Seattle: Underground and Blood

di ScleratissimaGiu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ricordi ***
Capitolo 3: *** Qualcosa non quadra ***
Capitolo 4: *** Pronti per un profilo ***
Capitolo 5: *** Sei più uno ***
Capitolo 6: *** Scheletri nell'armadio ***
Capitolo 7: *** Peter Gordon ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Peter Gordon abitava al numero ventiquattro di Spring Street, a Seattle.
Ogni giorno si districava tra la tragica giungla da marciapiede e arrivava lì dove non sarebbe mai voluto arrivare: in metropolitana.
Qui, la sua odiata giungla raggiungeva l’apice dell’animalesco, la gente tirava fuori la parte peggiore di sé, e sì, anche Peter Gordon aveva una parte peggiore, solo che, in giacca e cravatta, rasato di fresco e con gli occhialetti sporchi, non lo diresti mai.
Peter aveva cinquantaquattro anni e lavorava in una vecchia fabbrica d’auto d’epoca: non aveva un lavoro rilevante, ma, facendo continuamente la spia contro i suoi colleghi, tutti lo odiavano.
Il fatto è che Peter odiava due cose in particolare: caos ed ingiustizie.
Non riusciva a rimanere zitto se un suo collega arrivava in ritardo e si faceva timbrare il cartellino da qualcun altro, mentre lui doveva affrontare quella che classificava come “sparatoria in Afghanistan” per arrivare puntuale.
I due luoghi che considerava come inferno personale erano appunto la fabbrica e la metropolitana, dove caos ed ingiustizie raggiungevano livelli a dir poco sovrumani… dove la voglia di uccidere si faceva più intensa.
“A quanto può viaggiare la metropolitana?” pensava di solito l’uomo, guardando i suoi futuri compagni di viaggio.
“Se qualcuno ci finisse sotto, potrebbe…” morire, già.
“Sarebbe una disgrazia… morire così. Ma… anche una giusta punizione…”.
Peter Gordon è stato il secondo caso di schizofrenia più grave al mondo dopo Charles Manson, ed è stato il primo ed il più devastante per me.
Sono arrivata all’ Unità Analisi Comportamentale dell’FBI l’otto aprile, ed il giorno seguente è arrivato questo caso.
Benchè arrivassi dalla CIA, nessuno sembrava nutrire pregiudizi particolari verso di me, anzi sembravano tutti gentili e disponibili, ma mi sentivo sempre come un pesce fuor d’acqua: dopotutto, i miei metodi d’azione erano totalmente diversi dai loro, ed io… beh, loro erano profiler esperti, mentre io una semplice novellina.
Dunque, credo che questa sia una normale giustificazione per quello che è successo.

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Capitolo 2
*** Ricordi ***


Quella mattina ero tranquillamente seduta alla mia scrivania, chiaccheravo con Reid e Morgan riguardo un nuovo libro di Vic Volinsky uscito qualche settimana prima su Jeffrey Dahmer, quando JJ è entrata nell’open space reggendo alcuni fogli con mani tremanti per la fretta e la paura.
- Tutti in sala riunioni, ne abbiamo uno orrendo… - annunciò, bussando alla porta di Hotct e poi a quella di Rossi.
- Cos’abbiamo? - chiese il primo, sedendosi in sala e sfogliando le carte che JJ aveva lasciato sul tavolo per ognuno di noi.
- Seattle, Washington. Sei persone sono state buttatte sotto la metropolitana tra mezzanotte e mezzanotte e mezza negli ultimi venti giorni.
- Buttate… sotto la metro? - chiese Morgan, incredulo.
- Già. Carl Hale, Caroline White, Mary Ann Johnson, Luke Arrows, Sylvia Dalton e Dylan Cox sono stati gettati sotto la metro e identificati quasi per miracolo, direi - aggiunse JJ, facendo scorrere le immagini sul monitor.
- Cos’avevano in comune le vittime? - domandai, leggendo velocemente alcuni rapporti della polizia locale.
- Apparentemente nulla: età differenti, diversi quartieri ed estrazione socio-economica. Sembra che nessuno di loro abbia tratti simili.
- Tra mezzanotte e mezzanotte e mezza, hai detto, vero? - chiese Rossi.
La bionda annuì.
- La metro è molto meno affollata, a quell’ora - commentò Reid, pensieroso.
- Così è più facile entrare e uscire, un attacco lampo: le vittime non si accorgono nemmeno di cosa stia succedendo - convenne Emily.
- Il dipartimento di polizia di Seattle sta già inviando a Garcia i video delle telecamere di sorveglianza; mi hanno assicurato che arriveranno in fretta - disse JJ.
- Il jet parte tra dieci minuti, andiamo - disse Rossi, alzandosi e uscendo, imitato da tutta la squadra.
- Un attimo, - mi fermò Hotch sulla soglia - sicura che vuoi venire? È solo il tuo secondo giorno…
- Posso farcela, - affermai - non si… non preoccuparti.
Il mio capo non ne pareva troppo convinto, tuttavia decise che discutere non serviva a niente, solo a farci perdere tempo prezioso, così ci avviammo verso il jet con gli altri.
Mi aveva detto di dargli del tu sin dal primo momento, me l’avevano detto tutti e con gli altri mi ero adeguata abbastanza velocemente, ma con lui facevo ancora fatica.
Non ne capirò mai il motivo.
 
