Il sentiero dei corvi

di Nidham
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nel buio ***
Capitolo 2: *** Chi sono io? ***
Capitolo 3: *** Dormire ***
Capitolo 4: *** Circostanze sospette ***
Capitolo 5: *** Spiegazioni ***
Capitolo 6: *** Storie ***
Capitolo 7: *** In uscita ***
Capitolo 8: *** Da sola ***
Capitolo 9: *** WhisperG ***
Capitolo 10: *** Cenere ***
Capitolo 11: *** Protetta? ***
Capitolo 12: *** Truffatore? ***
Capitolo 13: *** Parenti ***
Capitolo 14: *** Cose che puoi trovare in un garage ***
Capitolo 15: *** Profumo ***
Capitolo 16: *** Dentro ***
Capitolo 17: *** Sotto di noi ***
Capitolo 18: *** Niente è mai come sembra e non esistono più le mezze stagioni ***
Capitolo 19: *** Non ci siamo neanche baciati ***
Capitolo 20: *** Ritorno sul luogo del delitto ***
Capitolo 21: *** Inviti ***
Capitolo 22: *** Bugie? ***



Capitolo 1
*** Nel buio ***


Il calore è ovunque, soffocante, dilaniante. Lo sento come una presenza viva e concreta, mentre si avvicina alla mia pelle, carezzandola con violenza febbrile, stringendola in una morsa troppo serrata perché possa spezzarla. I miei polmoni cercano disperatamente un po' d'aria, ma trovano solo fumo, denso e appiccicoso che si avvolge fuori e dentro di me. Non capisco dove sono, cosa sia successo. Mi sento persa, cieca in mezzo a un chiarore troppo brillante per essere sopportabile, abbandonata in un inferno indistinto di scintille sanguigne e grida disumane. Mi manca il respiro e perdo la voce, mentre rubo quella di sconosciuti terrorizzati che riesco ad avvertire come ombre sfuocate intorno a me. Sto fuggendo? Esiste una via d'uscita? Non riesco a vedere altro che artigli di fiamme, sempre più vicini. So che sto tremando, che presto non avrò né forze né coraggio per lottare, eppure non riesco a costringere i miei muscoli a muoversi, a sperare. L'odore della fuliggine è coperto da quello acre e nauseabondo della carne bruciata. Non c'erano solo estranei, con me. Non ero sola. Il pensiero mi trafigge la mente all'improvviso, scuotendomi dal torpore insensato della paura. Mi volto d'istinto, attingendo a piene mani alla forza regalatami dalla scarica di adrenalina, e, per un attimo, ritrovo abbastanza fiato per lanciare un unico, straziante grido, mentre osservo il volto di un uomo, distorto dalla follia, sciogliersi nelle fiamme, come la vernice su un quadro appena dipinto.

Sto ancora urlando, mentre balzo a sedere sul letto, col cuore in gola e le mani serrate a pugno sulle lenzuola, ma non c'è fuoco intorno a me non c'è calore, né fumo.

L'oscurità è quasi completa, inquietante, ma non letale.

Devo essere preda del peggior dopo sbronza del secolo, perché la testa sembra voglia staccarsi del collo tanto pulsa selvaggiamente. Mi stendo con calma, cercando di quietare la nausea e di spegnere il martello pneumatico che mi sta perforando il cervello.

Non credevo si potesse stare tanto male e, al contempo, provare un così grande sollievo.

Era solo un incubo, ma, se questo è l'effetto regalato da qualche bicchiere di troppo, sono pronta a giurare di non bere più niente per tutta la vita.

Chiudo gli occhi, calmando il respiro, mentre il cuore cerca di riacquistare il suo ritmo abituale.

Solo allora mi rendo conto di un fastidiosissimo pigolio che si insinua nella mia attenzione, con fare insistente. Per quanto possa odiare la mia sveglia, credo che oggi potrò perdonarla visto il bel sogno dal quale mi ha salvato.

Istintivamente mi volto verso destra, pienamente intenzionata a rubare qualche minuto al mio risveglio, ma due cose fanno sì che ritrovi, repentinamente, tutta la lucidità che, fin ad adesso, mi era mancata: per prima cosa, una striscia di cuoio impedisce al mio braccio sinistro di muoversi secondo i miei desideri, in secondo luogo, laddove per mia logica avrebbe dovuto trovarsi un orologio, vedo invece uno strano macchinario ospedaliero, sul cui monitor posso osservare, a mio piacimento, la striscia azzurrina prodotta dai battiti del mio cuore.

Ho di nuovo paura. E stavolta temo proprio di non stare sognando.

Deglutendo, mi accorgo di avere la bocca secca e impastata, come se non bevessi da giorni. La gola mi brucia, ma non me la sento di lamentarmi, perché non è niente in confronto a quello che stavo provando fino a pochi istanti fa, nel mio incubo.

Mi rendo conto di quanto debba essere confusa, nel momento in cui realizzo di star paragonando sensazioni reali con altre immaginarie, anche se, forse, dovrei preoccuparmi soprattutto del fatto di riuscire a trarre sollievo da una simile assurdità.

Al braccio legato vedo inserita una flebo, mentre l'altro è coperto fino al gomito da un bendaggio accurato e candido, da cui proviene uno strano odore pungente di medicinali.

“Non si agiti, signorina De Raven.”

Una richiesta interessante da farsi a qualcuno che, svegliandosi al buio, in una stanza sconosciuta, con l'impossibilità di muoversi, senta un bisbiglio cupo levarsi da un'ombra scura apparsa improvvisamente dal nulla. Chiunque manterrebbe la calma, è ovvio.

Eppure non è la vista di quell'uomo corpulento e dalla faccia spigolosa di cui riesco a distinguere appena i contorni, mentre si china a fianco del letto, a precipitarmi nel panico più assoluto.

“De Raven” un cognome strano, che striscia nella mia memoria, come se dovesse significare qualcosa d'importante.

“Chi è De Raven?” mi sento biascicare, prima di realizzare, con un sussulto, che la domanda più importante dovrebbe essere: “Chi sono io?”.

 

 

Nuovo tentativo di racconto, uscitosene dal cappello, in un breve sprazzo di follia pre-lavorativa.

Chiunque abbia avuto la voglia e la pazienza di arrivare a leggere fino a questo punto, sappia che ogni commento, positivo, negativo o neutro sarebbe pienamente e largamente gradito ^_^

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Capitolo 2
*** Chi sono io? ***


Il panico mi serra la gola, rischiando di sopraffarmi.

Le terribili immagini dell'incubo, la preoccupazione di trovarmi in un luogo sconosciuto, l'inconscia consapevolezza, ancora non razionalizzata, che debba essermi successo un incidente di qualche tipo, tutto perde importanza davanti a questa domanda: “Chi sono io?”. Devo pur avere un nome, magari orribile o stravagante, ma che sia mio.

Mi guardo rapidamente e ossessivamente intorno, in cerca di qualcosa che possa sembrarmi familiare, ma scorgo solo forme asettiche, impersonali, a malapena visibili nella penombra che mi circonda e che, adesso, appare anche più minacciosa. Mi do della stupida. E' ovvio che non possa riconoscere niente in quella che ben si presenta come una sala appartenente a qualche tipo di struttura medica.

Forse dovrei concentrarmi di più sul motivo per cui possa essere finita in un posto del genere, ma non riesco a cancellare il terrore provocato dall'assurda mancanza di una nozione tanto banale e scontata quanto un nome.

Sono stufa di avere paura e trasalire momento dopo momento, ma il mio istinto stesso si ribella alla ragione e grida furiosamente in cerca di aiuto, con un bisogno viscerale di riconquistare la propria identità.

Sicuramente appartengo al genere femminile e questo, almeno, è un primo punto fermo; ma posso dirlo solo perché, mentre cercavo di capire cosa diavolo mi stesse succedendo, ho notato la forma morbida del seno sotto le lenzuola. Con orrore crescente devo accettare l'angosciante verità di non sapere neppure quale sia il mio aspetto. Sono alta e slanciata? Bassa e grassa? Alta e grassa? Brutta, bella? Non posso assolutamente rispondermi. L'unica cosa che so, ora come ora, è di non potermi in alcun modo definire una maggiorata.

Non devo essere troppo vecchia; le mani, affusolate, mi sono sembrate morbide e lisce, troppo per appartenere a qualcuno entrato nella mezz'età. D'altra parte, al giorno d'oggi, esistono creme miracolose per ingannare il tempo.

Scuoto la testa, crucciando lo sguardo, incerta se entusiasmarmi per quello che, palesemente, è un primo, timido ricordo. So che siamo nel 2012, che è novembre e che esistono creme di bellezza. Non è molto, ma forse sta ad indicare come, con calma, stia riprendendo il controllo della mia mente.

Dovrebbe essere sabato, ma non posso darlo per scontato, visto che potrei aver perso conoscenza per un po'.

All'improvviso, un muro invalicabile di fiamme e fumo svetta con un crepitio furioso intorno a me, ma sparisce appena serro gli occhi, cercando di non ricominciare a gridare.

Deglutisco e vengo distratta dal desiderio elementare di un bicchiere d'acqua.

Lascio perdere la conta dei giorni della settimana e mi rendo conto, almeno, di ricordare che ne esistono sette, così come dodici sono i mesi dell'anno e quattro le stagioni.

Esistono il cielo e la terra, il giorno e la notte. La terra gira intorno al sole e fa parte di un sistema composto da altri sette pianeti. I continenti sono cinque. La capitale della Francia è Parigi e la Francia si trova in Europa.

Perché, tra tutte le città del mondo, ho pensato a Parigi?

Prima di perdere del tutto il controllo, cerco disperatamente di trovare, dentro di me, un frammento che possa appartenere al mio passato, visto che il presente mi appare incomprensibile.

Non ho nome, né cittadinanza, ma almeno dovrei avere una famiglia.

Ignorando il mal di testa, che rischia di farmi svenire, mi sforzo con tutta me stessa di riportare alla mente un dettaglio, una voce, un particolare anche insignificante di questa fondamentale istituzione della società umana.

Che senso ha ricordare che la famiglia è un insieme di persone affiliate da legami legali o di consanguineità, se, laddove dovrebbero trovarsi i volti di mio padre e mia madre, scorgo solo un inquietante pozzo di vuota tenebra?

Improvvisamente mi sento stanca, svuotata. Non so più cosa fare o come farlo.

Che senso ha svegliarsi da un incubo per cadere in uno peggiore?

Sono sola. Anzi, sono peggio che sola, perché non ho più nemmeno me stessa. Ho solo brandelli di nozioni inutili, su banalità quotidiane.

“Deve rimanere calma, signorina De Raven.”

Il basso sussurro dello sconosciuto non rompe il silenzio che mi circonda, ma infrange i miei pensieri.

Trattengo un brivido involontario. Non sono affatto sola.

L'uomo si è fatto più vicino o io mi sono abituata all'oscurità, perché adesso riesco a distinguere i suoi occhi, freddi, immoti, di un verde intenso, ma sgradevole.

Indossa un camice perfettamente stirato e senza macchie, probabilmente da infermiere, ma non riesco a trovarlo rassicurante, anzi, adesso che questo sconosciuto è vicino a me, l'idea di essere sola mi sembra stranamente auspicabile.

Si muove senza produrre alcun rumore, nonostante abbia un corpo tutt'altro che sottile, e i suoi gesti appaiano decisi, forti, per nulla delicati, mentre sistema alcune fialette dal contenuto irriconoscibile su un basso tavolinetto di plastica, vicino al letto. Mi sforzo di acuire l'udito, ma non avverto provenire da lui neanche il flebile soffio di un respiro; il suo silenzio è inquietante quanto la sua voce.

Per qualche attimo concentro tutta la mia attenzione sullo sconosciuto, anche perché, per quanto possa istintivamente trovarlo minaccioso, fa meno male osservare tratti e comportamenti che hanno motivo di essermi estranei, piuttosto che rimuginare su ciò che dovrei sapere, ma insiste a rimanermi oscuro. Ovviamente, se voglio prevenire un altro attacco di panico, devo anche evitare di riflettere sull'ovvia considerazione di non poter dare per certo che non abbia mai visto prima questo tizio: l'autoconvinzione è un'arma potente ed io sembro piuttosto brava ad esercitarla.

Non saprei inquadrarlo in un'età definita, potrebbe avere tra i trenta e i cinquant'anni. E' molto alto e ha spalle ampie, con braccia abbastanza muscolose da risultare troppo fasciate, nel camice, quasi ne avesse indossato uno che non gli appartenesse. A ben guardare, questo dettaglio aggiunge un'ulteriore motivo di allarme alla mia precedente apprensione. Sarò paranoica, ma mi permetterò di riderci su quando avrò una visione più chiara della mia situazione e, soprattutto, quando potrò muovermi liberamente in una stanza che mi risulti familiare, senza un individuo grosso come un armadio, con mani da pugile e profilo da falco, che mi girelli intorno armato di siringhe e farmaci strani, indossando quello che, se non è il suo abito da lavoro, è il costume più pericoloso che possa immaginare.

Lo guardo avvicinarsi al tubicino della flebo, cercando, assurdamente, di ritirarmi nell'angolo più lontano del letto e, nello stesso tempo, di turbarlo con quella che spero essere un'espressione minacciosa.

“Cosa mi è successo? Dove sono?” la voce mi esce a fatica dalla gola irritata e suona sgradevole persino alle mie orecchie. Con una punta di vanità, mi trovo a desiderare che sia solo un problema temporaneo, come se fosse una minuzia del genere, in questo momento, a dovermi far preoccupare.

“Che posto è questo?” adesso il tono è più deciso e più confortante. Odio apparire lagnosa o debole. E odio sentirmi impotente e sperduta; in pratica odio ogni sensazione che sto provando dal mio risveglio.

“Siete in una camera privata del Rothschild, signorina. Non dovete preoccuparvi.”

Sono veramente in ospedale, dunque. E quest'uomo, con ogni probabilità, è un vero infermiere. Dovrei sentirmi rassicurata, per quanto possibile, eppure, mentre si china per iniettare un liquido rosato nel flacone, continuo a pensare di non doverglielo permettere.

“Cosa mi è successo? Cos'è quella roba che mi sta somministrando?” gli afferro il braccio, con un movimento goffo, dovuto alla maledetta cinghia che ancora mi trattiene alle sbarre del letto. Stringo con forza la stoffa che sono riuscita ad afferrare, ben sapendo che non potrei davvero trattenerlo, se volesse liberarsi di me.

Questo minimo sforzo basta ad acuire il mal di testa fin quasi a farmi svenire, ma rifiuto ostinatamente di sdraiarmi e rimanere a guardare.

Sono piuttosto fiera della mia testardaggine, ma, concretamente, la mia ribellione viene del tutto ignorata e si rivela un inutile spreco di energie, perché, se pure quell'uomo infernale non scosta la mia mano con durezza, neanche sembra intenzionato a interrompere il suo operato o a mostrare un briciolo di comprensione.

“Cosa mi sta iniettando?” ripeto con voce troppo stridula per apparire risoluta.

“Soltanto un antidolorifico. Avete bisogno di riposare, signorina De Raven” una spiegazione neutra, fornita con voce tanto piatta da apparire falsa su quel volto granitico e totalmente imperscrutabile.

Non voglio che ripeta ancora quel nome. Non voglio sentirlo uscire da quelle labbra sottili, che si incurvano impercettibilmente in un sorriso sardonico, mentre lo pronunciano.

Non voglio che sia quest'uomo a darmi un'identità e acquisire potere su di me. Ma, soprattutto, in questo momento, non voglio essere sedata e perdere di nuovo coscienza. Così, visto che le buone maniere non sembrano sortire effetto, raccolgo tutta la mia determinazione e mi allungo verso la sua mano, infilando con decisione i denti nella sua pelle pallida e disgustosamente fredda.

Considerando più che pertinenti le osservazioni di una mia graditissima recensitrice (^_^), sto cercando di ricompattare e sfoltire un po' i capitoli di questa interminabile storia. Sul ricompattarli sto procedendo senza troppi problemi, ma per quanto riguarda lo sfoltirli... beh... non prometto niente! Sper che il risultato sia soddisfacente ^_^

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Capitolo 3
*** Dormire ***


Probabilmente mi sto solo comportando da bambina e, appena riacquistato il buonsenso, mi vergognerò per le mie azioni e dovrò scusarmene, ma, per adesso, morderlo mi sembra l'unica cosa sensata da fare, o, almeno, l'unica debole difesa possibile.

Se questo pover'uomo si rivelasse veramente un semplice infermiere, come la logica indicherebbe, finirò dritta in un reparto psichiatrico e giustificarmi in base a un istinto malsano non mi salverà.

Eppure neanche le sue reazioni sono quelle che mi aspetterei da una persona normale: dovrebbe urlare, ritrarsi arrabbiato, spaventato, quantomeno meravigliato, invece non vedo un solo barlume di espressione sul suo volto, neppure un leggero crucciarsi delle sopracciglia, o una piccola smorfia.

Se avessi affondato i denti nel comodino, probabilmente avrei sortito maggiore effetto.

A questo punto, non so se essere più inquietata o frustrata. Di certo mi sento ridicola, attaccata come un pesce all'amo.

Sono anche certa di aver esercitato una discreta pressione, ma la sua mano, pur mostrando una perfetta copia della mia arcata dentale, non appare neppure arrossata, quando mi decido a lasciarlo.

Ho perso ogni inventiva e il panico rischia di sopraffarmi di nuovo. Cerco di concentrarmi su qualcosa di semplice, come il respirare, ma il cuore è un rombo sordo nelle orecchie e sembra volersi scavare una via di fuga in mezzo al mio petto.

Rimango a guardare ipnotizzata i movimenti di quell'estraneo che sa, di me, più di quanto non sappia io: è lento, metodico, irremovibile.

Mi sento in gabbia, mentre il tubicino della flebo acquista quel nauseabondo colore, simile a sangue sbiadito.

“Non voglio essere sedata” ripeto un'ultima volta, sperando di mostrarmi convincente. “Voglio vedere un dottore...”.

Cerco di combattere il senso di stordimento, mentre lucette variopinte iniziano a danzarmi nello sguardo.

“Bei denti” sussurra allora, voltandosi direttamente verso di me, per la prima volta, e mostrando un lampo di sorriso ferino che gli distorce il volto e lo rende, se possibile, anche più alieno.

Se voleva essere una battuta di spirito, non mostrava alcuna traccia di ironia; o forse sono io ad essere troppo intontita per cogliere certe sottili sfumature.

“Voglio vedere un dottore...” ripeto ostinata, scuotendo la testa con forza, nonostante le lame che sembrano trafiggerla ad ogni scossa, ma l'infermiere non mi presta più attenzione e questo, nonostante tutto, è rassicurante.

Non voglio guardarlo ancora.

La sua faccia mi è apparsa innaturalmente liscia, quasi levigata, intorno a denti bianchissimi e perfetti, degni della pubblicità di qualche dentifricio, come se stessi guardando una statua di cera. I suoi occhi, troppo vicini ai miei, sono soltanto specchi, privi di profondità o espressione, pronti ad assorbire tutto ciò su cui possano posarsi, ma senza restituire niente di loro.

Mi sento sempre più stanca, ma, in effetti, il mal di testa sta diminuendo. Dovrebbe essere una giusta riprova della serietà di questa medicina e, al contempo, dell'assurdità della mia psicosi.

Eppure ancora non riesco a tollerare l'idea che questo liquido rossastro mi si insinui nelle vene.

Finalmente l'uomo si allontana dal bordo del letto, portandosi dietro frammenti di un'oscurità che non mi ero accorta essersi fatta più profonda, nella penombra in cui continuo a galleggiare.

Lo osservo dirigersi verso la porta e mi scopro a contarne i passi, pregando che non si volti ancora verso di me.

“Presto verranno a controllarla” sentenzia soltanto, prima di chiudersi la pesante anta di vetro smerigliato alle spalle.

Non era di certo una minaccia, ma un brivido mi percorre la schiena.

Senza riflettere, cerco la rotellina che dovrebbe regolare il flusso dei medicinali. Se non mi fossi comportata da stupida e non avessi opposto tanta inutile resistenza, avrei potuto pensarci prima.

Adesso i miei movimenti sono impacciati, la punta delle dita informicolata, qualsiasi azione è uno sforzo di volontà incredibile.

La mia razionalità continua a gridarmi di non comportarmi da idiota, ma, per fortuna, il mio corpo non sembra volerle dare ascolto e riesco a impedire che parte di quella droga entri in circolo.

Probabilmente lo rimpiangerò tra breve e, comunque, chiunque verrà a visitarmi, vorrà rimettere in funzione la flebo, ma, per la prima volta dal mio orrido risveglio, mi sento vagamente tranquilla.

Non riesco più a contrastare la stanchezza e non vedo motivi per farlo.

Forse, la prossima volta che aprirò gli occhi, saprò chi sono e come diavolo abbia fatto a finire qui.

O forse no.

Non credo possa essere passato più di qualche minuto, quando un leggero scalpiccio mi richiama dallo stato di torpore in cui, volente o nolente, mi stavo perdendo.

Mi sento anche più confusa di quanto già non fossi, ma credo di aver maggior controllo sui miei nervi, visto che riesco a osservare la giovane donna, appena entrata nella mia stanza, senza urlare o impugnare il crocifisso che ho notato a capo del letto, puntandoglielo contro.

È anche vero che il suo aspetto è molto meno inquietante di quello del suo sedicente collega. Nessuno proverebbe paura davanti ad uno scricciolo di poco più di un metro e cinquanta, magro come un chiodo e con spessi occhiali da miope a nascondere quasi completamente il volto da bambina.

Probabilmente si rivelerà un errore, o la prima reazione sensata che abbia avuto, ma non mi sento minacciata da lei, così rimango ferma a osservarla avvicinarsi, con movimenti cauti, probabilmente per paura di svegliarmi.

La stanza è ancora avvolta nella penombra, ma riesco a vederne con più precisione i dettagli, quasi i miei sensi si fossero acuiti col breve riposo, o col diminuire del mal di testa.

C'è un attaccapanni a tre bracci, in un angolo, vicino alla porta, ma sopra non c'è appoggiato niente, anzi è coperto da un sottile velo di polvere, a riprova del suo perpetuato inutilizzo e dell'insoddisfacente pulizia di questo posto.

Il piccolo guardaroba, vicino alla finestra, ha un anta graffiata, quasi vi fosse stato inciso un nome o una dedica.

La mia memoria sarà pessima, ma non si può negare che abbia una vista da falco, quasi inimmaginabile.

Le tende sono di stoffa leggera, probabilmente usurata, con una piccola decorazione floreale dai toni un tempo vivaci. Non sembrano adatte all'ambiente asettico di un ospedale, ma, almeno, lasciano filtrare il fresco chiarore della luna, stranamente rassicurante nell'ombra totale che trovo fuori e dentro di me.

E' inutile illudersi: il breve riposo non ha portato nessun miglioramento ai miei ricordi, anche se adesso mi sento mediamente persuasa di essere davvero in qualche tipo di struttura medica e di non dover temere per la mia vita.

Considerata la situazione che devo affrontare, procedere per piccole speranze può essere una buona strategia e non dover più temere che un maniaco mi apra la gola è, di sicuro, una buona aspettativa.

D'altra parte, la pazienza non deve appartenere alle mie virtù, perché mi basta un attimo per stufarmi di questa magra consolazione e voler ardentemente trovare, nella mia testa vuota, almeno un frammento di me stessa, che non mi lasci in balia di qualsiasi sconosciuto mi si avvicini.

Se quell'uomo orribile non ha mentito, dovrei chiamarmi De Raven, ma è assurdo che ciò che mi appartiene debba provocarmi una tale sensazione di orrore, anche solo pensandovi.

Non posso essere tanto vigliacca da avere paura persino del mio stesso nome, per quanto strampalato o foscamente allusivo. I corvi non saranno gli animali più simpatici del mondo, ma ne esistono di peggiori. E poi, tutto sommato, De Raven ha anche un suono vagamente aristocratico e questo pensiero non è affatto sgradevole.

Certo, se fossi stata nobile, o ricca, non mi troverei da sola in una stanza squallida, con mobili dell'Ikea, impolverati e rovinati. Un “purtroppo” inespresso aleggia agli angoli della mia coscienza.

Chiudo gli occhi, perché niente possa distrarmi dal mio esame interiore, ma li riapro di scatto, quando l'unica immagine che trovo ad aspettarmi è quella di un muro insormontabile di fiamme e calore.

Grido prima di riuscire a trattenermi, tirandomi su di scatto, mentre l'infermiera mi fa eco con un piccolo urlo strozzato.

“Signorina De Raven, che succede?” la sua voce è degna del suo aspetto, vagamente infantile e mielosa, ma meno spiacevole di quanto avrei potuto supporre; almeno il mio istinto lavora su ciò che la mia ragione non riesce più ad afferrare.

“Non alzatevi, rischiate di staccarvi la flebo” si avvicina per controllarmi e sgrana gli occhi. “Chi ha interrotto il flusso di medicinale?” sbotta con indignazione.

Non ho voglia, né energie per spiegarle i fatti, o, almeno, la mia versione dei fatti, anche perché, ad un tratto, noto che in braccio tiene una cartellina rigida, da cui spuntano alcuni fogli leggermente spiegazzati, con appunti scritti in una grafia finissima e incomprensibile, sicuramente frutto della mano di un medico.

Forse non dovrei strappargliela con violenza, come mi ritrovo a fare, ma non mi interessa ascoltare le sue proteste, mentre, dopo tanta tribolazione, riesco a leggere un capitolo, seppur breve, della mia storia.

De Raven, Alexandra.

Data del ricovero: primo novembre 2012, alle ore 00.33.

Sono finita in ospedale la notte di Halloween? A che razza di festa stavo partecipando? Spero solo di non aver guidato ubriaca, provocando qualche incidente, o facendo male a qualcuno.

L'infermiera tenta di riprendersi i suoi fogli, ma dovrebbe disserrarmi le dita con una pinza, per riuscirci.

Ci sono i dati di quattro giorni e, anche se non riesco a comprendere ogni dannato termine medico utilizzato, né a capire che genere di farmaci mi abbiano somministrato, colgo parole come stress termico, stato confusionale, forte calore cutaneo senza sudorazione, ustioni gravi al braccio destro, dalle quali posso dedurre di essere finita, in qualche modo, in mezzo ad un incendio.

Almeno questo spiegherebbe la natura dei miei incubi, anche se non chiarifica in alcun modo cause o circostanze.

L'ipotesi dell'incidente potrebbe ancora essere orrendamente valida, visto che le auto hanno la brutta tendenza ad esplodere, in caso di forti urti.

“Cosa sta succedendo?” una voce secca, perentoria mi riporta al momento presente.

Un uomo di non più di quarant'anni, con il camice da medico e l'aria autoritaria, è entrato nella stanza senza che me ne accorgessi e mi sta guardando con fare d'accusa.

Non è troppo alto, ha un principio di calvizie e un leggero arrotondamento di pancia, ma, di nuovo senza alcun senso, mi trovo ad arretrare fra le lenzuola.

I miei occhi corrono alla cartella che ancora stringo al petto. Egide Lumière, primario del reparto di chirurgia e rianimazione, al Rotschild.

“Deve stare calma, ha subito un forte shock” sentenzia senza scomporsi.

Il prossimo che mi dà un consiglio tanto stupido lo insulto selvaggiamente, ma adesso sono più preoccupata per la stranissima sensazione di pericolo che mi ha colto di nuovo, da quando quest'uomo, dall'apparenza innocua e insignificante, mi si è parato davanti.

Le ipotesi sono due: o ho subito una qualche aggressione, che mi porta a diffidare di qualsiasi maschio veda, o sono diventata pazza.

Eppure il freddo che sento nelle ossa, il fremito che mi percorre la pelle e il disgusto che provo guardandolo sono sensazioni vividissime e incontrollabili, istintive come il respirare.

“Sono il suo medico. Non c'è bisogno di guardarmi con quegli occhi terrorizzati, sono qui solo per aiutarla”

Alzo il mento, con aria di sfida. Che sia il mio dottore o no, nessuno può darmi della vigliacca.

“Mi faccia vedere il suo tesserino” sbotto, sorprendendomi da sola, per l'assurdità della mia richiesta.

“Sono Egide Lumiere, ha già visto il mio nome sulla sua cartella clinica, che, tra l'altro, deve restituire all'infermiera”

“Ho tutto il diritto di consultarla.”

“Ma non deve agitarsi così.”

“Non mi sto agitando” mento spudoratamente e spero di non essere il tipo di donna che arrossisca per un nonnulla.

“Come mai non le è stato somministrato il calmante?” si rivolge all'infermiera, ignorandomi come fossi una bambina capricciosa. Alla luce dei fatti, non posso negare di comportarmi come tale, ma i fatti hanno ben poco potere su di me, in questa circostanza.

“Non voglio calmanti!”

“Ha subito un forte shock, signorina...”

“Non voglio calmarmi” sto quasi gridando ed è una tecnica sbagliata in qualsiasi discussione. Non so da dove mi venga una tale certezza, ma cerco immediatamente di ricompormi.

“Allora” sospira rassegnato. “Adesso le mostrerò il mio tesserino, poi, si stenderà e ci permetterà di fare il nostro lavoro, aiutandola” continua, sempre fissandomi con sdegno, ma privo della precedente aria di imperturbabile superiorità.

Onestamente non mi interessa controllarlo, l'ho chiesto solo per vuota ribellione o banale polemica.

Vorrei essere docile e accomodante, o, almeno, credo che dovrei esserlo, ma, nel momento stesso in cui rifletto su questi buoni propositi, armeggio col laccio di cuoio che mi stringe il braccio, liberandomi.

“Signorina De Raven, si fermi immediatamente” la sua voce ha una leggera sfumatura di panico, mista ad esasperazione, che decido di ignorare bellamente. Muovo il polso, cercando di scacciare la sensazione di intorpidimento, e guardo in cagnesco quel pover'uomo mentre confabula con l'infermiera; non mi piace che parlino di me come se non fossi presente, così tendo l'orecchio, sperando di avere un udito ottimo quanto la vista, ma purtroppo riesco a cogliere solo una parola: sicurezza.

Come immaginavo, mi stanno prendendo per pazza. Per quanto, concretamente, mi renda conto di comportarmi proprio come un'isterica, sono indignata che questo medicastro possa anche solo giudicarmi tale.

“Non ho perso la ragione” cerco, comunque, di modulare il tono in una parvenza di incoraggiamento. “E non l'aggredirò, se è questo che teme.”

Malgrado le mie buone intenzioni, la voce mi esce in un sospiro di rassegnata irritazione.

Mi chiedo come qualcuno possa spaventarsi davanti a una ragazza ferita e ancora attaccata ad una flebo.

Certo, io non so assolutamente niente di me. Per quel poco che vedo del mio corpo, non credo di poter apparire inquietante o minacciosa; mi sembra di essere piuttosto esile e delicata, anche se non credo di essere una fragile bambolina. Sento che i muscoli mi rispondono piuttosto bene, nonostante i giorni di totale immobilità, segno che, in qualche modo, ero abituata ad allenarli, ma, di sicuro, non ho un fisico da bodybuoilder e temo di non essere in grado di aggredire nessuno con la semplice forza delle braccia. D'altra parte, queste sono solo supposizioni e niente mi dice che non sia finita in ospedale dopo una rissa o perché ho pestato qualcuno.

E' tutto troppo assurdo e non so come trovare il bandolo di questa dannata, intricatissima matassa.

La testa sembra di nuovo esplodere, per il dolore, ma non ho intenzione di darlo a vedere, visto che non voglio essere nuovamente sedata.

“Nessuno crede che sia pazza, signorina” per fortuna, il dottor Lumière si insinua nelle mie elucubrazioni mentali, prima che possano sopraffarmi.

“Allora perché vuole chiamare la sicurezza?” continuo a fissarlo con sguardo truce e credo di avere proprio l'aria da bambina cocciuta e imbronciata.

“Per la sua incolumità” alza le mani in tono conciliante, ma non riesco a concedergli nessuna via di salvezza.

“La mia incolumità, certo!” sbotto con malagrazia, afferrando il tesserino che ancora mi stava porgendo. “Mi dia anche i suoi documenti.”

“Non li ho con me, in questo momento” una scusa comoda o una probabile verità. “Non ci aspettavamo si svegliasse così presto” cerca di cambiare argomento.

“Perché mi avete imbottito di droghe!” lo accuso senza esitazioni.

“Sono antidolorifici”

“Non ne voglio!” e lo dico con una fermezza che rasenta il fanatismo, per quanto tutto il mio corpo mi rimproveri per la mia stupidità.

“Le ustioni che ha riportato sono molto dolorose” di nuovo il tono di chi è costretto a trattare con un bambino o un idiota.

Non sono masochista, o spero di non esserlo, ma non posso tollerare di tornare ad essere incosciente.

“Dov'è la mia famiglia?” ad un tratto questa mi sembra l'unica cosa importante. Se anche nessuno, in questo ospedale, vuole ascoltarmi, avrò un padre o una madre che sapranno difendermi e spiegarmi cosa mi sia successo.

Mi accorgo di sudare, mentre guardo il medico, in attesa di una risposta, che bramo e temo in egual misura.

“Non siamo riusciti a rintracciare nessuno, purtroppo. Non aveva rubriche o contatti, nella borsa, e la sim del suo cellulare è danneggiata” cerca di mostrarsi dispiaciuto, ma è troppo stufo di me per riuscirci.

D'altra parte io non sono affatto stufa di me, anzi, devo ancora cominciare a conoscermi, quindi riesco benissimo a deprimermi e compiangermi per quest'ultima brutta notizia. Me lo aspettavo, certo, ma una stupida, minuscola parte del mio cuore non voleva crederci e anche adesso si rifiuta di staccarsi dall'estremo brandello di speranza a cui si era aggrappata.

“E la polizia?” insisto, dopo un solo attimo di incertezza, per impedirmi di cadere nel panico del nulla che sembra intenzionato a inghiottirmi. “Avrete avvertito la polizia, se ho avuto un incidente. Non avranno bisogno di un'agendina per trovare qualcuno!”

“L'ispettore...”

“E' un incompetente” proclamo con irrazionalità, mentre mi auguro di non essere, generalmente, la sputa sentenze che sembro.

“Non ho detto questo, signorina” ci tiene a precisare con discreta energia. “La prego, si calmi.”

Chiudo gli occhi, costringendomi a contare fino a dieci per non saltargli alla gola, come mi ero ripromessa di fare con chiunque avesse pronunciato di nuovo questo consiglio così deficiente.

“Non ditelo mai più” sibilo, con una rabbia che spaventa persino me. “Sono anche troppo calma, date le circostanze. Sono qui da quattro giorni e mi dite che nemmeno la polizia è stata in grado di scoprire qualcosa su di me!”

“L'ispettore è venuto ogni giorno”

“A far che? Sperava di leggermi nella mente?”

“Sperava di trovarla cosciente e in grado di dargli qualche spiegazione” alza la voce, uniformandosi alla mia.

“Avrebbe fatto meglio a sperare di scoprire qualcosa con le sue forze, invece di aspettare di trovarsi

il lavoro fatto, semplicemente grazie alle mie risposte” sono ingiusta e assurda, me ne rendo conto, ma, in questo momento, ho solo voglia di prendermela con tutto il mondo, per evitare di fare i conti con me stessa.

Suppongo la rabbia sia meno deleteria della paura o della tristezza e, di certo, mi dà maggiore energia.

“Sicuramente domattina sarà di nuovo qui e potrà darle maggiori spiegazioni. Qualsiasi cosa abbia scoperto, la riferirà a lei in persona; a me non poteva dire molto, per motivi di privacy” mentre parla, lancia occhiate sempre più frenetiche alla porta e suppongo non veda l'ora di scappare da questa stanza e dalla paziente impossibile che la occupa.

Istintivamente seguo il suo sguardo e, per un attimo, mi sembra di notare una figura, appena accennata nella penombra, come una chiazza di oscurità più densa nascosta in un angolo.

A giudicare dalla stazza, sembrerebbe lo strano infermiere che ho visto al mio risveglio, ma non l'ho sentito rientrare e sono certa non ci fosse, quando è arrivato il dottore.

Inoltre l'immagine è strana, quasi priva di contorni ben definiti, vaga come una nuvola di fumo, ma sono assolutamente certa che sia reale, perché il mio corpo reagisce con un tremito al suo sguardo freddo e inumano, mentre punto l'indice verso di lui, indicandolo al dottore.

“Non voglio avere più quell'uomo vicino” dico con tutta la calma che riesco a racimolare, sperando che mi prendano sul serio, almeno in questo caso.

“Quale uomo?” sembra sinceramente stupito e non posso credere che abbia voglia di scherzare o prendersi gioco di me, così insisto, senza capire il motivo della sua perplessità.

“Quel vostro infermiere dall'aria maniaca, che era già stato qui poco fa”

Continuo a fissare la figura minacciosa e giurerei di vedere un mezzo sorriso sardonico aprirsi su quelle labbra sottili, scoprendo un bagliore candido di denti nell'ombra che lo avvolge.

“Non abbiamo infermieri maniaci” mi rimprovera, con tono severo, probabilmente preoccupato che possa infangare il buon nome del suo reparto. “Ci sono solo donne che si occupano delle pazienti di sesso femminile.”

Probabilmente tutti i farmaci che ho assunto mi provocano allucinazioni, infatti, appena sbatto le palpebre, quella figura inquietante svanisce, ma senza portarsi via del tutto la sensazione di pericolo che l'aveva accompagnata.

“Eppure c'era un uomo qui e ha messo qualcosa nella flebo” se anche me lo fossi sognata adesso, sono certa di non averlo del tutto immaginato: ho parlato con lui, l'ho morso, sento ancora il terribile sapore della sua pelle sulla lingua, non poteva essere un'illusione.

Per mia sfortuna, il dottore Lumiére sembra pensarla diversamente.

“Deve averlo sognato” si stringe nelle spalle, mentre sorride all'arrivo di due infermieri dall'aria divertita che non dovrebbero trovarsi nella mia stanza, visto che sono palesemente maschi e mi era stato appena assicurato che sarei stata assistita solo da donne.

“Qualcuno sta facendo i capricci?” l'ironia di bassa lega di uno di quei buzzurri è davvero l'ultimo episodio che sia disposta a tollerare.

“Dov'è il foglio delle mie dimissioni?” guardo il dottore negli occhi senza battere ciglio, mostrando un orgoglio che so non essere supportato da alcuna logica. “Voglio andarmene immediatamente a casa.”

Il fatto di non sapere assolutamente dove si trovi è solo una delle piccole falla nella mia dimostrazione di spavalderia, ma se pure posso sopportare di non ricordare niente, di essere spaventata a morte, di dovermi affidare a perfetti sconosciuti, di certo non posso tollerare che provino a ridere di me.

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Capitolo 4
*** Circostanze sospette ***


“Signorina De Raven!” sembra più uno stridio, che un'ammonizione. “Non posso assolutamente permettere che lasci l'ospedale.”

“Non so quanti anni io abbia, ma credo di essere quantomeno maggiorenne” ribatto, piccata e senza un minimo di buonsenso. “Quindi non sta a lei, né a nessun altro permettermi alcunché.”

“Sarebbe una terribile imprudenza; è stata priva di conoscenza fino a poche ore fa e le sue condizioni erano critiche. Anzi, il suo recupero è incredibile, date le circostanze” per un attimo, il suo sguardo si perde nel vuoto, come se inseguisse teorie più importanti del nostro banale battibecco. “Inoltre è stata precisa indicazione dell'ispettore che non lasci l'ospedale, prima di aver parlato con lui.”

Mi rendo conto di come stia cercando di mostrarsi ragionevole, sperando che segua il suo esempio, ma sono troppo stanca e spaventata per aver voglia di mantenere un qualsiasi tipo di contegno. Mi sembra già di fare abbastanza non mettendomi a urlare come una pazza.

“Non mi interessa cosa voglia l'ispettore, a meno che non sia in arresto! Non potete trattenermi contro la mia volontà.”

“Dovrebbe interessarvi, invece. L'incidente è avvenuto in circostanze sospette...”

“Quale incidente? Cos'è successo?” sono stanca di avere piccoli stralci di notizie, senza che qualcuno si decida a darmi una spiegazione più sensata per il mio stato. Quali sarebbero le circostanze sospette? Avverto il cuore accelerare i suoi battiti, non so se per angoscia o eccitazione. Potrei anche stare per ascoltare l'ennesima brutta notizia e non sono certa di riuscire a sopportarla, ma ignorare la verità non servirebbe a cancellarla e la mia amnesia non è certo una difesa.

“Ho bisogno di sapere” lo incalzo, cercando di non mostrarmi famelica quanto mi sento. “Non potete tenermi nascosti i fatti, soprattutto se mi dite che l'ispettore non permette che lasci questo posto.”

“Non conosco i dettagli, ma ci sono state varie vittime. Anzi, per quanto ne so, è l'unica superstite.”

“Di cosa? Di un disastro aereo?” a questo punto, scoprire di non essere colpevole di una strage è la mia priorità, perché non credo sopporterei un mucchio di cadaveri sulla coscienza. Posso rinunciare a sapere il mio nome, il mio indirizzo o la mia professione, posso anche accettare di non ritrovare la mia famiglia, ma devo essere certa di non avere sulle mani il sangue di qualche innocente.

Il silenzio accresce la mia ansia.

Se potessi basarmi sul mio istinto, direi di non avvertire alcun senso di colpevolezza, ma questa non è una prova su cui farei affidamento in tribunale.

“E' colpa mia?” sussurro, prima di riuscire a trattenermi, odiando il tono implorante che mi è sfuggito dalle labbra. “Sono accusata di qualcosa?” mi riprendo, mascherando la paura con la rabbia.

“Non sappiamo niente. Avevamo solo il compito di curarla e avvertire l'ispettore quando avesse ripreso conoscenza.”

“Allora avvertitelo, perché mi sembra piuttosto evidente di essere sveglia.”

“Sono le due del mattino...”

“Non mi interessa” sto gridando in maniera convulsa. “E chiamatemi anche un avvocato. Se sono in arresto è mio diritto averne uno, no?”

“Infermiera, chiami la centrale di polizia” il dottore alza le braccia al cielo, troppo stanco per continuare a discutere. “E mi porti due compresse di Depas, immediatamente.”

“Non voglio altri farmaci che mi costringano a dormire” lo minaccio, puntandogli contro l'indice, con fare ammonitore.

“Per favore...”

“No!”

E' un braccio di ferro che non posso permettermi di perdere, anche se parto in posizione di netto svantaggio, essendo palesemente in preda a una crisi di nervi.

“Ha uno sguardo di fuoco, questa tizia” avverto il tono sarcastico di quell'infermiere, a cui pare piaccia particolarmente mostrarsi simpatico.

Mentre mi volto per mandarlo al diavolo, vedo un'altra volta la sagoma del suo collega maniaco, che mi fissa dall'ombra.

Per un attimo, le parole mi muoiono in gola, ma sono troppo stanca per lasciarmi sopraffare da un banale attacco di panico.

“Quell'uomo laggiù” lo indico, in tono di protesta. “Ho già detto di non volerlo nella mia stanza.”
“Quale uomo?”

“Il vostro infermiere!”

“Li ho chiamati solo perché temevo potesse farsi male, agitandosi.”

“Non mi riferisco a questi due armadi che si è portato appresso. Parlo di quell'infermiere che se ne sta nell'angolo, in silenzio, guardandomi con l'aria da avvoltoio” mi volto per lanciargli uno sguardo di fuoco, ma, di nuovo, è sparito, furtivo e repentino come era arrivato.

“Non c'è nessuno, oltre a noi, signorina. È troppo agitata.”

“Mi avete dato troppe droghe!” preferisco credere a questo, piuttosto che a un principio di follia.

“Le abbiamo somministrato normali antidolorifici.”

“E non ne assumerò altri, potete scommetterci” soprattutto se mi devono provocare allucinazioni tanto inquietanti, aggiungo tra me.

“Dovrei essere io a decidere di quali e quanti farmaci abbia bisogno. È sotto la mia responsabilità.”

“Allora firmerò il foglio di dimissioni, la libererò da qualsiasi obbligo e andrò da un dottore vero” l'ultima affermazione mi suona meno assurda di quanto la ragione non mi suggerisca. Probabilmente sono davvero incapace di ragionare, spero a causa dello shock e delle medicine e non di qualche tara pregressa, ma, per quanto possa ripetermi che sia assurdo, non mi fido del sedicente medico con cui sto discutendo. C'è qualcosa nel suo sguardo, nel movimento delle sue mani, che non riesco a definire, ma mi fa accapponare la pelle e venire voglia di scappare, pur di impedirgli di toccarmi.

“Forse dovremmo portarla al terzo piano ovest” suggerisce uno dei due simpaticoni, dando di gomito al compare.

“Ah ah” sbotto, come se sapessi di cosa stia parlando. “Davvero spiritoso.” All'improvviso mi rendo conto di sapere, in effetti, a cosa si stia riferendo, anche se, ovviamente, non ho idea del perché: il terzo piano ovest era la vecchia ala dedicata ai malati di mente; parlo al passato perché è andata distrutta in un incendio quasi un secolo fa e, da allora, non è mai stata restaurata. Mi chiedo per quale motivo conosca questa storia insignificante, ma non mi permetto di indugiare sul ricordo delle fiamme, visto gli incubi da cui sono tormentata.

“Adesso stai buona” si avvicina l'energumeno, con ancora quel sorrisetto fastidioso stampato sul volto.

“Stai buona?” l'indignazione cancella qualsiasi altro pensiero. “Chi ti ha dato il permesso di darmi del tu, cafone?”

Mi afferrano le braccia, nonostante mi agiti con movimenti convulsi, opponendo una strenua resistenza.

“Vi denuncerò tutti” li minaccio, senza che mi prestino attenzione.

Avverto il fastidio di una puntura, mentre il dottore mi inietta quello che, per un attimo, mi sembra un liquido incandescente, come lava vermiglia, che mi risale lungo l'avambraccio, bruciandomi la carne e artigliandomi le ossa. So di aver già provato un dolore simile, prima di perdere me stessa e la mia razionalità. So che altri, intorno a me, hanno perso molto di più, per lo stesso motivo, ma prima che la mia mente possa afferrare i frammenti aguzzi di questa consapevolezza, l'oblio mi avvolge e cado nuovamente nel niente.

E' il suono ancora estraneo del mio nome a riportarmi alla luce.

“Alexandra? Alex?”

Impiego qualche secondo a rendermi conto che questa voce, stranamente argentina e sottile, si stia rivolgendo proprio a me.

Nonostante le mie proteste, credo di aver dormito come un sasso per ore, perché mi sento fastidiosamente intorpidita, la mente ovattata e la bocca arida.

Provo a disserrare le palpebre e prego un dio in cui non so se ho fede di farmi aprire gli occhi su un mondo che possa riconoscere, ma non è cambiato niente dal mio ultimo risveglio, intorno a me c'è solo quell'asettica stanza di ospedale, che penso arriverò ad odiare prima della fine di questa giornata.

Dobbiamo essere prossimi all'alba, perché dalle tende filtra una lieve luce gelida, che rischiara appena i contorni di questa specie di prigione in cui mi trovo incatenata, senza renderla meno cupa e triste.

Almeno quel sedicente dottorucolo e i suoi simpatici assistenti se ne sono andati, ma non faccio in tempo a sentirmi sollevata, perché qualcosa di anche più inquietante se ne sta tranquillamente in piedi accanto al mio letto: una bimba, di forse cinque o sei anni, con indosso una camicina da notte di ciniglia, bianca come il suo volto, mi osserva con aria compunta e sguardo curioso.

Probabilmente il sistema di sicurezza di questa clinica è pessimo, visto che non riescono ad impedire che i bambini ricoverati qui se ne vadano in giro ad ore improbe della notte, rischiando, tra l'altro, di prendersi un malanno, visto che fa dannatamente freddo in questi locali. Mi sembra quasi di vedere la condensa del mio fiato, nelle leggera penombra.

Non mi piacciono i bambini. Non è un pensiero cosciente o un primo barlume di consapevolezza, ma solo un moto istintivo alla vista di questa povera creatura, che, tra l'altro, dovrebbe suscitarmi solo tenerezza, visto che ha un'aria terribilmente patita e macilenta.

La osservo con la sua stessa aria indagatrice: ha lunghi capelli neri, un po' scompigliati, occhi grandi, di un colore indefinito tra il marrone scuro e il verde, una boccuccia pallida, a forma di cuore, e guance incavate. Non so di quale malattia soffra, ma deve essere grave.

“Verrai a trovarmi?” la voce sembra scivolare fuori dalle sue labbra, senza che queste si muovano.

Parla come se mi conoscesse e mi ha chiamato per nome, ma non riesco a immaginare in che modo abbia avuto a che fare con lei; forse è rimasta coinvolta nel mio stesso incidente? Spero non sia mia figlia, perché proprio non mi sento pronta a diventare madre, né a scoprire di essere responsabile del suo miserevole stato. Ha anche una cicatrice piuttosto profonda all'angolo della fronte, appena nascosta dai capelli, ed ha l'aria di essere recente.

“Scusami, ma non ricordo chi tu sia” devo ammettere, cercando di mostrarmi gentile, anche se qualcosa, dentro di me, vorrebbe solo gridarle di andarsene e lasciarmi in pace.

“Ti sei scordata di me?” cruccia lo sguardo e fa tremare il labbro, in quello che definirei un banale trucco per intenerirmi. Il tentativo, per quanto magistrale, non ha nessuna presa sulla mia evidentemente scarsa sensibilità, ma se dovesse mettersi davvero a piangere non saprei come comportarmi.

“Purtroppo ho avuto un incidente e mi sono scordata di tutti, piccina” provo a rassicurarla, sfruttando questa spaventosa verità che, di certo, non rassicura me.

“Non vuoi venire a trovarmi?” insiste, con tono lamentoso, ma anche insinuante, strano in una bambina.

“Chi sei? Sei una mia parente?”

“Sono venuta a trovarti. Volevo presentarti il signor Orsetto!” ridacchia, poggiando sulle lenzuola un lurido orsacchiotto di peluche, con il pelo consunto, completamente mangiato dalla polvere, e un orecchio rattoppato. Ha l'aria anche più inquietante della sua proprietaria, con quella macchia di sugo o vernice a coprire l'orbita vuota dove in origine doveva trovarsi l'occhio sinistro.

“Signor Orsetto, questa è Alex” continua, senza notare il mio sconcerto, né rispondere alla mia domanda. “Ora anche voi siete amici.”

Comincio a irritarmi.

“Chi sei tu?” ripeto con più durezza, infischiandomene del rischio di spaventarla o farle aprire i rubinetti.

Per fortuna la piccola sembra dotata di un certo spirito e non si scompone alla mia asprezza, anzi schiude la bocca in un sorrisino velenoso, che sparisce in un lampo, così come era apparso, tanto che credo di averlo immaginato, perché la sua voce è ancora mielosa quando si decide a rispondermi.

“Io mi chiamo Lolie.”

“Continua a non ricordami alcunché, mi dispiace” allungo la mano, cercando il pulsante per chiamare l'infermiera. Meglio la sua sgradita presenza a questa creatura, che, oltre tutto, dovrebbe tornarsene a letto, visto che ha anche una lunga cucitura sul collo, da cui, evidentemente, si è tolta il bendaggio.

“Cosa ti sei fatta? Sei stata male?” mi odio per la stupidità di una simile domanda, ma, a volte, coi bambini, è necessario essere banali o almeno credo.

“Sì, sì” annuisce con foga. “Dicevano che ero troppo vivace e che vedevo troppe cose.”

A meno che non sia impazzita del tutto, questo non significa stare male, anche se l'eccessiva esuberanza di un bambino può, in effetti, far star male chiunque debba prendersene cura.

“Quindi mi hanno fatto togliere i pensieri cattivi dalla testa” continua, come se dicesse la cosa più normale del mondo.

Credo sia davvero arrivato il momento che torni nella sua stanza. Un bambino è inquietante, ma un bambino potenzialmente folle è pericoloso.

Mi volto perché non riesco a trovare, a tentoni, quel maledetto pulsante che dovrebbe essere alla spalliera di ogni letto d'ospedale per le emergenze.

“Signorina De Raven” la voce di un uomo, calma e profonda, mi distrae, portandomi a voltarmi di nuovo verso la porta.

La bambina è sparita, quasi l'avessi immaginata, perché non credo di essermi distratta per più di qualche secondo.

Mi guardo intorno, spaesata, ipotizzando che possa essersi nascosta sotto al letto, ma è un pensiero anche più assurdo del fatto di averla sognata.

“Signorina, sono l'ispettore Renaud” si avvicina con passo marziale, mostrandomi il distintivo. “Sono felice di trovarla in via di guarigione.”

Sembra un uomo tutto d'un pezzo e un po' vecchio stampo. Indossa un cappotto di lana pettinata, grigio scuro, su un completo elegante, ma non costoso, dal taglio troppo classico per diventare fuori moda.

Non è molto alto, né robusto, ma trasmette un senso di solidità e calma che mi fa dubitare del primo, ingiustificato giudizio con cui l'avevo etichettato. Nonostante questo, non riesco a esimermi dallo sbottare una frase totalmente inopportuna.

“Quindi è lei l'ispettore incompetente!”

“Così le hanno detto?” appare appena un po' contrariato, ma non mostra particolare disappunto.

“L'ho dedotto dalle parole del dottor Lumiér” mi stringo nelle spalle, come se fosse una risposta scontata.

“Farò due chiacchiere con lui, quando avremo finito.”

“Io voglio sporgere denuncia” se la miglior difesa è l'attacco, io sono un drago in questa tecnica. “Mi stanno tenendo qui contro la mia volontà e mi hanno iniettato dei farmaci che non volevo assumere.”

“Che genere di farmaci? Calmanti? Suppongo che ne abbia bisogno.”

“Tutti continuano a ripeterlo, ma l'unica cosa di cui possa aver bisogno sono risposte” mi meraviglio di non aver già cominciato a urlare. “Ha trovato la mia famiglia? Perché non c'è nessuno qui con me?”

“Ho trovato la sua famiglia, signorina, ma non posso darle buone notizie” mi osserva attentamente, forse incerto della mia capacità di sopportare un altro shock. “Suo padre e sua madre sono morti, anni fa.”

Mi trovo a deglutire un groppo che non mi ero accorta di avere in gola. Avevo sempre immaginato che le risposte che avrei potuto ottenere non mi sarebbero piaciute, ma ascoltarle fa male lo stesso. Tra l'altro fa ancora più male sapere di dover sentire la mancanza di qualcuno, senza riuscire a provarla veramente, perché non ricordi assolutamente niente di lui. E' come se i miei genitori fossero morti due volte e, la seconda, li avessi uccisi io.

Mi passo la mano sugli occhi, perché non voglio rischiare che queste patetiche lacrime che mi pungo la vista mi cadano sulle guance.

“Aveva delle domande per me...” bisbiglio, senza osare ancora guardarlo in faccia. “ E anch'io ne ho altre, per lei.”

Credo abbia sospirato, ma non voglio la sua pietà, anche se una parte molto piccola di me mi rimprovera di essere solo una bugiarda.

“So che è in preda a una forma piuttosto grave di amnesia.”

“Per questo ho bisogno di risposte, non le pare?” forse è davvero incompetente, come avevo supposto. “Per prima cosa, comunque, devo sapere se mi serva un avvocato.”

“Non credo sarà necessario, al momento” tira fuori un blocco per appunti dal taschino, con una penna a sfera placcata argento come si usava vent'anni fa. “Vorrei solo conoscere la sua versione dei fatti.”

E' evidentemente un incompetente, non esistono altre spiegazioni.

“Come ha detto lei stesso, sono vittima di amnesia, quindi non ricordo neanche di quali fatti stia parlando” sibilo, con irritazione crescente.

“Il dottore ha confermato che gli esami a cui l'ha sottoposta evidenziano un forte trauma cranico e che questo, unito allo shock, potrebbe averle confuso le idee.”

“Non mi sento propriamente confusa, direi piuttosto: totalmente inconsapevole” sbotto alla fine. “Non credo possa neanche immaginare quanto.”

“No” annuisce. “Non credo. Mi è stato sconsigliato di metterla a conoscenza di quanto le è successo, perché pare potrebbe provocarle un ulteriore trauma, ma, adesso che la vedo, non credo sarebbe il suo caso.”

“Io voglio sapere tutto, dannazione! Ne ho il diritto” potrei anche mettermi a supplicare, arrivata a questo punto, o, più probabilmente, potrei aggredirlo e torturarlo, nel tentativo di farlo parlare.

“E credo abbia anche le capacità per sopportarlo” sentenzia, come stesse facendomi un complimento. “E' l'unica superstite di una mostra d'arte.”

Mi guarda, studiando la mia reazione, ma nemmeno io so che faccia fare ad una rivelazione del genere.

“Notoriamente luoghi pericolosi...” cerco di difendermi con un po' di ironia fuori luogo.

“Si teneva in una galleria a Montmartre, vicino al suo appartamento.”
Quindi possiedo quantomeno una casa e anche in un luogo carino, finalmente una buona notizia.

“Si trattava della mostra temporanea di un pittore emergente. Lei era tra gli invitati, o, forse, ne era addirittura un'organizzatrice.”

“Sono un critico d'arte?” mi suona strana, come ipotesi, ma non vedo perché non potrebbe essere possibile.

“No, lei è una maestra elementare” sogghigna, probabilmente notando lo stupore, misto a orrore, dipinto sul mio volto. “Sì, anch'io lo trovo strano, adesso che l'ho conosciuta un po',”

“Ispettore, sta travalicando il suo ruolo” ribatto piccata. Un conto è che mi senta io totalmente incompetente per una professione, un altro è che mi giudichi tale un estraneo.

“Mi scusi” dice per pura convenienza, continuando a sogghignare sotto i baffi che non ha. “C'è stata un'esplosione, tre minuti dopo la mezzanotte. Le circostanze sono ancora dubbie, sembrava una fuga di gas, ma i vigili del fuoco non hanno trovato alcun elemento per confermarlo.”

“Il mio appartamento non è esploso, vero?” mi rendo conto di essere venale, quando realizzo che la mia prima preoccupazione è diretta a un insignificante bene materiale e non alle vittime dell'incidente.

“No, non si preoccupi, nessun altro edificio è rimasto danneggiato, neanche quelli adiacenti al locale. Per fortuna l'incendio è stato domato abbastanza in fretta, anche se non abbastanza da permetterci di salvare quei poveretti. A parte lei, gli altri invitati sono tutti morti carbonizzati; dodici persone, tra cui l'artista che aveva organizzato la mostra. Era un suo amico, secondo quanto sono riuscito a scoprire, e un uomo di dubbia... moralità.”

“Dubbia moralità? Siamo forse nel 1800?”

“Si chiamava Emile Muller” ignora la mia provocazione. “E' morto stringendo tra le mani il suo pennello, quasi fosse uno scudo contro le fiamme. Il calore era talmente intenso, lì dentro, che non riusciamo a spiegarci come il fuoco possa essere rimasto così circoscritto, né, tanto meno, come lei abbia potuto salvarsi, riportando solo un'ustione al braccio, per quanto grave.”

“Forse ero vicina all'uscita e sono stata sbalzata fuori dall'urto dell'esplosione” è strano congetturare teorie su fatti che, concretamente, si dovrebbe conoscere, fa assumere a tutto un'aria di estraneità e distacco che forse, in questa situazione, non è sgradevole. Probabilmente, se ricordassi quegli eventi, impazzirei sul serio.

“No, signorina De Raven” mi guarda negli occhi, quasi volesse leggermi l'anima “Lei è stata ritrovata vicino al cadavere del suo amico, proprio al centro della stanza.”

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Capitolo 5
*** Spiegazioni ***


Evidentemente, nonostante finora mi sia ritenuta molto sfortunata, devo essere una delle persone con più buona sorte che esistano, se sono riuscita a sopravvivere in mezzo alle fiamme.

A volte succedono eventi inspiegabili, negli incidenti, ma certo è strano trovare qualcuno sano e salvo in mezzo a una dozzina di cadaveri carbonizzati. D'altra parte, sarei stata una pazza a commettere un pluriomicidio non assicurandomi la possibilità di fuggire e comincio a sentirmi abbastanza piacevolmente certa di non essere colpevole di questa strage.

“E' evidente che devo aver avuto l'estrema fortuna di trovarmi nell'ultimo punto della stanza raggiunto dal fuoco” mi sembra una spiegazione abbastanza plausibile, se non l'unica. “Dovete avermi salvata appena in tempo.”

“In realtà non siamo certi del punto di innesco. Se dovessimo basarci sull'evidenza, diremmo, piuttosto, che sia scaturito da qualcosa che si trovava al posto d'onore della stanza, proprio alle sue spalle; in ogni caso, studiando la foto di presentazione della mostra, sembra che lì fosse piazzato un cavalletto con una grossa tela, coperta da un drappo pesante, e, per quanto questa fosse perfetta per incendiarsi, non avrebbe dovuto provocare una simile tragedia. A meno che il telo non servisse a nascondere qualcosa di diverso da un quadro. In quel caso, però, non vedo proprio come lei avrebbe fatto a salvarsi. Già così il pompiere che l'ha soccorsa era decisamente perplesso, non lo nego. Ha detto testualmente” l'ispettore ha perso tempo per voltare un paio di pagine del suo dannato taccuino, cercando la citazione. “Era in piedi, immobile, in un'area piccolissima risparmiata dal fuoco, quasi avesse avuto un cerchio protettivo intorno a sé. Non sembrava mi vedesse, anzi, non sembrava vedesse niente di ciò che la circondava. Quando mi sono avvicinato è svenuta, probabilmente per il fumo.”
“Dovevo essere già sotto shock” suppongo sia abbastanza normale. Sarò stata terrorizzata, angosciata e, se in quel momento ancora mi ricordavo del mio amico, anche disperata, avendolo visto morire in modo tanto atroce, senza aver potuto far niente per aiutarlo. Adesso è facile pensare a questo Emile in modo distaccato, relegandolo al semplice ruolo di vittima generica, ma in quei ricordi che mi sono preclusi sicuramente non era solo un nome estrapolato dal contesto.

“Indossava un abito da sera rosso, bruciato in più punti” ha continuato l'ispettore, sempre rifacendosi ai suoi appunti.

“Emile indossava un vestito rosso?”

“Non Emile” per un secondo avrei giurato di avergli visto alzare gli occhi al soffitto. “Lei.”

Così ha più senso, anche se, basandomi sulla mia carnagione, avrei supposto che mi avrebbe donato maggiormente un colore scuro, magari un grigio ardesia o un blu oltremare.

“Non vedo come questo dettaglio possa interessarmi” ribatto, riacquistando il buonsenso.

“Le stavo solo elencando i pochi dettagli che siamo riusciti a raccogliere, nella speranza ricordi qualcosa.”

Mi stringo nelle spalle. Per quanto mi riguarda potevo indossare scafandro e pinne, così come un abito da sposa.

“Il suo amico amava circondarsi da donne di facili costumi, o, come direbbe lei, per non usare un linguaggio troppo retrò, prostitute.”

“Sta sottintendendo qualcosa? Avevo capito di essere una maestra elementare” ed è orribile accorgersi di non disdegnare del tutto, a confronto, la professione più antica del mondo.

“No, non si preoccupi. Ho fatto tutti gli accertamenti del caso.”

“Sono lieta abbia sprecato in modo così futile il suo tempo” non posso evitare di ribattere con un po' di acidità. Mi mordo la lingua prima di aggiungere qualcosa che potrebbe comportarmi una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale.

“Devo sapere chi ho di fronte, se voglio arrivare a scoprire la verità” non prova neanche a scusarsi. “Inoltre la trovo ben poco collaborativa.”
“Scusi tanto se non ricordo un accidenti di niente, ispettore” questo è davvero troppo perché riesca a mantenere il controllo e, con mio estremo disappunto, le prime lacrime cominciano a scendermi sulle guance, mentre mi affanno ad asciugarle. “Mi dispiace di non saperle dire se io sia o no una pazza sadica assassina, con tendenza suicide, che ha programmato un così bello spettacolo pirotecnico solo per ravvivare la sera di Halloween. Se può consolarla non mi rallegra trovarmi in questo stato.”

“Si calmi, signorina” allunga una mano a sfiorarmi la spalla, ma mi ritiro, asciugandomi il volto con il bordo del lenzuolo. “Non era mia intenzione innervosirla tanto. Ma deve capire la mia preoccupazione, il suo non è stato il primo incidente del genere.”

Adesso ha tutta la mia attenzione.

“Nel mese di ottobre ci sono stati altri due incendi, per un totale di ventiquattro vittime” annuisce grave, mentre lo guardo allucinata, cercando di tenere a posto la mascella. “Le circostanze sono praticamente identiche e, in ognuno, il fuoco è stato talmente intenso da distruggere ogni tipo di prova che potesse esserci utile. Lei è la mia unica speranza, l'unica superstite.”

Risvegliarsi nel buio e scoprire di essere l'unica sopravvissuta non solo di un massacro, bensì di tre riesce a mettermi addosso una discreta pressione e vorrei almeno credere che si tratti di fatalità, non di predeterminazione.

“Sono l'unica indiziata, intende dire?”

“Sarò sincero, signorina” sospira, ma non smette di fissarmi negli occhi. “Non credo sia responsabile di questi omicidi, nonostante alcune circostanze porterebbero a far pensare diversamente.”

Potrebbe mentirmi per farmi abbassare la guardia, magari supponendo che la mia amnesia sia solo un trucco per sviare le indagini, ma non riesco a non fidarmi di lui, nonostante tutto.

“Parla di omicidi, ma potrebbero essere stati solo incidenti.”

“E' quello che abbiamo pensato nel primo caso, anche se non riuscivamo a spiegarci cosa avesse provocato un simile incendio inferico. Poi, dopo dodici giorni, ci siamo ritrovati a pochi isolati di distanza dal luogo del primo “incidente” ad osservare una scena in tutto e per tutto identica alla precedente. Calore altissimo, fiamme circoscritte all'edifico dove si erano sviluppate, cause e mezzi sconosciuti, stesso numero di cadaveri carbonizzati. Non esistevano collegamenti tra le vittime, appartenevano a ceti sociali diversi, frequentavano luoghi diversi e avevano le età più disparate. Lo stesso vale per quanto è successo quattro sere fa. L'unica differenza è stata lei” mi guarda come aspettandosi che gli riveli l'esistenza di Babbo Natale, ma non ho risposte da fornire a me stessa, figuriamoci a lui.

“Sembrerebbero quasi rituali satanici, come descrivono alla televisione.”

“Ma nessuno dei presenti si interessava di spiritismo o è mai stato implicato in qualche setta. In realtà, la figura più controversa, tra le vittime, era proprio il suo amico. Stava raggiungendo una discreta fama, negli ultimi tempi, circostanza piuttosto insolita, dato che, fino a qualche mese fa, non era altro che un imbrattatele. I soggetti dei suoi dipinti erano diventati torbidi, inquietanti, quasi ossessivi. Egli stesso aveva iniziato a comportarsi in modo compulsivo, con scatti di rabbia e crisi selvagge, per le quali abbiamo ricevuto anche alcune segnalazioni dai vicini, disturbati dalle sue grida in tarda notte.”

“Mi chiedo perché mai frequentassi un tipo del genere!” e me lo chiedo davvero, perché non oso supporre di avere gusti tanto orridi, in fatto di uomini.

“Anche noi due c'eravamo già incontrati: era venuta a prendere il suo amico in caserma, una notte in cui era stato fermato per supposto possesso e uso di droghe.”

“Supposto?”

“Nonostante le apparenze, le analisi del sangue non hanno mostrato tracce di stupefacenti o di alcool” scuote la testa, ancora evidentemente perplesso. “Non escludo qualche errore di laboratorio, anche perché i risultati, pur dichiarandolo pulito dalle droghe convenzionali, hanno rilevato la presenza di sostanze impossibili da trovare nel sangue umano. Se non ci fosse stato un errore, dovremmo supporre che il suo amico si fosse iniettato in vena della vernice.”

“E' assurdo! Sarebbe morto ben prima di trovarsi nell'incendio.”

“Difatti, credo che Emile Muller fosse un artista allucinato e drogato, che una nostra mancanza ha rimesso in libertà.”

“E permesso di compiere tre stragi di innocenti? E' questo che pensa?”

“Potrebbe essere. Anche perché c'era un altro dettaglio che accomunava le tre scene del crimine: l'ultima era la mostra delle sue opere, ma gli unici altri due quadri che avesse mai venduto si trovavano precisamente nei luoghi in cui si sono sviluppati i precedenti incendi.”

Coincidenze un po' stiracchiate, ma anche stranamente inquietanti.

Mi chiedo in cosa consistesse il mio rapporto con un individuo del genere, visto che, per il poco che possa intuire sul mio carattere, non mi definirei uno spirito visionario e fantasioso.

“Dubito che un pittore, per quanto pazzo, possa avere l'intenzione di distruggere le proprie opere. Magari di uccidere qualcuno, ma certo non le proprie creature” mi rendo conto di star seppellendo i miei problemi personali sotto un mare denso e scuro di analisi pseudo-poliziesche, ma non potendo risolvere i primi, tanto vale mi dedichi alle seconde. “Magari, se questo Emile era davvero tanto strano come sostiene, ispettore, avrà avuto qualche nemico ancora più pazzo di lui che gli ha dato una lezione.”

“Una lezione ben dura, considerato ciò di cui stiamo parlando.”

Mi stringo nelle spalle. In realtà, da qualunque lato guardi la questione, mi pare completamente allucinante.

“Mi dispiace non esserle d'aiuto, ma davvero ascolto la sua storia per la prima volta” ammetto a malincuore, mentre continua a fissarmi con aria indagatrice e accigliata, probabilmente deluso di veder sfumare in questo modo tutte le sue speranze. D'altra parte non credo sia lui, in questa stanza, quello con maggior ragioni di deprimersi.

“C'era un altro dettaglio fuori luogo, vicino al punto dove è stata trovata” aggiunge, mentre rimette in tasca il taccuino. “Una larga macchia di sangue che abbiamo stabilito appartenere al suo amico.”

Lo guardo interrogativa.

“Non si perde sangue morendo bruciati, signorina De Raven” evito di intercalare la sua banalità con qualche commento altrettanto illuminante. “E non c'erano armi nella stanza, né segni che lascino presupporre che Emile fosse stato aggredito.”

Mi esimo anche dal rompere il silenzio che segue la sua nuova rivelazione, perché non saprei in che modo commentarla.

“Ricorda di essere un'esperta schermitrice, signorina?”

Sono talmente sorpresa che, sul momento, non colgo neanche la sua velata insinuazione. Scuoto la testa. Mi manca solo di scoprire di aver ritrovato un diamante maledetto in qualche tempio della foresta amazzonica e poi avrò sentito abbastanza assurdità per una vita intera.

“Suona anche il saxofono, per quel che ho potuto scoprire.”

Strano strumento, ma non strano hobby, quantomeno.

“Vuol forse sottintendere che sia stata io a massacrare il mio amico con la spada, dopo essermi chiusa con lui e altre undici persone in un magazzino, per poi dar fuoco a tutto innescando l'incendio col mio sax?” il sarcasmo non credo sia fuori luogo. “Magari l'ho usato a mo' di pietra focaia e poi ho fatto sparire l'arma del delitto ingoiandola.”

“Non c'è bisogno di fare della facile ironia.”

“Mi scusi, ma credevo avesse iniziato lei a farne” ribatto un po' piccata.

“Ammetto di averla inserita nell'elenco dei sospettati, in un primo momento. Sinceramente, vista l'assurdità del caso, potrei sospettare di chiunque e non si può dire che lei sia un angioletto, nonostante il suo visino” mi piacerebbe capire a cosa si riferisca, dato che non ho la minima idea di quali siano i miei lineamenti. Dovrò chiedere uno specchio, appena tornerà l'infermiera. “Qualche mese fa è stata denunciata per aggressione.”

“Per aggressione? Andavo in giro giocando ai tre moschettieri, per caso?”

“No, ma ha colpito un critico musicale con uno spartito.”
“E mi ha denunciato? Che rammollito, neanche l'avessi colpito col sax!”

