Roos - Il veleno del Cobra

di WouldBeRebel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Servizio privato ***
Capitolo 2: *** Locale sbagliato ***



Capitolo 1
*** Servizio privato ***


1. Servizio privato

 
Non sentivo alcun rumore, ma forse era meglio così. Probabilmente mi stava studiando, visto che la luce che entrava dagli spazi fra le serrande mi veniva proprio addosso.
Non la vedevo ancora, ma sapevo che era lì. Il miglior servizio di sempre, mi avevano garantito, ma non ne avevo mai dubitato.
Dopotutto, Amsterdam era pur sempre Amsterdam.
Uno scricchiolio delle molle del letto, segno che si sta muovendo. Portai una mano dietro alla schiena e diedi un giro di chiave alla porta. Non volevo disturbatori, durante quella piacevole serata che mi concedevo dopo tanto.
I miei occhi non si adattavano ancora al buio della stanza, permettendomi di vedere solo ciò che entrasse nella parte illuminata dalla luce dei lampioni che filtrava pallida.
Stavo per dire qualcosa, o quantomeno per avanzare, ma mi fermai non appena vidi un’ombra dannatamente sinuosa avvicinarsi ed avanzare nell’oscurità.
Venne alla luce, e finalmente la vidi, per la prima volta che mi mozzò il fiato.
Alle belle donne ero sempre stato abituato, dopotutto, mi ero sempre trattato molto bene in quel campo, ma devo ammettere che ci fu quasi una scintilla, una scarica elettrica che percosse l’aria non appena la vidi appieno.
Aveva i capelli nerissimi, tagliati in un caschetto spettinato e per nulla ordinato, uno di quei tagli sbarazzini che vanno di moda. Gli occhi erano gialli, come quelli di un serpente. Lei stessa, mi ricordava un rettile. Un rettile bellissimo e incredibilmente velenoso.
Aveva le unghie laccate di un rosso brillante, e la loro forma affusolata e piacevolmente lunga contribuiva a snellire ancor di più quelle dita già sottilissime.
Non era molto truccata, ma questo non la rendeva affatto brutta. Anzi, tutt’altro.
«Jan, ti aspettavo … voi uomini vi fate sempre attendere.»
Sembrava più un sibilo che una frase, la sua voce era più tagliente di una sciabola.
«Siete voi donne, ad essere sempre in anticipo. Ma ora dimmi, come ti chiami ... » - mi avvicinai al suo orecchio, cauto. Le donne di solito adoravano le provocazioni di quel tipo, ma dovevo stare attento, era un cobra davvero pericoloso. - « … tesoro.»
«Roos. Ma posso chiamarmi in qualsiasi modo tu voglia …» - mi afferrò la mano, che si stava per posare sul suo fianco. - « … Jan.»
Sentirle pronunciare il mio nome in quel modo fu terrificante.  Un fremito mi attraversò la schiena, e l’impeto di stringerla a me e di baciarla fu davvero tremendo.
Aveva una corporatura molto esile, ed era più bassa di me di circa un testa. Avevo paura di ferire una creatura così piccola, anche solo toccandola.
Ma avevo pagato per quel servizio, no? Quindi mi era concesso iniziare il gioco in qualsiasi momento.
Allungai una mano a sfiorarle un’anca, questa volta senza essere bloccato. Passai piano i polpastrelli sulla pelle biancastra, mi muovevo di pochi centimetri per poi ripetere lo stesso movimento al contrario.
«Stai facendo il gentiluomo, Jan? Non pensavo fossi venuto qui solo per farmi delle carezze.»
Le piantai gli occhi in faccia, fissandola freddo. Ebbe un leggero sobbalzo, che tentò di nascondere con risultati scarsi.
Tenni la bocca serrata, come mia consuetudine, cercai di leggerle nella mente senza far trasparire nessuna emozione.
Ma di emozioni ne avevo in quel momento, fin troppe. Quel cobra velenoso doveva avermi morso, perché facevo fatica a ragionare lucidamente.
E non dipendeva dal fumo che proveniva dal bar qualche piano sotto di noi.
Sentii sotto la mano ancora posata sul suo fianco una serie di piccoli brividi. Ma non erano dovuti alla paura, erano dovuti al freddo.
Era mezza nuda, e nella stanza vi era giusto quel poco di tepore da permettere alle persone vestite di stare bene.
«Hai freddo.» - sentenziai di punto in bianco io, senza nessun preavviso. Nei suoi occhi balenò una luce nuova, quasi volesse dire “ma davvero, cosa te lo fa pensare?”.
Non aspettai una sua risposta, che probabilmente stava elaborando. Ai serpenti bisogna bloccare la testa, per evitare di farsi mordere.
«Ci penso io a scaldarti, e credimi, fra poco avrai fin troppo caldo.»
 
