo che aspettava freddo
nel piatto.
Ingie
ricordava perfettamente quella sensazione di paura e vuoto, ma
soprattutto di impotenza, un mese addietro. Anche lei si era
ritrovata a farsi i conti sulle dita e la sfortuna aveva voluto che
non possedesse nemmeno un lavoro cui aggrapparsi. Doveva ritenersi
fortunata ad averlo trovato in così poco tempo ed essere grata –
anche se le costava ammetterlo – ai ragazzi, che le avevano offerto
un posto dove stare, senza un limite di tempo. Certo era che non
aveva intenzione di disturbarli troppo a lungo. Fra i suoi progetti,
quei pochi che ancora aleggiavano nella sua testa, c'era quello di
mettere abbastanza soldi da parte per comprare una casa tutta sua,
smettendola di gravare in questo modo sulla band.
“Mamma,
lo sai che per qualsiasi cosa puoi contare su di noi. Se avete
bisogno di aiuto non devi fare altro che dirlo.” disse Tom,
improvvisamente serio, cosa che stupì non poco Ingie.
“Lo
so, tesoro, e per questo ti ringrazio. Ma ora non ne abbiamo bisogno
e soprattutto non voglio che voi vi preoccupiate per noi.” sorrise
la madre. Si leggeva nei suoi occhi l'immenso orgoglio che provava
per i figli. “Ma ora basta parlare di me. Ingie.” La mora sollevò
immediatamente lo sguardo, come ripresasi dallo stato di trans in cui
si era rifugiata per un po'. “Dimmi di te. Hai parlato così poco,
fino ad ora.” la incitò amabilmente.
Per
quanto odiasse essere interrogata, non riuscì a provare fastidio, di
fronte a quella donna.
Si
guardò attorno, per tutta la tavolata, mentre cinque paia di occhi
erano attentamente posati sulla sua figura, rendendola per un momento
inerme. Cominciava a sentirsi a disagio.
“Beh.”
si schiarì la voce. “Che posso dire? Non c'è molto da dire su di
me.” sorrise in imbarazzo, continuando a torcersi le mani in
grembo. “Vengo da New York e penso che si intuisca.” scherzò
appena. “Ehm, diciamo che non ho avuto una vita facile, fino ad
ora. E, devo dire, che sono stata fortunata a trovare un lavoro ed
una casa a tempo record. Vista la situazione in cui mi trovavo.”
Non
era riuscita a regalarle dettagli sulla sua storia, ma Simone non
sembrò offesa o perplessa. Sembrava invece aver capito ogni cosa,
nonostante non le avesse detto nulla.
“Beh,
i miei figli sono un po' irritanti e particolari, ma sanno essere
generosi con tutti.” disse soddisfatta, ignorando spudoratamente le
occhiatacce da parte dei diretti interessati. “Sono sicura che
riuscirai a risolvere tutti i tuoi problemi, sei un ragazza sveglia.”
“La
ringrazio.” sorrise, quasi commossa.
“Oh,
ti prego, dammi del tu!” rise la donna.
Le
era grata. Le era grata perché aveva saputo prenderla con le pinze.
Non aveva scavato a fondo, nella sua vita o nel suo passato, con
l'intuito che solo una madre poteva avere.
Ricordava
le conversazioni che spesso teneva con la sua. Ricordava la
complicità, l'attenzione, ma soprattutto l'amore.
Le
saltarono alla mente tutte le letterine che, fino all'età di dodici
anni, aveva scritto a sua mamma, elencandole ogni pregio, ogni cosa
buona che faceva per lei, dalla più futile alla più importante.
Cara
mammina, oggi la maestra mi ha detto che ho fatto un bel tema. Non le
ho detto che mi hai aiutato! Comunque, grazie, mammina. Ti voglio
tanto bene!
Cara
mammina, oggi Mark mi ha sorriso. Avevi ragione! Forse gli piaccio!
Cara
mammina, ti volevo solo dire che sei la mamma migliore del mondo! Ti
voglio tanto, tanto, tanto bene!
Quelle
letterine – o meglio, biglietti – scritte con imprecisione, con
immaturità, ma anche con la spontaneità e la sincerità tipiche dei
bambini. Se le ricordava tutte. Quanto avrebbe desiderato riavvolgere
il tempo e tornare a quel periodo.
Sentiva
gli occhi pizzicare, ma si concentrò per ignorarli.
“Faccio
i piatti.” annunciò improvvisamente Simone, facendo per alzarsi
dalla sedia.
“Ma
no, mamma, faccio io. Tu vai a riposarti. Domani mattina devi
ripartire presto, hai bisogno di dormire.” si affrettò Tom a
precederla, cominciando a sparecchiare.
“Sicuro?”
chiese la donna, decisamente assonnata. Il chitarrista annuì
convinto con uno sguardo che non ammetteva repliche. “D'accordo,
allora. Grazie. Buona notte a tutti.”
La
salutarono in coro, mentre usciva dalla cucina, per dirigersi al
piano superiore, dove l'attendeva una delle innumerevoli stanze a
disposizione. In pochi secondi, la cucina si era svuotata.
Ingie,
a quel punto, decise di rendersi utile in qualche modo e prese a
sparecchiare assieme a Tom.
“Carina
tua madre.” parlò, senza pensarci. Era giunta l'ora di tornare a
provocarlo. “Di certo, non hai preso da lei.” sorrise furba.
“Fidati,
ho preso tutto da lei, fortunatamente.” rispose, cupo in viso,
mentre riponeva un piatto nel lavandino. La ragazza si fermò qualche
attimo, osservandolo di sottecchi. Che fosse una battuta acida per
suo padre? Decise di rimanere in silenzio e riprendere il lavoro. “So
che ti stai chiedendo se odio mio padre.” ridacchiò Tom, senza
guardarla. “E la risposta è sì.” Ingie continuò a fare
finta di nulla, toccata però da quella confessione. “E non ho
intenzione di spiegarti il motivo o dirti altro, finché tu non lo
farai con me.” concluse, soddisfatto.
Colpita
e affondata.
“Se
non altro, la differenza è che a me non interessa.” lo osservò in
viso, con espressione ironica, mentre posava l'ultimo bicchiere nel
lavabo. “Non sono un'insopportabile ficcanaso, come te.” sorrise,
senza smettere di guardarlo. Tom ricambiò lo sguardo e le si
avvicinò.
“Sarà,
ma sei un'insopportabile saccente.” rispose, dandole un colpetto
sul naso con l'indice.
Ingie
rimase quasi allibita da quel gesto così stupido eppure, a sua
veduta, così intimo. Dopo qualche attimo di silenzio, in cui Tom
aveva cominciato a lavare le stoviglie, decise tagliar corto.
“Non
prenderti certe libertà, Piggy.” fu l'ultima cosa che disse
prima di uscire dalla cucina e dirigersi in giardino, con il
pacchetto di sigarette pronto per l'uso.
Aveva
avuto una buona intuizione, riguardo il padre dei gemelli. C'era
qualcosa che non andava. Sembrava strano, ma era riuscita a leggere
la minima sfumatura di odio e sofferenza negli occhi di Tom, durante
quei pochi secondi in cui gliel'aveva nominato. Era ovvio che a
tormentarlo fosse qualcosa di particolarmente rilevante.
Una
volta fuori, trovò Georg, intento a consumare la sua sigaretta, che
osservava i cani dei Kaulitz correre per tutto il giardino. Era
poggiato al muro con la schiena, non troppo distante dall'ingresso, e
lei decise di affiancarlo, sedendosi però sui gradini. Recuperò il
pacchetto e ne estrasse quella che ormai era diventata un'amica,
nonostante le nuocesse alla salute.
“Ti
serve l'accendino?” le chiese Georg.
“No,
ce l'ho.” rispose lei, per poi accendersi la sigaretta. “Che
casinisti.” commentò successivamente con un sorriso, scrutando
ogni minimo movimento degli esseri pelosi che non facevano altro che
inseguirsi per tutto lo spazio a disposizione.
“Sono
stati tutti raccolti per strada.” parlò il bassista.
“Davvero?”
domandò lei, sorpresa.
“Quello
lì nero veniva picchiato e gli veniva data la birra da bere.”
Ingie sgranò gli occhi. “Tom e Bill l'hanno trovato in condizioni
pietose quando era solo un cucciolo, così hanno deciso di portarlo a
casa. Gli altri non hanno una storia così tragica, ma sono tutti
trovatelli.” La ragazza non disse niente. “Non hai detto nulla
nemmeno a Simone.” cambiò improvvisamente discorso lui, facendola
sorridere scetticamente.
“Ah,
lo sapevo che ci saresti arrivato.” commentò, dopo aver tirato una
boccata di fumo.
“Notavo
solo.” scrollò le spalle il rosso.
“Qui
dentro, soffrite un po' tutti di curiosità cronica.” rifletté
lei. “Vivete tranquilli.” gli consigliò con ironia.
“Beh,
sai, penso sia normale voler sapere qualcosa in più della persona
con cui vivi. Non mi sembra una cosa così fuori dal mondo.”
ribatté, buttando un po' di cenere a terra. Questa volta sembrava un
po' scocciato. “Potresti essere una serial killer.” aggiunse poi,
tornando ad adottare un tono più giocoso.
Ingie
sorrise.
“Tom
mi ha detto la stessa, identica cosa.” disse. “Fammi un favore,
Redhead. Dormi su sette cuscini perché non uccido la gente
per hobby.” commentò ironica. “Potrei farlo solo con Piggy,
ma in un caso del tutto particolare.”
“Ricevuto.”
sorrise il ragazzo, per poi spegnere la sigaretta nel posacenere.
“Vado a dormire, prima che ti salti in testa di uccidere anche me.”
scherzò, mentre risaliva i gradini.
“Tonight.
Be ready.” fece Ingie, con finta voce minacciosa, scatenandogli
una lieve risata.
“Buona
notte.” le augurò prima di chiudere la porta di ingresso e sparire
dietro essa.
Lei
sospirò appena, per poi accarezzare il pelo bianco e nero del cane
più grosso che le si era avvicinato nel frattempo.
“Perché
tutti credono che io sia una serial killer?” domandò a quel muso
tenero. “Ho lo lo sguardo così diabolico?”
Ma
tutto ciò che ricevette in risposta fu uno sbadiglio.
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Capitolo 8 *** Seven - Just a picture ***
7
Seven
Just
a picture
Per
qualsiasi cosa, chiamami pure, tesoro. Ecco il mio numero.
Era
stato tutto ciò che Simone le aveva detto con dolcezza, prima che il
suo viso venisse oscurato dal finestrino dell'automobile. Ingie aveva
percepito un senso di vuoto, osservando quella donna sparire dietro
l'angolo della strada, consapevole del fatto che sarebbero passati
mesi, anni, un'eternità prima di rivederla. O forse, non l'avrebbe
semplicemente mai più rivista.
L'idea
un po' la spaventava ed il tutto era inspiegabile. Simone non era sua
madre, non aveva legami di sangue con lei, non erano nemmeno vecchie
conoscenti. Eppure aveva sentito una piccola fitta allo stomaco, al
momento della sua partenza. Forse era stata la sua gentilezza, la sua
dolcezza ed il suo istinto materno così forte a congelarla come un
ricordo felice nella mente di Ingie.
Si
osservò stancamente allo specchio e si pettinò velocemente, quasi
senza riguardo. Il cervello vagava altrove e, nonostante il suo
riflesso la fissasse, lei non si vedeva.
Scese
al piano inferiore vestita ma ancora assonnata. Una lunga giornata di
lavoro l'attendeva. La settimana era ricominciata, così come la
realtà e la vita quotidiana. Si era sentita, quel poco tempo che
aveva passato in compagnia di Simone, come su un altro pianeta,
lontano dai problemi; come se, in qualche modo contorto ed
inspiegabile, fosse riuscita a colmare per un attimo la mancanza
della madre.
Quando
entrò in cucina, trovò un Bill piuttosto pensieroso seduto al
tavolo, con le dita intrecciate sotto il suo mento e lo sguardo fisso
nel vuoto. Sembrava pensare o forse era solo preoccupato per qualcosa
a lei ignoto.
“Vuoi
perforare il frigorifero?” le venne spontaneo domandare, seppur con
ironia. Bill sollevò le pupille scure su di lei, aggrottando le
sopracciglia. “Con lo sguardo.” chiarì, eloquente, mentre gli si
sedeva di fronte, dopo aver recuperato una tazza dalla credenza.
“Sono
sovrappensiero.” rispose lui, con una scrollata di spalle.
“Lo
vedo.” commentò lei, in tutta tranquillità, riempendosi nel
frattempo la tazza di caffè-latte. “Pensare fa male, a voi
Kaulitz. È troppo al di là delle vostre capacità.” lo prese in
giro.
Lui
non riuscì ad offendersi; al contrario, sorrise.
“Ti
accompagno io al lavoro.” le disse quindi, alzandosi dalla sedia.
Ingie
stava ancora bevendo il suo caffè, motivo per cui lo fulminò con lo
sguardo.
“Stai
calmo, Speedy. Devo ancora finire, qui.”
***
Erano
le due di notte e non era ancora riuscito a chiudere occhio. Aveva
deciso di passare qualche giorno a casa di Kayla, poiché la sua
sembrava così vuota ed inquietante.
Sedeva
al tavolo con la schiena ricurva su di esso e teneva una tazza di
latte fumante fra le mani. Il vapore gli carezzava delicato il viso
ed i suoi occhi si chiudevano automaticamente, come in pieno relax.
Aveva
passato giorni a cercarla, ad inviarle messaggi, ma nulla. Non aveva
mai ricevuto risposta. Aveva perfino cominciato a pensare al peggio
ed il solo pensiero che potesse essere fondata tale preoccupazione
gli raggelava il sangue e gli impediva di dormire.
“Luke.”
La
voce di Kayla fece capolino in cucina, facendolo voltare di scatto
verso la porta, dove si stagliava la sua figura in camicia da notte.
“Kayla.
Scusa, ti ho svegliata?” domandò cauto, mentre lei gli si
avvicinava scuotendo appena la testa.
“No,
tranquillo. Che fai ancora in piedi?” gli domandò, con un sorriso
triste in volto. Conosceva già la risposta. Luke tornò ad osservare
la sua tazza.
“Non
riesco a dormire.” sussurrò.
Kayla
sospirò e gli si sedette affianco, scrutandolo con attenzione mentre
gli carezzava appena la schiena.
“Riusciremo
a trovarla, Luke.” mormorò tristemente. “Ci riusciremo.”
Ma
non ci credeva nemmeno lei.
***
Un'altra
mattinata estenuante era appena giunta al termine. Questa volta aveva
perso il conto delle persone dalle strane richieste o di quelle che
si erano impegnate per renderle la vita impossibile. Sapeva solo che
erano aumentate esponenzialmente. Tuttavia, era venuta a conoscenza
di un fatto tanto sorprendente quanto inquietante: lei aveva il dono
della pazienza. Ancora non si era data una risposta per tale
assurdità, forse nascosta per anni nei luoghi più reconditi della
sua anima, e vi aveva repentinamente rinunciato, poiché la testa non
accennava a smettere di riprodurre il frastuono di un martello
pneumatico in continua azione contro il suo cervello.
Se
solo avessi la stessa pazienza con Pigtail.
Piegò
con cura una maglietta che un cliente aveva maleducatamente fatto
cadere a terra – decisamente poco intenzionato a raccoglierla,
prima di uscire dal negozio – e la ripose sul suo scaffale. Ivan si
trovava a qualche metro di distanza, intento a fare la stessa cosa
con le felpe firmate LA.
Toccare
quegli indumenti, quasi la faceva sentire male, ma con un po' di
buona volontà era riuscita ad accantonare il sentimento.
“Stasera,
ti va di cenare insieme?”
Per
poco non inciampò sui suoi piedi, nell'udire quella domanda così
improvvisa ed inaspettata.
Si
voltò in direzione del suo capo ed aggrottò le sopracciglia,
perplessa.
“A
cena?” chiese, pur avendo compreso perfettamente.
“Sì.”
scrollò le spalle Ivan, come se niente fosse, con un sorriso quasi
puerile ad illuminargli il volto.
Ingie
prese a torcersi le mani. Non le era mai piaciuta l'idea di uscire
con un datore di lavoro. Certo, Ivan non le dispiaceva come ragazzo;
era carino e la sapeva prendere, privilegio di pochi, se non di
nessuno. Eppure, oltre all'etica professionale che si era decisa a
mantenere, l'idea di frequentare una qualsiasi persona di sesso
maschile non l'allettava.
“Ehm,
non credo sia il caso, Ivan.” cercò di essere il più gentile
possibile.
“Perché?”
le domandò, quasi deluso.
“Beh,
per prima cosa perché sei il mio capo. Secondo, non ho voglia di
immischiarmi in situazioni che al momento mi potrebbero stare
strette.” spiegò in completa sincerità.
“Non
ti ho chiesto di sposarmi. Ti ho proposto una cena da amici.”
“Da
amici?”
“Amici.”
Rifletté
qualche istante, ma lo sguardo gentile – ed appena speranzoso –
di Ivan l'aiutò a ricordare che era tempo che non si prendeva una
pausa dal mondo e non si dedicava ad una semplice cena spensierata
fra – così detti – amici.
“D'accordo,
allora.” si arrese, con un piccolo sorriso.
Sapeva
che stava andando ad immischiarsi in una situazione scomoda, ma quel
che era fatto era fatto. D'altronde, non avrebbe saputo quale altra
scusa rifilare.
“Perfetto.”
esultò il ragazzo. “Ti passo a prendere alle otto.”
“Vada
per le otto.” commentò poco convinta Ingie, per poi infilarsi la
giacca. “A stasera.”
Detto
questo, uscì dal negozio, già in cerca con lo sguardo della
macchina di Bill. Si sorprese quando al posto del vocalist, trovò il
bassista ad attenderla nella sua automobile.
“Buon
giorno, Redhead.” lo salutò non appena salì a bordo. “Sua
Altezza ha avuto un contrattempo?” domandò ironica.
“Sta
litigando con suo fratello.” rispose Georg, mentre metteva in moto
la macchina. “Pare gli abbia buttato un Mascara.”
Ingie
non si sorprese per ciò che aveva appena udito. Discussioni di quel
tipo erano più che ricorrenti allo studio di registrazione. Spesso
il chitarrista scambiava i trucchi del fratello per oggetti
inutilizzabili e, senza prima chiedere conferma, gettava nella
pattumiera, generando veri e propri Apocalissi che solitamente si
propagavano per l'intera giornata e, a volte, fino all'indomani.
“Qual'è
il problema? Ne avrà quindici per colore.” scrollò le spalle,
decisamente poco preoccupata.
“Pare
fosse quello più usato da Bill. Non so niente di questa roba e
sinceramente non mi voglio immischiare.” tagliò corto il rosso,
apparentemente seccato dall'ennesima discussione futile che si era
venuta a creare.
Trascorsero
qualche attimo in silenzio, in cui Ingie ripensò all'invito a cena
di Ivan. Ora che si trovava lontana da lui, si chiedeva per quale
improponibile motivo avesse accettato. Aveva immaginato sin da subito
che si sarebbe pentita perché si conosceva molto bene. Uno dei suo
peggiori difetti era l'irrazionalità. Aveva sempre riconosciuto di
non essere una ragazza molto riflessiva; quando sentiva qualcosa,
dava libero sfogo all'emozione. Prova di tale teoria era stato
proprio il trasferimento immediato in Germania, senza dire una parola
a nessuno, nemmeno ai familiari. Forse non era semplicemente in grado
di affrontare le sfide, così come le venivano presentate.
Sospirò.
“Ivan
mi ha invitata a cena.” buttò lì, come niente fosse.
Notò
con la coda dell'occhio che Georg si era voltato una frazione di
secondo nella sua direzione, prima di tornare a concentrarsi sulla
strada.
“E
tu?” domandò curioso.
“Ho
accettato.”
Il
ragazzo sollevò le sopracciglia sorpreso.
“Sul
serio?” domandò quasi allibito, cosa che la disturbò un poco.
“Che
c'è di male? È una semplice cena fra amici.”
“No,
è che mi sembra strano. Insomma, sei materiale e grezza, non pensavo
accettassi una cena con un ragazzo.”
“Dovrei
offendermi per il materiale e grezza, ma mi consolo pensando
che a dirmelo sia stato un fastidioso hobbit.”
Georg
sorrise appena, divertito.
“Dai,
non era una critica.” le lanciò un'occhiata. “Più o meno.”
ritrattò.
“Comunque,
non ha importanza. Ormai, ho detto di sì ed Ivan mi ha assicurato di
non avere secondi fini. Dovrò fidarmi, immagino.”
“Non
ti piace l'idea di una storia?”
“Al
momento, è l'ultimo dei miei pensieri. A dire il vero, ne sono
allergica.”
“Confermo
ciò che ho detto: sei strana.”
Trascorsero
i minuti restanti a scambiarsi provocazioni, fino a che non giunsero
a destinazione. Non appena Ingie scese dalla macchina, i cani le
corsero in contro, per poi alzarsi su due zampe ed accoglierla con
entusiasmo.
“Avete
dovuto sopportare i vostri padroni alle prese con un Mascara, vero?”
cantilenò la mora, inginocchiatasi per carezzarli uno ad uno. “Che
mondo crudele, eh?”
“Già,
questo è un mondo seriamente crudele.” borbottò Tom, una volta
uscito dallo studio. “Tu.” disse poi, indicandola quasi
minaccioso. “Vieni con me.”
“Primo:
non mi dare ordini.” ribatté, ma il chitarrista la anticipò.
“Senti,
Bill è nel bel mezzo di una crisi isterica e ti posso assicurare che
non è un bello spettacolo. Perciò, possiamo rimandare gli insulti,
le frecciatine e l'odio represso?” si lamentò, mentre la afferrava
per la mano e la trascinava in casa. Georg li seguì, scuotendo
appena la testa. “Mi sono messo a rovistare nella spazzatura, okay?
Nella cazzo di spazzatura per quel cazzo di Mascara.” continuò a
predicare il chitarrista, mentre la conduceva in cucina.
“Parli
come uno scaricatore di porto.” commentò lei, ma lui la ignorò.
“Se evitassi di mettere sempre mano nella roba altrui...”
“Io
stavo solo facendo pulizia!”
“Da
quando Piggy fa pulizia?”
La
fulminò con lo sguardo.
“Quando
ti ci metti, sai essere proprio fastidiosa.”
Lei
roteò gli occhi e scrollò velocemente le spalle, non troppo
interessata a ciò che aveva da dire sul suo conto. Piuttosto, era
curiosa di sapere quale fosse la ragione per cui Tom l'avesse presa
in modo così rude.
“Esattamente,
cosa vuoi che faccia?” domandò sinceramente perplessa.
“Tu
sei brava nelle lavate di capo, no? Bene, renditi utile e vai a
spegnere quella radio di mio fratello.”
Ingie
inarcò le sopracciglia.
“Come,
prego?” domandò esterrefatta.
“Hai
capito.” tagliò corto lui.
“Io
non faccio da balia a nessuno.”
“Ti
diamo asilo, ricordi?”
“Nessuno
mi ha mai parlato di fare da baby-sitter a quattro esseri ancora
affetti da crisi adolescenziale.”
“Divertente.
Ora, fila.”
“Sai,
vero, che parlarmi con quel tono non ti aiuta?”
Tom
chiuse gli occhi e si massaggiò lentamente le tempie, cercando di
prendere più aria possibile.
“Cortesemente,
potresti andare a parlare con mio fratello?” fece con sarcasmo.
“Mi
chiedo a cosa possa servire ma va bene.” decise di accontentarlo,
più per sfinimento che per reale gentilezza.
“Grazie
mille.” continuò a prenderla in giro, a denti stretti, ma lei
fece finta di nulla, per non ricominciare da capo con la discussione.
Anche lei aveva bisogno dei suoi spazi e trascorrere tutta la
giornata a litigare con Tom non era ciò che più la appagava.
Sospirando
pesantemente, uscì dalla cucina e, con passo strascicato, salì le
scale.
Com'era
finita in quella situazione? Possibile che più cercasse di tirarsi
fuori dalle questioni, più vi si invischiava, in un modo o
nell'altro? Che idea si era fatto Tom? Cosa credeva che potesse dire
a Bill? Quella situazione le pareva assurda, ancora di più montare
un intero show per un semplice Mascara che – con tutti i soldi che
possedeva – si sarebbe potuto ricomprare con uno schiocco di dita.
Bussò
alla porta della stanza di Bill ed aspettò che questo le rispondesse
con un grugnito. Non attese il permesso per entrare; lo fece e basta.
“Bene,
facciamola breve, perché non sono un tipo da psicanalisi. Perché
frigni per un dannato Mascara?” parlò, del tutto priva di tatto,
come sempre.
Bill,
che era seduto sul suo letto a testa bassa, sollevò lo sguardo cupo
su di lei.
“Ti
ha spedito qui mio fratello? Digli pure che non mi serve la
baby-sitter.” rispose con astio.
Ingie
incrociò le braccia al petto.
“Senti,
principessa, anche io ho il mio bel da fare e ti assicuro che
non mi entusiasma l'idea di ascoltare un mucchio di lamentele inutili
da parte di quattro ragazzini. Per questo motivo, o sputi il rospo e
mi dici cosa ti ha fatto reagire così – perché sono convinta che
non si tratti solamente di uno stupido Mascara – o ti lascio qui e
mi vado a fare un giro, cosa che in questo momento apprezzerei molto
di più.”
Attese
qualche secondo, battendo un piede per terra.
“David
ci ha rimproverato.” mormorò il vocalist, senza guardarla.
“Oh,
fine, ci hai messo meno del previsto a cedere.” si avvicinò,
fino a sedersi sul letto, di fronte a lui. “Mi chiedevo quanto
tempo avresti impiegato per dire la verità.” disse quasi con
superficialità, come avesse risolto il quiz più semplice del mondo.
“Sai,
mi irrita il fatto che capisci sempre tutto.” borbottò lui,
guardandola di sottecchi. La mora sollevò le spalle.
“So?”
lo incoraggiò, come impaziente.
“Ci
ha praticamente detto che siamo degli scansafatiche.”
Ingie
si prese qualche attimo per riflettere.
“Sicuro
di volere un mio parere?” domandò.
“No.”
rispose lui, secco. “Dice che non stiamo lavorando sul nuovo disco
e che presto la gente ci dimenticherà. Ci ha parlato in modo
veramente brusco, come non aveva mai fatto.”
Ora
che ci pensava, Ingie non aveva più visto David girare per lo studio
di registrazione. Sapeva che aveva la sua famiglia, ma solitamente
passava ogni giorno a controllare la situazione. Il fatto che non vi
si fosse ancora presentato era piuttosto sospetto. Che ci fosse
qualcos'altro?
“Beh,
cominciate a lavorare.” concluse semplicemente.
“Ingie,
ci siamo presi un periodo di pausa. Abbiamo appena finito un tour.
Siamo sfiniti! E poi non è la prima volta che lo facciamo e David è
sempre stato d'accordo.”
“Magari
non era d'accordo ma non ve l'ha mai detto.”
“No,
per me c'è qualcosa dietro.”
Ingie
lo osservò qualche istante in silenzio.
“Bene,
mentre tu ti diverti a fare l'allegro investigatore, perché non
smetti di tormentare tuo fratello con la storia del Mascara?”
parlò, quasi allegra. “Tanto è tutta una montatura per scaricare
il nervosismo, no? E, tanto per dire, fossi in te ne parlerei con
lui.” Si alzò dal letto e si diresse alla porta, contenta di aver
fatto tutto in brevissimo tempo.
“Ingie.”
la chiamò il vocalist, facendola voltare nella sua direzione. “Sei
un vero disastro per queste cose.” commentò. “Ma apprezzo il
gesto.” sorrise.
***
Fece
saltare con poca grazia il tappo della bottiglia di birra che aveva
appena tirato fuori dal frigorifero, troppo bisognoso di mandare giù
certi pensieri, assieme ad un po' di alcol. Bevve a canna, senza
curarsi di Georg, che sedeva al tavolo, vicino a lui, e lo osservava
con interesse.
“Hai
intenzione di ubriacarti in pieno giorno?” gli domandò, per niente
preoccupato.
Il
chitarrista deglutì un altro sorso di birra prima di rispondere.
“Ho
solo bisogno di una distrazione.” borbottò, senza degnarlo di uno
sguardo.
“Già,
è da un po' che non porti una ragazza allo studio.” sorrise appena
il rosso, osservando l'amico di sottecchi. Tom fece di tutto per non
incrociare il suo sguardo. “Qualcosa a che vedere con Ingie?”
domandò poi, malizioso. Il chitarrista tirò talmente di fretta il
fiato che la birra gli andò di traverso, facendolo tossire in modo
compulsivo. Gli occhi gli lacrimarono ed il colore della pelle sfumò
in un rosso acceso, dallo sforzo, mentre il bassista gli batteva una
mano sulla schiena. “Toccato un tasto dolente?”
“Ma
che ti salta in testa?! Chi la vorrebbe mai quella strega! Hai per
caso visto come mi tratta?” obiettò il moro, decisamente indignato
per quell'assurda insinuazione.
Ingie
era una bella ragazza, solo un cieco non lo avrebbe ammesso. Questo
non faceva di lei una persona adorabile. Raramente nella sua vita
aveva avuto modo di conoscere persone tanto irritanti e scontrose e
lei, con il suo caratterino odioso, non lo aveva di certo rapito.
Ovvio, lo incuriosivano la sua vita, la sua riservatezza e ciò che
si ostinava a nascondergli, ma lui era solito cercare ragazze
dall'attitudine decisamente differente e meno sgraziata. A volte, se
non fosse stato per il seno mediamente prosperoso – sì, non aveva
fatto a meno di notarlo – faticava a credere che fosse una donna.
Lui aveva bisogno d'altro, non di certo di una ragazza dal ciclo
mestruale permanente che gli urlasse ogni giorno quanto fosse
imbranato.
“Non
sarà proprio questo suo modo di fare ad attrarti?” insistette
Georg e Tom cominciava ad innervosirsi.
“Georg,
non sono ancora diventato masochista.” rispose, per poi
riattaccarsi alla bottiglia.
“Quindi
mi vuoi dire che non ti sei mai fatto un pensierino su di lei?”
indagò ancora il rosso, probabilmente convinto di estorcergli
qualche strana verità. “Nemmeno uno piccolo, piccolo?”
“Se
vuoi sapere se ho mai sognato di farci sesso, la risposta è no.”
tagliò corto, per poi bere l'ultima goccia di birra rimasta nella
bottiglia. “Il suo caratteraccio non mi eccita nemmeno un po'.”
“Non
mi riferisco semplicemente al sesso, Tom.”
“Hobbit,
qualsiasi cosa tu stia ingegnando in quella tua testolina bacata, non
provo niente per Ingie.”
“Allora
non ti dispiacerà sapere che stasera cena con Ivan.”
Ci
furono un paio di secondi di silenzio, in cui Tom cercò di
analizzare ciò che aveva appena udito. Aggrottò le sopracciglia ed
osservò il rosso, stranito.
“Cosa?”
domandò esterrefatto.
Georg
gli puntò velocemente un dito contro.
“Ah-ah!”
urlò, con tono incriminante. “Lo sapevo!”
“Non
cominciare a montarti la testa, mi sono stupito solo perché si
tratta di Ivan.”
“E
perché mai dovrebbe stupirti, sentiamo?”
“Perché
si è lasciato da un mese con la ragazza che voleva sposare. Mi
rimane un po' strano da pensare che ora ci provi con Ingie, non
credi? Soprattutto che le piacciano donne dal caratterino così...
Sofisticato.”
“Beh,
qualcosa di buono ci avrà visto, no?” Georg si diresse verso il
salotto ma, prima di uscire dalla cucina, si voltò appena verso Tom.
“In ogni caso, lei non sembra molto interessata ad intraprendere
una relazione, se ti può tranquillizzare.” parlò.
“Georg,
mi hai stufato con questa storia. Ti ho detto che non me ne può
fregar di meno di quella strega, formato ragazza affascinante.”
“Ora
sei tu che fraintendi, io lo dicevo per Ivan.” sorrise furbo il
rosso, prima di sparire.
***
Stava
sbagliando tutto.
Si
guardava allo specchio, intenta ad indossare un tubino nero – di
qualche centimetro al di sopra delle ginocchia – e si sentiva
un'ipocrita.
Perché
si era cacciata in quella situazione? Sapeva che non sarebbe riuscita
ad evitarla perché, per quanto testarda, distaccata e rude fosse,
non era insensibile. Ivan le era sembrato così trasparente e quasi
ingenuo che rifiutare il suo invito le sarebbe parso una cattiveria
immane.
Ed
ora si era pentita. Una serie di regole che si era prefissata a
confermarle la tesi.
Primo:
mai uscire con un datore di lavoro, era una questione di principio.
Secondo: mai dare false speranze al prossimo per non ferire i suoi
sentimenti. Terzo: mai, e di nuovo mai, agire contro il proprio
volere.
In
pochi attimi aveva infranto ben tre principi fondamentali che si era
da sempre imposta e non ne conosceva nemmeno il motivo.
Istintivamente
portò lo sguardo sul suo cellulare, posato sul comodino affianco al
letto, dallo schermo nero. Si avvicinò e, deglutendo appena, accese
il display.
Non
aveva più ricevuto messaggi o chiamate da parte di Luke e la cosa un
po' la rincuorava, benché dall'altra parte si sentisse un'immensa
egoista.
Finì
di sistemarsi i capelli sciolti sulle spalle e diede un'occhiata al
trucco. Una passata di Mascara ed un leggero strato di gloss era
tutto ciò che si era applicata; non voleva rendere l'idea di una
ragazza particolarmente interessata o entusiasta per quella cena.
Indossò le scarpe col tacco che si era permessa di acquistare grazie
ai suoi guadagni ed aprì la porta della stanza.
Si
spaventò quando per poco non urtò il corpo di Tom, che era proprio
in corridoio, forse diretto alla sua camera da letto.
“Piggy!”
esclamò. Tom non le rispose, semplicemente la osservò con
attenzione da capo a piedi.
“Deve
proprio piacerti Ivan, se sei arrivata ad indossare qualcosa di
femminile.” la stuzzicò.
Pareva
in ogni caso sorpreso.
“Non
è per Ivan, ho semplicemente sfruttato l'occasione. E comunque non
mi offendi.” sorrise furbescamente, picchiettandogli un dito sul
petto.
Inaspettatamente,
il chitarrista le afferrò la mano per immobilizzarla.
“Ti
conviene fare attenzione a come ti comporterai stasera. Ivan è una
persona che, quando si innamora, si annulla completamente. Perciò,
se non ti interessa, non lo illudere.” la mise in guardia, con il
viso decisamente più vicino di quanto si aspettasse.
Si
liberò dalla sua presa e lo fulminò con lo sguardo.
“Ho
vent'anni, Tom. So esattamente come comportarmi.”
Il
chitarrista storse il naso.
“Mhm,
sei ancora piccina.” commentò con un lieve sorriso.
“Come
se non ci fossero solo tre anni fra noi.” obiettò, senza
interesse, mentre si lisciava il tubino lungo il corpo. “Ora vado.”
disse poi, posando nuovamente lo sguardo su di lui, prima di
avvicinarsi alla scala. “Buona serata.” disse con disinteresse,
per poi cominciare a scendere i gradini, facendo attenzione ai dodici
centimetri in più di altezza che – se lo sentiva – avrebbero
potuto farle perdere l'equilibrio da un momento all'altro.
Contro
ogni aspettativa, riuscì a raggiungere il piano inferiore, dove un
Gustav piuttosto allegro si divertiva a giocare con Scotty, il cane
nero, con il suo pupazzo preferito, a forma di orsacchiotto.
Sorrise
spontaneamente.
“Non
hai già un bel da fare con gli altri bimbi?” gli domandò,
ammirata. “Certo, capisco che un cane possa essere più
intelligente e divertente di Piggy o Redhead o Speedy.”
continuò, facendo ridere il batterista.
“Brava,
hai capito bene.” Si sollevò in piedi e si girò ad osservarla,
rimanendo per qualche attimo a bocca aperta. “Sei bellissima.”
fece stupito.
“Grazie.”
rispose lei, soddisfatta. Un complimento da parte di Gustav era
sempre bene accetto. Proprio in quell'istante, il citofono trillò,
segnalando l'arrivo di Ivan. Per mezzo secondo le mancò il fiato,
cosa del tutto inaspettata. Si sentiva tremendamente nervosa; a dire
il vero non vedeva l'ora che quella serata giungesse al termine e
sperava con tutto il cuore che il tempo passasse il più velocemente
possibile. Finì di abbottonarsi il cappotto che recuperò
dall'appendi abiti e poi salutò Gustav con due pacche sulla testa,
come fosse anche lui un cagnolino. “Ciao, biondo. A più tardi o a
domattina.”
Sperava
tanto che fosse la prima opzione.
Camminò
lungo il vialetto della villa stringendosi nelle braccia, a causa
dell'aria piuttosto pungente di Berlino. Quella sera faceva
particolarmente freddo e se già si era pentita di aver indossato un
tubino, ora cominciava a maledirsi.
Prese
un bel po' di fiato, prima di raggiungere Ivan, che l'attendeva fuori
dal cancello.
Non
appena la vide, sorrise ammirato.
“Ciao.”
la salutò sereno. “Stai benissimo.” si complimentò compiaciuto,
studiandola da capo a piedi, cosa che la mise tremendamente a
disagio. Forzò un sorriso.
“Grazie.”
“Sali.”
la invitò, mentre le apriva la portiera da bravo galantuomo.
Ingie
non era più abituata a tali attenzioni e premure e, se in un altro
momento le avrebbe apprezzate, ora si sentiva solamente infastidita.
Perché cominciava a sviluppare quello strano sentimento? Le piaceva
Ivan, le stava anche simpatico. Eppure da quando l'aveva invitata a
cena, dentro di lei era mutato qualcosa, così come il suo
atteggiamento. Ed era proprio per quel motivo che avrebbe fatto bene
a declinare perché sapeva che al lavoro, nei giorni seguenti, si
sarebbe comportata in maniera decisamente differente con lui.
Era
riuscita a trovare una buona situazione, un buon equilibrio ed il
fatto che si stesse sfasando le stava rovinando i piani. Forse si
stava anche costruendo tanti castelli nella testa e pregava che fosse
così, ma qualcosa le diceva che non sbagliava.
***
Tavolo
appartato, lento di sottofondo, luci offuscate.
Doveva
ammettere che quella cena sembrava tutto fuorché amichevole.
Appena
avevano fatto ingresso nel ristorante, particolarmente lussuoso –
cosa che stupì non poco Ingie –, si era resa perfettamente conto
che la situazione stava degenerando. Ivan non aveva fatto altro che
rassicurarla sulle sue intenzioni, ma non poteva togliersi dalla
testa quel dubbio. Era fin troppo evidente che il ragazzo provasse
qualcosa per lei. Che fosse solo attrazione fisica, non poteva in
ogni caso accettarlo.
Tuttavia,
durante il pasto, non aveva fatto altro che comportarsi nel modo più
spontaneo possibile.
“Perché
non mi racconti come mai sei venuta a vivere in Germania? Ce ne vuole
di coraggio per fare una scelta simile.” parlò Ivan, mentre
tagliava la sua bistecca ai ferri.
“Volevo
semplicemente cambiare aria.” tagliò corto lei.
“Dai,
non ci credo. Se vuoi cambiare aria te ne vai in un paesino accanto
al tuo.” sorrise il biondo.
“Non
mi sarei accontentata.”
“Sei
una ragazza pretenziosa?”
“Quando
occorre.”
“Anche
in fatto di ragazzi?”
“Soprattutto.”
Sperava che capisse l'antifona ma lui non sembrò scomporsi più di
tanto. Continuava a sorridere compiaciuto, come se quella
conversazione lo stesse divertendo particolarmente, e ingeriva
bocconi di carne ad ogni pausa. “Sai, Ivan, io sono una ragazza
molto difficile. Se decido di non innamorarmi, posso farlo.”
Ivan
sorrise e scosse la testa.
“No,
Ingie. Non puoi decidere di chi innamorarti. Lo fai e basta.”
Si
prese qualche secondo prima di rispondere.
“Beh,
al momento, non mi interessa.” mise subito in chiaro. Voleva a
tutti i costi che Ivan capisse che non poteva fare nulla per
conquistarla. Non era pronta.
“Sai,
da un mese mi sono lasciato con la mia ex. Ho sofferto tantissimo ma
col tempo ho capito che non faceva per me e che Tom aveva
perfettamente ragione a mettermi in guardia. Sono stato stupido. E
tutto perché mi ero innamorato incondizionatamente. Ora ho paura di
commettere di nuovo lo stesso errore.” spiegò ed Ingie non
riusciva a capire dove volesse arrivare. “Se anche a te è successa
la stessa cosa, sappi che è normale.”
Sgranò
gli occhi.
“Come?”
domandò irrequieta.
“Sì,
insomma, se ti sei lasciata con il tuo ragazzo perché ti ha deluso,
è normale avere paura.”
“Non
è successo niente di tutto questo.” Aveva improvvisamente cambiato
umore. La piega che aveva preso quel discorso non le piaceva per
niente e ciò che aveva insinuato della sua vita privata le aveva
dato molto fastidio. Nonostante intendesse essere carino con lei e
conoscerla, non poteva pretendere di leggerle la vita. “Non ti ho
neanche mai detto di essermi lasciata con qualcuno o di essere
fidanzata, come puoi pretendere di sapere ciò che ho vissuto o che
vivo?” sbottò. “Potrei essere impegnata, non avere mai avuto un
ragazzo, essere lesbica o volermi fare suora. Non sai niente di me ed
odio quando la gente pretende di sapere tutto.”
Il
viso di Ivan si era contratto in una smorfia allibita e dispiaciuta
allo stesso tempo. Forse aveva esagerato a parlargli a quella
maniera, ma aveva inglobato così tanto nervosismo che ora era pronto
ad esplodere.
Cominciava
a sentirsi in colpa.
“Scusa.”
mormorò il ragazzo. “Non volevo essere presuntuoso.”
“No,
scusami tu. Non avrei dovuto.” Trascorsero qualche minuto in
silenzio, fino a che Ingie non decise di rimediare. “Beh, beviamoci
su.” disse quindi, versando del vino bianco nel bicchiere del
ragazzo, cui tornò il sorriso.
“La
tua famiglia è rimasta in America?” continuò quindi Ivan, dopo
aver sorseggiato un po' di bevanda fresca.
Ingie
deglutì appena.
“Ehm,
sì.” rispose, vagamente.
“E
come l'hanno presa, questa tua decisione?”
“Bene.”
mentì. Non si sentì di aggiungere altro. Finché si trattava di
essere vaga, non aveva problemi, ma mentire e ricamare una bella
storia di pura invenzione era una cosa che non sapeva proprio fare.
“Magari,
un domani, decideranno di raggiungerti.”
Ingie
sorrise amaramente.
“Sì.
Forse.”
***
Non
aveva parlato molto.
Lui
e suo fratello Bill avevano chiarito – era anche venuto a
conoscenza della vicenda con David, per cui si sentiva molto inquieto
– ed ora sedeva affianco a lui a tavola, ad ascoltarlo
distrattamente, senza sollevare lo sguardo dal proprio piatto.
Ripensava
alle parole di Georg di quel pomeriggio ed a quanto gli dessero
fastidio. Non voleva che si insinuasse in giro che lui fosse attratto
da Ingie, perché non era così. Per essere precisi, non se ne
sentiva attratto dal punto di vista mentale; era ovvio che
fisicamente l'avesse rapito sin dal primo giorno in cui l'aveva
conosciuta, affianco al ponte. I capelli scuri, gli occhi dal taglio
a mandorla – un po' come i suoi –, color cioccolato; la bocca
lievemente carnosa, i lineamenti regolari ed il corpo longilineo.
Quella sera era rimasto folgorato dalla sua figura elegante,
nonostante non glielo avesse detto.
Insomma,
aveva sicuramente tutte le carte in regola per incarnare il suo tipo
di ragazza ideale, se non fosse stato per quel suo carattere
incomprensibile. Doveva ammettere che ne era incuriosito, ma niente
di più.
“Secondo
me, stasera succede qualcosa fra Ingie ed Ivan.” sorrise Gustav,
eccitato. Tom sollevò un sopracciglio con sarcasmo. “Era
bellissima; l'avrà di sicuro fulminato.”
Sperava
che il suo amico non si fidanzasse con una ragazza così scontrosa,
acida e grezza. Non avrebbe sopportato l'idea di fare loro da
testimone di nozze.
“Ho
i miei seri dubbi, lei non sembra intenzionata ad intraprendere una
relazione, al momento.” intervenne Georg, rimescolando la sua
insalata – quella insistentemente richiesta dalla ragazza, per
una dieta sana ed equilibrata, come continuava a ripetere ogni
volta che facevano la spesa.
“E
perché mai? È una bella ragazza, sarebbe un peccato.” disse la
sua Bill.
“Sì
ma ha anche un caratterino niente male.” gli ricordò il
chitarrista. “Per stare con lei ci andrebbe la pazienza di nostra
madre.”
“Beh,
Ivan è un ragazzo molto paziente.”
“Sì,
ma a volte rischia di essere appiccicoso.” parlò di nuovo Georg.
“E Ingie è troppo indipendente e solitaria per lui. Lo farebbe
solo soffrire.”
“Per
assurdo, lei e Tom hanno lo stesso carattere.” rise il batterista.
“Non
osare paragonarmi a lei.” borbottò il moro.
“È
la verità, Tom. Accettala.” lo stuzzicò il biondo. “In ogni
caso, non mi dispiacerebbero come coppia Ingie ed Ivan. Penso che
Ivan si meriti un po' di serenità, dopo l'ultima delusione che ha
avuto.”
Tom
si astenne dal commentare.
***
Non
appena il motore si spense, si voltò verso Ivan.
“Grazie
per la serata.” disse con un sorriso sincero. “Dopotutto, sono
stata bene.”
“Perché
dopotutto?” le domandò, divertito.
“Perché
sai benissimo che ho preso questa cena come una semplice serata fra
amici.” rispose, lanciandogli un'occhiata eloquente.
“Certo,
è quello che ho detto anch'io, fin dall'inizio.”
“Beh,
Tom mi ha detto che avrei fatto bene a non illuderti ed è quello che
sto facendo.”
“Tom
ti ha detto questo?”
“Sì,
ma l'ha fatto per il tuo bene. Perché ti conosce ed ha voluto
semplicemente proteggerti da un'ulteriore delusione. D'altronde, me
ne hai parlato tu stesso, no?”
Ivan
si voltò verso la strada con un piccolo sospiro.
“Quindi
mi stai dicendo di mettermi l'anima in pace?” domandò, quasi
abbattuto. Ingie soffrì nel vederlo così.
“Per
ora, è la cosa migliore per tutti e due. Ed è meglio per te, prima
che la questione possa farsi più seria.”
“La
verità è che tu mi attrai parecchio fisicamente e stasera ho
cercato di conoscerti caratterialmente e non mi sembravi poi così
male.”
Ingie
ridacchiò appena.
“Non
ti sembravo così male? Che complimento.” scherzò, per niente
offesa.
“Diciamo
che cominciavi ad interessarmi. Perciò, penso tu abbia fatto bene a
mettere subito le cose in chiaro. Ti ringrazio.” ammise, sincero.
Tutto
ciò stupì Ingie. Ivan si era rivelato un ragazzo estremamente
maturo – cosa rara fra gli uomini – ed il fatto che non se la
fosse presa ed avesse accettato il rifiuto con dignità ne erano
prove più che evidenti.
“Figurati.”
rispose sorpresa. “Comunque, ora vado.” disse poi, aprendo la
portiera. “Grazie ancora. Buona notte.” sorrise prima di
richiuderla ed avviarsi al cancello dello studio.
***
Era
tremendamente annoiato. L'intero studio dormiva e lui era ancora in
salotto, davanti al televisore che trasmetteva muto uno strano canale
di musica. Non aveva sonno, ma non aveva nemmeno più voglia di
starsene lì da solo a far nulla.
Con
un gran sospiro, spense la TV, per poi lanciare il telecomando sul
divano dal quale si era appena alzato. Con poca grazia, distese i
muscoli, sbadigliando appena, poi – con passo strascicato –
raggiunse la rampa di scale. Salì ogni gradino con lentezza
disarmante, fino a che non raggiunse il piano superiore, dove la sua
camera da letto lo attendeva pazientemente. Giunse quasi a
destinazione, quando una luce proveniente dalla stanza di Ingie
attirò la sua attenzione. Poiché non era ancora tornata, si disse
che l'aveva lasciata accesa, prima di uscire.
Sbuffò
ed aprì la porta già socchiusa, guardandosi attorno. La stanza,
come previsto, era vuota e la luce che aveva precedentemente scorto
apparteneva alla lampada che teneva sul comodino, affianco al letto.
Si avvicinò per spegnerla, ma il suo sguardo fu attratto da un
ulteriore dettaglio. Da sotto il cuscino, sbucava un angolo di quella
che doveva essere una foto.
Sapeva
bene che avrebbe dovuto far finta di nulla, non impicciarsi delle
cose altrui, soprattutto di Ingie – così misteriosa ed irascibile
– ma sapeva anche che la sua curiosità l'avrebbe mangiato vivo,
così si disse che una sbirciatina non avrebbe fatto del male a
nessuno e, soprattutto, Ingie non l'avrebbe mai saputo.
Sollevò
appena il guanciale, tanto quanto bastava per tirarne fuori la
fotografia.
Ciò
che vide gli fece aggrottare le sopracciglia. La foto ritraeva un
ragazzo in primo piano – avrà avuto all'incirca la sua età –,
che sorrideva dolcemente all'obbiettivo. Occhi castani e capelli del
medesimo colore. Si chiese chi potesse mai essere e quale fosse il
motivo per cui Ingie teneva quella foto sotto il cuscino, come fosse
una reliquia.
“Che
cosa stai facendo?!”
Si
voltò, spaventato, così velocemente verso la porta – dove
un'Ingie furibonda lo squadrava – che la foto cadde pericolosamente
a terra.
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Capitolo 9 *** Eight - Something about you ***
jbjkb
Eight
Something
about you
Quando
l'aveva sorpreso di spalle, non sapeva cosa stesse facendo; ma quando
si voltò verso di lei e vide cadere a terra la fotografia, sentì
solo una rabbia cieca impossessarsi del suo corpo e della sua testa.
La pelle cominciò a prudere e la gola le si chiuse, impedendole di
respirare.
Con
le lacrime agli occhi si avvicinò velocemente a Tom, il quale si
ritrasse appena con fare automatico, e raccolse dal pavimento la
foto, che strinse forte al petto.
“Chi
ti ha dato il permesso di curiosare?!” urlò fuori di sé, contro
il ragazzo che continuava a scrutarla, con la preoccupazione negli
occhi. Sembrava addirittura impaurito ma non poteva sapere il motivo,
non riusciva a guardarsi in viso. “Perché sei qui?!” Lo spinse
appena sul petto, con la mano libera.
“Ero
venuto a spegnere la luce che tu avevi lasciato accesa, tutto
qua! Non ti sembra di esagerare?” ribatté lui esterrefatto.
Ingie
strinse i denti, mentre reprimeva l'istinto di correre via.
“Vattene.”
sibilò fra i denti.
“Senti,
Ingie...”
“Ho
detto, vattene!”
Il
chitarrista non se lo fece ripetere una terza volta e la lasciò
presto sola nella sua stanza vuota, dopo aver chiuso la porta.
Questa
volta, non impedì alle lacrime di tracciare il proprio sentiero
lungo le sue guance. Questa volta, con il suo viso fra le
mani, si concesse un lungo pianto, stringendosi la foto al petto,
dove il tatuaggio bruciava.
***
Non
aveva chiuso occhio. Era tempo che non trascorreva nottate così
tormentate ed insonni. Aveva ripensato per ore a ciò che era
successo in camera di Ingie, alla sua reazione – a sua veduta così
spropositata. Eppure, sentiva che c'era dell'altro dietro. Aveva
scorto le sue lacrime, il dolore che cercava di celare al di là dei
suoi occhi. Aveva visto le sue mani tremare così come aveva sentito
il suo respiro accelerare drasticamente.
Quella
non poteva essere una semplice foto. Per lo meno, chiunque fosse quel
ragazzo che vi aveva visto ritratto, non poteva avere un trascorso
del tutto comune o Ingie non si sarebbe messa ad urlare a quella
maniera.
Era
strano: si sentiva in colpa. Si era reso conto di aver violato –
pur senza intenzione – la privacy della ragazza, forse risvegliando
in lei sentimenti che faticava a nascondere a chiunque le si
presentasse davanti. Sentiva di aver sgretolato un pezzo di muro che
si era costruita attorno e non era sicuro che l'avrebbe perdonato
tanto presto.
“Ho
sentito Ingie urlare, stanotte. Perché ho il tremendo sospetto che
tu c'entri qualcosa?”
Chiuse
gli occhi, senza voltarsi in direzione di suo fratello, sulla porta
della cucina. Già lo immaginava scrutarlo con fare superiore, le
braccia conserte ed una ramanzina fresca di elaborazione nella testa.
Sicuramente non vedeva l'ora di predicargliela contro.
“Senti,
Bill, non ti ci mettere anche tu, per favore.” sospirò, mentre si
rigirava la tazza di tè fra le mani. Si voltò sulla sedia in modo
tale da non dover vedere suo fratello. “Ho già passato una nottata
di merda, senza che tu ti ci metta.” continuò, dopo aver
sorseggiato un po' di liquido caldo.
“Sì?
Beh, immagino che anche Ingie abbia passato una nottata non del tutto
tranquilla. Quindi non fare la vittima.”
Si
voltò di scatto verso il vocalist, sentendo la rabbia rimontare.
“Perché
incolpi subito me, senza nemmeno sapere cosa sia successo?!”
esclamò, furente.
“Perché
sono sicuro che Ingie non sia ancora così pazza da urlare da sola!”
“Sai
che c'è, Bill? Continua a difendere lei ed accantonare tuo fratello.
Non mi interessa.”
“Oh,
non provare a metterla su questo piano, ora. Ti conosco fin troppo
bene.”
“Pare
di no, invece.”
“Mi
vuoi dire che tu non c'entri nulla con quello che è successo ieri
sera?”
“Se
mai ci dovessi entrare, non era mia intenzione!”
“Vedi
che non sei innocente?!” Tom stava per ribattere, stavolta pronto a
lanciare la tazza, ma si fermò in tempo non appena sentì dei passi
scendere per le scale. Attesero qualche istante, fino a che Ingie non
fece il proprio ingresso in cucina. Tom sentì una fitta allo
stomaco, quando vide il suo sguardo posarsi irato sulla sua figura.
Non appena lo scorse, la notò irrigidirsi appena, ma non disse una
parola. “Buongiorno, Ingie.” la salutò Bill.
“Ciao.”
tagliò corto lei, mentre recuperava una tazza dalla credenza.
Tom
non disse una parola. Non si sentiva di dirle nulla. Qualsiasi cosa
avesse fatto, sapeva che sarebbe apparsa fuori luogo e che lei
avrebbe usato un pretesto qualsiasi per insultarlo.
“Com'è
andata la cena, ieri sera?” domandò il vocalist, come se nulla
fosse. Tom invidiava la sua disinvoltura.
“Bene.”
si limitò a rispondere la ragazza, una volta sedutasi al tavolo,
proprio di fronte al chitarrista. Non l'aveva degnato di uno sguardo,
mentre il suo era perennemente posato sulla sua figura per cercare di
scorgerne il minimo cambio di espressione, la minima movenza.
La
vide improvvisamente guardarsi attorno, sul tavolo, in cerca di
qualcosa di ignoto. Suppose che stesse cercando lo zucchero, così lo
afferrò e glielo porse, in silenzio. Ingie lo osservò in viso, solo
per la seconda volta da quando aveva messo piede in cucina, e dopo
una breve esitazione ed uno sguardo di puro odio, afferrò
bruscamente la confezione.
Ovviamente,
nessun grazie. Non che se lo aspettasse.
“Vi
rivedrete?” continuò ad informarsi Bill, cercando di ignorare
quella situazione zelante.
Ingie
storse appena la bocca.
“Penso
che continueremo a vederci solo al lavoro.” disse, mentre girava il
cucchiaino nel tè. “Ho messo le cose in chiaro. Non volevo
illuderlo.” A quell'ultima affermazione sollevò lo sguardo freddo
su Tom, il quale comprese che aveva ripensato all'avvertimento che le
aveva dato, prima della cena. “In ogni caso, non ne voglio più
parlare. È stata una parentesi.”
Bill,
nonostante fosse chiaro che non era soddisfatto di quella risposta,
si arrese.
“Allora
io vado da David.” annunciò quindi e Tom vide Ingie saltare sul
posto, con la tazza ancora alla bocca.
“Mhm!”
esclamò, ingoiando di fretta il liquido bollente, che le fece
strizzare gli occhi. “Aspetta, vengo con te.”
Bill
si voltò verso di lei con sguardo perplesso.
“Non
ti doveva accompagnare Tom, stamattina?” chiese.
Ingie
sembrava scocciata.
“Preferisco
scendere in macchina con te, dato che stai già andando.” spiegò,
poco convincente. Tom nemmeno li guardò, si era semplicemente messo
a fissare il vetro della finestra con disinteresse.
“D'accordo.”
concluse Bill, non prima di aver lanciato un'occhiata a suo fratello.
“Ciao, Tom. A dopo.”
Tom
non rispose; semplicemente attese che la cucina si svuotasse per
tirare un sospiro di sollievo. Tutta quella tensione cominciava ad
ucciderlo.
Si
alzò dalla sedia e, dopo aver lavato la tazza, si diresse in
salotto, dove i suoi amici a quattro zampe lo attendevano privi di
rancore.
***
Era
in silenzio da qualche minuto. Non sapeva cos'avrebbe potuto dire.
Bill,
accanto a lei, guidava con un'espressione apparentemente serena e
tranquilla, mentre lei navigava nell'inquietudine.
Aveva
trascorso la nottata a ripensare alle sue urla nei confronti di Tom.
Doveva ammettere di non essere stata carina e delicata, ma non
riusciva ancora ad accettare che lui l'avesse visto. Portava avanti
la sua vita a nascondere quella foto alla vista degli altri; voleva
cercare di preservare la sua immagine, il suo viso. Voleva
egoisticamente che fosse un qualcosa di concesso solamente a lei,
perché ne aveva il diritto e se ne sentiva unica proprietaria.
Sapeva che sbagliava, ma non poteva farne a meno.
In
ogni caso, quel silenzio le stava dando alla testa, così decise di
parlare.
“Cercherai
di indagare con David?” domandò, senza guardarlo.
“Beh,
per lo meno, proverò ad estrapolargli uno straccio di indizio. Non
l'ho più visto dalla discussione e non riesco a capire perché si
stia comportando a questa maniera.” rispose il vocalist,
picchiettando nel frattempo le dita sul volante, con fare nervoso.
“Tu invece?” le chiese poi, guardandola di sottecchi. La mora si
sentì tirata ingiustamente in causa.
“Io,
cosa?”
“Ora,
per quanto tempo hai intenzione di non rivolgere la parola a mio
fratello? Comprendo che sia un completo disastro ma... La situazione
è tanto grave?”
Ingie
sospirò appena. Doveva immaginare che Bill sapesse. Si domandava
invece chi non avesse udito le sue urla, la sera prima.
“Ha
ficcato il naso dove non doveva.” mormorò, cupa in volto.
“Niente
di nuovo, allora.” rispose come niente fosse Bill, con un sorriso.
Sapeva
che voleva farle intendere che stava esagerando, ma non gli volle dar
tale soddisfazione ed attese che la macchina si accostasse al
marciapiede per parlare di nuovo.
“Non
fare il sapientone con me, Speedy. Vai prima a risolvere la
questione Manager Impazzito.” disse mentre scendeva dalla
macchina e richiudeva la portiera. “Buona giornata.”
Attese
che l'auto ripartisse e poi si diresse verso il negozio.
Un'ansia
inspiegabile si era appropriata del suo stomaco, all'idea di rivedere
Ivan. Si domandava se avesse metabolizzato il suo rifiuto, se fosse
arrabbiato con lei e avesse intenzione di non parlarle per tutta la
mattinata. Eppure, la sera precedente, si era dimostrato un ragazzo
intelligente, sveglio e – cosa più importante – poco invadente.
Invadenza.
Solo
la parola l'irritava a dismisura. Non era in grado di accettare un
qualcosa che si avvicinasse solamente a tale concetto. Per natura,
era una ragazza molto discreta e riservata; raramente le capitava di
interessarsi della vita della gente e non per puro menefreghismo,
quanto per semplice rispetto.
Fece
il proprio ingresso in negozio e si guardò attorno, in cerca del
capo.
“Buongiorno.”
le sorrise inaspettatamente, non appena la scorse, da dietro il
bancone.
“Hey.”
ricambiò appena Ingie, decisamente sorpresa da tale atteggiamento
disinvolto. Pareva non avessero mai cenato assieme, solo qualche ora
prima. “Già all'opera?” cercò di parlare con tranquillità.
Tutta quella situazione era quasi assurda e non sapeva se esserne
rincuorata o basita.
“Sì,
avevo voglia di mettere un po' a posto, così sono venuto prima.”
le disse, mentre faceva il giro del bancone e la raggiungeva. “Hai
dormito, stanotte? Hai una faccia decisamente sbattuta.” commentò
ironico, all'insaputa della ragazza.
Si
chiese se stesse adottando una sorta di psicologia inversa.
“Diciamo
che anche io ho avuto il mio bel da fare.” rispose, mentre posava
la borsa, e solo qualche secondo dopo si rese conto del doppio senso
di quella frase. “Ehm, intendo dire che ho avuto un piccolo
battibecco con Tom. Niente di nuovo.” si corresse, del tutto vaga.
Non era decisamente intenzionata a raccontargli ogni singolo
dettaglio di quella discussione; Ivan non doveva entrare nelle sue
questioni.
“Passate
molto tempo insieme tu e Tom.” notò il ragazzo, dandole intanto le
spalle. Aveva avvertito in quell'affermazione un pizzico di fastidio.
“Sì
ma il novantanove percento del tempo lo usiamo per litigare.”
Cominciò
a piegare qualche maglietta non ancora toccata da Ivan. Discorsi come
quello dovevano essere accompagnati da azioni concrete o non avrebbe
saputo dove mettere le mani. Era un limite che l'aveva sempre
perseguitata, sin dall'infanzia.
“Si
comincia sempre così.” commentò Ivan con cupo sarcasmo.
Ingie
si fermò e lo osservò con la fronte aggrottata. Che intendeva dire?
“Qualunque
cosa tu stia pensando, io e Tom non potremmo mai stare insieme.”
mise le cose in chiaro e non sapeva nemmeno lei il reale motivo.
D'altronde, non gli doveva niente. “Se io vedo nero, lui vede
bianco, è una legge naturale, ormai. E no, gli opposti si
attraggono non è una teoria in cui credo.”
“Beh,
mi viene da pensare che tu non creda in nulla perché non perdi
nemmeno tempo a conoscerle, le persone.”
Il
retrogusto amarognolo ed acido di quella supposizione le aveva
colpito direttamente il cervello. Non se l'era fatto sfuggire quel
tono seccato ed irritato, e non faticava a comprendere da cosa fosse
causato.
“Ivan,
ascolta, non devi farmene una colpa. Non è vero che non voglio
conoscere le persone. Ti ho spiegato che non voglio avere storie, al
momento.” spiegò nel modo più pacato possibile. Non voleva
rischiare di litigare anche con il suo datore di lavoro e correre di
conseguenza il rischio di venire licenziata.
“Non
è vero. Avresti potuto conoscermi di più ma non l'hai fatto. Non
puoi decidere quando innamorarti o meno, te l'ho già detto, ma tu
non vuoi capirlo. Rifletti: credi di conoscere così bene i tuoi
coinquilini?” Ormai si era inalberato ed era l'esatto risultato cui
non voleva arrivare. Eppure, quell'ultima domanda così chiara e
diretta l'aveva fatta ammutolire, consapevole. Era vero, non li
conosceva per nulla e non si era nemmeno impegnata a farlo. Ma cosa
poteva fare? Era la sua personalità, così testardamente chiusa e
riservata. “Ti potresti innamorare di chiunque, se solo lo
conoscessi un po', anche del più – da te reputato – improbabile.
Come Tom.” Si prese un secondo. “Come me.” abbassò il tono, a
quell'ultima ammissione, quasi con malinconia.
Ingie
si sentì tremendamente in difficoltà. Non le era mai capitato nella
vita di dover affrontare una situazione del genere, sul lato
sentimentale. Non avrebbe mai saputo come comportarsi ma non riuscì
a fare a meno di riflettere con attenzione su tutto ciò che le aveva
detto Ivan, fino a quell'istante. Si era sentita improvvisamente
piccola ed immatura, cosa rara per un tipo tutto pepe come lei.
Fortunatamente,
in suo aiuto, decise di giungere, come manna dal cielo, il primo
cliente della mattinata.
***
“Hey,
amico, non ti stai impegnando. Non sento la competizione.”
La
voce di Georg – così impegnato nel distruggere il
chitarrista attraverso un joystick, la lingua fra i denti a
testimoniare – non lo distrasse di certo dai soliti pensieri, che
ormai avevano occupato tre quarti della sua insignificante mattinata.
Si
sentiva irrequieto, decisamente instabile e non era uno stupido
videogioco, accompagnato da un imbarazzante hobbit sobbalzante al suo
fianco, la chiave per la sua spensieratezza.
Se
c'era una cosa che non riusciva ad accettare e comprendere era vedere
come quella dannata ragazza, terribilmente problematica ed
irrimediabilmente riservata, riuscisse ad essere protagonista di
buona parte dei suoi pensieri.
Non
poteva sentirsi in colpa per una semplice fotografia. Non poteva
sentirsi in colpa per lei.
Lui,
che di sensi di colpa non viveva.
Eppure
era così.
Quando
aveva accettato di giocare con Georg a quel maledetto videogioco,
aveva pensato di poter staccare momentaneamente la spina dalle sue
inutili paranoie ed inoltrarsi nel magico mondo della perdizione, ma
il tutto si era rivelato un palese insuccesso.
“Scusa.”
borbottò, lanciando sul divano affianco il proprio joystick. “Non
sono molto dell'umore per giocare.” ammise, contro ogni sforzo.
Il
bassista si limitò a sbuffare per poi alzarsi dal divano.
“Allora,
andrò a fare un po' di spesa, che oggi sarà sicuramente più
divertente di te.” si lamentò, mentre indossava il cappotto.
“Ultimamente, sei proprio deprimente.” Gli lanciò l'ultima
frecciatina, prima di uscire dallo studio.
Tom
si massaggiò le tempie.
Aveva
raggiunto l'apoteosi della monotonia.
Si
alzò dal divano e, seguito da Scotty, si recò in cucina, dove una
bottiglia di birra fresca lo attendeva. Avrebbe cercato di comporre
qualche melodia, se la sua fantasia glielo avesse consentito.
Ma,
ovviamente, gli dei del cielo, quel giorno, si erano coalizzati
contro di lui.
“Tom?”
Gustav
entrò in cucina.
“Sì,
sono sempre io.” borbottò il moro con sarcasmo, dopo aver
sorseggiato un po' di liquido frizzantino.
“Sono
usciti già tutti?” gli domandò il batterista
“Anche
piuttosto in fretta.”
Poté
percepire lo sguardo del biondo farsi sempre più insistente, cosa
che lo mise alquanto a disagio.
“Va
tutto bene, Tom?” Quella domanda aveva uno strano retrogusto di
consapevolezza e, se avesse giocato bene in difesa, sarebbe riuscito
a non affondare nel discorso Ingie. “Hai litigato con
Ingie?”
Come
non detto.
Il
chitarrista scrollò le spalle, svogliato. Sperava che Gustav
recepisse il messaggio e smettesse di fargli domande.
“D'accordo,
non ne vuoi parlare. Vorrà dire che andrò a trovare Ivan. Tra poco
dovrebbe finire di lavorare.” si arrese intelligentemente. Si
diresse verso la porta della cucina, quando improvvisamente si fermò
per tornare a guardarlo. “Cerca di essere più comprensivo con lei.
Se è così riservata, non devi fargliene una colpa. Fossi in te
cercherei di capirla nel profondo, più che indagare sul suo passato.
Quegli occhi non sprigionano serenità, Tom.”
Detto
questo abbandonò la cucina e lo studio di registrazione, lasciando
il chitarrista nella solitudine e nel silenzio totali.
Capirla
nel profondo, rifletté. Fosse facile.
***
Era
tornata a casa con un taxi. L'aveva trovato per puro caso e vi si era
fiondata senza indugio.
Necessitava
semplicemente di un po' di tempo per rigenerarsi, prima di tornare ad
avere a che fare con i suoi coinquilini.
Si
era resa conto che vivere con quattro uomini non era per nulla
facile. A volte, sentiva il bisogno quasi indispensabile di
confrontarsi con una donna; le mancava l'idea di confidarsi senza
riserve, di poter parlare di argomenti prettamente femminili. Ed
improvvisamente si rammentò di Simone, quella donna che in poche ore
le aveva dato l'impressione di capirla, come una buona madre.
Vi
erano momenti in cui si sentiva stupida a pensare a cose simili, ma
era inevitabile.
Infilò
le chiavi nella serratura e la fece scattare. Tre cani impazziti le
corsero incontro, manifestando tutta la propria gioia nel rivederla.
Era incredibile come quelle creature in poco tempo si fossero
affezionate tanto a lei e doveva ammettere che la loro compagnia le
rallegrava la giornata.
Si
sbottonò il cappotto.
“Non
toglierlo.” La voce improvvisa del chitarrista la fece quasi
sobbalzare; si immobilizzò e sollevò lo sguardo. Tom era davanti a
lei con tre guinzagli in mano. “Devo portare fuori i cani e ho due
mani sole.” le spiegò, porgendogliene uno.
Lei
fu presa talmente in contropiede che si sentì infastidita.
In
ogni caso, afferrò il guinzaglio e lo legò al bassotto, senza dire
una parola; era ancora arrabbiata con lui, in ogni caso.
Fecero
tutto in silenzio: uscirono dallo studio e si incamminarono in
direzione del parco, dove Tom portava sempre a correre i suoi cani.
Era un posto estremamente tranquillo, silenzioso e caratterizzato da
un piccolo laghetto, dove i suoi amici a quattro zampe si divertivano
sempre a fare il bagno.
Attorno,
vigeva solamente il rumore dei loro passi e la situazione poteva
essere annoverata fra le più imbarazzanti e scomode che lei stessa
avesse mai vissuto.
Gli
camminava affianco, facendo ben attenzione a non toccarlo, nemmeno
per errore. Quella vicinanza le trasmetteva quasi un senso di
sconosciuta soggezione. Non le era mai capitato con il chitarrista
poiché era sempre lei a detenere le redini nel loro semi-rapporto.
Ora, però, si sentiva più piccola rispetto a lui – e non solo
anagraficamente, com'era di fatto.
Una
volta giunti a destinazione, sganciarono i guinzagli, permettendo ai
cani di scatenare la propria felicità e di approfittare di quel
breve momento di libertà.
Ingie
adorava osservarli rincorrersi e giocare; leggeva nei loro occhi
spensieratezza ed entusiasmo. Pareva quasi sorridessero.
“Tempo
fa, ti dissi che odiavo mio padre e che non ti avrei spiegato il
motivo fino ad un tuo ipotetico racconto sulla tua vita.” Sobbalzò,
non appena il chitarrista pronunciò quelle parole così inaspettate.
“Mi sono reso conto che queste tattiche con te non funzionano,
anzi, ti rendono ancora più intrattabile.” Ignorò quella
deliberata provocazione. “Quindi, te lo dirò in ogni caso. Odio
mio padre perché ci ha abbandonati sin da quando eravamo bambini.”
Si prese qualche secondo di pausa, mentre Ingie si chiese cosa avesse
potuto fare, anche solamente per fermarlo. Non voleva sentire, non
era obbligato a dirle quelle cose tanto personali. “Lo odio perché
mi chiedo cosa mai gli abbiamo fatto di male. Lo odio perché non ha
mai voluto un chiarimento; ancora oggi non ne vuole sapere nulla, di
noi.” Gli tremò appena la voce ma non si scompose. “Lo odio
perché ha alzato le mani più volte, su di noi e su mia madre,
ultima persona che a questo mondo debba essere toccata. Io e Bill non
abbiamo vissuto un'infanzia facile, al contrario di ciò che crede la
gente, e non te lo sto raccontando per fare la vittima o farti
provare compassione, ma per farmi conoscere da te.” Fece un'altra
pausa, per poi posare gli occhi su di lei, che fremette appena. “Sei
la persona più testarda ed ostinata che io abbia mai incontrato ma
ho cercato di fare in ogni caso un piccolo sforzo di riflessione. Mi
sono detto che, probabilmente, uno dei motivi per cui non mi parli di
te è che non mi conosci abbastanza, così voglio provare ad
escludere questo problema, nonostante anche io potrei volere
riservatezza, dato che non ti conosco. Ma, visto e considerato che
sono un uomo, porto i pantaloni e sono il sesso forte, ho deciso di
accantonare l'orgoglio e cercare di capirti.”
Ingie
– ignorando quell'ultima affermazione palesemente maschilista –
non sapeva se dovesse sentirsi sorpresa, lusingata o offesa.
Tom
aveva, come sempre a modo suo, cercato di esplicarle un concetto
alquanto semplice da comprendere. Aveva cercato di prendere in mano
la situazione, sbaragliando ogni tipo di muro costruito fra loro due.
Aveva accettato la condizione di calpestare il proprio orgoglio per
venirle incontro, così come le aveva ricordato ancora una volta
quanto fosse testarda ed inetta. Avrebbe sicuramente avuto piacere di
aprire un capitolo alquanto lungo riguardo la sua teoria del sesso
forte, ma decise di reprimere l'istinto rivoluzionario e radicale per
lasciar spazio ad un'indole che sapeva di possedere ma che teneva
nascosta, decisamente più pacata e razionale.
Si
prese qualche minuto ancora per riflettere su ciò che le aveva
appena detto, osservando distrattamente l'acqua dolce di fronte a
lei.
“Chi
ti ha suggerito di dirmi questo?” le venne spontaneo chiedere. Non
riusciva a cancellare quella parte provocatoria e sarcastica che le
apparteneva, nonostante avesse timore di distruggere ogni limite. Era
più forte di lei.
“Saresti
pregata di prendere seriamente ciò che ti ho detto.” ribatté il
chitarrista con una serietà che non pensava gli appartenesse.
“Lo
sto facendo.” chiarì lei. “Sono solo un po' spiazzata, tutto
qua.”
“Detto
da una come te, è un complimento.”
Per
un momento non seppe cosa rispondere. Quella situazione era talmente
anomala e differente dalle solite, che nemmeno le pareva possibile
stessero sul serio parlando, con i cani attorno.
“Io
non ti ho chiesto di parlarmi della tua vita o di tuo padre.”
mormorò, quasi sentendosi in colpa per quella nuova conoscenza che
non gli aveva mai chiesto e non avrebbe mai fatto.
“Lo
so. È stata una mia scelta.”
“Perché?”
“Oh,
andiamo, viviamo assieme, no? Che senso ha rimanere estranei fino
alla morte?”
“Non
vivremo insieme per sempre.”
“Ma
fino al momento in cui te ne andrai potremmo almeno capire con chi
abbiamo a che fare tutti i giorni, non credi?”
“Conoscere
il mio passato ti aiuterebbe?”
“Mi
aiuterebbe a capirti di più. A darmi spiegazioni plausibili su certi
tuoi strani comportamenti. Forse riuscirei a giustificarli con meno
fatica.”
“E
se io non volessi tutto questo?”
“Saresti
una stupida.”
Non
replicò. Quell'affermazione così schietta e dura non le aveva
lasciato alcun margine di protesta.
A
volte si domandava il motivo della sua cocciutaggine, della sua
ostinazione, non venendone però a capo. Si rendeva conto di non
essere una persona facile da trattare, essendo lei la prima a non
capirsi.
Avrebbe
dovuto dare una possibilità al chitarrista? Il suo cuore le diceva
di no; in lei prevaleva l'istinto, se ne era resa conto in più
occasioni, nonostante la razionalità cercasse di spingerla a tutti i
costi sulla giusta strada. Ma qual'era la giusta strada?
“Io
non posso raccontarti ciò che mi ha spinto a trasferirmi in
Germania, perché sto ancora cercando di metabolizzarlo ed
accettarlo.” disse quasi remissiva. Eppure non voleva dargli motivo
di esultanza.
“E
allora non farlo.” scrollò le spalle il ragazzo, come se non gli
importasse. “Parlami di altro. Della tua vita, prima che venissi
qui, di cosa facevi. Quando e se sarai pronta a parlare anche di
questo, lo farai.”
Ingie
non poteva credere che parole così pesate, così mature e razionali
potessero fuoriuscire dalle labbra del chitarrista e si domandava
quante altre scoperte spiazzanti avrebbe dovuto fare.
Sospirò
appena, combattuta, mentre i suoi occhi si posarono distratti suoi
cani, che si rotolavano nell'acqua contendendosi un rametto, trovato
chissà dove.
Per
una volta, le ripeteva una vocina nella testa, accantona
l'orgoglio.
Non
farlo, ti devi difendere, le diceva invece il cuore.
Meditò
ancora qualche istante, fino a che non giunse ad una conclusione che
spiazzò persino lei: seguire la testa.
“Quando
andavo al liceo, tutti i ragazzi mi prendevano in giro perché avevo
i capelli viola.” cominciò dalla vicenda più ridicola ed
insignificante, ma non le sfuggirono gli occhi sgranati di Tom ed il
suo sorrisetto sorpreso.
“Tu?
I capelli viola?” le domandò compiaciuto.
Lei
si limitò ad annuire col capo, toccandosi appena i capelli, ora
corvini, con un piccolo sorriso nostalgico.
“Ero
una vera ribelle.” ammise. “Tutto ciò che mia madre mi diceva di
non fare, io lo facevo. Ma, nonostante tutto, avevamo un bellissimo
rapporto. Molto confidenziale.” si sorprese di averla nominata.
“Accettava tutto di me, anche le mie stravaganze. Io facevo molte
cose contro il suo volere. Come, ad esempio, il primo tatuaggio.”
“Le
due acca?” Annuì nuovamente. “Non mi dici cosa significano?”
tentò lui.
“Solo
perché ti sto raccontando certi miei cazzi, non significa che su
alcune cose io non sia ancora intransigente.” lo fulminò con lo
sguardo, facendolo però ridacchiare, per la prima volta. Forse aveva
compreso quale sforzo lei stesse facendo a raccontargli anche
solamente quelle stupidaggini. “Le ho disubbidito anche sul
piercing all'ombelico. Per questo, però, non mi ha parlato per due
settimane.” rammentò con un sorriso divertito, al ricordo di quel
fantastico periodo, quando i veri problemi ancora non sapeva cosa
fossero.
“Non
voglio immaginare allora cosa abbia fatto alla scoperta della tua
prima esperienza sessuale.” ridacchiò il chitarrista, mentre
raccoglieva da terra un bastoncino e lo lanciava in direzione dei
cani, che corsero all'impazzata fino a raggiungerlo.
“Ha
urlato di meno.” rise Ingie. “Conosceva il mio ragazzo, era un
tipo a posto.” spiegò. “Poi avevo diciotto anni.” disse,
quando Tom si voltò a scrutarla. “Ho fatto cazzate, ma per questo
ho sempre preferito aspettare il momento giusto.”
“Che
ragazza coscienziosa.” la prese in giro lui. “Non come me.”
aggiunse poi, tornando a guardare il lago. “A dodici anni sapevo
già cosa fosse il sadomaso.” ridacchiò.
“Vedi
che ti piace essere trattato male? Quello schiaffo che ti ho dato non
deve averti rovinato la giornata più di tanto.” commentò ironica
la ragazza. “Ispiri violenza.”
Tom
si voltò verso di lei con uno sguardo talmente malizioso, che per un
attimo le girò la testa.
“Lo
prendo come un complimento.” sorrise con voce roca.
Ingie
ignorò il brivido inspiegabile che le attraversò la colonna
vertebrale e distolse lo sguardo.
Asshole.
Gli
occhi di Tom si fecero improvvisamente più seri.
“Perché
ti sei arrabbiata così tanto per la foto?” le domandò.
Sembrava
curioso ma preoccupato al tempo stesso. Forse temeva una sua folle
reazione, com'era successo in camera, la sera precedente. Lei,
invece, cercò di non farsi prendere dal panico.
“Perché
stavi curiosando fra le mie cose e non è educato.” rispose con
sufficienza.
“Andiamo,
Ingie. Eri sconvolta.” le fece notare lui. “Non può essere una
semplice foto.”
“Sì,
invece. Non cercare significati nascosti.”
“Come
ti pare.” L'aveva scampata ancora una volta. Si chiese per quanto
tempo ancora sarebbe riuscita a sorvolare. Era più che consapevole
del fatto che prima o poi la band avrebbe conosciuto qualcosa in più
della sua vita, ma faceva di tutto per rimandare quel momento. “Ti
piace la discoteca?” le domandò improvvisamente, cogliendola alla
sprovvista.
“Why?”
chiese con sospetto.
“Perché
avevamo intenzione di andarci, una di queste sere. È da un po' che
non usciamo a divertirci.”
“Per
divertimento intendi del sesso selvaggio con una sconosciuta?”
“Diciamo
che non mi diverte più come una volta, ma se dovesse capitare, ben
venga. Sono un maschio con dei bisogni, dopo tutto.”
“Incredibile
come vuoi uomini prendiate il sesso come una questione di vita o di
morte.”
“Per
me è la natura, Ingie, non puoi farci nulla.” Ingie restò qualche
attimo in silenzio. Non avrebbe saputo che rispondere. “Allora,
verrai con noi?”
“Perché
ti interessa così tanto che io venga?”
“Perché
voglio farti ubriacare così tanto da spingerti a dire tutta la
verità, senza remore.”
La
mora non poté fare a meno di ridere a quell'affermazione. Sembrava
tenere davvero a conoscerla, non solo per come era fatta ma anche e
soprattutto per ciò che aveva vissuto.
Era
consapevole del fatto che Tom, nonostante l'apparenza, fosse un bravo
ragazzo. Il vero problema era e restava la sua introversione.
“Non
è un bicchierino di alcol a farmi cedere.” lo derise.
“Vedremo.”
In
quell'istante, Ingie scorse Scotty correre da lontano in direzione
del padrone. Sembrava particolarmente allegro e la foga con cui si
muoveva verso Tom le fece quasi paura.
Il
tutto successe in pochissimi istanti e ad Ingie sembrò di assistere
ad una scena in Slow Motion: Scotty arrivò alle sue spalle,
urtò con violenza le gambe di Tom – nel bel mezzo della corsa –,
il quale perse inevitabilmente l'equilibrio. Ingie, in quei pochi
secondi, cercò di afferrarlo per la maglia, ma non riuscì a
trattenersi dal ridere – con le mani allo stomaco – quando lo
vide cadere goffamente in acqua.
Non
resistette; gli occhi le lacrimavano e lo stomaco le doleva. Non
ricordava di aver riso così tanto da quando aveva abbandonato
l'America. Per un attimo le sembrò di fluttuare su un altro mondo;
un mondo tranquillo, dove i problemi non esistevano e lei era
semplicemente felice.
L'espressione
esterrefatta di Tom, non appena riemerse dall'acqua, fu impagabile e
la spinse a ridere ancora più forte.
“Brutta
stronza!” le urlò, ma lei non riuscì a smettere di prenderlo in
giro. “Ti diverte così tanto?” le domandò, prima di allungarsi
verso di lei, afferrarle con forza la mano e trascinarla in acqua.
Quasi
non se ne accorse, fino a che non sentì il freddo pungente
penetrarle le ossa ed i vestiti appiccicarsi fastidiosamente alla
pelle.
Sgranò
gli occhi, quando si trovò sul corpo di Tom, immersa nel lago.
Osservò le pupille, ora macchiate di una vena divertita e
soddisfatta, del ragazzo e sentì la collera farsi strada nelle vene.
“Brutto
cretino che non sei altro!” urlò, saltandogli addosso e cercando
di fargli male come poteva, sotto le sue risate. “Che razza di
gentiluomo sei?!” Lui, in tutti i modi, cercava di evitare le sue
mosse, immobilizzandole le braccia, fino a che non la fece immergere
nuovamente con la testa. Questa tornò a galla ancora più sconvolta,
mentre lui continuava a ridere divertito. “Poi ti chiedi perché ti
tratto male.” borbottò lei, dandogli le spalle, per uscire
dall'acqua e tornare a riva, dove i cani li osservavano incuriositi.
“Dai,
non ti incazzare. Sono nella tua stessa situazione.” cercò di
farsi perdonare il chitarrista, senza smettere di singhiozzare. Una
volta fuori, cercarono di scrollarsi di dosso il peso maggiore e,
completamente fradici, si diressero nuovamente allo studio di
registrazione, assieme ai cani altrettanto umidi. “Ti dona il look
bagnato.” commentò Tom, compiaciuto, osservando il sedere di
Ingie, fasciato da pantaloni bianchi, ora divenuti trasparenti. “Ti
fa più sexy.”
“A
te invece fa ancora più rachitico di quello che sei.” rispose per
le rime.
“Io
non sono rachitico!”
Ingie
non rispose. D'altronde, la sua, era una semplice provocazione.
Sentiva
il freddo perforarle le ossa. Sapeva che si sarebbe ammalata;
solitamente era piuttosto incline a prendersi un raffreddore o la
febbre.
Avrebbe
ucciso il chitarrista.
Eppure,
una parte di sé, era più serena, spensierata. Era tanto tempo che
non faceva qualcosa di bizzarro come quella volta, ma soprattutto era
tanto tempo che non rideva in maniera così naturale e sentita. Chi
l'avrebbe mai detto che sarebbe stato proprio Tom l'artefice del suo
divertimento.
