Limiti d'amore e matematici

di altraprospettiva
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo- Anno fortunato ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1- Donne ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2- Diventando una signorina ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3- Buon anno ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4- Merendina ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5- Diciassette...fortunato? ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6- Apnea ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7- Pier ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8- Giallo ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9- Cottarelle ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10- Perdonato ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11- In alcol veritas ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12- Non è un addio ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13- Senza tabù ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14- Tra un cornetto e un cappuccino ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15- Cercando un tetto ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16- Rosanna ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17- Keep it loose keep it tight ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18- Conviviamo? ***
Capitolo 20: *** Epilogo- Vissero felici e contenti ***



Capitolo 1
*** Prologo- Anno fortunato ***


Ora
 È lì. È appoggiato al bancone del bar, tiene una bottiglia di birra in mano, ride mentre parla con un amico. Quanto mi era mancato il suo sorriso. Gli si illumina il volto, diventa ancora più bello. Sono passati cinque anni dall’ultima volta che l’ho visto. Mi aveva detto che l’avrei dimenticato e non è successo. Certo, non l’ho pensato più come prima. Non ossessivamente. Però non l’ho mai dimenticato, è sempre stato nei miei pensieri come dal primo giorno che l’ho visto.
 
Prima
 
Il primo giorno del quinto anno eravamo tutte emozionate: avremmo avuto ben tre professori nuovi. Sapevamo che il professore di inglese sarebbe andato in pensione, gli avevamo organizzato pure la festa di addio. Il professore di geografia astronomica aveva cambiato liceo e questo si sapeva pure. La sorpresa fu per matematica. Era venuta la preside per avvisarci della maternità della Salanicco. Ci disse che avremmo avuto un supplente per tutto l’anno: un quinto scientifico non poteva rischiare di cambiare troppe volte professore di matematica. Sembrava di rivivere alcuni momenti del terzo anno, quando ci avrebbero assegnato i professori per le nuove materie. La mia classe era composta da tredici ragazze e quattro ragazzi e desideravamo tanto che aumentasse il livello di testosterone presente. Le preghiere che facevamo erano semplici: professore maschio, giovane, carino. Il terzo anno ci era andata male. Il quinto no.
È entrato sorridendo. Il sorriso che amo. Capelli lunghi fino all’orecchie, orecchino, una camicia a maniche corte blu scuro, un paio di jeans, le converse nere e una tracolla di stoffa. Non sembrava per niente un professore.
Rimase un po’ ad osservarci interdetto, non si aspettava sicuramente tredici paia di occhi guardarlo adorante. La nostra classe al primo anno era composta da quattordici ragazze e diciassette ragazzi. Tra cambi di sezione, termine della scuola dell’obbligo, trasferimenti in altre città, bocciature e maternità, ci sentivamo un po’ come superstiti di una guerra durata quattro anni. 
«Buongiorno ragazzi» disse infine un po’ titubante mentre avanzava verso la lavagna e prendeva un gessetto.
Scrisse alla lavagna  PROF. EDOARDO COCO e rivolse l’attenzione nuovamente su di noi.
«Scusate. E’ il mio primo giorno di lezione, sono un po’ emozionato. Sognavo questo momento da un po’, ho visto questa cosa del scrivere il nome alla lavagna in un film e avevo desiderio di farlo anche io. Mi chiamo Edoardo Coco, ho venticinque anni e sarò il vostro supplente di matematica e fisica per tutto quest’anno».
Sembrava essersi preso un po’ di coraggio, aveva capito che nonostante tutto non eravamo in grado di mangiarlo con gli occhi. Fece l’appello, si scusò se i primi tempi non avrebbe ricordato il nostro nome, chiese se avessimo dubbi sul programma dell’anno precedente per dedicare la prima settimana a quelli. Era molto professionale. Non lo immaginavo comunque come un matematico. In genere li pensavo noiosi, vestiti fuori moda, con gli occhiali spessi, tutti rigidi. La Salanicco non era di meno, veniva sempre in tailleur con la gonna fino al ginocchio e i capelli a crocchia sempre ordinati. Come se dovesse fare un colloquio di lavoro. Non rideva mai se non a battute di natura matematica che capiva solo lei e qualche secchiona. Il fatto che fosse incinta ci lasciò perplesse perché avremmo giurato che fosse zitella.
Lui era diverso. I capelli scuri lasciati leggermente spettinati, gli occhi che sembravano potessero leggerti l’anima, le labbra che ti facevano venir voglia di prenderle a morsi, quel piccolo e sensuale neo sopra l’angolo sinistro della bocca e il sorriso che ti faceva venir meno.
Iniziai a fantasticare su di me che diventavo brava in matematica e fisica e riuscivo ad attirare la sua attenzione. Chissà se lui si sarebbe messo a ridere alle battute della Salanicco. Ne avevo scritte alcune sul diario per sfottere la prof, le avrei dovute cercare e poi sarei dovuta andare a cercare il motivo per il quale risultavano divertenti.
Di fisica avevo otto. Mi piaceva. Per qualche oscuro motivo riuscivo ad interpretare molti dei problemi e trovavo la soluzione più per intuizione che per bravura. Di matematica era un altro discorso. Avevo sette. Ma solo perché la mia compagna di classe alias migliore amica alias Paola mi riusciva a passare le soluzioni durante i compiti. Speravo solo che il nostro sistema di copiatura collaudato da quattro anni non andasse in fumo. Altrimenti sì che avrei attirato la sua attenzione, ma perché i miei voti sarebbero calati a quattro.
I primi mesi fu un po’ distante. Scherzando diceva che non voleva che quella fosse la sua prima e ultima esperienza nel campo dell’insegnamento. Sapeva che era diventato il sogno erotico della maggior parte della classe. Alcune mie compagne un po’ più sfacciate gli facevano battute ambigue. Ma bastava vedere come lo guardavamo. Era uno spettacolo sia mentre spiegava alla lavagna dandoci le spalle, sia mentre ci guardava e, cosa che non mi piaceva affatto, rivolgeva domande a caso alla classe come: “Cosa si intende per asintoto?” oppure “Qual è la derivata di…?”. Non ho mai pensato che il non saper rispondere a queste domande a sorpresa fosse grave, a mio parere lo faceva per allentare la tensione che c’era in classe. Penso si sentisse un po’ come un agnello in mezzo ai lupi e cercava in qualche modo di distrarre i predatori.
I ragazzi cominciarono ad innervosirsi. Fatta eccezione per Cesare, fidanzato serio sin dal secondo anno, i nostri compagni si erano abituati a flirtare con noi. Ci corteggiavano, ci portavano la mimosa l’otto marzo, i cioccolatini il giorno del nostro compleanno e qualche mia compagna di classe durante le gite o qualche scampagnata, riusciva sempre a ringraziarli a nome di tutte noi.  
Iniziarono il giorno dopo l’Immacolata. Veniva di Lunedì e avevamo il prof Coco la prima ora. Non so a chi sia venuta in mente l’idea, era un po’ troppo geniale per tutt’e tre e non fu chiaro quando accadde, fatto sta che si trovarono ambedue le facce della lavagna colorate con un colore a cera nero. Il lavoro era fatto piuttosto bene, non si notava nulla di strano all’inizio, poi il prof andò alla lavagna e il gessetto non scriveva. In conclusione tutta la prima ora andò persa tra sgridate e minacce della preside e una nota di classe.
Dopo un paio di giorni, per ben tre volte durante le lezioni del prof, i miei compagni, in qualche modo, riuscirono a far scattare l’allarme antincendio, facendoci precipitare fuori dall’aula. Svenimenti e incidenti vari, arrivammo a qualche giorno prima delle vacanze natalizie saltando per un motivo o per un altro le lezioni del prof e la situazione in classe iniziò a farsi tesa per vari motivi. Eravamo indietro con il programma, le ragazze iniziavamo a scocciarci del comportamento bambinesco dei ragazzi, i ragazzi non erano soddisfatti del loro lavoro.
Da distante e leggermente rigido com’era (esteticamente non mi sembrava un matematico come si vedono in maniera stereotipica, ma caratterialmente somigliava quasi alla Salanicco) il prof tutto ad un tratto cambiò. E le cose migliorarono decisamente.





Note dell'autrice
Salve a tutti! Questa è la mia prima storia. Le mie lettrici sono sempre state persone che mi conoscevano e quindi si facevano scrupoli nel fare commenti negativi, gradirei tanto avere vostri responsi positivi o negativi, mi aiutereste tanto a capire cosa vi piace e cosa meno. Al prossimo capitolo Baci :*  
 
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1- Donne ***


Quel giorno, a causa della settimana bianca anticipata del prof di italiano, avevamo due ore di supplenza. Le mie compagne di classe tirarono fuori tutto l’occorrente per fare una french manicure a tema natalizio. Smalto bianco, rosso, oro, brillantini, stickers per unghia con alberi, campanelle e palline. Non ero una fan dell’estetica, nonostante avessi diciassette anni, era come se stessi passando la fase adolescenziale di un ragazzino: preferivo i videogiochi e la palestra. Mi piaceva star comoda con la tuta, tenevo i capelli corti, mi scocciava andare a fare shopping o stare con la mano immobile per farmi mettere lo smalto. Cesare era al telefono con la ragazza, Mauro e Francesco assenti, Roberto era seduto in disparte a leggere qualcosa. Priva di alternative porsi la mano a Paola, che mi pregava da ore, consentendole di far alle mie unghia ciò che più le aggradasse. Paola era contenta, lei mangiava le unghia nonostante lo smalto al peperoncino o il gel della ricostruzione, dedicarsi alle mie unghia lunghe la facevano sentire come una bambina che aveva finalmente ricevuto il regalo tanto atteso. Poi entrò lui. Sorridendo. Indossava un maglione verde scuro, i jeans neri e le scarpe da tennis verdi. Riusciva quasi sempre ad abbinare scarpe e maglia meglio di qualsiasi ragazza. Restò mobile un secondo poi disse: «Scusate ho sbagliato classe? Pensavo di esser entrato nella quinta di un liceo scientifico non in un istituto professionale per estetiste». Si conquistò l’attenzione di tutte le ragazze e continuò: «Avevo portato un film interessante se volete vederlo, mi hanno assegnato queste due ore a voi, ma se non vi va…».
Le mie compagne si guardarono con gli smalti in mano. «Avevamo pensato anche noi a qualche film» disse Silvia «Non sapevamo se ci dessero il computer per vederlo, ci vuole l’autorizzazione di un prof» continuò.
«Allora vado a prendere il computer se è questo il problema» il prof uscì mentre sventolavamo le mani per far asciugare lo smalto e qualcuna tirò fuori dallo zaino alcuni DVD.
Il prof rientrò con la tracolla del computer in mano e la posò sulla cattedra. «Qualcuno può pensare ad accenderlo ecc…Alice?» guardò verso di me che ero seduta vicino alla cattedra in quel momento. Annuii mentre iniziai ad aprire la cerniera della tracolla e vidi il prof mettere sul banco una serie di DVD originali.
«A beautiful mind, Will Hunting genio ribelle, I ragazzi di via Panisperna…che palle di film prof » sbuffò Veronica.
«Modera il linguaggio ragazzina. Io ho questi film in questo momento qui, non ho completato del tutto il trasloco. Voi avete altri film da proporre?» In un attimo il banco si riempì di DVD masterizzati. C’erano film di tutti i tipi, per lo più rosa. «Kiss me, She’s the man, Mai stata baciata…ma che film guardate?» chiese il prof leggendo qualche titolo.
«Io lo so che vedere!» esordì Luana prendendo dalla borsa un DVD «Magic Mike!» esclamò entusiasta della sua pensata. Non ero molto aggiornata di film, ma quello lo conoscevo perché avevamo parlato in classe di andarlo a vedere tutte insieme. La classe era piuttosto soddisfatta della scelta.
«Ma lo stanno dando ancora al cinema come avete fatto ad averlo?...Vabbeh non voglio saperlo…piuttosto non preferite vedere qualcosa di più significativo?»
«Prof, ma se lei fosse ad una serata insieme ai suoi amici maschi non scegliereste un film dove c’è un’abbondanza di donne seminude?» chiese Veronica.
Il prof inarcò le sopracciglia «Beh…dipende che tipo di serata voglio che sia».
«E noi vorremmo che fosse la serata dove noi vediamo Magic Mike!» disse Luana.
Il prof sospirò. «Ok, vedete sto film, però mi noia da morire restare in classe quindi vi lascerò sole. Mi raccomando fate le brave».
«Prof possiamo venire con lei? Anche a noi scoccia guardare questo film» chiese Roberto anche a nome di Cesare.
«Sì certo, portatevi qualcosa da fare e ce ne stiamo in aula insegnanti». Poi uscirono dalla classe mentre il prof scuoteva la testa dicendo “Donne”.
«Per quel che mi riguarda se ci fa uno spogliarello lui poi potrei anche guardare uno dei suoi film pallosi» disse Silvia non appena si accertò che il prof fosse uscito.
Scoppiammo a ridere, pensando tutte più o meno di essere d’accordo e io diedi l’avvio al film.
Ci furono subito risatine che mi fecero pensare di stare in una classe di adolescenti, dopo un poco iniziarono i commenti. «Come mi farei Pettyfer…cavoli è solo qualche anno più grande di noi, è perfetto».
«Io non mi faccio scrupoli per l’età. Se Channing Tatum venisse da me mi ci spoglierei davanti».
«Ma guardate che addominali perfetti…perché non abbiamo maschi del genere in classe…o meglio perché non si trovano maschi del genere in questo posto?»
«Secondo me qualcuno così c’è qua, solo che noi non abbiamo il permesso di vederlo».
Scoppiammo a ridere sapendo tutte a chi si riferisse.
«Anche come culo non sono messi male».
«Ma secondo voi chi ce l’ha più lungo?»
Si sentì un colpo di tosse e ci girammo tutte verso di esso, il prof stava appoggiato al muro. Nessuno lo aveva sentito entrare, chissà da quanto tempo ci ascoltava. Ringraziai la mia timidezza che non mi aveva ancora fatto fare alcun commento. «Ragazze ma siete terribili! Non vi si può lasciare sole un attimo e guardate che cosa mi tocca sentire!» «Quanto. Ha. Sentito?» chiese Veronica leggermente imbarazzata. Era stata lei a fare l’ultima domanda.
«Gli ultimi commenti li ho sentiti» disse sorridendo. Veronica arrossì.
«Ero venuto perché avevo dimenticato la borsa, ma ora non so se lasciarvi sole. Non immagino che cosa potreste fare» sorrideva divertito mentre andava a prendere la tracolla.
Ma perché ci voleva mettere tutte in imbarazzo? Mi domandai.
«Dai tornate a vedere il film. Prometto che non torno più. Solo vi chiedo che quando finisce qualcuna di voi mi venga a chiamare in aula insegnanti che devo riconsegnare il computer». Uscì dall’aula e noi restammo per un paio di secondi attonite.
Poi Silvia disse: «Sono sempre del parere che ci può fare lo spogliarello lui se vuole. Torniamo alla domanda di Veronica e aggiungiamo pure il prof alla lista?» Scoppiammo a ridere mentre un’immagine si intrufolò nella mia testa. Il prof che rientrava che aveva sentito l’affermazione. Spegneva il computer e lo buttava giù dalla cattedra per salirci lui. Levava il maglioncino. Si slacciava la cintura affermando che non aveva paura della sfida… non ho idea di come sia finito il film. Nella mia testa c’era solo lui che si andava spogliando.
Quando il prof rientrò per prendere il computer io non ebbi il coraggio di guardarlo negli occhi. Sentii che l’aria in classe era tesa. Dopo due ore di visione di spogliarello maschile gli ormoni ci avevano mandato su di giri. Pensai che se il prof non fosse uscito di corsa sarebbero scappati commenti inappropriati e forse anche qualche palpatina. Giuro, avevo compagne capaci di farlo. Il giorno dopo aveva il giorno libero ma passò per augurarci un buon Natale. Lo salutammo tutte con un bacio per guancia, emozionandoci per quel contatto. Inalai la fragranza di cuoio, di dopobarba, di…maschio.
Fui incapace di pensare ad altro per tutto il resto della giornata. Quella giornata e quelle a seguire. Lo pensai giorno dopo giorno. Anche dopo la fine delle lezioni. Ossessivamente. Abitavo in una campagna fuori paese, non avendo ancora diciotto anni, dato che avevo fatto la primina, per poter scendere in paese dovevo aspettare un passaggio. Quando mia sorella mi chiese se volessi comprato qualcosa in paese le risposi che sarei scesa con lei.
Era una pazzia quella che stavo per fare? Non lo sapevo. Arrivai in paese, salutai mia sorella e mi avviai verso la palazzina dove abitava il professore. Abitando in un paese piccolo ci voleva poco ad ottenere le informazioni desiderate. Salii le due rampe di scale a piedi, feci un profondo respiro e bussai alla porta. Il cuore mi batteva all’impazzata. Ma che diavolo stavo facendo? Perché dovevo essere così impulsiva?
Quando mi accorsi che non aveva risposto ancora nessuno, non sapevo se sentirmi sollevata o delusa. Feci per andarmene quando si aprì la porta. Indossava una tuta grigia, aveva la faccia assonnata, come se si fosse appena alzato dal letto.
Mi mise a fuoco e disse con voce pastosa: «Alice, ciao. Che sorpresa vederti…» vidi che cercava un modo educato per chiedermi che cosa volessi o, forse, era semplicemente sorpreso.
«Scusi, forse l’ho disturbata…» dissi quasi balbettando. Certo che l’avevo disturbato! L’avevo tirato giù dal letto! Anche io non sapevo cosa ci facessi lì, mi ci avevano portato i miei piedi.
«Su, entra, fuori c’è freddo» si mise di lato per farmi passare.
Entrai quasi in punta di piedi mentre sentivo che chiudeva la porta. L’appartamento era buio e il prof si affrettò ad accendere una luce. Eravamo in un salottino elegante ed ordinato. Ad una parete c’era appoggiato il mobile con la tv al plasma, i DVD e i libri, al centro della stanza ci stavano delle poltrone grigio chiaro e un tavolino di vetro. Il prof mi invitò a levare il giubbotto e poi mormorò un “scusami” mentre entrava dentro una stanza. Subito dopo sentii rumore di acqua che scorreva nel rubinetto e lui uscì dalla stanza con la faccia ancora bagnata.
«Come nuovo, scusami, ero un po’ assonnato» disse sorridendo.
Mi sciolsi. «Mi scusi lei, l’ho svegliata…»
«No, anzi grazie, quando dormo troppo va a finire che ho mal di testa e non so che cosa fare la notte. Ma siediti, non stare lì in piedi. Sei venuta per dirmi qualcosa?»
Certo che me lo avrebbe chiesto e io come una scema non mi ero preparata alcuna scusa. Ero andata lì per chiedergli qualcosa? No. Solo per vederlo, mi mancava, ma non potevo certo dirgli questo. «Io…» mi sedetti sulla poltrona mentre cercavo nella testa qualcosa da dire.
«Ti va un tè?»
«Sì, grazie» risposi contenta di avere qualche altro minuto per pensare ad una scusa.
Si infilò in un’altra stanza. «Verde, grigio, al limone, alla pesca, al gelsomino, alla cannella. Hai qualche preferenza?» mi chiese quasi urlando.
«Verde, grazie».
Tornò con due tazze vuote che posò sul tavolo davanti a me. «Adoro il tè. In questo momento sono sfornito, ma sono capace di avere più di venti gusti diversi nella credenza» si sedette nella poltrona di fronte a me.
«Neanche credevo che ci fossero tutti questi gusti» ammisi.
«Dunque, Hai qualche problema matematico che ti assilla durante le vacanze?» fortunatamente non sembrava seccato della mia presenza. Un problema ce lo avevo: non riuscivo a non pensare a lui. Ma non era né di natura matematica né qualcosa da potergli dire.
«Ecco…pensavo…di prendere ripetizioni di matematica» dissi tutto d’un fiato l’ultima frase contenta di aver trovato qualcosa di sensato.
Lui aggrottò le sopracciglia. «Ripetizioni? Non mi sembra che tu ne abbia bisogno. Certo uno deve tendere sempre a migliorare ma tutto sommato…poi non so, ho dato ripetizioni in passato ancora non mi sono organizzato» si grattò il mento «Vado a prendere l’acqua per il tè» disse alzandosi. Effettivamente non aveva tutti i torti. Lui mica poteva sapere che il mio sette era dovuto ad un eccellente lavoro di copiatura. Ma ormai l’avevo sparata e poi come facevo a dirlo a mamma e papà? Perché ero così impulsiva-barra-scema da mettermi in quelle situazioni? Tornò con una teiera in mano, mi accorsi che aveva l’infuso e non le bustine. «Il tè verde si fa sempre due volte. Questo è il secondo, dovrebbe sapere meglio» mi disse versando il tè nelle tazze. «Gradisci dello zucchero?»
«Sì, grazie».
«Torno subito». E ritornò con una zuccheriera in mano, alcuni tovaglioli, cucchiaini, piattini e dei biscotti.
«Wow, ci sa proprio fare con gli ospiti».
Lui sorrise posando il tutto ordinatamente sul tavolo e si risedette di nuovo di fronte a me. «Dunque, dicevamo» prese la tazza di tè in mano e iniziò a soffiarci. Rimasi immobile a guardare le sue labbra schiudersi non del tutto sicura che sarei riuscita a parlare.
«Dunque…ripetizioni…ma hai qualche problema negli ultimi argomenti? Se è questione di poco non ti preoccupare, te li posso rispiegare senza problemi».
Presi la mia tazza e ci aggiunsi un cucchiaino e mezzo di zucchero. «A dire il vero non sono solo gli ultimi argomenti».
Lui parve stupito. «Hai la media del sette e mezzo o sbaglio? Hai otto di fisica se mi fai un buon orale ti posso passare il sette e mezzo ad otto. Non mi sembra tu abbia problemi» ero rimasta ferma alla frase “se mi fai un buon orale”, mi sentivo come alcune mie compagne di classe che vedevano il doppio senso dappertutto. Che mi era preso?
«Ecco…a dire il vero…non è tutta farina del mio sacco». Ormai era meglio cercare di dire la verità, altrimenti sarei sembrata troppo stupida.
La sua espressione divenne sia stupita che divertita. «Vuoi dire che sei stata ‘aiutata’durante i compiti?» pronunciò la parola aiutata facendo il movimento delle virgolette con le dita della mano libera.
«Più o meno. Ma adesso mi sono resa conto che poi mi troverò male all’università. È meglio che impari qualcosa ora». Bevvi un sorso di tè per poter fare qualcosa.
Lui rimase in silenzio per circa un minuto. Come imbambolato. «Cavoli. Hai copiato? Ma siete brave! Non sono riuscito a notarlo per niente! E per gli orali?»
«Imparavo tutto a memoria».
«A memoria? Complimenti» vidi che era leggermente stizzito.
«Scusi…» dissi.
Lui sorrise, quasi imbarazzato. «Beh, cose da ragazzi. Anche io copiavo le versioni di latino. Non ho mai capito a cosa servisse. Stavo pensando che me l’avete fatta sotto il naso…beh, sei stata sincera perlomeno. Posso chiederti in che università ti vuoi scrivere?» Bevve un po’, prese un biscotto e mi fece cenno con il capo.
«Prendine senza problemi».
«Grazie, sto bene così. Vorrei iscrivermi in chimica».
Lui parve un po’ divertito. «Chimica?»
«Sì, mi piace da morire. Mi sono iscritta allo scientifico per questo. Solo che non sapevo di avere tutti questi problemi con la matematica».
Lui fece di sì con la testa.
«Purtroppo la matematica ti serve a chimica. Non ad altissimi livelli, ma hai analisi, hai fisica…spero che con i semplici calcoli di stechiometria non abbia problemi» rise. Si poteva essere più belli di così? Gli occhi sembravano brillargli…dovevo assolutamente smetterla.
Bevvi il tè e cercai di concentrarmi sul calore di esso.
«Da quale punto del programma vorresti partire?»
«Ehm…logaritmi?»
Lui fece come per sputare il tè dalla sorpresa. «Cazzo! Scusa…pensavo fossi messa meglio…beh allora ce n’è lavoro da fare. Potremmo iniziare anche durante queste vacanze se vuoi».
Davvero? Aveva detto sì? Ci saremmo incontrati io e lui da soli a casa sua? E chi avrebbe pensato alla matematica?
«Ma lei non torna a casa a Natale?».
Il suo volto si rabbuiò. «No. Sono una testa di cazzo. Ho dimenticato di comprare prima i biglietti e quando ci ho pensato costavano un occhio della testa. Parto il 28. Quest’anno non è Natale con chi vuoi ma Natale con chi puoi…»
«E lei con chi può?» che domanda idiota. Da dove mi era uscita?
«Eh? Non lo so ancora a dire il vero...»
«Ma è fra due giorni!...Perché non viene a mangiar da me? Tra cugini e amici di famiglia poco meno di un centinaio. Nessuno farà caso a lei, penseranno che sia qualche fidanzato di qualche mia cugina».
Lui sorrise. «Un centinaio? Sei sicura che non dovremmo iniziare dalle tabelline?»
Io annuì «Sì, sì…mia nonna aveva sette fratelli e mio nonno cinque. Ci rispettiamo tutti sa? Abito in campagna, abbiamo una casa grandissima, così le feste si fanno sempre da noi. Sul serio, non scherzo».
Cominciò a far girare la tazza fra mani. Sembrava pensarci. «Non so…non conosco nessuno…e poi non mi sembra il caso». «E si passa il Natale da solo?»
Fece mezzo sorriso. «A dire il vero non è che abbia mai dato importanza al Natale, anche per questo ho dimenticato di comprare i biglietti».
«Ma si deve far pregare? Ad ogni modo, io le lascio il mio indirizzo. Un posto all’ultimo momento si può aggiungere senza problemi. Ha un foglietto e una penna? Le lascio pure il mio numero di cellulare per metterci d’accordo per le ripetizioni». Si alzò e andò a prendere un block notes e una penna.
Notai che stava pensando sul serio alla proposta. «Dovrei portare qualcosa…E poi come mi presenti? Dici che sono il tuo professore? Che figura ci faccio?» Si grattò la nuca mentre mi porgeva il block notes.
«A differenza sua, a casa mia il Natale è una festa piuttosto sentita. Se spiego a mia madre che lei è solo a casa sarà proprio lei a proporre di farla venire. E poi certo che devo presentarla come il mio professore! Fra poco ci sarà ricevimento».
Lui si mise a ridere. «Ora non so neanche qual è il tuo vero andamento a proposito…mi sa che devo farti fare un orale come si deve per poterti valutare».
La mia mente si fermò di nuovo a quella frase. «Non mi può punire così. Ormai mi lascia il voto che ho, poi le prometto che mi metto d’impegno». Mi alzai e posai la tazza sul tavolo. «La ringrazio per il tè e per la chiacchierata. Ma adesso devo proprio andare».
Lui annuì e mi fece strada verso la porta.
«Ci pensi, mi farebbe piacere vederla a Natale, sul serio».
Arrivati davanti al portone mi sistemai il giubbotto. Poi quasi automaticamente mi baciò su entrambe le guance e avvampai.
«Ci…sentiamo» mi disse.
Uscii che ci fu una folata di vento capace di farmi volare. Ma io mi sentivo già come se stessi camminando sopra le nuvole. Note dell’autrice. Se il professore avvisa di stare facendo ripetizioni alla propria alunna, è legale poterlo fare. Vi è piaciuto il capitolo? :D