* * *
 
Mi svegliai di malavoglia percependo una luce molto forte contro le palpebre chiuse. Lei doveva aver aperto le serrande, a giudicare dalla quantità spropositata di chiarore che entrava nella stanza.
Aprendo gli occhi la vidi seduta su una sedia che la sera prima non avevo notato a ripiegarmi i vestiti, vestiti che la notte precedente avevo buttato a terra in malo modo.
Rimasi ad osservarla lavorare, compiendo un gesto che nessuno aveva mai fatto.
Non sorrideva, ma non era nemmeno arrabbiata, manteneva soltanto un’espressione seria. I suoi occhi ambrati erano fissi sulla mia giacca beige che faticava a piegare nel modo giusto. Le sue piccole mani scorrevano veloci sulla stoffa.
Respirava piano, era tranquilla. Il sole le illuminava la pelle, facendola sembrare ancora più pallida.
Era sempre poco vestita, ma almeno aveva qualcosa addosso.
D’un tratto, proprio mentre la contemplavo, si girò verso di me puntando i suoi occhi di topazio nei miei smeraldi.
«È una bella giornata oggi, per te che puoi uscire.»
«Sì, sono piuttosto rare le giornate così soleggiate qui nei Paesi Bassi, non trovi?»
Stavo facendo una conversazione con una puttana? Dio, ma che diavolo mi passava per la testa? Avrei dovuto strapparle i vestiti di mano, non degnarla di uno sguardo e andarmene velocemente, non commentare il tempo atmosferico.
«Stavo per andarmene, per questo ti piegavo i vestiti. Almeno non avresti dovuto perdere tempo a ricattarli, visto che li hai gettati ovunque.»
Arrossii lievemente, nascondendolo il più possibile. Non aveva detto niente di assolutamente scandaloso, per quale motivo mi sentivo in imbarazzo?
Scostai le coperte, alzandomi molto lentamente. Mi sentivo il suo sguardo addosso, ma la cosa non mi eccitava affatto. Anzi, avevo quasi l’istinto di afferrare il lenzuolo e coprirmi.
Non era normale che io mi vergognassi della mia nudità, non lo era affatto.
Mi porse i vestiti senza dirmi nulla. Mi fissava negli occhi, mentre io schivavo il suo sguardo. Le diedi le spalle mentre mi vestivo in fretta, desideroso che quella sensazione alla quale ero tanto estraneo sparisse.
Mi avvolsi la sciarpa intorno al collo, veloce. Lei era ancora lì, ferma, e anche se non la vedevo percepivo la sua presenza immobile e silenziosa.
A grandi passi mi avvicinai alla porta. Era il suo lavoro, avrebbe avuto i suoi soldi dal suo capo. I suoi clienti facevano sempre così, pagavano e se ne andavano silenziosi, muti e frettolosi.
Non si sarebbe sorpresa, ne ci sarebbe rimasta male. E poi che me ne importava, se piangeva come una mocciosa?! L’aveva scelta lei quella vita!
Girai la chiave, ancora ferma al suo posto. Feci pressione sulla maniglia in ottone. Fra poco me ne sarei andato, e tutto sarebbe tornato come prima. La mia pipa in bocca, qualche tulipano sotto braccio da portare a casa, qualche carota in tasca per Miffy, stufa delle solite lattughe.
«Jan.» - chiamò lei. - «Stai … bene, con i capelli abbassati.»
Furono le ultime parole che disse, prima che oltrepassassi la porta senza degnarla di uno sguardo.