Quando
rientrarono allo studio, si tolsero immediatamente le scarpe; mossa
poco furba visto e considerato che anche le loro calze erano zuppe
d'acqua. Si affrettarono a portare i cani in bagno, dove li avrebbero
sciacquati, prima che potessero camminare per casa ed imbrattare il
pavimento di fango.
“Se
mi viene la febbre, ricordami di ucciderti.” gli intimò,
fulminandolo con lo sguardo, mentre si toglievano le rispettive
giacche.
“Smettila,
lo so che ti sei divertita.” la rimbeccò il chitarrista, dopo
averle appese. “Non ti ho mai vista ridere come poco fa. Sono anche
disposto a ridicolizzarmi tutti i giorni, se dovesse aiutare.”
disse, mentre si dirigeva in bagno.
Ingie
restò qualche attimo sulla porta, come in trans.
Tutta
quella gentilezza; era sicura di meritarsela?
Per
la prima volta, si rese conto del fatto che Tom nascondeva un lato di
sé – che lei sapeva apprezzare – estremamente positivo, dietro
una maschera strafottente e rozza. Parole che contenevano un
significato dolce, altruistico e di grande intelligenza venivano
deformate da quel tono ironico ed apparentemente menefreghista.
Sorrise
e lo raggiunse in bagno.
“Sai,
Piggy, saresti anche una persona gradevole, se solo lo
volessi.” parlò, raggiungendolo ai piedi della vasca, dove aveva
posizionato i cani.
“Lo
stesso vale per te.” le rispose semplicemente, mentre si faceva
aiutare a sciacquarli.
Lei
si limitò a sorridere. Ormai aveva capito che con Tom ogni parola
era pari a zero; per lo meno, stava imparando ad accettarlo per
quello che era.
Ignorò
la sensazione di gelo che i vestiti bagnati, ancora appiccicati al
corpo, le diffondevano; piuttosto si concentrò per evitare di urtare
in qualsiasi modo le mani del chitarrista.
Improvvisamente,
udirono un rumore proveniente dall'ingresso che li portò a scrutarsi
contemporaneamente, perplessi. Si alzarono da terra, abbandonando i
cani incuriositi nella vasca, ed uscirono dal bagno.
Bill
sostava di fronte alla porta d'ingresso, silenzioso e con lo sguardo
stranamente vacuo.
“Bill?”
domandò Tom, piuttosto preoccupato.
Il
vocalist, come risvegliatosi solo in quel momento, sollevò le iridi
nocciola sulla figura del fratello.
“La
fidanzata di David è incinta.”
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Capitolo 10 *** Nine - What's the big deal? ***
9
Nine
What's
the big deal?
Il
tono di voce con cui Bill aveva annunciato il lieto evento, aveva
pensato Tom, era sembrato quasi funebre.
Non
appena era venuto a contatto con quella notizia, una vertigine –
una sola – indescrivibile gli aveva percorso la bocca dello
stomaco, destabilizzandolo per qualche istante; ma non appena
metabolizzò ciò che suo fratello gli aveva detto, gli venne
spontaneo sorridere con gioia.
Ricordava
tutti i discorsi di David, sul fatto di crearsi una famiglia con
quella donna di cui era tanto innamorato e che voleva sposare a tutti
i costi, e non poteva fare a meno di ringraziare un Dio – se
esisteva – perché non avrebbe potuto ricevere dono più bello.
Sapeva quanto il manager amasse i bambini e quanto desiderasse averne
uno tutto suo ed ora che il suo sogno poteva realizzarsi, fece un po'
della sua felicità propria. Voleva bene a David quanto ad un
famigliare e l'idea di veder vagare un piccolo Jost per lo studio lo
rallegrava quasi inspiegabilmente.
Ora
erano riuniti tutti al tavolo, un po' di birra per ciascuno, ed un
sorriso lieto e quasi ebete sul viso.
“Direi
che abbiamo bevuto abbastanza per festeggiare questa bella notizia.”
disse Georg all'improvviso, con le guance particolarmente arrossate,
forse per il caldo che l'alcol gli aveva diffuso in tutto il corpo.
Tom
non poté fare a meno di ridacchiare. Sapeva che il bassista non era
un gran bevitore.
“Tu,
forse; io ho appena iniziato.” rispose il chitarrista, con un
sorrisetto furbo in volto. “Bill, non credi sia arrivato il momento
di riprendersi dallo shock?” si rivolse poi a suo fratello,
il quale fissava ancora il vuoto – suo più grande interesse da più
di mezzora, ormai – senza dare segni di vita, se non attraverso il
respiro.
“Lascialo
stare.” gli intimò un Gustav particolarmente divertito. “Per una
volta che non parla.” aggiunse poi, osservando con la coda
dell'occhio il vocalist, in attesa di una sua reazione che non
arrivò. “Questo è grave.” commentò quindi, per niente
preoccupato.
“Sai,
Speedy, anche tua mamma è rimasta incinta di te e tuo
fratello.” intervenne Ingie. Poi fece un'espressione fintamente
scandalizzata, che fece ridere Tom. “Che shock!” lo prese
in giro, con le mani sul viso.
“Forse
credeva che David fosse un essere incapace di riprodursi.” sorrise
Georg. “O addirittura, di fare sesso.”
“Piantatela,
tutti quanti!” fu la prima reazione di Bill.
“Oh,
finalmente è tornato fra noi.” esclamò Tom, dopo aver sorseggiato
un altro po' di birra dalla bottiglia.
“Scusatemi,
se sono un attimo sorpreso!” si difese ancora suo fratello, con
occhi sgranati.
Scosse
la testa, desolato.
“Bill,
anche noi siamo sorpresi ma non ci siamo messi a fare sesso visivo
col muro per trentadue minuti.” sbuffò. “Non credi di
esagerare?”
“Certo,
io esagero in tutto quello che faccio!”
“Okay,
diamoci una calmata. Non mi sembra il caso.” intervenne Gustav,
piuttosto seccato.
Ci
fu qualche attimo di silenzio, fino a che Bill non si alzò dalla
sedia.
“Io
vado a dormire.” annunciò, per poi sparire su per le scale.
Tom
si chiedeva perché suo fratello reagisse in maniera così enigmatica
e poco matura. Sembrava fosse spaventato o che avesse altri strani
pensieri a tormentarlo, molto probabilmente infondati. Sentiva che
avrebbe dovuto fare la parte del fratello comprensivo e parlare con
lui, per cercare di capire cosa non gli andasse a genio di tutta
quella situazione. Una cosa era certa: l'avrebbe fatto una volta
sbollito il nervoso.
“Credo
che prenderò esempio.” disse quindi un Gustav piuttosto assonnato,
dopo aver terminato la sua birra. “Domani, faremmo bene ad invitare
David e Amanda a pranzo.”
Tutti
annuirono in silenzio.
Tom
lanciò un'occhiata ad Ingie, la quale si rigirava una ciocca di
capelli fra le dita, mentre – di tanto in tanto – sorseggiava un
po' di birra dalla propria bottiglia. Sembrava pensierosa, ma
stranamente tranquilla.
“Io
mi fumo una sigaretta e poi vado a dormire anche io.” disse
all'improvviso la ragazza, sollevandosi dalla sedia. “Good
night.” fece, prima di uscire dalla cucina.
“Tutti
simpatici.” fu il commento di Georg. “Scusa, amico, ma credo che,
a questo punto, ti tradirò anche io.” fu l'ultima cosa che il
chitarrista si sentì dire prima di restare solo nell'immensa cucina.
Dopo
un gran sospiro, pieno di stanchezza mal celata, si curò di buttare
le bottiglie di birra vuote, quando – arrivato a quella di Ingie –
constatò che ve ne era ancora qualche sorso. Afferrò il pacchetto
di sigarette e, con la bottiglia in mano, uscì dalla cucina. Non
appena aprì la porta di ingresso allo studio, trovò la ragazza
seduta sui gradini, intenta a fumare silenziosamente la propria
sigaretta.
“Hai
lasciato un po' di birra.” le disse, sedendosi accanto a lei e
porgendole distrattamente la bottiglia. Lei si limitò a storcere il
naso, senza guardarlo.
“Non
mi va più.” mormorò, per poi tirare un altro po' di fumo.
“Come
vuoi.”
Ci
pensò il chitarrista, a finirla, leccandosi poi le labbra
impregnatesi del sapore della fragola, che sapeva appartenesse al
burro di cacao di Ingie, ne era dipendente.
“Bill
ha il ciclo?” domandò lei all'improvviso, con tono ironico.
“Può
darsi.” sorrise Tom, prima di tastarsi le tasche e rendersi conto
di aver dimenticato l'accendino. “Cazzo, l'accendino.” roteò
svogliatamente gli occhi, ma Ingie – prima che si potesse alzare –
si sporse col viso verso di lui, porgendogli la sigaretta con le
labbra. Il chitarrista, ringraziandola con lo sguardo, fece la stessa
cosa, facendo unire le due sigarette. Utilizzò quei due secondi –
tempo di accedere la propria – per studiare il suo viso, ma in
particolare i suoi occhi, in quel momento posati sui suoi. Si rese
conto solo in quel momento che il loro colore era identico. “Grazie.”
Presero
a fumare in silenzio, ognuno osservando un punto indistinto del
giardino.
“Sono
sinceramente contenta per David.” parlò improvvisamente Ingie.
“Non posso dire di conoscerlo bene, ma immagino che non stia nella
pelle.”
Tom
sorrise e buttò un po' di cenere a terra.
“Diciamo
che era nell'aria.” sospirò beato. “Si spiega anche il suo
nervosismo.”
“Già.”
mormorò la mora. “Com'è Amanda?” domandò poi, all'insaputa di
Tom.
Si
rese conto che era la prima volta che si ritrovavano a parlare come
due buoni amici, in un'atmosfera del tutto pacifica e piacevole. La
scrutò appena, notando la sua rispettosa curiosità; gli parve quasi
dolce.
“Giovane,
ha ventotto anni. È bionda ed ha degli occhi azzurri bellissimi.”
parlò lui, prendendosi poi una pausa per respirare l'ultimo tiro di
nicotina, prima di buttare la sigaretta. “È una persona molto
riservata; un po' come te. Ed è pazzamente innamorata di David.
Credo che ti piacerà, è difficile non volerle bene.”
“Allora
deve essere al settimo cielo, per questa gravidanza.” sorrise
sognante.
Tom
la osservò attentamente, quasi accigliato. Non aveva mai visto la
ragazza con occhi tanto brillanti; leggeva in essi una scintilla del
tutto nuova, che riconosceva in quelli di sua madre.
“Tu
sogni la maternità?” le chiese, quasi vergognandosene. Non si
sentiva a proprio agio a trattare argomenti di quel tipo, prettamente
femminili, ma era al tempo stesso curioso.
“Penso
che sia il sogno di quasi tutte le donne.” scrollò le spalle
Ingie, come si sentisse in imbarazzo ad ammettere una verità del
genere. “Sembri sorpreso.”
“No,
è che, ti ho sempre vista come una maschiaccio, fredda e acida. Non
pensavo possedessi anche tu un istinto materno.” ammise Tom, fin
troppo sincero.
“Ti
ringrazio, Piggy! Effettivamente anche io mi sento male al
pensiero di un tuo futuro figlio e alla poverina che ne sarà
coinvolta.”
“Credimi,
sarò un padre coi fiocchi.”
“Speriamo
bene.”
“Perché
cazzo stiamo parlando di questo?” domandò Tom, sinceramente
perplesso.
“Lo
chiedi a me? Sei tu che hai cominciato.” ribatté Ingie, divertita.
“Beh,
allora, finiamola qua.” continuò il chitarrista, con una scrollata
di spalle, come fosse logico.
“Come
vuoi.” concluse la ragazza, per poi alzarsi in piedi. “Allora io
me ne vado a dormire. Vedi di non bruciarti quei pochi neuroni che ti
restano, con tutti questi pensieri sulla paternità. Ne hai, di
tempo.” lo prese in giro.
“Sognami.”
la canzonò, senza guardarla.
“Con
piacere; a pezzetti, però.”
Sentì
la porta chiudersi e ne dedusse di essere di nuovo solo.
Sorrise,
divertito.
***
Si
chiese se stesse esagerando con tutte quelle decorazioni. L'idea
dell'arrivo di David e di Amanda per l'ora di pranzo le aveva dato
l'ispirazione giusta per apparecchiare la tavola, sprigionando –
dopo tempo – tutta la fantasia che aveva tenuto fino ad allora
segregata in un cassettino del suo cervello. Sapeva che non avrebbe
potuto dare il meglio di sé tramite una semplice tavola
apparecchiata, ma vi aveva comunque messo impegno, affinché
apparisse gradevole agli occhi.
La
notizia di quella gravidanza inaspettata aveva risvegliato in lei un
lato estroso e sensibile che aveva dimenticato di possedere.
Le
era da sempre piaciuto osservare le donne incinte. Le scrutava in
ogni loro movenza o cambio di espressione, trovando quelle
particolarità tremendamente dolci ed emozionanti. Spesso si chiedeva
cosa si provasse a tenere un bimbo in grembo, a sentirlo muoversi
all'improvviso ed inaspettatamente, e a volte si dava anche della
stupida per tali interrogativi. Avrebbe avuto molto tempo ancora per
pensarci e non avrebbe di certo bruciato le tappe.
Sistemò
i fiori che aveva adagiato al centro del tavolo, aggiustandone le
foglie con immensa cura.
Non
sapeva nemmeno lei perché stesse impiegando tanto tempo a
perfezionare il tutto; forse per tenersi la mente occupata.
“Però,
che eleganza!” l'esclamazione di Gustav, non appena entrò in
cucina, la fece spontaneamente sorridere.
I
complimenti del batterista erano sempre bene accetti.
“Ti
piace?” domandò soddisfatta. “Avevo voglia di strafare.”
“Beh,
senza dubbio, hai buon gusto.”
“Thanks,
Sweetie.”
Udirono
dei passi scendere di corsa le scale, fino a giungere in cucina.
“Arriva
Elisabetta dall'Inghilterra?” domandò Tom con ironia – come se
la Regina fosse una sua vecchia amica –, dopo aver scrutato il
lavoro di Ingie, la quale si sentì particolarmente urtata.
“È
un qualcosa che va troppo al di là dei tuoi standard, Piggy.”
ribatté con sadico sarcasmo.
“Poi,
un giorno mi spiegherai perché sei passata dal chiamarmi treccina
a porcellino.”
“Perché
credo che la seconda ti si addica di più.” Fece appena in tempo a
notare la mano del chitarrista avvicinarsi ai fiori per
schiaffeggiargliela senza ritegno, facendo ridacchiare Gustav e
corrugare Tom. “Giù le mani! Sei capace di distruggerli solamente
con il pensiero.” borbottò, fiera di aver salvato in tempo il suo
vaso.
“Sono
mostruosi.” obiettò Tom.
“Tu
sarai mostruoso. Per Gustav sono belli.”
“Ma
li hai posizionati in mezzo al tavolo; non riusciremo nemmeno a
guardarci in faccia!”
“Sai
che dispiacere. Per lo meno non mi andrà di traverso il pranzo.”
“Sei
perfida.”
“I
know.”
Proprio
in quel momento, il campanello trillò, dando motivo ai due di
smettere di punzecchiarsi, come da copione. Gustav ne approfittò per
allontanarsi dal dibattito in corso, così andò ad aprire la porta,
mentre Ingie, Tom, Georg, Bill e i cani saltellanti si posizionarono
alle sue spalle, pronti ad accogliere i futuri genitori. Con la coda
dell'occhio, la mora notò un Bill non propriamente sorridente;
probabilmente era ancora arrabbiato dalla sera prima, cosa che trovò
poco educata.
Non
appena la porta venne aperta, la prima cosa che videro fu il viso
gioioso del manager. Ingie lo notò subito: aveva una luce totalmente
diversa negli occhi; più consapevole e serena.
Al
suo fianco, una giovane donna dai capelli color oro e vaporosi,
sorrideva, lasciando che i suoi occhi meravigliosamente celesti –
un celeste che Ingie raramente aveva avuto il piacere di osservare –
sprigionassero la quiete che – era palese – provava in
quell'istante.
Le
bastò questo: subito le piacque, senza alcun bisogno di
presentazioni che però non tardarono ad arrivare.
“Amanda,
piacere.” sorrise, stringendole la mano.
“Ingie.”
ricambiò la stretta la mora, cercando di essere il più gentile e
dolce possibile.
“David
ti ha sempre descritta come un peperino.”
“Non
le ha reso giustizia.” borbottò Tom, ricevendo in risposta un
leggero pugno sul braccio da parte di Ingie.
Amanda
ridacchiò, compiaciuta.
“Allora,
finalmente, abbiamo trovato una ragazza in grado di tenerti testa,
Tom.” commentò, divertita, per poi avvicinarsi ad Ingie e
sussurrarle – assicurandosi però che il ragazzo sentisse – poche
parole che la soddisfecero maggiormente. “Fai bene a trattarlo
male; ha bisogno di essere messo in riga.”
“Hey,
da quando sei coalizzata contro di me?” obiettò il chitarrista,
fingendosi offeso.
“Lo
sai che ti voglio bene.” rise lei, abbracciandolo affettuosamente.
“E
qui, chi abbiamo?” sorrise poi Tom, chinandosi appena, per parlare
faccia a pancia, ancora inesistente. “Un piccolo David o una
piccola Amanda?”
“Prega
che non sia una piccola Amanda, David, altrimenti Tom è capace di
provarci con lei sin da neonata.” commentò un Georg
particolarmente scettico.
***
Tom
sorrise soddisfatto quando David tolse dal tavolo i fiori, sostenendo
che gli impedivano la visuale, completamente ignaro del fatto che li
avesse posizionati Ingie a quella maniera. La ragazza, dal canto suo,
non aveva proferito parola a riguardo, se non incenerendo il
chitarrista con gli occhi.
Il
pranzo, nel complesso, stava procedendo bene. David ed Amanda
raccontavano le loro giornate, cos'era cambiato e cosa no; le
vicissitudini della futura mamma, con tutti i sintomi – belli e
brutti – di una gravidanza.
Tom
si convinceva sempre di più che l'idea di avere una fidanzata
incinta era piuttosto inquietante, stando ai loro racconti
apparentemente straboccanti di entusiasmo. Doveva essere spaventoso
uscire di casa alle tre di notte per andare a comprare un cibo raro,
in una stagione poco favorevole e sorbirsi l'ira della propria donna
in caso di fallimento.
Eppure
David ed Amanda facevano apparire tutto paradisiaco e quasi stentava
a crederlo, ma era gioioso per loro. Leggeva negli occhi del suo
manager l'impazienza e l'emozione che da tempo non vi brillava più.
Una
sola cosa rovinava quell'atmosfera allegra e gioviale: Bill. Tom gli
lanciò un'occhiata eloquente, per invitarlo a parlare, dato che non
aveva ancora proferito parola, se non qualche sorrisetto palesemente
tirato, di tanto in tanto. Il vocalist non sembrò degnarlo di
attenzione anzi, se possibile, lo irritò ancora di più.
“Vado
a fumare.” disse improvvisamente, alzandosi dalla sedia, senza
attendere una risposta da parte degli altri.
Tom,
la cui rabbia prendeva ad aumentare, decise di fare lo stesso.
“Anche
io.” tagliò corto per poi uscire dalla cucina, all'inseguimento di
suo fratello, che raggiunse in giardino, dopo aver chiuso la porta
dello studio, per evitare che gli altri sentissero. “Che cazzo
significa?” fu la domanda diretta che gli fece, vedendolo fumare
come nulla fosse.
“Cosa?”
fece disinteressato Bill, senza guardarlo.
“Ti
credi furbo, Bill?” lo sfidò il moro. “Sappi che stai solo
facendo la figura dell'idiota.”
“Attento
a come parli.”
“Mi
spieghi che ti prende? Ti comporti che se non ti importasse niente,
come se ti desse fastidio il fatto che David diventerà papà.”
“Mi
biasimi per questo?”
Tom
restò qualche attimo ad osservarlo, esterrefatto.
“Ti
è partito il cervello, Bill?” sibilò, non riuscendo a capire il
motivo per cui suo fratello si stesse comportando in una maniera
tanto deplorevole.
“No,
il vostro è partito.” rispose il vocalist, avvicinandoglisi
pericolosamente. “Non riuscite nemmeno a capire che questo è un
problema per la band.”
“E
perché mai dovrebbe esserlo?”
“Perché
i figli portano via tempo, Tom, ed il tempo, nel nostro lavoro, è
una questione di sopravvivenza.”
“Non
vedo perché il figlio di David dovrebbe rappresentare un problema.”
“Perché
lui è il nostro manager, Tom! Non può permettersi di lasciarci per
strada!”
“Ma
perché dovrebbe farlo?”
“Perché
quando nascerà il bambino, non vedrà altro che lui.”
“Com'è
giusto che sia.”
“No,
quando scegli di fare una carriera di un certo tipo.”
“Cosa
dovrebbe fare, abbandonarlo? Ciò che ci ha fatto papà non ti ha
insegnato niente, Bill?” Fu quella la frase che tolse ulteriori
parole di bocca a suo fratello. Sapeva di aver toccato un nervo
ancora scoperto. “Dimostra di essere più intelligente di lui.”
“Ciò
non toglie che il problema ci sarà.” ribatté Bill.
“Pensala
come vuoi, Bill. Questo bambino nascerà, che ti piaccia o no, e noi
lo accoglieremo con il dovuto affetto.” tagliò corto il
chitarrista. Non voleva sentire altro. “Ora torno dentro perché è
ciò che farebbe una persona educata. Tu fai come ti pare.”
Detto
questo rientrò allo studio, lasciando suo fratello solo, con i suoi
pensieri.
***
Aveva
sorriso quando Amanda si era offerta di aiutarla a lavare i piatti.
Aveva
trascorso tutta la sera ad ascoltare i suoi racconti con grande
interesse e non aveva, nemmeno per un momento, pensato di
interromperla. L'idea di saperla incinta, nonostante non la
conoscesse, le trasmetteva un senso di serenità, come fosse stata
lei a portare in grembo una creatura. Era sempre stata debole su
quell'aspetto, sebbene non riuscisse a tollerare l'idea di diventare
madre ora.
“Mi
fa piacere vedere che ti sei integrata bene in famiglia.”
parlò Amanda, mentre passava la spugna su di un piatto.
Ingie
sorrise.
“Nonostante
qualche divergenza, di tanto in tanto.” confermò, dopo aver
riposto un bicchiere nella credenza.
“Sì,
beh, con i Kaulitz in giro, non si può pretendere altro.” scherzò
la bionda. “Hai intenzione di andartene tanto presto?” le domandò
poi, prendendola quasi in contropiede.
“Non
appena i soldi saranno abbastanza.” annuì lei.
Si
stava quasi abituando all'idea di vivere con i ragazzi ma non poteva
gravare su di loro ancora a lungo – visto e considerato anche che
presto avrebbero ripreso un tour mondiale – ed inoltre rivoleva la
sua indipendenza e la sua privacy. Non voleva continuare a litigare
con Bill per il bagno, con Tom per il telecomando e con Georg per il
cibo.
Con
Gustav, il problema non sussisteva.
“Sarà
dura per loro salutarti.” Ingie aggrottò la fronte. “Si sono
affezionati molto a te. Si vede.”
La
mora non rispose. Doveva ammettere che persino lei si era attaccata a
loro, anche se non lo dava a vedere. Nonostante le apparenze, aveva
imparato a voler bene a quel gruppo di squinternati.
“Sicura
che sia un bene per te venire a ballare?” decise di cambiare
discorso.
Si
era deciso, qualche attimo prima, che sarebbero andati a ballare
tutti insieme, in una discoteca al centro di Berlino. Ingie,
inizialmente restia, aveva accettato, per non recitare la parte della
ragazza asociale.
Non
si sentiva molto bene.
“Figurati.
Sono solo al primo mese.” la tranquillizzò la futura mamma. “Poi,
ho David che mi starà accanto in modo quasi assillante.”
ridacchiò. “Ultimamente, è diventato iperprotettivo.”
“Penso
che sia normale.” sorrise Ingie, riponendo l'ultimo piatto in
credenza, segno che avevano finito di lavare.
“Parlate
di me?” sentì la voce del manager alle sue spalle. Lo vide
avvicinarsi ad Amanda ed abbracciarla da dietro, così le venne
spontaneo sorridere e congedarsi, con la scusa del vestirsi.
A
volte sentiva la mancanza di un ragazzo, sebbene quello studio ne
pullulasse.
L'ennesima
morsa allo stomaco che ignorò.
Salì
le scale, fino a raggiungere la propria stanza, dove si prese tutto
il tempo per decidere cosa indossare.
Erano
mesi che non si era presentata l'occasione di vestire qualcosa di
particolarmente elegante – a parte la cena con Ivan – e doveva
ammettere che l'idea di potersi svagare per un intera nottata, ora
che ci pensava, non le dispiaceva; anche se cercava in tutti i modi
di ripetersi che non si stava comportando da egoista, invano. Cercava
di eludere i problemi ed il dolore in ogni modo possibile.
Si
spogliò. Aveva deciso di ripristinare un vestito nero, senza maniche
ma accollato, legato in vita da una cintura in acciaio e lungo fino a
metà coscia. Ai piedi, un paio di decoltè del medesimo colore. Si
era quasi dimenticata di come si camminasse su un paio di tacchi
particolarmente alti. Quelle scarpe risalivano al periodo in cui
conduceva una vita frenetica e spensierata, che rammentava con
malinconia.
Si
sciolse i capelli e li fece cadere lunghi sulle spalle, appena
ondulati. Ricordava che a scuola tutti le facevano i complimenti per
la sua folta chioma; i riflessi ramati – naturali – catturavano
spesso lo sguardo interessato delle altre ragazze.
Uscì
dalla stanza, per dirigersi in bagno ma, non appena aprì la porta
trovò Tom, come sempre a petto nudo, intento a farsi la barba
davanti allo specchio. Non si sorprese nemmeno, di trovarlo lì,
motivo per cui entrò comunque, senza che lui facesse una piega.
“Possibile
che ogni volta che entro in bagno, ci sei tu? Non puoi chiuderti a
chiave?” domandò, afferrando il proprio beauty, una volta
affiancato il chitarrista, di fronte allo specchio.
“Tanto
entri lo stesso.” rispose lui, passandosi il rasoio sulla guancia,
con attenzione. Lei non rispose, si limitò a spalmarsi un leggero
strato di fondotinta sul viso, lanciando ogni tanto delle occhiate al
chitarrista. “Non capisco perché voi donne vi mettiate chili di
petrolio in faccia.” commentò il moro, improvvisamente, senza
smettere di osservarsi allo specchio.
Quell'uscita
la fece sorridere.
“A
volte è necessario, per la salute del prossimo.” rispose.
“Capirai,
io ti vedo tutti i giorni nelle condizioni più pietose. Quel che è
fatto è fatto.” scrollò le spalle il chitarrista.
“Infatti,
non è il tuo giudizio ad interessarmi.” precisò lei.
“Beh,
dovrebbe, sono pur sempre un uomo.”
“Parliamone.”
L'occhiata
focosa di Tom la fece tacere, divertita.
Lo
osservò sciacquarsi il viso – pulendo ogni residuo di schiuma –
poi si apprestò a stendere un po' di ombretto nero sulle palpebre;
completò il tutto con del mascara ed un gloss trasparente, nel
momento in cui Tom indossò la camicia bianca che aveva
precedentemente preparato.
Per
un attimo, si soffermò a scrutarlo, attraverso lo specchio. Era la
prima volta che lo vedeva indossare la camicia.
Merda,
fu il primo pensiero che le attraversò la mente.
Faticò
prima di ammettere a se stessa che Tom era bello. Era una
constatazione oggettiva che doveva forzatamente prescindere dal
personaggio irritante, quale era.
I
muscoli erano delineati dal cotone quasi trasparente e poteva vederli
contrarsi e distendersi di nuovo. La pelle più scura evidenziava lo
stacco con il bianco della camicia.
Deglutì.
“Mi
passi il profumo?” le chiese all'improvviso, risvegliandola dai
propri pensieri del tutto sbagliati, come una doccia congelata.
“Sì.”
borbottò, prima di aprire il mobiletto davanti a lei. Riconobbe la
boccetta che Tom usava sempre e gliela passò. Decise di fare la
stessa cosa con la propria. Ignorò il braccio del ragazzo che le
sfilò sotto il naso per riporre il profumo al suo posto.
“Sbrigati
a scendere.” le intimò, prima di uscire dal bagno e richiudere la
porta.
Grazie,
Dio.
***
Le
luci a intermittenza le arrivarono dritte agli occhi, quasi
accecandola. La musica a tutto volume le riempì le orecchie e la
gente che si scatenava in pista la fece sorridere. Aveva fatto un
tuffo momentaneo ai vecchi tempi, quando tutto ciò che osservava ora
poteva essere considerato quasi il suo pane quotidiano.
Salirono
tutti insieme le scale, in direzione del privé.
Ingie
non aveva dimenticato le sue serate nelle discoteche di New York;
rammentava l'adrenalina, il sudore sulla pelle, l'evasione dal mondo
intero. Il controllo diveniva un lontano ricordo e lei non si
preoccupava mai di acquisirlo di nuovo, almeno fino alla mattina
seguente.
Una
volta preso il loro divano, ordinarono alcune bottiglie di alcolici,
che avrebbero potuto mischiare a loro piacimento.
Ingie,
ancor prima di uscire dallo studio, aveva deciso che quella notte
avrebbe accantonato qualsiasi brutto pensiero e senso di colpa,
facendo rivivere l'Ingie di un tempo; la newyorchese folle e
spensierata che tutti guardavano con ammirazione.
Quella
sera si sarebbe divertita.
Si
gettò sul divano e diede il via alle bevute, sotto lo sguardo
sorpreso dei ragazzi. Decise di prepararsi un Long Island;
quasi ne aveva dimenticato il sapore. Chiuse gli occhi, sorridendo
appena, nell'esatto istante in cui il liquido frizzantino le sfiorò
le papille gustative.
Affianco
a lei, Tom si riempì il bicchiere dello stesso cocktail, per poi
sollevarlo nella sua direzione – come volesse brindare a lei –, e
se lo portò alla bocca.
Ancora
non era riuscita ad ignorare quella maledetta camicia e pregò che
l'alcol l'aiutasse a cancellare pensieri del tutto sbagliati che le
avevano inquinato la mente.
Si
alzò dal divano, decisa a scendere in pista e scatenarsi.
“Vado
a ballare.” annunciò, per poi raggiungere Gustav. “Tu vieni con
me. Ti faccio fare cose che nemmeno immagini. Ti fa bene un po' di
follia, ogni tanto.” disse ironica, facendo ridere chiunque attorno
a lei, tranne il diretto interessato che, al contrario, sembrava
preoccupato per la propria vita.
Mentre
scendevano le scale, gli altri si affacciarono dalla ringhiera,
curiosi di osservare un Gustav fuori dal normale. Quella era
un'occasione più unica che rara ed Ingie lo sapeva bene, motivo per
cui aveva scelto proprio lui come compagno di ballo.
“Ingie,
ti prego, non mi far fare cose imbarazzanti. Ricordati che ho una
reputazione.” le pregò, una volta raggiunta la pista, in mezzo
alla folla.
“Andiamo,
Gustav, fammi vedere il tuo lato oscuro!” scherzò lei, prendendo a
muoversi a ritmo di musica.
Musica.
La sua anima, ciò di cui viveva. La percepiva percorrerle le vene
come sangue ed inebriarle i sensi come droga. Aveva trascorso
l'intera esistenza accompagnata dalla musica; poteva affermare di
aver posseduto una colonna sonora per ogni singolo avvenimento della
sua vita.
Gustav,
davanti a lei, provava a fare qualche mossa impacciata, guardandosi
attorno, come si vergognasse di ballare.
Gli
afferrò le mani e le sollevò, cercando di coinvolgerlo nella sua
danza sfrenata – contro la sua espressione esterrefatta. Chiuse gli
occhi e si lasciò andare con un sorriso estasiato, per poi
incrociare le braccia attorno al collo del ragazzo, il quale le
afferrò timidamente i fianchi.
***
L'espressione
sorpresa e compiaciuta del chitarrista non passò inosservata a
Georg, il quale gli si avvicinò, continuando ad assistere ai
movimenti – osò pensare sensuali e quasi maliziosi – di Ingie e
Gustav.
“Certo
che quella ragazza fa miracoli.” rise. “Non ho mai visto Gustav
scatenarsi così.”
“Già,
stento a riconoscerlo.” annuì Tom, senza staccare gli occhi dalla
coppia, ma in particolare da Ingie.
Era
inutile negare che quella ragazza stuzzicasse il suo interesse. Forse
era quel suo carattere dalle mille sfaccettature a suscitargli
curiosità ed attrazione. Il fatto che fosse anche estremamente sexy
non lo aiutava.
Le
aveva messo gli occhi addosso, ed in particolare su quel vestito
succinto, ancora prima che uscissero dallo studio. Nel momento in cui
aveva varcato la porta del bagno, un'ora prima, era rimasto senza
parole, nonostante non l'avesse dato a vedere; aveva ancora uno
straccio di orgoglio.
Il
punto era che si era definitivamente reso conto di provare
un'attrazione fisica nei suoi confronti, che quasi si vergognava a
quantificare. Non sopportava il suo carattere, ma non poteva fare a
meno – al tempo stesso – di esserne attratto.
Si
passò una mano sul viso.
“Devo
bere.” disse, prima di allontanarsi dal bassista, per dirigersi
verso il tavolo dove gli alcolici lo attendevano.
***
Sorrise
quando vide Ingie e Gustav fare il loro ritorno con il fiatone. Il
viso del batterista era a dir poco sconvolto, impregnato di sudore.
“Cazzo,
ti ha spompato.” fu il commento divertito di Tom, seduto a gambe
larghe sul divano; il bicchiere in mano. Seguì con lo sguardo la
ragazza camminare verso di lui, per poi gettarglisi affianco con un
sospiro estasiato. I suoi capelli erano scomposti e la sua pelle
brillava, appena umida, mentre il petto le si alzava ed abbassava
velocemente. Osservò le sue gambe nude accavallarsi, poi tornò a
scrutarla in viso. “Vuoi?” le offrì il proprio drink a metà,
con sguardo ironico. Lei non rispose, semplicemente accettò il
bicchiere e lo svuotò in un solo sorso. “Hey, vacci piano.” le
disse con sarcasmo.
“Georg,
tocca a noi scatenarci.” disse David all'improvviso. “Vieni,
amore?” porse la mano ad Amanda, la quale accettò volentieri.
I
tre sparirono giù per le scale.
“Ti
stai scatenando.” constatò Tom piuttosto sorridente alla ragazza,
che nel frattempo aveva poggiato la testa al muro, dietro di lei.
“Stasera
non si pensa.” rispose lei, senza guardarlo.
Non
fece in tempo a dirle altro, che la vide alzarsi nuovamente dal
divano.
Era
semplicemente esterrefatto; aveva intuito che fosse una ragazza
dall'indole particolarmente focosa, ma non credeva fosse in grado di
divertirsi a quella maniera, di perdere il controllo e trascinare gli
altri nella sua follia.
Stasera
non si pensa.
Si
alzò anche lui dal divano ed afferrò il polso di Ingie, che si
voltò immediatamente verso di lui. Le sorrise, prendendo a muoversi
assieme a lei, a ritmo di musica. La musica rimbombava altissima
nelle sue orecchie e le luci ad intermittenza gli permettevano di
scorgere il viso umido della mora come lampi ogni frazione di
secondo.
Percepì
le dita sottili di Ingie infiltrarsi nei suoi rasta, legati in una
coda, in una sorta di carezza sul collo. I loro sguardi erano come
legati magneticamente e Tom poteva perfettamente scorgere la
disinibizione di chi aveva considerevolmente bevuto, nelle sue
pupille. Faceva vagare le proprie mani lungo le sue curve, saggiando
con i polpastrelli la morbidezza del suo vestito, ma non osò
sfiorarle la pelle nuda. Le passò le dita fra i capelli, senza mai
porre fine alla loro danza frenetica sul ritmo house, ora
particolarmente veloce. Le loro pelli umide di sudore si sfioravano
continuamente, senza mai interrompere il contatto divenuto bollente.
Tom
era posseduto da un'adrenalina del tutto nuova, che forse gli stava
trasmettendo proprio Ingie, con quella sua pazzia, quei suoi sorrisi
nel gettare la testa all'indietro – come estasiata – nel bel
mezzo del loro ballo sfrenato. La canzone, quasi violenta, lo
invogliava a non smettere, nemmeno per un secondo.
Le
poggiò il palmo della mano sulla fronte, scostandole i capelli che
vi si erano appiccicati. Si sentiva pieno di vita, pieno di follia
pronta ad esplodere; chiuse gli occhi e buttò la testa all'indietro,
beandosi del contatto del corpo di Ingie pressato al suo, in
movimenti voluttuosi.
Non
seppe dire con certezza quanto durò il tutto; sapeva solo che ora
sedeva sul divano, completamente sudato, con Ingie affianco a lui,
altrettanto stanca. La testa della mora era poggiata alla sua spalla
e – a constatare dagli occhi chiusi – pareva quasi dormisse.
Voltò
il viso in direzione di suo fratello, seduto sul divano affianco, con
un bicchiere semivuoto in mano ed uno sguardo pericolosamente vacuo.
È
ubriaco.
“Bill?”
lo chiamò. “Stai bene?” gli domandò, premuroso.
Il
vocalist, in risposta, sollevò talmente di scatto il bicchiere che
si versò addosso il liquido restante.
“Cazzo.”
biascicò, per poi crollare con la schiena contro il cuscino.
Il
chitarrista si passò una mano sul viso, poi lanciò un'occhiata ad
Ingie.
“Fantastico.”
commentò.
Proprio in quel momento tornarono un Georg sconvolto,
assieme a David ed Amanda. Quest'ultima aveva l'aria di essere
particolarmente esausta, mentre il manager sembrava volesse
continuare a ballare per altre ore consecutive.
“Forse
è arrivato il momento di tornare a casa, sono le tre ed Amanda è
stanca.” notò Gustav, osservando la bionda.
“Sì,
credo che sia meglio per tutti.” intervenne Tom. “Non credo che
loro due stiano bene.” aggiunse, indicando prima Ingie, poi Bill
che ormai pareva entrato in coma, sul suo divano. Provò ad alzarsi,
sorreggendo la mora – ancora poggiata a lui –, e chiese a Georg
di occuparsi di suo fratello. “Dai, ce la fai a camminare?”
chiese quasi con tono paterno ad Ingie.
“Certo,
non sono cretina.” borbottò lei, staccandoselo lentamente di
dosso.
Dietro
di lei, le teneva una mano poggiata alla schiena, poiché non si
fidava dei barcollii che di tanto in tanto la minacciavano. Riuscì,
in ogni caso, a camminare perfettamente da sola, fino all'uscita
della discoteca.
Appena
fuori, impuntò sui propri piedi.
Una
scarica di flash quasi lo accecarono; erano circondati dai paparazzi.
Gettò
immediatamente un'occhiata ad Ingie, la quale sembrava completamente
spaesata e quasi ipnotizzata da tutte quelle luci violente e
ripetute. Bastò un attimo perché la sua espressione si tramutasse
in pura ira. Tom si affrettò a coprirle il viso con la sua felpa,
stringendola al petto, mentre prendevano a correre verso l'enorme
auto parcheggiata a qualche metro di distanza.
“Cazzo,
erano i paparazzi! Erano i paparazzi, Tom!” urlò Ingie, una volta
salita a bordo, con il chitarrista di fronte a lei. Non era del tutto
lucida per via dell'alcol, ma capì che era spaventata per una
ragione reale, a lui ignota. “Questo non doveva succedere! Non
doveva succedere!” continuò a pronunciare frasi quasi sconnesse,
mentre un cumulo di lacrime cominciavano a riempirle gli occhi dal
trucco sbavato.
“Ingie,
calmati.” cercò di rassicurarla Tom, posandole una mano sul
ginocchio, ma lei si scostò come scottata. “Ora non sei in te.
Andiamo a dormire e domani analizzi la cosa con lucidità.”
Sembrava
voler ribattere, ma la vide trattenersi, tremante. Non l'aveva mai
vista così indifesa, così fragile. Aveva sempre dovuto combattere
con i suoi artigli ed avere una risposta pronta e tagliente per
tenerle testa; ma ora con il trucco sbavato, i capelli scompigliati,
il vestito un po' sgualcito e gli occhi colmi di lacrime, non faceva
altro che suscitargli tanta tenerezza che quasi gli fece venire
voglia di abbracciarla.
Nel
giro di una mezzora tornarono allo studio; David ed Amanda li avevano
abbandonati a metà strada, per tornare a casa loro, stanchi ed
assonnati.
Questa
volta, Ingie fu aiutata da Georg a scendere dall'auto, e Tom li seguì
in silenzio, chiedendosi cosa continuasse a tormentare la ragazza.
Più passava il tempo e più rischiava di impazzire perché ogni
giorno veniva a contatto con un avvenimento o un indizio del tutto
nuovi che l'avrebbero aiutato a ricostruire il passato di Ingie, ma
non riusciva mai nel suo intento.
Decise
di raggiungere suo fratello, del tutto fuori uso, per accompagnarlo
per lo meno dentro casa. Quest'ultimo non gli diede di certo una mano
e decise di buttarsi a peso morto sul divano, rinunciando così ad un
bel letto caldo. I tentativi di Tom di trascinarlo in camera
ovviamente furono vani, dato che il vocalist si era già
addormentato.
Con
un sospiro, decise di cambiare soggetto e quindi raggiunse Georg, che
manteneva Ingie, sempre più incosciente.
“Lascia,
ci penso io.” gli disse Tom, prima di inginocchiarsi per sfilare le
scarpe alla ragazza. Successivamente – dopo averle tolto anche la
giacca, che Gustav appese –, le passò una mano dietro la schiena
ed una sotto le ginocchia, prendendola in braccio. “Tu portale su
le scarpe.” chiese al bassista, per poi cominciare a salire le
scale, facendo ben attenzione a non perdere l'equilibrio.
Con
qualche difficoltà raggiunse il piano superiore, si fece aprire la
porta della stanza di Ingie e vi entrò, accendendo la luce con la
spalla.
“Buona
notte.” lo salutò il rosso, dopo aver posato le scarpe per terra.
“'Notte.”
rispose, mentre sentiva la porta alle sue spalle chiudersi. “Eccoci.”
sospirò, adagiando lentamente la mora sul letto. “Evito di
spogliarti per avere la testa ancora attaccata al collo, domani.”
disse ironico, mentre le rimboccava le coperte.
Lei
aveva gli occhi chiusi, ancora inondati di lacrime, ma sapeva che non
si era addormentata completamente. Le passò un dito su quelle gocce
salate, sentendo la tristezza montargli nel corpo.
“Mi
hanno vista, Tom.” mormorò all'improvviso, poco chiara,
evidentemente ubriaca. “Mi hanno vista.” pianse quasi
silenziosamente.
Tom
si sedette sul bordo del letto, accanto a lei.
“Ingie,
calmati, non succede nulla.” cercò di tranquillizzarla, per quanto
potesse comprenderlo. “Sono fotografi, è il loro lavoro.” le
spiegò, come fosse una bimba bisognosa di rassicurazioni.
La
osservò assopirsi sempre di più; sapeva che di lì poco avrebbe
ceduto. Le spostò una ciocca di capelli dal viso ed attese che
varcasse la soglia del mondo dei sogni, mentre un enorme punto
interrogativo prese a tormentarlo.
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Capitolo 11 *** Ten - When everything happened ***
Ten
Ten
When
everything happened
Fece
scorrere le dita sulla propria tempia, massaggiandola. Corrugò la
fronte, emettendo dei mugolii infastiditi, non appena i sottili raggi
del sole le colpirono gli occhi ancora assonnati. Percepiva un enorme
peso nel cranio che le impediva di sollevare il capo e la vista era
annebbiata. Un freddo pungente la portò a stringersi il piumone
addosso, tremando appena. Si sentiva strana; la stanza vorticava
attorno a lei, creandole un fastidioso senso di nausea.
Voltò
lo sguardo in direzione della radiosveglia e constatò con stupore
che erano già le tre del pomeriggio.
Qualcuno
mi ha drogato? Si domandò sospettosa. Non era mai successo prima
di allora che dormisse così a lungo.
A
fatica, scostò il piumone dal proprio corpo infreddolito e poggiò i
piedi sul parquet. Tutto attorno a lei prese a vorticare e chiuse gli
occhi per alleviare quella spiacevole sensazione, invano. Con una
smorfia di disgusto, si alzò lentamente – per evitare capogiri
improvvisi e ritrovarsi con la faccia sul pavimento – e si
incamminò verso la porta. Quando la aprì, sentì un particolare
silenzio all'interno dello studio e si chiese se vi fosse rimasto
qualcuno.
Facendo
bene attenzione a non perdere l'equilibrio, cominciò a scendere le
scale, gradino dopo gradino e, nel giro di quasi un minuto, giunse al
piano inferiore. Nemmeno i cani le vennero in contro, quella volta.
Si
affacciò in cucina.
“Ah,
sei viva!” fu l'esclamazione di Gustav, non appena la vide.
“Cominciavamo a preoccuparci.”
“Dove
sono gli altri?” domandò lei, confusa.
“Bill
è andato a farsi la manicure, Georg è andato a fare un po' di spesa
e Tom è in giro con i cani.” spiegò tranquillamente il
batterista, invitandola nel frattempo a sederglisi affianco, a
tavola. “Hai fame?” chiese poi, scrutandola mentre lei si sedeva.
Scosse appena la testa, evitando movimenti bruschi. “Ti senti bene?
Sei pallida.”
“Mi
sento uno straccio.” mormorò lei, portandosi una mano sul viso.
Quella sgradevole sensazione non svaniva.
“Saranno
i sintomi post-sbornia.” commentò il biondo, per poi posarle una
mano sulla fronte. “Però sei piuttosto calda. Ti conviene misurare
la febbre.”
Detto
questo, il ragazzo si alzò ed uscì dalla cucina. Ingie posò la
testa sul tavolo, beandosi del fresco che emanava, a contatto con la
pelle del viso bollente. Ora cominciava anche lei a sospettare di
un'influenza; d'altronde l'aveva predetta, il giorno in cui Tom
l'aveva trascinata nel lago assieme a lui. Aveva cominciato a star
male già dalla sera prima, quando ancora era indecisa se uscire o
meno.
A
quel punto, le tornò alla mente tutto ciò che era successo durante
la notte e, come un flash – un altro – rammentò i paparazzi al
di fuori della discoteca che l'avevano immortalata, contro il suo
volere.
Percepì
un violento nodo nello stomaco mozzarle il fiato, quando Gustav
rientrò in cucina con un termometro a portata di mano.
“Grazie.”
sussurrò, ponendoselo quindi al di sotto dell'ascella. “Spero per
Tom di stare bene.”
“Perché
Tom?” domandò lui curioso.
“Storia
lunga.” borbottò la mora, facendo un gesto svogliato con la mano.
Gustav la squadrò sospettoso ma non indagò oltre. “Ieri sera sono
riuscita a farti scatenare.” sorrise poi, fingendo disinvoltura,
guardandolo di sottecchi.
Gustav
diventò paonazzo.
“Beh,
diciamo che riesci ad essere abbastanza convincente.” si
giustificò.
Improvvisamente
sentirono la porta dello studio aprirsi. Non uscirono dalla cucina
per verificare chi fosse, preferirono aspettare, fino anche la testa
rossa del bassista non fece capolino.
“Ah,
buongiorno, Ingie!” salutò la mora, per poi entrare con due
sacchetti pieni e trasbordanti di acquisti. “Credevamo fossi morta
nel sonno.” disse, mentre posava sul tavolo le buste.
“Grazie
del bel pensiero, Redhead.” fece lei scettica. Si sentiva
decisamente troppo nervosa ed aveva preso a mordicchiarsi le unghie,
in tensione.
Aveva
sempre saputo che soggiornare allo studio dei Tokio Hotel non sarebbe
stato sicuro a lungo. Erano persone ben più che note e non avrebbe
mai potuto sperare di non venire fotografata almeno una volta. Già
immaginava i titoli dei giornali, con la sua foto in bella mostra.
Solo il pensiero le faceva venire voglia di scoppiare in un pianto
ininterrotto. Pregò che quelle foto non facessero il giro del mondo,
ma soprattutto che non giungessero in America; anche se sapeva bene
di pretendere l'impossibile.
“Cinque
minuti sono passati.” annunciò Gustav, risvegliandola dai suoi
pensieri vorticosi.
“Stai
male?” le chiese Georg, perplesso. “Effettivamente sei pallida.”
Ingie
afferrò il termometro e vi buttò l'occhio.
“Trentotto
e due.” sibilò, mentre l'istinto omicida nei confronti del
chitarrista tornava a farsi vivo e pulsante nelle sue vene. “Piggy
è un uomo morto.” concluse, riponendo l'oggetto sul tavolo.
“Vai
a metterti a letto.” le ordinò il batterista, con tono che non
ammetteva repliche di alcun tipo. “Ti preparo una tisana.”
Ingie
preferì non ribattere e soprattutto non opporsi; stava troppo male
per sostenere una discussione. Aveva passato a letto fin troppo tempo
e l'istinto le diceva di perlustrare ogni singolo giornalaio per
assicurarsi che quelle foto non venissero pubblicate, per lo meno non
su una rivista.
Si
alzò lentamente dalla sedia, stando attenta ai capogiri, e salì
nuovamente le scale, in direzione della camera da letto.
***
Un
volta rientrato in casa, sganciò i guinzagli dei cani e li lasciò
liberi di correre in contro ai ragazzi che sedevano sul divano del
salotto, di fronte ad un quiz televisivo.
“Hey.”
esclamò, annunciando la propria presenza. “Che fate?” domandò,
avvicinandosi a loro.
“Stiamo
testando la nostra intelligenza.” rispose Georg. “Inutile dire
che Gustav mi sta umiliando.” aggiunse poi, decisamente
insoddisfatto di tale dichiarazione.
Tom
sorrise appena.
“Ingie
non si è ancora svegliata?” indagò poi allibito. Possibile che
stesse ancora dormendo?
“Sì,
si è svegliata.” disse Gustav, senza staccare gli occhi dallo
schermo. “Ha la febbre.”
Tom
sbatté le palpebre più volte, piuttosto sorpreso.
“Febbre?”
fece, cominciando a presagire la propria morte.
“Sì.
È in camera, se la vuoi salutare.”
Tom
annuì lentamente, pensieroso. Ancora non si era tolto dalla testa
ciò che era successo la sera prima; la ricordava così indifesa,
così spaurita che non poté fare a meno di chiedersi il perché. Che
non volesse essere vista assieme a loro? O che non volesse essere
semplicemente vista? Forse si nascondeva da qualcuno?
Era
tutta la mattina che si poneva quegli interrogativi ma non era ancora
riuscito a darsi una risposta certa.
Senza
dire più nulla, prese a salire le scale.
***
Percepiva
la testa scoppiarle ed il caldo imperversare. Sentiva che la febbre
stava raggiungendo livelli improponibili e temeva di prendere fuoco
da un momento all'altro. La televisione di fronte a lei parlava da
sola, poiché il suo sguardo era perso nel vuoto e le sue orecchie
non stavano per nulla prestando attenzione. Ogni tanto, tirava su con
il naso per poi starnutire due o tre volte di fila. Si sentiva un
completo straccio ma il mal di testa le impediva in ogni caso di
dormire.
Udì
bussare.
“Avanti.”
mormorò, senza alzare la testa dal cuscino, lievemente sollevato per
permetterle di guardare la televisione.
La
porta della sua stanza si aprì e rivelò la sagoma del chitarrista.
“Ciao,
chiavica.” le sorrise.
“Oh,
giusto te mi servivi, oggi. Vieni qui, che devo pensare ad un modo
originale per ucciderti.” commentò sarcastica, mentre Tom
richiudeva la porta divertito. Lo osservò avvicinarsi, fino a che
non si sedette sul bordo del letto, accanto a lei, facendo inclinare
appena il materasso nella sua direzione.
“Non
perdi il tuo spirito dell'umorismo nemmeno da malata, vero?” le
domandò ironico.
“Mi
spieghi perché sei perfettamente sano?” gli chiese quasi
invidiosa, ma soprattutto indignata per quella colossale ingiustizia.
“Eri con me in quel dannato lago.”
“Che
vuoi farci?” si pavoneggiò lui. “Ho un fisico marmoreo che mi
permette di non ammalarmi.” Lei non rispose. Si limitò a roteare
gli occhi e tornare ad osservare disinteressata il programma a lei
sconosciuto che stavano trasmettendo da qualche minuto. “Quanto
hai?”
“Ora,
trentotto e sette. Si sta alzando.” borbottò lei, senza guardarlo.
Non aveva voglia di chiacchierare; non era dell'umore e soprattutto
nelle giuste condizioni fisiche per farlo. Sospirò svogliata. “Che
cazzo di caldo.” si lamentò in un sussurro, scostandosi di dosso
le coperte, che andarono a finire in buona parte addosso a Tom.
Questo
rise.
“Sembri
un'anima in pena.” la prese in giro.
“Odio
essere malata.”
“Oh,
avanti, prendi la vita con più filosofia.”
“Disse
colui che leggeva fumetti.”
“Io
non leggo fumetti!”
“Whatever.”
Stettero qualche attimo in silenzio. Ingie non aveva per nulla voglia
di portare avanti quella conversazione, aveva già troppi pensieri
per la testa ed un milione di fazzolettini ancora da consumare. Buttò
gli occhi sul chitarrista, il quale osservava distratto la
televisione; pareva stesse pensando ad altro, forse a cosa poter dire
in quelle circostanze. “Sei venuto qui per guardare la TV?” gli
domandò, un po' seccata.
Lui,
come risvegliatosi dai propri pensieri, voltò velocemente il viso
verso di lei con sguardo assente.
“No.”
rispose come un automa. Ingie sollevò le sopracciglia, come per
incitarlo a darle delle spiegazioni, così Tom si voltò
completamente verso di lei e prese a parlare. “Andrò dritto al
punto.”
“Come
pensavo.” fece lei scettica.
“Non
cominciare ad alzare il muro fra me e te.”
“L'ho
mai tolto?”
“Ieri
sera pensavo di sì.”
Ingie
irrigidì ogni muscolo, ricordandosi della vicenda in discoteca.
“Era
solo un ballo, così come quello con Gustav. Ed io ero ubriaca.”
mise subito le cose in chiaro.
“Perché
ti agiti tanto? Se era una semplice ballo, non vedo perché tu debba
mettere immediatamente le mani avanti.” la sfidò lui. “In ogni
caso, non volevo parlare di quello.” cambiò poi tono, ora più
serio. “Ma di ciò che è successo fuori. Eri semplicemente
sconvolta e io vorrei sapere per quale motivo ti terrorizza tanto il
pensiero di apparire in qualche foto.”
Ingie
si prese qualche attimo per riflettere, o meglio, per costruire una
scusa plausibile.
“Mi
scoccia il pensiero di essere immortalata e finire su qualche
giornale. È tanto strano?” rispose, come nulla fosse.
“Se
qualcosa ti scoccia, ti lamenti cinque secondi. Tu eri, non lo so,
sconvolta?”
“Credo
che ubriaca sia il termine corretto.”
“Non
me la dai a bere.”
“Non
è un mio problema. Ora, se hai finito di giocare all'allegro
investigatore, ti dispiacerebbe lasciarmi riposare? Ho la testa che
mi scoppia.”
“Da
chi stai scappando, Ingie?”
Quella
domanda la prese in contropiede, ma non si fece cogliere impreparata.
“Senti,
credo che tu stia ricamando una storiella dallo sfondo un po' troppo
poliziesco. D'accordo, devo ammettere che la fantasia non ti manca,
ma non pensi di esagerare?”
“E
tu non pensi che se mi dicessi la verità una volta per tutte,
sarebbe molto più facile ed io ti lascerei stare? È ovvio che se
continui a divagare, io costruisco un mucchio di possibilità nella
mia mente. Perché non mi vuoi rendere la cosa più facile?”
“Perché
non c'è niente da spiegare.”
“Siamo
sempre al solito discorso. Da quando hai messo piede qua dentro non
hai fatto altro che nascondermi la tua identità!”
“Ora
non esagerare, non ti ho mai nascosto la mia identità.”
“Ah
no?! Mi hai mai detto qual'è il tuo cognome?!”
La
mora si fermò ad osservarlo direttamente negli occhi, ammutolendo
per qualche istante.
Aveva
ragione, non aveva mai rivelato il proprio cognome, ma non per un
qualche strano motivo. Semplicemente sentiva di doverlo tenere
nascosto ancora per un po'. Sapeva che se glielo avesse rivelato, il
chitarrista si sarebbe messo subito al lavoro per trovare
informazioni su di lei che voleva solamente cancellare dalla sua
vita.
“Tom,
più che dirti che non sono una serial killer, non sono una
delinquente di nessun tipo, per farti stare meglio, non so che fare.”
mormorò, ormai stanca.
“Potresti
essere un pochino più aperta e sincera, tutto qui.” rispose lui
freddamente, per poi sollevarsi dal letto ed uscire dalla stanza,
prima di sbattere violentemente la porta.
***
Bill
non riusciva a comprendere come fosse possibile litigare ogni venti
minuti. Nessuno se ne accorgeva, ma lui era solito osservare ogni
singola mossa di suo fratello nei confronti di Ingie. L'aveva visto
scendere le scale con passo veloce e piuttosto pesante, mentre il
viso contrito non fece altro che confermare l'idea che si era fatto:
aveva per l'ennesima volta litigato con Ingie.
Era
incredibile come quei due non si sopportassero, tanto quanto si
attraessero. Solo un cieco non si sarebbe reso conto che alla base di
tutte quelle provocazioni e quei litigi vi era una buona dose di
tensione sessuale, da parte di entrambi. Riusciva a respirarla e
vedeva il tutto come fosse un qualcosa di estremamente elementare. Il
suo istinto era quello di prenderli da parte e schiaffeggiarli,
mostrando loro quanto fosse semplice la realtà dei fatti.
Personalmente, non aveva mai più visto suo fratello così
interessato o coinvolto da una ragazza, come lo era con lei. Si
ostinava a voler sapere tutto della sua vita, cosa che non avrebbe
mai avuto intenzione di fare con un'altra. E sotto le mani, gliene
erano passate tante; aveva ormai perso il conto, o forse non lo aveva
mai tenuto perché sapeva che sarebbe stato solo tempo perso.
Ultimamente era cambiato. Aveva smesso di interagire con il sesso
femminile solamente per divertimento. Ora aveva il bisogno di andare
oltre e questo Bill, lo sapeva bene. Si era semplicemente sforzato di
attendere i tempi lunghissimi del chitarrista, affinché arrivasse a
capire ciò che più voleva veramente dalla vita.
“Come
sta Ingie? Mi ha detto Gustav che ha la febbre.” decise di
domandare a Tom, fingendosi ignaro della situazione, una volta sceso
dalle scale.
“Direi
benissimo.” sputò acido il chitarrista. “Nemmeno quarantadue
gradi di febbre riescono a toglierle tutto il veleno che ha in
corpo.”
“D'accordo,
dato che io mi ero ripromesso di fare finta di nulla ma tu mi hai
spiattellato tutto come al solito, mi vedo costretto a parlare.”
“Nessuno
ti ha chiesto un parere, Bill. Almeno oggi risparmiami la predica.”
Detto
questo, il chitarrista afferrò le chiavi della macchina ed uscì
dallo studio, prima che Bill potesse dire solamente una parola. Il
vocalist sospirò pesantemente. Quella situazione stava diventando
insopportabile da gestire persino per lui.
Entrò
in cucina, da dove recuperò il vassoio che aveva preparato per
Ingie, munito di aspirina e mela. Salì le scale, fino a che non
raggiunse la porta della ragazza.
“Vengo
in pace.” esclamò al di là di essa.
“Come
in.” sentì dall'altra parte la sua voce, così entrò
sorridendo. La trovò sommersa dalle coperte e con la testa
sprofondata nel cuscino.
“Hai
un aspetto orribile.” le disse tranquillamente, avvicinandolesi.
“Anche
il tuo non è male.” ribatté lei con sarcasmo.
“A
che punto è la febbre?”
“Tuo
fratello si è impegnato perché mi salisse a cinquanta.”
“E
nella pratica?”
“Trentotto
e mezzo.” Bill si sedette sul letto, affianco a lei – dove un
momento prima era seduto Tom – e le posò il vassoio sulle gambe,
dopo che lei si fu raddrizzata appena con la schiena. “Ti sei fatto
la manicure?” gli domandò successivamente.
“Sì.”
si limitò a rispondere lui. Notò che la ragazza lo osservò per un
attimo con sguardo più che eloquente, ma lui decise di tergiversare.
“Mela.” disse, porgendogliela. Lei lo fissò ancora, per poi
arrendersi ed afferrarla.
“Non
ho molta fame.” borbottò la ragazza, prendendo però a sbucciarla.
“O
la mela o il medico.”
“Che
simpatico.” Bill si soffermò un attimo a guardarla, mentre portava
alla bocca la prima fetta. “Che vuoi?” domandò quindi la mora.
“Te lo leggo negli occhi, che muori dalla voglia di parlare, quindi
sputa quell'enorme rospo che ti tieni in bocca e facciamola finita.”
“Mi
chiedo solamente perché ti comporti così con lui.”
“Con
chi, con Scotty? Hai ragione, ultimamente lo sto un po' viziando con
tutti quei biscottini per cani.”
“Ingie.”
“Bill.”
“Non
fare la spiritosa.”
“Oh,
andiamo, siamo sempre al solito discorso. Mi comporto così con Tom
perché non riesce a tenere il naso fuori dalle questioni altrui.”
“Sai,
per quanto io possa considerare mio fratello un invadente, rozzo,
megalomane, indelicato...”
“Dimentichi
petulante.”
“...
Petulante e borioso, una parte molto nascosta del mio cervello non
può fare altro che dargli ragione.”
“La
cosa comincia a farsi interessante.”
“Tu
sei così distaccata e misteriosa con lui; è un uomo, un maschio
dominante, come pensi che possa accettare tutto questo?”
“Ora
è colpa mia se Piggy ha i complessi di inferiorità?”
“I
suoi non sono complessi di inferiorità. Io credo che lui abbia il
diritto di conoscerti meglio, come ce l'abbiamo noi.” Bill si alzò
dal letto, lasciando Ingie in silenzio. Prima di raggiungere la
porta, si voltò verso di lei. “Alla fine, se accantoni il successo
e i soldi, Tom non ha avuto niente dalla vita.” ammise, con la
tristezza negli occhi. “Sei una delle poche persone cui sta dando
la sua fiducia.” Le sorrise appena prima di aprire la porta a
sparire dietro essa.
***
Alla
fine, se accantoni il successo e i soldi, Tom non ha avuto niente
dalla vita.
Sei
una delle poche persone cui sta dando la sua fiducia.
Quelle
frasi continuavano a rimbombarle nella testa, come un disco.
Odio
mio padre perché ci ha abbandonati sin da quando eravamo bambini.
Si
era aperto con lei. Si era spogliato di ogni difesa, a prescindere
dalla sua ostilità.
Strinse
a sé il cuscino, continuando ad osservare intensamente il vuoto che
aveva di fronte. Un gran magone minacciava di farla scoppiare a
piangere, senza mezze misure.
Si
odiava.
Si
odiava perché quella non era l'Ingie che conosceva. Quella era una
ragazza acida, ostile, chiusa con il mondo. Una ragazza che mai
sarebbe riuscita ad instaurare nuovamente dei legami se non si fosse
migliorata.
Chiuse
gli occhi, facendo scorrere una piccola lacrima lungo la guancia, che
andò a morire sulla fodera del cuscino. Infilò una mano sotto di
esso ed afferrò la foto. La scrutò per dei momenti interminabili,
senza mai staccare gli occhi inondati e rossi dai suoi.
“Vorrei
che tutto questo non fosse mai successo.” mormorò, con voce rotta
dal pianto silenzioso. “Vorrei che fossi qui a darmi la forza ed il
coraggio per andare avanti.”
Un
tonfo improvviso la fece sobbalzare ed il cuore prese a batterle
all'impazzata dallo spavento. Si guardò attorno cercando di capire
cosa fosse successo, quando si rese conto che la sua agenda –
precedentemente sul comodino, affianco al letto – era caduta per
terra, aprendosi.
Sospirò
scocciata, mentre si allungava per recuperarla, quando qualcosa
attirò la sua attenzione. Aggrottò le sopracciglia nello scrutare
la pagina che le si presentava davanti agli occhi.
Due
Marzo.
Stringendosi
al petto l'agenda, scoppiò a piangere ma, questa volta, un lieve
sorriso le incorniciava il volto arrossato.
***
Quella
sera aveva deciso di mangiare in cucina; si sentiva sufficientemente
in forze per poter sedere su una normalissima sedia. Il motivo
principale era che non aveva più voglia di fossilizzarsi nel letto,
nonostante la febbre fosse ancora alta. Gustav le aveva
esplicitamente intimato di tornare a letto in meno di tre secondi e
mezzo, ma lei si era rifiutata, mettendo in pratica la cocciutaggine
che più la caratterizzava.
Indossava
una vestaglia, al di sopra del pigiama di flanella, dei calzettoni e
delle pantofole fucsia, gentilmente prese in prestito da Bill. Quella
sera, i maniaci non le avrebbero indubbiamente dato noia. I capelli
erano legati in una coda di cavallo, piuttosto alta, ed il viso
sbattuto e pallido completava quella perfetta immagine di antisesso.
Tom
non era ancora tornato a casa e dubitava che potesse farlo da un
momento all'altro. Lui era così. Quando era nervoso e non aveva
voglia di affrontare la gente, usciva dallo studio ed era capace di
non tornarvi fino a mattina inoltrata; sapeva che avrebbe passato la
serata e, se necessario, la nottata in un locale a bere qualcosa, in
compagnia di qualche suo amico.
Quella
situazione, per la prima volta, la fece sentire male. Non era
abituata a sentirsi in colpa nei suoi confronti. Eppure ora sentiva
di dovergli delle scuse perché, se qualche giorno prima erano
riusciti ad instaurare una sorta di rapporto appena confidenziale,
era riuscita a distruggere tutto con poche parole. Ormai era divenuta
la sua specialità. Era diventata così cinica e guastafeste che
stentava a riconoscersi.
“Però,
fai proprio paura.” fu il commento particolarmente sincero di
Georg, non appena la vide entrare in cucina, con passo lento e
pesante.
“Oggi
avete tutti voglia di riempirmi di complimenti, a quanto vedo. Non
vedo l'ora di vedere quanto voi siate sexy con la febbre a
trentanove.” rispose con sarcasmo, mentre si sedeva su una sedia,
il più lontano che poteva dai ragazzi, per evitare di contaminarli
in qualsiasi maniera.
“Io
mantengo un certo charme.” intervenne Bill distrattamente, mentre
attendeva che Gustav gli riempisse il piatto di minestrone di
verdura. “Devo dire che questa cena mi mette allegria.” disse
poi, con una cupa ironia.
“La
prossima volta, cucini tu qualcosa di allegro, invece di perdere
tempo a farti la manicure.” si difese Gustav, piuttosto irritato da
quell'affermazione. Ciò bastò per ammutolire il vocalist. “Tom
non torna?” domandò poi il biondo.
Bill
le lanciò un'occhiata veloce e poi tornò ad occuparsi del
minestrone.
“Penso
di no. Oggi è la sua giornata incazzosa.” rispose, mentre girava
il cucchiaio nel piatto, decisamente svogliato.
Ingie
ringraziò Gustav non appena ebbe finito di riempirle il piatto.
“Allora
non tornerà prima di domani.” scrollò le spalle il rosso, dopo
aver ingoiato l'enorme cucchiaiata che si era portato alla bocca. “Ci
mette un po', a smaltire i nervi.”
La
mora stette in silenzio e continuò a mangiare.
***
“Te
l'ho detto, Tom. Non te la devi prendere.”
Tom
ormai non dava più ascolto a ciò che Ivan gli stava dicendo da ore.
Si erano dati appuntamento ad un locale nel centro di Berlino ed
avevano deciso di passare una serata in compagnia dell'alcol e delle
chiacchiere. Il chitarrista aveva subito pensato a lui; aveva bisogno
di parlare con qualcuno e lui era l'unica persona vicina che avrebbe
potuto comprenderlo. Poi, conosceva Ingie.
“Sembra
facile.” borbottò il moro, dopo aver buttato giù un po' di birra.
“So
che non lo è e so anche che Ingie ha un caratterino per niente
facile, ma ci devi almeno provare. Hai capito com'è fatta; hai
capito che è orgogliosa, poco elastica e riservata. Che vuoi farci?”
Tom
sospirò nervosamente.
“Viviamo
assieme da qualche mese. Non vedo perché non dovrebbe fidarsi di
me.” obiettò.
“Forse
non è questo il problema. Probabilmente lo fa con tutti. Sai se ha
raccontato delle cose agli altri?”
“No.
E comunque non c'entrano gli altri; credevo che con me avesse un
altro tipo di rapporto. Nonostante ci stuzzichiamo, litighiamo e non
ci sopportiamo più di tanto, stiamo più tempo a farci compagnia. Ma
ciò che più mi innervosisce è che io mi sono aperto con lei. Le ho
raccontato di mio padre, Ivan. Di mio padre.” Vide la faccia
dell'amico contrarsi in un'espressione sorpresa. “Pensavo di aver
messo le basi per un rapporto confidenziale ed aperto e invece no. Si
è limitata a raccontarmi che, da adolescente, portava i capelli
viola.” fece scettico.
“I
capelli viola?” fece divertito l'amico.
“Così
pare.”
“Insomma,
ti sta davvero così a cuore?”
“Non
lo so nemmeno io. E se mi chiedo il perché non riesco a darmi una
risposta plausibile.”
“Forse
ti piace?”
“Andiamo,
no. È bella, ma non mi piace in quel senso.”
“Beh,
la trovi anche interessante dal punto di vista caratteriale.”
“Come
compagnia, niente di più.”
“Anche
io, all'inizio, la pensavo come te.”
Tom
lo scrutò per qualche istante in silenzio. Parlando a raffica si era
quasi dimenticato del fatto che Ivan fosse attratto da Ingie. Aveva
persino rimosso il loro appuntamento, conclusosi con un imbarazzante
due di picche da parte della ragazza. Ora si chiedeva se per il
biondo fosse acqua passata o meno.
“Sei
ancora preso da lei?” decise di chiedere. Ivan sospirò e scrollò
appena le spalle.
“Beh,
è ovvio che mi piaccia fisicamente e che mi attiri mentalmente.
Forse non ci spero più come prima, ma se mi chiedesse di uscire di
nuovo e conoscerci, non rifiuterei.” spiegò senza guardarlo negli
occhi. Tom si sentì particolarmente a disagio per quella risposta.
Era come se sentisse di fargli un torto, in qualche modo assurdo e
contorto, e non conosceva il motivo. “Perché non ammetti che piace
anche a te?”
Quella
domanda lo prese talmente in contropiede che per poco non si strozzò
con la birra.
“Ti
ho detto di no. Non mi piace.” ribatté, convinto.
“Ma
sei dannatamente curioso. Ora sei qui a bere birra, rifiutandoti di
tornare allo studio, per evitare di vederla. Come me lo spieghi?”
“Avevo
semplicemente voglia di passare una serata fuori; non resto di certo
fuori dallo studio per lei.”
“Andiamo,
Tom. Sono tuo amico.”
“Perché
insistete tutti con questa storia?”
“Perché
è dannatamente evidente. Solo tu non vuoi farci i conti.”
“Siete
voi che non volete fare i conti con la realtà; ovvero che Ingie non
mi piace in quel senso.”
***
Tom
continuava a non parlarle da tre giorni, ormai. Ingie si stupì di
quanto cocciuto ed ostinato fosse il chitarrista. Non credeva potesse
trasformare un motivo così futile in una vera e propria questione di
stato. In settantadue ore le aveva detto solo tre parole, una al
giorno: sì, no, 'fanculo.
La
prima risposta gliel'aveva data alla domanda 'Stasera mangi
l'insalata?' La seconda a 'Vuoi il formaggio?'. La terza
invece, particolarmente interessante, gliel'aveva data alla domanda
'Portiamo avanti questa sceneggiata ancora a lungo?'.
Doveva
ammettere di aver annoverato quella terza risposta fra le più
interessanti ricevute in tutta la sua vita, seconda in classifica
dopo 'Suck it'.
Accantonate
le divertenti vicende con il chitarrista, era contenta di
essere finalmente guarita ed aveva approfittato della situazione per
chiedere a Georg di accompagnarla per negozi, alla ricerca di qualche
regalo per Natale. Il venticinque dicembre era alle porte, mancava
poco meno di un mese, ed il fatto di trascorrerlo in una famiglia che
non fosse sua, in una casa che non fosse sua, la metteva parecchio a
disagio. Inoltre, avrebbe dovuto decidere dove andare, poiché i
ragazzi si sarebbero divisi per festeggiare con le rispettive
famiglie.
Per
la prima volta nella sua vita, si sentiva seriamente sola, e l'idea
di dover festeggiare una giornata in cui solitamente le famiglie si
riuniscono, quando lei non ne aveva più una, le metteva un'enorme
tristezza addosso.
“Spero
che le tue intenzioni siano pure. Non voglio girare trecento negozi
ed aspettare che tu faccia shopping. Per quello devi chiamare Bill.”
le disse il bassista, alla guida dell'auto.
Aveva
gentilmente accettato di farle compagnia, ma soprattutto aiutarla a
capire quali fossero i gusti degli altri coinquilini. Di Georg già
sapeva qualche cosa; aveva indagato grazie a Gustav.
“Tranquillo.
Voglio sul serio dare un'occhiata per i regali di Natale, non farò
shopping.” sorrise lei, senza staccare gli occhi dalla strada.
“Anche se sarà dura. Mi devi assolutamente dare una mano.”
“Te
l'ho detta, la mia teoria. Birra per tutti.”
Ingie
si voltò nella sua direzione, studiandolo appena.
“Tu
non hai molto lo spirito natalizio, vero?” commentò sarcastica e
Georg le rispose con una semplice smorfia.
In
pochi minuti, giunsero a destinazione. Il rosso parcheggiò l'auto
proprio di fronte l'enorme centro commerciale che li attendeva. Non
aveva mai visitato quel posto e sperò di poter trovare qualcosa di
carino per tutti. Non poté fare a meno di sorridere amaramente non
appena si rese conto di quanto fosse già addobbato e colorato;
respirava già l'aria natalizia e non poteva credere mancassero così
pochi giorni. Nella sua testa il Natale non sarebbe mai più arrivato
e poteva dire di essersi quasi convinta che fosse vero. “Tu hai già
qualche idea, Redhead?” domandò, non appena varcarono
l'ingresso del primo negozio: Bershka.
Ricordava
con piacere e nostalgia tutte le giornate che trascorreva dentro quel
negozio, in America. L'aveva da sempre adorato ed era il suo
preferito in assoluto. Riusciva sempre a trovare tutto ciò che le
serviva e la tentazione di provarsi qualcosa che riusciva ad
adocchiare, di tanto in tanto, era fortissima. Eppure, per il bene di
Georg, cercò di concentrarsi sui capi maschili.
“A
Bill potresti regalare un pigiama di Walt Disney.” le disse
il ragazzo, mentre si guardava in giro con relativo interesse.
“Georg,
se ti ho fatto venire per sentire queste fesserie tutta la giornata,
possiamo tornare indietro.” borbottò lei, senza degnarlo però di
un'occhiata.
“D'accordo.”
sbuffò lui. “Che ne dici di quella?” indicò una giacca nera in
pelle, munita di borchie sulle spalle.
“Ne
avrà un centinaio, di fatte così.” rispose lei, poco convinta.
“Prendigli
la centounesima.” scrollò le spalle il rosso, ma ad un'occhiata di
fuoco da parte della mora, si ammutolì e riprese a cercare. “Questa
potrebbe piacere a Gustav.” disse poi, riferendosi ad una maglia in
lana, semplice, color crema. Ingie la osservò attentamente qualche
secondo, per poi storcere il naso.
“Non
mi convince.” concluse.
“Non
ti convince.” ripeté atono il bassista.
“Non
mi convince.” confermò lei, riprendendo a camminare.
“Sono
già stufo.”
“Non
costringermi ad usare la violenza.”
“E
se ci prendessimo un caffè in quel bar? Cinque minuti, poi ti
prometto che farò il bravo per tutto il giorno.”
Ingie
sollevò disperata gli occhi al cielo e, con un gran sospiro, si
voltò nuovamente vero di lui.
“Fine!”
esclamò con esasperazione. “Cinque minuti! Ma poi farai tutto
quello che ti dico.”
“Affare
fatto.”
Scosse
la testa, seguendo il bassista che – gli occhiali da sole calati
sul naso – sgattaiolava in mezzo alla gente, in direzione del
baretto menzionato. Si chiedeva se avesse fatto bene a chiedere
proprio a Georg di accompagnarla in quell'impresa. Probabilmente,
Gustav si sarebbe rivelato molto più utile, e questo lo sapeva bene.
Il problema si era presentato quando il biondo, alla sua proposta, le
aveva risposto che aveva moltissimo da fare e che avrebbe potuto
chiedere a Georg.
Si
sedettero ad un tavolino piuttosto appartato ed ordinarono due caffè.
“Uscire
a far compere con voi uomini è qualcosa di impossibile.” commentò
la ragazza, fissandolo negli occhi.
“Che
vuoi farci. Non tutti siamo nati con i geni di Bill. Per fortuna.”
rispose lui con noncuranza. “Parlando di geni di Kaulitz...”
disse poi, osservandola di sottecchi, osò pensare con malizia. “C'è
qualche assurdo, oscuro ed inquietante motivo per cui tu e Tom non vi
rivolgete la parola da tre giorni?” le domandò, molto interessato.
Ingie
cominciò ad innervosirsi. Parlare di Tom, ultimamente, la faceva
sentire a disagio e non le piaceva toccare determinati argomenti.
“I
soliti motivi.” rispose vaga.
“Lui
lascia la lametta nella doccia e tu ci metti il piede sopra?”
“Non
quei motivi.”
“Facciamo
che me li dici?”
“Facciamo
che non ne parliamo e basta?”
“Ti
piacerebbe vincere questa battaglia contro di me, vero?”
“Non
la voglio proprio combattere, è differente.”
“Ritieniti
sfortunata.”
“Georg.”
“Ingie.”
“Il
tuo caffè si sta raffreddando.”
“Ingie.”
“Georg.”
“D'accordo.
Vorrà dire che mi costruirò una bella storiella in testa, su cosa
potrebbe essere accaduto. Per esempio, avete fatto sesso, sei rimasta
incinta e lui – dalla disperazione – si sta dando ad alcol e
solitudine.”
“Un
po' troppo fantasioso, non credi?”
“Ma
non impossibile.”
“Va
bene, la pausa è finita.”
“Forse
non hai ancora capito che non mi puoi scappare, oggi. Ti stresserò
per tutto il giorno, fino a che non mi dirai ogni cosa.”
Mio
Dio, che pesantezza.
***
Era
rannicchiata sul divano, intenta a dedicare a Scotty un po' del suo
tempo e soprattutto delle sue coccole. Quel cane si era affezionato a
lei in modo quasi spasmodico ed era tremendamente strano come fosse
possibile che un animale potesse regalarle così tanto affetto, a
volte anche più di un essere umano.
Osservava
distratta la televisione di fronte a lei, silenziosa; vedeva solo
immagini ma non poteva sentire cosa quella gente avesse da dirsi.
Inutile
dire che l'uscita con Georg si era rivelata del tutto improduttiva ed
era tornata allo studio a mani vuote.
Erano
le nove di sera. Era sola in casa; aveva deciso di lasciare i ragazzi
liberi di divertirsi come ai vecchi tempi. Avevano insistito perché
anche lei partecipasse, ma aveva gentilmente declinato l'invito.
Anche lei aveva bisogno di stare un po' da sola.
La
cosa che più le aveva fatto male era sapere che Tom non stava
partecipando a quell'uscita tutta al maschile. Probabilmente lui era
altrove, chissà a combinare cosa. Era decisamente esausta; non
riusciva più a trascinare quella situazione. Le pareva del tutto
assurdo che il chitarrista ancora non le rivolgesse parola, nemmeno
per sbaglio. D'altronde, a lui non doveva niente.
Improvvisamente,
lo scattare della serratura della porta dello studio la fece
sobbalzare sul posto, tanto che Scotty – spaventato – saltò giù
dal divano. Si voltò in direzione dell'ingresso con la fronte
corrugata ed attese, fino a che non si trovò di fronte Tom.
Si
scambiarono un'occhiata piuttosto lunga, senza dirsi una parola, fino
a che lui non spezzò il contatto per richiudere la porta.
“Come
mai già qui?” domandò lei, spontaneamente.
L'unica
risposta che ebbe dal ragazzo fu una gelida occhiata, che la fece
rabbrividire. Non volle aggiungere altro. Lo osservò avvicinarsi con
un giornale in mano, che ben presto venne gettato sul tavolino, di
fronte a lei. Deglutì appena, adocchiando la copertina, che ancora
non le diceva nulla.
“Spero
per te non sia una questione di vita o di morte e, visto e
considerato che non so di che si tratta, non mi importa nemmeno più
di tanto.” sussurrò più che gelido. Sentì quelle parole
penetrarle nelle ossa, ma si concentrò sulla rivista, che prese a
sfogliare nervosamente sul suo grembo. Quasi non riuscì a
comprendere immediatamente, non appena giunse alla pagina che,
sapeva, le interessava. I suoi occhi si posarono insicuri sull'enorme
foto che occupava l'intera facciata. Solo una didascalia completava
il tutto.
Tom
Kaulitz e la sua nuova fiamma? Diceva il titolo, a caratteri
cubitali.
Nella
foto, riusciva ad intravedere il suo viso, una frazione di secondo
prima che Tom riuscisse a nasconderlo con la propria felpa. Gli occhi
semiaperti, il trucco sbavato, l'espressione contrita e chiaramente
disinibita.
Chiuse
gli occhi.
Questo
non doveva accadere.
“Che
c'è, l'FBI ora ti darà la caccia?” la provocò nuovamente Tom.
“Smettila.”
tagliò corto lei. “Ora stai esagerando.”
“Parlo
solo per ipotesi; d'altronde, in quale altro modo posso farlo? La
verità sembra essere diventata privilegio di pochi.”
“Ti
stai comportando da persona estremamente immatura.”
La
faccia di Tom si contrasse in una smorfia quasi disgustata.
“Ora
sei tu, che vieni a dare lezioni di maturità a me? Tu che non sei
neanche in grado di dire come stanno veramente le cose? Io mi sono
aperto con te, sin dal primo momento e ho mostrato di essere paziente
e comprensivo. Se qui c'è qualcuno di estremamente immaturo, sei
tu.” disse con disprezzo, prima di uscire nuovamente dallo studio,
sbattendo la porta con forza.
Il
suo cuore batteva all'impazzata e non per il giornale che ancora
teneva fra le mani, ma per ciò che Tom le aveva appena gridato
contro. Anche lei non ne poteva più, era quella la verità. Era
arrivata anche lei al limite della sopportazione ed era stato proprio
ultimamente che si era resa conto di quanto fosse difficile dover
celare delle cose a tutti i costi, a persone vicine.
Tom
aveva ragione. Non era giusto nei suoi confronti tenerlo all'oscuro
di alcune cose, quando lui aveva deciso di aprirsi con lei.
Alla
fine, se accantoni il successo e i soldi, Tom non ha avuto niente
dalla vita.
Sospirò,
posando il giornale sul comodino. Camminò fino alla porta,
torcendosi continuamente le dita. Pochi secondi in cui il cervello
formulò infiniti pensieri, uno a cavallo dell'altro, e dubbi. Ad
ogni domanda, cercò di darsi una risposta, fino a che non aprì.
Trovò la figura del ragazzo seduta sul dondolo, con una sigaretta in
bocca e lo sguardo perso, a contemplare il vuoto. Sembrava
tormentato.
Richiuse
la porta alle proprie spalle e camminò silenziosamente fino a
raggiungerlo. Nessuno dei due proferì parola, come per un tacito
accordo, nemmeno quando gli si sedette accanto, senza degnarlo di uno
sguardo.
Aspettò
qualche secondo, prima di prendere la sua decisione.
“Tutto
è cominciato la notte del venti Ottobre.”
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Capitolo 12 *** Eleven - Blackout ***
11
Eleven
Blackout
Venti
Ottobre duemiladodici.
“Festeggiamo
quest'ennesima vittoria!”
Vennero
sollevate una decina di bottiglie di birra, per brindare alla felice
notizia che ancora una volta erano riusciti a ricevere. Per il terzo
anno consecutivo si erano visti vincitori indiscussi del Contest di
ballo Hip-Hop tra i più importanti in America. Per il terzo anno
consecutivo portavano a casa medaglia e coppa, senza contare le
innumerevoli proposte da parte di coreografi di partecipare ai loro
spettacoli.
Ingie
si sentiva leggera, inebriata di felicità e del profumo della
vittoria. Adorava vincere; adorava sudarsi un premio assieme ai suoi
colleghi, amici prima di tutto. Ma più di ogni altra cosa, adorava
condividere quel tipo di emozioni con suo fratello, che proprio
assieme a lei aveva deciso di intraprendere quella che ormai era
divenuta una vera e propria carriera, oltre che una passione.
“Brindiamo
a Elena che ha rischiato di salire sul palco in mutande!” esclamò
Ingie.
“A
Steven, che ha ballato tutto il tempo con le scarpe slacciate!”
aggiunse Hanna.
“E
ad Ingie, che ha avuto la brillante idea di storcersi un dito, prima
del nostro turno!” concluse Ty. Scontrarono tutti insieme le
bottiglie di birra e cominciarono a sorseggiarla, particolarmente
allegri. “Comunque, siamo stati da orgasmo.” commentò
successivamente, piuttosto compiaciuto.
Ingie
scosse la testa sorridendo.
“Penso
che i tuoi continui ammiccamenti al giudice abbiano sortito qualche
effetto.” disse.