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Capitolo 3
*** Capitolo 2- Diventando una signorina ***


Quando dissi a mia madre che probabilmente ci sarebbe stato il prof a Natale mi guardò perplessa, ma quando le spiegai che era rimasto solo mi disse che avevo fatto bene ad invitarlo.
«Settantotto, settantanove, ormai un posto in più non cambia».
Settantanove. Settantanove per quattro trecentosedici. Avevo almeno trecentosedici posate da lavare. Evviva! Dato che non davo una mano a cucinare (perché anche se ognuno portava una pietanza anche noi preparavamo qualcosa da mangiare) toccava a me lavare le stoviglie. Per piatti e bicchieri si utilizzavano quelli di plastica, ma per quanto riguarda le posate c’erano sempre lamentele sul coltello che non tagliava, la forchetta che non si infilzava, così mamma si era attrezzata e aveva comprato una quantità industriale di posate. Si poteva caricare una lavastoviglie solo di posate? No! E toccava a me lavarle.
Mi sistemai per bene i ricci. Fortunatamente grazie al loro taglio e alla schiuma non era difficile tenerli ordinati. Pescai nell’armadio il vestito che misi per il mio diciassettesimo compleanno, verde smeraldo con uno scollo a V non troppo profondo, le maniche larghe e la gonna che mi arrivava fino ai piedi. Cercai le scarpe, gli orecchini e la collana abbinata. Era quasi un anno che non indossavo il tutto. Mia sorella Elena entrò nella stanza e rimase a guardarmi stupita.
«È Natale no? Mi trucchi?» chiesi io prima che potesse dirmi qualcosa.
 «Stai male?» venne verso di me sorridendo e poggiandomi una mano sulla fronte.
«È festa ho quasi diciotto anni, posso truccarmi no?»
 «Avevi quasi diciotto anni anche tre settimane fa quando andasti alla festa dei diciotto anni di Vanessa eppure ho dovuto pregarti per farti mettere un po’ di mascara».
Feci spallucce ed Elena andò a prendere la sua porchette con i trucchi.
«Devo fare in fretta però, fra poco viene Francesco» Il suo ragazzo.
Mi fece sedere e cominciò a stendermi il fondotinta sul viso.
«Questo serve per rendere uniforme il colore della pelle» mi spiegò in tono canzonatorio e continuò così per ogni cosmetico che usava.
Quando finì mi guardai allo specchio. L’ombretto grigio accentuava i miei occhi verdi e con un po’ di matita aveva messo in risalto pure le labbra. Non mi sentivo molto a mio agio truccata, però, per qualche motivo, volevo essere perfetta quella sera.
«Mamma mi ha detto che viene il tuo professore di matematica?» mi chiese Elena mentre prendeva i suoi vestiti dall’armadio.
«Già, ma non è sicuro. Si è trasferito da poco ed era solo».  
«Bah».
Diedi un bacio a mia sorella per ringraziarla e uscii dalla mia stanza per andare ad aiutare mia madre ad apparecchiare la tavola. In cucina trovai mia sorella maggiore Sara con mio nipote Giulio in braccio.
«Tsia Lice» mi gridò il piccoletto cercando di scendere dalle braccia di mia sorella.
Diedi un bacio a Sara e presi Giulio tra le braccia.
«Andiamo a giocare?» chiesi contenta di poter far altro che stare a sistemare la tavola.
Sono sempre stata più portata per i lavori fai-da-te che per le faccende domestiche.
La sala dove avremmo passato la notte di Natale una volta era una stalla. Era enorme. Una serie di tavoli erano messi uno dopo l’altro, grandi lampadari illuminavano l’ambiente e il tutto era riscaldato da due caminetti. Un’altra serie di tavoli era nella stanza adiacente. La seconda sarebbe stata la stanza dove si sarebbero seduti i giovani, più per questione di spazio che per privacy. Mio zio Saro, seduto attorno al camino insieme ad altri miei zii, diceva che anche lui si sarebbe seduto nel tavolo dei giovani, perché era “un giovane di sessantasette anni”. I miei cugini più piccoli correvano lungo la stanza e alcune mie cugine più grandi erano sedute a spettegolare. Suonarono alla porta e mi precipitai ad aprire. Francesco.
«Wow! Stai male?» mi chiese non appena mi vide.
«Dovete stare meno insieme tu ed Elena, dite le stesse cose ormai» gli risposi mentre prendevo la sua giacca con il braccio libero.
«Giulio perché non vai a giocare con gli altri?» dissi posando il bambino per terra e vedendolo correre via.
«Stai bene veramente» mi disse Francesco.
«Grazie. Elena è quasi pronta, ha perso tempo per truccarmi»
«Eccomi!» disse una voce alle mie spalle, parli del diavolo.
Mi allontanai dai due piccioncini impegnati a baciarsi e ritornai nella sala grande. Cominciai a girare il cellulare tra le mani. Perché non mi ero fatta dare il suo numero? Dovevo aspettarlo? Suonarono alla porta e scattai per andarla ad aprire. Mia zia Anna con la sua numerosa famiglia mi salutò sorridendo, non li vedevo dallo scorso Natale.
«Caara!» mi disse mia zia abbracciandomi.
«Ma sei cresciuta tantissimo, non ti avrei riconosciuta se ti avessi incontrata per strada» continuò stampandomi un bacio sulla guancia. Salutai il resto della famiglia ed andai a sedermi nuovamente nella sala grande. Mia cugina Monica si venne a sedere accanto a me inondandomi del suo profumo.
«Allora ci farai conoscere il tuo fidanzato oggi?» Mi chiese facendomi sobbalzare.
«Io non ho un fidanzato!» risposi piccata.
Ogni anno la solita solfa, mai che si parlasse di film, sport o amiche, sempre e solo di fidanzati.
«Mia cara cugina, ti conosco troppo bene, sei agitata come se aspettassi qualcuno e sei troppo signorina» mi disse facendomi scoppiare a ridere.
Monica era mia cugina di terzo grado e tre anni più grande di me. Prima che lei si trasferisse per l’università uscivamo insieme.
Una sera, dopo la mia prima passeggiata sui tacchi, tornai a casa esausta dicendo: “quanto è duro essere una signorina” e da quel giorno Monica ed Elena utilizzavano la parola signorina quando mi vedevano vestita un po’ più femminile.
«È Natale» risposi io.
Monica mi sorrise e mi strinse la mano.
«Sono fiera di te» era orgogliosa come se le avessi detto di aver vinto un prestigioso premio. «Vedi che hai lo smalto tutto rovinato» continuò.
Io guardai le mie dita: aveva ragione, avevo dimenticato lo smalto rosso messo da Paola. Andai nella mia stanza e presi il flacone di acetone dalla mensola di Elena, poi, mentre cercavo il cotone, mi arrivò un sms.
 
Sono ancora in tempo per venire?
Edoardo
 
Con le dita che mi tremavano dall’emozione digitai
 
Certo che si! L’aspetto.
 
Memorizzai il numero e levai lo smalto in fretta e furia e andai nella sala grande alla ricerca di Monica. La sala si era riempita quasi tutta. Buona parte dei miei parenti era già seduta a tavola, ma non mi fu difficile trovare mia cugina. Era in compagnia di Roberto, il suo ragazzo, infilato in un completo gessato che lo faceva sembrare molto più grande della sua età.
«Sta per venire il mio professore di matematica a cena, mi raccomando non fare commenti» le dissi.
Monica mi guardò con aria stupita.  «Hai invitato il tuo professore? Ah, ho capito, sei di maturità, stai cercando di ingraziartelo…»
«No. no».
«Tranquilla, non faccio battute di matematica io» mi diede una pacca sulla spalla.
Non era quello il tipo di battute che intendevo io, ma non volli prolungare oltre la nostra conversazione. L’altra persona che poteva fare commenti inappropriati era mia sorella Elena. La trovai a conversare con mio cugino Ludovico.
«Elena, sta venendo il mio professore di matematica alla fine. Ti dico solo che non è il tipico professore che ci si aspetta di vedere». Lei mi guardò confusa ma non ebbi il tempo di scegliere parole migliori perché suonarono alla porta. Mio cugino Maurizio con moglie e figli mi riempirono di baci. Li lasciai passare e stavo per chiudere la porta quando vidi il prof. Teneva una bottiglia di liquore in una mano e un vassoio di dolci nell’altra.
«Ciao Alice».
«Salve. Sono contenta che sia venuto» appoggiò la sua guancia sulla mia, prima la destra e dopo la sinistra levandomi il fiato per alcuni secondi ed entrò a casa.
«Non doveva portare alcunché» gli dissi prendendo il vassoio e la bottiglia e posandoli momentaneamente sul mobile all’entrata.
Appesi il cappotto nell’appendino e vidi che stava con le mani in tasca e si guardava intorno.
«Ho i parenti molto discreti non fanno domande ai nuovi arrivati. Sanno che sono tanti e se ognuno si mette a fare domande farebbero scappare il nuovo arrivato per l’imbarazzo. Venga di là, le presento mia madre e poso il vassoio e la bottiglia in frigo».
Mia madre aveva levato il look di casalinga, indossava un vestito elegante di toulle e aveva lasciato che i boccoli le cadessero morbidi sulle spalle.
«Tesoro, non c’è più nulla da fare qui, tranquilla» mi disse non appena mi vide entrare, poi vidi che guardò oltre la mia spalla e fece una faccia stranita.
«Mamma, è venuto il professore Coco, te lo avevo detto».
Il professore levò le mani dalle tasche e ne porse una a mia madre. Era visibilmente imbarazzato.
«È un vero piacere conoscerla signora e vorrei ringraziarla di cuore per l’invito» mia madre era attonita e capii subito perché. Il prof indossava un gilet su una camicia a fantasia scozzese blu scura che teneva fuori dai pantaloni. Si era rasato, aveva tagliato un po’ i capelli lasciando intravedere ancora di più l’orecchino. Gli si davano al massimo ventitré anni.
«Piacere mio e si figuri, nessuno deve passare il Natale da solo. Non si doveva scomodare a portare qualcosa. Cara aspetta che ti aiuto a trovare spazio in frigo per il vassoio» mia madre mi si avvicinò mentre chiudevo le ante di un frigo e stavo per aprire le ante di un altro.
«Ma tesoro…è il tuo ragazzo e non sai come dircelo perché è più grandicello di te? Tranquilla, lo sai che tuo padre è più grande di me di otto anni» mi disse a bassa voce mentre cercava di recuperare un po’ di spazio da un ripiano.
«No mamma, è il professore di matematica e fisica».
«Ma è giovanissimo!»
Feci spallucce e mia madre, dopo aver posato il vassoio ritornò verso il professore.
«Avevamo messo la sua sedia nella stanza dei più grandi, forse preferisce che la sieda insieme ai giovani?»  
«Sì mamma, si mette accanto a Francesco» dissi e poi quasi istintivamente lo presi per un braccio e lo portai nell’altra stanza.
«Cavoli se è grande questa stanza, non scherzavi quando dicevi che eravate tanti, l’ho notato pure nella difficoltà a trovare parcheggio a dire il vero» io sorrisi e notai che mio zio Saro mi fece l’occhiolino mentre andavamo nell’altra stanza.
«Era una tenuta che apparteneva al principe delle zone. Mio bisnonno era uno dei suoi più fedeli servitori e comprò questo edificio per pochi soldi».
 