“Comunque, come le avevo già detto, non è più nella mia lista nera, può rilassarsi” alza le mani in gesto di pace. “In ogni caso, finché non avremo fatto chiarezza su queste stragi, temo che dovrà rimanere in contatto con me, anche perché, come unica sopravvissuta, potrebbe essere in pericolo.”

Non avevo nemmeno considerato questa eventualità, ma, stranamente, non mi crea nessun tipo di inquietudine. Forse sono semplicemente troppo stressata per provare un'emozione così banale come la paura, o forse ne sto già provando talmente tanta che, un po' più, un po' meno, non riesco a notarne la differenza.

“Adesso la lascio riposare” inclina leggermente la testa, come a tendere l'orecchio verso un rumore che io non riesco a percepire. “Credo siano arrivati i suoi amici, dirò al dottore di farli passare.”

“Allora c'è qualcuno che mi conosce?” esalo finalmente un sospiro di sollievo, troppo felice per preoccuparmi di mantenere un'aria compassata. Cominciavo a sentirmi pericolosamente sola e non potevo tollerare la prospettiva di uscire da quest'angolo di purgatorio per trovarmi circondata solo da gatti o, peggio, da una mandria di pargoli urlanti in un'aula claustrofobica.

“Come mai fingeva di conoscere tanto poco di me, Sig. Renaud? Sicuramente avrà interrogato chiunque conoscessi.”

“Sicuramente” sorride, con aria infastidita, ma più per qualcosa di pregresso che per la mia legittima curiosità. “Purtroppo i suoi amici sono stati piuttosto schivi, riguardo alle mie domande. Inoltre, se devo dar credito alla loro versione, nemmeno lei era troppo loquace, in merito ad alcuni argomenti, come la sua famiglia.”

Non posso né confermare, né smentire la mia presunta riservatezza, ma non posso evitare di chiedermi quanto fossi amica di qualcuno a cui non mi sentissi pronta a fare confidenze. D'altra parte, se frequentavo un artistoide drogato, non so che razza di persone mi si presenteranno davanti adesso.

Probabilmente l'ispettore ha davvero un buon intuito, perché, dopo avermi osservato per qualche secondo, risponde alla mia domanda inespressa con una gentilezza che rischia di farmi piangere di nuovo.

“Non si preoccupi” mi rivolge un sorriso fugace. “Mi sono sembrati veramente suoi amici e, per quanto siano personaggi piuttosto particolari, credo le vogliano bene e vogliano proteggerla.”

Annuisco, mostrando una sicurezza che non provo minimamente, ma non ho tempo di perdermi in dubbi e stupidi tremori, perché la porta si apre di scatto, riversando nella stanza il più strano abbinamento di individui che potessi immaginare.

“Alex” una hippy di non più di trent'anni, con una gonna a fiori variopinta e ingombranti orecchini di vistosa bigiotteria, corre verso il letto, gridando il mio nome. E' piuttosto carina, nonostante il trucco pesante che adesso si sta sbafando leggermente intorno agli occhi, a causa delle lacrime. “Tesoro, ero certa ti fossi svegliata. Appena ho messo piede nell'ospedale l'ho subito detto a Philippe, anche se non ha voluto credermi.”

Ha una voce squillante e parla troppo rapidamente, tanto che temo possa causarmi un nuovo mal di testa.

“Non assalirla, Jasmine” un uomo di colore, vestito molto elegantemente e con una valigetta di pelle Louis Vuitton, che appoggia distrattamente sul comodino, distoglie la mia attenzione dalla ragazza, parandolesi al fianco. “Come ti senti, Alex? Ci hai fatto preoccupare da morire.”

Evito di rispondere con un commento salace, perché è bello sapere che esista qualcuno interessato a me.

“Ti abbiamo sentito urlare fin dal corridoio” aggiunge con un sorriso. “Devi stare piuttosto bene, se hai già ripreso le vecchie abitudini.”

Ricapitolando, per adesso ho scoperto di essere: schiamazzante, cinica e aggressiva; davvero una persona esemplare, non ci sono dubbi.

“Lasciatela in pace” il terzo volto che si china su di me appartiene a un ragazzo molto esile e delicato, con capelli corti impomatati, un brillantino al lobo sinistro e, se la vista non mi inganna, un leggero velo di fard sulle guance. “Hai un aspetto orribile, cara. Appena uscirai da qui, faremo un giro dal mio estetista.”

Probabilmente i miei occhi funzionano benissimo.

Sembrano tutti sinceramente felici di vedermi e vorrei poter ricambiare il loro entusiasmo, ma, nonostante desiderassi ardentemente trovarmi in mezzo a persone conosciute, non riesco neanche a sorridere, mentre mi rendo conto di come, ormai, non esistano altro che estranei, per me.

“Alex” la ragazza continua a starmi addosso, strillando il mio nome. “Ti ricordi di noi?”

Che razza di domanda idiota, penso per un attimo, prima di ammettere come, in realtà, sia più che legittima, perché anch'io me la sto ponendo da quando li ho visti sulla soglia.

Mi ricordo di loro? Mi ricordo un dannatissimo volto, il suono di una voce, un particolare del loro atteggiamento che mi sia familiare?

La risposta è sempre la stessa, un no deciso e assoluto che mi scava dentro con forza direttamente proporzionale alla volontà con cui cerco di cancellarlo.

L'ispettore ha garantito per la loro identità, ma posso fidarmi di lui? Posso fidarmi di qualcuno?

Non so se ridere o piangere, anche se forse sarebbero appropriate entrambe le opzioni. In ogni caso, non devo farmi prendere dal panico. In fondo ho soltanto due possibilità e, quindi, la scelta da compiere non è troppo complessa: posso vivere nell'ansia, continuando a diffidare di tutti e a guardare il mondo in cagnesco, oppure posso razionalizzare il mio momentaneo handicap e fidarmi di chi mi sta accanto, fintanto che non mi dimostri di non meritarlo. Credo che la seconda alternativa sia meno pericolosa per il mio fegato, almeno se non l'abbraccerò con troppa avventatezza. D'altra parte, appena potrò tornare a casa, cioè domani al massimo, che al dottore piaccia o meno, troverò delle fotografie, degli oggetti, magari anche qualche email o almeno una banale cartolina che possa confermarmi l'identità dei mie presunti amici.

Sì, questo mi sembra un buon piano, capace di salvare capra e cavoli, come si suol dire.

“Jasmine, il dottore ci aveva avvertiti della sua condizione” si intromette l'uomo elegante, che definisco “uomo” e non “ragazzo”, anche se non deve essere più vecchio dei suoi compari, nonostante l'aria seria e compassata. “Però non credevo fosse tanto grave.”

Mi consola sentirmi definire un caso terminale da quelli che dovrebbero confortarmi.

“Non ti ricordi neanche di me, del tuo Marcel?” la voce del terzo tizio è flautata e piacevole, per quanto un po' singolare nella bocca di un maschio.

“Hai anche il mascara?” tra tutte le osservazioni idiote che potevano sfuggirmi di bocca, questa è probabilmente la più inopportuna, soprattutto visto il tono sorpreso con cui temo di averla pronunciata. Per fortuna Marcel non sembra essersi offeso. E' pure vero che se è andato in giro truccato, di certo non può imbarazzarsi se qualcuno glielo fa notare.

“Ma certo, cara!” strilla quasi quanto Jasmine, adesso. “Sei stata tu a consigliarmi questo rimmel Vamp e devo ammettere che è fantastico.”

Il nuovo mascara di Pupa, mi sovviene immediatamente, mentre trattengo a stento un'imprecazione.

“Siamo andati a comprarlo assieme e sei stata tu a difendermi, con mio padre, quando ha dato di matto la prima volta che me lo ha visto sugli occhi. Credevo di morire quando l'hai minacciato con un vaso.”

Di tutto questo, invece, non mi sovviene assolutamente niente, dannazione.

“Sono un tipo piuttosto violento, mi pare” lo sussurro appena, perché anche se l'ispettore è uscito, potrebbe essere ancora nei paraggi e un'ammissione di colpa è l'ultima cosa che mi serva.

“Ho sentito che l'ispettore si faceva piuttosto pressante” senza rispondermi, Philippe si è preoccupato subito di faccende più concrete. “Vuoi che chiami il mio amico avvocato?”

“In realtà vorrei mi diceste perché ero in una mostra d'arte con un poco di buono.”

“Perché era tuo amico” risponde Jasmine, candida e lapidaria.

“Quindi tutti i miei amici sono dei criminali?”

“Una volta sono stata indagata dalla polizia” prosegue con aria indignata, facendo tintinnare gli ingombranti orecchini con aria di sfida. “Ma non hanno mai dimostrato niente.”

Rassicurante.

“Per cosa sei stata indagata?” non posso esimermi dal chiederlo, visto che magari potrei esserci stata coinvolta anch'io.

“Per truffa” sbuffa infastidita. “Ai danni di alcune vecchiette. Come se fosse colpa mia se le predizioni di carte che avevo fatto loro non si sono avverate.”

Non ha tutti i torti. Chiunque sia tanto sciocco da credere nella cartomanzia, non può che aspettarsi di venire truffato.

Mi chiedo cosa ci faccia una persona distinta come Philippe in un gruppo formato da una presunta maga, una maestra elementare dagli istinti violenti e un ormai defunto pittore drogato e allucinato.

Probabilmente mi sono fissata ad osservarlo, perché ha sorriso e ha sedato i miei dubbi prima che potessi aggredirlo con qualche assurdità.

“Io lavoro per la BNP, sono direttore di una filiale in Boulevard Saint Germain” sembra piuttosto fiero del suo ruolo e anche molto attento alla mia reazione nel riscoprirlo. “Seguo una clientela decisamente influente e danarosa.”

Ho annuito, mentre, dentro di me, qualcosa d'istintivo ha iniziato a soppesare quanto possa essere carino, rapportandolo ai possibili soldi che potrebbe avere sul conto corrente.

Prima di rendermi conto dell'assurdità della cosa, sono già arrivata a guardargli con attenzione i pettorali, più che altro per capire quanto sia costosa la camicia in cui sono fasciati.

Forse dovrebbero davvero portarmi nell'ala ovest e chiudermi nel reparto psichiatrico. Non appena formulo questo pensiero, un brivido di freddo mi percorre la spina dorsale, costringendomi a scuotere le spalle con foga per allontanarlo.

Se non fosse folle, giurerei di aver visto un leggero condensarsi di fiato sulle mie labbra, come se la temperatura fosse davvero calata sotto lo zero, ma porte e finestre sono ben chiuse e nessuno pare aver notato un improvviso e inspiegabile raffreddamento dell'ambiente. Solo Jasmine si guarda intorno con aria meditabonda, strofinandosi le braccia con le mani, come anch'io avrei voglia di fare per scacciare questa sensazione umida e sgradevole.

Nel mio caso devono essere cali di pressione dovuti ai farmici, mentre per la mia amica forse si tratta solo del malessere derivato dal trovarsi in un postaccio come questo.

“Va tutto bene Alex? Sei diventata improvvisamente pallidissima” mi si fa più vicina, sfiorandomi la fronte con un bacio, per poi balzare indietro di scatto, quasi avesse poggiato le labbra su un tizzone ardente.

“Che diamine combini?” l'apostrofa piuttosto duramente Philippe. “Vuoi spaventarla? Ha bisogno di riposo e di un ambiente sereno, non di te che saltelli a destra e sinistra come una pazza.”

“Che succede?” mi intrometto, infischiandomene di quelle raccomandazioni, ma curiosa di scoprire il motivo di quella reazione così strana.

“Niente” ha risposto soltanto, abbassando lo sguardo.

“Non dirmi un'altra delle tue visioni!” ha sospirato Marcel, alzando le mani al cielo.

“Io parlo veramente con i morti” si è difesa con ostinazione, continuando a eludere la mia domanda.

“E magari adesso lo spirito di Emile è qui in mezzo a noi.”

“Potrebbe anche essere.”

Ad un tratto vorrei che non facessero discorsi di questo tipo. Stanno solo giocando, ne sono consapevole, probabilmente è una loro schermaglia usuale, ma mi sento a disagio a sentir parlare di un morto come fosse ancora presente.

Non credo ai fantasmi, né alle streghe o a qualsiasi altra diavoleria inventata per spaventare i bambini, eppure, mentre osservo di nuovo l'angolo buio, in fondo alla stanza, dove prima mi sembrava di aver notato quell'infermiere maniaco, stringo i pugni sul lenzuolo e trattengo il fiato, perché sono certa che qualcosa mi stia aspettando, in quell'ombra e, per quanto sia altrettanto sicura di soffrire di allucinazioni da antidolorifici, non posso evitare di notare come la luce si fermi in modo innaturale, a circa un metro dal muro, vibrando di un pulviscolo strano e malefico e formando un confine indistinto contro la macchia di pece che tanto assurdamente mi spaventa e che pare pulsare di volontà propria, gonfiandosi e ritraendosi in una danza minacciosa e impossibile, espandendosi sotto l'armadio e strisciando dietro l'attaccapanni, come una piovra evanescente pronta a ghermirmi.

 

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Capitolo 6
*** Storie ***


Serro le palpebre, decisa a scacciare la follia che mi sta sopraffacendo; non ho cinque anni e non posso aver paura del buio, nemmeno se sono strafatta di tranquillanti.

“L'ispettore ha detto che i miei genitori sono morti” è un'affermazione, ma mi accorgo di lasciare la frase aperta, come se sperassi in un'impossibile smentita.

Gli occhi di Jasmine si colmano di lacrime, forse di pietà, forse di commozione, mentre, per fortuna, i miei rimangono fieramente asciutti, nonostante la voce mi tremi appena, quando mi decido a sussurrare:

“Non ho nessuno, quindi?”

“Oh cara” mi stringe la mano con forza, inginocchiandosi accanto al letto. “In realtà avresti dei parenti, in Italia.”

“La famiglia di tuo padre” precisa Philippe. “Ma non hai mai voluto aver a che fare con loro.”

Aggrotto le sopracciglia, frustrata di non riuscire nemmeno a ricordare il dannatissimo motivo di una rottura così drastica. Erano dai mafiosi, per caso?

“Non ne parlavi mai e evitavi qualsiasi domanda provassimo a porti” Jasmine scuote la testa, palesemente infelice, sia per l'impossibilità di aiutarmi che per la mia precedente mancanza di confidenza. “Non sono mai riuscita a farti sbottonare sull'argomento.”

Maledetta la mia riservatezza.

“Non abbiamo fatto parola di questo con l'ispettore” Marcel sembra un po' turbato all'idea di aver nascosto la verità alle forze dell'ordine. “Ma sicuramente, prima o poi, li rintracceranno lo stesso.”

A questo punto l'idea non mi dispiace, almeno potrò sapere perché non volessi frequentarli e perché non dovrei iniziare a farlo.

“Io amo i bambini?” continuo a porre domande a caso, nell'ansia di scoprire il più possibile di me.

“Tu odi i bambini!” lo sentenziano quasi in coro.

“Detesti anche il tuo lavoro” Philppe annuisce con aria grave. “Poco prima che iniziasse tutto il casino con Emile, stavi uscendo con un mio cliente.”

Lo guardo senza afferrare il nesso tra le due affermazioni.

“Era un uomo ricco, anche se abbastanza più vecchio di te.”

“Molto affascinante, comunque” prova a consolarmi Marcel, probabilmente vedendo l'espressione disgustata sul mio volto. “Un vero gentiluomo.”

“Non era un gentiluomo” lo rimprovera Jasmine. “Era solo un bastardo!”

“E io ci uscivo insieme?” al momento sono più preoccupata di sapere quali orridi gusti abbia in fatto di uomini che di capire lo strano ragionamento fatto da Philippe.

“Cara, speravi di poterti sistemare e lasciare l'insegnamento.”

Adesso mi si sono chiari entrambi i dubbi.

“Sono una specie di arrampicatrice sociale?” devo aggiungere anche opportunista alla lista delle mie qualità. O forse dovrei dire avida.

“No, vuoi solo liberarti del tuo lavoro.”

“Non sono una squillo, vero?” adesso ho davvero paura di cosa possano dirmi, ma, per fortuna, scuotono tutti la testa con convinzione.

“No, santo cielo” mi tranquillizza Philippe. “Non potresti mai fare la squillo.”

“Perché non potrei? Sono brutta?” di certo sono paranoica. “Io non so nemmeno che aspetto abbia.”

“Non sei affatto brutta, anzi, sei una delle ragazze più belle che conosca. E, a dirla tutta, non sei mai voluta venire a letto con me.”

“Volevi venire a letto con me?” è una proposta piuttosto diretta, da parte di un estraneo, e devo sforzarmi di ricordare a me stessa che Philippe è un amico, non un tizio appena incontrato in un bar.

“Certo, te l'ho proposto un sacco di volte.”

“Ma non siamo amici?” la frase mi esce di getto, anche se, dalla sua espressione, deve averla già sentita.

“Cosa c'entra la nostra amicizia? Potrebbe essere un vantaggio.”

“Non complicherebbe le cose?”

“A quanto pare inizi a ricordare” sospira rassegnato.

“Ottimo, continua a farla parlare” si entusiasma Marcel, senza sapere che, in realtà, ho risposto per pura logica, ignorando totalmente cosa mai potessi avergli detto in passato.

“Sapevo che lavoravi in banca?”

“Certo.”

“E che sei addirittura un direttore.”

“Sì”

“Quindi dovevo supporre che tu non fossi un poveraccio.”

“Anzi, sono messo piuttosto bene” sogghigna. “In più di un senso.”

Oltre ai soldi, possiede qualche bene immobile? La mia mente comincia già a calcolare gli utili prima di vedere lo sguardo di Jasmine e capire che doveva trattarsi di una battuta.

“Non ha mai preso questi doppi sensi, Philippe” lo rimprovera. “Piantala, sono squallidi e ti fanno sembrare un maniaco.”

Sono troppo stordita sia per indignarmi che per sogghignare, così cerco di riafferrare il filo del discorso, per quanto insensato fosse.

“E non sono venuta a letto con te?”

“Beh” mugugna imbronciato, “come carta della disperazione potrei provare a usare quella. In ogni caso hai sempre messo in mezzo la storia dell'amicizia.”

“Almeno non sono così priva di scrupoli come stavo iniziando a temere” sorrido, confortata, evitando di pensare a come il mio rifiuto potesse essere dovuto, in realtà, al desiderio di accalappiare un pesce più grosso.

“Sapete se qualcuno dei miei alunni sia stato a farmi visita?”

“Non credo, non mantenevi rapporti con loro, al di fuori dell'orario scolastico.”

E non dovevo essere molto amata, aggiungo, leggendo tra le righe.

“Eppure è venuta una bambina a trovarmi, una certa Lolie. Pare sia anche lei ricoverata in questo schifo di posto.”

“Non conosco i nomi dei tuoi scolari e, comunque, sarebbe una bella coincidenza ce ne fosse uno qui, proprio in questo momento.”

Messa in questo modo, non posso negare che abbiano ragione. Probabilmente me la sono sognata, col suo visetto pallido, la cicatrice e il signor Orsetto dall'aria disastrata, eppure continuo a sentire i suoi occhi su di me, vigili e indagatori, scuri come la pece e colmi di una disperazione così ingenua da apparire devastante.

“Verrai a trovarmi?”

Mi volto di scatto verso la porta, provocandomi una fitta lancinante alle tempie che, per un attimo, mi annebbia la vista. Quasi l'avessi evocata col mio ricordo, la scorgo a pochi passi da me, sulla soglia, con la camicina da notte bianca, appena sporca di sangue, e i piedi nudi sul pavimento freddo. Non si muove, quasi non respira, e mi fissa con un desiderio che mi terrorizza, perché, con l'ostinazione selvaggia tipica dei bambini, sembra volermi assorbire in esso.

“Verrai a trovarmi Alex?” quando sussurra il mio nome, un brivido mi percorre la schiena. Provo a indicarla agli altri, ma non riesco ad articolare una parola e nessun sembra farci caso.

Mi sento come se stessi annegando o come se fossi un cerbiatto impalato davanti ai fari di una macchina, ma io non sono una creaturina fragile e indifesa e non ho nessuna intenzione di sentirmi tale.

“Chi diamine sei?” scandisco ogni sillaba, strappandomela a forza dalla gola.

“Sono Jasmine, cara” mi guarda con una compassione talmente palese da farmi infuriare ulteriormente. “Non credevo avessi problemi di memoria anche a breve termine.”

“Ricordo benissimo il tuo nome” rispondo, più sgarbatamente di come meriterebbe. “E non mi stavo rivolgendo a te, ma a quella bambina infernale.”

“Quale?” si porta una mano alla gola, trasalendo, ma quando faccio per indicarle dove guardare, non vedo più niente nemmeno io.

“Ti stiamo facendo stancare troppo” Philippe interviene, probabilmente intuendo l'attacco di panico di cui sto per cadere preda. “Hai vissuto un'esperienza terribile e hai riacquistato conoscenza da poco. Non dovremmo starti tanto addosso.”

Forse ha ragione e sono solo stanca. Non soffro di allucinazioni, sono soltanto vittima delle circostanze e non del tutto in forma. Non è mia abitudine parlare con bambini immaginari che sembrano usciti da un film di Dario Argento. Ma Jasmine mi guarda terrorizzata e eccitata allo stesso tempo, come se non credesse minimamente alla spiegazione razionale di Philippe e preferisse pensare di trovarsi in mezzo a una qualche strana esperienza extrasensoriale, dalla quale non sapesse se fuggire o lasciarsi sopraffare.

“Cos'hai visto?” mi chiede alla fine, incapace di trattenersi oltre, ma io ormai sono propensa a scommettere di essere solo molto stressata e ben poco lucida, così scuoto la testa e nego qualsiasi altra possibile opzione.

“Niente, probabilmente mi ero assopita un attimo, mentre parlavate” è un'ipotesi più che ragionevole e mi tranquillizza al punto che riesco a convincermene io stessa. “Mi dispiace, sono piuttosto confusa.”

“O forse la tua vicinanza con la morte ha aperto un canale” ipotizza di rimando, utilizzando il tono mistico e funereo che probabilmente usa per incantare i suoi clienti.

“Io non sono vicina alla morte!” protesto con veemenza, tirandomi un po' più su, tra le lenzuola, pronta a dare battaglia, e rischiando di strapparmi definitivamente la flebo.

“Ma lo sei stata. Quel posto era un inferno e io sono arrivata quando i pompieri erano già all'opera. Credevamo di averti perduta. Non riuscivo a smettere di tremare, c'era tanto fumo e un odore nauseabondo di carne bruciata e vernice.”

Vengo assalita da un conato di vomito, che mi impedisce di chiederle di smetterla.

So che non ha cattive intenzioni e non pensa di farmi del male, con le sue chiacchiere, ma io vedo, attraverso i suoi occhi, il calore di quelle fiamme e sento le grida nascoste in quell'olezzo di morte.

La mia mente non ricorda, ma la memoria di quella strage è impressa indelebilmente nella mia anima e mi tormenta senza che possa razionalizzarla.

“Smettila Jas” Marcel la strattona, seppur con gentilezza, indicandogli qualcosa sul mio volto. “E' bianca come un cencio, grazie a te.”

“Scusami” è davvero mortificata, ma io non ho abbastanza forze per sorriderle e dirle di non preoccuparsi.

“E poi non è proprio il caso di mettersi a parlare di stupidaggini come fantasmi,spiriti o medium” la rimprovera Philippe. “Nemmeno Alex ha mai creduto in queste sciocchezze, quindi risparmiatele per quei poveretti che prendi in giro ogni giorno.”

“Io non prendo in giro nessuno. E' fatto noto che molti, dopo essere stati in coma, abbiano iniziato a percepire presenze incorporee.”

“Ma Alex non è uno di quei poveracci troppo impressionabili. E' solo stanca, intontita dagli antidolorifici e probabilmente avrà sentito parlare dell'ala ovest di questo ospedale, cosa che, nel suo stato momentaneo di fragilità, potrebbe averla suggestionata.”

“L'ala ovest?” Marcel evidentemente non ne aveva mai sentito parlare.

“Quella che andò distrutta in un incendio, pare causato dagli stessi internati, ribellatisi al dottore che, all'inizio del novecento, si dice li usasse come cavie per i suoi esperimenti. Una vecchia storia, nemmeno troppo originale, che sa più di leggenda metropolitana che di fatto di cronaca.”

“Eppure la polizia accusò il dottor Johnson dell'incidente, proprio il medico responsabile di aver trasformato quell'area in un reparto psichiatrico” mi meraviglio io stessa di essere intervenuta con un'informazione del genere, ma, una volta iniziato a parlare, non riesco a fermarmi. “Utilizzava i finanziamenti di un ricco borghese senza scrupoli, molto mal visto dalla buona società parigina, che lo accusava di avere troppa fortuna negli affari e di trafficare con l'occulto, forse anche di praticare riti satanici, tant'è che quando l'ospedale bruciò, i giornali si divertirono un sacco a dipingere nel modo più fosco la vicenda, perdendosi in ampie congetture sui rapporti intercorsi tra i due soggetti. Parlarono di torture, omicidi, pratiche disumane compiute in combutta dal dottore e dall'imprenditore, che pure era già morto, all'epoca della disgrazia, e di certo non furono smentiti dal suicidio di Johnson, impiccatosi in cella solo tre giorni dopo.”

“Come sai tutte queste cose?” si meraviglia Philippe, mentre Jasmine non smette di tremare come una foglia.

Vorrei potergli rispondere, ma non ne ho la minima idea. So solo che mentre ne stavo parlando, un uomo di mezz'età, con i capelli brizzolati, impomatati in un'acconciatura fuori moda, ancor più che classica, con strani baffetti ben curati e un camice bianco immacolato, è passato davanti alla porta, si è voltato a guardarmi e ha scritto qualcosa su una cartellina molto simile a quella che, poco prima, avevo strappato di mano all'infermiera, per poi rivolgermi un sorriso ferino, per niente rassicurante, che non gli ha toccato gli occhi, nascosti da un paio di lenti tonde, con la montatura di ottone, tipica di inizio secolo. Non ci sarebbe niente di troppo strano in un medico cinquantenne dai gusti un po' vintage in fatto di moda, se non fosse che sul tesserino, appuntato alla tasca, leggo un nome che pare riesumato dal mio racconto: L. C. Johnson.

Devo decisamente uscire da questo posto malefico e tagliarmi le dosi di antidolorifici, droghe o quant'altro mi stiano iniettando. La bruciatura farà un male d'inferno, ma le allucinazioni sono di gran lunga più fastidiose, o almeno credo.

“Mi avete portato dei vestiti?”

“Vestiti?” Marcel sembra cadere dalle nuvole. “Non pensavamo nemmeno di trovarti cosciente.”

“Non posso andarmene da qui nuda.”

“Non dovresti proprio andartene, cara. Ti sei appena ripresa.”

“In questo posto non rimarrò un secondo di più” sono categorica quanto assurda. “O mi procurate dei vestiti o uscirò dall'ospedale avvolgendomi nelle lenzuola.”

“Cerchiamo di non perdere il senso della realtà” Philippe pare essere il più concreto della compagnia. “Alex, sei sconvolta, spaventata...”

“Io non sono spaventata!”

“Preoccupata” si corregge immediatamente. “Volevo dire preoccupata; hai tutti i motivi del mondo per essere inquieta e capisco che ti senta soffocare, standotene chiusa qui, ma accelerare i tempi, senza il benestare di un medico, potrebbe causarti danni permanenti.”

“Correrò il rischio. Magari andrò in un altro ospedale, dove non ci siano dottori incompetenti e ispettori incompetenti.”

“Temo che l'ispettore rimarrebbe lo stesso” mormora Marcel, un po' turbato dalla veemenza della mia rabbia, prima che Jasmine lo zittisca con un sonoro sbuffo.

“Se ci dai il permesso possiamo andare a prenderti dei vestiti” si offre, dopo aver consultato gli altri con lo sguardo. “Qualsiasi decisione raggiungerai, ti faranno comodo. Basta tu mi dica dove sono le chiavi.”

“Lo farei, se lo sapessi” mi rendo conto di apparire sciocca o anche ridicola ai loro occhi. Faccio i capricci come una bambina e strillo come una pescivendola al mercato, ma davvero non potrei trascorrere qui un'altra notte, ho bisogno di riacquistare il contatto con la realtà, di uscire da queste quattro mura asettiche e minacciose, per scoprire se fuori il mondo possa ancora avere qualche senso per la mia memoria disturbata. “Ragazzi, vi sono grata per l'interessamento, i consigli e l'aiuto. Siete gentili e capireste quanto questo mi appaia strano, se pensaste di ricevere tante attenzioni da uno sconosciuto. Purtroppo è così che vi vedo, adesso, ed è difficile far collimare l'idea razionale di esservi amica, con la sensazione inconscia di non sapere chi diavolo siate e cosa vogliate da me. Quindi vi ringrazio e mi scuso in anticipo per il mio possibile comportamento bislacco, presente e futuro.”

“Non devi dirlo neanche, Alex. Stai affrontando la cosa anche troppo bene.”

“Già, io al tuo posto, starei strillando e piangendo come una donna isterica. E poi, anche se non lo ricordi, posso assicurarti che il tuo modo di comportarti non è cambiato.”

Marcel lo dice con il sorriso sulle labbra, ma non so se possa essere incoraggiante.

“Provo a frugare un po' in giro, magari hanno salvato qualcosa, nell'incendio, e l'hanno messo in uno di questi cassetti.”

Annuisco, incrociando virtualmente le dita, anche se, ormai, ho un po' paura di concedermi qualche illusione; questa stanza è talmente vuota e tetra che sembra lo stomaco di un cane randagio, non c'è da stupirsi che mi vengano gli incubi.

“Qui c'è una busta” esulta Jasmine, dopo un po', chinandosi a raccogliere qualcosa dal fondo dell'armadio. “Credo di aver fatto centro.”

Senza chiedermi il permesso, con l'abitudine di una vecchia confidenza che, però, sul momento, fatico a sopportare, inizia a frugare tra le uniche, misere cose che, lì dentro, possa considerare mie.

Trattengo una protesta, perché sarebbe ingiusta e perché sono più concentrata sull'ansia di scoprire cos'altro sia stato salvato di me dalle fiamme.

Benché sia rassegnata all'idea che non riconoscerò niente di quanto uscirà da quel sacchetto, non posso frenare la curiosità, mentre Jasmine inizia a compilare un inventario, poggiando ad uno ad uno i vari oggetti sul comodino, accanto alla borsa di Philippe.

Non c'è granché: una pochette di raso rosso bruciacchiata, un rossetto senza tappo, un paio di chiavi legate ad una catenella palesemente rotta, un borsellino per gli spiccioli, i frammenti di un cellulare, un'altra chiave, un po' rugginosa, separata dal mazzo, un fazzoletto di cotone. Ogni cosa puzza di fumo e ha l'aria sconsolata e disfatta di chi sia sopravvissuto a un campo di battaglia; ovviamente per me sono solo cianfrusaglie totalmente sconosciute, anche se quella chiave così strana, a doppia mappa e palesemente antiquata, mi provoca un brivido freddo lungo la spina dorsale; rimango a fissarla quasi ipnotizzata, mentre si forma spontanea, nella mia mente, l'immagine di un cancello a due battenti, in ferro battuto, con dodici lance sopra dall'aspetto minaccioso, in un contesto sfumato di nebbia e oscurità che non riesco a penetrare. So di esser stata al di là di quel cancello, nonostante non ricordi né come né quando, e so di aver avuto qualcuno con me, ma non capisco la sensazione di inquietudine che mi provoca anche solo pensare a quest'evento, né il nauseabondo odore di vernice che mi riempie la bocca, mentre provo ad analizzarlo.

“Adesso Marcel ti andrà a prendere qualcosa da indossare e intanto tu proverai a riposare” Philippe si china su di me, facendomi sdraiare dolcemente e interrompendo il flusso dei miei pensieri. “Noi rimarremo qui a controllare che nessuno ti disturbi.”

Non saprei dire se il suo intervento mi abbia infastidito, perché, pur avendo rovinato l'unica parvenza di ricordo che abbia avuto dal mio risveglio, mi ha anche impedito di lasciarmi andare ad un attacco di panico: c'era qualcosa di sinistro, al di là di quel cancello, nascosto nella nebbia, qualcosa di minaccioso e seducente allo stesso tempo, che sembrava attirarmi e respingermi in un insensato carosello di agitazione.

“Non fatemi somministrare più droghe” borbotto, mentre già mi sento vincere da una pesante sonnolenza. “Grazie di essere qui.”

“Non vorremmo essere da nessun'altra parte, Alex. Stai tranquilla, adesso andrà tutto bene.”

Annuisco, biascicando ancora qualche parola di ringraziamento, mista a proteste sul dottore e sui suoi medicinali, ma non credo di aver pronunciato niente di intellegibile, perché la stanchezza ha repentinamente la meglio sulla mia volontà.

Dormo tranquilla per la prima volta da quando possa ricordare, il che, comunque, restringe di parecchio il mio ambito di paragone; non faccio sogni strani, né avverto rumori inquietanti, così rimango parecchio sorpresa quando, aprendo gli occhi, mi ritrovo la faccia baffuta e untuosa di quel dottore, pettinato come Rodolfo Valentino, a pochi centimetri dal volto.

La sua presenza è tutt'altro che rassicurante e mi meraviglio che Philippe l'abbia lasciato avvicinare tanto a me, per quanto capisca che un logico e razionale direttore di banca possa non provare la mia stessa avversione verso i medici dall'aspetto emaciato e l'alito fetido.

Sono pronta ad ammettere di essere un po' prevenuta, ma nessuno potrà convincermi che non ci sia qualcosa di malato in questo allampanato individuo vestito come mio nonno, che ostenta uno sguardo euforico, quasi febbricitante, mentre mi fissa come fossi un tesoro inaspettato, o una preda succulenta.

Cerco di allontanarmi, ma ho la testa bloccata da un paio di cinghie di cuoio e le braccia sono legate di nuovo lungo i fianchi. In una parola, sono in trappola e credo avere ogni ragione al mondo per incazzarmi.

“Chi diavolo è lei?” gli urlo contro, cercando, senza risultato, di guadagnare un minimo di libertà. “Questo è sequestro di persona. Dove sono i miei amici?”

Ogni mia protesta sembra acqua che scivoli su di un vetro; l'uomo rimane imperturbabile e concentrato, troppo preso dai suoi inquietanti progetti per prestarmi attenzione.

Ricordo perfettamente il nome che avevo visto sul suo tesserino e, se anche, come ovvio, si trattasse solo di una coincidenza banale, per quanto di cattivo gusto, non mi piace proprio l'idea di trovarmi legata come un salame tra le mani dell'omonimo di un maniaco sadico e suicida.

“Applicate gli elettrodi e preparatela.”

Elettrodi? I problemi morali e emotivi svaniscono davanti a questa raccapricciante parola. Non ho neanche il tempo di capire cosa intenda che una donna piuttosto formosa, fasciata in una divisa bianca da infermiera, con le maniche a sbuffo e un assurda cuffietta poggiata su un'acconciatura in stile Marlene Dietrich, entra nel mio campo visivo con in mano due aggeggi rotondi, collegati tramite cavi elettrici ad una minacciosa apparecchiatura.

Sicuramente sono stressata e forse sono anche un tantino isterica, ma di certo non ho bisogno di una TEC e, vero come la morte, non accetterò di esservi sottoposta.

Mi chiedo chi possa averla prescritta, o autorizzata, e come mai Philippe e Jasmine non abbiano protestato in alcun modo, ma questi saranno problemi secondari, se non riuscirò a tirarmi fuori da questo guaio. Mi assale anche l'atroce dubbio che mi abbiano già praticato una barbarie del genere, nel tempo in cui sono rimasta incosciente, e che possa derivare da questo la mia perdita di memoria.

Grido a squarciagola e scuoto la testa per quanto me lo consentano le cinghie, mentre scalcio e cerco di strapparmi i lacci dai polsi; ovviamente questo non testimonierebbe a favore della mia sanità mentale, ma a mali estremi, estremi rimedi.

Il peggio è che non ottengo altro che qualche secondo in più, impiegato dall'infermiera demoniaca per appiccicarmi sulle tempie quegli affari.

“Vi denuncerò tutti! Chi è lei? Chi le ha dato il permesso di tenermi qui?” la gola mi fa male, tanto è il mio impeto nell'urlargli in faccia la mia rabbia.

“Signorina De Raven, la prego, non si agiti” per la prima volta il dottore volge la sua attenzione su di me come essere senziente e non come cavia priva di intelletto. La sua voce è sottile, fortemente impostata e di una cortesia così gelida e impersonale da farmi impallidire.

“Può pregare quanto vuole, io voglio sapere il suo nome e con quale autorità stia facendo tutto questo” è evidente che io non sia solita rispondere con civiltà a un tono civile, ma le circostanze credo possano giustificarmi. “Non le permetterò di mettere a punto il suo piano criminoso.”

Forse è una frase un po' troppo teatrale e ridondante, ma non ho tempo per i sofismi, perché un altro infermiere sta già mettendo mano a delle manopole per regolare l'intensità della corrente.

“Non è il medico che mi ha in cura.”

“C'è un solo medico, in questo reparto” risponde con aria nuovamente assente, quasi si stesse degnando di rivolgersi a uno strano animale recalcitrante, nell'attesa di renderlo carne da macello.

“In ogni caso, non ha nessuna autorità su di me. State agendo contro la legge, sono maggiorenne e pienamente in grado di disporre di me stessa, non potete prendere decisioni su terapie mediche senza il mio consenso.”

“Lei è solo uno strumento per la scienza, signorina” il suo tono è mortalmente serio e indiscutibile. “Uno strumento importante.”

Gli sputo in faccia, troppo shoccata e arrabbiata per pensare all'utilità della mia azione, ma non ho neanche la soddisfazione di vederlo trasalire o indignarsi. Si limita ad asciugarsi la guancia con il dorso della mano, mentre dà il segnale all'uomo perché accenda l'apparecchiatura.

In preda al panico continuo ad agitarmi e strattonare i legacci, mentre il medico, sempre con fare calmo e compassato, solleva un bisturi da un carrello al suo fianco e ne saggia l'affilatura con la punta delle dita.

“Adesso, infermiera, praticherò un'incisione dalla bocca dello stomaco fino all'inguine e studieremo gli effetti dell'elettroshock sul peritoneo parietale.”

“Lei è completamente pazzo” non ho più nemmeno la forza di gridare, annichilita dalla totale assurdità della situazione. “Deve fermarsi, mi ha sentito? Deve lasciarmi andare!”

Non può succedere veramente, non posso credere che esistano situazioni tanto paradossali nel ventunesimo secolo. Questo è un ospedale, dannazione, non è un manicomio degli anni trenta e di certo io non sono una cavia da laboratorio o una casalinga frustrata rinchiusa dal marito in qualche sanatorio per far spazio all'amante più giovane.

Sono una persona razionale e ho dei diritti che intendo far rispettare, devo solo capire come riuscirci e in fretta, visto che quel pazzo pare pienamente intenzionato a sventrarmi col suo coltellino e poi a friggermi come una gallina spennata.

Forse, se continuo a gridare, qualcuno mi sentirà e arriveranno gli agenti che dovevano rimanere a proteggermi; mi meraviglio, anzi, che non abbiano già sfondato la porta, dato il notevole casino che sto provocando. Avevo ragione a giudicarli degli incompetenti. A meno che non faccia tutto parte di una messa in scena. L'idea mi terrorizza, ma chi mi assicura che l'ispettore o miei presunti amici non siano solo complici di questo pazzo maniaco che si diverte a torturare degli innocenti? Magari potrebbero essere gli stessi tizi responsabili degli incendi.

Se così fosse sarei nei guai fino al collo, perché, sinceramente, dubito di esser tanto forte da liberarmi da sola.

“Una volta che avremo finito con la signorina De Raven, preparerà la stanza 212, infermiera” le allucinanti elucubrazioni del dott. Johnson si insinuano tra le mie, trascinandomi sempre più a fondo nella loro dissennatezza. “Voglio controllare lo stato della giovane Lolie e verificare come abbia reagito al trapianto di tessuto, in seguito alla lobotomia.”

Conosco quel nome, è quello della bambina con l'orsacchiotto mostruoso, quella che tutti credevano non esistesse. In effetti avevo visto una strana cicatrice sulla sua fronte, ma nessuno praticherebbe la lobotomia su una creaturina così piccola, giusto? Nessuno dotato di un minimo di umanità o buonsenso, almeno. Purtroppo il dottore pare privo di entrambi e, di certo, non è neppure al passo coi tempi, visto che non penso sia ancora utilizzato un metodo così barbaro per la cura delle malattie mentali, né su adulti, né, tanto meno, su minorenni. Dovrebbe essere addirittura illegale, più o meno quanto è illegale aprire con un bisturi la pancia di una donna ancora viva, solo per condurre un qualche tipo di esperimento pseudoscientifico.

Se non sono finita in una candid camera di pessimo gusto, sono nelle mani di un sadico assassino seriale e la perdita della memoria diventa l'ultimo dei miei problemi, anche se sarebbe utile capire come diavolo abbia fatto a ritrovarmi in una situazione del genere.

Ho troppe incertezze alle quali trovar risposta, ma ho anche una certezza, ovvero che non risolverò niente se prima non mi caverò da quest'impiccio.

Inoltre, se c'è una bambina coinvolta in quest'inferno, devo assolutamente trovare il modo di portarla al sicuro. Potrò anche essere una cinica arrampicatrice sociale, ma non sono tanto spietata da lasciare un esserino smunto e indifeso, per quanto dotato di un'aura notevolmente inquietante, in mano a un pericoloso criminale.

“Accenda pure la macchina, abbiamo già perso anche troppo tempo.”

E io ho sprecato il poco che avevo in assurde congetture, prive di utilità.

Temo non mi rimanga più di qualche secondo prima che il nobile intento di salvare un innocente vada a farsi benedire insieme alla mia possibilità di sopravvivere.

Tiro più energicamente i lacci, confidando nella famigerata teoria secondo la quale si riuscirebbe a dimostrare una forza sovrumana nei momenti panico, e grido con quanto fiato ho in gola, ma sento già la prima scarica di corrente traversarmi le tempie, costringendomi a spasmi involontari e dolorosi.

Scalcio e impreco, in preda ad una furia cieca e selvaggia, senza riuscire ad ottenere altro che peggiorare la sofferenza.

Avverto la fredda pressione del bisturi sulla pelle e freno di poco l'istinto di mettermi a piagnucolare e supplicare; se non posso far niente, quantomeno posso evitare di umiliarmi e rendermi ridicola.

“Tenetele ferme le gambe” mormora il dottore, senza smettere di fissare il mio ventre, con una concentrazione che sarebbe confortante se non fosse tanto mal utilizzata. “Rischio di essere impreciso.”

Potrei quasi ridergli in faccia, se riuscissi a trovarne il coraggio; il problema è che comincio a essere a corto di pensieri positivi e la mia ragione si fa sempre più largo tra i miei patetici tentativi di ottimismo, convincendomi lugubremente che non troverò la strada per uscire integra da questo pasticcio.

E' inutile illudersi, non ho assi nella manica e non esistono cavalieri dall'armatura luccicante pronti a salvarmi.

Un'altra scarica, più intensa della precedente, mi fa serrare gli occhi e inarcare il busto, mentre cerco disperatamente di non iperventilare e di non gridare di dolore; so che può sembrare illogico, dato che mi sono sgolata fino ad adesso, ma un conto è sbraitare per chiedere aiuto o insultarli, un altro è dar loro la soddisfazione di dimostrare quanto male mi stiano facendo.

Per fortuna la scossa dura pochi secondi, ma basta per confondermi e appannarmi lo sguardo, tant'è che non mi accorgo subito dell'arrivo di un'altra persona nella stanza, già troppo affollata, e rimango sorpresa quando la vedo ergersi ai piedi del letto.

Non indossa nessun camice, né uniforme, bensì un elegante completo scuro, tagliato su misura, e un cappotto a tre quarti di lana pregiata, che ha l'aria di costare più di un'utilitaria. E' alto e slanciato, con un volto talmente perfetto da farmi dubitare di essere inavvertitamente morta e finita in paradiso, perché non può esistere, nella realtà, un uomo con lineamenti così fini e regolari da sembrare una statua greca, misti a uno sguardo blu oltremare talmente penetrante e sensuale da farmi dimenticare dove mi trovo e desiderare solo di non presentarmi ai suoi occhi con un aspetto tanto trasandato. Ringrazio mentalmente il cielo di non riuscire a vederlo perfettamente, per via dell'oscurità che gli vela il volto, perché potrei rimanere abbagliata da tanta bellezza.

“E' il momento di svegliarsi” mormora, senza muovere le labbra; la sua voce, pur sussurrata, è calda e forte, con un tocco autoritario a cui è impossibile volersi ribellare, dato che esce da un bocca così ben modellata da fare invidia a un dio. “Svegliati Alexandra.”

Spalanco gli occhi e, con mia enorme sorpresa, mi ritrovo a fissare il volto preoccupato di Jasmine, mentre mi carezza la testa, continuando a sussurrarmi frasi rassicuranti e parole dolci, come si usa fare per tranquillizzare un cavallo imbizzarrito.

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Capitolo 7
*** In uscita ***


Non capisco cosa stia succedendo e fatico a rendermi conto di dove mi trovi o con chi. Mi porto ansiosamente le mani al volto, constatando con enorme sollievo di non essere più imprigionata da quelle diaboliche cinghie, mentre ancora sento i brividi provocati dalle scosse di corrente e la pelle, laddove il dott. Johnson aveva poggiato il bisturi, brucia a contatto con la camicia da notte.

E' evidente che si sia trattato di un incubo particolarmente realistico e vivido, provocato dallo stress unito ai racconti inquietanti su questo ospedale. Se lo riferissi a Jasmine forse si inventerebbe qualche storia mirabolante su esperienze extracorporee o anime trasmigranti, ma la verità è solo che sto impazzendo, inutile girare intorno alla questione.

E' tutto completamente assurdo e, di certo, non voglio mai più chiudere gli occhi per il resto della vita, se le mie opzioni di ambiente onirico variano dalla stanza in fiamme alla sala operatoria di un film horror.

“Alex, ti senti bene tesoro?”

Annuisco, per non perdermi in inutili dissertazioni prive di senso, perché non saprei come spiegarle che difficilmente potrei sentirmi davvero bene in una circostanza del genere, con la memoria persa chissà dove, il corpo zeppo di schifezze chimiche e un braccio coperto da ustioni abbastanza fastidiose, ma, d'altra parte, si tratta di una banale domanda di cortesia, per la quale è richiesta una risposta altrettanto standard. In ogni caso, già scoprire di non essere finita davvero nelle mani di un maniaco omicida è rincuorante, quindi non posso lamentarmi troppo.

C'è silenzio intorno a noi e una luce soffusa, tipicamente artificiale, sufficiente a rischiarare appena i contorni del letto. Non vedo più alcun riverbero attraverso le tende, ma non riesco a capire che ora possa essere.

“Hai dormito a lungo, ormai è sera inoltrata” mi spiega Jasmine, intuendo la mia confusione. “Marcel ti ha portato i vestiti e poi ha riaccompagnato a lavoro Philippe. Volevano aspettare che ti svegliassi, ma ci sembrava una crudeltà non lasciarti riposare. Ho promesso che li avrei avvertiti non appena fossi stata in grado di lasciare l'ospedale, sempre che tu sia ancora intenzionata a farlo.”

C'è una nota di speranza, con un sottinteso suggerimento, nel suo tono, ma anche se fossero le tre del mattino non avrei alcuna intenzione di trascorrere qui un secondo di più.

Adesso rimane solo da verificare se sia in grado di reggermi in piedi.

Non appena provo a spostare le gambe fuori dal letto la mia amica si appresta ad aiutarmi, ma la respingo con fermezza, perché voglio e devo farcela senza interventi esterni. Ho bisogno di capire fino a che punto possa far affidamento sulle mie forze.

Mi muovo come un vecchio artritico, ascoltando con attenzione ogni reazione del mio corpo, ogni indolenzimento dei muscoli o sensazione di vertigine, per evitare di cadere al suolo come una pera matura e sorbirmi un'altra ramanzina sulla mia incoscienza. Non è una faccenda semplice, ma mi ritrovo a stare in piedi in modo abbastanza stabile e, finalmente, posso guardare di nuovo il mondo da una posizione eretta, scoprendo tutta una nuova prospettiva che mi fa sentire leggermente meno insicura. Il primo passo verso la libertà è sempre il più dolce, ma credo sia il caso mi affretti a vestirmi, perché non è molto confortevole starsene a piedi nudi su questo pavimento gelato, con indosso solo una camicia che sembra fatta di carta e lascia filtrare tutti gli spifferi.

L'impresa è meno complessa del previsto, anche se ho assoluta necessità di aiuto per darmi una ripulita e pettinarmi i capelli, senza disfare la fasciatura e sfilare l'ago della flebo.

Durante queste operazioni mi sento come un neonato che scopra per la prima volta di possedere mani, piedi e tutto il resto dell'armamentario.

Non sono troppo alta, Jasmine mi sovrasta di almeno cinque o sei centimetri, ma sono più esile di lei, che ha un notevole davanzale e fianchi abbondanti. Ho la carnagione chiara tipica delle bionde, anche se spero di essere così pallida solo per colpa dell'incidente e, soprattutto, spero di non appartenere a quella categoria di donne talmente eburnee da diventare gamberi appena esposte al sole. Le mie gambe sono toniche e slanciate, con una lieve traccia di peluria dorata che dovrò estirpare non appena arrivata a casa; intravedo anche un accenno di addominali sulla pancia, a riprova della mia abitudine di svolgere attività fisica, e c'è una piccola cicatrice rosa, all'altezza dello stomaco, come un graffio un po' troppo profondo rimarginatosi da poco. E' esattamente dove ho sognato che venisse praticata l'incisione, ma siccome quella storia era solo un incubo e gli incubi non provocano segni visibili nel mondo materiale, probabilmente si tratta di un altro regalo lasciatomi dall'esplosione.

Freno l'istinto di alzare gli occhi sulla piccola specchiera del bagno, perché voglio completare il restauro prima di impressionarmi del tutto.

Direi che avevo buon gusto nel vestire e di certo ne ha Marcel nello scegliere gli abbinamenti: jeans neri a vita bassa, un semplice lupetto grigio perla e un cardigan coordinato di colore appena più scuro. Forse è uno stile un po' troppo compito, ma mi farà comodo avere un'aria adulta e assennata per uscire da questo buco; inoltre c'è una cintura della Guess, con una fibbia ridondante di brillantini neri e bianchi, per ravvivare il look e renderlo più giovanile.

Ammetto di sentirmi una persona migliore adesso che ho indossato i miei vestiti, anche se, per quanto mi riguarda, potrebbero venire dritti dritti dal guardaroba di Jasmine, visto che non ricordo assolutamente né dove né quando possa averli acquistati.

Comunque sono finalmente pronta per guardarmi allo specchio e sopportare un altro paio di shock, il primo perché potrei scoprire di non piacermi per niente, il secondo perché potrebbe risultarmi insopportabile vedere la mia immagine riflessa e non sapere assolutamente a chi appartenga.

In ogni caso non lo saprò finché non avrò tentato. Faccio un respiro profondo, conto fino a tre, poi fino a trenta, e mi decido a disserrare le palpebre sulla perfetta sconosciuta che mi trovo davanti.

Almeno è carina, nonostante l'espressione sbattuta e lo sguardo spaurito. Il primo motivo di turbamento è stato evitato, anzi, direi di essere abbastanza soddisfatta di quel volto dalle linee semplici e allo stesso tempo eleganti, incorniciato da una cascata di onde dorate, al momento un po' ammaccate per la prolungata permanenza a letto, e illuminato da occhi grandi, leggermente a mandorla, di un colore inconsueto tra il verde giada e il grigio scuro. Forse le ciglia sono un po' troppo chiare e sottili per i miei gusti, ma tutto sommato non posso lamentarmi.

Credo che potrei essere davvero felice, in questo momento, se riconoscessi almeno uno dei miei lineamenti, magari il naso all'insù o la bocca carnosa; mi accontenterei anche delle orecchie, anche se non hanno niente di speciale e quasi non si vedono, attraverso i capelli.

Aspetto l'attacco di depressione che sta tramando alle mie spalle dall'inizio di questa odissea, pronto ad assalirmi al primo accenno di cedimento, ma è evidente che io non possieda abbastanza sensibilità da lasciarmi sopraffare da un dettaglio tanto insignificante quanto il mancato riconoscimento di me stessa; mi chiedo se non mi sarei demoralizzata di più nel trovarmi davanti un naso adunco e occhi porcini.

“Come va?” Jasmine lo chiede con un tono così tremulo e insicuro da commuovermi. “Ti ricordi qualcosa?”

Vorrei poterla rassicurare, ma non avrebbe senso mentirle, posso solo mostrarmi ottimista e sperare che i miei sforzi di volontà siano ripagati al più presto.

“Magari mi riconoscerò meglio con un po' di trucco” provo a scherzare.

“Non ti trucchi spesso, in realtà. Soltanto quando andiamo per locali a caccia di ragazzi.”

“E lo facciamo spesso?”

“Ogni volta che possiamo, visto che ancora non abbiamo trovato la preda giusta” sta scrivendo velocemente sul cellulare e parla senza guardarmi, inarcando le sopracciglia al sopraggiungere di un pensiero improvviso. “Pochi giorni fa, prima dell'incidente, avevi accennato ad un ragazzo carino che ti aveva contattato per parlarti dei quadri di Emile e di non so cos'altro ti stessi occupando, ma avevi detto che era uno spiantato e che non dovevi averci troppo a che fare, perché non volevi rischiare di prenderti una cotta per lui.”

“Quindi mi piaceva?”

“Non saprei, pare di sì, ma dicevi anche che era un po' strano; ricordo che lo definisti più in linea con le mie idee che con le tue. Probabilmente ti riferivi alle mie opinioni sugli spiriti e il misticismo, che tu hai sempre ritenuto sciocchezze” rimette il telefono nella borsa e mi sorride. “Inoltre stavi aspettando di incontrare qualcun altro. Eri molto misteriosa su questo punto, ma credo fosse un tizio facoltoso, visto come ti brillavano gli occhi quando trovasti le sue rose davanti alla porta.”

“Sono una vera arpia!”

“No, tesoro. Non pensarlo neanche” scuote la testa con tanto impeto che temo le si possa staccare dal collo. “Non saresti mai stata con qualcuno se poi non ti fosse piaciuto davvero, nemmeno per un cospicuo conto in banca. Magari l'avresti raggirato per un po', giusto per ricavarne qualcosa, ma poi l'avresti scaricato. L'hai fatto un sacco di volte e non sei mai arrivata a fidanzarti con nessuno.”

Esilerante. Come minimo, una volta a casa, dovrò difendermi da ex ragazzi furiosi più che dai sedicenti criminali dai quali mi ha messo in guardia l'ispettore.

Intanto, però, devo pensare ad arrivarci a questa famosa casa di cui ho solo sentito parlare con accenni vaghi, così, mentre aspettiamo l'arrivo di Philippe, sbrigo le pratiche per la dimissione, litigando di nuovo col medico e assumendomi ogni responsabilità per le mie azioni scriteriate e incomprensibili. Non mi interessa se dovrò soffrire come un cane tra qualche ora, appena smaltirò l'effetto dei farmaci, o se dovrò correre a ricoverarmi in un altro ospedale prima di domattina, compromettendo la mia guarigione, tutto sarà meglio di stare qui.

“E' sicura di quello che sta facendo, signorina De Raven?” l'ispettore è stato avvertito delle mie intenzioni, ma, pur essendosi affrettato a venire a parlarmi, non pare interessato a fermarmi, intuendo la mia determinazione. “In questo caso, tenga il mio biglietto da visita e mi avverta di qualsiasi stranezza possa capitarle di notare o di qualsiasi ricordo le balzi alla mente. Tenga presente che voglio solo aiutarla e non prenda alla leggera i miei avvertimenti.”

“Lo farò” sono sincera e credo lo sia anche lui, nel suo desiderio di proteggermi. “La ringrazio.”

E' strano, ma mi fido di quest'uomo così compassato e serioso, nonostante all'inizio lo ritenessi un barbaro incompetente. Forse è per via della sua voce, sempre pacata e rassicurante, o magari dello sguardo quasi paterno con cui mi osserva, ma mi trovo a infilare con cura il suo biglietto nella tasca dei jeans per essere sicura di non perderlo.

“Andiamo adesso, Alex” Philippe mi poggia sulle spalle un piumino corto e mi infila un berretto di lana variopinta, calcandomelo bene sulle orecchie. “Vorrei portarti a casa in tempo per prepararti qualcosa per cena.”

Non ho alcuna fame, ma non sono contraria all'idea di sbrigarmi.

Lancio un'ultima occhiata alla stanza che ho tanto odiato nel breve tempo che ho dovuto trascorrervi, ma evito ostinatamente di fissare l'angolo dove la droga mi aveva fatto immaginare di vedere l'infermiere dall'aria inquietante. Qualcosa, dentro di me, vorrebbe mi girassi in quella direzione, ma freno con forza il mio istinto, perché non ho intenzione di dare in escandescenze ad un passo dalla salvezza.

“Signorina” la voce dell'ispettore mi richiama quando ho già un piede fuori dalla porta. “Se se la sentirà e non le creerà disturbo, domani pomeriggio vorrei andare con lei sul luogo dell'incidente.”

Perdo un passo e sento il cuore esplodermi nel petto. Non avevo previsto di tornare in quell'inferno, non so se potrei affrontare di nuovo il fumo, le fiamme e le grida disumane di tutte le anime bruciate in un rogo pagano di insensata follia. Vorrei rifiutare, chiudere gli occhi e correre a perdifiato il più lontano possibile da questo progetto, eppure non posso tirarmi indietro. E poi la mia è solo una paura irrazionale, perché ormai laggiù non ci sarà altro che cenere e mura annerite, niente di cui debba avere timore, se non di vedermi cadere in testa qualche calcinaccio.

“Va bene” è un sussurro, ma il mio tono è deciso. “Mi faccia sapere a che ora dovrò raggiungerla e non mancherò.”

Non mi soffermo ad aspettare una risposta, né mi perdo a vedere che reazione possa aver avuto al mio consenso, voglio solo tornare a casa e dimenticarmi di dover ricordare questa dannata tragedia.

“Ho una macchina?” lo domando solo per distrarmi, ma sono comunque curiosa di qualsiasi particolare riguardi la mia vita.

“Sì, certo” Philippe mi sta vicino, pronto a sorreggermi in caso perdessi l'equilibrio. E' un po' fastidioso sentirsi così fragili, ma non mi dispiace che si preoccupi per me. “Di solito la tieni in garage e preferisci spostarti con la metropolitana, visto che hai una fermata a cinque minuti da casa. In ogni caso, adesso ti accompagno io.”

“E rimarremo con te finché vorrai” interviene Jasmine. “Non devi preoccuparti di niente.”

In realtà devo preoccuparmi di molte cose, se non di tutte, ma evito di essere cinica e le sorrido con gratitudine.

Il corridoio che stiamo percorrendo ha l'aria moderna e funzionale, meno inquietante della stanza in cui mi sono risvegliata, anche se il rumore dissonante delle posate e delle stoviglie usate per la cena, perso nel silenzio altrimenti totale e apatico, crea una sensazione stridula di disarmonia, per nulla incoraggiante.

Dovrebbe essere orario di visita, ma incontriamo poche persone, tutte a testa bassa e chiuse in se stesse come nei loro soprabiti; solo nell'ingresso, un ambiente spazioso ed elegante, con varie piante ornamentali negli angoli e un lungo bancone lucido al centro, affollato da moduli e schede informative, troviamo una maggior vitalità, se tale definizione può essere attribuita a un insieme di persone in attesa di cure mediche.

C'è una famiglia con un bambino piccolo in lacrime, un ragazzo con un braccio legato al collo da un fazzoletto colorato, una donna in avanzato stato di gravidanza, un paio di signore di mezza età che sembrano piuttosto in salute per trovarsi in questo posto e un uomo anziano, col volto segnato da rughe profonde e radi capelli bianchi alla base del cranio, seduto su una sedia a rotelle. A differenza degli altri non indossa abiti civili, ma un pigiama azzurro con piccole righe rosse, e sembra totalmente indifferente a qualsiasi cosa gli succeda intorno. Ha l'aria triste e spersa, probabilmente è anche un po' fuori di testa, visto che lo sento bofonchiare tra sé e sé una specie di nenia incomprensibile.

Non vorrei passargli vicino, perché, al di là di un normale sentimento di pietà e dispiacere, provo anche una sorta di repulsione per quel vecchio, totalmente ingiusta e ingiustificabile quanto involontaria, come se mi attirasse e respingesse con uguale intensità. Se si voltasse verso di me non so se riuscirei a sorridergli o, piuttosto, metterei le dita a croce davanti al viso e gli intimerei di starmi lontano.

Ammiro la distaccata urbanità di Philippe e Jasmine che lo superano come se non lo vedessero neanche, mentre io rallento stupidamente il passo e non riesco a fare a meno di osservarlo di sottecchi.

Probabilmente si accorge di essere al centro della mia attenzione, perché si volge improvvisamente verso di me, proprio quando credo di essere ormai in salvo, e mi pianta negli occhi uno sguardo allucinato e febbrile da cui non so estraniarmi.

“Il dott. Johnson può aiutarmi” sussurra con voce sdentata e raschiante. “Il padrone ha detto che il dott. Johnson mi guarirà.”

Sto di nuovo sognando? O in questo ospedale c'è una sorta di linea guida per le allucinazioni?

“Il dott. Johnson la vuole, signorina De Raven” la voce si fa più gutturale e forte, mentre cerca di afferrarmi il polso e gli occhi si iniettano di sangue, quasi incavandosi innaturalmente nelle orbite.

“Il padrone verrà a cercarla!”

Faccio un balzo indietro, spaventata, sbattendo sulla schiena di Jasmine, che lancia un gridolino di sorpresa, attirando vari sguardi su di noi. L'infermiera al bancone ci lancia un'occhiata severa, per intimarci il silenzio, ma non prende minimamente in considerazione il vecchio malefico, per quanto i suoi brontolii siano diventati piuttosto sonori e fastidiosi. In realtà nessuno sembra far caso a lui, come se non esistesse o fosse un paziente abituale dell'ospedale, un po' fuori di testa, a cui tutti si sono abituati.

“Che succede, Alex?”

“Quel tizio ha cercato di afferrarmi e mi ha minacciato.”

“Chi?” si guarda intorno circospetta e preoccupata. “Quel tipo con il braccio al collo?”

“No, quel vecchio” glielo indico, anche se non è cosa educata da fare. “Quello vicino alla donna col brutto bambino in braccio.”

Se ne sta fermo a pochi passi da noi, dondolandosi sulla sedia a rotelle scrostata e sputacchiando bava rossastra sulla giacca del pigiama; è anche fuori luogo nell'ambiente relativamente elegante e immacolato della sala d'accettazione, è impossibile che non lo noti.

Eppure vedo bene come il suo sguardo lo attraversi e si perda lontano, cercando qualcosa che non riesce a trovare. Insisto per qualche secondo, ma inizio a sentirmi ridicola, col dito puntato verso quella che, con ogni probabilità, deve essere un'altra allucinazione, per quanto tenace. Se riesco a inventarmi incontri inesistenti con creature sconcertanti nel contesto ristretto e riparato di un ospedale, non oso immaginare cosa potrò combinare nella vastità di input del mondo esterno. Già mi immagino a discorrere amabilmente con un lampione, o a colpire con violenza una panchina.

“Un giorno ti farò amare i bambini” prova a cambiare argomento la mia amica, stampandosi sul volto un sorriso artificioso, per nascondere l'espressione preoccupata.

“Sono ancora strafatta” provo a giustificarmi, per evitare che mi consideri più pazza di quanto non sia. “Starò meglio con un po' di riposo.”

“Per fortuna ti accompagniamo noi” Philippe mi prende per il gomito, guidandomi verso l'uscita e premurandosi che non intenti un'altra scenata, ma non è davvero colpa mia se, proprio prima di metter piede oltre la porta a vetri, vengo richiamata indietro da una voce acuta e affrettata, che precede di poco una giovane infermiera, dalle guance rosee e la messa in piega impeccabile, intenta a correre verso di noi con un piccolo pacco di cartone stretto in mano.

“Signorina De Raven” ansima appena, mentre mi porge la scatola. “Questo è stato lasciato ieri sera in accettazione per lei.”

Un pacco bomba?

La mia mano si muove istintivamente per afferrarlo, ma, visti i miei precedenti, sono un po' restia ad accettare regali dagli sconosciuti: magari è esattamente quello che ho fatto la sera della mostra, causando la morte di una dozzina di persone.

“Chi l'ha lasciato?” chiedo, afferrandolo con cautela, nonostante preveda già l'inutilità della domanda. “C'è un biglietto?”

“Le ho dato tutto quello che avevamo” pare quasi offesa per la mia inesistente accusa di essersi intascata qualcosa, il che mi rende sospettosa laddove non lo ero stata affatto.“Sono stata io stessa a ricevere il pacchetto. Di solito non ci comportiamo come un ufficio postale o un albergo, ma quell'uomo è stato così convincente che ho deciso di fare un eccezione.”

“Le ha detto il suo nome?”

“No, non credo” pare riflettere per qualche istante, poi si stringe nelle spalle. “In ogni caso era un tipo davvero carino.”

Carino, ma enigmatico, penso tra me, mentre osservo quell'aggeggio dall'aria totalmente anonima, chiuso con del nastro adesivo trasparente e un cordoncino di cotone vermiglio.

Vorrei aprirlo subito, ma non mi va di rimanere ancora in questo postaccio, tanto più che, se contenesse il moncherino carbonizzato di una vittima o una foto di me con in mano un fiammifero, intenta a accendere una miccia, preferirei non ci fossero testimoni al mio fianco.

Non ricordo di aver ringraziato l'infermiera, ma non me ne preoccupo più di tanto appena riesco a assaporare di nuovo una boccata di fresca e inquinata aria parigina.

Visto da fuori l'ospedale ha l'aria totalmente innocua, con la sua struttura moderna perfettamente inserita nel contesto altrettanto informale e metropolitano dei condomini di Rue Santerre. Considerato che sono ormai passate le sei del pomeriggio, la strada è piuttosto affollata e mi mischio volentieri al bacino di pendolari che sciamano indifferenti e chiassosi in un flusso caoticamente ordinato di vita quotidiana. Non è certo una delle zone più eleganti o culturali della città, ma, di sicuro, non è neanche vagamente inquietante; forse avevo solo bisogno di osservare di nuovo il mondo da donna libera, per poter abbandonare stupide psicosi infantili.

Philippe è un vero cavaliere e non si allontana dal mio fianco finché non mi sistemo comodamente sul sedile posteriore della sua elegante BMW da commendatore, con sedili in pelle e cerchi in lega.

“Questa macchina è un sogno” si stiracchia Jasmine, crogiolandosi al mio fianco. “E' un peccato appartenga a te, Phil.”

“Davvero?” ci guarda attraverso lo specchietto retrovisore. “Magari tutta questa storia potrebbe essere la nostra occasione, Alex. Ora che non ti ricordi di me, non dovresti sentirti legata da vincoli di familiarità.”

Voleva essere una battuta, ma, per me, la sua ironica osservazione è in parte attraente e in parte dolorosa.

“Vedrai che presto starai bene” provano a consolarmi, notando l'incupirsi del mio sguardo. “Magari l'ispettore, per quanto incompetente, riuscirà a far luce su tutta questa brutta storia.”

E magari mi sveglierò, domattina, e riuscirò a ricordarmi il primo giorno di scuola, l'ultima gita con gli amici e la faccia del ragazzo di cui non volevo innamorarmi.

Sono sogni, o speranze, non supportati da alcun elemento concreto e pericolosi nel loro dolce incanto. Preferisco evitare di pensare a domani, così come a ieri. Posso permettermi solo di vivere nell'attimo, il che sarebbe un'ottima filosofia, se lo facessi per scelta e non per necessità.

Apro il pacchetto, sperando che non mi esploda tra le mani, mentre Jas mi osserva curiosa.

Non c'è niente di pericoloso o macabro, all'interno, solo un DVD, con la copertina senza titolo.

“Hai girato un film porno come ti avevo consigliato?” mi canzona Philippe, con una luce troppo maliziosa negli occhi per convincermi del suo sincero disinteresse in materia.

Istintivamente lo colpisco sulla nuca con l'angolo della custodia, prima di rendermi conto di quanto sia manesca la mai reazione e nascondere le mani in grembo con aria innocente.

“Forse sono canzoni.”

“A me non sembra e non lo proverai nel mio stereo” mi trattiene la mano, proprio mentre stavo per inserire il DVD nel lettore. “Come minimo lo metti di nuovo al contrario e devo ricomprare tutto.”

“Quanto sei noioso!”

“Si dice prudente.”

Gli mostro la lingua e mi concentro sulla strada. E' una sensazione stranissima, perché mi sembra di guardare un film già visto, ma non vissuto. Ricordo questi paesaggi, mi oriento abbastanza bene sulla nostra posizione, ma non ho memoria di aver mai passeggiato su questi marciapiedi o visitato uno di questi negozi, o musei, o ristoranti. Tutto ha uno strano retrogusto di già visto, nascosto dietro la patina immacolata di una tela vergine.

E' una sera piuttosto buia, al di là della luce artificiale di lampioni e insegne; il vento è freddo e promette pioggia, ma non credo sia per questo che mi sento sempre più a disagio, man mano che ci avviciniamo al XVIII arrondissement.

Avverto aria di casa, ma non riesco ad afferrare a pieno questa sensazione. Se Philippe mi facesse scendere adesso dalla macchina non avrei la più vaga idea di quale porta aprire e potrei mettermi a piangere come una perfetta idiota, non solo per la normale malinconia legata al senso di stordimento, ma soprattutto perché provo un incomprensibile paura addentrandomi in questa zona, dove i palazzi si sono fatti meno moderni e le strade più strette e tortuose. E' assurdo, perché tutto, intorno a me, è allegro e vitale, soffuso di chiacchiericcio indistinto e musica crepitante; ci sono vari bistrot sfiziosamente bohémien, con qualche folle coraggiosamente seduto ai tavolini esterni, e negozietti per turisti, stracolmi di ciarpame inutilizzabile. Le vie sono letteralmente inondate di colore e energia, ma io mi sento spenta e mesta, e vorrei essere abbastanza vigliacca da pregare i miei amici di portarmi il più lontano possibile da qui, dove niente possa conoscermi e io non debba riconoscere niente. Ovviamente serro le labbra e mi rifiuto di commettere una simile assurdità. Voglio tornare a casa mia, riappropriarmi di ciò che ho perso e ricominciare a ragionare con un po' di lucidità; probabilmente sono solo i ricordi inconsci dell'incidente a turbarmi, anche se non capisco perché lo sguardo continui a corrermi verso un punto imprecisato a nord, oltre le follie di Pigalle e la loro ode alla vita, oltre i cinema porno e la ruota sanguigna del Moulin Rouge, in una zona più cupa del distretto, che non riesco minimamente a scorgere dall'auto, ma che sento silenziosa e immobile, al di là delle mura candide dei palazzi ottocenteschi e dei cartelloni imbarazzanti di ragazze discinte, racchiusa in un sonno gelido di odio, che mi attrae e mi ripugna con inestinguibile ferocia.

Attraversiamo una piccola piazza alberata, con un carosello variopinto, ormai chiuso, e un elegante ingresso per la metropolitana, stile art nouveau. Riconosco senza sforzo la stazione di Abbasses.

“Manca molto?” mi trovo a chiedere, mio malgrado, mentre ci immettiamo lentamente in Rue des Martyrs.

“Siamo quasi arrivati. Ho allungato un po' la strada per non” si interrompe, imbarazzato, e decide di mentire. “Perché tu potessi vedere un po' meglio la zona.”