“Beh,
era una bella fettina di carne. Di quelle al sangue, come piacciono a
me.”
“Perché
associ sempre le donne al cibo?” domandò divertita Hanna.
“Perché
penso che non troverei termini di paragone in grado di rendere meglio
le mie idee.”
Improvvisamente,
Ingie fu affiancata da suo fratello. Pareva parecchio stanco.
“Che
dici, andiamo a casa?” le domandò.
“Così
presto?” rispose lei, un po' contrariata.
“Domani
mattina devo lavorare, lo sai.” le disse con dolcezza.
Quel
ragazzo era così, calmo e gentile in ogni situazione. Tutto il
vicinato lo conosceva e ne parlava in maniera stupenda. Chiunque
riusciva a mettere una buona parola sul suo conto; era una persona
molto amata da tutti.
“D'accordo.”
sbuffò Ingie, prima di recuperare il cappotto, gettato sulla sedia.
“Ragazzi, noi leviamo le tende.” annunciò, portando tutti quanti
a grugnire con disapprovazione. Eppure non impiegarono troppo tempo
per divincolarsi ed in pochi minuti si trovarono fuori dal locale, a
camminare lungo il marciapiede, in direzione della macchina. Ingie,
la cui tolleranza nei confronti dell'alcol aveva già raggiunto
livelli considerevoli, prese a saltellare per la strada,
canticchiando una melodia sconosciuta persino a lei.
“Sei
imbarazzante.” scherzò il fratello.
“No.”
rispose lei, sorridendo, una volta raggiunta l'auto. “Sono
esilarante.” esclamò in una sorta di cantilena, dandogli un colpo
sulla spalla.
“Se
lo dici tu.” la prese in giro prima di salire a bordo. Ingie fece
il giro correndo sui tacchi, con qualche difficoltà, fino a che non
lo affiancò. “Fammi il favore di metterti la cintura, questa
volta.”
“Andiamo,
come sei noioso, un po' di vita! Abbiamo appena vinto il nostro terzo
premio consecutivo!”
“Questo
dovrebbe convincermi a non mettere la cintura?” Ingie sollevò gli
occhi al tettuccio e continuò ad agitarsi sul proprio sedile, senza
raccomandarsi di fare come lui le aveva detto. Non aveva voglia di
sottostare ad inutili convenevoli. Era la loro serata e se la sarebbe
goduta fino in fondo. Accese la radio, alzando il volume al massimo.
La musica dance che diffondeva la scosse nelle ossa e nelle vene,
portandola a muoversi come stesse danzando nel bel mezzo di una
discoteca. D'altronde, i suoi sensi avevano preso a viaggiare ed a
percepire tutto in modo amplificato. “Ingie, non mi venire addosso,
sto guidando.”
“Lo
ripeto: sei NOIOSO.” rimarcò quella parola, punzecchiandolo appena
su un fianco.
“Ingie!”
esclamò lui. “Piantala, sei stupida?”
“Non
festeggi!” si giustificò lei, come fosse qualcosa di assolutamente
normale.
“Sto
guidando!” ribatté lui per l'ennesima volta.
Ingie
scoppiò a ridere, senza un motivo particolare. Tutta quella
situazione la divertiva in un modo sconosciuto ed assurdo;
probabilmente le due bottiglie di birra, il Mojito e il Long Island
non avevano contribuito a rendere la serata meno confusionaria.
“Allora,
fermati lì, così balliamo un altro po'!” esclamò all'improvviso
afferrando il volante e girandolo – in direzione di un'area di
sosta – talmente all'improvviso che suo fratello si ritrovò ad
urlare ancora una volta il suo nome, ormai perso il controllo
dell'auto.
L'improvviso
suonare di un clacson, con fare ripetuto, due enormi luci sempre più
accecanti nella loro direzione ed un camion di proporzioni cosmiche.
L'impatto
fu devastante.
Quando
aprì gli occhi, vide una nube di fumo attorno a lei; sentiva di aver
perso i sensi per qualche tempo, non riusciva a dire quanto. Ci
vollero pochi secondi prima che una fitta lancinante le perforasse il
ginocchio destro ed un forte mal di testa la prendesse in
contropiede. Emanò qualche mugolio dolorante, mentre cercava in ogni
modo di mettere a fuoco ciò che aveva di fronte. La vista era
tremendamente annebbiata e quei dolori quasi non la facevano
respirare.
Portandosi
una mano alla tempia, si rese conto che era sporca di sangue e, non
appena riuscì ad osservare ciò che era successo al di fuori del
vetro, sgranò gli occhi alla vista del muso dell'auto completamente
distrutto ed il guardrail frantumato dall'impatto.
Cominciò
a tremare; prese a respirare con affanno, pregando perché ciò che
stava vedendo fosse solo un terribile incubo, e – con lentezza
spaventosa – voltò lo sguardo alla sua sinistra.
Il
cuore le scoppiò.
Non
vi era traccia del sedile, non vi era traccia del resto della
macchina, non vi era traccia di suo fratello; solo un mucchio di
macerie accartocciate.
Urlò
fino a che i polmoni non minacciarono di esplodere.
***
Non
si era resa conto di tremare.
Le
mani, quasi ibernate per il gelo tedesco serale, continuavano a
sfregarsi fra loro, le dita ad intrecciarsi nervosamente.
Il
riportare alla mente, ma soprattutto il dar voce a quei ricordi le
aveva fatto ancora più male di ciò che aveva predetto. La gola le
si era improvvisamente chiusa, il fiato esaurito. Il cuore stava
lentamente tornando a battere in modo regolare, dopo i continui
tentativi di sfondarle il petto.
Quasi
non aveva il coraggio di voltarsi in direzione di Tom. Si chiedeva
quale espressione stesse macchiando il suo viso, quale pensiero gli
stesse passando per la testa. Si chiese persino se l'avesse anche
solo ascoltata.
Tirare
fuori ciò che era accaduto quella notte le era costato fatica, tempo
e riflessione. Il punto era che lei stessa doveva ancora cercare di
metabolizzare quanto accaduto; l'idea di raccontarlo ad una persona
esterna l'aveva sempre terrorizzata, poiché si ostinava a non voler
fare i conti con la realtà. Forse aveva paura di prendere una
facciata contro un muro troppo grande e di rendersi realmente conto
del momento che lei e la sua famiglia stavano vivendo.
Con
un lieve sospiro, dopo aver avuto la meglio sulle lacrime che
minacciavano di sgorgare dai suoi occhi, si voltò in direzione del
chitarrista, il quale fissava il vuoto di fronte a sé, senza
pronunciare parola.
“Beh,
hai fatto così tanto casino in questi mesi, perché ti raccontassi
un po' della mia vita, e ora che lo sto facendo non dici nulla?”
cercò di sdrammatizzare, anche se la sua voce tremolante la tradì.
Per
la prima volta, il ragazzo la guardò negli occhi.
“Io
non so che dire.” ammise. “Non mi aspettavo una cosa del genere.
Ti ho sempre preso per una ragazza viziata, ottusa e cocciuta, ma non
immaginavo un episodio simile.” disse, quasi dispiaciuto.
“Ah,
alla fine ne avevi il diritto. Non ti ho mai detto nulla su di me.”
alleggerì la tensione. “Mi sono resa conto di essere stata
insopportabile, fino ad ora, ma devi anche capire che, per me,
metabolizzare tutto questo è... Doloroso. Forse non volevo
accettarlo e, negandolo a te, lo negavo a me stessa.”
“Penso
sia una reazione comprensibile.” mormorò il chitarrista.
“Inoltre,
non appena ti ho conosciuto, alcune cose si sono rivelate curiose e
quasi inquietanti.” aggiunse, ripensando al primo giorno in cui
l'aveva incontrato. Allo sguardo accigliato di Tom, spiegò
immediatamente: “Mio fratello si chiamava Tom. Ed aveva la tua
età.” Lui sollevò le sopracciglia, sorpreso. “Non sapevo se
prenderlo come un buon segnale o qualcosa di terrificante. Inutile
dire che subito la presi male. Io stavo scappando e mio fratello, in
qualche modo, mi seguiva. Sono arrivata persino a pormi delle domande
sulla reincarnazione, ma mi sono ripresa abbastanza in fretta.”
A
quell'ultima affermazione, Tom sorrise.
“Quindi
la T che ti sei tatuata...” cominciò. “... Sta per Tom,
ma non sono io.” scherzò appena. Ingie si limitò ad annuire. “Ci
avevo quasi preso.”
“E
le due acca, per cui ti sei tanto tormentato, stanno semplicemente a
simboleggiare la passione che io e lui condividevamo.”
“L'Hip
Hop.”
“Ma
non è questo il punto di tutta la storia.” si prese qualche
attimo, rabbuiandosi. “Il punto è che Tom è morto per causa mia.”
Aveva
pronunciato talmente in fretta quella frase che si rese conto in
ritardo di ciò che aveva detto. Quella consapevolezza che si era
portata dietro per mesi, che era stata anche la ragione della sua
fuga, ora la leggeva nitida davanti ai propri occhi, che le sbatteva
in faccia tutta la sua ira.
Un
dolore lancinante le prese la bocca dello stomaco, che la costrinse a
piegarsi appena su se stessa, fino a che – inaspettatamente e senza
controllo – scoppiò a piangere.
Non
le importava se il ragazzo la stava osservando, non le importava se
si stava rendendo ridicola; tutto quel dolore doveva essere sfogato,
in un modo o nell'altro. Per mesi si era ripromessa di non piangere,
di accantonare tutti i problemi, ma assieme ai buoni propositi si era
dimenticata di avere un cuore, una memoria e una coscienza.
Si
era illusa di poter ricominciare a vivere come nulla fosse successo,
nonostante portasse suo fratello sempre nel cuore – come
testimoniava il tatuaggio –, si era illusa di poter accantonare i
sensi di colpa, ma questi continuavano a riemergere senza ritegno.
Singhiozzò
come mai aveva fatto fino a quel momento, portandosi le mani tremanti
al viso.
“Ingie...”
sussurrò Tom, forse incapace di intervenire in maniera adeguata.
“Ho
ucciso mio fratello.” balbettò lei, senza smettere di piangere,
con la mente annebbiata.
“Hey,
che dici, non l'hai ucciso.” Lei non sentì ragioni. Continuò a
piangere come non ne avesse mai avuto occasione in tutta la sua vita.
“Non eri in te.”
“Sì,
invece!” urlò all'improvviso la ragazza, alzandosi dal dondolo e
prendendosi la testa fra le mani, in segno di disperazione. “Stavo
facendo l'idiota; doveva toccare a me! Dovevo esserci io, in tutte
quelle macerie! La colpa è solo mia.”
Anche
Tom si alzò in piedi e prese ad avvicinarlesi lentamente.
“Ingie,
smettila di incolparti.” le disse con decisione.
“Per
te è facile parlare, Tom. Tu non hai la pesante responsabilità
della morte di tuo fratello sulle spalle.”
Si
sentiva stanca; stanca di parlare e di piangere.
“Per
questo sei scappata?” le domandò all'improvviso,
destabilizzandola.
Tremò,
prendendosi qualche istante.
“Io...”
balbettò. “Volevo andarmene dal caos. Volevo stare da sola,
dimenticare tutto. Perché le immagini di quella notte sono ancora
terribilmente nitide, davanti a me.” Le lacrime non cessavano di
bagnarle le gote arrossate come i suoi occhi, irritati e gonfi. “Ogni
notte rivivo tutto; ogni notte ho davanti il viso di mio fratello che
mi dice di vergognarmi. Per essere stata una codarda, per essere
scappata, per aver lasciato i miei genitori soli, con il loro dolore.
Non hanno perso solamente un figlio, ma due. Io non ho pensato a
questo, ho pensato a me stessa, da perfetta egoista. Non ho avuto né
il coraggio né la forza di confortarli, perché io per prima mi
sentivo responsabile. Mi sentivo sporca e non potevo permettermi di
stare con loro, perché il loro figlio maggiore era morto per colpa
mia. Non mi sentivo più degna di vivere in quella casa, in quella
città, a contatto con le persone che frequentavamo. Non potevo più
entrare in camera di Tom, senza sentirmi in colpa e sporca.” Era
accecata dalle lacrime; la figura del chitarrista, davanti a lei, era
tremendamente sbiadita e poteva scorgere solamente la sua espressione
contrita e triste. “Io ho sbagliato, ho sbagliato tutto. Ho
sbagliato con lui, con la mia famiglia... E non posso più rimediare.
Non posso più.”
Si
portò nuovamente le mani al viso, riprendendo a singhiozzare con
forza e disperazione.
Ogni
giorno si chiedeva dove avesse potuto racimolare la forza per
abbandonare la sua famiglia in un momento così difficile della loro
vita; si chiedeva cosa potessero pensare di lei. Non avrebbe mai
potuto tornare indietro, come non meritava il loro perdono.
Improvvisamente,
sentì un corpo caldo entrare in contatto con il suo, avvolgendola in
un tenero abbraccio.
“Cosa
fai?” piagnucolò, tentando di allontanare il ragazzo, senza
successo.
“Stai
zitta.” fu la secca risposta di Tom. “Smettila di fare la
scontrosa del cazzo.” continuò, stringendola forte a sé e senza
aggiungere altro.
Ingie,
a quell'affermazione, non si sentì di replicare. Semplicemente,
quasi con timidezza, portò le proprie mani sulla schiena del
chitarrista, per ricambiare come meglio poteva quella stretta, per
lei così strana.
Non
ricordava cosa volesse dire ricevere affetto, ma soprattutto darlo.
Da quando suo fratello l'aveva lasciata, si era chiusa in se stessa
ed aveva represso ogni suo sentimento o capacità di un qualsiasi
gesto insignificante di amore. Ora Tom la stava cogliendo
impreparata.
“Mi
sento uno schifo.” sussurrò appena, ormai esausta. Le lacrime
avevano smesso di bagnarle il viso, ma il dolore era ancora lì, che
bruciava vivo nel suo cuore. “Non merito più nulla.”
“Piantala
di autocommiserarti. Non è salutare, né per te, né per me.” la
riprese lui. “E non sei la causa della morte di tuo fratello. Non
portarti questo peso per tutta la vita, non ti aiuta. E penso
seriamente che tu debba parlare con i tuoi.”
“No.”
esclamò lei, immediatamente, allontanandosi da lui. “Se prima non
potevo perché non mi sembrava giusto, ora non posso perché li ho
abbandonati nel momento del bisogno. Non sono stata una buona
figlia.”
“Sono
i tuoi genitori. Capirebbero e ti perdonerebbero per essertene
andata.”
“No,
Tom, non ce la faccio.”
Il
chitarrista non replicò; si fermò ad osservarla, pensieroso.
“Hai
intenzione di non riprenderti più?” domandò poi, con tono più
basso.
Ingie
lo guardò per qualche istante prima di rispondere.
“Mi
manca.” mormorò, come fosse una confessione di cui doveva
vergognarsi. “Mi manca da morire. Lui era il mio confidente, il mio
amico, tutto. Per qualsiasi problema mi rifugiavo da lui; è stato
sempre lui ad aiutarmi nei miei momenti più difficili, a consolarmi
quando ne avevo il bisogno, a dormire con me quando avevo paura di
qualcosa. È sempre stato il fratello maggiore che tutti vorrebbero,
era buono con tutti. Ed era un ballerino spettacolare. Condividevamo
la stessa passione da anni. Facevamo tutto insieme; ci eravamo
ripromessi di diventare dei ballerini professionisti e di girare il
mondo con una compagnia.” ricordò quelle loro parole con un
sorriso malinconico. “Ora tutto questo non si può più realizzare.
Non senza di lui.” strinse i pugni.
Tom
corrugò la fronte.
“Perché
non si può più realizzare?” chiese, non capendo.
“Perché
era una cosa che dovevamo fare insieme.” rispose lei con dolore.
“Ma
è una cosa che ti rende felice? Che ami fare?”
“Certo
che lo è o non l'avrei perseguita per dieci anni.”
“Allora
fallo, Ingie. Prova ancora a realizzarla.”
“No,
non sarebbe la stessa cosa. Mi sembra ingiusto nei suoi confronti e
non riuscirei ad esserne felice. Ormai non ha più senso.”
“Sei
tu che hai deciso che la tua vita non debba avere più senso. Tom ne
sarebbe felice perché era ciò che voleva anche lui.”
Ingie
si limitò a scuotere la testa. Sapeva che non avrebbe mai più
potuto ballare. Il cuore e la testa non glielo avrebbero permesso.
Suo fratello era vivido nei suoi pensieri e nelle sue priorità; non
poteva accantonarlo a quella maniera e perseguire un sogno che era di
entrambi. Non sarebbe stata la stessa cosa, senza di lui.
Sospirò.
“No,
non sento più nulla.” mormorò con voce rotta.
“Invece
tu puoi sentire di nuovo, Ingie. Puoi.” si avvicinò di nuovo il
ragazzo, stavolta senza toccarla.
“In
che modo, Tom? Non ho più mio fratello al mio fianco, non ho più
nessuno.”
“Questo
non è vero. Certo, la perdita di tuo fratello è reale e nessuno
potrà mai colmarla. Io stesso, solo il pensare ad una cosa simile mi
fa venire i brividi; ma non per questo ti devi annullare. Devi andare
avanti, per te e per lui, e devi aprire i tuoi sentimenti alla gente,
devi darle la possibilità di aiutarti.”
“Io
non voglio essere aiutata.”
“Perché
no?”
“Perché
non merito nulla.”
“Ingie,
non gli hai puntato una pistola al petto. È stata colpa del destino,
non tua. Quel camion poteva non passare, in quel momento. Smettila di
darti la colpa e sentirti un'assassina.”
“Sai
cosa mi fa stare più male? Il fatto che lui ci sia sempre stato per
me. Mi ha sempre protetta, a costo della vita. Io invece? Io non ho
fatto lo stesso, perché è stata la sua vita a spegnersi.”
“Cosa
potevi fare, Ingie? Cosa potevi fare? Fermare il camion con la sola
forza delle braccia?”
“Potevo
evitare di fare l'idiota e lasciarlo guidare in pace! Saremmo tonati
a casa sereni ed il giorno dopo avremmo ancora festeggiato, per poi
rifugiarci in fretta in palestra, pronti a mettere su un'altra
coreografia per l'anno seguente. Ecco cosa avremmo dovuto fare! Gli
ho distrutto un sogno, assieme alla vita!”
“Non
si può parlare con il senno di poi. Ingie, basta, ti prego. Basta.
Ti stai struggendo, ti stai condannando, non è giusto. Non accetti
nessuno, non vuoi farti aiutare. Io ti voglio aiutare, Ingie. Che tu
ci creda o no, io ti voglio aiutare. Devi uscire da questo tunnel
senza fine; devi tornare a vivere perché hai vent'anni, la vita è
ancora lunga, e non puoi rinunciarvi così. Non potrai mai
dimenticare tuo fratello, come è giusto che sia, ma devi imparare a
conviverci. Devi cercare di metabolizzare ed esorcizzare ogni tuoi
senso di colpa. Per lo meno, dimmi che ci proverai.”
“Non
ce la posso fare.”
“Non
da sola, ovvio. Ti aiuterò io.”
“Tom,
non voglio il tuo aiuto.”
“Infatti
non te lo sto offrendo, te lo sto imponendo. E non me ne può fregare
di meno se dovrò combattere con il tuo carattere di merda. Io sono
più testardo di te.”
Ormai
non sapeva più che cosa rispondere. Si era sfogata, aveva urlato,
pianto, tirato tutto fuori, dalla prima all'ultima parola ed ora si
sentiva esausta. Aveva bisogno di riposarsi, aveva la testa
tremendamente vuota, ma pesante al tempo stesso.
“Direi
che, per stasera, basta così.” disse. “Se pensi che non volevo
raccontarti nulla e invece sono crollata a questa maniera, è un po'
strano.” commentò, guardandosi attorno.
“Ti
ha fatto bene, invece.” rispose lui. “Hai tirato fuori un peso
che molto probabilmente ti saresti portata dietro a vita. Ho fatto
bene a insistere con te.”
“Sì,
beh... Non pensare che questo cambi qualcosa; resti sempre Piggy.”
lo mise in guardia con un lieve sorriso. Prima di dargli le spalle
per rientrare in casa. “Comunque ti ringrazio.” gli disse,
fermatasi all'improvviso per tornare a guardarlo negli occhi. “Sei
stato... Carino.” ammise, con gli occhi ancora arrossati e la pelle
del viso secca per le copiose lacrime che vi si erano asciugate.
Lui
scrollò le spalle come nulla fosse, per alleggerire la tensione.
“D'altronde
sono un gentleman.” si vantò, facendola sorridere divertita.
“Già.”
affermò ironica. “Ti chiedo solo di non raccontare niente agli
altri. Non ancora.” Tom annuì, comprensivo. Si sentiva decisamente
meglio. Quello sfogo si era inaspettatamente rivelato salutare. Era
riuscita a dar voce ai suoi sentimenti più profondi, alle sue paure
e ai suoi sensi di colpa. Aveva affrontato la realtà per la prima
volta in tutti quei mesi ed era riuscita ad esorcizzare argomenti che
mai si sarebbe aspettata di tirar fuori. Tutto grazie a Tom. Doveva
ammetterlo, si era rivelato tremendamente d'aiuto. Il suo insistere
per quel paio di mesi affinché lei riuscisse a confidarsi con lui
aveva finalmente dato i suoi frutti ed al contrario di ciò che lei
stessa aveva sempre sostenuto, aveva fatto bene. Sapeva che gliene
sarebbe stata grata, sebbene non fosse entusiasta di dimostrarglielo.
Tornare ad essere gentile ed affettuosa era un lavoro interiore che
avrebbe dovuto fare nel corso del tempo, lentamente, per se stessa.
“Un'ultima cosa.” disse, prima di rientrare in casa, attirando
l'attenzione del ragazzo. “Il mio cognome è Cook.”
***
Si
sentiva appena stordito. Era accaduto tutto talmente in fretta che
quasi non se ne era reso conto.
Per
mesi aveva trascorso le sue giornate a litigare con Ingie, a fondersi
il cervello, perché lei gli spiegasse cosa fosse successo di tanto
grave da farla scappare dall'America ed ora che l'aveva finalmente
reso partecipe, si sentiva un idiota.
Non
avrebbe mai immaginato qualcosa di simile; non aveva mai pensato si
trattasse della morte di qualcuno. Aveva sempre dato per scontato che
Ingie nascondesse determinate cose solo per vizio o per dargli
fastidio. Ora si sentiva quasi in colpa, per averla messa sotto
pressione. Come gli era stato detto, aveva bisogno dei suoi tempi per
metabolizzare la cosa e di certo lui non glieli aveva dati.
Ora
capiva il perché di tutti quei silenzi e di quel suo volersi
continuamente nascondere dagli altri.
Vederla
piangere l'aveva fatto stare sinceramente male. Non l'aveva mai vista
in quelle condizioni e si era sentito in dovere di consolarla ed
infonderle un minimo di calore umano; immaginava non ne ricevesse da
mesi. Aveva fatto il tutto in modo automatico, come fosse stato un
qualcosa di estremamente naturale.
Dopo
aver gettato il mozzicone di sigaretta nel posacenere, rientrò in
casa. Si guardò attorno, fino a che non scorse la figura della
ragazza rannicchiata sul divano, con le gambe avvolte fra le braccia.
Gli parve dannatamente piccola. Le si avvicinò, fino a gettarsi
affianco a lei, osservando ciò che la televisione stava
trasmettendo. Era un programma di cucina.
“Ti
piace proprio soffrire, eh?” disse con ironia, facendola
ridacchiare appena. Tutte quelle pietanze gli stavano facendo tornare
la fame, ed aveva cenato da un paio d'ore. “Crêpes.”
sussurrò improvvisamente, mentre il suo stomaco reclamava cibo.
Fu
illuminato da un'idea improvvisa. Con uno scatto, spense la TV e si
alzò in piedi, facendo sussultare la ragazza, che lo fissava come
fosse un fenomeno da baraccone.
“Hai
il pepe nel sedere?” domandò accigliata.
“Vai
a vestirti, usciamo.” le ordinò, ignorando la sua battuta. Lei
inarcò le sopracciglia. “Andiamo a mangiare le crêpes.”
chiarì, entusiasta come un bambino.
“Alle
nove e mezza?” ribatté Ingie, perplessa.
“Niente
di meglio! Su, muoviti, il mio stomaco sta chiedendo pietà.”
***
“Ancora
nulla?” domandò Kayla, ormai stremata. Le occhiaie marcate, lo
sguardo spento e le rughe sempre più accentuate. Il suo dolore non
faceva altro che triplicarsi, giorno dopo giorno, e la speranza
sembrava abbandonarla sempre più velocemente. Si era chiesta più
volte se valesse la pena continuare, in momenti di puro sconforto, ma
il suo cuore di madre continuava a suggerirle di non arrendersi.
“No,
Kayla. Non risponde né ai messaggi né alle chiamate.” mormorò
Luke. “Ormai, non so più che fare. Mi sembra tutto inutile.”
Kayla
si prese la testa fra le mani e fece scorrere una lacrima,
l'ennesima, lungo la guancia.
“Perché?”
si chiese, scoraggiata. “Perché mi fa questo? Fare le valigie ed
andarsene. Perché?”
Luke
non rispose. Probabilmente non sapeva come replicare alle sue
domande. O forse quelle domande non potevano trovare risposta.
***
“Ho
deciso che non sopporto mio fratello.”
Gustav
e Georg non avevano fatto una piega all'affermazione di Bill, che da
ore predicava su quanto Tom fosse idiota e non riuscisse a mettere a
posto ogni cosa con Ingie.
“Beh,
pensavo fosse ovvio, visto che borbotti contro di lui da più di due
ore, ormai.” commentò Georg, con il mento poggiato alla mano ed il
gomito sul tavolo.
Stavano
ancora cenando, visto e considerato che il vocalist aveva deciso di
dare sfogo ad ogni sua paturnia proprio in quel ristorante, dove
avrebbero dovuto trascorrere una serata divertente, a base di alcol,
come si era stabilito allo studio. Quella invece aveva preso una
piega del tutto differente ed il bassista ed il batterista
cominciavano a pentirsi di essere usciti.
“Semplicemente
non capisco il perché non riescano ad andare d'accordo, tutto qua!”
si lamentò ancora Bill, dopo aver bevuto un po' di birra dal suo
bicchiere, ancora pieno.
“Perché
si piacciono, ecco tutto.” rispose Gustav con un'alzata di spalle,
come fosse la cosa più ovvia del mondo.
In
effetti, quella consapevolezza era sulla bocca di tutti ormai e
solamente i diretti interessati non l'avevano ancora metabolizzata a
dovere, motivo per cui spendevano ogni singolo attimo della giornata
a ripetersi a vicenda quanto fossero stupidi e quanto si
detestassero.
“Sì,
ma l'amore non dovrebbe funzionare a questa maniera. È una cosa
assurda.”
“Non
puoi stabilire come debba essere l'amore, Bill. Conosci tuo fratello;
il romanticismo non è mai stato il suo forte ed Ingie non mi sembra
propensa alle cose smielate, quindi fattene una ragione.” lo
riprese Georg.
“Mi
chiedo solo come facciano a non accorgersene.”
“Perché
sono orgogliosi e non accettano di piacersi. Ormai hanno dato inizio
a questo loro rapporto fatto di botta e risposta e sarebbe
addirittura un'umiliazione, per loro, cedere al fascino
dell'altro.”
“Mi
faranno scoppiare le coronarie.”
“Tienile
al sicuro, ci servono ancora per un po'.”
***
Ancora
si domandava come fosse finita in quella macchina. La sua voglia di
uscire e divertirsi era pari a zero, anche se doveva ammettere che un
po' di Nutella, nei momenti bui, era un toccasana. Ed in quel
momento, di Nutella, ne aveva bisogno a palate. Forse era stato
proprio quello a convincerla ad uscire con il chitarrista; era
piuttosto debole da quel punto di vista.
Ripensando
a qualche attimo addietro, non riusciva a credere di aver raccontato
al ragazzo dell'incidente, ed ora come ora stava realizzando di non
poter dire di essersene pentita. Per quanto Tom fosse invadente,
testardo e curioso, sapeva per certo che non era il tipo da
diffondere notizie nel giro di due minuti, come invece faceva Bill.
Si era stranamente fidata di lui, pur dopo avervi posto tutta la
resistenza di cui disponeva.
Si
era sbagliata. A volte, capitava anche a lei di ammetterlo, contro la
propria volontà. Si era presa una bella cantonata, con lui; credeva
che l'avrebbe tormentata a vita con quella storia, invece ora si
trovavano in macchina, diretti ad una creperia, a chiacchierare e
stuzzicarsi, come sempre.
“Poi
mi spiegherai perché anche la sera indossi gli occhiali da sole.”
parlò Ingie improvvisamente, dopo aver osservato di sbieco il
ragazzo.
“I
paparazzi sono sempre in giro.” rispose lui, senza scomporsi.
“Sì,
ma solo tu giri con gli occhiali da sole di notte; non fai altro che
attirare l'attenzione ancora di più.”
Tom
non rispose e non si mosse per qualche secondo, fino a che con un
sospiro seccato non se li tolse, porgendoglieli.
“Mettili
in borsa.” borbottò, sotto lo sguardo compiaciuto e soddisfatto
della mora, che fece come le aveva detto.
“Quando
vuoi, sei ubbidiente.” sorrise, prendendolo in giro. “Allora, è
ancora lontano questo posto?” domandò poi.
“Siamo
arrivati.” annunciò lui, non appena prese a fare manovra per
parcheggiare l'auto. Scesero e, stringendosi nei rispettivi cappotti,
cominciarono a camminare in silenzio lungo il marciapiede. Ingie si
guardava attorno, come non avesse mai avuto l'opportunità di
osservare Berlino. A dire il vero, non l'aveva visitata di sera; la
notte in discoteca non era nemmeno da considerare. Dovette ammettere
che quella città, ora illuminata dalle luci natalizie, era piuttosto
suggestiva ed affascinante. Scrutava le vetrine con interesse,
curiosa di adocchiare qualche cosa che potesse darle consiglio sui
regali che avrebbe dovuto fare ai suoi coinquilini. “Stasera, i
paparazzi sembrano dormire.” disse lui, all'improvviso.
Ingie
scrollò le spalle.
“Sarà
festa anche per loro.” rispose pensierosa.
Effettivamente,
le strade erano piene di gente; in particolare di famiglie che,
contagiate dall'atmosfera natalizia, passeggiavano a braccetto con i
propri figli. Fidanzati per mano, pronti a scambiarsi timide
effusioni, di tanto in tanto. Ingie lanciò un'occhiata veloce al
chitarrista affianco a lei e quasi si sentì a disagio; come se
quella situazione particolarmente romantica fosse troppo per
loro.
Improvvisamente
lo vide deviare in direzione di una vetrina e, con gioia, vide
l'insegna – con la scritta Crêpes – brillare sopra la sua
testa.
Lo
sbalzo di temperatura fu rilevante e le venne spontaneo sfilarsi
immediatamente il cappotto, mentre seguiva Tom in direzione di un
tavolo appartato.
“Vado
a ordinare.” le disse, prima di allontanarsi. Ingie sospirò
appena, per poi sedersi, ed osservò pensierosa il chitarrista
parlare con il cameriere, dietro al bancone. Le venne spontaneo
sorridere. Sapeva che, dentro di lei, qualcosa stava cambiando. Stava
lentamente imparando a volergli bene ed in una maniera del tutto
naturale e serena. Sentiva di volergli bene perché era un disastro
in tutto ciò che faceva. Non aveva delicatezza nel dire le cose, non
aveva il minimo tatto, eppure aveva scoperto che sapeva ascoltare. Ma
soprattutto, Tom Kaulitz non giudicava. Ingie alternava momenti in
cui non riusciva a sopportarlo a momenti in cui sembrava le andasse
un po' più a genio. Erano incompatibili, ma avevano entrambi la
stessa temperanza, il che non faceva altro che deteriorare
ulteriormente qualsiasi loro dialogo. Entrambi volevano vincere una
lotta sconosciuta, entrambi volevano prevalere. E forse, non erano
nemmeno così tanto opposti come credeva. Probabilmente, il fatto di
avere lo stesso carattere andava a rafforzare quella sorta di
amichevole competizione che si era instaurata fra loro.
“Ho chiesto una tripla dose di Nutella, tanto ho avuto prova che
non ti fai problemi con il cibo.” parlò il ragazzo, non appena
tornò al tavolo e le si sedette di fronte.
“Stai
insinuando che mangio da far schifo?” sollevò un sopracciglio,
sospettosa.
“Sto
dicendo che per quello che mangi non dovresti più entrare dalle
porte.” chiarì lui, disinteressato.
“Lo
prenderò come uno strano, insano e debole complimento.” scrollò
le spalle.
“Sicuramente
non farai complimenti a mia madre, al pranzo di Natale.”
Sollevò
lentamente gli occhi sul chitarrista, con espressione perplessa e
sorpresa allo stesso tempo. Credeva di non aver sentito bene ma, per
sicurezza, chiese conferma.
“Pranzo
di Natale?” domandò.
Lui
la scrutò come fosse sorda.
“Sì,
a casa di mia madre.” rispose, probabilmente convinto fosse una
cosa ovvia.
“Non
ne sapevo niente.” mormorò, senza sapere che dire.
L'aveva
semplicemente presa in contropiede. Aveva da sempre dato per scontato
che avrebbe trascorso il Natale in completa solitudine ed ora Tom le
stava stravolgendo i piani.
“Beh,
io e Bill l'abbiamo sempre dato per scontato. Mia madre lo sa già ed
è molto contenta. Lo sai che le sei piaciuta parecchio.” Ingie
sorrise, ripensando alla figura di Simone. Per poche ore aveva
percepito tutto l'amore materno che ora le mancava e l'idea di
trascorrere il Natale con lei ed essere coccolata la
rallegrava appena, per quanto potesse essere possibile. “Non ha
ancora avuto l'onore di conoscere il tuo caratterino.”
sorrise poi furbescamente.
Ingie
si limitò a fulminarlo con lo sguardo, prima che il cameriere
giungesse al tavolo con le crêpes. Queste la presero decisamente di
sorpresa.
“Non
scherzavi quando dicevi di aver chiesto una tripla dose di Nutella.”
commentò con sarcasmo.
“Quando
si parla di cibo, non scherzo mai.” Si avventarono entrambi sui
loro dolci, come non mangiassero da secoli. “Oh, sì, potrei avere
un orgasmo in questo preciso istante.” esclamò lui, dopo il primo
morso.
“Ti
basta poco.” commentò lei con sarcasmo. “Le tue donzelle non ti
soddisfano abbastanza?” lo provocò.
“Sai,
a volte so anche io tenermelo nei pantaloni.”
“Ma
non mi dire.”
“Tu
piuttosto.” Ingie sollevò un sopracciglio. “Con Ivan?”
“Che
c'entra Ivan, ora?” domandò basita, per poi pulirsi la bocca con
un tovagliolo.
“Nemmeno
un pensierino veloce?”
“Non
sei stato tu quello che mi ha puntato il dito contro, mettendo bene
in chiaro che non avrei dovuto illuderlo?”
“Sì,
infatti la mia è una domanda tranquilla ed innocente.”
“Beh,
è un bel ragazzo, piacevole, ma niente di più. Poi, non voglio
storie serie.”
“Non
dovrei essere io a dire una cosa simile?”
“Credo
che tu possa capire perché non sono in grado di impegnarmi
mentalmente, al momento.”
“Nemmeno
io, dopo Ria.”
Le
orecchie della mora si fecero più attente.
“Ria?”
chiese, interessata.
“Siamo
stati insieme tre anni.” scrollò le spalle lui. Ingie sembrò aver
visto Babbo Natale. “Che c'è, è strano che io sia stato fidanzato
per così tanto tempo?” fece lui, con un sorrisetto sbieco.
“No,
è strano che qualcuna ti abbia sopportato per così tanto tempo.”
rispose lei, fintamente scioccata.
“Simpatica.”
le fece il verso il chitarrista. “Di lei ero veramente innamorato.”
Ingie
sembrò sempre più esterrefatta, come qualcuno le stesse tirando
delle travi sulla fronte.
“What?!”
esclamò con tono più acuto. “Are you Tom Kaulitz?!”
“Smettila
di fare la stupida.”
“Scusami,
ma sei tu quello che sta dicendo cose che noi comuni mortali non ci
aspetteremmo mai.”
“Non
mi conosci nemmeno un po'.” le disse con un sorrisetto quasi
rassegnato.
“Evidentemente
no.”
***
Doveva
ammettere a se stesso che si stava divertendo. Non che la cosa lo
sorprendesse; d'altronde sapeva bene che Ingie, nonostante le
apparenze, era una tipa spassosa. Le loro provocazioni non trovavano
mai una fine, così come i loro battibecchi, ma in qualche modo
riuscivano a rendere divertenti anche quelli.
Avevano
costruito una sorta di rapporto che non comprendeva bene nemmeno lui.
Apparentemente si detestavano, ma succedeva spesso che perdessero
delle ore a ridere assieme; proprio come stava accadendo in
quell'istante.
Tom
non riusciva ancora a capire cosa fosse di Ingie che lo attraesse.
Ormai aveva appurato che la sua fosse un'attrazione fisica, ma
sentiva che qualcosa del cervello di quella ragazza problematica ma
risoluta lo stava mandando fuori strada. Per tutta la sera non aveva
fatto altro che osservarla muoversi, gesticolare e parlare,
alternando sorrisi a smorfie di disapprovazione. La trovava
dannatamente bella e, con il tempo, si era reso conto che quel senso
di piacere si stava lentamente trasformando in semplice e puro
desiderio.
Si
sentiva confuso. La sua testa formulava pensieri opposti e contorti e
non riusciva a comprendere cosa realmente volesse da lei. Vi erano
momenti in cui desiderava ucciderla ed altri in cui la desiderava e
basta. Non sapeva dire se fosse qualcosa di prettamente carnale, ma
in ogni caso vi si avvicinava molto. Alcuni suoi atteggiamenti, se a
volte lo irritavano, in altre lo eccitavano.
Eppure
la sua mente era in piena lotta. Vivevano assieme; avere una
relazione – anche solamente fisica – avrebbe di certo complicato
le cose. Doveva anche tenere in conto che non aveva alle spalle un
passato semplice e che tutt'ora cercava di uscirne, come gli aveva
raccontato poche ore prima. Fare un passo avventato e sbagliato non
era nella migliore delle ipotesi.
Si
chiese il motivo per cui stesse pensando a quelle cose proprio in
quel momento e così all'improvviso, quando aveva cercato tantissime
volte di reprimere il proprio istinto e negare a se stesso
l'evidenza. Non poteva abbassarsi ad una cosa simile, non poteva
prendere decisioni affrettate, ma soprattutto non poteva confondersi
le idee ancor di più di quanto già non facesse. Non aveva voglia di
buttarsi a capofitto in una nuova relazione, dove – per di più –
non esistevano basi sufficienti; e, pensandoci bene, anche Ingie gli
aveva comunicato chiaramente la stessa cosa.
Doveva
semplicemente cedere al desiderio carnale o combatterlo con tutte le
sue forze? L'avrebbe aiutato a capire? Forse sì o forse no; ma quali
sarebbero state le conseguenze?
Scesero
dalla macchina e percorsero il vialetto che li avrebbe condotti nello
studio, del tutto buio. Deglutendo nervosamente, diede un'occhiata al
proprio cellulare, dove trovò un messaggio di Bill.
Non
ci aspettate in piedi, stiamo andando a ballare.
Percepiva
ancora la tensione. Aveva rifiutato l'invito a passare una serata
tutta al maschile perché non era dell'umore, per via della lite con
Ingie, ma poi quelle ore erano state soggette ad una svolta
inaspettata. Bill non poteva saperlo ed era normale che gli scrivesse
messaggi così freddi e concisi. L'indomani gli avrebbe chiesto
sicuramente scusa per la freddezza di quei giorni.
Ora
il problema era un altro: lui ed Ingie erano di nuovo da soli. Niente
di strano se non fosse stato per il fatto che stava accadendo nel bel
mezzo di una crisi esistenziale. Aveva persino cercato di convincersi
– per tutto il tragitto in macchina – che quell'improvvisa
sensazione nei confronti della ragazza fosse dettata dall'astinenza.
Ma poi si era anche detto che aveva sopportato periodi decisamente
più lunghi e che Ingie lo attraeva a prescindere.
Quella
situazione si presentava al momento sbagliato.
“Gli
altri sono andati a ballare.” riferì alla ragazza, sforzandosi di
essere il più naturale possibile.
“Oh,
allora torneranno domattina.” rispose lei, tranquilla, mentre si
dirigeva al piano superiore. Tom la seguì. “Ti sei perso questa
serata fra uomini.” gli fece improvvisamente notare.
“La
colpa è tua.” si difese lui con una scrollata di spalle.
“Oh,
certo, continua a dare la colpa di tutte le tue disgrazie a me.”
“Sei
una donna e le donne portano guai.”
“Le
tue donne.” Si fermarono nel corridoio, osservandosi appena.
“Grazie per la crêpes.” gli disse.
Lui
sorrise compiaciuto e malizioso.
“Oggi
mi hai già ringraziato due volte. Stiamo diventando melense?”
Ingie
sollevò le sopracciglia con sarcasmo.
“Volevo
essere gentile, non volevo gonfiare ulteriormente il tuo ego.”
“Dico
solo che forse non hai il cuore di pietra come vuoi far credere.”
“E
tu non sei così stupido ed inutile come pensavo.”
“Anch'io
ho tantissime qualità che non conosci, sai?”
“Sì,
sono veramente curiosa di scoprirle.”
Ingie
aveva sorriso con ironia ancora una volta e Tom aveva percepito la
stessa scossa di qualche minuto prima. Stava cercando di ignorare con
tutte le proprie forze quella sensazione, quasi di bisogno, ma
era troppo pesante.
Il
cervello si scollegò e l'istinto prevalse su tutto il resto.
Con
respiro pesante, le posò una mano sul petto, fino a spingerla
delicatamente con la schiena contro il muro. Si perse ancora qualche
attimo ad osservarla e la vide ricambiare con occhi sorpresi e
confusi. Senza riflettere ulteriormente, chiuse i suoi e si chinò
con il viso verso il suo.
Blackout.
Le
loro labbra entrarono per la prima volta in contatto. Il tocco fu
inizialmente insicuro, forse per il gesto inaspettato, forse per il
contesto confusionario. Tom si sorprese della morbidezza della sua
bocca e quasi smise di respirare quando percepì quelle labbra
carnose muoversi sulle sue, incastrandovisi perfettamente.
Nessun
rifiuto.
La
brama tornò a farsi viva come un fuoco ardente, che lo portò ad
aderire completamente il proprio corpo a quello della ragazza,
schiacciata contro il muro.
La
voleva; ora non poteva fare altro che rendersi conto di volerla
disperatamente.
Ingie
infiltrò le dita fra i suoi rasta, mentre lui le stringeva
possessivo una coscia, portandosela al fianco. I loro baci si fecero
più bisognosi, veloci e passionali.
Tom
percepiva un istinto del tutto nuovo, forte, quasi violento che aveva
annebbiato del tutto la sua mente. Fino a pochi secondi prima si
stava struggendo, chiedendosi quale potesse essere la scelta
migliore; ora era lì, contro una parete, a baciare la ragazza che
non sopportava, con cui litigava ogni giorno.
Fece
salire le mani desiderose sulla sua schiena, al di sotto della
camicetta, mentre Ingie faceva lo stesso sul suo petto, risvegliando
nervi che parevano assopiti. Le sue mani più piccole e sottili gli
fecero girare la testa, che rifugiò fra i suoi capelli, inalandone
l'odore dolce. La sentì gemere appena, al tocco avido delle proprie
labbra sul suo collo esposto.
Non
aveva mai provato tanto desiderio ed impazienza in vita sua.
Non
seppe come erano arrivati in camera, spargendo – ad uno ad uno –
i capi che avevano indossato quella sera sul pavimento, fino a
buttarsi fra le lenzuola fresche completamente nudi e stretti l'uno
all'altra.
La
sentiva minuscola fra le sue braccia e quella sensazione gli piaceva.
Esplorò ogni singolo lembo della sua pelle profumata, carezzandola
con riguardo, fino a quando l'attesa divenne insopportabile.
Ben
presto, la stanza fu pervasa di gemiti, sospiri, fruscii di lenzuola;
passione ed urgenza, confusione e bisogno.
Tom
l'aveva sovrastata, senza smettere di assaporarla con le labbra ed
accarezzare il suo corpo eccitato. Ingie aveva stretto le proprie
gambe attorno al suo bacino e si era abbandonata completamente a lui,
che l'aveva presa, possessivo. Le loro pelli umide si strusciavano
continuamente fra loro, senza abbandonarsi, i respiri sempre più
pesanti si scontravano, con le loro bocche ancora in contatto ma
semplicemente dischiuse; gli sguardi si incrociavano con desiderio
misto a tormento e le unghie della ragazza lasciavano graffi indolori
sulla schiena del chitarrista.
Tom
le morse appena il labbro, mentre le mani si insinuavano fra i suoi
capelli lunghi ed umidi. Sentiva che per entrambi il Paradiso era
alle porte; il battito cardiaco furioso a testimoniare.
Stava
impazzendo. Chiuse gli occhi, lasciando che tutti gli altri sensi
godessero di quel momento, mentre la possedeva sempre più avido ed i
gemiti si facevano più acuti per il piacere quasi doloroso che li
stava investendo.
E
fu quando Ingie gli si aggrappò al collo – la bocca dischiusa, il
volto contrito – ed i loro occhi si catturarono a vicenda, che
entrambi raggiunsero l'apice di quella passione inaspettata e
spaventosa che li aveva travolti come un uragano.
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Capitolo 13 *** Twelve - Upside down ***
siiiiiiii
Twelve
Upside
down
Aprì
gli occhi con fatica; sentiva le palpebre tremendamente pesanti. I
suoi muscoli erano piacevolmente intorpiditi ed uno strano benessere
l'aveva invasa nel corpo. Mosse appena le dita dei piedi, per
riprenderne il controllo, e stiracchiò le gambe, come addormentate.
In un primo momento non seppe dire dove si trovasse, poiché la
memoria le stava giocando brutti scherzi, ma quando abbassò lo
sguardo sul proprio bacino, tutto le tornò in mente.
Un
braccio muscoloso giaceva su di esso, come pesante. Deglutì appena e
voltò lentamente il viso verso la sua destra ed i brividi tornarono
a farle visita. Tom era profondamente addormentato, a pancia in giù,
con il volto nella sua direzione. Inizialmente non si mosse, quasi
domandandosi cosa potesse fare.
Aveva
una gran confusione nella testa. Tutto ciò che era successo quella
notte l'aveva destabilizzata. Era accaduto tutto talmente in fretta
che non aveva avuto il tempo di sottrarsi e riflettere. Tom l'aveva
presa all'improvviso, con passione, e lei non si era sentita di
tirarsi indietro. Ora però, qualcosa dentro di lei le stava dicendo
che aveva fatto la cosa sbagliata. Non sapeva come sentirsi a
riguardo; il tutto era molto strano, quasi assurdo.
Aveva
fatto l'amore con Tom.
Il
solo pensarlo le metteva i brividi. Tom non era un fidanzato, non era
un estraneo ma non era nemmeno un amico. O doveva pensare che lo
fosse? In ogni caso, quella situazione si prospettava imbarazzante e
complicata. Non facevano altro che urlarsi ogni giorno quanto si
detestassero ma, non appena si era presentata l'occasione, si erano
buttati assieme sotto le coperte. Qual'era la verità?
Non
era innamorata di lui e su questo era particolarmente sicura; non
aveva mai nascosto a se stessa di esserne attratta fisicamente e, ora
che vi rifletteva, poteva essere lo stesso per lui.
Forse
si erano semplicemente comportati da ragazzini immaturi, presi dagli
impulsi, ed avevano agito in modo totalmente irrazionale. Doveva
essere per forza così. Lei personalmente aveva sentito un incessante
desiderio, ad ogni suo tocco, e quasi se ne vergognava. Raramente
aveva trascorso nottate come quella, che la facessero sentire
realmente desiderata, proprio come una donna voleva essere, e doveva
a malincuore ammettere che Tom sapesse particolarmente il fatto suo.
Arrossì
a tale pensiero e cercò di rimuoverlo. Doveva tornare in sé, il più
velocemente possibile. Non sapeva dire cosa sarebbe accaduto una
volta che Tom si sarebbe svegliato, ma non era sicura di voler
portare avanti quella sorta di rapporto che si era instaurato.
Voltò
il viso verso il comodino del ragazzo e scrutò la radiosveglia. Le
undici del mattino.
Sospirò
appena e, dopo aver dato un'ultima occhiata al chitarrista, prese a
spostargli delicatamente il braccio, senza svegliarlo. Scese dal
letto e cominciò a cercare i suoi vestiti, sparsi per la camera. Una
volta racimolati, uscì come una ladra, per poi correre in bagno,
dove si lavò e si vestì.
Sentiva
ancora sulla pelle l'odore mascolino del chitarrista, così come il
suo profumo.
Una
volta legati i capelli, uscì dal bagno e prese a scendere le scale,
fino a giungere al piano inferiore, dove i cani le vennero in contro
facendole le feste. Sorrise appena, dedicando qualche secondo ad
ognuno, per poi rifugiarsi in cucina. Aveva bisogno di fare qualcosa,
qualsiasi cosa per distrarsi; così diede un'occhiata al frigo e ad
ogni cassetto, per capire cosa mancasse da mangiare. Successivamente,
dopo aver chiamato un taxi, si buttò sulle spalle il cappotto ed
uscì dallo studio.
Faceva
tremendamente freddo e si affrettò ad abbottonarselo, mentre
attendeva. Doveva anche comprarsi le sigarette; sapeva che quel
pomeriggio ne avrebbe fumate almeno trenta.
Perché
non riusciva a togliersi dalla testa le immagini del ragazzo che la
possedeva? Se ne vergognava e ringraziò Dio perché nessuno potesse
ascoltare i suoi pensieri, così rumorosi.
Giunse
al centro di Berlino in una manciata di minuti, senza che lei se ne
accorgesse.
Le
vetrine dei negozi erano tutte addobbate di ghirlande, alberelli,
palline e qualche Babbo Natale di tanto in tanto. Sorrise appena a
quell'atmosfera, stringendosi nel cappotto.
Rammentava
il Natale che lei e la sua famiglia erano soliti trascorrere insieme,
nella perfetta serenità. L'aveva sempre detto: erano una famiglia
felice, di quelle rare da trovare. C'era amore, affetto, complicità,
tutto ciò che una bambina potesse desiderare. Ricordava i pranzi
infiniti con tutti i parenti, il rito dello scarto dei regali, tutti
attorno all'albero addobbato. Ma soprattutto, quando ancora era una
bambina, attendere con impazienza Babbo Natale, schiacciando
l'orecchio contro la porta della sua camera, nella speranza di
sentirlo passare.
Le
mancava molto quel tipo di innocenza ed avrebbe pagato oro per
tornare a quel bellissimo periodo della sua vita, dove lei e suo
fratello Tom erano due bambini instancabili ed inseparabili.
“Hey,
ciao, Ingie!”
A
quel saluto, la mora si voltò, trovandosi davanti Ivan che le
camminava in contro con un gran sorriso.
“Ciao,
Ivan.” lo salutò sorpresa. “Che fai in giro?” chiese quindi.
“Faccio
gli ultimi acquisti natalizi. Tu?” le rispose, rifugiando le
proprie mani infreddolite nelle tasche dei jeans.
“Ehm.”
l'aveva presa in contropiede. “Anche io.” buttò lì.
“Bene,
allora possiamo andare insieme.” esclamò lui entusiasta, per poi
prendere a camminare verso il centro commerciale. Ingie decise di
seguirlo, non sicura di volerlo fare davvero. “Ti stai godendo le
tue ferie?” le domandò sorridente.
Ingie
sorrise appena, quasi con una smorfia.
Sto
facendo un casino, che è diverso.
“Sì.”
annuì poco convinta.
“Mi
sei mancata in negozio.”
“Ancora
per poco, dato che Natale è fra tre giorni.”
Sapeva
perfettamente che il giorno seguente lei, Tom e Bill sarebbero
partiti per Lipsia, dove si trovava la loro vecchia casa. Simone li
attendeva entusiasta ed anche lei era eccitata all'idea di rivederla.
Ora però non era più in grado di prevedere quale sarebbe stata
l'atmosfera che avrebbe accompagnato lei e Tom per tutta la vacanza.
“Devi
fare ancora qualche regalo?” le chiese quindi Ivan.
“Praticamente
tutti.” ammise.
“Vuoi
una mano? Tanto mi manca solo quello di Bill.”
Ingie
sollevò un sopracciglio.
“Di
solito, fare regali a Bill non è la parte più facile?”
“Contro
ogni aspettativa, è il più complicato.” Entrarono in un negozio
di abbigliamento. “Dal mio negozio, ho preso una felpa per Tom,
dato che è il suo stile.” Ingie annuì appena, sovrappensiero. “Tu
hai solo qualche idea, per cominciare?”
“Nulla.
Odio dover fare regali a voi uomini, non so mai cosa vi possa
piacere.”
“Videogiochi,
cibo, porno...” L'occhiata di Ingie lo fece scoppiare a ridere.
“Qualsiasi cosa ci va sempre bene. Vieni.”
***
Un
brivido di freddo gli fece rannicchiare le gambe al petto. Con la
mano prese a tastare il materasso, alla ricerca della coperta,
mantenendo gli occhi rigorosamente chiusi; non voleva rischiare di
svegliarsi definitivamente. Eppure fu un piccolo particolare che lo
portò a sollevare una sola palpebra.
Aveva
percepito l'assenza di Ingie, accanto a sé.
Aggrottò
le sopracciglia e sollevò appena la testa, controllando il
pavimento. I suoi vestiti non erano più lì.
Buttò
nuovamente il capo sul cuscino, con un gran sospiro.
Tipico
di Ingie.
Non
seppe dire il motivo, ma aveva immaginato di non trovarla al suo
fianco, al suo risveglio. Era il tipo di persona che agiva di impulso
e poi si pentiva; a testimoniare, la sua fuga dall'America.
Affrontare la realtà era qualcosa che la spaventava a morte e che,
se poteva, evitava.
Osservò
il soffitto per qualche istante, ripensando alla notte trascorsa
assieme.
Non
si era pentito.
Trascorrere
quelle ore con Ingie era stato fantastico, anche se la cosa lo
spaventava di gran lunga. Aveva provato un desiderio del tutto nuovo,
più forte, che l'aveva preso come un animale. L'attrazione fisica
che provava per lei ormai era assodata e forse triplicata. Riusciva
ancora a sentirne il profumo.
Non
poteva dire con esattezza in che tipo di situazione si fossero
immischiati. Era ovvio che nessuno dei due provasse amore nei
confronti dell'altro, ma pura attrazione; ed ora che la lucidità si
era impossessata nuovamente di lui, si chiese se ne fosse valsa la
pena. Fare l'amore era venuto da sé, senza alcun tipo di
riflessione, e non avevano minimamente pensato alle conseguenze. Non
avevano pensato al fatto di essere coinquilini ed all'imbarazzo che
si sarebbe creato, qualora uno dei due si fosse pentito.
Si
passò una mano sul viso.
Quella
situazione cominciava seriamente a preoccuparlo. Personalmente, non
avrebbe avuto problemi con lei e non si sarebbe sentito in imbarazzo,
poiché ciò che avevano fatto, l'avevano voluto entrambi. Ingie
aveva avuto tutto il tempo materiale per respingerlo, ma non l'aveva
fatto. Senza contare che entrambi avevano messo precedentemente in
chiaro di non essere pronti a costruire una nuova relazione. Come
avrebbero definito quella nottata? Una scappatella? Un momento
di crisi d'astinenza? Un voler cedere alla tentazione? O un
soddisfare semplicemente l'attrazione reciproca, senza motivazioni
nascoste?
Eppure,
non riusciva a definire Ingie come una sveltina, come faceva da
immaturo adolescente. Aveva ventitré anni, era un uomo; era in grado
di prendere decisioni razionali ed agire da persona matura. Senza
contare che da quando Ria aveva messo piede nella sua vita, non aveva
mai più nemmeno pensato alle famose One Night Stand, che
avevano dato tanto da mangiare ai giornalisti, che gli affibbiavano
ogni giorno una ragazza differente.
Con
la mora era diverso. Loro avevano instaurato, prima di tutto, un
rapporto di amicizia, nel bene o nel male; anche se il solo pensarlo
gli dava i brividi. Giudicarla un'amica, nonostante non la
sopportasse e vi litigasse ogni secondo, era strano, ma veritiero.
D'altronde avevano condiviso tante cose in quei mesi, che con gli
altri non era accaduto, e di questo Tom era felice. Era felice perché
sentiva che la ragazza aveva un tipo di confidenza con lui, che con
gli altri membri dello studio non aveva. Si sentiva un po' speciale,
in quel senso. Inoltre con lei, nonostante i battibecchi, si
divertiva un mondo; perché era ironica ed esuberante, qualità che
apprezzava dannatamente in una donna.
Diede
un'occhiata al cellulare sul comodino, per controllare che non vi
fossero messaggi non letti. Successivamente, decise di alzarsi dal
letto; sarebbe stato altamente inutile rimanervi e pensare fino a
farsi scoppiare il cervello. Tutte le risposte di cui necessitava
sarebbero arrivate con il ritorno di Ingie a casa.
“Che
faccia sbattuta.” fu il commento di Gustav, non appena fece il
proprio ingresso in cucina.
“Grazie,
anche tu non sei male.” rispose senza scomporsi, del tutto
pensieroso. Si diresse alle tazze.
“Hey,
va tutto bene?” gli domandò allora il batterista, studiandolo da
capo a piedi.
“Sì,
perché?” rispose Tom, per poi sedersi al tavolo con il caffè
avanzato del biondo ed i biscotti.
“Ti
vedo strano. Con la testa altrove.”
“Sono
solo un po' stanco.”
“Ancora
non vi parlate tu ed Ingie?”
Tom,
preso alla sprovvista, sollevò lo sguardo confuso su di lui. Poi
ricordò che i ragazzi sapevano ancora del loro litigio e che non si
rivolgevano parola da un paio di giorni.
“Oh,
no, abbiamo chiarito.” borbottò, portandosi poi un biscotto alla
bocca.
“Oh,
meno male. Non potevo sopportare ancora a lungo i vostri musi.”
disse Gustav, dirigendosi verso il lavandino, per lavare la sua
tazza. “Per lo meno, passerete un Natale tranquillo, a casa di tua
madre.”
Smise
improvvisamente di masticare. Si era quasi dimenticato che il giorno
seguente sarebbero partiti per Lipsia ed avrebbero passato il Natale
a casa sua. Quegli ultimi avvenimenti si erano presentati, forse, nel
momento meno opportuno.
“Già.”
si limitò a rispondere.
***
Sentì
improvvisamente bussare alla porta. Si era svegliato da poco e non
aveva decisamente voglia di parlare con nessuno.
“Bill,
posso entrare?”
Sentì
la voce di suo fratello al di là della porta. Non si erano quasi
visti il giorno prima, poiché Tom era troppo preso dal non parlare
con nessuno, per via di Ingie.
Bill
adorava Ingie; da quando era entrata nel loro studio, aveva portato
un po' di allegria in più, ma odiava quando le discussioni con suo
fratello divenivano più pesanti. Sentiva che quella situazione non
poteva andare bene a quella maniera, soprattutto perché nessuno dei
due aveva ancora capito che fra loro stava nascendo qualcosa di molto
serio. Non aveva mai visto suo fratello così preso da qualcuno, da
quando si era lasciato con Ria. Ricordava quanto male aveva passato
e, dentro di sé, aveva sempre avuto paura che si chiudesse di nuovo
all'amore, che tornasse ad essere il ragazzo stronzo e menefreghista
che era da adolescente. Ciò non era successo, per fortuna, e da
quando Ingie era arrivata ed aveva visto suo fratello riprendere a
sorridere ma soprattutto ad interessarsi di qualcuno, si era sentito
sollevato.
La
porta si aprì, senza che lui desse il permesso. Era sottinteso.
Tom
sembrava intimidito e dispiaciuto.
“Ti
è passato lo scazzo?” gli domandò immediatamente Bill, con tono
ancora glaciale. Tom abbassò lo sguardo con un lieve sorriso e
richiuse la porta dietro di sé. “Io, personalmente, sono stufo di
fare da babysitter a due persone grandi e vaccinate come voi.”
disse ancora, mentre andava a sedersi sul letto. Tom si sedette di
fronte a lui.
“Ti
volevo chiedere scusa per come ti ho trattato in questi giorni. Ero
nervoso per via di Ingie e me la sono presa anche con te. Mi
dispiace.” parlò il moro, con sorpresa del vocalist.
Questo
si prese qualche attimo per riflettere, osservandolo attentamente
negli occhi, poi parlò.
“Sai
cosa mi fa incazzare? Che siete due cretini.” borbottò, sotto lo
sguardo interrogativo del chitarrista. “Entrambi vi comportate come
ragazzini delle elementari, quando litigano e si tengono i musi per
giorni. Ma soprattutto, mi urta il sistema nervoso il fatto che vi
piacete da morire e vi uccidete ogni giorno. Che senso ha?” Tom
scoppiò appena a ridere, abbassando lo sguardo sul materasso. “Non
avrebbe più senso fare l'amore, a questi punti?”
“Bill,
io ed Ingie... Insomma, non siamo fatti l'uno per l'altra.” disse
Tom, con un lieve sorriso.
“Forse
no, ma vi piacete, vi attraete come il colore rosso attira un toro
imbizzarrito. Che senso ha distruggervi a vicenda, senza motivo? Solo
per orgoglio, Tom?”
Il
chitarrista scosse la testa.
“No,
non è orgoglio. Hai ragione, litighiamo ma non riusciamo a stare
lontani, è più forte di noi. Il problema è che siamo uguali.
Abbiamo lo stesso modo esplosivo di reagire e la cosa non va a nostro
favore.”
“Il
punto è che con le vostre esplosioni mandate a fuoco anche tutta
casa. Non possiamo risponderne anche noi, Tom.”
“Hai
ragione.”
“Ora,
anche il fatto del Natale...”
“Non
ti preoccupare, abbiamo chiarito.”
Bill
sollevò le sopracciglia sorpreso. “Oh.”
“Abbiamo...
Parlato tanto, ieri sera.” spiegò, un po' insicuro, ma Bill
preferì passarvi sopra.
“Bene,
mi fa piacere. L'importante è che questi giorni che passeremo a
Lipsia siano piacevoli.”
“Te
lo prometto.” Restarono qualche attimo in silenzio. “Bene,
allora, pace?” domandò il chitarrista, come succedeva quando erano
bambini – subito dopo essersi lanciati a vicenda pesanti pentole e
mestoli.
“Pace.”
annuì Bill.
***
Non
poteva credere di aver finalmente concluso con gli acquisti natalizi.
Ivan le si era rivelato di grandissimo aiuto e doveva ammettere che
senza di lui non ce l'avrebbe mai fatta.
Erano
usciti dal centro commerciale alle tre del pomeriggio. Ingie aveva
inviato un messaggio a Gustav, avvisandolo che non sarebbe tornata
allo studio per pranzo. Per lo meno si era presa ancora un po' di
tempo prima di rivedere Tom. Sapeva che quel momento, prima o poi,
sarebbe giunto e che non sarebbe stato nemmeno molto corretto
continuare a rimandare. Eppure, più vi pensava, più la testa
minacciava di esploderle.
“Ti
riporto allo studio.” le disse Ivan, mentre camminavano lungo il
marciapiede, con i sacchetti in mano.
“No,
grazie, non ce n'è bisogno. Prendo un taxi.” rispose lei, decisa a
non farlo scomodare ulteriormente.
“Assolutamente.
Vieni con me. Ne approfitterò per salutare i ragazzi prima di
Natale.”
A
quell'affermazione, Ingie accettò. Forse la sua entrata in casa
avrebbe tolto un altro po' di tempo, che avrebbe utilizzato a suo
favore.
Durante
il tragitto in auto, si raccontarono dei reciproci progetti per
Natale. A quanto pareva, Ivan già sapeva che avrebbe trascorso la
festa con i gemelli. Evidentemente l'unica che non l'aveva saputo
fino a quell'istante era lei, la diretta interessata.
Quasi
non si accorse che il ragazzo aveva spento la macchina.
Il
cuore prese a batterle all'impazzata, cosa che non aveva previsto,
fino a quel momento. Stava per rivederlo e la cosa cominciava a
terrorizzarla. Camminò lungo il vialetto il più lentamente
possibile, ma non poteva dare troppo nell'occhio o Ivan le avrebbe
subito fatto delle domande. E quel giorno le domande potevano
aspettare.
Quando
aprì la porta, deglutì pesantemente.
“Eccoti.”
sorrise Georg, che stava passando per il soggiorno. “Ciao, Ivan!”
esclamò poi, una volta notato il biondo alle spalle della ragazza.
“Ciao,
Georg, come stai?” sorrise Ivan, abbracciandolo.
Ingie
si osservò attorno, non trovando traccia del chitarrista, fino a che
Gustav non uscì dalla cucina, mentre un rumore di passi veloci
scendevano le scale.
Sentiva
che era giunto il momento.
Quando
lo vide scendere i gradini con suo fratello, sentì una morsa allo
stomaco, ma non poté fare a meno di tenere gli occhi fissi su di
lui. I loro sguardi si incrociarono e poté notare Tom rallentare un
momento, osservandola pensieroso, fino a raggiungerli.
“Ciao,
Ivan.” disse sorpreso. Sembrava quasi spaesato.
“Tom,
l'ho già visto l'altra sera; volevo salutarvi tutti quanti, prima
che partiste.”
“Che
pensiero carino.” sorrise Gustav, sedendosi al tavolo.
“Beh,
allora io vi lascio.” intervenne quindi Ingie.
“No,
Ingie, perché non rimani?” chiese curioso Bill.
“No,
Bill, vado a farmi una doccia. Tanto sono stata tutta la mattina con
lui.” rispose, notando con la coda dell'occhio il chitarrista
cambiare espressione. “Ciao, Ivan. Buon Natale e grazie ancora.”
lo salutò, baciandogli le guance.
“Figurati,
anche a te.” sorrise lui, prima che la ragazza sparisse su per le
scale.
***
Aveva
sentito, al piano di sotto, che Ivan aveva appena lasciato lo studio.
Volgendo lo sguardo verso l'orologio affianco al lavabo, notò che
erano le quattro. Era già trascorsa quasi un'ora da quando si era
rilassata dentro quella vasca da bagno. Aveva abbandonato il capo
dietro di sé, sul ripiano, ed aveva chiuso gli occhi con un gran
sospiro, cercando di non riflettere. Inutile dire che non vi era
riuscita.
Per
tutto il tempo, non aveva fatto altro che pensare a Tom, a come
l'avrebbe affrontato. Forse si stava facendo troppe paranoie;
probabilmente lui nemmeno pensava più a quella notte.
Il
punto era che non si era ancora data una risposta. Perché si era
lasciata trascinare a quella maniera? Perché l'istinto l'aveva
portata ad abbandonarsi a lui così facilmente? Non era da lei.
Sbuffò,
decidendo che sciogliersi in quell'acqua ormai gelida non aveva più
senso. Si alzò in piedi e, dopo essersi sciacquata e legata un
asciugamano attorno al corpo, si incamminò verso la sua camera.
“Oh,
God!” esclamò, con un acuto innaturale, impuntando sui propri
piedi, non appena trovò il protagonista dei suoi tormenti seduto sul
suo letto. “Dio, che spavento!” si lamentò, cercando di
riportare a velocità normale il battito del suo cuore. Decisamente,
non se lo aspettava.
“Coscienza
sporca?” le domandò con un piccolo sorriso sbieco, quasi
impercepibile.
“Io
no. E tu?” fece lei, quasi sfidandolo.
Tom
non disse nulla per qualche istante; la osservò pericolosamente
serio.
“Chiudi
la porta, dobbiamo parlare.” le disse con una fermezza che le fece
quasi paura.
“Ti
dispiace se mi rivesto? Non mi sento proprio a mio agio per parlare,
in queste condizioni.” chiese lei, con cupo sarcasmo.
Tom
si alzò dal letto e le passò affianco con le mani in tasca.
“Muoviti.”
le disse, prima di uscire e chiudersi la porta alle spalle.
Ingie
era stupita. Credeva che il chitarrista le avrebbe tirato qualche
stupida battuta – degna di un uomo privo di tatto – sul fatto di
essere stati a letto insieme, il che avrebbe giustificato il
cambiarsi davanti a lui. Invece no; si era dimostrato stranamente
rispettoso. Forse non voleva metterla ancor di più in imbarazzo. Tom
era strambo, ma non stronzo.
Sorrise
appena, inconsapevolmente.
“Entra.”
disse, non appena ebbe finito di indossare una tuta e si fu seduta
sui cuscini del suo letto, con le gambe rannicchiate al petto che
aveva circondato con le proprie braccia, forse per autodifesa.
La
porta si riaprì e Tom fece il suo ingresso, per poi richiuderla. Le
si avvicinò, fino a che non si sedette sul bordo del letto, di
fronte a lei. Il silenzio che ne derivò fu per lei snervante, fino a
che non rabbrividì, sentendolo parlare.
“Perché
te ne sei andata, stamattina?” le domandò. Non era arrabbiato,
sembrava anzi piuttosto tranquillo.
“Sarei
dovuta restare?” le venne spontaneo chiedere. Dall'espressione di
Tom, si disse che era meglio deporre le armi e rimediare. “Avevo
bisogno di pensare.” buttò lì, senza guardarlo negli occhi.
“L'hai
fatto?”
Ingie
esitò appena, prima di rispondere. “Sì.” Tom non disse nulla,
semplicemente la guardò, come si aspettasse che portasse avanti il
discorso. Ciò la mise ancora più in difficoltà. “Abbiamo
sbagliato, Tom.” ammise, affranta.
“Ah,
ecco, sapevo che questa frase sarebbe arrivata.” disse lui con
tetro sarcasmo, spostando lo sguardo verso la finestra chiusa. “Ora
mi dirai anche che ti sei pentita, che siamo stati due incoscienti e
che non eri in te.” continuò a parlare in una sorta di cantilena,
come ripetesse a memoria il copione di un film già visto.
Ingie
si torturò le mani.
“Invece
no.” mormorò, impossessandosi nuovamente del suo sguardo, ora
sorpreso. “Ero perfettamente in me, non sono una bambina.”
affermò. “Ma non riesco non pensare che siamo stati troppo
avventati.”
Tom
si prese qualche attimo.
“Perché,
non l'hai voluto anche tu?” domandò, retoricamente.
Ingie
si agitò.
“Certo
che l'ho voluto o non l'avrei fatto.” ammise.
“E
allora cosa ti spaventa?”
“Non
lo so, sono confusa.”
Tom
fece nuovamente una pausa e lei si chiese cos'avrebbe potuto dire.
“Ivan
ti ha fatto cambiare idea?” domandò, lasciandola senza parole.
Quella frase decisamente, non se l'aspettava.
Aggrottò
le sopracciglia in un'espressione quasi indignata.
“Fammi
capire. Tu credi che io abbia chiamato Ivan come ripiego?” chiese
esterrefatta. Lui non rispose, ma la guardò attendendo una risposta,
il che la offese. “Oh, non ci posso credere. Mi fai davvero così
vuota e subdola, Tom?”
“No,
è per quello che te lo chiedo.”
“Beh,
la tua è una filosofia molto contorta.”
“Non
sei nemmeno tornata per pranzo. Forse hai voluto schiarirti le idee
con lui, non deve essere forzatamente subdolo.”
Ingie
si alzò velocemente dal letto.
“Ora
basta, sei fuori di testa e queste tue insinuazioni mi offendono.”
disse, ma il chitarrista si alzò con lei e le si parò davanti.
“Non
scappare di nuovo, come tuo solito.”
Ingie
sentì una fitta allo stomaco che la fece ammutolire per qualche
secondo.
“Ora
sei tu quello subdolo.” mormorò indietreggiando, fino a sedersi di
nuovo sul letto, come esausta. “Dai, parla.” lo esortò con
un'alzata di spalle, mentre lui le si risedeva di fronte.
Lui
si guardò un momento le mani, poi tornò a posare gli occhi su di
lei con una tale intensità che la fece rabbrividire.
“Senti,
Ingie, mio fratello ha ragione quando dice che siamo due idioti e che
ci distruggiamo l'anima per niente.” cominciò. “Ormai, mi sembra
palese che tra noi ci sia un'attrazione piuttosto forte. Non credo
ancora sia mentale, dato che non riusciamo ad andare d'accordo un
momento ma, di qualunque tipo sia, è difficile ignorarla.”
“E
cosa dovremmo fare? Chiuderci in camera sei ore al giorno e darci
dentro all'infinito?”
“Tu
credi che io ti abbia presa per una scopata, Ingie?” La mora rimase
esterrefatta. “Perché, da come parli, sembra che io voglia sesso e
ancora sesso. Non sei stata una scopata e via.”
“Beh,
non credo si possa dire sia stato amore.” fece lei, scettica.
“Non
lo è stato, infatti. Ma non è stato neanche un rapporto fine a se
stesso. Mi pare ovvio provare affetto per te, nonostante tutto.”
Ingie fremette a quelle parole. “Sai come la vedo io? Ci piacciamo,
d'accordo, ormai è inutile negarlo. Siamo giovani, anche questo è
vero. Ma non siamo degli incoscienti, tanto meno degli adolescenti
che non sanno nemmeno cosa sia il sesso e a cosa può portare.”
“A
noi ha portato guai.”
“Perché?”
“Perché
viviamo insieme, ci sarà imbarazzo anche con gli altri.”
“Non
mi sembri una che possa provare imbarazzo.”
“Beh,
che tu ci creda o no, anche io sono un essere umano.”
Tom
le si avvicinò ancora, toccandole una caviglia con le dita. Quel
lembo di pelle cominciò a bruciare.
“Ingie,
ti prego, dimmi quello che senti. Di cos'hai paura?” le domandò
con una dolcezza tale da farle quasi mandare tutto al Diavolo e
baciarlo. Tremò. “Hai paura che per me non sia significato nulla?”
La ragazza non rispose. “Ingie, io lo rifarei. Non mi sono pentito,
nemmeno un po'.” Quelle parole, pronunciate con tanta serietà, le
fecero mancare per un attimo il respiro e si sentì nuovamente
piccola, come stesse rivivendo un momento felice ed impacciato con il
suo primo fidanzatino del liceo. I brividi non cessavano di
tormentarla ed allungò una mano verso quella di Tom, cercando di
spostargliela dalla caviglia, ma lui le strinse le dita congelate
dall'agitazione. “Perché non ti calmi?”
“Perché
non ci riesco.” Sospirò e si portò le mani alla fronte, poggiando
i gomiti sulle ginocchia. “Non so cosa mi stia succedendo.”
“Stai
ricominciando a vivere, Ingie. Stai ricominciando a provare emozioni.
Lo so che non ti sembra corretto nei confronti di tuo fratello, ma
hai diritto a ricominciare.”
“Tom,
fra noi non c'è nulla. Solo attrazione fisica.” Lo guardò.
“Lo
so.” annuì lui, come niente fosse.
“Allora,
che senso ha portare avanti questa cosa?”
“Perché
reprimerla, allora?”
“Perché
è tutto troppo avventato. Viviamo assieme, ci sono gli altri. No,
non... No.”
“Smettila
di sentirti a disagio.”
“Non
puoi pretendere che io mi comporti come non fosse successo nulla.”
“Invece
è qui che ti sbagli. Io non voglio che ci comportiamo come non fosse
successo nulla. Mi spiace, Ingie, ma non lo voglio sminuire. Sembrerà
infantile, ma non riesco a passarci sopra. Non ti sto facendo una
dichiarazione, lungi da me; non ti sopporto, in certi momenti, e lo
sai bene, credo. Ma non riesco a non volerti bene comunque. Per
quanto tu sia pazza e sclerata, non riesci a non farti adorare da
tutti.”
“Si
vuole bene anche ad un gattino, Tom, ed è diverso dal provarlo per
una ragazza con cui sei andato a letto.”
“Mi
spieghi che male c'è a voler portare avanti questa cosa e capire?”
“Ma
in che modo vorresti portarla avanti, se non a ritmo di sesso?”
“Vorrei
che la prendessimo con più calma. Che provassimo a scoprire nuovi
lati di noi che ancora non conosciamo, che provassimo a capire se c'è
qualcosa che ci accomuna.”
“E
se dovesse essere un fiasco?”
“Amici
come prima.”
“Fai
sembrare tutto estremamente facile.”
“Lo
sarebbe, se lo volessimo.”
Silenzio.
“Tom,
io non sono pronta per una relazione.” fece lei, quasi a bassa
voce.
“Nemmeno
io.”
“Di
qualunque tipo.”
“Ingie,
ti prego, stai tranquilla. Non ti sto chiedendo di sposarmi, ti sto
chiedendo di conoscerci.”
“Basta
sesso?”
“Basta
sesso. Una semplice frequentazione.”
Ingie
lo squadrò sospettosa.
“Spiega
meglio il tuo concetto di frequentazione.”
Tom
chiuse gli occhi e portò la testa all'indietro, in segno di
disperazione.
“Oh,
mio Dio, Ingie! Non farò nulla che tu non voglia, se è questo che
ti preoccupa.”
La
mora rifletté ancora qualche istante.
D'altronde,
potevano provare.
Non
era sicura di riuscire a resistergli a lungo. Conosceva il detto che
chi prova una volta, non torna più indietro. Lei e Tom erano già
arrivati al sesso e sapeva, era sicura che non sarebbero riusciti a
tenersi lontani, almeno dal punto di vista fisico. Sentiva che, prima
o poi, sarebbero caduti nuovamente nella trappola della tentazione e
dell'attrazione. Perché era tanta, troppa, e sapevano già come
sarebbe stato.
Violento,
passionale, bellissimo.
“D'accordo.”
Si arrese. “Cercherò di fidarmi di te.” E di me stessa,
aggiunse nella propria testa. “Solo noi potevamo fare tutto al
contrario.” borbottò poi, facendo scoppiare Tom a ridere.
“Siamo
alternativi.” scrollò le spalle lui, compiaciuto.
Si
presero qualche attimo.
“Devo
fumare.” disse poi Ingie, all'improvviso.
Ancora
una volta la risata del chitarrista le riempì le orecchie.
***
Erano
seduti tutti insieme in giardino, quella sera, come non succedeva da
un po' di tempo. Avevano deciso di trascorrere qualche ora in
compagnia, a chiacchierare e fumare, prima di separarsi il giorno
seguente per il Natale.
Ingie
si sentiva incredibilmente leggera. Chiarire con Tom si era rivelato
liberatorio e forse aveva aiutato il buon senso e l'intelligenza del
chitarrista, per lei sorprendenti. Non aveva mai pensato che Tom
potesse essere così uomo, dal punto di vista mentale. L'aveva
messa a proprio agio in pochi minuti; vi riusciva sempre. Era una
cosa che apprezzava dannatamente di lui e le faceva venire strani
crampi allo stomaco.
Ed
ora sedeva accanto a lei – sui gradini del pianerottolo –, anche
lui a fumare una sigaretta con il sorriso sul viso ed a scambiarsi
battute con i suoi amici. Bill e Gustav sedevano alla loro destra,
sulla sedia a dondolo, mentre Georg se ne stava in piedi, di fronte,
con la schiena poggiata all'albero.
Le
piaceva quel tipo di atmosfera; era tremendamente familiare.
“Redhead,
perché non ti siedi?” domandò Ingie ad un Georg particolarmente
divertito.
“Era
da un po' che non mi chiamavi così.” commentò compiaciuto.
“Ritieniti
fortunato. A me chiama ogni giorno Piggy.” borbottò Tom,
dopo aver aspirato un po' di fumo.
“Perché
lo sei, Piggy.” scrollò le spalle la mora, facendo
sollevare gli occhi di Tom al cielo stellato.
“Hey,
non è giusto che non chiami in qualche modo assurdo anche Gustav!”
si lamentò Bill.
“Perché
lui è un angioletto, Speedy. Non posso chiamarlo con nomi
assurdi.” si difese lei.
“Mi
sento preso in giro.” borbottò il vocalist.
Ingie
ridacchiò appena, prima di spegnere la sigaretta nel posacenere, fra
lei e Tom. Era tremendamente stanca. Quella giornata era stata ricca
di eventi, come la sera prima, e la sua mente ne stava risentendo.
“Io
vado a dormire.” annunciò, alzandosi in piedi.
“Adesso
andiamo anche noi.” annuì Gustav, stiracchiandosi appena.
“Buona
notte, a domani mattina.” parlò, prima di rientrare in casa. Lei e
Tom si erano scambiati una breve occhiata, che non seppe nemmeno lei
cosa potesse voler dire.
Era
decisamente strana tutta quella situazione che si era venuta a creare
fra loro; ma soprattutto era incredibile dover nascondere tutto
quanto al resto della band. A dire il vero, non l'avevano deciso. Era
semplicemente qualcosa che avevano entrambi dato per scontato. Era
ancora troppo presto e, soprattutto, non vi erano basi sufficienti
per poter dire qualcosa. D'altronde fra lei e Tom non vi era ancora
nulla di concreto.
Una
volta finito di lavarsi i denti, uscì dal bagno, pronta per entrare
in camera ed infilarsi il pigiama che l'attendeva caldo e morbido.
Sentì un brivido quando vide Tom salire le scale, fino a trovarsi di
fronte a lei.
Le
sorrise appena.
“Hai
messo la sveglia per domani mattina?” le domandò, mentre le si
avvicinava lentamente, con l'intenzione di raggiungere la propria
stanza.
“Sei
tu quello disorganizzato, qui dentro.” lo stuzzicò appena.
Restarono
qualche attimo in silenzio, come se per la prima volta non sapessero
cosa dirsi.
Fu
in quel momento che Ingie giunse ad una consapevolezza tremendamente
spaventosa: lei voleva Tom, disperatamente. E fu per la prima volta
che si rese conto di non volerlo solamente dal punto di vista
carnale; anche un solo abbraccio, sentire ancora il suo odore per un
po' le sarebbe bastato.
“Perché
mi guardi così?” le chiese con un tono di voce più dolce del
solito, il che le fece battere ancora più forte il cuore.
“Ho
solamente sonno.” tagliò corto, riprendendo a camminare verso la
sua camera. Ignorò il suo profumo, quando gli passò affianco.
“Buona notte, Piggy.” disse, prima di chiudersi la porta
alle spalle.
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Capitolo 14 *** Thirteen - Getting into your life ***
13
Thirteen
Getting
into your life
Appena
udì il suono della sveglia farsi vivo e squillante accanto al suo
orecchio, le venne voglia di piangere.
Non
poteva già essere ora di alzarsi.
Aveva
trascorso la nottata completamente in bianco. Troppi pensieri le
affollavano la mente, poche risposte la soddisfacevano, ma
soprattutto poco autocontrollo l'aiutava.
Aveva
provato più volte, durante quelle ore, a posare idealmente una croce
sul viso di Tom che continuava ad apparirle davanti agli occhi,
nonostante lei facesse di tutto per impedirlo.
Sapeva
che ben presto sarebbe accaduto. Fare l'amore non era stata la
migliore delle idee ed ora la sua mente pareva pervasa da una guerra
continua ed infinita. Avrebbe dovuto immaginarlo; nonostante tutto,
si definiva una ragazza piuttosto sentimentale – anche se le
apparenze portavano su tutt'altra strada – ed il fatto di aver
condiviso un momento così intimo con lui non riusciva a non farle
battere il cuore.
Non
avrebbe mai voluto giungere a quella situazione ma, d'altro canto,
non poteva fare nulla.
Si
alzò lentamente con il busto, impedendo alla sua testa di girare,
come succedeva ogni volta che si alzava dal letto. Quella mattina fu
peggio del solito, si sentiva uno straccio.
Si
legò i capelli, senza badarvi troppo, ed uscì dalla stanza come uno
zombie. Gli occhi erano semichiusi, le braccia abbandonate lungo il
suo corpo stanco ed i suoi piedi strisciavano sul pavimento con
pesantezza. Fu un miracolo per lei riuscire a scendere l'intera rampa
di scale. Quando entrò in cucina, trovò Bill seduto al tavolo con i
capelli scompigliati, due occhiaie che facevano invidia alle sue e
una guancia spiattellata contro una mano.
“Bill,
sei un mostro, stamattina.” le venne spontaneo commentare. Georg,
seduto affianco a Bill, per poco non si fece uscire il caffè dal
naso, scoppiando a ridere.
“Con
Ingie in casa, uno si toglie il problema di farti i complimenti per
forza.” rise il bassista, compiaciuto, mentre si puliva la bocca,
dalla quale era gocciolato un po' della bevanda calda.
Bill
grugnì, senza degnarlo di ulteriore attenzione ed Ingie gli si
sedette di fronte.
“Seriamente,
sei inquietante.” continuò la mora, fin troppo sincera e colpita.
“Tu
non sei da meno, se ti interessa la mia opinione.” borbottò il
vocalist.
“Infatti
non mi interessa.” confermò, senza guardarlo. “Poi mi dovrete
ancora spiegare perché dobbiamo svegliarci alle sette del mattino
per andare a Lipsia.” grugnì, riempendosi la tazza di caffè.
“Perché
le due ore che normalmente impieghereste per arrivare diventano
cinque, viste le innumerevoli volte in cui Bill si deve fermare per
andare in bagno, fumare o mangiare.” rispose Georg, come se avesse
assistito a ciò che diceva almeno una trentina di volte.
Ingie
non si sentì rincuorata.
“Non
potresti andare in bagno una volta sola e mangiare qui?” gli
chiese, come fosse ovvio, per poi portarsi alla bocca un pezzo di
brioche.
“No,
perché quando Tom guida mi agito.” spiegò, come fosse normale.
Ingie sollevò un sopracciglio ma Georg fece un gesto eloquente con
la mano, per farle capire che era inutile portare avanti quel
discorso, quindi decise di non continuare.