Dopo alcuni momenti un po’ di imbarazzo un po’ di stupore, il prof si sedette tra Francesco (che gli si deve riconoscere, è molto socievole) e alla mia sinistra (che ero ultra emozionata e speravo di riuscire a dire frasi sensate).
Alcune mie cugine più grandi portavano a tavola le cibarie e ci si serviva da soli. Sembrava più un pasto in un agriturismo che un cenone di Natale, ma eravamo in troppi per poter cucinare. Francesco parlò molto col prof e Monica, seduta accanto a me alla mia destra mi aveva sussurrato: «Hai capito il professore? Ma se sono così mi iscrivo di nuovo al liceo!» facendomi ridere.
Tra un’oliva, qualche fetta di formaggio e di speck, mia madre venne per assicurarsi che andasse tutto bene e mio padre per presentarsi.
Poi fu il turno di mio zio Saro. Arrivò tutto sorridendo e con le gote rosse dovute più al vino che al calore. Posò entrambe le mani sulle spalle del professore e disse sorridendo: «Benvenuto tra noi giovanotto».
Vidi il rossore espandersi sul volto del professore fino alla punta delle orecchie.
«Zio, lui è il mio professore di matematica e fisica» dissi prima che potessero esserci fraintendimenti.
Mio zio sbatté le palpebre più di una volta e levò le mani dalle spalle del prof.
«Ma come? Pensavo fosse…scusami…mi scusi».
Il professore, liberato dalla “morsa” di mio zio, si girò verso di lui e gli tese la mano.
«Edoardo Coco. Professore Edoardo Coco» disse.
«Sono Saro Mainardi, fratello del nonno di Alice. Mi scusi avevo frainteso…ad ogni modo, benvenuto tra noi comunque» aggiunse sorridendo.
«Posso chiedere un favore?» abbassò il volume della voce e si avvicinò a noi facendo sentire l’olezzo del vino.
«Fra poco è mezzanotte…in genere io mi vesto di Babbo Natale, ma ho visto che Stefano, che ormai ha undici anni, mi tiene d’occhio da tutta la sera. Penso che sospetti qualcosa. Avevo pensato, dato che tu…lei…è un volto nuovo, poteva travestirsi da Babbo Natale. Non ci vuole nulla…»
«Zio! Ma può farlo qualcun’ altro. Ci sono Roberto, Francesco…» lo interruppi.
«Tranquilla, posso farlo. È il minimo che possa fare per ringraziarvi» rispose il prof con mia meraviglia.
Inarcai le sopracciglia «Davvero?»
Il prof annuì. «Sì, che ci vorrà?»
 
Entrammo nella camera dei miei genitori che stava accanto al soggiorno, dove i regali erano stati già depositati sotto l’albero. Il prof sarebbe entrato con il sacco sulle spalle con qualche altro regalo dentro e non appena i bambini sarebbero arrivati per guardarlo, lui avrebbe depositato gli ultimi regali, li avrebbe salutati e sarebbe uscito fuori dal balcone.
Chiusi la porta e il cuore mi batté all’impazzata. Eravamo chiusi dentro una stanza matrimoniale io e lui solamente.
Alice, che stai pensando?
Presi il costume dall’armadio mentre lui si stava sbottonando il gilet.
Alice calma.
«Che bella tradizione che avete» disse forse per rompere un po’ il silenzio.
 «Sì, fino agli undici anni, poi si dice la verità su Babbo Natale, principalmente perché non si possono fare tutti quei regali, infatti solo fino a undici anni ricevi regali».
«Veramente? Allora io questo dove lo metto?» disse tirando fuori dalla tasca interna del gilet una scatolina incartata.
«Cosa è?» chiesi mentre sistemavo i peli della barba.
«Il regalo per te».
«Il regalo per me?» chiesi sorpresa «Ma che regalo? Mi ha comprato un regalo?»
Lui annuì e io sbattei le palpebre per un paio di secondi.
«Non doveva!»
«Ormai l’ho fatto. Sono sicuro che non ti piacerà…diciamo che sono andato più sulla praticità, non conoscendoti bene».
Mi porse il regalo.
«Vuoi aprirlo ora o aspetti che te lo porti Babbo Natale?»
Guardai la scatolina incartata con il cuore che mi batteva all’impazzata. Mi aveva comprato un regalo!
«Lo apro ora ovviamente» dissi prendendo forse un po’ troppo entusiasticamente la scatola dalle sue mani. «Io non le ho fatto alcun regalo però. Mi spiace».
«Come no? Avrei passato la notte di Natale a casa da solo, avrei mangiato una fettina di carne e alle dieci sarei andato a letto. Invece mi ritrovo a fare Babbo Natale». Sorrise levando il gilet e cominciando a sbottonarsi la camicia. Oddio si sarebbe spogliato? Sarei dovuta uscire dalla stanza, purtroppo. Con le mani tremanti, perché iniziavo a vedere la sua canottiera, aprii la scatola. Rimasi senza parole, per lo stupore.
«Wow…una calcolatrice scientifica. Grazie» dissi senza entusiasmo.
Che mi potevo aspettare che mi regalasse?
«Ho notato che non ce l’avevi, ti tornerà utile soprattutto se ti iscriverai a chimica»
Sorrisi. In fondo aveva avuto un pensiero carino. Poi posai la calcolatrice sul comò e presi la pancia finta.
«Si deve mettere questa, la devo aiutare. Per il resto si può vestire da solo».
«Per quest’anno avremo un Babbo Natale muscoloso» dissi per cercare di non pensare al fatto che si fosse levato la camicia ma avendo fatto forse ancora più danno.
Brava Alice. Adesso che avresti detto? Che trovavi Babbo Natale estremamente sexy? Che saresti voluta essere caricata come il sacco dei regali e poi buttata su di un letto?
Il prof scoppiò a ridere.
«Ma che muscoloso? Sono fuori forma, fra poco non ci sarebbe stato bisogno neppure della pancia finta» quanto era bella la sua risata. C’era una parte di lui non bella? Non credo.
 
La serata finì subito dopo l’arrivo di un bellissimo Babbo Natale. Ci scambiammo gli auguri, i bambini scartarono i regali e a poco a poco i miei parenti andarono via.
Toccò anche a lui andare via, purtroppo. Salutò Francesco ed Elena, i miei genitori, mio zio Saro e lo accompagnai alla porta.
«Grazie della bellissima serata» mi disse.
Chissà se lo diceva solo per cortesia.
«Grazie a lei per essere venuto e…per la calcolatrice…e per aver fatto Babbo Natale».
«Ci vediamo domani pomeriggio per le ripetizioni di matematica?»
«Uh?» le ripetizioni? Ah…sì.
«Sì, certo, a che ora vengo?»
«Cinque?»
«A domani allora».
Si avvicinò e mi diede un bacio sulla guancia.  «A domani» e andò via, lasciandomi sulla soglia di casa con il cuore che rischiava di uscire dalla gabbia toracica.
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3- Buon anno ***


«Dunque qua ci sono le regole per risolvere i logaritmi» si mise seduto accanto a me e mi poggiò davanti un foglietto ordinato pieno di numeri e simboli.
«Non c’è molto da ragionare è brutto da dire ma devi fare tanti esercizi fino a quando non impari a risolverli meccanicamente».
Quando avevo detto ai miei delle ripetizioni rimasero un po’ sorpresi. Ovviamente anche loro non potevano sapere che nei compiti avevo sempre copiato. Ma dato che l’istruzione è una cosa importante, alla fine riuscii a convincerli.
L’unica che non se la bevve fu mia sorella Elena. «Ti piace il tuo professore di matematica» Sentenziò mentre mi andavo vestendo.
«No!» Esclamai forse con troppa enfasi senza neppure guardarla in faccia. «Tu non me la dai a bere ragazzina. E poi come darti torto? Non è messo per niente male».
Le lanciai una maglia. «Vedi che lo dico a Francesco» dissi ridendo.
«Ha-ha ti ho beccato, non hai negato. Ad Alice piace Edoardo ad Alice piace Edoardo» si mise a canticchiare come una bambina. «Senti, non ti mettere nei guai e non mettere nei guai neppure lui. È il tuo professore!» disse ad un tratto tornando seria.
 
Ora ero lì, nel suo studio, accanto a lui, dovevo mantenere la calma. Dovevo studiare matematica. Dovevo applicarmi. Sentivo la sua voce spiegare qualcosa. Era a pochi centimetri da me. Il suo ginocchio appoggiato al mio. Sentivo il suo respiro, il suo odore. Immaginai che mi prendesse il lobo dell’orecchio tra i denti, mi percorresse il contorno di esso con la lingua.
«Alice ci sei?» venni come svegliata da un sogno.
«Sì» mentii.
Il prof mi guardò dubbioso. «Vuoi che facciamo una pausa? Tanto questa lezione non è neppure a pagamento e poi in genere non mi faccio pagare ad ore…» Annuii senza neppure fargli completare la frase e il prof si alzò. «Tea time!» esclamò scomparendo nell’altra stanza.
«È sicuro di non avere parenti inglesi?» chiesi divertita.
«Sì. Vengo solo da una città dove fa tanto freddo e mi son abituato a prendere il tè per riscaldarmi. Gusto?»
«Posso provare al gelsomino?»
«Certo!».
Mi alzai e andai verso di lui. La cucina era tutta in ordine. I piatti lavati da poco messi a colare, non una pezza per asciugare le mani fuori posto. Come il resto della casa era in stile moderno, i mobili in nero e acciaio.
«Vuole una mano?» chiesi sperando di non essere stata troppo invadente. Il prof stava mettendo il bollitore sul fuoco. «No, tranquilla» mi rispose mentre prendeva dall’armadio due tazze e le posava sul piano cottura.
«Io comunque questa lezione la pago» dissi.
Lui mi guardò stupito. «Scherzi? A parte che non so neppure quanto dovrei prendermi e poi è il minimo che possa fare. Mi hai fatto passare un Natale divertente e in compagnia. E mi stai tenendo compagnia questi due giorni prima di andar via».
«Ma lei non ha amici?» sperai di non esser stata troppo curiosa.
«No, qui no» prese l’infuso «Ancora non mi sono ambientato. Le uniche persone che conosco sono in ambito scolastico e il professore più giovane che conosco è Antonello che avrà cinquantacinque anni».
Feci mente locale e ricondussi il nome al professore Lombardi.
«Ma può uscire con qualche alunno. Non ha preso tutte le classi della Salanicco?»
«No, ho la vostra, un’altra quinta e una terza. Quelli della terza son troppo piccoli…potrei provare con qualcuno del quinto, ma posso uscire con i miei alunni? Non potrebbero pensare poi che faccia dei favoritismi?»
«Basta che lei non li faccia veramente».
Il bollitore fischiò e il prof spense la fiamma. Mise l’acqua dentro una teiera e calò dentro il filtro con il tè. L’aria si riempì di profumo al gelsomino.
«Non so, credo che mi iscriverò in palestra, magari conoscerò qualcuno». Sorrisi. Sì, magari avremmo avuto gli stessi orari e avremmo fatto palestra assieme. I suoi muscoli contratti dal peso, il sudore che gli scivolava lungo le tempie, la maglietta che si sollevava lasciando intravedere la peluria sopra l’elastico dei pantaloni.
«Vuoi dello zucchero?»
Dovevo assolutamente smetterla, altrimenti sarebbero state inutili quelle ripetizioni di matematica.
«Un cucchiaino e mezzo, grazie».
Notai che, come la volta precedente, non mise zucchero nel suo tè.
Da un altro armadietto tirò fuori un pacco di biscotti al cioccolato. «Biscotti?»
Ne presi uno e vidi che mi osservò mentre davo un morso.
«Sto andando troppo velocemente con le spiegazioni?»
Feci di no con la testa, non volevo parlare per evitare di sputare pezzettini di biscotto.
«Dimmelo. Sei ultra autorizzata a farmi domande e a fermarmi quando non capisci qualcosa».
Annuii.
«In genere dove si esce qui?»
Ingoiai.
«Si va al “Punto d’incontro”, che fantasia che hanno avuto a dargli questo nome eh? È in piazza Vittorio Emanuele, è carino, mettono musica bella, ci sono tavoli per la carambola, biliardino…si riesce a passare una serata carina».
Bevvi un sorso del mio tè.
«Che musica ascolti?»
«Non ho un genere in particolare a dire il vero ascolto di tutto. In questo momento sul mio mp3 si può trovare Lana del Rey, i Sistem of a down, Tchaikovsky, i Linkin park e gli Scissor Sisters. Lei?»
«Non lo conosci sicuramente. Mi piace Amos Lee, trovo che riesca ad unire perfettamente tanti tipi di musica. È folk, soul, blues. Non ascolto solo lui ovviamente. Lo conosci?»
Dissentii.
«Lo immaginavo…penso che dal tipo di musica che si ascolta si può intuire molto sul carattere della persona».
«Sì? E io come sarei?»
Lui fece la faccia pensierosa per scherzare. «Uhm…direi interessante».
«Sì, sì certo. Io invece devo dedurre che lei è una persona sconosciuta?» Sorrise. «Sconosciuta? Direi che sono una persona…misteriosa» disse riducendo gli occhi a fessura e facendo una faccia buffa.
Mi misi a ridere. Poi ripresi a bere il mio tè.
Accanto al frigorifero c’era appeso un orologio, al posto dei numeri c’era scritta una funzione matematica. «Me lo hanno regalato i miei amici prima di venire qui. Vado pazzo per tutto questo genere di cose» mi disse quando vide che stavo osservando l’oggetto.
«Se la disposizione dei numeri non fosse sempre uguale io non ci capirei nulla. Così posso provare a risolvere solo perché so già il risultato» dissi.
«Imparerai anche a risolvere quelle funzioni, promesso».
Ci furono alcuni minuti di silenzio mentre, appoggiati al piano cottura, bevevamo il nostro tè. Mi sentivo bene. Mi dava una certa sensazione di intimità.
«Riprendiamo?» mi chiese ad un certo punto.
«Certo» dissi quasi malvolentieri.
Posammo le tazze dentro il lavello e tornammo in soggiorno. Fortunatamente, stavolta, riuscii a concentrarmi.
 
***
 
Per la notte del 31 avevamo preso in affitto un villino fuori paese, un dj e avevamo comprato cibo d’asporto con un servizio di catering.
Mi passò a prendere Paola. Per non destare sospetti sul mio improvviso cambiamento di vestiario natalizio, mi feci prestare un vestito elegante da mia sorella, indossai un paio di stivali con il tacco grosso e misi un filo di eyeliner e mascara.
Il villino era non troppo distante da casa mia. Era una sala grande con i tavoli, sui quali qualcuno aveva già disposto il cibo, messi addossati alle pareti. Il dj non era ancora arrivato e della musica commerciale riempiva la stanza.
«Ooooh ti sto vedendo le ginocchia, come mai così audace?» mi disse Silvia venendomi incontro e dando un bacio a me e a Paola. Dal canto suo lei indossava un vestito microscopico che riusciva a coprirle a malapena l’indispensabile. Non sentiva freddo?
«Devo trovare un ragazzo carino…sapete…chi passa bene il primo dell’anno lo passa bene tutto l’anno» ci fece l’occhiolino e io mi buttai sul buffet. Stavo per prendere una chela di granchio e si avvicinò Veronica che aveva il piatto pieno. Era una buona forchetta.
«Le adoro…» mi disse. Poi baciò me e Paola.
Paola stette a guardare il buffet.
Sapevo che era a dieta «Ma non puoi essere a dieta anche il trentuno Dicembre!» esclamai vedendo il suo sguardo voglioso sull’insalata di mare.
«È che…ho paura di lasciarmi andare troppo».
«Poi ti cerchi un ragazzo carino e smaltisci tutte le calorie…speriamo che il dj sia disponibile, non mi piace nessuno finora» disse Silvia guardandosi intorno.
Paola sorrise.
Sicuramente aveva più esperienza di me in fatto di ragazzi, ma non era il tipo di una sola sera. Si aggiunsero al nostro gruppo pure altre compagne di classe, arrivò il dj e noi andammo al centro pista per ballare.
«Carlo ti sta puntando» mi sussurrò all’orecchio Paola ad un certo punto. «Chi?» Non mi sembrava di conoscere alcun Carlo.
Lei mi fece cenno con la testa verso un ragazzo dai capelli ricci e gli occhi azzurri che mi stava guardando. Quando mi vide guardarlo mi sorrise e io mi girai imbarazzata verso Paola.
«È cariiino» mi disse cantilenando lei dandomi una pacca sulla spalla e io mi diressi nuovamente verso il buffet.
Mi versai da bere.
«Che succede?» Paola mi aveva raggiunta.
«Nulla…è che non sono abituata ad avere le attenzioni di un ragazzo così carino».
«Ora torni in pista però…anche perché così va a finire che mi fai venir fame».
«E mangia allora!»
«No» mi strappò il bicchiere dalle mani, lo lanciò nella spazzatura e prendendomi per un braccio mi riportò in pista.
Deglutii e mi lasciai trasportare dalla musica. Dopo un paio di giri su me stessa misero un lento. Paola parlava da tutta la sera con un ragazzo e gli buttò le mani al collo. Feci per andare di nuovo verso il buffet quando un paio di occhi azzurri incrociò il mio sguardo.
«Balli?» mi chiese il ragazzo che doveva chiamarsi Carlo. Un po’ titubante annuii e lui mi poggiò delicatamente le mani sui fianchi.
Mi si ammollarono le gambe. Era uno dei contatti più intimi che avessi mai avuto con un ragazzo, togliendo i miei cugini.
«Mi chiamo Carlo» mi disse il ragazzo ad un certo punto.
«Alice».
«Lo so» mi disse sorridendo e guardandomi negli occhi.
«Sei in quinta D giusto?» mi chiese.
Annuii.
Mi fece qualche altra domanda alla quale risposi più che altro in monosillabi. Mi sentivo imbarazzata e ballammo per un po’ fin quando il dj non fece il countdown.
 