Non serve un genio per capire che ha evitato di passare davanti alla galleria carbonizzata. Non so se essergliene grata o meno, ma ha poca importanza, perché, comunque, avrò modo di tuffarmi in quei ricordi sgradevoli domani, quindi posso evitare di rovinarmi la sorpresa stasera.

“Che tipo era Emile?”

Jas cerca gli occhi di Philippe nello specchietto, prima di rispondere, quasi non sapesse quanto rivelarmi o come.

“Era più amico mio che vostro, in origine” sembra quasi un rimprovero. “Tu lo consideravi troppo strano e Phil troppo spiantato.”

“Non l'ho mai giudicato per quello. Semplicemente non mi piaceva lo sguardo che aveva.”

“In che senso?”

“Puoi immaginare, aveva lo sguardo allucinato e non sapevi mai quando fosse lucido. Ultimamente, poi, era diventato proprio ossessivo.”

“Io direi ossessionato” lo corregge Jasmine. “Si era fissato su un soggetto e lo riportava, con qualche piccola modifica, su tutti i suoi quadri. È stato allora che hai iniziato a frequentarlo assiduamente. Non siete mai stati insieme, almeno per quanto mi dicevi, ma, nelle ultime settimane, passavi più tempo con lui che con chiunque altro, lo accompagnavi a dipingere e ti interessavi al mercato delle sue opere.”

“Forse volevo farlo diventare ricco e famoso.”

“Forse, ma, per una volta, non mi sembravi interessata ai soldi. Pareva quasi il suo lavoro ti affascinasse.”

“E' così strano?”

“No, era diventato improvvisamente bravo e i suoi dipinti, per quanto foschi e inquietanti, avevano un certo carisma. Il punto è che raffiguravano sempre la stessa casa e lo stesso uomo.”

“Quale casa e quale uomo?”

“Dovrei farteli vedere, perché tu possa capire” Philippe scuote la testa, quasi a sottintendere che non ci fosse una logica, seppur stiracchiata, nel lavoro di Emile, ma si trattasse solo del delirio di un drogato. “Avevi creato anche un sito internet per lui, appena arriviamo a casa te lo mostro. Hai aggiornato il computer?”

“Mi prendi in giro?”

“Scusami, è una domanda che ti facevo tutti i giorni, mi è uscita di bocca da sola.”

“Ed io lo facevo?”

“No, mai.”

“Allora, probabilmente, la risposta è no.”

Appena svoltiamo in Rue Barsacq la voce mi muore in gola e capisco di aver raggiunto casa mia ancor prima che l'auto si fermi davanti ad uno scrostato portone rosso, inserito in una facciata di pietra grigia e mattoni, appartenente ad un palazzo di tre piani, con ampie finestre e l'aspetto un po' decadente da vecchia signora con molte perdute ambizioni e molti acciacchi.

La via è tranquilla, densa di un fascino retrò non intaccato dal modesto passaggio di macchine. C'è un ristorante greco proprio davanti al mio ingresso, ma non c'è il caotico assembramento di negozi o bistrot tipico delle zone limitrofe; un piccolo cortile, chiuso da un muro, lascia intravedere le fronde spoglie di un grosso albero di specie indefinita e, in fondo alla strada, noto la funicolare che porta fino al Sacro Cuore.

Credo che potrei amare questa zona e spero di averla amata, ma la sensazione di disagio e fastidio, che mi ha tormentato per gran parte del viaggio, non mi abbandona neanche quando inserisco la chiave nella serratura un po' rugginosa e spalanco la porta su quello che, presumibilmente, dovrebbe essere lo scenario più familiare e confortante che conosca.

Certo, l'interno del palazzo non è incoraggiante: l'ingresso è uno stanzone lungo e buio, con una fila di cassette per la posta risalenti come minimo agli anni settanta e un lampadario in ferro battuto che in origine doveva essere elegante, ma ora appare solo antiquato. Dopo essere uscita dall'atmosfera molto moderna e funzionale dell'ospedale, mi sembra quasi di essere tornata indietro nel tempo e non capisco ancora se la sensazione mi piaccia o meno; d'altra parte qui tutto è molto pulito e non si vedono in giro biciclette o passeggini abbandonati da inquilini maleducati, inoltre c'è un incredibile silenzio, nonostante, a quest'ora, gli appartamenti debbano essere tutti abitati, il che indica un livello di rispettabilità maggiore di quanto, a prima vista, mi sarei aspettata da un edificio con l'intonaco scrostato e le mattonelle consumate.

Mi guardo intorno cercando di indovinare la strada, ma quando faccio per salire sulla scalinata di marmo grigio che si trova alla mia destra, Jasmine mi trattiene e mi fa strada oltre un'angusta e tetra corte interna, fino ad un piccolo andito che sembra uscito dalla favola di Cenerentola, da cui si accede a una stretta quanto irta rampa di scale a chiocciola, in legno talmente consumato da essere concavo al centro di ogni gradino. Mi chiedo se mi stiano prendendo in giro, ma sarebbero attori troppo bravi per fingere una tale naturalezza. Probabilmente col mestiere di maestra guadagno meno di quanto sperassi, per vivere in una bicocca del genere. E' anche peggio di quanto lasciasse presupporre il primo ingresso, c'è odore di muffa e la luce tremola da lampadine praticamente abbandonate a se stesse lungo la parete. Se volessimo salire affiancati non ci riusciremmo, così, se pur con un po' di trepidazione, mi convinco a seguire Philippe fino alla fine di questa avventura e devo ammettere che, dopo aver scarpinato per un bel po' di rampe di scale, fino a superare il livello dei palazzi circostanti, la vista che mi si offre attraverso la piccola e malandata finestra del pianerottolo è talmente affascinante da farmi dimenticare anche lo spiffero gelido che filtra tra le assi un po' rigonfiate: la Torre Eiffel svetta sfavillante in mezzo a una miriade di stelle artificiali e i tetti di Parigi si allungano in un manto indistinto e asimmetrico di suggestivo orizzonte urbano. Potrei rimirare questo paesaggio per ore, ma è ancora niente in confronto a quello che vedo non appena mi decido a mettere piede nella minuscola stanza che è casa mia. Definirla un monolocale sarebbe troppo generoso, dato che posso abbracciare ogni ambiente, bagno compreso, con un'unica breve occhiata, ma la chiesa del Sacro Cuore si affaccia come un quadro al di là della semplice tenda di raso color panna, impreziosendo con il suo incanto anche il banale divano letto e l'armadio a due ante scorrevoli color ciliegio che occupano da soli tre quarti dello spazio disponibile.

Non c'è molto altro da notare, la zona cucina è attaccata alla porta e estremamente ridotta, il tavolo è un minuscolo bancone rosso, con due sgabelli alti, e una televisione al plasma da diciannove pollici se ne sta pericolante sul muro, agganciata con un braccio snodabile.

Non ci sono tappeti, ma un bel pavimento di vecchio parquet opaco e levigato dal tempo e le pareti sono praticamente spoglie, forse anche a causa della scarsità di spazio disponibile per appendere alcunché.

In generale, tutto ha un aspetto frugale e umile, ma anche caldo e raccolto e mi piace da impazzire. Riesco ad immaginarmi di vivere qui e credo proprio che presto potrò riacquistare i miei ricordi, magari dopo una buona notte di sonno su questo letto bitorzoluto, sepolta da una miriade di cuscini farfallosi.

“Delusa?” non so quanto tempo sia rimasta ferma a guardarmi intorno, ma la voce di Philippe mi fa sobbalzare. “Abbiamo trascorso talmente tante serate spaparanzati sul tuo pavimento che ormai la consideriamo anche casa nostra e sappi che non saremmo felici se facessi commenti poco gentili su questo posto.”

“E' piccolo, certo” interviene l'avvocato difensore Jasmine. “Ma dicevi che era pratico da tenere in ordine e dotato di tutto il necessario.”

Ovviamente non so se mi stiano raccontando la verità, ma non trovo difficile crederlo.

“Sono entusiasta di questa baracca” mi lascio cadere su uno sgabello, accorgendomi ad un tratto di sentirmi sfinita. “E penso mi troverò benissimo qui.”

Faccio per chiudere gli occhi, ma un piccolo portatile, abbandonato in bilico sul bordo del lavandino, attira la mia attenzione e non posso evitare di ripensare alla storia del sito internet e dei quadri di Emile.

“Voglio vedere i dipinti del nostro comune amico” sentenzio decisa, prima che il panico di trovarmi davanti qualcosa di tanto legato all'incidente mi tolga coraggio.

“Adesso?”

“No, domani, ma accendo il computer adesso.”

“La tua ironia è penosa, oltre che fuori luogo” si lamenta Philippe. “Dovresti solo startene un po' tranquilla e comunque, se non colleghi il router, dubito vedrai granché.”

“Puoi farlo per me, per favore?” lo guardo implorante, perché non ho ben idea di dove andare a mettere le mani, ma la mia espressione da supplica è inutile, dato che sta già rovistando dall'altro lato del letto, collegando alcuni fili e riesumando un cordless da sotto un angolo di coperta.

“Hai anche dei messaggi in segreteria” mi annuncia, con fare distratto. “Magari potresti ascoltare quelli, per stasera, e lasciare il resto delle scoperte a domani.”

“Oppure potrei fare entrambe le cose” sbuffo, un po' esasperata, mentre controllo le varie cartelle malamente impilate sul desktop: pagamenti, fotografie, antivirus e qualche altra sciocchezza poco interessante.

“Digita il suo nome su Google, o anche Allucinazioni, penso sia più rapido.”

“Allucinazioni?”

“Era il titolo della mostra. Emile voleva chiamarla “Incubi”, ma tu avevi insistito che fosse troppo tetro.”

“Anche se, in effetti, sarebbe stato più congeniale ai suoi quadri” Jas ha un brivido, ricordandoli. “Erano cupi e maligni, con il cielo sempre nero o rosso e quella casa da brivido sullo sfondo. A ben pensare, io non voglio neanche rivederli, mi facevano paura anche prima che fossero maledetti dalla morte del loro autore.”

Cerco di non sogghignare di fronte a quelle sciocche superstizioni, anche se parte della mia baldanza si smorza mentre digito il nome sulla tastiera e avverto la temperatura della stanza farsi meno gradevole ad ogni tasto che premo. Sicuramente è pura suggestione, o forse il calorifero si è spento, ma, dopo aver premuto Invio, non posso evitare di massaggiarmi le braccia, in cerca di sollievo.

Aspetto per qualche secondo senza che succeda niente e provo a cliccare di nuovo, ma il computer si ribella, mostrandomi una schermata nera poco promettente.

“Che diamine sarebbe successo?”

“Hai staccato la spina?”

“No, non è spento” faccio appena in tempo a dirlo, che compare di nuovo la schermata di Google. “Io non ci capisco niente, forse il sito non funziona.”

“Prova a cercare la sua pagina Facebook.”

Prima ancora che finisca di inserire il suo cognome, lo schermo si oscura di nuovo e Jasmine mi afferra le mani con sguardo terrorizzato.

“Ti prego, smettila” sussurra, guardandosi intorno e tendendo l'orecchio verso rumori per me inudibili. “Lasciamolo riposare in pace.”

Vorrei prenderla in giro o replicare con qualche sensata perla di saggezza, ma la luce si è fatta più fievole, intorno a noi, e dal minuscolo lucernario, accanto alla porta d'ingresso, filtra una foschia tenebrosa, pesante e densa, che corrompe l'atmosfera serena di questo rifugio.

Ovviamente deve trattarsi di un'ulteriore allucinazione, perché non può esserci nebbia sul pianerottolo, a meno che il mio dirimpettaio non sia un accanito fumatore e l'ombra indistinta, con gli occhi di fiamma, che mi è parso di cogliere al di la del vetro, non fosse lui che rientrava in casa con una sigaretta accesa.

“Se era un artista, non dovrebbe dispiacergli essere ricordato tramite le proprie opere” ribatto comunque, decisa a non lasciarmi intimidire da fantasmi e fole. “Probabilmente questo computer s'è beccato qualche virus e non funziona bene.”

Lo spengo brutalmente e regolo meglio la temperatura della stufa, per contrastare il gelo che mi si sta insinuando nelle ossa.

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Capitolo 8
*** Da sola ***


La casa è indubbiamente vecchia e gli spifferi, così come l'umidità, devono essere all'ordine del giorno, probabilmente anche per questo ho un piumino così spesso sul letto.

“Vuoi che ti cuciniamo qualcosa?” propone Philippe, per allentare la tensione. “O preferisci uscire, per cena?”

“Sono troppo stanca per muovermi, ma non dovete preoccuparvi, posso cavarmela da sola.”

“Scherzi? Non è prudente che ti lasciamo senza aiuto.”

“Cosa vuoi che mi succeda? Che mi crolli il soffitto sulla testa? Me ne starò chiusa qui, buona buona, a rimettere ordine nei miei pensieri.”

“Sei appena uscita dall'ospedale, anzi, peggio, sei appena uscita dal coma e non dovresti neppure aver lasciato l'ospedale” mi rimprovera. “Sarebbe da incoscienti se ti abbandonassimo adesso.”

“Se avrò qualche problema vi chiamerò, promesso. Ma ho veramente bisogno di rimanere un po' da sola.”

Non sembrano molto convinti, ma non sono i miei genitori e non possono insistere più di tanto, così mi basta sopportare le loro proteste e i consigli per altri dieci, lunghi minuti, prima di vederli capitolare.

“Chiamerai a qualsiasi ora, anche in piena notte?”

“Lo giuro.”

“E non uscirai da qui prima che torniamo a prenderti, domattina?”

“Non c'è bisogno vi precipitiate quaggiù appena svegli, non voglio crearvi troppo disturbo.”

“Alex, sei nostra amica, abbiamo rischiato di perderti, come potrebbe disturbarci prenderci un po' cura di te?” Jasmine mi abbraccia, ancora più restia di Philippe ad allontanarsi. “Tu l'hai sempre fatto, con noi.”

Onestamente non riesco ad immaginarmi nei panni della buona samaritana, ma è piacevole pensare di aver anche qualche umano sentimento, oltre all'amore per il denaro.

“Grazie” dico soltanto, perché, pur non volendo, sento uno strano groppo in gola e la commozione per il loro affetto rischia di farmi tremare la voce. “Siete due tesori. Vi manderò un sms appena mi sveglierò.”

Li guardo scendere le scale con il sorriso sulle labbra, ma, appena le loro voci svaniscono, mi affretto a rientrare in casa e chiudermi bene la porta alle spalle, vittima di un'ansia inconsulta che mi spinge ad agire prima ancora di riflettere su cosa stia facendo.

Spero che l'incidente non mi abbia provocato qualche sindrome strana o che l'isteria non facesse già parte del mio carattere, perché non è facile vivere credendo di vedere ombre ovunque e sentendosi perennemente osservata.

Per distrarmi curioso un po' tra le mie cose, meravigliandomi per ogni ninnolo che riesco a trovare, ma presto l'emozione si trasforma in sconforto, perché la mia mente rimane ferocemente muta davanti ai miei sforzi per trasformare quegli oggetti estranei in parti della mia vita.

L'ora di cena è passata da un pezzo, ma non ho appetito e non so neanche cosa potrebbe piacermi; nel piccolo frigo ci sono solo schifezze e una ciocca d'uva rinsecchita. Accanto al telefono c'è un'agenda zeppa di numeri di rosticcerie e ristoranti etnici che forniscono servizio a domicilio, segno evidente che non fossi un'appassionata di cucina. Comincio a rimpiangere la proposta di Philippe, anche perché non ho mangiato niente per tutto il giorno e dovrei costringermi a ingoiare qualcosa, volente o nolente, ma non mi va di mettermi a spignattare e rimedio con un succo di frutta e paio di merendine, promettendo al mio fegato una colazione decente per l'indomani.

Il computer è ancora abbandonato sul letto e la segreteria continua a lampeggiare, in più c'è il DVD misterioso che fa capolino dalla tasca del giubbotto; dovrei solo decidere da dove iniziare per trovarmi impegnata fino a tarda notte, ma prima di tutto credo di aver bisogno di una doccia, magari parziale, dato che ho il braccio ancora fasciato; mi accorgo di provare dolore in quasi ogni centimetro del corpo, una volta rilasciata la tensione, ho diversi lividi sbiaditi, ma nessuna cicatrice permanente, per fortuna, nemmeno quella piccola e rosa che avevo notato in ospedale, all'altezza dello stomaco. È una cosa abbastanza strana, ma forse si tratta solo di un gioco di luce o magari me l'ero sognata, così come il dottor Johnson e la piccola Lolie.

Una volta pulita dall'odore fastidioso di farmaci e disinfettante e avvolta in un morbido accappatoio con una buffa pecora ricamata sulla schiena, mi sento pronta ad affrontare qualsiasi difficoltà e infilo il DVD nell'apposito lettore con rinnovato ottimismo.

Purtroppo sembra che sia piuttosto sfortunata in ambito elettronico, perché, pur comparendo varie tracce sullo schermo, continuano a saltare insistentemente ogni volta che tento di avviarne una.

Vorrei che almeno avessero un titolo, perché questo strano regalo mi sta facendo impazzire e dovrò cominciare a credere che siano davvero filmati hard, magari girati con qualche ex, riccastro e strambo, che poi ho scaricato. In fondo sono una spregiudicata cacciatrice di dote, come posso escludere di non essere disposta a partecipare a un po' di sesso artistico, pur di accalappiare una preda? Triste, ma non impossibile.

Forse Philippe saprà come far funzionare questo aggeggio infernale, ma non credo sia il genere di emergenza a cui si riferiva, quando mi ha fatto promettere di chiamarlo a qualsiasi ora, così non mi rimane che passare al piano di riserva e ascoltare la segreteria.

Il primo messaggio risale a cinque giorni fa, in pratica la sera dell'incidente, e la telefonata proviene dall'estero. Se non sbaglio, i ragazzi avevano accennato a qualche presunto parente che avrei dovuto avere in Italia, ma avevo anche capito di non intrattenere rapporti con quel ramo della famiglia.

La voce che sento, bassa e severa, mi rimane totalmente estranea, ma questo, ormai, non mi sorprende più; a quanto pare appartiene a mio nonno, ovvero, dal mio punto di vista, ad un tizio di cui continuo a ignorare il nome e che proditoriamente mi chiede, anzi, mi impone di non recarmi all'inaugurazione e di richiamarlo per discutere di qualcosa che io gli avrei inviato.

Il messaggio si conclude senza saluti o frasi affettuose, a conferma di quanto poco potessimo essere intimi, ma mi sembra evidente che, nonostante quanto mi avessero raccontato, avessi ricominciato a intrattenere una sorta di dialogo con questo nonno forestiero, del quale mi ero fidata tanto da affidargli un qualche tipo di aggeggio, e mi chiedo perché mai mi fossi rivolta a un quasi perfetto estraneo per ottenere aiuto. Le spiegazioni potrebbero essere molteplici e dovrei conoscere la natura dell'oggetto misterioso per venirne a capo, così mi ritrovo con nuove domande e conseguenti incertezze.

Per fortuna gli altri messaggi sono banali comunicazioni di servizio, una del fisioterapista, per uno strappo muscolare che, a quanto pare, mi ero procurata durante un allenamento, e l'altra di un agente immobiliare, a proposito di una casa in Rue Boileau, che ormai sarebbe già stata venduta.

I ragazzi non avevano accennato a un mio possibile trasloco, ma non so quanto raccontassi loro, alla fin fine, visto che si stanno rivelando parecchie le falle nelle loro informazioni.

Magari domattina potrei far un salto a vedere che razza di appartamento fossi intenzionata ad acquistare, dato che questo buco mi piace tantissimo e non vedo motivo per abbandonarlo, se non, forse, questi spifferi gelidi che sembrano penetrare dalle pareti stesse e si attaccano alla pelle come un velo invisibile di brina, facendomi letteralmente rabbrividire. Se non fosse assurdo, giurerei che, da un attimo all'altro, la temperatura fosse abbassata tanto da permettermi di vedere la condensa del mio fiato.

Mi sembrava di aver alzato al massimo il calorifero, ma forse è vecchio come sembra e non funziona bene, anzi tutto l'impianto elettrico deve essere difettoso, perché anche la lampada sul comodino comincia a tremolare all'improvviso, crepitando sinistramente, mentre la televisione si accende da sola, a tutto volume, facendomi quasi venire un infarto.

Sullo schermo ci sono solo bruscoli indistinti e strisce tremolanti, ma si sente ben chiara la voce di un uomo, vibrante d'emozione e un po' impastata.

“Ci siamo finalmente” biascica. “Adesso ti mostrerò quello a cui ti rifiuti di credere. Riesci a riprendere bene?”

“No, se non togli il tappo dalla macchina” con sommo stupore, è mia la seconda voce che sento. Forse avevo attivato una qualche strana funzione sul lettore DVD e l'ho fatto partire in ritardo.

Mentre mi alzo per cercare il telecomando, l'immagine si fa finalmente chiara e mi trovo davanti un volto emaciato e arcigno, con occhi cerulei incavati e profondamente cerchiati, seminascosti da un ciuffo ribelle di crespi capelli castani, dall'aspetto pesantemente trasandato. Forse è per la grossa macchia di vernice che noto sul suo mento, affilato e coperto da una rada peluria incolta, ma sono immediatamente certa di stare guardando il mio defunto amico e compagno di sventure, Emile.

Non mi meraviglio che l'ispettore lo considerasse un pessimo soggetto, io stessa fatico a credere di aver avuto a che fare con un brutto ceffo del genere: tutto, in lui, indica un forte stato di psicosi, dal tremore costante delle palpebre, allo sguardo allucinato, al serrarsi innaturale delle labbra pallide e screpolate; sembra il classico drogato pronto a tagliarti la gola pur di rubarti il portafoglio. L'inquadratura si allarga e posso osservarlo a figura intera, per quanto ci sia bene poco da vedere: è alto, ma sembra un cadavere ambulante e la scarsa pelle sulle ossa ha un colore giallastro e malsano. Indossa un paio di jeans chiari e un giubbetto di pelle completamente coperto da schizzi di vario colore, mentre le mani, lunghe e sottili, brandiscono, come fossero spada e scudo, un pennello e una tavolozza malconcia.

Di certo questo tipo qualcosa sniffava e, per quel che vedo, poteva anche trattarsi di vernice, visto che ne pare completamente sommerso.

“Riprendi bene la casa” mi ordina, facendosi da parte. “Voglio che ci sia testimonianza di ciò che presto rivelerò al mondo intero.”

Non riconosco il luogo in cui ci trovavamo, ma deve essere sempre nel centro di Parigi, perché si notano vari palazzi sul fondo dell'inquadratura, anche se io sto riprendendo una villetta solitaria da quello che sembra un piccolo giardino sul retro.

E' una bella casa, per quanto trascurata, di sicuro risalente ai primi anni del secolo scorso, con le pareti in pietra e mattoni sulle quali si aprono due file di ampie finestre, rivestite in marmo chiaro dal disegno geometrico, leggermente usurato dal tempo. Il soffitto è in parte adibito a terrazzo, tanto che si crea quasi l'illusione di una piccola torre nell'angolo dove, invece, si alza una specie di soppalco, rivestito da tegole scure e con un modesto abbaino privo di vetri. Dall'aspetto, sembrerebbe disabitata da molto tempo e bisognosa di vari restauri, ma, nell'insieme, rimane comunque un alloggio di tutto rispetto, anche se io personalmente non vorrei mai viverci.

Non saprei dare una spiegazione razionale per questo pensiero, soprattutto tenendo conto della mia accertata passione per il denaro e le cose lussuose, ma c'è qualcosa di cupo in quella casa, la stessa aria pesante che avvertivo nell'ospedale, come se le mura fossero mascelle pronte a serrartisi intorno. A pensarci bene, è probabile che stia solo trasferendo istintivamente l'ansia per l'incidente e la morte di Emile sul primo luogo che adesso riesco a collegare a lui, anche perché sembro perfettamente a mio agio, mentre lavoro come cameramen e la mai voce non tradisce la minima preoccupazione o disagio.

“Credo sia troppo buio per cogliere i vari dettagli” mi sto lamentando. “Dovevi lasciarmi portare almeno un faretto.”

“No” quasi grida, nell'ansia di interrompermi. “Non è ancora il momento di far luce su di lui e di certo non ci riusciresti con una misera lampada. Sarò io a svelarlo, appena la vernice me lo permetterà.”

Se avessi avuto buon senso, sarebbero stati questi vaneggiamenti a mettermi a disagio, ma evidentemente credevo troppo nei suoi lavori e nella possibilità di guadagno che rappresentavano, per essere disposta a rischiare una denuncia per violazione di proprietà privata, insieme a un folle visionario che magari poteva anche pugnalarmi alle spalle col suo pennello.

“Adesso riprendi la fontana e il gazebo.”

L'inquadratura mostra un giardino cinto da imponenti mura di pietra, fangoso e pieno di erbacce, con lussureggianti piante dall'aria esotica, ormai fuori controllo, e un gazebo traballante di legno scrostato con, al centro, una statua di pietra scura, stranamente perfetta e lucida, come se il tempo e gli elementi non l'avessero sfiorata, raffigurante una donna nuda, racchiusa nell'abbraccio di una specie di giullare, con un sorriso ferino sul volto contorto. Nell'insieme si tratta di una visione piuttosto grottesca, degna dei gargoyles di Notre Dame, ma è sicuramente in stile con la fontana, altrettanto gotica, che, ormai morta e coperta di muschio e funghi puzzolenti, svetta altera in un tripudio di diavoletti e cani infernali, a pochi passi dalla porta d'ingresso.

Chiunque comprasse questo posto dovrebbe radere al suolo tutto il giardino e piantarci rose e gelsomini.

“Questa è la villa appartenuta a Jacques Morel, magnate della finanza, alchimista e satanista” spiega Emile, con la voce improvvisamente disturbata da una serie di furiosi latrati, esplosa dal nulla. “Questa è la villa dove ha perpetrato i suoi crimini, dove ha seviziato e tormentato la moglie-schiava, dove ha ucciso lei e i suoi figli e dove si è suicidato, impiccandosi a una trave.”

Mentre parla, sembra sempre più preda della follia e sorride, nonostante il suo racconto sia raccapricciante.

“Questo” e indica un cavalletto con una tela, vicino alla fontana. “Il mio capolavoro mostrerà al mondo la verità su Morel e i suoi amici maledetti.”

Vedo la telecamera spostarsi per riprendere l'opera d'arte e mi accorgo di tremare leggermente, non solo per il malefico freddo che ancora pervade la stanza, ma anche per l'emozione di stare per vedere una delle famose opere per cui dodici persone hanno perso la vita.

Procedo ad una lentezza esasperante, con un gusto quasi teatrale di creare suspance, ma quando, finalmente, l'inquadratura si alza sul dipinto, un lampo azzurro esplode dallo schermo e la televisione torna buia come l'antro dell'inferno.

Comincio davvero a stufarmi ed è già un bel po' che sono infuriata. Ok, la situazione non è delle migliori, posso rassegnarmici e prenderla con filosofia, ma se poi alle migliaia di incertezze che mi ritrovo devono sommarsene altre, unite a assurdi contrattempi idioti, penso sarebbe più produttivo mi infilassi sotto le coperte e ci rimanessi fino all'anno nuovo. Oppure potrei iniziare a urlare adesso e smettere solo quando avrò finito la voce, onestamente non saprei decidere l'opzione migliore.

Se fossi superstiziosa dovrei credere a una sorta di maledizione o malocchio, tanto più che adesso in questa stanza si soffoca e se non mi affretto ad aprire la finestra rischio di svenire. Forse è per questo che cercavo una nuova casa, deve essere fastidioso passare le serate ad aggiungere e togliere strati d'abbigliamento per star dietro alle follie di un riscaldamento isterico.

Respiro l'aria frizzante a pieni polmoni, mentre il suono leggero di una musica vivace si propaga dalla collina del Sacro Cuore e mi conforta con un barlume di normalità. Probabilmente ci sono decine di ragazzi assiepati sui gradini gelidi della chiesa, con birre e chitarre, intenti solo a scherzare, flirtare e godersi la giovinezza, mentre io me ne sto rinchiusa in questo buco sconclusionato, con lo stomaco vuoto, un braccio ustionato e un milione di preoccupazioni in testa. Se è la punizione divina per la mia avidità, temo non basteranno un paio di preghiere e qualche candela votiva per ottenere l'assoluzione.

Comunque piangere sul latte versato non serve a niente ed io non ho ancora spuntato la mia lista di impegni.

Guardo il pc con aria di sfida e mi trattengo dall'indicarlo minacciosa solo per la fitta di dolore che mi trapassa il polso quando tento di muoverlo troppo velocemente.

Spingo il tasto di accensione e si avvia regolarmente, ma aspetto a cantar vittoria dato che potrebbe ancora abbandonarmi in qualsiasi momento e senza alcun preavviso.

Non ho immagini particolari o fotografie, sul desktop, solo un groviglio insensato di cartelle impilate più o meno a casaccio; potrebbe volerci un po' per controllarle tutte, ma prima sono curiosa di scaricare la posta e vedere quanto spam abbia ricevuto in questi giorni d'assenza. Non mi azzardo neanche a cercare il nome di Emile o di qualsiasi cosa lo riguardi, per un'irrazionale paura di ritrovarmi nuovamente tagliata fuori da ogni mezzo elettronico o informatico, però, quando digito Jacques Morel, mi ritrovo letteralmente sommersa da siti in cui viene ricordato o che, addirittura, si occupano unicamente della sua storia. Ovviamente sono per lo più blog e forum stupidi di amanti dell'occulto o della criminologia, dove imperano notizie assurde su presunti poteri demonici che quel tale avrebbe posseduto, descrizioni raccapriccianti di sevizie inflitte alla moglie, ipotesi su sacrifici umani, leggende di cani infernali che avrebbero dimorato nel giardino della casa, insomma qualsiasi fantasticheria oscura si possa immaginare, ma ci sono anche un paio di vecchi articoli di giornale che qualcuno si è preso la briga di scansionare e inserire come prova per le sue teorie arcane, nei quali si legge, in effetti, la storia sordida di un uomo sadico e senza scrupoli, avido di soldi quanto di potere, violento e vendicativo. A onor del vero, bisogna dire che queste notizie erano state pubblicate dopo il suicidio del loro protagonista, quando non avrebbero più potuto essere smentite, ma sono propensa a credere che il signor Morel non fosse una brava persona. Pare anche fosse l'unico indiziato per l'omicidio della moglie, trovata nuda e sgozzata sul letto coniugale, proprio davanti al corpo del marito, penzolante dalla trave. Non ho idea di quali prove avesse la polizia, all'epoca, per escludere la pista di un doppio omicidio, considerato anche quanto odio aleggiasse intorno a quella famiglia, ma, secondo quei due ritagli di giornale, uno datato 8 ottobre 1933 e l'altro di pochi giorni successivo, non ci sarebbero stati dubbi sul responsabile della tragedia. D'altra parte io non ho dubbi su cosa trovasse di tanto affascinante Emile in questa vicenda, ma mi preoccupo sempre di più della mia sanità mentale per averlo seguito e incoraggiato nella sua sociopatia convulsa.

Inserisco un po' di quei siti tra i preferiti, per quanto sia convinta che contengano solo spazzatura, poi mi decido a visionare le mie email: 43 nella posta indesiderata e meno della metà nella posta in arrivo, delle quali almeno un terzo si rivela ancora spazzatura.

Ci sono degli auguri di pronta guarigione da parte di colleghi, un paio di avvisi della banca, pubblicità di agenzie del lavoro e ben dieci messaggi da un certo WhisperG, che cestinerei immediatamente come portatori di virus, se non fosse che hanno titoli interessanti, del tipo: “Scusa se non mi sono più fatto vivo”, “Ho saputo dell'incendio”, “Dimmi che stai bene” e simili.

Evidentemente si tratta di qualcuno che mi conosce, ma non così bene da esser stato informato sulle mie condizioni.

Confidando nella potenza dell'antivirus, apro la prima email, risalente alla mattina del 1 novembre, ma non è molto più lunga del suo titolo, al pari delle altre nove, che sembrano quasi sms da quanto sono telegrafiche.

Il tizio si firma Gabriel, confidenzialmente, e si scusa per non avermi più contattata, adducendo come scusa un'indisposizione, anche se avrebbe potuto inventarsi qualcosa di più originale. In realtà, qualsiasi sia stato il motivo, non sa quanto sia stato fortunato a mancare all'inaugurazione, cui dice sarebbe venuto molto volentieri. Di certo l'ha scoperto poche ore dopo, perché la seconda email ha un tono allarmato e quasi ansioso, mentre chiede notizie su di me e si rammarica per Emile, si lamenta della scarsezza di informazioni date dai mezzi di informazione e dalla gendarmeria e mi invita a telefonargli, visto che non riesce a contattarmi al cellulare. E' interessante scoprire che conosceva pure quel pazzoide del mio amico e, appena l'ora me lo consentirà, proverò a chiedere notizie ai ragazzi, nella speranza che fosse un conoscente comune. Di certo non faceva parte del gruppo, altrimenti sarebbe stato già a parte di tutti i dettagli e non li avrebbe richiesti tramite posta elettronica, anche perché avrebbe ben saputo che non sarei stata in grado di rispondergli. Apro in rapida successione gli altri messaggi, che, però, continuano semplicemente sullo stesso tono, aggiungendo la frustrazione alla preoccupazione e terminando con l'augurio che possa rimettermi presto e fargli sapere che sto bene.

Davvero non riesco a intuire che rapporto ci fosse tra di noi. L'amicizia l'ho già esclusa, per ovvi motivi, e una relazione l'ha esclusa Jas quando mi ha detto che non stavo con nessuno, anche se, in effetti, proprio lei aveva accennato ad un tipo carino interessato ai quadri di Emile. Potrebbe essere questo Gabriel, anche se pare un po' troppo preoccupato per essere solo un eventuale acquirente; magari stava anche flirtando con me e io, nonostante non avesse chance per via dell'esiguo conto corrente, lo lasciavo fare nella speranza che sperperasse il suo magro gruzzoletto in un bel dipinto dell'orrore. O forse è solo un uomo gentile, impressionato dalla gravità di un incidente in cui avrebbe potuto essere coinvolto, e che cerca di rassicurare il suo spirito mettendosi in contatto con l'unica sopravvissuta alla strage.

In ogni caso non vedo niente di male nello scrivergli due righe per ringraziarlo dell'interessamento e informarlo del mio rientro a casa, anche se mi tengo sul vago e non accenno alla perdita di memoria, nel caso sia qualche malintenzionato, pronto ad approfittarsi della mia attuale fragilità.

Nonostante siano quasi le undici, la sua risposta arriva in meno di un minuto, quasi fosse stato a fissare il monitor per tutto il tempo, in attesa di miei notizie.

“Finalmente! Come stai?”

Tutto sommato non è strano abbia impiegato pochi secondi a elaborare un testo del genere.

“Un po' sotto sopra, ma almeno libera dall'ospedale. Grazie.”

Sembra di essere in una chat e non sono sicura che dovrei mettermi a dargli spago, ma la curiosità è più forte della prudenza e tramite internet non corro alcun rischio. Mentre aspetto la quasi certa risposta, controllo nella posta dei giorni precedenti se avessi già intavolato un qualche tipo di corrispondenza con lui prima del fattaccio, ma non trovo assolutamente niente.

Sento un breve squillo e leggo: “Sei a casa?”

Stiamo cominciando ad allargarci un po' troppo.

“Non credo siano affari che ti riguardino!”

E' meglio rimetterlo subito al suo posto, almeno finché non scoprirò chi diamine sia.

“Sei a casa. Arrivo.”

Porcaccia miseria! Quindi sa anche dove abito e la mia teoria sulla totale sicurezza di un approccio virtuale è andata a farsi benedire.

“Non credo sia il caso. Anzi, non voglio proprio che tu venga qui!!!”

Sono stata un fulmine a inviare il messaggio, ma passano tre minuti e non ricevo niente, segno evidente che o mi sta deliberatamente ignorando o è stato più veloce lui a uscire di casa che io a scrivere.

E ora che faccio? Chiamo la polizia? Già mi immagino mentre spiego a un gendarme allibito che dovrebbe venire a salvarmi da un tizio di cui non mi ricordo, ma che conosce sia il mio indirizzo email sia quello di casa e che, per adesso, può essere accusato solo di invadenza e sfacciataggine.

Non sta né in cielo né in terra e mi farei ridere dietro. In ogni caso quale persona di buon senso si metterebbe a fiondarsi in casa di un convalescente in piena notte? Questo Gabriel non deve avere tutte le rotelle a posto, proprio come Emile; magari era un suo amico e io son finita invischiata in un giro di strambi esaltati senza rendermene conto.

Controllo il catenaccio alla porta, giusto per prudenza, e telefono a Jasmine, preparandomi ad essere mandata al diavolo.

“Pronto?” quasi non sembra la sua voce, tanto è impastata.

“Sono io” cerco di apparire contrita. “Scusa se ti ho svegliato”

“Alex?” sbadiglia. “Che ore sono? Che succede?”

“E' tardi, ma avevo bisogno di un'informazione urgente. Per caso conosci un amico di Emile che si chiami Gabriel?”

Non so se stia pensando o si sia riaddormentata, perché dall'altra parte della cornetta c'è il più totale silenzio per un bel po'.

“Non mi pare” mormora alla fine, poco convinta. “Il fatto è che non sapevo chi frequentasse Emile, a parte noi. Avrei quasi giurato fossimo i suoi unici amici, ma non uscivo troppo spesso con lui, quindi potrei sbagliarmi.”

“Capisco” ma è più una risposta standard che la verità. “Ti ringrazio e scusa ancora.”
“Aspetta, perché te ne sei venuta fuori con questa domanda? E perché non potevi aspettare domattina?”

“Un certo Gabriel, che suppongo fosse amico del defunto, sta venendo qui.”

“A mezzanotte?” non so se sia più stupita o scandalizzata, ma forse è solo preoccupata. “L'hai invitato tu? Come l'hai contattato? Non sai neanche chi sia, è imprudente...”
“Si è auto invitato, per dirla tutta, e credo anch'io sia una follia, ma ho sprangato la porta e più che parlarmi attraverso vari centimetri di legno non potrà fare. Si rivelasse un matto pericoloso chiamerò la polizia, ho anche il numero del cellulare privato dell'ispettore.”

“Ma come ha fatto a auto invitarsi?”

“Stavamo chattando via email e, ad un tratto, ha deciso di fiondarsi qui. Piuttosto semplice, in verità.”

“Chattando? Via email? Vuoi che venga anch'io?”

“No, ci mancherebbe. E poi non potresti far molto, è evidente che tu non lo conosca, quindi chiunque ci si presentasse davanti sarebbe un'incognita per te come per me.”

“Ma almeno ti darei man forte!”

“Non voglio mica farci a pugni. Stai tranquilla, lo guarderò dallo spioncino e cercherò di capire che diavolo abbia in testa, ma non lo farò entrare in casa” mi rendo conto di quanto sia diventata assurda la mai vita quando realizzo che, d'ora in avanti, ogni incontro si rivelerà una sorta di interrogatorio da inquisizione verso persone che già una volta avevo fatto la fatica di conoscere.

“Mi raccomando, Alex” sbadiglia di nuovo, quasi pronta a riaddormentarsi. “Non mi preoccuperei se fossi completamente lucida, sai badare a te stessa, ma nelle tue condizioni potresti commettere qualche errore di giudizio”

“Non sono pazza.”

“Certo che no, cara. Anzi, stai reagendo molto bene a questa situazione paradossale.”

“Sarò prudente Jas, tranquilla. Scusa ancora per il disturbo.”
“Non dirlo neanche e chiama quando vuoi.”

Non sono pazza, ma non sono neanche nel pieno delle mie facoltà mentali. Non voglio confessarlo ad altri, ma non posso mentire a me stessa, anche se, a ben guardare, non saprei dire quanto fossi lucida pure prima dell'incidente, visto i casini in cui mi andavo a infilare.

Guardo l'orologio, sono passati circa dieci minuti dall'ultimo messaggio di Gabriel e non ho idea di quanto possa occorrergli per arrivare qui, ma credo sia meglio mi metta addosso qualcosa di più del accappatoio, per ogni evenienza. Non ho intenzione di riceverlo, ma mi sento più a mio agio a parlare con uno sconosciuto attraverso la porta sapendo di indossare quanto meno la biancheria e poi inizio a sentire nuovamente qualche brivido di freddo e un maglione non mi disturberà troppo. È incredibile, mezz'ora fa sembrava una sauna e adesso ho le mani congelate. Per quanto questo buco mi piaccia, dovrò rassegnarmi ad abbandonarlo o rischierò una polmonite, prima o poi.

Lo squillo del telefono mi fa sobbalzare, nonostante continui a ripetermi di non essere affatto tesa o nervosa. Probabilmente è Jasmine che vuole farmi qualche altra raccomandazione.

“Pronto?”

Niente.

“Pronto?”

Una serie di fruscii indistinti è l'unica risposta che ottengo, mentre mi accorgo che il fiato sta nuovamente diventando condensa davanti al mio naso.

“Pronto?”

Al terzo tentativo scaglio il cordless sul letto con un'imprecazione poco signorile, ma non faccio in tempo a vederlo sprofondare nel piumone che lo sento suonare di nuovo. Magari è qualcuno che cerca di contattarmi da un cellulare che non ha molta linea, suppongo meriti una seconda possibilità.

“Pronto?”

Un fischio acuto quasi mi perfora il timpano e credo l'abbiano potuto udire tutti nel palazzo, tanto è penetrante. Vorrei spegnere questo aggeggio infernale, ma sono troppo intontita per il rumore improvviso e la mia mano sembra rifiutarsi di allontanarsi dall'orecchio, quasi la cornetta si fosse fusa con la cartilagine. E' doloroso, anche perché quel suono non accenna ad affievolirsi e la mia testa ha ripreso a pulsare convulsamente al ritmo dei battiti accelerati del mio cuore. Non capisco cosa mi stia succedendo, forse l'incidente ha rallentato un po' la mia coordinazione motoria o i miei riflessi, fatto sta che non sono in grado di premere quel malefico pulsante rosso finché il battito perentorio di un pugno contro la porta non mi riscuote e mi permette di interrompere la comunicazione. Per sicurezza stacco proprio la spina telefonica.

Sto ansimando pesantemente, ma almeno la temperatura della stanza è tornata a valori accettabili.

Il bussare si ripete e una voce maschile, profonda e robusta, pronuncia il mio nome con urgenza.

“Alex, sono io”

Ottima affermazione, se articolata con qualcuno non affetto da amnesia.

Mi affaccio piano allo spioncino e trattengo il fiato perché mi ritrovo a fissare una specie di sexy versione migliorata di Hugh Jackman da giovane, incrociato con qualche tratto di Henry Cavill.

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Capitolo 9
*** WhisperG ***


“Wow” mi scopro a sussurrare senza volerlo, prima di tapparmi la bocca con la mano e darmi della stupida: in primo luogo, potrebbe sentire le mie poco consone esclamazioni da dodicenne e, in secondo luogo, non ha importanza che questo tizio abbia il volto di un dio della mitologia nordica, con lineamenti forti e volitivi, occhi magnetici e profondi, di un blu talmente intenso da tendere al nero, folti capelli scuri, scarmigliati, dal taglio indefinibile, pelle bronzea con un accenno di barba sulle mascelle squadrate, e una bocca fatta apposta per essere baciata, non sarà certo un bel faccino a influenzare le mie decisioni, o almeno lo spero. Il problema è che qui si parla anche di un fisico notevole: di certo supera il metro e novanta di altezza e riesco a intuirne le spalle larghe e i pettorali scolpiti anche sotto la giacca di cuoio sformata che indossa.

Se, come credo, sto fissando quel tal Gabriel, Dio ha davvero un pessimo senso dell'umorismo, perché non si può creare un individuo del genere e poi non fornirlo di un appropriato conto in banca.

“Alex, apri la porta, so che ci sei. Ti sento respirare.”

A parte chiedermi che razza di udito abbia, vorrei anche sapere quanto fossimo in confidenza per permettersi una tale libertà nell'ordinarmi di aprire la porta in piena notte, quasi come fosse a casa sua; il suo tono non sembra ammettere repliche, ma non è arrogante o minaccioso, soltanto deciso e un po' preoccupato, come se non capisse il perché dei miei tentennamenti.

“E' piuttosto tardi e non so chi tu sia” una risposta neutra e poco impegnativa nella sua lapalissiana banalità.

“Che diavolo stai dicendo? Sai benissimo chi sono e sapevi che stavo arrivando” sembra irritato, ma la cosa mi lascia indifferente. “Te l'ho scritto poco fa.”

“E' vero, ma questo non significa granché.”

“Si può sapere cosa succede? Ero preoccupato per te, sono corso fin qui e ora mi tieni a parlare da dietro la porta.”

“Ti ricordo che non ti ho chiesto io di venire, ma ti sei autoinvitato, in modo anche piuttosto cafone, quindi non venirmi a dare lezioni su come trattare gli ospiti.”

“Cafone?” sgrana gli occhi, seriamente meravigliato. “Alexandra, fammi entrare!”

“No.”

“Solo un minuto.”

“Certo” gli scoppio a ridere in faccia. “E' quello che dicono tutti i maniaci.”

“Ti sei rimbambita? L'incidente ti ha fatto perdere la ragione?”

“No, solo la memoria” rispondo piccata, prima di ricordarmi che non volevo ancora rivelargli questo piccolissimo particolare, per capire quanto potessi fidarmi di lui. “E non ho intenzione di discutere con un buzzurro maleducato che se ne sta a sbraitare sul pianerottolo nel cuore della notte.”

“Se mi facessi entrare, sbraiterei nel tuo appartamento” borbotta a mezza voce, passandosi la mano sul volto con aria stanca, ma senza alcuna animosità residua nel tono, anzi con l'aria un po' contrita di un cucciolo sorpreso a commettere una marachella.

Pur senza volerlo, le mie labbra si aprono in un piccolo sorriso, perché appare veramente mortificato e impacciato ed è ben evidente che non sappia più cosa dire o fare.

“Mi dispiace, non sapevo” si limita a sussurrare alla fine, stringendosi nelle spalle in un'espressione di scuse imbarazzate.

“Non avresti potuto” mi sento in dovere di soccorrerlo. “Ma credo adesso tu capisca perché non posso farti entrare.”

Si morde il labbro, corrucciato, ma non replica.

“Potresti dirmi, però, come ci siamo conosciuti e quando, visto che ormai sei qui.”

“Credo sarebbe meglio non parlarne adesso e di certo non qui.”

“Come mai?

Lo vedo sedersi ai piedi della porta, la testa appoggiata al legno e le gambe strette tra le braccia.

“Temo sarà una lunga notte” sospira rassegnato.

“Non avrai intenzione di accamparti?” ho quasi voglia di farlo entrare solo per evitare la pessima figura che farei con i vicini se qualcuno, tornando a casa, vedesse un uomo accasciato contro il mio portone.

“Come è avvenuto l'attentato? I giornali erano dannatamente evasivi.”

Odio chi svicola dalle domande, ma il termine che ha usato per riferirsi all'incidente è decisamente strano e foscamente intrigante. Nessuno aveva mai accennato all'eventualità che si fosse trattato di un attentato e l'ispettore non aveva parlato di personalità di spicco della politica o del mondo degli affari, presenti all'inaugurazione, ma c'è sempre qualche pazzo fanatico pronto a sporcare una buona causa col sangue di povere vittime innocenti, trovando troppo difficile prendersela coi veri responsabili del problema contro cui vuole manifestare. Emile era un tipo strano e stava anche diventando famoso, sfruttando come modello un personaggio piuttosto controverso e invischiato in storie sordide di satanismo e follia, non sarebbe così assurdo pensare che fosse diventato il bersaglio di qualche associazione malavitosa o di qualche branco di svitati.

“La polizia non esclude del tutto che non si sia trattato di un incidente.”

“Un incidente? Proprio quando pensavi che qualcuno ti stesse seguendo? Proprio quando, insieme al tuo amico, eri certa di essere vicina a scoprire qualcosa di importante?”

“Te l'avevo raccontato io?” è assurdo chiederlo e ancor più assurdo credere ad una qualsiasi risposta possa ottenere, ma devo fare il meglio che posso col poco che ho.

“Sì.”

“Cos'altro ti ho detto?”

“Non molto, ma non ho intenzione di proclamarlo ai quattro venti.”

“Allora te ne vai a casa e mi lasci con la curiosità? E' la tua forma di vendetta?”

“Non me ne vado, ma non ho neanche intenzione di intrattenerti su questo argomento.”
“Al momento è l'unico che mi interessi e l'unico per cui abbia senso che tu resti qui, attaccato al mio uscio.”

“No, non è l'unico.”

“Che hai in mente? In realtà sei tu l'attentatore e sei qui per finire il lavoro?” non mi ero resa conto di quanto probabile fosse quest'eventualità finché non mi è sfuggita dalle labbra.

“Certo, infatti proprio in questo momento sto cercando di dar fuoco alla porta con l'accendino” si ribella, sarcastico, volgendo su di me uno sguardo offeso e arruffato, privo di qualsiasi traccia di alienazione o livore.

Ovviamente chi, come me, si accompagnava a casi clinici conclamati come Emile non dovrebbe arrogarsi il diritto di dare giudizi, né sentirsi molto al sicuro nello scegliere di chi fidarsi o meno, ma questo Gabriel, per quanto un po' strano, inopportuno e selvatico, sembra un tipo a posto.

“Forse potremmo andare a prendere un caffè” propongo prima ancora di riflettere. “Ho visto un bar, in fondo alla strada.”

Spero quasi rifiuti, perché Jasmine mi farà una lavata di testa apocalittica, se scoprirà quello che sto facendo, ma, in fondo, non si può ottenere nulla, se non siamo disposti a rischiare nulla e, d'istinto, potrei giurare di essere più al sicuro in un bar con lui, che in questa casa da sola. E' un pensiero incoerente, assolutamente non razionalizzato, ma ho voglia di lasciarmi alle spalle le ombre e i ricordi sconosciuti racchiusi in quello che dovrebbe essere il mio nido e che, invece, da quando vi sono tornata, mi guarda storto come se non volesse avermi con sé.

Ovviamente sto sragionando per la stanchezza, la debilitazione, il dolore al braccio e in varie altre parti più o meno sensibili del corpo, ma sono sollevata quando lo sento accettare la mia proposta e mi affretto a infilarmi un piumino sopra il maglione di Minnie che avevo indossato quando pensavo di non doverlo mostrare a nessuno, infischiandomene delle apparenze e desiderando solo ritrovarmi nel clima freddo, ma stabile, delle vie di Parigi.

Devo avere un aspetto orribile, coi capelli malamente racchiusi in un codo disordinato, il viso senza trucco e gli abiti raffazzonati, ma Gabriel non sembra farci caso, mentre mi squadra con occhio clinico, non appena metto un piede fuori dalla soglia.

Forse avrei dovuto chiedergli di allontanarsi un po', perché il suo profumo mi colpisce come un pugno, forte e intenso quanto sembra esserlo tutto in lui, provocandomi uno strano brivido lungo la schiena che mi fa rammaricare di non aver sprecato due minuti di tempo a passarmi un po' di fard e rossetto. In ogni caso, per quanto fisicamente accattivante, rimane pur sempre uno spiantato, quindi è un bene che non gli dia false speranze.

“Hai preso proprio una bella botta, eh?” senza aspettarmi, si avvia per le scale, certo di essere seguito e indifferente a qualsiasi regola di civile cortesia o buone maniere.

“Hai intenzione di trascinarmi fuori da casa a quest'ora per dire banalità?”

“Sei tu che sei voluta uscire” cammina piuttosto in fretta, senza mai voltarsi verso di me, ma tenendo piuttosto d'occhio tutto il resto, quasi si aspettasse di veder spuntare un aggressore dalle ombre dell'androne. “In ogni caso, forse è meglio non rimanere su da te, stanotte.”

“Puoi starne certo” ribatto piccata, senza ben capire il senso della sua affermazione, soprattutto considerando quanto avesse strepitato fino a qualche secondo prima perché lo facessi entrare. “Almeno per te, s'intende! Io stavo benissimo a casa mia.”

“Davvero?” mi fissa negli occhi e mi risulta difficile continuare a mentire, ma in fondo non lo sto neanche facendo davvero, perché mi è subito piaciuto il mio appartamento, l'ho trovato accogliente e non sarà qualche pecca nell'impianto elettrico o la stramberia di un calorifero a farmi cambiare idea.

“Quanto meno quando non ci sono estranei cafoni che cercano di inglobarsi con la porta.”

Sbuffa, lanciando una lunga occhiata a destra e sinistra prima di scendere in strada.

Comincio ad avere il dubbio di essere uscita con un fanatico mitomane, convinto che il governo abbia nascosto cimici e telecamere in ogni cassonetto della spazzatura e che gli alieni siano pronti a conquistarci facendo atterrare il loro disco volante sulla punta della Torre Eifell.

“Forse sarò un cafone, come continui a ripetere, ma non eravamo estranei.”

“Non mi hai neanche detto come e quando ci saremmo conosciuti! Hai iniziato a sviare il discorso con una serie ci sciocche teorie cospirative...”

“Teorie come?”

“E poi ti sei messo a fare il misterioso: non posso raccontarti questo qui, non voglio parlare di questo di là. Insomma, peggio di una donna nel suo periodo nero.”

“Alex, io voglio solo aiutarti, proprio come lo volevo prima che succedesse tutto questo casino.”

“Non mi pare tu abbia fatto un buon lavoro” ma mi pento subito di averlo detto, perché incassa la mia cattiveria come un colpo di frusta in pieno petto, con una smorfia terribilmente amara a deformargli il volto. Sono stata ingiusta e meschina; in fondo, per adesso, questo ragazzo non ha davvero fatto niente per meritarsi di diventare il pungiball emotivo del mio cattivo umore. “Scusami, non volevo dirlo, o meglio non avrei dovuto farlo. Non hai di certo colpa per quello che mi è successo, a meno che non sia stato tu a piazzare un qualche ordigno esplosivo alla mostra, ma, tutto sommato, non mi sembri il tipo.”

“No, non lo sono” si rilassa appena. “E prima che tu possa insinuare che questo lo direbbe anche il vero responsabile, ti dirò che io sono più il tipo che sarebbe piombato in mezzo a voi prendendo tutti a calci e trasformando i quadri di Emile in un groviglio indistinto di segatura e stuzzicadenti.”

“Un vero macho” sorrido, riuscendo a figurarmelo bene nel caos che ha descritto. Sembra un uomo irrequieto, sempre coi pugni serrati e la guardia alta, ma non ha davvero l'aria da bullo di strada; i suoi occhi hanno un barlume di dolcezza, nascosto dietro le palpebre perennemente crucciate, e la sua voce, anche quando è indignata, mantiene un timbro forte e franco che me lo fa immaginare più come un guerriero che come un bandito.

“Andiamo al Café Chappe, qui all'angolo? Di solito ci trovavamo lì.”

“Ci siamo visti spesso?”

“Quasi ogni giorno, dopo il 12 ottobre.”

“Perché, che è successo il 12 ottobre?”

Vorrei poterlo vedere in volto, perché mi sembra di aver avvertito i muscoli di tutto il suo corpo tremare e irrigidirsi alla mia domanda, ma la strada è dannatamente mal illuminata, in questo punto, e il bellimbusto si ostina a tenere la faccia rivolta dall'altra parte, così il silenzio è l'unica risposta a cui posso aggrapparmi per intuire che mi stia nascondendo un qualche avvenimento spiacevole legato a quella data.

Mi auguro solo di non essere stata coinvolta anche in quello.

“Ci conoscevamo da tanto? O conoscevi Emile?”

“Non conoscevo il tuo amico e, per quanto riguarda noi, ti avevo vista la prima volta il giorno precedente.”

“Quindi eravamo praticamente degli estranei anche prima che mi dimenticassi di te” non posso dire che non me lo aspettassi, perché altrimenti i ragazzi, una volta o l'altra, avrebbero avuto a che fare con lui, ma non mi sento molto sicura a trotterellare in giro per le buie vie di Parigi con un tizio che non solo non ricordo, ma nemmeno conoscevo.

“Come ti chiami?” mi sembra di essere tornata bambina, ci manca solo che gli chieda se vuole giocare con me.

“Gabriel, lo sai” sembra sorpreso.

“Grazie mille, genio! Voglio sapere il tuo cognome”

“Gabriel e basta” quasi lo grida, infastidito.

“Che strano cognome che hai, signor Ebasta”

“Vero?” risponde ironia su ironia. “Io l'ho sempre trovato originale.”

“Perché fai il misterioso su una cosa del genere? Non è incoraggiante, se proprio vuoi saperlo.”

“Non te l'avevo spiegato prima e non lo farò neanche adesso, ma non sono un evaso o un mafioso espatriato, se è quello che stai immaginando” mi fissa intensamente. “E' proprio quello che stavi pensando!”

Non capisco come possa indignarsi, dopo tutti i misteri assurdi di cui si circonda. Anzi, dovrebbe meravigliarsi che non mi sia ancora voltata e messa a correre in preda al panico, come farebbe qualsiasi persona dotata di un minimo di buon senso.

“Ti avevo promesso che un giorno ti avrei spiegato il perché non mi piaccia usare il mio cognome, ma per adesso dovrai accontentarti di chiamarmi Gabriel”

“Sei un agente segreto?”

“No” per un attimo sembra un grosso cucciolo con le orecchie abbassate e il pelo lanuginoso tutto ispido, quasi mi aspetto che si metta a ringhiottare.

“Sei una spia?”

“No, ma che ti salta in testa?”

“Allora cosa sei?”

“Un disgraziato che per un colpo di sfortuna si è trovato invischiato nei tuoi stessi casini” si lamenta, aprendomi la porta del bar e scrutando con aria truce i pochi avventori ancora presenti.

“Quali casini?”

“Gli incendi. Tu ci stavi mettendo il naso, io ci stavo mettendo il naso.”

“Io ci ho messo ben più del naso in quella vicenda, te lo posso assicurare.”

“Te ne stavi occupando prima di finirci letteralmente in mezzo, tramite quel tuo amico drogato.”

“Visto che non era amico tuo, non permetterti di offenderlo”

“Era quello che era.”

“La polizia non ha trovato prove che si facesse di qualche sostanza, se proprio vogliamo dirla tutta.”

Si lascia cadere su una sedia, esasperato e fa un cenno al cameriere senza neanche aspettare che dia un'occhiata al menù; visto che non ho quasi cenato, vorrei approfittare dell'occasione e rimediare.

“Il solito gelato?” dà già per scontata la mia risposta, ma ormai non esiste niente che sia “solito”, per me, e di certo con questo freddo non ho voglia di gelarmi i denti. Che razza di fanatico ordina il gelato in inverno e in piena notte? Al massimo potrei prendere brioche e cioccolata calda.

“So che non ti fidi di me, Alex e non posso darti torto” non so se si riferisca alla mia perdita di memoria o se la sua sia una raccomandazione di più ampio respiro. “Ma avevamo deciso di collaborare e credo ancora possa essere la soluzione più sensata e anche la più sicura per te.”

“Perché?”

“Perché tu sei ostinata, imprudente e non hai la minima idea dei guai in cui ti vai a cacciare, ma sei bravissima a infilartici!”.

“La cosa non dovrebbe dispiacerti, perché, se fossi una persona sensata, probabilmente adesso non sarei qui a godermi la tua piacevole compagnia” ribatto offesa, a voce forse un po' troppo alta, riservando un'occhiataccia gratuita anche al povero, innocente cameriere appena avvicinatosi con in mano il blocchetto per la comanda. “Un croque monsieur e una cioccolata calda con panna.”

“Non sarà un po' eccessivo, a quest'ora?” mi scruta di sottecchi. “Inoltre sei stata male, forse dovresti mantenerti leggera.”

“Forse dovrei mantenermi calma, ma è difficile con qualcuno che continua a provocarmi.”

Lo guardo alzare gli occhi al cielo e lo imito con una smorfia esasperata.

“Mi dispiace, non sono bravo a relazionarmi con gli altri” mormora infine, senza ironia e senza un vero tono di scuse, come se constatasse un semplice dato di fatto. “E non volevo offendere il tuo amico, molte persone reagiscono come lui, cedendo alla tentazione di sballarsi, quando si scontrano con certe cose.”

“Quali cose?”

“Misteri” dice soltanto, tamburellando nervosamente con le dita sulla superficie lucida, ma un po' usurata del tavolo e ricominciando a lanciare occhiate guardinghe in giro.

“Misteri! Come quello del tuo cognome?”

“Tu volevi aiutarlo” mi ignora e inizia a togliersi la giacca, permettendomi di vedere da vicino come il maglione di lana massiccia non riesca a nascondere la perfezione del suo torace.

“Suppongo di sì” deglutisco per cercare di ricompormi, ma non sono veramente certa di star raccontando la verità; per il poco che ho scoperto di me, penso fosse più probabile che volessi sfruttare Emile, piuttosto che salvarlo, ma non ho voglia di ammetterlo con questo bellimbusto dai modi incivili e dallo sguardo malinconico, tanto blu da essere quasi illegale lasciarlo esibire in giro.

“Perché non ti ho presentato alle mie amiche?”

“Non volevi coinvolgerle in questo casino, avevi paura. E poi quali amiche? Hai soltanto una pazza fissata con le sedute spiritiche e un gay! Sarebbero loro le tue amiche?” mima il segno delle virgolette con le mani e mi sfida a contraddirlo.

“Certo.”

Lo guardo male, facendolo trasalire e agitare sulla sedia, a disagio. Probabilmente ho chiesto troppo al mio corpo e di questo posso incolpare solo la mia testardaggine, o magari anche il fascinoso uomo del mistero che ho davanti.

“E poi di cosa avrei dovuto aver paura?”

“Dovrei portarti a letto.”

“E' una proposta? Perché, se lo fosse, sarebbe davvero un po' troppo diretta e parecchio fuori luogo.”

“Volevo solo dire... Dio, sei impossibile!” ringhia, affondando il volto nella coppa di gelato all'amarena che gli hanno appena portato.

“Un gelato a quest'ora di notte, è assurdo.”

“Ho caldo.”

“Vorrei soltanto qualche risposta. E non devi preoccuparti per me, non sei mia madre.”

“No, non lo sono” il suo sguardo è strano, mentre ribadisce quest'ovvietà, come se diventasse ancora più cupo, ma non credo sia perché è conoscenza della morte dei miei genitori, sembra un turbamento più personale. “Perché ti hanno portato al Rotschild?”

“Che domanda idiota, perché ero finita in mezzo ad un'esplosione, no?”

Mi fissa senza proferire parola.

“Cosa c'è di strano?” mi costringe a chiedere.

“C'è di strano che il Rotschild non è di certo l'ospedale più vicino al luogo dell'incidente e non è nemmeno il più attrezzato per curare ferite come le tue. Non avevi fratture, giusto? No, impossibile, saresti ancora ingessata.”

Stavolta sono io a fissarlo muta.

“Se le tue condizioni fossero state critiche, avrebbero potuto ricoverarti al Lariboisière, in rue Ambroise-Paré, a meno di dieci minuti da qui. Oppure sarebbe stato sensato rivolgersi al Cochin, che ospita il più attrezzato centro di trattamento ustioni della città. Ma il Rotschild è lontano e specializzato in riabilitazione e odontoiatria.”

“Sei un medico?”

“No, figurati!”

Già, sarebbe stato troppo bello per essere vero, un dottore non avrebbe avuto il conto in rosso.

“Forse era l'unico ospedale con camere disponibili” ma la spiegazione suona sterile anche alle mie orecchie. D'altra parte perché qualcuno avrebbe voluto ricoverarmi in un luogo, piuttosto che in un altro? E chi, poi? Mentre sto per convincermi di quanto sia assurdo, ripenso al losco individuo travestito da infermiere e alla paura provata in sua presenza. Ok, forse era un vero infermiere e io ero solo inquieta e stordita, ma se invece Gabriel fosse a conoscenza di una qualche cospirazione in cui io fossi finita per sbaglio? Magari non è un fanatico sostenitore degli UFO, ma solo un uomo informato dei fatti.

“Forse” mormora soltanto, con uno sguardo che mostra chiaramente quanto poco creda alle sue parole.

“Se sai qualche dannatissima cosa, sei dannatamente pregato di riferirmela, cazzo!” gli urlo in faccia, sorpresa di quanto sia liberatorio lasciarsi andare al turpiloquio. “Sono stanca e non ho voglia di giocare agli indovinelli.”

“Alex, non mi diverto a torturarti, per quanto sembri pensarlo” urla anche lui, ma più con tono di difesa, che aggressivo. “Sto soltanto facendo ipotesi, come ne facevamo insieme prima che succedesse il fattaccio”

Stacco con rabbia un morso dal mio panino, ma impiego un po' per gustarne il sapore, perché tutta la mia energia è concentrata sul cercare di capire se e cosa mi stia nascondendo il mio interlocutore.

Sembra sincero, devo riconoscerglielo, ma è anche evasivo e guardingo nel parlare, come lo è nel guardarsi intorno; cerca di porre domande più di quanto non voglia dare risposte e, quando è costretto a farlo, pesa attentamente le parole, quasi gli costassero un tanto a sillaba. No, non è del tutto sincero con me, potrei metterci una mano sul fuoco, eppure non riesco a pensare a lui come a un bugiardo.

Forse il mio istinto si è particolarmente sviluppato per compensarmi della perdita di memoria, o forse sono io a volermene convincere, ma, per quanto assurda sia tutta questa situazione, e per quanto non lo ammetterei mai in sua presenza, con Gabriel mi sento al sicuro, proprio come mi sentivo in pericolo con lo staff dell'ospedale. Sono sensazioni, niente di più, ma, ora come ora, non ho molto altro su cui basarmi per tirare avanti.

“Come ci siamo conosciuti?” lo guardo attraverso le palpebre aggrottate, sperando di avere un'aria minacciosa.

“Ci siamo incontrati a Pigalle. Per caso” aggiunge dopo un attimo di esitazione, che puzza di frottola.

“Quindi sei quel tipo d'uomo, eh?”

“Certo” alza le braccia la cielo, quasi facendo cadere il cucchiaino. “Purtroppo non ho abbastanza denaro per il Moulin Rouge, ma frequento i locali di spogliarelli da quattro soldi.”

Sento un sorriso che cerca di farsi largo sulle mie labbra e sono costretta a sforzarmi per non farglielo notare.

“Quei locali dove la ragazze ballano intorno a pali instabili e untuosi e ti si strusciano addosso per pochi euro. E' lì che ti ho incontrata, stavi arrotondando lo stipendio. Non ti agitare” aggiunge subito, probabilmente vedendomi sgranare gli occhi e aprire la bocca per dirgli esattamente dove avrebbe potuto mettersi un qualsiasi genere di palo. “Mi sembri abbastanza provata.”

“Tu mi stai provando.”

“Ci siamo incontrati nel vicolo vicino alla Brasserie L'Epoque, stavamo cercando entrambi il negozio.”

“Quale negozio?”

“Quello di vernici.”

“Sei un pittore anche tu?”

“Ti sembro un pittore?”

“So un accidenti cosa tu possa essere!”

“Sono un investigatore privato” mi mente con poca abilità.

“Mostrami il tesserino, allora.”

“Privato nel senso che investigo per conto mio” quando si indigna arriccia il naso in una smorfia graziosissima e acquista quell'aria da cucciolo arruffato che lo rende irresistibile e mi impedisce di mandarlo al diavolo.

“Allora sei un ficcanaso, non un investigatore.”

“D'accordo, sono un impiccione, un molestatore, chiamami pure come vuoi, non mi interessa.”

“A me sì, visto che sei venuto a cercarmi.”

“Non sono venuto a cercarti, abbiamo attaccato discorso mentre cercavamo quel negozio e da allora abbiamo condiviso, non senza un po' di difficoltà, alcune conoscenze” se fosse un cane, avrebbe tutto il pelo ispido e la coda gonfia. “Con molte difficoltà oserei dire!”

“Sicuramente tutte derivate dal tuo brutto carattere.”

“Senti, lasciamo perdere, adesso ti riaccompagno a casa” fa per alzarsi, ma io non ho nessuna intenzione di tornarmene a letto senza qualche spiegazione.

“Non pensarci neanche. Hai fatto un gran casino fino ad adesso e non ho ancora capito niente sul perché ci frequentassimo, cosa stessi cercando o su quella tua teoria dell'attentato” lo afferro per il braccio, trattenendolo; la sua pelle è incredibilmente calda sotto le mie dita, come avesse un febbrone da cavallo, ma non è sudato, né sembra debilitato. Lo osservo meglio: in effetti il suo volto è tirato e gli occhi sono cerchiati da leggeri aloni violacei, ha l'aria stanca, al di là di quella sua prorompente vitalità, e, a ben guardare, non pare sentirsi troppo meglio di me, nonostante si sforzi di non darlo a vedere. “Scusami, anche tu avevi detto di non esserti sentito bene” mi ricordo solo ora.

“Non è niente e di certo non è paragonabile a quello che hai passato tu.”

“Comunque non è una gara e non mi interessa stabilire un vincitore per i nostri acciacchi. Ma non voglio andarmene da qui con più dubbi di quando sono arrivata. Per favore.”

Sospira, forse rassegnato, forse sorpreso dal mio cambiamento di tono. So essere gentile, se voglio e soprattutto se credo la persona con cui mi sto relazionando lo meriti.

“Ti avevo già raccontato perché stessi ficcanasando, come dici tu, in questa storia.”

“E io ti ho già detto che non ricordo più un cavolo di niente.”

“Nessun dettaglio, nemmeno a grandi linee?”

“No, il buio più assoluto” e mi accorgo con sdegno che la mia voce continua a tremare, ammettendolo.

“Il dottore cosa ha detto?”

“Ben poco, era un incompetente” adesso che ci penso non si è proprio degnato di darmi spiegazioni sul mio stato di salute, a parte cercare con ogni mezzo di propinarmi altri calmanti. Certo, io non sono stata una paziente accomodante, ma stavo male, quindi sarebbe toccato a lui mostrarsi comprensivo e professionale. “In effetti non ho mai detto al dottore di non ricordare niente, ma sembrava averlo intuito, anche se ignoro come possa aver fatto. Potrei anche sbagliarmi, ma sono quasi certa che la nostra prima conversazione, per quanto animata, non desse adito a pensare ad un problema di amnesia. Ho chiesto dei miei genitori, mi pare, e forse ha pensato, giustamente, che non li ricordassi, ma non è molto per una diagnosi, tanto più che non ha dato adito a preoccuparsi del problema. Lì per lì avevo pensato fosse stato l'infermiere maniaco ad avvertirlo...”

“Infermiere maniaco?”

“Ma il dottore ha negato che qualcuno del genere fosse mai entrato nella mia stanza.”

“Non ne dubito, visto la pessima pubblicità che riceverebbe l'ospedale se si sapesse che permettono ad infermieri del genere di girare per le corsie.”

“No, Gabriel, parlo sul serio. Se non è stato informato da quel tale, come poteva dire all'ispettore che soffrivo di una grave forma di amnesia? Ha parlato di un trauma cranico e dello shock, ok, ma poteva formulare solo ipotesi e avrebbe dovuto quanto meno convalidarle.”

“Magari era meno incompetente di quanto tu pensassi” di nuovo avverto benissimo che sta dicendo qualcosa in cui non crede e inizio a supporre lo faccia quando non vuole rivelarmi altro a cui, forse, potrei non credere io.

“Comunque avrebbe dovuto spiegarmi come gestire questo problema e, eventualmente, come fare per guarire.”

“Sicura non si tratti solo di una forma di rimozione dovuta al trauma?”

Mi stringo nelle spalle, perché proprio non ne ho idea.

“So solo che ricordo benissimo qualsiasi cosa non riguardi specificatamente la mia persona: eventi storici, dati scientifici, nomi di politici, strade e palazzi della città, ma tutto sembra un film a cui non ho partecipato. È frustrante, te lo assicuro.”