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Capitolo 2
*** Locale sbagliato ***


2. Locale sbagliato


Amsterdam alla sera brulicava di gente. A sinistra del canale, un paio di giovani olandesi rincorrevano una loro coetanea, che rideva a crepapelle mentre cercava di sottrarsi dalla presa degli amici. Sembravano tutti intorno alla ventina, a parte la ragazza che sembrava più giovane.
La ragazza era mora e bassina, la vocetta stridula che mi ricordava una bambina viziata. La sua espressione tuttavia, il modo in cui agiva, lasciava dedurre che fosse invece una persona semplice e spontanea, senza troppe pretese.
I compagni, invece, era tutti molto più alti di lei, i capelli chiarissimi e gli stessi lineamenti. Fratelli, pensai.
Ero seduto a guardarli da circa mezz’ora, assorto nei miei pensieri senza riflettere su qualcosa in particolare. Talvolta il mio sguardo veniva attirato da qualcosa di esterno a quella scena (Per esempio avevo visto un signore anziano di circa settant’anni correre come un ventenne vestito con abbigliamento da corsa. O ancora, un rapper improvvisato che aveva suonato un paio di pezzi con delle lattine e un paio di scatoloni, e che se ne era andata non appena aveva visto arrivare una donna sulla trentina che l’aveva guardato malissimo. Forse per le parolaccia che diceva nelle sue canzoni.), ma tuttavia ero rimasto concentrato su di loro.
Non saprei dire bene per quale motivo, ma li trovavo divertenti. Sembravano dei bambini che correvano in prato dopo essere stati un’intera giornata a scuola: felici.
Mi risvegliai dalle mie riflessioni, guardando l’orologio spazientito. Sbuffai, chiedendomi dove diavolo si fosse cacciato.
Fu proprio mentre ero lì, ad insultarlo mentalmente per il suo ennesimo ritardo, che l’imbecille mi mise le mani sugli occhi con la finezza di una balena. Difficile non riconosce un tocco così delicato.
«Chi è?» - scandì con una voce terribilmente alta, facendomi vibrare il timpano. Difficile anche non riconoscere un simile tono da topo strizzato.
«Babbo Natale?»
Feci ironia, anche se sapevo benissimo chi fosse. Non era mai stato bravo a non farsi riconoscere. Non che fosse mai stato bravo in qualcosa si intende.
«No!»
Tolse le mani dagli occhi, scavalcò la panchina accovacciandosi al mio fianco. Mi voltai a guardarlo, anche se già mi aspettavo un viso del genere.
Mathias Køhler, uno stupido danese con la faccia a pera e l’intelligenza di un’ameba, se ne stava appoggiato sulle gambe a fissarmi con gli occhioni blu aperti e un sorriso da cretino che gli andava da un orecchio all’altro. E quei capelli biondi, così ridicoli. Era ovvio che li tenesse così solo per copiarmi.
Rimasi a guardarlo un momento, dovevo avere un’espressione alquanto schifata, perché vidi una coppietta passarmi di fianco che mi guardò stralunata come se fossi un alieno.
Mi alzai senza degnarlo di una parola. Sapevo che mi avrebbe seguito, e senza dargli spiegazioni sarei riuscito a portarlo nel locale che voleva io, almeno quella volta.
Era frequente, infatti, che il danese iniziasse a blaterale prendendomi a braccetto, costringendomi poi ad andare sempre nello stesso, identico locale nel quale andavamo da ben sei anni, ogni qual volta uscivamo insieme. E non che fosse un posto romantico, venivamo circondati da stripper (anche se nei primi anni delle nostre “gite” là eravamo molto giovani, dei ragazzini, accadeva anche all’ora) e Mathias non si dava certo un po’ di contegno. Mi era già capitato di trovarmi i boxer del danese che mi volavano a pochi centimetri dalla faccia, prima di atterrare mestamente sul tavolo…con tutta l’agghiacciante/patetica scena che ne seguiva … e che tutte le volte, con suo grande disgusto, doveva stroncare portandolo via dal locale completamente nudo e sbronzo.
«Dove vai? Aspettami!»
Aveva un tono lagnoso e infantile, in quei momenti lo avrei preso a schiaffi. Mi girai solo per fulminarlo con lo sguardo, prima di riprendere a camminare.
Sentii dei passi affrettati alle mie spalle, ansiti simili a quelli di una cane dopo una corsa tremenda. Certo che avevo una falcata davvero lunga, eh? In pochi passi l’avevo già messo KO a livello di distanza.
Svoltai a sinistra, cogliendolo impreparato, entrai nel primo bar sulla destra. Non lo conoscevo, e non mi ricordavo di averlo nemmeno mai visto. Doveva aver aperto da poco, o forse era stato ristrutturato.
Mi sedetti al primo tavolo che vidi, feci scrocchiare le dita per il nervosismo. Non sapevo per quale motivo, ma il danese mi aveva infastidito parecchio, e d’improvviso provavo l’impulso di rompere qualcosa.
Mi massaggiai la base del naso, nel vano tentativo di calmarmi. Chiusi gli occhi e mi concentrai solo su i rumori che riuscivo a sentire.
Una sedia di fronte a me si mosse, qualcuno si sedette. Mathias ebbe l’accortezza di tacere e di lasciarmi calmare.
Non era la prima volta che mi accadeva una cosa simile. Già in passato avevo avuto quelli che io chiamo “attacchi d’ira”, momenti che partivano in modi del tutto naturali e che mi portavano a diventare rabbioso nel giro di pochi secondi. Ma dopo tanti anni di esperienza, più o meno riuscivo a controllarmi.
Fu proprio quando aprii gli occhi un momento, prendendo un respiro molto profondo, che la vidi ancora.
 