“Buon
giorno.” esclamò Tom, stranamente sveglio, una volta entrato in
cucina. Ingie per poco non morì di infarto. “Oh, Cristo, Bill, sei
più orribile del solito.”
Georg
scoppiò di nuovo a ridere, stavolta con le mani allo stomaco. Il
vocalist si voltò nella sua direzione con sguardo assassino.
“La
smetteresti di divertirti così tanto, ogni volta che mi tirano un
insulto?” commentò tetro.
Nel
frattempo, Tom si era seduto accanto ad Ingie.
“Ah,
ci avevi già pensato tu?” le domandò il chitarrista, divertito.
“Come
sempre.” rispose lei con una scrollata di spalle, tornando poi a
bagnare il croissant nel caffè.
“Se
anche Gustav gli dice qualcosa, giuro che sputo il caffè in faccia a
Tom.” ridacchiò Georg, dopo aver sorseggiato un po' dalla sua
tazza. In risposta, Tom lo scrutò con un sopracciglio sollevato.
“Piggy,
mi spiegheresti per quale assurdo motivo Bill si agita quando guidi?”
domandò la ragazza con indifferenza, senza guardarlo. Il ragazzo
sorrise sotto i baffi.
“Diciamo
che ho il piede un po' pesante.” fece vago.
“Bene,
sappi che te lo stacco, quel piede, se superi i centotrenta.”
“Hai
paura anche tu?”
“Semplicemente,
non ci tengo a morire.” Cambiò espressione non appena si rese
conto di ciò che aveva appena detto. Anche lui si voltò a
guardarla, teso; evidentemente entrambi avevano pensato a suo
fratello Tom. Ingie si schiarì la voce, ingoiando il masso.
“Comunque, Bill, non possiamo impiegare trent'anni ad arrivare a
Lipsia, per la tua incontinenza.” parlò come nulla fosse.
“Più
volte vado in bagno io, più sigarette fumi tu.” la provocò il
vocalist.
Ingie
cercò di mantenere tutta la propria professionalità.
“Questo
è giocare sporco.” borbottò, sotto le risate di Tom e Georg.
“Lo
so.” si vantò lui.
Improvvisamente
sentirono dei passi veloci scendere le scale e Georg si preparò
all'entrata trionfale di Gustav. Ingie sorrise appena, attendendo il
batterista con impazienza. Non appena questo fece il proprio
ingresso, tutti puntarono gli occhi su di lui, aspettandosi che
dicesse qualcosa sull'aspetto di Bill.
“Perché
mi fissate così?” domandò il biondo, dall'espressione perplessa.
“Ah!”
esclamò Bill, alzandosi all'improvviso dalla sedia, con espressione
soddisfatta. “Godo, stronzi!”
***
Si
trovavano in macchina da una ventina di minuti, ormai. Bill aveva
insistito per sedersi sui sedili posteriori, perché potesse
sdraiarsi e dormire quando avesse voluto. Ingie non si era mai
trovata a discutere per stare dietro e quel giorno l'aveva fatto.
Era
una sensazione stupida; cos'altro sarebbe potuto accadere con Tom?
Erano riusciti a bruciare ogni tappa in una sola notte. Cosa mai
poteva essere sederglisi affianco? Si sentiva una bambina,
un'adolescente alle prime armi ed odiava quella sensazione,
nonostante facesse di tutto per comportarsi come sempre.
Prima
che uscissero dallo studio, Gustav e Georg avevano dato ad ognuno i
propri pacchetti regalo per il Natale, come avevano fatto loro tre
prima della partenza.
Ingie,
personalmente, era dispiaciuta di non poter festeggiare con loro, ma
al tempo stesso era eccitata all'idea di rivedere Simone. Ricordava
di avere ancora il suo numero, ma di non averne mai fatto uso.
Non
aveva mai osato farlo; temeva di essere invadente, benché fosse
stata proprio la donna a chiederle di telefonarle tutte le volte che
voleva. Ingie non era una persona che amava osare; credeva sempre di
essere di troppo e si riduceva a non fare mai nulla.
Osservò
con la coda dell'occhio il profilo del chitarrista. Guidava con
estrema tranquillità ed un'espressione serena sul viso; sapeva che
non vedeva l'ora di rivedere sua madre.
Una
cosa aveva imparato di Tom, in quegli ultimi giorni. Benché volesse
nascondersi dietro false apparenze e non volesse mostrare alla gente
i suoi veri sentimenti, Tom Kaulitz era un ragazzo dal cuore grande,
ma soprattutto con tanta voglia di amare ed essere amato. Più il
tempo passava e più se ne rendeva conto. Aveva una sensibilità
nascosta fortissima che mai avrebbe osato immaginare. Viveva di
emozioni, esattamente come lei. Entrambi indossavano una maschera che
per molti non aveva senso portare, ma loro sapevano chi erano
veramente e sapevano anche che quella maschera serviva loro per
proteggersi.
La
cosa più bella era che stavano imparando a conoscersi a vicenda,
sempre di più. A volte, si sentiva nuda, davanti a lui perché
sapeva leggerla negli occhi e nell'anima. Forse era la loro
somiglianza a non renderli solamente incompatibili, ma anche facili
da capirsi.
Spostò
lo sguardo sulla mano con la quale teneva il volante; quella stessa
mano che aveva carezzato il suo corpo per ore interminabili. Tornò a
guardare il finestrino prendendo fiato; improvvisamente cominciava a
sentire caldo.
Sorrise
sorpresa, non appena Scotty, dai sedili posteriori, le poggiò il
muso sulla coscia, scrutandola come se riuscisse a leggerle nel
pensiero. Gli posò una mano sulla testa e prese a fargli piccoli
grattini che parve gradire. Anche Tom prese a carezzarlo un paio di
volte, sfiorandole involontariamente la mano, per poi tornare a
concentrarsi sulla guida.
“Ingie,
non senti i tuoi genitori per Natale?” fu la domanda improvvisa ed
inaspettata di Bill.
Ingie
congelò e cercò immediatamente Tom con lo sguardo, il quale
ricambiò, teso.
“Ehm,
certo! Li ho sentiti in questi giorni.” rispose, il più convinta
possibile.
“E
perché non li vedi? Potevi invitarli.” continuò il vocalist,
sinceramente dispiaciuto.
“No.”
sorrise lei, sotto lo sguardo del chitarrista. “Hanno deciso di
passare un Natale romantico a casa.”
“Che
carini.” commentò il biondo, sognante. “Devono essere
innamorati. Mi sono sempre piaciute queste famiglie.”
“Bill,
c'è un Autogrill. Mi fermo così vai in bagno e io fumo una
sigaretta.” intervenne Tom, prontamente. Ingie lo ringraziò
mentalmente in tutte le lingue del mondo. Per lo meno, aveva un
ottimo tempismo. Una volta fermi, nel parcheggio, attesero che Bill
scendesse dalla macchina e sparisse all'interno dell'Autogrill per
parlare. “Mi dispiace.” disse lui.
“Figurati,
non lo può sapere. È normale.” lo tranquillizzò, sincera.
“Questa
situazione è un tantino scomoda. Vedi quanto è controproducente non
dire la verità?”
“Tom,
va bene così. Non voglio che lo sappiano, lo sai.” Poté scorgere
con la coda dell'occhio il viso del chitarrista contrarsi in un
sorriso soddisfatto. “What?” domandò sospettosa.
“Mi
sto sentendo importante.” gongolò compiaciuto.
“Oh,
man.” borbottò
lei, sotto la sua risata sottile. “Ho bisogno di fumare.”
continuò, per poi scendere dall'auto. Tom la seguì, con la
sigaretta già alla bocca ed un'espressione sempre più compiaciuta
sul viso. “Piantala.” borbottò lei, mentre si accendeva la
Marlboro.
“Non
sto facendo nulla.” sollevò le mani con un sorriso quasi angelico.
“Ma
il tuo cervellino sta elaborando cose pericolose, quindi piantala.”
Fumarono
per qualche istante in silenzio. Ingie non lo guardava ma percepiva
ancora il sorriso stampato sulla sua faccia. Aveva deciso che la cosa
migliore da fare era ignorarlo; prima o poi avrebbe finito di darle
noia.
Il
problema di quella questione era che ciò che aveva detto era reale.
Lui
era diventato, in un modo del tutto strano ed inspiegabile,
decisamente rilevante nella sua vita.
“Nei
prossimi giorni conoscerai Andreas.” parlò il chitarrista, ad un
tratto. Ingie si voltò ad osservarlo con sguardo corrucciato. Non
aveva mai sentito quel nome. “Un amico di infanzia.” le spiegò.
“Andavate
a scuola insieme?” domandò, curiosa.
“No,
ci siamo conosciuti nel vicinato. Sai, quando da bambini ci si
incontra al parco e ci si rotola nel fango.”
Ingie
sorrise alla sua espressione nostalgica e serena. Immaginare Tom
bambino, giocare con i suoi amici, la rendeva quasi inerme e la
riempiva di dolcezza. Avrebbe pagato oro per avere una sua foto, di
quando era piccolo. La sua mente diabolica stava già architettando
di procurarsela tramite Simone. Le mamme, solitamente, erano
piuttosto inclini a tirare fuori album-ricordo.
“Sarai
stato un teppista, da piccolo.” disse, dopo aver aspirato un po' di
fumo.
“Diciamo
che tenevo mia madre occupata.” sorrise lui.
“Sono
curiosa di sentire quante storielle sul tuo conto mi possa
raccontare.”
“Brucerò
tutti gli album di fotografie, non appena arriveremo a casa.”
***
Non
appena il sorriso radioso di Simone li aveva accolti in casa, si era
sentita immediatamente scaldata nel cuore. Aveva desiderato tanto
rivederla ed ora che finalmente era stretta fra sue braccia materne,
quasi non volle staccarsi da lei.
Un
profumo di mamma, che le mancava da morire.
“Sono
così contenta di vederti, Ingie.” disse la donna, dopo aver
interrotto quell'abbraccio così spontaneo ed intriso di affetto. “Ti
vedo un po' sciupata. Mangi, tesoro?” le domandò preoccupata.
Il
cibo era la principale preoccupazione delle madri e delle nonne, da
ciò che poteva ricordare, e la cosa la fece involontariamente
sorridere.
“Non
ti preoccupare, mangia da far schifo.” intervenne Tom, posando i
borsoni in corridoio.
“Per
il pranzo di Natale ho pensato ad un bel po' di cosette, che spero ti
piacciano.” parlò ancora Simone, particolarmente entusiasta, il
che fece ridacchiare Ingie.
“Non
ti preoccupare, Simone. Mangio tutto.” annuì con un sorriso.
Effettivamente,
il cibo non era mai stato un suo problema. Aveva la fortuna di
mangiare fino a scoppiare e prendere massimo un chilo di peso. Fin
dai tempi in cui ballava era così; ed allora, di cibo, ne assumeva a
valanghe.
“Gordon?”
domandò Bill, guardandosi attorno.
“Lavora.
Tornerà stasera.” spiegò Simone, mentre si dirigeva in cucina,
seguita dal gemello biondo.
Ingie
si era ritrovata ad osservarsi attorno, con particolare attenzione
per ogni angolo di quella casa relativamente piccola, ma
incredibilmente accogliente. Le pareti rosate, il divano imbottito e
ricoperto di una federa a fiori, un piccolo caminetto spento ed un
televisore di medie dimensioni.
Le
ricordava tantissimo casa sua, a New York. Lei e la sua famiglia non
avevano mai vantato una condizione economica fiorente, ma erano
sempre riusciti – nel loro piccolo – a rendere confortevole tutto
ciò che circondava loro, con immensa dignità.
“Te
l'aspettavi più grande?” le chiese Tom, affiancandola.
Probabilmente aveva notato il suo sguardo assorto.
“No.”
rispose sinceramente. “Mi piace. Mi ricorda tanto casa mia.”
mormorò, con sorriso lieve, celante una marea di ricordi che la
riempirono di nostalgia. Percepì lo sguardo intenso di Tom addosso e
si voltò verso di lui con un sorriso più sereno. “Tranquillo, non
sto per scoppiare a piangere.” ridacchiò, per poi recarsi in
cucina, dove Bill era seduto al tavolo con un bicchiere d'acqua in
mano.
Simone,
invece stava preparando il pranzo, ai fornelli.
“Sedetevi
e raccontatemi un po' che cosa avete combinato in questo periodo.”
sorrise Simone, senza distogliere lo sguardo dalla pentola.
Ingie
e Tom si scambiarono un'occhiata veloce, quasi colti in flagrante, e
si sedettero assieme a Bill.
Abbiamo
combinato un bel po' di guai, pensò Ingie. Da una parte si
chiese cosa potesse pensare Simone di ciò che era successo fra lei e
Tom. Li avrebbe giustificati o l'avrebbe giudicata una sgualdrina?
“Io,
personalmente, mi sto grattando la pancia, in questi giorni. Non ho
combinato un bel niente.” commentò Bill, per poi sorseggiare un
po' d'acqua.
I
cani, nel frattempo, trotterellavano attorno al tavolo, impazienti di
afferrare qualunque cosa cadesse a terra da mangiare.
“David?
L'avete sentito? Come sta la fidanzata?” domandò la donna, come
illuminata.
“Oh,
sta bene. È al secondo mese e ha detto che la gravidanza sta andando
avanti benissimo. David continua ad uscire alle tre di notte per
andare alla ricerca di gelaterie aperte, ma per il resto va tutto
bene. Per lo meno ora è sereno ed è meno sclerotico.” spiegò il
chitarrista.
“Dice
che a Gennaio tornerà allo studio, per riprendere a lavorare con noi
sul nuovo album.” intervenne Bill.
Ingie
lo scrutò attentamente e notò ancora quell'espressione decisamente
poco entusiasta sul suo volto. Possibile che non avesse ancora
accettato quella gravidanza? Che fosse ancora convinto che avrebbe
tolto del tempo alla band?
Non
avevano più discusso, quindi non sapeva cosa stesse accadendo nella
sua testa ma sperava vivamente che si decidesse a gioire di quella
notizia, invece che soffrirne.
“Quanto
invidio Amanda.” fece Simone, sognante. “Il periodo della
gravidanza, benché difficile, è qualcosa di davvero emozionante. Io
tutti i giorni non vedevo l'ora che questi due marmocchi nascessero.”
disse con gli occhi lucidi, tipici di una mamma nostalgica ed
amorevole. Ingie sorrise automaticamente. “Ti auguro di diventare
mamma, Ingie, perché è il regalo più bello che la vita ti possa
fare.”
La
ragazza arrossì appena. Non aveva mai fatto discorsi simili con
nessuno e l'idea di diventare mamma l'aveva sempre un po' spaventata,
anche se era un suo grande desiderio, come aveva confessato a Tom
qualche tempo prima. Questo infatti la osservava quasi con tenerezza.
“Eh,
bisogna trovare la materia prima.” sdrammatizzò lei, facendo
scoppiare tutti a ridere.
“Ah,
figurati se una bella ragazza come te non riesce a trovare il ragazzo
giusto. Dai tempo al tempo, la persona della tua vita salterà fuori
quando meno te lo aspetti.”
Ingie
sorrise in imbarazzo, non appena il suo sguardo incrociò
involontariamente quello di Tom. Lui, per fortuna, non sembrava
avervi dato peso.
Quella
situazione era al limite dell'imbarazzante. Non faceva altro che
ripensare alla notte trascorsa insieme, benché non provasse nulla a
livello sentimentale per lui, se non affetto. Erano immagini che si
ripresentavano nella sua mente all'improvviso e la agitavano, perché
ancora scossa da quegli stessi brividi che il chitarrista le aveva
procurato possedendola, e sperava potessero svanire col tempo.
“Per
lo meno tu hai questa visione della famiglia. I miei figli non mi
vogliono far diventare nonna.” borbottò la donna.
“Forse
quando avrò sessant'anni.” commentò Tom, con un sorrisetto.
“Quando
avrai sessant'anni, non avrai nemmeno più la forza di procreare.”
ribatté Bill con sarcasmo.
“Tu,
forse. Sessualmente parlando, non avrò mai problemi. Nemmeno a
ottant'anni.” si vantò il moro, facendo scoppiare a ridere sia
Ingie che Bill.
“Come
sei profondo, Tomi.” commentò la madre, fintamente
impressionata.
***
Sorrideva
mentre sciacquava una posata alla volta, per poi passarla a Simone,
che l'asciugava e la riponeva al proprio posto, nella credenza. Le
sembrava di tornare indietro nel tempo e ritrovarsi con sua madre in
cucina, intente a collaborare e chiacchierare al tempo stesso su cosa
accadesse nella sua vita.
Tom
e Bill erano usciti con i cani; avevano deciso di fare una
passeggiata lungo il quartiere e ripercorrere i luoghi più
frequentati durante la loro infanzia. Ingie ne aveva immediatamente
approfittato per passare un po' di tempo con Simone, declinando
gentilmente la loro offerta di partecipare. Aveva decisamente bisogno
di fare una chiacchierata fra donne.
“Allora,
Ingie? Come sta andando la convivenza?” domandò la donna, curiosa.
Ingie
aveva deciso di parlare con il tono più tranquillo ed innocente che
potesse sfoderare.
“Bene.
Devo ammettere che credevo peggio.” sorrise, passandole un piatto.
“Sono
piacevoli, se ci fai l'abitudine.” ridacchiò Simone. “Stai
ancora cercando casa?”
“Ogni
tanto do un'occhiata agli annunci, ma devo aspettare di guadagnare
qualche soldo in più o non posso permettermi un affitto.”
“Beh,
non so quanto potrà far piacere ai ragazzi la tua assenza.”
mormorò la bionda, mentre riponeva in credenza una pentola.
“Soprattutto a Tom.” aggiunse. Ingie aggrottò le sopracciglia e
voltò lo sguardo verso di lei, come per chiedere spiegazioni che non
tardarono ad arrivare. “Ingie, sono mamma. Ho partorito mio figlio.
Non dico che gli leggo nel pensiero, ma quasi.” sorrise
amorevolmente, facendola arrossire.
“Non
so di cosa parli.” si finse ignara, tornando a sciacquare una
forchetta.
“Vedo
che c'è un'intesa particolare fra voi. Non so cosa stia succedendo,
ma non mi importa. Qualsiasi cosa stiate combinando, sono contenta
perché sei tu.”
“Non
sta succedendo nulla, Simone.”
“Forse.
Ma vedo come vi guardate. Te lo posso dire, non vedevo Tom guardare
una ragazza in questo modo dai tempi di Ria.” Ingie sentì un
brivido sulla schiena. La famosa ex fidanzata di Tom. Per un qualche
strano motivo, le dette fastidio. “Quella è stata la sua prima,
vera delusione d'amore. Ha sofferto tanto.” Ingie non indagò
oltre, benché la questione la incuriosisse particolarmente. “Se tu
tornassi a fargli credere nell'amore, ne sarei contenta.”
“Sono
l'ultima persona in grado di farlo.”
“Perché?”
“Sono
problematica, non gli sarei decisamente d'aiuto.”
“A
mio figlio piaci, Ingie. Te lo dico da mamma. Se anche a te non è
indifferente, pensaci.” Sorrise. “Lo vedo che non ti è
indifferente.”
Ingie
non si trattenne dal sorridere ed abbassò lo sguardo, rossa in viso.
Quel
discorso cominciava a metterla a disagio perché doveva fare i conti
con una realtà che cercava di ignorare. L'istinto le diceva di
spifferare ciò che era successo a Simone, per chiederle aiuto e
consigli, ma la parte più razionale di lei le diceva che era
sbagliato. Non era sua madre ed avrebbe mancato di rispetto il
chitarrista, se lo avesse fatto.
“Sai,
mi ricordi tanto mia madre.” le venne spontaneo dire. Simone sembrò
riempita di una forte tenerezza.
“Che
mi dici di lei? Come mai non sei con la tua famiglia?” le domandò.
Ingie
si torturò le mani.
“Diciamo
che non siamo più in buoni rapporti.” mentì. “Me ne sono andata
di casa e non so più cosa sia giusto fare.”
La
donna sembrava corrucciata.
“Hai
paura che non ti accetti più?” le chiese, comprensiva. Sembrava
averle letto nel pensiero. La mora annuì appena. “Tesoro,
ascoltami. Tu ora non lo puoi capire perché non sei mamma. Tua madre
ti aprirà sempre la sua porta. Sempre. Perché sei il suo sangue; so
che è difficile per voi giovani comprendere una cosa del genere, ma
lo farete. Non devi aver paura del suo giudizio, qualunque cosa sia
successa, perché ti perdonerà sempre. Quello di una madre verso il
proprio figlio è un amore incondizionato.” Ingie non si trattenne.
Una lacrima calda scorse lenta lungo la gota e cercò di scacciarla
il più velocemente possibile. “Non vergognarti, tesoro.” le
disse la donna, per poi stringersela al petto. Ingie avvolse le
proprie braccia attorno al suo corpo e permise ad altre lacrime di
uscire allo scoperto. Le mancava piangere sul petto di una madre. Le
mancava sentirsi compresa e non respinta. Le mancava percepire tutto
il calore materno avvolgerla e consolarla. “Qualsiasi cosa ti porti
dentro, si risolverà. Perché sei una ragazza d'oro.”
Furono
quelle parole e toccarla ancor di più nel profondo.
Adorava
quella donna. Nonostante la conoscesse da poco tempo, non poteva fare
a meno di provare affetto incondizionato nei suoi confronti. Aveva un
cuore immenso ed una capacità di comprensione che rasentava livelli
impressionanti. Era la mamma che le mancava.
“Va
tutto bene?” sentì improvvisamente la voce di Bill alle sue
spalle, probabilmente rientrato a casa con suo fratello.
Ingie
era semplicemente in silenzio, ancora stretta a Simone, e non aveva
il coraggio di staccarsi da lei.
“Sì,
state tranquilli. È solo un crollo momentaneo.”
Percepì
Simone sorridere con leggerezza e la ringraziò mentalmente.
“Nulla
di grave?” domandò Tom, perplesso.
“No,
tranquillo. Adesso passa. Lo sai come siamo, noi donne. Aveva solo
bisogno di una presenza femminile, tutto qui.”
***
“Mi
è dispiaciuto vedere Ingie così. Chissà cosa sta passando.”
mormorò Bill, una volta entrati nella loro vecchia stanza. Tom fece
finta di nulla, per il bene della mora. Sapeva perfettamente cosa
Ingie stesse passando e cosa la stesse tormentando ed il fatto di non
poterne parlare con suo fratello lo metteva a disagio. Uno scambio di
opinione con lui sarebbe stato di grandissimo aiuto, ma aveva
promesso alla ragazza di non farne parola con nessuno, almeno fino a
quando lei non si fosse sentita pronta. “Secondo me, è triste
perché non passa il Natale con i suoi.” rifletté il vocalist e
Tom sperò che il suo cervello si fermasse a quel pensiero.
“Sì,
sarà sicuramente così.” affermò il chitarrista, sedendosi sul
proprio letto singolo, mentre Bill faceva la stessa cosa, dall'altra
parte della camera, afferrando un peluche.
“Perché
oggi non la porti un po' in giro?” propose ad un certo punto,
risvegliando Tom dai propri pensieri.
“Mh?”
fece lui, confuso.
“Sì,
le fai fare un giretto in macchina, le fai vedere qualche posto della
nostra infanzia. La fai svagare un po'.” spiegò il biondo e Tom
non pensò fosse una brutta idea. “Ha bisogno di sentirsi in
famiglia, in questo momento. Di sentirsi coinvolta.”
Annuì
distrattamente.
“Sì,
penso sia una buona idea.” disse.
Effettivamente
avrebbe potuto aiutare Ingie a non pensare più di tanto. Avrebbe
potuto distrarla in qualche modo perché, doveva ammetterlo, anche a
lui faceva male vederla in quello stato.
“Ho
sentito Andreas.” annunciò Bill, all'improvviso. “Ha detto che
viene a fare un salto domani, per salutarci.”
“Domani
è già la vigilia?” domandò Tom confuso.
“Già.”
annuì suo fratello. Era incredibile come i giorni fossero passati
talmente in fretta. Nemmeno se ne era reso conto. “Potremmo fare
qualcosa di particolare. Che ne so, andare da qualche parte.”
Passarono qualche minuto in silenzio, a riflettere. Era da tanto che
non vedevano Andreas e passare un po' di tempo insieme fuori casa non
era una cattiva idea. “Ho trovato!” esclamò come illuminato suo
fratello. Tom sollevò lo sguardo su di lui, con espressione curiosa,
in attesa. “Se andassimo a trascorrere un bel pomeriggio alle
terme?” Tom sollevò le sopracciglia sorpreso. “Potrebbe essere
un modo per stare insieme, divertirci e rilassarci al tempo stesso.
Credo che tutti noi, compresa Ingie, ne abbiamo bisogno.”
***
Osservava
la sigaretta che lenta si consumava fra le sue dita e rifletteva.
Sfogarsi
con Simone, forse, le aveva fatto bene. Si sentiva incredibilmente
più leggera, benché ancora scossa, ed un lieve sorriso ora le
ornava il volto rilassato. Finalmente aveva avuto occasione di
parlare con una donna e di sentire un parere femminile, nonostante
non le avesse rivelato cosa l'avesse spinta a rifugiarsi in Germania.
Sapeva che Simone non avrebbe scavato a fondo perché era una persona
tremendamente riservata e delicata. Avrebbe potuto prendere in
considerazione l'idea di parlargliene, ma sapeva bene che le avrebbe
ripetuto le stesse parole di Tom perché, se si fosse osservata
dall'esterno, si sarebbe detta le stesse cose anche lei.
“Sigaretta
post-crisi?”
Sorrise,
senza voltarsi. Sapeva che Tom aveva appena aperto la porta di casa e
l'aveva trovata seduta sul pianerottolo a fumare.
“Mi
aiuta sempre.” rispose, mentre sentiva il chitarrista sedersi
accanto a lei con un sospiro.
“Già,
anche io me ne convinco, per non pensare ai miei polmoni.” annuì,
dopo essersi acceso anche lui una sigaretta. “Passata?” le
domandò poi, scrutandola. Lei si limitò ad annuire.
“Tua
madre è fenomenale.” ammise.
“Lo
so.” sorrise Tom, gettando un po' di cenere a terra. “Sai, ha
sempre confessato a me e Bill di aver desiderato per anni una figlia
femmina.” continuò, sereno. Ingie si voltò ad osservarlo.
“Probabilmente in te vede la figlia che non ha mai avuto.”
Tom
immerse gli occhi nei suoi con una tale intensità da farla
rabbrividire. Sorrise appena, stringendosi nelle spalle.
“Mi
trovo bene a parlare con lei.” mormorò. “Mi mancava scambiare
due parole con una... Mamma.”
Sentì
lo sguardo di Tom ancora su di sé e si presero qualche attimo di
silenzio entrambi, fino a che non lo sentì alzarsi. Sollevò gli
occhi su di lui e lo vide porgerle la mano, dopo aver gettato la
sigaretta non del tutto consumata.
“Andiamo.”
la esortò, sorridendo.
“Dove?”
domandò lei, stringendogli la mano per alzarsi.
“Ti
faccio conoscere un po' della mia vita.” scrollò le spalle lui,
tirando fuori dalla tasca dei jeans le chiavi della macchina.
“Ehm,
non te l'ho chiesto.” borbottò lei, con la sua solita delicatezza,
ma ciò non scompose Tom, il quale si limitò a sorridere
maggiormente.
“Sempre
la solita testona. Muoviti.” Le aveva già dato le spalle ed era
già salito in auto. Ingie scosse la testa divertita e lo seguì.
“Cintura.” la ammonì.
“I
know!” esclamò lei seccata, sotto le sue risate.
“Mi
piace stuzzicarti.” disse, mentre faceva manovra per uscire dal
parcheggio. “Bene, ora tieni presente che tutta la strada che
faremo da casa fino a scuola, me la facevo a piedi, ogni mattina.”
cominciò, una volta in strada.
“Oh,
costruirò una statua in tuo onore.” fece lei con sarcasmo.
“Bill
invece optava per il pullman. Io non l'ho mai voluto prendere.”
“Perché
mai, di grazia?”
“Perché
dietro quella cabina telefonica...” Le indicò il punto interessato
non appena vi passarono davanti. “... Mi incontravo con la mia
fidanzatina dell'epoca.” Ingie non riuscì a trattenersi dallo
scoppiare a ridere. “Hey, non prendermi in giro. Eravamo carini!”
esclamò lui, divertito.
“Oh,
sì. Vi vedo, a pomiciare, elettrizzati dal rischio di essere
scoperti.” disse lei con fare teatrale.
“A
dire il vero, è successo.”
“Cosa?!”
“Eravamo
a casa sua. Avevamo deciso di fare sesso.”
“L'avete
deciso a tavolino? Che romanticismo.”
“Beh,
non a tavolino. Diciamo che mi aveva fatto capire di essere pronta.
Così, tutto euforico, mi presento a casa sua, pronto a farla felice.
Inutile dire che non perse mai la verginità con me perché suo padre
entrò nel bel mezzo dei preliminari ed io non feci mai più ritorno
in quella casa.”
Ingie
non riusciva a smettere di ridere, immaginando la scena.
“La
prima volta che Tom Kaulitz andò in bianco.” recitò, divertita.
“Quanti anni avevi?”
“Dodici.”
“Dodici?
Eri già assetato di sesso a dodici anni?”
“Ho
anche perso la verginità a dodici anni.”
“Non
è da andarne fieri!”
“Perché?
Sapevo quello che facevo.”
“Oh,
andiamo, Tom. Io a dodici anni giocavo ancora con le bambole!”
“Dovevi
incontrarmi a quell'età. Ti avrei fatto dimenticare presto le
bambole.”
“Sono
contenta di aver passato un'infanzia felice e non traumatica.”
“Ecco
la scuola.”
Ingie
si voltò verso il finestrino e gettò un'occhiata all'enorme
edificio bianco che le indicava il chitarrista.
“Fammi
indovinare: eri un asino?” domandò con sarcasmo, voltandosi di
nuovo verso di lui, che sorrise ironico, senza abbandonare la strada
con gli occhi.
“Al
contrario, ero un secchione e la cosa dava fastidio ai miei
professori.” rispose, fiero.
“E
perché mai?” sollevò un sopracciglio, perplessa.
“Perché
ero una sorta di teppista, mettiamola così. Mettevo la colla sulle
maniglie delle porte, la pittura sulle sedie dei professori...”
“Sul
serio facevi questo?” lo interruppe, quasi scioccata. “E ti hanno
sempre promosso?”
“Dovevano.
Avevo sempre il massimo dei voti, in tutte le materie.” scrollò le
spalle, soddisfatto.
“Sono
allibita.” commentò lei.
Immaginava
che Tom fosse un bambino difficile da tenere a bada, ma non era mai
giunta a certi stadi di pensiero.
“Odiavo
la scuola.” si giustificò lui, come fosse normale.
“Anche
io odiavo la scuola, ma non per questo davo fuoco all'edificio.”
obiettò lei.
“Ci
ho provato, una volta.” Ingie si voltò scioccata verso di lui.
“Scherzo!” rise, il che la sollevò. “Non dirmi che anche tu
non hai mai fatto qualche cazzata.” la guardò poi con sfida.
Ingie
sorrise appena, furbescamente, rammentando qualche episodio.
“Ho
fatto sesso nei bagni della scuola.” Tom si girò verso di lei, con
occhi sgranati. “Che c'è? Te l'avevo detto che ero scalmanata.”
“Beh,
non pensavo fino a questi livelli. Insomma, non è da te.” borbottò
lui. “Quanti anni avevi?”
“Diciotto,
ero all'ultimo anno di liceo ed avevo voglia di fare qualcosa di
pazzo, per salutare quella scuola che avevo tanto odiato.”
“E
hai pensato bene di imboscarti con uno. Brava.” fece compiaciuto.
“Questo supera persino le mie aspettative.”
Improvvisamente,
Tom rallentò ed Ingie si accorse solo in quel momento di trovarsi in
collina, vicino ad un prato deserto che cominciava a divenire più
scuro, a causa del sole che lentamente tramontava.
“Che
posto è?” domandò curiosa, guardandosi attorno, mentre Tom
scendeva dalla macchina. Decise di seguirlo.
“Questo
è il posto dove venivo a giocare da piccolo con Andreas e Bill.”
sorrise lui, camminando su quel prato immenso, seguito dalla ragazza.
“Ci inventavamo un sacco di cose. Avevamo tutto questo spazio per
noi.” parlò, per poi sedersi, proprio al limite di quella sorta di
collinetta, da dove si poteva osservare la città illuminata,
sottostante.
Ingie
gli si sedette accanto, rapita da quello spettacolo serale.
Era
un'atmosfera che, in altre occasioni, avrebbe considerato
tremendamente romantica e dolce. Lei era una ragazza che, nonostante
le apparenze, credeva ancora in quelle piccolezze. Era una
ragazza la cui stima veniva conquistata con piccoli gesti ed
attenzioni; le bastava poco per essere felice. Si era accorta che
stare con Tom la rendeva serena, per quanto possibile. Con lui si
divertiva, nonostante i battibecchi, si sentiva a suo agio. A volte,
persino protetta.
Si
era chiesta cosa avesse provato a stringersi fra le sue braccia,
senza secondi fini. Si era chiesta come potesse essere per una
ragazza stare con lui.
“Tom.”
esordì, quasi tremante, attirando la sua attenzione. “Che mi dici
di Ria?” domandò poco convinta. Non seppe nemmeno lei spiegarsi
quella domanda. Era nata all'improvviso e non era riuscita a
reprimerla.
Il
punto era che voleva sapere che tipo di rapporto aveva legato i due
ragazzi, ma soprattutto come lui avesse vissuto quella relazione.
Il
ragazzo, dal suo canto, sembrava sorpreso, ma non fece nulla per
metterla ulteriormente in imbarazzo.
Si
voltò nuovamente ad osservare la città ed Ingie si limitò a
scrutare il suo profilo delicato.
“Ria...
Beh, Ria era energia pura.” parlò e la mora non fu più così
sicura di voler sapere. “Aveva un modo di fare così esuberante che
ne venivi travolto e spesso non capivi più nulla.” Rifletté
qualche istante. “L'amavo.” ammise con una scrollata di spalle,
come fosse tutto quello che si dovesse sapere. Ingie aveva sentito
una scossa. “Con lei ho vissuto la storia più importante. Ma anche
la delusione più grande.” Aggrottò le sopracciglia perplessa,
attendendo spiegazioni. “Mi ha tradito.”
Sentì
la mandibola quasi toccare terra. Non riusciva a credere a ciò che
aveva sentito.
Ria
aveva tradito Tom Kaulitz? Da sempre aveva ritenuto più facile da
credere il contrario.
“Ti
ha tradito?” domandò allibita ed il chitarrista annuì sorridendo
appena alla sua sorpresa. “Avrei detto il contrario.” ammise,
sincera.
“Io
non ho mai tradito Ria. Mai. E credimi, mi si sono presentate tante
occasioni, ma non mi sono mai permesso di farle il minimo torto.”
rispose, guardando dritto, davanti a sé. “So che do l'impressione
dell'uomo infedele, con tante groupies e chissà cos'altro. Con il
lavoro che faccio sarebbe comprensibile. Ma mai una volta mi è
passato per la testa di tradirla. Contrariamente a ciò che la gente
pensa di me, non ho mai tradito nessuna ragazza con cui sono stato,
importante o non.”
Ingie
era semplicemente rapita dalle sue parole. Doveva ammetterlo: anche
lei si era mescolata a quella gente di cui parlava, da perfetta
ignorante. Anche lei aveva dato per scontato che Tom potesse usare
tutte le ragazze che gli ronzavano attorno a suo piacimento. Mai
aveva pensato che potesse comportarsi in modo corretto con loro, pur
non volendolo.
“Scusa,
ti facevo un cornificatore accanito.” cercò di sdrammatizzare,
facendolo scoppiare a ridere.
“Non
sei l'unica a pensarlo.” rispose, per niente offeso.
“Quindi
con Ria pensavi di fare le cose seriamente.”
“Le
cose erano già serie con lei.”
“E
allora perché ti ha tradito?”
“Questo
vorrei saperlo anche io. Era qualche mese che non ci vedevamo; io ero
nel bel mezzo dell'ultimo tour ed un giorno mi viene la brillante
idea di farle una sorpresa a casa. La sorpresa l'ho trovata io.
Classica scena da film.”
“Quindi
quando ti ho conosciuto io, ti eri lasciato da poco.”
“Da
un paio di mesi, esatto.”
Ingie
annuì distrattamente, per poi abbandonarsi con la schiena sull'erba.
Si sentiva quasi stremata, come se quella confessione le fosse pesata
come un macigno. Sentì il chitarrista sdraiarsi accanto a lei,
osservando distrattamente il cielo ormai buio.
“Se
Ria tornasse...” cominciò lei, insicura.
“No.”
rispose lui, prontamente. “So cosa mi vuoi chiedere e la risposta è
no. Ho perso fiducia in lei, non riuscirei a guardarla con gli stessi
occhi di prima.” Quella risposta, stranamente, la sollevò. “E
poi non sono più innamorato di lei, è normale.” aggiunse infine
il chitarrista, con più leggerezza.
“Tom
Kaulitz cornuto.” le venne spontaneo dire, con pochissimo tatto ed
un filo di divertimento nella voce.
Tom
ridacchiò.
“Grazie,
mi mancava la tua delicatezza.” commentò compiaciuto.
“Non
c'è di che.” sorrise lei.
Restarono
qualche attimo in silenzio a contemplare le stelle, senza il minimo
rumore.
Ingie
ripensava alle sue parole e le analizzava una ad una. Tom era un
ragazzo sensibile ed ogni giorno che passava con lui ne era la prova
tangibile. Ogni minuto conosceva una nuova parte di lui, ancora più
intelligente, ancora più sensibile. Ripensando ai primi giorni di
convivenza, non l'avrebbe mai creduto possibile.
“Tom
che tipo era?”
Quella
domanda la prese in contropiede e dire che cominciò a tremare era un
eufemismo.
Deglutì
con fatica, cercando di reprimere il senso di nausea che l'aveva
improvvisamente attanagliata e rifletté qualche istante, pesando le
parole da pronunciare.
Che
tipo era suo fratello?
Le
venne spontaneo sorridere.
“Tom
era un ragazzo splendido. Amico di tutti, sempre pronto ad aiutare il
prossimo.” parlò con nostalgia. “Era il classico fratello
maggiore, geloso di sua sorella. Non riesco a ricordare quante volte
mi abbia difeso con i ragazzi con cui mi frequentavo. Una volta si è
preso persino a botte per me.”
“Davvero?”
domandò Tom, curioso, voltandosi verso di lei. Ingie annuì,
divertita.
“Un
ragazzo di nome Kevin aveva tentato un approccio particolarmente
spinto nei miei confronti, facendomi proposte poco eleganti. Non
voleva andarsene. E quando Tom ha visto che non mi toglieva le mani
di dosso e mi voleva trascinare chissà dove, non ci ha visto più.”
“Ha
fatto bene!” esclamò Tom, convinto. “Anche io avrei reagito alla
stessa maniera, avessi avuto una sorella.”
“Sì,
peccato che sia tornato a casa con un occhio nero ed il labbro
spaccato.” sorrise lei, sarcastica. “Non era il migliore per fare
a botte.”
Tom
ridacchiò appena.
“Doveva
essere un tipo simpatico.” commentò, interessato.
“Lo
era.” affermò lei. “Era un tipo piuttosto innocuo ma quando
parlava, sapeva cosa dire.”
“Avete
sempre ballato assieme?”
“Sì.
Era la sua più grande passione ed era bello condividere qualcosa di
così grande.”
Non
credeva possibile il fatto che stesse parlando con immensa
disinvoltura con Tom. Stava imparando a fidarsi di lui, sempre di più
e la cosa, se la spaventava da un lato, la rendeva felice dall'altro.
Forse il chitarrista stava riuscendo, a poco a poco, a distruggere
quel muro che nel corso del tempo aveva costruito attorno a sé,
tenendo chiunque al di fuori della sua vita.
“Raccontami
di quando ballavate.” le disse poi, sdraiandosi su un fianco, per
poterla guardare più attentamente.
Lei
non si mosse, continuò a contemplare il cielo, prendendosi qualche
istante prima di rispondere.
“Tutto
era amplificato. Vivevamo di emozioni pure, di adrenalina pura.”
mormorò, immergendosi nei ricordi. “Ogni giorno ci chiudevamo in
palestra a ripassare le coreografie o ad inventarci nuovi passi.
Eravamo bravi. Giravamo l'America per partecipare a più contest
possibili, che spesso vincevamo. Ci guadagnavamo da vivere, anche se
non bastava. Eppure eravamo felici. Sai, non erano soldi assicurati.
Poteva capitare che a volte nemmeno ci piazzassimo sul podio e
tornavamo a casa a mani vuote, ma comunque con il sorriso in faccia.
Erano tutte esperienze magnifiche che facevamo e non ci importava
ricevere delusioni; ci spronavano a fare sempre meglio ed allenarci
sempre di più.”
“Non
siete mai stati presi da una compagnia di ballo?” domandò Tom,
assorto in quel racconto.
“No.”
sorrise lei, appena. “Non sembra, ma è molto difficile. Per quanto
noi lavorassimo sodo, non abbiamo mai ricevuto una vera proposta di
lavoro. Non ci è mai stato presentato un contratto. Un paio di volte
abbiamo partecipato a spettacoli, come ospiti ma niente di più.”
“Tu
e Tom lo volevate però.”
“Era
il nostro obiettivo, assieme ai nostri compagni.”
Non
parlò per qualche istante, attendendo che Tom le dicesse qualcosa.
“Ingie,
se si ripresentasse l'occasione, torneresti a ballare?” le domandò
all'improvviso con una dolcezza del tutto nuova.
Lei
sospirò, scuotendo la testa.
“Te
l'ho spiegato. Non mi sembrerebbe giusto nei confronti di mio
fratello. Era un sogno che condividevamo. Non è giusto portarlo
avanti senza di lui.” mormorò con un nodo in gola.
Era
ancora dannatamente legata al ballo, Dio solo sapeva quanto. Ma non
aveva il coraggio di ammetterlo.
“Io
invece penso che vorrebbe che andassi avanti anche per lui.”
ribatté Tom. “Non lo conoscevo ma, da quello che mi hai
raccontato, mi sembra di capire che fosse una persona molto
intelligente e che volesse solo il tuo bene.”
“Non
mi sento degna, Tom.” sospirò lei, come esausta. “Non lo so.”
“Non
lo sai perché tu ami ancora la danza.”
“Certo
che la amo ancora. Sarei ipocrita a dire il contrario.”
Tom
non aggiunse altro ed anche lei non si sentì in grado di parlare.
Era
strano confidarsi a quella maniera con lui, ma liberatorio.
Tom
poteva anche avere ragione, riguardo suo fratello, ma rimaneva il
fatto che una parte di lei non riuscisse a sconfiggere quella paura e
quel dannato senso di colpa che non le permetteva di dormire la
notte.
Forse
un giorno ci sarebbe riuscita.
Improvvisamente
un costante vibrare, fece sobbalzare entrambi. Tom sollevò appena il
busto ed afferrò il cellulare, accendendone il display.
“Bill
chiama. Vuole che andiamo a dargli una mano con la cena. Gordon sarà
a casa a momenti.” le riferì il ragazzo, dopo aver letto il
messaggio inviatogli da suo fratello. Si sollevò in piedi e le porse
nuovamente la mano. “Continuiamo a parlarne in macchina, ti va?”
le propose con una delicatezza che la fece sorridere.
Annuì
appena, afferrandogli la mano.
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Capitolo 15 *** Fourteen - Does this feel wrong? ***
aaaaaaaaa
Fourteen
Does
this feel wrong?
24
Dicembre 2012
La
vigilia di Natale era giunta con una tale fretta che nemmeno era
riuscita a rendersene conto. Forse, da una parte, aveva sperato che
non arrivasse mai; le festività da qualche tempo non erano più la
sua preoccupazione. Se poteva, le evitava, ma quella volta avrebbe
dovuto sottostare alle esigenze della famiglia Kaulitz.
La
sera prima aveva finalmente conosciuto il famoso Gordon, patrigno dei
gemelli. Il rapporto che lo legava ai ragazzi era stato per lei
sorprendente; pareva quello che di solito legava un padre ad un
figlio. Ingie aveva pensato che, molto probabilmente, quell'uomo
aveva preso il posto del loro vero padre, stando al piccolo racconto
– non ancora del tutto chiaro – che Tom le aveva rivelato a
riguardo.
Gordon
era un uomo simpatico, socievole ed alla mano. Per tutta la sera, non
aveva fatto altro che ascoltare le sue parole così interessanti e
coinvolgenti. Formava, assieme a Simone, una splendida coppia.
Fu
allora che Ingie si rese conto che Tom aveva una famiglia fantastica
e le venne spontaneo associare quella fortuna alla mentalità del
chitarrista. Nonostante le apparenze, Tom vantava di solidi principi
morali che da sempre aveva recepito.
Durante
la cena, le era stato riferito il curioso programma della giornata
che l'attendeva. Bill, entusiasta come un bambino, le aveva
comunicato l'idea di trascorrere il pomeriggio alle terme, assieme ad
Andreas. Dapprima stupita, Ingie aveva accettato di buon grado la
proposta e quella mattina era corsa a comprare un costume da bagno
assieme a Simone.
Certo,
avrebbe gradito la presenza di una ragazza, motivo per cui aveva
prontamente chiesto se Andreas avesse una fidanzata, ma ancora una
volta la fortuna aveva preferito voltarle le spalle. Rilassarsi alle
terme in compagnia di tre uomini, proposta allettante per l'intero
universo femminile, rappresentava per lei quasi motivo di disagio.
Tom, con la sua solita delicatezza, le aveva intimato di non
preoccuparsi poiché col suo caratterino poco femminile sarebbe
riuscita a tener testa anche una cinquantina di uomini, del tutto
sola. Inutile dire che l'aveva elegantemente messo a tacere.
“Bill,
porta immediatamente il culo in macchina! Siamo già in ritardo!”
L'urlo del chitarrista, seduto al volante accanto a lei, – oltre a
distruggerle il timpano sinistro – le fece intuire che Bill si
trovasse alle prese con qualche strano oggetto di bellezza, il che
portava via tempo al loro viaggetto. “Odio mio fratello quando fa
così.” borbottò il ragazzo, poggiandosi stancamente allo
schienale del suo sedile.
“Io
proporrei di lasciarlo qui.” fece lei con una scrollata di spalle.
“Buona
idea.” annuì Tom per poi mettere in moto l'auto.
Ingie,
con un sorriso malizioso, voltò lo sguardo verso la porta di casa,
dalla quale uscì di corsa un Bill trafelato ed indignato. Rise
quando salì in macchina nel momento in cui le ruote avevano già
preso a spostarsi.
“Coglioni!”
esclamò il vocalist, aggiustandosi i capelli biondo platino sulla
testa.
“Sei
dannatamente lento, Bill.” borbottò suo fratello, una volta in
strada.
“Tu
fai presto a parlare! Con quei dannati rasta sei sempre pronto. Io
invece devo cercare di dare a questi capelli un motivo per esistere!”
si difese Bill, incrociando le braccia al petto.
“Bill,
se ce la faccio io, ce la puoi fare anche tu.” intervenne la mora,
senza staccare gli occhi dalla strada.
Il
tragitto fino a casa di Andreas non fu troppo lungo. Ingie osservò
l'enorme palazzo, in attesa, fino a che non vide una testa bionda
camminare velocemente verso di loro. Dedusse fosse lui.
“Hey!”
esclamò il ragazzo, non appena fece il proprio ingresso sui sedili
posteriori, affianco a Bill. Questo lo abbracciò calorosamente.
“Finalmente vi vedo, superstar!” Diede due pacche sulla spalla di
Tom, in segno di saluto. “Tu sei Ingie.” le sorrise poi,
stringendole la mano.
“Piacere.”
ricambiò lei.
“Allora,
And, cosa racconti? Che cosa hai combinato in questo periodo?”
domandò Tom, una volta ripreso a guidare.
“Ho
lavorato.” scrollò le spalle il biondo, desolato. “I bei tempi
delle discoteche e delle belle ragazze sono finiti.”
“Addirittura?”
ridacchiò Bill. “Non c'era una certa Hanna?”
Andreas
schioccò la lingua contro il palato.
“È
lesbica.” mormorò affranto.
“Cosa?!”
esclamò divertito Tom, osservandolo attraverso lo specchietto
retrovisore.
“Una
cosa traumatica.” confermò Andreas.
“Fate
una cosa di gruppo. È eccitante.” sorrise malizioso il
chitarrista.
Ingie
scosse la testa.
“Gliel'ho
proposto.” ridacchiò il biondo. “Mi ha mandato a 'fanculo.”
Bill e Tom scoppiarono a ridere, mentre Ingie preferì non
pronunciarsi. “Comunque, Ingie, mi ha detto Tom che sei americana.”
La
ragazza si voltò verso di lui con un lieve sorriso.
“Sì.”
affermò. “Cos'altro ti ha detto? Dammi una buona ragione per
picchiarlo, ti prego.”
***
Quando
entrò nel centro benessere, le venne quasi da piangere. Da quanto
tempo non si concedeva un po' di relax?
Il
solo ingresso le aveva trasmesso incredibile quiete e leggerezza. I
divanetti erano disposti in maniera circolare sulla destra e sulla
sinistra, mentre al centro – proprio di fronte a loro – una donna
li attendeva sorridente, al di là dell'enorme bancone.
“Benvenuti.”
li accolse con la dovuta gentilezza.
“Salve,
avremmo prenotato per il pomeriggio. Kaulitz.” parlò Tom,
poggiandosi con un braccio al banco, attendendo che la donna
controllasse nel suo computer.
Quando
tutto fu accertato e le sue spiegazioni terminate, si recarono negli
spogliatoi. Ingie si trovò da sola, in quello femminile, dove si
prese tutto il tempo di cui aveva bisogno per indossare il costume e
l'accappatoio al di sopra di esso.
Sospirò.
Non
riusciva a spiegarsi il motivo della sua agitazione. Ancora una volta
si sentì una stupida adolescente alle prime armi, nel pensare
all'immagine del corpo marmoreo di Tom che di lì a qualche minuto le
avrebbe fatto girare la testa. D'altronde, quel corpo lo conosceva
bene, eppure se ne sentiva comunque estranea, come non l'avesse mai
seriamente osservato.
Si
schiaffeggiò mentalmente, per poi alzarsi dalla panca ed uscire
dallo spogliatoio. Prima o poi, avrebbe dovuto affrontarlo.
“Eccola.”
sorrise Andreas non appena la vide in corridoio.
Lei,
dal suo canto, non seppe dove posare lo sguardo. Tre ragazzi in
costume – ignari dei suoi pensieri poco casti – le sostavano di
fronte e la cosa cominciava ad agitarla. Doveva ammettere che tutti
facevano del proprio meglio per tenersi in forma, ma l'unica figura
che i suoi occhi realmente faticavano a sostenere era quella del
chitarrista.
Dannata
palestra, pensò.
“Bene,
andiamo ad immergere le chiappe al caldo!” esclamò Bill
entusiasta, prendendo a camminare in direzione della prima stanza più
vicina.
Ingie
ridacchiò e lo seguì assieme agli altri due, fino a che non
giunsero di fronte ad un'enorme piscina rilasciante invitanti vapori.
Si lasciò inebriare dai profumi quasi afrodisiaci e, senza pensarci
una seconda volta, si tolse l'accappatoio. Non fece in tempo a
poggiarlo sulla panca, che si sentì prendere in braccio e correre
fino a tuffarsi nell'acqua meravigliosamente calda. Quando riemerse,
si accorse che il fautore era Bill.
“Da
quando hai tutta questa forza da sollevare un peso umano?” domandò,
sinceramente colpita.
Bill
si batté fieramente una mano sul bicipite.
“Tutto
merito della palestra.” rispose, mentre Tom ed Andreas li
raggiungevano. “Qui è il Paradiso.” sospirò poi, poggiando la
testa contro il bordo della vasca con gli occhi chiusi. “Sì, sono
il re dell'organizzazione.”
I
tre ignorarono il confabulare del vocalist, ormai partito per un
altro pianeta.
Ingie
prese a nuotare appena, allontanandosi dai ragazzi, per godersi a
pieno quel momento. Dopo qualche bracciata, si voltò verso il
soffitto e, con occhi chiusi, si tenne a galla. Udiva il rumore
rilassante dell'acqua nelle sue orecchie, il tepore inebriante sulla
sua pelle ed una sensazione di infinita leggerezza a sopraffarla.
Improvvisamente,
sentì un braccio circondarle la vita, cosa che la portò ad aprire
gli occhi ed un brivido le percorse la schiena, dove la toccava, non
appena si accorse che si trattava di Tom.
“Che
cosa vuoi, Piggy?” domandò, sospettosa.
“Farti
compagnia.” rispose, sbruffone.
“Mi
rovini la quiete, torna da tuo fratello.” ribatté lei, tornando a
chiudere gli occhi.
“Non
fare la stronza.” lo sentì sorridere.
“E
tu non fare il guastafeste.”
“Voglio
solo un po' di compagnia.”
“Andreas
non è all'altezza?”
“Ho
voglia di dar fastidio a te.”
“Lo
immaginavo. Il problema è che io non voglio essere infastidita.”
“Sai,
questo costume è troppo stretto per te.” le comunicò, tastandole
con un dito il pezzo di sopra.
“Al
contrario del tuo, che è troppo largo.” rispose a tono,
schiaffeggiandogli la mano.
“Sei
un essere spregevole.”
“Me
lo dicono in tanti.”
“'Fanculo,
stronza!”
Ingie
ridacchiò appena, sbirciando attraverso un occhio: si stava
allontanando. Le piaceva da morire stuzzicarlo, rendeva il loro
rapporto meno monotono e decisamente più interessante. Sapeva che
Tom la pensava alla stessa maniera, quindi non si preoccupò di
raggiungerlo.
Le
parve di trascorrere un'infinità in quella posizione e quasi temette
di addormentarsi ed affogare, senza che se ne rendesse conto. Doveva
ammettere che – anche se raramente – i lampi di genio di Bill
funzionavano.
Non
seppe dire quanto tempo passò prima di udire proprio lui richiamare
la sua attenzione.
“Ingie,
hai voglia di farti un bagno turco con me?” le domandò, da
lontano.
“Certo,
Speedy. Se me lo chiedi così non posso rifiutare.” rispose
lei con malizia, facendolo scoppiare a ridere, rosso in faccia,
mentre si rialzava e lo seguiva al di fuori della vasca.
“Noi
stiamo ancora un po' qui.” disse Andreas, mentre Tom pareva
parecchio urtato.
Ingie,
assieme a Bill, raggiunse una seconda stanza, provvista di sauna e
bagno turco. Entrambi si rifugiarono nel secondo, stranamente vuoto,
dato che la maggior parte della gente si stava dedicando alla prima.
“Ah,
sì, che goduria.” fece Bill, una volta sedutosi sul ripiano in
marmo.
Ingie
fece la stessa cosa con un lieve sorriso sul volto.
“Vedi
che, se ti impegni, il tuo cervellino produce qualcosa di buono, ogni
tanto?” gli fece notare, ironica.
“Sì,
a volte mi sottovaluto anche io.” rispose lui, facendola ridere.
“Senti, vedo che le cose con mio fratello vanno meglio. Non
litigate più.” sorrise poi, apparentemente contento.
Ingie
si strinse nelle spalle, cercando di parlare il più spontaneamente
possibile. D'altronde, l'unica cosa che avrebbe dovuto celare agli
altri era la questione del sesso. Lei e Tom non erano una coppia, non
stavano insieme. Si stavano solo frequentando da amici, curiosi di
scoprire nuovi lati caratteriali che avrebbero permesso loro –
forse – di approfondire la conoscenza. Doveva semplicemente stare
tranquilla.
“Oh,
non credere, ci scorniamo eccome.” parlò sarcastica.
“D'accordo,
ma non ai livelli di qualche giorno fa.” la corresse Bill. “Sono
contento. Davvero.”
Ingie
si limitò a scrollare le spalle per non darvi troppo peso.
“Toglimi
una curiosità.” esordì poi con malizia, facendogli corrugare la
fronte. “Tu non me la racconti giusta. Si può sapere perché non
so niente della tua vita amorosa? Insomma, Gustav è prevedibile
perché è timido, Georg è fidanzato e Tom è... Tom.” spiegò
sotto lo sguardo divertito del biondo. “Ma tu.” lo squadrò con
sospetto. “Tu hai una doppia vita e non lo dici a nessuno.” fece
convinta.
Bill,
per tutta risposta, scoppiò a ridere.
“Ma
che film guardi?!” esclamò quasi con le lacrime agli occhi.
“Non
cercare di deviare, Speedy, non mi freghi.”
“Non
sai nulla semplicemente perché non c'è niente da dire.” le
sorrise, sincero, con un'alzata di spalle.
“Oh,
andiamo. Non c'è nemmeno qualcuno che ti piaccia?” insistette lei.
“Al
momento, no.” Ingie strinse maggiormente le palpebre, adottando
un'espressione ancora più sospettosa, degna di una vera detective al
lavoro. Eppure, il ragazzo non gliela raccontava giusta. Pensandoci
bene però, allo studio non frequentavano nessuna ragazza a parte
lei. Che si vedesse di nascosto con qualcuno? No, era impossibile.
“Ma visto che insisti tanto su di me, perché non mi parli della
tua vita amorosa? Se è per questo, nemmeno tu hai mai detto
nulla a riguardo.” fece poi lui, con espressione furba e
compiaciuta, propria di chi si sentisse soddisfatto dell'aver risolto
un difficilissimo arcano.
Ingie
ignorò il brivido lungo la schiena e voltò lo sguardo dalla parte
opposta con fare altezzoso.
“Figurati.”
borbottò.
“Giochi
sporco.” la accusò, soddisfatto. Ingie sospirò disinteressata,
per poi stendersi interamente sul marmo umido. Il suo corpo era
interamente ricoperto di goccioline tiepide ed i suoi muscoli si
stavano lentamente rilassando a quel tepore. “Quel costume è un
po' strettino.” cambiò improvvisamente discorso.
“Me
l'ha già fatto notare tuo fratello.” commentò lei, annoiata. Poi
si schiacciò le braccia al petto, continuando a tenere gli occhi
chiusi. “E non ho un cambio, pertanto siete pregati di smettere di
guardarmi le tette.”
“Sono
loro che si impongono alla vista altrui.” si difese Bill, senza
scomporsi.
“Questa,
non l'avevo ancora sentita.”
***
“Posso
dirlo?” chiese Andreas, non appena Ingie e Bill sparirono. “Una
gran gnocca!”
“And.”
borbottò divertito Tom.
“Dico
sul serio, ha un fisico fenomenale!”
Lo
so, avrebbe tanto voluto rispondere ma quel poco di raziocinio
che aveva posto delle deboli radici nel suo cervello gli impose di
tacere. D'altronde, aveva sempre apprezzato il fisico delle
ballerine.
“In
ogni caso, non fa per te.” scrollò le spalle, cercando di
riportarlo sulla giusta via. “Non hai idea di quanto sia
difficile.” aggiunse, rincarando la dose.
“Meglio.
Trovo la semplicità dannatamente monotona.” sorrise il biondo,
compiaciuto.
“And,
dico sul serio. Non ci pensare.” ripeté il moro, poggiandosi con i
gomiti all'indietro, sul bordo della piscina.
Non
seppe perché quelle frasi uscissero dalla sua bocca in modo tanto
franco. Riflettendoci, non ne aveva il diritto. Ingie non era la sua
ragazza; Andreas avrebbe potuto fare di lei tutto ciò che voleva.
Eppure, il solo pensiero gli metteva addosso una strana agitazione ed
un'inspiegabile senso di fastidio. Pensò che fosse il suo orgoglio
maschile a farlo reagire a quella maniera così impropria, secondo
l'infantile concetto 'L'ho vista per primo, la frequento per primo'.
Il mondo non funzionava a quella maniera e soprattutto Ingie non era
il premio di una maratona. La verità era che Tom, pur con qualche
fatica, aveva confessato a lei e a se stesso il proprio interesse.
Che fosse, al momento, solo carnale non poteva avere importanza.
D'altra parte, però, doveva anche imparare a non avere pretese,
soprattutto se queste andavano ad intaccare la liberà altrui. E così
era: Ingie era libera; libera di fare ciò che voleva. “Ancora di
più, se non pensi di fare qualcosa di serio, dimenticatela.”
“E
perché mai?” domandò confuso il biondo. “Non capisco cosa possa
cambiare a te.”
“A
me nulla, ma resta comunque il fatto che se tu la usassi, non mi
starebbe bene.”
Senti
da che pulpito, si disse fra sé e sé.
Pensandoci
bene, a prima vista, si poteva dire che anche lui l'avesse usata. O
meglio, che si fossero usati a vicenda. Eppure, sapeva che non era
così. Lui aveva agito in buona fede, quella notte. Sapeva di non
averla considerata un oggetto da buttare via, una volta soddisfatti i
propri bisogni. Ingie era qualcosa di più, cui nemmeno lui sapeva
dare una chiara definizione. Si sentiva legato a lei, in qualche modo
confuso. E la confusione era proprio l'elemento più pesante che la
sua mente ospitava, in quel periodo. Voleva Ingie ma non la voleva.
Forse la voleva ma non completamente, se tutto ciò potesse mai avere
un senso. La voleva come compagnia, durante le sue giornate; la
voleva come amica, come amante e come complice. Ma non era sicuro di
volerla come fidanzata. O forse sì ma ancora non lo sapeva o non lo
voleva accettare. La verità era che aveva paura; paura che si
ripetesse ciò che era successo con Ria.
Non
stava capendo più nulla.
“Oh,
andiamo, Tom. Da quando mi fai questioni sulle mie scopate?” si
lamentò Andreas.
Tom
irrigidì la mascella.
Scopate?
“And,
te lo dico una sola volta: Ingie non è una scopata. E che tu
l'abbia solo pensato mi urta il sistema nervoso.” cercò di
mantenere la calma. Non tollerava che il suo migliore amico parlasse
a quella maniera.
“Hey,
stai tranquillo, Tom. Guarda che scherzavo.” sollevò le mani, con
un lieve sorriso quasi intimorito. “So che Ingie ora è di casa e
non mi permetterei di trattarla male, lo sai.” Tom distolse lo
sguardo, passandosi una mano sulla faccia. Stava impazzendo. “Sei
un po' teso o sbaglio?” gli domandò Andreas, preoccupato.
Lui
tolse la mano dal viso.
“Sì.”
borbottò per poi uscire dall'acqua. “Andiamo dagli altri.”
***
Il
vapore le impedì inizialmente di vedere chi aveva appena varcato la
soglia del bagno turco, fino a che non riconobbe l'imponente sagoma
del chitarrista, accompagnato da Andreas. Tom sembrava
particolarmente nervoso; Ingie percepiva avesse qualcosa che non
andava ma non osò proferire parola a riguardo. Andreas, dal suo
canto, pareva piuttosto disteso e si andò a sedere accanto a Bill,
il quale sembrava entrato in un'improvvisa catalessi, contro il muro
umido.
Si
voltò ad osservare attentamente Tom – non appena le si sedette
accanto – ed allungò le gambe, fino a poggiarle sulle sue. Era
ancora stesa, con un braccio sotto la testa ed un'espressione curiosa
in volto.
“Ti
sei sciolto per bene, Piggy?” domandò, facendo finta di
nulla al tocco della sua mano sulle caviglie. “Non vorrai consumare
quei due muscoletti che sei riuscito a mettere su?” lo stuzzicò.
Il
chitarrista sorrideva appena, il che era strano.
“Invece
io vedo che quel costume è sempre lo stesso.” mormorò lui
ironico.
Si
schiacciò nuovamente le braccia sul seno.
“Piantala.”
borbottò. Stettero qualche attimo in silenzio, ascoltando le parole
in sottofondo di Andreas e Bill. Ingie continuò a scrutare il
profilo di Tom, che pareva piuttosto assorto. Sentiva che era
successo qualcosa ma non avrebbe potuto spiegarsi cosa, da sola.
Mosse appena un piede contro la sua gamba, coperta dal costume, ed
aspettò che si voltasse verso di lei per scuotere la testa con
un'espressione interrogativa, chiedendogli con lo sguardo se qualcosa
non andasse. Lui scosse la testa con espressione apparentemente
calma, per poi farle una carezza – forse involontaria – sulla
caviglia. Le piaceva quella sorta di complicità che si era creata
fra loro; riuscivano a comprendersi con un solo sguardo e pareva
condividessero un qualcosa di cui solo loro erano al corrente. Ed era
la verità: entrambi condividevano un passato, dei sentimenti ed una
notte. Nessun altro era al corrente di quei segreti; erano qualcosa
di solamente loro, e ciò non poteva fare altro che farla sentire
bene e un po' speciale. “Avevo intenzione di farmi fare un bel
massaggio.” parlò improvvisamente.
Tom
la guardò di nuovo con un sorriso evidentemente malizioso.
“Io
sono bravo con i massaggi.” disse. “Soprattutto con un certo
tipo di massaggi.”
Ingie
si impegnò per non arrossire e mantenere un certo controllo
etico.
“Offerta
allettante, ma credo che opterò per una massaggiatrice
professionista.” rispose, indifferente.
“Come
ti pare.” scrollò le spalle lui, compiaciuto.
“Ho
sentito massaggio?” parlò Andreas, distrattosi dalle sue
chiacchiere con Bill. Ingie si voltò nella sua direzione. “Non mi
pare una brutta idea. Vengo anche io.” esclamò, alzandosi dal
marmo.
“Bene.”
sorrise lei, facendo la stessa cosa. “Voi non sciupatevi troppo!”
scherzò poi con Bill e Tom, prima di uscire con Andreas dal bagno
turco.
***
“Avanti,
predica.”
Tom
si voltò immediatamente verso Bill con espressone perplessa in
volto.
“Cosa?”
domandò, come caduto dal cielo per sbaglio.
“Tira
fuori quel centinaio di parolacce che, con tutte le forze, cerchi di
trattenere.” lo guardò suo fratello con fare da chi sapeva un
mucchio di cose ed aveva capito tutto dalla vita. Tom si voltò verso
il muro. D'accordo, era seccato. Ma non perché ora si trovavano soli
a farsi bellamente massaggiare la schiena, ma perché si trovavano
soli a farsi bellamente massaggiare la schiena dopo la
conversazione avuta su Ingie. Credeva che Andreas avesse capito
l'antifona, era il suo migliore amico da una vita. Non capiva se
l'avesse fatto a posta o avesse agito d'impulso. In ogni caso, non
riusciva ad accettare quella situazione, benché avesse intrapreso un
milione di ragionamenti sul fatto che stesse sbagliando, a pensarla a
quella maniera. Ingie non era sua e doveva farsene una ragione. “Tom,
per una volta, dì quello che pensi.” lo incoraggiò più
dolcemente suo fratello.
A
quel punto esplose.
“D'accordo,
mi da fastidio!” esclamò, paonazzo. “Ma non perché è Ingie, ma
perché prima io e Andreas abbiamo fatto un discorso molto chiaro su
di lei.”
“Del
tipo?”
“Gli
ho detto che non fa per lui.”
“Tutto
qui?”
“Bill,
se la vuole portare a letto e basta.”
“Ma
dai, Andreas non lo farebbe mai.”
“Ha
fatto battute inequivocabili e, quando gliel'ho fatto notare, ha
ritrattato. Ma non sono sicuro che abbia capito.”
“Perché
non gli hai detto chiaramente che Ingie ti interessa?”
“Perché
non mi pare il caso.”
“Ma
perché? Siamo amici dai tempi del pannolino.”
“Bill,
non mi va!”
Bill
attese qualche minuto per replicare. Il silenzio era calato
nuovamente in quel dannato bagno turco. Tom stava perdendo le staffe
e non riusciva nemmeno a capire perché stesse accadendo. Non
riusciva ad acquisire la calma nemmeno con suo fratello, il quale lo
guardava come avesse qualche serio disturbo mentale.
“Io
non ti capisco.” borbottò allora il vocalist e Tom sollevò gli
occhi al soffitto, come esausto.
“Ci
risiamo.” sospirò, annoiato.
“Sì,
ci risiamo. Tom, sei una contraddizione unica.”
“E
perché, sentiamo?”
“Perché
prima dici che Ingie non ti interessa, poi ritratti. Poi dici che non
potreste mai stare insieme e che non ti importa di quello che lei
faccia e, non appena vedi che Andreas parte all'attacco, sferri la
spada. Sei un tantino confuso, per caso?” Il chitarrista sbuffò.
“Invece di continuare a sbuffare, perché non ti calmi e mi spieghi
per bene cosa sta accadendo in quella tua testolina contorta?”
“Bill,
lo sapessi, te lo direi.” si arrese lui.
Sentì
gli occhi di suo fratello insistere sulla sua figura, ma non aggiunse
altro. Non se la sentiva. Ormai, aveva accantonato ogni briciola di
dignità ed autocontrollo; cos'altro avrebbe potuto fare per
rovinarsi ulteriormente?
“Tom,
questa volta non ti dico nulla, semplicemente perché devi capire tu
cosa sta accadendo. Solo una cosa, però: se non riesci a vedere
Ingie con qualcun altro, fai qualcosa per renderla tua. Se
davvero ci tieni.”
***
Le
sembrava di volare, su pianeti lontani e ancora sconosciuti. Il
Paradiso era alle porte, lo sentiva.
Le
mani esperte della massaggiatrice cinese continuavano a premere punti
strategici sulla sua schiena e le sembrò di rinascere. Gli occhi
chiusi, il respiro tranquillo ed il battito regolare. Non poteva
chiedere di meglio. Lo stress che stava vivendo in quei giorni,
sommato a quello precedente, la stava radendo al suolo e non si
sarebbe più rialzata se non avesse trovato una soluzione. Doveva
imparare a dare meno sfogo ad ogni pensiero; doveva imparare a non
prendere le cose in modo troppo viscerale. Qualsiasi cosa accadesse,
si lasciava travolgere da essa senza mezze misure. La viveva a pieno,
dimenticandosi però di avere un fegato. E questo, da qualche tempo,
stava chiedendo pietà.
“Ci
voleva.” parlò all'improvviso Andreas, sdraiato sul lettino
accanto al suo, a sua volta massaggiato.
Ingie
aprì gli occhi e gli sorrise.
“Già.”
mormorò, quasi assonnata.
“Sei
da tanto in Germania?” le domandò.
“Da
qualche mese.” rispose, vaga.
“Hai
intenzione di starci ancora a lungo?”
“Credo
di sì.”
“Beh,
allora, possiamo vederci qualche volta.”
Ingie
fremette.
No,
si disse, non pensare subito male.
“Certo.”
si limitò a dire. “Tutte le volte che Tom e Bill vorranno tornare
a Lipsia...” continuò, ma venne interrotta dal ragazzo.
“Sì,
beh, nel caso volessi venire anche senza di loro...” Lei aggrottò
la fronte. Quella conversazione stava prendendo una piega che non le
piaceva. Nonostante non stesse dicendo nulla di sconcertante, quella
sua iniziativa aveva suscitato in lei disturbo. “Spazio in casa, ne
ho.”
Lei
si prese qualche minuto, prima di chiedere un accappatoio alla
massaggiatrice, presa in contropiede, e – una volta rivestitasi –
si alzò dal lettino.
“Direi
che il mio massaggio finisce qui.” asserì. “Tu fai con calma.”
Andreas
la osservava inquisitorio, quasi deluso, ma decise di ignorarlo. Si
voltò verso la donna cinese e la ringraziò sinceramente appagata,
per poi abbandonare la stanza ed incamminarsi nel corridoio.
Andreas
non le piaceva. C'era qualcosa, in quel ragazzo, che non la
convinceva. La prima volta che Tom le aveva presentato Ivan, non
aveva percepito la stessa sensazione negativa. Con Andreas era stato
diverso: non appena aveva messo piede in macchina, le aveva trasmesso
una sensazione di malessere, che non voleva cessare. Aveva provato,
per tutto il tempo, a farselo andare a genio, ma proprio non vi era
riuscita. Quello era uno dei suoi tanti problemi: seguire le
sensazioni. Forse, in fondo, era un bene più che un problema. Non
sapeva spiegarselo, ma l'aiutava di certo a capire immediatamente chi
le stava di fronte.
“Hey.”
Tom si trovava in fondo al corridoio, da solo. Il suo corpo era
ancora ricoperto di goccioline umide, segno che aveva appena
abbandonato il bagno turco. La definizione dei muscoli era più
marcata, gli addominali lucidi, così come ogni lembo di pelle
lievemente abbronzata per natura. Il battito cardiaco prese ad
accelerare il suo ritmo. “Sei già uscita?” le domandò,
perplesso.
“Sì,
non mi andava più di stare lì.” fece lei vaga ma dovette
vacillare appena, perché Tom la osservava con sospetto.
“È
successo qualcosa?” indagò, serio.
“Ma
no, non è successo nulla.” tagliò corto lei, gesticolando appena.
“Dove l'hai lasciato, Bill?” domandò quindi, cercando di
cambiare discorso come meglio poté e nonostante Tom non sembrasse
convinto, seguì il suo esempio.
“Si
è immerso nella vasca idromassaggio. Vuoi andare?” le propose.
Ingie
sentì un improvviso masso nello stomaco; un'improvvisa esigenza che
non poteva ignorare, pur sforzandosi, che la portò a parlare come un
automa.
“Perché
non andiamo a fumarci una sigaretta, invece? C'è una terrazza.”
Tom,
dapprima meravigliato, sorrise quasi intenerito.
“Sì.”
annuì, indossando l'accappatoio che teneva fra le mani, per poi
seguirla. “Andreas è ancora dentro?” le domandò quindi, una
volta usciti sulla terrazza, dove trovarono dei divanetti color
panna. Si sedettero uno affianco all'altra.
“Sì.”
si limitò a rispondere, mentre tirava fuori dalla tasca
dell'accappatoio il pacchetto di sigarette. Ne offrì una a Tom, che
la ringraziò, e se ne portò anche lei una alla bocca. Accese la sua
e quella del chitarrista e prese a fumare silenziosamente, osservando
il cielo chiaro di fronte a sé. “Domani è Natale.” disse ad un
tratto, pensierosa.
“Domani
è Natale.” ripeté Tom, fissando davanti a sé qualcosa di ignoto.
“Stanotte si aprono i regali.” aggiunse poi con un sorriso.
Si
voltò verso di lui.
“Di
solito fate così?” domandò incuriosita.
“Sì.
Tu facevi in modo diverso?”
“Da
noi, si aprivano i regali dopo il pranzo di Natale.”
“In
casa nostra, i regali non sono mai arrivati al pranzo.” ridacchiò
il ragazzo, gettando a terra un po' di cenere. “Sai, è la prima
volta che passiamo il Natale con qualcuno che non sia della
famiglia.”
Ingie
sorrise appena, quasi in imbarazzo.
“Spero
di non essere di troppo.” ammise, tornando ad osservare il panorama
di fronte a lei ed aspirando un po' di fumo.
“Non
pensarlo.” la rassicurò. “Sinceramente, è bello averti con
noi.”
Ingie
si voltò di nuovo verso di lui, sorridendo appena alla sua
espressione un tantino imbarazzata, come se fare un'ammissione simile
gli fosse costato oro.
“Grazie,
Piggy, anche tu non sei male.” sdrammatizzò.
Improvvisamente,
percepì la sua mano infiltrarsi fra i capelli ancora umidi, il che
sembrò smuoverle un toro imbizzarrito nello stomaco. Si chiedeva
cosa le stesse succedendo e perché stesse cominciando a vivere
quelle emozioni così strane ed incredibili.
“Hai
i capelli ancora bagnati, ti conviene rientrare.” le disse con
nuovo interesse. Lei si limitò a scrollare le spalle. “Ti devo
ricordare che l'ultima volta ti è venuto un febbrone?”
“Da
quando ti preoccupi?” lo stuzzicò maliziosa.
Lui
si strinse nelle spalle, ritraendo la mano.
“Se
vuoi non lo faccio più.” si limitò a rispondere, divertito.
“No.”
mormorò lei, senza guardarlo. “Mi fa piacere.” aggiunse quasi
timida. Si scambiarono uno sguardo che parve durare ore. Il suo cuore
stava battendo all'impazzata e la cosa, oltre a farla sentire una
stupida, la sconcertava tremendamente. “Comunque, direi che hai
ragione. Mi conviene rientrare.” tagliò corto, dopo aver spento la
sigaretta.
Non
fece in tempo ad alzarsi dalla sedia, che la sua mano venne afferrata
dalla presa salda di Tom ed in pochi secondi si trovò seduta sulle
sue gambe. Realizzò ciò che stava accadendo solamente quando
assaggiò nuovamente le sue labbra. In un primo momento immobile,
ricambiò quel bacio così improvviso ed inaspettato, quasi senza
sapere dove mettere le mani. Il suo stomaco sembrò fare continue
capovolte ed il suo cuore non voleva saperne di rallentare il ritmo,
cosa che quasi la spaventò.
Non
ci volle molto prima che gli afferrasse il viso e si gettasse in quel
bacio con la passione che era riuscita a reprimere forzatamente in
quei giorni. Sentì le braccia del ragazzo avvolgerle il corpo ed una
mano insinuarsi nuovamente fra i suoi capelli, dietro la nuca. Le
piacevano dannatamente il sapore e la morbidezza delle sue labbra, ne
era estasiata. Gli anelli metallici le facevano il solletico,
portandola a sorridere senza accorgersene. Lo sentì sospirare appena
sulla sua bocca, come avesse sentito la necessità di quel bacio, sin
dai giorni addietro. Quella stessa necessità che aveva percepito
anche lei ma che per il suo bene – almeno così credeva – aveva
ignorato. Sentiva con quanta bramosia la stringesse a sé e quanto –
come lei – cercasse una sorta di sostegno in quel bacio
dannatamente passionale. Entrambi volevano di più e lei lo sapeva.
Il punto era che aveva ripensato a quella notte ogni giorno ed aveva
avvertito un'inspiegabile mancanza, un vuoto incolmabile. Voleva di
nuovo quel contatto, voleva di nuovo sentirlo contro la propria pelle
e voleva sentirlo sospirare al suo orecchio, come aveva fatto per ore
senza sosta. Non si era mai sentita così tanto desiderata da un
uomo; per lei era come una bellissima novità. Tom era una bellissima
novità. All'improvviso, aveva scoperto che le piaceva farsi
stringere da lui, le piaceva ricevere attenzioni e concedervisi
totalmente. Sapeva che era sbagliato, sapeva che non era così che
funzionava, perché non vi era amore; ma sapeva anche che non poteva
farne a meno. Forse si stava trasformando in una di quelle ragazze –
che aveva sempre criticato – che si lasciavano andare al sesso,
senza l'ombra di sentimenti. Ma non poteva fare nulla per evitarlo;
Tom stava divenendo un bisogno fisico e tutto ciò lo odiava. Non era
giusto, si sarebbero solamente fatti del male ma non poteva
sopportare l'idea di non averlo più. Forse era egoistico, forse era
solamente viziata. Non lo sapeva; sapeva solo che non riusciva ad
ignorare le emozioni che quel ragazzo le faceva vivere.
***
Il
viaggio di ritorno era stato particolarmente chiacchiericcio per Bill
ed Andreas, i quali continuavano rimembrare i paradisiaci e
rilassanti trattamenti di quella giornata. Tom ed Ingie erano rimasti
in silenzio, seduti sui sedili anteriori, con gli sguardi fissi sulla
strada. Entrambi però godevano di un'espressione particolarmente
serena sul volto, del tutto involontaria. Ascoltavano il sottofondo
di quella conversazione e si limitavano a vivere nel proprio mondo.
Rientrati
a casa si erano recati ognuno nelle proprie stanze; erano già le
undici di sera e sarebbe trascorso poco tempo dal momento
dell'apertura dei regali. Ingie si era gettata pesantemente sul
letto, portandosi le mani alla fronte, in modo da massaggiare le
proprie tempie pulsanti.
Non
sapeva che cosa provare; la voglia di Tom ed al tempo stesso la
consapevolezza di doverlo tenere lontano. Stava facendo una
grandissima cazzata, se lo sentiva; ma perché privarsi di una cosa
che apparentemente la faceva stare bene? Aveva bisogno di un po' di
benessere, in quel periodo, e si era resa semplicemente conto che
quel benessere era in grado di regalarglielo – per assurdo –
solamente il chitarrista. Non riusciva a spiegarsi come egli potesse
catturarla a quella maniera, pur detestandolo tremendamente. Forse la
sua era una sorta di perversione: amava avere ciò che all'apparenza
odiava. O era così che funzionava realmente? D'altronde aveva
sentito spesso dire che l'amore e l'odio andavano di pari passo.
L'uno non era possibile senza l'altro.
Il
punto era che il loro rapporto non era definibile “amore-odio”.
Come poteva invece chiamarlo? “Sesso-odio”? Suonava malissimo
persino a lei. Forse, “affetto-odio” poteva andar bene.
Dio,
quanto sono stupida.
Gettò
un'occhiata alla radiosveglia sul suo comodino e notò che mancava un
solo quarto d'ora all'apertura dei regali, fino a che non udì un
lieve bussare alla porta. Un brivido le percorse la bocca dello
stomaco e si chiese se potesse essere lui. Come l'avrebbe affrontato?
Cos'erano diventati?
Mi
pare quel dannato film, Amici di letto.
“Avanti.”
disse, incerta.
La
testa di Bill, con sua gioia, sbucò oltre la porta.
“Vieni
in salotto?” le domandò sorridente. “Stiamo per aprire i
regali.” aggiunse con entusiasmo.
Sembrava
un bambino che ancora credeva a Babbo Natale e la mora non poté fare
altro che sorridere ed annuire. Si diresse verso l'angolo della
camera, ne recuperò le buste con i propri regali e lo seguì, fino
al salotto, dove trovò Tom, Gordon e Simone ad attenderli, sereni.
Le
venne quasi da piangere. Le sembravano passati secoli dall'ultima
volta che le si era presentata un'immagine familiare così bella
davanti agli occhi.
Erano
tutti seduti per terra, davanti all'albero, in cerchio. Al centro,
una bottiglia di champagne.
“E
quella?” sorrise ironica, sedendosi accanto a Tom, che venne
affiancato anche da suo fratello.
“Una
modifica personale della tradizione.” rispose Gordon. “Mancano
cinque minuti alla mezzanotte.”
“Che
cosa stressante.” borbottò Bill.
“Non
ti preoccupare, Speedy, tra poco vedrai Babbo Natale.” lo
stuzzicò Ingie, facendo ridere i presenti tranne lui, il quale
gonfiò le guance in un broncio, quasi risentito.
Fatto
stava che la mezzanotte non tardò ad arrivare.
“Buon
Natale.” dissero tutti quanti, prendendo a scambiarsi affettuosi
baci ed abbracci.
“Bene,
ora scartiamo i regali!” esclamò Bill, fiondandosi su un paio di
sacchetti, come non aspettasse altro. “Scarto io per primo!”
aggiunse, entusiasta ed impaziente, sotto le risate degli altri.
“Questo di chi è?” domandò interessato, sollevando un pacchetto
di medie dimensioni.
“Nostro.”
sorrise la madre, riferendosi a lei e Gordon.
Bill
non impiegò più di tre secondi e mezzo per scartare l'intero
pacchetto. Ne estrasse un bellissimo Rolex, nuovo di zecca, che Ingie
ricordava richiesto assiduamente da lui. Sapeva che aveva intenzione
di andare a comprarlo, ma probabilmente Tom aveva spifferato tutto a
Simone, battendolo sul tempo.
“Grazie,
è stupendo!” esclamò contento, indossandolo subito. “Come
facevate a sapere che volevo comprarmelo?” domandò poi.
“Un
uccellino.” rispose Simone, vaga. Il vocalist baciò entrambi e poi
passò al regalo di Tom.
“Vediamo
cosa mi ha comprato il mio fratellino.” cantilenò, fino a che non
estrasse la scatola colorata. “Uh, un i-pod nuovo!” strillò come
una donnina.
“Un
i-pod?” domandò Gordon, incuriosito. “Non ce l'hai già?”
“Mi
si è rotto qualche giorno fa, ci sono rimasto malissimo.” spiegò
Bill. “Grazie fratellino!”
Ingie
scoppiò a ridere nel vederlo lanciarsi in braccio a suo fratello,
facendoli crollare entrambi a terra, uno sopra all'altro.
“Okay,
Bill, ho capito.” ridacchiò il chitarrista, togliendoselo di
dosso.
Bill
tornò a sedersi compostamente ed afferrò il pacco di Ingie, la
quale si sentiva estremamente nervosa. Fare regali era da sempre
stato un motivo di frustrazione per lei. Aveva sempre timore di
scegliere qualcosa di sbagliato, che non fosse all'altezza delle
aspettative di chi le stava di fronte.
Osservò
con impazienza il ragazzo aprire la scatola, fino a che non ne
estrasse il paio di scarpe che aveva scelto apposta per lui.
“Oh,
Dio, che meraviglia!” esclamò Bill saltellando sul sedere. Era un
paio di scarpe, decisamente scenografico, che Ingie aveva visto in
vetrina durante l'uscita con Ivan al centro commerciale. Erano
altissime e sprovviste di tacco al tempo stesso; non aveva mai visto
scarpe del genere in vita sua ed aveva pensato che Bill le potesse
apprezzare, viste le sue stravaganze. “Sono stupende!”
“Come
fai a camminare su scarpe del genere?” ridacchiò Tom, osservando
attentamente suo fratello indossarle.
Si
sollevò in piedi in tutta la sua altezza e prese a camminare su
quella sorta di trampoli.
“Le
adoro!” continuò il biondo, facendo avanti e indietro per la
stanza.
“Bene,
sono contenta.” sorrise Ingie, che venne travolta – come Tom poco
prima – dal corpo di Bill, intento ad abbracciarla calorosamente.
“Grazie!”
“Tocca
a me!” esclamò Tom, afferrando il primo pacco.