Mi fissa senza commentare, saggiamente, perché non esistono parole adeguate da dire in situazioni del genere. Sembra concentrato, ma, non essendo un medico, dubito possa inventare una cura miracolosa in grado di restituirmi il passato; la sua preoccupazione è evidente, ma c'è anche qualcos'altro, nei suoi occhi, mentre li incatena ai miei: dubbio, sospetto, inquietudine, tutte emozioni comprensibili, ma la cosa strana è che non paiono rivolte a me in particolare, bensì a qualcosa che, in qualche modo, sembra essere entrato in contatto con me, avvolgendomi in quest'assurda aura di mistero.

Non so per quanto tempo rimanga in silenzio, potrebbero essere stati istanti o interi minuti; mi sono anche scordata di mangiare, aspettando un segno di qualche genere da parte sua, un parere, un'idea, magari, ma tutto quello che ottengo, alla fine, è una scrollata di spalle, più nervosa che noncurante, con la quale non sembra voler liquidare i miei dubbi, ma solo immagazzinarli per rianalizzarli al momento giusto.

Mangia un'altra cucchiaiata di gelato ormai sciolto e si decide ad assumersi il peso della conversazione.

“Avevo un gruppo di amici” ne parla con tono distaccato, ma serra i pugni tanto forte da far risaltare l'intrico bluastro delle vene. “E' rimasto coinvolto nella seconda esplosione. Io avrei dovuto essere con loro, ma mi ero attardato a fare qualcosa che i miei compagni mi avevano chiesto di non fare.”

“Direi che quel ritardo ti abbia salvato la vita.”

“Oppure l'ha fatta perdere a loro.”

“Come?”

“Magari fossi stato lì avrei potuto accorgermi di qualcosa” lo guardo scettica. “Comunque non è importante, loro sono morti e io sono vivo. Adesso posso solo cercare di scoprire chi li abbia ammazzati, visto che la polizia non ci capisce niente.”

Non vorrei sembrare insensibile, anche perché, nonostante l'aria da duro, si vede benissimo quanto il dolore, misto al senso di colpa, lo stia logorando, ma la prima domanda che mi viene alle labbra, di fronte alla sua confessione, è un cinico: “E cosa c'entro io?”

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Capitolo 10
*** Cenere ***


“Tu avevi accettato di aiutarmi” replica come se questa potesse essere una spiegazione lapalissiana.

“Ma perché?”

“E io avevo accettato di aiutare te, visto che tu e il tuo amico sembravate brancolare totalmente nel buio.”

“Stavamo indagando sugli incendi? Perché?” mi accorgo di sembrare un disco rotto, ma davvero non riesco a formulare domande più intelligenti. A meno che tutti non mi abbiano mentito, io sono una maestra elementare e Emile era un pittore, non vedo che motivo potessimo avere per ficcare il naso in certi avvenimenti. “Avevamo perso qualcuno in quegli incidenti?”

Potrebbe essere una spiegazione abbastanza logica, per quanto, comunque, mi appaia strano immaginarmi nelle vesti del tenente Colombo dei poveri; l'ispettore aveva detto che gli unici altri quadri venduti da Emile si trovavano nei luoghi delle precedenti esplosioni, ma, se dovessi avvallare un'ipotesi partendo da questo presupposto, dovrei giungere ad una conclusione troppo inquietante per potervi credere, perché sembrerebbe quasi confermare l'idea che stessimo facendo ben più che delle semplici indagini. Certo, se il mio amico avesse pensato di essere finito nel mirino di un qualche maniaco nemico dell'arte, votato a distruggere i suoi capolavori, avrebbe anche potuto voler scoprire cosa stesse succedendo, ma io sarei stata davvero folle a seguirlo in questo proposito.

Guardo l'uomo seduto davanti a me: spalle larghe e ben salde, nonostante sembrino sostenere un peso troppo gravoso per essere anche solo immaginato; sguardo crucciato, ma deciso; volto duro, risoluto al di là delle rughe di preoccupazione che ne solcano la pelle intorno agli occhi in un arazzo intricato e appena percettibile. Non riesco a comprenderlo e non comprendo neanche perché continui a starmene seduta qui in sua compagnia, visto che di risposte, fino ad adesso, ne ho racimolate ben poche, ma non voglio andarmene, non voglio allontanarmi dall'assurda sensazione di sicurezza che mi pervade quando l'ho vicino.

“Non prima di Emile” scuote la testa. “Ed era stato proprio lui a mettere il naso in qualcosa di pericoloso.”

“Cosa?”

Si guarda intorno per l'ennesima volta, nonostante, data l'ora, anche l'ultimo avventore abbia abbandonato il caffè da qualche minuto e ci abbia lasciato soli con il cameriere che ciondola in un angolo, fingendo di piegare dei tovaglioli, e il barista totalmente disinteressato alla nostra presenza.

La radio gracchia un brano pop abbastanza obsoleto e, escludendo microspie nascoste nella tovaglia, dubito qualcuno potrebbe sentire qualsiasi cosa pensi di dirmi, ma si protende ugualmente verso di me prima di decidersi a parlare, praticamente alitandomi in bocca le ultime parole.

“Il tuo amico cercava di scoprire la verità spennellando” sussurra serio, subito ritraendosi al mio gesto di stizza involontario.

“Davvero?” lo fisso con aria falsamente innocente, allargando gli occhi per quanto me lo concedano le palpebre, in un'espressione di sarcastica ingenuità. “Era un pittore e cercava se stesso nei suoi dipinti, ma quale mistero!”

“Non cercava se stesso” perde subito la calma e dimentica di mantenere bassa la voce. “A volte la ricerca di se stessi può essere anche più pericolosa.”

“Vogliamo metterci a filosofeggiare all'una del mattino? Allora propongo di indagare su cosa sia nato prima, se l'uovo o la gallina.”

“Cercava di ritrarre fedelmente quella casa.”

In effetti questo coincide col filmato; Emile farneticava di qualche verità sconosciuta e di rivelazioni.

“La villa di Morel?” trattengo un brivido nel ripensare a quel luogo sinistro e desolato in cui, non so come, avevo avuto la malaugurata idea di avventurarmi, ma la reazione di Gabriel è anche più irrazionale, perché mi afferra il polso con forza, quasi trascinandomi via dalla sedia, pronto a scattare come se stesse per crollarci il soffitto sulla testa, mentre le luci tremolano fiocamente nelle appliques polverose appese intorno a noi e, alla radio, una strana musica lamentosa e triste, quasi un pianto a stento trattenuto, dai toni vagamente arabeggianti, interrompe per qualche attimo gli acuti spaccatimpani di quella che suppongo fosse Britney Spears, risvegliando dall'apatia il barman, rapido a assestare una serie decisa di colpi all'innocente strumento.

Non mi sento tranquilla e la cosa mi infastidisce parecchio, anche perché non ha assolutamente senso; un attimo prima sto intavolando un'assurda e poco fruttuosa conversazione con un criptico semi-sconosciuto, affascinante quanto irritante, nonché al verde, e il secondo dopo ho tutti i muscoli tesi e i peli delle braccia ispidi come la coda di un gatto irritato. È assurdo.

Avverto anche, di nuovo, quel caldo improvviso, soffocante e appiccicoso che mi aveva tanto tormentato a casa mia, ma ora potrebbe essere causato dalla mano del mio compagno che sembra fuoco vivo sul mio braccio, mentre ignora facilmente i miei tentativi di liberarmi dalla sua presa e continua a fissare minaccioso le ombre vuote che si sono fatte via via più profonde e imponenti nella sala deserta, scivolando intorno a noi in lingue sinuose quasi dotate di vita propria.

Non so se avessi tanta immaginazione anche prima dell'incidente, ma ora sono di certo troppo impressionabile, perché scatto come una molla quando la tazza del mio cappuccino tintinna e si inclina, apparentemente senza motivo, rovesciando sul tavolo parte del liquido spumoso che si allarga in una pozza di colore scuro che, nella semioscurità, pare fin troppo simile a sangue.

Probabilmente è normale essere suggestionabile dopo uno shock e dopo aver assunto droghe, seppur a scopo terapeutico, ma giurerei che il ringhio basso fuoriuscito dalla gola di Gabriel non abbia niente di umano.

Per fortuna le luci riacquistano subito vivacità e il cameriere riesce a sintonizzare di nuovo la radio su di una frequenza normale, ma devo deglutire un paio di volte prima di essere certa di poter parlare con voce salda e chiedere al mio accompagnatore di tornare a sedersi dal suo lato del tavolo.

Lo fa di malavoglia e rimanendo in guardia, come fossimo in procinto di subire un qualche tipo di attacco terroristico.

Non per la prima volta mi dico che sarebbe più prudente alzare i tacchi, correre a casa e mettere il chiavistello tra me e questo pazzoide, ma poi lo fisso negli occhi e ogni sospetto di follia o di crudeltà torna a svanire di fronte al disarmante candore di quello sguardo tormentato.

“Bene” tossicchio dopo qualche minuto, stufa di quest'imbarazzante silenzio. “E' evidente che nel quartiere ci sia qualche grave disfunzione nella rete elettrica. Da un certo punto di vista è consolante, perché ho lottato tutta la sera con gli elettrodomestici di casa e temevo di dover ricomprare tutto, se non di dovermi trasferire.”

Mi fissa senza fare commenti.

“In ogni caso, il fatto che Emile si fosse fissato su un certo soggetto, per quanto lugubre, non lo rende diverso da tutti gli altri artisti che bazzicano per Parigi o vi abbiano bazzicato in passato. Hai presente le ninfee di Monet? Se non sbaglio sono protagoniste di più di duecento dipinti.”

Ancora silenzio.

“Non che pretenda di paragonare il mio amico a Monet, anche se, non ricordando le sue opere, non posso proprio esprimere giudizi. Ho provato a cercare il suo sito su internet, ma anche il computer faceva i capricci.”

“Non avresti trovato nulla.”

“Come?”

“Non c'è niente di Emile in rete.”
“Ma Philippe mi ha detto...”
“Che aveva aperto un suo sito, sì. Dietro tuo consiglio, tra l'altro. Ma è rimasto attivo solo dodici giorni e dalla notte di Halloween non è più possibile visionarlo.”

“La polizia l'ha chiuso per le indagini?”

“E sai che è successo al web master che l'aveva pubblicato? Non si trova più” adesso sembra infervorato, proprio come succederebbe ad un fanatico delle cospirazioni intento ad enunciare le presunte prove atte a sventarne una.

“Come lo sai?”

“Ho indagato” di nuovo la sua voce sembra più un ringhio, mentre stringe i pugni sul bordo del tavolo, forse immaginando di torcere la mia gola invece dell'asse di legno. “Non sono uno sprovveduto.”

“Non l'ho mai pensato” e sono sincera perché, tra tutti i difetti che posso avergli cucito addosso, questo non mi era ancora venuto in mente. “Ma non riesco a seguire la tua logica: Emile sarebbe stato in pericolo a causa di ciò che ritraeva e, addirittura, qualcuno si sarebbe preso la briga di oscurare il suo sito e farne sparire l'amministratore. Se fossimo in qualche telenovela o in un film poliziesco di serie b avrebbe senso, ma così è totalmente paranoico.”

“Non è paranoia, sono solo dati di fatto.”
“Anche i dati di fatto si possono distorcere e rendere insensati, se vogliamo inventarci qualche teoria bislacca. So di fotografie presumibilmente scattate a ufo o fantasmi, ma, per quanto ben fatte, rimangono solo fotomontaggi.”
“Tu non credi a queste cose, giusto? Non credi al sovrannaturale” risponde alla propria domanda senza permettermi di controbattere, ma non ho motivo di negarlo.

“Non credo neanche a Babbo Natale o al Coniglio pasquale, quindi se progetti di dirmi che sia stato uno di loro a provocare gli incendi sappi che propenderò sempre per la mia teoria.”

“Ovvero?”

“E' stato il maggiordomo!”

Penso quasi che, se non fossimo in pubblico, mi salterebbe al collo, ma ricaccia in gola qualsiasi risposta pungente avesse in mente e tira un paio di respiri profondi per calmarsi.

“Gabriel, non sono qui per ascoltare amenità” cerco di parlare col tono calmo e ragionevole che penso si dovrebbe usare con i bambini. “Ma tu non hai idea di cosa significhi non ricordare assolutamente niente di sé, arrovellarsi in cerca di un qualsiasi spunto che faccia riaffiorare un barlume di consapevolezza, un deja vu, uno sprazzo di memoria. Non immagini quanto mi faccia infuriare dover rimanere a guardarti in faccia, chiedendomi se l'avessi davvero già fatto in passato o se tu non mi stia solo ingannando, per chissà quale motivo, confondendomi con assurdità e dettagli inutili, senza deciderti a dirmi niente di concreto su ciò che più mi premerebbe sapere.”

Mi rendo conto di aver controllato ben poco la voce nonostante i miei migliori propositi, ma preferisco essere arrabbiata piuttosto che impaurita o confusa e non mi importa di passare per isterica. Di certo avrei potuto convincermi meglio di aver recitato la parte della donna forte e con le palle quadrate se la mano di Gabriel non si fosse posata con tocco gentile sulla mia guancia, raccogliendovi una dannata lacrima che non mi ero accorta di aver versato. Scosto il volto, nascondendolo dietro ad un ciuffo di capelli sfuggiti al mio barbaro chignon. Non voglio che mi veda in questo stato e non voglio essere compatita. Inoltre non voglio assolutamente che sia tenero nei miei confronti, perché sono in una fase troppo vulnerabile e potrei passare sopra al fondamentale dettaglio del conto in banca in cambio di un po' di conforto e comprensione.

“Emile era convinto che la vernice con cui stava dipingendo le sue opere fosse speciale e che gli avrebbe permesso di scoprire la verità”

“La verità su cosa? Per quanto cupa, quella villa è solo una vecchia casa disabitata, che chiunque può vedere, fotografare...”

“Tu non gli credevi quando sosteneva di essere sul punto di scoprire ciò che si nascondeva in quel luogo, proprio sotto il vostro naso, e che solo grazie ai suoi quadri sarebbe stato svelato a tutti gli abitanti di Parigi. Emile era certo di poter svelare il mistero di Jacques Morel.”

“L'uomo d'affari?”

“Sì, l'imprenditore, il criminale o anche l'occultista. Era un uomo dai molti soprannomi e dagli oscuri interessi.”

“Ho letto qualcosa su di lui, ma, a parte le solite storie ricamate dagli amanti dell'occulto su ogni vicenda drammatica o criminosa che sia mai accaduta negli ultimi cinquecento anni, non mi pare ci siano misteri riguardo alla sua persona: è impazzito, ha ucciso sua moglie e poi si sia suicidato. Ho pensato fosse proprio questa storia così sordida ad aver ispirato la fantasia malata di Emile, ma non capisco perché volesse giocare al piccolo investigatore.”

“In realtà Emile si è interessato a questa storia solo dopo aver trovato quella vernice. Prima i suoi quadri erano insulsi paesaggi parigini, di quelli che si trovano sulle bancarelle vicino a Notre Dame. Non erano neanche dipinti bene, la sua pennellata era insicura e le scelte cromatiche pessime. Ti sto riferendo quello che tu mi hai raccontato, niente di più: di punto in bianco pare avesse iniziato a cambiare, a farsi più cupo, allucinato, ma anche terribilmente più bravo nel suo lavoro, come se avesse scoperto una vena di talento che non sapeva di possedere, ma, parole tue, che lo stava consumando almeno con la stessa violenza con cui stava alimentando le sue opere. Credevi che quella vernice fosse tossica o contenesse qualche strana droga, per questo stavi cercando il negozio in cui l'aveva comprata e ti arrabbiavi quando il tuo amico continuava a sostenere che non esistesse un indirizzo preciso presso cui recarsi, ma che, se davvero l'avessi voluto, sarebbe stato il padrone del negozio a trovarti.”

“Perché non mi sono rivolta alla polizia?”

“Perché non volevi mettere nei guai Emile e forse perché credevi di poterlo tenere a freno.”

“Anche dopo le esplosioni? Non ho pensato fosse proprio quella strana vernice a provocarle? Adesso lo penso e non so neanche la metà di ciò che sapevo allora.”

“Tornavi spesso a questa teoria, ma la scartavi anche con altrettanta frequenza.”
“Perché?”

“Non lo so Alex, era complicato e tu eri complicata, anzi, ora lo sei anche di più.”

“Ah ah ah, davvero spiritoso” lo guardo storto. “Solo perché mi rifiuto di credere che un'astronave aliena sia atterrata sull'Arco di trionfo o che Jack o'lantern si sia messo a piazzare zucche esplosive in qualche mostra d'arte, io sarei complicata?”
“Dannazione Alex!”

“O magari sono strana perché me ne sto qui ad ascoltare un estraneo, invece di essere a godermi i magnifici sbalzi termici del mio appartamento.”

“Sbalzi termici?”

“Sì, è incredibile: si passa dalla calura tropicale al gelo polare, ma non preoccuparti, probabilmente è a causa delle medicine che mi hanno dato. O forse sono in menopausa e ho le caldane.”

“Andiamo” si alza di scatto, quasi rovesciando la sedia e buttando un pezzo da venti euro sul tavolo senza neanche chiedere il conto.

“Dove?”

“Ti porto a casa.”

“A casa tua?”

“No, a casa tua” mi guarda, ripensando solo dopo un attimo alle mie parole, perplesso. “Vorresti venire a casa mia?”

“Certo che no” ribatto indignata. “Perché dovremmo andare a casa mia, comunque?”

“Primo ti metto a letto”

“Cosa?” sto praticamente correndogli dietro e non mi interessa di disturbare la quiete pubblica con qualche schiamazzo.

“Dopo che avrò controllato che tutto sia a posto.”

“E' tutto a posto e non credo tu sia un elettricista.”

“Alex, per favore” si ferma all'improvviso e mi afferra per impedirmi di cadere dopo essergli andata a sbattere contro. “Non sono un maniaco e non sono tuo nemico. So che non hai motivi per credermi, ma ti prego di darmi la possibilità di provartelo.”

Onestamente non so cosa dire, la ragione suggerirebbe una risposta completamente diversa da quella dettata dall'istinto, così mi limito a fissarlo come un'ebete, scervellandomi per trovare le parole giuste che magari non esistono neppure.

“Prima di tutto, non dirmi più cosa fare o non fare” sbotto alla fine. “E' una cosa molto fastidiosa.”
“Lo faccio soltanto perché ti vedo confusa.”
“Non ne ho ragione, forse?”

“Non ho detto questo!” si passa una mano tra i capelli e noto un leggero velo di sudore che gli imperla la fronte. “Dio, sei impossibile.”

“Si dice prudente, anche se non credo proprio di esserlo abbastanza” non posso tenerlo ancora qui fuori, fa freddo ed è evidente che stancarsi peggiori il suo malessere. Odio essere indecisa e tentennare, per quanto non faccia altro da quando possa ricordare, ma davvero non trovo una soluzione soddisfacente al mio dilemma, così, senza chiedermi dove passi il confine tra ottimismo e pura pazzia, alla fine apro bocca a vanvera e non mi do il tempo per ritrattare.

“Cinque minuti soltanto, d'accordo?”

“Anche meno se sarà possibile.”

Sembra sollevato ed esasperato ad un tempo, mentre cerco di seguirlo a passo svelto e sono quasi costretta a trotterellargli dietro come una bambina, maledicendo la mia stupidità e assurdamente rallegrandomene. Se domattina sarò ancora viva e vegeta, devo ricordarmi di non raccontare mai a Jas di questa bravata, perché potrebbe decidere di trasferirsi da me in pianta stabile o di rinchiudermi in un ospedale psichiatrico fino alla fine dei miei giorni.

D'altra parte io voglio sapere cosa stessi combinando prima di finire in questo pasticcio e dubito potrei trovare risposte tramite i canali convenzionali, quindi sono necessariamente costretta ad arrangiarmi e non è colpa mia se l'unico ad apparire minimamente informato dei fatti è questo ragazzo dai modi inopportuni e dal sedere da favola.

Vorrei anche che la mia memoria non facesse i capricci, che il conto in banca di Gabriel comprendesse una cifra ad almeno cinque o sei zeri e che questa strada non fosse deserta e taciturna come una chiesa subito dopo la funzione, ma, se avessi potuto scegliere quale desiderio realizzare, non avrei proprio deciso per quest'ultimo. La vita è ingiusta, lo capisco quando, quasi dal nulla, vedo apparire un'altra ragazza che scende con grazia la scalinata di rue Chappe e sembra venirci incontro. Attento a ciò che chiedi ecc..., dovrò ricordarmelo, in futuro.

Non so come abbia fatto a non notarla da lontano, splendente sotto la luce tremula dei lampioni, visto che, oltre ad essere abbastanza alta, è anche dannatamente appariscente, con lunghi boccoli fulvi, una gonna a balze vermiglia, degna di una dama di inizio secolo, e un bustino strettissimo da cui fuoriesce più di quanto sarebbe lecito per la morale comune. Non ho idea di come possa sopportare il freddo pungente della notte, ma non ho dubbi che debba essere una escort, magari del genere sadomaso: le basterebbe un frustino per diventare il perfetto prototipo della dominatrice gotica.

Il mio progetto sarebbe stato ignorarla e fingere di non aver notato che ci stesse guardando, probabilmente a caccia di clienti, ma Gabriel, rinomato frequentatore di Pigalle, è evidentemente di diverso avviso, perché si pianta a gambe divaricate in mezzo alla strada, incurante del fatto che, nonostante l'ora, potrebbe benissimo finire sotto le ruote di una macchina, e si mette a fissarla con sfacciata insistenza.

Sono delusa: a parte tutte le mie proteste e le mie accuse, non credevo fosse davvero il tipo d'uomo attratto da donne del genere. Anche se l'avevo giudicato un po' imbranato nei rapporti con l'altro sesso, pensavo che la sua incredibile bellezza, unita a quel fascino scompigliato, straripante da ogni fibra del suo essere, composto da un incomprensibile miscuglio di dolcezza, forza e vitalità, lo avessero protetto dalla patetica disperazione di doversi adattare al sesso a pagamento.

Osservo sorridere l'avvenente sconosciuta, probabilmente certa di essersi appena guadagnata la serata, ma il suo volto, per quanto obiettivamente bellissimo, non riesce a piacermi neanche un po': i suoi lineamenti perfetti sono troppo freddi e spigolosi, gli occhi, per quanto grandi e circondati da ciglia surreali, sono vuoti e inespressivi, ma è soprattutto il suo sorriso a provocarmi un brivido lungo la schiena perché, a parte essere ovviamente finto, come ci si potrebbe aspettare da una prostituta che adeschi un cliente, ha un lascivo sapore amaro di pura malignità e si allarga su una fila appuntita e regolare di denti piccolissimi, talmente bianchi da ricordarmi quelli dello strano infermiere maniaco.

Mi chiedo se la mia antipatia non derivi solo da un'ingiustificata gelosia per il suo fascino esotico e sensuale, nonché per la sua eleganza un po' volgare paragonata alla mia felpa informe e ai miei jeans malconci, ma tutto sommato non credo sia questo a farmela guardare storto. E di certo non è questo che la fa guardare storto anche da Gabriel, il quale, poveretto, è stato di nuovo vittima dei miei giudizi troppo affrettati e, lungi dall'aver mire sconce su quella tizia, sembra esserne piuttosto infastidito. Non appena smetto di giudicarlo male, infatti, mi rendo conto di come i suoi occhi siano minacciosi, piuttosto che libidinosi, e di come i suoi muscoli siano nuovamente tesi e pronti a scattare, di certo non per un repentino attacco di lussuria, ma per quella sua strana paranoia che lo spinge a spostarsi leggermente tra me e la sconosciuta, quasi volesse proteggermi.

Sono un po' stufa di essere trattata come una bambolina di porcellana e non vedo neanche quale minaccia possa rappresentare una escort dagli abiti originali e dall'aria più perfida che ammiccante, ma in quest'occasione evito di protestare, forse per scusarmi dei miei cattivi pensieri precedenti, e gli tiro semplicemente una manica, invitandolo a seguirmi e lasciarla alle sue attività.

Per un attimo sono certa che non mi abbia neanche sentito e mi chiedo se per lui quella donna non sia ben più della sconosciuta che credo, perché altrimenti non avrebbe senso tanta rabbia nell'osservarla. Sembra un lupo che fissi una preda, anzi un lupo che si trovi improvvisamente davanti a un qualche strano serpente pericoloso e non sappia decidersi se morderlo o limitarsi a ringhiargli contro.

“Ce n'è di gente strana a quest'ora, eh?” dico a voce abbastanza alta da scuoterlo dalle sue fantasticherie, qualunque esse siano. “D'altra parte siamo vicini ad un quartiere particolare e dobbiamo aspettarci di tutto.”

Non ottengo assolutamente il risultato sperato perché Gabriel continua a ignorarmi, ma la sconosciuta, evidentemente offesa dalla velata allusione alla sua professione, volge su di me uno sguardo talmente infuocato che potrei giurare di vederlo sfumare in leggere volute di vapore intorno alla sua testa. Non capisco perché se la prenda tanto, d'altra parte non è colpa mia se fa la prostituta, d'alto o basso bordo che sia.

C'è proprio qualcosa di sbagliato in lei e non ha niente a che vedere coi vestiti, con il trucco o con l'aspetto fisico in generale. Probabilmente è una semplice antipatia a pelle, ma, adesso che mi sta fissando, provo l'irrefrenabile impulso o di andarmene velocemente o di alzarle contro il dito medio in un gesto ben poco carino e del tutto ingiustificato.

Prima di fare una qualsiasi delle due cose, tiro di nuovo la manica del mio accompagnatore, ma è la donna a prendere l'iniziativa e sbloccare questo assurdo impasse, riprendendo a fluttuare per la sua strada con una fastidiosa risatina sardonica sulle labbra, quasi si fosse divertita a nostre spese senza che ce ne accorgessimo neanche.

Rimaniamo stupidamente a fissarla fino a che la scia del suo profumo pungente e, a par mio, dozzinale non si disperde nell'aria.

“La conoscevi?” a questo punto mi sembra una domanda legittima.

“Sì.”

Aspetto un attimo per vedere se aggiunga qualcosa, ma si limita a riprendere a camminare come se nulla fosse successo, ignorando gli epiteti coloriti che indirizzo contro la sua schiena.

Ha una falcata decisa e veloce, ma non riesce a nascondere il leggero affanno che gli mozza il respiro, non appena si ferma davanti alla porta di casa mia.

“Sicuro di farcela?” non posso evitare di chiedergli. “Ci sono diverse rampe di scale.”

Mi guarda come avessi bestemmiato e digita il codice di sicurezza senza attendere neanche che tiri fuori la chiave.

Spero di averglielo confessato io e che non l'abbia estorto ad uno dei vicini.

“Ancora non mi capacito di averti riportato qui” borbotto, precedendolo lungo l'androne. “Sia chiaro che non è un modo per proporti qualcosa di intimo.”

“Intimo?”

“Mi hai capito benissimo!”

“Neanch'io ho certe mire su di te, sia chiaro” scimmiotta il mio tono, stringendo le labbra in un'espressione poco rassicurante.

“Certo, a te piacciono coi capelli rossi e il seno abbondante.”

“Quella donna non mi piace e non mi piace gironzoli qui in giro.”

“Non è così strano.”
Mi guarda interrogativo.

“Insomma, probabilmente lavora in qualche locale di Pigalle e viene qui ad arrotondare lo stipendio.”

“Non è una puttana” arriccia il naso con disgusto. “Almeno non di quelle che intendi tu.”

“E' una tua ex?” non dovrei chiederlo, rischio di apparire troppo interessata, ma non riesco ad ignorare l'astio che grondava dalle sue parole. “Ti ha fatto soffrire?”

“Sì, ma non sono mai stato con lei.”

Forse è solo una tipa eccentrica e parecchio sussiegosa che si diverte a flirtare con gli uomini per poi lasciarli con un palmo di naso, ma, non so bene perché, mi sembra una spiegazione troppo semplicistica.

“Tu stalle lontana, se per caso dovessi incontrarla di nuovo.”

“E tu smettila di darmi ordini.”

“Non è un ordine, è un consiglio!” apre la bocca per ripetere la solita solfa, ma ci rinuncia rassegnato. “Lascia perdere, faresti comunque come ti pare.”

“I consigli dovrebbero essere seguiti da qualche spiegazione, tu invece non fai altro che sputare sentenze, pretendendo che ti creda sulla parola” apro la porta di casa, quasi senza pensare, ma non riesco a varcare la soglia.

Dico a me stessa di voler soltanto ripetere un'ulteriore, inutile raccomandazione al mio improbabile ospite, ma la verità è che ho provato un brivido di disagio nell'affacciarmi sull'oscurità ovattata della stanza, come se avessi esposto il volto a una corrente malsana di fredda umidità che mi fosse penetrata fin dentro le ossa.

Il corpo caldo di Gabriel, subito dietro di me, è ancora più confortante di quanto non voglia ammettere e credo sia l'unica ragione per cui ho evitato di compiere un'azione inconsulta e stupida come sbattermi l'anta sul grugno e allontanarmi di un paio di passi.

Dannazione, è soltanto la mia casa. È piccola, confortevole e silenziosa. Magari è vecchia e le pareti sono un po' umidicce, ma non è l'antro di una bestia, come l'istinto vorrebbe farmi credere, e io non sono una bambina spaventata dal buio.

Non mi lascerò turbare da fantasie malate, né da questi strani cigolii, che sembrano scivolare verso di me come una torma crepitante di scarafaggi famelici, e sicuramente derivano solo dalle scosse di assestamento di questi vecchi mobili di legno.

Non so bene a quanto ammonti il mio stipendio, ma giuro che ne spenderò una buona parte per ristrutturare questo posto.

“Mani a posto, ok?” lo ammonisco senza guardarlo, solo per ascoltare il suono della mia voce e scuotermi da queste fantasticherie morbose. “So difendermi bene.”

Proprio per dimostrarlo a me stessa, mi tuffo nell'appartamento, accendendo la luce e minacciando con aria torva il vuoto che mi accoglie, un po' attonito e un po' beffardo.

“Sei un'esperta schermitrice, lo so” non si allontana di un passo da me, anzi appoggia la mano alla parete, arrivando praticamente ad abbracciarmi, nel minuscolo spazio in cui è costretto a muoversi per non montarmi addosso.

Sembra ancora più imponente, racchiuso tra queste quattro mura, e mi aspetto quasi di vederlo incastrarsi tra il lavello e l'attaccapanni, ma non mi sento oppressa dalla sua presenza, né lui, a onor del vero, si muove con minor grazia a causa delle sue dimensioni.

“Avevi cambiato palestra da poco” si guarda intorno con un'aria che potrebbe mettere a disagio qualcuno con più buonsenso di me, ma che io, al momento, trovo rassicurante, oltre che paranoica. “Ne avevi scelta una in Rue de Condé, perché ti insegnavano misure di fioretto non convenzionali.”

“Quindi sono anche più pericolosa di quanto non pensassi” cerco, non senza fatica, di superarlo per chiudere la porta alle sue spalle, ma decide di dimostrarmi subito l'inesattezza delle mie parole perché, senza un apparente motivo e prima che abbia il modo di divincolarmi, mi sbatte alla parete, spegne la luce, serra la mano sulle mie labbra, schiacciandomi completamente col suo corpo, e gira la chiave nella serratura senza produrre il minimo rumore.

Sono in trappola e sono una stupida. Questo maniaco tutto muscoli è almeno quattro volte me, come stazza, e non ha un solo filo di grasso sulle ossa; in questo spazio angusto non ho modo per divincolarmi o difendermi, né posso urlare per chiedere aiuto o prenderlo a calci con un minimo di risultato.

Gli mordo la mano fino a sentire il sapore del suo sangue, mugugno epiteti e provo a liberarmi con movimenti atletici e anche puramente improvvisati, ma non penso neanche per un istante a schiacciare il tasto di chiamata rapida impostato sul cellulare, né mi sento mai veramente in pericolo.

Avverto il suo cuore pulsare violentemente contro la mia guancia e il calore bruciante della sua pelle laddove sfiora la mia; la forza granitica della sua stretta mi fa sembrare incredibilmente piccola e delicata, ma non diventa mai violenta o prevaricatrice e io credo di essere più indignata che spaventata per questo strano placcaggio da guardia del corpo che mi impedisce di muovermi e anche quasi di guardarmi intorno, riempiendo interamente il mio campo visivo con l'ampiezza del suo torace.

“Shhh” mormora soltanto, senza togliere la mano da sopra, e dentro, la mia bocca.

Lo guardo malissimo e continuo a scalciare e squittire per puro spirito di ribellione, finché non sento il suono ovattato di passi leggeri avvicinarsi lungo le scale.

Per quanto sia tardi, non credo di essere l'unica del palazzo a condurre una vita notturna, eppure quel rumore, così lento, ritmico e strascicato mi fa immobilizzare e zittire all'istante, mentre gli occhi si spostano istintivamente a controllare che la porta sia chiusa almeno a doppia mandata.

Probabilmente si tratta di un vicino educato che, rincasando, non vuole svegliare tutti facendo scricchiolare troppo il legno dei gradini, ma vorrei si sbrigasse ad allontanarsi perché il mio corpo non vuole saperne di dare retta alla ragione e sono costretta a far leva su ogni grammo di volontà per non mettermi a tremare.

Gabriel mi stringe più forte, quasi avvertisse il mio disagio, ma io non voglio essere protetta da pericoli immaginari, voglio smetterla di comportarmi come se credessi alla loro esistenza.

Stare con questo tizio strambo sta peggiorando le psicosi provocatemi dall'incidente, eppure non metto troppa convinzione nel provare a divincolarmi di nuovo dal suo abbraccio e mi accontento di tirar fuori un occhio dal mio nascondiglio, per vedere le luci nebulose di Parigi rischiarare appena l'oscurità della stanza, dalla finestrella accanto alla porta.

I passi continuano ad avvicinarsi e proprio quando sono ormai sicura che stiano per superare questo pianerottolo li avverto distintamente girare verso destra e avvicinarsi al mio appartamento.

C'è solo la mia porta, su questo lato di scale, e non so proprio chi altri, a parte Gabriel, potrebbe essere tanto incivile da venirmi a disturbare all'una del mattino.

Ovviamente ci sono varie spiegazioni logiche per chiudere la bocca alle mie fobie: il famoso vicino, magari ubriaco, che ha sbagliato piano; Jasmine venuta a controllare che vada tutto bene; Philippe, avvertito da Jasmine, venuto a controllare che vada tutto bene e che lo sconosciuto auto invitatosi a casa mia non sia un maniaco; un gendarme mandato dall'ispettore... e sono certa di potermi inventare altre tre o quattro storielle ben più credibili dell'ombra scura e contorta che la mia mente malata mi sta facendo intravedere al di là della leggera tenda sulla finestra.

Se l'energumeno che mi sta soffocando si decidesse a scansarsi, potrei andare ad aprire e capire perché qualcuno stia provando a sbirciare in casa mia, ma forse sto usando la scusa offertami dal mio involontario compagno per evitare di affrontare questa paura irrazionale che mi attanaglia le viscere e risale lungo il corpo in un manto uniforme di pelle d'oca tutt'altro che affascinante.

Sono inquieta e detesto ammetterlo, eppure, mentre guardo fuori, oltre il braccio protettivo di Gabriel, non riesco a smettere di pensare che, per nessuna ragione al mondo, quella cosa dovrebbe entrare in casa mia.

Dico “cosa”, ma le fattezze, appena visibili nella semioscurità, sembrano umane, per quanto deformi, come il profilo gobbo e raggrinzito di un vecchio con mani adunche che, adesso, si appoggiano lentamente con i polpastrelli viscidi sul mio vetro. Assomiglia anche alle immagini delle streghe raffigurate sui libri per bambini, ma, non so bene per quale incomprensibile motivo, sono molto sicura nell'attribuirgli il genere maschile.

Chiunque sia sta esagerando col voyeurismo e ricomincio ad agitarmi per riuscire ad andarglielo a dire, ma mi infrango contro la barriera inamovibile di un metro e novanta di determinazione.

“Shhh” mormora contro il mio orecchio.

C'è una tensione palpabile in lui, che non deriva minimamente da paura o agitazione, ma sembra solo nascere dal tentativo spasmodico di controllare un impulso pressante, che spero non si dimostri essere la voglia di saltarmi addosso alla prima occasione.

“Non qui” spiega con voce quasi inaudibile. “Non ora.”

E stringe con più violenza i pugni ai lati del mio volto, contorcendo le labbra in una smorfia amara di frustrazione.

“Chi diavolo è?” ringhio sottovoce.

“Shhh”

La figura sembra avermi udito, per quanto abbia parlato tanto piano da non essere quasi riuscita neanche io a sentirmi, perché vedo uno scatto nel suo profilo e quel movimento è assolutamente troppo rapido e guizzante per appartenere ad un decrepito nonnetto. Magari è davvero una strega!

E' più buio, adesso, come se le luci della città si stessero abbandonando ad un lento sonno innaturale; non è mai totalmente notte, a Parigi, ma ora non riesco a distinguere quasi niente intorno a me e il profilo di quell'uomo va sempre più confondendosi col nulla, ingigantendosi parimenti nel mio animo fino a dominare tutto.

Con la testa leggera, mi aggrappo al maglione di Gabriel, ma lo lascio immediatamente, maledicendo la mia debolezza e dominando l'istinto di tornare ad appoggiarmi a lui, unico elemento caldo e confortante che abbia a portata di mano. Non ho bisogno di rassicurazioni contro timori infondati, però è maledettamente piacevole essere circondati dal suo profumo, che non deriva da niente di artefatto o chimico, ma è semplicemente l'odore della sua pelle, pulito e intenso, quasi vibrante come la sua personalità.

Un lieve scricchiolio alla finestra mi distrae da riflessioni inopportune e osservo a bocca aperta un sottile alone gelato allargarsi in una crepa frastagliata lungo il vetro, laddove lo sconosciuto aveva poggiato le dita.

Non riesco a vederlo, ma so, con assoluta e ingiustificata certezza, che il tizio non si è allontanato di un passo dalla sua posizione e anche Gabriel ne è consapevole, perché non accenna a lasciarmi andare, ma anzi mi passa un braccio intorno alla vita, avvolgendomi ancora più saldamente e rischiando di ricevere un calcio ben piazzato, che trattengo solo all'ultimo minuto, proprio perché, nonostante tutto, non riesco a disdegnare le sue attenzioni e anche perché le poche zone del mio corpo non avvolte nel suo abbraccio stanno perdendo sensibilità tanto è intenso il freddo che le attanaglia.

“Non entrerà” mi rassicura, per quanto non dovrebbe essercene bisogno, a meno che non prenda in considerazione l'idea che quel vecchio ritorto sfondi la finestra e assalti il mio appartamento come fosse la trincea di un campo di battaglia.

E' assurdo, ma il peggio è che non mi sembra esserlo nemmeno più di tanto: sento che vuole entrare, sento che mi sta cercando, ma non ho alcuna voglia di lasciarmi trovare, per quanto, al contrario, sappia di esser stata io a cercarlo, e il tutto è pazzesco perché si tratta di puri e semplici presentimenti, non supportati da alcun elemento concreto.

Ovviamente posso ben credere di non gradire che l'intimità della mai casa sia violata da un guardone disgustoso nel cuore della notte e forse il mio disagio è solo la manifestazione psicotica di una naturale indignazione, ma continuo a fissare l'occhio vuoto e tenebroso a cui quel maniaco si è avvicinato, certa di sentirvi provenire un roco bisbiglio di sillabe dissonanti tra le quali si nasconde il mio nome.

Il vetro tintinna e le spalle del mio paladino vibrano di un brontolio muto, che mi scuote e mi conforta, facendomi battere le palpebre rimaste troppo a lungo spalancate e rompendo lo stato di semi torpore in cui non mi ero accorta di star sprofondando.

La risatina che risuona alle mie orecchie è velenosa e sardonica come il sibilo di un serpente, ma è anche la goccia che fa traboccare il vaso e che mi spinge ad abbandonare ogni inconsulta prudenza per sbottare con un sonoro e poco fine: “Adesso basta, vattene, porca puttana!”.

A volte basta chiedere le cose gentilmente e, a volte, basta soltanto chiederle: non ho neanche finito di pronunciare queste parole che la sensazione di freddo opprimente, l'oscurità, le sagome insinuanti e ostili, insomma qualsiasi cosa mi avesse disturbato fino ad adesso trema e svanisce nella prepotenza della mia ben tangibile rabbia. Le luci di Parigi tornano ad incorniciare l'appartamento e l'unica prova di non aver vissuto un'illusione restano i minuscoli cristalli di brina, pronti a sciogliersi in lacrime sottili lungo il vetro.

Lo sguardo di Gabriel è un groviglio di indignazione, ansia e sorpresa, mentre saetta dal mio volto alla finestra, con crescente meraviglia.

“Chi diavolo era?” chiedo di nuovo, senza preoccuparmi di moderare il tono di voce, mentre mi affretto a sciogliermi dalla sua presa e a riaccendere la luce. “E dov'è andato?”

Tolgo il catenaccio alla porta, prima che chiunque possa impedirmelo, e mi affaccio sul pianerottolo deserto e silenzioso come dovrebbe essere a quest'ora del mattino.

Giusto per sicurezza controllo anche la finestra delle scale, per convincermi che non sia stato il freddo dell'inverno a insinuarsi nel palazzo, facendo congelare i vetri e, magari, provocando un qualche strano cortocircuito nell'illuminazione, ma tutto è in ordine e bene serrato.

“Vieni dentro” mi chiama col solito tono accomodante e per niente adatto a me. “Per favore.”

Alzo gli occhi al cielo e lo assecondo, solo in virtù della buona educazione dimostrata in extremis, ma mi soffermo un attimo a osservare uno strato sottile di polvere scura e impalpabile depositatasi ai piedi della mia finestra, proprio dove avevo visto quel tipo sospetto.

“Gabriel” gliela indico, prendendo un fazzoletto per raccoglierne un po'.

“Non toccarla” mi ferma, con voce così ferrea da non farmi neanche pensare di disobbedirgli, almeno sul momento. “E' cenere...”

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Capitolo 11
*** Protetta? ***


“Era uno spazzacamino?”

Il suo sguardo val più di mille parole.

“No, era Babbo Natale!”

“Babbo Natale non esiste.”

“Neanche gli spazzacamino, ormai” si china a fare qualcosa che mi lascia ulteriormente perplessa, perché sembra annusi quello strano pulviscolo e solo dopo ne mette un pizzico in un fazzoletto di carta. “E neanche quell'essere dovrebbe esistere.”

Le sue ultime parole sono così sussurrate da essere quasi inudibili e non credo fossero rivolte alle mie orecchie. Non è normale credere davvero nel sovrannaturale e lo dico nonostante la mia migliore amica sostenga di essere una medium e siano successe diverse cose strane nell'arco delle poche ore in cui ho ripreso contatto col mondo; se fossi appena un po' più impressionabile, potrei quasi arrivare a parlare di fantasmi e stregonerie, ma, per fortuna, passati gli attimi di irrazionalità, sono ancora abbastanza padrona di me stessa da comprendere di essere solo vittima di scompensi emotivi derivati dallo shock e dalle medicine, per non parlare dello stress post traumatico e della fastidiosa questione legata alla mia amnesia. Insomma, ce n'è di materiale su cui costruire qualche psicosi.

“Alex, so che mi ritieni uno svitato, ma devi stare attenta” mi guarda negli occhi e è difficile credere che sia solo uno squilibrato con manie di persecuzione, perché il suo sguardo è fermo e severo, sotto la curva imbronciata delle sopracciglia. “Ci sono cose... persone che potrebbero farti del male.”

“Per quanto ne so...”

“Anch'io, sì! Hai ben specificato questo concetto” mi interrompe, sbuffando.

“Veramente volevo dire che le maestre elementari non dovrebbero avere troppi nemici. Certo, per i brividi freddi che avverto ogni volta in cui penso al mio lavoro, potrei anche essere un'insegnante tanto orribile da essermi guadagnata delle ritorsioni” la scarica di adrenalina mi ha abbandonato e inizio a sentirmi veramente troppo stanca per qualsiasi elucubrazione mentale. “In ogni caso, se hai la coda di paglia dovrei preoccuparmi.”

“Non ho la coda di paglia” borbotta arricciando il naso in quella smorfia che ho già imparato ad attribuirgli. “E tu devi riposare. Farò quello per cui sono venuto e poi ti lascerò in pace.”

“Io non me lo ricordo neanche più perché tu sia venuto qui” ma lo lascio rientrare in casa, sperando di non dover sostenere un nuovo assalto dall'interno o dall'esterno.

Il calore pare tornato alla normalità e mi accorgo adesso per la prima volta, vedendo l'espressione di Gabriel, di aver lasciato un discreto casino in giro, quando mi sono messa a frugare in cerca del mio introvabile passato. Sul letto c'è ancora la copertina aperta del DVD consegnatomi all'ospedale, semi nascosta dal pc e da un paio di cuscini.

“Quando hai avvertito gli sbalzi di temperatura?” ha sempre un'espressione particolare quando si guarda intorno, incredibilmente assorta e indagatrice, come immaginerei sul volto di un guerriero mandato in avanscoperta per rilevare tracce del nemico e come ritengo inappropriata in un tizio che non indossi o un'armatura o una divisa mimetica e sia semplicemente in piedi nel mio monolocale. In questo caso, però, noto anche qualcos'altro sul suo volto, una leggera smorfia di disapprovazione, mentre, istintivamente, raccoglie un paio di quaderni abbandonati per terra e li impila in bell'ordine sulla mensola accanto al televisore.

“Non è che ci siano stati con cadenza regolare. Una volta ho iniziato a sentire caldo appena uscita dalla doccia e poi incredibilmente freddo mentre guardavo il filmato su Emile.”

“Hai un filmato?”

“Mi è stato consegnato in ospedale, ma non so da chi; un altro piccolo mistero a cui ancora non ho trovato risposta. E comunque il DVD deve essere rovinato, perché funziona solo quando vuole lui.”

Non penso mi abbia ascoltato fino in fondo, mentre armeggia al mio lettore, cercando senza successo di farlo accendere.

“Ci son problemi a tutto l'impianto elettrico, te lo dico io” provo a dissuaderlo senza risultato. “Anche prima s'è acceso senza che lo toccassi.”

Mi guarda irritato e preoccupato, ma non commenta, ricominciando a esplorare lo spazio minuscolo in cui è costretto a muoversi.

“Se non sei un elettricista o un tecnico di qualche tipo, dubito potrai aiutarmi” lo osservo sfiorare il davanzale della finestra con movimenti rapidi e delicati, forse per togliere qualche granello di polvere. “E poi potrebbe derivare tutto dagli psicofarmaci, te l'ho detto. Mi è successo anche in ospedale. Vedevo pure cose strane, lì, quindi figurati!”

“Che tipo di cose?”

“Allucinazioni, incubi, non saprei. Ad un certo punto avrei giurato che ci fosse una bambina vicino al mio letto e di averle persino parlato, ma sembrava uscita da un film horror di serie B, a pensarci adesso: tutta pallida e contusa, con l'orsetto in stile Halloween. Poi c'era un dottore, omonimo di quel tale Johnson, che doveva divertirsi a imitarlo, vestendo secondo la moda del suo predecessore. Un'idea piuttosto macabra, visto che il primo s'è suicidato, e collegare le loro figure non può essere rassicurante per i pazienti. Io ho anche sognato di essere finita tra le sue grinfie e di essere diventata una cavia per i suoi esperimenti! Tra l'altro ho fatto un mix tra le mie fantasticherie: la piccola Lolie, nel mio delirio, veniva rammentata come fosse un'altra paziente di quel folle” non so bene perché perda tempo a raccontargli queste sciocchezze, ma è in un certo senso catartico liberarsi dal fardello dell'irrazionalità, trasformandola in storia.

D'altra parte Gabriel mi ascolta con estrema attenzione e non sembra giudicarmi pazza, anzi i suoi occhi si fanno più cupi, man mano che continuo a straparlare, e sono tanto penetranti da spingermi quasi a distogliere i miei.

“Cos'hai detto, esattamente, a entrambi?”

“Al dottore che era pazzo, credo. In più modi” mi stringo nelle spalle, perché, onestamente, non ho voglia di scandagliare con troppa precisione quei ricordi.

“Nei tuoi vari modi gentili, sì, immagino.”

“Ascolta” mi ribello. “Quando mi trovo legata ad un letto con degli elettrodi collegati alla testa e uno che dice di volermi aprire la pancia come fossi un cappone il giorno di Natale, non ho voglia di essere molto cortese.”

“Lo credo bene” e non c'è ironia, nel suo tono, come invece mi sarei aspettata.

“Alla bambina non ho detto niente di particolare” continuo, un po' rabbonita. “Voleva giocassi con lei e mi ha chiesto aiuto. Non lo so, non l'ho ascoltata troppo, non mi piacciono i bambini.”

“Lo so” ha un brivido, forse perché mi ritiene una donna snaturata o perché condivide i miei sentimenti.

“Comunque la cosa più inquietante rimane l'infermiere maniaco.”

“Si può sapere chi sarebbe? Hai già accennato a questo tizio.”

“Un tale grande, grosso e poco piacevole che mi ha iniettato qualcosa di rossastro nella flebo, ignorando le mie proteste. Il dott. Lumiér ha continuato a negare che ci fosse mai stato qualcuno del genere, il che, a ben pensare, non è molto rassicurante.”

“Ti ha fatto del male?”

“Dipende da cosa mi abbia iniettato. Di certo aveva un'aria irritante e poco raccomandabile. Ma potrei aver immaginato anche lui” mi siedo sul letto. “E' sconfortante.”

Mi sfugge dalle labbra prima di riuscire a ricomporre un'espressione neutra e coraggiosa. Non voglio guardare Gabriel perché non sopporterei un'altra faccia compassionevole, ma avverto la sua mano stringere per un istante la mia spalla, in un gesto veloce che mi trasmette solo forza e comprensione.

Continuo a fissare ostinatamente il pavimento finché non sono certa di riuscire a evitare di coprirmi di ridicolo con qualche lacrima patetica.

“Hai detto che ti ha iniettato un farmaco di colore rosso?”

“Sì e, anche se non volevo prenderlo, tutto sommato deve avermi fatto bene, perché il dolore è diminuito quasi subito. Poi sono iniziate le visioni, ma non posso attribuirle con sicurezza a quella roba. Dalla cartella clinica sembrava mi avessero imbottito di schifezze.”
“Credo dovresti dare retta al tuo istinto, anche in futuro. E' sempre stato molto sviluppato, per quanto la tua testardaggine lo osteggi.”

“Hai idea di cosa fosse?” a questo punto non mi meraviglio più di nulla.

“Sì.”

Aspetto.

Lo guardo interrogativa.

Inizio a spazientirmi: “E?”

“Ed è un farmaco non convenzionale, diciamo. Almeno se la mia supposizione è esatta.”

“Ma non possono usare roba del genere in ospedale!”

“Non veniva dall'ospedale” mi corregge. “Prima dell'incidente eri stata contattata da un tale, un riccone dongiovanni che voleva incontrarti e che potrebbe trafficare con cose del genere.”

Lo ammetto, quando ha detto “riccone”, la mia attenzione si è un po' affievolita. Magari è anche giovane e carino.

“Alex, mi stai ascoltando?” mi scuote stando attento a non farmi male. “E' un tipo pericoloso, ti avevo già avvertita.”

“Quanti anni ha?”

“Troppi!” sbuffa esasperato.

“Ah, è vecchio?” che delusione.

“Decrepito” borbotta cupo, spostandosi a perlustrare il bagno.

Dovrei seguirlo, ma non ne ho alcuna voglia, sono troppo stanca. Finalmente la mia casa non sembra respingermi e riesco a sdraiarmi senza preoccuparmi di dover lottare con le coperte per mantenere una temperatura corporea accettabile.

Sembra quasi che la presenza di Gabriel allontani le brutte sensazioni, ma è la solita sciocchezza a cui smetterò di pensare non appena mi sarò ripresa del tutto.

“Dovresti andare anche tu a riposare” gli consiglio, tra uno sbadiglio e l'altro, mentre lo sento armeggiare con la tenda della doccia. “Non sembri in forma.”

Non ottengo risposta e evito di insistere, ma sto quasi sognando quando lo avverto chinarsi su di me, sistemandomi il piumone intorno alle spalle e sfilandomi le scarpe, per adagiarmi più comodamente sul letto.

Vorrei ringraziarlo, ma temo di mugugnare solo qualcosa di intellegibile mentre svanisce oltre la porta, approfittando del mio momentaneo attimo di debolezza per fuggire senza avermi dato un brandello di spiegazione.

Dormo di un sonno agitato e non me ne meraviglio. Nelle ultime ore ho sopportato più emozioni di quante me ne sarei augurata per una vita intera e non ho idea di cosa potrà succedermi appena riaperti gli occhi.

Nel sogno vedo immagini confuse, cupe, sanguigne, in un susseguirsi rocambolesco di volti e emozioni contrastanti. Ad un certo punto sono certa di scorgere Emile, in piedi vicino a me, di spalle, con il pennello in mano e la tela quasi intonsa davanti, mentre la lacera con rabbia ed esasperazione e ride in maniera inumana, borbottando frasi sconnesse.

Vorrei allontanarmi da lui, ma, allo stesso tempo, provo anche un irresistibile desiderio di toccarlo, anzi, di toccare quel dipinto e imbrattarmi coi colori che hanno iniziato a sgorgare da esso come sangue da una ferita.

La tela si trasforma davanti ai miei occhi, allungandosi e contorcendosi in spirali di pietra levigata, più nera dell'inferno, stranamente simili alle forme voluttuose della statua femminile che avevo visto nel giardino di Morel.

Dormendo, il nostro cervello collega le immagini più disparate, è ovvio, ma in quel momento tutto assume una logica perversa e inquietante a cui è difficile ribellarsi, per cui non mi viene neanche in mente di sorridere quando il giullare, scolpito alle spalle della donna, apre su di me i suoi occhi gialli da rettile e mi fissa con un ghigno malevolo, rivelando due file perfette di denti piccoli e puntuti.

Le mie gambe rifiutano di collaborare, o forse è la mia stessa testardaggine a tenermi inchiodata lì, con lo sguardo fisso in quello inumano del demone di pietra, come se volessi sfidarlo o sfidare il mio istinto, che saggiamente continua a gridarmi di fuggire e nascondermi.

È più vicino adesso, o magari sono io ad essermi avvicinata, pur senza muovermi. Posso vedere un intrico scomposto di vene violacee pulsare sul suo volto adunco, ormai quasi del tutto libero dalla prigione di marmo, e avverto il tanfo nauseabondo del suo respiro scivolare lungo il corpo perfetto della donna per arrivare a sfiorarmi le guance.

“Ti sto aspettando” sembra sibilare in quel soffio. “Alexandra De Raven!”

Non smetto di fissarlo, non posso e non voglio. Non abbasserò gli occhi davanti a lui, che non deve permettersi di pronunciare il mio nome.

Chiaramente, in un incubo succede sempre il contrario di quanto vogliamo, quindi non mi meraviglia che il mio desiderio venga bellamente ignorato e quel mostro provi a chiamarmi di nuovo.

“Alexan...”

“Silenzio!” cerco di gridare furente, ma non è la mia voce a rompere il suo sussurro, bensì il gracchiare penetrante di un corvo, levatosi in volo tra di noi, mentre il cielo stesso sembra tingersi del nero delle sue piume.

Per fortuna la scena sfuma intorno a me, ma il sollievo è fugace, perché sogno di essere seduta sul granito sbreccato di una lapide coperta di muschio, circondata da cappelle funebri e tombe desolate.

Da quale barbaro ricordo la mia mente abbia recuperato questa scena proprio non riesco a immaginarlo. Forse il cimitero rappresenta il mio inconscio senso di colpa per essere l'unica sopravvissuta ad una carneficina, o forse l'idea del corvo ha creato uno strano collegamento con pensieri funerei.

L'unica cosa certa è che, se non posso rilassarmi neanche dormendo, vorrei proprio svegliarmi.

Provo a pizzicarmi il braccio senza successo, così inizio a muovermi tra i sentieri geometrici, cercando di non far scricchiolare la ghiaia sotto i piedi, quasi temessi di disturbare il riposo eterno di qualcuno. Da qualche parte dovrà pur esserci un'uscita e magari, oltrepassandola, quest'incubo finirà.La risatina crudele che fa eco al mio pensiero è poco rassicurante, soprattutto tenendo conto che non vedo nessuno vicino a me.

Perdo il senso del tempo e mi accorgo di aver girato impossibilmente intorno quando mi ritrovo davanti alla stessa lapide su cui ero seduta. È un angolo estremamente buio e trasandato del cimitero, circondato da rovi e erbacce, quando mi chino a leggere il nome inciso sul granito, la lapide diventa uno specchio distorto, su cui il mio viso si riflette velato e confuso, a differenza della piccola e paffuta mano bianca che appare ben nitida dall'altro lato del vetro, pronta a ghermirmi.

Apro gli occhi di scatto, trovandomi a sedere sul mio letto disfatto, con l'improbabile sensazione di essere stata svegliata da un ululato roco, più selvaggio e potente di quello di un cane.

Sospiro, irritata e sollevata, mentre controllo che tutto sia in ordine intorno a me e mi scuoto dal torpore fastidioso che ancora mi offusca la mente.

Gabriel ha lasciato accesa la luce sopra i fornelli, forse per non farmi sentire disorientata al risveglio. Un gesto premuroso che, però, mi permette di vedere, in quella flebile penombra, qualcosa che non ha niente di rassicurante: l'impronta di una mano in tutto e per tutto simile a quella del mio incubo sopra la superficie appannata dello specchio del bagno.

Ammetto di sussultare per un attimo, ma è più un riflesso delle brutte sensazioni provate in sogno che un reale senso di pericolo, perché la mia casa adesso è confortevole e accogliente, colma di un silenzio rassicurante e priva di strani incidenti elettrici o elettronici.

Quell'impronta sulla specchiera deve essere un semplice alone di polvere travisato dai miei occhi assonnati; ad ogni modo, visto che l'istinto non vuol saperne di convincersi di qualcosa di tanto ovvio, mi alzo per andare a controllare e, anche se non vorrei, non posso negare che questo segno sia dannatamente simile ad una mano di bambino, la creatura più inquietante di tutte. Stacco un pezzo di carta per pulire, ma un brivido gelido mi trattiene, mentre osservo il mio fiato addensarsi in una nuvola sottile e torno a imprecare contro il mio impianto di riscaldamento; pur con tutta l'immaginazione del mondo non esiste che la temperatura di un appartamento passi dai venti ai tre gradi nel giro di un minuto, deve essere il mio corpo a subire sbalzi ormonali o qualche altra diavoleria.

Comunque credo di star migliorando, perché il malessere dura solo qualche attimo e non è accompagnato dai soliti fremiti di assurda inquietudine; posso togliere polvere e condensa dal vetro e tornarmene a letto, ma il mio piano viene stravolto dal leggero scricchiolare di un asse di legno sul pianerottolo. E' un rumore innocente e senza quel folle paranoico ad incitarmi non provo alcun senso di pericolo, ma sono stufa di gente che venga a passeggiare davanti alla mia porta, così la spalanco senza riflettere e mi trovo a fissare con occhi sgranati proprio il folle paranoico di cui sopra, seduto a gambe incrociate davanti a me, con uno sguardo colpevole anche più sorpreso del mio.

“Ma che diavolo...” inizio a farfugliare. “Gabriel! Che ci fai qui?”

Guardo l'ora per la prima volta e mi accorgo che sono quasi le sei del mattino.

Lo fisso sconvolta e arruffata mentre si alza con un movimento atletico e repentino, portando avanti le mani in segno di pace.

“Non sono qui per spiarti” si giustifica subito, allarmato dalla mia espressione omicida. “Ti giuro che me ne sarei andato all'alba e non ti avrei disturbato.”

“Che razza di perversione feticista è questa?”

“No” borbotta, avvicinandosi un po' troppo per i miei gusti e impedendomi di chiudergli la porta in faccia. “Alex, ti prego, non volevo fare niente di male, solo proteggerti.” L'ultima confessione gli sfugge tra i denti e vedo bene che vorrebbe rimangiarsela immediatamente.

“Proteggermi?” sbotto infatti. “Da cosa?”

Sento dei tonfi provenire dal piano di sopra e mi accorgo di urlare.

“Da cosa?” gli sussurro contro allora, sempre più arrabbiata, mentre senza ragione alcuna lo lascio entrare di nuovo nel mio appartamento.

“Da...” si interrompe, mi guarda di sottecchi, poi prova a ricominciare. “Non importa.”

“Invece importa eccome” lo scuoto. “Mi sono stufata del tuo svicolare e dei tuoi tentativi di spaventarmi senza darmi alcuna spiegazione.”

“Magari riuscissi a spaventarti un po'!” si lamenta esasperato. “Almeno saresti meno avventata”

“Ora mi dici cosa facevi qui fuori, oppure chiamo la polizia.”

“Volevo assicurarmi che tu stessi bene, ok?”

E' assurdo, ma suona vero.

“Stavi male, sei appena tornata a casa dopo un brutto incidente, volevo esserti vicino nel caso avessi avuto bisogno di aiuto.”

Molto dolce, molto logico, ma non del tutto sincero.

Gabriel è un pessimo bugiardo, appena prova a nascondere qualcosa abbassa il mento e si tormenta l'orecchio, con aria tanto colpevole che persino un bambino subodorerebbe la bugia. Oppure potrebbe essere un imbroglione talmente in gamba da saper simulare anche questa sua lapalissiana innocenza. Quando lo guardo negli occhi propendo assolutamente per la prima ipotesi, ma non per questo sono meno arrabbiata.

“Eri partito bene, ma ti sei sciupato sul finale” inizio a rimproverarlo, poi noto i cerchi sotto gli occhi e il leggero brivido delle sue spalle. “Cazzo, Gabriel! Sei tu che hai bisogno di aiuto.”

Lo spingo a sedere sullo sgabello e gli poggio una mano sulla fronte, ancora troppo calda.

“Dovevi andare a casa a riposare, non startene qui al freddo” ma ora le mie parole non contengono alcun rimprovero: qualsiasi siano state le sue motivazioni, per quanto insensate o folli, ha messo il mio benessere davanti al proprio e il gesto mi commuove più di quanto vorrei, costringendomi a preoccuparmi per qualcuno a cui, per un'immensa serie di logiche ragioni, non dovrei affatto interessarmi.

“Sto bene” mente di nuovo. “Ora tolgo il disturbo.”

Lo fermo prima che tenti di alzarsi e prima che io stessa abbia il tempo di razionalizzare.

“Ascoltami attentamente, perché non lo ripeterò un'altra volta: ti sono grata per la tua premura, sempre che non sia piuttosto un'ossessione malata o un qualche piano astruso per tenermi d'occhio” lo minaccio con un dito, prima che possa protestare. “Non so perché, ma nonostante tutte le tue stranezze, credo tu sia un bravo ragazzo e voglio fidarmi di te. Anzi, mi fido di te anche se non vorrei farlo e non mi dai motivi per farlo. Quindi, se vuoi continuare ad avere a che fare con me, devi smetterla di mentire, fare omissioni o raccontare mezze verità. Piuttosto dimmi che non puoi spiegarmi qualcosa, ma non rimpolpettarmi la prima scusa che ti venga in mente, chiaro?”

Sospira e sembra stanco, nonostante tutta la sua determinazione.

“E' dall'inizio che provo a fare come tu dici, ma ogni volta non ti sei accontentata della mia risposta.”

Odio che mi si rinfaccino le cose, soprattutto quando chi lo fa ha ragione.

“Va bene” gli concedo. “Io non insisterò, ma tu cercherai di dirmi tutto ciò che puoi.”

Annuisce e, per la prima volta, sorride, quasi di nascosto; anche se è solo un leggero increspamento delle labbra, quel sorriso gli tocca gli occhi e, se fossi appena un po' meno prosaica, potrei quasi credere che fosse quello e non la febbre a farli risplendere.

“Quindi” continuo, mentre metto il bollitore sul fornello, con l'idea di preparare un tè per entrambi. “Da chi avresti dovuto proteggermi?”

Si mordicchia il labbro e tentenna, il che è un bruttissimo segno: notizie frammentarie in arrivo.

“Non eravamo gli unici a indagare su questa storia e i nostri colleghi non sono tipi raccomandabili. Preferiscono agire di notte, di solito, per questo non volevo lasciarti sola.”

“Non dovremmo dirlo alla polizia?”

“La polizia non può fare niente, se non aumentare il casino. Se entrasse di mezzo alle nostre ricerche, potremmo dire addio a qualsiasi speranza di scoprire cosa sia successo al tuo amico e ai miei.”

Il pensiero non è confortante, anche se, al momento, non ricordando un accidente di Emile, la cosa che mi disturba di più è supporre di aver qualche pazzo criminale alle calcagna, piuttosto che rischiare di non venire a capo di un qualche astruso mistero. Ovviamente, risolvere il secondo problema porterebbe probabilmente a mettere una pietra sopra anche al primo, quindi suppongo di poter continuare a giocare al detective ancora per un po'.

“Va bene” accetto la sua versione dei fatti. “Ma chi sarebbero di preciso questi nemici? Mafiosi? Drogati? Gli orchi di Saruman?”

Non mi sta nuovamente ascoltando, ma fissa con intensità un punto preciso sulla parete del mio bagno.

“Se ne hai bisogno, fa pure” lo incoraggio, supponendo che non sia stato comodo trascorrere le ultime ore su un duro pavimento di legno. “Ma abbassa la tavoletta, quando hai finito.”

Sembra seguire il mio suggerimento, ma invece di chiudersi la porta alle spalle e cercare un po' di privacy, si mette a sfiorare i contorni dello specchio, studiandolo con attenzione, a tratti quasi annusandolo, a giudicare dal modo in cui dilata le narici.

A questo punto ha vanificato la mia precedente pulizia, riempiendo di ditate tutta la superficie, ma non riesco a rimproverarlo quando mi accorgo che il suo indice, alla fine, si è fermato esattamente nel punto in cui avevo creduto di vedere un'irreale mano bianca e paffuta.

Mi guarda interrogativo, ma mi rifiuto di rispondere.

“Qualunque cosa fosse se n'è andata adesso” prova a rassicurarmi sollecito, senza accorgersi che i sottintesi impliciti del suo ragionamento potrebbero piuttosto terrorizzarmi, se non fossi la persona razionale che sono.

“Non c'è mai stato niente, Gabriel!”

Apre la bocca per ribattere, poi si ricorda il nostro patto e tace.

“Se non devi fare qualcosa di sensato, lì in bagno, vieni a sederti. Il tè è pronto.”

“Grazie” la sua mano trema impercettibilmente nell'afferrare la tazza.

È assurdo, sembra grande, grosso, indistruttibile e poi noto minuscoli segni che mi fanno venir voglia di proteggerlo e prendermene cura, quasi fosse un morbido cucciolo ferito, per quanto col pelo ispido e i denti da latte sempre snudati in un caotico ringhiottare.

Tutto ciò è dannatamente pericoloso, molto più di qualsiasi attentato incendiario o boss mafioso che possa avere attaccato al culo.

Gli aggiungo un paio di cucchiai di zucchero nel tè, nonostante le sue proteste, e avvicino la scatola di biscotti, costringendolo a prenderne un po'.

“Grazie” ripete soltanto, mentre il silenzio ci circonda in un clima di illusoria pace.

Avverto istintivamente una strana familiarità in questa situazione, ma è un sentimento assurdo, perché, anche prima dell'incidente, conoscevo pochissimo Gabriel e avremo potuto far colazione insieme al massimo due o tre volte; troppo poche per sviluppare una consuetudine.

Eppure sto bene qui, seduta davanti a lui a questo tavolino minimalista che ci lascia appena lo spazio per appoggiare le mani senza costringerci a sfiorarle. Sto bene col suo viso a pochi centimetri dal mio e le gambe praticamente incollate alle sue, troppo lunghe per riuscire a non invadere il mio spazio vitale. Mi sento sicura, nonostante non ne abbia motivo e non voglia provare niente di così rischioso e incomprensibile: alla fin fine questo tizio continua ad essere un estraneo paranoico che crede nei complotti spionistici e negli ufo. Ed anche se è tanto carino e singolarmente dolce, potrebbe essere un maniaco venuto a uccidermi.

Lo guardo negli occhi e proprio non riesco proprio a credere alla seconda ipotesi, ma la prima analisi è innegabilmente reale, senza contare il fatto che, al di là di tutto, rimane uno spiantato.

“Ho qualcosa sul mento?” si preoccupa, sentendosi scrutato.

“Mangia un altro biscotto” mi limito a spingergli tra le mani la confezione, per distrarmi dai miei foschi pensieri. “E non protestare! Hai bisogno di assumere zuccheri, visto che hai passato la notte in bianco e già stavi male.”

“Neanche tu stai bene. Dovresti andare a farti medicare il braccio, più tardi” indica la fasciatura che mi ricorda la brutta esperienza non ancora conclusa e nasconde le cicatrici che me la ricorderanno per tutta la vita.

“Sto meglio” e mi stupisco di essere sincera e non stoica nell'affermarlo. “Dormendo il dolore si è affievolito.”

Aggrotta le sopracciglia.

“Strano.”

“Meglio così, no? Magari stavo male proprio per tutte le schifezze che mi somministravano.”

“Magari” inizia a dire poco convinto, quando il frusciare metallico della televisione lo interrompe e ci fa sobbalzare entrambi.

“Ecco, riprendi tutti i quadri” la voce di Emile mi provoca i brividi. È anche più roca e impastata dell'ultima volta in cui l'avevo sentita, perfetta per intonarsi al suo aspetto anche più miserevole e stremato.

Evidentemente il lettore DVD ha ricominciato a manifestare la propria indole ribelle, mostrandomi un uomo completamente distrutto, emaciato fino a sembrare più uno scheletro che un essere vivente, coperto di chiazze di vernice scura, miste alle macchie giallastre della pelle malsana, tremolante come la fiamma di un cerino in mezzo ad una tempesta.

“L'hai acceso tu?” mi chiede Gabriel, senza staccare gli occhi dallo schermo.

“No” e la mia risposta si fonde alla mia voce nel filmato.

“Emile, devi rimanere calmo!”

“Certo, certo” mente come un drogato che voglia un'altra dose. “Ma tu non dimenticare nessun particolare. I quadri sono in ordine cronologico.”

La telecamera fa una carrellata veloce delle opere. Troppo veloce per soddisfare la mia attuale curiosità, ma abbastanza lenta da lasciarmi intravedere sempre lo stesso soggetto, leggermente modificato in una sequenza quasi fumettistica: il primo quadro rappresenta villa Morel dal lato del cortile, con la fontana gotica ben delineata e uno sfondo surreale privo dei palazzi che dovrebbero circondarla. È inquietante e cupo, ma abbastanza innocuo. La seconda opera è identica alla prima, se non fosse che il cielo, prima totalmente nero, ha iniziato ad assumere sfumature rossastre lungo la linea dell'orizzonte e la porta della casa è leggermente aperta.

Non sono in grado di vedere bene i dipinti successivi, ma la telecamera rallenta su quello che credo essere il sesto o settimo, mostrandomi uno sfondo quasi totalmente rosso e la villa con le pareti contorte e rovinate, avviluppate da radici scure simili a viticci d'edera che potrebbero crescere all'inferno. La porta è ormai spalancata e c'è una figura che si affaccia sulla soglia, ma è indistinta e non capisco nemmeno se sia un uomo o una donna.

Il mio dubbio si sana dopo poco, perché la stessa figura appare in primo piano qualche tela più tardi e si rivela essere un uomo di mezz'età in abiti eleganti e antiquati, con capelli castani dal taglio severo, gambe lunghe, un po' storte, e spalle curve, ma per posa e non per difetto. Il suo volto doveva essere stato tratteggiato con molta precisione da Emile, anche se io non riesco a vederlo bene nel filmato: sono del tutto concentrata sull'enorme ascia da macellaio che quel folle tiene tra le mani adunche, con una dedizione simile a quella di una madre col figlio neonato.