 
Peter Gordon, in quel momento, era rinchiuso nella sua camera, sperando che le voci smettessero di urlare.
O, quantomeno, che smettessero di urlare tutte insieme.
Poteva distinguere quella di sua madre, quella di suo padre, le urla di suo fratello, piatti che si rompevano, colpi sommessi.
Si mise le mani sulle orecchie, convinto di riuscire ad attutire almeno un po’ quel caos, ma le voci continuavano imperterrite a rimbombargli nel cervello.
La testa gli faceva male, e nessuna medicina riusciva a placare, nemmeno temporaneamente, quel dolore; gli occhi gli bruciavano e aveva freddo, ma non riusciva nemmeno a muoversi perché le sue gambe stavano come andando a fuoco.
La febbre altissima s’impadronì di lui, facendolo svenire.
Quando rinvenne, le voci se n’erano andate.
Si sentiva molto più tranquillo, riuscì ad alzarsi e constatò che anche la febbre doveva essere calata, finalmente.
L’orologio della stanza segnava le sei di sera, e l’uomo era lieto di non aver perso gran parte della sua giornata a dormire sul pavimento.
Andò in bagno a lavarsi la faccia, e il contatto con l’acqua fredda riuscì a riportarlo definitivamente alla realtà.
Si specchiò a lungo, tastandosi la barba e chiedendosi se fosse il caso di raderla; ma poi realizzò che anche Jason Slyde, un suo collega, andava spesso al lavoro con la barba lunga, e nessuno gli aveva mai detto niente.
“Vuoi davvero paragonarti a quella feccia?” chiese la voce di suo padre nel suo cervello.
“No.” rispose l’uomo ad alta voce “Certo che no.”
Dunque Peter prese in mano il rasoio e si tagliò la barba, seguendo il consiglio di suo amato genitore.
- Adesso sì che va bene, - commentò, ammirandosi.
- Avevi ragione… - aggiunse sottovoce, e potè immaginarsi un sorrisetto di circostanza del padre, che naturalmente sapeva e non aveva mai dubitato di avere ragione.
Poi fece una doccia, e rimase sotto il getto dell’acqua per circa mezz’ora, a riflettere su cosa avessero detto i suoi genitori riguardo il suo comportamento.
Decise che, in fin dei conti, era inutile chiederselo: erano morti.
Una buona questione su cui riflettere, invece, era cosa mettersi.
Anche se ogni volta che andava di notte alla metropolitana doveva vestirsi male, per non essere riconosciuto, non rinunciava mai a mettere una spilla che gli aveva regalato sua madre sul letto di morte.
Non era una spilla vera e propria, ma era qualcosa di molto più importante: era un ricordo.
La prese e la guardò, quasi piangendo: ricordava la storia di quella spilla meglio della storia della sua vita, o quasi.
Era solo un pezzo di specchio rotto con un proiettile incastonato nel centro, e per lui valeva tutto.
 
 
 
 
 
“Peter, vieni caro”
Sua madre lo stava chiamando dal letto.
Il bambino si alzò e andò a vedere di cosa avesse bisogno.
“Avvicinati” gli disse, sorridendo.
Peter notò che stava armeggiando con il cassetto del comodino, e vide un fascio abbagliante vicino alla sua mano.
“Guarda”
Teneva in mano un pezzo di uno specchio unito ad un po’ di spago, di modo che sembrasse una collana; per noi potrebbe non avere alcun valore, per quei due era tutto.
“È lui?!” chiese il bambino, con un sorriso enorme stampato sul volto solitamente triste.
“Certo, tesoro. Sono riuscita a salvarlo”
La madre gli sorrise dolcemente, come faceva sempre.
Su quello specchio lui e sua madre ci avevano costruito un’intera esistenza: ci avevano appeso sopra tutte le loro foto, tanto che non era rimasto un singolo centimetro libero.
Erano i loro ricordi più belli: tutta la famiglia insieme, foto che risalivano ad un periodo che non sarebbe più tornato.
Quello specchio era vecchio e incrostato, dunque non importava se lo tappezzavano di quello che volevano.
Almeno così era all’inizio.
Suo padre era schizofrenico, e una sera, durante uno dei suoi attacchi, aveva frantumato lo specchio con un martello.
Poi li aveva picchiati, senza pietà… Come sempre, quando aveva un attacco.
Ma Peter… gli voleva bene lo stesso; non sapeva perché, ma era così.
Cioè, Peter sapeva che era malato, dunque non poteva lasciarlo solo in quel momento.
Non poteva lasciare che venisse divorato da quella cosa tutto solo.
Sua madre era finita in ospedale per un pestaggio più duro di tutti gli altri, ma lui era convinto che non fosse stato suo padre: era stata la malattia, quella fottuta malattia.
Dopo qualche giorno dalla consegna della reliquia, sua madre morì in circostanze quantomeno misteriose: il suo cuore aveva cessato di battere improvvisamente.
Suo padre non era andato in ospedale; Peter era stato consolato da due infermieri, un uomo e una donna…
Non ne era totalmente sicuro, eppure gli sembrava che fossero proprio i due infermieri usciti dalla stanza di sua madre prima che morisse.

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Capitolo 3
*** Qualcosa non quadra ***


Arrivammo a Seattle dopo qualche ora in jet, e fummo subito condotti al dipartimento di polizia.
Ci accolse un uomo tra i quaranta e i quarantacinque, alto e atletico, del tutto privo della minima ombra di sorriso sul volto.
Ma, in quel momento, era più che logico.
- Joseph Nichols, commissario del dipartimento - si presentò.
- Salve, sono l’agente Jennifer Jerau, ci siamo parlati al telefono. Loro sono gli agenti Aaron Hotchner, David Rossi, Derek Morgan, Emily Prentiss, Julie Bolton e il dottor Spencer Reid.
- Lei è già medico? Sembra così giovane! - esclamò stupito, rivolto a Reid.
- Sì beh, ho tre lauree, ma non in medicina - puntualizzò lui, in tono neutro.
- Oh beh… complimenti, allora - aggiunse il commissario, sempre vagamente stupito.
Il dottore sorrise fugacemente, e JJ fece cadere bruscamente la conversazione.
- Dove possiamo sistemarci? - chiese impaziente.
- Venite, prego.
Ci condusse in una stanza dove c’erano un tavolo dalle dimensioni considerevoli attorniato da sette sedie di legno ed una mappa di Seattle altrettanto grande.
- Vorrei cominciare a tracciare un profilo geografico, - disse Reid, appoggiando contro una gamba del tavolo.
- Fate tutto quello che dovete fare, - disse gentilmente Nichols.
- Bene. Io vado sull’ ultima scena con Morgan e Rossi; JJ, tu occupati dei media… ma, mi raccomando, discrezione: incoraggiali a non dare all’SI nomignoli o cose del genere; gli altri lavoreranno al profilo geografico. Appuntamento qui tra un’ora.
- Vi accompagno alla metropolitana, - si offrì il commissario.
Rossi e Hotch uscirono dall’edificio con lui, mentre JJ iniziava a chiamare la stampa.
Io, Emily e Spencer, intanto, segnavamo sulla mappa le fermate della metro dove il killer aveva compiuto gli omicidi.
- Io proporrei, - cominciò il dottore, prendendo un pennarello da una tasca della sua borsa - di segnare tutte le fermate con le lettere da A fino a J, così possiamo orientarci con più facilità.
- Ottima idea. Allora, la fermata numero uno si trova… qui, ecco - disse Emily, rubando il pennarello del nostro collega e cerchiando la prima fermata.
- Tra la quarta e la quinta Avenue, - continuò.
- Vicino ci sono: il Bartell Drugs, l’Harbor Cafè, il Marcella’s La Boutique, l’Office Depot, il Rose Dress for Less, la Zipcar Seattle e il Byrnie Utz Hats - controllai io sulla mappa, meticolosamente.
- Chiediamo a Garcia di controllare gli orari dell’Harbor Cafè, - disse Emily - è l’unico posto che poteva essere aperto al momento degli omicidi.
In quel momento, il cellulare della mia collega squillò.
- Dicci tutto, Garcia - rispose, mettendola in vivavoce.
- Ho eseguito una prima scansione superficiale dei video che ci hanno mandato…
- … e? - chiese Reid.
- Niente. Non si riesce a vedere la faccia di quel mostro, sembra che si copra molto bene per non essere riconosciuto. Non è per niente un cialtrone, sotto questo punto di vista…
- Hai trovato niente sulle vittime? - domandai.
- Sto ancora scavando, ma non ho trovato niente di interessante finora…
- Potresti farci una ricerca?
- Certo. Che vi serve, miei cacciatori d’assassini?
- Dovresti controllare gli orari dell’Harbor Cafè sulla quarta Avenue di Seattle.
- Perfetto, a fra poco.
- Grazie, Garcia.
Riattaccammo il telefono un po’ scoraggiati, ma continuammo comunque a tracciare la nostra mappa.
- La fermata B si trova sulla Yesler Way, vicino a Starbucks, al Seattle Printing e al Jimmy Johns Gourmet Sandwiches… mi sembra che qui non ci sia nulla si rilevante. Cioè, è più facile non essere notati…- disse Reid, cerchiando la seconda fermata.
- La fermata C è quella più isolata, - osservai - guardate: è vicina a Pike Street, ma non ha vicino niente, sostanzialmente.
Andammo avanti così fino alla fermata J, e convenimmo che la fermata migliore per commettere un omicidio fosse la C.
Allora perché non aveva ucciso lì?
 