10…9…8…7…6…5…4…3…2…1…Buon anno!
 
Tra tappi di spumante che volavano e abbracci ricchi di auguri, recuperai il cellulare dalla borsa. Nonostante il sovraccarico della rete riuscii a chiamare a mia madre e alle mie sorelle. Mentre parlavo sentivo i vari sms che mi arrivavano e non appena staccai l’ultima chiamata feci per posare il cellulare. Li avrei guardati dopo, con calma, e avrei risposto a tutti. Un nome. Prof. Coco. Spuntò sullo schermo e il mio cuore sobbalzò. Aprii il messaggio e scoppiai a ridere.
 
Auguri per un felice log24  log1 log22 log28
Se sei riuscita a capire l’anno ho fatto un buon lavoro : )
Mi consideri un matematico pazzo?
Buon anno Alice.
 
Forse un po’ pazzo lo era veramente ma chi se ne importava? Mi importava che mi aveva mandato un sms con gli auguri. Non un sms standard, non uno che ha inoltrato a chissà quanti riceventi. Aveva scritto un sms solo per me, mi aveva pensato. Che fantastico fine dell’anno.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4- Merendina ***


Era l’Epifania e dovevamo festeggiare l’ultimo giorno di vacanza andando al “Punto d’incontro”.
«Vuoi venire pure tu?» chiesi a mia sorella stesa sul letto a chattare con Francesco.
Elena mi guardò. «Che esco con delle liceali?» rise, sapevo che stava scherzando perché usciva spesso con me.
«Fra mezz’ora passa Paola, sei ancora in tempo» dissi.
 «No, sul serio, preferisco stare a chattare con Francesco, mi manca già». Francesco stava facendo la specialistica a più di mille kilometri di distanza ed era partito l’indomani di Capodanno. Non potevo non compatire mia sorella.
«Ti serve per distrarti» dissi.
«Grazie gioia, tranquilla, esci con le tue amiche».
Paola arrivò puntuale. I ricci perfettamente sistemati e gli occhi nocciola contornati dalla matita. Indossava un vestitino non troppo coperto e un paio di ballerine solo per guidare.
«Sempre pantaloni tu eh?»
«Sono più comoda».  
«Ma sembrava che a Capodanno avessi cambiato».
Feci spallucce e salii in macchina.
Gli altri erano già là. Luana flirtava con un ragazzo di nome Giancarlo e Silvia era alla ricerca di qualcuno da conquistare.
Il “Punto d’incontro” era un locale rustico, le pareti tappezzate di bandiere da tutto il mondo, i divanetti di pelle finta addossati alle pareti, una sala dove ballare e una piena di slot machines, biliardini e carambole. La sala dove si ballava era ancora un po’ vuota nonostante la musica invitante e così prendemmo posto nei divanetti.
Arrivò il cameriere sfoggiando un sorriso trentadue denti e chiedendo che cosa volessimo ordinare.
«Un’acqua tonica» dissi.
«Un gin tonic voleva dire. Per me invece una coca light» disse Paola quasi non facendomi finire l’ordinazione.
Stavo per ribattere quando lei mi fulminò con lo sguardo.
«Tesoro, già non posso bere io che devo guidare, almeno bevi tu».
Anche se il discorso non aveva molto senso, avendo lei preso la macchina esclusivamente per darmi il passaggio, non volli ribattere. E gin tonic sia.
Mentre aspettavamo che il cameriere tornasse, sentii una gomitata sul braccio.
Paola si avvicinò al mio orecchio e mi sussurrò: «C’è lui, c’è lui».
Io rizzai le orecchie e guardai a destra e a sinistra, ma del prof nessuna traccia.
«Dov’è?» le chiesi alla fine.
«Lì, vicino al bancone».
Guardai nella direzione indicata e notai che, ovviamente, stavamo parlando di due “lui” diversi. Carlo stava prendendo il vassoio con le nostre consumazioni e venne verso di noi.
«Ho già pensato io a saldare il conto» disse posando il vassoio sul tavolo e sentendosi dire grazie da parte di tutti.
Poi stampò un bacio sulle guance a tutti e si venne a sedere accanto a me. Quasi con nonchalance stese un braccio sul divano fino a farmi arrivare la mano sulla spalla.
«Ciao bellezza» mi disse sorridendomi.
«Mi chiamo Alice» risposi forse un po’ troppo acida.
Presi il mio gin tonic e lo buttai giù incendiandomi la gola. Non ero abituata a bere.
Un paio di drink dopo ero in pista a ballare. Con Paola però, non volevo alcun maschio quella sera.
Finii di girare su me stessa e Paola mi disse: «C’è Coco», fece cenno con la testa verso di lui. Aveva le mani in tasca e si guardava intorno. Quasi come quando venne da me a Natale.
Silvia corse verso di lui e gli stampò un bacio per guancia. Beata lei e la sua sfacciataggine.
Noi lo salutammo alzando il palmo della mano e dicendo: «Sera prof!» e lui ci dedicò uno dei suoi sorrisi stupendi. Subito dopo arrivarono i ragazzi della quinta A, lo invitarono a giocare a carambola e lui scomparve nell’altra stanza.
«Almeno è giovane e si comporta pure da giovane» disse Paola «La Salanicco tutto sommato aveva solo qualche anno più di lui, ma l’avrò vista sporadicamente fuori dalle mura scolastiche e solamente al supermercato o alla posta» continuò «Ad ogni modo mia cara, domani abbiamo lezione e tu mi sembra che abbia bevuto qualche bicchiere di troppo. È meglio che torniamo a casa».
Annuii e andammo a prendere i cappotti. Mentre salutavo gli altri notai i ragazzi della quinta A e il professore ritornare nella saletta dove eravamo noi. Sembrava allegro. Non volevo andare via, volevo stare a guardarlo. Paola mi diede uno scossone e mi porse il cappotto. Salutammo tutti e andammo via.
 
***
 
Un raggio di sole entrò dalla tapparella e mi colpii il viso. Mi svegliai. Odiavo la luce quando dovevo dormire. Ma in genere non c’era luce. Mi girai verso la sveglia e di colpo mi misi a sedere. Cazzo! Perché non mi avevano svegliato? Ero in ritardassimo, ormai avevo perso pure il bus. Mi alzai dal letto e mi vestii velocemente con i primi vestiti a portata di mano. Sperai di azzeccare una combinazione di colori decente. Mentre uscivo dalla mia stanza per andare a lavarmi la faccia mandai un sms a Paola avvisandola che sarei arrivata, non sapevo ancora come, in ritardo a scuola. Casa mia era deserta e ricordai che era metà Marzo, Elena era tornata all’università e i miei erano andati a trovare alcuni miei cugini. Perfetto e adesso? Dovevo pure scrivermi una giustificazione falsa per l’entrata in ritardo. Mannaggia a mio padre e alla sua voglia di abitare in campagna. Il prossimo autobus sarebbe fra un’ora e mezza, mi sarei persa il compito di matematica. Uscii e mi diressi verso il garage alla ricerca della bicicletta. Non la usavo da secoli e la trovai con entrambe le ruote scoppie e super impolverata. La portai fuori dal garage e andai in cerca di una pompa per gonfiare le ruote quando sentii un clacson. Mi girai verso il suono e vidi la KA blu davanti al cancello. Premetti il bottone per farlo aprire e guardai la macchina scendere verso di me. Lui aprì la portiera dal lato del passeggero e mi guardò.
«Hai cinque minuti per andare a prendere lo zaino e qualsiasi altra cosa e tornare».
E non ne persi neppure uno.
Salii in macchina con il fiatone mentre il prof faceva retromarcia e dopo aspettò che io chiudessi il cancello non appena fosse uscito.
«Volevi saltare il compito in classe?» mi chiese sorridendo.
Io misi la cintura di sicurezza.
«La ringrazio infinitamente» risposi con il fiatone.
«Volevo solo vedere se le ripetizioni son servite a qualcosa». Sorrise di nuovo.
«La prima ora avete supplenza, ero entrato per chiedere al prof se mi lasciava la classe mezz’ora prima così avevate più tempo per il compito e Paola ha detto che avevi perso il bus. Non ti ho fatto mettere l’assenza». Tirai un sospiro di sollievo. Odiavo avere ancora diciassette anni. I miei compagni si scrivevano tranquillamente le giustificazioni delle assenze o per entrare e uscire da scuola al di fuori degli orari previsti mentre io dovevo ancora chiedere il permesso ai miei genitori.
«La ultra ringrazio infinitamente».
«Per ringraziarmi come si deve devi rendermi orgoglioso. Fammi un buon compito senza copiare da Paola ok?» mi guardò serio «Ovviamente non ti sto mettendo pressione intendiamoci».
Mentre cambiava la marcia mi sfiorò il ginocchio con la mano. Avvampai. Spostai istintivamente le gambe mentre sentivo che mi chiedeva scusa. Il cuore mi batteva fortissimo. Volevo un altro contatto. Avrei voluto che non mi sfiorasse appena ma che mi posasse la mano sul ginocchio per poi magari…ma che stavo pensando?
Entrai in classe chiedendo scusa al prof Lombardi per il ritardo e ringraziandolo per non avermi messo l’assenza. Lui stava leggendo il giornale, lo abbassò, mi sorrise, mi invitò a prendere posto e tornò a leggere il giornale. Le mie compagne stavano discutendo di gossip sui ragazzi della scuola.
«Avrò dimenticato di puntare la sveglia o forse avevo troppo sonno e non l’ho sentita. Grazie per averlo detto al prof» dissi a Paola.
Si aprì la porta ed entrò il prof Coco con una merendina delle macchinette in mano che venne a posare sul mio banco. «Hai detto che non avevi fatto colazione e non voglio un calo di zuccheri durante lo svolgimento di qualche funzione».
«Grazie, gentilissimo, quanto le devo?» Feci per prendere il portafoglio mentre ero ancora un po’ scombussolata e vidi lo sguardo del prof che mi fulminava.
«Ti ho comprato una merendina mica ti ho portato a cena fuori! Posa quel portafoglio. A dopo ragazzi» uscì dalla classe salutando con la mano mentre guardavamo il suo fondoschiena.
Era possibile che mi fossi innamorata?

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Capitolo 6
*** Capitolo 5- Diciassette...fortunato? ***


A metà Aprile ci fu la gita in Inghilterra che iniziò proprio male. Alloggiavamo a Brighton, dopo una giornata in giro per la città e la visita al “Royal Pavilion”, eravamo tutte in camera nostra a “farci belle” per andare in discoteca.
Mia sorella mi aveva prestato qualche vestitino elegante e Paola pensò a truccarmi. Tutte piene di brillantini, paillettes e tacchi alti, ci ritrovammo, noi e i ragazzi di altre quattro classi, nella hall.
Il nostro accompagnatore era il professore Lombardi, ma Coco era tra gli accompagnatori di un’altra classe e quando scesi era già lì che faceva l’appello. Poteva essere tranquillamente scambiato per qualche alunno ripetente. << Stasera mi voglio fare un ballo appiccicata a Coco >> sussurrò Silvia provocando alcuni risolini. Il professore Lombardi fece l’appello e quando fummo tutti uscimmo dall’hotel facendo caciara.
Non so cosa ci fosse di così interessante nell’andare in discoteca. Cosa poteva offrire un locale inglese rispetto ad uno italiano?
Una cosa la scoprii: non potevo entrare.
<< Ma faccio diciotto anni tra meno di un mese! >> esclamai arrabbiata a Paola. Non ero abbastanza concentrata da poter parlare in inglese con quel pignolo di buttafuori e mi allontanai un poco perché avevo voglia di piangere e prendere a pugni quell’ammasso di muscoli. Il professore Lombardi si avvicinò << Che succede? >> mi chiese << Non ho diciotto anni e non posso entrare. Paola sta provando a spiegare che in meno di un mese divento maggiorenne ma a quanto vedo non sembra molto convincente >> il prof parve preoccupato << Mi spiace…io non so parlare l’inglese, potete spiegargli che me ne assumo la responsabilità. >> Il professore Coco si avvicinò al buttafuori. Vidi che parlò con Paola e poi con l’uomo, subito dopo venne verso di me. << Alice, vuol dire che ci faremo una passeggiata, mi spiace >> << Come? >> << Non ne vuole sapere di farti entrare, dice che rischia il lavoro perché per legge tu non puoi bere alcolici e non puoi entrare in un locale dove li servono >>        << Ma.Sono.Tre settimane >> dissi sconsolata. Lui fece spallucce           << Dovevi procurarti una carta di identità falsa >> sorrise << Dai, su con il morale, è un ballo in discoteca…ci facciamo una passeggiata io, te e vedi chi vuol venire. Non più di dieci per cortesia >>. Rimasi attonita. L’idea della discoteca all’inizio non mi allettava più di tanto, ma adesso che mi era stata proibita l’entrata, mi dispiaceva molto non poterci andare. Andai verso Paola << Grazie per tutto. Mi faccio una passeggiata >> le dissi abbracciandola << Vengo con te >> mi disse << Non c’è bisogno, divertiti, ci sarà qualche altro sfigato che non ha compiuto diciotto anni tra tutti questi alunni no? >>
No. E fu un bene perché rimanemmo io e il professore. Soli.
<< Ti va di andare in spiaggia? >> Annuii e ci dirigemmo verso la suddetta.
Levai le scarpe per camminare meglio. Il mio equilibrio era piuttosto instabile sui tacchi e i sassolini sulla spiaggia rendevano impossibile camminare con essi.
<< Chi doveva dire che la primina mi dovesse recare più svantaggi che vantaggi? >> dissi sbuffando << Quale sarebbe lo svantaggio? Andare in discoteca qualche mese dopo? Naaa…io non sono per niente pentito di aver fatto la primina, mi ha fatto recuperare un anno >> mi disse. Lo guardai << Ha fatto la primina pure lei? >> << Già. E come vedi mi ritrovo ad essere tra i professori più giovani. Certo non dipende solo da questo, però ho un anno in meno di quanto avrei dovuto averne >>          << Fatto sta che per qualche settimana io non sono potuta andare a ballare>>
<< Sarà che sei un po’ troppo vestita per i loro gusti >> lo disse scherzando accennando alla mia gonna che era quattro centimetri più alta del ginocchio e non due centimetri più bassa dal fondoschiena come quelle delle mie compagne. Mi sentii imbarazzata. << Vedi che è un complimento. Sei vestita in maniera perfetta. Non troppo scoperta da non lasciare spazio all’immaginazione, non troppo coperta da dover immaginare troppo e quindi lasciar perdere. >> Lo guardai innalzando un sopracciglio. << Che c’è? Sono un uomo anch’io, che ti aspettassi che mi passassero davanti le ragazze mezze nude e non le guardassi? L’unica cosa che non posso fare e toccarle, ma per il resto… >> si strinse nelle spalle e io sorrisi <<  Ma sei silenziosa! Ehi io non sono andato in discoteca e mi devo fare una passeggiata a parlare da solo? Così non va! >> mi diede un colpetto sulla spalla << Scusi se non è potuto andare a ballare >> << Ma vedi che stavo scherzando, sono più che contento di non essere finito lì dentro. Ci sono certe tue compagne che mi fanno paura, secondo me in questo momento stanno pomiciando spudoratamente e mi sarebbe toccato di fare il babysitter. Meglio una tranquilla passeggiata >> << Non capisco come i diciassettenni inglesi non abbiano fatto una rivolta. Che età sfigata. Gli sconti “giovane” sono fino ai sedici anni e puoi entrare nei locali solo se hai almeno diciotto anni. E i diciassettenni? Sfigati. >> << Suddai… >> teneva le mani in tasca, quasi fosse imbarazzato. Io guardavo verso il mare quando qualcosa mi punse l’alluce, poi sentii dolore. << Ahi! >> dissi sollevando il piede e appoggiandomi automaticamente alla sua spalla.     << Che succede? >> mi chiese preoccupato. << Qualcosa mi ha punto nell’alluce. >>
<< Sediamoci…aspetta >> levò la giacca e la mise per terra << Siediti qua, hai un vestito bellino evitiamo di sporcarlo >> sorrisi e mormorai un “grazie” mentre mi sedevo sulla sua giacca. Lui si sedette accanto a me, tirò fuori dalla tasca il cellulare e fece luce sul mio piede con il flash. I collant erano strappati e da un minuscolo taglio nell’alluce uscivano alcune gocce di sangue. << La ferita non è un granché, bisognerebbe vedere se è rimasta dentro la carne la causa del taglio…che ne so una conchiglia >> mi guardai il piede con i collant. Per poterlo fare dovevo levarli e mi sentivo profondamente imbarazzata. << Dovresti levare le calze. Mi volto >> affermò dandomi immediatamente le spalle. Mi sollevai un poco da terra per far scorrere i collant e li sfilai velocemente. Un soffio di vento mi fece rabbrividire. O era la sensazione di essere seminuda accanto a lui che mi aveva provocato i brividi lungo la schiena?
<< Fatto >> dissi quasi in un sussurro. Il prof si girò e puntò nuovamente il flash verso il mio piede. Prima però notai che si soffermò un attimo a guardarmi le gambe con un leggero sorriso. Ripensai che mi aveva detto che anche lui era un uomo e il mio cuore perse un battito.
Mi prese il piede tra le mani e scrutò l’alluce mentre io tiravo fuori dalla borsa i fazzoletti e i cerotti (dovevo ricordarmi di ringraziare Paola che mi aveva convinto a portarli per eventuali bolle dovute ai tacchi). << No, non hai alcunché. >> L’imbarazzo mi stava sciogliendo. Aprii un fazzoletto e mi pulii l’alluce. << Grazie >> dissi mentre scartavo il cerotto << Vuoi una mano? >> << No, grazie, faccio da sola >> << Ok >> si distese sulla schiena a guardare il cielo e io finii la medicazione. Poi, incerta, mi distesi sulla schiena pure io, accanto a lui. Aveva aperto nel cellulare un’applicazione per guardare le stelle. << Quello è il Grande Carro >> mi indicò la costellazione << Si, siamo tutti fighi con il cellulare che ce lo dice >> si girò verso di me divertito << Ehi, io stavo cercando qualcosa da fare per non farti camminare. Anche se poi dobbiamo arrivare in hotel, mi toccherà portarti in braccio? >> rise. Per un attimo pensai che mi dispiaceva che non mi fossi ferita di più e potevo camminare da sola, poi mi resi conto del pensiero stupido. << E quella è la costellazione della Vergine. Io sono Vergine >> << Io Toro >>. Mi sentii in una scena Io Tarzan tu Jane e scoppiai a ridere. Mi avvicinai a lui, per poter guardare meglio lo schermo del suo cellulare. << Sirio >> dissi prima guardando il cielo e poi verso lo schermo << Ho indovinato. Geografia astronomica è servita a qualcosa. Ha qualche altra app? >> Mi guardò un po’ deluso     << Non ti piace? Mi sembrava appropriata per questa serata. Io te e le stelle >>. Forse era per questo che non mi piaceva, forse era un po’ troppo romantica come cosa. Toccai a caso lo schermo del cellulare e vidi qualche altra applicazione. << Applicazione per fare i grafici di funzioni, tabelle di conversione, che cellulare divertente che ha! >> dissi ridendo. << Ne ho di applicazioni carine, ma è meglio che tu non le veda. Non vorrei rovinarmi la reputazione. Sono pur sempre il tuo professore. >> La frase mi stuzzicò a tal punto che premetti nuovamente a caso lo schermo e si aprì una foto. Era un bambino sui sei anni, imbronciato. << Ma è lei! >> esclamai << Si. E qui finisce la visita nel mio cellulare >> impostò il salvaschermo e mise il cellulare in tasca. Non capii se fosse seccato o meno << Mi scusi >> dissi. << E di che? >> mi sorrise. Chissà se sapeva che quel suo sorriso bastava a farmi accelerare il battito cardiaco. Mi strofinai un occhio con la mano e qualche secondo dopo mi accorsi di avere le dita sporche di trucco. << Uffi. Ecco perché non mi trucco mai, poi lo dimentico e mi sporco. Sembro un panda vero? >>. Il prof rise. << Più un procione a dire il vero…ehi stavo scherzando >> aggiunse quando vide che mi imbarazzai. << Perché ti sei truccata? Secondo me sei bellissima pure senza trucco…per esempio questo rossore improvviso ti dona molto >> mi venne spontaneo dargli una pacca sul braccio. Sapeva che mi imbarazzava, perché faceva così? Aspetta un attimo… mi aveva detto che mi trovava bellissima?
Tornò a guardare le stelle << All’università sono stato fidanzato per tre anni con una ragazza che si truccava sempre. Se ti dico sempre intendo sempre. Anche quando dormivamo assieme, si coricava truccata. Un trucco leggero ma comunque sempre gli occhi contornati dalla matita e quella roba per coprire le imperfezioni >> neppure io sul momento ricordavo che si chiamasse correttore. Mi stava raccontando qualcosa di personale e mi faceva sentire importante. Mi misi del tutto girata verso di lui con la spalla che mi urlava dal dolore a causa delle pietre. Ma volevo stare a guardarlo. << Glielo dicevo che non c’era bisogno che si truccasse con me. Io stavo con lei perché mi piaceva non solo fisicamente. Ma niente. Sempre a truccarsi. >> sospirò sempre rivolto verso le stelle << Sai quando fu la prima volta che la vidi senza trucco? Quando la trovai a letto con un mio collega >> rimasi sorpresa << Mi-mi dispiace >> << Ma la cosa più strana è che non pensai sul momento che era a letto con un altro, ma che fosse senza trucco. Che era la prima volta che la vedevo senza trucco. Ma soprattutto che con quello stronzo con cui era a letto si mostrava com’era naturalmente mentre con me mai. >> Non sapevo che dire, si era appena sfogato e io che dovevo fare? Come si voleva poter tradire una persona così gentile, simpatica e sexy? Si girò verso di me prima che pensassi qualcosa di appropriato da dire. << Su, leviamo questo trucco di troppo altrimenti le persone penseranno o che ti abbia fatto piangere o che ti abbia fatto un occhio nero. Poi torniamo in hotel. >> Si avvicinò lentamente e, senza malizia, poggiò il pollice sotto il mio occhio e lo strofinò. Era come se tantissime formichine mi ballassero lungo il corpo. Rimasi senza fiato. Fu veramente difficile resistere alla tentazione di avvicinarmi e baciarlo. << Ecco fatto >> disse ritirando la mano, poi si alzò si pulì i pantaloni con le mani e me ne porse una per aiutarmi ad alzare. << Grazie per la giacca, grazie per l’aiuto, grazie per il trucco >> << Grazie a te per la chiacchierata. Mi piace parlare con te, sei una delle poche persone che posso considerare amiche. >>
Ebbi come la sensazione di ricevere un pugno allo stomaco. Amiche. Beh? Che mi dovevo aspettare che mi considerasse altro? Era sempre meglio che essere considerata una semplice alunna no?
Poi, appoggiata al suo braccio -dovevo approfittarne della situazione alluce ferito e del fatto che le scarpe senza collant fossero scomode no?-tornammo in hotel.
 