“Quando saranno tutti presenti, scopriremo l'ultimo” Emile ha ricominciato a parlare e la telecamera si sposta su di lui, in piedi fremente al centro della sala, davanti al dipinto misterioso di cui mi aveva parlato l'ispettore. “Deve essere rivelato solo al momento giusto della serata, all'ultimo rintocco della mezzanotte.”

“Sicuro che non si trasformerà in una zucca?” evidentemente ero solita fare dell'ironia fuori luogo anche prima dell'incidente.

“Alex, non scherzare!” e c'era anche allora qualche squilibrato pronto a rimproverarmi. “E' tutto pronto? Lo champagne c'è? Quel tuo amico si è fatto più vivo?”

Gabriel si volta a guardarmi per un istante, confermando il sospetto che Emile si stesse riferendo a lui.

“No” mi ascolto rispondere nella registrazione. “Non riesco a rintracciarlo da ieri.”

“Faremo senza” non saprei se la voce di Emile appaia turbata dalla mia notizia, visto che è sempre ampiamente sopra le righe. “L'importante è che le dodici persone ci siano tutte.”

“Sarebbe importante ne venissero anche di più, o questa inaugurazione sarà un fiasco.”

“Se ne manca una saremo nei guai, lo sai” continua senza dar adito di avermi sentito.

“Vuoi dirmi perché?” io sembro esasperata e anche un tantino preoccupata, ma, col senno di poi, mi sento di affermare che non avrei potuto esserlo neanche la metà di quanto mi senta inquieta adesso.

“E' bene che tu non lo sappia ancora” mi fissa con sguardo allucinato, muovendo la testa in un tic meccanico e innaturale che lo fa assomigliare ad una strana bambola di latta, con le labbra arricciate sulle gengive sporgenti e coperte di vernice. “Ne ho bisogno Alex! Ne voglio ancora!”

La sua supplica è quasi un grido, di rabbia, frustrazione e astinenza.

“L'ispirazione, ho bisogno dell'ispirazione” si lancia verso un barattolo di vernice dimenticato in un angolo e lo apre con foga.

La ripresa si fa confusa, perché probabilmente mi stavo avvicinando per strappargli quella roba di mano, ma prima che il filmato si interrompa, un particolare ancora più assurdo degli altri attira la mia attenzione: uno strano fumo denso e scuro si alza in una spirale contorta dal vasetto, circondando Emile e nascondendolo alla vista, come una fitta coltre di nebbia rinchiusa in una stanza senza luce.

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Capitolo 12
*** Truffatore? ***


Rimango per un attimo senza parole, certa di essere stata vittima di un'improbabile allucinazione per non dover credere al ancor più inquietante possibilità di aver visto veramente del fumo minaccioso tracimare da un dannatissimo barattolo. Era una bomba? Magari di quelle fatte in casa, con vernice al posto della benzina. Non ho idea di come si possano costruire, né di come possano funzionare e sono abbastanza sicura di non averlo mai saputo, ma mi sembra strano che un ordigno esplosivo di qualsiasi tipo possa iniziare a fumare tanto prima di esplodere e, a giudicare dal filmato, dovevano mancare almeno due o tre ore al momento dell'incidente.

Gabriel mi sta fissando di sottecchi, cercando di mostrarsi indifferente, nonostante la ruga profonda di preoccupazione che gli solca la fronte.

“L'hai visto?” mi costringo a chiedere alla fine. “L'hai visto anche tu?”

“Sì.”

“Cos'era?”

“Fumo” risponde solo, dopo aver riflettuto per un'istante, portandomi a desiderare di lanciargli contro la tazza che ho sempre tra le mani.

“Era una bomba? Era la bomba?” cerco di non calcare troppo su quelle lettere, ma se le stessi scrivendo sarebbero tutte maiuscole e in grassetto.

“Gabriel! E' stato quel barattolo a causare tutto?”

“Non direttamente, ma indirettamente credo di sì.”
“Che diavolo significa?”

“Significa che la vernice contenuta in quel vasetto, come le altre decine di litri consumate da Emile nelle ultime settimane, potrebbe essere legato strettamente a tutto questo casino, ma non penso sia stato l'innesco materiale dell'incendio.”

“Vuoi dire che la vernice ha fuso il cervello di quel pazzo e che è stato lui a dare tutto alle fiamme? E come? Non era neanche presente al momento dell'incidente dei tuoi amici, tanto per cominciare. Per non parlare del fatto che la polizia avrebbe individuato dei residui di benzina o altro sul suo cadavere.”

“Come ti ho detto, volevamo trovare il maledetto negozio in cui aveva comprato quella schifezza, proprio per capirne di più.”

“Pigalle non è immensa, possibile che in due non ci si sia riusciti?” più parliamo, meno le cose hanno un senso e ne avevano talmente poco già prima che adesso mi sembra davvero di essere una specie di Alice in un paese delle meraviglie horror. “Perché non ho chiesto l'indirizzo a Emile, poi?”

“L'avevi fatto più volte, stando ai tuoi racconti, ma non si è mai voluto confidare con te. Eri riuscita a strappargli il poco che sapevi in un momento di crisi d'astinenza che quasi l'aveva ucciso. Per quanto riguarda la tua prima domanda, preferirei non risponderti, per non violare il nostro accordo.”

“Andiamo, come potresti violarlo su una cosa del genere?” sbotto prima di riuscire a trattenermi, guadagnandomi una ben meritata occhiataccia. “Scusa.”

“Non è un negozio autorizzato, diciamo così.”

La faccenda si fa sempre più grave: è evidente che Emile usasse qualche strana droga o allucinogeno e è assai probabile che la mischiasse alla vernice, creando una pericolosa reazione probabilmente infiammabile. Mi chiedo come, da amica e persona razionale, abbia potuto permetterglielo o magari addirittura incoraggiarlo.

“Tu hai provato a fermarlo” sembra quasi mi abbia letto nel pensiero. “L'hai rimproverato, gli hai più volte nascosto la vernice e hai cercato di convincerlo con ogni mezzo possibile. Hai persino iniziato a indagare su questa storia e su quella villa, pur di capire cosa lo ossessionasse tanto. Ma non eri sua madre e, alla fine dei giochi, potevi solo stargli vicino.”

“Guardandolo bruciare e rischiando di morire io stessa. Proprio un bel lavoro.”

“Alex” sussurra scuotendo la testa, incapace di trovare parole abbastanza sensate da confortare il mio insensato rimorso. “Non avresti potuto salvarlo.”

“Anche tu ti senti in colpa per non aver aiutato i tuoi amici e neanche eri presente quando sono morti, quindi non farmi la predica.”

Senza pensarci, poggia la mano sul mio braccio ferito, per provare a consolarmi, e la cosa strana è che non mi procura alcun dolore, come mi sarei aspettata e come avrebbe dovuto accadere normalmente, tanto che non ho bisogno di fingere stoicismo quando la ritrae di scatto imbarazzato e preoccupato.

“Scusami” inizia a bofonchiare. “Non volevo...”

“Tranquillo” continuo a fissare la fasciatura, chiedendomi cosa nasconda. “Non ho sentito niente.”

“Non hai sentito il tocco della mia mano?” è ancora preoccupato, ma adesso perché ritiene, erroneamente, che abbia perso sensibilità all'arto.

“Non in quel senso; non ho provato dolore o fastidio.”

“Alex, questo è assurdo. Ustioni che abbiano comportato il massiccio uso di antidolorifici che mi hai descritto, che ti abbiano costretto a rimanere per giorni in coma farmacologico e che, comunque, siano derivate da un incendio di tali proporzioni, non possono guarire in poche ore. Non ti sei scottata col bollitore del tè. Anzi, è stato folle che ti abbiano dimesso dall'ospedale senza una terapia specifica e senza fissarti delle visite per le medicazioni e i controlli.”

“Onestamente, sono fuggita da quel postaccio e non ho dato al dottore molto tempo per studiare una terapia. Credo abbia borbottato qualcosa sul declinare ogni responsabilità e lavarsene le mani, ma ero troppo confusa per dargli ascolto. E poi anche tu hai storto il naso quando hai saputo che mi avevano portato al Rothschild.”

“Perché era una scelta insensata e perché quell'ospedale...” si cuce la bocca di nuovo. “Diciamo solo che non è un bel posto e di certo non ci sono medici che sappiano fare miracoli.”

“Ma potrebbero esserci dottori criminali o bugiardi” mi sovviene come una folgorazione. “Dottori che, magari, usino i pazienti come cavie, inventandosi diagnosi assurde, pur di giustificare il loro operato.”

“Mi sembra pazzesco.”

Il fatto che sia proprio lui a dirlo suona o ridicolo o inquietante, perché se sto diventando più paranoica e irrazionale di qualcuno del genere vuol dire che ho proprio perso la testa.

D'altra parte continuo a fissarmi il braccio, sempre più curiosa. Non dovrei togliere le bende, ma proprio mentre cerco di auto-convincermene, inizio a rimuovere le grappette che tengono insieme la fasciatura.

“Che diavolo pensi di combinare?”

“Capire come sia possibile che ustioni di secondo o terzo grado non mi facciano urlare di dolore, ora che l'effetto di qualsiasi antidolorifico deve essere terminato.”

“Potresti prenderti un'infezione, santo cielo! Non stai neanche seguendo una cura antibiotica” conscio di non potermi fermare, a meno di usare la forza, ripiega sull'unica altra soluzione possibile e inizia a frugare nei cassetti a caccia di qualcosa con cui rimediare al pasticcio che probabilmente sto combinando. “Dove tieni i medicinali?” sbuffa esasperato, dimenticandosi l'insensatezza della sua richiesta.

“Dannazione, non hai qualche pomata?”

“Non credo sia necessario” la voce appare stentata e vuota anche alle mie orecchie, mentre tolgo l'ultimo strato di garza e scopro una pelle perfettamente liscia e immacolata. “Guarda!”

Penso che l'incredulità del suo sguardo sia riflessa anche nel mio, mentre sfiora la superficie serica del mio braccio con la punta delle dita e convince entrambi di non stare sognando.

“Com'è possibile?” sussurro, senza aspettarmi realmente una risposta. “E' perfettamente sano.”

Gabriel tace, ma la sua espressione si fa più accigliata di momento in momento.

“Sono davvero dei pazzi criminali” inizio a infervorarmi, lieta di avere un valido motivo per mettere in atto quella denuncia che tanto desideravo e per spillare un bel po' di soldi a quel medico antipatico e supponente. “Mi hanno usato come cavia, magari con l'aiuto di quel tizio di cui parlavi prima.”

“Quale tizio?” sembra scuotersi da una profonda meditazione.

“Il riccone anziano che traffica con medicine illegali!” quasi grido, nell'ansia di farlo ricordare. “Il liquido rossastro che mi hanno iniettato e non volevo...”
“Cazzo!” un lampo di consapevolezza gli attraversa lo sguardo, subito cancellato da una profonda rabbia poco comprensibile e da una luce assassina per nulla rassicurante.

“Gabriel, non c'è bisogno che ti infuri al mio posto” provo a tranquillizzarlo, ma ho già perso un'altra volta la sua attenzione.

“Cazzo” ripete in un basso borbottio quasi inudibile, sbiancando tanto da farmi temere che tutte queste emozioni abbiano peggiorato le sue condizioni. “Maledizione!”

Anch'io sono confusa, irritata e ho voglia di imprecare, ma la sua reazione me ne ha tolto l'opportunità e poi se quel farmaco, legale o meno, fosse stato veramente in grado di guarire completamente le mie ferite nel giro di un paio di giorni, non so se dovrei lamentarmene, anche considerando i fastidiosi effetti collaterali che avrebbe comportato, tipo allucinazioni e sbalzi di temperatura corporea.

Gabriel sta aspettando in silenzio che io mi metta a protestare o urlare come una matta, ma sarebbe una reazione troppo normale per una situazione così inverosimile e non so più cosa pensare.

“Chi è quel tale che mi aveva contattato?” mi limito a chiedere, quasi stessimo intrattenendo una comunissima conversazione sul più e sul meno.

“Nessuno di importante.”
“Al contrario, visto che temi possa aver procurato lui questo super-medicinale kryptoniano.”

“Cosa?”

“Magari è coinvolto anche nella storia di Emile, non c'avevi pensato? Se traffica roba chimica illegale, potrebbe essere implicato in queste esplosioni che nessuno riesce a spiegare.”

L'osservo riflettere con i nervi a pezzi, sfinita dallo sforzo di non tempestarlo di domande che possano portare un briciolo di chiarezza e di logica in questo casino.

“Non credo, anche se potrebbe esserne capace.”

“Lo conosci bene, quindi?”

“So come sono fatti quelli come lui.”

“Che sarebbero?”

“Poco di buono.”

“Cazzo, Gabriel!”
“Persone crudeli, va bene?” mi ringhia contro, esasperato. “Persone che se ne fregano della legge, dei buoni sentimenti e del rispetto per la vita.”

“E per quale stramaledetto motivo avrei dovuto entrare in contatto con un tipo del genere?”

“Ti aveva cercato, sembrava volesse diventare una specie di mecenate per Emile. Ma io ti avevo detto che non c'era da fidarsi e tu ancora non l'avei incontrato.”

“Eppure supponi che si sia preoccupato della mia salute, tanto da fornire medicinali non in commercio all'ospedale, probabilmente corrompendo i dottori, a meno che il Rothschild non sia di per sé un covo di scienziati pazzi.”

“Non ho detto che si disinteressi di ciò che ritenga utile.”
“E io lo sarei? Ormai Emile è morto e dubito di aver mai preso un pennello in mano in vita mia, quindi a cosa potrei servirgli?”
“Non lo so, Alex, va bene? So solo che grazie a un intruglio simile a quello che mi hai descritto si sono verificate altre misteriose guarigioni, nel corso degli anni, ma che le persone alle quali lo avevano somministrato ne sono diventate schiave. E so che quel tale ha la possibilità di procurarselo, se vogliamo usare un eufemismo.”

“E' una droga?”

“Una specie.”

“Dio, sei più sfuggente di un'anguilla.”
“Vorrei raccontarti tutto” e gli credo, mentre lo dice. “Davvero.”

“Ma non capirei.”

“Non sei stupida e capiresti benissimo, ma non vorresti crederci.”

“Guarda che credo all'esistenza di persone brutte e cattive, capaci di far del male. Alle elementari ci vado per fare la maestra, non l'alunna.”

“E' più complicato di così.”

“In che modo?”

Alza gli occhi al cielo e sospira teatralmente, passandosi una mano tra i capelli.

“D'accordo, non rispondere” mi siedo a finire il mio tè con falsa indifferenza. “Non dirmi perché mi consideri talmente in pericolo da passare la notte sul pianerottolo a farmi la guardia, né perché entrambi fossimo convinti che Emile si fosse cacciato in un guaio così brutto da costringerci a diventare piccoli Ispettori Gadget pur di cavarne le gambe, né che significato avesse, per lui, quella maledetta villa e tutta la schifosa storia di Morel o come questa sia collegata, stranamente, al mio ricovero proprio nell'ospedale dove aveva lavorato il suo compare, il folle dottor Johnson, di cui, guarda caso, adesso è comparso un omonimo. E non dirmi neanche chi sarebbe quell'inquietante individuo vestito come un impiegato di banca e con un'accetta da boscaiolo in mano che ci fissava dai dipinti. Mi chiedo cosa tu pensi di fare qui, onestamente.”

“Il tipo con l'accetta è Morel” risponde a mezza voce, quando interrompo la mia sfuriata per riprendere fiato. “E sono qui perché avevamo iniziato a indagare assieme e vorrei continuassimo a farlo. Sono rimasto fuori dalla tua porta perché l'ultima volta in cui avresti avuto bisogno di me non ci sono stato e hai rischiato di morire e non potrei sopportare di perdere qualcun altro solo perché non ho avuto abbastanza forza per proteggerlo.”

Ha un'aria così solenne e intensa che non riesco a lasciarmela scivolare addosso con l'indifferenza che vorrei.

“Emile aveva iniziato a dipingere la villa subito dopo essersi procurato la vernice, tanto che tu avevi supposto fosse stato il vecchio che gliela aveva venduta a parlargliene. Non ne capivamo il motivo, ma mi avevi raccontato che una sera il tuo amico si era lasciato sfuggire un'osservazione più sconvolgente del solito: secondo lui la statua del giullare, in giardino, aveva gli stessi occhi da serpente di quel mercante misterioso e, attraverso quelli, avrebbe controllato se stesse adempiendo al loro accordo.”

“Emile era fuori di testa.”

“Le tue stesse parole di allora” sorride e noto, controvoglia, che gli si formano delle irresistibili fossette sulle guance, anche se, per fortuna, il filo di barba sexy che porta le nasconde un po'. “Ma l'avevi presa come una conferma alla tua teoria. Per questo cercavamo quel negozio.”

“Senza trovarlo” non posso evitare il sarcasmo, perché già m'immagino una ferramenta in stile castello errante di Howl. “Ovviamente è normale che i fondi commerciali si spostino di ora in ora per trovare clienti.”

“Non ho mai detto che sia normale, né che il negozio si sposti. Ho detto solo che non siamo riusciti a trovarlo” mi guarda storto e, grazie a Dio, ha smesso di sorridere. “Anche se non potrai mai credere alla storia secondo la quale quel vecchio si farebbe trovare soltanto da chi vuole, per una sorta di maledizione mistica, ti sembrerà plausibile che quel posto sia un sudicio scantinato privo di insegna, totalmente anonimo e impossibile da identificare tra le altre decine di garage del genere, in un quartiere vasto come Pigalle.”

“In effetti è abbastanza sensato” bofonchio a mezza voce, per niente soddisfatta della seppur logica spiegazione. “Ma ancora non capisco che interesse avrebbe potuto avere un vecchio spacciatore per una villa disabitata.”

“Su questo non avevamo nemmeno delle teorie, così come non ne ho sul tuo strano ricovero al Rotschild, ma temo non sia stata una coincidenza.”

“Diavolo, Gabriel! Ma chi ci stiamo mettendo contro, la CIA?”
“Magari!”

Il suo sbuffo è tutt'altro che rassicurante: cosa potrebbe esserci di peggiore, soprattutto per un maniaco del complotto internazionale?

“Devo parlare con Philppe o Jas.”

“Non potranno dirti niente” solo al suono della sua risposta mi accorgo di aver parlato a voce alta. “Li volevi tener fuori da questo casino e Emile non li aveva voluti nemmeno all'inaugurazione.”

“Tutto sembrerebbe portarci a crederlo colpevole” non mi piace pensarlo, ma è l'unica idea che abbia un barlume di sensatezza. “D'altra parte era diventato palesemente pazzo.”
“Quindi il vero responsabile dovrebbe essere il tipo che l'aveva fatto ammattire.”

“Non proprio” adesso non ho più voglia di scherzare, perché se fosse stato il mio defunto amico a dar fuoco a tutto, non potrei esimermi dalla mia parte di colpa e avrei un discreto peso sulla coscienza. “Non credo che qualcuno l'abbia costretto a drogarsi.”

“Ma poteva pensare di star usando semplice vernice e non qualche pericoloso composto tossico.”

“Una vernice venduta in un garage losco da un ancor più losco figuro? Ma dai! Chiunque avrebbe dovuto insospettirsi. Anche io.”

“Infatti appena Emile iniziò a essere strano, tu iniziasti a indagare. Non darti colpe che non hai Alex. Forse il tuo amico avrebbe potuto evitare di finire invischiato in questo casino, ma tu ne sei una vittima, proprio come quelli che sono morti.”
“Magari un po' meno sfigata.”

“Non è detto che chi resta stia meglio di chi se ne va” c'è un profondo dolore nelle sue parole, ben lontane da un semplice moralismo da bar. Dice a me di non sobbarcarmi sensi di colpa inutili, ma predica bene e razzola malissimo. “Comunque non immagini quanto sia stato contento di sapere che eri sopravvissuta.”

Non mente, né parla per pura cortesia, eppure mi conosce appena e di certo non l'ho trattato con estrema gentilezza, in queste ultime ore. Evidentemente ci sono persone più sensibili di me, a questo mondo.

“Vuoi un altro biscotto?” provo a sdebitarmi, praticamente ficcandogli il pacchetto sotto al naso. Almeno, adesso, sembra aver ripreso un po' di colore e le occhiaie sono meno pronunciate. “Dovrò andare all'ospedale o magari direttamente in chiesa, visto che sono stata miracolata, e un consulto medico non farebbe male nemmeno a te.”

“Sto bene, ho solo avuto una brutta febbre negli ultimi giorni.”

“Con ultimi giorni, intendi fino a ieri sera, giusto?”

“Ieri stavo già meglio.”

Alzo gli occhi al cielo, ingoiando un paio di esclamazioni poco femminili.

“Poi andrò a quella villa.”

Se gli avessi detto che sarei andata a massacrare cuccioli al canile l'avrei, probabilmente, shoccato di meno; l'espressione “occhi fuori dalle orbite” gli calza a pennello e il volto è di nuovo terreo e tirato, con una grossa vena sulla tempia pronta a esplodere.

“Che cosa? Tu sei pazza.”

“Perché, scusa? Il negozio non riusciamo a trovarlo, ma della casa c'è l'indirizzo persino su internet, in quei siti stramboidi di fantasmi.”

“E non credi siano posti da evitare, se si trovano elencati in siti del genere?”

“Andiamo Gabriel, non essere infantile. Magari potremmo scoprire qualcosa di importante.”

“Sì, un uomo con un'accetta lunga due metri.”

“Vuol dire che gli chiederò il permesso di ficcanasare in casa sua.”

“Di solito non si va a prendere il tè da un tizio che brandisce un'ascia.”

“Io porterò la spada e giocheremo a chi ha l'arma più lunga, va bene?”

“No, per niente.”

“Ti ricordo che Morel è morto da anni e se pensi sia lui il tizio ritratto da Emile, dubito che avrò modo di incontrarlo.”

“In realtà tu dicesti che, secondo il tuo amico, quella figura era apparsa da sola nei quadri.”

“Che vuol dire? Ce l'ha dipinta sopra qualcun altro o si è formata per magia?”

“Non lo so, me lo raccontasti tu. Magari quando Emile andava alla villa non era solo” mi guarda male anche prima che apra bocca. “E non intendo le volte in cui tu lo accompagnavi. Non eri sempre con lui.”

“Credi ci fosse qualcuno che si approfittava della sua demenza e ritoccava i suoi dipinti? Con quale scopo?”

“Ho detto solo che forse non era l'unico a girare per quel postaccio.”

“Non ha senso.”

“Allora è in linea con tutta questa storia.”

Non posso ribattere, perché ha pienamente ragione. E se Emile fosse stato un truffatore? Se non avesse dipinto lui quegli ultimi quadri, ma si fosse appropriato del talento di un altro pittore sconosciuto? In fondo è noto che fosse un imbrattatele, prima di venire a contatto con quella fantomatica vernice; magari il suo improvviso talento si potrebbe spiegare razionalmente con un raggiro.

“Se stava spacciando per proprie le opere di un altro, avremmo anche un buon movente perché il vero proprietario odiasse il mio amico e volesse distruggerlo insieme alle sue creature rubate. Io non ricordo le volte in cui sono stata alla villacon Emile, ma forse tornandoci potrei avere qualche flash.”

“Allora vengo con te.”

“Perché?”

“Perché se davvero tu avessi ragione, quel tizio sarebbe anche responsabile della morte dei miei amici. Comunque penso che sia prematuro andare laggiù, ne sappiamo troppo poco.”

“Non ne sapremo mai niente, se non usciamo da questo loop.”

“E poi devo andare a lavoro.”

Essendosi auto-invitato, dovrebbe presumere che questo non mi tanga più di tanto, ma è la prima volta che accenna spontaneamente alla sua professione e sono troppo curiosa per perder tempo con futile ironia.

“Che lavoro fai?”
“Quello che capita.”

Tipico di un morto di fame. Che delusione. Mi chiedo quanto sia realmente vecchio il riccone che voleva finanziare il lavoro di Emile...

“Per adesso sono impiegato in una ditta che produce” aggrotta le sopracciglia, interrompendosi a metà della frase. “No, quello era due settimane fa.”

“Capisco il problema del precariato, ma addirittura cambiare impiego di settimana in settimana mi pare eccessivo.”
“A volte non mi presento a lavoro e quindi mi licenziano.”

“Non è che sia un motivo di vanto.”

“Riesco sempre a trovare un lavoro, più o meno. E poi non richiede molti soldi il mio sostentamento, sono un tipo di poche pretese.”

“Ma non pensi al tuo futuro?”

“Il mio futuro?” sembra stia per ridermi in faccia, ma sembra anche che quella risata non possa essere altro che tremendamente amara. “Ce lo vedi uno come me a sistemarsi?”

“No” rispondo per non contraddirlo e perché sembra la cosa più banale e inevitabile da dire, per quanto l'istinto mi spingerebbe a tirargli un orecchio e metterlo in castigo per aver solo pensato di dubitare tanto di se stesso.

“Ecco” pare deluso, ma anche rassegnato. Valli a capire gli uomini: li contraddici e si alberano, li assecondi e ci restano male. Che palle!

“Ma un tuo futuro? Quando sarai vecchio cosa farai?”

“Il mio futuro è scoprire cosa sia successo ai miei compagni.”

“E' consolante sapere che pensi di impiegarci tanto tempo. Dovremmo trovare il modo di farci dare i contributi per le nostre investigazioni.”

“Devi essere sempre così pungente?”

“E tu sempre così stupido?”

Ci guardiamo in cagnesco finché il trillo acuto del telefono non mi provoca un infarto e mi accorgo che sono ormai le sette passate e quindi un'ora più che cristiana perché qualcuno dei miei amici legittimi inizi a preoccuparsi per me.

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Capitolo 13
*** Parenti ***


Cerco di ricordare dove abbia fatto volare il cordless ieri sera, ma, avendo Gabriel come ospite, non dovrei stupirmi di trovarlo ben in mostra sulla sua base. Sono più che certa di non averlo sistemato io, lì; quel ragazzo è un vero maniaco dell'ordine.

Allungo la mano, ma il pensiero dello shock subito l'ultima volta mi rende restia a compiere un gesto tanto banale: non ho voglia di trovarmi il timpano perforato da un altro disturbo elettrico. Passi aver perso la memoria, ma ritrovarmi mezza sorda a nemmeno trentanni è inammissibile, soprattutto perché ci vuole orecchio fine per captare informazioni sugli scapoli d'oro.

Ad ogni modo, non potrò passare la vita a controllare la segreteria, quindi tanto vale prendere il toro per le corna.

“Pronto” sono un po' troppo aggressiva, quindi ripeto, con voce più dolce. “Pronto?”

“Alexandra?”

Di certo non è Jasmine, ma per fortuna non sembra neppure un maniaco. Credo di aver già sentito questa voce, leggermente accentata, austera e poco simpatica, e temo anche di sapere a chi appartenga, ma preferisco non dare suggerimenti a eventuali impostori.

“Chi parla?” assomiglio molto a una segretaria di dentista, rispettabile professione che avrei dovuto prendere in considerazione, visto che i dentisti sono tutti benestanti e i migliori incontri si fanno sul luogo di lavoro. Mi chiedo cosa avessi in mente quando ho scelto la carriera di insegnante elementare.

“Alexandra” ripete, questa volta senza toni interrogativi, ma con una certa aria scocciata che già mi irrita.

“Smettila di ripetere il mio nome. Io so chi sono” poi, per estrema onestà, borbotto un poco consono. “Più o meno.”

“Che significa più o meno? Ti sei drogata?”

Mio nonno, se ho riconosciuto la voce e se è stato davvero lui a lasciare il messaggio in segreteria, è un rompiballe sputasentenze.

“Lo sapevo che lì, a Montmartre, c'è sempre un nugolo di drogati che si spacciano per artisti e che non è un luogo adatto a una giovane fanciulla sola.”

Giovane fanciulla? Che razza di definizione arcaica; la potrei appuntare nel mio quaderno di frasi anacronistiche, insieme a quella usata dall'ispettore per definire Emile. Ad ogni modo non mi piace che si prenda tante libertà nel giudicare me o il mio stile di vita, che pure, per il poco che mi hanno raccontato e che ho avuto modo di constatare, non posso io stessa definire troppo giudizioso o raccomandabile.

“Ho saputo di averti inviato qualcosa” andiamo subito al dunque e evitiamo gli inutili, quanto inesistenti,convenevoli.

“Come sarebbe a dire? Non lo ricordi?”

Potrei rispondere con qualche commento sagace che già mi punge la lingua, ma ho premura di concludere questa sgradita conversazione quindi non mi dilungherò in facezie.

“No, ho avuto un incidente e, al momento, ho qualche difficoltà nel ricordare alcuni avvenimenti.”

Gabriel alza un sopracciglio e io gli alzo il dito medio, per buona risposta.

“Un incidente?” anche questo tipo è buono solo a formulare domande. Sono proprio fortunata. “Con quel drogato del tuo amico?”

Non posso dargli torto, ma posso riattaccargli il telefono in faccia.

Squilla di nuovo dopo nemmeno trenta secondi.

“Pronto.”

“Alexandra, non osare più fare una cosa del genere a tuo nonno!” sta gridando e me lo immagino stringere la cornetta con tanta forza da farsi sbiancare le nocche, ma non mi interessa la sua indignazione e non ho intenzione di tollerare che si rivolga a me come fossi una bambina, così faccio una cosa veramente infantile e chiudo di nuovo la comunicazione.

Il volto di Gabriel rimane impassibile, ma i suoi occhi sono tutt'altro che capaci di nascondere le emozioni, così, pur senza emettere un fiato, so benissimo cosa sta pensando: non comportarti da sciocca e scopri qualcosa, una dannata volta. Potrebbe aver ragione, ma non sono dell'umore per ammetterlo. D'altra parte il poveretto potrebbe anche solo star ignorando me e tutta la vicenda, perché pare davvero stupito allo sguardo di rimprovero che gli rifilo.

Il trillo del telefono un po' mi meraviglia: qualora fossi stata al suo posto, non avrei richiamato neanche sotto tortura, dopo un simile comportamento.

“Mi farai venire un infarto” questa volta non urla, ma credo sia solo perché non ne ha più la forza, non per più miti intenzioni; infatti il suo tono non si è addolcito di una virgola. “Quale incidente?”

“Qual è il tuo nome?”

“Leonardo Valeri” lo pronuncia con incomprensibile orgoglio, ma anche con una nota di sdegno che sembra ancor più fuori luogo. “Sono il padre di tuo padre.”

Ignoro la sua curiosità e continuo a bersagliarlo di domande. La miglior difesa è pur sempre l'attacco.

“Posso sapere perché, dopo anni di indifferenza reciproca, avessimo intavolato questo repentino riavvicinamento?”

“Non ero stato io a volerti star lontano, Alexandra.”

Il mio nome suona strano sulle sue labbra, quasi inquietante, ma credo dipenda unicamente dall'accento con cui lo pronuncia.

“E chi, allora?”

“Dopo la morte dei tuoi genitori sei stata tu, rifiutando il mio invito a venire ad abitare in Italia e preferendo rimanere da sola in quella casupola che ti ha lasciato tua madre, a vivere non si sa come.”

“La casa non apparteneva a entrambi i miei genitori?” è una curiosità sciocca, ma la domanda mi esce prima di aver riflettuto.

“No, i tuoi avevano una casa più grande dove stare. Quello era l'appartamento di tua madre prima di sposarsi con mio figlio.”

Non ci vuole un genio per intuire che i rapporti tra suocero e nuora non dovessero essere idilliaci; probabilmente la rottura è derivata da un motivo molto più banale di quanto sospettassi.

“D'accordo, d'accordo, recriminazioni a parte, cosa ti ho mandato?”

“Non ricordi neanche questo? Quell'incidente deve essere stato più grave di quanto tu voglia confessare. Ti avevo detto di stare alla larga dalle faccende di Morel!”

Ok, una cosa è pensare di aver avuto uno inspiegabile attacco di nostalgia per la famiglia scomparsa, un'altra è aver raccontato la misteriosa faccenda di Emile e della sua ossessione a un parente quasi sconosciuto. Parente che, tra l'altro, pare sapesse qualcosa sulla pericolosità della situazione in cui mi stavo infilando, pur abitando in un altro stato e non conoscendo direttamente né il mio amico, né il suo stato di follia.

“Questo incidente è un segno” continua a blaterale.

“No, questo incidente è stato un'esplosione.”

“Tua madre e tuo padre sono morti perché hanno sempre ignorato gli avvertimenti.”

“Nonno, ti rendi conto che questa conversazione sta diventando ridicola, vero? Non capisco di cosa tu stia parlando.”

“Sto parlando della tua testardaggine e della tua incapacità di accettare qualsiasi consiglio, a meno che non rientri nel tuo ordine di idee.”

Lancio uno sguardo a Gabriel, che però ha l'accortezza di non sghignazzare.

“Di sicuro sai come renderti simpatico, ma ancora non mi hai detto cosa ti avrei inviato.”

“Un DVD.”

“E?”

“E basta. Non so che cosa contenga, mi avevi detto di non guardarlo e io non l'ho fatto, a differenza di te, che sei andata a casa di Morel anche se te lo avevo proibito.”

Mi sorge il dubbio di esserci andata a posta.

“Dicevi che il tuo amico aveva la chiave e quindi non commettevate effrazioni.”

Immediatamente ripenso alla vecchia chiave rugginosa che mi aveva incuriosito, frugando tra i miei effetti personali, in ospedale. Potrebbe essere quella di cui sta parlando il nonno e questo potrebbe essere davvero un segno: devo andare a vedere cosa ci sia in quella villa, con o senza accompagnatori.

“Ti avevo spiegato che la violazione di domicilio sarebbe stato l'ultimo dei vostri problemi. E, come vedi, avevo ragione.”

“Guarda che l'incidente non è avvenuto a villa Morel.”

“Non c'entra niente Alexandra. Stai facendo gli stessi errori di tua madre. Io ho provato a metterti in guardia, ma sembra che tu sia decisa a seguire il suo destino.”

“Non credo al destino e puoi star sicuro che non ho intenzione di morire, almeno a breve termine.”

“Però ficchi il naso in faccende che potranno portarti solo a quel risultato.”

“Cazzo, nonno” non riesco a trattenermi. “Morel è morto e ora è morto anche Emile, chi o che cosa dovrebbe farmi temere per la mia vita?”

“Il tuo amico è morto? Meglio. Era già corrotto.”

“Corrotto da cosa?”

“Alexandra, tua madre credeva in cose verso le quali mi sembra tu sia incredula ed è meglio che la situazione rimanga così. Ad ogni modo sta lontana da villa Morel. Io sarò da te dopodomani.”

La sua ultima affermazione mi sconvolge a tal punto che dimentico le mie proteste sulle sue precedenti farneticazioni.

“Cosa?” ho un'aria davvero sciocca, mentre sgrano gli occhi come un luccio fuori dall'acqua. “Perché? Puoi rimandarmi il DVD per posta, non c'è premura.”

“No, non sarebbe prudente.”

“Sempre più dell'incontrarci, te lo assicuro.”

“Alexandra, tu sei l'ultima parente che mi rimanga e mi preoccupo per te.”

Alla fin fine era quello che avevo desiderato, giusto? Una famiglia pronta a prendersi cura di me. E' proprio vero il detto “attento a ciò che chiedi”, ora mi ritrovo con un nonno invadente e bisbetico che vuole venire a controllare la mia vita e soffocarmi con noiosi consigli bigotti. Però, magari, anche lui si sente solo, comincia ad avvertire gli acciacchi dell'età e ha paura di morire senza un cane che vada a seppellirlo. Dovrei dargli un'opportunità di riconciliazione, per quanto mi sembri assai poco conciliante. Sono appena stata miracolata e forse un gesto di buona volontà potrà riequilibrare un po' il mio karma negativo, generato in anni e anni di malestri, inoltre il vecchietto snob e collerico è pur sempre mio nonno e anche per me è l'unico parente ancora in vita, non posso semplicemente riattaccargli il telefono in faccia. Non un'altra volta.

“Ok” dico soltanto, per evitare di pentirmene. “Quando arriverai?”

“Adesso controllo i voli, poi ti farò sapere” per essere uno che ha appena ottenuto ciò che voleva, non pare troppo esultante. “Ti richiamerò stasera. Non fare altre sciocchezze.”

A questo punto chiudo davvero la comunicazione, infischiandomene di passare da maleducata, perché se mio nonno ha un briciolo di buon senso, dovrà piuttosto ritenerlo un gesto prudente, teso a evitare un mio repentino cambio d'idea.

All'improvviso mi sento stanca e avrei solo voglia di stendermi di nuovo sotto le coperte, per convincermi che sia tutto un'inquietante e incomprensibile sogno. Ma fuggire non mi porterebbe a niente e voglio approfittare di ogni minuto di questa giornata per districare il casino magistrale in cui mi sono infilata, senza neanche ricordarmi come abbia fatto.

Gabriel sta asciugando le tazze e sembra perso nei suoi pensieri, perché non ha più detto una parola da quando ho interrotto la telefonata. Mio nonno ha fatto discorsi strani quasi quanto i suoi e forse potrebbero andare d'accordo, ma non credo li farò mai incontrare, perché non ho ancora deciso se davvero potrò accettare di aver intorno per molto il mio socio a delinquere e sono certa non sia il caso di presentarlo alla famiglia.

Guardandolo alla luce del sole appare anche più grande e imponente di quanto mi fosse sembrato stanotte: ha spalle enormi, bicipiti scolpiti e mani ampie, ma non tozze o volgari, per quanto sembrino abituate ai lavori manuali; il suo fisico è incredibilmente robusto e non assomiglia affatto ad un materassino da spiaggia gonfiabile, come i classici esaltati che frequentano le palestre. È bello, di quella bellezza prettamente mascolina che non ha niente di gentile o dolce, ma è generata solo dalla perfetta armonia di linee forti e decise, quasi dissonanti nella loro perfezione. Per mia sfortuna, non ha neppure qualche porro o cicatrice a deturpargli il volto, che è degno del suo corpo, altrettanto fiero e deciso, affascinante anche dopo una notte insonne a bivaccare su un pianerottolo umido e freddo, mentre il mio, pur avendo beneficiato di qualche ora di riposo, sono certa sia pallido e tirato proprio come me lo sento.

Certo, a tutto questo ben di Dio si potrebbe anche resistere. Il guaio è che al di là del rude fascino da boscaiolo texano, oltre la facciata di stoico e cupo coraggio che si ostina a sbandierare come un'armatura a piastre fatta di adamantio, Gabriel lascia intuire anche un animo tormentato, sensibile, bisognoso di rassicurazione, insomma il perfetto connubio tra forza e fragilità capace di mandare in estasi ogni ragazza.

Mi attrae, inutile negarlo; come è inutile negare la totale inutilità di questo interesse. Ognuno ha i suoi principi e io intendo rimanere fedele ai miei. Lo odio.

“Non dovevi disturbarti a rassettare” mantengo un tono neutro, per controllare l'irritazione derivata dall'osservare il suo fondoschiena tornito, sapendo che non c'è nessun portafogli ben fornito a incrementare quella polpa. “L'avrei fatto io più tardi.”

“Più riposi, meglio è. Comunque non è stato un disturbo, tu hai preparato il tè, io ho rigovernato le tazze, mi pare equo” si asciuga le mani sui jeans, voltandosi lentamente verso di me. “Brutte notizie?”

“Non saprei. A quanto sembra avrò ospiti.”

“Sgraditi?”

“Vedremo, mio nonno non sembra un tipo piacevole, ma ha un altro DVD, che dice gli abbia mandato poco prima dell'incidente. Speriamo sia meno rovinato di quello che abbiamo adesso.”

“Credi contengano lo stesso tipo di filmati?”

Mi stringo nelle spalle. Non so più cosa dire, anche se, probabilmente, gli argomenti di conversazione non mancherebbero, qualora mi decidessi a tollerare alcuni tipi di fantasie che, tuttora, non sono propensa ad ascoltare, quindi rimango a fissarlo in silenzio, stupita che questo non generi alcun imbarazzo o tensione, come avviene di solito in certe situazioni.

“E' meglio che vada a lavoro” mormora infine, come se gli dispiacesse doversene andare. “Alex...”

Si interrompe, incespicando su parole che forse non vuole pronunciare.

“Forse non dovresti più immischiarti in questa faccenda” lo guardo impassibile, senza incoraggiarlo su una tale insensata linea di pensiero. “Forse dovresti solo essere felice di essere sopravvissuta e continuare la tua vita, dimenticandoti questa brutta storia.”

“Mi stai suggerendo di non fare come te?”

“Come me? Sì, potrebbe essere un buon consiglio.”

“Tu non sei felice di essere rimasto vivo, mentre i tuoi amici sono morti.”

“E' diverso, io avrei voluto essere con loro per evitare che morissero.”

“Sei molto sicuro dei tuoi mezzi. Magari non avresti potuto fare niente.”

“Non potrò mai saperlo, ormai.”

“Quindi è inutile continui a tormentarti chiedendotelo. Con buone probabilità saresti solo riuscito a morire in compagnia. Come ti saresti potuto accorgere che stava...”

“Per prendere fuoco tutto?” mi interrompe. “Non lo so, avrei potuto sentire un odore, notare qualcosa.”

“Eri più percettivo dei tuoi amici?”
“In realtà no. Diciamo che ero più svelto.”

“Ti stai solo torturando, Gabriel. È inutile, anzi è dannoso. Smettila di sentirti in colpa per queste stronzate e vai a lavorare.”

“Giusto, devo andare a lavoro” è la seconda volta che lo dice, ma ancora non accenna a togliere le tende. “Immagino che tu non abbia più il coltello che ti avevo dato.”

“Guarda tra i coltelli” spero sia uno spelucchino per la frutta e non un vero e proprio pugnale. “Come sai sono un po' distratta, ultimamente.”

Apre il cassetto delle posate più per prendermi in giro che per reale convinzione di trovarci qualcosa, il che mi fa presumere di aver sottovalutato il suo senso dell'umorismo, o forse di averlo sopravvalutato, a seconda dei punti di vista.

“Te ne darò un altro.”

“Non lo voglio. Non vado di certo in giro armata tipo Rambo.”
“Io sì” annuncia candidamente, aprendo una tasca nascosta del giacchetto e porgendomi un coltellaccio nero con la lama di quasi venti centimetri. “Tieni, è anche migliore dell'altro.”

Cerco di non farmi prendere dal panico, mentre fisso quell'aggeggio puntato verso il mio torace. È di sicuro più corto di una spada e non dovrebbe impressionarmi, ma non è un giocattolo sportivo e chi lo impugna non sta andando a caccia e non è un militare in servizio, ma solo un pazzo con un'arma potenzialmente letale.

“Chi diavolo sei?” urlo, ignorando l'idea che i pazzi sia meglio non farli infuriare. “Un terrorista?”

“Cosa?”

“Sei un criminale? Un mafioso?” mi accorgo di essere diventata monotona, ma ogni volta che mi tranquillizzo e penso di non essere pazza a dargli fiducia, se ne esce con qualcosa di sconvolgente. “Sei tu l'assassino?”

“Sì, sono io. Intingevo sempre il coltello nella vernice e poi lo usavo per provocare una scintilla che facesse esplodere tutto” fa dell'ironia, ma continuo a guardarlo storto. “No, dico: mi stai prendendo sul serio?”

Scuoto le spalle, cercando di figuramelo nella veste del killer e, di nuovo, non riuscendoci minimamente, quindi sospiro.

“Tienilo” mi ripete. “E' per autodifesa.”

Allungo la mano, soppesando istintivamente il bilanciamento di quell'aggeggio e meravigliandomi dalla sua precisione. È una buona arma, ma a me sembra più offensiva che difensiva e non sono certa sia legale portarsela in giro.

“Dovrai indossare qualcosa di più ampio del tuo cappottino striminzito.”

“Scusa tanto se non ho studiato il mio guardaroba in modo che potesse nascondere una daga” ribatto offesa, mentre gli strappo di mano il piumino che stava ciancicando, a caccia di inesistenti tasche segrete. “E' maleducato rovistare tra gli abiti di una signora.”

Sono sicura abbia voglia di imprecare, ma dimostra un notevole autocontrollo limitandosi ad un sonoro e sarcastico sbuffo.

“Dovrò darti quello più piccolo allora.”

Da un'altra tasca tira fuori un coltello pieghevole più maneggiabile, ma non meno minaccioso, e me lo mette in mano, riprendendosi la daga. Sembra una bella arma, ma quasi quasi avrei preferito tenere l'altra, ormai; mi faceva sentire più sicura, il che la dice lunga sul mio grado di paranoia.

“Se lo metti in tasca, ricordati di inserire la sicura. È molto sensibile.”

Lo fulmino con lo sguardo, perché non deve trattarmi da idiota o da imbranata, neanche quando potrei davvero esserlo.

“La sicura!” ripete con urgenza, bloccandomi nell'atto di infilare in tasca quel temperino senza ascoltare il suo consiglio. “Dannata testona. Sei brava con la spada, ma questo non ti rende abile o esperta con ogni tipo di lama.”

“Mi conosci quasi quanto mi conosco io, ovvero praticamente per niente. Come puoi fare affermazioni tanto sicure sul mio conto?”

“Forse non potrei dire di conoscerti neanche se ti frequentassi da anni, ma è certo che, almeno per quanto riguarda gli ultimi avvenimenti della tua vita, sia molto più informato io sul tuo conto dei tuoi vecchi amici.”

Dovrò credergli sulla parola, o continuare a crogiolarmi nel dubbio come per tutto il resto.

“E comunque, la notte siamo quasi sempre stati insieme, dopo il nostro incontro.”

Cosa, cosa cosa? Siamo stati insieme ogni notte e me lo dice solo adesso? E senza un minimo di preparazione?

Apro e chiudo la bocca senza emettere suono, con la stessa capacità espressiva di un pesce rimasto fuori dall'acquario. Non posso credere di essere venuta meno ad ogni mio ideale per divertirmi con questo qui, per quanto l'idea mi stia solleticando da quando l'ho spiato attraverso lo spioncino. E poi, se proprio dovessi averlo fatto, mi scoccerebbe dannatamente non riuscire a ricordarlo, perché dovrebbe essere stata un'esperienza notevole.

“Non per quello che pensi” scuote la testa con tale veemenza che mi sento quasi offesa dall'intensità della sua negazione. “Già allora ti credevo in pericolo e volevo proteggerti, anche se, ovviamente, tu questo non lo sapevi e credevi rimanessi al tuo fianco per controllare Emile.”

“Passavo le notti con Emile?”

“Non proprio, ma cercavi di non perderlo di vista e poi avevi molto da fare per finire di organizzare la sua mostra e il tempo che ritagliavi per le nostre indagini si rivelava sempre essere ad orari improbi.”

Sono delusa: non solo non sono stata a letto con lui, il che, vista l'amnesia, non sarebbe una gran perdita, ma pare anche che lui non abbia alcuna intenzione di venire a letto con me in futuro. Non che io volessi farlo, è ovvio. Sarebbe stupido, insensato e controproducente.

“Mi spiace di averti tenuto sveglio” ribatto con ingiustificata acidità. “Vedrò di impiegare meglio le mie prossime serate libere.”

Senza alcuna logica, sorride, forse soddisfatto di avermi fatto irritare.

“Per ora preoccupati solo di tenerti fuori dai guai.”

“Sì, mammina.”

“E non andare a casa di Morel.”

Lo guardo col sopracciglio inarcato.

“Alex, promettimelo.”

Gli dedico il mio miglior sorriso.

“Alex...”
“Farai tardi a lavoro” lo accompagno alla porta. “Cerca di non affaticarti, perché non mi sembri ancora troppo in forma. E non preoccuparti per me. Non farò niente di stupido.”

“Per me o per te?”

“Per entrambi, ok?”

Non mi crede, ma non può rimproverarmi per qualcosa che ancora non ho fatto.

“Sii prudente, per favore” mormora quando è già sul pianerottolo. “E se hai bisogno, chiamami in qualsiasi momento.”

Chiudo piano la porta alle sue spalle, intuendo la sua intenzione di voltarsi una volta ancora per qualche raccomandazione che non ho voglia di ascoltare. Ora che il silenzio mi avvolge dovrei sentirmi in pace, o almeno più tranquilla, senza costanti domande a cui rispondere, senza martellanti preoccupazioni sull'avere o meno un maniaco seduto al mio tavolo, senza bisogno di confutare con la logica bislacche teorie dannatamente intriganti e pericolose; ma la casa, che fino a un attimo fa mi circondava placida e neutrale, sembra stringersi di nuovo intorno a me con aura malevola, provocandomi impossibili brividi lungo la spina dorsale. Non c'è niente che sia fuori posto, nulla che sia diverso, a parte la sensazione che tutto sia più spazioso senza l'ingombrante presenza del misterioso signor “Ebasta”, eppure ciò che prima mi appariva confortante e gradevole, ora incombe su di me come un ignoto pericolo senza nome e senza volto.

Una nuvola deve star passando sopra al sole, perché le ombre hanno assunto toni più foschi e assalgono con prepotenza gli spazi abbandonati dalla luce, facendomi venir voglia di sbirciare negli angoli per controllare che non vi si nasconda qualche mostro balzato fuori direttamente dalla mia infanzia.

Il silenzio non è una confortante mancanza di caos, ma solo un'opprimente cappa grigia di malinconia e il piacevole tepore a cui mi stavo velocemente abituando ha di nuovo ceduto il passo a un'umidiccia sensazione di gelo.

Sospiro pesantemente e allungo le braccia sopra la testa, cercando di calmarmi e convincermi di star cadendo nella teatralità e in una banale paranoia post-traumatica. Al di là di tutte le mie scempiaggini, semplicemente, novembre non deve essere il mio mese preferito, troppo instabile, acquoso e gelato. Sarebbe più facile sentirsi pieni di vita e ottimisti nella tiepida brezza primaverile o sotto il sole brillante di un agosto cittadino.

Non nuocerebbe neanche al mio umore poter pensare di scorgere qualche lieve miglioramento nella memoria, ma i miei ricordi sono esattamente quelli di ieri: accademici, futili e impersonali.

Sono come una bambola depositata in una stanza, costretta a fidarsi della rassicurazione di estranei che quello sia il posto in cui deve stare, ma che non avrebbe trovato differenza a esser lasciata in un qualsiasi altro luogo, con una qualsiasi altra spiegazione.

Posso dire di apprezzare il modo in cui questo posto è stato arredato, anche se non è troppo ordinato o elegante, ma vorrei sapere se il gufetto col cappello da cuoco poggiato vicino al lavello sia il ricordo di una gita o il regalo di qualcuno, vorrei capire perché tenga i coltelli nel secondo cassetto e tutto il resto delle posate nel quarto, o quale logica mi abbia spinto a comprare un graziosissimo porta cd a forma di gatto per poi tenerlo seminascosto dietro al letto, dove non posso vederlo, ma solo inciamparci sopra. Giusto per riequilibrare le cose, lo prendo e lo sposto accanto al lettore cd, resistendo alla tentazione di chiedermi quale musica mi piacesse o mi piaccia ancora.

Sono un'estranea in casa mia, ma questo potrebbe anche essere vagamente tollerabile, con un po' di ottimismo; pazienza se non mi ricordo del servizio di piatti marchiato Ikea, il peggio è che non riconosco neanche le mie mani, le mie gambe, i miei capelli, la mia voce; ogni volta che scorgo la mia immagine riflessa in uno specchio, sussulto come una stupida pensando di avere un estraneo accanto a me e questo, dopo un po', risulta abbastanza fastidioso, per non dire allucinante.

Non c'è nulla che mi appartenga o a cui senta di appartenere e non ho molta voglia di vedere questa situazione come la fortunata occasione per un nuovo, emozionante inizio.

Avevo sperato di svegliarmi, stamani, ed essere nuovamente me stessa, tutta intera, o almeno intera per tre quarti, invece non noto alcun progresso, a parte il fatto di trovarmi sempre più monotona e lagnosa.

Sento il cuore che batte troppo forte e credo di star per avere un attacco di panico, ma sono certa che non risolverebbe i miei problemi e non mi risolleverebbe dal umor nero con cui ho iniziato questa giornata. Ho subito un'ulteriore delusione, è vero. Ho visto sfumare momentaneamente le mie più rosee aspettative, ma, in fondo, non è passato abbastanza tempo per mettere da parte le speranze, ho lasciato quell'ospedale malefico solo poche ore fa e non ho ancora chiesto un consulto con un medico degno di questo nome. Non ha senso lasciarsi andare al pessimismo.

In fondo, per quanto spiacevole, la mia condizione è senza dubbio più positiva di quella degli altri partecipanti a quella maledetta inaugurazione: io sono sommersa da dubbi e paure, ma loro sono direttamente sotto a tre metri di terra e, sinceramente, non vorrei fare a cambio, quindi ho il dovere morale di pensare positivo.

Urge preparare un piano di azione e voglio farlo io, non accodarmi a quello elaborato da altri.

La prima cosa da fare sarà trovare un dottore per un controllo generale, quindi dovrò chiedere a Jasmine se conosca qualcuno di competente.

Dopo voglio visitare villa Morel, con o senza l'approvazione di quel fifone di Gabriel.

Se poi dovesse avanzarmi un po' di tempo, farò un giro a Pigalle, per trovare il negozio che vogliono spacciarmi per fatato e che sarà solo uno squallido locale rintanato in un vicolo malfamato.

Con qualcosa da fare, la giornata sembra subito più luminosa e non mi importa che l'armadio scricchioli come se fosse posseduto da un tarlo di due quintali, né che la luce, in bagno, tremoli e minacci di spegnersi senza che ci sia stato alcuno sbalzo di corrente. Mi preoccuperò dei problemi casalinghi più tardi. Al massimo delegherò Philippe perché assuma un tuttofare per controllare l'impianto elettrico, il riscaldamento e la stabilità delle pareti o della mobilia.

Io ho una missione da compiere: capire cosa diavolo mi sia successo e perché. E capire se sia o meno responsabile della triste fine di un bel numero di innocenti.

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Capitolo 14
*** Cose che puoi trovare in un garage ***


Mi chiedo se dovrei rimettere a posto le bende sul braccio, ma mi sentirei parecchio sciocca a mummificare un arto perfettamente sano, quindi credo che sbandiererò il mio miracolo ai quattro venti e conterò sul referto probabilmente falso dell'ospedale per godermi qualche altro giorno di meritato riposo. Di certo non sto rubando soldi ai contribuenti perché sono comunque tutt'altro che in forma e anche perché, adesso che ci penso, la Saint Bernard de la Chapelle, per cui lavoro, è un istituto privato ed è finanziata da alcuni ricchi benefattori e dai genitori degli altrettanto ricchi alunni. Alla luce di questo, credo di intuire il motivo della mia scelta professionale. Mi piacerebbe illudermi che questa seppur magra informazione sia frutto di un insperato sprazzo di ritrovata memoria, ma la verità è solo che, ieri sera, rovistando nel ciarpame di questa casa, mi sono imbattuta in un raccoglitore nero decorato con minuscoli teschietti rosa pieno delle mie buste paga e da quelle ho desunto il poco che adesso credo di sapere sulla mia carriera professionale, di sicuro non troppo remunerativa.

Forse è un po' presto per chiamare Jasmine e chiederle chi sia il mio medico curante, ma la chiave di villa Morel se ne sta adagiata tutta sola nella busta che ho recuperato in ospedale e non infastidirei nessuno con una piccola gita a scopo puramente ricognitivo, soprattutto se non ne informerò un certo rompiscatole ansioso che correrebbe a incatenarmi al letto se solo subodorasse quello che voglio fare.

Mi faccio una doccia veloce e spreco più del tempo del dovuto davanti all'armadio, per cercare di capire quali fossero i miei gusti in fatto di abbigliamento. C'è veramente di tutto, qui dentro: dai tubini sexy ai jeans sformati, dai reggiseni da palestra alla biancheria di Victoria Secret. O sono sempre stata una tremenda indecisa o soffrivo di personalità multiple già prima dell'incidente, perché non sembra esserci nessun filo conduttore in questa accozzaglia di indumenti, a parte il fatto di essere piuttosto eleganti e di buon gusto, anche nei modelli più provocanti e succinti. Alla fine opto per un semplice paio di leggings marroni e un maglione color panna attillato, lungo fino a metà coscia, che credo possa essere considerato un vestito. Dopo essere uscita in versione totalmente sciatta, ieri notte, sento il bisogno di un filo di trucco e qualche accessorio grazioso che rivitalizzi il mio look, ma, nonostante la perdita di tempo dovuta ad un'ingiustificabile, quanto comprensibile, lampo di vanità, riesco a fuggire da casa prima che l'orologio segni le otto del mattino. Attaccato al frigo ho trovato un magnete con un biglietto e il numero di cellulare di Gabriel, che non mi ero minimamente preoccupata di chiedergli. L'ho infilato in borsa, assieme al mio nuovo telefono e alla nuova carta di credito che Philippe si è premurato di far attivare, appena saputo del mio risveglio in ospedale, guadagnandosi un discreto numero di punti.

Per fortuna nell'ultima mezz'ora sembra che il mio appartamento abbia seppellito l'ascia di guerra e tutto ha funzionato a dovere, senza incomprensibili sbalzi di elettricità o calore. Anche la sensazione di oppressione e malinconia è svanita, probabilmente perché, finalmente, mi sono decisa a dedicarmi a normali occupazioni quotidiane e ho smesso di rimuginare su complotti, esplosioni e matti con l'accetta. Magari dovrei lasciar perdere ogni mio progetto e andare dal parrucchiere, tingermi i capelli di un bel rosso brillante e dedicarmi a una giornata di shopping con Jasmine, abbordando qualche piacente nababbo pronto a pagare i nostri acquisti.

Sarebbe saggio e anche giusto, dopo quante me ne sono capitate, ma questa chiave dall'aspetto antiquato pesa come un macigno nella mia mano e il mancato ricordo del male a cui potrei aver contribuito non vuole darmi pace. Credo che potrei affogare nella mia amnesia per tutta la vita, ma non riuscirei a convivere con un senso di colpa a cui non saprei dare un nome o un volto, così rinuncio a voltare pagina e mi rassegno al fatto di essere meno insensibile ed effimera di quanto mi stessi considerando.

Scendo le scale con cautela, un po' titubante all'idea di affrontare il mondo completamente da sola; per quanto non mi piaccia ammetterlo, non è escluso che possa perdermi o trovarmi in difficoltà gironzolando per Parigi senza piena coscienza di chi sia, cosa faccia o dove stia andando. In un certo senso sono più disinformata di una bambina di cinque anni nei confronti di qualsiasi cosa mi circondi; ad ogni modo ricordo di aver visto una stazione della metropolitana proprio qui vicino, mentre i ragazzi mi accompagnavano a casa, e dovrei arrivarci facilmente girando a destra dal locale dove sono stata con Gabriel.

Pur certa della mia ipotesi, tengo le dita incrociate finché non mi ritrovo nella graziosissima piazza alberata con la pensilina in ferro battuto verde e la rincuorante scritta arabescata indicante la fermata di Abbesses.

Dopo aver percorso il precedente tratto di strada immersa in un sommesso brusio piuttosto piacevole, mi ritrovo all'improvviso al centro di una vera cacofonia di suoni e di un disordinato sciamare di persone troppo intente a correre per badare a chiunque abbiano intorno. Scarto all'ultimo istante un ragazzotto cicciottello su uno skate malandato e mi scuso con una giovane donna dall'aria insignificante che ho travolto nella mia schivata, senza ricevere in cambio altro che uno sbuffo inarticolato.

Di sicuro sono stata spesso anch'io una di loro, con la tazza termica di cappuccino in una mano, la borsa da lavoro nell'altra e lo sguardo spento di chi ancora non ha lasciato emotivamente il rifugio delle coperte, però, in questo momento, non posso permettermi distrazioni e sono costretta a cercare di visualizzare e catalogare quanti più dettagli possibili, nella speranza che uno faccia scattare un riflesso o un miracolo nella mia mente infingarda.

Mi fermo davanti all'ascensore, ma il numero spropositato di sardine pronto ad assaltarlo mi fa desistere e preferire le scale a chiocciola, attirata anche dai vivaci colori dei dipinti che ne decorano le pareti, raffigurando suggestivi scorci della città; d'altra parte, giunta alla banchina dopo aver scarpinato per sei infinite rampe di scomodi gradini anti-fisiologici, non posso dire di essere ancora contenta della mia decisione.

Studio bene la piantina sul muro, ma il percorso da fare sembra piuttosto semplice: mi basterà cambiare a Pigalle per la linea due e andare verso Porte Dauphine. Una volta sul posto al massimo chiederò informazioni.

Mentre salgo sul treno ricevo un sms di Philippe, preoccupato che non abbia risposto alla sua telefonata, così decido di rassicurare tutti e tre i miei presunti amici con un messaggio cumulativo in cui racconto loro solo mezza verità e dico di esser uscita per fare quattro passi e cercare di ritrovare me stessa; non ho intenzione di farli preoccupare senza motivo, quando il mio sopralluogo alla villa potrebbe rivelarsi nulla più di una scampagnata.

In quest'ottica, mi calo nel ruolo della turista e decido di godermi ogni istante della mia gita come fossi in visita in qualche esotica città straniera, concentrandomi tanto da riuscire quasi a convincermi di non essere una povera estranea a casa mia, ma ogni tentativo di sdrammatizzare si dissolve quando, quasi senza volere, mi ritrovo davanti al muro di cinta sbreccato e disordinatamente coperto di edera di casa Morel.

Non ho dubbi nel riconoscerlo, sia per i dettagli rubati dal video di Emile, sia perché, incomprensibilmente, il mio cuore ha perso un battito, osservandolo, e i miei piedi si sono inchiodati al suolo come se fossi involontariamente finita in una pozza di cemento fresco. Il muro sembra anche più alto e imponente di quanto non avessi immaginato dalla ripresa e comunica esattamente la sensazione per cui deve essere stato costruito: che nessuno osi avvicinarsi.

Sembrerebbe un ottimo consiglio, ma io ho la chiave, anche se non so come possa essermela procurata, quindi si può dire che sia legittimata ad aprire il pesante cancello di ferro ritorto e rugginoso da cui fa capolino la stessa casa dell'orrore dipinta nei quadri allucinanti del mio amico. Ovviamente mi baso su semplici intuizioni, perché non ho prove concrete che questa chiave apra proprio questa porta, per quanto ne sia sempre più convinta, man mano che mi sforzo di avvicinarmi, ma almeno questo dubbio potrò togliermelo entro pochi secondi, anche perché non c'è nessuno in giro e preferisco approfittare di non avere testimoni ai quali dover render conto del mio operato, nonostante agisca quasi senza dubbio in piena legalità.

La villa si apre su un incrocio di strade e si crea una corrente di aria fredda tanto pungente che devo scaldarmi le mani battendole tra loro prima di riuscire a tirar fuori la chiave dalla borsa.

Non credo di essermi distratta per più di venti secondi, quindi non posso rimproverarmi se finisco per sussultare quando, alzando gli occhi verso la cancellata, mi ritrovo vicina una donna pallida, imbacuccata in una mantella di lana pesante, nera come l'inchiostro, con un cappello di feltro dall'aria ancora più vintage, munito addirittura di una piccola veletta di pizzo consunto, arrivatami accanto senza produrre il minimo rumore.

Sono certa non ci fosse nessuno lungo la strada, ho guardato bene in entrambe le direzioni e non ho sentito aprirsi nessun portone nei palazzi vicini, ma questa specie di dark-retrò di mezza età non può essere scesa dal cielo, quindi sarà sicuramente uscita molto silenziosamente da uno dei condomini alle mie spalle e magari si è incuriosita vedendomi in piedi davanti ad una casa disabitata.

Non sembra una barbona, anche se indossa gli stessi abiti che avrebbe potuto portare la mia bisnonna. E' ordinata e elegante, con un portamento austero appena incrinato dal leggero incurvamento delle spalle, forse derivato più da un profondo dispiacere che da acciacchi di vecchiaia. Il suo volto, vicinissimo al mio, appare tirato e diafano, come se non vedesse da anni la luce del sole, e non ha un aspetto gradevole, perché è talmente magra che sembra di osservare un teschio appena ricoperto di pelle incartapecorita, anche se non gli darei più di una quarantina d'anni. Magari ha il cancro o qualche altra malattia terminale.

Incerta su come comportarmi, provo a esibire un sorriso di circostanza e faccio per salutarla, prima di notare come non stia minimamente prendendomi in considerazione, ma si limiti a starmi accanto, immobile, quasi fossi un cartello stradale o l'uomo invisibile.

I suoi occhi, in parte nascosti dalla veletta, che attenua, ma non cancella le profonde occhiaie viola da cui sono circondati, sono fissi su una delle finestre della villa, come cercassero di penetrare al di là dell'oscurità dei vetri sporchi e crepati, per cogliere movimenti che io non riesco neanche a immaginare.

All'improvviso sono sicura di non desiderare che quello sguardo febbricitante si posi su di me, così rimango in silenzio, quasi senza respirare, osservandola digrignare i denti in una smorfia di disperazione che non comprendo, ma incasso come un pugno alla bocca dello stomaco, quasi fosse stata troppo profonda per venire contenuta in un unico corpo e fosse defluita da lei insieme con un solitario, tremulo sospiro, al quale, per fortuna, segue un'improvvisa quanto assurda perdita di interesse per quel luogo, ben visibile nel subitaneo mutamento della sua espressione, adesso vacua e distante, come se stesse osservando un paesaggio ignoto o poco importante, a cui non valesse la pena dedicare un grammo del proprio tempo.

Deglutisco, maledicendomi per l'impercettibile rumore prodotto e stramaledicendomi per la mia insensata paranoia. E' solo una vecchia più pazza di me in fondo e non c'è niente di cui aver paura o da cui proteggersi.

Comunque non ho voglia di perdermi in altre conversazioni prive di logica e non mi dispiace quando, qualche istante dopo, decide di voltarmi le spalle e allontanarsi con passo malfermo lungo il marciapiede. Sono sicura che non abbia mai avuto idea di aver avuto qualcuno accanto, almeno finché, proprio quando sto per smettere di guardarla, non si volta di scatto, con la velocità e la grazia di un ballerino di danza classica, e punta su di me il dito affilato ricoperto da un guanto di velluto, come a indicarmi o ad ammonirmi, con un sorriso sgradevole che preferirei non aver visto e che non riesco a interpretare se non come un gesto nato dal delirio, per poi tornare a ignorarmi e riprendere dondolando la sua strada.

Certo che se ne incontra di gente strana in questa città, prima la prostituta modello damina dell'ottocento a Montmartre, poi questa signora macilenta tutta bardata di nero che sembra l'immagine della morte. L'avesse vista Gabriel, probabilmente avrebbe gridato al fantasma o allo zombie, considerato quanto fosse inquietante.

A pensarci adesso sono stata poco pronta di ingegno, ho dato per scontato che il suo interesse per questa villa derivasse da uno stato paranoide di demenza, ma non posso escludere che la poveretta, sebbene parecchio originale, fosse invece a conoscenza di qualche informazione utile o storia interessante. Se sta da queste parti, probabile che conoscesse anche i vecchi proprietari della casa, magari non Morel in persona, non mi pareva tanto vecchia, ma qualcun altro tra i poveretti che, nel corso degli anni, devono aver provato ad abitare qui e che potrebbe essere utile rintracciare. Onestamente non ricordo di aver letto niente riguardo a possibili acquirenti, ma sarebbe strano che una casa così grande, con giardino privato e palesi pretese di sontuosità sia rimasta sempre disabitata nell'ultimo secolo; per quanto le storie la descrivano corredata di fantasma e l'aria lugubre con cui si presenta non sia delle più rassicuranti, rimane comunque una villetta a solo, in pieno centro di Parigi, e non si può pretendere che sia perfetta: meglio un ipotetico fantasma che fondamenta instabili, alla fine. Forse il prezzo richiesto è esorbitante.

Comunque ormai è tardi per pensare di fermare la vecchia signora, non la vedo più lungo la strada e forse ho davvero fatto bene a non importunarla. Magari avrò modo di incontrarla di nuovo, in futuro, perché temo questa non sarà l'ultima visita in questo luogo infernale; adesso l'importante è non perdere altro tempo prezioso.

Come sospettavo, la chiave scivola perfettamente nel lucchetto e la serratura scatta al primo tentativo, per quanto sembri vecchia e rugginosa. Evidentemente era stata usata spesso, di recente, e temo proprio dalla sottoscritta e dal suo sconsiderato amico.

Mi scopro a desiderare un po' di sole che mi accompagni in questo lugubre giardino, ma un'occhiata allo spesso strato di nubi plumbee e minacciose sopra la mia testa fuga qualsiasi precedente speranza, eccetto quello di non trovarmi sotto un sonoro acquazzone.

Il cancello cigola leggermente e scruto intorno a me con un'aria colpevole che devo subito abbandonare se non voglio trovarmi un paio di gendarmi alle calcagna e una bella denuncia per un'effrazione che, tecnicamente, non ho commesso.

Vecchi proprietari o meno, non dovrebbe esserci nessuno in casa da anni, quindi perché sento abbaiare dei cani dal retro del giardino? E' diventato il rifugio per qualche randagio? Non è un pensiero piacevole, perché, anche se non credo di temere i cani, come regola generale, questo ringhio feroce e sommesso mi fa accapponare la pelle e dubito possa appartenere a un chihuahua. Sarebbe un peccato sprecare il miracolo appena ricevuto per la guarigione al braccio con un bel morso alla giugulare.

Rimango immobile per qualche secondo, aspettando di veder arrivare un branco di dobermann meticci con la schiuma alla bocca, ma continuo a sentire solo quel selvaggio brontolio infernale, cosicché, stufa di inconcludenti tentennamenti, allungo il primo passo oltre il cancello e tutto sprofonda in un perfetto silenzio.

L'unico rumore avvertibile è lo sbattere ritmico di una persiana per un vento che non capisco da dove arrivi e lo stridio del cancello tornato a chiudersi alle mie spalle. I cardini non erano a molla, ma, nonostante l'età, devono essere ancora perfettamente oliati.

A questo punto non mi resta che andare avanti e sperare di aver mal interpretato la provenienza di quegli ululati o di correre più veloce dei loro proprietari.

La casa sembra più imponente vista da qui e anche più vuota. È una sensazione strampalata, perché, allo stesso tempo, ho anche l'idea di non essere da sola e potrei giurare di aver captato con la coda dell'occhio il movimento di una figura troppo grande per essere un cane, intenta a nascondersi dietro un logoro casotto da giardiniere.

Quanto tempo sarà passato dall'ultima visita di Emile in questo posto? Al massimo una settimana. Possibile che ci si sia già insediato qualche barbone?

Comunque l'intrico folto e scomposto di erbaccia sotto i miei piedi è secco e ancora imperlato di rugiada cristallizzata, ma non vedo impronte sulla candida coltre di brina che ricopre il giardino, quindi, forse, ho solo un nuovo attacco di allucinazioni.

“C'è nessuno?” provo a chiamare senza troppa convinzione. “Non ho cattive intenzioni.”

“E spero proprio non le abbiate voi, se ci siete” aggiungo tra me e me.

Ovviamente non ottengo risposta e anche i cani continuano a tacere.

Godiamoci la quiete, prendiamo atto della paranoia galoppante e andiamo avanti.

Emile aveva fatto proprio un ottimo lavoro nel dipingere questa villa, fornendone un ritratto stranamente più fedele di quello ottenuto da me con la videocamera, perché i suoi dipinti sembrano essere fotografie dalle quali trasudi anche l'essenza stessa di questo luogo e ora che mi trovo davanti a questa facciata di mattoni e pietre consunte, con svariate paia di occhi tenebrosi a fissarmi, devo ammettere che gran parte del suo fascino deriva proprio dall'aria ostile e malevola che vi si respira.

C'è un sentiero selciato seminascosto dalla malerba che porta a un imponente portone a due ante in legno scuro, con un grosso battente forse di ottone, ormai reso opaco e rovinato dalle intemperie, a forma di testa d'animale, come andava di moda a inizio novecento. Da questa distanza non riesco a capire se si tratti di un cane o di qualche bestia mitologica, ma credo sia la stessa figura che si intravede incisa, tra le macchie di borraccina, sull'architrave di marmo che copre la porta e sulle colonnine che la incorniciano. Nel complesso è tutto un po' troppo ridondante e art nouveau per i miei gusti, per quanto rivisitato in chiave gotica.