 
Nel frattempo, Hotch, Rossi, Morgan e il commissario Nichols erano arrivati alla fermata A, dov’era stato commesso l’ultimo omicidio.
Come per le altre volte, anche questa fermata era stata chiusa, ed il numero di chiusure della metro saliva a due: la fermata A e la fermata B.
- Ricostruiamo la dinamica dei fatti, - propose Hotch.
Morgan si posizionò esattamente dov’era Dylan Cox quando era stato spinto, ad una manciata di centimetri dalla linea di sicurezza.
- Sto aspettando la metro, - disse, guardando a sinistra nel buio della galleria - sto aspettando la metro e non m’interessa nient’altro…
- Sei talmente preso dai tuoi pensieri che non senti i miei passi alle tue spalle - disse Hotch, avvicinandosi a lui - dopotutto, chi vuoi che prenda la metro a quell’ora?
- Esatto. Tu arrivi e mi spingi giù.
- Ma tu sei Dylan Cox, hai un fisico atletico, dunque devo avere anch’io la tua stessa forza per riuscire a buttarti sulle rotaie.
- Hai il vantaggio di cogliermi alla sprovvista, quindi non riesco a difendermi…
- … e mi rendi tutto più facile.
Rossi e Nichols avevano osservato tutta la scena, e Rossi era l’unico ad esprimere perplessità.
- Che c’è, David? - chiese Hotch, notando l’insicurezza del collega.
- Seattle ha dieci fermate della metropolitana. Lui sceglie di uccidere di notte, mossa intelligente, ma perché scegliere proprio queste due?
- Che vuoi dire?
- La terza fermata è quella più sicura, ma anche la seconda ha un buon tasso di sicurezza: perché scegliere questa? Perché proprio quella dove c’è un bar vicino?
- Un assassino organizzato non uccide mai vicino a casa sua, anzi cerca sempre luoghi lontani dalla sua area di sicurezza… - commentò Morgan.
- Esatto. Eppure lui ha ucciso solo in due fermate: ne aveva a disposizione dieci, e non può vivere vicino a tutte quante, no?
Il cellulare di Morgan squillò, lui si scusò e andò a parlare in un punto più tranquillo.
- Il tipico assassino disorganizzato: uccide vicino a casa, e vicino a luoghi in cui ci sono persone che possono vederlo.
- Era Garcia. È riuscita a schiarire le immagini dei video: non è molto meglio di prima, ma è riuscita a vedere un paio d’occhiali appena sopra la sciarpa del nostro SI, una ciocca di capelli grigi e qualcosa sulla giacca che però non è riuscita ad identificare perfettamente.  Ha inviato i file anche a Reid, Prentiss e Bolton, li staranno esaminando.
Rossi e Hotch si guardarono, poi quest’ultimo si rivolse al commissario.
- Fra poco potremo darvi un profilo. 

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Capitolo 4
*** Pronti per un profilo ***


Quando Rossi, Hotch e Morgan tornarono in ufficio, noi stavamo ancora esaminando i filmati che ci aveva inviato poco prima Garcia.
- A che punto siamo? - chiese Hotch, sedendosi con noi.
Reid stoppò il video, e indicò la mappa appesa al muro.
- Abbiamo tracciato un profilo geografico molto accurato, e crediamo che…
- … sia un killer disorganizzato che uccide vicino a casa - concluse per lui Rossi.
- Esatto - rispose sorpreso il dottore, guardando meravigliato il fondatore dell’Unità.
- Ho un dubbio, - dissi io.
- Quale? - mi chiese Rossi.
- Credo che ci sia dell’altro, qualcosa che tralasciamo.
- Per esempio? - domandò Hotch.
Non c’era scherno nei loro toni, solo pura curiosità.
- Ogni omicidio si è svolto ad intervalli irregolari: sono passati dapprima una settimana, poi quattro giorni, poi cinque, poi tre ed infine uno solo. 
- Indica che inizia a prenderci gusto, - intervenne Morgan.
- Sì, - ripresi - ma potrebbe anche indicare che non riesce a fermarsi.
- Un crollo psicotico?
- O anche schizofrenia, non ne sono sicura. So solo che deve essere fermato.
Ancora una volta Garcia chiamò Morgan, che la mise in vivavoce.
- Illuminaci, bambina.
- Allora… grazie ad un controllo incrociato sono riuscita a trovare qualcosa: Carl Hale e Sylvia Dalton avevano lavorato insieme nello stesso ospedale, da cui erano poi stati licenziati.
- Come mai? - chiese Rossi.
- Sembra che abbiano volontariamente ucciso con un’iniezione un paziente. Ma c’è dell’altro: Luke Arrows e Dylan Cox erano noti alle autorità locali per una presunta truffa, solo che questi file erano ben nascosti dato che sembravano coinvolti anche alcuni membri della polizia, tutti poi licenziati.
- E Caroline White e Mary Ann Johnson? - domandò Morgan.
- Prostituzione e aggressione a mano armata.
- Grazie bambolina.
- JJ, - disse Hotch, non appena Morgan riappese la cornetta - chiama Nichols. Siamo pronti per un profilo.
 