 
Note dell’autrice
Volevo innanzitutto ringraziare tutte quelle che mi hanno messa tra le preferite/seguite… grazie! : )
E volevo ringraziare anche chi mi ha scritto nella posta privata.
Mi incoraggiate tanto a scrivere e ve ne sono grata.
Poi volevo scusarmi per la scelta penosa dei titoli e per la grafica, ci sto lavorando.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto.
Alla prossima : )

 
 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6- Apnea ***


Londra, una delle città più grandi del mondo. Ricca di attrazioni turistiche, negozi, musei. Quel giorno c’erano circa centoventi italiani più interessati a girare i negozi che andare al British Museum. Ma si sa, la gita è gita e ci ritrovammo tutti al museo.
«Che noia, non me ne frega nulla della Stele di Rosetta» sbuffò Silvia guardando verso la suddetta.
«Siamo a Londra e non facciamo shopping, che assurdità» aggiunse Veronica, come se si andasse a Londra solo per i negozi.
Io guardavo annoiata le “pietre” esposte, l’unica che sembrava interessata era Paola.
«Dall’una alle quattro siamo libere, secondo voi fanno orario continuato qui i negozi?» chiese Silvia.
«Certo che fanno orario continuato, mica siamo al paese!» sbottò Paola. «Perfetto, allora ho scaricato una lista di negozi dove poter andare» Silvia batté le mani facendo girare verso di noi alcune persone.
Scoppiammo a ridere. Avanzammo tra i sarcofagi e i vasi guardando l’orologio. Ancora due ore all’una.
«Ho trovato qualcosa di ancora più inutile e noioso della matematica. I musei archeologici…perché quello al Victoria&Albert sui vestiti potrebbe essere interessante. O il museo delle cere! Dobbiamo andarci, dobbiamo farci assolutamente una foto con le cere di Johnny Depp…» cominciò ad elencare nomi «Ho sentito qualcosa sulla matematica, posso sapere di cosa stavate parlando o sono troppo indiscreto?» ci interruppe una voce. Il prof con il suo sorriso magnifico.
Silvia si girò verso di lui. «Dicevo che le ore di matematica non sembrano così noiose adesso, almeno avevamo qualcosa di interessante da guardare».
Mi scappò un risolino pensando che la cosa interessante era lui e lei glielo diceva sfacciatamente.
«Ci fa da guida e ci spiega qualcosa? Almeno rendiamo un po’ più interessante anche questa visita» domandò Paola.
«A dire il vero non ne capisco un granché. Non sono un fan di archeologia, avevano proposto di girare il museo per tutta la giornata e io ho insistito che fosse solo la mattina, immaginatevi quanto mi importi».
Veronica corse verso di lui e lo abbracciò. «Professore le voglio bene, penso che un’intera giornata qui mi avrebbe ucciso». Il professore aveva sollevato d’istinto le braccia ed era rimasto dall’abbraccio.
Molto imbarazzato, diede una piccola pacca sulla spalla sempre di Veronica. «Mi…fa…piacere essere stato d’aiuto».
Veronica lo liberò dall’abbraccio e io mi accorsi che la stavo invidiando, non tanto per il fatto di essere stata a stretto contatto con il corpo di lui, ma per la naturalezza con cui compiva i suoi gesti nei confronti dei ragazzi.
Io ero sempre così goffa.
«Ma possiamo uscire a prendere una boccata d’aria?» chiese Silvia.
«Vengo pure io» disse il prof e ci incamminammo tutti verso l’uscita.
«Foto, foto, foto» disse Silvia non appena uscimmo dal museo. Tirammo fuori dalla borsa le macchine fotografiche.
«Facciamole con la mia che è migliore, poi vi taggo su Facebook, sennò ogni volta dovremmo fare quattro foto. Ci vuole un passante pieno di pazienza» disse Veronica prendendo la reflex.
Il professore tese le mani per prendere la reflex e Veronica non gliela diede.
«Lei deve farsi le foto con noi. Chiederemo a qualche turista di scattarla». Con le spalle rivolte verso l’edificio del British Museum ci abbracciammo tutti quanti. Veronica e Silvia erano quelle accanto al prof e io mi dovetti accontentare di una sua mano appoggiata sulla spalle.
«Devo chiederle l’amicizia su Facebook» disse Veronica facendo passare la reflex tra le nostre mani per mostrare la foto appena scattata.   
«Non sono su Facebook».
«Come non è su Facebook? Ma dai ormai ci sono tutti».
«Io no».
«E come facciamo a darle la foto?»
«E-mail? Oppure porto una penna usb in classe? Comunque sto entrando, devo controllare che fanno i miei ragazzi. A dopo».
Io guardai la foto. Come avrei voluto essere messa accanto al prof e ritagliare solo noi due. Aspetta! Ma a Natale mia cugina Sandra aveva scattato qualche foto. Quando sarei tornata in Italia l’avrei dovuta contattare.
Il professore Lombardi, con il suo completo grigio e il maglioncino rosso, venne verso di noi.
«Ragazze che ci fate qui?»
«Ci stavamo annoiando» rispose Silvia.
«Prof, ma dato che siamo tutte maggiorenni, possiamo andare via già adesso? È mezzogiorno e un quarto…»
«Sì, andate…Piccadilly Circus alle quattro. Non arrivate un minuto in ritardo».
«Grazie» rispondemmo in coro e scappando via.
Prima tappa McDonald’s per rimpinzarci di schifezze e fare il pieno di energia per girare i negozi. Passammo dall’Apple store per controllare email, facebook e aggiornare lo stato. Poi andammo da Hamleys, anche se eravamo tutte “maggiorenni” non si poteva resistere al fascino dei giocattoli che vendevano lì.
«Non abbiamo il tempo per passare da Harrods, ci toccherà andarci domani. È meglio che ci avviamo verso Piccadilly Circus, alla faccia che dovevamo fare shopping» disse Veronica leggermente sconsolata.
«Entreremo in qualche negozio strada facendo» disse Paola.
 
 
 
«Questo vestito ti sta una favola!» esclamò Veronica quando uscii dal camerino.
Era blu con tante linee a V color crema che mi evidenziavano il decolté, i fianchi e il fondoschiena, ed essendo io relativamente magra era una cosa buona. Sì, mi piaceva proprio come mi stava e difficilmente qualcosa con la gonna mi piaceva a primo colpo.
Guardai il cartellino con il prezzo e strabuzzai gli occhi. «Costa quanto un castello! Ragazze, quando prendete qualcosa guardate il prezzo per favore!»
«Ti sta benissimo, per la prima volta ti vedo veramente vestita come una   femmina» mi disse Silvia. Ormai ero abituata al suo modo di fare.
Anche Paola annuii soddisfatta, però quando venne a guardare il prezzo mi posò una mano sulla spalla.
«Be’…effettivamente è un po’ eccessivo. Forse possiamo trovarne un altro simile».  
«Qui c’è la moda dei vestiti di seconda mano, forse troviamo proprio questo!» disse Veronica tirando fuori la lista dei negozi e controllando quelli che vendevano i vestiti di seconda mano.
«Lascia stare, è nuova collezione e poi dubito che una persona che compra un vestito del genere poi lo vada a rivendere immediatamente» dissi sconsolata. Mi guardai di nuovo allo specchio cercando di ricordarmi vestita in quel modo e pronta a levarlo quando vidi riflesso pure il volto del professore Coco. Mi stava guardando e aveva uno sguardo diverso dal solito. Sembrava come…ammaliato.
Sì certo, da me, sicuramente.
Terra chiama Alice, stai sognando troppo.
«Ti sta veramente bene questo vestito, dovresti prenderlo» mi disse mentre si avvicinava.
Ok. Mamma ti lamenti sempre che non mi vesto in maniera femminile? Eccoti accontentata! Comprai il mio primo vestito femminile, costava quanto tutti i vestiti che avrei potuto comprare in tre anni, ma ero prontissima ad affrontare i miei non appena avessero visto il buco che avevo creato nella loro carta di credito.
 
Passammo il resto del pomeriggio alla National Gallery. Musei su musei, guardai il programma della gita: l’indomani saremmo andati al Tate Modern, foto davanti Buckingham Palace e il museo della guerra. Forse il terzo giorno sarebbe stato più interessante.
«Ma secondo voi perché si dovrebbe andare in gita se non per scopi culturali?» aveva chiesto il professore Lombardi in autobus mentre tornavamo in hotel.
«Ma per girare i negozi, conoscere nuovi ragazzi…impratichirci con la lingua» disse Silvia.
«E per andare a ballare in discoteca! Non c’è un cavolo al paese» aggiunse Veronica.
«Ma dove trovate l’energia di andare pure a ballare dopo una giornata stancante come questa? Ah, gioventù».
 
Dopo la cena ritornammo tutte in camera.
Paola si stava truccando mentre io la guardavo seduta sul letto.
«Tesoro sei sicura che non vuoi che rimango a farti compagnia?» mi chiese mentre chiudeva le palpebre e si passava l’ombretto.  
«Sì, sì, tranquilla, non voglio che anche tu ti rovini la serata a causa della mia età».
Paola mi guardò. «Non mi rovino la serata, mi fa piacere stare con te»
Io le sorrisi. «Dai! Finisci di truccarti altrimenti fai tardi. Troverò qualcosa da fare per non annoiarmi…può essere che scendo al bar dell’hotel…» Paola mi si avvicinò sorridendo con il mascara in mano, prima che me ne rendessi conto ne aveva già passato una mano nell’occhio destro.
«Non si esce senza neppure un filo di mascara» mi disse con un tono da maestra dell’elementari.
Non scoppiai a ridere per paura che il sinistro mi venisse pasticciato. Quando ebbe finito posò i trucchi e si girò verso di me.
«Come sto?» mi chiese.
Stava benissimo. Sembrava che ogni riccio dei suoi capelli fosse stato fatto a mano, era perfetto. Gli occhi nocciola messi in risalto dal trucco e il push-up le donava mezza taglia in più di seno.
«Cerca di non tornarmi con un ragazzo in camera» le dissi.
Paola mi posò un bacio sulla guancia mentre afferrava la borsetta.
«Scendi con me, stiamo un po’ al bar fino a quando non arrivano i ritardatari. Ci tocca sempre aspettare».
Annuii mentre prendevo anch’io la borsa e scendemmo al bar. Paola ebbe ragione, alcuni ragazzi non erano ancora scesi e potevamo stare un po’ al bar a parlare.
«Vuoi che ti prenda un po’ di alcol?»
Mi chiese la mia amica pronta a tirar fuori la carta di identità. Io feci come per fermarla con le mani.
«No, non c’è bisogno grazie. Non posso mica rimaner qui sola ad ubriacarmi».
«Ma sei sicura che non vuoi che io resti?»
Vidi che si sentiva in colpa.
«Sicurissima. Ti lamenti sempre che non vai mai a ballare quando siamo al paese, ora goditi due giorni di discoteca!»
Il prof Lombardi fece l’appello della nostra classe, quando arrivò al mio cognome mi guardò e fece spallucce, poi disse a tutti di incamminarsi. Paola mi strinse la mano. «Spero che ti divertirai».
«E tu cerca di non rimorchiare troppi ragazzi».
 
Vidi le mie compagne che mi salutavano con la mano mentre uscivano e Paola si aggregò a loro. Sbuffai. Fantastico, se l’avessi saputo mi sarei portata un libro. Ma chi si porta un libro in gita? Il barman mi poggiò una birra davanti. Io lo guardai stupita e lui mi fece un cenno con la testa per indicarmi un ragazzo seduto non troppo lontano da me. Lui sollevò la sua birra come per brindare. Non sapevo che fare. Dovevo accettarla? Avevo paura di ubriacarmi, non ero abituata a bere. Ma qual era la mia alternativa? Dovevo tornare in camera ad annoiarmi a morte? Presi la birra e sorrisi verso il ragazzo che si venne immediatamente a sedere con me.
«Hi!» mi disse sorridendo.
Era con i capelli cortissimi, gli occhi azzurri, la barbetta incolta. Non era per niente male.
«Hi» dissi io.
«I’m Sebastian» mi disse.
«Alice» risposi, poi quando vidi la sua espressione stupita aggiunsi «In your language is àlis, I’m Italian». Lui rise.
«Italian, wow. Why are you here?» Oddio quanto amavo l’accento britannico.
Quando sentivo come pronunciavano le parole immaginavo quella lingua che mi percorreva il corpo. Schiacciai quel pensiero per cercare di recuperare nella mia testa come si dicesse “gita” in inglese. Non lo ricordavo.
«A travel» lui annuì con la testa quando sentii una voce alle mie spalle dire «She is with me». Mi voltai di scatto e vidi il prof Coco che guardava duramente Sebastian. Sembrava infastidito. Sebastian mi guardò come per chiedermi se fosse vero e io, quasi malvolentieri, assentii.
Il britannico guardò verso il prof portando le mani avanti come per dire che non aveva fatto nulla di male e che non lo sapeva. Poi si alzò e andò via scuotendo la testa.
Il prof prese il suo posto.
 
«Gradirei non trovarti con la lingua infilata dentro bocche altrui quando sei sotto la mia custodia» mi disse. 
«Sotto custodia? Che sono una carcerata?»
Rise «Certo che no, scusa la scelta poco felice delle parole. È che mi allontano due secondi e ti trovo a flirtare con un ragazzo».
«Ma non stavamo flirtando e non ci stavamo baciando!»
«Ma da come ti guardava presto l’avreste fatto»
Mi sentii leggermente eccitata.
«E poi non ero mica con lei!»
Lui sorrise divertito. «Ora sì. E dato che io so che non hai l’età per bere la birra che ne pensi di andar via da qui?»
«E andare dove? Non possiamo passeggiare, sta piovendo».
«C’è la piscina al coperto qui in hotel».
«La piscina al coperto?»
«Sì, dai, andiamo a farci un bagno».
Io e lui in piscina? Quel leggero senso di eccitazione aumentò.
«Non so…»
«Sai nuotare?»
«Sì».
«Sei depilata?»
«Sì».
«Hai il ciclo?»
«No» divenni rossa come un peperone. Ma che domande faceva?
«Allora non hai scuse, hai dieci minuti per andarti a cambiare. Ti aspetto nella hall».
Andai di sopra per prendere il costume. Meno male che portavo sempre un costume in gita. Presi in prestito un telo dell’hotel e scesi. Il prof era lì. Vestito come prima tranne che per il telo sotto il braccio. Giubbotto di pelle, jeans strappati. Mi porse il braccio.
«Andiamo mademoiselle?»
 