Prima di andare a controllare se sia possibile entrare in casa, penso sia meglio fare un giro del giardino, tanto più che sembra sia stato quello a suscitare principalmente le fantasie malate di Emile.

Passo con prudenza vicino al capanno, perché è meglio una psicotica viva di un'incosciente morta, ma non noto assolutamente niente che faccia anche solo presumere il passaggio di qualcuno; deve essere proprio stato uno strano gioco di ombre. Per massima prudenza, circumnavigo completamente l'ammasso di mattoni dall'aria poco stabile e le sole impronte che vedo sull'erba sono le mie, ma proprio mentre sto per perdere interesse, sul fianco sinistro della baracca, vicino all'apertura, chiusa da un tavolaccio tarlato, vedo qualcosa che mi fa drizzare tutti i peli delle braccia e magari anche quelli delle gambe che mi sono scordata di radermi stamani: l'orma sbafata di una mano di un bel rosso vermiglio.

E' sangue? Subito mi volto istintivamente indietro, temendo un attacco alle spalle, ma, come era ovvio supporre, continuo a essere sola, con i nervi a fior di pelle, ma assolutamente al sicuro.

L'impronta è grande, probabilmente maschile, e è ben visibile sul giallo bruciato dei mattoni, ma non può essere stata fatta col sangue, a meno che non sia dannatamente recente, perché altrimenti sarebbe stata lavata via dalla pioggia. A ben pensare qualsiasi tipo di materiale sia stato usato per lasciare questo schifoso murale di pessimo gusto non può essere su da molto, perché è troppo vivido e brillante.

Mi viene a mente il divertente racconto di Wilde su una macchia di sangue maledetta e lo spirito di un nobiluomo cinquecentesco vessato dalla famiglia americana nuova proprietaria del suo maniero, ma qui non siamo ne Il fantasma di Canterville e di certo io non mi sono portata dietro il miracoloso smacchiatore Pinkerton, per cui posso o fuggire a gambe levate senza un motivo veramente valido, o decidermi a studiare più da vicino questo obbrobrio.

Cerchiamo di immedesimarsi in Sherlock Holmes: nessuna impronta a terra tra me e il muro; nessuna strana scia di gocce rosse sul terreno; nessuna traccia di pennellate o schizzi sulla parete. Magari per il grande detective questo avrebbe potuto voler dire qualcosa, ma per quanto mi riguarda io rimango al punto di partenza. È la stramaledetta impronta rossa di una mano, priva di odore o altri segni distintivi, e mi sono stufata da perderci tempo. Chiunque l'abbia lasciata, con vernice o fluidi corporei, di certo non è più qui, quindi perché preoccuparmene?

Giusto per sicurezza faccio una foto col cellulare, poi apro la porta del capanno, che, per fortuna, non è chiusa a chiave, e mi ritrovo davanti il prevedibile e rassicurante caos tipico di ogni magazzino: una scaffalatura di legno tarlato si è ribaltata, rovesciando a terra un bel po' di ciarpame rotto o semi rotto, sulla parete di fondo c'è una brandina, con un materasso anteguerra pieno di buchi, su cui sono poggiate varie casse di legno coperte di polvere e infine, proprio vicino alla porta, appoggiata amorevolmente a un ceppo da taglialegna, troneggia un'ascia di dimensioni notevoli, con la lama coperta da un liquido ormai secco dello stesso colore dell'impronta qui fuori.

Deve essere quella a cui si è ispirato Emile per i suoi dipinti. Probabilmente l'ha studiata un po' troppo da vicino e l'ha sporcata coi colori, anzi, considerato quanto fosse strafatto, non mi meraviglierebbe che ci si fosse anche ferito, qualche volta, mischiando il suo sangue alla vernice. È un pensiero assurdamente inquietante, che vorrei non aver formulato. Per un attimo mi gira la testa e sono costretta a reggermi allo stipite sbrecciato della porta per non cadere e non spaccarmi la testa con quest'arma impropria. Ho la nausea, forse per il forte odore di muffa, o per la persistente debolezza da cui non riesco a liberarmi, o forse perché, negli attimi confusi che precedono lo svenimento, mi pare quasi di ricordare il mio amico e la scena che immagino è agghiacciante: lo vedo in piedi davanti alla fontana, con lo sguardo perso in incubi a me ignoti e le spalle ossute tese in un espressione di sfida, rovinata dal costante tremolio delle braccia, affaticate dall'immane sforzo di sostenere il manico dell'ascia, troppo pesante perché riesca a sollevarla, ma troppo importante perché possa lasciarla cadere, nonostante il sangue scorra copioso dalle sue mani fino alla lama, conficcata in terra come un'ancora, in mezzo a un mare di vernice maleodorante, tracimata da decine di secchi rovesciati. Non avverto suoni, in questo ricordo o allucinazione, ma sono sicura, al di là di ogni dubbio, che Emile stesse ridendo, una risata che non credo sarei felice di sentire.

Mentre provo a riprendere il controllo di me stessa, scavalco le sbarre spezzate dello scaffale e frugo tra gli scatoloni sulla brandina. Ci sono un sacco di vecchi aggeggi per cani, usurati e ormai inutilizzabili: collari borchiati marcescenti, guinzagli di ferro arrugginito, ciotole sporche sbreccate, il tutto con una foggia da inizio secolo. C'è una bambola di porcellana dal volto annerito, degna di un film dell'orrore, e un secchio di latta con dentro una sega a mano e un martello.

Non ho lo stomaco di alzare alcuni teli pieni di ragnatele e di sgradevoli palline nerastre, probabilmente lasciate da qualche topo, ma c'è qualcosa di interessante nell'angolo più estremo del materasso che devo assolutamente raggiungere: un barattolo dall'aspetto nuovo e lucente, senza un briciolo di polvere sopra, che ha tutta l'aria di essere pieno di vernice, o almeno di esserlo stato.

Mi serve un bastone o qualcosa di lungo per afferrarlo dal sottile manico di ferro senza dovermi allungare su questo schifo di ciarpame e la cosa più lunga che ho a disposizione è proprio la famigerata ascia, se riesco a sollevarla. Avrei dovuto portarmi dei guanti, perché la cosa peggiore che potrebbe capitarmi qui dentro è prendermi un'infezione; a forza di ascoltare Gabriel mi sono preoccupata di un sacco di sciocchezze, dimenticando i problemi seri.

Per fortuna questo aggeggio non è pesante quanto avrei pensato, anche se non riuscirei mai a brandirlo come un'arma. Toccarlo mi provoca una spiacevole sensazione di disagio, forse perché il manico è freddo come fosse stato in una ghiaccia e tanto liscio che sembra di afferrare il corpo di un serpente; ad ogni modo serve perfettamente al mio scopo e riesco a prendere la latta senza rovesciarla.

È più vecchia di quanto pensassi, probabilmente contemporanea agli altri ammennicoli di questo buco, eppure è perfettamente conservata, pulita e non sfigurerebbe in una moderna ferramenta. Non ha marca, né indicazioni su materiale o composizione, sul coperchio c'è solo uno strano simbolo, vagamente simile a un pentacolo, con una scritta consunta dai caratteri elaborati, in cui riesco a leggere a fatica: La bottega delle meraviglie, forse il nome del negozio in cui è stata acquistata. Sotto ci sono due iniziali, incise malamente, di sicuro in un secondo momento: J. M., come il nome del vecchio padrone di casa. Un po' paranoico per mettersi a siglare un barattolo di vernice, comunque ormai Morel è morto e posso derubarlo senza preoccuparmi della sua possessività; potrebbe essere utile studiare questa vernice, magari ce n'era altra, in casa, Emile l'ha usata e è stato intossicato da qualche vecchio composto deteriorato o comunque velenoso.

Mi guardo intorno un'ultima volta, ma non c'è più niente di interessante, così, lasciando cadere l'ascia, che rimbomba come se l'avessi lanciata da sei metri d'altezza, mi sposto con l'idea di ripercorrere l'itinerario visto su DVD.
Il cortile sul retro è davvero trascurato e decadente come appariva nel filmato e, nonostante adesso sia giorno, non è decisamente meno lugubre.

C'è un grosso albero scheletrico di non so quale specie che ha quasi invaso il sentiero a lato della villa e un ramo è stato spezzato di recente, ma è troppo distante dalle finestre perché si sia trattato di un tentativo di effrazione.

In fondo al cortile, in un angolo nascosto quasi totalmente dalla vegetazione ormai fuori controllo, noto, per la prima volta, i resti di un recinto coperto, costruito in un disordinato connubio di pietre, legno e reti metalliche. Forse Morel teneva lì i cani per i quali usava i collari e le ciotole riposte nel magazzino.

Il gazebo è tanto imponente quanto fragile e ho paura possa cadermene in testa un pezzo mentre mi avvicino a osservare la statua che già avevo visto nella registrazione, meravigliandomi per la sua inquietante bellezza, ancora più coinvolgente ora che le sto vicina.

È interamente di marmo nero, a parte gli occhi del giullare, di una strana pietra dura color rosso fuoco, appena visibili attraverso le palpebre socchiuse, modellate così finemente che sembra stiano per aprirsi sotto il mio sguardo. Il volto della creatura è contorto e grinzoso, il mento sfuggente, il naso adunco di un rapace e le guance infossate, il sorriso è un ghigno da squalo spropositatamente ampio. In compenso la figura di donna che tiene tra le braccia è la quintessenza della beltà: il corpo nudo ha linee morbide e armoniose, il volto, addormentato, tratti gentili e squisitamente femminili. L'unica nota discordante è una sbarra di ferro simile a una lancia con la punta a cuore che, tenuta da una mano del giullare, trapassa il ventre della donna, uscendo dal lato sinistro del costato, quasi in una macabra rappresentazione di omicidio.

Forse è per questo che la statua, pur nella sua oggettiva perfezione estetica, è tutt'altro che piacevole da guardare; mi attira come una calamita, ma è anche impercettibilmente o istintivamente ributtante, é un effetto simile a quello provocato da un megalitico incidente d'auto che non si riesce ad ignorare, ma si vorrebbe non dover vedere mai.

Sulla gamba sinistra della figura femminile, avvinghiata al vecchio, intravedo un sottile segno circolare dal colore indefinito; purtroppo suppongo che Emile se ne fregasse della possibilità di rovinare un oggetto tanto pregiato e costoso e vi abbia deposto barbaramente un barattolo di vernice. In effetti deve aver dipinto la villa da questa angolazione, perché, sebbene meno irreale, sto osservando proprio la facciata che ho visto nel video, con due ordini di finestre dalle persiane screpolate, semiaperte o aperte su vetri sporchi e incrinati, e una porta non imponente come quella d'ingresso, ma altrettanto intarsiata, di legno massiccio, nero quanto la statua, e con un intrico contorto di figure umanoidi assolutamente sprecato per un ingresso di servizio. C'è persino una maniglia a forma di testa di cane, che sembra, stranamente, fatta di rame, ma ormai è lurida di polvere, pioggia e corrosione e dà solo un aspetto ancora più inappropriato alla ridondante ricercatezza della porta. Al centro dello stipite, a mo' di pietra di volta, si intravede un'immagine abbozzata, meno elaborata delle altre, simile ad una spirale, che avevo appena notato e ritrovo immediatamente proprio sulla punta centrale del cappello del giullare.

Improvvisamente, dietro di me, sento un vivace mormorio di acqua corrente, piacevole se non pensassi che la fontana era totalmente secca fino ad un istante fa; forse ha una specie di timer arcaico tuttora in funzione, come a Versailles, o forse c'è una perdita in qualche tubo perché la prima ipotesi è palesemente confutata dai fatti: tutti i diavoletti e i cagnacci sono asciutti, a parte per il velo untuoso dell'umidità novembrina.

È una vecchia casa, probabile che le tubature abbiano qualche difetto che non renderà di certo più facile la vendita.

Faccio per dirigermi all'ingresso, ma uno scalpiccio veloce di passi mi blocca; qualcuno sta correndo in questa direzione dal giardino di fronte e, anche se non ho forzato il cancello, non vorrei trovarmi davanti un gendarme incazzato o, peggio, un malintenzionato disturbato dalla mia visita inaspettata. A giudicare dal rumore sembra un'unica persona e poco pesante, ma io sono pur sempre disarmata e convalescente, quindi, fregandomene di fare l'eroe, mi nascondo dietro la statua e spero di non essere notata.

I secondi passano, il trapestio si avvicina, e ancora non vedo nessuno. Eppure, ormai, dovrebbe essere davanti a me, anzi, adesso sembra quasi mi stia superando e l'eco dei passi svanisce alle mie spalle.

Che diamine è successo? Ci sono delle gallerie sotterranee, in questo strampalato posto? O c'è una forma stranissima di eco per cui quello che ho udito non era altro che il rimbombo di un passante lungo la strada?

È un po' illogico, ma di certo qui non è transitata anima viva. L'aria è stata anche invasa da un intenso odore di gelsomino e caprifoglio, improbabile in questa stagione, a meno che al di là del muro di cinta non si sia rovesciato il cassone di un camion che trasportava profumi o che la donna della quale ho sentito la corsa non si fosse fatta un bagno nell'acqua di colonia.

Forse è stato proprio questo assurdo genere di fenomeni a scatenare la fantasia malata di Emile, facendogli dar vita ai mostri della fontana, alla statua oscena e ai fantasmi dei vecchi proprietari che, nella sua mente deviata, avrebbero dovuto continuare a infestare queste cadenti mura dall'aria troppo gotica per non dar origine a leggende metropolitane.

Per fortuna io ho un po' più di buon senso e non mi lascio impressionare da tubi rotti o rimbombi inconsueti.

Mentre torno ad avvicinarmi alla porta, provo a capire come funzioni la fontana, meravigliandomi della sua semplicità: c'è una piccola maniglia di ferro, tonda, collegata a un tubo che sparisce sottoterra, così sporca che non credo sia stata toccata da almeno vent'anni. Provo a forzarla e, dopo qualche tentativo infruttuoso, mi rimane in mano, ma nemmeno così l'acqua inizia a scorrere. Questo potrebbe giustificarsi con la perdita che ho sentito e che deve essere più grave di quanto non supponessi, se lascia completamente a secco l'impianto idraulico della casa.

In realtà, sul fondo della fontana, sotto la melma verdastra, pare esserci uno strato sottile di liquido, ma credo sia solo il ricordo dell'ultima pioggia. Il tanfo è nauseabondo, tanto da farmi rimpiangere l'intossicante aroma del gelsomino; ha un retrogusto ferroso che rimane sulla lingua, come se ci fosse del sangue mischiato all'acqua. Magari ci si sta decomponendo dentro qualche uccellino o qualche rana; sondo la base con un ramoscello, incerta di cosa potrei pescare, finché rimane bloccato e temo di aver finito di intasare lo scarico. Cerco di tirarlo via con tutte le mie forze, scoprendomi più debole di quanto non credessi perché il ramo non si muove di un millimetro, come l'avessi incuneato in una morsa di ferro e non in un banale buco nella pietra. Prima di spezzarlo e consolidare il danno, tento di spingerlo in basso, sperando di allentare la tensione, ma mi ritrovo a giocare al tiro alla fune con un risucchio inspiegabile e potentissimo che quasi me lo strappa dalle mani, prima di interrompersi repentinamente com'era iniziato, facendomi cadere in malo modo, col sedere per terra e la faccia sporca della melma grondante da un pezzo di stoffa lurida infilzato in cima al ramo. Un tempo quel frammento doveva essere bianco, ma ora è coperto di chiazze marroni, verdi e rossastre; forse è uno degli stracci di Emile, lanciato in giro in uno dei suoi non rari momenti di follia, ma c'è anche qualcos'altro aggrovigliato ai fili sfrangiati dell'orlo e seminascosto nella stoffa: un pezzo di cordoncino metallico a maglia bizantina, che sono certa sia d'argento anche se è completamente annerito e fangoso e che sembra il residuo di un braccialetto o di una catenina da signora.

Lo pulisco con un fazzoletto di carta, ma non riesco a migliorarne molto l'aspetto, perché la patina lasciata dal tempo è troppo resistente e non risale sicuramente a poche settimane fa. Se anche il panno apparteneva a Emile è rimasto invischiato con qualcosa che era stato perso molto prima, in questa fontana. Si intravede un'incisione su una piastrina all'angolo del fermaglio, non il simbolo del metallo, ma forse un marchio del produttore o un nome: Fatva, Fedwa o qualcosa di simile; pare arabo o indiano, e, se non sbaglio, la moglie di Morel era straniera. Alcuni siti la definivano un bellissimo, delicato fiore dagli oscuri petali; avevo pensato ad un'immagine balorda per “affascinante e crudele”, ma magari si riferivano banalmente all'abbronzatura tipica delle donne del medio-oriente.

Stasera, se il computer collaborerà, cercherò ulteriori notizie, o, in disperazione, chiederò a Gabriel, anche se dovrò sorbirmi un'estenuate ramanzina per avergli disobbedito. Avrà anche buone intenzioni, ma è uno strazio. E poi la sua prudenza è eccessiva, non ho trovato alcun pericolo qui, a parte quelli prevedibili in una casa disabitata, e credo di saper scansare un mattone rotto o evitare di sbattere la testa su qualche trave malferma. A sentire lui avrei fatto meglio a girare in piena notte alla Gare du Nord piuttosto che avventurarmi in questa villa, come se le pareti mi fossero potute crollare in testa o ci fossero stuoli di maniaci accampati negli angoli.

L'unico segno di pericolo inatteso che ho riscontrato è stato quel latrare di cani, che avrebbero potuto rivelarsi un problema, ma poi non ne ho visti nessuno, quindi dare retta ai suoi iper-prudenti consigli sarebbe stato inutile.

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Capitolo 15
*** Profumo ***


Come a volermi contraddire, o come se fosse stato evocato dal mio stesso pensiero, sento di nuovo un groviglio indistinto di ringhiottii bassi e minacciosi, ma non riesco ancora ad individuarne l'origine. Sembrano tutt'intorno a me, eppure il giardino, per quanto ampio e disordinato, non è tanto immenso da poter nascondere una muta di cani inferociti, dovrei vedere le loro impronte o almeno scorgerli tra i cespugli; l'unico posto dove avrebbero potuto rifugiarsi e, forse, passare inosservati è il canile fatiscente che ancora non ho esplorato, mi chiedo, però, se sia più prudente lasciarli perdere e rifugiarsi in casa o andare a stuzzicare il vespaio, rischiando di scatenarmeli definitivamente contro: oltre questa porta massiccia e solida sarei al sicuro da qualsiasi cosa, ma non vorrei trovarmi un branco di randagi seduti in cerchio ad aspettarmi quando vorrò uscire, quindi mi avvio verso i resti contorti del recinto, attenta a non ferirmi col filo spinato arrugginito e a non subire attacchi alle spalle. Una persona meno paranoica riderebbe di tutte questi patetici tentennamenti, mentre una meno incosciente sarebbe già scappata a gambe levate, quindi probabilmente mi sto comportando nel miglior modo possibile: aurea mediocritas, giusto?

I latrati continuano ad accompagnarmi come una colonna sonora macabra tenuta al minimo del volume, ma non ci sono tracce fresche in questo disastro di legno tarlato e pietre umide tenute insieme solo dalla forza di volontà, dopo che malta si è completamente rovinata. Si intuisce l'antica presenza di almeno dodici gabbie in uno spazio tanto angusto che già la metà sarebbe stata eccessiva, ci sono i canali di scolo per l'acqua e gli altri rifiuti meno innocui, ormai coperti di erbaccia e fanghiglia marcescente, c'è qualche ciotola simile a quella del magazzino, ma, per fortuna, nessuna creatura vivente più grande di un moscone. Di quelli ce ne sono a profusione nonostante il freddo, probabilmente attirati dal cattivo odore o da qualche sacco di cibo più che scaduto rimasto sotto i rottami. Nel fango, ora inaridito dal gelo, ci sono segni di profonde unghiate, memoria di un raspare selvaggio e violento che, istintivamente, giurerei risalire all'epoca stessa del canile, ma che, con ogni logica, non avrebbe potuto resistere a anni di pioggia e intemperie. Non riesco ad immaginare nessuna bestia, anche randagia, desiderosa di rifugiarsi in un postaccio del genere, avendo tutto un giardino a disposizione, con vari rifugi meno angusti e lugubri, ma d'altra parte io non sono un cane e non ho neppure una pelliccia naturale per proteggermi dal freddo che, in questa zona, è ancora più intenso e mi penetra nella giacca come se venisse dalle mie stesse ossa. Morel non doveva essere un amante degli animali per aver costruito questo recinto nell'angolo più cupo e gelido del cortile, ma, secondo la storia, non era neppure un amante degli altri essere umani, quindi non mi meraviglio di una tale indifferente crudeltà.

La cosa importante è che ho visionato tutto il perimetro e sono ancora illesa, l'abbaiare è cessato e la sua fonte rimane ignota, probabilmente esterna al muro di cinta come quella del tramestio di poco fa. Posso entrare nella villa col cuore in pace, o almeno potrei farlo se lo squillo inaspettato del cellulare non mi facesse sobbalzare come una dodicenne durante un film dell'orrore.

È un messaggio e io ho dimenticato di inserire la vibrazione.

“Non sei alla casa vero?”

Nessuna firma, nessuna spiegazione, ma sono pochi ad avere questo nuovo numero e ancora meno a potersi preoccupar di una simile eventualità, anzi direi che sia uno solo; cerco nella borsa il post-it che mi aveva lasciato sul frigo e ho la conferma ai miei sospetti. Forse è un indovino o un telepate, di certo si conferma un rompiscatole e dovrei solo ignorarlo, però è anche carino a preoccuparsi per me, per quanto i suoi motivi siano insensati, e non riesco a convincermi a lasciarlo perdere. Il blu oltremare dei suoi occhi non c'entra niente con la mia decisione, è ovvio, piuttosto è stranamente piacevole avere un contatto con qualcosa di vivo al di là di queste mura, anche se si tratta di un fugace e impersonale sms; cominciavo a sentirmi un po' sola e la stanchezza mi rende malinconica.

“Certo che sì” gli invio, ovviamente senza firma, prima di togliere la suoneria per non attirare troppe attenzioni dal vicinato.

Finalmente mi accingo a scoprire se la porta sia aperta o se sia in grado di forzarla, quando un cigolio, all'interno, mi fa nuovamente titubare. Vorrei urlare per la frustrazione, ma mi accontento di sporgermi per guardare oltre la finestra alla mia sinistra, con la persiana accostata.

C'è buio all'interno e un brandello di tessuto che una volta doveva essere una tenda limita la mia visuale. Ad intuito direi di star fissando una specie di ampia cucina, perché intravedo un grosso tavolo ribaltato e una madia con dei piatti abbandonati in disordine. Non ci sono movimenti e non riesco a penetrare oltre l'oscurità della stanza né lo sporco incrostato sul vetro. Magari ho sentito un topo che sbatteva su qualche sedia, comunque spero di non dover far rumore per entrare.

Almeno la maniglia gira senza difficoltà e riesco a richiudermi la porta alle spalle senza aver prodotto il minimo stridore. È fatta, sono dentro villa Morel.

L'esaltazione è tanta che dimentico completamente il mio malumore, anzi, sono talmente felice di essere qui che vorrei avere Gabriel con me per poterlo sbattere contro quel tavolo e scoprire se il suo sedere sia perfetto come lasciano intuire i jeans. Vorrei baciare le sue labbra imbronciate e mordergli la gola fino a farlo sanguinare, esplorando ogni centimetro della sua pelle e affondandoci le unghie.

Il bisogno di dare sfogo a questa fantasia è così intenso da risultare doloroso e mi concentro per impedire alle mie mani di salire ad accarezzare i seni in un tentativo inopportuno di trovare sollievo; devo essere rimasta single a lungo per provare una simile lussuria improvvisa e immotivata in un posto scuro, sudicio e cadente che è l'antitesi di quanto potrei immaginare romantico o eccitante, senza neanche avere un uomo accanto e immaginandomi con uno spiantato.

Spero sia un effetto residuo delle droghe, ma non so per quanto ancora potrò appigliarmi a questa scusa per giustificare tutte le mie stranezze.

Sarò ninfomane, oltre che venale e calcolatrice? Non ho approfittato di Gabriel quando ero nell'intimità della mia casa, sola e vulnerabile, questo verterebbe a mio favore, oppure potrebbe voler dire che mi eccito solo in posti stravaganti e in situazioni ancor più assurde.

Adesso mi sembra addirittura di sentire dei gemiti provenienti dal piano superiore, uniti a scricchiolii e tonfi difficilmente fraintendibili.

Sto davvero impazzendo e dovrei chiamare Jas perché mi porti al sicuro lontano da qui, magari in una clinica per malati di mente pericolosi.

Sento un gridolino femminile e mi tappo le orecchie, respirando piano per recuperare lucidità, ma, passata l'emozione irrazionale del momento, mi rendo conto che esiste un'altra spiegazione per questi rumori: potrei non essere sola, in questa villa, e potrei accingermi ad essere testimone involontaria del quarto d'ora di passione di un paio di adolescenti venuti a cercare un po' di intimità e avventura.

Magari ho annusato i loro ferormoni o qualsiasi altra cosa si dice venga secreta dal corpo per stimolare la libido e, in una condizione fisica non ottimale, non ho saputo contrastare l'istinto con la ragione.

È una spiegazione che mi soddisfa pienamente e la faccio subito mia. Prego solo che i fatti la confermino e mi appresto ad uscire in ricognizione, facendo attenzione a non spaventare la felice coppia.

A tal proposito la telefonata di Gabriel risulta anche più inopportuna del suo precedente sms; nel silenzio della stanza in cui sono appena arrivata, una specie di triste e ridondante sala da pranzo, col soffitto a travi tanto alto da creare un fastidioso effetto eco, il rumore della vibrazione sembra assordante e mi costringe a guardarmi intorno preoccupata, certa di aver messo in allerta qualsiasi topo, scarafaggio o persona nel raggio di un chilometro. Potrei attaccargli in faccia e spegnere il cellulare, ma preferirei tenerlo acceso e pronto in caso di necessità, quindi non resta che una soluzione.

“Pronto” sussurro, sperando di apparirgli seccata nonostante la voce bassa.

“Sei impazzita?” urla tanto da vanificare il mio bisbiglio. “Mi sembrava fossimo d'accordo che tu lì non ci saresti andata.”

“Davvero?” mi chiedo cosa glielo abbia fatto supporre. “Ricordo che stavi sbraitando qualcosa sui pericoli del venire qui, ma poi ci siamo distratti a parlare del tuo lavoro e non abbiamo deciso niente.”

“Per l'inferno, Alex” si interrompe e sento una voce maschile sconosciuta, piuttosto arrabbiata, richiamarlo al lavoro. “Non mi interessa, scaricatelo tu il tuo dannato camion.”

Deduco non stia momentaneamente parlando con me.

“Vallo a raccontare al principale, vallo a dire anche a tua sorella se ti fa piacere!”

Sembra davvero arrabbiato, ma non voglio perda un altro lavoro per colpa mia, o, almeno, con un briciolo di colpa da parte mia, perché, se venisse nuovamente licenziato, dovrebbe accusare solo il suo brutto carattere.

“Gabriel” provo a farmi ascoltare, cercando di calmarlo. “Non dovresti rispondere così ai tuoi colleghi. Io sto bene e sono perfettamente al sicuro.”

“Tu sei alla villa” mi rimprovera con tono tanto duro da lasciarmi in bilico fra l'indignazione e l'inquietudine. “Arrivo subito.”

“Aspetta, che significa che arrivi subito? Sei a lavoro, sei anche arrivato tardi stamani e di certo non puoi mollare così i tuoi impegni.”

“Non mi interessa” ribatte, mentre lo sento armeggiare con non so quali attrezzi, probabilmente nel tentativo di riporli in fretta con una mano sola.

“Gabriel, non c'è bisogno tu corra qui, non sono neanche sola. Sta tranquillo.”

“Come non sei sola? Chi è venuto con te?”

“Nessuno, ma sento dei rumori nella villa, credo ci fosse già una coppietta qui dentro, o magari anche due.”

“Una coppia?” sembra perplesso, per niente più rilassato.

“Sì, sento rumori inequivocabili dal secondo piano.”

Un isterico improperio è l'unica risposta che ottengo prima che la comunicazione venga interrotta, lasciandomi con la sgradevole sensazione di non essere minimamente riuscita a dissuaderlo dal raggiungermi.

Non sono sicura se mi convenga tornare indietro per sbarrare la porta o per fermarla con qualcosa di resistente in modo che non si chiuda involontariamente alle mie spalle, magari bloccandosi e impedendomi di uscire. Nell'incertezza, opto per la nullafacenza.

Il soggiorno in cui mi trovo doveva essere davvero sontuoso, ai tempi di Morel, ma adesso, al di là del gusto personale, è un vero e proprio omaggio alla tristezza, con la carta da parati muffita e sfilacciata lungo le pareti, i divani coperti di macchie scure di variegate intonazioni tra uno strappo e l'altro, l'imponente tavolo da pranzo, un tempo di legno pregiato, ridotto a un misero banchetto per tarli e le sedie imbottite traballanti, incapaci di sostenere persino se stesse. Il tutto, ovviamente, è coperto da un impenetrabile strato di polvere grigiastra e ragnatele intricate, per fortuna prive di inquilini.

È strano, ma sembrerebbe che in questa stanza non metta piede nessuno da anni, il che farebbe supporre che Emile ed io non fossimo mai venuti a curiosare, nonostante la porta aperta, e che la coppia intenta a darsi da fare al piano di sopra sia passata dall'ingresso principale, sebbene più visibile dalla strada.

Ora che ci faccio caso, i rumori sono completamente cessati e intorno a me c'è solo un silenzio poco confortevole; probabilmente il casino prodotto dal cellulare ha spaventato i due pervertiti e adesso stanno aspettando di capire chi altro sia in casa con loro. Il guaio è che non so se sia prudente avvertirli che non ho cattive intenzioni, perché, invece di due adolescenti innocui, al secondo piano potrebbe esserci un energumeno meno pacifico di me, per niente contento della mia improvvisata, e non vorrei vederlo scendere in mutande e infuriato giù dalle scale.

Rimango in silenzio e mi convinco che i miei allegri compagni, chiunque siano, abbiano semplicemente finito di fare i loro comodi e si stiano riposando, oppure stiano mangiando, visto che avverto, all'improvviso, un forte odore di cibo, tra l'altro molto invitante.

L'aria si satura velocemente dell'effluvio aromatico di salvia, cipolla e timo, tanto intenso da impastarmi la bocca.

Fossi in strada e questo profumo provenisse da un ristorante, mi fermerei subito per il pranzo, ma è assurdo essersi portati del cibo da asporto così elaborato in questo tugurio, dove io ho paura di prendermi l'epatite anche solo respirando.

Certo, il mondo è bello perché è vario e per me è conveniente che siano distratti da un banchetto piuttosto che dalla sottoscritta, il guaio è che temo stiano cucinando qualcosa di espresso, su un fornellino da campo poco sicuro, perché al buon odore delle erbe si sta amalgamando una spiacevole puzza di bruciato, pungente e aspra, che mi fa temere che abbiano incendiato qualcosa di più del loro pranzetto.

Prima di poter verificare se ci sia anche del fumo e debba chiamare i pompieri, vengo letteralmente travolta da un mal di testa tanto intenso da farmi barcollare. Ho i brividi e i polmoni sembrano faticare a raccogliere ossigeno. Mi chino sulle ginocchia, perché non voglio svenire su questo pavimento dissestato, ma ottengo solo di farmi oscurare la vista, imprigionandomi in una fosca bolla nebulosa di incoscienza, dalla quale sono costretta ad ascoltare di nuovo le grida e i lamenti di voci confuse tutt'intorno a me, le richieste di aiuto, le preghiere impacciate, le imprecazioni violente, come nel mio incubo, o nel mio unico, terribile ricordo. Il calore si fa insopportabile e il dolore non vuole diminuire; so dove ho già sentito un fetore simile, prima d'ora: è il tanfo untuoso e nauseabondo della pelle riarsa, dei capelli inceneriti, delle membra ustionate. Questo è il miasma della morte a cui sono miracolosamente sfuggita e che continua a perseguitarmi ad ogni minimo accenno di debolezza, per punirmi di una colpa che non credo di aver commesso, anche se so di non meritare di vivere più di quanto lo meritassero gli altri, so che dovrei essere io e non loro a far parte di questo olezzo infernale, che non dovrei camminare ancora alla luce del sole, che non dovrei sopravvivere alla morte.

Il fumo è sempre più soffocante e una tosse aspra e convulsa mi scuote il petto, rimbombando sulle tempie.

Dovrei arrendermi al fuoco, al passato, al destino. È così inutile lottare, così controproducente. Dovrei solo lasciarmi trascinare via, sarebbe facile e indolore, ma proprio mentre sto per convincermene, mi rendo conto che non sarebbe da me: io odio darmi per vinta e odio perdere il controllo.

Forse quello che avverto è un odore concreto e attuale, forse qualcuno si è ustionato adesso, con qualche bravata imprudente, e io non posso starmene ferma in un angolo a compiangermi, ripiegandomi su me stessa come una larva senza spina dorsale; devo controllare che non ci sia nessuno in pericolo, prestare il primo soccorso, chiamare aiuto. Devo alzarmi da questo pavimento e scrollarmi di dosso tutte le fantasticherie insensate in cui mi stavo perdendo, anche perché, appena riesco a mettermi in piedi, sebbene traballante, non avverto più alcun odore, gradevole o sgradevole, e anche i miei disturbi svaniscono senza lasciare traccia. Sto dannatamente bene.

Mi appoggio al tavolo, cercando di toccarne meno superficie possibile, e respiro piano, a pieni polmoni, per calmare il respiro troppo affannoso. La casa è muta e inerte intorno a me: nessun rumore, nessun profumo, nessun fetore.

Appena finito di esplorare questo posto, dovrò correre da un medico, sperando di trovarne uno finalmente competente.

Ancora qualche respiro profondo e sono pronta per allontanarmi dal precario appoggio del tavolino, quando mi sento afferrare a piene mani per i glutei. Rimango di sasso solo per una frazione di secondo e mi volto, pronta a schiaffeggiare il porco molestatore, ma mi trovo a fissare la parete senza che ci sia neppure un granello di polvere smossa intorno a me.

Sono indubbiamente sola e non capisco proprio come possa essermi immaginata una simile assurdità: gli incubi da stress post traumatico non dovrebbero provocare allucinazioni su molestie sessuali. E poi, cosa anche più assurda, ero convinta di trovarmi davanti Gabriel, per quanto non lo immaginassi il tipo propenso a infastidire le ragazze, perché la palpata, al di là di una giusta e logica indignazione, aveva risvegliato anche quella sottile e fastidiosa eccitazione che avevo già provato entrando in casa.

Dovrò riconsiderare la lista delle cose da fare: esplorare la villa, vedere un dottore e cercarmi un ragazzo, magari neanche in quest'ordine. Intanto esco nell'ingresso, degno della casa padronale di un latifondista del Sud America, e mi fermo ad ammirare la scalinata curva di marmo bianco, con la balaustra in ferro battuto, pensando di vedere scendere Rossella O'Hara dal ballatoio, su cui si aprono varie porte di legno scuro, tutte completamente istoriate.

In questa zona, con mio grande sollievo, noto varie serie di impronte, maschili e femminili, alcune delle quali potrebbero anche essere mie. Almeno adesso so con certezza che qualcuno è stato qui di recente ed è salito anche ai piani superiori.

È uno spazio molto ampio, quasi privo di mobilio, impreziosito da pesanti tappeti dall'aspetto orientale, ormai completamente rosi dalla polvere, dai topi e dall'umidità. Cerco di indovinarne il disegno e penso sarebbero stati più appropriati per una camera da letto che per un ingresso, perché dai pochi, sbiaditi tratti che riesco a intravedere, sembra raffigurino scene erotiche piuttosto spinte con donne discinte in mezzo a fauni, demoni e altri mostri della mitologia.

O è una congiura verso il mio fragile autocontrollo, o Morel era un vizioso, oltre che un assassino.

Sono stranamente certa che questi oggetti appartenessero tutti all'arredo originale della casa, anche se non saprei spiegarne lucidamente il motivo: in quasi cento anni di certo i vari proprietari, se ce ne sono stati, avranno apportato modifiche all'architettura e all'arredamento, ma non riesco a convincermene.

In un angolo, quasi sotto lo scalone, c'è uno strano braciere, simile a quelli che si vedono nelle sale dei principi nei film medioevali, ma più sottile e elegante, di foggia araba, con tre lunghe zampe da rapace a sostegno della coppa superiore, piena di ghirigori e iscrizioni incomprensibili, dove, probabilmente, venivano bruciati incensi o legni profumati. Ancora adesso sembra emanare il ricordo di un aroma asprigno e sensuale, intonato con le rappresentazioni sui tappeti, quasi quest'ingresso anticipasse ai visitatori il pensiero preferito dal padrone di casa: il sesso, evidentemente.

Non c'è da meravigliarsi che qualche giovincello più intraprendente porti qui la fidanzata: tra l'atmosfera lugubre e sinistra e le frequenti allusioni erotiche, si troverà notevolmente avvantaggiato nelle avanches con parecchie ragazze che non siano troppo schifiltose.

Osservando meglio il piatto dell'incensiere, tra le varie scritte annerite o consunte, riesco a decifrare un nome che avevo già incontrato di recente: Fadwa, probabilmente la giusta interpretazione delle lettere che avevo notato sulla catenina.

Mi sento sfiorare il collo da un tocco morbido e leggero, come la carezza di una piuma o un bacio a fior di labbra, l'odore è più intenso vicino al braciere e mi scivola dolcemente sotto la pelle, riscaldandomi in maniera piacevole quanto innaturale, poi il portone d'ingresso si spalanca e ogni incanto si rompe, mentre osservo un Gabriel arruffato, irritato e inquieto avanzare ad ampie falcate verso di me.

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Capitolo 16
*** Dentro ***


“Cosa diavolo ci fai qui?” sta letteralmente ringhiando, ma non mi lascio impressionare, forte della mia forse assurda convinzione non mi farebbe del male neanche involontariamente.

“Non farmi perdere indizi” lo rimprovero, senza arretrare di un passo o mostrare alcun fremito di fronte alla sua furia, cosa che sembra irritarlo ancora di più.

“Quali indizi?”

“Ad esempio le impronte, che stai compromettendo facendone di nuove.”

“Scusa tanto, Sherlock” risponde sarcastico. “Sono certo che avrai un brillante futuro nella gendarmeria, ma adesso ce ne andiamo.”

Mi afferra per il polso e mi strattona con decisione, ma, per quanto la sua forza gli permetterebbe agilmente di trascinarmi fuori in pochi secondi, è talmente concentrato sull'essere irosamente gentile che perde ogni possibilità di vittoria.

“Non voglio andarmene. Tu, piuttosto, dovresti tornare a lavoro.”

“Non credo mi vogliano ancora, ho rotto il naso al mio capo.”

Lo dice come fosse una cosa banale, mentre io inizio a chiedermi se il mio istinto non si sia definitivamente lesionato, portandomi a sentirmi sicura con gente così violenta.

“Gli hai rotto il naso?” ripeto, in modo piuttosto stupido.

Annuisce, avendo almeno il buongusto di abbassare gli occhi in quello che voglio interpretare come un moto di leggero imbarazzo.

“Prima o poi finirai nei guai, potrebbero denunciarti.”

“E' già successo” sbuffa, abbandonando velocemente quella fugace traccia di vergogna. “Ma sono sempre stato rilasciato, senza nessuna accusa.”

Quando lo guardo con severità, arrossisce appena, ma sostiene il mio sguardo.

“Lo sapevi, comunque” bofonchia a mo' di scusa. “Te l'avevo raccontato l'altra volta.”

“Prima dell'incidente, intendi?”

“Sì.”

“Avresti dovuto ripetermelo adesso!”

“C'erano un sacco di cose più importanti di cui parlare.”

Vorrei continuare a rimproverarlo, per quanto io stessa non sia un modello di virtù, da quel che ho capito, ma la giustizia divina interviene a punire la mia sfacciataggine, costringendomi a chiudere la bocca per non mugolare, mentre sento tutti muscoli irrigidirsi e la spina dorsale scricchiolare sotto il peso di un macigno invisibile, provocandomi spasmi atroci in ogni angolo del corpo. Avverto un freddo intenso e fatico a non battere i denti in maniera patetica, resistendo all'impulso di fuggire per un guizzo involontario di paura immotivata.

Probabilmente sono sbiancata, perché Gabriel mi ha fissato con una strana consapevolezza e ha smesso di punzecchiarmi.

“Li cerchiamo quando starai meglio questi maledetti indizi. Insieme. D'accordo?”

“No.”

Alza gli occhi al cielo, esasperato.

“L'esplosione ha bruciato qualcosa anche in te, è sicuro: quel poco di buonsenso che ti rimaneva!”

“Ho scoperto di essere già stata in questo posto” ignoro l'offesa.

“Sì, tu e il matto. Sai che novità? Non c'era bisogno di arrivare fin qui per dedurlo.”

“Ho trovato un paio di oggetti strani.”

“Non li hai presi vero?”

“Sì, certo.”

“Tu” soffoca un insulto o un'imprecazione di qualche tipo, poi riprova a formulare il concetto. “Tu...”

“Io?”

Per qualche secondo sembra l'imitazione perfetta di un pesce, poi si arrende.

“Lascia perdere.”

Mi stringo nelle spalle, per una volta propensa a dargli ragione.

“Andiamo al piano di sopra? Ormai, chiunque ci sia, saprà di avere compagnia.”

“Che andiamo a fare di sopra? Usciamo da qui.”

“Sembri un disco rotto e quello che dici non ha senso” alzo una mano a frenare un'altra noiosa protesta. “Non voglio sprecare tempo, Gabriel: metti che la polizia risalga a questo posto e ne blocchi l'accesso o che, per sfortuna estrema, la villa venga venduta e non si possa più visitare. Questa potrebbe essere la mia unica occasione per capire qualcosa di questo postaccio.”

“C'è già un possibile acquirente.”

“Davvero? Come fai a saperlo? Chi è?”

“Lo stesso di cui ti ho parlato a proposito della medicina che ti avrebbero somministrato all'ospedale. L'ho scoperto mentre indagavo.”

“Motivo in più per sbrigarsi.”

“Sono convinto che, se ne diventasse il padrone, non avrebbe problemi a farti entrare in casa sua” lo dice con estremo disgusto. “Ti aveva messo gli occhi addosso.”

“Vuoi dirmi come si chiama adesso?” mi sento assurda a dover porre certe domande e piuttosto esasperata nel doverle ripetere.

“Xavier” sputa il suo nome con palese disprezzo. “Xavier De la roche.”

“Avevo accettato di incontrarlo, giusto?”

“Così pare. Anch'io vorrei incontrarlo: se lo avessi fra le mani troverei un buon modo per usare il mio pugno” mi osserva per un istante. “Sì, lo so. Sono un poco di buono e un criminale, ma lui è un vero bastardo. Vado avanti io.”

Si dirige a passo veloce verso la scalinata, cambiando idea e argomento così repentinamente da lasciarmi senza parole. E' dispotico e iperprotettivo, ma almeno, pur tra mille borbottii, sta andando proprio dove volevo, quindi non avrebbe comunque senso replicare.

“Vediamo se riusciamo a trovare altra vernice, quassù” suggerisco. “Magari Emile veniva anche qui a dipingere.”

“Che significa altra vernice?”

“Che ne ho trovato un barattolo nel capanno. Ci sono incise le iniziali di Morel e c'è anche una scritta: La bottega delle meraviglie.”

“E' il nome di quel negozio” si ferma a metà della salita, facendomi quasi sbattere sul suo fondo schiena. “Fammi vedere.”

Tiro fuori il barattolo dalla borsa, stando attenta a non aprirlo per sbaglio, ma me lo strappa dalle mani con impazienza, prendendo anche il fazzoletto di carta con il pezzo di catenina.

“Questo cosa diavolo...” non finisce la frase e allontana immediatamente da sé quell'oggetto, con aria disgustata. “Mio Dio, questo è sangue.”

“Non pensavo fossi così impressionabile” riprendo il fazzoletto. “E poi, come fai a esserne sicuro?”

“Non senti l'odore?”

“No, quest'aggeggio se ne stava in fondo ad uno scarico, nella fontana, immerso in un vero tripudio di sporcizia multiforme, come puoi riconoscere un odore tanto specifico?”

“Fidati, posso.”

“Ti fa paura il sangue?”

Non si degna di rispondermi.

“Credi a quello che ti pare” torna a osservare il barattolo di vernice, ignorandomi. “E' proprio il nome che ero riuscito a farmi rivelare da Emile.”

“Eppure questa roba avrà almeno cinquant'anni. Se il negozio è tanto vecchio, possibile che sia così introvabile come dici? Come sarebbe sopravvissuto alla concorrenza?”

“C'è anche un simbolo di occultismo.”

“Ah ecco, con un patto demoniaco.”

“Morel pare se ne occupasse.”

“Allora cosa sarebbe stata questa, la vernice con cui tracciava i simboli per i suoi rituali?”

Gabriel non azzarda conclusioni, limitandosi a fissarmi fino a farmi sentire leggermente a disagio.

“Di certo, se Emile avesse trovato questi barattoli e ne avesse intuito l'aspetto arcano, potrebbe esserne stato incuriosito e spinto a cercarne altri.”

“E' possibile.”

“Però, se è riuscito a trovare il negozio partendo da una semplice latta di tinta, perché noi, che siamo un po' meno pazzi di lui, non ci siamo riusciti?”

Ancora silenzio, anche se mi sembra di sentirlo urlare direttamente nella mia testa qualcosa del tipo: “se le mie spiegazioni non ti piacciono, evita di chiederle”.

Un leggero scricchiolio ci distrae, portandoci a osservare il ballatoio sopra di noi. Le porte sembrano ancora tutte chiuse, ma il rumore potrebbe rimbombare in maniera strana sotto questo soffitto così alto e magari i tizi che si stavano divertendo lassù hanno aperto una finestra per calarsi di sotto senza doverci incontrare, pur rischiando di rompersi l'osso del collo per l'eccessiva altezza del salto.

“Andiamo” gli sussurro, dopo aver provato inutilmente a spingerlo, mentre lo scricchiolio si fa più intenso e mi accorgo, con un po' di imbarazzo, che assomiglia più al rumore di molle cigolanti che allo stridio di una persiana arrugginita.

Possibile che fossero tanto impegnati da non averci sentiti?

Sul pavimento di marmo rossiccio, sporco e graffiato, noto lo stesso miscuglio di impronte del piano inferiore, ma nessuna è tanto recente come mi sarei aspettata, quasi i due piccioncini avessero volato per raggiungere una camera. D'altra parte quassù è dannatamente buio e non riesco a cogliere molti dettagli; l'unica luce che abbiamo è quella pallida e mesta che filtra dal portone e questo rende l'ambiente malinconico e opprimente, nonostante le ambizioni di sfarzo, intuibili da ogni dettaglio pacchiano che ci circonda: dalle pareti coperte con ampi pannelli di legno intarsiato, quasi ci trovassimo in un ristorante cinese, ai pesanti teli di seta ricamata drappeggiati ai lati delle porte, come al cinema; dai tre piccoli comodini con le zampe a cipolla, con sopra inquietanti abat jour di vetro nero, al paio di poltrone di velluto rosso, simili a troni medievali, circondate da cuscini talmente sporchi che non oso neanche chiedermi cosa possa nascondercisi in mezzo.

Su una di esse spicca un bustino di pizzo azzurro, di foggia sicuramente moderna, che potrebbe appartenere a una prostituta d'alto bordo per quanto è minimale e preziosamente sensuale. Sembra tanto costoso che nemmeno la polvere ha osato poggiarvisi. Suppongo sia della tizia che adesso sta lanciando gridolini inarticolati al di là della porta che ho davanti, ma mi chiedo dove abbia lanciato l'altra parte dei vestiti, sperando che ne avesse qualcuno addosso quando è arrivata qui.

“Ehi” mi decido a palesarci, perché non ho voglia di vedere porzioni di pelle sconosciuti. “Non siete soli.”

Gabriel si volta pronto a strozzarmi o a trascinarmi giù per lo scalone, ma io sento solo un banale: “Cielo!”, pronunciato con imbarazzata sorpresa da una voce flautata, prima che ogni altro rumore cessi, sprofondandoci in un silenzio quasi totale.

Rifletto se parlare ancora, per rassicurarli, ma il mio compagno mi fa cenno di tacere e, per una volta, decido di obbedirgli.

C'è qualcosa di diverso intorno a noi, adesso, una sensazione di disagio crescente che non è spiegabile con nessun mutamento fisico dell'ambiente. Sì, forse l'oscurità si è fatta appena più densa, per l'inasprirsi delle nubi temporalesche fuori dalla casa, e forse il freddo è divenuto più pungente, per un'impercettibile raffica di vento scivolata lungo le scale, ma non è questo a turbarmi e a farmi tacere: è la paura che avverto premere su di me, mischiata ad una rabbia cocente e incontenibile, scaturita all'improvviso dopo il mio avvertimento, a paralizzarmi sull'ultimo gradino, con la mano protesa a sfiorare la giacca di Gabriel, in un infantile ricerca di conforto.

È la sensazione incomprensibile di aver risvegliato qualcosa che avrebbe dovuto continuare a dormire, di aver innescato una bomba che non avremo modo di disattivare.

In poche parole, è una sensazione assurda, totalmente ingiustificata e persino ridicola, ma l'istinto continua a pregarmi con ogni linguaggio, conosciuto e sconosciuto, di tornare velocemente sui miei passi e richiudere la porta in faccia a qualsiasi cosa o persona si nasconda qui dentro.

Vorrei essere in grado di pensare, di scrollarmi da dosso questa fastidiosa sensazione di panico, ma Gabriel si avvicina di più al mio fianco, inondandomi col suo profumo, sensuale e vibrante come l'aria prima della tempesta, e anche se la paura si scioglie come neve sotto il sole d'agosto, la mia mente viene pervasa da un'emozione altrettanto irrazionale e che non mi aiuta in alcun modo a essere più lucida: il desiderio insopprimibile di stringermi a lui e far sparire con un gesto tutti i nostri vestiti.

Andiamo di male in peggio. Adesso mi tremano anche le gambe e non è per stanchezza o parkinson precoce, è pura e semplice lussuria, incontrollabile, incomprensibile e anche imbarazzante, soprattutto perché si rivela un istinto a senso unico quando lui risponde al mio sguardo invitante con un severo ed impersonale: “Va tutto bene?”

L'effetto è quello di una doccia fredda: sembra un maestro che rimprovera una bambina indisciplinata e non c'è niente di meglio di una sana indignazione per spegnere ogni ardore, il che in fondo è esattamente ciò che volevo, ma, ora come ora, mi rimane solo una fortissima voglia di prenderlo a pugni per la sua indifferenza.

Mi sembra palese che i miei inusitati appetiti non siano naturali, per cui dovrei ringraziarlo per non aver pensato di approfittare della mia mancanza di buon senso, ma è difficile essere logici quando il cervello alto ha smesso di funzionare.

Mi allontano di scatto, rischiando quasi di cadere per tutta la rampa di scale, e sto per dirgli di tornarsene da dov'è venuto, prima di notare la tensione delle sue spalle e la luce cupa in fondo ai suoi occhi, con le palpebre contratte a nascondere e arginare un'emozione più simile alla mia di quanto non sarebbe salutare ammettere.

“Hai un buon profumo” sussurra appena, come se gli fosse sfuggito tra i denti.

“Anche tu” mi trovo a confessare al di là del mio volere, prima di esplorare con la punta delle dita la linea forte e sensuale del suo collo, laddove il leggero velo di barba sfuma nella morbida ruvidezza della pelle. È un tocco fugace, lieve, compiuto in modo del tutto spontaneo, ma mi aspetto di vederlo ritrarsi o protestare e quasi spero che lo faccia, perché io, ormai, non so decidermi a lasciarlo andare, ma sembra che la mia insensata carezza abbaia spazzato via ogni determinazione da entrambi.

Deglutisce e alza lo sguardo su di me, bloccandomi il respiro senza neppure sfiorarmi, solo con l'intensità di quegli occhi diventati due pozze di tenebra in grado inghiottirmi.

Vorrei scuotere la testa, sbattere le palpebre, sottrarmi a questa malia, invece faccio un altro passo verso di lui e allargo la mano sul suo torace.

È incredibilmente caldo, probabilmente ha ancora la febbre, sento il battito violento del suo cuore attraverso i pettorali, troppo veloce perché la pelle possa contenerlo, e penso che dovrei lasciarlo stare, prendermi cura di lui, ma anche che non me ne importa nulla del suo conto in banca, né del suo stato di salute, né dell'assurdità del mio desiderio: voglio solo placare la tensione che mi attanaglia il petto perdendomi tra le sue braccia, senza domande, senza pensieri.

“Alex” prova a fermarmi e a fermarsi, mentre la sua mano si chiude sulla mia, per impedirmi di accarezzarlo e, al contempo, per tirarmi più vicino. “Alex”

E' una preghiera, una carezza, un ammonimento.

Ormai non c'è che qualche misero centimetro tra i nostri corpi e sarebbe talmente facile allungarmi a poggiare le labbra sulle sue, contratte in una linea confusa di bisogno e incomprensione, sarebbe facile aggrapparmi alle sue spalle e cingerlo in un abbraccio, assaggiando la sua pelle, esplorando la voluttuosa robustezza dei suoi pettorali, eppure, in qualche recondita regione dentro di me, so che non dovrei cedere a questo bisogno, che sarebbe sbagliato, soprattutto in questo posto.

È un pensiero assurdo, fastidioso nel vortice della lussuria, ma è lo stesso che intravedo nascosto nello sguardo rovente di Gabriel e che mi fa esitare per un attimo, giusto il tempo di riaccendere un briciolo di consapevolezza del mondo e di sentirmi osservata.

Mi volto di scatto, certa di trovarmi davanti i nostri due sconosciuti compagni di casa, ma il ballatoio è ancora deserto.

Almeno adesso sono in grado di pensare e di riconoscere la sciocchezza che volevo fare per ciò che sarebbe stata: follia pura.

“Grazie” borbotto in malo modo, guadagnandomi lo sguardo perplesso di Gabriel, già allontanatosi da me. “Per non aver approfittato del mio momento di incapacità mentale.”

“Qui non sarebbe stato sicuro” replica soltanto, con un tono neutro che sembra nascondere un briciolo di rimpianto piuttosto lusinghiero.

“No, come minimo saresti rimasto in cinta tu in un posto del genere.”

“Cosa?”

Gli indico la schifezza che ci circonda come spiegazione, poi sobbalzo sentendo un tonfo secco provenire dalla stanza davanti a noi e il rumore stridente di legno che si spacca.

“Vado avanti io” mi trattiene Gabriel, intuendo non so come le mie intenzioni.

“E se c'è una donna nuda?”

“Non mi scandalizzerò.”

Gli cedo il passo e mi trovo a fissare imprudentemente il suo sedere, ma riesco ad apprezzare lo spettacolo mantenendo la mia lucidità.

“Dovresti trovarti un lavoro.”

Mi guarda perplesso e mi accorgo di aver parlato a voce alta, così, per non mostrargli il mio imbarazzo, passo sotto al suo braccio e spalanco la porta.

Come immaginavo è una camera, con un grosso e pesante letto a baldacchino, ovviamente non originale dell'epoca in cui andavano di moda, un tavolo tondo con tre sedie, un paio di comodini e un armadio a due ante semiaperto. Diversamente da quanto immaginassi, non vedo nessuno all'interno, anche se il pavimento è coperto di impronte. Le coperte, trasudanti polvere e umidità, sono abbassate sul materasso ammuffito e tagliato in più punti, con lacerazioni troppo precise per supporre che siano opera del tempo o dell'usura, sembra piuttosto che qualcuno si sia divertito a seviziarlo con un coltello.

Una delle sedie è caduta a terra, nel centro della stanza, e il pavimento, lì vicino, è ravvivato da una fitta serie di piccole chiazze tondeggianti, rosso scuro, che arrivano fino al letto, dove, abituatami alla semioscurità, riescono a vedere schizzi sbiaditi dello stesso colore, come tracce di sangue o vernice ormai secca.

“Questa era la camera padronale” spiega Gabriel. “In quel letto Morel ha ucciso sua moglie.”

Mi sembra assurdo. Chi avrebbe potuto lasciare un simile obbrobrio in casa propria? Già il mobilio è pacchiano di per sé, in più se ci si aggiunge la storia dell'omicidio, la prima cosa che avrei fatto entrandone in possesso sarebbe stato bruciarlo.

“Nessuno che abbia provato ad abitare qui è mai riuscito a liberarsi di queste schifezze” mi spiega prima che protesti, facendomi venire ancora più voglia di ribattere. “So che ti sembra incredibile e incomprensibile, ma ogni oggetto che è in questa casa è appartenuto al suo primo proprietario.”

“Quindi quella roba sarebbe sangue?”

“Probabile.”

“E i tizi che erano qui dentro? Sono svaniti nel nulla?”

“Forse sono usciti dalla finestra” dice senza convinzione, guardando i vetri scheggiati, ma palesemente chiusi dall'interno da almeno un secolo, a giudicare dallo strato compatto di ragnatele sulla maniglia.

Mi avvicino al materasso, nauseata dalla puzza incredibile che sprigiona e che, solo pochi passi prima, non avevo avvertito: è come se ci fossero dentro uova marce e carne putrefatta. Eppure, nonostante abbia voglia solo di vomitare, mi appoggio alla spalliera e inarco il bacino verso Gabriel, mugolando impercettibilmente quando le sue mani mi cingono la vita e mi trascinano indietro, per poi allontanarsi subito da me.

“Che mi succede?” sussurro sconvolta, dando involontariamente fiato al mio pensiero. “Era così anche prima?”

Non risponde, anche se il suo guardo è perfettamente eloquente, poi sbatte le palpebre e scuote la testa.

“Così no, così non è naturale.”

“Ma c'era già quest'attrazione, anche se non alterata dalle droghe che mi hanno dato?”

Di nuovo silenzio.

“Se è così, devi assolutamente trovarti un lavoro” nell'incertezza, meglio guardare al lato pratico. “Non puoi assolutamente rimanere uno spiantato.”

Sospira sonoramente.

“Siamo stati a letto insieme?”

“No” sembra imbarazzato dalla domanda improvvisa.

“Perché?” chiedo curiosa, prima di rispondermi da sola. “Probabilmente perché sei uno spiantato.”

“Probabilmente” adesso è di nuovo irritato. “O forse mi ritieni troppo violento.”

Sembrerebbe una ragione molto più valida, ma non mi sembra veritiera.

“Comunque, possiamo andarcene da qui, non c'è nessuno” continua, arretrando verso la porta, mentre continua a tenere d'occhio ogni angolo della stanza, come si aspettasse l'attacco di un mostro gigante dal soffitto.

“E' impossibile, ho sentito dei rumori e delle voci” guardo sotto il letto, ma c'è troppo poco spazio per fornire un nascondiglio. “Sono nell'armadio!”

Forte della mia inattesa epifania, spalanco l'anta accostata e mi preparo ad essere travolta da un paio di corpi imbarazzati e pronti alla fuga, ma mi trovo davanti solo qualche ragno spaventato e un nugolo di tarme annidiate in vecchi capi di biancheria di lusso.

“Anche i vestiti sono quelli di Morel?” tossisco, provando a frugare tra l'intrico polveroso di sete, pizzi e merletti. “Questa roba è un po' indecente per risalire al primo Novecento.”

“Si dice che Morel fosse un vizioso, oltre a tutto il resto e che usasse la moglie come schiava di piacere” Gabriel si è avvicinato e ha tirato fuori una spessa cinghia di cuoio e delle logore manette di stoffa dal fondo dell'armadio. “Era anche un sadico. Le grida di Fadwa si udivano fino alle case circostanti, ma nessuno è mai intervenuto. Non lo farebbero adesso, figuriamoci in un'epoca in cui, tutto sommato, era normale considerare le donne oggetti da sfruttare.

“Fadwa?”

“Era la moglie araba di Morel. L'aveva comprata, così si dice, quando era ancora bambina e l'aveva istruita perché diventasse esattamente ciò che lui voleva.”

“Quindi la catenina apparteneva a lei? E era suo il nome inciso sull'incensiere.”

“Sicuramente. Morel voleva che fosse lasciva e impudica, ma non aveva tenuto conto che avrebbe potuto sfogare la sua passione anche con altri uomini. Fu la gelosia a spingerlo a ucciderla, almeno a quanto riportano i giornali dell'epoca.”

“Con un accetta. La stessa che avrei trovato nel capanno?”

“Può essere” mi guarda come se volesse strangolarmi. “Devi smetterla di infilarti in ogni dannato casino che incontri. E dobbiamo andarcene da qui. Vieni, ti porto a mangiare qualcosa.”

“Non ho fame, ma tu faresti meglio a andare a chiedere scusa al tuo principale.”

“Non ci penso neanche. Perché dovrei farlo? Per riavere quel lavoro?”

“tanto per cominciare perché non si prende a pugni la gente ad ogni divergenza di opinioni e poi, sì, anche per riavere uno stipendio a fine mese.”

“Non mi riprenderebbe, fidati. E comunque, non preoccuparti, ho un colloquio domani per un posto in banca.”

“In banca?” se fosse un fumetto, la nuvoletta avrebbe tutti gli angoli frastagliati e le parole sarebbero in grassetto. Mi sarei stupita meno se avesse detto di aver fatto domanda per un club di incontri di lotta clandestini.

“Sì, ho una laurea in Scienze economiche.”

A parte che non credevo neanche avesse finito la scuola superiore, mi rendo conto di averlo giudicato solo in base al suo atteggiamento trasgressivo e all'aspetto trasandato, in quanto, in effetti, sia il suo modo di parlare che la stessa inflessione del tono di voce rivelano un'ottima preparazione culturale; ad ogni modo, pensarlo chiuso in un cubicolo angusto con vecchiette rompiscatole che vogliono la propria pensione è totalmente innaturale.

“Perché vorresti lavorare in banca?”

“E' un lavoro come un altro... e gli altri li sto un po' esaurendo.”

Questo non mi stupisce e, in fondo, potrebbe essere un buon modo per racimolare uno stipendio almeno decente.

“Guardiamo le altre stanze?” gli sorrido, mentre provo a immaginarmelo con giacca e cravatta dietro alla scrivania da direttore.

Alza gli occhi al cielo.

“Guardiamo le altre stanze, tanto, ormai...”

 

 

Non aggiornavo da una vita, in parte per mancanza di tempo, in parte perché ho cercato di creare un capitolo un po' meno breve, per non appesantire la narrazione... spero di non aver appesantito il capitolo! Devo ancora finire l'opera di ristrutturazione dei brani precedenti ^_^ Un grazie a chi segue questa storia!!!

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Capitolo 17
*** Sotto di noi ***


Continuo a chiedermi che fine abbiano fatto i due presunti amanti, visto che non possono essersi volatilizzati, né possono esserci passati accanto senza farsi vedere. Forse potrei aver frainteso la provenienza del rumore e si trovano in una delle stanze rimanenti, dove finiscono altre serie di impronte, ma, dopo aver aperto ogni porta e ispezionato una noiosa sequela di camere prive di personalità e arredate senza alcuna fantasia, mi devo convincere che non ci sia nessun altro qui, a parte noi.

Confusa, torno al punto di partenza, incapace di darmi una qualsiasi spiegazione, ma decisa a trovarne una almeno plausibile; Gabriel mi passa davanti, entrando per primo nella stanza da letto di Morel, nonostante sia ovvio, ormai, che non ci sia alcun pericolo, vero o presunto.

“Perché ti preoccupi tanto per me?”

Sembra sorpreso dalla mia domanda, quasi quanto lo sono io dall'averla posta.

“Non lo so” protesta a mezza voce. “Tra l'altro è una faticaccia.”

“Allora non farlo, non ho bisogno di una balia.”
“Hai bisogno di aiuto.”
“Non ho bisogno di niente” protesto, sapendo di mentire, ma offesa dall'idea che rimanga al mio fianco per pietà o per un'assurda idea cavalleresca. “Puoi anche andartene e non sprecare tempo.”

Vorrei continuare a bisticciare, ma c'è qualcosa di nuovo in questa stanza, un'ombra lunga e sottile più intensa delle altre, proprio ai piedi di Gabriel e, quando cerco di capire da cosa provenga, riesco quasi a strozzarmi con un grido inarticolato: sulla trave scheggiata posta in linea retta con la sedia rovesciata, dondola una robusta corda grezza, con un inquietante nodo scorsoio in fondo, a mo' di cappio.

“Spostati da lì” gli ordino, pur senza comprendere a fondo la strana paura che mi ha invaso. “Quella non c'era prima.”

Nonostante tutte le sue paranoie, stavolta il mio assurdo accompagnatore non sembra turbato, né sorpreso, si limita a fare rapidamente un passo di lato, osservando quel macabro trofeo con aria disgustata.

“E' lì che Jacques si è impiccato.”

“E la gendarmeria ha lasciato lassù quell'orrore?” sento che la mia razionalità sta di nuovo, per fortuna, prendendo il sopravvento, ma avverto anche una rabbia sorda e fiammeggiante attanagliarmi le viscere, incontenibile e imprevedibile come, poco prima, lo era stata la lussuria. C'è un pesante odore di whisky nell'aria e quell'aroma, di solito piacevole, mi infastidisce ancora di più.

“Sei anche un ubriacone?” lo aggredisco, quasi isterica. “Ti sei portato dietro una di quelle bottigliette da supermercato?”

“Io non bevo mai alcolici” si schernisce, più preoccupato che irritato. “Non mi piace. Ma sento anch'io questo strano profumo. E credo dovremmo davvero andarcene.”

Faccio fatica a ragionare e uso ogni briciolo di volontà per non urlargli in faccia qualche improperio a caso, giusto per la voglia di sfogarmi, così mi lascio trascinare via, riacquistando un po' di calma non appena mi prende per mano e il suo calore risale lungo il mio braccio a sciogliere quel grumo di collera e insensatezza che mi stava soffocando. Non mi ero accorta di avere il respiro affannoso, né del leggero velo di sudore freddo salito a imperlarmi la fronte, ma l'immagine di me che vedo riflessa nei suoi occhi preoccupati ricorda pericolosamente una delle Erinni, con l'espressione stravolta e lo sguardo allucinato, il che mi porta ad un'altra considerazione a cui non avevo fatto caso.

“Non c'è neanche uno specchio, quassù” la mia voce, adesso che Gabriel ha chiuso alle nostre spalle quella maledetta porta, ha un tono quasi normale. “Neanche nelle camere degli ospiti.”

“Hai ragione. Forse Morel non amava vedere la propria immagine riflessa.”

“Strano per un fanatico del sesso all'avanguardia. E strano che sua moglie fosse costretta a truccarsi a tentoni.”

Lo squillo del mio cellulare fa trasalire entrambi e gli evita di inventarsi una qualsiasi risposta.

E' Jasmine.

Non so neppure che ore siano, ma probabilmente aspettava che la rassicurassi ore fa sul mio stato di salute, infatti, appena rispondo, la sua voce ha una sfumatura malcelata di panico.

“Ciao” cerco di apparire disinvolta.

“Stai bene?” va diritta al punto e sembra quasi in lacrime per il sollievo. “Meno male, ho appena avuto una terribile sensazione, come la sera dell'incendio, e dovevo assolutamente sapere se stessi bene e fossi al sicuro.”

“Sì, stai tranquilla. Sono solo uscita un po' e sono venuta a curiosare alla villa che dipingeva sempre Emile.”

“Quello non è un posto sicuro! È un luogo infestato dagli spiriti.”

Ignoro la strana espressione di Gabriel, che sembra quasi rivolgersi direttamente al cellulare per dire di non sprecare fiato.

“Per prima cosa i fantasmi non esistono” e guardo il mio compagno sfidandolo a contraddirmi. “E poi non sono da sola.”

“Chi c'è con te?” adesso il tono è quello giocoso da pettegolezzo. “Un ragazzo?”

“Sì.”

“Bello, ma spiantato o brutto, ma ricco?”

“Bello, ma spiantato.”

“Ehi” Gabriel protesta a bassa voce, guardandomi male. “E' bello sentirsi un uomo oggetto.”

“Ad ogni modo, Alex, ti prego, vieni via da lì” riprende Jas, con voce di nuovo turbata. “Non sono tranquilla.”

Adesso sono in due a darsi manforte inconsapevole e non ho voglia di combattere su entrambi i fronti.

“D'accordo, tanto quassù avevamo finito” sono costretta a capitolare. “Ti chiamo dopo.”

Riattacco, ignorando la smorfia soddisfatta dipinta sul volto del mio improbabile cavaliere, e comincio a scendere le scale.

C'è però un'ultima porta che non ho controllato, al primo piano, e non ho intenzione di andarmene senza aver portato a termine il lavoro, così ignoro il buon senso e le proteste e apro le pesanti ante scorrevoli che dividono l'ingresso da quella che scopro essere un'enorme biblioteca, assolutamente inappropriata al resto della casa.

Ci sono tre pareti completamente coperte da polverosi scaffali di semplice legno di noce, quasi austeri nella semplicità delle linee, squadrate e essenziali, per niente consoni alla mobili trovata negli altri ambienti, ridondante e pacchiana. Anche il grosso tavolo da lettura, al centro della sala, poggiato su un tappeto che un tempo doveva essere folto e pregiato, con sgargianti arabeschi dalle forme bizzarre, ha un aspetto solido e spartano, con numerosi segni di usura su tutta la superficie. I libri sembrano divisi per argomento, alcuni antichi, altri semplici tomi di storia e letteratura, tra cui alcuni scritti con caratteri arabi, altri con l'inquietante aspetto di volumi di occultismo e magia nera.

Ovviamente Gabriel si dirige subito verso questi ultimi, raccogliendo da un leggio un libro dalla copertina in pelle scura, di vecchia carta pergamena, aperto ad una pagina con la figura del diavolo dei tarocchi, molto simile alla statua del giardino, anzi, anche troppo simile per i miei gusti, perché il colore particolarmente vivido degli occhi raffigurati nel disegno è in tutto e per tutto uguale a quello sanguigno che mi aveva colpito su quel mostro.

“Ecco da cosa deve aver preso spunto quel pazzo.”

“Tarocchi e magia nera.”

“Intendevo per la statua fuori. È identica, se non si considera la figura femminile in braccio.”

“Forse, viste le sue fissazioni, ha voluto aggiungerci un tocco di malsana sensualità.”

Mentre mi avvicino noto che una delle larghe assi di legno del pavimento è leggermente scheggiata e, non appena vi poggio il piede, risuona in modo strano, come se non fosse poggiata su niente di solido.

Anche Gabriel l'ha notato, perché, senza che io debba insistere, è già al mio fianco con un coltello in mano, per provare a sollevarla, scoprendo una botola di pietra con un massiccio anello di ferro, appena rugginoso. O Morel voleva un accesso rapido per la cantina, nel caso avesse voglia di bere mentre si dilettava con forbite letture, o laggiù c'è qualcosa di diverso e meno legale di un deposito di vini.

“No” Gabriel non mi lascia neanche il tempo di parlare.

“Ma dai, non sei curioso neanche un po'?”

“Preferirei togliermi la curiosità sapendoti al sicuro.”

“Sai benissimo che non te lo lascerei fare.”

“Figuriamoci se lo faresti”sta diventando più ragionevole, o forse è solo rassegnato. “Fammi spazio, libero la botola.”

Sembra di essere in un film sui pirati o in qualche storia fantasy con segrete e labirinti nascosti. Man mano che Gabriel toglie i listoni di legno, scopriamo un altro strato di pavimentazione forse precedente, con un mosaico bianco e nero a spirali concentriche, tutte terminanti intorno alla botola, un compatto blocco di pietra grezza dall'aria estremamente pesante e poco adatta alla raffinata ricercatezza del pavimento circostante.