 
 
- Il nostro SI è un maschio probabilmente tra i cinquanta e i sessant’anni, corporatura non troppo robusta e statura media, sappiamo che porta gli occhiali - cominciò Morgan.
- Il fatto che abbia ucciso le sue vittime nelle prime due fermate della metro e ad intervalli irregolari ci porta a pensare che sia un serial killer disorganizzato e in preda a un crollo psicotico molto potente - continuò Hotch.
- Che significa? - domandò un agente, mentre finiva di scarabocchiare qualche appunto.
- Significa che il suo livello di schizofrenia sta evolvendo: la schizofrenia inizia a diventare sempre più grave con l’età, e provoca oscillazioni d’uomore e, il più delle volte, allucinazioni. Se si osservano gli intervalli tra gli omicidi, si può notare un lasso di tempo sempre più breve: ciò significa che la malattia sta diventando sempre più potente, il che vuol dire che l’SI si fermerà solo se catturato - spiegai.
- Riveste una carica poco importante al lavoro, probabilmente ne ha cambiati due o tre, e non ha storie - intervenne Emily.
- Come lo sapete? - chiese qualcun altro.
- La dinamica degli omicidi ci mostra che, attaccando alle spalle le sue vittime, probabilmente si sente inadeguato: non possiede il carisma necessario che può indurle a mettersi in pericolo oppure ingannarle - rispose lei. 
- Questo tipo di individuo sarebbe capace di invocare l’infermità mentale in un tribunale, dicendo che le voci che sente l’hanno indotto a commettere gli omicidi - riprese Rossi.
- Come si fa a dirlo? - chiese il commissario.
- Basti pensare al caso di schizofrenia più famoso al mondo: Charles Manson. Manson, nel processo d’appello del 2011, ha invocato l’infermità mentale. Certo, non gli è stata concessa, ma non è da escludere la possibilità che un altro giudice non avrebbe fatto come è stato con lui - rispose Reid.
- Un’ultima cosa, - disse Hotch - l’SI ha ucciso tutte persone che avevano avuto a che fare con la legge: dobbiamo considerarlo come il suo modello.
La nostra agente trasmetterà il profilo alla stampa, dunque vi preghiamo di  non cedere, se ce ne saranno, informazioni riservate su questo caso. È tutto, grazie.
 
Erano le undici e trenta, e Peter Gordon stava guardando il telegiornale sul canale otto.
Le voci si erano tranquillizzate, ma l’uomo si sentiva lo stesso irrequieto, e lo diventò ancora di più quando l’agente dell’FBI Jennifer Jerau comparve sullo schermo per parlare del killer della metropolitana.
Gordon spense la tv immediatamente, e le voci ricominciarono a rimbombargli in testa.
“Non vorrai lasciarci invendicati, vero?” gli urlò suo padre, quasi sfondandogli i timpani.
“No, no mai!” gridò di rimando lui.
“Allora agisci, fammi vedere chi sei veramente” gli ordinò ancora, con voce più calma.
“Va bene, papà, te lo prometto. Te lo prometto”.
 
 
 
Peter sentiva un rumore strano, come se qualcuno stesse graffiando la porta dell’appartamento.
Sentì lo scatto della serratura, e suo padre tossì.
Si rilassò e richiuse gli occhi nella speranza di scivolare di nuovo nell’incoscienza, ma le urla glielo impedirono.
Oltre a quella di suo padre, c’erano altre due voci femminili che si distinguevano.
Si alzò dal letto e aprì la porta della sua stanza quel tanto che bastava perché potesse intravedere quello che succedeva in sala.
Suo padre e le due ragazze discutevano animatamente, e si chiese perché non calcolassero che lui e suo fratello stavano dormendo.
Ad un’occhiata più attenta, Peter vide che le due non avevano più di venticinque anni, ed erano vestite poco e molto attillate.
- Ci devi dei soldi, - disse una, barcollando probabilmente per l’altezza dei suoi tacchi.
Il bambino avvertì un forte odore che lo costrinse a coprirsi naso e bocca con una mano, tanto era insopportabile.
- Io non vi devo niente! - urlò suo padre, sputando saliva per la rabbia.
- Non ci hai pagato la settimana scorsa, quindi ci pagherai adesso! - replicò l’altra.
Aveva una voce molto profonda, quasi da… uomo, o almeno così parve al piccolo Peter.
- Non vi devo niente, zoccole! - ripetè l’uomo, più deciso.
Quella che aveva parlato per ultima nascose una mano dietro la schiena, e quando riemerse vide che reggeva una pistola.
Suo padre indiettreggiò di qualche passo.
- Dacci i nostri soldi, - disse di nuovo la ragazza, puntando la pistola al suo cuore.
- Papà!
Non era stato Peter a parlare.
Girò la testa di scatto, e vide suo fratello Randall, di appena cinque anni, correre verso suo padre.
- Randy, torna in camera tua! - gli ordinò l’uomo, ma ormai era troppo tardi.
La ragazza premette il grilletto, e Randy cadde a terra, schizzando sangue da tutte le parti.
I suoi occhi privi di vita guardavano verso la mia stanza, e i miei pieni di lacrime guardavano verso di lui.
- Maledetta… - mormorò suo padre, chinandosi sul cadavere del piccolo.
La pistola rimaneva puntata sull’uomo, e lei non dava il minimo segno di rimorso per quello che era appena successo.
- Il prossimo è per te, se non tiri fuori i soldi - sibilò.
Suo padre alzò gli occhi verso di lei: aveva uno sguardo demoniaco, che però non servì a spaventarla.
Anzi, si avvicinò ancora di più a lui, e poggiò l’arma direttamente contro il suo petto.
- Dacci i soldi, è l’ultimo avvertimento - sussurrò.
Peter capì che era arrivato il momento di agire.
Uscì correndo dalla sua stanza, e si avventò sulla prostituta con tutta la forza che aveva.
Presa alla spovvista, la ragazza cadde, e suo padre colse l’occasione per aggredire l’altra, disarmata.
La cosa servì a ben poco: Peter fu sbattuto a terra e lei gli sparò un unico colpo al petto.
Poi ne sparò cinque o sei a suo padre, dunque se ne andarono.
Il bambino si svegliò in ospedale qualche ora dopo.
- Oh bene, sei sveglio - gli sorrise il medico, avvicinandosi.
- Sei stato fortunato. Quell’aggeggio ti ha salvato la vita - continuò, indicando verso il suo comodino.
Indicando verso la collana che gli aveva regalato sua madre.