La
procedura fu molto più veloce di quella di Bill: ricevette un
bellissimo cappotto nero, molto elegante, da parte di Simone e
Gordon. Bill invece gli aveva regalato una macchina fotografica,
visto e considerato che Tom adorava scattare foto di paesaggi,
familiari e momenti giornalieri. Gli piaceva immortalare l'attimo,
diceva che lo manteneva vivo e che aiutava a non dimenticare. Ingie
non poteva essere più d'accordo. Anche lei amava fare fotografie con
i suoi amici, con i suoi famigliari, in vacanza o semplicemente a
casa. Una foto che teneva sempre con sé era quella di suo fratello
Tom.
Il
chitarrista passò al suo regalo e l'agitazione la prese un'altra
volta. Non voleva essere scontata ma sapeva anche che non poteva
competere con tutti i regali precedenti: lei non aveva la stessa
quantità di denaro per potersi permettere qualcosa di molto costoso.
D'altro canto però sapeva che nessuno badava al fattore economico.
Scartò
il suo regalo con un lieve sorriso in volto, cosa che la portò a
sorridere di rimando, e – non appena scoprì cosa fosse – alzò
lo sguardo contento su di lei.
“Grazie.”
disse sinceramente. Tra le mani stringeva una giacca, firmata LA, in
pelle. Era molto elegante, ma sportiva al tempo stesso e non appena
Ingie vi aveva posato l'occhio, aveva subito immaginato di vederla
sul corpo di Tom con un mal celato desiderio. “È bellissima.”
sorrise, una volta indossata. Era proprio come se l'era immaginata;
gli stava benissimo. Lei ricambiò il sorriso e quasi sobbalzò
quando le schioccò un tenero bacio sulla tempia. Non era abituata a
quelle dimostrazioni d'affetto, soprattutto davanti agli altri, ma
non poteva fare altro che apprezzarle. “Ora tocca a te.” le disse
quindi il ragazzo.
Ingie
annuì appena e prese il pacco che sapeva essere da parte di Bill;
sorrise involontariamente.
“Chissà
quale pazzia mi avrai mai regalato.” mormorò con ironia, sotto il
suo sguardo divertito. Sfilò la carta arancione e sorrise, colpita.
Era un bellissimo abito da sera, rosso e lungo, con un po' di
strascico. Pareva uno di quei vestiti che spesso ammirava ed
invidiava, indossati dalle celebrità sul Red Carpet. Doveva
fasciare la vita, per poi scendere morbido lungo le gambe; intravide
anche uno spacco piuttosto profondo e notò con piacere che era
sprovvisto di spalline. “Speedy, è stupendo.” fece, senza
parole. Intuì che doveva averlo pagato un occhio della testa; certo,
i soldi non erano un loro problema.
“Però,
fratellino, hai gusto.” commentò Tom ammirato, senza staccare gli
occhi da quel bellissimo capo che Ingie ancora teneva in mano.
“Troveremo il prima possibile l'occasione giusta per fartelo
indossare.” aggiunse con un sorriso.
“Grazie.”
si rivolse al vocalist, per poi sporgersi a schioccargli un bacio
sulla guancia. Questo si sorprese.
“Sai
che è la prima volta che mi dai un bacio?” domandò divertito,
facendola arrossire.
“Sì,
beh... Non sono una tipa molto espansiva.” si giustificò, evitando
accuratamente di incrociare lo sguardo di Tom.
Ora
toccava proprio al suo regalo. Era un dannatissimo regalo, un
innocente gesto di circostanza che la gente si divertiva a compiere
sotto le feste di Natale. Eppure, non riusciva a placare la
curiosità. Sgranò gli occhi. “È un cellulare nuovo, Piggy?”
domandò, esterrefatta.
“Sì,
il tuo è un catorcio.” rispose lui.
“Piggy,
mi hai comprato un cellulare nuovo?” chiese nuovamente, senza
staccare gli occhi dall'I-Phone.
“Non
ti piace? Pensavo di fare una cosa carina dato che il tuo...”
“Ma,
Piggy, sei geniale!” esclamò la ragazza, contenta. “Non
dovevi.” aggiunse poi, un po' dispiaciuta, questa volta voltandosi
nella sua direzione. Conosceva perfettamente i prezzi degli I-Phone
ed il pensiero che lui avesse potuto spendere quei soldi per lei la
faceva quasi sentire in colpa.
“Ma
figurati.” scrollò le spalle lui con un sorriso. “Ti serviva.”
aggiunse un po' in imbarazzo.
“Grazie.”
mormorò quindi, non sapendo se avvicinarsi o meno per dargli un
bacio. Lui parve capirlo e sorrise.
“Perché
il bacio a Bill sì e a me no?” domandò, ironico, facendola
ridere.
Approfittò
di quell'atmosfera più distesa per schioccargliene uno sulla
guancia, appena irruvidita dalla barba.
***
Stesa
sul letto, fissava il cellulare sul comodino, intento a caricarsi
lentamente. Sorrise.
Tom
era stato carino a comprarle un cellulare nuovo; sapeva che quello
vecchio era da buttare e non si era fatto problemi nel scegliere il
più costoso in commercio. Ingie non era una persona attaccata al
valore economico dei regali, bensì guardava oltre, guardava al
pensiero. Tom aveva guardato a quella che ormai era divenuta una
necessità, poiché il vecchio Nokia stava cadendo a pezzi.
Si
raggomitolò come una gatto. Avvicinò le ginocchia al petto e
nascose le braccia dietro esse.
Fremeva.
Sentiva
la sua mancanza come un fuoco che ardeva incessante nello stomaco.
Improvvisamente volle sentire tutto il suo calore, le sue braccia
avvolgerla ed infonderle protezione. Aveva bisogno di quel contatto
come l'ossigeno ed aveva paura. Aveva paura perché dipendere da una
persona era una cosa che da sempre l'aveva terrorizzata; dipendere da
una persona significava annullare se stessi, non riconoscersi più.
Dipendere da una persona non era positivo. Per niente.
Improvvisamente,
sentì bussare alla porta.
Un
brivido le percorse la colonna vertebrale ed un desiderio nascosto
manifestò l'idea del chitarrista al di là del legno. Con un sospiro
si alzò dal letto ed andò ad aprire. Un campanello d'allarme, non
appena constatò la sua reale presenza, le fece presagire come quella
serata – o meglio, nottata – si sarebbe conclusa. Il sorriso
insolitamente dolce del chitarrista non le fu d'aiuto.
“Hey.”
sussurrò lui, per non farsi sentire dagli altri. Il corridoio era
buio e silenzioso e tutti i componenti di quella casa stavano già
dormendo da un pezzo. “Posso entrare?” le domandò con lo stesso
tono di voce.
Lei
non rispose; semplicemente si scostò per farlo passare. Ignorò il
profumo che le inebriò i sensi e richiuse la porta.
“Non
dormi?” domandò a tono normale, dirigendosi verso il letto, dove
si sedette per osservarlo interessata. Lui scrollò le spalle e le si
accomodò di fronte.
“Volevo
solo finire di darti il mio regalo.” rispose, facendole aggrottare
la fronte. Era una frase a doppio senso? “Sì, insomma, il telefono
non è l'unico regalo che ti ho fatto.” aggiunse, probabilmente
vedendola così disorientata.
“Cos'altro
c'è?” chiese, basita. Tom abbassò per un momento lo sguardo, come
per prendersi tempo, poi tornò ad osservarla attentamente.
“So
che probabilmente mi ucciderai per averlo fatto ma... Ti ho iscritta
alla palestra.” ammise.
Ingie
non capiva. Perché avrebbe dovuto ucciderlo?
“Beh,
grazie.” commentò confusa. “Perché dovrei ucciderti?”
“Perché
ti ho fatto riservare una sala da ballo per tre giorni a settimana.
Puoi andare tutte le volte che vuoi, chiuderti lì dentro ed ideare
nuove coreografie.”
Ingie
sgranò gli occhi. Non riusciva a credere alle sue orecchie ma
soprattutto non riusciva a riprendere contatto con la realtà. Studiò
a fondo quell'ultima frase ma non riusciva proprio a metabolizzarla.
Le sembrava tutto assurdo; le sembrava di essere catapultata in una
dimensione parallela, o meglio passata, senza preavviso. Tutto d'un
tratto poteva riprendere a ballare, ad occuparsi di ciò che per anni
l'aveva impegnata nel tempo e nel cuore. Ciò che anche suo fratello
amava e che, assieme a lei, aveva racchiuso in un sogno.
Prese
inconsapevolmente a tremare. Non sapeva che dire ma soprattutto non
sapeva come reagire a quel regalo. Non sapeva se esserne contenta o
soffrirne perché, nonostante avesse ripetuto più volte a Tom che
non era giusto riprendere a ballare senza suo fratello, dall'altra
parte non riusciva a rifiutare seccamente quella proposta. Si sentiva
di nuovo stupida; una bambina confusa che non era in grado di
prendere decisioni riguardanti la sua vita.
“Io
non so che dire.” mormorò.
“Dì
che riprendi a ballare, Ingie. Ti prego.”
La
ragazza non resistette. Gli si gettò fra le braccia, stringendolo
come non aveva mai fatto prima di allora. Gliene era terribilmente
grata, in qualche modo strano e contorto. Nonostante si sentisse
combattuta, non poteva non apprezzare quel gesto e quelle parole.
Sapeva che voleva la sua felicità e che, nel suo piccolo, stava
cercando di guidarla verso la giusta via.
“Grazie,
Tom.” sussurrò al suo orecchio, quasi timida. Sentì il
chitarrista sorridere contro la sua pelle e carezzarle appena la
schiena con le mani.
“Lo
prendo per un sì.” disse lui, dopo aver sciolto l'abbraccio.
“Forse
hai ragione. Mio fratello non vorrebbe che smettessi. Forse devo solo
metabolizzare l'idea. Devo farmi forza e basta.” disse più a se
stessa che al ragazzo. “Non posso assicurare di riuscirci ma, per
lo meno, ci proverò.”
Tom
annuì con un sorriso sincero.
“Per
quanto riguarda oggi.” cominciò poi, dopo essersi preso una pausa.
Ingie fremette. “Lo so che sei furiosa con me per non aver
rispettato l'accordo.” Cominciò a sentire caldo. Che senso aveva
scusarsi? Aveva voluto anche lei quel – bellissimo – bacio. Un
nuovo istinto la stava pervadendo e sapeva che non sarebbe riuscita a
reprimerlo. Il cuore minacciava di sfondarle la gabbia toracica ma
non poteva privarsi di quelle emozioni. “Ti avevo promesso che non
avrei fatto niente contro il tuo volere e invece l'ho fatto. Ma ti
assicuro che, d'ora in avanti...”
La
frase venne interrotta.
Le
labbra di Ingie sulle sue. La ragazza non aveva riflettuto un secondo
di più; si era semplicemente spinta verso di lui ed aveva dato vita
a quell'ennesimo bacio passionale che le scaldò in pochissimi
secondi ogni lembo di pelle. Il chitarrista, dapprima disorientato,
la strinse fra le braccia, prendendo a carezzarle il corpo in
fermento.
Ingie
si sentiva nuovamente piena, nuovamente appagata. Desiderava sentirlo
più vicino ed il bisogno crescente che le divorava lo stomaco
sembrava volerle anche impedire di respirare.
Con
la lingua, Tom tracciava disegni irregolari sulle sue labbra,
facendola sospirare piacevolmente, per poi rituffarsi nel bacio con
più intensità e desiderio. Gli artigliò con delicatezza i rasta e
lo spinse impercettibilmente contro il materasso, stendendovisi sopra
con lentezza esasperante. Le mani grandi e venose del chitarrista si
infiltrarono al di sotto della maglia, carezzandole la schiena ad
ogni centimetro, mentre lei lasciava una scia di baci infuocati –
alternati a piccoli morsi – a lato del suo collo, gustando il
sapore di quella pelle così profumata di cui non riusciva a fare a
meno. Si fermò qualche attimo sul pomo d'Adamo – facendolo
deglutire più volte – fino a scendere ancora.
Il
cervello era in totale blackout, esattamente come la prima
notte che avevano fatto l'amore.
Con
le mani sollevava la sua maglia, scoprendo secondo dopo secondo gli
addominali perfettamente scolpiti che attendevano di ricevere
attenzioni. Poi – preso come da una voglia irrefrenabile – lo
sentì afferrarla con desiderio e ribaltare le posizioni,
schiacciandola sotto il suo peso. Ingie chiuse gli occhi non appena
cominciò a baciarle il collo, come lei aveva fatto qualche secondo
prima, concedendosi di sospirare al suo orecchio, estasiata. Le sue
labbra morbide erano divenute una sorta di droga.
Lo
voleva da morire, quasi da star male. E poteva capire perfettamente
quanto anche lui la desiderasse.
Le
maglie vennero tolte e lanciate ai lati della camera. Di nuovo il
contatto bollente con la sua pelle eccitata. Quella pelle così
morbida che non riusciva a smettere di carezzare. I baci divenivano
sempre più veloci, passionali e quasi violenti.
Era
incredibile come la tensione fra loro fosse così forte e come
nessuno dei due riuscisse a controllarla. Insieme creavano una
perfetta sintonia, una perfetta alchimia. Entrambi ardevano e si
consumavano, impazienti. Buffo pensare che caratterialmente si
respingevano, come due poli identici della stessa calamita, mentre
sessualmente si attraevano con una forza disarmante.
Tom
spinse il bacino contro il suo con un lieve gemito impaziente e lei
maledisse i pantaloni che ancora impedivano quel contatto così
intimo e piacevole. I rasta continuavano a solleticarle il viso, il
che la portava a sorridere. Ben presto, ogni singolo indumento che
faceva ancora da impostore venne lanciato in angoli sconosciuti della
stanza e fu proprio quando i loro corpi completamente nudi si
trovarono a pieno contatto che Ingie sospirò, bisognosa di sentirlo
ancora più vicino.
Tom
era diventato una sorta di rifugio. Sembrava quasi un qualcosa di
malato, se vi rifletteva. Era come se solo lui potesse farle
dimenticare momentaneamente ogni singolo dolore che il suo cuore
provava.
Si
beò dei suoi morbidi baci sul ventre cosparso di brividi, per poi
afferrargli il viso con le mani e riportarlo alla sua altezza. Lo
baciò ancora e ancora, non riusciva a farne a meno e, mentre i loro
corpi tornavano a fondersi, ringraziò il cielo di avere la bocca
occupata. Lo strinse con le braccia e con le gambe, mentre lui
iniziava a possederla con passione e delicatezza, al contempo.
Strinse
le palpebre, cercando di reprimere ogni singolo gemito che la sua
gola minacciava di rilasciare. Il respiro caldo del ragazzo le
bruciava l'orecchio mentre le sue braccia rappresentavano per lei un
appiglio essenziale. I muscoli della sua schiena umida si contraevano
sotto le sue mani.
La
tentazione di protrarre all'infinito quel momento era incessante,
così come le scariche di piacere lungo tutto il corpo.
Morsi,
baci, carezze, gemiti strozzati, respiri bollenti ed affaticati.
Due
cuori pulsanti, in perfetta sincronia, ed un solo pensiero nella
mente di Ingie.
Does
this feel wrong?
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Capitolo 16 *** Fifteen - New Year's resolutions ***
15
Fifteen
New
Year's resolutions
Si
era svegliata da qualche minuto ma non aveva osato muoversi. Sentiva
la gamba del chitarrista fra le sue, mentre il braccio muscoloso
sostava sulla sua vita, pesante. Il respiro rilassato, sulla sua
nuca, le faceva intuire che stesse ancora beatamente dormendo.
Quella
volta non era scappata, sebbene trovasse fosse sempre la cosa più
semplice da fare.
Erano
andati a letto insieme. Di nuovo. Se la prima volta si era
sentita nervosa e disperata, ora tutto ciò che percepiva era una
forte sconsolatezza. Era incredibile come nel bel mezzo della
passione si sentisse la nuova eroina mondiale e Dea della
disinibizione, e poi, una volta terminato tutto, si sentisse
tremendamente stupida ed imbranata. Era possibile possedere una forza
di volontà pari a zero come la sua? Evidentemente, sì, si era
sopravvalutata.
Vorrei
poter dire in mia difesa, parlò la vocetta nella sua testa, che
acquisire forza di volontà davanti agli addominali di Tom non è
così facile come sembra.
Sospirò
col naso, cercando di non far rumore. Lanciando un'occhiata alla
radiosveglia, si era resa conto che erano solo le sette del mattino e
che, probabilmente, tutti ancora dormivano.
Si
era sempre sentita a disagio le volte in cui si era svegliata prima
degli altri e non poteva trovare diversivi perché non si trovava a
casa sua. Da una parte desiderava che il chitarrista si svegliasse,
dall'altra preferiva rimandare la conversazione che sapeva avrebbero
intrapreso.
Un
movimento impercettibile del muscolo del suo braccio fece suonare in
lei una campanellino d'allarme. Forse avrebbe potuto godere di quegli
attimi di solitudine e riflessione ancora per poco.
Ripensando
alle sensazioni fortissime che aveva vissuto durante la notte, quasi
stentava a credere fosse successo davvero. Ora si sentiva
estremamente tranquilla, posata, come avesse vissuto un qualcosa di
del tutto naturale. Effettivamente, ciò che avevano fatto poteva
essere definito naturale, se non si fossero contate le
innumerevoli circostanze in cui era accaduto.
Quando
sentì il ragazzo alle sue spalle sospirare appena, capì che si era
svegliato.
“Avevamo
detto basta sesso.” parlò, senza nemmeno voltarsi o
salutarlo o ancora dargli il tempo di capire che si trovava sulla
Terra e si chiamava Tom Kaulitz. Udì silenzio per un attimo –
forse il tempo di realizzare quanto detto – e poi lo sentì
sollevare il braccio da lei, mantenendo comunque la gamba in mezzo
alle sue – posizione non del tutto comoda per la ragazza.
“È
vero, l'avevamo detto.” si limitò a rispondere lui, per niente
preoccupato, osò pensare dal tono di voce.
Si
liberò da quel groviglio di gambe e si voltò di centottanta gradi
per poterlo guardare negli occhi assonnati. Non appena i loro sguardi
si incrociarono, percepì un brivido alla schiena. Appena sveglio
pareva un'altra persona; una persona molto più dolce, più indifesa
e dannatamente tenera. Gli occhi erano appena dischiusi e la
osservavano con stanchezza.
“E
quindi, tutti i buoni propositi dove sono andati a finire?” domandò
lei, fintamente severa.
“Devo
ricordarti che mi sei letteralmente saltata addosso?” le fece
notare con le sopracciglia sollevate ed un'espressione sardonica.
Già,
e il solo pensarlo le dava la nausea.
“Beh,
tu non hai fatto molto per evitarlo.”
“Quando
diventerò gay, te lo farò sapere.” Lei assottigliò gli occhi.
Non fece in tempo a parlare che si trovò la mano di Tom
completamente piantata in faccia, impedendole la visuale. “Piantala,
di guardarmi con quegli occhietti accusatori.”
Lei
si tolse la sua mano di dosso e tornò a scrutarlo.
“Ti
odio, lo sai?” borbottò, facendolo sorridere appena.
“Lo
so.” confermò lui. Ingie annuì soddisfatta e si voltò sulla
schiena, stringendosi la coperta sul seno, prima che potesse
scivolare vertiginosamente vero il basso. Quel pudore che avrebbe
dovuto provare ore prima. “Non facciamoci più domande.” lo sentì
parlare e sapeva bene a cosa si riferisse. Per la prima volta, si
sentì di dargli ragione. Nemmeno lei aveva più la forza fisica e
mentale per portare avanti quei fastidiosi interrogativi che mai
avrebbero trovato risposta. Probabilmente, l'unica soluzione era
vivere alla giornata, senza pensare al futuro o alla correttezza di
ciò che faceva. Per lo meno, il suo fegato avrebbe ricominciato con
le sue funzioni vitali. Sentì Tom muoversi appena, prima di sedersi
sul bordo del letto, dandole le spalle. Si voltò verso di lui e lo
scrutò per qualche attimo. Aveva scoperto una cosa apparentemente
stupida: adorava la sua schiena. Strano a dirsi, ma era la verità;
era muscolosa, imponente, anche se non esageratamente. Ma soprattutto
morbida. Era una parte corporea che non poteva fare a meno di
osservare ed apprezzare in un uomo. Rappresentava una sorta di
appiglio, di cui aveva tremendamente bisogno. “Hai per caso visto i
miei boxer?” le domandò ad un tratto, risvegliandola da quelle
discutibili riflessioni.
Lei
si voltò dalla parte opposta, gettando lo sguardo sul pavimento,
fino a che non li trovò proprio sotto di lei. Allungò una mano e li
afferrò.
“Tieni.”
disse, lanciandoglieli. Lui si sollevò dal letto, dandole le spalle,
e li indossò. Ingie ignorò il rossore che sentiva si fosse
appropriato delle sue gote. “Fai già colazione? Sono solo le sette
e un quarto.” gli fece notare, senza sollevarsi dal cuscino.
“No,
mi fumo solo una sigaretta.” le rispose, per poi rubare il suo
pacchetto di Marlboro.
“Prego,
fai pure.” fece lei con sarcasmo. Lui le sorrise furbescamente.
“Grazie,
gentilissima.” la prese in giro, prima di uscire sul terrazzino
della camera, richiudendosi quindi la portafinestra alle spalle.
Ingie non si mosse dal letto. Tutta quella situazione era
terribilmente insolita; talmente tanto che quasi non sapeva come
comportarsi. Picchiettò le dita sul materasso, in attesa di non
sapeva bene cosa. Avrebbe dovuto aspettarlo ancora a letto? Avrebbe
dovuto alzarsi, vestirsi e comportarsi come nulla fosse? Come
funzionavano quelle cose non ufficiali? Sbuffò seccata,
continuando a fissare il soffitto con disinteresse. Aveva vent'anni e
si cacciava ancora in quei casini. Ciò le faceva pensare che non
aveva imparato niente dalla vita. Quasi si spaventò non appena udì
la portafinestra riaprirsi e chiudersi di nuovo. Vide Tom, con la
coda dell'occhio, riavvicinarsi ed infilarsi nuovamente sotto le
coperte con un sospiro. “Sono stanco.” borbottò, portandosi le
mani al viso.
“Rimettiti
a dormire.” rispose lei, come niente fosse.
“Non
ci riesco se so che tu sei sveglia.” continuò lui, senza staccarsi
le mani dalla faccia. Ingie sollevò un sopracciglio.
“Non
ti osserverò adorante mentre dormi, se è quello che ti preoccupa.
Fortunatamente, ho altri interessi.” fece sarcastica, facendolo
voltare divertito verso di lei.
“Non
per rovinare quest'atmosfera pacifica ma la mia buona coscienza mi
impone di chiedertelo.”
“Buona
coscienza?” lo beffeggiò, ma lui portò avanti il suo discorso
ignorandola.
“Dato
che, preso dal momento, mi sono dimenticato tutte e due le volte di
prendere precauzioni, mi chiedevo se tu...”
“Prendo
la pillola.” lo anticipò, estremamente tranquilla. Lo vide
sollevare un sopracciglio.
“E
da quando?” domandò curioso.
“Da
sempre.”
“Non
ho mai visto una scatola.”
“Questo
perché la tengo sempre in borsa. La prendo al mattino.”
Restarono
qualche attimo in silenzio.
“Perché
la prendi?” domandò lui ad un tratto, prendendola in contropiede.
“Che
razza di domanda è?” ribatté lei.
“Per
prenderla da sempre, deve pur esserci un motivo.”
“Non
tengo a rimanere incinta a vent'anni, tutto qui.” Lui scrollò le
spalle, disinteressato. “Non mi sembri convinto.” aggiunse
quindi.
“Mi
chiedevo se avessi una seconda vita.” disse del tutto tranquillo.
Ingie
scosse appena la testa.
“Purtroppo,
al momento, ci sei solo tu.” lo prese in giro.
“Hai
detto niente.” si vantò lui. Il silenzio calò nuovamente su di
loro. Ingie odiava tremendamente quei momenti e pregò che il
chitarrista potesse ricominciare a parlare o non avrebbe saputo come
gestire la situazione. “Toglimi una curiosità.” parlò
all'improvviso, come fosse stato in grado di udire i suoi pensieri.
Si voltò verso di lui e trovò gli occhi nocciola puntati sui suoi.
“Andreas ti ha detto qualcosa di strano, durante il massaggio?”
Lei
fremette. Iniziò seriamente a preoccuparsi e a chiedersi se i
pensieri fuoriuscissero rumorosi dal suo cervello, senza che lei se
ne accorgesse.
“Perché
questa domanda?” chiese, vaga.
Lui,
dal suo canto, scrollò appena la spalla libera.
“Quando
sei uscita eri un tantino nervosa e criptica e, se ti conosco bene,
direi che eri infastidita da qualcosa.”
Ingie
si morse appena il labbro inferiore. Ormai non riusciva più a sviare
quegli occhi inquisitori.
“Diciamo
che ha tentato un approccio un po' esplicito.” parlò, come se ciò
che diceva non avesse importanza. In effetti, non ne aveva.
“Ti
ha messo le mani addosso?” domandò lui con un fremito.
“Figurati,
gliele avrei staccate.” rispose lei, schifata. “Mi ha proposto di
dormire a casa sua, caso mai avessi avuto intenzione di andare a
Lipsia da sola.” Vide Tom sgranare appena gli occhi. “Beh,
non sapevi che il tuo amico era così diretto?” gli domandò
allora, scettica. Attese una sua risposta, fino a che non lo vide
voltarsi verso il comodino dove aveva poggiato il suo cellulare la
sera prima ed afferrarlo con decisione. “Che fai?” domandò,
sospettosa, fino a che, come illuminata, non capì che stava per
chiamare Andreas. “Piggy, no!” esclamò, lanciandoglisi
addosso e cercando di togliergli il cellulare di mano. Lui cercava di
allontanare il braccio il più possibile, ma lei l'aveva
completamente schiacciato sotto il suo corpo, allungando il proprio
per afferrarlo.
Senza
accorgersene, avevano cominciato a ridere.
Sentì
Tom stringerla, cercando di annodarle le braccia e le gambe. Lei,
divertita, prese a mordergli la mano, con l'intento di svincolarsi
dalla sua presa.
“Ma
sei un cannibale!” esclamò lui, ridendo. Le lasciò braccia e
gambe e si limitò ad abbracciarla, questa volta con delicatezza.
Ingie sentì un brivido lungo la colonna vertebrale, nonostante si
trovassero ancora sotto le coperte, e si abbandonò contro il suo
corpo, rifugiando il viso nell'incavo del collo. “Le tue tette mi
stanno schiacciando lo sterno.” le fece notare con ironia, senza
però slegare le proprie braccia dal suo corpo.
“Sei
tu che mi tieni incollata qui.” rispose lei, poco intenzionata a
staccarsi da lui.
Stava
bene a contatto con la sua pelle calda e, nonostante fosse ancora
completamente nuda contro un solo paio di boxer, non si sentì in
imbarazzo.
Forse,
per la prima volta, si sentì a casa.
***
Quando
rientrò in camera di suo fratello in punta di piedi, trasse un
sospiro di sollievo nel constatare che stava ancora dormendo. Alla
velocità della luce, si rifugiò sotto le coperte del suo letto
singolo, per poi chiudere gli occhi e fingere di dormire.
Ripensò
a quella notte e sorrise involontariamente.
Ingie
era qualcosa di straordinario, continuava a ripeterselo. Per quanto
non la sopportasse, fosse lunatica e un tantino pazza, non riusciva a
non catturarlo in ogni cosa. Non sapeva bene come si potesse definire
la loro relazione, ma non se ne preoccupava nemmeno più di tanto.
Era vero ciò che le aveva detto: voleva vivere alla giornata, senza
farsi troppe domande. Se avesse avuto voglia di stringerla, l'avrebbe
fatto, se avesse voluto baciarla, l'avrebbe fatto, se avesse voluto
semplicemente parlare, l'avrebbe fatto. Non sapeva quanto potesse
essere considerato giusto, ma era ciò che si sentiva di fare ora.
Dopo Ria, avvertiva un forte panico divorargli lo stomaco e l'idea di
gettarsi in un'altra storia non gli piaceva per nulla. Avrebbero
lasciato le cose a quella maniera, giuste o meno, senza porsi domande
o dubbi su cosa sarebbero diventati.
Per
ora, gli andava bene così.
***
Il
pranzo di Natale era stato per Ingie qualcosa di indescrivibile. La
tavola magnificamente addobbata, le pietanze più deliziose ad
attenderli ed un'atmosfera tremendamente festosa e familiare. Simone
e Gordon erano stati stupendi con lei; si era sentita accolta in
quella famiglia con amore ed entusiasmo. Lei stessa faticava a
credere che delle persone l'avessero presa così a cuore. Forse Tom
aveva ragione: Simone la vedeva come la figlia che non aveva mai
avuto. Ingie sentiva che con lei aveva instaurato una complicità
fuori dal comune, in pochissimo tempo. Di lei si poteva fidare, in
lei poteva rivedere sua madre e ne era felice, anche se parzialmente.
Sentiva che forse quel periodo della sua vita le avrebbe portato
gioia, benché relativa. Aveva Simone, aveva l'affetto di Bill e
soprattutto quello di Tom, lo sapeva. Per quanto giocasse a recitare
la parte dello scorbutico e menefreghista, aveva imparato a vedere in
lui un ascoltatore ed una persona cui fare affidamento, al di là del
rapporto carnale che si era instaurato fra loro. Avrebbe sempre
potuto contare su di lui, ne era certa, perché sapeva che Tom era
una persona fedele, soprattutto in fatto di amicizie e affetti.
Salutare
la famiglia e Lipsia era stato duro per lei, ma era fiera di poter
dire di andarsene con un bagaglio d'affetto non indifferente. Ancora
una volta, Simone le aveva pregato di telefonarle qualora avesse
sentito il bisogno di parlare e sfogarsi, alludendo anche a suo
figlio Tom.
Il
viaggio di ritorno del ventinove Dicembre era stato meno stressante;
Bill era ancora su di giri per la bella giornata che avevano
trascorso insieme e per i bei regali ricevuti. Talmente tanto che si
era anche dimenticato di fermare Tom ogni minuto per andare in bagno.
Tom, dal suo canto, lanciava di tanto in tanto sguardi ad Ingie, la
quale faceva finta di non rendersene conto, benché lo scorgesse con
la coda dell'occhio. Forse la loro era divenuta complicità.
Strana parola da associare a loro due, ma estremamente veritiera.
Ingie sentiva un calore del tutto nuovo dentro di lei, felice di
bruciare, e per la prima volta nella vita si rese conto che il non
pensare al domani era un degno toccasana.
***
Quando
aprì la porta di casa, si guardò velocemente in giro.
“Dov'è
GusGus?” domandò con un sorriso. “Dov'è il mio angioletto?”
continuò, vagando per lo studio, sotto i sorrisi di Tom e Bill.
Improvvisamente, il biondo fece la sua nobile uscita dalla cucina.
“Gus!” esclamò la ragazza, buttandoglisi fra le braccia,
decisamente contenta di vederlo. Le erano mancate la sua pacatezza e
la sua saggezza.
“Hey,
come state?” chiese felice il batterista, ricambiando la calorosa
stretta della mora.
“Tutto
bene, abbiamo mangiato come dei maiali.” rispose Bill, posando il
borsone a terra.
“L'Hobbit?”
domandò a quel punto il chitarrista, perplesso, mentre i cani
prendevano a trotterellare per il salotto.
“Sta
tornando con Isa.” rispose Gustav, dopo aver sciolto la presa con
la ragazza.
“Con
Isa?” fecero Tom e Bill sorpresi.
“Chi
è Isa?” indagò Ingie.
“La
sua fidanzata.” le rispose Tom.
Ingie
sorrise. Con un po' di fortuna, avrebbe finalmente potuto conoscere
una ragazza a lei coetanea.
Mentre
Tom e Bill si rifugiavano al piano superiore, forse per mettere a
posto i vestiti, Ingie trotterellò alle spalle di Gustav, seguendolo
nuovamente in cucina.
“Perché
mi scodinzoli dietro?” sorrise lui, facendo finta di ignorarla. Lei
gli circondò il collo con le braccia, affacciandosi oltre la sua
spalla, per poterlo vedere in viso. “E da quando sei così
affettuosa?” aggiunse, scoccandole un'occhiata divertita. Ingie si
finse indignata.
“Che
brutta immagine ti sei fatto di me?” recitò con voce
melodrammatica, senza però lasciare la presa.
“La
tua.” ridacchiò lui, mentre tirava via l'acqua bollente dai
fornelli.
Lei,
a quel punto, si staccò da lui e gli diede una pacca sulla schiena,
risentita.
“Cattivo,
Gus.” borbottò, dirigendosi quindi verso il tavolo, dove si
sedette. Gustav le sorrise, fino a che non le si sedette di fronte
con due tazze di tè fumante. “Io ti offro il mio affetto e tu mi
tratti così.” continuò a mormorare, per poi afferrare la propria
tazza.
“Ti
sei divertita a casa Kaulitz?” le domandò lui, ignorandola con un
sorriso.
“Sì.”
rispose nuovamente pimpante la mora. “Simone è un tesoro.”
aggiunse, per poi sorseggiare un po' di tè caldo. Proprio ciò che
ci voleva.
“Più
che altro, è una donna paziente.” precisò Gustav.
“Molto
paziente.” rimarcò lei. “Tu cos'hai combinato, GusGus?”
domandò poi, spaventosamente interessata.
“Io
sono stato dalla mia famiglia. Tutto nella norma.”
“Non
hai portato nessuna fidanzata da presentarci?”
“Figurati.”
“Oh,
andiamo, Gus! Se non riesci a trovare nessuno, sappi che io ti
sposerei volentieri.”
“Anche
se non credi nel matrimonio?”
“Per
te potrei anche farlo.”
“Che
carina.” Ingie ridacchiò. Si divertiva con Gustav, benché non
parlasse molto. Ora che ci pensava seriamente, avrebbe gioito alla
notizia di un suo ipotetico fidanzamento. Gustav era troppo
intelligente, troppo dolce, troppo tutto per poter stare da
solo. Qualche giovane donzella avrebbe dovuto godere di quei pregi,
rari a trovarsi nei comuni ragazzi, o sarebbero andati sprecati. “Tu
non hai portato nessun fidanzato invece?” la squadrò con malizia.
“Sì.”
si vantò lei, gongolando. “Io e Scotty ci siamo promessi eterno
amore.”
“Che
cosa romantica.” commentò lui, divertito. “Posso fare da
testimone di nozze?”
“Certo,
Gus. Per te, questo ed altro.”
***
Conoscere
Isa era stato come essere catapultati indietro nel tempo, quando lei
e la sua amica Elena ballavano assieme nel gruppo numeroso che lei e
suo fratello erano riusciti a creare. Isa era una ragazza dolcissima,
alla mano ed anche un po' timida. Vederla scambiarsi occhiate così
complici con Georg, aveva riempito di gioia il cuore di Ingie. La
mora aveva sempre avuto un debole per quelle storie così
apparentemente perfette, intrise d'amore e fiducia. Non era
esattamente una sostenitrice accanita dell'eccessivo romanticismo, ma
le piaceva – a volte – credere che le favole esistessero ancora,
benché lei avesse smesso di farlo da un po'.
Era
stata felice nell'apprendere la notizia che Isa si sarebbe fermata
allo studio per un paio di giorni – giusto il tempo di festeggiare
con Georg il Capodanno. I ragazzi le avevano pregato di prolungare la
sua permanenza, ma lei aveva dovuto rifiutare a causa del lavoro che
la chiamava, con urgenza.
“Fa
il bravo quando non ci sono?” domandò Isa, seduta in braccio al
bassista, accoccolati sul divanetto.
“Schifosamente
bravo. Talmente bravo che ti cascano le braccia.” rispose Ingie con
un sorriso, rannicchiata sul divano affianco a Bill.
“Sì,
a volte io gli dico di guardarsi un po' in giro, ma lui niente.”
fece ironico Tom, seduto sul bracciolo del divano, affianco a suo
fratello. Ingie scosse la testa divertita e fu lieta di vedere il
cuscino lanciato da Isa planargli in piena faccia. “Hey!” esclamò
offeso, restituendole il favore.
“Sei
sempre il solito buffone. Mi domando quando ne troverai una al caso
tuo.” ridacchiò Isa, stringendosi un po' di più a Georg, il quale
le faceva dolci grattini sulla schiena.
A
Ingie – a quell'affermazione – venne spontaneo guardarsi attorno,
con finta disinvoltura. Quei discorsi la mettevano sempre a disagio
perché non sapeva mai come comportarsi.
“Oh,
non hai mai visto mio fratello innamorato.” esordì Bill. “Sembra
un'altra persona.”
“Responsabile.”
parlò Gustav.
“Generoso.”
continuò Georg.
“Dolce.”
aggiunse Bill. “Schifosamente romantico.”
“Oh,
piantatela, tutti quanti!” esclamò Tom, seccato.
“Non
è una brutta cosa.” sorrise Isa. “Vuol dire che anche tu hai un
cuoricino.” lo prese in giro, sfarfallando con le ciglia.
“Sì,
come vi pare. Io vado in palestra.” tagliò corto il chitarrista
prima di alzarsi dal divano e salire le scale, in direzione della sua
stanza.
Ingie
lo osservò con la coda dell'occhio. Sapeva quanto Tom fosse ancora
suscettibile su quel lato. La storia con Ria l'aveva letteralmente
buttato a terra e anche se non voleva ammetterlo, la cosa lo
addolorava ancora. Sapeva che non era più innamorato di lei, ma
sapeva anche che un torto del genere era difficile da mandar giù,
soprattutto per un uomo.
“Si
è offeso?” domandò Isa, preoccupata, a Georg.
“No.”
sorrise Bill per rassicurarla. “Va sempre in palestra a quest'ora.”
“Credo
che oggi andrò anche io.” esordì Ingie, sollevandosi dal divano.
“Vado a prepararmi.” Abbandonò il salotto e prese a salire le
scale, con l'intento di raggiungere Tom. Non appena si trovò davanti
alla sua stanza, bussò lievemente. Il ragazzo, dopo un'attesa di
qualche secondo, le aprì con indosso un solo paio di pantaloni da
ginnastica. Ingie distolse immediatamente lo sguardo dai pettorali
nudi; non si era ancora abituata a quel tipo di visione. “Sei
incazzato?” gli domandò a bruciapelo. Lui sorrise appena e le fece
segno di entrare, per poi chiudere la porta alle sue spalle.
“Incazzato
no.” rispose, dirigendosi verso il letto, dove aveva abbandonato la
maglietta che avrebbe indossato per la palestra. “Seccato è
il termine adatto.” precisò, per poi infilarsela, dopo essersela
rigirata fra le mani.
“Non
lo facevano con cattiveria.” disse la ragazza, senza muoversi da
dove l'aveva lasciata.
“Lo
so.” rispose lui, per poi infilarsi le scarpe. “Vieni con me?”
le domandò poi, sollevando lo sguardo sulla sua figura, come
avendole letto nel pensiero.
“Pensavo
di sì.” rispose, stringendosi nelle spalle e facendolo sorridere
compiaciuto.
“Vatti
a preparare, ti aspetto di sotto.” le disse quindi, affiancandola,
fino ad uscire dalla stanza.
Sorrise
inavvertitamente.
***
Stava
distrattamente vagando su Internet. Quel giorno non aveva decisamente
voglia di uscire, poiché i suoi pensieri continuavano a vertere su
un solo ed unico nome: Ingie. Possibile che non fosse ancora riuscito
a rintracciarla? Possibile che si fosse nascosta chissà in quale
zona di New York? O dell'America? O chissà cos'altro. Il solo
pensiero lo faceva rabbrividire, sconcertato. Con la guancia
schiacciata contro il palmo della mano, continuava a scorrere quel
sito di celebrità fotografate a qualche strana serata o festicciola
o altre cose da VIP, come le definiva lui. Si domandò come
fosse finito in quel sito cui lui non era per nulla interessato; la
noia faceva fare cose inspiegabili.
Lindsay
Lohan, sempre peggio.
Britney
Spears, ormai ha fatto la sua strada.
Ian
Somerhalder e Nina Dobrev, bella coppia.
Tokio
Hotel, chi li conosce?
Jennifer...
Come
risvegliatosi da una sorta di trans, tornò indietro, alla foto che
ritraeva i Tokio Hotel all'uscita di una discoteca. Strinse
maggiormente le palpebre e si avvicinò col viso allo schermo,
cercando di capire se fosse del tutto impazzito o meno. Possibile che
la ragazza al fianco del tizio con i rasta – che cercava di
coprirla con la sua felpa – gli ricordasse tremendamente... No, non
era possibile. La foto era lievemente sfocata e la felpa quasi le
copriva il viso intero.
Afferrò
velocemente il cellulare posato sulla scrivania e si affrettò a
comporre il numero. Muoveva nervosamente una gamba, in attesa della
risposta.
“Pronto?”
“Kayla,
devo farti vedere una cosa.”
***
“Dai,
continua.”
“È
inutile, sono fuori forma.”
“Stronzate,
vai avanti.”
“È
facile, per te, parlare. Non sei sdraiato a testa in giù con il
sangue a riempirti il cervello.”
“Smettila
di borbottare e continua.”
Ingie
si trovava su uno di quei maledetti attrezzi, intenta a fare gli
addominali che aveva abbandonato da quasi tre mesi, mentre Tom, con
una mano poggiata sul suo addome in contrazione – cosa che non le
consentiva la lucida concentrazione – da bravo tedesco, le ordinava
di proseguire.
“Sei
uno schifoso mangia-crauti.” borbottò lei, sforzandosi di
sollevare la schiena per l'ennesima volta.
“E
tu una dannata mangia-hamburger. Vuoi tornare a ballare, senza
spaccarti le ossa?” ribatté lui, senza staccarsi da lei per
controllare che facesse tutto al meglio.
“Chi
ti ha detto di farmi da personal trainer? Guarda che so fare
benissimo da sola.”
Il
chitarrista schioccò la lingua contro il palato, scettico.
“Come
no. Al terzo volevi già smettere.” fece con sarcasmo.
“Bullshit.”
borbottò lei, colpevole. “Quanto cazzo devo andare avanti?”
esclamò poi, decisamente urtata ed affaticata.
“Direi
basta.” si limitò a rispondere lui, staccandole la mano dal busto,
così che lei poté lasciarsi cadere all'indietro, a braccia
penzolanti, per riprendere fiato. Sentiva il sangue salirle al
cervello, ma non aveva la forza di alzarsi. Percepì la maglietta
scoprirle appena la pancia, fino a scivolare all'altezza del
reggiseno. “Permetti?” fece infastidito il chitarrista,
afferrando il cotone e riportandolo al suo posto.
“Geloso?”
domandò lei con malizia, per poi sollevare la schiena, con l'intento
di scendere da quella macchina della tortura.
“Pff.”
fece lui, afferrandole una mano per aiutarla a rimettersi in piedi.
“Non mi conosci.” Una volta scesa, Ingie si portò una mano alla
tempia, dato che la palestra era divenuta completamente nera. “Così
impari a startene a dormire a testa in giù.” commentò il ragazzo,
soddisfatto, fino a che Ingie non acquisì nuovamente la vista.
Questa
si soffermò ad osservarlo salire sull'attrezzo che lei aveva appena
abbandonato e cominciare la sua serie di addominali.
Oh
Cristo, fu tutto ciò che la sua mente fu in grado di pensare,
alla vista di tutti quei muscoli in contrazione.
“Vado
a fare un po' di tapis roulant.” decise quindi, per poi
allontanarsi da lui.
Era
incredibile come la situazione fosse degenerata; ora non riusciva
nemmeno più a guardargli un bicipite.
Grande,
Ingie, si disse.
Quando
mise piede sul tapis roulant e lo azionò, prendendo quindi a
camminare velocemente, le venne spontaneo sorridere. Tutto, tutto la
stava riportando indietro nel tempo, quando era tremendamente fissata
con il fisico. Ricordava di chiudersi sempre in palestra e cercare di
preparare il suo corpo al meglio, per le competizioni che si
susseguivano senza sosta. Una buona muscolatura era necessaria per
ballare, o avrebbe danneggiato articolazioni e chissà cos'altro.
Rammentava
le chiacchierate con Tom, su quei tapis roulant, riguardo le
nuove coreografie. Perdevano le ore a discutere su cosa potessero
modificare e cosa andasse bene.
Non
so se sei arrabbiato, gli parlò mentalmente, ma spero davvero
che tu sia orgoglioso di me e di quello che sto ricominciando a fare.
Una
scarica elettrica le attraversò la colonna vertebrale, non appena il
suo sguardo tornò a posarsi sul chitarrista. Una biondina –
indiscutibilmente ossigenata – sostava al fianco del ragazzo,
ancora intento a fare gli addominali, chiacchierando e ridendo a
crepapelle con lui.
Non
hai alcun diritto di essere infastidita.
Aumentò
la velocità del tapis roulant, presa da un'improvvisa voglia
di correre, e continuò a tenere sotto controllo la situazione.
La
biondina ora, facendo finta di appoggiarsi per le eccessive risate,
posò una mano sull'anca del ragazzo.
Da
quando Piggy è così comico, da far piegare in due le ragazze?
Aumentò
la pendenza del tappeto: ad un tratto, tutto le sembrò più facile e
meno faticoso. Vide Tom sollevarsi e sorridere alla Barbie, cedendole
il posto, per poi farle un cenno di saluto. Si avvicinava.
Oh,
grandioso.
Fece
finta di nulla, continuando a correre. Solo ora si rese conto di
quanto avesse esagerato con velocità e pendenza, così decise di
diminuire il tutto, visto e considerato che il cuore sembrava
pretendere la libertà dalla gabbia toracica tramite la sua
distruzione.
“Vedo
che ci stai dando dentro.” sorrise il moro, una volta accanto a
lei.
“Sì,
certe visioni ti danno la giusta carica per esagerare.” fece
con lugubre sarcasmo, mentre Tom saliva sul tapis roulant
libero, accanto a lei.
“Quali
visioni?” domandò lui, confuso.
Ingie,
per salvarsi da quella conversazione scomoda, indicò sopra di lei lo
schermo che trasmetteva il corpo seminudo di Rihanna, nel bel mezzo
di un'esibizione canora.
Che
tempismo, pensò.
“Effettivamente...”
commentò lui, compiaciuto, prendendo a camminare velocemente.
“La
conosci?” non riuscì a non reprimere quella domanda, indicando con
la testa la biondina che ora faceva gli addominali sull'attrezzo
lasciato precedentemente libero da Tom. Questo si voltò nella sua
direzione, per capire a chi si riferisse.
“Ah,
sì, Micol.” rispose lui con un sorriso. Micol, fece il
verso la mente della ragazza. “La vedo tutti i giorni qui in
palestra.” Fantastico. Si chiese per quale empio motivo
continuasse a formulare pensieri del genere. Lei e Tom non stavano
insieme e, per tanto, non aveva il diritto di essere gelosa.
Il solo pronunciare mentalmente quella parola le dava la nausea. Era
sicura che fosse il suo smisurato orgoglio femminile ad agire a
quella maniera e doveva al più presto trovare una valida soluzione.
“Perché?” le domandò quindi, tornando ad osservarla
interessato.
“No,
così.” tagliò corto lei.
“Ora
sei tu quella gelosa?” la stuzzicò con eccessiva malizia.
“Non
scherziamo, Piggy.”
Si
presero qualche attimo di silenzio, ascoltando distrattamente la
canzone di Rihanna, 'Diamonds'. Ingie aveva sempre adorato
quella canzone; la trovava estremamente dolce ed emozionante. Ogni
volta, sentiva la pelle d'oca impossessarsi del suo corpo e sorrideva
distrattamente alla voce potente di Rihanna che cantava tutto il suo
amore, che pareva quasi sofferenza. Un po' si sentiva come lei.
Si
voltò appena verso Tom ed osservò il suo profilo, in direzione del
televisore, intento ad osservare il video in religioso silenzio.
I
saw the life inside your eyes.
Sentì
una morsa allo stomaco che la portò a distogliere lo sguardo.
“Vado
a fare un po' di glutei.” disse, spegnendo la macchina ed
allontanandosi. Sbuffò. Era nervosa e non si spiegava il motivo. Si
inginocchiò sul tappetino e poggiò il piede contro la leva alle sue
spalle, per la quale aveva impostato venti chili di peso, e cominciò
a sollevarla, forzando il muscolo della gamba.
Dio
mio, quanto sono stupida, continuava a ripetersi nella testa.
Vent'anni buttati nel cesso.
Non
sopportava l'idea di non riuscire a controllare le sue emozioni, di
fronte al chitarrista. Era qualcosa che la mandava letteralmente in
bestia.
Improvvisamente
sentì una pacca leggera sul sedere e, sollevando lo sguardo, vide
proprio lui passarle affianco, in direzione dell'attrezzo in fondo
alla palestra.
“Piggy,
mi hai appena toccato il culo?” domandò minacciosa, senza nemmeno
smettere di fare l'esercizio.
“No.”
rispose innocente lui, con espressione furba in viso, allontanandosi
come nulla fosse.
Sorrise.
***
Il
trentuno Dicembre si era avvicinato a vista d'occhio.
Ingie
si sentiva particolarmente strana. Festeggiare il Capodanno era come
un rituale, una cerimonia di chiusura del duemiladodici, come avesse
dovuto porvi una croce sopra. Ma porre una croce sopra quell'anno
voleva dire anche porre una croce sopra la morte di suo fratello. Nel
profondo del suo cuore, sapeva che era la cosa giusta da fare.
Avrebbe dovuto ricordarsi di suo fratello per com'era l'ultima volta
che avevano condiviso qualcosa di bello assieme, non per come l'aveva
visto sfigurato, in seguito all'incidente. Avrebbe dovuto smettere di
pensare e ripensare a quelle immagini perché non l'avrebbero
riportato indietro, anzi, avrebbero solamente tenuto vivo un dolore
troppo forte da combattere. Tom le era stato di grande aiuto, in quel
periodo. L'aveva aiutata a sorridere, a pensare ad altro, a ricordare
suo fratello con la gioia nel cuore e gliene era terribilmente grata.
La sua buona coscienza le diceva che era sbagliato buttare tutti i
suoi sforzi. Così, aveva deciso che uno dei suoi buoni propositi per
l'anno nuovo era proprio quello: pensare a suo fratello con la gioia
nel cuore e smettere di piangere la sua morte. Sapeva che non era
facile e non era sicura di poterlo rispettare, ma per lo meno ci
avrebbe provato.
Per
la serata avevano organizzato una grande cena ad un ristorante del
centro di Berlino, con mezzanotte in strada, dove avrebbero assistito
ai fuochi artificiali, per poi recarsi in discoteca e bere come
spugne, stando alle parole di Bill. Ingie doveva ammettere che
non vedeva l'ora di festeggiare. Percepiva l'adrenalina nelle vene e
attendeva solamente il momento giusto per farla esplodere. Aveva
scelto dal suo armadio, che lentamente si riempiva di capi nuovi, il
vestito rosso che Bill le aveva regalato per Natale. Aveva pensato di
non poter trovare occasione migliore per indossarlo. Il rosso era un
colore opportuno, così come l'eleganza dell'abito. Mentalmente,
venerò Bill per quella sua scelta grandiosa. Ai piedi, aveva deciso
di indossare delle decoltè, mentre i capelli, ormai lunghi fino a
metà schiena, li aveva stirati e sciolti sulle spalle, raccogliendo
solamente un ciuffo alla tempia sinistra con un piccolo fiore rosso.
Improvvisamente,
proprio mentre era intenta a scrutarsi allo specchio con attenzione,
sentì bussare alla porta.
“Avanti.”
disse, voltandosi verso di essa, per vedere chi fosse. Isa si
affacciò con la testa all'interno della stanza, chiedendo il
permesso per entrare. “Certo.” esclamò la mora, sorridendo. La
rossa si chiuse la porta alle spalle e le si avvicinò. Era
bellissima. Indossava un vestito bianco, abbastanza corto, in pizzo
con le maniche a tre quarti. Ai piedi un paio di decoltè nere ed i
capelli raccolti in uno chignon che lasciava cadere un paio di
ciuffi ondulati davanti al viso. “Stai benissimo.” sorrise Ingie,
sincera.
“Grazie,
anche tu stai da favola. È bellissimo quel vestito.” rispose Isa,
colpita.
“Merito
di Bill.”
“Lo
dico sempre che ha gusto.” Le si avvicinò appena. “Devi ancora
truccarti?” le domandò curiosa ed Ingie annuì. “Ti volevo
chiedere se potevi truccare anche me perché non sono molto brava.”
fece timidamente.
“Ma
certo. Andiamo in bagno.” sorrise la mora, prima di aprire la porta
della camera e prendere a correre appena – per quanto i tacchi
potessero permetterglielo – verso il bagno. Nel frattempo Tom
passava per il corridoio e, osservandole, fischiò loro dietro, cosa
che portò Ingie a lanciargli un'occhiata assassina. Una volta chiuse
al sicuro da sguardi indiscreti, disse ad Isa di sedersi sul
gabinetto chiuso. La rossa obbedì ed attese che la mora frugasse
nella sua pochette alla ricerca del giusto fondotinta. “Pensavo di
truccarti sul grigio-nero.” le disse, finalmente in possesso del
prodotto.
“Qualsiasi
cosa mi va bene. Sicuramente farai meglio di me.” ridacchiò la
rossa.
“Da
quanto tempo state insieme tu e Georg?” parlò Ingie, una volta
cominciato a spalmarle il fondotinta sul viso.
“Ormai
un annetto.” sorrise Isa. Sembrava così innamorata. “Sto bene
con lui.”
“Si
vede che vi amate alla follia.”
“E
tu?” domandò curiosa. “Sei fidanzata?”
Ingie
fremette. Le era parso strano che ancora nessuno, dal primo giorno in
cui aveva messo piede in Germania, le avesse fatto quella domanda.
Ora sì che cominciava a sudare.
“No.”
sorrise lievemente.
“Appena
arrivata, credevo stessi con Tom.”
Ingie
scoppiò a ridere, decisamente divertita per quell'affermazione.
“Io
e Tom? No, non potrebbe mai accadere. Perché quest'impressione?”
“Ho
visto degli scambi di sguardi, degli atteggiamenti di Tom nei tuoi
confronti. Mi ero convinta che steste insieme.”
“No,
no.”
“Però
gli piaci.”
Ingie
sorrise appena e ringraziò che Isa tenesse gli occhi chiusi per
farsi spalmare l'ombretto sulle palpebre.
“Figurati.”
mormorò.
“Fidati,
lo conosco bene.”
Le
era sembrato di tornare a parlare con Simone. Le aveva detto le
stesse cose. Possibile che Tom la guardasse in un modo tanto palese e
che solo lei non se ne accorgesse? Certo, si erano reciprocamente
dichiarati l'attrazione che provavano l'uno per l'altra, ma
non avevano mai pensato a dei sentimenti veri e propri.
“Ecco
fatto.” annunciò dopo qualche minuto, ad opera terminata.
Isa
si alzò in piedi e si avvicinò allo specchio per osservarsi da
vicino.
“Ma
è bellissimo. Grazie mille, non sarei mai riuscita a fare una cosa
del genere.” sorrise compiaciuta.
“Non
c'è di che.” La porta del bagno si aprì all'improvviso e Georg
quasi saltò sul posto spaventato, non appena vide le ragazze
all'interno. “Fuori, Redhead, stiamo creando.” lo minacciò
Ingie, puntandogli contro il pennello dell'ombretto come fosse
un'arma pericolosa.
“Scusate.”
borbottò lui, richiudendo la porta.
Sentì
Isa ridere.
“Mi
diverte come riesci a tenere a bada tutti quanti. Hai un caratterino
niente male.” le disse.
Ingie
si ritrovò ad arrossire.
Grandioso,
si disse, tutti mi ritengono una trita-palle dal caratterino
difficile.
“Diciamo
che non riesco a smussare alcuni lati di me.” si limitò a
rispondere, per poi cominciare a truccare i propri occhi. Aveva
deciso di truccarsi sul nero, per avere un minimo di stacco di
tonalità dal vestito.
“Non
devi farlo, secondo me.” parlò Isa, sedendosi sul ripiano del
lavello per osservarla all'opera. “Vorrei poter essere forte come
te, sai?” Ingie si fermò e si voltò verso di lei, rapita dalle
sue parole. “In questi giorni ti ho osservata e mi sono sempre
detta, cavolo, vorrei poter essere anche io energica come lei, far
ridere la gente ed essere così al centro dell'attenzione per un
momento.”
Ingie
stette in silenzio qualche attimo, riflettendo sulle sue parole.
Effettivamente, aveva notato fin da subito la timidezza della ragazza
ma non aveva mai pensato che fosse una nota a suo sfavore;
tutt'altro. A volte desiderava anche lei di essere in grado di
mordersi la lingua, invece di rispondere sempre a tono.
“Non
è sempre positivo essere una buffona, sai?” sdrammatizzò,
facendola ridacchiare.
“Vedi?
È a questo che mi riferisco.”
Pochi
secondi ancora e la mora finì di truccarsi, giusto in tempo per
udire Gustav, al piano di sotto, urlare alle ragazze di scendere
perché si stava facendo tardi. Uscirono di fretta dal bagno e,
cercando di non rotolare, scesero le scale molto lentamente. Ingie
aveva notato – non sapeva se con piacere o con disappunto – che
lo spacco del suo vestito era decisamente alto; quasi le arrivava
all'intimo.
“Andiamo
con due macchine.” disse Georg, non appena raggiunsero il piano
inferiore.
“Ma
quello è il mio vestito!” strillò Bill entusiasta, battendo
ripetutamente le mani, alla vista di Ingie.
“Sì,
Speedy, te lo lascerò indossare se farai il bravo.” rispose
lei con sarcasmo.
“Andiamo?”
intervenne Gustav.
Uscirono
tutti di casa. Ingie seguì Tom nella sua macchina, assieme a Bill,
mentre Isa e Gustav seguirono Georg nella sua. Una volta dentro, la
mora accese lo stereo.
“Non
me lo rompere.” la mise in guardia Tom mentre si allacciava la
cintura, facendole sollevare un sopracciglio.
“Come
te lo rompo? Con la forza del pensiero?” ribatté con sarcasmo.
“Voi
donne siete pericolose per auto come queste.”
“Sempre
il solito maschilista del cazzo.”
Bill,
alle loro spalle, rise appena.
“David,
Amanda e Ivan ci aspettano al ristorante.” parlò per metterli a
tacere.
***
Vederla
scendere le scale, avvolta in quel vestito rosso, era stato per lui
un colpo al cuore. Mai, mai l'aveva vista così bella ed aveva fatto
di tutto perché non glielo leggesse negli occhi. Si sentiva strano
al suo fianco, quella sera. Aveva una voglia matta di mandare tutto e
tutti al Diavolo e correre in camera assieme a lei per farla di nuovo
sua.
Seduta
al tavolo di fronte a lui, rideva e scherzava con tutti con quel suo
modo di fare così schietto e divertente.
Si
era accorto che gli piaceva tremendamente stare in sua compagnia
perché lo faceva ridere, come nemmeno Ria era mai stata in grado di
fare. Aveva un senso dell'umorismo fuori dal comune, decisamente
particolare, quasi pungente e lui non poteva fare altro che
apprezzarlo. Ovunque si trovasse, era a suo agio e Tom non poteva
chiedere di meglio. Ma continuare ad osservarla dall'altra parte
della tavolata gliela faceva desiderare ancora di più, quasi fino a
farlo star male.
Bill,
risvegliandolo dai propri pensieri, sollevò nuovamente il suo
bicchiere di vino bianco e propose l'ennesimo brindisi.
“Bill,
se continuiamo a fare brindisi ora, non arriveremo nemmeno al dolce.”
sorrise David, seduto accanto ad Amanda che – per ovvie ragioni –
non aveva toccato un goccio d'alcol.
“Oh,
andiamo, è Capodanno!” ribatté suo fratello. Tom, dal suo canto
lo accompagnò, così come Ingie, Isa ed Ivan. “Voi sì che siete
di compagnia.” commentò compiaciuto il biondo, prima di buttare
giù il contenuto del suo bicchiere.
“Amore,
non starai esagerando?” domandò un Georg particolarmente
preoccupato alla sua fidanzata, la quale fece una smorfia
infastidita.
“Non
fare il papà rompiscatole.” ribatté.
Tom
lanciò un'occhiata ad Ivan, seduto accanto ad Ingie, e notò con
fastidio che i suoi occhi si posavano frequentemente sulla ragazza.
Quella sera, si sentiva particolarmente geloso di Ingie. Non
l'avrebbe mai ammesso nemmeno sotto tortura ma era la pura verità.
Era in quei momenti che il suo lato più egoistico prendeva il
sopravvento, volendola tutta per sé.
Tolti
i pezzetti di plastica dal tappo della bottiglia d'acqua, li lanciò
addosso alla ragazza, che sobbalzò appena, presa in contropiede.
Posò lo sguardo perplesso su di lui, che sorrise furbescamente.
“Strane
smanie da Peter Pan?” domandò lei, lanciandogli indietro la
plastica.
“Forse.”
rispose lui, enigmatico, facendole aggrottare la fronte. Voleva la
sua attenzione, era più forte di lui. Quella sera necessitava del
suo sguardo su di sé, esattamente come lui non lo distoglieva da
lei. Scrutò un momento l'orologio al polso e constatò che erano già
le undici e un quarto. “Mancano tre quarti d'ora a mezzanotte.”
annunciò.
“Sarà
meglio ordinare il dolce, allora.” fece Gustav.
“Puoi
ordinare per me una crema catalana?” gli chiese gentilmente il
chitarrista, per poi afferrare la giacca dallo schienale della sua
sedia. “Ingie, mi accompagni un attimo alla macchina?”
La
ragazza parve incuriosita ma annuì senza battere ciglio.
“Anche
per me.” disse a Gustav, prima di seguirlo al di fuori del
ristorante. La sentiva alle sue spalle e quando si voltò e la rivide
in tutta la sua bellezza, con il vestito rosso a fasciarle il corpo,
provò di nuovo quel desiderio incontenibile. La osservò chiudersi
il cappotto e stringersi le braccia al petto, infreddolita. “Che
c'è, Piggy?” domandò, tranquilla. A quel punto si decise:
le afferrò delicatamente la mano e la portò con sé al di là di
una siepe piuttosto alta. Si guardò qualche secondo attorno, per
assicurarsi che non vi fossero paparazzi in vista, poi – presole il
viso fra le mani – si chinò su di lei, facendo incastrare
perfettamente le loro labbra.
Un
brivido.
La
sentì fremere appena, forse sorpresa da quel gesto inaspettato, ma
poi gli posò le mani sui fianchi, con l'intenzione di approfondire
il bacio. Non seppe quanto andò avanti, prima che si allontanasse da
lei e la guardasse attentamente negli occhi, ma riuscì a goderselo
in ogni attimo.
“Semplicemente
perché non potrei farlo davanti a tutti, a mezzanotte.” le
sussurrò con sua sorpresa, prima di rientrare al ristorante
lasciandola sola.
***
Erano
in strada da qualche minuto, in attesa della fatidica ora. Tutti
erano su di giri, con le bottiglie di champagne in mano ed una
lucidità sempre meno presente. Ingie era ancora piacevolmente scossa
per ciò che aveva fatto Tom. Non se lo sarebbe aspettato da un tipo
come lui, che difficilmente si lasciava andare quasi mettendosi a
nudo a quella maniera. Era serena; era serena perché quello stesso
desiderio che provava da tutta la sera per il chitarrista, lo provava
anche lui.
Sentì
le braccia di Bill e Gustav circondarle le spalle e poté notare con
piacere che tutti, nessuno escluso, avevano fatto la stessa cosa fra
loro, formando una sorta di catena di abbracci.
Le
piaceva dannatamente quella sensazione. Talmente tanto che le venne
quasi da piangere.
“Dieci!”
Accettazione.
“Nove!”
Affetto.
“Otto!”
Casa.
“Sette!”
Sollevò
lo sguardo al cielo, dove una stella brillava più delle altre.
“Sei!”
Sorrise
appena.
“Cinque!”
Grazie,
fratellino.
“Quattro!”
Sarai
sempre nel mio cuore.
“Tre!”
E
ti voglio un bene infinito.
“Due!”
Riportò
lo sguardo su tutti gli altri.
“Uno!”
Un
boato si levò nel bel mezzo di Berlino. David stappò la bottiglia
di spumante, che prese a spruzzare schiuma in ogni direzione, sotto
le risate dei ragazzi.
Ricominciare
a vivere con quelle persone magnifiche al suo fianco.
Poteva
essere un buon proposito.
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Capitolo 17 *** Sixteen - Past, present and future ***
gggg
Sixteen
Past,
present and future
“Pungi,
sei fastidioso.”
Tom
sbuffò sonoramente, allontanandosi dalla gola di Ingie – dove
posava lievi baci da qualche minuto – e tornò a sdraiarsi a pancia
all'aria.
“Riesci
sempre a trovare il momento adatto per dire le cose.” borbottò
senza guardarla.
“Se
ti decidessi a farti la barba, ogni tanto...” ribatté lei,
punzecchiandogli la guancia ispida con un dito.
“Ti
è sempre andata bene, fino ad ora.” si lamentò lui.
“Beh,
la mia povera pelle comincia a chiedere pietà.”
Tom
schioccò la lingua contro il palato.
“Esagerata.”
commentò.
“Non
vedo perché io debba soffrire a suon di cerette mentre tu non ti
degni nemmeno di raderti.”
“Ma
che razza di discorsi fai?” La mora fece un verso simile ad un
grugnito e, con uno scatto, gli diede le spalle, abbracciando il
proprio cuscino. “Dì la verità, ti deve venire il ciclo.”
Non
poté fare a meno di sorridere, presa in castagna, e lanciare il
cuscino alle sue spalle, colpendolo in piena faccia. Lo udì ridere,
fino a che non la afferrò fra le braccia, prendendo a farle il
solletico.
“Piantala,
Piggy!” esclamò la mora, non riuscendo a fermare le lacrime
per il troppo ridere. “Ti odio, quando fai così!”
Improvvisamente,
Tom si fermò, immobilizzandola nuovamente sotto il suo corpo caldo e
ancora scosso da lievi risate. Ingie sentì una morsa allo stomaco,
nell'esatto momento in cui i loro occhi si catturarono a vicenda,
senza muovere un muscolo per secondi che parvero interminabili.
“Invece,
mi adori.” sorrise lui, sfiorandole il naso con il suo.
“Sei
un tantino presuntuoso.” gli fece notare, sollevando un
sopracciglio.
Lui
si limitò a chiudere gli occhi e carezzarle le labbra con le sue. La
scarica elettrica che Ingie percepì alla schiena fece un baffo ad
un'intera tempesta. Ogni volta che la baciava, percepiva il proprio
cervello sconnettersi ed ogni briciola di forza di volontà dare le
dimissioni.
Con
la bocca scese a saggiarle il mento, poi la gola – come qualche
attimo prima – lasciandole anche piccoli morsi che la fecero
sospirare piacevolmente.
Aveva
imparato a conoscere Tom da ogni punto di vista e si era ritrovata a
dover ammettere che, per quanto riguardava la sfera passionale, era
un amante con la A maiuscola. Il piacere che ogni volta le faceva
provare non era quantificabile. Si prendeva cura di lei con minuziosa
attenzione; non era egoista come la maggior parte dei ragazzi con cui
aveva avuto l'occasione di dormire, benché non fossero molti. Tom la
sapeva prendere; sapeva alternare momenti dolci ad attimi più
passionali. La sfiorava, la baciava, la assaggiava permettendole di
rifugiarsi per un momento su un mondo a parte, lussurioso e fatto di
perfezione. Poi la possedeva ed era proprio in quei momenti che Ingie
perdeva la capacità respiratoria. Le piaceva aggrapparsi al suo
corpo marmoreo ed imponente, nel bel mezzo della passione, le piaceva
sentire la pelle umida e calda a contatto con la sua, le piaceva
guardarlo negli occhi e leggervi ogni sfumatura di piacere. Le
piaceva sentire il suo fiato corto sul viso, le piaceva stare fra le
sue braccia muscolose; si sentiva tremendamente piccola fra di esse.
Più volte aveva pensato che Tom fosse per lei L'Uomo, quello vero,
quello possente, quello protettivo, nei momenti in cui si lasciavano
andare al sesso, ed il solo pensiero la faceva arrossire.
Sentì
le labbra del chitarrista scivolare sul suo petto – sulla T
impressa nella pelle – al di là del quale il cuore batteva
all'impazzata, per poi scendere sull'addome, dove stampò piccoli e
teneri baci. Poi riprese il cammino, sempre più in basso. Ingie
sentì il fiato venire meno e dei brividi percorrerle ripetutamente
il basso ventre, ma quando percepì la bocca del ragazzo posarsi
leggera sul suo inguine, si mosse appena, afferrandolo per il viso
con l'intenzione di farlo risalire.
Arrossì
non appena sentì una lieve risata.
“Volevo
vedere fin dove si spingeva la tua sfacciataggine.” le disse con un
sorrisetto ironico, quasi ridicolo, sul viso.
Lei,
per dispetto, gli tirò appena un rasta.
“Ti
diverti a mettermi in imbarazzo?” borbottò risentita, ma ancora
scossa da brividi di piacere.
“Non
credevo che una come te potesse essere in grado di provarne. Volevo
verificare.” fece divertito, carezzandole appena il collo con le
mani.
“Sono
una ragazza anche io, fino a prova contraria, e – udite, udite –
con un minimo di pudore.”
“Adesso
lo so.” Sospirò appena, circondandogli il bacino nudo con una
gamba. Lo vide sorridere con malizia. “Ora sei tu che provochi
spudoratamente.” le sussurrò.
Effettivamente,
percepì un certo eccitamento da parte del ragazzo, cosa che non poté
lasciarla del tutto indifferente. Lei scrollò le spalle con
espressione fintamente innocente che si tramutò ben presto in una
smorfia sorpresa ed appagata, non appena il chitarrista la fece di
nuovo sua, senza preavviso.
***
Non
avrebbe mai immaginato di pensare una cosa simile, ma le era mancato
lavorare. Tornare al negozio, assistere i clienti irritanti,
combattere con il mal di testa e litigare con le felpe che cadevano
dagli appendini era stato quasi piacevole. La compagnia di Ivan era
tornata ad allietarle le giornate ed uno strano buon umore le
impediva di imprecare.
Ammettilo,
ha a che fare con Piggy.
Scosse
la testa. Da giorni, quella dannata vocetta non faceva altro che
farle notare cose che nemmeno sotto tortura, su una sedia elettrica,
avrebbe ammesso. Piggy non c'entrava un bel niente con il suo
buon umore. A volte capitava anche a lei di essere serena senza alcun
motivo.
Come
no. Non sei più frustrata da quando hai ripreso ad avere una vita
sessuale.
Oh,
taci.
“Ciao.”
salutò cordialmente la ragazza che aveva appena fatto il proprio
ingresso al negozio. “Se hai bisogno, chiedi pure.” disse da
copione, per poi dirigersi al reparto delle scarpe e riordinare
alcune scatole.
Ormai,
vi stava prendendo gusto.
“Hey,
scusa.” udì una voce femminile alle sue spalle. Quando si voltò,
si trovò davanti la stessa ragazza che aveva accolto qualche attimo
prima.
“Sì,
dimmi.” le sorrise gentilmente.
“Dov'è
Ivan?” le domandò.
Ingie
si sorprese nel sentirle pronunciare quel nome.
“Oh,
è sceso un attimo in magazzino, arriva subito. Hai bisogno?”
rispose, facendo finta di nulla.
“Sì,
vorrei parlargli.”
La
mora la osservò ancora un attimo, mentre le dava le spalle e si
avvicinava al bancone in attesa di Ivan, e si chiese chi potesse
essere. Aveva un atteggiamento strano, quasi infastidito ed
estremamente severo. Di certo, aveva qualcosa di serio a che fare con
lui.
Improvvisamente,
la lampadina – a volte funzionante – nel suo cervello si accese.
Poteva essere l'ex fidanzata del biondo. D'altronde, Tom le aveva
confidato che Ivan si era lasciato da qualche mese con la sua ragazza
e che non l'aveva presa bene. Che fosse tornata per un chiarimento?
Come avrebbe reagito lui?
La
dannata curiosità cominciò a divorarle il cervello e, nonostante la
lontananza, fece di tutto per non perdere d'occhio la situazione.
Poi, vide Ivan in cima alla scala e non le sfuggì il cambio
repentino d'espressione.
Ci
ho preso.
Lo
vide avvicinarsi a lei, come sospettoso, per poi prendere a parlare.
Non riusciva a cogliere una sola parola e la cosa cominciava a darle
sui nervi.
Io
e la mia smisurata curiosità.
Non
poteva avvicinarsi e fare la figura dell'impicciona; così decise di
tenersi in disparte ed attendere il momento giusto per intervenire.
Non seppe dire quanto si protrasse quella conversazione ma, non
appena vide la sconosciuta uscire dal negozio, si avvicinò al
proprietario.
“Mi
chiedo come la gente abbia la faccia tosta di ripresentarsi dal
nulla, a questa maniera.” borbottò il ragazzo e ciò confermò la
tesi di Ingie. “Dopo quello che ha combinato, pensa di tornare come
se nulla fosse.”
“Non
sapevo chi era, mi dispiace. Ti voleva vedere ed io non pensavo fosse
lei.” si scusò la mora, mortificata.
“Figurati,
hai fatto bene. Probabilmente sperava che io le dessi l'occasione per
rimediare ai suoi danni.”
“Ci
sono ragazze che hanno perso anche l'ultima dose di dignità di cui
disponevano.”
Ivan
scrollò le spalle.
“Ormai
non ha più importanza.” commentò, prendendo a trafficare dietro
al bancone.
“E
tu cosa le hai detto?” domandò Ingie, posando le braccia su di
esso, piuttosto interessata.
“Di
non rompermi più le palle e, piuttosto, di andare a parlare al
diretto interessato.”
Ingie
aggrottò la fronte.
“Intendi
l'altro con cui sta?” chiese confusa. Ivan sollevò lo sguardo su
di lei, decisamente perplesso.
“Non
lo so se ora sta con un altro ma di certo a Tom non può fregar di
meno.” ridacchiò. Ingie sentì una fitta allo stomaco, come se un
enorme macigno le fosse planato lì senza preavviso, devastandola.
“Voglio dire, l'ha tradito. Cosa pretende?” Si sentì un'emerita
idiota. Come aveva potuto pensare che si trattasse dell'ex fidanzata
di Ivan? Era ovvio che gli dei del cielo le volessero stravolgere
quella giornata cominciata così allegramente. Ria. Come aveva
fatto a non arrivarci? Posò la fronte sulla sua mano, scuotendo
appena la testa, vergognandosi sempre di più della propria
stupidità. “Se si aspettava che io le facessi da portavoce, ha
sbagliato persona.” continuò il ragazzo, rancoroso; tipico di un
amico sinceramente protettivo.
“Ma
cosa ti ha detto, precisamente?” indagò, non sicura di volerlo
veramente sapere.
“Che
cerca un modo per parlare con Tom, che vuole chiarire... Cazzate. Non
è mai stata innamorata di lui; almeno non quanto lui lo è stato di
lei.” Cominciava a percepire il fiato farsi sempre più corto e si
chiese il motivo. Il punto era che non si sarebbe mai aspettata
quell'incontro; non si sarebbe mai aspettata che Ria Sommerfeld
tornasse nell'esatto istante in cui le cose fra lei e Tom... Non
sapeva nemmeno come potesse definirle. D'altronde, non la dava a bere
a nessuno. La loro relazione era circoscritta ad una camera da letto.
Al di fuori di essa, erano semplicemente amici, niente di più.
L'avevano voluto loro; avevano deciso loro che sarebbe stato solo
sesso e lei avrebbe potuto benissimo tirarsi indietro, ma non ne
aveva avuto il coraggio. Forse doveva solamente pagarne il prezzo.
“Mi domando come la possa prendere Tom.”
“Un
giorno, mi ha detto esplicitamente che, se si ripresentasse, non
tornerebbe a stare con lei.” cercò di parlare, forse più per
convincere se stessa e per ricevere una conferma da Ivan, che per il
semplice gusto di partecipare a quella conversazione. Fremette quando
Ivan fece una smorfia per nulla convinta.
“Purtroppo,
ho paura che si lasci trasportare, prima o dopo. Io so quanto l'ha
amata e non sono convinto che l'abbia dimenticata del tutto.”
Questa
volta, Ingie non trovò la forza di replicare.
***
“No,
non mi piace.”
Tom
sollevò gli occhi al soffitto, stando ben attento a non lanciare la
chitarra contro il muro – visto quanto gli era costata – e si
voltò verso suo fratello, che per l'ennesima volta aveva interrotto
la registrazione.
“Bill,
non capisco cos'è che non ti piace.” parlò Gustav, decisamente
perplesso, con le bacchette ancora in mano.
“Non
lo so.” borbottò il vocalist, alzandosi dalla sedia e prendendo a
camminare in lungo e in largo per la stanza con fare nervoso. “David
si aspetta un certo tipo di lavoro in un certo limite di tempo. Non
mi sento in grado di farlo.”
“Certo,
se continui a fermarci ogni cinque secondi.” intervenne Tom,
seccato. Bill si voltò verso di lui, quasi offeso.
“Scusami
se voglio produrre qualcosa di decente.” gli spuntò in faccia.
Tom
non sapeva mai come prendere suo fratello durante quei momenti. Era
incredibile come divenisse così insicuro e pignolo per ogni singolo
dettaglio del loro lavoro. Certo, lui era il primo ad essere
perfezionista a livelli nauseanti, ma Bill stava veramente
distruggendo ogni limite.
“Bill,
devi solo prenderla un po' più serenamente.” intervenne Georg, che
ancora teneva il basso in grembo. “Di questo passo non riusciremo
nemmeno a pubblicare il singolo.”
“Vorrà
dire che non lo faremo!” sbottò il cantante, allargando le braccia
con disperazione.
“Come,
scusa?!” si alzò dalla sedia Tom, fuori di sé. “Bill, mi hai
rotto il cazzo. Smettila di fare l'idiota e torna a posare il culo su
quella merda di sedia.” gli disse a denti stretti, tremendamente
vicino e più scurrile del solito. Il nervoso che provava nel sentire
tali ragionamenti era cosa conoscibile solamente a lui. Non poteva
esprimere pienamente ciò che sentiva quando suo fratello parlava a
quella maniera.
“Tu
invece smettila di darmi ordini.” sibilò il biondo, con sguardo
quasi carico d'odio.
“Ragazzi.”
li ammonì Gustav, probabilmente conscio dell'imminente litigio. “Per
favore, dobbiamo lavorare.”
Tom
si voltò di scatto verso il batterista.
“Dillo
a questo coglione!” esclamò indicando suo fratello con fare
esasperato.
“Coglione
lo dici a qualcun altro.” ribatté Bill, spingendolo appena da una
spalla.
“Okay,
adesso basta.” intervenne Georg, in mezzo ai due, non appena vide
Tom pronto a ricambiare il gesto con il doppio della forza.
“Possibile che dovete sempre finire col mettervi le mani addosso?”
fece, stufo.
“Alla
fine è sempre lui a cominciare.” commentò Tom, voltandosi per
tornare a sedersi.
“Non
interessa a nessuno chi comincia. Smettetela e basta.” si impose il
bassista.
“Bene.”
concluse Bill, uscendo dalla sala d'incisione e sbattendosi
violentemente la porta alle spalle.
“Ma
che cazzo succede, si può sapere?!” alzò la voce Gustav,
sollevandosi dalla sua postazione.
“Non
chiederlo a me.” borbottò Tom prima di alzarsi ed uscire anche lui
dalla sala, alla ricerca di suo fratello. Non riusciva a spiegarsi
quel suo assurdo comportamento e quella volta non vi sarebbe passato
sopra. Camminò con passo marcato per tutto lo studio, fino a che non
decise di controllare in giardino, dove effettivamente Bill era
intento a fumare nervosamente una sigaretta – seduto sul
pianerottolo – in compagnia dei cani che correvano davanti a lui.
Il chitarrista sospirò e gli si sedette affianco, per poi rubargli
una sigaretta dal pacchetto, senza pronunciare parola. Nemmeno Bill
gli disse nulla; neanche una lamentela. Inspirò un po' di fumo, per
poi buttarlo fuori con immensa tranquillità. “Che hai, Bill?”
gli domandò improvvisamente con tutta la calma possibile.
“Mi
sento un incapace.” parlò il vocalist, come previsto. In ventitré
anni di vita, aveva imparato come prendere suo fratello nei momenti
di estremo scazzo. Per questo non rispose, semplicemente lo lasciò
libero di esprimere tutto ciò che si teneva dentro. “È come se
avessimo buttato tutti questi anni di lavoro e concerti. Mi sento
come se dovessi ricominciare da capo.”
“È
l'ansia che ti viene ogni volta che devi produrre un nuovo album,
Bill. Non è nulla di nuovo.” gli fece notare.
“Devo
farmene una colpa se non riesco a reagire in maniera differente? Mi
sento sempre appeso a un filo, Tom. Come se la mia vita fosse
destinata a dover compiacere sempre qualcuno. Come se dovessi
preoccuparmi di soddisfare ogni singola aspettativa e mi pesa. Mi
pesa da morire.” si sfogò il biondo, lasciando che la sigaretta si
consumasse lentamente fra le sue dita.
Tom
sapeva bene cosa si provasse a dover accontentare sempre qualcuno.
Sapeva cosa significasse sentire quel tipo di stress e di peso,
quella sorta di responsabilità nei confronti del mondo intero.
Quell'ambiente era crudele; bastava fare un solo passo falso e la
loro carriera era segnata.
“Lo
so, Bill. Ma non possiamo roderci il fegato. Alla fine, come va, va.
L'importante è che ci sia salute ed affetto. Saranno cose scontate,
ma sono anche le più vere che io possa dire in questo momento.”
“A
volte non bastano.”
“Forse,
ma è già un buon punto di partenza.”
Bill
restò qualche attimo in silenzio, forse per riflettere su ciò che
gli aveva appena detto con pazienza. Non era la prima volta che Tom
si trovava a dover 'psicanalizzare' suo fratello ed ormai aveva
imparato ad utilizzare la giusta chiave di lettura.
“Sono
un idiota.” mormorò Bill, facendolo scoppiare a ridere.
“Un
pochino.” scherzò, tirandogli un lieve pugno sul braccio. “Più
che altro, dobbiamo già sopportare la fase mestruale di Ingie –
che tra l'altro non ha mai fine; non vorrei dover fare lo stesso con
te.” cercò di sdrammatizzare, riuscendo a farlo sorridere.
“Torniamo dentro?” domandò poi, dopo aver spento la sua
sigaretta.
Bill
annuì appena rimettendosi in piedi e Tom fece la stessa cosa, fino a
che il suo cuore non si fermò.
Capelli
rossi, carnagione olivastra, occhi a mandorla color cioccolato. Prese
a tremare.
Il
suo sguardo non si spostò, come scioccato, dalla ragazza che sostava
al di là del cancello, in silenzio, immobile, scrutandolo quasi con
un forte senso di colpa o non sapeva cos'altro. La sua mente stava
accavallando pensieri senza porvi un ordine preciso ed ebbe quasi
paura che gli esplodesse da un momento all'altro.
Perché
era tornata? Perché era lì, a qualche metro da lui, a guardarlo
quasi con affetto? Il suo stomaco si strinse in una morsa ma non
seppe dire se fosse per la rabbia smisurata che provava nei suoi
confronti o per la nostalgia.
Bill,
al suo fianco, si era altrettanto immobilizzato, fissando Ria con
espressione indecifrabile.
“Tom.”
mormorò insicuro.
“Vai
dentro, Bill.” gli disse senza staccare gli occhi dalla ragazza che
fino a qualche mese prima riteneva l'amore della sua vita. Sentì il
tocco della mano del vocalist stringersi sul suo braccio, come ad
infondergli coraggio, prima di sentire la porta chiudersi alle sue
spalle.
Prese
a camminare insicuro verso di lei, dimenticandosi di distogliere lo
sguardo di tanto in tanto, fino a che non le fu di fronte, al di là
del cancello.
“Ciao.”
lo salutò lei inespressiva. Lui fece un semplice gesto con la testa;
probabilmente la osservava confuso o con odio. “Posso entrare?”
gli domandò per la prima volta remissiva.
Tom
indugiò.
Farla
entrare o no? Farle riprendere un contatto con la loro vecchia vita?
Risvegliare in lui ricordi che avrebbero fatto solo male?
Premette
il pulsante che aprì automaticamente il cancello.
“Che
ci fai, qui?” gli venne spontaneo chiedere, freddamente. Non
dimenticava; non dimenticava tutto il dolore che aveva vissuto a
causa sua.
“Vorrei
parlarti.” rispose lei, forse troppo pretenziosa per i suoi gusti.
“Parlare?
Di cosa?” fece lui, scettico, mentre il cancello si richiudeva alle
spalle della rossa.
“Possiamo
entrare?” cambiò discorso lei, cosa che lo fece innervosire
maggiormente.
“Non
saresti degna nemmeno di calpestare questo giardino.”
Lei
sorrise appena, amaramente.
“Mi
odi.” mormorò consapevole.
“No,
non ti odio. L'odio è comunque una forma d'amore.” la corresse
lui. “Mi fai schifo. Questo sì.” La osservò annuire appena con
espressione colpevole ed un lieve sorriso sul volto. “Come fai a
tornare e chiedermi di parlare dopo quello che hai fatto?” le
domandò quindi, sinceramente curioso.
“Penso
che a tutti vada data la possibilità di spiegare. Tu non me l'hai
data.”
“Non
te l'ho data?!” alzò la voce lui, mentre la rabbia cominciava a
scaldargli pericolosamente il corpo. “Ne avevi il bisogno?! Ti ho
trovata direttamente a letto con quel cazzone! Che razza di
possibilità ti dovevo dare?!”
“Almeno
ti avrei spiegato il motivo.”
Si
sentiva sempre più preso in giro e non sapeva se ridere o sputarle
in faccia.