Mi chiedo come un uomo d'affari come Morel, di sicuro poco avvezzo alla fatica fisica, riuscisse a sollevarlo, dato che persino Gabriel è costretto a compiere un notevole sforzo per riuscirci, alzando lentamente un macigno assurdo, simile ad un cubo con lati di almeno un metro.

“Come diavolo hai fatto?” sono più incredula che impressionata. “Sei Superman?”

“Mi sono sfibrato quasi tutti i muscoli” la voce è appena un po' affannata, ma non tanto quanto mi sarei immaginata.

“Non stancarti, se dobbiamo fare sesso ti voglio in forma.”

“Sono pronto e attivo, madame” se non fosse assurdo, giurerei che sia arrossito leggermente.

“Non è una cosa carina da dire.”

“Cosa? Madame?”

“No, che sei pronto e tutto il resto. Cosa sei, uno stallone da monta?”

“E' così che mi sono sentito.”

“Guarda che scherzavo!”

“Anch'io.”

“Sì, certo, come se non conoscessi gli uomini.”
“Non ricordi niente, non sai se li conoscevi.”

Mi viene un dubbio assurdo: “Pensi fossi vergine?”

Mi guarda a metà tra l'esasperato e l'imbarazzato, apre la bocca probabilmente per mandarmi al diavolo, poi cambia idea e si china sulla botola, concentrandosi ad ispezionarla e decidendo di ignorarmi.

Proprio come nelle favole, c'è una stretta scala a chiocciola con gradini consunti e scivolosi, ma perfettamente puliti e privi di tracce di umidità, come mi sarei aspettata di trovare in qualsiasi seminterrato di Parigi.

“Non c'è neanche un insetto” mormora. “Neanche una ragnatela.”

Inizia a scendere, accendendo una piccola torcia portatile, appena la luce della biblioteca ci abbandona.

C'è freddo e un silenzio pesante, dove i nostri passi sembrano rimbombare con troppa violenza; sembra di entrare in una tomba, invece che in una cantina e, istintivamente, cerco di non sfiorare nulla di quanto mi circonda.

Non sono brava con le misurazioni e la spirale perfetta della scala, dopo poco, mi fa perdere la cognizione dello spazio, ma credo di essere scesa abbastanza in profondità quando, finalmente, la scala lascia il posto ad una polla indistinta di oscurità, talmente densa da provocarmi le vertigini, laddove suppongo lo spazio si allarghi nella famigerata stanza sotterranea, di cui la timida luce dalle torcia riesce a rivelare appena i primi contorni.

Sono felice di avvertire la solida presenza di Gabriel davanti a me, perché la sensazione di ritrovarmi cieca in un luogo sconosciuto mi mette i brividi, per quanto cerchi in ogni modo di nasconderlo anche a me stessa: non credo ai mostri nascosti nel buio, ma credo di potermi spezzare una gamba infilando i piedi in una buca o di prendermi il tetano ferendomi su qualche ferrovecchio al momento invisibile.

Rimanendo sulla soglia, riusciamo a distinguere un'ampia camera con il soffitto a volta e il pavimento di terra battuta, ma non saprei dire quanto si spinga in profondità, perché il fascio di luce viene fagocitato dalle ombre a solo pochi passi da noi.

Avverto il respiro di Gabriel calmo e regolare, ma le sue spalle, a cui mi sono appoggiata in un attimo di debolezza, sono tese come una corda pronta a spezzarsi: è all'erta e, per una volta, non riesco a prenderlo in giro.

Quando mi offre di aspettarlo mentre ispeziona il resto, sono quasi tentata di accettare, ma temo che lasciarmi sopraffare da una paura irrazionale non sia il modo migliore di affrontare questa situazione, così gli afferro un lembo della giacca con mano sicura e presa inespugnabile e allungo il primo passo nell'ignoto dietro di lui.

Il pavimento, per quanto spartano, sembra solido e incredibilmente liscio, quasi fosse fatto di marmo e non di terra pressata. Le pareti sono di mattoni e pietra, in squadra perfetta rispetto al terreno, e sul lato destro presentano una serie di strampalate fessure della grandezza di un pugno, sistemate su tre linee sfalsate a partire da poco più di un metro dal pavimento.

Procediamo piano, a tentoni, facendo precedere ogni passo da un'esplorazione luminosa, ma non sembra esserci alcun pericolo e inizio a rilassarmi, costringendo Gabriel ad afferrarmi di scatto per non farmi cadere, appena col piede sfioro un tratto di terreno smosso che cede sotto il mio peso verso quello che si rivela essere una specie di pozzo privo di barriere e, all'apparenza, anche di fondo.

“Che diavolo ci fa questa buca in mezzo al pavimento?” maschero lo spavento con la rabbia. “Sembra di essere in The ring.”

“Ti sei fatta male?”

Scuoto la testa, incapace di parlare perché, all'improvviso, dalle ombre intorno a noi avverto provenire un sibilo sordo che mi fa accapponare la pelle, prima di comprendere che debba trattarsi solo di una corrente d'aria tra le scale e questo pozzo.

Per quanto mi sporga, non riesco a intravederne la fine: le pareti sono di pietra, perfettamente levigate e asciutte, se si trattava di un deposito per l'acqua è secco da tempo. Proprio quando sto per disinteressarmene, attenta solo a girarci alla larga, sento uscirne un uggiolio roco, come il lamento di un cane ferito. Anche Gabriel l'ha sentito, perché sposta di nuovo il raggio della torcia e afferra uno dei suoi pugnali; dubito che un animale possa essere finito laggiù, ma la cosa più assurda è che adesso riesco a vedere un immoto strato di acqua putrida in quel buco, a circa dieci metri da noi, e sono più che certa di non averla notata prima.

Il suono lamentoso si trasforma in un un cupo latrato, poi in una cacofonia di ringhi selvaggi che crescono di intensità rimbombando nel vuoto della cantina, fino a svanire improvvisamente in un guaito funereo che ci lascia nel più assoluto silenzio e smarrimento emotivo.

“C'è un passaggio che collega al giardino?” dico quando mi sono stancata di rimanere a fissare il vuoto con l'aria ebete. “Nessuna bestia potrebbe sopravvivere lì sotto.”

“Forse c'è un passaggio laterale, vado a vedere” mi passa la torcia, gettando una gamba oltre l'apertura, ma l'afferro prima che si incastri del tutto in quel buco largo appena quanto le sue spalle.

“Tu non scendi là sotto” non voglio lo faccia, non voglio che nessuno si cali in quello schifo. “Scendo io.”

“Neanche per idea.”

“Che c'è, tu sei per caso un esperto di free climbing, per cui sapresti muoverti meglio di me?”

“Ho fatto anche quello, ma non è per questo che non ti permetterò di fare una simile sciocchezza.”

“Non la farai neanche tu.”

“Ottimo” ringhia quasi come quelle bestie infernali. “Allora rimaniamo tutti e due quassù.”

Getto in acqua un un sassolino e la superficie rimane immota, inghiottendolo senza generare increspature, probabilmente per uno strato troppo denso di alghe o sporcizia che ancora non riesco a intravedere, in compenso devo aver disturbato qualcosa, perché avverto di nuovo un brontolio di protesta, che non so se venga dal pozzo o dalle mie spalle.

“Non sembra di vedere gallerie nelle pareti. Forse il rumore non viene dal pozzo, rimbomba solo laggiù, ma proviene da fuori, magari scivola lungo quei fori sul muro di fronte, per qualche strano fenomeno di propagazione del suono che non riesco a capire.”

Forse quelle strane fessure erano condotti per il deflusso dell'acqua piovana, da raccogliere in questa cisterna per i momenti di siccità estiva, anche se un pavimento di terra non è proprio l'ideale per un simile scopo.

Mi avvicino con cautela a uno di quei fori, illuminata dalla torcia, e non riesco a sopprimere un gridolino patetico, perché, per un attimo, mi sembra di vedere un occhio bianco privo di palpebre intento a osservarmi dal buio del condotto.

“Che succede?” ovviamente Gabriel si mette subito in allarme, ma è solo il reflusso delle droghe che, a volte, mi provoca ancora allucinazioni.

Non ci sono segni di tubature, ma intravedo qualcosa verso il fondo che non riesco a interpretare.

“Fammi un po' di luce” mi sposto per lasciargli spazio.

“Infilo io la mano lì dentro” prova a fermarmi, col risultato che riusciamo solo incastrare i bracci di entrambi in quel cubicolo sudicio e puzzolente, senza che nessuno dei due riesca a raggiungere l'oggetto misterioso.

“Leva la manona” lo rimprovero, per ignorare il conforto che, nonostante la situazione ridicola, mi dà sentire la sua mano grande e forte sulla mia, completamente inglobata dalle sue dita lunghe e affusolate. “Siamo incastrati.”

Storce leggermente il polso e, nello stesso tempo, cerca di spingermi fuori, stando anche attento a non farmi graffiare, ma in pratica ottiene solo di lasciarmi sgusciare più in profondità nella fessura, fino a farmi sfiorare qualcosa di vagamente sferico e levigato, simile ad un pomello per le porte.

“L'ho preso” esulto, ignorando i suoi rimproveri e tirando fuori un manico di cuoio perfettamente conservato, con allegata una cinghia spessa come due delle mie dita e lunga quasi più di me.

Un flebile gemito femminile mi fa morire in gola l'ultima cazzata che stavo per pronunciare, tirando in ballo Indiana Jones, e mi fa alzare tutti i peli sulle braccia.

Viene dalle nostre spalle, in quella zona della stanza che non abbiamo ancora esplorato e, per quanto mi sembri assurdo che qualsiasi forma di vita diversa da un batterio possa essere sopravvissuta qui sotto, non riesco ad escludere un brivido di incertezza e terrore: posso capire che la stanza faccia da eco ai rumori del giardino, dove, tra l'altro, avevo già sentito l'abbaiare di cani, ma questo sospiro non può derivare dall'esterno, è troppo leggero, e non è neanche il rumore di uno spiffero, ma un chiaro e inquietante miscuglio di sofferenza e voluttà.

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Capitolo 18
*** Niente è mai come sembra e non esistono più le mezze stagioni ***


Mi volto di centottanta gradi, aiutando la testa con le spalle, sempre tenendo in mano quella ridicola frusta da sexy shop; Gabriel segue la direzione del mio sguardo, col volto tirato e il corpo pronto a scattare, all'erta come l'ho sempre visto essere, guardingo e preparato all'azione anche quando non ne capivo il motivo.

Mi aspetto di trovarmi faccia a faccia con qualcuno intrufolatosi dopo di noi per le scale, magari gli stessi pervertiti che non abbiamo ancora scovato, mi aspetto di sentire un urletto di paura per il nostro scatto repentino e l'aria minacciosa, ma di sicuro non mi aspetto la fila di cinque minuscole celle, chiuse da sbarre rugginose, che la torcia ci mostra sull'altro lato della stanza, con la sagoma indistinta di una donna accasciata proprio in quella centrale.

Vorrei gridare, o magari imprecare, perché la mia mente si rifiuta di credere a ciò che vede, ma adesso l'unica cosa importante è tirare fuori da lì quella poveretta e chiamare la polizia. Non vorrei che Emile, in un raptus di follia, avesse chiuso una modella qua sotto, anche se mi chiedo come avrebbe fatto a sollevare quel macigno e a rimettere a posto le assi, in modo che sembrassero inutilizzate da almeno un secolo, e mi chiedo anche con quali mezzi avrebbe potuto convincere una donna meno pazza di me a seguirlo in questo luogo dimenticato da Dio.

Prego che le mie obiezioni risultino veritiere, ma soprattutto che quella poveretta non tiri le cuoia proprio davanti a noi.

Sembra totalmente inerme, non si volta verso di noi e non sembra notare l'improvvisa luce che la sfiora; riesco a distinguere un braccio ben tornito, abbandonato lungo il fianco, con la pelle pallida dall'aria malsana, come quella di chi, essendo naturalmente olivastro, sia stato costretto al buio per troppo tempo, i capelli, lungi e ondulati, sfiorano il pavimento, intrecciandosi alle sbarre e nascondendole il volto, e la sua posa, per quanto sintomo di una profonda debolezza, rivela anche una profonda sensualità, quasi si fosse preparata ad essere vista prima di svenire.

“Alex, aspetta” Gabriel cerca di afferrarmi mentre mi lancio verso la cella, senza riflettere. “Non ti avvicinare.”

“Che assurdità” è la mia prima protesta, prima di comprendere il suo punto di vista. “Non la sposterò se è ferita, ma ha bisogno di aiuto.”

O forse sono io che ne ho, perché nel minuscolo sprazzo di tempo in cui ho voltato lo sguardo verso il mio compagno, la donna è letteralmente scomparsa, lasciandomi a fissare perplessa un cubicolo scuro, sporco, maleodorante e del tutto vuoto.

Dire che sono perplessa è riduttivo.

“L'hai vista anche tu, vero?” ho davvero bisogno di rassicurazione.

Gabriel non risponde subito e questo mi fa infuriare. Non sono pazza: anche lui ha sentito quel lamento e deve aver visto quella cosa, qui dentro, ne sono sicura. Era reale, concreta e sembra essersi liquefatta nella chiosa di umidità che impregna il terreno.

“Forse è stato uno scherzo della luce” dice senza crederlo e, mi sembra, maledicendosi per essersi costretto a farlo. “Forse quel gemito proveniva dal giardino o dalla strada, come i latrati dei cani.”

Il trucco sta proprio in quella breve parola: forse, la dice sempre quando deve propormi ipotesi a cui non crede al posto di altre a cui potrei non credere io.

Dal pozzo sale un viscido odore di urina e decomposizione che mi blocca le parole sulle labbra, in un moto istintivo di ritrarmi da quell'effluvio disgustoso serrandole con forza.

“E' disgustoso” Gabriel ne sembra anche più infastidito di me. “Andiamocene una buona volta.”

“Prima voglio aprire le celle” voglio vedere cosa possa aver creato quell'allucinazione. “E poi non ho ancora capito nulla di questo posto.”

“Metteremo insieme le nostre scoperte fuori di qui” ma intanto illumina più attentamente con la torcia quei cubicoli, probabilmente rassegnato alla mia testardaggine e certo di potersi spicciare prima assecondandomi che cercando di farmi cambiare idea.

Sono vuote, indiscutibilmente e terribilmente vuote, senza neanche un mucchio di sporcizia o qualche suppellettile malconcia che potesse ingannare la nostra vista.

D'accordo, è inutile combattere contro l'ovvio: sommerò questa alle altre allucinazioni avute nelle ultime ventiquattro ore e vedrò di rassegnarmici.

“Andiamo” dico sconfitta. “Tra l'altro ho una gran fame.”

Un brontolio sommesso, che sembra sgorgare direttamente dalle profondità dell'inferno, fa da eco alle mie parole, ma non ho più né la forza di fingere che sia lo stomaco di Gabriel a protestare, né di mettermi a scrutare in quel pozzo a caccia di inverosimili spiegazioni per insensati fenomeni acustici. È di certo una forma bislacca di eco dall'esterno. Me lo ripeto mentre salgo ogni sdrucciolevole gradino, mentre osservo la botola tornare al suo posto, con un pensiero fugace alla forza prodigiosa del mio compagno e alla gradevole visione che sono i suoi muscoli possenti tesi nello sforzo, mentre vengo trascinata via prima di riuscire a perdermi nell'ennesimo libro di occultismo che Gabriel non vuole farmi visionare; continuo a ripetermelo anche quando lancio l'ultima, fugace occhiata al ballatoio deserto, dove ero certa di incontrare una coppia dedita a perverse, piccanti effusioni, e sono quasi convinta di essere accolta, all'esterno, da un abbaio feroce, riminiscenza di tutta la cagnara avvertita dabbasso, invece, non appena il portone si chiude alle nostre spalle, non avverto alcun rumore, il giardino, immerso in una fredda nebbia che ormai non ci abbandonerà per tutto il giorno, è silenzioso e calmo come un cimitero subito dopo il giorno di Ognissanti quasi; non si sente neanche il costante e ritmico brusio del flusso ininterrotto delle auto sulla statale.

Sono stanca, ho freddo e sono anche stufa: probabilmente in questo momento i cani che abbiamo sentito sono silenziosi perché satolli e anche io voglio andare in un luogo caldo, normale e riempirmi lo stomaco con un qualsiasi cibo mi sembri invitante, sperando di azzeccare i miei stessi gusti. Sono più che certa che Gabriel sarà pienamente d'accordo con me.

Comunque c'è qualcosa di strano, in questa villa, è innegabile: una sensazione di oppressione e truce malinconia che guasta l'aspetto altrimenti invitante di una casa che, nonostante qualche lavoro di rimodernamento da fare, potrebbe valere svariate centinaia di euro e, invece, si limita a vegetare in solitudine, turbando qualsiasi possibile acquirente con strani scherzi di luce e rumore, proteggendo i suoi ricordi sanguinosi con maligna fedeltà, quasi aspettasse di vedere di nuovo il suo creatore risorgere dalle ceneri e riprenderne possesso. Non è incomprensibile che Emile ne sia rimasto oscuramente affascinato, perdendovi gli ultimi sprazzi di una razionalità già traballante, mi chiedo solo quanto si sia lasciato influenzare dalle presunte tendenze criminose di Morel.

“Vorrei vedere l'accetta” Gabriel appare quasi infastidito dal dover proporre di persona un motivo per attardarsi qui. “Era nella rimessa, giusto?”

Gli faccio strada, sforzandomi di non voltarmi alla fastidiosa sensazione di avere un paio di occhi puntati sulla schiena: in casa non c'era nessuno, quindi nessuno può starmi spiando dalle finestre. D'altra parte l'accetta non è più dove l'avevo buttata e non credo che possano essere stati dei topi a spostarla, quindi o sono completamente andata e non ricordo più neanche ciò che faccio o qualcuno, senza lasciare traccia e senza farsi vedere, era con noi qui dentro e si è messo a trafugare oggetti improbabili.

“Sono quasi sicura di averla lasciata qui” dico senza che Gabriel formuli domande. Sembra intento ad annusare l'aria, ma forse sta arricciando il naso solo per reazione al nugolo di polvere che impera in quello stanzino. “Come abbiamo fatto a non vedere nessuno? É evidente che non fossimo soli.”

“Sì, è evidente” ma il suo assenso non sembra del tutto concorde al mio pensiero. Scruta le ombre come se dovessero vomitare stuole di nemici, mentre io osservo nuovamente il giardino, ancora coperto di rugiada scricchiolante, e noto con la coda dell'occhio un movimento scuro vicino al cancello, adesso leggermente aperto, nonostante prima i cardini l'avessero portato a richiudersi. Corro a indagare, ma faccio solo a tempo a intravedere la sagoma ossuta di quella signora impaludata di nero che avevo incontrato al mio arrivo mentre si allontana quasi fluttuando tra la gente ora piuttosto numerosa che invade il marciapiedi. Cammina con passo lento, ma fluido, senza sfiorare nessuno e senza che nessuno la degni di uno sguardo, nonostante sia la cosa più stramba che si veda in giro, probabilmente perché è una figura tipica del quartiere e ormai tutti sono abituati a lei. Sotto quel mantello spesso e ampio potrebbe nascondere ben più di un'accetta, ma perché diavolo l'avrà presa? É cleptomane? Una macabra collezionista di reperti polizieschi? O deve solo sminuzzare la legna per il camino?

“L'hai vista?” sento la presenza di Gabriel al mio fianco prima che parli o faccia qualsiasi tipo di rumore. È una vibrazione calda nell'aria, un alito energico, inebriante che mi riempie la gola e mi tranquillizza e mi eccita allo stesso tempo.

“Sì.”

“Sembra impossibile si regga in piedi, quindi non so come potrebbe trascinare quell'ascia, che era abbastanza pesante, ma potrebbe essere meno gracile di quanto non sembri.”

“Niente è mai del tutto ciò che sembra.”

“Non ci sono più le mezze stagioni e si stava meglio quando si stava peggio.”

“Eh?”

“Pensavo stessimo tornando ai luoghi comuni.”

“Volevo solo dire che...” alza le braccia al cielo. “Lascia stare. Hai sempre avuto problemi ad accettare ciò che non era concreto e comprovato. Forse per questo sei così attaccata ai soldi.”

“A tal proposito dovrei cercare il numero di quel riccone che voleva conoscermi e contattarlo, magari non è troppo tardi.”

“Tu quel tizio non dovresti chiamarlo per nessun motivo al mondo.”

“Ecco ora sono anche più curiosa, credo proprio che lo farò.”

“Sono geloso, va bene?”

“Figurati, non stiamo insieme. Non ci siamo mai nemmeno baciati.”

Lo sento bofonchiare tra sé qualcosa che sembra molto simile a: “devo avere quel posto in banca” e non nego che il suo interesse sia pericolosamente piacevole, anche se mi distrae dal pensiero di un appetibile affarista pieno di grana.

“Magari questo Xavier è anche bello” provo a cancellare l'idea di Gabriel che rientra nel mio monolocale, a sera, con la giacca buttata su una spalla, la cravatta allentata e un sorriso appena accennato sul volto, mentre si china per salutarmi con un bacio.

Dannazione, lo conosco appena, è senza arte né parte e io già mi vedo ad accoglierlo in casa. Devo veramente conoscere al più presto il riccone, prima di commettere qualcosa di irreparabile.

“Non lo so, non mi intendo di gusti femminili.”

“Quindi dovrò verificare di persona.”

“So che riscuote molto successo tra le donne.”

“Che altro potrei desiderare?”

“Sempre più divertente” richiude il cancello dietro di noi, stando attento a non farsi notare da estranei. “Passami la chiave.”

Non appena il lucchetto fa l'ultimo scatto mi sento più leggera, l'aria sembra più frizzante e pulita e ogni sensazione di disagio si affievolisce anche se non riesco a togliermi la sgradevole impressione che mi sia rimasto qualcosa addosso, come una patina appiccicosa che, probabilmente, è soltanto l'inevitabile strato di polvere raccolto in quel mausoleo.

“Devo farmi una doccia.”

“Sì, anch'io.”

“Stai lontano?”

Mi guarda per un secondo e io ricambio il suo sguardo sempre più perplessa, non è una domanda difficile.

“In che sens... Ah, sì, dall'altra parte della città.”

“Che avevi capito?”

“Pensavo intendessi di starti lontano nella doccia.”

“Credevi ti proponessi di farla assieme?”

“No” è imbarazzato e sembra quasi abbassare le orecchie e gonfiare il pelo in un ammasso di lanugine arruffata, prima di confessare. “Forse per un attimo.”

“Svergognato!” lo dico più per posa che per reale indignazione, anche perché, al di là dell'insano desiderio di concretizzare questa assurda fantasia, sarebbe impossibile arrabbiarsi con chi se ne esca con una proposta del genere con un'aria così ingenua e pulita da purgarla di ogni malizia.

“Ho una casa nel distretto 12, o almeno spero di averla ancora.”

“Come sarebbe?”

“Sono indietro con l'affitto di un mese e è un po' che non passo a controllare.”

“E dove hai dormito ultimamente? Anzi, prima di tutto, perché non paghi l'affitto?”

“Volevo farlo, ma poi ho usato i soldi per altre cose.”

“Così, semplicemente?”

“Già.”

“Sei un irresponsabile, uno scapestrato!”

“Che intendi dire?”

“Mi pareva abbastanza chiaro.”

“Ho quanto mi occorre per sopravvivere.”

Il termine che sceglie è significativo e smorza un po' la mia irritazione. Tutto in lui sembra teso a quel semplice atto, sopravvivere, senza aspettarsi nulla per se stesso, senza desiderare nulla, come se l'idea stessa di vivere fosse impensabile, irraggiungibile, non per codardia o indolenza, ma per la consapevolezza oggettiva di non potersela permettere, di avere un diverso destino, troppo crudele, troppo pesante.

Ma forse sto solo tingendo di romanticismo una banale pigrizia e l'ispettore non poteva scegliere momento più opportuno per telefonarmi, anche se il solo riconoscere il suo numero sul display del cellulare mi manda nel panico. Vorrà interrogarmi di nuovo? Avrà scoperto qualche altra prova contro di me?

Nascondo i dubbi dietro un tono impersonale e distaccato.

“Pronto.”

“Signorina De Raven, lieto di sentirla” la sua voce è calma e confortante, ma potrebbe essere il famoso trucco del poliziotto buono, anche se non saprei chi e come potrebbe interpretare il cattivo in una conversazione telefonica. “Si sente meglio?”

“Abbastanza, anche se non ho ancora smaltito l'effetto fastidioso degli antidolorifici, sempre che mi abbiano somministrato solo quelli” per un attimo sono quasi tentata di raccontargli del mio braccio e del farmaco sperimentale, ma uno sguardo al cipiglio cupo di Gabriel mi convince a desistere. “Che posso fare per lei?”

“Volevo solo ricordarle il nostro appuntamento di oggi pomeriggio. Alle 16.00, se per lei va bene. Vuole che passi a prenderla?”

“No, sarebbe più complicato che venire a piedi, ci metterò al massimo cinque minuti.”
“D'accordo allora, l'aspetterò lì” attacca senza salutare, ma quasi non ci faccio caso, perché Gabriel si intromette prepotentemente nei miei tortuosi processi mentali.

“Ci sarò anch'io.”

“Pensavo volessi stare alla larga dai gendarmi.”
“Infatti vi seguirò di nascosto, non mi farò vedere.”
“Mi sembra piuttosto ridicolo, nonché infattibile.”

“Tu non preoccuparti di questo, basta che non ti metta a guardarti intorno, cercandomi. Ti terrò d'occhio, non preoccuparti.”

“Prima di saperlo non ero preoccupata.”

Sospira, esasperato.

“Ora vado a farmi una doccia, ci vediamo dopo.”

“Puoi venire da me” l'offerta mi esce spontanea, come quasi tutte quelle che lo riguardano. Parlo prima di pensare e mi ritrovo a sputar fuori frasi che non mi posso rimangiare. “Se devi fare avanti ed indietro dal distretto dodici, tanto vale che mangiamo qualcosa assieme, usi la mia doccia, ma solo quella, ben inteso, e poi andiamo insieme all'appuntamento con l'ispettore. Anche se sarà un po' ridicolo passeggiare con te travestito da bidone della spazzatura.”

“Primo: non farò niente di così stupido. Secondo: sei sicura?”

“Sì, ma sia chiaro che ti offro solo l'uso del bagno. Non stai bene e sarebbe assurdo perdere tempo ed energie in metropolitana.”

“D'accordo.”

“Ah, che fatica!”

“Già” poi, ripensandoci. “Grazie.”

“Che vuoi da mangiare? Non ho niente in casa, devo fare la spesa.”
“Non lo so. Quello che vuoi tu andrà bene.”

“Mi piacerebbe sapere cosa volere.”
“Allora, lascia fare a me, stavolta. Abbiamo mangiato insieme, qualche giorno, credo di aver capito i tuoi gusti.”

Scendiamo alla fermata di Pigalle, proprio davanti ad un piccolo supermercato, dove Gabriel si carica di pane, prosciutto cotto, formaggio e io afferro al volo una busta di patatine fritte surgelate.

“Ho preso quelle fresche” mi indica il cestino. “Saranno più saporite.”

“Sai cucinare?”

“Sì, so cucinare” stavolta non so davvero cosa possa averlo irritato nella mia innocente domanda.

“Intendevi dire che avresti cucinato tu?”

“Posso farlo.”
“Allora, mentre io mi farò una doccia, tu cucinerai.”

“Ok.”

E' particolarmente arrendevole, il che può significare solo che o non ha interesse per queste minuzie, o si sente troppo male per litigare. Lo osservo attentamente: il suo volto non sembra più tirato o affaticato di stamani, ma gli occhi sono lucidi e cerchiati di scuro, le labbra appaiono screpolate e si contraggono spesso in impercettibili smorfie, come se cercasse di trattenere un qualche tipo di dolore. Vorrei facesse meno lo stoico, ma, stando così le cose, non posso fare niente, a parte offrirgli un tetto e un pasto... o ha pagato lui, al supermarket? Temo di non averci neanche fatto caso. Mentre scendiamo a riprendere la metropolitana per arrivare a Montmartre mi rendo conto che c'è una frase che sta premendo da un po' per uscirmi di bocca e che non riesco più a convincermi che non sia giusto pronunciare, così lo richiamo.

“Gabriel?”

“Sì” si volta subito, con aria preoccupata e sexy, nonostante la lunga baguette che tiene sotto braccio. “Va tutto bene?”

“Grazie per essere venuto alla villa.”

 

Rieccomi qua. Sto cercando di rendere meno frammentaria la narrazione, ma anche se i capitoli sono più lunghi, mi sembra che non siano ancora abbastanza “pregnanti”... non saprei. Spero di aggiustare il tiro piano piano, intanto grazie a tutti quelli che seguono questa storia!

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Capitolo 19
*** Non ci siamo neanche baciati ***


Mi guarda confuso e forse anche un po' sospettoso, come se pensasse ad una mia strana forma di presa in giro.

“Figurati” mormora alla fine. “L'ho fatto volentieri.”

“Ma se ti sei lamentato un sacco!”

“Mi sono lamentato perché ho rotto il naso al mio collega.”

“Non te l'ho mica chiesto io di farlo. E neanche di seguirmi, se è per quello.”

“E' un posto pericoloso” la sua voce è decisa, il tono lapidario di chi sta solo esponendo un fatto lapalissiano, anche se io non riesco ad afferrarne la credibilità.

“Non mi sembra ci sia successo niente, o sbaglio?”

“Vuoi dire che non hai avvertito una sensazione di minaccia tutto il tempo?” alza un sopracciglio, con espressione più che scettica, mentre io mi distraggo a pensare quanto sia carino mentre imita il signor Spock in versione sexy.

“No” mento spudoratamente, ma senza successo.

“Bugiarda.”

“Sono soltanto le medicine e il fatto che quella casa ha un'aria sinistra.”

“Ha un'aria sinistra perché è stregata!” prova a gettare la palla, ma non la raccolgo, così scuote la testa e aggiunge, per mantenere un barlume di credibilità: “Scherzo.”

Vorrei ribattere con un banale “lo so benissimo”, ma credo sarebbe più giusto dire “me lo auguro”, per quanto sarebbe comodo convincersi che tutta questa schifezza sia solo opera di un incantesimo, una maledizione o qualche iattura demoniaca. Metterebbe a posto un sacco di intricati pezzi del puzzle e ci permetterebbe di concentrarci sul trovare una soluzione, piuttosto che capirne le cause.

Almeno casa mia sembra un'oasi di pace e serenità dopo la visita alla villa e qualsiasi stranezza possa riservarmi non sarà mai come quelle appena affrontate.

“Non ho un cambio di abiti per te” lascio che poggi le borse sul piano dell'acquaio e armeggi nei miei mobili con più sicurezza di quanto non ne avrei io. “Non ho pensato volessi toglierti la roba polverosa.”

“La scuoterò un po' fuori e mi adatterò, tranquilla” ha già sistemato due pentole sulle piastre e si ferma prima di iniziare a pelare le patate solo per togliersi il maglione e la camicia, impedendomi implicitamente di distrarmi con pensieri banali quali radunare gli asciugamani per farmi la doccia, a meno che non immagini di trascinarlo in bagno con me.

Diavolo se ha un bel torace. È esattamente come me lo ero immaginata o forse meglio di come me lo sarei mai potuto immaginare. Ma, in fondo, si tratta solo di qualche fascia di pettorali ben tornita e una tartaruga da urlo, giusto? Niente per cui andare in deliquio, quindi adesso smetterò di fissarlo come un'adolescente scema e mi concentrerò sul piano di battaglia: doccia, cibo, ispettore. Non c'è tempo per alcun tipo di imprevisto, nemmeno per quelli in jeans attillati e abbronzatura naturale.

Una volta presa questa decisione, tutto si svolge con piacevole banalità e riusciamo a portare in fondo un gustoso pasto senza essere turbati né da battibecchi né da inquietanti bizzarrie esterne.

“Sei bravo” sembro più sorpresa di quanto non vorrei, ma Gabriel non pare averci fatto caso o essersela presa a male.

“Mio padre era uno chef.”

“Anche lui...”

“E' morto da molto tempo.”

“Quindi non hai più nessuno?” vorrei aggiungere: “come me”, ma sembrerebbe ridondante.

“Ci si fa l'abitudine.”

Lo spero. Per quanto mi riguarda è impossibile sentire la mancanza di qualcosa che non conosco, o almeno è quello di cui voglio convincermi, anche se so bene di star mentendo a me stessa non meno di quanto mi abbia appena mentito lui.

“Come sono morti?”

“Un incidente. Prima mio padre e poi mia madre” è talmente abituato all'idea che il suo sguardo si fa totalmente gelido e distante, mentre lo racconta, e la sua mano stringe con tanta forza la forchetta da farmi temere di vederci impressa l'orma della sua mano, appena disserrerà la presa. Come temevo, non ci si abitua mai ad essere soli, è insisto nella nostra natura, siamo animali sociali. D'altra parte, non ci si può neanche piangere costantemente addosso e ammiro lo sforzo che fa per non abbattersi.

“Sembra un destino” sdrammatizzare sarebbe inappropriato, ma compiangerlo sarebbe offensivo.

“Già.”

E' più telegrafico del solito e non me la sento di biasimarlo. Per fortuna il trillo del campanello mi distoglie dalla morbosa curiosità di scoprire qualche altro dettaglio.

È Jasmine.

“Forse non dovrei farmi trovare” propone Gabriel.

“Perché? Hai paura di conoscere i miei amici? Mi nascondi qualcosa?”

“No che diamine” si infila in fretta la maglia, incurante dei capelli ancora umidi dopo la doccia veloce fatta prima di pranzo. “Possibile che ti fidi ancora così poco di me?”

Il lieve bussare alla porta mi impedisce di rispondergli. Jas ha il solito aspetto bizzarro di ieri sera, anche se adesso non indossa troppa chincaglieria. Sembra passata una vita dal nostro ultimo incontro, anche se, impossibilmente, si tratta solo di poche ore.

“Ciao” inizia, stringendomi in un abbraccio leggero. “Speravo di... oh! Hai compagnia?”

Il tono è a metà tra il divertito e il preoccupato, è evidente che non conosca Gabriel, ma lo trovi particolarmente interessante. Non posso dire di non comprenderla.

Procedo alle presentazioni, prima di ricevere un colpo sulle costole e un bisbiglio cospiratorio: “Carino!” fa con malizia, senza staccargli gli occhi di dosso.

“Sì, è carino” concedo. “Ma non farti strane idee, non ci siamo neanche mai baciati.”

“Perché no, Gabriel?”

La domanda, così diretta, coglie entrambi di sorpresa e ci ritroviamo a boccheggiare imbarazzati, finendo per confondere le nostre risposte nello stesso istante.

“Perché è uno spiantato!”

“Perché continua a ripeterlo!”

“Ha anche un brutto carattere” continuo, mentre mi fissa con sguardo sempre più simile alla lama di un pugnale. “Ma in fondo è un cucciolo.”

“Cosa?” la sua voce indignata non ci sfiora nemmeno.

“L'importante è che non sia violento.”

“Beh, un po' lo è, ma forse metterà la testa a posto. Pensa che deve fare un colloquio per lavorare nella stessa banca di Phlippe.”

“Davvero? Potremmo metterci una buona parola.”

“Sì, se ottenesse quel posto, potrebbe diventare quasi papabile” mi sembra di fare un tuffo in un ignoto passato, quando conversazioni del genere erano di routine; è piacevolmente normale e rilassante. Forse dovrei limitarmi a questo, almeno finché non starò bene; forse dovrei semplicemente riprendere le fila della mia vita quotidiana e monotona, dimenticando case pseudo stregate e pittori pazzi con quadri allucinati di soggetti pazzi. Sembrerebbe l'idea del secolo, finché non sento: “Non parlate come se non ci fossi.”

Gabriel è ancora qui, palesemente imbarazzato, e mentre io gli faccio cenno di tacere con la mano, non posso dimenticare né lui, né tutta una porzione di verità che non ha niente di ordinario, ma che fa comunque parte della mia vita, non voluta, non comoda, ma inevitabile, perché sono quasi sicura che me la ritroverei addosso nel momento meno opportuno e senza essere pronta a combatterla.

E poi c'è anche quella fastidiosa sensazione che provo ogni volta in cui penso di mandarlo al diavolo e giudicarlo un semplice svitato: dispiacere, rimpianto e un filo di paura, come se solo questo strambo principe azzurro senza cavallo, mantello o castello col tesoro potesse farmi da scudo contro un destino di cui rifiuto di ammettere l'esistenza. Alla luce di fatti obiettivi, mi sto solo prendendo una cotta stratosferica, ma speravo di aver superato l'adolescenza e il suo costante bisogno di tinteggiare ogni tempesta emotiva con romantiche tinte pastello. Gabriel è sexy, confusamente premuroso e ha quell'alone di storia tormentata alle spalle che lo renderebbe irresistibile per qualsiasi donna; io sono single, spaventata, anche se non lo ammetterò mai neanche sotto tortura, vulnerabile e sessualmente provata da vari farmaci più o meno sperimentali: il risultato è quasi ovvio. Forse dovrei solo saltare il fossato, soddisfare il mio corpo e non pensarci troppo, in fondo andarci a letto non significherebbe sposarlo, ma così mi sembrerebbe di sciupare e minimizzare qualcosa che di superficiale e frivolo non ha nulla.

Uffa, quanti problemi!

“Volevo invitarti a pranzo, ma vedo che avete già provveduto” Jasmine è ancora con noi, giusto.

“Sì, scusami” anche per essermi momentaneamente dimenticata della tua presenza, dovrei aggiungere. “Siamo tornati dalla villa da poco e poi dovrò incontrare l'ispettore, non ho pensato a chiamarti, è stato tutto molto confuso.”

“Come alla villa? Non ci saresti dovuta andare!”

“Ecco” ne approfitta subito l'altro paranoico. “Finalmente un commento sensato.”

“Certo che dovevo andarci. Anzi, non ho ancora controllato quello che abbiamo portato via.”

Tiro fuori la catenina, il barattolo di vernice, la frusta, che alla fine avevo infilato nella borsa, e il libro sui tarocchi.

“Quello quando l'hai preso?” Gabriel sgrana gli occhi e arriccia il naso, non so se per la polvere o per lo schifo d'odore che sale da questa roba. Sembra anche più penetrante adesso, probabilmente perché nella villa si confondeva con quello pesante e malsano di tutti gli altri ambienti e non ci facevamo più tanto caso.

“Mentre tu eri impegnato a togliere le assi dal pavimento.”

“Santo cielo!” mormora Jas. “Tutti questi oggetti emanano un'aura di dolore e crudeltà indescrivibile.”

Si è avvicinata al tavolo, ma sembra abbia paura di sfiorarli.

“Questa vernice dovrei consegnarla ai gendarmi” ignoro le sue fantasie. “Magari potranno ricavarne qualcosa.”

“Io non credo” Gabriel prende il barattolo, stando attento a non sporcarsi, ma rischia di lasciarlo cadere quando Jas fa un salto repentino per allontanarsi da lui, che l'aveva appena sfiorata col gomito, quasi si fosse bruciata con un tizzone ardente. È pallida come un cencio e lo fissa come fosse un fantasma o un mostro, portandosi una mano tremante alla bocca per trattenersi dal gridare.

Io sono quantomeno perplessa, mentre Gabriel non perde la compostezza e si limita a guardarla con espressione neutra.

“Va tutto bene?” dice anche, senza nessun segno di nervosismo nella voce, mentre quella di Jas è flebile e atona nel rispondergli.

“Abbastanza credo, scusami...”

“Va tutto bene, Jasmine” questa volta non è una domanda e la sua voce ha una risonanza strana e magnetica, quasi come quella di Gandalf ne Il signore degli anelli, quando cerca di imporre la propria volontà al Balrog.

“Non provare a ipnotizzarla” cerco di allentare la tensione e Jas sembra grata del mio intervento perché sbatte gli occhi, si volta verso di me e riacquista il solito tono scanzonato, anche se il suo volto rimane teso e bianchiccio.

“Perché, è anche in grado di ipnotizzare?”

“No, ma gli piacerebbe.”

“E come fai a essere sicura di non esserci andata a letto?”

“Perché...” inizia lui, ma lo interrompo.

“Perché non ci siamo mai neanche baciati.”

“Ecco, esattamente quello che volevo dire io. E suona sempre peggio, man mano che lo sento.”

La tensione si è un po' smorzata, ma vedo bene che Jas è sulle spine, non so se per la voglia di dirmi qualcosa o di levare le tende. Che può essersi immaginata, toccando Gabriel? Che razza di fantasia da chiromante l'ha sconvolta? Provo a incrociare il suo sguardo, ma lo tiene ostinatamente rivolto a terra e quasi si catapulta sul telefono, al primo squillo, pur di avere una scusa per allontanarsi da noi.

“Pronto?”

E' un po' strano avere una segretaria.

“Sì, gliela passo subito” poi, con una mano sulla cornetta. “Dice di essere tuo nonno.”

Alzo gli occhi al cielo.

“Sì?”

“Alexandra? Con chi ho parlato prima?” ecco qua il mio parente preferito, nonché unico, in tutta la sua dolce simpatia.

“Un'amica, non preoccuparti. A che devo il piacere?”

“Ho prenotato il volo, atterrerò al De Gaulle domattina alle 10.00.”

“Che bello” cerco di moderare il sarcasmo, ma forse ho sprecato energie, perché non sembra lo percepisca comunque.

“E' necessario.”

“E io ironica.”

“Ospitale come tua madre” ora l'ho fatto irritare.

“Non è che tu finga una particolare affezione nei miei confronti, visto che vieni qui solo perché è necessario.”

“Qualcuno deve raccontarti come sono andate le cose e non c'è più nessuno della tua famiglia.”

“Quali cose?” ignoro palesemente l'inutile stilettata che mi dà, rimarcando la mia solitudine.

“Quelle successe prima dell'incidente, chi sei...”

“Ma tu non lo sai! Non sai niente di me.”

“So più di quanto tu creda e di certo più di quanto tu sappia al momento attuale.”

Credevo che l'accento italiano potesse essere affascinante, ma il suo continua a essere solo irritante.

“E poi devo riconsegnarti il DVD che mi avevi spedito.”

“D'accordo, d'accordo, non ricominciamo daccapo. Avevo già accettato la tua visita.”

Mentre lo dico, stringo forte la cornetta per impedirmi di scagliarla dall'altra parte della stanza.

“Calmati Alex” mi sussurra Gabriel, avvicinandosi per massaggiarmi le spalle; il suo tocco è deciso e delicato e riesce a sciogliere subito il groppo di tensione che mi bloccava il collo, come un collare ortopedico di ferro.

“Di chi è questa voce?” in compenso il nonno si impegna molto per vanificare quel gradevole risultato. “C'è un uomo con te?”

“Sì, è un amico” non mi sto giustificando, sto solo innalzando barriere di carta tra ciò che il mio cuore desidera e ciò che la mia razionalità vuole continui ad essere la verità: a volte dare un nome a qualcosa fa miracoli.

“Che indecenza!”

“Se ti avessi detto che è il mio amante che avresti fatto?” pessima scelta di parole, per me, non per la sensibilità di mio nonno, di cui non mi importa un tubo.

“Alexandra sei mia nipote e non tollero che tu tenga atteggiamenti immorali e...”

“Se per te sono indecente non venire!” riattacco con un sonoro “vaffanculo” che, però, lascio uscire solo dopo aver interrotto la comunicazione, non per una forma intrinseca di rispetto, ma solo per errato calcolo dei tempi.

“Un bel tipo tuo nonno” almeno pare che Jas si sia distratta e abbia ritrovato un po' di compostezza, nonché di colore. “Magari si dimostrerà meno scorbutico quando potrà parlarti di persona.”

“Ne dubito.”

“Come si chiama?” chiede Gabriel.

L'assurdo è che devo pensarci per qualche secondo, peggio che se si trattasse di un tizio rimorchiato per caso in un bar.

“Valeri” mi sovviene poi. “Leonardo Valeri.”

Quel nome non deve essergli sconosciuto, ma, in fondo, era anche il cognome di mio padre e potrei averglielo detto in passato; anzi, ora che mi sovviene, è ben strano che io, invece, porti quello di mia madre, come se i miei non fossero stati sposati o io fossi una figlia illegittima.

“Tu quanti anni hai Gabriel?” Jasmine ha ricominciato a guardarlo e si è anche avvicinata, seppure con fare titubante. “Posso farti le carte.”

“No” è lapidario. “E ho 31 anni.”

“Diavolo!” non riesco a trattenermi. “Sei vecchio per essere disoccupato.”

“Ho fatto vari lavori” si schernisce. “E ho due lauree.”

“Due lauree? Accidenti, io devo ancora prendere la prima” la mia amica sembra piacevolmente sorpresa, mentre io sono solo allibita. Ancora non mi ero neppure riconciliata col fatto che ne avesse una, figuriamoci due.

“Mi sono laureato prima in Scienze economiche alla Sorbonne e poi in legge, avanza tempo.”

“E' proprio da sposare” mi fa sogghignando Jas.

“Non corriamo; avrà anche un buon curriculum di studi, ma è comunque disoccupato e quasi non lo conosco.”

“Sì, ma è dannatamente carino. Magari potresti solo portartelo a letto e poi vedere come vanno le cose.”

Come diavolo ha fatto a leggermi nella mente? È davvero una sensitiva o ho ben scritto in faccia i miei pensieri?

“E' un'idea che mi ha sfiorato” cerco di apparire scherzosa. “Ma non credi sia rischiosa?”

“Ehi!” ci interrompe con voce roboante e aria imbarazzata. “Guardate che vi sento.”

“Allora non ascoltare! Comunque stiamo perdendo tempo. Senti” mi rivolgo a Jasmine. “Hai mai visto un simbolo come questo?”

Le indico il coperchio del barattolo di vernice.

“Santo cielo, sì! Ce l'ho su un libro di magia nera.”

“Come questo?” le porgo il libro di Morel, ma non lo prende, si limita a osservarlo con un misto di eccitazione, panico e sorpresa.

“Non è una riproduzione” mormora alla fine. “Questo è un libro rarissimo. Varrà migliaia di euro e anche le copie che ho trovato su internet sono rare e costano un sacco di soldi. Non avrei mai creduto di vederne uno da vicino.”

Dopo le migliaia di euro mi sono completamente persa.

“Non ti ha ascoltato” la interrompe infatti Gabriel, fissandomi con aria consapevole. “Alex, quel libro non è nostro, non potrai rivenderlo.”

“Magari se trovassimo il ricettatore di Emile...”

“Non farei mai affari con un tipo del genere e non venderei mai un libro di occultismo, a nessuno” questa volta non sta scherzando, né giocando. Crede fermamente in quello che dice e nella pericolosità di quello che mi ero proposta di fare.

“Via, sono solo superstizioni!”

“No, non è così” mi contraddice Jas. “Quel libro nasconde segreti oscuri e si racconta che permetta anche di fare patti con i demoni.”

“A me sembra solo un insieme di stupidaggini sulla lettura dei tarocchi” difficile combattere due svitati, quando si alleano.

“I tarocchi non sono sciocchezze.”

“No, certo. Ti fanno guadagnare dei soldi, quindi hanno la loro utilità.”

“A parte questo, permettono di vedere il futuro e anche di interpretare il passato.”

“Se avessi saputo il futuro, non sarei rimasta coinvolta in un incidente e non sarebbero morte dodici persone, compreso Emile.”

“Io te l'avevo detto” che frase odiosa. “Ti avevo avvertita che c'era un'atmosfera nefasta intorno a lui e ai suoi quadri e che potevano derivarne solo orrore e disastro, ma tu continuavi a non credermi.”

“Lei è bravissima nell'arte della negazione” conferma Gabriel. “E forse è un bene.”

“Senti, tu, se vuoi riuscire a baciarmi non stai usando la tattica giusta.”

“Già, c'è sempre quel piccolo dettaglio da sistemare” sorride, mentre lo dice, e improvvisamente desidero che la mia amica sia in qualsiasi altro posto, ma non qui.

“Volete vi lasci soli?”

Mi chiedo con orrore se non abbia espresso il mio pensiero a voce alta.

“No, grazie. Ma vorrei mi dicessi cosa sai su quel segno. Ci siamo distratti e non hai finito di spiegare” spero solo di non essere arrossita, perché mi sento come una liceale al primo appuntamento e ho un'imbarazzante sensazione di calore al volto che spero non si rifletta in nessun segno visibile.

“E' un simbolo particolare, atipico anche per la magia. Vedi? Sembra un pentacolo, quindi potrebbe indicare protezione, ma le punte degli angoli sono leggermente ondulate, quasi a formare un cerchio o una spirale, espressione dell'infinito, dell'Universo, con significati contraddittori: se il disegno ruota in senso orario esprime crescita, espansione, sviluppo; se però ruota in senso antiorario, come questo, ha un'accezione negativa e simboleggia un'involuzione dell'energia che collassa su se stessa, in senso distruttivo, quasi fosse un labirinto privo di uscita. Di solito la spirale, però, viene rappresentata con tre vertici, non con cinque. Secondo il mio libro si tratta solo di una variazione sul tema, ma non si sofferma troppo a studiarla. Ipotizza si tratti di un segno per incanalare energia in un oggetto o un ambiente. Ad ogni modo, io credo non si tratti di niente di buono.”

Visto che se ne sta sopra a quel malefico barattolo di vernice, non posso darle torto e anche Gabriel, rinfrancato dalla presenza di qualcuno capace di tirar fuori più sciocchezze di lui, si limita a ascoltare in silenzio quella spiegazione, dando ad intendere di non trovarla del tutto insensata.

“Ti ho mai detto se Emile si fosse unito a qualche setta?”

“No, ma cercavi di non parlare più di lui, soprattutto negli ultimi giorni. Dicevi solo che era stanco e che speravi passasse in fretta il periodo della mostra, perché sembrava agitarlo più del solito, ma mi rassicuravi attribuendo tutto alla normale stramberia degli artisti.”

Annuisco, ma sono sempre più convinta che il mio amico si sia ritrovato il cervello fritto da un mix micidiale di droghe e sollecitazioni esoteriche. Probabilmente avrei dovuto stare più attenta alle sue paranoie e non liquidarle come semplici deliri, forse avrei potuto impormi di più sulle sue fantasie, ma ora come ora non posso saperlo con certezza e rimuginare su una mia possibile responsabilità nell'aggravarsi della sua follia non potrà che deprimermi e angosciarmi.

“Esatto” Gabriel mi stringe la mano, quasi avesse letto nella mia mente, o sul mio volto, il preciso affastellarsi delle mie preoccupazioni. “Fidati, io ricordo tutto e non avresti potuto fare di più per lui, te l'ho detto.”

“Che carino” Jasmine lo guarda estasiata. “Quando abbandona quell'aria corrucciata sembra quasi adatto a lavorare davvero in banca.”

“Io ce lo vedo poco, ma spero che stare in un ambiente di persone calme e razionali lo aiuti a maturare un po'. A 31 anni sarebbe anche l'ora.”

“Ne dimostra meno.”

“Vero? Ha quell'aria così da cucciolo!”

Sento la sua mano sempre più rigida nella mia, che non ha ancora lasciato e che non ho nessuna voglia di fargli lasciare, mentre bofonchia tra sé una specie di mantra: “Respira, Gabriel, respira. Ricordati cosa ti hanno insegnato, domina, non essere dominato.”

Rido e mi accorgo di averne avuto un enorme bisogno, mentre lo immagino stipato in uno di quei cubicoli di vetro, con davanti la classica vecchietta rompipalle intenta a sputacchiare commenti inopportuni e obiezioni assurde, mentre cerca di resistere all'impulso di ucciderla.

“Smettila di farti filmini su di me” mi rimprovera.

“Dovrei farli su quell'altro mio spasimante, il signor De la roche?”

“Ti sei ricordata di lui? Incredibile” la mia amica è elettrizzata. “Dovevo immaginarlo che 12 milioni di euro avrebbero avuto la meglio anche sull'amnesia.”

“12?” non riesco neanche a pronunciarlo. “12 milioni?”

“Come minimo. Avevi chiesto a Philippe di fare una stima di quell'uomo, quando ha iniziato a interessarsi a te, e non credo che abbia soldi solo alla BNP.”

“Alla faccia del segreto professionale! Alex, ascoltami” Gabriel sembra rendersi conto di quanto sia difficile pretenderlo, perché mi afferra per le spalle e mi fa girare di peso verso di lui, mentre l'immagine di sacche e sacche di pezzi da 500 euro mi appanna la vista. “Quello che ti ho detto su di lui non cambia. Sapevi che era ricco, no?”

“Non fino a 12 milioni.”

“Non valgono i rischi che correresti con lui.”

“E' un mafioso?” Jasmine è a metà tra il preoccupato e l'eccitato. Tutte queste novità misteriose sembrano emozionarla fuori misura. Ad ogni modo ha avuto il mio stesso dubbio, si vede che siamo amiche.

“Non lo so, ma di certo ha contatti in quell'ambiente e non sono tra i peggiori.”

“Secondo me, lo dici solo perché sei geloso e non vuoi che Alex vada da lui” continua a stuzzicarlo.

“E se fosse?”

Un momento, stiamo ancora scherzando o questa risposta ha un tono un po' troppo serio per essere ignorata? Dannazione a Jasmine e alle sue frecciatine, non so se ho voglia di spingere le cose tanto in là così in fretta. Devo assolutamente rimediare.

“Se fosse così, dovresti essere sincero.”

E devo chiuderle il becco, maledizione.

“Potrei anche essere geloso” mi guarda storto. “Anche se non ti ho ancora baciata!”

Perché continua a pronunciare quella parola? E perché io continuo a fissargli quella dannatissima bocca imbronciata, perfettamente modellata per attrarmi e farmi impazzire.

“Volete che me ne vada?” il tono scherzoso si è fatto titubante e impacciato.

“E' un po' troppo tardi Jas” mi scopro a pensare, mentre i miei occhi, cercando salvezza, finiscono solo per perdersi nella prigione azzurra che è diventata lo sguardo di Gabriel, pericolosamente serio, adesso, mentre si avvicina di un altro passo a me, deciso e esitante allo stesso tempo, crepitante di energia caotica e travolgente come un fiume in piena, a malapena contenuta da un ultimo barlume di coscienza.

“E' un po' troppo tardi” ripeto a me stessa, mentre guardo il suo volto chinarsi sul mio con esasperante lentezza, permettendomi di fuggire, ma costringendomi anche a inebriarmi per un tempo infinito del suo odore e del suo calore, così forti, così caldi da bruciarmi sulle guance in una carezza di fiato che mi fa vibrare l'anima e tremare le gambe.

Il suono ovattato della porta che si chiude mi riporta alla ragione.

Jas non è più nella stanza, o forse dovrei dire nell'appartamento.

“Dove diavolo è andata?” volto la testa, sollevata e delusa da quell'interruzione, ma non riesco ancora a trovare la forza per allontanare il resto del corpo da quello che è allo stesso tempo ancora di salvezza e baratro di perdizione.

“Credo si sia sentita in imbarazzo.”

“Perché mai?”

“Non lo so” è di nuovo irritato. “Non ti ho neanche baciato.”

“Già” mi sento stranamente timida nel dirlo, forse perché avrei voluto poter dare una risposta diversa, o forse perché avrei voluto non volerlo.

“Già” ripete con un ringhio.

“Grazie” mormoro senza sapere neppure io il perché; potrebbe essere per non aver approfittato della situazione o per non essersi arrabbiato troppo quando ho rovinato la situazione, o perché continua a tenermi le mani sulle spalle come se anche lui non trovasse la forza di districarsi da questa dannata situazione. Ok è un marasma di ripetizioni e se questo fosse il tema consegnatomi da uno dei miei studenti gli affibbierei un bel insufficiente abbondantemente motivato, ma sembra che la mia mente si sia arenata in quest'attimo sospeso tra ciò che l'istinto pensa sia giusto fare e ciò che entrambi i protagonisti della vicenda non ritengono sia opportuno lasciar succedere, quindi non ho davvero modo di preoccuparmi di problemi di grammatica.

“Smettila di ringraziarmi, e poi per cosa?”

Giusto una delle mille domande per cui non ho risposta.

“D'accordo” dico solo, provando a non iperventilare. “Vuoi qualche consiglio per domani?”

Il sottinteso “sto cercando di cambiare argomento, ma sappi che non ti è permesso non ottenere quel lavoro, a questo punto” aleggia tra noi con invisibile, ma possente vigore.

“Mi farebbe comodo” mi concede, spostando la mano al lato del mio volto, così piccolo mentre si perde completamente nel suo palmo, in un tocco che è più di una carezza e meno di un avance, e che, probabilmente, è solo il tentativo fallito di smettere di sfiorarmi.

“Sii rispettoso.”

Mi guarda in silenzio, inarcando un sopracciglio.

“Tutto qui? Sii rispettoso?”

“Io non ricordo il mio colloquio di lavoro e comunque ho ottenuto un posto che, a quanto pare, detesto con tutta l'anima, quindi non puoi aspettarti grandi lezioni.”

Credo voglia protestare o prendermi in giro, ma all'improvviso, dopo che la relativa calma delle ultime ore mi aveva fatto abbassare la guardia e quasi credere che le stranezze fossero storia del passato, un gelo penetrante e doloroso mi attanaglia le viscere, condensando il mio fiato in una nuvoletta glaciale e facendomi rabbrividire.

Vorrei imprecare, ma le braccia di Gabriel si stringono con prepotenza intorno a me, creando un impenetrabile, accogliente rifugio, in cui sono felice di rannicchiarmi e dimenticarmi, per un attimo, della mia posa da dura senza timori. So che è impossibile, ma giurerei di avvertire un leggero sussurro, intorno a noi, un bisbiglio basso e malevolo privo di senso, ma non di intenzione, come una minaccia in lingua straniera di cui non si comprenda il significato, ma si intuisca bene il fine.

È assolutamente folle, come lo è anche il passaggio repentino da una temperatura accogliente a una siberiana, in una stanza piccola, con il riscaldamento acceso e la finestra chiusa.

Vorrei riflettere e trovare una buona giustificazione, ma ogni centimetro del mio corpo, per fortuna pochi, non a contatto con Gabriel sembra bruciare di freddo e perdere pericolosamente sensibilità, tanto che mi ritrovo a battere i denti e tremare, incapace di formulare una sola scusa razionale per tutto questa faccenda, nonostante la sicurezza datami dall'abbraccio irremovibile del mio compagno, la cui attenzione è divisa tra il proteggermi da qualche incomprensibile pericolo e minacciare quel pericolo stesso, con sguardo truce e ringhio deciso.

“Gabriel” cerco di mormorare tra un brivido e l'altro, mentre un dolore intenso si fa strada nel mio petto, provando ad uscire, squarciandomi la gola. “Gabriel!”

Mi odio per il leggero panico che trasuda dalla mia invocazione, ma non ho tempo per riacquistare compostezza, perché proprio mentre credo che dovrò accantonare i dilemmi morali per concentrarmi sull'afferrare un polmone prima che esploda dalla mia cassa toracica, le sue labbra conquistano le mie in un bacio che non ha nulla di gentile o impacciato, ma brucia letteralmente via ogni traccia di gelo e di buonsenso dal mio corpo e dalla mia mente, trasportandomi in una spirale di eccitante piacere che va oltre la mia pelle e i miei sensi per confondersi con i battiti impazziti del mio cuore.
 

Seguendo i preziosi consigli della mia recensitrice (al femminile è davvero orrido e anche recensora non suona meglio -_-) di fiducia, ho rivisto e corretto il capitolo, che spero adesso sia migliore della stesura originale. Non ho eliminato il bacio... forse è un po' improvviso, ma Alex mi avrebbe odiato se avessi osato tagliarlo e non è bene farla arrabbiare ^_^ A parte le battute, è una cosa nata di getto tra i personaggi e, per adesso, ho deciso di lasciarla stare, vedremo in futuro. Grazie di tutto e spero davvero che la nuova versione vi piaccia!!

Per puro spirito di precisione, il simbolo di cui parla Jas me lo sono inventata, anche se le “credenze” sulla spirale sono quelle comuni delle storie di esoterismo ^_^

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Capitolo 20
*** Ritorno sul luogo del delitto ***


Questa, tra tutte, è la cosa più assurda che mi sia successa negli ultimi due giorni, ma è anche la più piacevole, se pur non la meno pericolosa, per cui evito di rovinare questi istanti di squisita beatitudine che la mia scarsa serietà e il mio inesistente autocontrollo mi hanno regalato, per gustarmi a pieno l'intenso sapore agrodolce delle sue labbra, il profumo prepotente del suo calore sul mio viso, la sensazione eccitante del suo fiato mischiato al mio, la consapevolezza istintiva di sentirmi completa, perfetta, nonostante non ne esistano spiegazioni.

Il bacio di Gabriel è delicato quanto lo sono le sue attenzioni, nascoste in maniera contorta sotto un ruvido strato di burbera collera: non è volutamente sensuale, anche se riesce a farmi tremare le gambe; non è gentile, anche se sembra donarmi tutto senza chiedere niente in cambio; non è prepotente, anche se mi afferra e mi incatena con la violenta intensità di un tornado. È tutto ciò che si potrebbe desiderare da un bacio e molto altro ancora, perché è più vero di un desiderio e più struggente di una banale melanconia.

Non saprei dire quanto sia durato, ma so per certo di non essere stata in grado di fare nessuna di queste considerazioni finché non ho allontanato di qualche misero centimetro il volto dal suo e non ho tirato un paio di profondi respiri in un clima di nuovo accettabile dove ritornare a vivere il presente.

Ho quasi l'impressione che sia stato un sogno, o un incubo, se penso a tutto il casino che potrebbe derivare dalla nostra avventatezza, ma le mie labbra sono ancora tumide e brucianti, il mio corpo inconsistente e teso come la corda di un violino, quindi do per buono di non essere svenuta e di non essermi immaginata tutto, soprattutto perché le stesse sensazioni che sto provando le vedo riflesse negli occhi socchiusi di chi le ha provate con me e adesso mi osserva indeciso e preoccupato, cercando di intuire la mia prossima reazione.

Vorrei rassicurarlo, ma giuro su Dio che non ho idea di cosa pensare, figuriamoci di cosa dire; in una situazione in cui non so neanche chi sono, mi sono lasciata andare a qualcosa che sarebbe stato difficile da intelligere anche nel pieno delle mie facoltà mentali: Gabriel mi piace, anzi mi piace molto, nonostante sia uno squilibrato iperprotettivo, ma soprattutto nonostante non abbia il becco di un quattrino e nessun interesse in tal senso. Perché mi piaccia non saprei dirlo con certezza e non so neppure se sia importante che lo capisca in questo momento, ma non rimpiango di aver agito con leggerezza e averlo baciato, vorrei solo sapere se si sia trattato di un gesto amichevole, privo di importanza, o, di un modo gentile per confortarmi in un momento strano e complicato, o, come mi è sembrato, di un preludio a qualcosa di molto più profondo e coinvolgente, non necessariamente legato al puro e semplice desiderio fisico e quindi non altrettanto scevro di complicazioni.

“Stai bene?” la sua voce sembra giungere da chilometri anche se la sua bocca è ancora quasi incollata alla mia.

Vorrei rispondere che è una domanda inopportuna, prima di rendermi conto di come si riferisse al mio precedente malessere e al disagio provocatomi dagli sbalzi umorali della mia casa, non al nostro bacio.

“Un po' confusa” ed io intendo, invece, per entrambe le situazioni. “Quando mi hai schiacciato alla parete?”

Potrei aggiungere: come ho fatto a non accorgermene? ma non vorrei si montasse la testa.

“Scusami” lo dice senza smettere di fissarmi, ma lasciandomi lo spazio per respirare.

È l'ultima parola che voglio sentire, la più inappropriata e ingiustificata.

“Non vedo di cosa.”

“No, infatti” sorride e ho voglia di baciarlo ancora, anche se adesso intorno a me è tutto tranquillo e non abbiamo scuse per abbandonarci all'irrazionalità. “Avevo paura di averti turbata.”

“Dopo tutto quello che sta succedendo, non credo sia così semplice” lo fisso sperando che dica cosa fare o cosa aspettarmi, ma credo anche lui stia provando a tirarmi fuori le stesse risposte. “Sappi che non ho intenzione di venire subito a letto con te.”

A volte credo che dovrei tenere la bocca ben chiusa, soprattutto quando non ho il cervello pronto a mandarle i giusti input, perché ne escono fuori affermazioni assolutamente inopportune che poi non so come rimangiarmi.

Arrossisce in maniera alquanto graziosa, riuscendo comunque ad apparire virile, mentre io vorrei sprofondare nel pavimento fino a raggiungere il primo piano e magari anche i garage seminterrati.

“Volevo dire che” provo a giustificarmi.

“Non avevo intenzione di” mescola le sue scuse alle mie.

Ci fissiamo da una distanza tanto ravvicinata che mi distraggo a fissare i suoi occhi confondersi e fondersi in uno solo, mentre la vista diventa appannata e le nostre voci mi rimbombano, incerte, nelle orecchie.

“Non sono un bruto pronto a saltarti addosso” bofonchia dopo un attimo.

“Non l'ho mai pensato. È solo che tutta questa storia è incredibile e preferirei essere padrona di me, prima di fare qualche scelta...” non so davvero che parola usare, ma sembra non ce ne sia bisogno, perché conclude perfettamente il mio pensiero.

“Da cui non tornare indietro?”

Suona un po' melodrammatico, ma anche appropriato; non credo di essere una verginella impaurita e, dato che non sono sposata, il sesso non deve aver rappresentato necessariamente un'unione per la vita, eppure qualcosa di indefinibile e fastidioso dentro di me mi suggerisce che, qualora andassi a letto con lui, non sarebbe solo per una sveltina divertente e mi coinvolgerebbe più di quanto non vorrei farmi coinvolgere in questo momento.

“Guarda che lo capisco” continua, senza più sfiorarmi, ma rimanendo saldamente piantato tra me e il resto del mondo. “E non avevo intenzione di disorientarti.”

“Mi hai baciato, non mi hai disorientato.”

Ok, un po' l'ha fatto, ma, per essere onesta con me stessa, è successo dal momento in cui ha bussato alla mia porta, quindi, un po' più, un po' meno fa poca differenza.

Alza gli occhi al cielo e si allontana, lasciando un vuoto intorno a me che non sembra derivare solo dal banale fatto che la stanza è piccola e lui la riempie completamente con la sua ingombrante presenza.

“La tua amica è ancora fuori dalla porta.”

E chi se la ricordava più Jasmine?

“E dobbiamo andare dal capitano.”

E chi se lo ricordava più anche il capitano? Ad ogni modo sono due ottime scuse per rimandare varie elucubrazioni mentali poco appropriate.

“Entra, Jas, scusami” la richiamo, mentre corro a lavarmi i denti e risistemarmi il trucco. Mai come ora devo mostrarmi presentabile e compita; è importante che il capitano continui a ritenermi una persona seria e presumibilmente affidabile. Non voglio mi tenga d'occhio, anche perché temo avrò varie faccende da nascondere alla gendarmeria, se continuerò a muovermi con Gabriel. “Non è stato carino cacciarti da casa.”
“Oh tranquilla” ridacchia, squadrando il mio bel fusto di sottecchi. “Non volevo solo fare da paralume.”

“E io non volevo dare spettacolo, ma ultimamente non sembro molto brava a seguire i miei buoni consigli.”

“Non lo siamo mai state, ma non è sempre stato un male.”

Mi chiedo come dovrò comportarmi davanti al capitano, che reazioni mostrare o che reazioni nascondere; in teoria dovrei solo essere sincera, anche perché, grazie all'amnesia, non c'è davvero niente che potrei dire in grado di mettermi nei guai, però ho scoperto alcune cose che potrebbero essere interessanti e vorrei sapere se potrebbero rivelarsi anche incriminanti per me o Emile. Non che debba difendere la sua memoria, che non ho, ma se fosse lui il responsabile di questi omicidi, io in che modo vi verrei ricollegata? E poi c'è anche la teoria di Gabriel secondo il quale più dirò alle autorità, meno avremo modo di scoprire cosa sia successo realmente. È un dannatissimo pasticcio.

“Vuoi accompagnarmi, Jas?” non so se lo dica per pura cortesia o per vigliaccheria insista. So che Gab sarà vicino a me nascosto in qualche modo incomprensibile, ma vorrei qualcuno fisicamente presente pronto a stringermi la mano, se le emozioni fossero troppo intese, o a tapparmi la bocca, se dovessi uscirmene con qualche sciocchezza.

Per fortuna la mia amica non si fa pregare, anche se l'idea non sembra entusiasmarla. La capisco, non l'ho invitata ad una gita di piacere e forse sono stata un'egoista, perché, alla fin fine, gran parte del casino in cui mi trovo è, direttamente o no, colpa mia.

“Io vi precedo lì” Gabriel mi ha osservato tutto il tempo con occhio critico e espressione imperturbabile; credo sappia che sono leggermente spaventata da quello che sto andando ad affrontare, ma ha il buongusto di non sbattermelo in faccia. “Tu non cercarmi, non agitarti cercando di capire dove sia. Sarò vicino se avrai bisogno di aiuto, ma non voglio che il capitano pensi che vi sto osservando.”

“Hai qualcosa da nascondere alla gendarmeria?” Jas non ne pare troppo turbata.

“Non più di te” e con questa bella battuta, senza neanche un gesto affettuoso o un risicato saluto, si chiude la porta alle spalle e mi lascia a fissare la sua assenza con uno strano rimpianto e una ben giustificata irritazione.

“Tipetto strano, eh?” la mia amica tenta di minimizzare e non sa nemmeno di quanto. “Però bacia bene?”

Fossi sincera, risponderei di sì, mille volte sì, anche meglio di quanto sarebbe consigliabile per la mia sanità mentale, ma ammetterlo comporterebbe tutta una serie di domande a cascata che non sono pronta ad affrontare, così mi limito ad una vacua alzata di spalle e cerco a tentoni le chiavi di casa, mentre, con l'altra mano, tengo in equilibrio il barattolo di vernice che voglio venga analizzato.

“Starei attenta con quella roba” rabbrividisce e non si offre di prenderlo, neanche vedendomi in difficoltà d'equilibrio, mentre cerco di infilarlo in una busta di plastica e poi in borsa. “Puoi non credermi, ma anche Gabriel è d'accordo con me nel dire che ha un'aura orribile.”

Solo a questo punto mi rendo conto che la partenza affrettata del mio brusco compagno potrebbe essere dovuta non alle sue cattive maniere, che comunque non sono in discussione, quanto al tentativo di esimersi dal darmi strampalati consigli che non avrei voluto, né capito, ma che, probabilmente, moriva dalla voglia di propinarmi.

“Sono certa che andreste d'accordo in quanto a stramberia.”

“Alex, non sono assurdità. Tutta questa faccenda di Emile dovrebbe averti aperto gli occhi. Ci sono cose che non si vedono, ma che, non per questo sono meno reali.”

“Esistono più cose in cielo e in terra ecc...?”

“Prendimi pure in giro, ma il simbolo su quella latta di vernice è esoterico, quindi chi l'ha usata era un credente, come me, e forse, se vuoi capirlo davvero, dovresti sforzarti di guardare anche un diverso punto di vista. Anche se non capisco perché tu debba occuparti di certe cose. C'è la gendarmeria per questo.”

Non posso dire che il suo ragionamento sia insensato, in nessuna delle sue parti. Ci rimugino mentre scendiamo le scale e ci sto ancora pensando quando svoltiamo in Rue des 3 Frères. Mi chiedo se abbia mai cercato di comprendere Emile e il suo modo di vedere il mondo, o se non mi sia limitata a giudicarlo un eccentrico o un pazzo, facendolo sprofondare ancora di più in una solitaria paranoia. Tutti gli eventi strani che si sono verificati ultimamente hanno senza dubbio una spiegazione razionale, anche se non l'ho trovata proprio per ciascuno di loro, ma potrebbero anche essere letti in chiave arcana, facendone derivare comportamenti e fobie ben più in linea col personaggio tormentato del mio amico, quindi potrebbe non essere sbagliato mettermi nei suoi panni, per capire come calzino. Il guaio è che tutto questo va contro ogni mio principio e ogni mia credenza e devono essere convinzioni ben salde, perché, nonostante non ricordi una mazza del mio passato, non ho nutrito mai un solo dubbio, dopo il mio risveglio, in merito all'esistenza di stregonerie, fantasmi e maledizioni.