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Capitolo 5
*** Sei più uno ***


Non la trovava più.
Era in un momento di disperazione profonda, peggio di quando le voci iniziavano ad urlare tutte insieme.
Non c’era… doveva averla persa.
Per forza, non c’era altra spiegazione…
Ma dove l’aveva persa?
Aveva rovistato in ogni cassetto, guardato in ogni singolo angolo della casa, eppure niente.
Un improvviso lampo di lucidità lo colpì come una spada che trafigge il cuore… 
La metropolitana.
 
 
 
Era circa l’una e trenta quando JJ fece suonare il mio cellulare, interrompendo quel poco di riposo che ci eravamo concessi dal nostro arrivo a Seattle.
- Julie, scusa. È urgente, ci vediamo a Yesler Way… ha colpito ancora.
Mi rizzai a sedere sul letto dell’albergo, ormai sveglia del tutto, assimilando quel che mi aveva appena detto la mia collega.
Prima che potessi replicare, Jennifer aveva già riattaccato, così mi vestii in fretta e furia e bussai alla porta di Emily, proprio accanto alla mia stanza, e insieme ci avviammo alla fermata B della metropolitana di Seattle.
Arrivammo insieme a Hotch e Rossi, che erano rimasti al dipartimento di polizia un po’ più a lungo.
Notai che Reid, Morgan e JJ erano impegnati a parlare con un uomo in lacrime che sedeva poco distante dalla biglietteria.
- Il guidatore, - ci spiegò il commissario Nichols - è disperato.
- Posso capirlo… - mormorò Hotch, guardando nella sua direzione.
- Commissario, ci sono altre entrate? - domandò Rossi.
- Non lo so… perché?
- Il dottor Reid e l’agente Prentiss hanno riguardato le registrazioni del momento dell’accaduto: non è uscito da dove si esce di solito da qui.
- Chiami un po’ dei suoi uomini, setacceremo la zona. Voi due, andate a parlare con il guidatore, magari ha visto qualcosa - continuò Hotch, indicando me ed Emily.
Quando gli altri ci videro avvicinarci, capirono immediatamente e se ne andarono.
- Lei è…? - chiese Emily, gentilmente.
- Tony. Tony Hudson, guidavo la metro…
- Lo sappiamo, signor Hudson - lo interruppi - non è stata colpa sua.
- Non sono riuscito a fermarmi… - riprese, continuando a lacrimare - ci ho provato, ma non ce l’ho fatta… l’ha spinto all’ultimo momento, non era nemmeno previsto che mi fermassi…
- Ha visto l’aggressore? - domandò la mia collega.
- Io… non molto bene… andavo troppo veloce… è scappato via… non volevo, credetemi… non potevo immaginare…
- Si calmi, si calmi, signor Hudson! Le abbiamo già detto che non è colpa sua. Lei non poteva farci niente, chiaro? Non ne ha colpa!
Quasi urlai, tanto mi ero arrabbiata.
Nella CIA ero abituata a condurre quasi tutte le operazioni, ad esercitare la mia autorità sugli altri, ad essere ascoltata.
Eppure, quell’uomo pareva non udirmi, non riusciva a non pensare di avere ucciso un innocente… e io non riuscivo a non pensare che non avevo niente di concreto per le mani che mi permettesse di prendere quel bastardo.
Emily aveva una faccia esterrefatta; gli altri sembravano non essersi accorti della mia sfuriata, perché era arrivata la polizia per cercare la seconda entrata.
Hudson si era improvvisamente zittito, probabilmente stranito da quella mia reazione sciocca ed impulsiva. 
- Mi… mi dispiace, - mormorai, chinando il capo - non volevo alzare la voce. È solo che… non voglio che lei pensi di essere un assassino, perché non lo è. Le prometto che troveremo il vero assassino e lo sbatteremo in cella, va bene?
Sembrò rinfrancato da quelle mie parole, e mi sorrise.
Sorrisi anch’io stancamente, e lo congedammo.
- C’è qualcosa che non torna… - dissi.
- Cosa? - chiese Emily, guardandomi pensierosa.
- Hudson ha chiamato verso l’una, appena aveva… beh, appena era successo.
- Giusto. Allora?
- Ha cambiato il modus operandi.
- Circa mezz’ora o un’ora dopo gli altri omicidi… - realizzò lei.
- È vero, è un assassino disorganizzato, ma lo è solo per metà: uccide vicino a casa, ma sempre negli stessi orari. È meticoloso, sotto questo punto di vista. Perché cambiare proprio ora?
- Ha commesso un errore, stavolta.
- E perché l’ha commesso?
Il nostro discorso cadde.
In realtà, non sapevamo perché l’aveva commesso.
- Ragazze, c’è qualcosa! - urlò Morgan.
Ci avviammo verso di lui con passo veloce, e ci trovammo davanti ad una porta che, come dovevamo aspettarci, dava su un vicolo cieco.
- Sappiamo che è uscito da qui… - mormorò Hotch.
- Guardate! - esclamò il commissario.
Con i guanti di lattice reggeva una cosa che sembrava una collana che aveva per ciondolo un frammento di specchio.
- Mandatelo alla scientifica, presto! - continuò l’uomo, ringhiando verso i suoi sottoposti.
- Se Dio vuole, abbiamo in mano qualcosa - pensai, stanca.