Risi mettendomi a braccetto con lui e andammo in piscina.
Una decina di ragazzi tra maschi e femmine stava in un angolo della piscina a schizzarsi e a fare lotte con le ragazze sedute sopra le spalle dei ragazzi. Una coppia si stava sbaciucchiando nell’angolo opposto. Per il resto non c’era nessun altro. Avevamo circa mezza piscina solo per noi due. Mi diressi verso la sdraio e vi stesi sopra il telo. Il prof lasciò il telo arrotolato, si levò il giubbotto e si levò il maglioncino.
Oddio.
Alice respira.
Respira.
Respira.
Mi concentrai con tutte le forze a respirare, ma soprattutto a deglutire perché altrimenti avrei sbavato.
Era.
Così.
Perfetto.
Il fisico asciutto era muscoloso al punto giusto, gli addominali non troppo in rilievo, le vene leggermente in rilievo quando contraeva i muscoli per abbassarsi i jeans…le sexyssime linee che scendevano obliquamente verso il pube. Mi accorsi che anche qualche ragazza del gruppo in piscina lo stava osservando.
«Su! Muoviti! Sto andando a fare la doccia».
Lo guardai mentre si dirigeva verso le docce. In quel momento sarei potuta svenire…e sarei potuta venire. Ero rimasta seduta con il bottone dei jeans tra le dita. Se fossi rimasta solo in costume, non appena mi sarei avvicinata a lui, avrei voluto che anche quei minuscoli pezzi di stoffa andassero levati. Mandai via quei pensieri dalla testa. Non potevo. Non potevo. Mi spogliai e andai verso le docce mentre lui ritornava verso la piscina. Quando gli passai accanto scrollò la testa facendomi arrivare schizzi dai suoi capelli.
«Alla buon’ora» disse mentre ringraziavo la doccia gelata. Ero sicura che l’acqua evaporava non appena arrivasse a contatto con la mia pelle. Stavo prendendo a fuoco.
Non si era ancora tuffato, era messo che tremava sul bordo della piscina. «Volevo tuffarmi con te, facciamo una gara? Si arriva fino al bordo opposto e si ritorna?»
Annuii incapace di proferire parola e lui disse: «In posizione! Pronti, partenza, via!»
Mi veniva da ridere per il tono di voce che aveva usato. Al via lui si tuffò e io rimasi per un paio di secondi imbambolata alla vista dei muscoli delle sue spalle che si tendevano per il tuffo. Mi buttai in acqua pure io e nuotai velocemente decisa a superarlo e a batterlo. Avevo fatto sei anni di piscina, dovevano servirmi a qualcosa no? Perse tempo per girarsi non appena arrivò al bordo mentre io optai per uno stile a dorso e recuperai in fretta. Arrivai prima mentre lui diceva.
«Nooo, mi sono fatto battere da una ragazza…noooo» rideva divertito e si avvicinò a me.
Mi sentivo una gelatina.
«Scusa per poco fa» mi disse ad un certo punto.
Non capivo a cosa si riferisse.
«Ti ho fatto quelle domande… ho sempre abitato con donne. Prima mia sorella gemella, poi la mia ex ragazza. Non mi scandalizzo alla parola ciclo o depilazione. Mi è venuto spontaneo chiederti quelle cose».
«Ha una sorella gemella?»
«Sì. Ha la mia stessa età!» rise «Una sorella che ha la mia stessa età e a Settembre si sposa!»
«Oh…wow» non ero per niente entusiasta. Riflettei che a Settembre io non l’avrei visto. Non avrei mai pensato di desiderare che un anno scolastico durasse a lungo.
«Ti confido un segreto che deve rimanere tra me e te». Si avvicinò ancora di più. «A volte l’aiutavo pure a farsi la ceretta. Non mi prendere per gay» rise.
Notai che aveva un tatuaggio nella spalla destra, piccolo, discreto. Erano delle scritte strane che formavano un disegno.
«Che rappresenta?» chiesi accennando alla spalla.
«Oh, l’ho fatto il giorno dell’esame di stato insieme a mia sorella. È un simbolo che rappresenta l’unione. Mia sorella sarebbe andata a studiare a Ginevra in un’università privata e per la prima volta ci saremmo separati. È per indicare che staremo sempre uniti nonostante le distanze».
Trovai il pensiero dolcissimo. Era ancora vicino a me e mi immersi per un paio di secondi per raffreddare la mia testa piena di pensieri bollenti. Quando riemersi lui mi stava guardando.
«Ti posso chiedere la rivincita?»
Vinse lui. Ero troppo distratta dai miei pensieri.
C’era una parte di me che mi invogliava a smettere di immaginarmi aggrappata al bordo mentre le sue mani mi scivolavano dentro il costume e un’altra parte di me che mi diceva che non ci faceva nulla fin quando facevo solamente fantasticare.
Si appoggiò al bordo di fianco a me e improvvisamente fece una faccia rilassata.
«Oh… il coso che spruzza acqua…che goduria» scoppiai a ridere mentre guardavo la sua faccia rilassata e divertita.
Immaginai quelle bollicine d’acqua intrufolarsi in mezzo alle sue gambe…ok anche se l’acqua era ghiacciata a quanto pare non bastava per calmarmi. Raggiunsi il bordo opposto alla ricerca di un altro di quei spruzzatori di acqua e quando lo trovai mi ci misi di fronte sperando che quelle bollicine riuscissero a farmi rilassare. Ma che mi era preso? Tutti gli ormoni a riposo che avevo avuto in questi anni si erano manifestati tutti una volta? Mi girai verso lo spruzzatore d’acqua dando le spalle al bordo opposto per cercare di non guardarlo. Piegai il collo a destra e a sinistra. Inspirai profondamente. Era come se stessi per iniziare a fare stretching. Poi diedi una spinta al muro con i piedi e mi lasciai trasportare lontano dal bordo fin quando non andai a sbattere contro qualcosa. O meglio qualcuno. Lui.
«Scusi» balbettai.
«Fa nulla» mi disse.
Ero appiccicata a lui. Le mie spalle contro il suo petto. Nessuno dei due si mosse per allontanarsi. Il mio cuore batteva all’impazzata.
Respira.
Respira.
Sentivo la sua pelle a contatto con la mia. Le sue mani sui miei fianchi. Dovevo uscire di lì altrimenti avrei messo nei guai entrambi.
Dovetti fare ricorso a tutte le mie forze per riuscire ad allontanarmi e dire «Forse è meglio andare, gli altri saranno qui a momenti penso» mi diressi verso il bordo della piscina e uscii di fretta.
Poi mi voltai verso di lui. «Lei non esce?»
Vidi che si guardò verso le gambe, poi quasi senza alzare lo sguardo disse: «Io…credo…devo…rimango un altro po’ in acqua tu sali pure in camera a cambiarti. Ci vediamo domani mattina».
L’ultima frase la disse rivolgendosi a me con il suo sorriso. Sembrava imbarazzato.
Quando fui sotto la doccia realizzai cosa potesse essere successo e scoppiai a ridere. Mi sentivo felice. Non sapevo perché.
Mentre asciugavo i capelli rientrò Paola.
«Come è andata la serata?» mi chiese mentre si dirigeva in bagno per struccarsi.
«Benissimo!» esclamai sorridendo.
Posai il phon e mi buttai sul letto mentre Paola mi raccontava la sua serata. Io stavo a guardare il soffitto. Sentivo le farfalle nello stomaco.
«Ehi! Ma tu sei rimasta con il prof Coco…ecco perché non volevi che io rimanessi!» mi disse ad un punto e guardandomi con gli occhi a fessura come per scrutarmi meglio «Che avete fatto?».
Io scrollai le spalle. «Niente di che. Siamo stati in piscina».
«In piscinaaa? Questo vale molto più dell’andare a ballare. Com’è?»
Mi tirai su a sedere e la guardai sognante. «È…wow».
Paola sospirò come se l’avesse visto. «E che avete fatto?»  
«Abbiamo nuotato. Che si può fare in piscina?»
Lei mi guardò maliziosa e le dissi quasi indispettita: «Ma è il nostro prof!»
«Sì, sì…come se questo impedirebbe a qualcuna della nostra classe di buttarglisi addosso. Mi meraviglio che non sia rimasta nessuna».
Poi si infilò il pigiama e si mise a letto.
«Sei sicura che non sia successo niente? Sembri troppo euforica».
Io ritornai a guardare il soffitto e mi infilai sotto le coperte.
«Sicurissima» dissi sorridendo. Non era successo alcunché.
Si era solamente eccitato a causa mia. 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7- Pier ***


Dopo Camden Town, il giro sul London Eye e il pranzo consumato nei giardini Kensington, giravamo annoiate all’interno del museo delle scienze.
«Chi non dorme la notte fa lo zombie di giorno» ci disse il professore Lombardi leggermente allegro.
«Professore siamo in gita, è quasi un obbligo restare svegli di notte» ribatté Silvia.
«Un obbligo? E poi non capisco che ci troviate a riunirvi nelle stanze. State già insieme tutta la giornata!»
Silvia mormorò sottovoce “ingenuo” e si girò ad osservare la lontra imbalsamata.
«A parte che restando svegli la notte non potete apprezzare ciò che vedete di giorno» aggiunse il professore.
«Non è che siamo molto interessate a questi animali morti» specificò Veronica «Anzi, mi fanno tenerezza».
«Ma a voi ragazze non importa nulla di nulla? Il British Museum noioso, il Tate idem…»
«Saremmo dovuti andare al Madame Tussauds, quello sì che sarebbe stato interessante!» disse Silvia ancora rivolta alla lontra.
«Non c’entravamo con il budget e non credo che i vostri genitori sarebbero stati contenti di sborsare altri sessanta euro solo per vedere delle statue di cera».
Silvia sbuffò, come dargli torto?
 
La sera precedente eravamo state tutte in giro per l’hotel. Niente discoteca, niente uscite. A quanto pare qualche studente aveva scatenato una rissa ed eravamo in punizione. Da un lato fui contenta perché sarei stata in compagnia, dall’altro mi dispiacque perché probabilmente avrei passato un’altra serata sola con Coco.
Mentre io e Paola sgattaiolavamo dalla nostra stanza per andare in quella di Silvia e Veronica, incontrammo Sebastian che si autoinvitò ad entrare pure lui. Silvia, invece di rimproverarci di aver portato in camera un emerito sconosciuto, ci ringraziò.
In camera c’erano già gli altri. Luana pomiciava con Giancarlo, Veronica parlava con un ragazzo della quinta B di cui non ricordavo il nome e Paola si mise a parlare con un ragazzo della quinta C. Avevano comprato gli alcolici e procurato degli spinelli, così l’atmosfera era piena di animi esaltati. Carlo, con un bicchiere di qualcosa di indecifrabile in mano, mi si avvicinò sorridendo.
«Ciao be…Alice. Gradisci un po’?» mi porse il bicchiere.
«No, grazie, non bevo» risposi.
Carlo annuì e si sedette accanto a me, sul letto e con la schiena appoggiata al muro.
«In fondo, anche se ti faccio bere non ci guadagno neppure un ballo con te».
Stava sorridendo e notai che in fondo era carino. La sua battuta fece sorridere pure me.
«Dipende dalla serata, a Capodanno abbiamo ballato no?» «Allora domani sera, quando usciamo, stai un po’ con me ci stai?»
Io abbassai gli occhi dal suo sguardo, avevo paura che potesse piacermi.
«Non posso entrare in discoteca, non ho diciotto anni» mormorai rivolta alla trapunta.
«Ecco perché non ti ho vista! Ad ogni modo non si va in discoteca domani sera. Si gira un po’ per Brighton, è l’ultima sera».
 
«Che si fa stasera?» chiese Veronica osservando la balenottera azzurra che riempiva tutta la sala.
«Si va in giro per la città. Andiamo nel pier? Di giorno sembra interessante, la notte, secondo me lo sarà ancora di più» propose Paola.
Salimmo nei piani superiori, guardammo alcuni video e prendemmo parte ad alcuni esperimenti. In lontananza vidi il prof Coco attorniato da alcune ragazze che, supposi, stava spiegando qualcosa di fisica. Ero tentata dalla voglia di andare ad ascoltarlo, ma, vedendo le facce delle ragazze, più interessate al prof che a ciò che stava dicendo, decisi che era meglio accontentarmi di leggere i cartellini che fare la figura dell’ochetta.
«Vieni» mi disse ad un certo punto Paola trascinandomi con sé.
In una stanza era montata un’impalcatura dove, muovendoti, potevi fare apparire dei fasci colorati, in corrispondenza dei tuoi movimenti, nello schermo sul muro. La cosa era ancora più interessante poiché potevi inserire il tuo indirizzo e-mail in un computer, selezionare il video che veniva registrato e fartelo inviare.
Ci mettemmo sull’impalcatura e guardammo le nostre sagome nere apparire sul muro. Non appena mossi il braccio, una serie di raggi colorati apparve sullo schermo, come se avessi lanciato delle stelle filanti a Paola. Quest’ultima in tutta risposta, fece il gesto di Spiderman quando lancia le ragnatele e venne accontentata da un altro fascio di raggi. Poi improvvisammo tutto un balletto che penso abbia fatto impazzire i sensori dell’impalcatura, poiché tutto lo schermo era pieno di raggi colorati. Come se fossimo intrappolate in una ragnatela.
«Ragazze avete finito di giocare? È ora di tornare in hotel». Il professore Lombardi ci guardò sorridendo. Era proprio di buon umore quel giorno!
«Sì prof» dicemmo in coro e fermandoci di colpo.
Sullo schermo riapparsero le nostre sagome scure. Paola andò ad inserire la sua email e seguimmo il prof sull’autobus.
 
Dopo cena ci ritrovammo tutti nella hall, essendo maggiorenni -sì, mi includevo pure io-, eravamo liberi di uscire per andare dove volevamo, eccezion fatta per la discoteca. Unica limitazione il coprifuoco all’una, l’indomani saremmo dovuti andare ad Hampton Court e poi saremmo tornati in Italia.
Io, Paola, Veronica e Silvia ci dirigemmo verso il Brighton Pier. Scartammo subito le giostre, poiché a parte io che indossavo un paio di pantaloni aderenti e gli stivali con il tacco basso, le altre ragazze con tacchi e gonna volevano evitare di mettersi sull’ottovolante. Così ci dedicammo alle attrazioni del luna park. 
Tra la moltitudine di gente riconobbi qualche ragazzo della nostra scuola, poi qualcuno mi prese per mano.
Carlo mi sorrideva. «Mi hai promesso che saresti stata con me questa sera». Io? Promesso? Ricordavo un po’ diversamente.
«Ve la rapisco, ci vediamo dopo e tranquille ve la riporterò sana e salva» disse Carlo rivolto alle mie incredule compagne.
Forse rapire era il termine corretto, non so fino a che punto stessi andando con lui spontaneamente.
Mi lasciai trascinare tra le persone –gli permisi di tenermi per mano solo per non disperderci- e vagammo tra le attrazioni.
«Zucchero filato?» Chiese ad un certo punto quando fummo vicino un venditore di questo tipo di dolciume.
Non ebbi tempo di rispondere perché ne comprò uno.
«Non mangio zucchero filato da quand’ero piccola» osservai.  
«Adesso ricorderai i vecchi tempi» mi disse Carlo sorridendo.
«No…tranquillo…no» non appena dissi il secondo no, una manciata di zucchero filato venne infilata dentro la mia bocca dalla mano lesta di Carlo.
«Goditelo, te lo voglio imboccare, come se fossi una bambina».
Lasciai che lo zucchero si sciogliesse lentamente per poi ribattere: «Non c’è bisogno di imboccarmelo!»
«Io voglio farlo e voglio pure vincere un peluche e      regalartelo».
Non gli permisi di infilarmi altro zucchero filato in bocca, ogni volta che ne avevo voglia ne tiravo un ciuffo.
Una cosa positiva di Carlo era che lui indossava i pantaloni, così potei sbizzarrirmi.
«Tappeto elastico?» proposi.
Lui annuì e i miei occhi si riempirono di gioia. Quello non era un semplice tappeto elastico, quello era un signor tappeto elastico -in seguito scoprii che si chiamava bunjee trampoline-.
L’apparato era munito di un’imbracatura particolare: delle specie di bretelle legate a dei fili di caucciù, che serviva sia per non farti cadere che per saltare ancora più alto e fare le acrobazie più pazze. Levai i tacchi e con Carlo ci appropriammo di due postazioni.
«A chi va più in alto!» Gridò il mio accompagnatore. «Pronti? Via!»
Molleggiai leggermente per prendere confidenza con la struttura mentre vidi Carlo fare una capriola sbilenca e mi venne da ridere. Mi diedi la spinta e via! Saltai su. I ricci mi facevano solletico, l’aria mi sferzava il viso. Mi sentivo come un piccolo uccello. Dopo un paio di acrobazie si sentì il fischio che indicava la fine del giro. L’unica cosa negativa di quella attrazione era che il giro durava troppo poco tempo. Misi i piedi per terra e barcollando sulle calzette mi diressi verso le mie scarpe. Penso che avessi un sorriso beota perché Carlo, seduto accanto a me, mi disse: «Visto che uscendo con me ti diverti?» Stavo per ribattere che il merito era dovuto alla giostra ma poi mi chiesi: perché essere acida? In fondo Carlo stava solo cercando di essere carino con me.
Indossate le scarpe il mio accompagnatore mi riprese per mano.
«Voglio vincere un peluche per te».
«Perché ti sei fissato con questa cosa? Non ce n’è di bisogno» risposi mentre delicatamente rifiutai di intrecciare le mie dita con le sue.
L’attrazione scelta da Carlo fu un canestro da basket che si andava muovendo e lui doveva centrare il cerchio più volte possibile. Pagò il turno, si informò quanti canestri dovesse fare per avere un premio e iniziò a tirare. Altri ragazzi della sua classe e pure i tre della mia si avvicinarono e decisero di giocare anch’essi. Circondata da ragazzi mi misi di lato mentre guardavo un Carlo infervorato lanciare palle verso il cerchio che roteava su se stesso.
Una mano si poggiò sulla mia spalla. Mi girai e lo sguardo penetrante del professore Coco incrociò il mio.
«Sai? Sono molto goloso ma non voglio mettermi a mangiare tutti i dolciumi che ci sono qui. Ho pensato una cosa: scommettiamo un donut che faccio più punti in…» roteava il dito mentre con lo sguardo cercava qualcosa «quella attrazione?» indicò il bancone con i fucili a salve e le lattine da far cadere.
Mi scappò un sorriso, per più di un motivo.
«Carlo, sto tornando» gridai verso il ragazzo in questione, concentrato sul canestro.
Vidi che si voltò un attimo per guardarmi e io feci segno con le mani che sarei tornata a breve. Malvolentieri il ragazzo si voltò nuovamente verso il canestro e una punta di senso di colpa si insinuò dentro di me.
Seguii Coco -purtroppo niente mano per non disperderci- e andammo al bancone. Trenta colpi in canna, quindici tappi e dieci lattine da far cadere.
«Inizi lei» dissi al prof.
Lui prese il fucile, prese la mira e cominciò a sparare. Fece cadere tutte le lattine e quattro tappi. Quando mi passò il fucile, l’uomo al bancone spiegò che non erano previsti premi con quel punteggio. Mi concentrai, pur sapendo di essere osservata, presi la mira e tirai. Quando ero arrivata a far cadere tutte le lattine e otto tappi il prof scoppiò a ridere. «Mi hai imbrogliato! Come fai ad essere così brava?»
Si avvicinò pericolosamente. Era dietro di me, sentivo il suo alito sul mio collo.
«Voglio vedere come fai» sussurrò suadente.
Il suo tono di voce mi fece capire che si era avvicinato apposta per farmi distrarre. Infame! Aveva capito che bastava niente per farmi ammollare le gambe e perdere la concentrazione. Come conseguenza feci cadere solo un altro tappo. Il proprietario dell’attrazione prese il fucile e mi mise davanti una serie di oggetti. Un laccetto di cuoio spacciato per bracciale, un portachiavi a forma di pesce con un led nella bocca, una penna multicolore e un orsetto grande quanto il mio pollice che reggeva tra le zampe un cuore con la scritta Brighton.
Che premi generosi!
«Mi devi dire qual è il trucco» mi chiese il prof appoggiandosi con un fianco al bancone e guardandomi scegliere il regalo.
«Mio padre desiderava avere un figlio maschio. Al terzo tentativo fallito, mi fece diventare il suo maschietto. Mi portava a tagliare la legna e mi insegnò a sparare con un fucile a salve. Sperava che andassi a caccia con lui ma quando seppi che dovevo uccidere degli animali mi rifiutai». Stavo per prendere il portachiavi più per il led che per la bellezza del pesce, quando cambiai idea.
Presi il braccialetto.
«Mi dia un polso» dissi al prof tenendo il bracciale in mano. Lui sollevò le sopracciglia a mo’ di domanda.
«Lei mi ha regalato una calcolatrice scientifica a Natale? Io le regalo un braccialetto da due pound».
«No, non posso accettare. E poi ora ti devo offrire il donut, così e come se me lo ripagassi».
«La smette? Si tiri su la manica» e sorridendo fece come gli dissi.
Quando gli sfiorai le dita, una piccola scarica elettrica mi percorse il corpo. Gli legai il bracciale e lui se lo guardò al polso.
«Bello, grazie» disse sfottendo.
 