“Sinceramente,
non me ne frega un cazzo. E mi sembra anche assurdo stare qui ad
ascoltare e farmi prendere per il culo da una pazza, psicotica con
seri problemi di autostima e di memoria.”
“Non
ti sto prendendo per il culo. Voglio solo spiegarti cosa mi passava
per la testa in quel periodo.”
“Ria,
non mi interessa cosa diamine ti passasse per la testa in quel
fottuto periodo! Hai una vaga idea di cosa passasse per la mia,
quando ti ho vista con quello?!” Merda. La sua voce si era
incrinata appena, a causa di un forte magone che forse non aveva mai
provato nella vita, ma non aveva intenzione di darle anche quella
soddisfazione. “La verità è che sei solo una stronza, egoista,
che ora prova anche a fare la vittima, ribaltando la situazione. Non
hai proprio un briciolo di dignità, vero?”
“Tom,
mi sentivo trascurata.”
Il
chitarrista sgranò gli occhi come impazzito. Sentiva un'ira del
tutto nuova, che non gli apparteneva, prendere il sopravvento. Quasi
ebbe paura di metterle le mani al collo.
“Non
mi fai solamente schifo, mi fai venire voglia di vomitare.”
cercò di mantenere la calma, mentre il cuore batteva furioso in
petto. “Io ti ho dato tutto, Ria. Tutto. Lo sapevi bene che
eri la prima ragazza di cui mi ero follemente innamorato e sapevi
anche che paura fottuta avevo. Ti ho dato anima e corpo. Ti ho dato
la mia fiducia e tu l'hai calpestata senza indugi. Ti ho sempre detto
che eri la donna della mia vita e sai quanto mi sia costato
pronunciare certe parole; eppure l'ho fatto perché lo sentivo. Ho
ripetuto di amarti innumerevoli volte; ti ho chiamato durante il tour
fino alla nausea, pur di sentirti vicina. Ti ho accolto nella mia
vita, così come mio fratello. Ti abbiamo amata tutti. Non mi venire,
ora, a rifilare la stronzata del 'mi sentivo trascurata', perché non
attacca. Mi fa solamente incazzare di più.”
“Tutto
quello che dici è vero. Ma io non riuscivo più a sopportare la
lontananza.”
“La
lontananza o l'astinenza? Sai, sono due cose estremamente
differenti.”
Aveva
pronunciato quella frase con un sarcasmo cupo, acido, quasi cattivo.
“Non
scherzare. Lo sai che ti amavo.” mormorò lei, come offesa.
“Cazzo,
Ria!” urlò Tom fuori di sé. “Chi ama non tradisce! Io non ti ho
mai tradito! Mai! E sai benissimo che avevo migliaia di occasioni per
farlo! Avevi bisogno di scopare?! Non riuscivi ad aspettare il mio
ritorno? Cazzi tuoi. Sai, anche io, ogni tanto, avevo bisogno di
scopare, ma non andavo ad inseminare in giro!”
“Parli
di me come fossi una prostituta.”
Tom
le scoccò un'occhiata assassina.
“Devo
seriamente commentare?” sibilò rancoroso. Dei semplici insulti non
potevano bastare per farle realmente comprendere quanto fosse
insignificante di fronte a lui. “Toglimi una curiosità. Cosa
pensavi di ottenere, oggi, venendomi a parlare?” le domandò
quindi, presagendo la risposta.
“Pensavo
di poter spiegare con calma la mia posizione, chiederti scusa e
provare a ricominciare.”
“Ricominciare?
E tornare nella merda proprio ora che sto ricominciando a vivere? Se
non riesci a trovare qualcuno con cui fare sesso, sappi che io non
riuscirei nemmeno più a toccarti senza avere conati. Cercati qualcun
altro.”
“Non
è per il sesso, non fare finta di non saperlo.”
“Io
non so più niente, Ria. Hai idea di quanto io ora faccia fatica a
fidarmi di nuovo di qualcuno? Hai idea di quanto io faccia fatica ad
immergermi in una nuova storia, da capo? E vorrei tanto poterlo fare,
credimi.”
“Possiamo riprovarci, insieme.”
“Forse
non hai capito che 'insieme' non esiste più. Non esiste più un
'noi', non esiste più un bel niente. Ti sei solamente resa ancora
più ridicola venendo qua.”
“Io
ti amo ancora.”
Tom
ignorò la fitta che percepì allo stomaco.
“Mi
fai veramente pena. Ora vattene, dovrei lavorare ad un album,
decisamente più importante di una buffona come te.” le disse a
denti stretti, schiacciando nuovamente il pulsante del cancello, ma
lei non sembrava volersi muovere. “Esci.” le ordinò. “E fammi
il favore di non farti mai più vedere.”
“Stai
sbagliando.” rispose lei, convinta. Tom strinse i pugni.
“Non
ti metto le mani addosso solo perché sei una donna.” commentò
gelido. Lei non disse più una parola, si limitò a guardarlo dritto
negli occhi mentre indietreggiava, fino ad uscire dal giardino.
“Addio, Ria.” disse più a se stesso, una volta che il cancello
si richiuse davanti al suo sguardo.
***
“Quella
stronza, megera!” esclamò Bill, continuando a camminare avanti e
indietro per lo studio, con un diavolo per capello. “Lo sapevo che
prima o poi sbucava di nuovo, come i funghi velenosi!” continuò,
sotto gli sguardi preoccupati di Georg e Gustav, seduti sul divano in
attesa.
Bill
era fuori da ogni grazia. Non si spiegava come fosse possibile che
quella ragazza avesse la faccia tosta di ripresentarsi come nulla
fosse, dopo il male che aveva fatto a suo fratello. Aveva sentito il
suo stesso dolore sulla pelle, per quel loro legame così forte e
viscerale; aveva sofferto, pianto per lui. Poi aveva ricominciato a
sperare assieme a lui in qualcosa di nuovo, in qualcosa di positivo.
Rivedere Ria era stato come prendere un intero macigno in testa; come
se tutti gli sforzi che aveva fatto Tom fino ad allora fossero stati
del tutto vani. Aveva persino cominciato a vedere in Ingie una sorta
di via d'uscita per il suo smarrimento ed ora si ripresentava la
donna che Tom aveva amato con tutto se stesso, per la prima volta in
vita sua. Era semplicemente ingiusto.
“Stanno
ancora discutendo?” domandò Georg, nervoso. “Dio, spero la mandi
a cagare.”
“Confido
nel suo buon senso.” aggiunse Gustav, con una gamba sussultante.
“Se
dovesse tornare a star male per lei, giuro che la vado ad uccidere.
Non proprio ora che si stava risollevando; non proprio ora che
abbiamo da lavorare e da essere concentrati.” continuò Bill, in
preda ad una crisi isterica. “Lo sapevo, lo sapevo che succedeva
qualcosa! Ero nervoso oggi! Sono un dannato uccello del malaugurio!
Io me le sento, le cose!”
“Bill,
calmati. Agitarsi ora non serve a nulla. È tutto nelle mani di tuo
fratello.” intervenne il bassista.
“E
se dovesse darle un'altra opportunità? Io non la rivoglio in casa!”
si disperò il biondo.
Sentiva
la paura, quella vera, montare sempre più violenta dentro di sé.
Improvvisamente,
udirono la porta dello studio aprirsi con un lieve scatto. Tutti si
voltarono in allerta in quella direzione e videro Tom rientrare
appena scosso. Quando richiuse la porta, Bill ebbe un fremito. Lo
vide sollevare lo sguardo, cercare il suo e sospirare lievemente.
“L'ho
mandata via.”
Non
pensò un secondo di più: corse ad abbracciare il suo fratellino con
tutta la forza che aveva.
***
Aveva
lasciato il negozio con una stanchezza immane. Lavorare si era alla
fine rivelato più faticoso del previsto, nonostante i buoni
propositi con cui aveva dato il ben venuto a quella giornata. Aveva
passato il tempo a rimuginare sulle parole di Ivan con un'immensa
paura che potessero rivelarsi veritiere. Non sapeva il motivo; aveva
creduto fino a quel momento di non essere emotivamente coinvolta dal
chitarrista ma si era sbagliata. Era la pura verità; per lei, Tom
non rappresentava semplicemente qualcuno con cui fare sesso, l'aveva
sempre saputo ma non aveva mai voluto ammetterlo, nemmeno a se
stessa. Non era innamorata, ma non poteva nemmeno dire di sentirsi
totalmente indifferente a ciò che sarebbe potuto accadere con Ria.
Forse era semplicemente il suo orgoglio femminile ad agire, ma il suo
stomaco non le avrebbe dato il tormento tutta la mattina con fitte
insopportabili, se fosse stato veramente così. Non aveva fatto altro
che pensare al ragazzo e sperare intimamente che ciò che le aveva
detto tempo prima – sul fatto di non voler tornare con Ria –
fosse vero. Si sentiva un'egoista; non poteva sperare una cosa
simile, loro non sarebbero diventati nulla di concreto e lo sapeva
bene perché era la prima a credere fermamente che non fossero fatti
per stare insieme. Quindi perché pretenderlo tutto per lei? Si
odiava perché era una contraddizione vivente.
Camminò
lungo il marciapiede, fino a che non giunse in palestra. Non voleva
tornare allo studio; non vi era un motivo preciso, sapeva solamente
che non le andava ancora di vederlo.
“Ciao.”
parlò alla proprietaria, in segreteria. “Tom mi ha detto che ha
prenotato a mio nome una sala per il ballo.”
“Sì,
per tre giorni a settimana.” sorrise la donna. “Ecco la chiave.”
Ingie
la afferrò e la ringraziò, per poi camminare alla ricerca della
sala. Il suo cuore batteva all'impazzata perché non aveva previsto
di provare nuovamente a ballare, per la prima volta, proprio quella
mattina. Ricordava che, quando ancora viveva a New York e la sua vita
era quasi perfetta, si rifugiava nel ballo non appena si sentiva giù
di morale. Voleva vedere se funzionava ancora.
Non
appena fece il suo ingresso a destinazione e richiuse la porta per
stare in solitudine, si guardò attorno mentre un mucchio di ricordi
tornavano a farle visita. Il parquet chiaro, gli enormi specchi
addossati alla parete, le sbarre su quella opposta ed uno spazio che
quasi la fece sentire minuscola. Voltò lo sguardo e notò uno stereo
con delle casse enormi, posizionate su ogni angolo di quella stanza.
Le
prudettero le mani; esitava.
Hai
promesso che avresti ricominciato a vivere, le disse la voce che
ormai aveva preso residenza nella sua testa. Così, decisa, posò la
borsa a terra e si avvicinò allo stereo. Alcuni cd erano posati in
pila, a disposizione. Si sorprese nel constatare che vi era un cd per
ogni genere musicale e sorrise non appena afferrò il suo.
Hip
hop.
Quanto
tempo era passato prima di tornare a leggere quella parola. Le due
acca stampate sulla sua pelle non erano paragonabili. Con mani
tremanti – aveva paura di romperlo – estrasse il disco e lo
inserì nel lettore.
Play.
Un
ritmo familiare ed incalzante prese a riempire l'intera sala,
facendola sorridere commossa. Quasi non si accorse di restare
immobile per istanti interminabili. Si era persa nell'ascoltare
quelle note tanto amate, dimenticandosi di muoversi. Era troppo tempo
che non percepiva di nuovo quelle magnifiche sensazioni.
Si
asciugò una piccola lacrima che le era scappata al controllo,
sorrise appena e si voltò, dirigendosi al centro della sala e
posizionandosi di fronte allo specchio. I muscoli presero a muoversi
da soli, come avessero saputo fin dall'inizio cosa fare e come farlo.
Una sensazione di benessere, di libertà, di leggerezza; la
sensazione di volare.
Stava
ballando. Stava ballando di nuovo.
Chiuse
gli occhi e sorrise, continuando a muoversi a ritmo della musica R&B.
Non
le sembrava vero. Aveva quasi voglia di piangere, ma era troppo
felice per farlo.
E
intanto un pensiero costante le trapanava il cervello.
Sarò
grata a Tom per sempre.
***
Non
appena entrò allo studio, senza fare il minimo rumore, una dolce
melodia le catturò l'attenzione. Spostò lo sguardo alla sua destra
e vide Tom darle le spalle, seduto sul divano, intento a carezzare le
corde della sua chitarra acustica con estrema gentilezza. Sorrise
appena. Ricordava il giorno in cui aveva assistito al suo concerto;
era rimasta semplicemente strabiliata dalla bravura del chitarrista,
ma soprattutto della sua dolcezza e della sua sensibilità
nell'esatto istante in cui aveva fatto scivolare le sue dita sul
piano di vetro. Le note che produceva in quell'esatto istante erano
per lei piene di sentimento, piene di una malinconia tangibile ma
anche di un amore incommensurabile. Sapeva che Tom aveva due amori
nella vita: la sua famiglia e la musica. Due nuclei da cui non poteva
prescindere. Da quel punto di vista, avrebbe potuto affermare fossero
identici.
Gli
si avvicinò appena alle spalle, in silenzio, per poi fare il giro
del divano e sederglisi accanto. Lui, sorpreso, si fermò,
sorridendole.
“Era
da un po' che non ti sentivo suonare.” parlò lei, sinceramente
compiaciuta. Lui scrollò le spalle, senza abbandonare il suo sorriso
lieve, ed abbassò lo sguardo sulla chitarra ancora in grembo.
“Ne
avevo bisogno.” mormorò. “Mi aiuta sempre.”
“Pare
che oggi abbiamo ripreso le cose che più amiamo, entrambi.”
sorrise lei, dolcemente.
Lui
si voltò nuovamente verso di lei, sorpreso.
“Hai
ballato?” le domandò, speranzoso. Lei annuì appena, serena e
grata. “Sono contento, Ingie. Davvero.” le disse, sincero.
“Beh,
è successo grazie a te, quindi...” Non seppe come portare avanti
quella frase, quindi decise semplicemente di abbandonarla in sospeso,
lasciando intendere cose che sapeva avrebbe capito. Lui, in risposta,
sorrise ed annuì impercettibilmente. “Come mai suoni? Cos'è
successo?” decise di cambiare discorso, poggiandosi meglio contro
lo schienale del divano con un braccio.
Lui
distolse nuovamente lo sguardo, scrollando le spalle. Sembrava avesse
timore di dirle una verità che, purtroppo, già immaginava.
“È
successa una cosa che mi ha un po' sconvolto.” Quella frase non le
piacque per niente; non le sembrava di buon auspicio. “Ho rivisto
Ria.” Nonostante lo avesse quasi dato per certo, sentirgli
pronunciare quelle parole le causò una forte fitta allo stomaco. Era
incredibile come le sembrasse di vivere in un film e non voler
sentire altro, perché già conscia di come le cose si sarebbero
concluse. “Non me lo aspettavo.” ammise. Ingie non disse una
parola; non aveva idea di come poter replicare, mentre la morsa allo
stomaco si faceva sempre più forte. “Ho provato rabbia. Tanta
rabbia.” parlava lentamente, come volesse pesare le parole da
pronunciare perché toccavano lui per primo. “Lei è così. Se ne
va quando stai bene con lei e torna quando stai bene senza di lei.”
Ingie non sapeva più cosa pensare. Sapeva solo che il suo cuore
minacciava di sfondarle il petto. “Sai cosa mi ha detto?” le
domandò poi, senza guardarla. “Che si sentiva trascurata.” Tom
restò qualche attimo ad osservarsi le mani riunite e poi nascose il
viso fra esse. “Cristo.” sussurrò con nervoso. Ingie si sentiva
sempre più a disagio; si sentiva tremendamente fuori luogo, come non
fosse lei la persona adatta alla quale fare confidenze simili.
Effettivamente, lei era l'ultima persona raccomandata per ascoltare
tali parole, ma non aveva il coraggio di respingerlo. “Ria ha
conosciuto tutto di me, anche le mie debolezze. Mi sono messo
completamente a nudo con lei e sa quello che ho fatto per tenere
salda la nostra storia. Mi sento un idiota.” Ingie si strinse nelle
spalle, posando lo sguardo altrove. Poi sentì il chitarrista
sospirare, scuotendo la testa. “Scusa, non dovrei parlare di questo
con te.” mormorò, tornando a guardarla.
Lei
sorrise appena, scrollando le spalle.
“Figurati.
Non stiamo mica insieme.” rispose lei, senza incrociare il suo
sguardo.
“No,
però... Stiamo condividendo comunque qualcosa.” rispose Tom.
“La
camera da letto?” fece lei con sarcasmo, forse troppo pungente. Tom
aggrottò la fronte.
“Ingie,
vuoi cancellare tutte le confidenze che ci siamo fatti? Noi
condividiamo cose che nessun altro sa. Mi dispiace sentirti parlare
così.”
Ingie
si sentì tremendamente in colpa. Era stata cattiva a fare
quell'uscita infelice. Era vero, lei e Tom condividevano tanto della
loro vita, non condividevano solamente il sesso.
“Scusami.”
mormorò. Si schiarì appena la voce. “Beh, com'è finita?”
domandò quindi, cercando di guardarlo.
“L'ho
mandata via.”
Ingie
sollevò le sopracciglia, non seppe dire se con sorpresa o con
scetticismo.
“L'hai
mandata via?” ripeté ed il chitarrista annuì tranquillamente.
“Non
potrei mai tornare a stare con una persona che mi ha deluso così
tanto. Anche se mi emoziona ancora, in fatto di ricordi. Non sono più
innamorato di lei; non mi fido più, sono deluso. Non riuscirei più
a toccarla senza provare schifo o a vivere le giornate con lei come
nulla fosse successo. È stata una parentesi della mia vita.
Un'importante parentesi, ma ora non ha più importanza.”
Sorpresa,
incredulità... Sollievo.
Erano
troppe le emozioni che toccavano il cuore di Ingie e si sentì
improvvisamente stupida per aver trascorso la mattinata a logorarsi
stomaco e cervello, pensando a quella situazione. Ancora di più per
provare quella strana forma di gioia, che mai si sarebbe
aspettata di provare per lui.
Distolse
lo sguardo quasi imbarazzata per l'espressione da ebete che sapeva la
sua faccia aveva assunto e si sentì ancora più idiota quando lo udì
sorridere appena, probabilmente divertito dalla sua reazione.
“Capisco.”
fece, vaga, cercando di alleggerire la situazione. “Beh, io vado a
farmi una doccia.” aggiunse poi, alzandosi dal divano, sotto lo
sguardo fastidiosamente divertito del chitarrista. “Smettila,
Piggy.” borbottò, facendolo scoppiare a ridere.
Nulla
era cambiato.
***
Osservava
le lacrime di Kayla scorrere sul suo volto, mentre reggeva con mani
tremanti la fotografia stampata. Luke lesse in quello sguardo tutto
il dolore di una madre che aveva perso tutto. Un figlio, per
un'ingiustizia che ancora non si spiegavano, ed una figlia per non
sapevano quale assurdo motivo.
“Sì,
è lei.” mormorò la donna, ancora singhiozzante. “Sai dove possa
trovarsi?” chiese poi, speranzosa.
“Sì,
ho fatto delle ricerche. So che i Tokio Hotel, attualmente, si
trovano in Germania. Pare a Berlino.” rispose lui. La vide chiudere
gli occhi, facendo scivolare altre lacrime salate. “Io ho
intenzione di partire, Kayla.” aggiunse, facendole sollevare lo
sguardo su di lui.
“Lo
faresti davvero?” domandò lei, incredula e grata al tempo stesso.
Lui annuì convinto; nemmeno lui poteva starsene ad attendere un
ritorno che sapeva non ci sarebbe mai stato. Conosceva la sua
cocciutaggine. “Grazie, Luke. Davvero.”
***
Si
era buttata sul letto, con la pancia rivolta al materasso, non appena
ne aveva avuto l'occasione. Il mal di schiena lancinante che l'aveva
colpita spudoratamente quasi non le dava la forza di sollevare la
testa. Guardava con la coda dell'occhio la televisione accesa alla
sua sinistra, un canale di musica, senza seguirlo realmente. Le era
capitato di assistere ad un video musicale dei Tokio Hotel, che
l'aveva fatta sorridere. I ragazzi, dopo cena, si erano rintanati in
sala a suonare, con la ferma intenzione di produrre qualcosa di
orecchiabile, sotto le imprecazioni di un Bill piuttosto agitato.
Buttò
lo sguardo sulla radiosveglia e notò che erano già le undici di
sera.
Avrebbe
tanto voluto dormire, ma quel dolore insopportabile le impediva di
chiudere solamente gli occhi. Avrebbe dovuto immaginare che tornare a
ballare dopo mesi di ozio totale non sarebbe stata la cosa più furba
da fare, soprattutto senza un minimo di riscaldamento e senza prima
un corretto allenamento in palestra, come le aveva intelligentemente
suggerito Tom. Odiava dovergli dare ragione, ma non aveva resistito
alla tentazione.
Quando
sentì bussare alla porta, alle sua spalle, non si scomodò.
“Avanti.”
borbottò, senza staccare gli occhi dal televisore. Udì la porta
aprirsi e richiudersi, poi percepì il materasso sotto di lei
sobbalzare appena, fino a che il suo sguardo non venne incrociato da
quello di Tom, che si era sdraiato accanto a lei. “Mi copri la
visuale.” gli fece notare, senza il minimo cambio d'espressione.
Tom
schioccò la lingua contro il palato.
“La
mia non ti basta?” fece, ironico. Ingie sorrise appena. Aveva
sentito un brivido ed un'improvviso desiderio di baciarlo, ma non si
mosse. “Stai male? Non reagisci.” ridacchiò lui sorpreso.
“Mi
fa male la schiena.” mormorò lei.
Le
venne voglia di prenderlo a testate, non appena lo vide sorridere con
sarcasmo, misto a soddisfazione.
“Io
te l'avevo detto di fare esercizio.” la bacchettò, prendendo però
a passarle una mano sulla schiena.
Ingie
si impegnò per non arrossire e stringersi a lui. Forse era la
debolezza, ma aveva una voglia tremenda di farsi coccolare.
Improvvisamente,
vide Tom alzarsi appena col busto e sparire dietro di lei; poi lo
sentì mettersi a cavalcioni sulle sue gambe, senza pesarle addosso.
“Cosa
stai facendo, Piggy?” domandò, sospettosa.
“Alle
terme ti avevo detto che ero bravo con i massaggi. È giunto il
momento di provartelo.” si vantò, per poi sollevarle la maglietta
del pigiama, fino a sfilargliela delicatamente.
“Sicuro
che non sia una scusa per finire a fare altro?” domandò lei
scettica, non appena lo sentì slacciarle il reggiseno.
“Può
darsi.” sorrise lui, per poi posare le mani calde sulla sua
schiena, la quale prese a riempirsi di brividi. “Però vedo che non
sei indifferente alla cosa nemmeno tu.” la beffeggiò,
probabilmente notando la pelle d'oca.
“Se
devi fare questo massaggio, per lo meno taci.” borbottò, beandosi
del tocco delicato del ragazzo. Faceva scorrere le mani sulle sue
spalle, premendo in punti che la facevano sospirare appena, per poi
farle scendere fino alla fine della colonna vertebrale e tornare
indietro per ripetere il percorso. “Mi scoccia ammetterlo, ma sei
mostruosamente bravo.” sussurrò, chiudendo gli occhi, estremamente
rilassata.
“Io
non racconto palle.” lo sentì sorridere, continuando a
massaggiarle la parte centrale della schiena.
Alternava
pressioni a carezze delicate; si sentiva in paradiso.
Improvvisamente
però, le venne in mente una questione di cui avrebbero dovuto
trattare.
“Ascolta,
Piggy, dobbiamo parlare.” esordì, forse con un tono troppo
serio, che portò il chitarrista a fraintendere.
“Sei
incinta?” domandò, immobilizzandosi. Ingie sollevò un
sopracciglio e si voltò appena per scrutarlo con la coda
dell'occhio.
“Mi
domando come tu possa vivere con una coscienza tanto sporca.”
commentò. “Volevo parlare della mia permanenza qui.” chiarì,
rimettendosi a posto. Tom sembrò tirare un sospiro di sollievo,
riprendendo a massaggiarla.
“Ovvero?”
le chiese, curioso.
“Ovvero,
penso che con il mio stipendio, io stia arrivando a permettermi di
pagare un affitto.”
Sentì
il suo tocco rallentare appena ma senza fermarsi.
“Vuoi
andartene?” le domandò. Le parve quasi timoroso della sua
risposta.
“Beh,
i patti erano questi. Mi avreste ospitato fino a che non fossi
riuscita a pagare un affitto altrove.” spiegò lei come niente
fosse.
“Sì,
ma – ” borbottò Tom. Lo sentì fare una pausa. “Non so, non –
”
“Cosa,
Tom?” lo incoraggiò lei.
“Non
è un po' presto? Voglio dire, sei sicura di poterti permettere un
affitto con il tuo stipendio?”
“Beh,
magari non subito, ma fra pochi mesi.”
Non
lo sentì più parlare. Pensò stesse riflettendo per conto suo, così
nemmeno lei pronunciò parola, continuando a godere di quel massaggio
rilassante. Si chiese cosa gli passasse per la testa; era riuscita a
percepire quanto il chitarrista non fosse d'accordo con quella sua
decisione e si chiese il motivo. D'altronde era ciò che avevano
stabilito fin dall'inizio. Inoltre, non le sembrava giusto continuare
a gravare su di loro.
“Perché
non rimani qui?”
Quella
domanda, posta con tanta insicurezza, la fece fremere.
“Tom
– ” cominciò, ma lui la interruppe.
“Tutti
si sono affezionati a te. Non abbiamo mai più parlato di questa
cosa. Ormai, ci siamo abituati ad averti intorno. Un coinquilino in
più che problemi ci potrebbe mai dare?”
“Non
è quello, Tom. Non posso stare da voi senza pagare un centesimo. E
poi, voi avete la vostra vita, io dovrei cercare di ricominciare la
mia.”
“Ricominciala
con noi.” Quella frase la toccò dritta al cuore. “E se ti
tormenta la questione dei soldi, vorrà dire che invece che pagare
l'affitto di un'altra casa, pagherai quello dello studio.”
Ingie
non sapeva cosa rispondere. Quel discorso, fatto con così tanta
speranza da parte del chitarrista l'aveva quasi scioccata. Non se lo
sarebbe mai aspettata, ma le aveva fatto piacere. Si sentiva quasi
amata.
“Io
non – ” cominciò, insicura.
“Pensaci,
almeno.” la interruppe di nuovo. Ingie non aggiunse altro. Sì, vi
avrebbe pensato. Sospirò a stento e chiuse nuovamente gli occhi. Con
il braccio steso lungo i fianchi, cercò la gamba di Tom; quando la
trovò, gli tirò appena i peli del ginocchio. “Hey!” esclamò
lui, dandole uno schiaffetto sul sedere.
“Ogni
scusa è buona per toccarmi il culo, vero?” commentò lei, con
sarcasmo.
“Non
ho bisogno di scuse. Quello, posso toccartelo quando voglio.” disse
sicuro, tornando a carezzarle la pelle delle spalle.
“Mh.”
fece lei. “Io, fossi in te, starei attento a parlare con così
tanta sicurezza; potresti ritrovarti a bocca asciutta.
“Certo.”
la beffeggiò lui.
Improvvisamente,
percepì le labbra morbide del chitarrista posarsi all'inizio della
colonna vertebrale, dietro al collo.
“Piggy.”
lo ammonì, percependo un brivido al bassoventre.
“Che
c'è?” lo sentì sorridere sulla sua pelle, prendendo a seguire la
colonna vertebrale con la bocca, con lentezza disarmante. “Lasciami
fare.” le sussurrò poi, facendola rabbrividire. Con i denti le
stuzzicò il lato destro del collo, per poi inumidirlo appena con la
lingua.
Oh,
Cristo, fu tutto ciò che la sua mente riuscì a formulare.
Le
sue mani avevano preso a vagare per il suo corpo con dolcezza, mentre
scendeva a darle baci leggeri lungo la schiena. Sentiva di non
riuscire a mantenere il controllo; avvertiva brividi lungo tutto il
corpo che la fecero agitare impercettibilmente. Maledì il fatto che
Tom ci sapesse fare.
Le
baciò un fianco, poi risalì, accompagnando il tutto con i movimenti
delle sue mani che non smettevano di massaggiarla e carezzarla.
Ingie
stava per spiccare il volo verso un altro pianeta, molto lontano
dalla Terra.
Tornò
a mordicchiarle il collo e stavolta non riuscì a trattenere un lieve
gemito. Odiava quella sensazione di attesa; la stava uccidendo.
“Tom.”
si lamentò appena, mentre lo sentiva baciare con una maggiore
pressione quel lembo di pelle.
Lui
fece finta di non udirla, ma poté perfettamente accorgersi che fosse
eccitato quanto lei. Sentì il suo petto caldo schiacciarsi sulla sua
schiena nuda, senza pesarle addosso, e la maglietta che indossava le
sembrò una crudele costrizione. Lui parve essere dello stesso
parere, infatti lo sentì allontanarsi leggermente, per poi tornare a
sovrastarla, libero dal cotone.
Quel
massaggio stava divenendo qualcosa di altamente erotico e non era
sicura di riuscire a subire ancora per molto.
Lui
le baciò con dolcezza una guancia, avvicinandosi sempre di più
all'angolo della sua bocca, senza mai toccarla davvero. Il suo
profumo le stava inebriando le narici e le sue mani grandi di certo
non l'aiutavano. La musica in sottofondo rendeva quell'atmosfera
ancora più lussuriosa.
“Girati.”
quel sospiro da parte di Tom la fece quasi morire.
Non
tardò a fare come le aveva chiesto e buttarsi fra le sue braccia,
lasciandosi travolgere dalla passione ancora una volta.
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Capitolo 18 *** Seventeen - The best or the worst ***
aaaaaaaaa
Seventeen
The
best or the worst
Bill
era da giorni tormentato da un dubbio.
Osservò
suo fratello mangiare in tutta tranquillità la propria insalata,
senza accorgersi della sua attenzione.
Un
enorme dubbio.
Spostò
lo sguardo su Ingie, al suo fianco, intenta a fare la medesima cosa.
Assottigliò
gli occhi, come sospettoso.
Quella
mattina, aveva sorpreso suo fratello uscire dalla stanza della
ragazza come un ladro, in punta di piedi. Se aggiunto agli strani
comportamenti e alla particolare alchimia che legava Tom ed Ingie da
qualche tempo, poteva essere considerato alquanto sospetto.
Era
ovvio che gli stesse nascondendo qualcosa.
Forse,
stava lavorando eccessivamente con la fantasia, ma quante possibilità
potevano esserci per un ragazzo ed una ragazza, da soli in una camera
da letto, oltre a seguire l'istinto animale? Conosceva suo fratello
fin troppo bene e qualcosa gli diceva che non gli avesse riferito
tutto.
“Oggi,
vi ho messo un'intervista alle tre e mezza.” parlò David, seduto a
capotavola.
Avevano
ricominciato con le interviste ed i servizi fotografici. Era
incredibile quanto i giornali tornassero ad avere fame di notizia,
non appena cominciava ad avvicinarsi la data di uscita del nuovo
album. A dire il vero, erano ancora lontani dal farlo, ma avevano già
sparso la voce, suscitando così l'interesse altrui.
“Fantastico.”
borbottò Georg con la bocca piena. “Quasi preferivo starmene in
vacanza.”
“Oziare
non fa per te, Hobbit. Sei ingrassato, sai?” gli fece notare
il chitarrista con sarcasmo.
“Almeno
lui ha un culo.” cantilenò Ingie, facendolo voltare verso di lei,
indignato.
“Il
mio culo è perfetto.” obiettò.
“Se
ne sei convinto...” commentò lei con sarcasmo.
Era
giunto il momento di intervenire.
“Tom,
poi vieni un attimo in camera mia? Ti devo parlare.” esordì il
vocalist, dopo aver studiato suo fratello con lo sguardo.
Questo
lo osservò perplesso ma annuì.
***
“Che
cosa?” ridacchiò nervosamente Tom, guardando suo fratello come
stesse dicendo assurdità.
Si
sentiva nervoso. Come era arrivato a quella conclusione?
“Hai
capito bene, sta succedendo qualcosa?” ripeté Bill con pazienza.
Braccia incrociate al petto ed espressione severa, degna di un vero
padre autoritario.
“Bill,
no.” sorrise il chitarrista, come nulla fosse. “Perché mi fai
questa domanda?”
“Perché
ti ho visto uscire dalla sua stanza, stamattina.” Tom sentì un
macigno atterrare sul suo stomaco. Quello, non l'aveva previsto.
Eppure era convinto che quella mattina non vi fosse nessuno, in
corridoio. Sapeva che era stato imprudente uscire così tardi;
solitamente sgattaiolava via verso le sette, quando tutti ancora
dormivano. Stavolta, invece, il sonno lo aveva tenuto arpionato al
corpo caldo della ragazza fino alle nove. “Da quanto va avanti?”
domandò quindi Bill, probabilmente notando la sua espressione da 'mi
hai colto con le mani nel sacco'.
“Bill
–” cominciò a disagio.
“Da
quanto?” ripeté il biondo, senza ammettere repliche.
Tom
si prese qualche attimo prima di arrendersi.
“Un
mesetto.” rispose, quasi con tono colpevole. Vide Bill spalmarsi le
mani sulla faccia. “Bill, guarda che non è niente di che.”
“Niente
di che? Tom, non me l'hai detto. Da quando mi tieni le cose
nascoste?” gli domandò dispiaciuto.
Gli
lesse negli occhi la delusione, più che la rabbia, e sapeva di aver
sbagliato nei suoi confronti, ma lui ed Ingie avevano deciso di
tenere la cosa nascosta per non creare imbarazzo e per non farla
sembrare più seria di quello che in realtà era.
“Bill,
non era mia intenzione. In realtà non ci ho pensato. È una cosa
talmente... Leggera, che –”
“Leggera?
Sei tornato a scopare per divertimento, Tom? Devo seriamente uccidere
Ria?”
“Bill,
sta bene anche ad Ingie.”
“Non
me ne frega nulla di ciò che le sta bene o meno. Pensavo avessi
superato quella fase.”
Tom
sospirò appena, per poi sedersi stancamente sul letto congiungendo
le mani sul suo grembo. Doveva trovare le parole giuste per
affrontare quella conversazione. Voleva che suo fratello sapesse che
non era tornato lo stronzo di un tempo. Doveva fargli capire che con
Ingie era tutto diverso.
“Bill,
io voglio bene ad Ingie.” esordì, stupendosi di tale frase. Non
aveva mai ammesso, nemmeno a se stesso, di volerle bene. Le aveva
sempre sputato in faccia di non sopportarla, benché provasse
comunque affetto per lei, ma mai aveva pronunciato quelle
parole. “So che sembra strano e che non giustifica la nostra
relazione, ma è così. È vero, andiamo a letto insieme e la
cosa si ferma lì; ma non mi passerebbe mai per la testa di farle del
male perché, come ti sei affezionato tu, mi sono affezionato anche
io.” Bill ancora non parlava. Probabilmente anche lui era stupito
da quelle confessioni. “L'hai capito sin dall'inizio, che ho
un'attrazione per lei incontenibile. Non riusciamo a star vicini
senza metterci le mani addosso; non mi è mai successa una cosa del
genere. A volte abbiamo anche avuto paura che la cosa si stesse
trasformando in malata ossessione.” Sospirò. “Credimi, Bill. Una
sera ne abbiamo parlato chiaramente: abbiamo entrambi paura e non ci
sentiamo pronti a dare inizio ad una storia seria. Ci sta bene così,
per il momento, e so che sembra assurdo ed incosciente ma fidati se
ti dico che questo non ha cambiato nulla. La stiamo vivendo come
viene, senza porci troppe domande su cosa stiamo facendo o cosa
diventeremo. Abbiamo stima reciproca, attrazione reciproca,
condividiamo delle cose, non possiamo far finta di nulla. Ormai è
successo, che senso avrebbe cancellare tutto?”
“Queste
cose non funzionano, Tom, lo sai.”
“Bill,
non riusciamo a starci lontani. Credimi, ci abbiamo provato ma ci
siamo cascati un'altra volta.”
“Se
dovesse cambiare qualcosa? Se dovesse andare male?”
“Non
succederebbe nulla. È stato bello, ci siamo divertiti. Non ci
sarebbero problemi.”
“Adesso
la pensi così.”
“No,
Bill. Se la tua paura è che io ne possa uscire nuovamente con il
cuore spezzato, mettiti l'anima in pace. È una cosa che abbiamo
scelto.”
“L'amore
non si sceglie.”
“Non
siamo innamorati.”
Bill
si prese la testa fra le mani.
“Ti
vedi con qualcun'altra?” gli chiese a bruciapelo.
“No.”
rispose lui confuso.
“Lei?”
“Mi
ha detto di no.”
“Tom,
tu non ti rendi conto di come la guardi.” mormorò a quel punto il
vocalist, cosa che lo lasciò interdetto per un attimo. “So che ti
scoccia sentirlo, ma la guardi come guardavi Ria.” Quella frase lo
trafisse come una spada. “Tu credi di non essere innamorato, o
comunque preso, Tom. In realtà cerchi solamente di negarlo e di
convincerti che sia solo sesso, ma non è così. Tu hai una paura
fottuta. Hai paura di buttarti in una nuova storia e per questo ti
castri sentimentalmente. Al tempo stesso però non riesci a starle
lontano, quindi avete intavolato questa sorta di relazione sessuale
come per sopperire al bisogno reale che avete l'uno
dell'altra.” L'aveva preso talmente in contropiede con quelle frasi
che non seppe come rispondere. L'uso della parola l'aveva
momentaneamente abbandonato, cedendo il posto ad un disagio che mai
fino a quel momento aveva provato davanti a suo fratello. Il fatto
era che quel suo discorso pareva talmente veritiero e sensato che
nemmeno lui si era preparato ad un simile affronto. Ciò che
lo mandava in confusione era la non prevedibilità di Bill e la sua
particolare bravura nell'intraprendere conversazioni degne di nota.
“Tom, io non voglio mettere lingua su ciò che state facendo perché
alla fine non mi riguarda. Ma, poiché ti voglio bene, mi sento di
dirti di capire che cosa provi realmente e se questa vostra relazione
è ciò che realmente desideri. Scava nel tuo cuore, senza timore, e
rifletti: ti basta questo o hai bisogno di altro?”
***
Sapeva
di trovarla a casa, David gliel'aveva riferito.
Quel
giorno, i Tokio Hotel sarebbero stati impegnati in un'intervista e,
visto e considerato che Ingie non aveva molta voglia di trascorrere
quelle ore chiusa allo studio, aveva deciso di fare un salto a casa
di Amanda per fare due chiacchiere.
La
donna, il cui ventre cominciava a prendere forma, le aveva
gentilmente offerto una tazza di tè accompagnata da qualche
delizioso biscotto che aveva personalmente cucinato qualche ora
prima. Le aveva raccontato che, con la gravidanza, aveva trovato un
grandioso passatempo in cucina, dove si divertiva ad inventare nuove
ricette per David.
“Allora,
come sta andando la ricerca per la nuova casa?” le domandò Amanda
all'improvviso, prendendola in contropiede.
Ingie
posò silenziosamente la tazza di tè che stava per portarsi alle
labbra e la scrutò, indecisa sul da dirsi. Probabilmente, la pura
verità sarebbe stata la cosa migliore.
“Ho
provato a parlarne con Tom.” mormorò. “Diciamo che non è molto
d'accordo. E, in poche parole, mi ha chiesto di stare da loro.”
gesticolò eccessivamente, come non sapesse in che modo spiegare la
situazione.
Non
voleva dare troppo nell'occhio con la storia di Tom. Non voleva
assolutamente che Amanda sospettasse solamente di ciò che stava
accadendo tra loro due, visto che un sacco di gente le aveva fatto
notare quanto fosse palese la loro attrazione, dagli sguardi che si
scambiavano senza nemmeno rendersene conto.
“Lo
immaginavo.” sorrise Amanda, come se la sapesse lunga. “Non è
pronto per questo. Non lo è nessuno.” continuò, quasi intenerita
dal solo pensiero. “Te l'ho detto: sei entrata nel cuore di tutti.”
Ingie
sorrise appena, abbassando lo sguardo sulle proprie mani intrecciate
sul tavolo.
Quel
pensiero la lusingava parecchio. L'idea di piacere a qualcuno, di
sentirsi amata, suscitava in lei quasi emozione. Per anni si era
preoccupata di sentirsi accettata dal mondo, con il suo ballo, e
sapeva bene cosa significasse per lei raggiungere un simile
traguardo.
“Anche
io mi sono affezionata a loro, anche se non lo dimostro.” ammise,
quasi vergognandosi di tale verità.
Aveva
sempre trovato difficile ammettere di avere dei sentimenti, o meglio,
esternarli. Era qualcosa che fin da piccola l'aveva tormentata.
Abbracciare, baciare, dire 'ti voglio bene' o 'ti amo' erano cose
quasi fuori dal comune, per lei. A volte, pensava al suo rapporto con
Tom. Il chitarrista era pieno di affetto da regalare; era sempre il
primo ad abbracciarla, a farle delle carezze. Lei, a parte il bacio
alle terme, non era mai stata la prima in nulla. E forse era un bene
che Tom, nonostante la sua ironia sfacciata, fosse capace di tali
gesti affettuosi, benché la facesse sentire ancora più piccola di
quello che era.
“Oh,
lo so che hai un cuore grande, nonostante tu faccia la ragazza un po'
burbera.” annuì Amanda. “Nonostante tu ponga un muro fra te e la
gente, sei un libro aperto.” Quelle parole la colpirono. Solo una
persona che la conosceva realmente poteva pronunciarle, eppure Amanda
era stata in grado di farlo ugualmente. “Penso che Tom sia in grado
di tirare fuori tutto il bello e il brutto che c'è in te.”
Ingie
sollevò le sopracciglia, sorpresa.
“Tom?”
domandò, spaesata.
“Sì.
Insomma, ti stuzzica, fa venire allo scoperto qualsiasi tua
sfumatura. Ecco perché penso che lui sarebbe perfetto quanto dannoso
per te.” Ingie ascoltava quelle parole, rapita. Mai aveva pensato a
qualcosa di simile. “Lui potrebbe essere il tuo bene o il tuo male.
Anche se sono fermamente convinta che lui ti faccia solo bene. Ti fa
ridere, ti capisce. Hai bisogno di questo, credo.”
“Non
capisco perché mi stai parlando in questo modo di lui.”
“Perché
sono una donna, il che significa che sono istintiva. Inoltre, vi
guardo da fuori, con obiettività, e posso dire che fra voi c'è
intesa.”
“Devo
capire perché tutti continuate a dircelo.”
“Perché
è la verità, Ingie. È ovvio.”
Ingie
scostò nuovamente lo sguardo, per concentrarlo sulla tazza di tè.
“E
David?” decise di cambiare discorso. “Tira fuori il meglio o il
peggio di te?” sorrise, tornando a guardarla negli occhi.
“David?”
domandò lei, ironica. “David tira fuori il peggio di me!”
esclamò, facendola ridere appena. “Ma lo amo tanto.” aggiunse
poi con sguardo spensierato. Ingie ricambiò quell'espressione.
Adorava vederli assieme; adorava sentirli parlare l'uno dell'altra.
Erano, a suo parere, la coppia perfetta, quella che avrebbe augurato
a chiunque, anche a se stessa. “Sai, sono un po' spaventata da
questa gravidanza.” Ingie aggrottò la fronte, a quella
confessione. “Ho paura che possa cambiare qualcosa fra di noi. Non
potrei mai vederci come quelle coppie che, una volta arrivati i
figli, guardano la televisione in silenzio. Non potrei mai
sopportarlo.”
La
mora sorrise, comprensiva.
“Non
accadrà. Guardatevi, insieme siete energia pura.” cercò di
rassicurarla.
“Non
si può sapere.” rispose Amanda.
“Allora,
vi impegnerete per non farlo accadere. Ti conviene dargli le solite
attenzioni, anche dopo il parto, perché so che gli uomini diventano
tremendamente gelosi.”
“Farò
il possibile, anche se la creatura mi prenderà un sacco di tempo.”
Ingie
rifletté qualche attimo all'idea di crescere un bambino. Un brivido
le percorse la colonna vertebrale.
“Non
hai paura?” chiese quindi, quasi timida.
“Di
cosa?”
“Di
crescere un bambino. Di avere un'intera vita nelle tue mani.”
“Beh,
detta così, terrorizzerebbe chiunque. Un po', è ovvio, mi spaventa.
C'è però una parte di me che non vede l'ora che ciò accada. Non
vedo l'ora di stringere tra le braccia il fagottino, mio e di David.
Non vedo l'ora di affrontare tutte le cose belle e brutte che questo
comporterà. Sai, Ingie, io credo che ogni donna abbia un istinto
materno nascosto. Io, prima di scoprire di essere incinta, dicevo che
non volevo assolutamente avere figli. Guardami, ora. Non vedo l'ora
di conoscerlo.”
“Io
a volte ci penso e mi dico... Non potrei mai esserne in grado.”
“Io
invece dico di no. Quando ci rendiamo conto di avere una
responsabilità simile, ci rimbocchiamo le maniche e facciamo ciò
che solo una donna può fare. Siamo forti, Ingie. Non dimenticarlo.”
Quelle
parole, le sentì ancora più importanti e personali di ciò che
volevano essere.
Siamo
forti, Ingie. Non dimenticartelo.
Avrebbe
dovuto rammentare quella frase, per acquisire quella stessa forza.
Sentì
un nodo allo stomaco, non appena i suoi pensieri la portarono verso
una strana direzione. Un'improvvisa sensazione di fiducia, di
benessere, le suggerì un qualcosa che probabilmente mesi addietro
avrebbe respinto con determinazione.
“Amanda.”
mormorò, incerta, catturando nuovamente la sua attenzione. “Se –
se ti sentissi... In colpa, per la – la morte di... Qualcuno.”
Non seppe nemmeno lei come fosse riuscita a pronunciare tali parole.
Scorse la fronte aggrottata di Amanda, davanti a lei, causa di
un'espressione perplessa e curiosa al tempo stesso. Ingie sospirò
appena, portandosi una mano alla fronte. “Se – se avessi un
enorme peso, qui nello stomaco, a tormentarti giorno e notte.” si
sforzò di mantenere un tono di voce fermo, con poco successo. Le
mani le tremavano ma nemmeno una lacrima aveva bagnato il suo volto.
Aveva promesso di non piangere più. “E avessi peggiorato
ulteriormente le cose.”
Il
suo discorso venne interrotto dalla mano di Amanda che si posava
delicata sulla sua, giacente sul tavolo.
“Ascoltami,
Ingie. Io non so cosa sia successo di brutto e non te lo voglio
nemmeno chiedere per non sembrarti invadente.” parlò con
un'incredibile saggezza. “Ma so che sei una ragazza buonissima e
che tutti gli errori che tu possa aver commesso, siano stati dettati
dal fatto che sei ancora molto giovane, non perché sei cattiva.”
la rassicurò, facendola sentire quasi un'idiota. “Se senti di aver
fatto qualcosa di cui ti sei pentita, sei sempre in tempo per tornare
indietro. Nessuno ti condannerà mai.”
***
Muoveva
freneticamente una gamba, com'era solito fare ogni qual volta si
sentisse nervoso. L'intervistatrice stava divenendo particolarmente
noiosa, con tutte quelle domande conosciute e ripetute, e lui non
vedeva l'ora di rifugiarsi in palestra, per dedicarsi ad un bel po'
di addominali, almeno fino a quando il suo fisico avrebbe retto.
Le
parole di suo fratello ancora vagavano nella sua mente, come un disco
in ripetizione, e niente gli permetteva di porvi una croce sopra,
nemmeno la voce stridula della donna che sedeva di fronte a loro.
Sapeva
di non provare nulla nei confronti di Ingie, se non semplice affetto.
Era solamente un dannato paranoico; non appena Bill gli metteva in
testa determinate cose, continuava a riflettervi senza un valido
motivo.
Avrebbe
tanto voluto sbuffare con forza, interrompere quella maledetta
cornacchia ed uscire dalla stanza; fortunatamente, era un'intervista
registrata, sprovvista di pubblico.
“Quindi,
avete detto che il nuovo album uscirà tra autunno e inverno di
quest'anno.” parlò l'intervistatrice. Sì, santissima donna,
l'abbiamo ripetuto un milione di volte. “Quindi a che punto
siete con la realizzazione?”
Che
sagacia, pensò con sarcasmo, lasciando parlare suo fratello.
Bill era quello delle risposte serie e tecniche, Georg ridacchiava
ogni tanto, Gustav si limitava ad ascoltare, mentre lui era l'addetto
alle risposte ironiche, ogni tre domande. Quel giorno però era
sprovvisto di battute da lanciare, era decisamente più occupato a
riordinare il proprio cervello.
Quando
arrivò il momento della fatidica domanda – quella riguardante
l'amore – si assicurò che la donna nemmeno lo guardasse o sarebbe
stato capace di sputarle in un occhio.
Terminata
la tortura, finalmente si alzò dal divano.
“Cristo,
non finiva più.” borbottò, imboccato il corridoio, affianco a
Georg, il quale era occupato a mandare un messaggio, probabilmente ad
Isa.
“Ed
è durata solo dieci minuti.” commentò quindi il bassista, una
volta riposto il cellulare in tasca. “Senti, stasera pensavamo di
andare a mangiare al ristorante giapponese. Ne hai voglia?”
Tom
storse il naso. In realtà aveva pensato di vedersi con Ivan, anche
se niente era ancora deciso.
“No,
stasera passo.” mormorò, osservando il pavimento, mentre
camminavano.
“Stai
bene? Sei strano, oggi.” gli domandò a quel punto l'amico, che lo
conosceva fin troppo.
“Sì,
sì. Non ti preoccupare.”
***
“Prendila!”
Ingie
non si era mai trovata a ridere così tanto, quegli ultimi tempi.
Assieme a Georg e Gustav correva per tutto il giardino, inseguita dai
cani, i quali cercavano di rubare loro la pallina che continuavano a
passarsi per deviare la loro corsa. Lanciò la palla a Georg,
dall'altra parte del giardino, non appena Scotty le posò le zampe
sull'addome con l'intento di rubargliela. Georg la prese al volo e
cominciò a correre, inseguito da tutti e tre i cani, per poi
lanciarla all'ultimo secondo a Gustav, il quale ripeté la stessa
operazione.
Ingie
si stava divertendo. Era un modo per staccare la spina dalla serietà
della vita di tutti i giorni e per tenere in forma i cani con un po'
di movimento.
Appena
tornati a casa, Tom l'aveva salutata con le solite frecciatine, Bill
le aveva sorriso in modo enigmatico – cosa che l'aveva per un
momento fatta insospettire – mentre Georg e Gustav le avevano
proposto di fare impazzire – letteralmente – i cani.
“Basta,
non ce la faccio più!” rise Georg, gettandosi a sedere sui gradini
del pianerottolo.
“Sei
fuori forma.” lo prese in giro Gustav, affiancandolo.
“Allora,
perché ti sei seduto anche tu?” lo sfidò il bassista, scrutandolo
con la coda dell'occhio, piuttosto sarcastico. Ingie, a quel punto,
si arrese e lanciò la pallina verso il cancello, in direzione del
quale tutti i cani presero a correre. Anche lei era stanca; quegli
adorabili animali l'avevano sfinita, mentre loro sembravano
intenzionati a giocare ancora per ore. “Ingie, tu stai andando in
palestra, vero?” la domandò il rosso.
“Sì,
un po' di esercizio non mi fa male.” rispose lei, in piedi, di
fronte a loro.
“Tu,
almeno, hai un bel fisico.” commentò Gustav, facendole sollevare
un sopracciglio, scettica.
“Ma
se non avete, a momenti, più spazio per altri muscoli.” ridacchiò,
sinceramente sorpresa da quell'uscita.
“Diciamo
che è difficile mantenerli.” continuò il batterista, con un lieve
sorriso. “Però, devo ammettere che suonare la batteria mi aiuta
molto.” aggiunse, soddisfatto.
“Già,
chissà quanto bruci, durante un concerto.” rifletté la mora. “Di
certo sei quello che si stanca di più.”
“Assolutamente
sì.” annuì Georg. “Io non credo reggerei. A volte, mi
sorprendo.”
“Quanti
crampi.” mormorò Gustav, come si fosse reso conto solo in quel
momento della fatica che provava ad ogni esibizione. “Tom lo sa
bene. Ad ogni concerto, una volta finito, viene subito da me per
aiutarmi a stendere le gambe. Ormai, è una routine.”
Ingie
sorrise appena. Il suo caro Piggy era sempre disponibile e
scrupoloso con tutti, benché lo negasse.
“Hey,
Ingie, stasera ti va di venire con me, Gustav e Bill al ristorante
giapponese?” le propose all'improvviso Georg, sorridendole
speranzoso.
A
quella domanda, la mora aggrottò le sopracciglia.
“Tom
non viene?” chiese, perplessa.
“No,
ha deciso di fare l'asociale.” fece il rosso con una scrollata di
spalle. “Dai, dopo andiamo anche a ballare.”
Ingie
ci pensò un po' su. Quasi si vergognava ad ammetterlo a se stessa,
ma era da quando erano rientrati allo studio, che aveva sentito la
voglia di passare un po' di tempo con il chitarrista. Quel giorno,
non l'aveva ancora visto – non che fosse di vitale importanza –
ma qualcosa dentro di lei le suggeriva di rimanere allo studio con
lui. Avrebbero mangiato qualcosa assieme, magari si sarebbero
guardati un film – accompagnato da qualche dispetto – e poi...
Beh, le solite cose. Ma non era al sesso che pensava; quella sera
sentiva il bisogno di qualche... Coccola. Arrossì al solo pensiero,
perché non era da lei. Era come se il chitarrista la stesse facendo
diventare sempre più sentimentale, benché di sentimentale non vi
fosse nulla, in ciò che facevano.
“Grazie,
ma forse stasera preferisco rimanere a casa.” sorrise
all'espressione delusa dei ragazzi.
“Ma
dai, ci divertiamo. Mangiamo, beviamo e balliamo fino a domattina.”
si lamentò Georg, pregandola con lo sguardo.
“Siete
stati carini a propormelo, davvero. Ma sono molto stanca. Preferisco
venire a ballare quando il fisico me lo consente.”
“Allora,
vieni solo al ristorante.” insistette Gustav.
Ingie
sospirò appena, riflettendovi.
Effettivamente,
avrebbe potuto concedersi una cenetta con i ragazzi; sarebbe tornata
allo studio prima che gli altri andassero a ballare, così avrebbe
potuto passare del tempo anche con Tom.
“D'accordo.”
si arrese.
***
Bussò
lievemente, fino a che non sentì la sua voce permetterle di entrare.
Quando si affacciò con la testa nella sua stanza, lo vide sdraiato
sul proprio letto – la schiena poggiata alla testata – intento,
forse, a mandare messaggi con il cellulare.
“Hey.”
mormorò lei, non appena lo vide sollevare lo sguardo, curioso.
“Posso?” domandò, incerta.
Quella
giornata si era rivelata particolarmente strana. Non si erano visti
fino a quel momento – Tom si era alzato dal letto quando lei ancora
dormiva – e lui non l'aveva nemmeno cercata. Forse, aveva
cominciato a farsi paranoie come le ragazzine alle prime esperienze
con il fidanzato. D'altronde, non era scritto da nessuna parte che
lei e Tom fossero obbligati a vedersi e stare insieme ogni minuto
della giornata.
Una
volta richiusa la porta, si andò a sedere sul bordo del letto,
affianco a lui, che le sorrise appena.
“Vai
al ristorante?” le domandò, probabilmente riferendosi al suo
abbigliamento un po' più elegante.
“Sì.”
annuì lei. “Tu come mai non vieni?”
Tom
scrollò appena le spalle.
“Non
ne ho molta voglia.”
Ingie
lo scrutò qualche attimo.
“Va
tutto bene?” gli chiese, sinceramente preoccupata.
“Sì.”
si limitò a rispondere lui, sorridendole.
“Okay.”
mormorò lei, prima di alzarsi dal letto. Per la prima volta, non
sapeva come controbattere e si era sentita in dovere di andarsene.
“Buona serata, allora.” gli augurò, dandogli le spalle.
“Ingie.”
lo sentì chiamarla. Lei si voltò nuovamente nella sua direzione,
attendendo. “Vieni.”
Si
avvicinò incerta sul da farsi, fino a che non gli fu nuovamente
affianco, curiosa di sapere che intenzione avesse, fino a che non lo
vide allungare una mano verso di lei – fino a posarla sulla sua
nuca – e avvicinarla al proprio viso. Il cuore di Ingie fece una
capovolta, non appena percepì il contatto con le sue labbra morbide
e calde. Era leggero, un semplice bacio, casto ed innocente, che la
fece rabbrividire da tanta dolcezza. Un semplice e silenzioso
schiocco, per poi allontanarsi nuovamente da lei.
“Perché
così tenero, Piggy?” cercò di alleggerire la tensione che
tutto d'un tratto aveva percepito.
Lui
sorrise quasi timido, per poi scrollare le spalle.
“Perché
oggi non ci eravamo ancora visti.” rispose.
Allora,
anche lui vi aveva pensato. Quel pensiero le trasmise un senso di
gratificazione.
“Sei
tu che sei piuttosto sfuggente.” ribatté lei, ironica.
Lo
vide portarsi le mani al viso.
“No,
è che sono stanco.” sospirò appena.
“Povero,
piccolo.” lo prese in giro, carezzandogli la testa piena di rasta.
“Vado.” disse poi, dandogli nuovamente le spalle.
“Quel
vestito ti fa un bel culo.”
Sorrise.
Era il solito Tom.
***
Si
era portata le mani allo stomaco dal troppo ridere.
Georg
e Gustav avevano avuto pienamente ragione: quella serata si stava
rivelando per lei altamente salutare. Aveva bisogno da un po' di
tempo di qualcosa di simile per cercare di deviare le sue
preoccupazioni; ultimamente si era accorta che perfino passare del
tempo con il chitarrista – per quanto fantastico lo trovasse –
era motivo di confusione, per la sua testa. Un attimo di svago, ecco
cosa le serviva.
“No,
ragazzi, vi giuro. È stato il concerto più divertente che io abbia
mai tenuto in vita mia.” continuò a parlare Georg, ancora scosso
dalle risate, asciugandosi una lacrima che minacciava di bagnargli
una guancia. Aveva appena finito di rammentare un esilarante
aneddoto, riguardante una povera ragazza che il bassista aveva
scorto, in prima fila, sotto di lui. “Per tutto il tempo, cercavo
di non ridere. È stato tremendo.”
“Beh,
come quella volta che una ragazza, lanciandoti il suo reggiseno, ti
ha colpito in piena faccia, facendoti stonare con gli accordi.”
ridacchiò Gustav, dopo aver sorseggiato un po' di vino.
“Oddio,
mi ricordo che ti ho guardato come se fossi ubriaco. Mi sembra di
aver stonato di conseguenza.” intervenne Bill, come illuminato a
quel ricordo.
“Sì,
gli unici a ad andare avanti in modo corretto sono stati Tom e
Gustav.” annuì Georg.
“Sì.
La dannata professionalità di mio fratello, per lo meno, si vede.”
commentò ironico il vocalist.
“Sì,
ma alla fine sono sempre io che vi paro il culo.” li beffeggiò
Gustav. “Sono io l'anello portante.” si vantò, facendoli
scoppiare a ridere.
“Ma
smettila.” ridacchiò Georg.
“Povero
GusGus.” cantilenò Ingie, divertita. “Nessuno ti capisce.”
“Eh,
è una disgrazia.” resse il gioco il batterista, con un lieve
sorriso in volto.
“Ingie,
quando partiremo con il nuovo tour, tu verrai con noi!” esclamò
all'improvviso Georg, prendendola in contropiede. “Non puoi
perderti tutto il divertimento.”
Ingie
sorrise appena. I ragazzi, tutti, davano per scontato che lei avrebbe
passato la sua vita in loro compagnia, ma non era convinta di questo.
Lo stesso Tom le aveva proposto di vivere assieme, come aveva fatto
fino a quel momento, ma qualcosa dentro di lei le suggeriva che ciò
non era possibile. I ragazzi avevano una loro vita, lei stava
cercando di ricostruire la sua. Non era giusto continuare a togliere
loro del tempo o dello spazio.
“A
proposito di questo, Ingie, Tom mi ha detto che stai pensando di
andartene.” le disse Bill, all'improvviso.
Tom
gliene aveva parlato?
“Beh,
diciamo che era ciò che avevamo stabilito sin dall'inizio. Non
appena riuscirò a permettermi l'acquisto di una casa, pensavo di –”
“Ma,
ormai, non era stato deciso che rimanevi con noi?” domandò Georg,
perplesso.
Ingie
si voltò verso di lui, aggrottando la fronte.
“Era
stato deciso?” ripeté non capendo.
“Beh,
noi l'avevamo dato per scontato.” parlò di nuovo Bill. “Anche
mio fratello ha provato a parlartene, o sbaglio?”
Ingie
era sempre più confusa.
“Andiamo,
ragazzi, è molto carino da parte vostra, ma non mi sembra il caso.”
borbottò, per la prima volta a disagio davanti a loro.
“Perché?
Dove sta il problema? Siamo in quattro, diventeremo cinque.” parlò
ancora il bassista.
Ingie
non sapeva più cosa ribattere, quindi optò per la via migliore.
“Fatemi
pensare, va bene?” Quella sua frase aveva dato un minimo di
speranza in più agli occhi dei ragazzi, che sembrarono
particolarmente soddisfatti della sua risposta. All'improvviso, aveva
bisogno di una sigaretta. “Mentre aspetto il dolce, esco un attimo
a fumare.” annunciò, per poi sollevarsi dalla sedia, sotto i loro
sorrisi. Il contatto con l'aria gelida le fece per un momento pentire
di aver messo piede fuori dal ristorante, ma poi decise di stringersi
nel cappotto e resistere al freddo. Doveva fumarsela, quella dannata
sigaretta. Non fece in tempo a dedicarsi al primo tiro, che la voce
di Bill, alle sue spalle, la fece voltare quasi spaventata. “Hey,
Speedy.” fece lei, sorpresa. “Perché esci anche tu al
gelo?” domandò, per poi fumare beatamente.
“Mi
offri una sigaretta?” le chiese con un sorriso strano. Lei gli
lanciò semplicemente il pacchetto.
“Non
dovresti fumare, ti fa –”
“Male
alla voce, lo so.” sorrise lui. “Tom me lo dice sempre.”
“E
tu, invece, non lo ascolti.” trasse le sue conclusioni la mora,
divertita.
Trascorsero
qualche attimo in silenzio, fino a che non fu Bill a riprendere
parola.
“Che
combini con mio fratello?” Un macigno, grosso quanto una casa, le
planò sullo stomaco. Si voltò verso Bill, quasi atterrita, ma vide
solo un'espressione serena, pacifica, addirittura consenziente. “Mi
ha detto tutto.” le chiarì con un sorriso.
Cosa
si diceva, in quei casi? Mai le era capitata una cosa simile in vita
sua.
“Ehm,
non è niente di –”
“Serio,
lo so.” la interruppe nuovamente. “E forse è questo che mi
preoccupa un po'.” Si prese ancora un momento, prima di continuare.
“Mio fratello ha sofferto molto con Ria, l'hai visto anche tu. Io,
in quanto fratello, mi preoccupo per lui. Non vi sto facendo la
ramanzina, assolutamente, non è il mio ruolo. Voi siete liberi di
fare tutto ciò che volete. Voglio però assicurarmi di una cosa,
Ingie: tu non farai soffrire mio fratello, vero?”
Quella
domanda, come tutto il suo discorso, la prese talmente in contropiede
che cominciò quasi a balbettare.
“Bill,
no. Voglio dire, non stiamo insieme, non ti devi preoccupare.” gli
sorrise, cercando di tranquillizzarlo, come poteva.
“Che
non state insieme, l'avevo capito.” ridacchiò lui. “Ma voi cosa
provate veramente l'uno per l'altra?” Boccheggiò a quella domanda.
“Non vi voglio mandare in confusione, con queste domande. Voglio
solo assicurarmi che voi sappiate cosa state facendo.”
“Gli
hai chiesto le stesso cose?” domandò incerta.
“Diciamo
che gli ho fatto un discorso simile.” Che fosse quello il motivo
per cui il chitarrista era stato così sfuggente, quel giorno?
“Credimi, Ingie, non lo sto facendo con cattiveria. Lo sto facendo
per voi. Vi vedo, non sono scemo, e conosco mio fratello. Voi avete
bisogno l'uno dell'altra e non solo sessualmente. Non riuscite a
starvi lontani anche fuori dalla camera da letto; questo non ti dice
nulla?”
“Bill,
siamo – amici, ecco tutto. Amici che hanno piacere a stare
insieme.” spiegò lei, incerta delle sue stesse parole.
“Non
passate il tempo a ripetervi che non vi sopportate?”
“Beh...”
Ingie non sapeva più come controbattere. Dannazione, lei sapeva
sempre cosa dire, in qualsiasi momento e si chiedeva perché in quel
preciso istante avesse perso l'uso della parola. Il discorso del
vocalist la stava mandando ancor di più in confusione, perché
sembrava dannatamente veritiero. Tutti le facevano sempre notare
quanto il suo rapporto con Tom fosse speciale; tutti non facevano
altro che ripeterle quanto l'alchimia fra loro fosse tangibile. Ma
non poteva essere reale, lei non provava nulla per lui e lui non
provava nulla per lei, se non semplice attrazione fisica – che
stavano già placando andando a letto insieme. Cos'altro poteva
esservi fra loro? Sospirò appena. “Bill, non farò soffrire tuo
fratello, puoi starne certo. Non ricopro il giusto ruolo per farlo. E
poi, andiamo, nemmeno io vorrei mai vedere Tom soffrire, non è
ovvio?” fece quell'ammissione con fatica e pregò di non arrossire
o si sarebbe sentita tremendamente stupida.
Bill
sorrise appena, a quella sua confessione.
“D'accordo,
Ingie. Mi fido di te, so che sei una brava ragazza.” le disse,
rincuorandola, per poi gettare la sigaretta a terra. “Ti prego, fa
come se non ti avessi detto nulla, d'accordo?” le sorrise quindi,
con le mani in tasca.
Ingie
si limitò ad annuire, per poi osservarlo rientrare nel ristorante.
***
Quando
rientrò in casa, dopo aver abbandonato i ragazzi diretti alla
discoteca, aveva trovato il chitarrista perfettamente vestito, che
camminava per lo studio, alla ricerca di qualcosa. Sembrava pronto
per uscire.
“Esci?”
le venne spontaneo chiedere, aggrottando la fronte, mentre richiudeva
la porta.
“Hey.”
fece lui sorpreso di vederla. “Sì, mi vedo con Ivan. Tu non eri
con gli altri?” le domandò, perplesso.
Improvvisamente
si sentì un'emerita idiota. Come aveva anche lontanamente potuto
pensare di tornare allo studio prima, per passare del tempo con lui?
Era ovvio che avesse i suoi impegni, non poteva aspettarsi che fosse
rimasto a casa ad attenderla. Si sentì piccola, stupida, ridicola.
Quasi le venne voglia di piangere.
“Oh,
ehm, avevo detto che non andavo a ballare.” rispose, grattandosi
appena la fronte, con fare inquieto.
“Perché?”
chiese lui, sorpreso.
Perché
volevo stare un po' con te. Che pensiero idiota, eh?
“Non
ne avevo molta voglia.” si limitò a rispondere, gettando la borsa
sul divano.
“Io
non pensavo tornassi a casa.” parlò lui di nuovo. “Vieni con
me?” le chiese quindi, come per rimediare.
“No,
figurati. È una serata fra te ed Ivan, ci mancherebbe altro.”
gesticolò lei. Più gli sostava di fronte e più si sentiva
deficiente. “E poi, ho sonno. Penso che mi guarderò qualcosa alla
televisione e dormirò quasi subito.” mentì.
“Sei
sicura?”
“Certo.”
“Beh,
in ogni caso, non penso di fare molto tardi. Se vuoi, dopo –”
“No,
tranquillo. Per quando torni, io dormirò.”
Tom
sembrò appena deluso, ma non le disse altro.
“Okay.”
fece il ragazzo, prima di infilarsi la giacca nera. “Allora, a
domani.” le disse, sulla porta. Ingie annuì. “Non farti fuori
tutti gli alcolici senza di noi.” ridacchiò poi, facendola
sorridere.
“Ciao,
Piggy, buona serata.” tagliò corto, spingendolo lievemente,
fino a farlo uscire dallo studio, scosso dalle risate.
Richiuse
la porta e, senza nemmeno comprendere il motivo, scoppiò a piangere.
***
Si
guardò attorno, cercando di capire quale direzione avrebbe dovuto
prendere per l'albergo più vicino. Trovarsi in quella città grande
e sconosciuta lo metteva a disagio, ma una parte di lui lo spingeva
con tutta la forza a continuare. Aveva fatto quel viaggio lunghissimo
per trovarla, non si sarebbe tirato indietro proprio ora che gli
mancava così poco. Non sarebbe stata un'impresa facile, ma con la
buona volontà, con la determinazione che sapeva gli appartenesse,
l'avrebbe raggiunta e sarebbe riuscito a riportarla a casa.
***
Si
trovava davanti al televisore, senza seguirlo realmente. Da sola, in
salotto, se ne stava stravaccata sul divano, sgranocchiando qualche
cereale, mentre i cani le dormivano attorno, sul tappeto. Si sentiva
apatica, dopo aver pianto per un buon quarto d'ora. Fissava lo
schermo, come ipnotizzata, e si sentiva ancora più ridicola, al solo
pensiero di aver versato lacrime inutili. La verità era che Bill
l'aveva messa di fronte ad una realtà che non le piaceva. Tutta la
tensione che aveva accumulato dalla cena, l'aveva sfogata non appena
si era ritrovata sola.
Che
cosa provava per Tom? Per la prima volta, aveva avuto il coraggio di
chiederselo. Quel coraggio che l'aveva destabilizzata, facendola
scoppiare a piangere, inerme. Aveva paura, quella era la verità.
Aveva paura di se stessa e dei suoi sentimenti, perché tremendamente
sbagliati, lo sapeva bene. Non poteva innamorarsi di Tom. Il solo
pensiero la faceva rabbrividire. Ultimamente si era resa conto di
voler passare sempre più tempo con lui; si era resa conto di
soffrire un po' la sua assenza; si era resa conto di provare un
interesse più forte per lui, che andava oltre alla semplice
questione fisica. Quella sorta di rapporto che avevano costruito le
aveva confuso le idee. Avrebbe dovuto saperlo fin da subito che il
sesso non avrebbe aiutato, anzi, avrebbe solamente peggiorato le
cose. Si era ritrovata ad arrossire al pensiero delle sue braccia
attorno al corpo, a fremere al pensiero dei suoi baci, a sospirare al
pensiero di essere posseduta da lui.
Cosa
le stava succedendo? Era tutto sbagliato, tremendamente sbagliato.
Era possibile toglierselo dalla testa? Era possibile tornare
indietro? No, lo sapeva. Ormai, Tom le era entrato nel cuore, volente
o nolente; era stato un qualcosa di non previsto e non voluto, eppure
era accaduto. Si sentiva impotente, debole, piccola. Una parte di
lei, voleva stringersi a lui, un'altra le suggeriva di non farlo per
il suo bene.
Cosa
sentiva lui? Provava le stesse emozioni?
A
quel punto, sperava con tutto il cuore di no.
***
Aprì
la porta dello studio senza fare rumore; ricordava che Ingie gli
aveva detto che sarebbe andata a letto abbastanza presto e non voleva
svegliarla.
Sospirò
appena.
Quella
serata gli era servita per staccare la spina. Ultimamente le cose con
la mora stavano divenendo strane e particolari; non con lei in
maniera diretta, ma nel suo cervello. Nuovi pensieri tormentavano la
sua mente, pensieri che fino a quella mattina – quando Bill gli
aveva confuso le idee – aveva ignorato. Aveva deciso di uscire con
Ivan apposta, per riflettere per conto suo, in un luogo neutrale, e
soprattutto senza vederla.
Conclusione?
Gli era mancata.
Salì
silenziosamente le scale, fino a raggiungere la stanza dove sapeva
stesse riposando. Aprì lievemente la porta e si affacciò: Ingie
dormiva tranquilla, raggomitolata su un fianco, come una bimba. Gli
venne spontaneo sorridere ed avvicinarsi, cercando di non fare
rumore. Si abbassò appena col busto, così che riuscisse a scorgerla
in viso.
Quella
ragazza che non sopportava, quella ragazza con la quale si stuzzicava
giorno e notte, quella ragazza che lo attraeva come una calamita.
Quella stessa ragazza aveva risvegliato in lui sentimenti ed emozioni
che parevano sopiti.
Allungò
una mano, facendo ben attenzione a non disturbarla, e le carezzò
appena una tempia calda.
Dio,
che mi stai facendo, Ingie?
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Capitolo 19 *** Eighteen - Falling to pieces ***
18
Eighteen
Falling
to pieces
“Ma
sei pazza?! Mi vuoi squartare?!” Rise a quell'ennesima uscita
disperata da parte del chitarrista. “Guarda che il mio organo
sessuale è diverso dal tuo, nel caso non te ne fossi accorta!”
Da
minuti interminabili, Ingie si stava divertendo a mettere Tom alla
prova con lo stretching. Si erano chiusi entrambi nella sala da ballo
– lui aveva insistito per vederla all'opera – e, prima di
accontentarlo, la mora aveva avuto la brillante idea di farlo ballare
assieme a lei. Sotto i suoi continui rifiuti, Ingie era finalmente
riuscita a farlo sedere a terra, a gambe larghe. Posizionatasi alle
sue spalle, gli aveva poggiato le mani sulla schiena, esercitando una
lieve pressione per farlo scendere col busto. Inutile dire che Tom
era elastico come un pezzo di ferro.
“A
cosa ti riferisci? A quel fagiolino che nascondi nelle mutande?” lo
stuzzicò, ancora alle sue spalle, osservandolo attraverso lo
specchio con un sorriso ironico.
“Quel
fagiolino però ti fa urlare.” La mano della ragazza planò poco
delicata sul suo braccio. “Hey!” esclamò lui, massaggiandosi la
parte colpita. “Tu mi puoi insultare dicendo falsità e io non mi
posso difendere a tono?”
“Sei
volgare.” borbottò lei, continuando a spingergli la schiena verso
il basso.
“Se
tu non provassi da ore a castrarmi...”
“Mi
avevi promesso che provavi a ballare.”
“Esatto,
a ballare – e già non ero d'accordo –, non ad evirarmi.”
“Va
bene.”
Ingie
si sollevò nuovamente in piedi, permettendo al ragazzo di riprendere
a respirare regolarmente. Rise quando lo vide richiudere con lentezza
le gambe, probabilmente indolenzite, con smorfie contrariate.
“Stasera
avrò bisogno di un bel massaggio all'inguine, sai?” la provocò
con sguardo malizioso, per poi rialzarsi.
“Fattelo
da solo, visto che sei il re dei massaggi.” ribatté lei
prontamente.
“Sai
che sei proprio perfida?” Ingie ridacchiò, mentre gli dava le
spalle, intenta a cambiare canzone nello stereo. “Ma almeno ascolti
musica decente.” aggiunse compiaciuto Tom, una volta partita la
nuova traccia, decisamente più energica della precedente.
Ingie
si spostò nuovamente al centro della sala.
Tremava,
erano mesi che non ballava davanti a qualcuno e farlo sotto lo
sguardo di Tom non era il modo migliore per ricominciare. La
innervosiva, si sentiva a disagio. Ricordava che ai tempi degli
spettacoli, lo stesso problema la tormentava: ballare di fronte ad un
pubblico, a teatro, era per lei un gioco da ragazzi; ballare di
fronte a un conoscente o un famigliare le creava un blocco emotivo
che non riusciva a scacciare. La sentiva come la cosa più stupida ed
illogica del mondo, ma era ciò che accadeva nel suo cervello senza
che potesse evitarlo.
“Sei
sicuro di volermi vedere ballare, insomma –”
“Muoviti.”
la interruppe il chitarrista. Era tutta la mattina che continuava a
fargli quella domanda ma lui si era rivelato irremovibile. Era come
se stesse rivendicando alcuni diritti che gli spettavano,
senza che lei ne fosse al corrente. Aveva da sempre sostenuto che lui
era il motivo per cui aveva ripreso a ballare – ed effettivamente
era vero – ed ora pretendeva la sua parte. “Facciamo sesso.
Ballare davanti a me non può metterti più in imbarazzo.”
“Taci.”
ribatté la ragazza, cercando di concentrarsi.
Prese
un bel respiro, ce la poteva fare.
Mosse
il piede sinistro, accompagnandolo con una mossa del braccio destro.
Senza nemmeno rendersene conto, aveva cominciato a ballare, proprio
lì, sotto i suoi occhi che non vedeva. Aveva chiuso i suoi, aveva
dato libero sfogo al linguaggio del suo corpo e si era concentrata su
ogni singola emozione che questo le trasmetteva. Non sapeva quale
espressione macchiasse il volto del chitarrista e non aveva nemmeno
il coraggio di scoprirlo. Voleva finire ciò che aveva iniziato,
senza deconcentrarsi. Sapeva che se avesse guardato i suoi occhi
nocciola, piantati su di lei, come minimo sarebbe caduta a terra.
Erano giorni che stava imparando a convivere con quella nuova
consapevolezza: non sentiva più Tom una semplice attrazione
sessuale. Aveva dovuto farci i conti ma poi si era detta che avrebbe
dovuto continuare a recitare la sua parte, a comportarsi come se
nulla stesse succedendo nel proprio cervello, benché fosse dura. Tom
non l'aiutava lanciandole determinati sguardi, sorridendole,
toccandola.
Era
divenuta una sfida imparziale.
Quando
si fermò, col finire della canzone, ebbe finalmente il coraggio di
aprire gli occhi e ciò che trovò davanti a lei la sorprese: Tom la
osservava con l'ammirazione nelle pupille e la bocca lievemente
aperta, come fosse incredulo di ciò cui aveva appena assistito. Era
curiosa di sapere cosa ne pensasse ma, da quell'espressione, poteva
benissimo farsi un'idea.
“Ma
tu sei brava.” mormorò, facendola scoppiare a ridere. “Dai tuoi
racconti, non pensavo fino a questi livelli. Certo, sono ignorante in
materia, ma posso dire con certezza che quello che ho visto mi è
piaciuto e mi ha... Spiazzato.” Ingie sorrise appena, abbassando lo
sguardo. “Ingie, tu non ti devi fermare.” Quella frase,
pronunciata con tanta serietà le fece riportare l'attenzione sul
ragazzo, curiosa. “Tu devi continuare a ballare, devi cercare di
costruirti una carriera. Devi sfruttare questo tuo talento.”
Il
cuore della ragazza batteva all'impazzata. Sentire quelle parole
uscire dalla sua bocca era gratificante, forse troppo. Da tempo si
era accorta che il suo giudizio, per lei, era importante.
“Figurati.
Non ci riuscirò mai.” borbottò lei.
Tom
le si avvicinò pericolosamente e rabbrividì quando le sue mani le
si posarono sulle spalle.
“Smettila
di buttarti giù così. Voglio che cominci a credere un po' di più
in te stessa.” le disse severamente, guardandola dritta negli
occhi.
“Se
mi avessi detto queste cose qualche mese fa, ti sarei scoppiata a
ridere in faccia.” ghignò lei, cercando di alleggerire la tensione
che si era creata.
“Guarda
che ancora non ti sopporto.” ridacchiò lui, dandole le spalle.
“Nemmeno
io.” sorrise lei. Eppure sentiva che qualcosa, fra loro, stava
cambiando. “Eppure siamo qui, a darci consigli a vicenda. Un po'
strano, no?”
“E
andare a letto insieme, aggiungerei.” sorrise di rimando il
chitarrista, voltandosi di nuovo verso di lei, ora un po' più
lontano. “Il mondo è strano.”
Ingie
restò qualche attimo in silenzio, senza abbandonare il sorriso che
aveva posto le radici sul suo volto.
“Dai,
vieni, ti faccio ballare.” esordì, avvicinandosi a lui ed
afferrandogli le mani, che lui cercò prontamente di allontanare
dalla sua presa.
“Vattene!”
ridacchiò, dandole le spalle e piegandosi appena su se stesso per
evitare che la mora gli riafferrasse le mani grandi e calde.
“Dai,
Piggy, me l'avevi promesso!” si lamentò lei,
arrampicandoglisi addosso.
“Io
non mantengo le promesse!” continuò a ridere lui, mentre lei
riusciva a riprendergli le mani.
“C'mon,
you stupid –”
Non
fece in tempo a finire l'insulto che sentì le sue braccia muscolose
avvolgerle la vita, schiacciandola contro il suo petto marmoreo, e
farla indietreggiare, fino a poggiarla con la schiena allo specchio.
Le
labbra premute sulle sue. Il cuore le esplose.
Quel
bacio era bisognoso, passionale, le toglieva il respiro. Le braccia
del chitarrista la stringevano possessive, ma Ingie percepiva
qualcosa di nuovo in quella stretta: affetto. Insinuò le
proprie mani fra i suoi rasta e si lasciò andare ad ogni emozione,
ogni battito.
Amava
baciarlo. Amava percepire di nuovo il suo sapore, amava sentirlo
respirare sul suo viso. La sensazione della sua lingua bollente, in
contrasto con il freddo dei piercing, la barba leggermente incolta.
Adorava tutto di lui, benché le costasse fatica ammetterlo.
Lo
strinse forte a sé, quasi si vergognò di desiderarlo a quella
maniera. Sentire le sue braccia circondarla le trasmetteva un
magnifico senso di protezione; con lui si sentiva donna.
Gli
ultimi baci che le diede furono più delicati, le assaggiava le
labbra, vi lasciava qualche lieve morso, poi tornava a catturarle fra
le sue, destabilizzandola ancora una volta. Quando si staccò da lei
con un piccolo schiocco umido, si guardarono negli occhi, con i
respiri quasi mozzati, senza abbandonare il contatto fra i loro nasi
che ancora si sfioravano.
“L'ho
sempre detto che giochi sporco.” sussurrò lei, sulle sue labbra.
Lui sorrise appena, prendendo a regalarle lievi baci a fior di pelle
su una guancia. Scese sul collo, smuovendole quello che sembrava un
toro imbizzarrito nello stomaco. Ingie non riuscì a fare altro se
non chiudere gli occhi e abbandonarsi alle sue attenzioni,
carezzandogli la nuca con una mano. Improvvisamente, si sorprese nel
sentirlo abbracciarla semplicemente, rifugiando il viso fra i suoi
capelli, e tenerla stretta per non seppe quanto tempo. Ingie gli
avvolse a sua volta il collo con le braccia ed attese. “È la prima
volta che mi abbracci e basta.” soffiò al suo orecchio.
Voleva
sembrare ironica, ma ancora le mancava il fiato.
“A
volte, anche i bambini cattivi possono essere affettuosi.” le
disse, facendola sorridere.
“Ma
solitamente lo fanno per farsi perdonare qualche marachella.”
“Mi
hai scoperto.” scherzò lui.
“D'accordo,
hai vinto. Non ti farò ballare.” sorrise Ingie, ben conscia che
quel suo gesto affettuoso era stato dettato semplicemente dal suo
cuore, senza alcun secondo fine.
***
Non
seppe nemmeno dire come fossero finiti su quel letto, una volta
rientrati in studio. Tom la sovrastava, ma non accennava a nulla, se
non semplici carezze e baci. I loro corpi, separati solamente dai
vestiti, bruciavano a contatto. Alla mora piaceva quando il
chitarrista se ne stava sdraiato su di lei, senza però pesarle
troppo addosso. Ma quella volta, qualcosa di insolito le mordeva lo
stomaco; qualcosa che non le permetteva di rilassarsi come avrebbe
voluto. Cercò di abbandonarsi ai suoi baci così insolitamente
delicati, alle sue carezze fra i capelli, ma il cuore sembrava
volerle perforare il petto, rendendola inquieta.
“Bill
mi ha detto che sai.” esordì all'improvviso Tom, dopo averle dato
un piccolo bacio sul collo. Ora la osservava negli occhi, immobile.
“So
che sa.” confermò lei, giocherellando appena con un rasta che gli
pendeva a lato del viso rilassato.
“Perché
non me l'hai detto?” le domandò quindi, abbassando lo sguardo
sulle sue labbra.
Sembrava
non ne avessero mai abbastanza l'uno dell'altra e che facessero
fatica a parlare senza toccarsi.
Ingie
scrollò appena le spalle e lui tornò a guardarla negli occhi.
“Non
mi sembrava importante.” rispose.
“Mh.”
fece lui pensieroso. “Come l'hai presa? Sei incazzata?”
“No,
non sono incazzata. Mi sorprendo solamente di quanto tu non riesca a
mentire davanti a tuo fratello.” Sorrise appena, vedendo il
chitarrista abbassare un po' il capo, come colto sul fatto. “Guarda
che è una cosa buona.” precisò.
“Io
e mio fratello ci siamo sempre detti tutto.” sembrò volesse
discolparsi, ma Ingie gli posò una mano sul braccio tatuato.
“Ed
è giusto così, Piggy.” sorrise appena, ironica. “Non
l'ha presa tanto male. Ha solo paura che io possa...” Indugiò
appena, chiedendosi se avesse fatto bene a terminare la frase.
“Che
tu possa...?” la incoraggiò lui.
“Farti
soffrire.” soffiò, come non fosse nulla di importante. “Gli ho
detto che non c'è pericolo.” cercò di sdrammatizzare, sventolando
una mano con leggerezza.
Non
voleva cadere in discorsi troppo seri perché non sarebbe stata in
grado di difendersi, davanti ai suoi occhi castani. Conversazioni
riguardanti i sentimenti erano per lei vietate perché si sarebbe
sentita tremendamente inerme.
Tom
sorrise appena, come pensieroso.
“No,
anche io l'ho rassicurato.” disse poi, aiutandola ad uscire
dall'imbarazzo che sentiva si era creato.