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Capitolo 6
*** Scheletri nell'armadio ***


“È tutta colpa tua! Sei un incapace Peter!”
Suo padre glielo stava urlando da circa un’ora, e Peter continuava a scusarsi piangendo, ma serviva solo a farlo urlare più forte.
Sapeva che l’avrebbero preso, era solo questione di tempo, ma da quando si era accorto di aver perso la collana suo padre non aveva smesso un attimo di rimproverarlo.
“Ti prego, papà…” rantolò, appoggiandosi contro una parete del soggiorno con le mani ben premute contro le orecchie.
“Non fare la femminuccia, adesso!” aveva risposto suo padre “Dovevi fare solo una cosa: attenzione! Ecco che dovevi fare! Ma tu no, hai buttato tutto al cesso per quella stupida collana!”
“Ma me l’aveva regalata la mamma…” farfugliò l’uomo, cercando di reggersi in piedi.
“Non importa, chi te l’ha regalata! Lo vedi quel foglio, Peter? Quel foglio che c’è sul tavolo? Hai mandato tutto a rotoli, disgraziato!” sbraitò ancora la voce, senza dar segno di volersi calmare.
“Non è stata colpa sua, Arthur…” mormorò la voce di sua madre.
“Zitta tu! Sto facendo un discorso serio con nostro figlio, Amanda. Non voglio che t’intrometti”.
Poi iniziarono le allucinazioni.
Vide suo padre e sua madre discutere animatamente vicino al divano, e suo fratello tapparsi le orecchie vicino alla porta della sua camera.
Artur si voltò di nuovo verso di lui.
- Capisci la gravità di quello che hai fatto, Peter? - gli chiese.
- Io… 
- Rispondi! - urlò.
- Sì, sì… mi dispiace… 
- Non servono a nulla, quelle scuse… ci lascerai invendicati, te ne rendi conto?! Avevi promesso che li avresti presi tutti, e invece stai mollando, come fa un perdente! Dimmi, tu sei un perdente?
- No, papà… non lo sono…
- Dimostralo, allora! Facci vedere che non sei un lurido perdente!
- Arthur, forse è il caso di lasciarlo in pace… - provò ancora sua moglie, e, per tutta risposta, Arthur le rifilò un sonoro scapaccione.
Randall iniziò a piagnucolare.
- Sta’ zitto, Randy! Fila via!
Il bambino si rifugiò in camera di Peter, e non riapparve più.
- Allora, Peter… - continuò suo padre - sei in grado di capire che cosa devi fare? 
L’uomo annuì.
Aveva capito perfettamente.
Arthur sorrise, cosa che fece sorridere anche suo figlio.
Lo aveva sempre desiderato tanto, quel sorriso.
- Vai, figliolo. Rendici fieri di te.
 
 
 
 
 
Mi passai una mano tra i capelli castani e ricontrollai lo schermo del mio cellulare: niente, Garcia non aveva ancora chiamato.
Aspettavamo due risultati dalle sue analisi: di chi fossero le impronte sullo specchio, e chi fosse il malcapitato che era finito sotto la metro.
Mi si chiudevano gli occhi, dunque decisi che la cosa più utile che potessi fare era riposare, seppur per poco, lì seduta.
Quando entrai nel dormiveglia, fui svegliata da un rumore di sedie vicine a me.
Aprii istintivamente gli occhi, e vidi che Hotch e Rossi si erano seduti proprio di fronte a me, a guardarmi.
- Siamo preoccupati per te, - disse Hotch.
- Come mai? - chiesi, la voce ancora impastata dal sonno.
- Emily ci ha raccontato dell’interrogatorio di Hudson… - continuò Rossi.
- Sentite, ho solo perso il controllo per un attimo…
- Non puoi perdere il controllo nemmeno per un attimo, quando fai questo lavoro, Julie. Dovresti saperlo bene - riprese Hotch.
Lo guardai.
Sapevo esattamente a cosa alludesse, e non avevo la benché minima intenzione di farmi mettere i piedi in testa da loro, neanche se erano i miei superiori.
- È stato solo un incidente, non è stata colpa mia - affermai con sicurezza.
- Un incidente che è costato la vita a tre agenti, - replicò Rossi, con tono di sfida.
Caddi nella trappola come un topo affamato.
Sbattei un pugno sul tavolo, furiosa.
- Si sono messi in pericolo da soli, non ho potuto…
- … fare niente? Già, come non ha potuto fare niente Hudson, solo che lui aveva una scusa vera, Julie. Tu no.
- Era una minaccia terroristica, tutti sapevano bene a cosa andavano incontro. Non è stata colpa mia.
- Tu dirigevi le operazioni, per l’amor del cielo! Era tuo compito far sì che non accadesse nulla!
- Dave, adesso calmati… - provò a calmarlo Hotch, mettendogli amichevolmente una mano sulla spalla.
Ma sono convinta che anche lui sapesse che io e Rossi avevamo lo stesso carattere grintoso e testardo, quindi era una partita persa cercare di calmarci.
Ed infatti, continuò a punzecchiarmi.
- Tre agenti morti sotto il tuo comando, ecco perché ti hanno spedita qui. Avevi delle buone credenziali, è bastata una buona parola del governo per farti entrare all’Unità, non è vero? Non è andata così, signorina Bolton?
- È stato un tragico incidente, ok? Avevo dato chiare istruzioni dicendo che dovevano aspettare il mio ordine… ho mandato una lettera personalmente alle famiglie…
- Credi davvero che una lettera di condoglianze possa migliorare la situazione? Se dovesse accadere la stessa cosa qui, ne manderesti una alle nostre famiglie? Guarda.
Si alzò bruscamente, facendo quasi cadere la sedia, prontamente retta da Hotch, e indicò gli agenti presenti nell’open space del dipartimento di polizia di Seattle.
- JJ ha un marito e un figlio, Morgan una madre e due sorelle, per Emily non dovresti preoccuparti più di tanto e nemmeno per me, Hotch ha un figlio piccolo, la madre di Reid è schizofrenica ed è rinchiusa in un manicomio a Las Vegas, lui la vede raramente. Saresti pronta a scrivere delle lettere di condoglianze per noi? Proveresti un po’ di rimorso per noi, o lo fingeresti dicendo che ‘sapevamo bene a cosa andavamo incontro’?
Rimasi zitta.
Non perché non sapessi cosa rispondere, anzi; ma perché sentivo le lacrime salire agli occhi.
Mi alzai e uscii dall’ufficio, dirigendomi in bagno.
Fu la prima volta in cui mi resi conto di cosa avevo fatto durante quella dannata operazione antiterrorismo.
 