Lasciato il professore alle sue alunne e mangiucchiando il donut al cioccolato ritornai da Carlo. Era seduto su una panca accanto all’attrazione con il canestro di basket, parlava con i suoi compagni.
«Ehi, pensavo che non saresti tornata» mi disse con un sospiro di sollievo.
«Avevo fame» mentii mostrando la ciambella.
«Ci saremmo potuti andare appena avrei finito».
Poi infilò il braccio dietro la schiena e quando lo riportò davanti reggeva in mano un peluche. Era un orsetto poco più grande della sua mano e reggeva tra le zampe un cuore con scritto Brighton, la riproduzione più grande di quello che avevo vinto io.
«Questo è per te» mi disse porgendomi il peluche.
Arrossii.
«Dai, l’ho vinto apposta per regalartelo, ci tengo che tu lo prenda».
Buttai la carta del donut nel cestino e presi l’orsetto tra le mani.
«Si torna in hotel, è l’una meno un quarto» mi disse Carlo alzandosi e prendendomi per mano.
 
«Allora come è andata?»
Ero distesa sul letto. Paola si stava struccando e aspettava la mia risposta.
«Bene» risposi.
«E…»
«E cosa?»
Paola si girò verso di me.
«Alice, ti ha regalato un peluche con un cuore!»
«È uno stupido premio di un gioco!»
Paola scosse la testa e riprese a guardarsi allo specchio.  
«Sì però, ti piace o no?»
Io rimasi un paio di secondi in silenzio a pensare. «Non lo so» dissi infine sincera.
«A me piace un ragazzo…credo» disse quasi sottovoce, come se non fosse sicura se dirmelo o meno.
Mi tirai su con la schiena. «Chi?» Chiesi facendo mente locale di tutti i ragazzi con cui avevo visto parlare Paola.
«Per ora non voglio dirtelo, non so se gli interesso o meno». Rimase rivolta verso lo specchio.
«Daiiii dimmelo, prometto che non farò commenti».
Paola sembrò pensarci un attimo.
«Spero di dirtelo presto, significa che è andata bene».
 
Sbuffando mi rimisi distesa.
Paola si infilò nel suo letto e spense la luce.
«Buona ultima notte inglese». Mi disse mentre sentivo che stava sorridendo. Sapeva che non sopportavo stare sulle spine.
 
 
Nota dell’autrice
Spero che la lettura sia stata di vostro gradimento. Alla prossima!

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Capitolo 9
*** Capitolo 8- Giallo ***


Ogni inizio Maggio la scuola organizzava quella che veniva chiamata: “Giornata per la vita”, un’iniziativa che doveva raccogliere fondi da donare in beneficienza. L’intero edificio scolastico era a disposizione degli studenti che potevano fare di tutto per poter raccogliere fondi.
C’era chi vendeva braccialetti fatti in casa, chi ti scriveva una poesia sul momento inserendo una parola scelta da te oppure chi ti faceva un corso accelerato di chitarra. Io e Paola avevamo preparato alcuni cupcake che depositammo al bancone del cibo dove, per un’offerta minima di cinquanta centesimi, potevi comprare qualcosa da mangiare. Ci toccava un’ora di turno al bancone e io e Paola scegliemmo la prima in maniera tale da avere il resto della giornata a disposizione. Sistemammo la tavola, tagliammo le torte, tirammo fuori i bicchieri di plastica dalla confezione, sistemammo la cassa e aspettammo i primi clienti. C’era una bellissima giornata soleggiata, guardai i cupcake e pensai alla discussione del giorno prima a casa di Paola mentre li preparavamo.
 
«Immagina io e Coco che facciamo i cupcake stile scena di Ghost. Invece della creta abbiamo le decorazioni da mettere sulle tortine. Lui messo dietro di me che mi abbraccia…» fece la faccia di una che fantastica la scena.
«Guarda, non sarei per niente incoraggiata poi a mangiarli».
«Tranquilla, il ripieno sarebbe comunque crema».
Feci la faccia disgustata. «Ma che schifo!»
«A dire il vero Coco è un po’ grande per i miei gusti. Preferisco…Manuele Bertolli» disse il nome velocemente.
«Quello della quinta C? Ma da quando questa novità?»
«Dalla gita. In discoteca c’era un tedesco che non si voleva staccare di dosso. Manuele mi ha abbracciato e l’ha mandato via. Abbiamo ballato abbracciati…ora messaggiamo da un paio di giorni. È così dolce».
 
Mi guardai intorno alla ricerca del prof ma non c’era alcuna traccia. Vennero un paio di ragazzi a comprare da bere e finalmente finimmo il turno.
«Ti dispiace se vado da Manuele?» Mi chiese Paola accennando già ad andarsene.
«Vai, vai» le dissi sorridendo, poi mi guardai intorno in cerca di compagnia.
Per fare qualche soldo avevano escogitato di tutto. C’erano dei ragazzi che vendevano palloncini, ragazze che facevano la manicure o che ti truccavano. Non troppo lontano da me c’era un lenzuolo steso a terra, accanto ad esso c’era un tavolino con dei piatti pieni di vernice e uno scatolo dove infilare i soldi. Pagavi 50cent, sceglievi il colore che ti piaceva, immergevi la mano e la stampavi sul lenzuolo. Non so quale fosse l’utilità, ma sul momento, priva di alternative, andai a scegliermi il colore. Viola. Pagai e immersi la mano, quando Carlo si avvicinò a me infilando la mano nel rosso.
«Ehi» mi disse «Volevo dirti che sono stato scelto al “Ballo del tuo sogno” mi piacerebbe vederti».
“Ballo del tuo sogno” era un’altra iniziativa per ricavare soldi.
Qualche giorno prima della gita c’era stata assemblea d’istituto il cui scopo era la votazione per eleggere quattro maschi e quattro femmine, studenti, del corpo insegnante od operatori scolastici, con cui avresti pagato per farti un ballo. Carlo era stato scelto, con quei riccioli ribelli e gli occhi azzurri non poteva passare di sicuro inosservato. Inutile dire per chi avevo votato io, che venne eletto pure. Tra le femmine ci fu Silvia, Paola aveva commentato che sicuramente i ragazzi che l’avevano votata speravano di riuscire a toccare qualcosa mentre ballavano.
«Sì, certo, verrò sicuramente. Quando iniziate?»
«Fra mezz’ora. A dire il vero ero venuto per chiederti se ti andava di uscire qualche sera con me».
Mi imbarazzai. Avevo così poca esperienza con i ragazzi e lui sicuramente ne aveva tanta con le ragazze. Ma soprattutto non ero sicura di voler uscire con lui, perché io avrei voluto uscire con qualcun altro. Ma non potevo. Rimasi a guardarlo un secondo. Forse dovevo uscire con lui. Forse era meglio così. Pensare ad un coetaneo, non impelagarmi in storie impossibili. Fare tutto normalmente, rendere tutto più semplice.
«Certo, qualche sera si potrebbe uscire» dissi.
Lui mi sfiorò la punta del naso colorandomela di rosso «Ottima risposta, non te ne pentirai».
Sorrisi e mi portai la mano sul naso per pulirlo ma così facendo sporcandolo pure della mia vernice.
«Oddio, combino sempre pasticci» dissi sorridendo.
Un braccio si interpose tra me e Carlo. Era un braccio muscoloso, con la camicia arrotolata fino al gomito, i tendini in rilievo, un bracciale di cuoio al polso e delle lunghe dita affusolate che si stavano immergendo nel giallo.
«Ciao ragazzi» disse il prof infilandosi tra di noi.
Sembrava leggermente infastidito.
«Carlo, devi andare a scegliere le canzoni» disse rivolto al ragazzo.
Carlo andò a stampare la mano e mi disse: «Allora a dopo Ali» mentre correva verso il bagno per pulirsi.
Il prof si rivolse verso di me. Aveva uno sguardo più dolce.
«Posso lasciare anche io una piccola traccia?» mi chiese toccandomi la guancia con l’indice e colorandola. «Devo andare a ballare». Poi depositò i soldi e scappò via pure lui. Rimasi interdetta.
Il cuore mi stava tamburellando nel petto. Era stata una sorta di gelosia quella? Mi toccai sulla guancia e sorrisi. Solo dopo realizzai che avevo sicuramente la faccia tutta colorata.
 
Paola si avvicinò sorridendo. «Se ti vuoi truccare devi andare al bancone del trucco, non puoi usare le vernici» disse mettendo i soldi nello scatolo e immergendo la mano nel verde.
Mi si avvicinò mi diede un buffetto sulla guancia e andò a stampare la mano.
«Ti si sarà asciugata la vernice, non stamperà più».
Mi avvicinai a lei e posai la mano sul lenzuolo. Il medio, il palmo e qualche ombra del pollice. Fantastico, sembrava avessi mandato tutti a quel paese.
Paola scoppiò a ridere.
«Dove hai lasciato Manuele?» chiesi quasi scontrosa.
«Sta facendo stretching, fra dieci minuti ci sarà il torneo di calcio».
Una voce dall’altoparlante interruppe la nostra conversazione: «Ragazzi e ragazze attenzione, sta per iniziare “Ballo del tuo sogno”, affrettatevi a comprare i biglietti sono solo quarantacinque per ogni ballerino. Ricordo le regole, con un biglietto potete fare un ballo, una sola canzone, quindici balli per ora. Un’ora, mezz’ora di pausa, un’ora di ballo, mezz’ora di pausa, un’ora di ballo. Quindi sappiate che c’è da aspettare, ma ne vale la pena è il ballo del vostro sogno no? Su, su da ora aperte le biglietterie».
«Oddio!» esclamai correndo verso le file.
Fila per Coco, fila per Carlo.
 
Fila per Coco, fila per Carlo.
Alla fine optai per fila per Coco e poi quella di Carlo, non potevo rischiare di non trovare quelli per Coco.
Alla cassa c’era Marta, una ragazzina del terzo con i capelli rossi arruffati. Quando mi guardò stranita ricordai che avevo ancora la faccia sporca di vernice. Diedi l’euro alla ragazzina che mi diede un biglietto con scritto COCO 31.
«Trentuno? Devo aspettare tre ore!» sbuffai.
«Fai passare gli altri cortesemente» mi disse Marta.
Feci la fila per Carlo.
CARLO 17. Andai verso Paola del tutto sconsolata.
«Coco 31» dissi.
«Ottimo, vuoi fare cambio con il mio? Non ho capito perché l’abbiano messo in contemporanea con la partita di calcio. Voglio vedere Manuele» tirò fuori dalla tasca un biglietto con scritto COCO 9.
Strabuzzai gli occhi. «Come hai fatto ad averlo?»
Paola fece la faccia di chi non la raccontava tutta. «Diciamo che Marta mi doveva un favore, non poteva darmi il numero uno per non insospettire…però ho rimediato questo».
Presi forse un po’ troppo euforicamente il biglietto dalle sue mani e le diedi il mio.
«Grazie. Tu si che sei un’amica. Vado a lavarmi» e corsi via, prima che potesse cambiare idea.
Mi lavai con cura la faccia per riuscire a lasciare solo una piccola traccia del giallo, mi sistemai i capelli con attenzione e mi passai la lingua sulle labbra. Poi uscii fuori e sentii che erano arrivati al quarto ballo. Mi andai a sedere aspettando il mio turno e vidi Carlo che mi sorrise. Che stavo facendo? Perché stavo andando ancora appresso al professore? Perché mi ostinavo con questa idea quando un ragazzo, così carino da essere il desiderio di almeno un ballo di molte ragazzine, voleva uscire con me?
Ma mentre me lo chiedevo guardai verso il prof. Che aveva un po’ la barbetta incolta. Con la camicia fuori dai pantaloni. Il bracciale che io gli avevo regalato al polso e mi chiesi se la risposta positiva data a Carlo non fosse la cosa sbagliata.
«E ora tocca a voi numero nove» disse la voce all’altoparlante facendomi sobbalzare. Mi diressi verso il prof che mi sorrise. Scese con le mani lungo la mia schiena e mi mise le braccia attorno alla vita.
«Non balli con Carlo?» mi chiese
«Ci ho già ballato a capodanno».
«Capodanno?» Contrasse leggermente la mandibola.
«Già, ma comunque ballo con lui dopo».
«Fai due balli?»
«È per beneficienza, no?»
A chi la davo a bere? Quello con Carlo era per beneficienza.
«È per beneficienza e devo ballare per tre ore. Che male ho fatto per dovermi sopportare delle ragazzine che mi abbracciano?»
«Siamo così appiccicose e insopportabili?»
«Chi ha detto che tu ci sei inclusa? No, no, parlo di quelle che si strofinano in maniera un po’ esagerata. Non so fino a quando potrò mantenere il mio contegno se continuano così».
Inarcai le sopracciglia.
«Senti. Mi mettono le mani sulla loro vita dove mi fanno sentire il filo del loro perizoma. Spero di non aver figlie femmine, credo che le relegherei in casa».
«Ma su che canzone stiamo ballando?»
«È di Amos Lee. “keep it loose, keep it tight”. Ci hanno fatto scegliere quattro canzoni a testa, almeno ogni tanto balliamo qualcuna che ci     piace».
«Ah, ecco perché mi sembrava scon…misteriosa».
Sorrise.
«Ti è rimasto un po’ di vernice gialla sulla guancia»
«Oh…non ci avrò fatto caso» si capì perfettamente che stavo mentendo ed abbassai lo sguardo.
Lui non parlò. Spostò la mano destra dal fianco e prese la mia mano, intrecciando le sue dita con le mie.
Io appoggiai la testa sulla sua spalla, respirai il suo odore e passai i più bei due minuti dell’anno.
 
Note dell’autrice
Vi è piaciuto questo capitolo? Fatemelo sapere : )
Alla prossima.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9- Cottarelle ***


«Mi spiace che matematica sia esterna, ma vi prometto che farò tutto il possibile per aiutarvi».
Il prof aveva appena finito di fare l’appello e guardava le nostre facce stanche del Lunedì mattina.
Se avessi sentito che matematica era esterna nel mese di Dicembre sarei stata disperata. In quel momento invece mi sentii piuttosto tranquilla. Stavo studiando molto e, anche grazie alle ripetizioni, i miei voti matematici si erano alzati fino all’otto e mezzo. Non solo non copiavo più, ma, a volte, ero io a passare gli esercizi a Paola.
Il professore si alzò e andò alla lavagna e chiese se ci fossero problemi sugli argomenti precedenti, non ottenendo risposte, iniziò a spiegare.
Che sonno…mi venne in mente una frase che mi aveva detto Paola qualche mese prima. “Il Lunedì mattina dopo che mi suona la sveglia, smetto di dire parolacce non appena penso che almeno vedo Coco la prima ora”. Sorrisi. Poi porsi il braccio a Paola, lieta che il buon tempo mi permettesse di tenere le braccia scoperte senza farmi raffreddare. Paola prese a farmi i grattini e mi sentivo come un gatto che faceva le fusa.
«Sentite, so che è Lunedì mattina, so che iniziate a sentire lo stress per gli esami e non voglio essere noioso. Però ragazzi, dovete capire che siete in un liceo scientifico. Una buona parte della vostra votazione finale sarà data dalla matematica, per favore, cercate di stare attenti» disse il professore notando che eravamo tutti addormentati.
Ci fu uno sbuffo generale. Io non sbuffai. Ero sulle nuvole. Scherzando dicevo a Paola che poteva aprire uno studio dove lei faceva i grattini a pagamento. Era così brava a farti rilassare. Chiusi gli occhi mentre un leggero gemito mi fuoriuscì dalle labbra che prontamente morsi. Paola smise immediatamente di farmi i grattini. Aprii gli occhi e lo sguardo di alcune miei compagni di classe e del professore erano puntati su di me.
«Ragazze potreste cortesemente rimandare le vostre attività er…ricreative?» chiese deglutendo.
Infilò la mano in tasca. «Scusate…devo allontanarmi un secondo». Uscì dalla classe e tornò qualche minuto dopo con la faccia arrossata e con qualche capello intorno al viso bagnato. Come se si fosse lavato la faccia con l’acqua fredda.
«Scusate. Riprendiamo»
 
Tornai a casa euforica e mia sorella se ne accorse.
«Attenta Alice, chi gioca col fuoco finisce per bruciarsi»
Non ero tanto sicura di non volermi scottare. Mi sarei buttata tra le fiamme se avessi saputo con certezza che sarebbe servito per ricevere almeno un bacio da lui.
 