* * *
 
La vidi, lei che stava ballando contro a un palo, vestita solo di un misero quanto succinto corpetto nero. Intorno al piccolo palco su cui si esibiva, una schiera di ragazzi e uomini, la maggior parte sbronzi, fischiava e schiamazzava, cercando invano di riuscire a toccarla.
Le luci si alternavano sulle tonalità del viola, “Mirrors” di Natalia Kills che iniziava ad essere pompata a tutto volume dalle casse.
Indossava una maschera, l’inconfondibile caschetto nero che veniva spettinato ancora di più dai suoi movimenti veloci e mirati. Era sinuosa, letale, bellissima.
Esattamente come la ricordavo.
Mathias mi guardò, e seguì il mio sguardo. Mi accorsi di avere la bocca aperta e la richiusi subito, quasi a non rendere troppo evidente la mia sorpresa nel vederla di nuovo, dopo che era passata una settimana da quella notte.
Mi disse qualcosa, ma ero troppo concentrato su di lei per sentirlo, oltre alla musica altissima che costringeva le persone ad urlare. Non era molto lontana da noi, solo un paio di tavoli più avanti.
Per un momento, quando stavo per distogliere di malavoglia lo sguardo, mi sembrò che guardasse nella mia direzione, sorridendomi.
 
* * *

 
Non ricordo bene come, ma in pochi secondi mi ritrovai a camminare a passo lesto fuori dal locale, le porte aperte in malo modo, quasi sbattute, il battito cardiaco troppo forte, tanto da farmi male.
Quello stupido danese mi sbraitava cosa mi fosse preso, ma non lo stavo ascoltando, tentavo di distrarmi pensando ad altro. Alzai gli occhi al cielo che stava diventando nero, le stelle rese pallide dalla luce dei lampioni.
L’aria puzzava di fumo e per l’unica volta nella mia vita, storsi il naso disgustato.
«Van der Wert*, torna qua! Che succede, perché te ne sei uscito così?»
Continuai ad ignorarlo, non mi presi nemmeno la briga di rispondergli o guardarlo in faccia. Attraversai il ponte sopra al canale, cercai spasmodicamente le chiavi della macchina senza trovarle. Imprecai, aumentando il passo.
«Jan, fermati!»
Desideravo che se ne andasse, che mi lasciasse in pace. Non lo sapevo nemmeno io che mi prendeva, figurarsi se riuscivo a spiegarlo a lui, un completo scellerato.
Mi girai, lo guardai in faccia, gli gridai un paio di frasi sconnesse che non rimembro. Lo odiavo a morte in quel momento, avevo bisogno della mia solitudine, avevo bisogno di non avere scocciatori in mezzo ai piedi. Mi ricordo ancora la sua espressione, un misto di dispiaciuto e sconvolto.
Poi lo seminai, mettendomi a correre per la via. Urtai qualche persona, prima di riuscire ad arrivare al parcheggio, aprire frettolosamente la portiera e buttarmi sul sedile partendo a tutto gas senza nemmeno mettermi la cintura.
 

 
Auteur tijd

 
Prima di qualsiasi cosa, vorrei scusarmi con voi lettori per il terribile ritardo con cui aggiorno. Ho fatto di tutto per rimanere in tempo, ma purtroppo ho avuto delle situazioni familiari tristi e difficili che non mi hanno consentito di scrivere come volevo. Spero riusciate a perdonarmi.
In secondo luogo, mi auguro che questo capitolo vi sia gradito, e vi lascio con queste piccole annotazioni di fine.
Doei!
 
* Van der Wert: è il cognome che io uso per Jan. Un mix da me creato da tre cognomi di tre amici.

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