Quasi cado sui nastri gialli lasciati dai gendarmi per delimitare la zona dell'incidente. Smetto di fissarmi i piedi e raccolgo il coraggio a due mani, temendo e sperando di vedere qualcosa che infranga la barriera di nulla che circonda la mia mente e pregando di non venirne sopraffatta.

L'edificio è un cadente caseggiato a tre piani, palesemente malmesso anche per cause precedenti all'esplosione, in angolo con le scale di Rue Drevet. La facciata, dove non è annerita dal fumo, mostra vivaci e adesso inappropriati murales dai colori sgargianti, che risalgono in tonalità più sobrie fino alle finestre del primo piano, anch'esse bloccate da pannelli di plexiglass con i sigilli. Il caseggiato sembra disabitato da anni, forse per questo non ci sono state altre vittime, ma sembra anche talmente fragile sulle fondamenta che mi chiedo come abbia potuto resistere all'urto senza mostrare altro segno che una porta sfasciata e vetri infranti.

A parte l'ormai nota sensazione di dejavù che mi dà tutta Parigi, non c'è niente, in questo luogo, che rievochi ricordi particolari dentro di me; forse avverto appena un briciolo di ansia e lo stomaco mi sembra abbia compiuto una rotazione strana nel mio ventre, ma potrebbe essere tutto frutto della mia immaginazione, influenzata da ciò che mi aspettavo di dover trovare quaggiù, o forse sto solo cercando di convincermi a provare qualcosa che ritengo dovrei provare, ma che non è altro che una finzione poco efficace.

Il capitano se ne sta appoggiato, flemmatico e inamovibile, ad un cartello di divieto di sosta sull'altro lato della strada, fumando indifferente una sigaretta, per quanto sia certa che stia osservando ogni mia seppur minima emozione. Indossa lo stesso cappotto antiquato che aveva in ospedale e guanti neri, probabilmente di pelle, che non sembra si preoccupi di rovinare con la cenere del mozzicone che aspira fino all'ultima boccata. Il suo volto, alla luce del sole, appare segnato da numerose rughe sulla fronte e intorno agli occhi, probabilmente dovute a qualche vizio di espressione, più che all'età, che non mi pare troppo avanzata. Ha labbra sottili e ferme, un naso importante, credo rotto almeno in un paio di punti, in passato, sopracciglia scure e folte perfettamente arcuate a sottolineare l'intelligenza e la profondità dello sguardo. Non sembra affatto un uomo pericoloso, eppure sono certa che non vorrei averlo come nemico.

“Capitano” lo squittio di Jasmine mi perfora il timpano. “Non crede che sia poco prudente fumare qui? Potrebbe esserci ancora qualcosa di infiammabile.”

“Allora non fumerei” la sua voce è impassibile quanto i suoi occhi, mentre butta la sigaretta nel tombino. “Piacere di rivederla, signorina De raven. Mi sembra di trovarla in forma migliore.”

Annuisco, come conferma e come saluto, chiedendomi di nuovo se non dovrei riferirgli della mia miracolosa guarigione, ma l'aria contrariata di Gabriel mi ferma anche solo col pensiero.

Sto iniziando a dar troppo retta a quel maniaco.

“Dalla sua espressione direi che questo luogo non le ricordi niente.”

“No, mi dispiace” e sono sincera, almeno per metà.

“Forse, entrando, avremo più fortuna” non sembra deluso, ma temo sappia dissimulare bene le sue sensazioni.

Mentre toglie i nastri che bloccano l'ingresso, Jas mi prende la mano.

“Sei sicura?” mi guarda come se sperasse in un rifiuto che sarei anche tentata di darle, ma che non mi aiuterebbe se non per un effimero sollievo momentaneo.

“Certo” mi mostro tanto convinta da risultare sfrontata. “Che ho da perdere?”

“Lei si unisce a noi, signorina?” ancora una volta il suo tono è neutro e comincia a darmi sui nervi.

Jasmine esita, ma infine annuisce, sconfitta e desolata.

“Sì, accompagno la mia amica” deglutisce. “E' questo che fanno gli amici, no?”

Sembra quasi a caccia di una scusa per tirarsi indietro, ma forse sono solo malfidata. Vorrei dirle che non deve immolarsi su nessun altare immaginario per farmi contenta, posso cavarmela benissimo da sola, tanto più che, probabilmente, per me, si tratterà solo di passeggiare tra polvere e cenere ormai fredda, visto che non ho più molta fiducia in qualche repentino recupero di memoria. Ma il capitano mi precede, tarpandole ogni possibilità di fuga.

“Certo, è questo che fanno gli amici” si volta a fissarla con intensità. “Mi ripeta dov'era la notte dell'incidente, per favore.”

Il cambio improvviso di argomento la lascia spiazzata, così intervengo a riempire il vuoto che si sta propagando come olio su una chiazza d'acqua stagnante.

“Non l'aveva già interrogata e aveva deciso che fosse innocente?”

“L'ho già interrogata” si volta verso di me, permettendo a Jas di tirare un tremolo respiro. “E ho deciso che lei è innocente” mi indica con decisione. “Della sua amica non sono ancora sicuro. Ha cambiato più volte alcuni dettagli nella sua deposizione.”

“E' perché non ricordavo bene” adesso Jas sembra solo indignata. “Insomma, mi era quasi esploso un edificio davanti e credevo che la mia migliore amica fosse morta.”

“Mi faccia vedere dove si trovava, con precisione.”

Jas sbuffa, ma si dirige a grandi passi verso Rue Vieuville, fermandosi a circa trenta metri da noi, davanti ad un negozio di vestiti.

“Ero proprio qui, con in mano una bottiglia di spumante e la voglia di piangere o urlare, mentre i paramedici e i pompieri mi spintonavano e mi urlavano di spostarmi.”

“Quindi eri invitata anche tu all'inaugurazione?” solo ora ripenso a quello che mi avevano detto in ospedale, ovvero al fatto che lei e non so chi degli altri due fossero arrivati dopo l'intervento dei pompieri, e lo ricollego, un po' sorpresa, a tutto ciò che ho scoperto sulla mia intenzione di tenerli fuori di questa storia. Certo, Emile lo conoscevano anche loro e probabilmente volevano essergli vicini in un momento così importante per la sua carriera, sarebbe stato impossibile escluderli, tanto più che non dovrei aver avuto motivo per farlo. Un conto era lasciarli all'oscuro sulle mie bizzarre indagini, un altro non invitarli alla prima mostra di un amico.

“In realtà non ero tra gli ospiti” mi guarda offesa. “Io ero invitata per aiutare.”

Questo è già più in linea col mio personaggio: perché spendere soldi per il personale, quando puoi utilizzare schiavi semi-volontari? A questo punto posso solo ringraziare Dio che siano arrivati in ritardo.

“Era sola?” il capitano non ha perso il filo del suo pensiero.

“A parte le decine di persone che affollavano la strada, sì” mi guarda, intuendo la mia perplessità. “Philippe e Marcel si erano rifiutati di lasciarsi coinvolgere. Sarebbero venuti più tardi, usciti da una festa al Favela Chic. D'altra parte avevi detto anche tu che a Emile non sembrava importasse niente che ci fossimo o no e avevi cercato di giustificarlo come facevi sempre, ultimamente, dicendo che gli artisti sono tutti strani e sociopatici.”

“D'accordo” evidentemente Renaud ha trovato soddisfacente la sua risposta, o forse non ha interesse a continuare il suo pseudo-interrogatorio in strada. “Entriamo.”

Sparisce oltre la soglia, in un'oscurità che sembra troppo densa per essere naturale. Ora che il momento è arrivato mi sento molto meno coraggiosa, ma se il locale non fosse sicuro, il capitano non ci avrebbe portato qui, quindi non ho concretamente nulla da temere.

Mi costringo a fare un passo avanti, ma mi fermo quando un muro di fiamme inesistenti e incandescenti mi sbarra il cammino, in un'illusione che mi ghermisce la pelle quasi fosse reale e pericolosa.

Solo le mani di Jas sulle spalle mi impediscono di indietreggiare e coprirmi di ridicolo.

La puzza è indescrivibile e mi raggiunge ad ondate sempre più penetranti, facendomi lacrimare gli occhi. Non riesco a decifrarne gli odori, ma è densa, nauseabonda e, al tempo stesso, pungente.

“Abbiamo trovato tracce di zolfo” il capitano è nel centro di una stanza dalla forma irregolare, vagamente simile ad un trapezio rovesciato, con il pavimento coperto di striature scure di fuliggine e le pareti, scrostate e non verniciate da almeno vent'anni, annerite da lingue di tenebra. Ci sono vari cumuli di macerie irriconoscibili e niente che possa far credere che ci fosse qualcuno di vivo lì dentro solo pochi giorni prima. “Non nella mostra, nel suo fautore.”

La mia amica rabbrividisce, io sono solo confusa: non so se sia o meno un materiale infiammabile.

“Lo è” il capitano risponde prima che mi accorga di aver espresso apertamente il mio dubbio. “Anzi, molto infiammabile ed è uno dei componenti dei razzi o delle bombe carta. Il guaio è non l'abbiamo trovato sulle sue mani o sui vestiti, ma nel sangue.”

“Un po' come le altre analisi in cui avevate trovato traccia di vernice?”

“Esatto. A dar credito ai risultati il vostro amico era il ricettacolo di una serie piuttosto assurda di elementi velenosi.”

“Non c'era da stupirsi che avesse dato di matto.”

“Uno nostro esperto psicologo ha supposto che sniffasse vernice o, addirittura, la leccasse per entrare più in contatto con le sue opere. Per il poco che ha potuto vedere del suo lavoro, l'ha descritto come il frutto di un genio o di un folle.”

“Ma non avete modo di far riaprire il sito con i suoi dipinti?”

“No” è irritato, ma non con me. “C'eravamo già rivolti alla polizia postale perché ripristinasse dei backup, se ci fossero stati. Abbiamo anche... suggerito di inoltrare le richieste ai motori di ricerca che, a volte, tengono copie dei siti, ma non credo troveremo niente.”

Non posso che dirmi d'accordo. Sembra che qualcuno abbia voluto cancellare dalla faccia della terra qualsiasi cosa riguardasse Emile e il suo lavoro.

“Non potrebbe essere opera di qualcuno invidioso di lui? Un rivale, magari.”

“Dovrebbe essere un tipo potente, o almeno con una buona dose di denaro. Ad ogni modo l'unica, ormai, che potrebbe sapere se avesse avuto dei nemici tanto folli siete voi, signorina.”

La mia amnesia capita proprio a puntino. Il che mi fa riflettere. Quell'uomo interessatosi a me di recente, quello Xavier, così ricco e oscuro, che Gabriel odia tanto e che pare traffichi anche in settori illegali, potrebbe essere in qualche modo coinvolto in questa faccenda. Anzi, quel medicinale sconosciuto che mi hanno iniettato in un ospedale in cui è persino assurdo che mi abbiano portato potrebbe aver causato questa perdita di memoria così comoda per chiunque fosse implicato negli incidenti. È una teoria assolutamente priva di fondamenta concrete, ma non di logica ed è anche un buon motivo per andare a conoscere questo magnate della finanza così misterioso.

 

 

Buon anno a tutti!! Dopo la pausa natalizia, rieccomi a tediarvi con un altro brano, che spero possa piacervi. Come sempre, un sincero grazie a chiunque continui a seguire questa storia ^_^

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Capitolo 21
*** Inviti ***


Ad ogni buon conto, incontrare Xavier non è un progetto che possa realizzare seduta stante, mentre, in questo momento, non devo sprecare l'occasione di ficcanasare nel luogo dove tutti i guai che mi stanno tormentando hanno trovato origine, o almeno compimento; essendo l'edificio sotto sequestro, potrebbe essere la mia unica possibilità di scoprire o ricordare qualcosa. Inoltre il capitano è dannatamente percettivo e farmi vedere meditabonda e perplessa non è la strategia migliore per evitare domande inopportune.

“Le uniche immagini dei quadri di Emile che ci restano” continua il discorso, fingendo di non aver notato la mai temporanea distrazione, “sono quelle stampate sui pochi volantini pubblicitari della mostra che abbia trovato nei locali qui intorno.”

Faccio un passo verso di lui, pesante, ma determinato. Jas si sente ancora costretta a scortarmi, ma avverto il suo tremore e non mi rassicura, anzi, mi costringe a deglutire con forza per soffocare il groppo di acidità che mi brucia la gola e mi impedisce di mantenere salda la voce, mentre chiedo dove mi abbiano trovata, in quell'inferno.

“Lì” indica Renaud col suo fedele taccuino, senza smettere di fissarmi con intensità. “Proprio in quel punto.”

Mi ero già voltata verso la porta, certa che fosse il luogo più ovvio in cui l'esplosione, senza uccidermi, mi avesse scagliata, ma sono costretta ancora una volta a sgranare gli occhi, paralizzata dall'assurdità di quello che mi si vorrebbe dare a intendere: il cerchio chiaro, quasi perfetto, sperso nello strato fumoso del pavimento, dove dovrei supporre che le fiamme non fossero arrivate, è completamente circondato dalle sagome stilizzate di corpi meno fortunati del mio ed è nel punto più distante dall'uscita che riesca a immaginare.

“La deflagrazione è stata violentissima e tutto è bruciato in pochi istanti” continua, passeggiando intorno a me, come uno squalo che punta la preda. “I pompieri sono arrivati velocemente, ma le fiamme, incredibilmente, si stavano già estinguendo da sole, lasciando solo il tanfo della carne e delle tele carbonizzate, un paesaggio degno di un girone infernale e lei, ferma, in piedi, in questo punto, senza niente che potesse ripararla dalla furia del fuoco, ma comunque quasi illesa.”

Vorrei poter dire qualcosa, non necessariamente di utile o intelligente, solo qualcosa per rompere il filo di pensieri che mi si affastella tra le tempie, rischiando di farle esplodere; ho la nausea e la vista è sfuocata, spero non per qualcosa di patetico come delle lacrime.

“Emile era sdraiato al suo fianco” insiste, studiando da vicino ogni mia espressione, anche se non saprei dire cosa possa ricavarne, perché non so onestamente quali possano essere. “E' la figura alla sua destra, col braccio teso. Il quadro misterioso era alle vostre spalle.”

Seguo inebetita ogni gesto della sua mano e mi odio quando mi accorgo di essermi istintivamente avvicinata al luogo del mio mancato incontro con l'aldilà e di aver allungato le dita fino a sfiorare quella superficie fredda e irregolare, incredibilmente intonsa in mezzo al disastro.

Un fulmine mi attraversa la mente, repentino e violento, facendomi barcollare; mi rivedo in quel punto esatto, quasi osservassi il mio corpo dall'esterno, con un sorriso tirato sulle labbra perfettamente truccate e un flute di plastica vuoto stretto nel pugno, mentre studio accigliata e falsamente allegra le poche persone intente a bivaccare senza fretta tra le opere, in parte stupite, in parte shoccate dall'intensità oscura di quei lavori. Emile ha lo stesso aspetto del video: allucinato, sporco, scomposto. Probabilmente sono preoccupata che dica o faccia qualcosa di inopportuno, col suo pennello brandito come una spada e la vernice sulle dita simile a sangue coagulato, perché mi avvicino ancora di più a lui e gli sussurro qualcosa nell'orecchio, ma non riesco a impedirgli di attirare l'attenzione dei presenti, se poi era stata davvero quella la mia intenzione, quando gracchia, con insospettato entusiasmo: “Finalmente è il momento che tutti vedano” e afferra a due mani il telo sopra al quadro, tirandolo via con un unico gesto deciso. Le fiamme divampano intorno a noi, uscite dal nulla, finite nel nulla, subito incontenibili e invincibili come un'unica onda incandescente di risacca in un mare in tempesta. Avverto grida e implorazioni, in una cacofonia indistinta di terrore e morte, poi un suono deciso, prepotente, che rompe quel delirio, ma di cui non riconosco l'origine: un “no” pronunciato sottovoce, ma con tanta forza da sovrastare ogni altro rumore, compreso quello prodotto dal battito impazzito del mio cuore, e da infondermi un'improvvisa calma che mi impedisce di perdere del tutto il senno in quel delirio.

“Signorina” mi sento scuotere con gentile fermezza. “Signorina, si sente bene?”

“Alex” il richiamo preoccupato di Jas mi riporta al presente e alla ragione. “Ti prego Alex, rispondi.”

Annuisco e mi stringo la testa, quasi temessi di vederla rotolare via. Ho freddo, ma sento la pelle bollente sotto le dita, con una fastidiosa patina di sudore viscido che mi scivola sulla fronte.

“Sei pallida” la mia amica mi orbita intorno senza osare sfiorarmi e credo abbia un'aria forse più stravolta di me. “Sei rimasta immobile per almeno due minuti, sembrava quasi non respirassi neanche.”

“Ha ricordato qualcosa?” il capitano è sempre distaccato e efficiente, ma si premura di sostenermi per il gomito, passandomi una salvietta umidificata per rinfrescarmi le tempie e i polsi. “Ha l'aria di aver visto un fantasma.”

Non sono in grado di parlare, quindi Jasmine si intromette, confondendomi ancora di più i pensieri.

“Non vede che è sconvolta?” lo aggredisce, incurante delle possibili ripercussioni. “Credo sia il caso di smetterla con le sue domande.”
“Perché” ora il tono è pungente e per niente cordiale. “Ha paura che dica qualcosa di compromettente per lei, signorina Fabre?”

Mi rendo conto di ascoltare per la prima volta il suo cognome e prendo nota mentalmente di chiedere scusa a Gabriel per aver insistito tanto per conoscere il suo, quando non mi sono preoccupata minimamente di imparare quello degli altri.

“Non dica sciocchezze” si schernisce, un po' preoccupata. “Ma la sta torturando e non posso permetterglielo.”
“Sto bene” riesco a sussurrare senza inflessioni. “Ho solo avuto un capogiro.”

“Ha ricordato qualcosa?” ripete l'uomo, con maggiore urgenza. “Qualsiasi dettaglio sarà meglio che niente.”

“Potrebbe anche essere frutto della mia immaginazione, ultimamente è piuttosto fervida, ma credo di aver rivisto gli ultimi istanti dell'inaugurazione. Era tutto così tranquillo e banale, le persone si annoiavano fingendo interesse, alcune erano davvero impressionate dal talento di Emile e io sembravo preoccupata per qualcosa, forse che tutto si svolgesse nel miglior modo possibile. Poi il mio amico ha scoperto il quadro e giurerei che l'esplosione sia avvenuta in quello stesso attimo, sommergendoci tutti in un istante” provo a concentrarmi, ma è come riallacciare le fila di un sogno, ore dopo il risveglio. “Non ricordo di essermi protetta o di aver provato a fuggire, non vedevo molto intorno a me, solo ombre nel bagliore del fuoco. Gli invitati urlavano la loro agonia e io ero senza fiato, o senza volontà di usarlo.”

Jasmine si avvicina per abbracciarmi, ma di nuovo si ferma, a pochi centimetri da me che adesso sono in piedi nel centro esatto di quel cerchio risparmiato dalla morte e ricordo un altro dettaglio che non credevo di aver notato: una risata selvaggia, folle e insidiosa, inconcepibile da immaginare in una bocca umana, ma quasi sicuramente maschile, spersa nel crepitare delle fiamme e intensa nei rumori assordanti che avrebbero dovuto sovrastarla.

“Sembra proprio la scena che hanno visto i primi soccorritori e che nessuno ha ancora saputo spiegarsi. Tra l'altro il calore intorno a lei avrebbe dovuto essere così intenso e il fumo talmente denso da farla quantomeno svenire.”

“Perché sono stata portata al Rotschild?” chiedo dopo un silenzio pesante, ebbro di frustrazione, dubbi e preoccupazioni, mentre mi sposto da quello strano punto e fingo di ispezionare le pareti, quasi ci fossero ancora i quadri attaccati. “Non è certo l'ospedale più comodo da raggiungere da qui.”

“Me lo sono chiesto” il capitano non si meraviglia della domanda, per quanto sia ampiamente meravigliato dalla mancata risposta che è costretto a darmi. “Mi hanno comunicato che era l'unico con letti disponibili. Ho controllato e non era vero. Evidentemente, qualcuno abbastanza potente da poter manovrare a certi livelli la voleva lì, il perché o il chi forse saprebbe dircelo lei con maggior precisione, se ricordasse qualcosa.”

Non dovrei cedere alla rabbia e non dovrei mostrarmi violenta o irritabile, ma tutto questo non sembra sia ben compreso dal mio pugno che, senza alcun preavviso, sfreccia a cozzare pesantemente contro la parete, rovinando un pezzo di intonaco, irrimediabilmente corroso dall'incendio, oltre che da diversi anni di scarsa manutenzione.

Questa stanza doveva avere una spetto lugubre e pericolante già prima dell'incidente, ma forse affittarla costava poco, o forse credevo che fosse in linea con l'atmosfera tetra delle opere che avrebbero dovuto esservi esposte.

“Cerchi di non farsi male signorina” si preoccupa il capitano, prima di notare che il braccio, fino ad allora tenuto il più possibile fermo e coperto dalla giacca, si è mosso un po' troppo velocemente per lo stato di ferite che mostrava solo il giorno prima e che avrei dovuto quantomeno urlare come un'ossessa se mi fossi azzardata a compiere una bravata simile con la pelle coperta di bruciature. “Anche se mi sembra stia molto bene, tutto sommato.”

Mi do mentalmente dell'idiota, sia per non aver confessato subito una verità tanto facilmente scopribile, come avessi qualcosa da nascondere, sia per non aver mantenuto la mia bugia per il gusto di compiere un gesto stupido ed infantile. Adesso non resta altro da fare che evitare di arrossire o sembrare mortificata, mentre tento di non far apparire sospetta la mia mancata denuncia del miracolo.

Di nuovo, le mie buone intenzioni si scontrano con la pratica. Forse sono stupida, o magari l'aspetto rassicurante e cordialmente severo di Renaud mi ha condizionata, fatto sta che inizio a parlare proprio con la frase che meno dovrei dire.

“Mi dispiace capitano” ecco, adesso suono colpevole anche alle mie orecchie. “Non volevo tenerla all'oscuro di qualcosa.”

“Da quando sa di essere perfettamente sana?” e la domanda allude a ben più che a delle banali bruciature.

Anche Jas mi guarda esterrefatta e un po' offesa, ma è il minore dei miei problemi.

“Non sono perfettamente sana” ribatto piccata, per nascondere la preoccupazione. “Purtroppo la mia amnesia non è un'invenzione dei medici, come le ustioni al braccio. Ieri sera ho tolto il bendaggio per vedere se ci fosse bisogno di qualche medicazione e ho scoperto la bella sorpresa.”

Sostengo il suo sguardo d'accusa senza battere ciglio. È la verità e nessun aria truce o minacciosa mi potrà intimidire, però capisco la sua sfiducia, me la sono meritata, e questo mi fa sentire ancora più in colpa. Il capitano sembra una brava persona e finora ha solo cercato di aiutarmi, a modo suo, mentre io ho tradito la sua fiducia; al di là dei rischi legali che questo potrebbe comportare, mi sento una pezza anche dal lato umano e non so quale delle due cose mi scocci di più. Forse la seconda.

“Ascolti, per favore” riprendo, questa volta senza tentare in alcun modo di nascondermi. “Ho sbagliato, lo riconosco, ma è stato uno shock scoprirmi illesa; mi sono fatta una marea di film mentali, arrivando a credere che la bruciatura fosse solo una scusa per drogarmi o per tenermi chiusa in ospedale. Non sapevo cosa pensare e temevo che non credesse più alla mia innocenza, così ho fatto la cosa più stupida possibile e ho ottenuto proprio quello che volevo evitare.”

Non risponde, non lascia trapelare alcun emozione che possa consolarmi o deprimermi. Segna l'informazione sul suo fido taccuino e mi volta le spalle, lasciandomi a sospirare verso la sua schiena.

Maledico mentalmente Gabriel per avermi spinto su questa strada di omertà e mi accorgo di non aver ancora parlato neanche della medicina pseudo-miracolosa che pensiamo possano avermi somministrato, ma prima di decidermi a rimediare, finalmente il capitano rompe il silenzio, sempre senza guardarmi in faccia.

“Le sue ferite erano gravi, per quanto circoscritte e non tali da farci temere per la sua vita. Non le ho constatate personalmente, ma non ho motivo per dubitare delle dichiarazioni rilasciate dai pompieri e dai medici accorsi sul posto” si interrompe bruscamente, picchiettandosi la penna sulla guancia. “A questo punto, viene da chiedersi cosa abbiano fatto per rimetterla in sesto con tale perizia e velocità.”

Ancora, sono sul punto di aprire bocca e esporgli la bizzarra teoria a cui siamo giunti, quando un bisbiglio sommesso mi distrae. Viene dalla parete dietro di me, ma non c'è nessuno lì, quindi deve trattarsi di un eco.

“Cercami Alexandra” potrei giurare di aver sentito in quel sussurro. “Trovami.”

Mi guardo intorno confusa.

“Avete sentito?” provo a chiedere, pur intuendo già la risposta e non meravigliandomi del loro diniego. Se non avessi compreso bene il mio nome, avrei giurato che fosse solo il cicaleccio della strada, ma forse mi sono immaginata tutto. Il problema è che quell'invocazione si ripete, appena più forte e scandita, per interrompersi a metà, in modo improvviso.

“Che succede?” per fortuna anche il capitano ha sentito qualcosa, stavolta, e io non sono definitivamente pazza. Però la sua preoccupazione mi sembra eccessiva, mentre si dirige a grandi falcate verso la finestra bloccata dalle sbarre e sbircia fuori stando attento a non esporsi troppo a eventuali attacchi.

“Ho solo sentito una voce” provo a rassicurarlo. “Magari qualcuno che conosco nel quartiere voleva farmi uno scherzo.”

“Non ho sentito nessuna voce” mi guarda irritato per un istante, tornando a ispezionare la strada e poi, non vedendo niente di sospetto, mettendosi a perquisire il resto della stanza a caccia di non so cosa. “Quello che mi ha messo in allarme è stato un sibilo leggerissimo. Ecco.”

Con un fazzoletto, solleva da terra, a pochi centimetri da me, una sottile scheggia di legno, simile ad una punta di cerbottana, ben affilata e lucida, lunga forse cinque o sei centimetri. La annusa attentamente e storce la bocca con disgusto, prestando ancora maggior attenzione a non pungersi.

“Qualcuno ha attentato di nuovo alla sua incolumità” sentenzia, senza preoccuparsi di essere gentile. “Per fortuna l'ha mancata.”

“Con una scheggia?” non posso fare a meno di essere incredula.

“C'è qualche sostanza sulla punta, ne percepisco l'odore, ma non riesco a capirne la natura” spiega con pazienza, come fossi una bambina.

“Ma perché qualcuno dovrebbe volermi fare del male?” poi, rettificando. “E perché dovrebbe usare i metodi degli aborigeni della giungla? Se qualcuno mi avesse voluta morta, ormai dovrei esserlo da giorni.”

“Vorrei tanto saperle rispondere, signorina” adesso sembra un po' meno arrabbiato e io gli sorrido, sinceramente felice che non mi tenga più il muso. “Così come vorrei sapere se c'è qualcos'altro che ha ritenuto necessario nascondermi.”

“Mi scusi ancora” mi trovo a sussurrare, abbassando la testa e facendolo sospirare, ma con rassegnazione più che con astio.

“Dovrò indagare sui farmaci che le hanno somministrato. Probabilmente sarà necessario che venga visitata da un medico di nostra fiducia.”

Annuisco, mentre cerco di respingere il giramento di testa, dovuto al forte odore di vernice che adesso mi infastidisce e mi attrae allo stesso tempo, facendomi pizzicare le narici.

Il capitano, intanto, sta dando istruzioni al cellulare, a voce talmente bassa che comprendo solo: controllo, analisi, protezione, ma non sono le implicazioni insite nel suo discorso a farmi sussultare.

“E' l'odore dell'ispirazione!” il grido esaltato di Emile è fin troppo chiaro nelle mie orecchie, quasi l'avessi a fianco e stesse rispondendo alla mia inespressa protesta sul fetore prodotto dalla sua vernice. Mi rendo conto che, in effetti, quest'argomento deve essere stato fonte continua di scontro, tra di noi, e che quella frase, invece di un'allucinazione, potrebbe essere un ricordo.

L'affascinante rombo di un'auto a grossa cilindrata, probabilmente una porche, a giudicare dal suono del motore, mi distrae dai più foschi pensieri. La sento curvare nella strada laterale e fermarsi vicino a questa bettola, con la voglia spasmodica di sistemarmi il trucco, stamparmi un sorriso malizioso sul volto e uscire fuori per vedere chi sia alla guida.

Per fortuna non ho bisogno di far forza sulla mi volontà, perché è il capitano stesso ad affacciarsi alla porta e a darmi la scusa per seguirlo. Parcheggiata malamente con due ruote sul marciapiede di Rue Vieuville troneggia, come avevo previsto, una splendida porche Panamera, tirata a lucido, che dovrebbe valere circa 120.000/130.000 euro. È incredibile come ricordi bene certi dettagli, quando ho scordato tutto quasi tutto il resto; d'altra parte, un auto di tale valore promette di contenere un proprietario altrettanto prezioso.

Mentre Renaud scuote la testa, indeciso se farsi avanti, trascendendo il suo ruolo, per prendersi la soddisfazione di multare un nababbo maleducato, io allungo il collo per sbirciare all'interno, frustrata dai vetri oscurati. Lo sportello del guidatore si apre e una gamba maschile, coperta da pantaloni neri di ottimo taglio, col piede calzato in scarpe di cuoio laccato dello stesso colore, fa il suo ingresso nel mio campo visivo. Jasmine si appoggia alla mia schiena per vedere meglio, dimentica della sua precedente avversione nello sfiorarmi.

La tensione è al massimo: potrebbe anche trattarsi di un vecchio decrepito che vuole darsi arie giovanili e, per quanto i soldi mi facciano gola, qualcosa mi dice che ho delle remore ad accompagnarmi a signori over 70, a meno che non siano particolarmente piacenti o particolarmente malandati e vicini alla fossa; in quel caso, forse, potrei fare un'eccezione.

“Magari è carino” mi sussurra la mia amica, ridacchiando. “L'ultimo tipo che è uscito da un bolide del genere aveva almeno due porri sul naso e pesava più di me, te e il capitano sommati assieme.”

“Non è questo il caso, direi” le indico l'uomo distinto che sta venendo verso di noi, in giacca e cravatta eleganti, ma anonime, un po' come tutto il suo aspetto. É d'altezza media, costituzione media e ha un viso dai tratti insignificanti, ma regolari. I capelli, molto corti, hanno quella strana sfumatura castana che non si sa mai se definire bionda e che si scurisce appena un po' sui peli della barba ben curata che gli copre le guance.

Nel complesso, potrebbe essere un tipo papabile, e non avrà più di una quarantina d'anni, ma diavolo, dopo aver mangiato una crème brulée, come si fa ad accontentarsi di un budino alla vaniglia del supermercato? In realtà io non ricordo neanche se la crème brulée mi piaccia e di sicuro questo tipo ha in tasca tutta una pasticceria, come potenziale, ma l'immagine delle spalle forti e muscolose di Gabriel copre e nasconde qualsiasi pregio questo tizio possa possedere.

La cosa strana è che sembra si diriga proprio verso di noi.

“Sa che sta intralciando la circolazione?” lo aggredisce con malcelato disprezzo il capitano. “Esistono delle regole per i parcheggi, anche per le auto che, da sole, valgono quanto tutta la strada.”

“Lo so, capitano” anche la sua voce, bassa e atona, mi sembra insulsa, paragonata a quella virile e profonda di quel dannatissimo testone. “Devo solo consegnare un messaggio alla signorina De Raven.”

“A me?” non credo di averlo detto davvero, ma di certo la confusione mi si legge in faccia; a parte chiedersi chi sia questo tipo, che evidentemente neanche Jasmine conosce, ci sarebbe da scoprire come abbia fatto a sapere che mi trovavo in questo posto, in questo momento.

Per fortuna il capitano dà voce alle mie domande inespresse, ma il riccone, con superiore indifferenza, quasi senza guardarlo, risponde soltanto: “Capitano, la prego, non credo che certi dettagli siano un problema per il signor De la roche.”

Di fronte a quel nome, persino un uomo tutto d'un pezzo come Renaud ha un'esitazione e, nello stesso momento, mi rendo conto di due dettagli importanti: per prima cosa, capisco che ho davanti solo un galoppino; per seconda, comprendo che quel tale Xavier è davvero potente e abbastanza inquietante come racconta Gabriel.

Che diavolo significa che sapere dove mi trovi non è un problema per lui? Cos'è, uno stalker?

“Signorina” si rivolge a me, con molta grazia, porgendomi una busta di carta pergamena, leggermente ambrata, con il mio nome scritto sopra a mano, con grafia elegante e ricercati svolazzi.

Stupendo tutti, per prima me stessa, non gli strappo di mano quel lasciapassare per la ricchezza, ma me ne esco con l'ultima frase al mondo che avrei mai pensato di dire al portavoce di un milionario.

“Dica al suo capo che non mi piace chi manda i suoi domestici a svolgere mansioni che avrebbe dovuto compiere personalmente, in maniera ordinaria e civile.”

“Ma lei non è una persona ordinaria, per il sig. De la roche” mi risponde, continuando a porgermi la lettera, quasi fosse una statua di sale. “E il mio signore agisce solo secondo secondo i dettami consoni alla sua posizione.”

“Il denaro compra qualsiasi cosa, eh?” formulo come sdegnosa domanda, con assoluta faccia tosta, un concetto che per me dovrebbe essere vangelo.

“Non è il denaro che il sig. De la roche ama usare.”

“E allora cosa?” lo guardo facendo pesare tutto il mio scetticismo, forse perché io per prima, avessi soldi, non esiterei a servirmene.

“Il rispetto che gli è dovuto” lo dice con una dignità che rasenta la venerazione, totalmente succube della supposta superiorità morale e sociale del suo principale, come uno scudiero che parlasse del suo cavaliere, in pieno medioevo.

Tutta questa prosopopea mi ha un po' infastidito, ma, ancor di più, mi disturba il fatto di sentirmi così di fronte a quella che, in qualsiasi altro momento, avrei ritenuto un'occasione letteralmente dorata. Mi maledico per quello che sto per dire, ma non ho scelta se non andare fino in fondo, dato che le mie labbra hanno già iniziato a vomitare scemenze.

“Allora dica al sig. De la roche che sarò felice di ricevere i suoi messaggi, non appena si degnerà di scendere dal suo trono e consegnarmeli personalmente, dimostrandomi il rispetto che mi è dovuto.”

Non ho il coraggio di distogliere lo sguardo, certa che la maschera di snobismo si sgretolerebbe sotto il peso della stupidaggine appena commessa.

L'uomo rimane immobile ancora per qualche attimo, poi, senza tradire alcun fastidio, rimette la busta nella tasca interna della giacca e china la testa in un gesto antiquato di saluto.

“Riferirò le sue parole, signorina” sentenzia, non so se come minaccia o pura informazione. “Le auguro una buona serata.”

Riesco a rispondere al suo saluto solo quando è ormai con un piede nella splendida auto del suo datore di lavoro, su cui avrei potuto sedermi presto, se non fossi stata vittima di questo raptus di assurda follia.

Richiamarlo adesso comportrebbe una pessima figura, e poi potrebbe essere una buona strategia farsi desiderare, o almeno è quello di cui cerco di convincermi.

Il capitano è palesemente infastidito, Jas letteralmente allibita, sembra un pesce che cerca di respirare fuori dalla boccia e non sono certa di non aver anch'io un'espressione del genere.

“Sapevamo che aveva avuto rapporti col sig. De la roche” Renaud mi guarda, incuriosito. “O almeno coi suoi tirapiedi. Pare che non si degni spesso di telefonare o invitare personalmente qualcuno.”

“Perché è un mafioso o perché è snob?”

“Tutte le sue attività risultano pulite” si lascia sfuggire, dimentico di parlare ad una civile, per di più implicata in una sordida storia di omicidio. “Paga anche un sacco di tasse, così è difficile indagare su di lui. Il Governo ci tiene ai suoi soldi e lui ci tiene a non darci appigli per ficcanasare nella sua vita.”

“Magari è davvero un riccone stranamente onesto” ipotizzo, per quanto i due aggettivi stonino terribilmente accoppiati.

“Forse, ma ha sempre avuto un comportamento sospetto. Troppo sfuggente e, al tempo stesso, troppo cristallino per non provocarmi un fastidioso prurito tra le scapole” si aggiusta il cappotto, quasi cercassi di grattarsi la schiena da quell'immaginario fastidio. “E poi è strano il suo improvviso coinvolgimento in questa faccenda. È risaputo che si interessi d'arte, almeno come fanno tutti i milionari che cercano un hobby, ma non si era mai avvicinato a un artista sconosciuto, quasi a volergli fare da mecenate.”

“Era quello che voleva?” in effetti tornerebbe con le mie informazioni. “Voleva finanziare il lavoro di Emile?”

“Non lo so” mi accompagna fuori dalla mostra, evidentemente decidendo che non abbiamo altro da scoprire lì dentro, o forse troppo infuriato per riflettere. “I suoi avvocati ci impediscono di interrogarlo.”

Per fortuna questa storia sembra averlo distratto dalla mia bugia e ha distratto me dall'idea che ci sia un aborigeno armato di cerbottana, appostato su qualche tetto di Parigi, con l'intento di farmi fuori, o drogarmi e rapirmi o chissà quale piano possa partorire la mente di un selvaggio.

“Credo che la terrò sotto sorveglianza” e dal suo tono, non so se lo faccia per la mia incolumità, o per evitare altre sorprese. “Inoltre le comunicherò quando un nostro medico potrà visitarla, per cercare di capire le cause della sua guarigione. A meno che non si voglia credere a un miracolo, c'è qualcosa di poco chiaro nelle cure che ha ricevuto al Rotschild.”

Non me la sento di contraddirlo.

“Cerchi di stare attenta al sig. De la roche; magari vuole solo esprimerle le condoglianze per la perdita del suo amico, o forse è interessato al suo bel faccino” forse dovrei sentirmi offesa per la frase leggermente sessista, ma il suo tono è solo professionale e preoccupato, quindi soprassiedo. “Ma è strano che continui a contattarla, adesso che il pittore è morto, quindi tenga la guardia alta.”
Annuisco, sperando di potermene andare prima che inizi una qualche strana predica paterna; Jas mi fissa ancora come se avessi due teste, ma non ha perso un attimo per allontanarsi dalla mostra, o dalle forze dell'ordine, e è già a mezze scale, appoggiata al corrimano, col piede incapace di smettere di battere un ritmo nervoso.

“Farò come dice, capitano. La ringrazio” provo a congedarmi, ma mi trattiene con la mano, delicatamente e con decisione.

“C'è anche un altro uomo a cui volevo dirle di stare attenta” mi fissa con intensità e credo possa leggermi fino in fondo all'anima, per quanto cerchi di mostrarmi inoffensiva come un agnellino. “Si fa chiamare Gabriel, non usa mai il cognome di suo padre, ed è una vecchia conoscenza della gendarmeria, soprattutto per denunce per rissa e aggressione. E' stato visto bazzicare nei dintorni di casa sua, prima dell'incidente, e io credo che l'avesse anche contattata, anche se non ne ho mai avuto prove. E' implicato in una delle precedenti esplosioni, potrei quasi considerare anche lui un sopravvissuto, visto che era uscito solo pochi minuti prima della detonazione.”

“Uscito da dove?” non posso esimermi dal chiedere, anche perché la storia è leggermente diversa da come la conoscevo e i dettagli, in situazioni come questa, sono fondamentali. “Avevo capito di essere la sua unica possibile testimone.”

“Quell'uomo non era fisicamente presente al momento dell'incendio, a differenza di lei: era uscito dalla casa del fidanzato della sorella, dove si trovava con alcuni amici. Inutile dire che gli altri sono morti.”

“Crede che abbia ucciso sua sorella?” stavolta sono i a guardarlo come avesse due teste. “E perché?”

“Stiamo indagando. Per adesso, quello che credo o meno non è importante; volevo solo avvertirla di essere prudente, perché sappiamo che quel tipo ha problemi comportamentali e non riesce a resistere all'ira, quindi potrebbe essere pericoloso.”

“Magari è soltanto un giovane scapestrato” mi sento in dovere di spezzare una lancia in suo favore. “Chi ha commesso quei mattatoi , invece, è uno psicopatico seriale.”

“Un giovane scapestrato che è direttamente coinvolto in un'esplosione e che, secondo alcuni testimoni di cui non possiamo provare l'affidabilità, ha bazzicato nei dintorni delle altre.”

“Forse cercava di scoprire qualcosa” alzo le spalle, buttando lì la verità, come fosse un'ipotesi, e augurandomi che sia concretamente la verità e non una balla in cui sono caduta a piè pari.

“La gendarmeria si occupa delle indagini, non i privati cittadini” mi rimprovera severo, probabilmente per ammonirmi a non mettermi in testa strane idee. Se non fosse troppo tardi, potrebbe quasi convincermi. “Se ci saranno novità, l'aggiornerò.”

“A questo proposito” tiro fuori dalla borsa il barattolo di vernice, senza liberarlo dal sacchetto di plastica. “Ho trovato questo e credo sia stato usato da Emile, o almeno che abbia usato qualcosa di simile.”

Evito di dire come o dove l'abbia rinvenuto e incrocio le dita perché non mi faccia domande. Ovviamente era utopico sperarlo.

“Dove l'ha trovato? In casa?”

Annuisco, senza specificare in quale casa fosse; vorrei evitare mi sequestrasse le chiavi per villa Morel o si preoccupasse per la mia gita fuori programma. Se sarà necessario, lo informerò in seguito, anche se forse sto solo reiterando nel mio precedente errore.

“Farò eseguire delle analisi” continua a scrutarmi, scettico. “Forse troveremo qualche sostanza che faccia luce sulla pazzia del suo amico o sull'esplosione stessa. Adesso vada a casa, riprenda la sua vita e si guardi le spalle. Al resto ci pensiamo noi.”

 

Ed ecco cosa può partorire una mattinata di pioggia O_o

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Capitolo 22
*** Bugie? ***


“Al resto ci pensiamo noi” una frase promettente, a cui sarebbe facile arrendersi, se non fossi così maledettamente ostinata e se non percepissi la frustrazione e l'assoluta mancanza di certezze in chi la sta pronunciando.

Il capitano non ha colpe, lo so bene, non è davvero un incompetente, nonostante la mia diffidenza iniziale; è un uomo ostinato, preciso, onesto e sta indagando con coscienza e perizia su qualcosa che temo, però, sia molto più complessa di quanto entrambi riusciamo ad immaginare, una matassa così contorta di assurdità che districarla richiederebbe una fortuna sfacciata o almeno un briciolo di collaborazione da parte mia. Purtroppo i ricordi si ostinano a rimanere in disparte, eccetto le rare volte in cui si palesano al momento meno opportuno e assomigliano talmente ad allucinazioni che non sono del tutto certa siano affidabili. Forse potrei confessargli quei pochi dettagli che mi ostino a tacere, sperando che riesca a sistemarli in questo puzzle di cui io intravedo solo parte dei contorni, e che invece, per lui, potrebbe assumere una trama meno astratta. Non so cosa mi blocchi dal richiamarlo e spiattellargli tutto, non credo sarebbe sbagliato, eppure continuo a mordermi la lingua, per un istinto incomprensibile che mi spinge a credere in lui, ma, nello stesso tempo, a continuare a mentirgli o a omettergli particolari che ritengo non potrebbe capire. Del resto, l'unico che sembra a suo agio in questo campo è quel testone con problemi comportamentali a cui, in un modo o nell'altro, mi sono trovata legata.

Jasmine insiste a fissarmi con aria torva, impaziente di lasciare questo posto, ma restia a mettermi troppa fretta. Capisco che per lei sia difficile tornare nel luogo dove è morto un amico e rivivere certe brutte sensazioni, ma sembra più spaventata che commossa: non ha smesso un attimo di tamburellare col piede e tormentarsi le unghie, gli occhi sono sgranati e saettano impazziti da destra a sinistra, come si aspettassero di veder piombare elefanti dal cielo. In effetti il tipo che ha lanciato il dardo di cerbottana potrebbe essere ancora qui intorno e se davvero io ne ero il bersaglio, per quanto assurdo mi sembri, adesso gli sto offrendo un'occasione perfetta per rimediare al suo errore, quindi non sarebbe Jas a essere paranoica, ma io incosciente, e il capitano, con tutta la sua prosopopea, è stato un bel disgraziato a lasciarmi sola e in pericolo. Proprio mentre rimugino su cosa fare per non diventare, neanche per sbaglio, un bersaglio semovente, sento il rumore fastidioso di stridule sirene avvicinarsi a velocità sostenuta e, prima di poter capire cosa stia succedendo, mi trovo circondata da quattro poliziotti che si riversano in Rue des 3 Frères e iniziano a perquisire meticolosamente la zona. Ancora una volta, devo delle scuse a quel pover'uomo e magari potrei esprimergliele attraverso questa biondina in uniforme che sta puntando con aria fin troppo decisa verso di noi.

“Signorina De raven” sembra quasi stia per farmi il saluto militare. “Il capitano mi ha incaricato di tenerla d'occhio.”

Alzo un sopracciglio; non ho dubbi che queste siano state le esatte parole di Renaud, ma probabilmente si aspettava che mi venissero riferite con una luce diversa, facendomi sentire protetta e non sorvegliata.

“Non ho bisogno di una bodyguard” o almeno spero. “Ringrazi il capitano, ma gli riferisca che so tenermi d'occhio da sola.”

“Io obbedisco agli ordini signorina” non muove quasi la bocca, nel parlare, e sembra abbia ingoiato una scopa tanto è rigida; probabilmente è una novellina, o forse una che si prende troppo sul serio. “Non la infastidirò.”

Difficile crederlo. Ad ogni modo non c'è molto che possa fare per evitarla e suppongo sia meglio un male conosciuto di uno sconosciuto, quindi mi stringo nelle spalle, mi volto senza degnarla di un'ulteriore occhiata, ben decisa a fingere che non esista, e mi incammino verso Jasmine, che adesso sembra scocciata, oltre che spaventata, reazione che mi sento di condividere appieno, soprattutto perché lei potrà svignarsela appena vorrà, ma io rimarrò per chissà quanto con una zecca attaccata al sedere, circostanza niente affatto comoda viste le mie frequentazioni e i vari progetti per il prossimo futuro.

“Quell'uomo è davvero insopportabile” bisbiglia la mia amica, prendendomi a braccetto. “Dovrebbe scopare di più.”

“Magari vuole proteggermi” provo a pensare positivo, certa che sia anche questo lo scopo del capitano, sebbene non il solo, dopo le mie inopportune omissioni. “A dar credito alle sue teorie, c'è qualcuno fuori di testa che mi minaccia e, se mai recuperassi la memoria, potrei essere più utile alla polizia da viva che da morta.”

“Non dire certe cose” mi stringe tanto il braccio da farmi male quasi quanto le vecchie bruciature. “Non scherzare sulla morte, soprattutto dopo essere stata in un posto come quello.”

La guardo scettica, mentre indica con mano tremante le scale dietro di noi. Da quassù, la mostra sembra solo un innocuo palazzo semi-diroccato, ma agli occhi di Jasmine deve apparire un mostro mitologico con zanne e artigli affilati. Forse, se ricordassi più vividamente cosa vi è successo, lo temerei anch'io. Scruto di soppiatto la pivella che, per fortuna, rimane a consona distanza da noi, per non violare eccessivamente la mia privacy. Mi chiedo come farà adesso il mio sfuggente amico a non farsi notare e, come se il mio pensiero l'avesse evocato, sento vibrare il cellulare e riconosco il suo numero.

“Pronto” esordisco tra lo squillante e l'esasperato.

“Alex.”

Vorrei fargli presente l'assurdità di telefonare per pronunciare il mio nome, invece controbatto con un meno sardonico: “Mi hai mentito?”

“Ti ho mentito?” almeno pare sinceramente sorpreso, ma lo sarebbe anche se avesse la coscienza sporca e si sentisse scoperto. “Perché?”

“Dimmelo tu perché.”

“In cosa ti avrei mentito?” ovviamente è subito alterato, se vogliamo usare un eufemismo: la sua voce è un ringhio basso che mi perfora quasi il timpano.

“Lo sai” ribatto piccata e ben decisa a non fornirgli indizi, per quanto questa conversazione possa apparire cretina sia dall'esterno che dall'interno.

“In cosa?” credo che potrei vedere il fumo delle fiamme dell'inferno uscire dall'altoparlante del telefonino, ma non mi lascio impressionare.

“Non ti racconterò io la bugia che mi hai detto.”
“Non ti ho detto bugie. Mai.”

“Invece me ne hai raccontate almeno una” persisto, irremovibile. “Oppure hai mentito alla polizia.”

Il silenzio che segue è carico di aspettativa.
“Può darsi che abbia mentito alla polizia” adesso la rabbia sembra sfumata in una cupa stanchezza. “Lo faccio spesso.”

Non so come questo possa risultare confortante, eppure mi dà una vaga sensazione di sollievo.

“In cosa avrei mentito, comunque?” insiste, prima di interrompersi, preoccupato da un'altra linea di pensiero. “Non mi hai contraddetto col capitano, vero?”

Senza soffermarmi sul minuscolo dettaglio di essermi resa sua complice, tenendo fede alle sue panzane, lo rassicuro.

“Non ho detto niente di te.”

“Meglio così” sbuffa. “Meglio che non facciano collegamenti tra di noi.”

“Troppo tardi per quello.”

“Spero non diventi troppo pericoloso” è appena un sussurro, probabilmente neanche rivolto alle mie orecchie. “Per te.”

“Come sei premuroso” dovrei essere commossa da tanta sollecitudine, invece mi sento solo molto, ma molto incazzata, sia perché non mi piace essere trattata come una bambolina di porcellana, sia perché, probabilmente, sono abbastanza lunatica. Non posso insultarlo per un gesto di cortesia, anche se mal interpretato, però posso continuare a vessarlo per il precedente passo falso da cui non l'ho ancora del tutto assolto. “Io odio chi non mi racconta la verità, sappilo.”

“Eddai!” è esasperato. “In cosa cazzo ti avrei mentito, me lo vuoi spiegare?”

“Mi hai detto di non essere stato coi tuoi compagni, la sera dell'incidente.”

“Infatti. Purtroppo è la verità.”

“Il capitano ha raccontato una storia leggermente diversa: secondo lui sei uscito solo poco prima dell'esplosione.”

Non risponde niente e mi chiedo se stia inventando qualche giustificazione o semplicemente ricordando la vecchia balla precedente.

“E' quello che avrei dovuto fare” ammette infine, atono, con la voce così controllata da risultare falsa anche alle orecchie di un sordo e giuro su qualsiasi cosa che non avrei mai voluto essere la causa dell'espressione desolata dipintasi sul suo viso. “Avrei dovuto essere lì, mi avevano invitato per discutere di alcuni affari, ma io non riuscivo ad andare d'accordo col fidanzato di Sophie, non avevo voglia di perder tempo in dispute che non avrebbero trovato soluzione e non mi sono presentato. Quando ho deciso di smetterla di comportarmi come un cucciolo, era troppo tardi.”

Difficile resistere all'intensa agonia contenuta nelle sue parole, difficile mantenersi fermi su stupide questioni di principio davanti ad una sofferenza così palese, al di là del pessimo tentativo di nasconderla, ma la sua storia, per quanto commovente, ha comunque dell'assurdo.

“Avresti potuto dire semplicemente questo, no?” comprensione o meno, quando uno si comporta da idiota non si può non farglielo notare. “Potevi raccontare i fatti nudi e crudi alla polizia.”

“No, non potevo” è lapidario. “Non volevo che ficcanasassero in ciò che stavo facendo mentre non ero dove avrei dovuto essere.”

Nel senso che stava facendo davvero qualcosa di illegale?

“E poi, probabilmente, ho mentito anche per abitudine.”

“Non è un bel biglietto da visita” né questo, né l'idea che magari fosse a spacciare droga, o a fare a pugni con qualche malcapitato, invece di andare ad una riunione con parenti e amici. “Non è difficile pensare che tu possa prenderti gioco anche di me.”

“Non mento mai alle persone importanti” lo dice con una semplicità che mi stordisce.

“Gabriel, mi conosci da una settimana, più o meno” mi accorgo di aver urlato e mi maledico per la mia dabbenaggine. Oso un'altra occhiata furtiva alla biondina autorizzata a spiarmi, ma ha una faccia di bronzo che farebbe pensare o a problemi di udito, o a totale mancanza di curiosità, o a qualche decina di iniezioni di botulino.

“Non urlare, altrimenti la Guardiana della pace che hai dietro si insospettirà.”

“Cos'è che avrei dietro?” urlo di nuovo. “E tu dove saresti, per saperlo?”

“Io sono qui vicino, come ti avevo promesso. E la ragazza della polizia è quasi una novellina, si vede dalle mostrine sull'uniforme, ma non credo non abbia le orecchie.”

“Mi conosci appena” ripeto sottovoce, decisa a non lasciarmi distrarre.

“Sì” è dannatamente serio. “E non ti ho mentito.”

“Perché?” non so a cosa sia riferito, precisamente, forse a tutta la serie di dubbi che mi frullano in testa quando penso al nostro strano rapporto. “Perché sei interessato a me?”

“Non solo per il tuo bel sedere, se è questo che pensi” giurerei di sentire il suo sguardo infuocato proprio sulla suddetta parte anatomica. “Tu sei l'unica sopravvissuta a quelle esplosioni, a parte me.”

A volte è vero che sarebbe meglio non chiedere, perché le risposte potrebbero non piacerci. Le motivazioni di Gabriel non sono diverse da quelle del capitano, solo che le sue non hanno la stessa patina di legalità e fanno più male, una volta scoperte. Cerco una battuta per controbattere sullo stesso tono, ma sono momentaneamente a corto di idee. La sua spiegazione è del tutto plausibile e altrettanto deprimente; non che mi sentissi legata a lui da vincoli sacri e perpetui, lo conosco appena, è senza un soldo e ci siamo scambiati solo un bacio, però avevo creduto in qualcosa di più, o almeno di diverso. In cosa, non saprei davvero dirlo.

“Ok, ho capito” riesco solo a dire, prima di chiudere bruscamente e senza motivo apparente la comunicazione.

“E poi mi sono abituato a proteggerti.”

L'ultima parte del discorso suona incredibile anche alla sua bocca e non sono certa di averla sentita, perché stavo allontanando il cellulare dall'orecchio. In compenso il sonoro “dannazione” che esplode da dietro un angolo lo sento molto bene.

“Ma era qui dietro?” chiedo stolidamente a Jasmine, che si stringe nelle spalle, senza capire niente della situazione.

“Sennò come avrei fatto a tenerti d'occhio?” il diretto interessato, con un giaccone in stile militare, che non so dove si sia procurato, completo di cappuccio calato sulla testa, si materializza letteralmente al mio fianco, mi osserva per un attimo con occhio attento e sentenzia: “Sei arrabbiata.”

Non è una domanda, quindi posso evitare di sprecare il fiato, soprattutto visto che ha ragione, anche se non so il perché neppure io.

“Mi sono avvicinato a te prima dell'incidente di Emile, ricordi? E ti assicuro che il fatto che sia ancora qui non dipende solo da quello.”

Bisogna ammettere che è percettivo: tra tutti motivi per cui avrei potuto essermi offesa, ha subito azzeccato il più importante. Vorrei dirglielo, ma quando apro la bocca per parlare mi trovo per un attimo impedita dalle sue labbra che cercano prepotentemente le mie, soffocandomi con un bacio veloce e appassionato a cui rispondo prima ancora di ricordarmi di essere stata arrabbiata con lui.

“E questo non è una bugia” sussurra, senza allontanarsi da me, mischiando il suo fiato al mio in una protesta che è anche un giuramento. “Va bene?”

Non riesco a ragionare con lui così vicino, quindi annuisco e basta, momentaneamente priva della volontà di discutere. È pericoloso l'effetto che mi fa, ma è anche dannatamente seducente e non me ne frega niente se quella guardiana della galassia farà rapporto su un individuo misterioso appiccicato alla mia faccia, voglio soltanto godermi ancora un po' questo calore, questo profumo, che mi fa sentire viva e al sicuro contro ogni ragionevolezza.

“E non è successo perché l'hai chiesto ripetutamente” sogghigna appena, mantenendo un tono di protesta più per posa che per reale indignazione. Poi stringe lievemente gli occhi e lo vedo impallidire. “Mi sta scoppiando la testa” ammette a malincuore, portandosi una mano ancora bollente alle tempie, ma subito dimenticandosi di nuovo di sé, per preoccuparsi della mia incolumità. “Tu stai bene? É passata la strana sensazione che hai provato in quel postaccio?”

Annuisco, allungando io stessa una mano sulla sua fronte e rimpiangendo di non avere un paio di uova, perché avrei potuto tranquillamente cucinarcele sopra.

“Devi andare a riposare” provo a suggerirgli, senza riuscire a interrompere il filo del suo discorso.

“Ho lanciato io il dardo” mi spiega. “Non ti volevo uccidere!”

Evidentemente la mia espressione era esplicativa.

“Non era un dardo avvelenato, era un dardo scaccia spiriti.”

Deve stare peggio di quanto entrambi non pensiamo per uscirsene con un'allucinazione del genere. Il guaio è che sono quasi certa che ci creda e che la febbre lo spinga solo a essere più sincero, non più folle.

“E' pieno di spiriti maligni lì dentro” continua, senza notare il mio scetticismo o decidendo di ignorarlo, magari contando sul supporto di Jas che, infatti, non si fa pregare per venirgli in aiuto.

“Secondo me ha ragione, Alex” si intromette, alzando le mani in un gesto di pace, quando il mio sguardo tenta di incenerirla. “E non lo dico perché è carino.”

“Libera di non crederci” la voce di Gabriel è sempre forte e vigorosa, ma, non so come, vi avverto una sfumatura di fatica, nascosta dietro alla volontà di mostrarsi invincibile. “Io credo a queste cose. E l'ho fatto per scacciarli. Ha funzionato, no? Dopo non hai più sentito nulla di strano.”

In effetti, per quanto pazzesco, ha ragione. Di certo sarà stata una coincidenza, o magari il trambusto derivato dal suo strambo intervento mi ha distratto dalle precedenti allucinazioni, ad ogni modo mi vedo costretta ad ammettere un sofferto: “Non so più a cosa credere.”

Mi fa una carezza, forse impietosito dalla mia aria mesta e sconfitta.

“Ho visto una delle auto di Xavier lungo la strada e un suo scagnozzo che parlava con voi” mantiene un tono neutro, nonostante la palpabile tensione, non più dovuta al suo precario stato di salute.

“Voleva consegnarmi un biglietto” gli spiego, tirandolo per il braccio per raggiungere, finalmente, la relativa tranquillità di casa. “Non l'ho preso.”

Stava già per perdere il filo di compostezza che aveva tanto faticosamente mantenuto, ma la mia spiegazione lo soddisfa, per cui mi stringe più forte la mano e mi sorride, sincero come un bambino la vigilia di Natale.

“Brava” mi approva con entusiasmo, tanto che quasi mi dispiace doverlo deludere.

“Non è per quello che pensi. Se vuole avere a che fare con me, è bene muova le chiappe e si scomodi di persona.”

“Ci manca solo che entri in ballo quel damerino figlio di puttana” mugugna contrariato, poi mi fissa con espressione solenne. “Alex, io non sono un bugiardo, ma quel tipo lo è, puoi credermi.”

“Mi chiedo cosa tu intenda con questa parola, visto che hai ammesso di aver raccontato varie frottole alla polizia.”

“A volte devo farlo.”

“Perché?”

“Perché alcune cose non possono essere spiegate. Perché ci sono posti dove non sarei dovuto entrare, ma me ne sono fregato, per trovare indizi che facessero luce su questi delitti. E continuerò a fare qualsiasi cosa pur di scoprire la verità su chi abbia ucciso i miei amici, Emile e quasi anche te.”

“Non capisco come possa essere stata invischiata in questa storia, né, tanto meno, perché continui a esserlo, visto che Emile non c'è più.”

“Il tuo amico ti deve aver coinvolto per una ragione” alza gli occhi al cielo. “Ma io non la conosco.”

“Non l'avevo cercato io?”

“No” è Jasmine a correggermi, mentre trotterella al mio fianco, cercando di stare al passo con l'imponente falcata di Gabriel. “Come già ti avevo raccontato, Emile era più un conoscente che un amico, per te. Usciva con noi raramente e anche quando lo faceva se ne stava quasi sempre in disparte, limitandosi a bere qualcosa e ascoltare le nostre chiacchiere. Poi ha scoperto l'ispirazione e, tra tutte le persone a cui poteva chiedere di visionare le sue opere, ha scelto te. Lì per lì mi sono sentita quasi offesa: in fondo l'unica che avesse mai provato ad aiutarlo ero io, ma lui voleva solo il tuo parere.”

“E' strano” sono costretta ad ammettere. “Magari aveva una cotta per me e sperava di conquistarmi.”

“E' quello che hai detto anche allora” la mia amica sorride, forse sperando che stia recuperando il mio passato, o forse solo felice di ritrovare in me ciò che io non so di aver perso. “Ero propensa a darti ragione, però la nostra teoria si è smontata in breve tempo: non ha mai cercato di sedurti, neanche in maniera velata. Era totalmente assorbito dalla sua arte, la viveva, la respirava, la rendeva parte stessa del suo essere come il sangue o la ragione. Non aveva tempo per sentimenti futili come l'amore o la passione per una donna. Una volta hai detto che il gesto più romantico che abbia fatto era stato consegnarti la chiave della villa dove andava a dipingere.”

Ecco dove ho preso quell'affare! Ora rimane da capire come se la fosse procurata quel pazzo criminale, perché ho la vaga sensazione che non sia stato tramite vie legali, il che rende la mia visita in quel luogo un po' meno giustificabile agli occhi della legge.

“Mi raccontasti che l'aveva fatto a malincuore” continua Jas, persa nei suoi ricordi. “Quasi come se vi fosse stato costretto, ma l'unico degno di custodirla fosse lui. Io ti avevo chiesto di non frequentare quella casa maledetta, ma tu mi hai riso in faccia e hai detto di non credere a quelle baggianate. Ovviamente hai usato parole un po' più colorite di queste.”

Sembra ancora indignata per la mia mancanza di fede, ma forse avrei dovuto darle retta per pura cortesia.

“Anche mio nonno voleva stessi lontana dalla villa” mi sovviene, con un tortuoso collegamento di idee. “Invece, a quanto pare, Emile mi ha simbolicamente invitato a disporne come meglio preferissi.”

“Hai bisogno di riposare” tra un discorso e l'altro, siamo di nuovo fermi in mezzo alla strada e gli occhi di Gabriel sono lucidi di febbre, ma, come pare faccia sempre, si preoccupa solo per me. “Posso accompagnarti a casa?”

Fino ad ora non s'è fatto problemi ad auto-invitarsi ovunque, ma ora ha un'aria decisamente timida e questo rischia di farmi sciogliere del tutto. Non posso credere che sia un delinquente come le parole del capitano lascerebbero supporre, né che sia capace di mentirmi o stia provando ad approfittarsi di me; è arruffato, caotico e sicuramente molto propenso a perdere le staffe, ma i suoi occhi sono caldi e gentili, al di là della patina di tristezza e furia che li offusca, le sue mani sono sempre delicate quando mi sfiorano, anche se potrebbero spezzarmi in due con più facilità di quanto non mi piaccia ammettere. Può darsi che mi stia ingannando sul suo conto, che sia un abile manipolatore o io una sciocca irrecuperabile, ma credo valga la pena correre il rischio di scottarmi, perché il suo fuoco mi attrae irrimediabilmente ed è l'unico che riesce a scaldarmi, in questo buio freddo in cui mi sento sperduta.

Mi rendo conto di non avergli risposto quando allontana la mano da me, con un sospiro.

“Alex, non saresti la prima che non si fida di me” cerca di dirlo con nonchalance, ma sento lo sconforto nelle sue parole; rassegnato, forse persino convinto che sia giustificato, ma comunque ferito dalla diffidenza della gente. “Nessuno di solito si fida di me. Devo fare una gran fatica, ogni volta, per farmi assumere.”

Vorrei dirgli che i suoi modi di licenziarsi, se risaputi, non sono un ottimo biglietto da visita, ma non credo sia dell'umore di accettare un rimprovero, per quanto appropriato.

“Io mi sono fidata subito di te” opto per la verità, giusto per non predicare bene e razzolare male.

“Vuoi smettere di farlo?” ancora la sua voce non è rassicurata.

“No” la sincerità sta diventando un vizio e potrebbe risultare scomoda alla lunga. “Ma tu non darmene motivo.”

“Non ti ho mai mentito” finalmente la desolazione lascia il posto alla rabbia. “Mettimi alla prova. Mio padre faceva davvero lo chef, puoi controllare, se vuoi.”

“Senza offesa, non me ne frega poi tanto, poteva fare anche il muratore o il medico, per quanto mi interessa.”

“Oddio” sussurra Jas, contraddicendomi. “In realtà abbiamo sempre controllato le occupazioni dei parenti dei nostri possibili flirt: un padre ricco presupponeva una cospicua eredità.”

“Mio padre era decisamente benestante” intercala Gabriel, ben sapendo l'effetto che ha su di me quella parola magica.

“Ma dovete aver sperperato tutto, visto che vivi in una casa in affitto e neanche riesci a pagare il dovuto.”

“Cazzo, l'affitto” si batte un pugno sulla fronte, per poi sbuffare. “Avevo anche prelevato i soldi al bancomat.”

Sembra riflettere per un po', poi guarda Jasmine.

“Jas, non è che potresti fare un salto” inizia, allungandole una mazzetta di banconote.

“Che ti salta in mente?” lo interrompo. “Non la userai come lacchè.”

“Non voglio usarla come lacchè” si schernisce. “Volevo solo chiederle un favore, per non lasciarti sola tutto quel tempo. Santo cielo, ma tu non hai mezze misure.”

“Ti accompagno.”

“Devi riposare” continua a porgere il denaro alla mia amica, che ci guarda perplessa, indecisa su come comportarsi.

“Mi riposerò in metropolitana.”

“Notoriamente il posto più comodo del mondo.”

“Voglio vedere dove abiti” insisto. “Tu conosci casa mia, voglio conoscere la tua.”

Sembra rifletterci su, ma sono quasi certa non possa trovare obiezioni.

Jasmine mi tira in disparte, sussurrandomi all'orecchio un titubante: “Sei sicura? Vuoi che ti accompagni?”, ma non credo di aver bisogno dello chaperon.

“D'accordo, ti mostrerò il mio castello” Gabriel segna la fine di qualsiasi tentennamento. “Ma non rimanerci male se non è all'altezza delle tue aspettative.”

Forse avrebbe fatto meglio a dire “dei miei sogni”, perché in questa circostanza le mie aspettative sono molto basse e, a meno che non abiti nel sottoscala pidocchioso di qualche edificio diroccato, non credo rimarrò impressionata.

Saluto Jasmine che mi osserva allontanarmi con un sorriso un po' stiracchiato, mentre la giovane poliziotta continua a mantenersi a distanza, ma sono certa abbia raccolto un mare di pettegolezzi per il suo capitano.

“Dovremo trovare il modo di seminarla” mi avverte Gabriel.

Suppongo sappia come fare e non ho obiezioni in merito, così lascio che mi prenda per mano e lo seguo fiduciosa verso la fermata della metro.

“Comunque non m'interessa” dico soltanto, dopo qualche minuto di silenzio, mentre saliamo su un'affollatissima carrozza, con un gruppo di giovanistri idioti intenti a fingere di dar fuoco ai rispettivi giacchetti con l'accendino.

“Che cosa?”

“Che tu mi racconti che tuo padre era ricco” spiego, perché quasi non ci credo io stessa. “Non è per questo che ti ho baciato.”

“Non l'ho pensato” sono più stupita io nel sentirlo, che lui non dirlo. “Anche perché non avrebbe avuto senso, io quei soldi non li ho. Ho giusto il necessario per vivere e non mi sono preoccupato neanche dell'assicurazione sulla vita di mia sorella.”

“Probabilmente è stata la tua fortuna.”

“Sì” concorda. “Ma ho pensato dopo alle implicazioni per la polizia. A tal proposito...”

La giovane in uniforme, a cui dovrò decidermi a chiedere il nome, è riuscita a infilarsi nella nostra stessa carrozza e adesso se ne sta fastidiosamente schiacciata tra una rubiconda signora con grosse buste della spesa e un uomo di mezza età intento a scrivere sul telefonino come se ne andasse della sua vita.

“Scendiamo alla prossima” mi avverte.

Concorde è uno snodo piuttosto frequentato e forse vuole far perdere lì le nostre tracce, anche se la linea dodici ci porterebbe tranquillamente nel suo distretto. Ho deciso di fidarmi di lui, quindi mi limito a aspettare e vedere cosa si inventerà, mantenendo un prudente atteggiamento distaccato.

Appena si aprono le porte, mi trascina sulla banchina, velocemente, ma senza dar segno di volersi defilare. Per tutto il tempo ha continuato a tenere il volto nascosto, ma dubito che sia possibile non essere riconosciuti quando si ha un fisico statuario come il suo; se il capitano non è davvero l'incompetente che temevo, mi telefonerà prima di sera per chiedermi conferma sulla sua identità.

Per adesso, però, abbiamo problemi più contingenti. Mentre ci confondiamo nella folla, dirigendoci verso la fermata della linea 8, la nostra stolker personale si mantiene a breve distanza da noi, zigzagando tra turisti ingombri di valige, vecchiette con bastone e branchi di studenti ridanciani, assiepati come pecore intorno ad un immaginario pastore; credo sia impossibile liberarci di quel peso morto, poi Gabriel mi stringe a sé, quasi nascondendomi nel suo giaccone, e si schiaccia improvvisamente contro la parete, chiudendomi completamente la visuale con la sua considerevole mole.

“Gabriel, non vorrei deluderti, ma non sei invisibile” cerco di dirgli, col volto compresso nel suo petto. “Era a qualche metro da noi e tu sei anche alto, oltre che grosso, non mi sembra un buon modo per seminarla.”

Mi ignora e continua a stringermi, tanto che mi viene il dubbio che stia solo cercando una scusa per un po' di coccole, ma quando, dopo un paio di minuti, si allontana da me, guardandosi intorno con un sorriso soddisfatto, e poi alza il pollice in segno di vittoria, non so se credere di essere impazzita io o se lo siano tutti i contribuenti costretti a pagare le tasse per dare lo stipendio a funzionari di polizia tanto incompetenti.

“Coraggio, torniamo indietro” mi guarda con espressione compiaciuta. “Per stavolta ce la siamo tolta di mezzo.”

“E come?” non posso fare a meno di chiedermi e chiedergli. “E' stata travolta dalla folla e trascinata sulle scale mobili all'uscita? Come ha fatto a non vederci?”

Si stringe nelle spalle, come se non si fosse aspettato niente di diverso.

“Davvero, Gabriel” insisto. “Non è possibile che sia tanto idiota.”

“Le persone vedono quello che vogliono” e non so se sia anche un velato rimprovero, ma mi sembra comunque una baggianata, in questo caso. “Scenderemo a Volontaires e da lì saremo quasi arrivati.”


Non so quando potrò aggiornare di nuovo, ma intanto rieccomi qua, a portare avanti una storia che non è ancora entrata nel vivo, ma che spero non vi stia annoiando troppo ^_^ Grazie a chiunque sia qui a leggere!!!

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