 
- Quando si parte per una missione come questa, bisogna valutarne tutti i rischi - iniziai a spiegare.
Davanti a me erano schierati pressappoco una decina di agenti speciali della CIA, già vestiti con i giubbetti antiproiettile e tutto il resto.
Avevamo individuato il nascondiglio di Moahmmad Al Jamal, uno dei membri principali della cellula terroristica di Al Quaeda, che stava progettando un attentato a Langley, la nostra sede.
Volevano farci saltare in aria perché eravamo riusciti a sgominare un traffico di armi illegale tra Al Quaeda e alcuni poliziotti che avrebbero fatto arrivare le armi di nascosto ai terroristi in America.
Il comando mi era stato assegnato direttamente da John Brennan, il direttore, il che voleva dire che ero una delle migliori… ma questo non era quello che pensavano i miei sottoposti.
Avevo solo ventiquattro anni, occhioni color nocciola innocenti e lunghi capelli castani: più che un’agente della CIA, sembravo una ragazza del college che si era ritrovata lì per caso.
Uno dei miei principali vantaggi è sempre stato il carattere risoluto e schietto, avvezzo a comandare e poco incline ad essere comandata.
Sì, ero una piuttosto irritante, ma non ero alla CIA per farmi degli amici: ero lì per lavorare ed essere la migliore, cosa che ho sempre voluto e ottenuto da quando ero piccola.
Non potevo immaginare che avrei perso degli agenti, quella sera.
Quando arrivammo al nascondiglio, tre dei miei uomini entrarono senza autorizzazione e furono coinvolti in un conflitto a fuoco in cui morirono.
Erano i primi che morivano sotto il mio comando, e la cosa, anche se l’agente Rossi al momento non ci credeva, mi devastò.
Riuscii ad assimilarla dopo parecchio tempo, riuscii a capire che non era colpa mia… anche se forse un po’ lo era.
Sono stata io a richiedere il trasferimento all’Unità: volevo liberarmi da quell’odioso fardello, dalle occhiate dei miei colleghi, dalla brutta reputazione.
Brennan si occupò personalmente del trasferimento, e ovviamente fu costretto a rivelare quel che era successo a Hotch e Rossi.
Fantasmi del passato.  Scheletri nell’armadio.
Le cose più orrende da dover sopportare.
 
 
 
- Julie, stai bene?
La voce di Emily che bussava alla porta del bagno mi liberò da quegli incubi.
Feci scattare la serratura, e lei aprì la porta.
- Che ti succede? - mi chiese, chinandosi.
- Sono un disastro… - farfugliai tra le lacrime. 
Le raccontai la mia storia, e quello che era successo con Rossi.
- Non è stata colpa tua, - affermò lei, convinta.
- Io li ho fatti uccidere, Emily! Non posso più rimediare…
- Tu che colpa hai avuto, se quelli sono entrati senza autorizzazione? Non prevedi il futuro, Julie. Non lo potevi sapere.
- Rossi ha ragione… 
- No, Rossi non ha ragione. Non sa come può essere perdere degli uomini durante un’operazione, tu sì. Sei tu quella che ha ragione.
La guardai.
Mi sorrise, e l’abbracciai: per la prima volta, mi sentii parte della squadra.
Era una sensazione fantastica.
- Ragazze, Garcia ha qualcosa! - ci urlò JJ da fuori, e noi corremmo nell’open space.
- Cosa ci dici, bambolina? - le domandò Morgan.
- La vittima si chiamava Marcus Smiths, sessantadue anni. Precedenti penali per spaccio e uso di metanfetamine, ma c’è qualcosa di interessante.
- Cosa? - chiese Hotch.
- Sono riuscita a trovare un collegamento fra tutte e sette le vittime. Ricordate che Luke Arrows e Dylan Cox avevano partecipato ad una mega truffa, vero? Beh, sembra che la truffa sia stata ai danni dell’unica fabbrica d’auto d’epoca di Seattle, la American’s Old Cars.
- Bene, ok, ma che c’entra?
- Seguitemi per un attimo. Parecchi anni prima, Carl Hale e Sylvia Dalton erano stati licenziati dall’ospedale in cui lavoravano per aver ucciso con un’iniezione letale Amanda Gordon, pestata a morte dal marito. Una settimana dopo, Mary Ann Johnson e Caroline White hanno ucciso Arthur Gordon, il marito di Amanda, e suo figlio Randall, di cinque anni, e sono state identificate dall’unico superstite, il figlio maggiore Peter, di dieci anni.
- Com’è riuscito a sopravvivere?
- Gli hanno sparato, ma il proiettile si è conficcato nella collana che portava. E l’ultima vittima, , è stata indagata per spaccio di metanfetamine a persone soggette a schizofrenia, tra i quali Arthur Gordon.
- La schizofrenia è una malattia genetica, - osservai.
- Sto continuando a controllare se c’è qualcos’altro che può esservi utile, ma mi ci vorrà un pochino di tempo…
- Garcia, puoi darci l’indirizzo di Peter Gordon?
- 24, Spring Street, Seattle.
Questa volta niente sarebbe andato storto.
 
 
 
Una dedica speciale va a Martina, che mi aiuta a trovare i nomi per le mie storie, e Livia: per lei non c'è il dottor Reid, per lei c'è il dottor Red... e ho detto tutto. Siete fantastiche ragazze <3

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Capitolo 7
*** Peter Gordon ***


Peter Gordon si aggirava per le strade di Seattle con innata soggezione.
Non aveva mai posseduto una macchina, e si pentì di non aver voluto prendere la patente: doveva andare dall’altra parte della città, per sbrigare la sua commissione.
Teneva entrambe le mani nelle ampie tasche dell’impermeabile beige: nella sinistra, stringeva la sua preziosa lista; nella destra, una pistola appena caricata.
Era di suo padre, la teneva nel cassetto della scrivania della mamma come “possibile emergenza, non si sa mai”.
Era una Smith & Wesson, 38 special, per la precisione, americana;  secondo suo padre la pistola migliore che un produttore d’armi potesse offrirti.
Peter fece scivolare la mano destra su di essa, fino a sfiorare il grilletto: con quella accanto, si sentiva decisamente più sicuro.
Prese un respiro profondo e accellerò il passo: non c’era un secondo da perdere.
 