Ingie
gliene fu grata.
“Bene.”
mormorò.
Si
osservarono ancora qualche istante, fino a che il chitarrista non si
abbassò nuovamente su di lei, baciandola sulle labbra. La sua mano
l'accarezzò sul collo, per poi scendere sul seno e posizionarsi sul
suo fianco, che stinse lievemente come possessivo. Scese ancora sulla
gamba, facendogliela piegare appena per permettergli di posizionarsi
più comodamente. I baci, ora sul collo, divenivano più roventi, lo
sentiva.
Strinse
le palpebre, cercando di abbandonarsi, ignorando il groppone che le
si era formato in gola e alla bocca dello stomaco. Insinuò le mani
sotto la sua maglia larga, accarezzandogli gli addominali, fino a
sfiorargli i pettorali. Lo sentì sospirare al suo orecchio, per poi
sollevarsi appena col busto e sfilarle la camicetta. Fece lo stesso
con la sua maglia, che gettò a terra, per poi tornare a sdraiarsi su
di lei.
Non
pensare, si ripeteva nella testa, provando in tutti i modi a
partecipare a quel momento. Rabbrividì quando lo sentì baciarle
l'addome, carezzandole una gamba, ancora fasciata dal jeans. È
ciò che fate sempre, niente di più. Aggrottò la fronte,
tormentata da quei pensieri.
Doveva
reagire.
Gli
spinse le mani sul petto, facendolo cadere con la schiena sul
materasso, permettendole di sedersi a cavalcioni sul suo bacino.
Percepiva quanto la desiderasse e quasi le mancò il fiato. Gli baciò
il collo, scendendo sui pettorali – che vezzeggiò anche con i
denti – e poi scese sugli addominali contratti. Ciò che le piaceva
di Tom era il suo petto completamente glabro; la pelle era liscia e
rovente ed adorava carezzarla.
Comportati
come sempre, ripeté ancora la sua mente, mentre prendeva ad
armeggiare con la cintura dei jeans del ragazzo. Le sue mani
tremavano e lei diveniva sempre più inquieta.
Perché
non riusciva a distrarsi? Perché non riusciva a tornare l'Ingie
spensierata di quando avevano dato inizio a quella relazione
puramente sessuale?
Con
sorpresa, vide le mani di Tom stringere le sue ed allontanarle dal
suo bacino. Lei sollevò lo sguardo confuso su di lui che ora aveva
sollevato appena il petto, poggiandosi sui gomiti, per guardarla
meglio in viso. Il suo sguardo era rilassato, non sembrava nervoso.
“Che
cos'hai, Ingie?” Quella domanda la prese talmente in contropiede
che non seppe trovare risposta. Era stata come uno schiaffo in pieno
volto. “Ti sento, che sei tormentata da qualcosa. Cosa c'è che non
va?”
Il
suo tono sorprendentemente dolce l'aveva ammutolita ancora di più.
Ho
paura perché sento nuove emozioni con te. Avrebbe
voluto urlarglielo ma sapeva che era ingiusto e avrebbe solamente
fatto loro – ma soprattutto a se stessa – del male.
“Che
dici? Non ho niente che non va.” rispose, cercando di essere il più
disinvolta possibile. “Perché mi hai fermato?” aggiunse, quasi
seccata.
“Perché
non ce la faccio con te così.” spiegò lui del tutto calmo.
Perché
mi complichi le cose?
“Tom,
non ho niente che non va.” ripeté.
Il
chitarrista la osservò ancora qualche attimo con espressione
indecifrabile. Non capiva se stesse sorridendo lievemente o stesse
semplicemente riflettendo.
“D'accordo.”
concluse lui, pacato, facendola spostare per scendere dal letto.
“Dove
vai?” chiese lei quasi spaventata.
Paura
dell'abbandono. Paura di aver rovinato tutto.
“A
fumare una sigaretta.” rispose lui, continuando a darle le spalle,
mentre si infilava di nuovo la maglia.
Ingie
si sentì quasi in colpa. Si sentì piccola, abbandonata a se stessa;
aveva freddo senza di lui, necessitava di nuovo la sua vicinanza, il
contatto con il suo corpo. Lo guardò uscire sul balconcino,
chiudendosi la portafinestra alle spalle per non fare entrare aria
nella stanza.
I
suoi occhi si riempirono di lacrime che però non accennarono a
scorrere lungo il volto contratto. Rannicchiò le ginocchia al petto,
avvolgendole con le braccia, e vi posò il mento, con lo sguardo
fisso nel vuoto.
Si
sentiva un'idiota. Aveva rovinato un bel momento; un momento che
sapeva di desiderare ardentemente, benché le facesse paura. Non
capiva il perché di quella sua confusione improvvisa, non capiva il
perché del suo smarrimento. Avrebbe tanto voluto accantonare quei
suoi sentimenti così contrastanti fra loro e ricominciare da capo
con lui; avrebbe voluto ricominciare ad abbandonarsi al suo corpo
senza il minimo coinvolgimento. Avrebbe tanto voluto azzerare
completamente la mente ed ascoltare solo le sensazioni che le
trasmetteva.
Con
un sospiro, si infilò di nuovo la camicetta e si sollevò dal letto.
Lo cercò con lo sguardo: era seduto sulla sedia in vimini, intento a
fumare di spalle con lo sguardo rivolto al giardino sottostante.
Prese coraggio e si incamminò verso la portafinestra. Quando questa
venne aperta, lui non si mosse; attese semplicemente che gli si
posizionasse di fronte, con le braccia poggiate alla ringhiera alle
sue spalle.
Si
scrutarono a vicenda per attimi che parvero infiniti. Sembravano
parlarsi con gli occhi, scambiarsi dubbi, incertezze, forse paure.
Sembravano entrambi bisognosi di capire cosa stesse accadendo.
“Perché
te ne sei andato?” chiese, incerta. Mai si era sentita così inerme
davanti a lui.
I
suoi occhi scuri la osservarono talmente intensamente che per un
attimo si sentì a corto d'aria.
“Che
dovevo fare?” domandò lui di rimando, scrollando appena le spalle.
“Non
lo so, magari riprendere ciò che avevi interrotto.” gesticolò
lei, non del tutto convinta che fosse la risposta più sensata che
potesse dare. “Ti ho detto che non ho niente.” aggiunse.
“Ingie,
non sono cretino.” Quell'uscita la fece sentire addirittura
ridicola. “Sei turbata da qualcosa, è inutile che cerchi di
negarlo.”
Ingie
si torturò le mani.
“Potevi
benissimo ignorarmi.” ribatté, quasi scocciata.
Tom
inclinò di poco il capo, aggrottando la fronte.
“E
io, secondo te, avrei fatto sesso, facendo finta di non sentire che
non stavi bene?” le domandò, sinceramente curioso. “Per quanto
io sia uomo, non arrivo a fregarmene di te.”
Ingie
si sentì inspiegabilmente lusingata da quelle parole. Tom si
preoccupava per lei, l'aveva sempre saputo, a differenza di altri
ragazzi egoisti che pensavano solamente a soddisfare i propri
bisogni. Tom era diverso e – benché fosse l'ultima persona che
potesse sembrare altruista e sensibile – era comprensivo.
“Era
su questo che avevamo impostato la nostra relazione.” gli fece
notare.
“Sul
sesso? Sì. Ciò non vuol dire che io debba sfruttare il tuo corpo a
mio piacimento. Era una cosa che doveva stare bene ad entrambi,
qualcosa che avremmo scelto di fare insieme, per divertimento. Non
abbiamo mai firmato un contratto che ci imponesse di farlo dalla
mattina alla sera. Il fatto che tu ti senta in obbligo di venire a
letto con me, mi delude.”
“Io
non mi sento in obbligo di venire a letto con te.”
“Sembrava
di sì, prima. Io non voglio che sia così fra noi, Ingie.”
“Senti,
Tom, ho vent'anni e sono perfettamente in grado di scegliere cosa
fare. Di certo, non mi sento obbligata a fare determinate cose,
soprattutto con te. Mi sembrava avessimo chiarito che l'attrazione
fosse reciproca, no?”
“Sì,
ma se prima non ti sentivi di farlo, perché hai continuato
ugualmente? Guarda che non sono un assetato di sesso, non sono
nemmeno uno di quei ragazzi che si incazzano se gli viene rifilata la
scusa del mal di testa. Ti avrei capito, Ingie, non devi pensare che
io possa infastidirmi per stronzate simili.”
“Io
invece ti sto dicendo che non avevo nulla in contrario.”
Tom
inspirò altro fumo, come per non ribattere a quella sua ulteriore
risposta.
Non
le credeva, lo sapeva benissimo, ma non era necessario e soprattutto
non voleva portare avanti quella discussione.
“Va
bene.” concluse il ragazzo, con un lieve sospiro, per poi alzarsi
dalla sedia, dopo aver spento la sigaretta ormai consunta. Avrebbe
tanto voluto dirgli di fermarsi lì con lei, che si sentiva una
cretina, che avrebbe fatto di tutto per averlo vicino ancora un
momento, ma tutto ciò che riuscì a fare fu tacere, osservandolo
darle le spalle. “Vado a lavorare un po'.” le disse, prima di
rientrare in camera.
Attraverso
il vetro, lo vide uscire dalla stanza, richiudendosi la porta alle
spalle.
Stupida.
***
Sospirò,
posando la chitarra a terra. Avevano suonato per due buone ore,
ininterrottamente, ma a lui parve essere trascorso un decennio. Il
malumore si era impossessato del suo corpo, nel preciso istante in
cui era uscito dalla stanza di Ingie.
Più
passava il tempo e più faticava a capirla. Sfiorando le corde della
sua chitarra, non aveva mai prestato realmente attenzione a ciò che
stava facendo assieme agli altri; piuttosto, aveva pensato sempre a
lei, al perché di tale comportamento. Voleva sapere cosa la
tormentasse, voleva sapere se avesse fatto involontariamente qualcosa
di sbagliato. Odiava vederla così, ma d'altro canto non poteva fare
nulla per rimediare, se non lasciarla sola a riflettere.
“Hey,
Tom, tutto bene? Ti vedo pensieroso.” udì Georg, che gli aveva
posato una mano sulla spalla, come per infondergli coraggio, benché
non fosse a conoscenza dei suoi pensieri.
“No,
sono solo un po' stressato.” rispose lui, sorridendogli appena.
“Senti,
se andassimo a farci una corsetta? Scarichiamo un po' di tensione.”
gli propose il bassista.
Effettivamente,
una bella corsa era ciò che forse gli avrebbe fatto bene in quel
momento. Uscire dallo studio, staccare dai pensieri, fare due
chiacchiere con il suo amico. Poteva andare.
“D'accordo,
Hobbit.” accettò con entusiasmo.
***
Il
fumo biancastro fuoriusciva regolarmente dalla sua bocca, a ritmo del
respiro. I battiti accelerati, i muscoli lievemente affaticati, la
pelle leggermente umida. Correvano ormai da mezzora e si chiese come
fossero riusciti ad aver raggiunto tale livello. Lui non si era mai
definito un tipo da corsa; piuttosto era un tipo da pesi, attrezzi.
La corsa non era mai stata la sua migliore amica, vista anche la
dipendenza dal fumo che limitava la sua resistenza in fatto di fiato.
Eppure, quel pomeriggio, non si era nemmeno accorto di quanto tempo
fosse trascorso da quando avevano messo piede nel parco vicino casa.
La sua testa, benché si fosse impegnato, ancora vagava altrove.
“Hey,
hey, frena!” udì Georg richiamarlo, alle sue spalle. Si voltò
nella sua direzione curioso e lo vide con le mani poggiate alle
ginocchia, intento a riprendere aria. “Hai messo il turbo, oggi?”
ridacchiò poi, guardandolo. Solo in quel momento, Tom si rese conto
di essere anche lui senza fiato. “Sicuro che sia tutto a posto?”
gli domandò di nuovo il bassista.
Il
chitarrista voltò lo sguardo altrove. Con Georg si era sempre
confidato su tutto; loro due avevano un'intesa particolare, diversa
da quella che invece poteva avere con Gustav. Si capivano
immediatamente, a volte senza bisogno di parole inutili. Doveva però
riflettere: se gli avesse confidato ciò che stava succedendo fra lui
ed Ingie, avrebbe mancato di rispetto alla ragazza, cui aveva
promesso di non spifferare niente a nessuno.
“No.”
sospirò infine, arreso.
Vide
Georg sorridere consapevole.
“Ingie.”
disse come la sapesse lunga e il chitarrista sollevò gli occhi al
cielo.
“Possibile
che tutti quanti me la tiriate sempre fuori?” esclamò quasi
esasperato.
Non
passava giorno in cui un membro di quello studio non gli facesse
notare quanto lui ed Ingie fossero circondati da un alone di
attrazione reciproca. Non che fosse falso ma cominciò a chiedersi se
fosse davvero così evidente o fosse un'idea che tutti si erano
fatti.
“Non
è così?” chiese il bassista, senza abbandonare quel suo furbo
sorriso sul volto.
“D'accordo.”
sospirò Tom. “Ho paura di...” cominciò, senza il coraggio di
proseguire. “Oh cazzo.” borbottò, portandosi una mano alla
faccia, in difficoltà.
“Ti
stai innamorando, Tom?” gli venne in contro l'amico, facendolo
rabbrividire a tale parola.
Non
aveva più utilizzato quell'espressione dai tempi di Ria ed il
pensiero di farlo per qualcun'altra lo terrorizzava.
“Io
non lo so.” sbottò. “Sto bene con lei.” ammise con qualche
fatica. “A volte sento cose che sentivo solo con Ria e mi
spaventa.” si confidò, nascondendo ogni briciola di orgoglio. “Ho
paura di ricominciare tutto da capo, Georg.” sospirò.
“Tom,
Ria era un'altra persona.”
“Ma
tu l'avresti mai detto?” Georg non rispose. “All'inizio sembrava
una ragazza seria, sensibile, carina. Se fosse lo stesso per Ingie?
Se poi si rivelasse una delusione come lei?”
“Beh,
la differenza è che hai già conosciuto tutti i lati peggiori di
Ingie.” rispose il rosso, ironico. “Meglio diffidare dalle acque
chete, com'era Ria, piuttosto che dalle persone più esuberanti, che
si mettono immediatamente a nudo, tirando fuori anche il peggio di
loro.”
Tom
rifletté. Era d'accordo con quel tipo di discorso, ma il timore di
scottarsi nuovamente era lì nascosto, pronto a esplodere. Non poteva
permettersi di arrivare al punto si soffrire di nuovo; non da quando
aveva scoperto di provare tanto dolore per una donna, cosa che aveva
sempre escluso con presunzione, prima di conoscere Ria.
“Andiamo
a letto da un po'.”
Quasi
non si accorse di come quelle parole gli fossero uscite così
improvvisamente dalle labbra. D'altra parte, non poté biasimarsi.
Aveva il disperato bisogno di confidarsi totalmente con un amico. Suo
fratello c'era, ovvio, ma era qualcosa di diverso.
Georg,
dapprima sorpreso, sorrise appena.
“Chissà
perché avevo intuito qualcosa.” mormorò. “Cosa provi quando sei
con lei?”
Quella
domanda lo prese in contropiede. Non aveva preparato una risposta.
“Georg,
non lo so. I primi tempi non ci facevo caso. A dire il vero, non ci
ho fatto caso fino a qualche giorno fa, quando Bill ha cominciato a
mettermi in testa strane cose, confondendomi le idee. Ora non faccio
altro che pensare e chiedermi se ciò che mi ha fatto notare sia
reale. Ora sto più attento alle mie emozioni e vorrei non doverlo
fare perché mi sto rendendo conto sempre di più che stanno
divenendo incontenibili.”
Georg
si prese qualche attimo, forse per riflettere sulle sue parole.
“E
lei? Ti ha mai detto qualcosa su ciò che prova lei?” gli domandò
poi.
Tom
sospirò appena, riflettendo.
“No.
Non lo so, è enigmatica. Prima abbiamo avuto una piccola discussione
ma non so se è dovuta dal fatto che anche lei si senta confusa o
meno.” disse, ripensando a qualche attimo prima.
“Perché
non glielo chiedi?”
“Perché
se anche tu la conosci, saprai che non mi darà mai una risposta. È
dannatamente orgogliosa e cocciuta.”
“Ma
se avete instaurato questo tipo di rapporto vuol dire che la basi già
ci sono e che lei ha già buttato giù un muro bello spesso. Con
tutte le cose che vi siete sempre detti e tutti gli insulti, poteva
sembrare impossibile che lei si piegasse a venire a letto con
te, no?”
“Sì
ma è completamente diverso dal parlare dei propri sentimenti. Lei
non è in grado di farlo; è sempre restia nel dire ciò che prova.
Ha paura di mettersi veramente a nudo.”
“Io,
fossi in te, le chiederei cosa sente. Tentar non nuoce, giusto?”
“Ho
paura che mi risponda che prova per me sentimenti più forti.”
“Perché?”
“Perché
credo che non riuscirei a respingerla.”
***
Il
dito le tremava. Bastava premere un semplice tasto per avviare quella
chiamata. Non seppe dire di preciso da quanti minuti si trovasse in
quella posizione, sapeva solo che aveva percepito quel bisogno
improvviso, senza una ragione. Le aveva lasciato il suo numero e
l'aveva invitata più volte a telefonarle ogni qual volta avesse
voluto. Che male c'era? Ma cosa avrebbe potuto dirle? Che era confusa
a causa di suo figlio?
Si
strofinò la faccia con la mano libera, fino a che il dito finalmente
non si posò sull'I-Phone, avviando la chiamata. Il cuore prese a
batterle all'impazzata, non appena si portò il cellulare
all'orecchio. L'attesa era snervante e più passava il tempo, più
cercava di trovare qualcosa di plausibile da dire.
“Pronto?”
Boccheggiò.
Quasi aveva sperato che non rispondesse.
“Simone,
sono Ingie.” mormorò, incerta.
“Ingie!
Che bella sorpresa, tesoro! Come stai?” la sentì entusiasta
dall'altro capo del telefono, cosa che la fece sorridere.
“Bene,
tu?” rispose, mentre la sua gamba continuava a muoversi
freneticamente, proprio come succedeva al chitarrista quando era
nervoso.
“Tutto
bene, grazie. Che state combinando in questo periodo? So che i
ragazzi stanno lavorando molto.”
“Sì,
sono quasi sempre chiusi in sala di incisione, ormai. Si stanno
impegnando.”
“Immagino
che Bill sia sempre isterico, allora. A volte, Tom mi chiama
disperato.”
“Diciamo
che siamo ad un livello di isteria ancora sopportabile.”
“Bene,
quello è l'importante. Come va al lavoro?”
“Tutto
bene, tutto regolare.”
“Qualche
novità con la casa?”
Ingie
si prese qualche attimo di riflessione, prima di rispondere.
“Non
la sto più cercando.” ammise.
“Oh,
come mai?” le chiese la donna, probabilmente sorpresa.
“Tutti
insistono perché io rimanga qui. Ci sto riflettendo.”
Giocherellò
con una ciocca di capelli, cercando di calmarsi.
“Secondo
me, è la scelta migliore, sai?” le confidò la bionda e ciò
non poté fare altro che farla sorridere.
“Me
lo dite tutti.” sospirò appena.
“E
allora, dove sta il problema? Basta, non ci pensare più; nuova
vita!”
Ridacchiò
lievemente per il tono gioioso e spensierato che Simone aveva usato
per enfatizzare quella frase. Sembrava tutto così semplice, eppure
era perennemente frenata da qualcosa. Cosa ne sarebbe stato di lei e
Tom, se fosse rimasta a vivere con loro? Quella sorta di relazione
sarebbe andata avanti a vita? Si sarebbe evoluta? Si sarebbero
allontanati, trasformando la convivenza in qualcosa di forzato e
pesante? Tanti erano gli interrogativi che le affollavano la mente ma
poche, se non esistenti, erano le risposte.
“Già.”
sorrise impercettibilmente. “Simone, sono in crisi.” soffiò,
quasi senza voce.
“Che
succede, tesoro?” le chiese immediatamente, con fare materno.
Si
sentiva un'idiota. Stava per rovinarsi con le sue stesse mani e tutto
perché si era dannatamente affezionata a quella donna. Perché
sentiva l'impellente bisogno di confidarsi con lei? Era la madre
dell'artefice di ogni suo dubbio, diamine!
“Non
so nemmeno come dirlo.” borbottò, sfregandosi una mano sulla
faccia.
“Lo
sai che con me puoi parlare di tutto.”
“Sì,
lo so ma – oddio.” sbuffò, sollevando gli occhi al soffitto. “La
questione è un tantino complicata persino da spiegare.”
“Prova.”
Prese
un bel respiro, concedendosi qualche secondo di silenzio per
formulare la frase. Schietta e diretta, da infarto, o mille giri di
parole, senza arrivare mai al dunque?
“Se
–” si schiarì la voce. “Se mi stessi innamorando – di tuo
figlio?”
Non
seppe nemmeno lei quale dio del cielo le avesse permesso di
pronunciare proprio quelle parole. Nella testa si era
preparata tutt'altro discorso, o meglio, tutt'altri termini.
Innamorando.
Da quando lo pensava?
Aveva
paura di ciò che avrebbe potuto dire Simone e si pentì amaramente
di essersi abbandonata a quella maniera.
“Inutile
che ti chieda quale dei due, giusto?” Sorrise appena a quella
domanda retorica. “Ingie, io l'avevo capito.” le disse
dolcemente, facendola sentire piccola. “Perché sei in crisi?”
“Perché
non doveva accadere e non so cosa fare.” ammise, con voce
tremolante. “Io non so ancora cosa provo per lui. Sono confusa. Amo
stare con lui, amo le sue attenzioni. Simone, mi sento una cretina.”
Quasi
le venne da piangere. Come aveva fatto a ridursi a quella maniera?
Era da quando frequentava il liceo che non si sentiva così impotente
e travolta da sentimenti incontrollabili.
“Dio,
vorrei tornare ad avere vent'anni.” sentì sospirare Simone e
la immaginò sorridere spensierata. “Tesoro, non devi sentirti
così. Non andare in crisi, non passare nemmeno le ore a chiederti
cosa possa essere questo sentimento. Vivi il secondo, come direbbe
Bill.”
“Non
posso innamorarmi di Tom.”
“Perché
no? Guarda che è un bravo ragazzo.”
“Lo
so ma – non posso.” Aveva un milione di motivi per non
innamorarsi di lui e lo sapeva bene. “Non so, forse è anche per
questo che sarebbe meglio se mi trasferissi. Vivere con lui non mi
aiuta a schiarirmi le idee.”
“Invece
è il modo migliore per capire cosa provi.”
“Ma
io non lo voglio capire. Simone, mi sento stupida a dirti queste
cose. D'altronde, tu sei a Lipsia e non puoi fare nulla. Non puoi
entrarmi nella testa e ripulire la mia mente di tutti questi
pensieri. Anzi, mi dispiace di averti chiamato per un motivo così
futile.”
“Scherzi,
Ingie? Perché mai ti avrei dato il mio numero di telefono? Mi puoi
chiamare anche ogni secondo della giornata, se ne hai bisogno. Mi fa
piacere parlare e sono contenta del fatto che tu scelga di chiamarmi.
Mi sono affezionata molto a te perché ti sento quasi come una
figlia, nonostante io ti abbia visto solamente due volte. Sei una
ragazza adorabile e ti confesso che mi piacerebbe saperti assieme a
mio figlio.” Il cuore di Ingie prese a galoppare e si ritrovò
a sorridere involontariamente. “Sai, Ingie, io l'ho visto stare
male. Quando l'ho trovato con le lacrime agli occhi per colpa di Ria,
non puoi capire cos'ho sentito allo stomaco. È raro che Tom pianga,
davvero raro. Da quando sei entrata in casa loro, si è
miracolosamente ripreso. Io non so cosa tu faccia, ma è diverso.
Anche ora, quando lo sento al telefono, è inspiegabilmente allegro.”
Saperlo piangere le toccò il cuore. Non aveva mai visto Tom piangere
e sperò con tutta se stessa di non doverlo mai fare. Il suo odio per
Ria stava lentamente crescendo. “Se tu senti il bisogno di
passare del tempo con lui, fallo. Se senti il bisogno di parlargli,
fallo. Fai tutto ciò che ti dice il cuore, Ingie, te lo dico da
mamma. Perché potresti rimpiangere di non averlo fatto. E poi, ho la
sensazione che Tom provi le stesse cose.” La mora sorrise
impercettibilmente. “Conosco anche il suo più semplice sguardo.
Prova qualcosa per te, che sia amore o meno. Per questo ti dico di
non indugiare a mostrarti.”
Tremò
appena, prendendosi qualche secondo.
“Ho
paura.” soffiò con un filo di voce, come si vergognasse di tale
ammissione.
“L'amore
fa paura.” rispose Simone. “Ma è anche qualcosa di
stupendo, se vissuto nella giusta maniera.”
“Non
mi posso permettere di buttarmi a capofitto in questa faccenda. Ci
sono troppe cose che –” Chiuse gli occhi senza terminare la
frase. “Simone, non potrei tornare indietro, capisci?”
“Vuoi
vivere per sempre con questo enorme dubbio? Vuoi vivere chiedendoti
come sarebbe stato provarci? E se fosse proprio Tom la persona
giusta, Ingie?”
“No,
io non credo.”
“Perché?”
“Perché
non andiamo d'accordo. Un conto è divertirsi, un conto è fare
qualcosa di serio.”
Si
maledì per quella sua ultima uscita. Simone non era assolutamente al
corrente della relazione sessuale che aveva intrapreso con il ragazzo
e si sentì un'emerita idiota per aver pronunciato tali parole.
Eppure, Simone non sembrò farci caso o forse, da donna matura, aveva
deciso di evitarle l'imbarazzo.
“A
volte, bisogna fare delle scelte. Bisogna avere il coraggio di
manifestare un proprio desiderio, pur conoscendo le possibili
conseguenze. Spesso, è necessario anche questo per raggiungere un
po' di serenità.” Quella frase la fece riflettere. Lei? Quando
avrebbe raggiunto la sua serenità? “Inoltre, non lo sai che
andare sempre d'accordo rende una relazione noiosa?” cercò di
sdrammatizzare, facendola nuovamente sorridere.
“Sono
tante le persone che potrebbero uscirne scottate. Io, Tom, Bill...
Tu. Persino Georg e Gustav; non posso permettermi di rovinare un
equilibrio simile. Ci ha già pensato Ria ed io non voglio essere
solamente un suo clone.”
“Non
potrai mai esserlo perché tu hai avuto la possibilità di conoscerli
meglio di chiunque altro e di condividere con ognuno di loro delle
cose. Ria aveva un rapporto con Bill, ecco tutto. Con Georg e Gustav
non si è mai frequentata più di tanto.”
“A
maggior ragione. Rischio ancora di più di deluderli ed è una cosa
che non sopporterei mai. Non potrei mai leggere nei loro occhi l'odio
nei miei riguardi. Non me lo perdonerei.”
“Allora,
cos'hai intenzione di fare? Vuoi precluderti questa cosa?”
Ingie
si prese qualche attimo per pensare, nonostante quelle riflessioni le
facessero troppo male.
“Penso
sia la cosa migliore per tutti.” mormorò infine, arresa
all'evidenza.
Sentiva
una fortissima morsa allo stomaco che quasi le impediva di parlare.
Giungere a quella conclusione era stato per lei doloroso ma si era
anche resa conto che era l'unico modo per far sì che nessuno
soffrisse e che ognuno uscisse perfettamente illeso da tutta quella
strana storia. Avrebbe portato avanti quella sorta di rapporto con
Tom, ignorando egoisticamente i propri sentimenti, per quanto
incontenibili stessero divenendo.
“Stai
sbagliando, Ingie. Ma non posso fare nulla per farti cambiare idea.
La decisione è tua.” le disse dolcemente la donna, facendola
sospirare per l'ennesima volta.
“Grazie,
Simone, per avermi ascoltato, davvero. Ora come ora, mi chiedo perché
ti abbia chiamato per dirti questo. Mi sento stupida ma ne sentivo il
bisogno. Sei – sei come una mamma per me e... Ti voglio bene.”
Il
cuore minacciava di sfondarle il petto. Non le era mai capitato di
dire una cosa simile a qualcuno, benché lo pensasse. Quella volta,
era accaduto con una spontaneità tale che quasi l'aveva spaventata.
“Anche
io te ne voglio, Ingie. Sappi che, per qualsiasi cosa, sono qui.”
“Grazie.
E, Simone?”
“Sì?”
“Potresti
–”
“Non
ne farò parola, tranquilla.”
***
Bill
aveva un diavolo per capello. Odiava lavare la macchina, era un
qualcosa di snervante per lui.
C'era
gente che odiava attività molto più estenuanti; lui odiava lavare
una semplice macchina, punto. Era come dover scalare una montagna e
trovava sempre qualche scusa per rimandare il più possibile quel
compito. Aveva chiesto aiuto a Gustav, il quale si era immediatamente
defilato con la scusa di andare a fare la spesa. Incredibile come
quel ragazzo, alle volte, da angioletto si trasformasse in un
insensibile essere umano.
Sbuffò,
girando attorno all'auto di suo fratello.
Maledetto
mio fratello e la sua dannata passione per le auto enormi.
Improvvisamente,
sentì dei passi alle sue spalle e, non appena si voltò, trovò la
testa di Ingie sbucare dalla porta di casa.
“Hey,
non c'è nessuno?” gli domandò la ragazza, curiosa.
“No,
se la sono svignata in tempo.” borbottò lui, con le mani sui
fianchi.
“In
tempo per cosa?” chiese di nuovo lei, uscendo definitivamente dallo
studio, per avvicinarglisi.
“Devo
lavare la macchina ed è una cosa che odio con tutto me stesso.”
Vide
la mora ridacchiare, per poi rimboccarsi le maniche.
“Dai,
ti aiuto io.” si offrì con sua gioia.
“Tu
sì che sei un angelo.” cantilenò con gli occhi che brillavano.
“Quando vuoi.” aggiunse poi, ironico. In meno di un minuto, si
erano ritrovati ad insaponare l'auto insieme, scherzando di tanto in
tanto. Doveva ammettere che farlo in compagnia era decisamente più
divertente. “Sai, con le canzoni siamo a buon punto.” le disse ad
un tratto, decisamente fiero di darle quella notizia.
“Sì?”
sorrise lei, contenta.
“Certo,
mancano ancora un sacco di pezzi, ma almeno non siamo più in alto
mare come prima.”
“Ecco
perché sei meno isterico. Di solito i nostri cicli mestruali
coincidono.”
“Simpatica.”
“Comunque
sono contenta. Per lo meno, siete più tranquilli.”
“Già.”
Si prese qualche attimo. “Senti, con –”
“No.”
lo interruppe, secca, cosa che lo portò a sgranare gli occhi
perplesso. “Non ho voglia di parlare di tuo fratello.”
“No,
è che l'ho visto un po' pensieroso. Volevo solo sapere se era tutto
a posto.” spiegò, gesticolando eccessivamente.
“Sì,
tutto a posto.” tagliò corto lei.
Bill
decise di non indagare oltre. Poteva ben capire che per lei e per Tom
non fosse del tutto facile continuare a parlare di quella strana
situazione. Si rendeva anche conto di essere un po' pesante, a volte,
con tutte quelle domande; ma era più forte di lui. Stavano parlando
del suo stesso sangue, era normale preoccuparsi, soprattutto dopo ciò
che Ria gli aveva fatto passare. Sapeva che poteva fidarsi di Ingie
ma, doveva ammetterlo, era anche dannatamente curioso.
“Posso
fare solo una domanda? Poi giuro che non ti rompo più le palle!”
esclamò, parlando velocemente, per impedirle di interromperlo di
nuovo. La vide sollevare gli occhi al cielo, sospirando. Poi tornò a
guardarlo, in attesa. “Dimmi solo che prendete precauzioni, ti
prego.” parlò.
“Bill!”
esclamò la ragazza, divenendo improvvisamente rossa in viso. “Che
razza di domanda impertinente è questa?! Non eri tu quello discreto
dei primi tempi?!”
“Senti,
non mi fraintendere, è il mio sogno diventare zio ma... Non è
esattamente il periodo –”
“Bill,
per carità, nessuno diventerà zio, qui dentro! Puoi dormire su
sette cuscini!”
“D'accordo!”
Gli
venne quasi da ridere ma si guardò bene dal farlo, prima di
rischiare di perdere tutti i denti. Il fatto che Tom non stesse
attento, durante i rapporti, era qualcosa che lo tormentava. Forse
erano pensieri stupidi, ma non poteva evitarli.
“Poi
non capisco perché non fai queste domande a lui. Tra uomini è più
normale, no?” continuò a borbottare la ragazza, sotto il suo
sguardo divertito.
“Salve,
gente!” Quell'improvvisa esclamazione li portò a voltarsi verso il
cancello, dal quale rientravano Georg e Tom. Era stato il bassista a
parlare. “Oh, Bill all'opera. Che gioia per gli occhi.” lo prese
in giro, avvicinandosi all'auto piena di schiuma.
“Taci,
Hobbit, o comincio a commentare sulla stranissima voglia
improvvisa di tenerti in forma.” lo stuzzicò il ragazzo.
Non
gli era sfuggito nel frattempo che Tom non fosse partito alla carica,
stuzzicando Ingie all'inverosimile. Se ne stava semplicemente
immobile, con le mani in tasca, ad osservarli distrattamente. Ci
aveva visto giusto: era successo qualcosa.
“Vado
a farmi una doccia, che è meglio.” commentò il rosso, per poi
sorridere ad Ingie e sparire in studio.
“Ingie,
mi faresti un favore? Mi puoi andare a prendere una lattina di birra
in frigo? Mi è venuta sete.” si rivolse alla ragazza. Era stata la
prima scusa a balzargli in mente per scambiare due parole con suo
fratello.
“Ti
porto l'acqua.” si oppose lei, facendolo sorridere, prima di
chiudersi la porta alle spalle.
Bill
si voltò immediatamente verso il chitarrista.
“Dieci
secondi e pochissime parole per riassumermi cos'è successo con
Ingie.” parlò velocemente, puntandogli gli occhi inquisitori
addosso. Tom sembrava spaesato.
“Nulla.”
si limitò a rispondere, con una scrollata di spalle.
“Muoviti,
sta per tornare.” insistette il biondo, battendo infantilmente un
piede a terra.
“Abbiamo
avuto una piccola discussione, non abbiamo nemmeno litigato. È una
stronzata, Bill, davvero.”
“Allora
perché non vi parlate?”
“Chi
ha detto che non ci parliamo? Certo che ci parliamo.”
“Non
mi è sembrato, prima.”
“Non
avevamo semplicemente nulla da dirci.”
“Acqua!”
esclamò la ragazza, di nuovo in giardino, facendoli nuovamente
voltare verso di lei, come nulla stesse accadendo. Sventolava una
bottiglia nella direzione del vocalist. “Tieni, Speedy.”
“Grazie,
Ingie.” sorrise lui, incerto.
***
Odiava
doverla ignorare. Aveva trascorso l'intera cena a scrutarla con la
coda dell'occhio, senza dire una parola. Eppure non avevano litigato,
non si erano detti nulla di così grave da portarli a non interagire,
se non per chiedere il sale. Non era decisamente da loro. I loro
pasti erano sempre accompagnati dalle provocazioni, dai dispetti
reciproci, dalle risate, che poi terminavano in camera da letto. Non
seppe dire il motivo per cui quella sera tutto fosse differente.
Era
rimasto solo in salotto, davanti al televisore dall'audio quasi
disattivato, intendo a carezzare distratto Scotty, che gli dormiva
tranquillo sulle gambe. Sbuffava di tanto in tanto, come fosse
perennemente tormentato da qualcosa. Aveva voglia di raggiungerla ed
infilarsi semplicemente sotto le coperte assieme a lei, ma l'orgoglio
maschile a volte prendeva il sopravvento. Sospirò di nuovo, buttando
un piede sul tavolino di fronte al divano. Le donne gli avevano
sempre e solo portato guai nella vita e si chiese perché non
imparasse mai la lezione.
Arreso,
spense la televisione, per poi buttare il telecomando sul divano.
Spostando delicatamente il cane, si sollevò in piedi e prese a
salire silenziosamente le scale.
Alla
fine, non riusciva mai a tenere duro con lei.
Quando
si trovò di fronte alla porta di Ingie, non bussò nemmeno; la aprì
e la richiuse, insinuandosi nell'oscurità. Non sapeva se stesse
dormendo ma non gli importò più di tanto. Si avvicinò a tentoni al
letto e, piano, vi si sdraiò, coprendosi con il piumino. Con le mani
trovò il suo corpo caldo e profumato e, senza dire una parola, la
avvolse con le braccia, poggiando il proprio petto contro la sua
schiena. Aveva capito che era sveglia dal lieve sussulto che aveva
provato, vicina a lui, cosa che lo fece sorridere involontariamente.
“Ti
odio.” le sussurrò sulla nuca. “Non riesco mai a lasciarti
perdere.”
“Questo
perché sei un piccolo, tenero Piggy.” parlò di rimando la
ragazza, senza voltarsi verso di lui.
“Potresti
venire tu, ogni tanto, da me. Sei dannatamente orgogliosa.” si
lamentò appena. “Se non faccio io la prima mossa, sei capace di
non rivolgermi parola per mesi.”
“Non
te lo chiedo io, di venire tutte le volte da me.”
“Ecco,
mi stai già irritando.” borbottò il chitarrista, facendo per
alzarsi dal letto, ma percepì le mani sottili della ragazza
stringersi attorno alle braccia che la tenevano ancora stretta. Era
stato come un riflesso incondizionato che servì a farlo nuovamente
rilassare alle sue spalle. “Lo prenderò come un passo avanti da
parte tua.”
Ingie
non rispose ma poteva benissimo immaginare che stesse sorridendo.
“Sai,
Piggy, penso di essere arrivata ad odiarti, qualche tempo fa.”
mormorò la ragazza.
Tom
sogghignò.
“Non
ce lo ripetiamo tutti i giorni?” la stuzzicò.
“Parlo
seriamente.” lo rimbeccò lei.
“E
perché mi sembra che questo ti preoccupi?”
“Perché
non ti odio più.”
Tom
deglutì appena. Non sapeva il motivo, ma quel discorso lo agitava un
poco, nonostante continuasse a sorridere. Adorava semplicemente
quando Ingie decideva di aprirsi con lui di sua spontanea volontà.
“Beh,
grazie.” ridacchiò, divertito. “Neanche io ti odio davvero.”
Gli pareva un discorso assurdo ma, conoscendola, doveva accettarlo
per quello che era. Sapeva che aveva un modo tutto suo per esprimere
le sue emozioni e sapeva anche che nel campo affettivo era un
completo disastro. La cosa, ovviamente, lo inteneriva parecchio. “È
questo che ti preoccupa? Il fatto che non mi odi più?” le domandò
poi, carezzandole un braccio, senza nemmeno rendersene conto.
“Un
po'.” sospirò lei.
Tom
capì immediatamente qual'era il vero problema. Ingie era tormentata
dagli stessi suoi dubbi ed interrogativi. Entrambi stavano
attraversando una fase di confusione, che vedeva protagonisti i loro
sentimenti. Mai la capì realmente come in quell'istante, tanto che
la strinse un po' di più.
“Non
credere di essere l'unica ad avere paura.” soffiò, quasi
vergognandosene. Aveva solamente deciso di andarle in contro,
esattamente come lei si era impegnata per pronunciare quelle parole
così vaghe in superficie ma piene di significato in profondità. “Mi
fai dormire qui, stanotte?” le chiese poi, per non seppe nemmeno
quale motivo.
“Come
se le altre notti avessi dormito nel tuo letto.” rispose lei con
sarcasmo.
Sorrise,
chiudendo gli occhi.
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Capitolo 20 *** Nineteen - Facing the reality ***
ciao
Nineteen
Facing
the reality
Canticchiava.
Sapeva che Ivan la scrutava come se un alieno si fosse impossessato
del suo corpo. Lo stava facendo da minuti interminabili ormai,
vagando per il negozio, intenta a riordinare tutti i capi
d'abbigliamento come se ciò fosse la sua più grande passione.
Per
lei, canticchiare era come chiedere a Gustav di ballare la lap-dance.
Stessa cosa.
Era
da tempo che non si sentiva particolarmente spensierata e sapeva che
quel suo benessere e quel suo buon umore erano dovuti esclusivamente
al chitarrista. Stavano attraversando un periodo non molto chiaro fra
loro; non sapevano esattamente come definirlo. Non stavano insieme ma
entrambi avevano compreso che la loro relazione non poteva più
essere definita puramente sessuale. Sapevano che i sentimenti
che stavano lentamente crescendo fra loro non erano da sottovalutare
ma la paura di scottarsi era sempre lì in agguato, motivo per cui
nessuno dei due faceva il passo più lungo della gamba. Non avevano
mai più manifestato emozioni e parole dall'ultima volta; avevano
semplicemente portato avanti quel loro rapporto intriso di prese in
giro, frecciatine, ma pieno di affetto. Era così: Tom con lei
esternava una dolcezza che credeva non esistere in lui.
Ingie
aveva deciso di non farsi più domande o paranoie. Struggersi l'anima
non l'avrebbe fatta stare meglio e non avrebbe risolto molte cose in
sospeso di cui lei era a conoscenza. Doveva semplicemente scollegare
il cervello per un momento e godersi le attenzioni del ragazzo, che
la facevano sempre sorridere.
“Ingie,
sei particolarmente di buon umore, oggi.” parlò improvvisamente
Ivan.
La
ragazza si era chiesta quanto tempo ancora avrebbe dovuto attendere
per la prima domanda. Sapeva che era da un po' di ore che avrebbe
voluto instaurare quella conversazione, senza osare.
“No.”
rispose lei con una scrollata di spalle, cercando di sembrare il più
vaga possibile.
“Certo.”
ridacchiò il ragazzo, facendola sorridere. “Beh, non ti chiedo
nulla. Sono semplicemente contento di vederti così.”
Lei
si limitò ad annuire, facendogli capire quanto apprezzasse.
***
Non
sapeva dire esattamente da quanto tempo non toccasse più il proprio
letto. Dormire con Ingie, ormai, era divenuta un'abitudine talmente
naturale che nemmeno le chiedeva più se potesse fermarsi da lei.
Sapeva che non le dispiaceva, proprio come non dispiaceva a lui.
Tutt'altro. Aveva riscoperto il piacere di dormire abbracciato a
qualcuno, benché non si trattasse della sua ragazza. Certo, quella
situazione pareva strana persino a lui; d'altronde, chi li avesse
visti con occhio esterno, avrebbe sicuramente affermato che fossero
fidanzati e che l'unica cosa che mancava era una semplice
ufficializzazione. La realtà era molto diversa, poiché al di fuori
della camera da letto – e soprattutto davanti agli altri – si
comportavano come nulla fosse.
Rivelare
anche a Gustav cosa stesse accadendo fra loro era stata una semplice
conseguenza al fatto che lo sapessero tutti tranne lui. Doveva
ammettere però che i ragazzi erano stati molto bravi a comportarsi
nella maniera più genuina possibile, per non mettere in imbarazzo né
lui né Ingie.
Pizzicava
distratto le corde della sua amata chitarra acustica, mentre Scotty
gli dormiva affianco, sul divano. Lo strumento rilasciava una melodia
sconosciuta, del tutto improvvisata, piuttosto rilassante.
Rispecchiava appieno il suo stato d'animo che, attualmente, sentiva
estremamente leggero e privo di ogni preoccupazione.
Ripensò
alle volte che si fermava in palestra con Ingie per assistere alla
nuova coreografia che stava montando, giorno dopo giorno, e non poté
fare a meno di sorridere. Vederla ballare era per lui qualcosa di
straordinario e odiava non poter rivelare ai ragazzi a cosa stesse
lavorando, perché desiderava che anche loro potessero osservarla
nella sua bravura. Inutile dire però quanto si sentisse lusingato
alla richiesta di tacere, segno che di lui si fidava ciecamente
ormai.
Ogni
qual volta Ingie cominciava a muovere braccia e gambe, i suoi occhi
erano come ipnotizzati e non riusciva a distoglierli dalla sua figura
così elegante, nonostante il genere musicale. E più la guardava,
più si convinceva che avrebbe fatto strada, cosa che scoprì di
desiderare per lei quanto desiderava il successo per la sua band.
Osservarla
ballare lo emozionava semplicemente.
“Perché
non la porti a cena fuori?”
Quella
domanda fu una doccia talmente fredda, che le sue dita quasi si
incastrarono fra le corde, producendo un suono sordo e terribilmente
stonato. Sollevò lo sguardo su suo fratello, seduto sul divano di
fronte.
“Chi?”
domandò come un idiota. Bill sollevò un sopracciglio, senza
rispondere. A quel punto, il chitarrista sospirò pesantemente.
“Bill, non lo so. Mi sembra una cosa troppo seria ed ufficiale.”
borbottò, tornando a posare lo sguardo sulla sua chitarra, questa
volta senza suonarla.
“Io
invece credo che la faresti contenta.” ribatté il vocalist, con
una scrollata di spalle.
Tom
fece una smorfia.
“Non
la conosci. È l'anti-romanticismo per eccellenza.” commentò con
sarcasmo.
“Una
cena non deve essere per forza romantica. È per fare qualcosa di
diverso, per stare un po' da soli.”
“Stiamo
da soli a sufficienza.”
“Intendo
fuori di qui.”
“Ed
è proprio questo che mi agita. È il fuori di qui. Sarebbe
come, non so, presentarci al mondo? Non stiamo insieme, non so come
ripeterlo.”
“Io
non ci vedo nulla di male.”
“Perché
tu sei puro ed ingenuo. I paparazzi e la gente non sono dello stesso
avviso.”
Bill
scrollò nuovamente le spalle, come se la cosa non lo interessasse.
“Beh,
fai come vuoi.” concluse semplicemente.
***
“D'accordo.
Ciao, Amanda.”
Chiuse
la telefonata, tornando poi ad impastare assieme a Gustav.
Impastare.
Non
ricordava come e perché avesse accettato di rimboccarsi le maniche
con il batterista e cimentarsi in una pasta fatta in casa,
all'italiana. Loro, che dell'Italia non conoscevano nulla, avevano
dato un'occhiata su Internet, per capire come quella dannata pasta
all'uovo, come apparentemente la chiamavano gli italiani, si
facesse.
Doveva
ammettere, in ogni caso, che l'idea l'aveva sin da subito divertita
ed entusiasmata.
“Secondo
te è normale che non si indurisca?” borbottò Gustav
all'improvviso, facendola scoppiare a ridere. Era da minuti
interminabili che impastavano quella strana poltiglia di uova, farina
e non ricordava cos'altro senza un evidente risultato.
“Aggiungiamo
un altro po' di farina.” improvvisò Ingie, spolverandone un po'
sull'impasto. Non era mai stata un genio dell'arte culinaria e
pregò che quelle sue iniziative non facessero saltare in aria la
cucina, una volta giunto l'intervento del fuoco.
“Da
quanto tempo non cucini, per curiosità?” domandò Gustav senza
guardarla.
“Credo
di non aver mai cucinato in vita mia, a parte la colazione. Se vale
come cucinare.” rispose, divertita. D'accordo, aveva
volontariamente esagerato.
“Bene.”
fece ironico il batterista.
“Cosa
cacchio state facendo?” fu la domanda di Georg, non appena fece il
proprio ingresso in cucina.
“Pasta
all'uovo!” esclamò la mora, pensò con una tremenda pronuncia
italiana.
“Scusa?”
fece di nuovo Georg, avvicinandosi ai due.
“Una
strana pasta italiana.” rispose Gustav.
“E
perché mai vi sarebbe venuta la voglia di cucinare?”
“Tu
hai qualcosa di meglio da fare? E poi era da tanto che volevo
provarla.” ribatté il biondo, senza abbandonare il suo lavoro.
“Guarda, forse si sta indurendo.” disse poi ad Ingie.
Effettivamente,
la poltiglia stava assumendo sembianze più simili ad una pasta.
“Sono
il genio del male.” ghignò la ragazza con soddisfazione.
“La
cosa è altamente preoccupante.” commentò Georg, mentre recuperava
un bicchiere dalla credenza per riempirlo d'acqua che buttò giù in
un solo sorso. “Vi lascio. Vado a correre.”
“Dì
un po', Isa ti ha ordinato di dimagrire? È un periodo che non fai
altro che andare a correre.” lo stuzzicò Gustav, mentre il
bassista gli dava le spalle, intento ad uscire dalla cucina.
“Può
darsi.” cantilenò il rosso, per poi sparire, sotto le risate di
Gustav ed Ingie.
Improvvisamente,
una fitta intensa al basso ventre la fece piegare appena su se
stessa. Sbuffò, riconosceva quel tipo di dolore.
“Scusami,
arrivo.” borbottò a Gustav, congedandosi. Recuperò un cambio di
intimo da camera sua, per poi chiudersi in bagno. Non appena constatò
che il suo sospetto era fondato, aprì il mobiletto di fronte a lei.
Per lo meno Tom avrebbe smesso di preoccuparsi di una presunta
gravidanza. Rovistò fra i prodotti, trovò addirittura un pacco di
preservativi, ma di ciò che le serviva nemmeno l'ombra. “Are
you kidding me?” esclamò al vuoto, cominciando ad
innervosirsi. Possibile che si fosse dimenticata di fare la spesa?
“Fuck!” chiuse con un tonfo l'anta del mobiletto e
rimuginò sul da farsi. Cosa diamine poteva combinare in quelle
condizioni? Chiuse gli occhi mordendosi il labbro inferiore. Sapeva
che la soluzione poteva essere solamente una. “Tom!” urlò,
sperando che la sentisse. L'avrebbe mandata a quel paese, se lo
sentiva. “Tom!” ripeté, più forte.
“Ingie,
mi hai chiamato?” sentì la voce del chitarrista al di là della
porta. Quando percepì la maniglia abbassarsi quasi morì di infarto.
“Non
entrare o ti uccido!” urlò, senza pensarci e vide la maniglia
tornare immediatamente al suo posto.
“Hey,
tutto bene?” le chiese di nuovo. Sentì la preoccupazione nel tono
di voce.
“No.”
borbottò lei. “Sto per chiederti il favore più grande che
potresti mai farmi nella tua vita.” parlò, non sapendo come
articolare la domanda. Era imbarazzante.
“Non
farò uno spogliarello per te, stasera.” mise immediatamente le
mani avanti il ragazzo, come sempre.
Ingie
aprì la bocca per ribattere ma poi pensò che non era una brutta
idea. Ridacchiò mentalmente di quel pensiero e tornò a parlare.
“Dovresti
andare a comprarmi delle cose.” disse vaga, torturandosi le mani.
“Tutto
qui? Dimmi cosa ti serve.”
Morte
certa. Ingie si schiarì la voce, tossicchiando.
“Gli
assorbenti.” farfugliò. Udì silenzio dall'altra parte, il che non
era un buon segno, lo sapeva. “Tom?” lo chiamò incerta.
“Te
lo puoi scordare.” ribatté finalmente il ragazzo, come previsto.
“Tom!”
si lamentò lei.
“No,
Ingie, ti pare?!”
Non
sapeva se ridere o piangere.
“Tom,
mi servono! Non posso stare chiusa in bagno!” esclamò con
decisione. Non poteva assolutamente passare ore o addirittura giorni
lì dentro solamente perché il chitarrista si vergognava di
acquistare degli assorbenti.
“Quanto
durano? Cinque giorni? Ti porto da mangiare e da bere.”
“Non
sei spiritoso.”
“Non
volevo essere spiritoso, infatti.”
Sgranò
gli occhi esterrefatta.
“Tom,
ma scherzi?! Hai davvero il coraggio di lasciarmi qui dentro?! Sono
dei cazzo di assorbenti! Non ti ho detto di andarmi a prendere della
droga!”
“Magari
con quella avrei avuto meno problemi!”
“Oh,
andiamo!” batté il piede a terra, scocciata. “Tom, veramente,
non so a chi altro chiedere! Non posso uscire io, faccio un macello!”
“Cristo,
Ingie!” si lamentò il ragazzo. “Perché cazzo non li hai
comprati tu?!”
“Perché
mi sono dimenticata, capita!” sbuffò lei. “Dai, Piggy.”
lo pregò di nuovo. Sapeva che stava per cedere.
“Quando
uscirai dal bagno, te la farò pagare.” borbottò, facendola
sorridere.
“Grazie,
Piggy. Lo sapevo che avevi un cuore d'oro.” cantilenò sotto
le sue imprecazioni. “Ah, Tom.” si ricordò all'improvviso.
“Cosa?”
sputò lui.
“Interni.”
“Cazzo,
Ingie!” La ragazza non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere.
“Smettila, di ridere! Un ragazzo non vorrebbe neanche conoscere
determinate cose!”
“Oh,
come sei melodrammatico.” lo prese in giro. “Dai, vai, prima che
metabolizzi e cambi idea.”
“Sono
tentato.” farfugliò lui, prima di allontanarsi dal bagno.
Ingie
scosse la testa, divertita.
***
Chi
me l'ha fatto fare? Quando torno a casa, la uccido.
Continuava
a borbottare mentalmente da quando aveva messo piede fuori dallo
studio ed era salito in macchina. Si era avvicinato con circospezione
al reparto assorbenti, come se avesse commesso qualche omicidio.
Sbuffò seccato, cercando ciò che Ingie gli aveva chiesto, ignorando
gli sguardi delle signore che gli sostavano affianco, intente anche
loro a scegliere il prodotto.
Cristo.
Più
cercava di velocizzarsi con la commissione, più perdeva tempo,
poiché non riusciva a capire quale scatola dannata fosse quella
giusta.
Ma
di quanti tipi ne fanno? Non ne basta uno?
Quando
adocchiò una scatola che illustrava qualcosa che poteva combaciare
con la descrizione di Ingie, chiuse gli occhi e la afferrò, per poi
abbandonare il reparto in fretta e furia. Pensò che giungere alla
cassa con quell'unico acquisto sarebbe stato ancora più
imbarazzante, così decise di rifornirsi anche di schiuma da barba e
confezione di birra, giusto per riaffermare la sua virilità. Ignorò
gli occhi accigliati della commessa e si affrettò ad uscire dal
negozio. Quando aprì la macchina e vi lanciò dentro il sacchetto,
tirò un sospiro di sollievo.
“Hey,
scusa.”
A
quel richiamo, si voltò automaticamente. Di fronte a lui, un ragazzo
biondo dagli occhi azzurri lo guardava incuriosito.
“Sì?”
domandò.
“Tu
sei Tom, dei Tokio Hotel, giusto?” gli chiese.
“Può
darsi.” rispose lui, guardandosi attorno circospetto, cosa che fece
sorridere lo sconosciuto.
“Potresti
farmi un autografo? È per la mia sorellina, è una vostra fan.”
“Oh,
certo.” mormorò il chitarrista, attendendo che il ragazzo tirasse
fuori carta e penna. “Come si chiama?” si informò, prima di
scrivere.
“Lara.”
Scarabocchiò sul pezzo di carta un 'A Lara, con affetto. Tom' e
glielo porse nuovamente. “Grazie mille.” sorrise il biondo.
“Figurati.”
rispose Tom prima di risalire in macchina.
***
“Ecco
i tuoi dannati assorbenti.”
Quando
Ingie udì la voce del chitarrista al di là della porta del bagno,
sorrise traendo un sospiro di sollievo.
“Grazie.”
rispose, avvicinandosi ad essa. Aprì appena, giusto per affacciarsi
con gli occhi e si fece passare il pacco, prima di richiudersi
dentro. Una volta sistematasi, finalmente uscì dal bagno. Tom era
ancora lì fuori ad attenderla con sguardo severo e braccia conserte.
“Dai, smettila di fare l'indignato.” sorrise appena.
“La
prossima volta ti spedisco a comprare tre pacchi di preservativi,
così mi dici.” ribatté lui.
“Quelli
ne hai già a sufficienza, lì dentro.” si riferì al mobiletto,
cosa che lo portò a sorridere furbescamente. “Hai delle alte
aspettative su di me, eh?” lo punzecchiò, per poi incamminarsi
verso camera sua, seguita dal chitarrista.
“Sì,
peccato che non ne usiamo nemmeno uno.”
Ingie
si buttò sul letto, mentre il ragazzo le si sdraiava accanto.
“Siamo
dei bambini cattivi.” disse lei, mentre lui prendeva a carezzarle
la pancia.
“Già.”
mormorò Tom, per poi osservarla attentamente negli occhi. Ingie
percepiva le così dette 'farfalle' divorarle lo stomaco. Perdersi in
quel castano così intenso era divenuto quasi doloroso e si chiedeva
cosa riuscisse a trattenerla dal saltargli addosso, ogni volta.
Chiuse gli occhi, beandosi delle carezze della sua mano calda sul
ventre. Ormai era divenuta una routine: il ragazzo sapeva quanto
stesse male durante quei periodi e, senza dire più nulla, si
sdraiava sempre accanto a lei, regalandole quelle coccole che, come
per magia, la facevano già stare meglio. Adorava le attenzioni e le
cure che le dedicava, pur non essendo costretto. “Senti, ti
sembrerà una proposta strana.” esordì lui all'improvviso,
portandola a posare nuovamente lo sguardo sul suo viso rilassato.
“Ormai
non mi spaventa più nulla.” lo prese in giro.
“Se
andassimo a cena fuori, stasera?”
“Certo,
l'hai detto agli altri?”
“Intendo
da soli.”
“Oh.”
Dire che era sorpresa di quella richiesta era poco. Sapeva quanto il
ragazzo fosse restio a farsi vedere in giro insieme e doveva
ammettere che la cosa non entusiasmava nemmeno lei. Non perché si
trattava del chitarrista, ma perché i paparazzi erano sempre in
agguato e lei doveva stare molto attenta, dall'ultima fotografia,
fuori della discoteca. “Non eri contrario?” gli domandò,
curiosa.
“Lo
sono ancora.” rispose lui, facendole sollevare un sopracciglio con
sarcasmo. “Però, non lo so. Mi sembra ingiusto.”
“Non
è ingiusto. È per salvaguardare tutti quanti.”
Tom
sbuffò appena, scompigliandole così i capelli che lei riportò al
loro posto con un gesto automatico.
“Per
una volta vorrei fregarmene, sai?” la sorprese. “Se sei
d'accordo.”
“Questi
tuoi sporadici momenti di ribellione sono destabilizzanti, ne sei
consapevole?” sorrise lei, giocherellando con un rasta. Adorava
farlo. “Gustav!” esclamò poi all'improvviso, come illuminata,
spaventando il ragazzo. “L'ho abbandonato in cucina con la pasta
all'uovo!” continuò dispiaciuta, alzandosi dal letto.
“La
cosa?” domandò Tom confuso ma lei era già uscita di corsa
dalla stanza, catapultandosi giù per le scale.
“GusGus!”
prorompette una volta invasa la cucina. “Scusami, ho avuto un
piccolo problema tecnico. A che punto sei?”
Gustav
era tranquillamente seduto al tavolo, sorseggiando beato un po' di
tè.
“Ho
finito. Ho infilato tutto in freezer.” rispose con un gran sorriso
soddisfatto.
Ingie,
dal suo canto, assunse un'espressione di pura delusione.
“Mi
dispiace, volevo finire assieme a te.” mormorò come una bimba
colta in flagrante con la mano nella busta di cioccolatini.
“Non
ti preoccupare! L'ho semplicemente tagliata.” sventolò una mano il
ragazzo, con noncuranza, forse per rassicurarla.
“Vorrà
dire che la prossima volta cucineremo un bel dolce!” esclamò
quindi Ingie, decisa.
Gustav
sorrise.
“D'accordo.”
***
“Sei
fottuto.”
“Piantala.”
“Se
ti sei deciso a portarla a cena fuori, sei veramente fottuto.”
Da
minuti cercava di ignorare tutte le supposizioni che Georg continuava
a sputargli in faccia, senza il minimo ritegno, impegnandosi quindi
in una questione molto più importante: il vestiario. Aveva frugato
nell'armadio sprovvisto di bussola alla ricerca dei giusti
abbinamenti per la serata ormai prossima. Non che si sentisse
particolarmente in dovere di apparire elegante, ma si era accorto di
tenere al fatto che Ingie lo vedesse di buon occhio. Non avrebbe mai
indossato uno smoking, poteva giurarlo, e non era nemmeno il contesto
adatto per farlo, ma aveva in fine deciso di optare per una maglia
più stretta del solito, di lanetta morbida con strisce orizzontali,
nere e bianche. Un paio di pantaloni neri, di una taglia in meno dei
consueti a coprirgli le gambe e scarpe da ginnastica bianche a
completare il tutto.
Si
sentiva decisamente a suo agio.
“Georg,
non vuol dire nulla. Andiamo a cena fuori come se dovessimo mangiare
popcorn sul divano.” parlò in un sospiro continuo, mentre si
infilava la maglia.
“Anche
io dissi così, prima di fidanzarmi ufficialmente con Isa.” gli
fece notare il rosso con il sarcasmo puro negli occhi.
“Beh,
tu sei tu e io sono io.”
“Grazie
per la sconvolgente rivelazione.”
“Dico
sul serio, Hobbit, levati dalla testa tutto ciò che stai
pensando in questo momento.” Diveniva irrequieto ogni qual volta
qualcuno cercasse di fargli notare quanto i suoi atteggiamenti nei
confronti della ragazza divergessero tutti ad una sola ed unica
spiegazione: l'amore. Avevano deciso assieme di non farsi più
domande ed era la filosofia che aveva adottato da lunghissimi giorni;
cercò di mantenerla intatta. Osservandosi allo specchio, raccolse i
rasta in una sorta di coda, facendo cadere parte delle punte sulla
fronte. “Sto seriamente pensando di tagliarli.” parlò
all'improvviso, mentre li posizionava con le mani, dando loro la
giusta forma.
Scorse
Georg osservarlo accigliato.
“Perché?”
domandò il bassista.
“Comincio
ad essere stufo. Non sono la comodità personificata.” spiegò il
moro, una volta voltatosi verso l'amico.
“Provaci.
Al massimo te li rifai.” rispose questo con una scrollata di
spalle. “Chiedi consiglio ad Ingie.” aggiunse poi con la malizia
che veniva lanciata nell'aria da ogni singolo poro.
Tom
sollevò gli occhi al soffitto.
“Ciao,
Hobbit!” sbuffò, uscendo dalla stanza con l'intenzione di
andare a recuperare proprio la ragazza. Una volta di fronte alla sua
porta, bussò un paio di volte, prima di ricevere il consenso per
entrare. “Sei pronta?” domandò, affacciandosi con la testa.
Ingie
era davanti allo specchio, intenta a lisciare con le mani i capelli
sulle spalle.
Sorrise
automaticamente.
Era
bellissima. Anche lei aveva optato per un vestiario semplice; un paio
di jeans grigio scuro e attillati fasciavano le sue gambe snelle e
toniche, mentre una camicetta bianca, molto sobria, cadeva morbida su
di essi. Ai piedi, un paio di decoltè nere, non troppo alte. Pensò
fosse perfetta nella sua semplicità.
“Sì,
prendo solo la borsa.” rispose lei, cominciando a girovagare per la
stanza, alla ricerca dell'oggetto smarrito. Ogni suo movimento
rilasciava un inebriante profumo di cui Tom si riempì i polmoni,
estasiato. Anche le fragranze che indossava erano pura delicatezza,
uno dei tanti motivi per cui adorava stringerla e mordicchiarla,
durante i loro momenti più intimi. “Let's go!” esclamò
la ragazza, con la borsa nera in spalla e il trench al braccio,
pronto per essere indossato.
Tom
la seguì per le scale, fino a che non giunsero in cucina, dove i
ragazzi li attendevano. Anche Georg li aveva raggiunti.
“Noi
andiamo.” annunciò Tom mentre indossava la giacca.
“Buona
serata.” sorrise Gustav.
“Ah,
noi usciamo dopo cena, torneremo tardi.” riferì Bill.
“D'accordo.
Ciao.” salutò il chitarrista per poi aprire la porta dello studio,
in attesa che anche Ingie salutasse.
Una
volta fuori, si rifugiarono velocemente in macchina, colpiti dal
freddo inaspettato.
“God!”
esclamò la mora, sfregandosi quasi istericamente le mani, mentre il
chitarrista si affrettava ad accendere il riscaldamento.
“Forse
sei un po' leggera.” notò il ragazzo, con la coda dell'occhio.
“Vuoi tornare dentro a prendere una giacca più pesante?”
“No,
vai. Adesso mi scaldo.”
Tom
mise in modo ed uscì dal cancello, immettendosi in strada.
Il
ristorante dove aveva prenotato non era molto distante dal centro di
Berlino e non avrebbero impiegato troppo tempo per raggiungerlo. La
decisione non era stata semplice; doveva ammettere che suo fratello –
soddisfatto del suo repentino cambiamento di idea – gli aveva dato
una grande mano con la ricerca. Avevano dovuto tener conto di un
luogo povero di fotografi, che non fosse una catapecchia. Missione
del tutto particolare perché era ovvio che i paparazzi ricercassero
i ristoranti eleganti e raffinati di cui aveva proprio bisogno quella
sera.
Scrutò
un paio di secondi Ingie, senza farsi notare, e fu contento di
trovarla del tutto rilassata e serena. Le cose fra loro stavano
proseguendo nella maniera più positiva che si potesse desiderare e
non avrebbe cambiato nulla di tale andamento. Vi erano la pace e la
spensieratezza che per un breve periodo – intriso di dubbi e
scoperte sentimentali – erano mancate. Ora avevano imparato
a convivere con le loro emozioni, senza più avere paura. E quelle
emozioni erano forti, implacabili, se ne accorgeva sempre più. Il
bisogno di un suo contatto ora lo faceva quasi star male, il bisogno
di semplici parole, sguardi di complicità. Forse era vero, tutte
quelle forti sensazioni potevano facilmente far pensare che fosse
amore – e probabilmente lo era – ma non se ne curava. Gli piaceva
abbandonarsi a quel vortice di emozioni e lasciarsi trascinare da
esse senza opporvi la minima resistenza, benché si sentissero
entrambi più tranquilli nel non rendere le cose più serie del
dovuto.
Finalmente
giunsero a destinazione e a Tom venne spontaneo guardarsi attorno
prima di scendere dall'auto; i paparazzi non sembravano nei paraggi.
Affiancò Ingie – la quale si era stretta tremante nel suo lungo
trench – e la guidò verso l'entrata del ristorante. Un piacevole
tepore li colse di sorpresa, scuotendoli con piccoli brividi.
L'ambiente era accogliente, benché di grandi dimensioni ed eleganza.
Molto luminoso – teneva a che l'atmosfera non fosse troppo
romantica – ospitava un numero indefinibile di tavoli, già gremiti
di gente.
Il
cameriere li accolse con il dovuto garbo e mostrò loro dove li
attendeva la loro postazione – in fondo alla sala, in un angolo non
eccessivamente appartato. Quando finalmente si sedettero, si
sorrisero appena.
“Bravo,
Piggy. Bella scelta.” lo stuzzicò la ragazza. Sembrava
realmente soddisfatta e ciò lo rincuorò.
“Dai
il tuo giudizio dopo mangiato.” rispose, fintamente puntiglioso.
“Ah e, per favore, non essere paranoica. Prendi tutto quello che
vuoi.” la mise in guarda, con sguardo severo che lei ricambiò con
un lieve sorriso.
Conosceva
l'eccessiva preoccupazione di Ingie, riguardante le spese. Non
riusciva ancora a metabolizzare il fatto che lui – era la verità –
non aveva problemi di soldi e che avrebbe potuto permettersi il lusso
di qualcosa di molto costoso; si sentiva sempre estremamente a
disagio quando lui pagava per lei ed era una cosa che un po' lo
inteneriva.
Tom,
con le ordinazioni, si attenne ai suoi principi di bravo vegetariano,
mentre Ingie non resistette a chiedere della carne.
“Sai,
Piggy, mi ha sorpreso questa tua iniziativa.” sorrise
improvvisamente la ragazza. “Devo credere davvero che sia stata una
tua idea?” lo stuzzicò successivamente, portandolo a nascondere un
piccolo ghigno dietro la mano.
“Diciamo
che Bill mi ha dato un po' di ispirazione.” ammise. “Però il
ristorante, l'ho scelto io.” aggiunse fiero.
“Oh,
quello lo sapevo.” annuì Ingie, consapevole. “Poco romantico,
ben illuminato, piuttosto grande... Proprio da te.”
“Hey,
se non ti piaceva, bastava dirlo!”
“Invece
mi piace proprio per questo. Siamo uguali, no? Ci siamo arresi
all'evidenza.”
Tom
tacque per un momento, osservando il suo viso sereno, luminoso, e un
po' sperò di essere parte del motivo di quella quiete.
“Sai,
ripensando al nostro primo incontro, non avrei mai detto che saremmo
finiti... Così.” esordì, come nostalgico di quel momento.
Ricordava
perfettamente le parole taglienti, ma soprattutto lo schiaffo anche
aveva ricevuto da lei senza mezze misure. Forse era stato proprio in
quel momento che si era reso conto di quanto fosse diversa dalle
solite ragazze che gli cadevano ai piedi, senza conoscerlo realmente.
Era stato in quel momento che aveva sospettato che fra lui e lei non
si sarebbe conclusa a quella semplice maniera.
“Effettivamente,
sembra un paradosso.” concordò la mora. “Per lo meno, non ci si
annoia.” Un altro vantaggio del passare il tempo con lei: l'assenza
della noia. Potevano litigare, fare l'amore, parlare o semplicemente
stuzzicarsi; non si annoiava mai. Con lei la novità non aveva mai
fine, così come il divertimento. Si capivano: capivano quando era il
momento di passare delle ore insieme e capivano quando era il momento
di stare soli. Era vero ciò che tutti dicevano e che avevano
imparato ad ammettere anche loro: erano uguali. Le prime portate
giunsero al tavolo in poco tempo, cosa che entrambi apprezzarono, e
vennero immediatamente addentate dai due. “Ora posso dirlo: bravo,
Piggy. Ottima scelta.” sorrise Ingie, gustando il proprio
piatto con soddisfazione nello sguardo.
“Grazie,
grazie, lo so.” si pavoneggiò lui. Effettivamente, aveva fatto un
buon lavoro. Talmente tanto che si sorprese potesse essere tutto
farina del suo sacco. Certo, quando stava con Ria, aveva fatto di
tutto per lei – persino romanticherie che non si sarebbe mai
sognato di pensare. Eppure, quella sera, si sentiva realizzato. “Se
ti dico che mi piaci particolarmente, stasera, ti monti la testa?”
le domandò poi con un sorriso, senza guardarla. Si sentiva
inspiegabilmente timido a confessarle una cosa simile. Era
incredibile come a gesti, durante i momenti di passione, non
conoscesse freni, mentre a parole si sentiva totalmente inesperto.
“Potrei.”
scherzò la ragazza. “Grazie, comunque. Anche tu non sei male.”
“Grazie
della gentile concessione.”
“Piggy.”
Sollevò lo sguardo su di lei. “Che sei bello, te lo dicono già
tutti quanti.”
“Ma
tu non sei tutti quanti.” Quasi si morse la lingua. Non
seppe dire come quella frase fosse uscita dalle sue labbra con tanta
disinvoltura. “Nel senso che sei orgogliosa e non ti abbassi
a fare complimenti.” cercò immediatamente di rimediare. Il sorriso
enigmatico che illuminava il volto della ragazza lo fece agitare.
“Smettila. Non ho detto nulla di strano.” borbottò, facendola
scoppiare a ridere.
***
Si
sentiva estremamente bene, quella sera. Tutto era così perfetto che
quasi stentava a credere che stesse accadendo a lei. Dopo tanto tempo
passato a soffrire e piangere, ora stava lentamente riscoprendo cosa
volesse dire vivere. Tom si stava comportando in maniera impeccabile,
cosa che l'aveva sorpresa parecchio. Nulla di romantico – e ciò le
piaceva – ma sapeva in ogni caso cosa dire e fare al momento
giusto. Il fatto che saltuariamente non riuscisse a trattenersi dal
confessarle piccoli suoi pensieri la faceva sorridere, quasi
intenerita.
“Seriamente?”
Quella
voce le fece aggrottare la fronte e sollevare lo sguardo, a fianco
del tavolo.
Un
colpo al cuore: Ria.
Si
voltò immediatamente in direzione del chitarrista e notò
l'espressione inquieta e corrucciata.
“Cosa
cazzo fai qui, non sono stato chiaro l'ultima volta?” le domandò
lui freddamente, forse per non farsi sentire dalla gente attorno a
loro.
“Non
pensavo fossi qui e di certo non con lei.” ribatté la rossa –
alle sue spalle quella che doveva essere un'amica – indicando
sprezzante Ingie con un gesto del capo. “Non sei la commessa?” le
chiese con superiorità.
“Ria,
vattene, per favore. Non farmi alzare la voce.” mormorò Tom,
nuovamente.
“Te
la scopi per farla contenta?”
Tom
fece per alzarsi con uno scatto che fece spaventare persino Ingie.
“Tom!”
esclamò la ragazza in tempo, fermandolo per un braccio. Il
chitarrista la scrutò per un attimo e sembrò calmarsi.
“Dai,
andiamocene, Ria.” intervenne annoiata l'amica della rossa. “Lo
sai come funziona con le groupies.”
Ingie
cercò di comportarsi da superiore e non rispondere con un pugno in
faccia alla biondina e fortunatamente Ria sembrò voler seguire il
suo consiglio.
“Effettivamente,
dopo di me, pensavo puntassi un po' più in alto. Conoscendo i tuoi
gusti, mi hai deluso.” commentò, osservando il chitarrista, il
quale non la guardava nemmeno più, forse per evitare di spaccarle la
faccia. Ingie aveva lo stesso tipo di istinto ma – gliel'avevano
sempre insegnato – con la gente ignorante era inutile reagire da
ignoranti. “Buon proseguimento di serata.”
Furono
le ultime parole, prima di osservarla uscire dal ristorante,
accompagnata dalla bionda.
“Mi
dispiace.” borbottò Tom, per poi bere un bicchiere d'acqua.
“Di
cosa? Non è colpa tua.” rispose Ingie, comprensiva. “La odio,
tra parentesi.” aggiunse, divertita.
“Tu.”
ridacchiò il ragazzo. “Grazie per avermi fermato. Non so cosa
avrei potuto fare.”
“Non
farti prendere dal nervoso con lei. Non ne vale la pena.”
“Lo
so, ma in quel momento non ho pensato a nulla. È stato un istinto.”
“Ha
insultato me, avrei dovuto spaccarle la faccia io.” Tom scrollò le
spalle ancora seccato. “Dimenticala. Riprendiamo da dove eravamo
rimasti.” sorrise quindi per tirarlo su di morale. Non avrebbe
certamente permesso a Ria Sommerfeld di guastare quella bellissima
serata fra lei e Tom. Non le avrebbe mai regalato tale soddisfazione.
“Prendi il dolce?” gli domandò, una volta posati forchetta e
coltello sul piatto, segno che aveva finito di mangiare.
“Direi
di sì.” annuì Tom facendo la stessa cosa. Entrambi ordinarono una
torta alle mandorle ed attesero il suo arrivo. “Sai, non mi hai
ancora detto come tu faccia a conoscere così bene il tedesco.”
esordì il chitarrista all'improvviso, seriamente incuriosito.
Ingie
sorrise appena prima di rispondere.
“I
miei nonni sono tedeschi. Con loro ho sempre e solo parlato il
tedesco.” spiegò, nostalgica.
“Da
parte di madre o di padre?” si informò il moro.
“Di
madre. Ha vissuto in Germania fino ai diciotto anni, poi si è
trasferita a New York dove ha conosciuto mio padre. Ancora adesso non
ha una buona pronuncia americana.” ridacchiò pensando all'accento
tedesco di sua mamma.
“E
i tuoi nonni dove stanno?”
“A
Francoforte.”
“Li
vedi spesso?”
“Diciamo
che prima li vedevo, sì e no, una volta ogni tre, quattro mesi,
circa. Ora non li vedo da molto più tempo. Sai, dall'incidente e
tutto.” Tom si prese qualche attimo di silenzio, osservandola
attentamente, cosa che la fece sorridere quasi in imbarazzo. “Che
c'è?” domandò un po' a disagio.
“Niente.”
scosse lievemente la testa lui, ricambiando il piccolo sorriso. I
loro dolci arrivarono appena in tempo, salvandola dal lieve impaccio
che si era creato. “Salute!” ridacchiò Tom, prima di fiondarsi
sulla torta, assieme a lei.
***
Avevano
deciso di fare un giro in macchina, poiché passeggiare per i
marciapiedi sarebbe stato un tantino rischioso. La musica, a basso
volume, riempiva l'abitacolo, ricreando un'atmosfera particolarmente
dolce e tranquilla. Ingie si sentiva dannatamente bene.
Si
voltò appena verso Tom, osservando il profilo così perfetto e
delicato, ed un'irresistibile voglia di baciarlo le divorò lo
stomaco. Desiderava stringersi a lui e farsi coccolare, come sapeva,
ma non disse una parola.
Improvvisamente,
l'auto si fermò vicino ad un enorme parco vuoto – un po' le
ricordava quello di Lipsia – e Tom spense il motore, rilassandosi
sul suo sedile. Entrambi slacciarono la cintura e si presero qualche
attimo di silenzio, spezzato solo dalla musica che ancora suonava.
'Just give me a reason' di Pink – tanto amata da entrambi –
teneva loro compagnia, facendoli sorridere impercettibilmente,
illuminati solo dalla luce del lampione.
Un
silenzio che nascondeva mille parole molto importanti e pericolose.
Rabbrividì
quando scorse gli occhi profondi di Tom posarsi sulla sua figura. Per
un momento non seppe che fare e si sentì estremamente a disagio;
fremeva dalla voglia di sfiorarlo ma non volle fare nulla di
avventato, fino a che non lo vide avvicinarsi appena con il viso.
Sentì il suo respiro sulla pelle e lo stomaco sembrò divorarla
dall'interno quando la baciò. Si aggrappò al suo collo, quasi con
bisogno, come necessitasse di un supporto che solo lui poteva darle.
Si
baciarono con una dolcezza quasi insolita. La grande mano del
chitarrista si insinuava fra i suoi capelli, carezzandole la nuca,
mentre la sua bocca esperta la sfiorava con delicatezza. Sentiva il
proprio cuore minacciare di esplodere e pregò che il ragazzo non se
ne accorgesse.
Improvvisamente,
le sue mani la afferrarono per i fianchi, facendola sollevare e
sedere a cavalcioni su di lui. Spostò il sedile all'indietro per
evitare di schiacciarla contro il volante e riprese a baciarla con
passionalità maggiore. Ingie gli strinse le braccia al collo,
facendo aderire i loro petti pulsanti, e si abbandonò completamente
alle sue attenzioni, mentre una nuova consapevolezza, forte,
violenta, terrificante, si faceva largo nella sua testa e nel suo
cuore.
Tirò
indietro il capo, lasciandosi baciare la gola.
Lo
amava.
Sospirò
non seppe se per i suoi baci o per quell'intima confessione. Un
magone feroce si impossessò di lei, cosa che la portò ad
afferrargli il viso per ritrovare le sue labbra. Lo baciò come mai
aveva fatto fino ad allora, con urgenza, con bisogno, con
consapevolezza, con amore. Sentì le sue braccia muscolose
abbracciarla forte, mentre le sospirava sulle labbra. Non seppe cosa
stesse succedendo ad entrambi, ma era certa che si trattasse dello
stesso tipo di emozione.
Si
abbassò a baciargli la pelle del collo, carezzandogli nel frattempo
il petto caldo. Una cascata di parole nella sua mente minacciava di
uscirle dalle labbra e cercò con tutta se stessa di nasconderla.
Tom
le aveva fatto riscoprire la vita. L'aveva aiutata sin dal primo
giorno, si era preso cura di lei, si era interessato del suo
benessere. Le aveva infuso il coraggio che le mancava per riprendere
in mano ciò che aveva dolorosamente abbandonato, l'aveva sostenuta
in qualsiasi scelta, in qualsiasi intimo pensiero. L'aveva coccolata,
l'aveva inconsapevolmente amata. Le aveva fatto nuovamente provare
emozioni che credeva sopite, l'aveva fatta piangere di felicità, le
aveva fatto credere nuovamente in se stessa.
Si
strinse più forte a lui, approfondendo ancora di più il bacio.
Lo
amava, ne era certa.
Infiltrò
le mani fra i suoi rasta, sospirando.
Amava
incondizionatamente il ragazzo che l'aveva fatta rinascere ed il solo
pensarlo la faceva rabbrividire.
Gemette
ad un suo piccolo morso.
Sì,
lo amava e basta.
***
Avevano
trascorso l'intero viaggio di ritorno in silenzio. Nessuno aveva più
parlato dall'istante di passione che avevano passato. Non avevano
fatto altro, se non baciarsi per istanti che erano parsi
interminabili, ma entrambi avevano trovato ugualmente piacevole quel
semplice momento. Forse i loro sentimenti cominciavano a riempire
qualsiasi vuoto. Ingie aveva sentito il ragazzo diverso, osò pensare
emozionato. Mai l'aveva percepito così indifeso sotto il suo
corpo, ma al tempo stesso così desideroso di lei.
Osservandolo
di sottecchi, lo vide sorridere impercettibilmente, forse
sovrappensiero.
Non
sapeva dire cosa sarebbe successo una volta tornati a casa. Sentiva
che qualcosa di significativo era cambiato fra loro e per la prima
volta nella vita si sentì pronta per affrontarlo. Sapeva che tutto
sarebbe cambiato, sapeva che entrambi avevano fatto pace con il
cervello. Entrambi sapevano perfettamente cosa volevano e Ingie si
sentì tremendamente impaziente di vivere ciò che la vita avrebbe
loro offerto al loro ritorno.
Si
sentiva felice.
Quando
con la macchina giunsero davanti al cancello dello studio, entrambi
osservarono una sagoma scura al di fuori di esso.
“Chi
è?” domandò Tom, curioso, mentre il cancello si apriva
automaticamente.
“Magari
non è qui per voi.” improvvisò Ingie con la fronte aggrottata.
Entrarono
con l'auto nel giardino e, non appena Tom spense il motore, scesero.
“Okay,
la cosa comincia a farsi inquietante.” sorrise nervosamente il
chitarrista, rivolto alla sagoma che Ingie ancora non riusciva a
distinguere. “Non dirmi che mi hai seguito, oggi. Non sei il tizio
dell'autografo?” chiese ancora Tom, avvicinandosi allo sconosciuto.
Ingie ancora non riusciva ad individuare la sua figura, a causa del
buio attorno a loro. Inoltre l'estraneo si nascondeva dietro la
siepe.
“Non
ho nessuna sorellina.” Il cuore le mancò di un battito, facendola
sobbalzare. Non poteva essere. “Volevo solo assicurarmi che fossi
la persona che cercavo.” Si sentì mancare e si poggiò alla
macchina con una mano, cercando di respirare regolarmente. Era un
incubo, non stava accadendo realmente.
“E
perché mi cercavi?” domandò Tom divertito. “Non vorrei
risultare indelicato ma... Non sono gay. Ora, se volessi tornare a
casa, mi faresti un favore, dato che la cosa si sta facendo
abbastanza strana.”
“Perché
non chiedi ad Ingie di avvicinarsi?”
Ingie
non respirò per secondi interminabili, sentiva il petto
tremendamente pesante. Vide Tom voltarsi verso di lei con espressione
perplessa, mista a preoccupazione.
“Lo
conosci?” le domandò confuso. Lei non riuscì a pronunciare
parola, così il chitarrista si voltò nuovamente verso il ragazzo.
“Potrei sapere chi sei?”
Silenzio
in cui Ingie credette di morire.
“Luke.”
rispose poi lui. “Il suo fidanzato.”
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Capitolo 21 *** Twenty - Crossroads ***
ciao
Twenty
Crossroads
Il
mondo sembrò crollargli addosso. Si sentì strappare il respiro che,
spezzato, gli era rimasto. Aveva sentito un colpo al cuore,
durissimo, dal quale non era certo di riuscire a risollevarsi. Non
sapeva quali parole pronunciare, ad un tratto sembravano
incredibilmente inutili. I muscoli parevano intorpiditi, incapaci di
muoversi e si sentì tremendamente stupido. Aveva cominciato a
credere in qualcosa che in pochi secondi si era dissolto nell'aria,
come l'oggetto più inutile del mondo. In pochi secondi era stato
sminuito ciò che sentiva di aver creato con la persona che
improvvisamente si era accorto di amare in un modo del tutto strano
ed incondizionato. Si sentiva semplicemente ridicolo per avervi solo
creduto.
Con
il briciolo di forza di volontà che gli era rimasta, si voltò
lentamente verso Ingie, la quale aveva il viso segnato dalle lacrime
– che all'improvviso non gli facevano più male, ma lo facevano
solamente infuriare di più – e la osservò con tutta la delusione
che in quel momento provava per lei.
“È
vero?” le domandò con un filo di voce. Una parte di lui sperò che
la ragazza gli urlasse che era uno scherzo, che non era reale ciò
che il così detto Luke aveva appena finito di dire. Eppure, per la
prima volta, la mora non disse una parola. Lo stomaco sembrò volerlo
dilaniare con talmente tanta violenza che quasi dovette piegarsi su
se stesso. Tutto ciò che si ritrovò a fare fu annuire appena con
occhi delusi, stanchi, arrabbiati e vuoti. “Bene.” soffiò. Non
riusciva nemmeno a parlare.
Prese
a camminare quasi a fatica verso la porta dello studio, passandole
affianco. Fece ben attenzione a non sfiorarla nemmeno per sbaglio –
quello stesso corpo che aveva stretto a sé fino a pochi istanti
prima. Ora gli sembrava tutta una stupidissima favola. Sentiva di
essersi risvegliato da un lungo e bellissimo sogno ed essere tornato
con i piedi nella realtà; quella cruda, quella egoista, quella
cattiva.
“Tom.”
fu un sussurro quello della ragazza, che provò ad afferrargli
incerta un braccio.
Lui
lo allontanò come scottato e non si voltò, convinto che avrebbe
solamente alimentato il suo dolore. Guardarla negli occhi non poteva
più fargli solamente bene. Quando si chiuse la porta dello studio
alle spalle e si ritrovò solo nel buio, riprese a respirare. Si
portò una mano tremante all'altezza del cuore e quasi morì nel
percepire lo stesso dolore che aveva provato con Ria.
***
Le
lacrime non smettevano di scorrere copiose sul suo viso, eppure lei
non aveva emesso nemmeno un gemito, un verso, nulla. Tutto stava
accadendo in maniera così inaspettata e violenta che quasi si chiese
se fosse reale o stesse solamente sognando.
Sollevò
gli occhi lucidi sul ragazzo che ancora sostava di fronte a lei e non
seppe dire cosa provasse in quel momento, se non una voglia
incontenibile di correre nello studio per dare a Tom spiegazioni che
non conosceva nemmeno lei.
“Come
–” cominciò per poi deglutire, incapace di parlare. “Come mi
hai trovato?”
Domanda
più stupida non poteva porla, ma non sapeva davvero cosa dire.
“Una
foto.” rispose Luke. Ingie non ebbe bisogno di ulteriori
chiarimenti; sapeva benissimo quale fosse la foto cui si riferiva.
“Mi devi delle spiegazioni.”
Ingie
non riuscì a non pensare che avesse ragione. Aveva il diritto di
ricevere spiegazioni; d'altronde aveva abbandonato tutto e tutti
senza dire nulla.
“Lo
so.” mormorò.
***
Erano
tornati in centro. Ingie non aveva proferito parola in taxi,
esattamente come Luke. Le lacrime le si erano seccate sul viso, ma il
suo sguardo era ancora spento, perso nel vuoto, mentre la sua mente
ricreava solo immagini del chitarrista. Si chiese cosa stesse
facendo, cosa pensasse di lei e pregò tanto che l'armonia che erano
riusciti a creare non fosse saltata in aria, benché sapeva fosse
impossibile. Non avrebbe mai creduto che prima o poi la verità
sarebbe venuta a bussare alla porta, senza preavviso. Forse,
intimamente, aveva sperato di non doverla mai affrontare; forse aveva
sperato che ignorandola non si sarebbe mai fatta viva. Era stata
incredibilmente stupida.
Sedevano
in un bar. Erano le undici e mezza di sera ma la gente sembrava
ancora in grado di fare passeggiate con amici, fidanzati, parenti.
Tutti parevano così felici e spensierati attorno a loro, che provò
un sottile senso di invidia. Fissava il proprio bicchiere d'acqua –
tutto ciò che era riuscita ad ordinare, solo per educazione –
posato sul tavolino all'aperto e non osava sollevare lo sguardo su
quello che – era vero – era ancora il suo fidanzato.
“Prima
di fare domande su questo Tom, vorrei che mi spiegassi dall'inizio
tutto quanto.” Quella frase aveva spezzato improvvisamente il
silenzio, facendola sobbalzare. “Cosa ti è passato per la testa
fuggendo a questa maniera?” Ingie non rispose; continuò ad
osservare il bicchiere di fronte a lei. “Ingie.” richiamò la sua
attenzione il ragazzo, portandola a sollevare lo sguardo su di lui.
Fu
come rivederlo per la prima volta. Gli occhi azzurri puntati addosso
le risvegliarono una serie di ricordi che ormai parevano sopiti e
sepolti. Ricordò quanto fosse innamorata di lui, prima di scappare,
eppure ora che gli sedeva di fronte, non provava nulla, se non
nostalgia e affetto.
Rifletté
ancora qualche istante prima di cominciare a parlare.
“Non
lo so.” rispose. “Ero sconvolta per la morte di Tom, lo sai
bene.”
Dosò
ogni parola.
“Anche
i tuoi erano e sono sconvolti. Non ci hai mai pensato?”
“Sei
venuto a farmi la paternale?”
“Ti
devo ricordare che sei sparita senza dire niente nemmeno a me?”
Aveva
tremendamente ragione, non poteva dire il contrario. D'altronde, non
aveva alcun diritto di dargli contro; si era comportata da ragazzina
ribelle, immatura e scapestrata. Aveva ignorato ciò che avrebbero
potuto provare i suoi genitori, aveva ignorato anche le esigenze del
suo fidanzato, benché fossero relative. Si era comportata in modo
deplorevole, lo sapeva, ed era il pensiero che l'aveva sempre
tormentata, fino a quell'istante, e del quale aveva parlato solo con
Tom.
“Volevo
solamente cambiare aria. Stavo soffocando.” mormorò, colpevole.
“Sei
scappata nel momento più brutto per i tuoi.” ribatté Luke,
severo. “Nemmeno un biglietto, un messaggio.”
“In
che lingua devo dire che ero sconvolta?”
“Non
è una giustificazione.” L'aveva ripresa con tono talmente duro che
per un momento non seppe cosa rispondere. Era vero, continuava ad
arrampicarsi sugli specchi. Non aveva attenuanti. “Hai idea di
quanto tua madre stia male?”
“Sì,
lo so. Non c'è bisogno che tu me lo venga a dire.”
“Perché
hai ignorato tutte le nostre chiamate e i nostri messaggi?”
“Volevo
stare da sola.”
“Potevi
tranquillizzare tua madre, dirle che stavi bene e che volevi solo un
momento per te. L'avrebbe capito.” Ingie si prese la testa fra le
mani, poggiando i gomiti sul tavolino bianco. “Potevi dire qualcosa
a me.”
“Cosa
avrei dovuto dirti? Mi avresti seguita in ogni caso.” sbottò la
ragazza, tornando a raddrizzarsi sulla sedia, nervosa.
“Sono
il tuo ragazzo, d'altronde ne ho il diritto.”
Ingie
posò lo sguardo sulle proprie mani giunte sul tavolo. In pochi
secondi si era ritrovata in una situazione che difficilmente le
avrebbe offerto vie d'uscita. Il suo ragazzo era seduto di fronte a
lei, molto probabilmente ignaro di ciò che era successo fino a
quell'istante con Tom. Poteva essere considerato un vero tradimento?
Ovviamente sì. Era vero, se n'era andata, abbandonando ogni cosa e
chiunque, ma non aveva mai rotto con lui. Certo, poteva sembrare
scontato, ma Luke non pareva dello stesso avviso. Quando era scappata
da New York, non aveva pensato minimamente di lasciarlo. La sua mente
era talmente occupata dalla vicenda con suo fratello, che non aveva
avuto il tempo materiale per decidere di lei e Luke. Poi aveva
conosciuto gente nuova, fra cui Tom, e le cose si erano evolute nella
prospettiva di una nuova vita. Forse aveva erroneamente dato per
scontato che non l'avrebbe mai più rivisto, che lui si sarebbe
rifatto una vita. Evidentemente aveva preso una bella cantonata ed
ora si trovava in un problema molto più grande di lei.
“Io
non volevo fare del male a nessuno. Specialmente alla mia famiglia.”
sussurrò, sentendosi tremendamente in colpa. “In quel momento,
avevo il cervello in blackout.”
“Potevi
chiederci aiuto.” disse il biondo, con sguardo più dolce. “Sapevi
che io ci sarei sempre stato per te.”
“Non
lo volevo.” ribatté lei. “Te l'ho detto, volevo solamente stare
da sola e riflettere su ciò che mi era accaduto. Non volevo tornare
nella stanza di mio fratello e piangere, sentendomi perennemente in
colpa per ciò che era successo.”
“Si
è trattato di un incidente. La colpa non è di nessuno. I tuoi
genitori lo sanno perfettamente.”
“Ma
hanno perso comunque un figlio a causa mia. Nessuna scusa sarebbe mai
abbastanza.”
Le
sembrò di tornare a parlare con Tom di quell'inspiegabile situazione
e dei suoi sentimenti contrastanti. Ricordava le parole di conforto
che aveva usato per lei; ricordava come in pochi secondi l'aveva
fatta stare meglio. Ora, di fronte a Luke, si sentiva nuovamente
vuota, incompresa, per quanto il ragazzo cercasse di fare il
possibile.
“Se
tornassi a casa, tua madre sarebbe la donna più felice del mondo.”
le disse.
Ingie
abbassò lo sguardo, riflettendo. Le mancava sua madre, dannatamente.
L'idea di riabbracciarla e non lasciarla più andare era qualcosa che
la faceva inevitabilmente emozionare. In quel periodo, aveva cercato
di sopperire a quella mancanza grazie alla figura di Simone. Doveva
ammettere che la donna si era rivelata di grande aiuto, di grande
supporto morale. Ma, ovvio, non era sua madre.
“Come
posso ripresentarmi a casa come nulla fosse, dopo quello che è
successo e dopo la mia fuga? Capisci che ho solamente peggiorato le
cose?” domandò esausta.
“Tua
madre ti ha già perdonata. Vuole solo rivederti.”
Quelle
parole la toccarono nel profondo. Certo, sapeva che sua madre
l'adorava, sapeva che ci sarebbe sempre stata per lei, ma sentirsi
dare una garanzia talmente importante era stato quasi inaspettato e
lungimirante.
“Non
mi guarderà mai più con gli stessi occhi.” mormorò con voce
spezzata, mentre altre lacrime si accumulavano sul suo sguardo.
“Questo,
lo dici tu.” Luke le posò una mano sul braccio, facendola quasi
sobbalzare, come scottata. Erano mesi che non sentiva il suo
contatto. “Se torni, potrete aiutarvi a vicenda. È ciò di cui
avete bisogno.”
Ingie
si allontanò lentamente dal suo tocco, per non dare troppo
nell'occhio, e si prese qualche attimo di silenzio.
La
sua vita era giunta nuovamente ad un bivio. Cos'avrebbe dovuto fare?
Aveva immensamente paura. Tornare a casa e rivedere sua madre sarebbe
stato per lei indispensabile; ciò avrebbe significato anche
abbandonare Tom e probabilmente non rivederlo mai più. Sapeva
benissimo che il ragazzo sarebbe stato furioso con lei, per il fatto
che non gli avesse mai parlato dell'esistenza di Luke, e ne avrebbe
avuto tutto il diritto. Si sentiva nuovamente divisa a metà, benché
il bisogno di riabbracciare sua madre, in quel momento, prevalesse su
tutto.
“Voglio
solo un po' di tempo per pensarci.” sussurrò, senza guardarlo
negli occhi.
“Quanto
tempo, Ingie? Non te ne sei preso già abbastanza?”
Non
era arrabbiato e ciò fu un bene.
“Voglio
solo poter parlare con i ragazzi, tutto qui. D'altronde mi hanno dato
ospitalità fino ad oggi, mi sembra il minimo.”
Luke
la scrutò per qualche istante, come pensieroso.
“D'accordo.”
si arrese in fine. “Parla con loro, fai quello che devi fare.”
Ingie annuì appena. “Solo una cosa vorrei sapere, ancora.” La
mora percepì il cuore accelerare il suo battito. “Tom che ruolo ha
in tutto questo?”
Era
la domanda che aveva temuto fino a quell'istante. In pochi secondi la
sua mente fu affollata di infinite domande. Come si era cacciata in
quella situazione? Cosa gli avrebbe risposto? Cos'avrebbe dovuto
fare?
Sospirò
appena.
“Tom
–” cominciò, insicura. “Luke, Tom è colui che mi ha aiutato a
rialzarmi.” ammise.
“E
in che modo, posso saperlo?”
Lo
guardò attentamente negli occhi e poté leggere tantissime sfumature
differenti: paura, sarcasmo, curiosità, consapevolezza. Forse
immaginava. Forse immaginava cosa lei e Tom avessero condiviso fino a
quell'istante, ma non voleva ammetterlo a se stesso.
“Sai,
quando sono arrivata in Germania, quasi avevo perso la mia vera
identità. Non ero più me stessa; volevo solamente ricominciare una
nuova vita. Volevo gettarmi il passato alle spalle e, come l'ho fatto
con la mia famiglia...”
“L'hai
fatto con me.”
Ingie
lo osservò per secondi che le parvero interminabili, con espressione
colpevole. Ora che l'aveva di fronte, si sentiva ancora più
insensibile, piccola, indegna del bene che ancora le voleva.
“Io
–” provò a parlare nuovamente. “Credevo di –”
Non
riuscì a terminare la frase.
“Sai,
Ingie...” Lo scrutò interrogativa. “Io ti ho sempre amata e
continuo a farlo tutt'ora perché in tutto questo tempo non ho mai
smesso di cercarti. In tutto questo tempo forse mi sono illuso che
anche tu stessi pensando a me. Per me l'amore è anche comprensione e
perdono. Io posso provare a comprenderti, Ingie.” Si ritrovò a
boccheggiare. Tutto si sarebbe aspettata, ma non quelle parole.
“Posso sforzarmi di pensare a quanto sia stato difficile per te
tutto questo. Posso sforzarmi di giustificare qualsiasi cosa tu abbia
fatto in questi mesi.” Percepiva nelle ossa la difficoltà con cui
parlava; lo vedeva combattuto. Sapeva che una parte di lui lottava
per ignorare la rabbia che in realtà provava e solo in quel momento
si rese realmente conto di quanto la amasse. “Posso sforzarmi di
pensare che sia, in un modo del tutto strano e curioso, normale che
tu ti sia attaccata a qualcuno durante la lontananza da casa tua,
dalla tua famiglia e da me. Io posso farlo, questo sforzo.” Aveva
parlato per tutto il tempo con una lentezza disarmante, deglutendo
più volte il dolore che provava. Ingie si sentiva una nullità e si
chiese cosa avesse fatto per meritare ancora l'amore di un ragazzo
così buono. “Dipende solo da te.” concluse con grande fatica.
Gli
occhi di Ingie si riempirono nuovamente di lacrime.
“Tom
significa molto per me.” mormorò con un filo di voce, cercando di
strozzare i singhiozzi.
Non
poteva più sopportare il suo sguardo, senza sentirsi in colpa. Non
sapeva come confessargli la verità.
Vide
Luke annuire lentamente con espressione vuota.
“Ho
capito.” sussurrò. “Lo immaginavo.” sorrise poi tristemente.
“Io sono venuto qui per trovarti e riportarti alla tua famiglia.
Manterrò la promessa fino all'ultimo. Fra qualche giorno riparto;
sta a te decidere se venire con me o no.” Si alzò dalla sedia ed
Ingie percepì una violenta morsa allo stomaco nel vedere i suoi
occhi umidi. “Sei libera di scegliere, Ingie.” fu l'ultima cosa
che disse prima di darle le spalle ed incamminarsi lungo il
marciapiede, lontano da lei.
***
Per
la prima volta, apprezzò il vuoto ed il silenzio che regnavano
all'interno dello studio.
Sedeva
stancamente sul divano – nessuna luce ad illuminare il salotto,
solamente quella lunare – con una bottiglia di birra in mano. Lo
sguardo era perso, davanti a sé, apatico mentre le gambe poggiavano
pesanti sul tavolino di fronte.
Sapeva
che se n'erano andati; si era affacciato dalla finestra e li aveva
visti abbandonare la villa in taxi. La morsa che aveva percepito allo
stomaco fu solamente l'ennesima; per quanto ne sapeva, la mora
avrebbe persino potuto decidere di non mettere più piede allo
studio.
Bevve
un altro sorso di birra, senza distogliere lo sguardo dal televisore
spento. Si sentiva un idiota.
Improvvisamente,
il rumore di chiavi nella serratura catturò la sua attenzione, senza
però smuoverlo dalla sua posizione statica e dimessa. Il suono dei
tacchi sul pavimento gli fece dedurre si trattasse proprio della
ragazza e non seppe dire se ne fosse sollevato o meno. Lo udì alle
sue spalle, farsi sempre più vicino, ma lui era deciso a non muovere
un muscolo, fino a che non distinse una sagoma scura davanti a lui,
illuminata per metà dalla luna. Posò lo sguardo vuoto su di lei,
senza proferire parola, come attendendo una qualsiasi sua reazione.
Ora, averla davanti faceva ancora più male di quanto ricordasse.
Aveva
il viso distrutto – per quel poco che riusciva a distinguere
attraverso l'oscurità – forse da un pianto interminabile.
Improvvisamente, non gli importava.
“Possiamo
parlare?” mormorò Ingie, con voce ancora tremante. Pareva
incredibilmente stanca.
“Di
cosa vorresti parlare?” domandò lui, spaventosamente tranquillo ma
pur sempre freddo. Anche lui si sentiva stanco.
Ingie
non rispose e ciò che udì per almeno un minuto fu il silenzio.
“Mi
dispiace.” disse poi lei, con voce rotta. “Avrei dovuto dirti di
lui.”
“Sì,
avresti dovuto.” Quella sua risposta gelida l'aveva momentaneamente
zittita. Lui, nel frattempo, si era di nuovo portato la bottiglia
alla bocca, bevendo le ultime gocce di birra rimaste, prima di
poggiarla sul pavimento. “Toglimi una curiosità.” esordì
nuovamente, senza guardarla. “Come hai fatto a venire a letto con
me per tutto questo tempo, sapendo di lui e tenendomelo nascosto?”
Aveva posato nuovamente lo sguardo su di lei. “Proprio tu, che hai
tanto criticato Ria.”
“Non
paragonarmi a lei.”
“Perché
non dovrei? D'altronde hai fatto la stessa cosa a Luke.”
“Le
circostanze erano diverse.”
“Non
c'è un cazzo di diverso!” Tom si sollevò di scatto dal divano,
cominciando a camminare nervosamente per il salotto con le mani alle
tempie. “Come hai fatto a guardarmi negli occhi, a toccarmi,
sapendo di nascondermi una verità così grande?!”
Riuscì
a scorgere un luccichio negli occhi di Ingie, segno che stava
nuovamente piangendo.
“Tom,
ti sembrerà assurdo ma avevo paura.” sussurrò la mora.
“Di
cosa?! Di cosa avevi paura?! Che non ti avrei più accolta nel mio
letto?”
“Non
parlare così, questo non sei tu.”
“Neanche
quella che mi trovo davanti in questo momento sei tu.” La ragazza
non replicò, probabilmente colta sul fatto. “Sai cosa mi fa più
male, Ingie? Il fatto che ci eravamo promessi di dirci tutto. Credevo
ti fossi aperta completamente con me, che ti fidassi.”
“Mi
fido di te, Tom. Sei la persona di cui mi fido di più.”
“Non
mi sembra. Hai avuto infinite occasioni per dirmi la verità. Non
l'hai mai fatto.”
“Non
volevo rovinare ciò che stavamo costruendo.”
“Sapevi
cosa mi è successo con Ria. Sapevi quanto per me fosse importante la
sincerità. Nemmeno questo ti ha fatto riflettere.”
Ingie
abbassò momentaneamente lo sguardo, prima di tornare a scrutarlo,
colpevole.
“Ho
sbagliato. Mi dispiace davvero tanto. Non so, il fatto che volessi
ricominciare da capo, forse mi ha fatto perdere il contatto con la
realtà. Forse mi ha fatto illudere di poter dimenticare o
addirittura cancellare parti della mia vita.” soffiò ormai invasa
dalle lacrime. “Non avrei mai voluto farti del male. Tu non lo
sai.” La voce le tremò. “Non sai quanto io tenga a te. So di non
riuscire a dimostrarlo ma tu sei diventato... Importante.” Tom
ignorò il pesante magone che gli si era formato in gola, senza
preavviso. Quelle parole gli avevano fatto più male del previsto,
nonostante volessero essere consolatorie. “Talmente importante che,
sì, ho completamente accantonato l'idea di Luke. Per l'ennesima
volta mi sono comportata da bambina immatura e ho ferito le persone
attorno a me. Ma nulla di tutto ciò era premeditato. La verità è
che non è vero che a vent'anni so perfettamente cosa fare. Devo
ancora crescere, avevi ragione tu.”
Tom
tacque per un istante prima di replicare.
“Io
mi sono fidato di te.” mormorò, cercando di mascherare la voce
rotta. “Ero appena uscito da una situazione dalla quale credevo di
non risollevarmi più. Con te, mi sono gettato nuovamente nel vuoto.
Con te ho voluto riprovare a vivere emozioni, senza avere più paura.
Mi sono rimesso in gioco e tu non hai pensato nemmeno per un attimo
di essere sincera con me. Te ne sei fregata.”
“No,
Tom, non è vero. Sono stata sincera su tutto con te. È vero, ti ho
tenuto all'oscuro della cosa che forse più ti riguardava, in qualche
modo, ma non l'ho fatto con cattiveria.”
“Sai,
mentire su una cosa simile è molto difficile. Il fatto che tu ci sia
riuscita con così tanta facilità mi turba.”
Ingie
chiuse gli occhi e voltò il viso alla sua sinistra. Tom, dal suo
canto, provava emozioni sempre più contrastanti: rabbia, delusione,
dolore, affetto, amore. Una parte di lui avrebbe solamente voluto
abbracciarla, dimenticare tutto, avere la forza di passare sopra
quell'ennesima delusione. Il suo cuore però era stanco di riceverne.
“Quindi
hai intenzione di non perdonarmi.” sussurrò la ragazza,
consapevole.
“Che
senso potrebbe mai avere? Non potremmo tornare ad avere il rapporto
che avevamo prima.”
Pronunciare
tali parole era doloroso ma era ciò che si sentiva di dire in quel
momento. Cercò di ignorare lo sguardo addolorato e pieno di lacrime
di Ingie; era furioso con lei. Era furioso perché aveva mandato
all'aria ciò che di bello avevano costruito. Aveva mandato all'aria
tutto quanto, senza la minima fatica, e ciò l'aveva ferito più di
ogni altra cosa.
“Bene,
allora credo tu debba sapere che Luke mi ha chiesto di tornare in
America. Gli avevo domandato un po' di tempo per riflettere e parlare
con voi ma, viste le circostanze, a questo punto non ho più alcun
motivo per aspettare. Non sarei comunque più gradita in questo
studio.”
Non
respirò per istanti che gli parvero interminabili. Quella notizia
era giunta con una tale velocità da destabilizzarlo violentemente.
Il suo cuore prese a battere furioso in petto all'idea di non
rivedere Ingie mai più. Era davvero ciò che voleva? Voleva chiudere
così con lei? Al momento, il suo orgoglio e il male non gli
permettevano di comportarsi diversamente.
“La
scelta è tua. Come sempre.” mormorò, prima di darle le spalle e
abbandonarla in salotto. Salì le scale con una certa velocità,
prima di chiudersi in camera sua – dove non aveva più messo piede
se non per vestirsi – e poggiò la schiena alla porta.
Desiderò
solamente svegliarsi da quell'incubo.
***
Quella
mattina era giunta con una lentezza insopportabile. Aveva trascorso
le ore a girarsi nervosamente nel letto, senza chiudere occhio
nemmeno per sbaglio. Aveva persino sentito rientrare i ragazzi verso
le tre e mezza e non aveva preso sonno fino a quell'istante. Erano le
otto ed aveva sopportato fin troppo di rimanere a letto, fissando il
soffitto. Stare su quel materasso si era rivelato più difficile del
previsto; i cuscini, le lenzuola, ogni cosa era ancora impregnata
dell'odore del chitarrista e ciò le aveva fatto incredibilmente
male.
Si
sedette con un lieve sospiro e poggiò la schiena sulla testata, alle
sue spalle. Lo sguardo fisso nel vuoto.
Cosa
poteva fare? Non esisteva nulla in suo potere che fosse in grado di
ottenere il perdono del ragazzo, lo sapeva. L'aveva guardato
attentamente negli occhi, la sera prima, e vi aveva letto troppa
delusione.
Chiuse
i suoi, poggiando la testa all'indietro.
L'idea
di fare le valigie le faceva venire voglia di piangere ancora più
forte. L'idea di abbandonare tutto e tutti era insopportabile.
Un'intima parte di lei sperava ancora che Tom la raggiungesse, che le
pregasse di restare. Forse l'avrebbe messa ancora più in difficoltà
con la scelta, ma per lo meno avrebbe saputo che l'aveva perdonata.
Inoltre, come avrebbe spiegato quella situazione agli altri? Loro non
conoscevano nulla del suo passato; avrebbe dovuto spiegare tutto
dall'inizio.
Si
sfregò il viso con le mani, in segno di disperazione, per poi
scendere dal letto. Indossò una semplice tuta ed uscì dalla camera.
Gettò un'occhiata veloce alla porta di Tom e, scuotendo la testa,
prese a scendere le scale. Quando fece la sua entrata in cucina, per
poco non inciampò sui suoi stessi piedi. Tom e Bill erano seduti al
tavolo, uno di fronte all'altro, con espressioni fin troppo serie in
volto. Improvvisamente, si sentì tremendamente fuori luogo e
desiderò sparire seduta stante nel momento in cui entrambi si
voltarono verso di lei. Non seppe decifrare lo sguardo di Bill, ma fu
colpita da quello di Tom. Aveva occhiaie profonde ed un'aria così
stanca che si sentì ancora più male. Dedusse che nemmeno lui avesse
dormito quella notte e che, probabilmente, Bill era stato informato.
“Vado
in palestra.” parlò Tom, rivolto al fratello, il quale annuì
tristemente.
Il
moro si alzò dalla sedia e, non appena le si avvicinò, Ingie
percepì una morsa fortissima divorarle il petto. Le passò affianco
senza toccarla ma la scia di profumo che si portò dietro fu per lei
quasi uno schiaffo in pieno volto. Si torturò le mani scambiandosi
uno sguardo con Bill che nascondeva infiniti significati ancora
ignoti; si sentiva in colpa anche nei suoi confronti e non un fiato
riusciva a farsi largo fra le sue labbra.
“Vieni
a sederti.” Era quasi sobbalzata a quella sua uscita. Il tono non
era stato né distaccato né amorevole; pareva piuttosto tranquillo.
Si avvicinò titubante a lui, fino a sederglisi affianco. Non proferì
parola, semplicemente attese che fosse lui il primo a parlare. E
tremò quando la guardò attentamente negli occhi. “Tom mi ha detto
tutto.” le disse. Ingie, per niente sorpresa, mosse appena il capo.
Era giusto così. “Dire che sono colpito è poco.” Non rispose.
“Vorrei prima dirti che mi dispiace per tuo fratello. Non
immaginavo una cosa simile.” Ingie lo osservò qualche attimo,
prima di annuire lentamente. “Però, Ingie, mi dispiace anche per
mio fratello.” Sapeva che la parte brutta del discorso sarebbe
arrivata; d'altronde se lo meritava. “La cosa che più mi ha fatto
male è che mi avevi promesso che non l'avresti fatto soffrire.”
Ingie
chiuse gli occhi qualche secondo per poi scuotere nuovamente la
testa.
“Bill,
ti giuro, non...”
“Lo
so, non l'hai fatto con cattiveria. Sei stata superficiale però. Lo
sapevi, che prima o poi la verità sarebbe venuta fuori e che gli
avrebbe fatto male.” Ingie annuì per l'ennesima volta. Sembrava
incapace di parlare, di reagire. Non ne aveva più la forza e sapeva
di aver sbagliato, quindi era inutile tentare di difendersi. “Ingie,
io non sono qui per giudicarti, non è il mio ruolo. Penso che tu
abbia già riconosciuto il tuo sbaglio. E nonostante io sia
arrabbiato perché ho visto mio fratello star male di nuovo, vorrei
che tu non te ne andassi.”
Quell'ultima
frase la prese talmente in contropiede che si trovò a sollevare lo
sguardo su di lui con espressione corrucciata.
“Come?”
domandò, sentendosi incredibilmente stupida.
“Sì,
insomma, l'hai ferito ma non posso nemmeno ignorare il bene che gli
hai fatto in tutti questi mesi. Con te è rinato, Ingie, e non posso
non essertene grato.” Ingie percepì un nuovo magone farsi strada
nella sua gola. “Con te è riuscito a mettere una pietra sopra il
nome di Ria. Con te ha riprovato a fidarsi della gente. Inoltre sarei
un bugiardo a dire che non mi sono reso conto di come vi guardiate.”
La mora si trovò a sorridere lievemente, in imbarazzo. “Non ho
intenzione di giustificare questo tuo errore. Ma non voglio nemmeno
condannarti. Non faccio mistero del fatto che ho sempre desiderato
che tu e mio fratello vi metteste insieme; non so, ho sempre pensato
che in qualche modo tu fossi quella giusta, per quanto burbera,
strana e una marea di aggettivi simili che ora mi farebbe perdere
solo tempo. Sai, è come se vi foste salvati a vicenda. Sarebbe un
peccato buttare tutto all'aria, no?”
Ingie
si sentiva talmente spaesata, presa alla sprovvista, che per un
attimo non seppe come rispondere. Non era in grado di esprimere il
piacere che le parole di Bill le avevano fatto. Certo, nascondevano
un retrogusto amarognolo, malinconico e un po' deluso, ma erano
tremendamente propositive.
“Non
mi aspettavo queste parole da te. È giusto che tu sia deluso, per
ciò che ti avevo promesso, ma ti ringrazio per quello che mi hai
detto. Per me è davvero qualcosa di speciale, che mi porterò dietro
sempre.” I suoi occhi si inumidirono. “Io ho provato a parlare
con Tom. Gli ho chiesto scusa, ho fatto tutto ciò che potevo ma non
è servito. L'ho visto davvero amareggiato ed è giusto che sia così.
Sinceramente non so cos'altro potrei fare per farmi perdonare. Bill,
io prima o poi sarei dovuta tornare a casa; mai come adesso ho
bisogno di rivedere mia madre.” Una lacrima le sfuggì al
controllo, che subito scacciò con un dito. “Certo, partire sapendo
che Tom mi ha perdonato sarebbe meraviglioso. Ma l'idea di farlo e
non vedervi più...” Strozzò un singhiozzo, portandosi una mano al
viso e nascondendo altre lacrime che non smettevano di scorrere lungo
le sue guance. Riportò lo sguardo sul vocalist. “Mi sento
tremendamente legata a lui.”
“Lo
so.” sorrise appena Bill, comprensivo.
“Io
non so se ce la faccio.” mormorò, prima di scoppiare nuovamente a
piangere. Non avrebbe mai immaginata di farlo davanti ad uno dei
componenti della band che non fosse il chitarrista. Il suo orgoglio
gliel'aveva sempre impedito. E si sorprese quando percepì le braccia
del ragazzo avvolgerla con affetto. “Non dovresti consolare me.
Sono stata scorretta con tuo fratello.” sussurrò stringendo però
la sua maglia per trovare quel poco di conforto e supporto che in
tutte quelle ore terribili le era mancato.
Sentì
Bill ridacchiare appena, carezzandole la testa.
“Tutti
facciamo degli sbagli.” ribatté lui. “L'importante è
rimediare.”
“Non
saprei come farlo.” sospirò lei, senza staccarsi dall'abbraccio.
Nemmeno Bill probabilmente lo seppe perché non proferì parola. “Ho
visto il suo sguardo, Bill. E vorrei non rivederlo mai più. Sapere
che ora sta di nuovo male per causa mia è troppo.”
“Posso
provare a parlarci io.”
Ingie
sollevò di nuovo la testa e posò lo sguardo inondato di lacrime sul
viso di Bill.
“Davvero?”
chiese con un fil di voce. Il vocalist annuì serio. “Bill, io –”
Non
sapeva cosa dire. Non si sentiva nemmeno degna di quell'aiuto che le
stava offrendo.
“Tom
sa essere molto testardo, ma solitamente mi ascolta. Per lo meno,
posso provarci.”
***
Inutile
dire che gli innumerevoli tentativi di Bill furono un fiasco dietro
l'altro. Fortunatamente, Ingie non si era illusa di ottenere
risultati soddisfacenti. Il suo cervello le aveva suggerito, fino a
quel momento, di prepararsi al peggio, così da non giungere
disarmata a ciò che stava realmente succedendo.
Ivan
le sedeva davanti con la fronte corrugata e gli occhi increduli. Alla
parola licenziamento aveva quasi cambiato colore al viso già
pallido. Gli sforzi per farle cambiare idea erano stati troppi e
vani. Ingie, ormai, aveva le idee chiare: soggiornare in Germania non
aveva più senso. Era la verità, ciò che la teneva ancora radicata
a quel paese non le rivolgeva nemmeno la parola, quindi domandarsi
perché rimanere era qualcosa di istintivo.
“Ingie,
io – non so, mi hai preso in contropiede.” mormorò Ivan una
volta raggiunta la porta del negozio, pronta per andarsene per
sempre. “Non so cosa dire.”
“Non
devi dire niente, Ivan. Sono io che ti devo ringraziare. Grazie al
lavoro che mi hai offerto, sono riuscita a risollevarmi da una
situazione drastica. Quindi non posso fare altro che portarti nel
cuore, davvero.”
Pronunciare
quelle parole era stato più doloroso del previsto ed il magone
minacciava di farla crollare nuovamente. Eppure, cercò di essere
forte. In quei pochi giorni, non aveva fatto altro che piangere e si
sentiva stanca, impotente. Sentiva che le lacrime erano finite; ne
aveva versate troppe.
Senza
aggiungere altro, lo abbracciò con tutto l'amore che potesse
esprimere. Ivan era una persona che, nonostante tutto, aveva occupato
un ruolo importante nella sua vita. Abbandonare quel negozio si era
rivelato più difficile di quanto si fosse immaginata.
Si
liberò dall'abbraccio e gli sorrise tristemente.
“Mi
mancherai, Ingie. Davvero.” disse il ragazzo, guardandola
attentamente negli occhi. Lo sguardo era tremendamente addolorato.
“Lavorare con te è stato divertente.”
“Anche
tu mi mancherai, Ivan. Mi raccomando, fai il bravo.”
La
voce le si ruppe e bastò quello per far sì che il ragazzo
l'abbracciasse di nuovo. Questa volta, una nuova lacrima sfuggì al
suo controllo, incontenibile.
Era
inevitabile. Aveva costruito rapporti forti in quei mesi ed il
distacco aveva fatto da testimone a tutto l'affetto che aveva trovato
in Germania.
Si
staccò nuovamente dal ragazzo e, dopo avergli sorriso un'ultima
volta, abbandonò il negozio alle sue spalle, senza mai voltarsi
indietro.
***
Ti
aspetto in aeroporto domani.
Chiuse
gli occhi, sospirando.
Luke
le aveva inviato quel messaggio subito dopo essere venuto a
conoscenza della sua decisione. L'aereo sarebbe decollato alle undici
del mattino ed alle undici del mattino avrebbe detto addio ai ragazzi
ed alla Germania per sempre.
Non
era pronta. Non era pronta a tornare a New York, non era pronta a
rivedere sua madre ma, più di ogni altra cosa, non era pronta per
lasciare Tom. La cosa che le faceva più male era che non le aveva
mai più rivolto parola dall'ultima discussione. La loro vita allo
studio era proseguita nell'indifferenza più totale, per lo meno da
parte del chitarrista. I silenzi durante i pasti erano stati
agghiaccianti e i ragazzi – ormai tutti consci di ciò che era
accaduto e di ciò che ancora doveva accadere – non si erano
permessi di fiatare. Nessuno aveva provato a rompere il ghiaccio;
avevano semplicemente passato il tempo a discorrere di cibo e clima.
Dire che la tensione si tagliava col coltello era un eufemismo.
Sospirò
nuovamente.
Non
poteva lasciare Tom a quella maniera. Lo amava, lo amava
disperatamente e tutto ciò che stava accadendo nella sua vita
sembrava volesse remare contro di lei, contro i suoi sentimenti,
facendola soffrire ancora una volta. Aveva cominciato a pensare che
non potesse essere possibile una sua realizzazione personale, che non
fosse possibile per lei essere felice.
Doveva
fare qualcosa, ma non sapeva cosa. Ormai, le aveva provate tutte.
Si
alzò dal letto con gesti nervosi ed uscì dalla sua stanza fino a
che non si trovò di fronte alla porta del chitarrista. Il cuore
prese a battere più velocemente nel suo petto e la paura dilagò.
Quasi ci ripensò, fino a che una voce nella sua testa le urlò che
era ingiusto cedere. Doveva combattere per ciò che amava, era quello
che i suoi genitori e suo fratello le avevano sempre ripetuto.
Prese
coraggio e bussò un paio di volte.
“Chi
è?” domandò il ragazzo da dietro il legno, facendola
rabbrividire.
Si
prese qualche secondo.
“Ingie.”
soffiò poi, timorosa della sua reazione.
Udì
un breve silenzio che la fece quasi sperare.
“Puoi
andare all'Inferno.”
Buttò
la testa all'indietro quasi con disperazione. Avrebbe dovuto
immaginare una risposta simile.
“Tom,
lo so che sei furioso con me. Ma, ti prego, fammi entrare.” parlò
speranzosa e stanca.
“Perché
dovrei?” rispose lui freddamente.
“Perché
domani mattina parto, lo sai. Potremmo non rivederci mai più e non
posso sopportarlo, che tu ci creda o no. Non posso partire così.”
“Non
cambierebbe nulla.”
“Fammi
almeno entrare.” insistette lei. “Ti prego.” mormorò poi.
Non
udì altro e credette quasi che si fosse messo a dormire,
ignorandola, ma poi sussultò non appena sentì la porta aprirsi.
Apparve davanti a lei in tuta con sguardo serio ed impenetrabile.
Avrebbe tanto voluto baciarlo e mandare tutto al Diavolo.
“Beh?”
le domandò impaziente.
“Posso
entrare?” chiese di nuovo lei.
Tom
sollevò gli occhi al soffitto e, dopo un grande sospiro, si fece da
parte. Ingie, tremante, gli passò affianco fino a che lui non chiuse
nuovamente la porta.
“Che
vuoi?” parlò ancora, alle sue spalle.
Quando
si voltò verso di lui, lo vide con le braccia conserte e lo sguardo
distrutto.
“Quello
che vorrei è che tu mi perdonassi ma so che è impossibile.”
ammise.
“Mi
hai preso in giro per cinque mesi. Non so come vorresti che mi
comportassi con te. Vuoi che ti prenda e ti sbatta di nuovo sul mio
letto? Mi spiace, non ce la faccio.”
“Tu
pensi davvero queste cose quando mi parli così?”
“E
tu?”
“Lo
sai che le penso.” Attese. “Ti ho detto che sei la cosa più
importante che mi sia capitata in questi mesi.”
Tom
sospirò con sarcasmo, per poi incamminarsi verso il letto.
“Smettila
con queste stronzate.” commentò continuando a darle le spalle.
“Non
sono stronzate, è la verità. Ed il fatto che tu lo metta ancora in
dubbio mi ferisce molto.”
Tom
si voltò di nuovo verso di lei, questa volta nervoso.
“Anche
tu mi hai ferito, Ingie. Lo sai perfettamente.” ribatté con il
dolore negli occhi.
“Ed
io ti ho detto che ho sbagliato e che non è stata mia intenzione.
Dimmi come posso rimediare.”
“Non
puoi farlo.”
“Perché
no? La tua è una presa di posizione.”
“Non
sminuire ciò che hai fatto, Ingie.”
“Non
lo sto sminuendo. Sono stata ipocrita, codarda, cattiva, tutto quello
che vuoi. Accetto tutto. Desidero solamente che tu mi dica cosa posso
fare per farmi perdonare.”
“Nulla
ho detto.”
Ingie
restò qualche secondo ad osservarlo tristemente. Sapeva che il
chitarrista stava soffrendo, lì davanti a lei; glielo leggeva negli
occhi. Era una ragione in più per la quale non mollare.
“Tom,
tra poche ore parto. Mi vuoi dire che saresti veramente in grado di
lasciarmi andare così? Dopo tutto quello che c'è stato?”
“L'hai
rovinato tu.”
“Io
ci credo ancora.”
“Io
no, non ce la faccio.”
Ingie
gli si avvicinò mentre lui indietreggiò automaticamente.
“Tom,
non ti allontanare da me, ti prego.” le tremò la voce e poté
leggere la stessa emozione nello sguardo del chitarrista. “Io non
posso sopportare l'idea di partire e non vederti più.”
“Tanto
doveva andare comunque a questa maniera. Prima o poi saresti tornata
dalla tua famiglia e forse è meglio così. Non vedersi più potrebbe
essere la soluzione.”
“No,
Tom.” Gli si avvicinò di nuovo e questa volta riuscì a toccarlo.
“Guardami negli occhi.” lo pregò mentre lui cercava di
distogliere lo sguardo ed allontanarsi dalla sua salda presa sulle
braccia, senza successo.
“Ingie,
vattene, allontanati.” le disse lui, agitandosi. Continuava a non
guardarla.
“Guardami.”
insistette lei.
Magone.
Occhi umidi.
“Ingie,
non rendere le cose più complicate.” Udì la sua voce rotta e
seppe che provava lo stesso tormento. Gli strinse le mani, mentre lui
cercava di divincolarsi senza troppi sforzi dalla sua presa ferrea.
“Ingie.” ripeté con voce strozzata.
“Ho
bisogno di te, Tom.” Non avrebbe mai immaginato di pronunciare tali
parole. Non avrebbe mai immaginato di gettare l'orgoglio sotto le
scarpe e spogliarsi di ogni difesa davanti a lui. Si era mostrata
debole, inerme. Gli aveva fatto capire che senza di lui era fragile,
instabile. “Ho bisogno di sapere che ci sarai ancora, che non
abbiamo buttato all'aria tutto ciò che abbiamo condiviso.”
“Ingie,
ti prego.”
“Dammi
una certezza. Dimmi che per te è ancora importante.”
Quando
vide gli occhi umidi del ragazzo, il suo cuore percepì un dolore
troppo forte da sopportare.
“Mi
stai facendo male, Ingie.” sussurrò, facendole sgranare gli occhi.
“Sto percependo di nuovo un dolore che non volevo provare e che mi
spaventava. Se veramente tieni a me, lasciami andare.” Il suo cuore
quasi si era fermato e le sue mani avevano lasciato quelle del
chitarrista, all'improvviso bollenti. Quasi faticava a respirare e
desiderò che ciò che stava udendo fosse un brutto incubo. “Forse
è l'unico modo per farmi stare meglio.”
Si
allontanò lievemente da lui, incredula.
“Tu
davvero stai rinunciando a tutto? Davvero, Tom?” soffiò con voce
spezzata dalle lacrime che avevano di nuovo ripreso a scorrere lungo
il suo viso. “Hai davvero tutto questo coraggio? Perché io non ce
l'ho.” pianse silenziosamente. “Ho paura di salire su quel cazzo
di aereo e non essere sicura di risentirti.” Gli occhi lucidi di
Tom continuavano a darle la speranza, oltre che il dolore. “Hai
questo coraggio? Sì o no?”
Il
silenzio che ne derivò la spaventò a morte.
“Sì.”
E
fu in quel preciso istante che la sua anima morì.
***
Camminava
per quell'aeroporto svuotata di ogni sua essenza. Le occhiaie
profonde – resti di una notte insonne e crudele – troneggiavano
sul suo viso, così come la stanchezza ed il dolore palpabili. I
ragazzi, alle sue spalle, camminavano in silenzio, ma sapeva che uno
solo provava realmente le sue stesse emozioni. Quando vide Luke in
lontananza fare un gesto con la mano, si fermò e si voltò verso di
loro, conscia del fatto che il momento che più aveva temuto –
quello degli addii – era giunto.
Si
schiarì la voce per evitare di scoppiare a piangere prima del
previsto.
“Io...
Vi ringrazio davvero tanto.” La voce tremò. “Con voi ho passato
dei mesi stupendi. Mi avete ridato la gioia di vivere, mi avete
aiutato quando più ne ho avuto bisogno. Siete stati la mia famiglia
e mi avete accettata da subito con un affetto che mai potrei
ritrovare nella mia vita.” Si asciugò una lacrima che le era
sfuggita al controllo. La morsa allo stomaco era dolorosa,
insopportabile, quasi le impediva di respirare. Non era ancora
riuscita a guardare Tom. “Credetemi quando vi dico che vi voglio
davvero bene e che per me siete importanti ed un pezzo significativo
del mio cuore.”
Non
ce la fece. Scoppiò a piangere e fu lieta di sentire le braccia di
Gustav stringerla calorosamente. Si aggrappò con forza alla sua
maglia sfogando la sua paura, il suo fallimento, tutto ciò che la
tormentava.
“Con
te ho passato momenti stupendi, sono sincero.” le mormorò
all'orecchio. “Mi hai fatto ridere tanto, Ingie, e le nostre
chiacchierate rimarranno sempre con me.”
Strinse
gli occhi. Come avrebbe potuto abbandonarli? Per un momento desiderò
tornare indietro nel tempo.
Quando
fu stretta da Georg, sorrise amaramente, senza frenare quelle gocce
salate che erano diventate protagoniste di quei giorni.
“Mi
hai fatto davvero divertire, Redhead.” soffiò. “Grazie.”
“Anche
tu, Ingie. Ti prego, non sparire. Hai i nostri numeri.”
Si
chiese se fosse stato possibile farlo. Improvvisamente le sembrava
tutto così inutile che le veniva voglia di urlare.
Quando
passò a Bill, strozzò un singhiozzo.
“Grazie,
veramente.” bisbigliò al suo orecchio, riferendosi al grande aiuto
– seppur vano – che le aveva dato con Tom. “Grazie per avermi
compreso fin da subito.” Lo strinse più forte che poté e sorrise
appena percependo quanto ricambiasse quel gesto.
“Non
mollare, Ingie.” Quel sussurro la sorprese. Sapeva a cosa si
riferisse. “Fallo per me.”
Chiuse
gli occhi addolorata.
“Vorrei
promettertelo, Bill, ma ho paura di deluderti di nuovo.” mormorò
tristemente.
Quando
abbandonò il corpo del vocalist smise di respirare per un momento.
Tom la guardava distrutto, combattuto – lo sapeva – e privo di
parole. Lei non riuscì a muoversi, davanti a lui. Continuò
semplicemente a piangere in silenzio.
“Tutto
ciò che potevo dirti, l'ho detto.” sussurrò tremante. “So che,
ora come ora, è inutile che aggiunga altro. Solo una cosa, però.
Pensaci. E se un domani ci riuscirai, perdonami.” Non riusciva ad
aggiungere altro. Non riusciva più a sostenere il suo sguardo, non
riusciva più ad averlo così vicino senza poterlo toccare. “In
ogni caso, grazie, Tom. Per tutto.” La voce le si era rotta prima
che finisse la frase e si portò una mano al viso, cercando di
strozzare i singhiozzi. Poi tornò a guardarlo con fatica poiché le
lacrime impigliate fra le ciglia le impedivano di vedere
limpidamente. “Ti sarò sempre grata per ciò che hai fatto per
me.” gli sorrise appena, cercando di ingoiare il groppone. Gli
occhi del ragazzo non la abbandonavano e lei non riusciva a capire
che cosa avesse intenzione di fare. Sperò fino all'ultimo che la
prendesse, la stringesse a sé e la baciasse, ma tutto ciò non
avvenne. Forse si era illusa fino alla fine di avere il suo lieto
fine, come in tutti i film che aveva guardato e che aveva sempre
criticato. La realtà era ben diversa. La realtà le faceva schifo e
le ricordava quanto miserabile fosse l'essere umano. Il silenzio del
chitarrista pesò più di ogni altra cosa. Sapeva che non la stava
guardando con odio ma con dolore, eppure non riusciva ad accettare di
lasciarlo senza una sua ultima parola. Non seppe quanto tempo stesse
immobile davanti a lui, in attesa del minimo gesto, del minimo cambio
d'espressione, ma l'avviso del check-in giunse al suo orecchio
come una bomba atomica. Era giunto il momento. “Ciao, ragazzi.”
disse senza fiato, per poi dare loro le spalle.
Allontanarsi
il più velocemente possibile da loro era l'unico modo per
raggiungere Luke senza il minimo ripensamento. Quando lo affiancò,
gettò un ultimo sguardo a Tom, che ancora la guardava smarrito, come
non si fosse ancora reso conto di ciò che stava accadendo.
Sussurrando
a se stessa un ti amo mai pronunciato, lo abbandonò forse per
sempre.
***
Il
mal di stomaco persisteva, così come il dolore al cuore che non
accennava a sparire.
L'aveva
lasciata andare, senza dire una parola. L'aveva lasciata andare senza
confessarle ciò che provava realmente per lei. Si era lasciato
sfuggire l'occasione per colpa della delusione, dell'orgoglio, e ora
si sentiva terribilmente male. Ora che non l'aveva più accanto, ora
che aveva visto l'aereo salire in cielo, aveva percepito la sua reale
assenza con una forte fitta al petto che gli impedì di respirare per
un momento. Come se si fosse risvegliato da un sogno, si era reso
conto che lei non c'era più ed il tempo per parlare era finito.
Strinse
i denti, cercando di ingoiare il groppo che aveva in gola. Accanto a
lui, sapeva che suo fratello lo stava scrutando per cercare di capire
cosa la sua testa gli stesse dicendo.
“Sei
un idiota, Tom.”
Quell'uscita
lo fece voltare verso di lui con la fronte corrugata.
“Cosa?”
domandò smarrito.
“Era
davanti a te! E tu non hai fatto niente, non hai mosso un muscolo,
non le hai detto una parola.” esclamò, gesticolando furiosamente.
“Ha pianto tutte le lacrime che aveva in corpo, ha messo da parte
dignità ed orgoglio, ti ha detto tutto ciò che poteva dire per
farsi perdonare e tu? Niente. Come fai, Tom? Come cazzo fai?”
Quelle
parole lo toccarono nel profondo. Sentirle pronunciare da suo
fratello, con gli occhi fissi nei suoi, era ancora più doloroso
perché si rendeva conto, maggiormente, di quanto vuoto era stato.
“Non
ce l'ho fatta, Bill.” mormorò colpevole. “Era troppo.”
“Era
troppo che cosa?! L'amore che provi per lei?! L'amore che provate
l'uno per l'altra?! Cristo, Tom, svegliati! Sei così acuto per tutto
e quando ti si presenta l'occasione per dimostrarlo cadi in questo
modo! L'hai persa, Tom, lo sai?!” Tom chiuse appena gli occhi.
“Tutto perché sei un orgoglioso del cazzo! Hai accettato cose
peggiori, ti sei piegato con quella stronza di Ria e non riesci a
farlo con Ingie?! Dio, non ti capisco!”
Con
quell'ultima imprecazione, Bill si allontanò rabbiosamente da lui,
dirigendosi verso l'uscita dell'aeroporto dove gli altri ragazzi li
attendevano.
***
Era
stato il viaggio più lungo della sua vita. Testa poggiata al sedile,
sguardo abbandonato al di là dell'oblò, lacrime ancora fresche sul
suo viso. Aveva trascorso quelle dodici ore a ripensare al loro addio
e continuava a ripetersi nella mente che tutto ciò era ingiusto.
Luke, al suo fianco, non le aveva detto nulla per tutto il tempo.
L'aveva lasciata da sola con il suo dolore per rispetto, lo sapeva, e
gliene era grata.
Quando
i suoi piedi toccarono il suolo americano, un'emozione incontenibile
la pervase. Cinque mesi dall'ultima volta che aveva respirato l'aria
newyorchese, cinque mesi dall'ultima volta che aveva visto la sua
famiglia. Cinque mesi dall'incidente.
Prese
un bel respiro e salì sul taxi che l'avrebbe condotta a casa. Questa
volta il viaggio fu di breve durata, nonostante lei avesse sperato in
un traffico devastante per guadagnare altro tempo. All'improvviso,
tutti quei mesi le parvero insufficienti e l'idea di rivedere sua
madre, ora, le fece paura.
Spesso,
chiedere perdono è arduo.
Inspiegabilmente
si considera una bassezza, un'umiliazione bella e buona. Ma si è mai
commesso un errore più grande di se stessi? Così tanto da mozzare
il fiato? Più grande di ogni altra umiliazione?
Lei
sì. Lei lo aveva fatto.
Ed
assieme a se stessa, aveva ferito le persone più importanti della
sua vita, senza riflettere, senza pensare a loro, da perfetta
egoista.
E
per questo doveva chinare la testa, raccogliere il fardello dei
propri sbagli ed affrontare chi aveva ferito.
Ingie
stava per farlo.
No,
non l'aveva capito subito; aveva agito d'impulso fin dall'inizio,
commesso madornali errori e continuato a commetterli, senza rendersi
conto del dolore inutile che stava procurando ad altre persone.
La
nostalgia ardeva dentro di lei come un tizzone, che la dilaniava
giorno dopo giorno.
Ed
era la nostalgia l'unica spiegazione per cui si trovava di fronte a
quella casa, intenta a torturarsi le mani umide mentre esitava sul
prossimo passo da compiere.
Non
sapeva cos'avrebbe trovato dall'altra parte. Accettazione? Rifiuto?
Un cinquanta percento di possibilità pesante come un macigno.
Ingie
si sentiva sempre più ansiosa e la tentazione di girare sui tacchi e
correre via era opprimente; ma non poteva farlo, non di nuovo. Era
giunto il momento per lei di accantonare i suoi timori, per una volta
nella vita.
Preso
un bel respiro, quindi, pigiò con l'indice quel dannato pulsante, il
quale la pose, con un trillo, di fronte ad uno spaventoso bivio.
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Capitolo 22 *** Epilogue ***
aaa
Epilogue
Il
suo cuore mancò uno, due, tre battiti e quasi credette di svenire.
Sua
madre; la donna che per cinque mesi le era mancata, la donna che per
tutta la vita le era stata accanto e che lei aveva egoisticamente
abbandonato ora si trovava davanti a lei con uno sguardo distrutto,
incredulo, intriso di emozioni contrastanti.
Le
sue mani tremavano e per un momento si chiese se le avesse chiuso la
porta in faccia ma, come aveva sperato fino a quell'istante, la donna
corse verso di lei e la strinse a sé con tutta la forza che aveva
ancora in corpo. Di nuovo quel calore materno che aveva cercato
inutilmente di ritrovare in Germania, di nuovo quel profumo.
Entrambe
scoppiarono in un pianto ininterrotto, che avevano trattenuto per
troppo tempo. Il suo stomaco sembrava voler scoppiare poiché una
bestia continuava ad agitarsi al suo interno.
“Piccola
mia.” ripeteva Kayla come in una cantilena incredula.
Una
parte di lei aveva sempre saputo che sua madre non le avrebbe mai
voltato le spalle, nemmeno in seguito ad azioni terribili, perché
aveva combattuto così tanto per averla, a partire da una gravidanza
difficile. Eppure, per un momento aveva avuto paura perché sapeva
bene di non aver compiuto un bel gesto, fuggendo nel bel mezzo di una
tragedia come quella che avevano dovuto affrontare.
“Scusami.”
sussurrò senza lasciarla andare, sentendosi tremendamente in colpa.
“Non
ti preoccupare, tesoro. Sei a casa.”
***
Sedevano
al tavolo di fronte a una tazza di tè e continuavano a stringersi
una mano a vicenda con affetto, con nostalgia, come avessero paura di
perdersi di nuovo. Le erano mancate le sue mani morbide, il suo
sorriso amorevole, le sue parole sempre dannatamente giuste. Le era
persino mancato parlare in americano, cosa che la fece sorridere
appena.
Entrare
nuovamente in quella casa non era stato per nulla facile. I ricordi
erano tornati a farle visita troppo violentemente, a cominciare da
una foto che la ritraeva con suo fratello Tom, appesa alla parete
della cucina. Non avevano ancora avuto il coraggio di nominarlo e non
seppe dire se fosse qualcosa di positivo o negativo. La sua mente
però fremeva al pensiero di entrare in camera del ragazzo, dove
avrebbe ritrovato il suo letto, il suo computer, i suoi vestiti.
Tutto. Non era sicura di sentirsi pronta. Suo padre Gale era ancora
al lavoro – poiché il fuso orario voleva che fossero le cinque del
pomeriggio – e sarebbe tornato per ora di cena. Per lui, sarebbe
stata una sorpresa poiché, come Kayla, non sapeva del suo ritorno.
“Mi
ha detto Luke che per tutto questo tempo hai vissuto con dei ragazzi
famosi, in Germania.” esordì la madre, dopo aver sorseggiato un
altro po' di tè. L'emozione era ancora tangibile, fra loro.
“Sì.”
annuì sommessamente la ragazza. “Sono stati molto gentili da
ospitarmi. Ho anche trovato un lavoro in un negozio che mi ha aiutato
a mantenermi.”
Si
sentiva a disagio a parlare di tutto ciò perché era stato il motivo
della sofferenza di sua madre, per tutti quei mesi. Si sentiva quasi
in colpa a darle tutti quei dettagli. Pensare che per tutto il tempo
non aveva solamente pianto e sofferto ma aveva anche passato momenti
divertenti e si era innamorata le pareva ancora più egoistico.
“Luke
è stato adorabile. Ci è sempre stato vicino ed ora ti ha riportato
da noi. Non gliene sarò mai abbastanza grata. Sei fortunata ad avere
un ragazzo come lui.” Ingie sorrise appena, incerta. Non era il
caso di rivelare dettagli della sua vita che ormai non avevano più
importanza. “A proposito, perché non è venuto? Non era con te?”
“Ha
preferito andare a casa a riposare, era stanco.” mentì. Non voleva
parlare a sua madre di ciò che era successo nel frattempo con lui.
“Ma sono sicura che passerà a salutarvi nei prossimi giorni.”
aggiunse per rimediare. Qualche attimo di silenzio che parve
un'eternità. Strinse convulsamente le dita attorno alla sua tazza,
poiché non sapeva dove mettere le mani, ma soprattutto perché non
sapeva quali parole fossero le più opportune da pronunciare. Non vi
era la spontaneità che ricordava e sapeva anche che non sarebbe
stato possibile ottenerla senza aver prima affrontato il tema
principale, da cui entrambe si tenevano alla larga. Decise di fare il
primo passo; o prima o dopo, sarebbe stato necessario. “Come stai,
mamma?”
Poteva
sembrare una domanda stupida, già posta in precedenza, ma Kayla
aveva perfettamente capito a cosa si riferisse quella volta, lo
sapeva. La vide fremere, lanciarle uno sguardo come presa in
contropiede. Non passò molto tempo prima di scorgere il suo mento
tremare debolmente e i suoi occhi inumidirsi.
La
donna abbassò lo sguardo e sollevò appena le spalle, come a
disagio.
“È
tutto così strano.” mormorò con voce tremante. “La casa è
strana, senza di lui.” Era la prima volta che facevano anche
solamente un lontano riferimento a suo fratello e ciò la fece
rabbrividire impreparata, nonostante avesse intavolato proprio lei
quel discorso. “Non riesco ancora a capacitarmene.” Si interruppe
poiché un singhiozzo la prese alla sprovvista, portandola a coprirsi
momentaneamente gli occhi con una mano.
Ingie
poté vedere il dolore di una madre, che aveva perso un figlio di
quasi ventiquattro anni. Poteva vedere quanto fosse morta nell'anima,
seppur ancora fisicamente viva. Fu anche lei colta da un magone
pesante ma cercò di tenere duro per la persona che aveva di fronte,
così le afferrò dolcemente la mano che aveva stretto fino a pochi
istanti prima.
“Sai,
andare in Germania per me è stato lungimirante sotto molti punti di
vista.” parlò a fatica, ingoiando il dolore. “Ho incontrato
persone che mi hanno capito, che mi hanno fatto aprire gli occhi e
che mi hanno aiutato a risollevarmi, in qualche modo.” Pausa. “Una
persona in particolare mi ha detto cose che mi hanno aiutato a
riflettere.” La prima lacrima la tradì, ma si affrettò a
scacciarla. “Tom è con noi, mamma.” Al pronunciare il suo nome,
entrambe sussultarono. “Tom non se n'è andato. È semplicemente
partito per una gara di ballo che lo rende tremendamente felice.”
Sorrise appena, tirando su con il naso. “Lui sa che lo pensiamo
sempre e che gli vogliamo bene. E lui prova lo stesso per noi, il che
vuol dire che non vorrebbe mai vederci piangere, distruggerci e
smettere di vivere. Dobbiamo cercare di reagire, mamma, per lui. Io
ci sto provando, tutti i giorni. Non è per niente facile, ma mi
voglio impegnare. Voglio provare a portare avanti il sogno che
abbiamo condiviso fino a poco tempo fa. Non voglio pensare che tutti
i suoi sforzi compiuti fino ad ora siano stati vani. Voglio tenerli
vivi, con noi. Con me.” Sua madre la guardava incredula, con lo
sguardo pieno di lacrime, ma una nuova luce negli occhi. Sapeva di
non aver lenito il loro dolore con le sue parole, ma voleva essere
certa che anche sua madre sapesse in che modo Tom Kaulitz l'aveva
aiutata a risorgere come persona. “Lui ne sarebbe contento.”
Kayla
si asciugò maldestramente le lacrime e cercò di stirare un sorriso.
“Chi
ti ha detto queste cose deve essere una persona speciale.” le disse
in un sussurro.
Ingie
sorrise amaramente.
“Sì,
lo è.” mormorò cercando di ignorare l'ulteriore fitta che il
cuore le aveva dato.
“Ed
ha ragione.” aggiunse la donna. “Cercherò di farlo per il mio
bambino.” Ingie sorrise toccata. Ricordava le risate fra lei, Tom e
sua madre, ogni qual volta Kayla li chiamasse a quella maniera.
Ripeteva sempre che anche a quarant'anni, loro due sarebbero sempre
stati 'i suoi bambini'.
Annuì
serenamente. In quello, Luke aveva avuto ragione. Solamente
sostenendosi, avrebbero potuto aiutarsi a vicenda e sconfiggere il
dolore nel miglior modo possibile. Dovevano solamente pensare
positivo, accantonare l'immagine macabra dell'incidente ed adottare
una nuova filosofia di vita. Avrebbe potuto funzionare.
***
Georg
si sentiva a disagio ma, più di ogni altra cosa, gli mancava il suo
migliore amico.
Tom
non era più la stessa persona da quando Ingie aveva abbandonato la
Germania. Quando gli parlava, lo vedeva sempre sovrappensiero,
nonostante facesse di tutto per fargli credere che stesse attento.
Georg non era stupido; aveva capito perfettamente che qualcosa non
andava. Chiusi in sala di registrazione, provavano per ore ma nemmeno
un fiato sgattaiolava fuori dalle labbra del chitarrista. Nemmeno lui
riusciva più a punzecchiarlo, poiché il suo malumore aveva
contagiato ogni componente di quello studio.
David,
di conseguenza, era sempre più nervoso, se presa in considerazione
anche la gravidanza di Amanda. Questa aveva sofferto molto la
partenza di Ingie e sapeva che non avevano perso i contatti.
Un'ulteriore cosa di cui era a conoscenza era che Bill si sentisse
ancora con la mora, seppur saltuariamente, ed era sicuro che Tom non
lo sapesse. Forse era meglio così, almeno per il momento.
Uscì
in giardino, dove il moro sedeva, intento a fumare una sigaretta ed
osservare i suoi cani giocare fra loro.
“Me
ne offri una?” gli chiese con un mezzo sorriso, prendendolo alla
sprovvista. L'aveva visto sussultare, segno che ancora una volta la
sua testa era altrove. Il chitarrista annuì distrattamente e gli
passò il pacchetto, non appena gli si sedette affianco. “Sai,
pensavo di venire in palestra con te. Isa mi sta seriamente
minacciando di lasciarmi se non dimagrisco un po'.” ridacchiò
all'improvviso, trovando la prima scusa che gli passò per la testa.
Notò
con la coda dell'occhio Tom sorridere appena, senza guardarlo.
“Quando
vuoi.” si limitò a rispondere.
Pensò
ancora.
“Allora,
hai deciso di tagliarli, questi rasta?” buttò lì, dopo la prima
boccata di fumo.
Tom
sembrò sorpreso di quella domanda, come si fosse dimenticato di
averlo accennato qualche tempo prima. Parve riflettervi un attimo.
“Sì.”
rispose come illuminato. “Sì, mi sa proprio che me li taglio.”
Georg
sorrise. Sapeva che dietro quell'affermazione vi era un 'Fanculo
tutto, voglio dare un taglio e cercare di dimenticare'; ma sapeva
anche che non sarebbe stato un semplice taglio di capelli a renderlo
nuovamente sereno.
“Vengo
con te.” sorrise, facendolo voltare incuriosito. “Sono anche io
stufo dei miei capelli. Voglio cambiare.” scrollò le spalle per
dare una spiegazione. A dire il vero, l'aveva deciso in quel preciso
istante, forse più per infondergli coraggio, per affiancarlo in
qualcosa di apparentemente stupido. Non voleva lasciarlo solo.
Avrebbe fatto di tutto per il suo amico, quello era certo. “Anzi...”
esordì nuovamente, buttando la sigaretta a terra, non ancora
terminata. Si sollevò in piedi con decisione. “Vieni.” lo
esortò, sotto il suo sguardo perplesso. Rientrò in studio, seguito
dal chitarrista, e si recò in bagno, mentre si legava i capelli in
una coda. Si posizionò di fronte allo specchio ed estrasse le
forbici dal cassetto del lavabo. Quando le porse al moro, questo
quasi sussultò. “A te l'onore.” gli sorrise.
“Cosa?”
domandò il rasta, confuso.
“Un
taglio netto. La coda.” lo incoraggiò, continuando a porgergli
l'arma del delitto.
“Scherzi?”
sgranò gli occhi Tom.
“Dai,
è un inizio. Poi, insieme, andiamo a tagliarceli come si deve.”
Tom sbatté più volte le palpebre, sorpreso. “Dai, ti sto
chiedendo di tagliare i miei capelli, mica i tuoi.” ridacchiò a
quel punto il bassista e finalmente il ragazzo afferrò le forbici.
Gli
diede nuovamente le spalle e sorrise tranquillo.
Alla
fine, non gli dispiaceva. Lo stava facendo per lui, per distrarlo,
per dimostrargli quanto bene gli volesse, benché fosse un qualcosa
di semplice. Con quel gesto simbolico voleva dirgli di non
preoccuparsi, che non era solo e che lui ci sarebbe sempre stato per
un supporto morale.
Quando
udì il rumore di un taglio netto e veloce, sorrise ancora di più.
Attraverso lo specchio vide i suoi capelli in mano all'amico ed il
suo cuore si scaldò al suono della risata di Tom, che dopo giorni si
era rifatta viva.
***
L'incontro
con suo padre era stato fantastico. Si erano stretti l'uno all'altra
ed avevano versato lacrime che mai aveva visto sul volto di Gale
prima di allora, se non alla morte del figlio. Aveva sempre avuto un
rapporto molto corporale con suo padre che normalmente avrebbe avuto
un figlio maschio. Piccoli pugni giocosi e dispetti erano solamente
un dettaglio, rispetto a ciò che si facevano l'un l'altra. Eppure,
quei momenti riuscivano ad essere affiancati ad altri – altrettanto
belli – fatti di parole, confidenze e sostegno morale reciproco. Il
rapporto che aveva con lui era semplicemente speciale e
riabbracciarlo dopo cinque mesi era stato per lei qualcosa di
indimenticabile ed estremamente emozionante.
Gale,
com'era giusto che fosse, si informò su ogni singolo particolare
della sua breve vita a Berlino e, nonostante avesse sofferto la sua
assenza, non si mostrò ostile a tali racconti. Anche nei suoi occhi
poteva continuamente scorgere il dolore per la perdita di suo figlio,
con il quale aveva un rapporto quasi viscerale – forse dettato dal
fatto che fosse maschio –, ma al tempo stesso notava con quanta
forza di volontà cercasse di non farlo notare a lei ma soprattutto a
sua moglie. L'uomo, in molti casi, è il solo in grado di dare forza
in una famiglia e questo Gale, lo faceva divinamente.
Una
volta finito di cenare, Ingie decise di congedarsi, poiché il
viaggio l'aveva stancata molto ed il fuso orario cominciava a sortire
i suoi effetti più devastanti. Dopo aver baciato i suoi genitori –
routine che le era mancata disperatamente – si ritirò in
corridoio, in direzione della sua stanza. Un brivido però la
travolse non appena, lungo il tragitto, il suo sguardo incrociò la
porta di Tom. Il suo cuore prese a battere all'impazzata e la
salivazione fu all'improvviso un vago ricordo. Non aveva mai più
messo piede nella stanza di suo fratello e non si sentiva nemmeno
lontanamente pronta a farlo poiché aveva paura di crollare di nuovo.
Eppure, una parte di lei si disse che per ricominciare da capo in una
sorta di serenità – seppur vacillante – era necessario fare i
conti con i ricordi, proprio come il chitarrista le aveva sempre
suggerito.
Preso
fiato, posò la mano tremante sulla maniglia, che venne lentamente
abbassata. Quasi smise di respirare non appena fece il suo ingresso
in quella camera, dove nulla era stato tolto o anche solamente
spostato. Tutto si trovava nella stessa posizione in cui l'aveva
lasciato.
Respirò
a fatica, richiudendo la porta alle sue spalle, e si guardò attorno.
Il
letto, di fronte a lei, era fatto; la scrivania, sulla destra, era
perfettamente in ordine. Ricordava quanto suo fratello, al contrario
di lei, fosse tremendamente puntiglioso. Detestava il caos, motivo
per il quale entrava raramente nella stanza di sua sorella che, come
sempre, avrebbe trovato in disordine. L'armadio, sulla sinistra,
conteneva ancora tutti i suoi vestiti, che Ingie annusò appena,
chiudendo gli occhi.
Era
incredibile come l'odore di suo fratello ancora regnasse lì dentro,
come se non se ne fosse mai realmente andato.
Una
lacrima scorse sul suo viso, mentre stringeva a sé una sua maglietta
con la quale ballava. Si avvicinò lentamente al letto e vi si sdraiò
sopra, rannicchiandosi su un lato, senza mai abbandonare quel capo
profumato che le faceva nuovamente apparire Tom davanti agli occhi.
Mi
manchi tanto, fratellino, pensò piangendo silenziosamente.
Nemmeno quella volta era riuscita ad essere forte.
Chiuse
gli occhi e si lasciò trasportare dal suo ricordo, nel mondo dei
sogni.
***
Fissava
da ore il televisore di fronte a sé, senza ben capire cosa stesse
trasmettendo. Vi aveva messo buona volontà, ma non riusciva ad
isolare i suoi pensieri così ridondanti. Era inutile che cercasse di
negarlo agli altri e a se stesso: Ingie era sempre nella sua testa e
non accennava a lasciarlo in pace, nemmeno con tutti gli sforzi che
faceva per cancellarla dalla sua memoria. Forse, una parte di lui non
voleva dimenticarla e probabilmente rappresentava uno dei problemi
più grandi con cui fare i conti. Continuare a ripetersi cose cattive
di lei non lo aiutava a smettere di desiderarla accanto a sé. Si
chiedeva cosa stesse facendo, si chiedeva come la sua vita stesse
proseguendo senza di lui; se fosse felice, se anche lei sentisse la
sua mancanza.
“Hey.”
Sollevò lo sguardo alla sua destra, preso in contropiede. Bill
sostava affianco al divano, dove sedeva lui, e lo guardava con un
piccolo sorriso in volto. “Non mi hai nemmeno sentito arrivare. A
cosa pensi?” gli domandò, sedendoglisi accanto.
Tom
sospirò appena, tornando a posare lo sguardo sullo schermo. Ormai,
era inutile nascondere i proprio sentimenti a suo fratello; in ogni
caso, avrebbe decifrato ogni suo sguardo.
“Alle
solite cose.” mormorò con una lieve scrollata di spalle.
Bill
si prese qualche attimo prima di ribattere.
“E
a che punto siamo con l'analisi?” chiese con una punta di ironia
che lo fece sorridere appena.
“Bill,
per favore.” borbottò.
“Sai,
Tom, mi piace che tu continui a pensare ad Ingie, ma dopo tanto
pensare, non sarebbe bene anche agire?”
Effettivamente,
quel ragionamento non era per niente errato. Certo, sarebbe stato
perfettamente d'accordo con lui se avesse accantonato i sentimenti.
Aveva messo l'orgoglio da parte tante volte con lei ed aveva paura a
farlo per l'ennesima volta.
“Non
so cosa fare, Bill. Sono combattuto. Una parte di me vorrebbe
rivederla, l'altra mi dice che rimarrò nuovamente scottato. È
inutile.” spiegò come poté, gesticolando eccessivamente, come
succedeva quando non sapeva come spiegare il suo stato d'animo o non
si sentiva propriamente a suo agio. “E comunque lei è in America,
sono passati mesi, avrà ripreso la sua vita. Nemmeno ci penserà più
a me.”
“Invece
ti sbagli. Mi chiede sempre di te.”
Una
scarica elettrica gli percorse la colonna vertebrale così
violentemente che si voltò di nuovo verso suo fratello con sguardo
perplesso e quasi risentito.
“Tu
la senti?” domandò esterrefatto.
“Tanto,
prima o poi, l'avresti scoperto.” scrollò le spalle il biondo.
Si
sentiva infastidito. Il fatto che Bill la sentisse e lui no lo
rendeva quasi... Geloso.
“E...
Come sta?” chiese con cautela, senza guardarlo. Il cuore batteva
furioso.
“Diciamo
che cerca di andare avanti. Con i suoi va tutto bene.” Quella
notizia gli trasmise un inaspettato senso di gioia. Il fatto che lei
si ritrovasse con la sua famiglia era una questione che gli era
sempre stata a cuore. “Però, Tom, quando parla di te, le si spezza
ancora la voce.”
Abbassò
lo sguardo torturandosi le mani. D'accordo, una parte di lui era
felice di tale notizia, eppure non riusciva a gioirne pienamente.
Forse, sarebbe stato più facile se gli avesse detto che non pensava
più a lui, che aveva intenzione di rifarsi una vita e fregarsene. A
quel punto, vi avrebbe messo una pietra sopra con più facilità. Ora
che sapeva che le mancava, si sentiva nervoso.
Si
prese la testa fra le mani, con i gomiti poggiati alle ginocchia.
“Bill,
non so che cosa fare.” ammise in difficoltà. “A volte, vorrei
non averla mai conosciuta.”
“Conosco
questa sensazione, ma non devi lasciarti schiacciare di nuovo dalla
paura, Tom. Hai lavorato tanto perché tornassi a fidarti delle
persone, non buttare tutto all'aria.”
“L'ha
fatto lei, non io.”
“Sì,
ma ora tu stai rendendo le cose ancora più complicate di quello che
sono. Lasciati andare, per una volta.”
Tom
rifletté qualche minuto su quelle parole, prima di rispondere.
“Mi
sono già lasciato andare con lei una volta. Al momento, è l'unica
cosa cui riesco a pensare.”
***
Scrutò
per l'ennesima volta il suo cellulare, con sguardo speranzoso, ma non
riusciva a vedere ancora nulla che potesse farla sorridere e gioire.
Non sapeva cosa ancora la spingesse a sperare in una chiamata, in un
semplice messaggio da parte del chitarrista; il fatto era che non
riusciva ad accettare quella loro lontananza fatta di silenzi e
rancore per oltre due mesi, ormai.
A
volte, quando era possibile, sentiva Bill. Era stupido pensarlo, ma
era come se sentire il vocalist le facesse credere di essere più
vicina anche a Tom. Forse per la parentela, forse per il fatto che le
raccontasse ogni suo stato d'animo, ogni sua mossa ed ogni sua
parola. Bill continuava a sostenere di non mollare, poiché pensava
che suo fratello avrebbe presto ceduto all'amore che provava per lei,
ma Ingie non pareva dello stesso avviso. Aveva imparato a conoscere
Tom ed aveva capito che, se deluso, non era facile che tornasse sui
suoi passi.
Ad
ogni modo, doveva cercare di ricostruire nuovamente la sua vita,
anche senza di lui. Motivo per cui aveva preso forse l'avventata,
folle ed inaspettata decisione di partecipare ad un'audizione per
entrare a far parte di una compagnia americana di ballo, che le
permettesse finalmente di realizzare il suo sogno, assieme a quello
di suo fratello.
Il
provino era stato tremendamente emozionante e non vi aveva dormito
per notti intere, passate a fissare il soffitto e ripassare
mentalmente ogni singolo passo, per la paura di dimenticarsene. Ad
esaminarla, i coreografi della compagnia. Non seppe dire
immediatamente quale fosse stato il loro giudizio sulla sua
performance, ma sperò con tutto il cuore di averli almeno un po'
sorpresi. Aveva fatto tutto anche un po' per gioco, poiché era
convinta che ottenere un contratto di lavoro per loro sarebbe stato
impossibile. Vi aveva comunque provato ed aveva sperimentato
un'emozione del tutto nuova ed un'esperienza che l'aveva arricchita.
Ora
doveva solamente attendere il responso.
***
Ormai,
Luglio era giunto. Quasi inaspettatamente.
Quattro
mesi erano passati dall'ultima volta che si erano visti e non vi era
stato giorno in cui Tom non si fosse chiesto se avesse preso la
giusta decisione.
Tante
cose erano accadute nel frattempo: lui ed i ragazzi avevano terminato
il nuovo album, che sarebbe uscito a settimane, inaugurando così
l'anno a venire con il tour. David era in fibrillazione per aver
ottenuto da loro ciò che aveva chiesto, ma soprattutto perché
Amanda aveva finalmente raggiunto il nono mese di gravidanza ed il
piccolo o la piccola sarebbe nato a giorni. L'intero studio era in
tensione a tale pensiero e l'insonnia era divenuta routine, per la
paura di ricevere qualche telefonata nel cuore della notte da parte
di un manager sull'orlo di una crisi isterica.
Tom,
dal suo canto, aveva passato il tempo a cercare di non pensare. In
vano. Aveva avuto modo di confrontarsi più volte con Ivan, Georg,
Gustav e suo fratello. Persino con Amanda e sua madre aveva parlato,
il che era prova tangibile di quanto si sentisse confuso e disperato.
In definitiva, l'unica conclusione cui era giunto era molto semplice,
ma al tempo stesso terrificante: Ingie gli mancava disperatamente. Ed
era stata proprio quella fastidiosa conclusione a spingerlo ad
acquistare un biglietto aereo per New York. Aveva agito d'impulso,
aveva di nuovo accantonato l'orgoglio e seguito il cuore e l'istinto.
Non aveva pensato a nulla nell'esatto momento in cui aveva prenotato
il volo; sperò solamente di non aver commesso qualche cazzata, di
cui si sarebbe pentito in futuro. Inutile dire quanto suo fratello
fosse entusiasta di quella scelta; 'meglio tardi che mai' aveva
prontamente esclamato, facendolo sentire ancora più idiota. Ed ora
che stringeva fra le mani quel biglietto aereo, il panico imperversò.
Fu come rendersi conto per la prima volta di ciò che aveva realmente
fatto. Era pronto a gettarsi nel vuoto a quella maniera, senza
nemmeno immaginare il riscontro che avrebbe avuto dalla ragazza?
D'altronde, non era certo che anche lei pensasse ancora a lui e lo
attendesse a casa sua.
Oddio.
Cominciava
a vedere nero e la cosa lo agitava all'inverosimile.
Che
diavolo ho fatto?
Hai
fatto ciò che qualsiasi persona innamorata avrebbe fatto,
avrebbe risposto Bill e non era sicuro che ciò gli piacesse.
Sarebbe
partito l'indomani mattina e sperò vivamente che il figlio di David
non nascesse proprio durante la sua assenza. Se non altro, una cosa
aveva capito: il tempismo non era decisamente il suo forte.
L'indirizzo
della casa di Ingie, era riuscito ad ottenerlo grazie ad Amanda,
sempre in contatto con lei, con la scusa di andarla a trovare con il
bambino non appena fosse stato possibile. Se l'avesse chiesto Bill,
avrebbe immediatamente sospettato. In ogni caso, Tom non conosceva
New York, se non di passaggio, e sperò con tutto il cuore di non
perdersi in quell'immensa metropoli. Aveva implorato Bill di
accompagnarlo, ma il suo adorabile fratellino aveva gentilmente
declinato l'offerta.
I
vantaggi di avere un gemello altruista.
Sbuffò
agitato, gettando uno sguardo alla radiosveglia accanto al suo letto.
Erano le due di notte ed ancora non riusciva a prendere sonno. Il
biglietto era ancora stretto fra le sue mani, nonostante dovesse
cercare di dormire almeno qualche ora.
Si
chiedeva cos'avrebbe pensato Ingie di tale gesto. Doveva ammettere
che era la prima volta che faceva qualcosa di così eclatante per una
ragazza; nemmeno con Ria gli era mai capitata l'occasione. Non a quei
livelli, almeno. Eppure, se tralasciata la paura, non gli pesava
affatto. Era un qualcosa che era quasi venuto da sé; aveva
semplicemente seguito l'istinto, senza porsi troppe domande.
Improvvisamente,
sentì bussare alla porta. Accigliato, diede il permesso ad entrare.
Suo
fratello Bill si affacciò nella stanza.
“Sapevo
che non dormivi.” sorrise soddisfatto, prima di richiudere la
porta. Tom non si mosse di un muscolo; attese semplicemente che si
sdraiasse accanto a lui. “Agitato?” gli domandò, retoricamente.
“No.”
fece con sarcasmo il moro, facendolo sorridere. “Me la sto solo
facendo sotto.”
“Perché?”
chiese ancora il vocalist.
“Perché
non so come la possa prendere.”
Rigirava
il biglietto fra le mani, senza guardarlo.
“Come
la dovrebbe prendere? Sicuramente sarà senza parole.”
Tom
sospirò strofinandosi la fronte.
“Non
so, è la prima volta che faccio qualcosa di simile. Mi sembra un po'
un salto nel vuoto.” ammise.
“Tu
pensa che Ingie ne ha fatto uno molto più grande e rischioso,
venendo in Germania.” Effettivamente, era vero. Ingie aveva avuto
un grande coraggio ad abbandonare tutto e tutti ed immergersi in una
dimensione sconosciuta e pericolosa per una ragazza giovane e sola.
Inoltre, l'aveva fatto in un periodo di grandissima fragilità
psicologica; ciò che avrebbe fatto lui non poteva essere così
traumatico. “Tom, stai facendo una cosa bellissima, credimi.”
cercò di tranquillizzarlo, a quel punto. “Ed io ti ammiro molto
per questa tua scelta.”
“Magari
sono solamente stupido ed avventato.”
“Tom,
tu la ami.” Quell'affermazione secca, dura ed improvvisa lo fece
sobbalzare, ma non fece in tempo a ribattere, che suo fratello
continuò. “E lei ama te. Non vedo nulla di stupido o avventato.”
Tom
sorrise appena, abbassando lo sguardo. Era grato a suo fratello per
stargli sempre vicino, per sostenerlo in ogni sua decisione, per non
farlo sentire un idiota in ogni cosa facesse.
“Ti
voglio bene, Bill.” gli venne spontaneo dire. Era raro che
manifestasse a parole il suo affetto, ma a volte ne aveva davvero
bisogno.
“Anch'io.”
***
Non
appena quella lettera era giunta a casa sua, il suo cuore si era
fermato. Quella doveva essere la risposta da parte della
compagnia. Era al corrente del suo arrivo, ma non avrebbe mai
immaginato sarebbe accaduto proprio quel giorno. Non si sentiva
pronta.
Prese
a respirare velocemente ed a fatica. Era sola a casa e mai come in
quel momento ebbe bisogno di sostegno, di vicinanza con qualcuno. In
quell'esatto istante, sentì il vuoto che suo fratello aveva
lasciato; lo percepì nelle vene e nelle ossa. Avrebbero dovuto
affrontare insieme quel momento, avrebbero dovuto gioire o piangere,
stringendosi con forza, e quasi si sentì in colpa. Un senso di colpa
fortissimo che la fece esitare sul prossimo passo. Era veramente
giusto vivere tutto questo senza di lui?
Sospirò
pesantemente, sperando che il cuore non le sfondasse il petto.
Con
mani tremanti, prese a scartare la busta.
***
Aveva
trovato casa sua; alla fine, non si era rivelato troppo difficile.
Tutte le ore d'aereo non erano nulla in confronto alla paura
incontenibile ed inevitabile che lo facevano tremare, respirare con
affanno davanti a quella porta che attendeva solamente di essere
aperta.
L'aveva
fatto per lei. Solo per lei e pregò che tutto ciò non si rivelasse
inutile.
Si
sfregò la fronte con una mano, sentendo quasi gli occhi pizzicare
per la potenza con cui l'ansia lo stava assediando.
Forza.
Prese
un bel respiro e quasi morì, non appena sentì il suono del
campanello levarsi nell'aria.
The
end… For now.
---------------------------------------
Note
finali
Siamo
giunti alla fine di questa prima storia. Vorrei prendermi qualche
minuto per dirvi poche cose.
Innanzitutto
– anche se mi sembra ovvio – questa storia avrà un sequel, come
avevo già detto all'inizio della pubblicazione. Questo sequel, che
posterò presto, si intitolerà Sinners; quindi, tenete gli
occhietti aperti, se vi farà piacere seguire ancora le vicende di
questi personaggi. Spero di trovarvi ancora tutti e magari anche
qualche new entry (:
Finite
le comunicazioni di servizio, passiamo a quelle più sentimentali (:
Che
dire, grazie. Non immaginate nemmeno quanta gioia e quanto sprone mi
avete dato per continuare questa storia, cui mi sono affezionata
tantissimo, così come ai suoi personaggi. Duecento e passa
recensioni per alcuni sono poche; per me sono un'infinità. Ma poi, è
ciò che scrivete, è il contenuto che mi lascia sempre senza parole,
quindi mi ritengo fortunata. Mi avete sempre sostenuto dall'inizio e
ve ne sono davvero grata. Inoltre, volevo ringraziare, oltre ai
recensori queste altre persone: le 82 che hanno inserito
questa storia fra seguite, ricordate e preferite
e le 76 che hanno inserito me fra gli autori preferiti.
Io non so cosa ne pensate voi, ma per me quest'ultimo è un numero
stratosferico e spero vivamente di meritarmelo. Essere fra gli autori
preferiti è qualcosa di, non so, grande. Quindi, ancora grazie
mille.
Fatemi
sapere che ne pensate di questo epilogo (:
Mi
avete tenuto tanta compagnia in questi mesi e spero che continuerete
a farlo fra poco, con Sinners. Non mi dilungo troppo, perché
tanto non è finita e torno fra qualche giorno. In ogni caso, vi
mando tantissimi baci.
A
presto!
Kyra.
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