 
 
I Suv stavano facendo del loro meglio per arrivare il prima possibile al numero 24 di Spring Street, e noi facevamo del nostro meglio per non vomitare, dato che alla guida c’era Hotch.
Vicino a lui era seduto Rossi, e non potei non notare che, ogni tanto, lanciava qualche occhiata allo specchietto retrovisore per controllarmi.
Dietro con me, invece, c’erano Emily e Morgan; Reid e JJ erano in macchina col commissario.
Dietro il nostro Suv, cinque o sei auto della polizia cercavano di tenere il nostro ritmo, invano.
- Mi raccomando, - disse Hotch, senza distogliere gli occhi dalla guida - state attenti. Una personalità schizofrenica è difficile da gestire.
Ancora una volta, notai un’occhiata di Rossi, che ricambiai senza paura.
- Abbiamo stabilito che è un individuo forte, - continuò.
Non avevo per nulla paura: avevo iniziato a fare boxe quando avevo dieci anni, e mi sentivo pronta per un corpo a corpo con un uomo del genere.
Hotch accostò, e scendemmo dalla macchina; il resto degli agenti che ci aveva seguito ci imitò.
Dopodichè, estraemmo le pistole e ci dirigemmo cautamente verso l’ingresso.
Anche solo osservando l’uscio di quella casa, saresti scappato a gambe levate: il giardino, molto probabilmente, aveva ricevuto l’ultima potatura due anni prima, senza contare tutta la sporcizia presente sulla veranda.
Emily bussò con energia alla porta, ma nessuno rispose.
- Peter Gordon, - disse - apra, FBI.
Nessuno venne alla porta, e all’interno non si udì alcun rumore.
- Peter Gordon! - ripetè, più sicura - apra immediatamente o butteremo giù la porta.
Ovviamente, fummo costretti a sfondare la porta.
All’interno della casa non c’era nessuno; più che una casa, a dir la verità, sembrava una discarica: c’erano lattine di birra vuote, chiazze d’umido sulle pareti, rifiuti d’ogni genere sparsi sul pavimento.
- Ehi, guardate… - richiamai la loro attenzione su un punto particolare di una parete nel soggiorno.
- Sembrano graffi, - disse Morgan, avvicinandosi.
- Cerchiamo in giro, magari c’è qualche indizio - intimò Hotch.
Frugammo in mille cassetti, setacciammo ogni centimetro dei pavimenti, sollevammo quadri e tappeti, ma niente, nessuna traccia.
Fortunatamente, Garcia era stata più fortunata di noi.
- Sono riuscita a trovare qualche nome che potrebbe esservi utile: Heather McAllister, aveva fatto perdere il lavoro alla madre di Gordon perché aveva riferito che suo marito faceva uso di droghe; Hank La Gatta, ex datore di lavoro di Gordon, che ha licenziato quando ha picchiato un collega; e Keith Bowen, un altro degli spacciatori di Arthur Gordon.
- Grazie mille, Garcia - la congedò Morgan.
- Adesso dividiamoci, - ordinò Hotch - JJ, tu vieni con me da Bowen; Reid, Morgan: voi andrete da La Gatta; Rossi, Prentiss e Bolton, voi andrete dalla McAllister. 
Rossi non pareva sorpreso da quella scelta, che a me sembrava come una specie di sfida.
Comunque non c’era tempo per pontificare, così noi tre prendemmo il Suv e ci avviammo verso l’appartamento di Heather McAllister che, come ci aveva appena spedito Garcia sui nostri palmari, abitava al numero 30 di Pike Street, interno 8.
 
 
 
Peter Gordon stava tremando come una foglia.
Aveva davanti a sé i due cadaveri, eppure aveva lo stesso paura.
Guardava il sangue allargarsi in una pozza sotto il cranio della donna e di suo figlio, e non riusciva trattenere un’emozione che era un miscuglio tra paura, ribrezzo e compassione.
La Smith & Wesson era davvero una pistola magnifica, come gli aveva detto suo padre, ma adesso perdeva ogni attrattiva di fronte ai due cadaveri ancora caldi.
“Cosa stai facendo, Peter?” gli chiese con disprezzo suo padre.
“N-niente” rispose l’uomo, guardandosi intorno.
Suo padre comparve davanti ai corpi senza vita, un’espressione di trionfo sul volto.
“Sono fiero di te,” gli disse sorridendo.
“Grazie” rispose Peter, facendo scivolare la pistola in tasca.
“Ma devi fare ancora qualcosa, lo sai…” riprese, indicando la tasca sinistra del suo impermeabile.
La lista.
“Lo so, papà. Me ne occuperò immediatamen…”
Il rombo di un motore interruppe quella promessa, e indusse Peter a guardare alla finestra cosa stesse succedendo.
Un grosso Suv nero era appena stato parcheggiato di sotto, e da esso scesero due donne e un uomo, tutti muniti di giubbotto antiproiettile.
“Merda…” mormorò suo padre.
L’uomo si girò di scatto verso di lui, implorando con gli occhi che lo aiutasse a trovare una soluzione.
“Tira fuori la pistola, idiota!” lo ammonì, camminando sopra i cadaveri come fossero stati spazzatura.
“Puntala verso l’ingresso…” continuò “ricorda: qualunque cosa accada, non devi permettergli di prenderti vivo.”.
Peter annuì, deciso; niente avrebbe potuto fermarlo.
 
 
 
Entrammo forzando la porta, senza nemmeno bussare o suonare il campanello: i convenevoli sarebbero stati utili in un altro momento.
Ormai, come potemmo constatare, per Heather calliste e per suo figlio era troppo tardi; giacevano inermi, nel sangue.
La figura di Peter Gordon troneggiava sopra di loro, con la sua Smith & Wesson puntata verso di noi.
- Buttala via, - gli disse Rossi, con quel suo tono incoraggiante e persuasivo, ma tuttavia sempre un po’ duro.
- No. - disse l’altro.
- Siamo tre contro uno, come credi che andrà a finire?
“Non dargliela vinta, Peter” gli ordinò suo padre.
- Mai, - rispose.
Decisi di provare a ragionare.
- Peter, - iniziai - ascoltami. Dovresti dare retta al mio collega, butta la pistola. Sappiamo perché l’hai fatto.
- Vendetta… - mormorò, stringendo l’arma ancor di più.
- Esatto, esatto. Non siamo qui per condannarti, Peter. Siamo qui per aiutarti. 
- Voi non mi potete aiutare! - gridò - Nessuno mi può aiutare, nessuno mi ha mai aiutato!
Vidi che si stava palesemente agitando, e non andava per niente bene.
Provai ad avvicinarmi, e fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Premette il grilletto, ma io e Rossi lo tempestammo di proiettili e cadde a terra, morto.
Ci guardammo fugacemente, poi capimmo che c’era qualcosa che non quadrava.
Ci girammo, e vedemmo Emily riversa a terra, ansimante, il sangue che le colava dallo stomaco.
- Chiama un’ambulanza! - mi urlò Rossi - Muoviti!
Stordita, composi il 911 e, pochi minuti dopo, osservammo Emily che veniva trasportata d’urgenza all’ospedale.

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