 
***
 
La sera andammo al “Punto d’incontro” e giocammo al biliardino. Io e Carlo contro Paola e Manuele. Non so se si potesse considerare un vero e proprio appuntamento a quattro. Paola e Manuele festeggiavano un gol dandosi un veloce bacio sulle labbra. Io, non solo non mi facevo baciare, ma spostavo gentilmente le mani di Carlo quando diventavano “troppo lunghe”.
Quando il risultato fu paritario, ci andammo a sedere per ordinare da bere. Ordinai per la prima volta una piῆa colada e mi piacque. Chiacchierammo del più e del meno, quando il professore Coco entrò nella sala. La prima volta che l’avevo visto al “Punto d’incontro” aveva le mani in tasca e si guardava intorno con aria spaesata. In quel momento era con le spalle ritte, sicuro di sé e si guardava intorno, ma come per cercare qualcuno. Quando di vide ci venne incontro.
«Salve ragazzi».
Era raggiante e l’odore del dopobarba arrivò fino alle mie narici. Notai che guardò per qualche secondo la mano di Carlo posata sulla mia spalla –aveva di nuovo messo il braccio sulla spalliera-.
«Prof si vuole sedere con noi?» chiese Manuele.
Era sempre ospitale Manuele, anche Carlo, ma con non con il prof.
«No, grazie, aspetto qualcuno» poi si voltò verso l’entrata e sorrise  
«Eccola! Buona serata ragazzi».
Si allontanò per andare incontro a una ragazza bionda, liscia, con gli occhi da cerbiatta e le ciglia così lunghe che poteva utilizzarle per farsi aria quando aveva caldo.
«Facciamo la partita finale?» propose Carlo.
Andammo nell’altra sala e giocammo. Ero distratta e Paola lo notò, in macchina infatti iniziò un discorso.
«Alice che combini?» Lo chiese di punto in bianco, subito dopo essersi cambiata le scarpe per guidare.
«In che senso?» In quel momento non sapevo veramente a cosa si riferisse. «È il nostro professore, potresti metterlo in guai seri».
Deglutii. «Non capisco cosa vuoi dire».
Paola sistemò lo specchietto retrovisore ma non mise in moto.
«Per favore Alice, non fare la finta tonta. Ho visto come lo guardi e credo che anche lui ti guardi in maniera particolare. Per esempio non avete ballato come tutte le altre coppie per la giornata per la vita».
Io mi misi a guardare il cruscotto, non sapevo che cosa rispondere.
«Alice, sul serio, hai Carlo che è simpatico, carino, intelligente, perché devi andarti a complicare la vita?»
Continuai a stare in silenzio. Cosa potevo dire in quel momento? Aveva perfettamente ragione.
«Lascia a persone come Silvia le storie incasinate. Anche perché loro non si innamorano delle persone con cui vanno a letto, tu finirai per farti male».
«Io non ci vado a letto!» Sgranai gli occhi meravigliata per quell’affermazione.
 «Lo so, scema, era per dire…non desiderarlo troppo. In fondo è un uomo e tu sei una bella ragazza e anche ingenua. Non prenderla come offesa. Fra poco non lo vedrai più, fatti passare questa cottarella, ti prego».
Poi mise in moto mentre io girai la testa per guardare fuori dal finestrino. Come si facevano passare le cottarelle?
 
***
 
Il pomeriggio seguente ero da Coco. Giocherellavo con la penna, la mordicchiavo. Avevo una domanda fissa in testa, ma non sapevo come porla. Mi dedicai agli esercizi cercando di non pensare alla questione, volevo impormi il consiglio di Paola. Dovevo farmi passare la cottarella. Facile a dirsi! Mentre scrivevo mi scivolò leggermente la maglietta dalla spalla, colpa della scollatura a barca. Continuai a scrivere, quando percepii che mi stava osservando. Stava osservando la mia spalla nuda, la bretella del reggiseno che era rimasta scoperta. Un paio di secondi. Quando si accorse che lo stavo guardando spostò lo sguardo sul mio quaderno. Mi tirai su la maglia, anche se l’idea che lui mi potesse continuare ad osservare mi stuzzicò un po’.
«Vado a mettere l’acqua per il tè, ho comprato quello al mandarino lo vuoi provare?» chiese ad un certo punto.
«Sì, grazie».
Si alzò e sparì nell’altra stanza. Tornò subito dopo con due tazze in mano, le posò sul tavolo e guardò verso il mio quaderno.
«Che fai?» Mi chiese quasi facendomi spaventare. Si abbassò verso di me, era vicinissimo. Le sue spalle toccavano le mie. Sentivo il suo fiato sul mio collo. Mi sforzai di guardare verso il suo dito piuttosto che pensare che aveva la bocca a pochi centimetri dalla mia. Avevo voglia di dare un bacio su quel piccolo neo qualche centimetro sopra il labbro. Avevo voglia di appoggiare la mia testa sulla sua spalla e strofinargli il naso sulla nuca inebriandomi del suo odore.
«Ti stai complicando la vita. Guarda aggiungi un x al quadrato qui e hai il limite notevole». Rimase in quella posizione per un paio di secondi.
«Su, prova!» mi disse.
Notai che gli si era abbassata la voce, come se avesse il mal di gola. Si sollevò e andò verso la cucina, tornando poi con la teiera in mano.
«Vuoi zucchero?»
«Un cucchiaino e mezzo» annuì e versò il tè nelle tazze.
«Come è andata la serata ieri? Ho visto che è uscito con una donna» lo dissi tutta in un fiato. Finalmente ero riuscita a levarmi il pensiero fisso.
«Francamente penso che non siano affari tuoi» rispose brusco.
«Mi scusi, non volevo essere inopportuna». Guardai verso la tazza e mi sentii profondamente imbarazzata.
«Scusami tu…non volevo essere scortese. Beh…diciamo che è andata bene» gli spuntò un sorrisetto sul viso.
Perché gli avevo fatto quella domanda? Mi volevo male? Perché adesso supponevo che quel “bene” abbinato al sorriso significava che lui e lei…non so se fosse gelosia o invidia quella che provavo sul momento.
«Stai con Carlo?» mi chiese lui strappandomi dai miei pensieri.
«Uh? No…no semplicemente per ora…ci stiamo frequentando, niente di serio».
Sembrò fare una sorta di respiro di sollievo. «Dai, riprendiamo! Gli esami si avvicinano, non possiamo perdere tutto questo tempo per le pause».

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Capitolo 11
*** Capitolo 10- Perdonato ***


Lunedì, prima ora, matematica. Il professore arrivò un po’ in ritardo. Si sedette, fece l’appello e lesse per qualche secondo il registro.
«Mainardi interrogata».
Sobbalzai. Io? Perché? Non stava interrogando in ordine alfabetico perché stavo nel mezzo. C’erano persone che necessitavano ancora della seconda interrogazione perché a me stava chiedendo la terza? E poi sapeva che gli integrali non li avevo ancora capito bene, avrei dovuto fare tre ripetizioni quella settimana e due la prossima ed essere pronta per l’interrogazione.
«Mainardi ho detto alla lavagna».
Mi alzai e andai a alla lavagna. Lo guardai. Era arrabbiato. Fantastico o mi rifaceva l’interrogazione sui grafici di funzione o ero fritta.
«Integrale definito tra meno cinque e cinque di… »
Integrali. Ero fritta. Ma perché?
Scrissi tutto ciò che mi dettava e man mano che andavo avanti mi veniva da piangere. Dopo essere andata a capo due volte arrivò il fatidico “dx”.
 
Sul serio? Ma anche facendo trecento ripetizioni non sarei riuscita a risolvere quell’integrale. Cos’era quel coso obbrobrioso? Ok, era il primo Aprile? No eravamo a Maggio, ma quello era sicuramente uno scherzo, non poteva sul serio volere che io risolvessi quell’integrale. Mi girai verso Paola che aveva uno sguardo disperato. Roberta, la secchiona della classe, aveva uno sguardo confuso. In genere non faceva problemi a suggerire, ma capii che anche lei non sapeva che pesci pigliare.
«Mainardi, sto aspettando che risolvi l’integrale» disse il prof.
Era serio. Non era uno scherzo. Vidi che anche le mie compagne rimasero di stucco. Che era successo? Guardai verso la lavagna e cercai qualche soluzione.                                                                                      «Dunque la primitiva del coseno è seno» dissi.
Mi morsi le labbra. Avevo studiato qualcosa ed ero stata attenta alle spiegazioni, ma non riuscivo proprio a trovare qualcosa di adeguato. «Posso, posso chiedere un aiuto per favore?» chiesi.
«Un aiuto? Ti sembra forse che siamo a Chi vuol essere milionario? Quale vuoi l’aiuto da casa, il cinquanta e cinquanta o quello-che-diavolo-è-l’altro?»
Non risposi. Avrei solo voluto piangere.
«L’unico aiuto che puoi chiedere è quello che ti viene dalla tua testa. Hai studiato? Allora sai risolverlo. Non hai studiato? Allora non sai risolverlo. Semplice».
 
Iniziai ad inspirare profondamente. Non potevo piangere.                       «Allora?» mi chiese.
«Non so risolverlo» sussurrai.
«Cosa?»
«Non so risolverlo» dissi aumentando leggermente il tono della voce.
«Quindi devo dedurre che tu non abbia studiato».
 
Perché faceva così? Avevo rinunciato pure alla palestra -e alla possibilità di incontrarlo- per poter studiare la matematica bene. Sapeva che mi stavo impegnando al massimo. Perché doveva essere così scontroso?
«Ho studiato, solo che non mi sono esercitata tanto» dissi.
«Bene, allora ti faccio cinque domande, ogni risposta giusta è un punto. Ovviamente si parte da zero».
«Ma così posso prendere al massimo cinque!» ribattei.
«Bene, vedo che almeno i conti elementari li sai fare. Sì, potrai prendere al massimo cinque, l’integrale in questione vale cinque punti, se sai risolverlo arrivi tranquillamente al dieci».
 
Poi mi invitò a girare la lavagna, per far sì che non appena l’interrogazione fosse finita lui poteva dimostrare come risolvere l’integrale.
Il professore aprì il libro, lo sfogliò e mi fece la prima domanda. Inspirai. Inspirai profondamente di nuovo e di nuovo. Dovevo rimanere concentrata. La sapevo. Parlai chiaramente e scrissi alla lavagna un esempio della risposta.
Il professore annuì e mi fece immediatamente l’altra. La sapevo. Piano piano mi stavo cominciando a calmare. La terza domanda prevedeva un piccolo svolgimento che seppi fare. Quarta. Quinta.
 
«Bene Mainardi, può andare a posto. Cinque. Prima però giri la lavagna».
Feci come mi aveva detto e mi andai a sedere.
«Questa è tutta una funzione dispari. Una funzione dispari integrata in un intervallo simmetrico risulterà zero. Non vi è bisogno di svolgere chissà quali calcoli. Guardate: questo è il coseno, questo è x elevato a cinque…» non l’ascoltai più.
 
Mi misi a giocherellare con la penna guardando il quaderno. Paola mi posò la mano sul ginocchio. Speravo tanto di non mettermi a piangere. Passò tutta l’ora e io non alzai completamente lo sguardo dal quaderno fin quando il professore non uscì dalla classe.
 
 «Ma che stronzo!» esclamò Veronica. Silvia mi venne ad abbracciare. «Se la cosa ti può essere di consolazione, anche io non avrei saputo risolverlo» mi disse Roberta.
«Parla una che ha la media del nove e mezzo di matematica, quindi dovresti essere un po’ più su di morale».
Mi fece notare Luana.
«Pazienza, non morirò mica per un brutto voto» dissi sorridendo forzatamente.
A dire il vero non sapevo perché fossi triste. Era per il cinque? Era perché si era comportato così?
Verso la metà della seconda ora mi arrivò un sms:
 
Perdonami, non volevo fare lo stronzo. Oggi la preside mi ha parlato, mi ha detto che ha ricevuto alcune lamentele sul mio comportamento, dicono che abbia delle particolari attenzioni nei tuoi riguardi. Non so che mi sia preso. Ti prego di perdonarmi. Ho bisogno di vederti, ti voglio parlare di presenza. Vieni alle cinque. Edo.
 
***
Alle cinque non ci fu neppure bisogno di suonare il campanello.
Era già lì, appoggiato alla porta, che mi aspettava.
«L’acqua per il tè è già pronta… »
«Cannella» dissi piuttosto arrabbiata ed entrando.
Il prof andò in cucina mentre posavo lo zaino per terra e levavo il giubbino. Aveva già messo le tazze sul tavolo. Perché pensava al tè? Il prof tornò qualche secondo dopo, versò l’acqua dentro le tazze e mise un cucchiaino e mezzo di zucchero nel mio tè.
«Alice… » disse mentre posava la teiera sul tavolo.
«Come faccio a dire ai miei che ho preso cinque, quando è da metà anno che prendo ripetizioni e quando non le prendevo avevo sette? Cos’era quell’integrale di oggi? Perché l’ha fatto? L’interrogazione era fra due settimane, quando tutti avrebbero levato la seconda… » Non riuscii a finire la frase, ero arrabbiata e al contempo mi veniva da piangere.
 
Mentre teneva tra le mani la tazza disse: «Scusami, hai ragione. Te l’ho detto, la preside mi ha richiamato. Non sapevo che fare…possibilmente se avessi avuto la tua classe la terza ora avrei avuto più tempo per pensarci su, per sbollire la rabbia…invece sul momento mi è venuto il panico. Stavo rischiando di avere problemi nel mio primo lavoro per nulla. Non ho mai fatto favoritismi. Né con te, né con i ragazzi della quinta C con cui esco ogni tanto e mi offrono da bere, né con nessun altro».
 
Respirò profondamente, sembrava veramente dispiaciuto. Accennai un sorriso. In fondo lui era il professore, poteva interrogarmi tutte le volte che voleva. Mi guardò. Posò la tazza e avvicinò il palmo della mano al mio viso, rimase con la mano in sospeso per un paio di secondi e poi, con il dorso della mano mi accarezzò leggermente la guancia. Percepii il calore della sua mano e il cuore nel mio petto fece una capriola. Poi un’altra. Ero disposta a prendere tutti i cinque del mondo se sarebbero serviti ad avere altre carezze come quella. Fu solo qualche secondo, poi levò la mano e abbassò lo sguardo verso la tazza.
«Non possono dirmi che faccio favoritismi. Non con te. Ci sto veramente provando tanto a non farli. Mi sto sforzando a non avere particolari attenzioni» disse sommessamente.
«Recupererai il cinque, te lo prometto. Dirò che chi vuole potrà recuperare l’ultima interrogazione e il voto verrà cancellato. Finisco il giro delle seconde interrogazioni e riprendo con le terze, nel frattempo sarai preparata a bomba. Te lo prometto».  
«Ma così diranno… »
«Niente ma. Sono io il professore ok?»
Annuii.
«Perdonato?»
Sorrisi. «Perdonato».
Bevvi un po’ del mio tè. «Prof…sabato c’è la festa del mio diciottesimo a casa mia. Vuole venire?» Chiesi ad un certo punto. «No. Cioè, vorrei venire ma è meglio che non venga. Non mi sembra il caso».  
«Ma non fa nulla…»
«Alice non insistere, ti prego».
«Metterò il vestito che ho comprato a Londra».
Il prof mi sorrise. «Allora è proprio meglio che non venga…ora studiamo ok?»
«Ok».
 
 
Note dell’autrice
Per chi se lo stesse chiedendo (non credo siate in molti) è vero che esistono integrali del genere, il nostro prof di università ci fece lo scherzo di riempire la lavagna per poi uscirsene con la frase: “non si risolve, risulta zero”.
Spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento, perché non mi lasciate qualche commento per farmi sapere che ne pensate? Nel prossimo capitolo le cose inizieranno a riscaldarsi.
Un bacio.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11- In alcol veritas ***


L’astinenza da sport mi stava facendo impazzire. Mi mancava l’adrenalina che avevo quando uscivo dalla palestra, il senso di soddisfazione quando mettevo a riposare le mie membra stanche nel letto, il senso di relax che sentivo l’indomani della palestra.
Era metà Giugno, la scuola era finita ma la stesura della tesina e la preparazione per gli esami mi stavano stressando troppo. Basta, dovevo tornare in palestra. Anche solo per una settimana.
Presi l’orario della palestra. Alle 17 avevo Zumba. Alle 15.30 avevo appuntamento con Coco fino alle 17, ormai erano solo incontri sporadici dove portavo esercizi che non mi erano risultati o che non avevo capito. Gli avrei chiesto di farmi uscire un po’ prima e sarei andata in palestra.
Guardai l’orologio, erano le 15.10. In fretta e furia recuperai il borsone della palestra, misi dentro un asciugamano, l’acqua, il portafoglio, le chiavi e l’occorrente per la ripetizione. Infilai i pantaloni della tuta e una canotta. Stavo per uscire quando mi resi conto che la canotta sportiva era troppo scollata. Mentre una parte di me era tentata di rimanere vestita in quella maniera, l’altra, la più razionale, mi fece notare che sarei stata con il decolté in bella vista sotto lo sguardo del professore e questo mi avrebbe reso piuttosto distratta.
Levai la canotta e l’infilai dentro la borsa, poi recuperai una t-shirt dalla montagna di vestiti sopra la sedia e uscii diretta verso il garage. Nonostante avessi diciotto anni ancora non avevo la patente, quindi dovetti accontentarmi della bicicletta.
Pedalai fino al palazzo del prof, parcheggiai la bici, misi il catenaccio e salii fino al suo pianerottolo. Avevo il fiatone ed ero accaldata. Respirai profondamente un paio di volte e infine bussai alla porta.
Il prof venne ad aprire. Indossava una canottiera bianca che metteva in bella vista i muscoli delle braccia, dei pantaloncini e le infradito. Non so cosa abbia trattenuto la mia tentazione di saltargli addosso.
«Hai una caterva di esercizi!» Esclamò sorridendo facendo cenno con il mento verso il mio borsone.
«Ho deciso di ritornare in palestra un altro paio di giorni, sto impazzendo senza la mia dose di esercizi settimanali. Mi serve per mandare via un po’ di stress prima degli esami. A proposito dovrei finire un po’ prima».
Mi fece accomodare annuendo e dicendo: «Allora mettiamoci subito a lavorare».
Alle 16.45 stiracchiai le braccia e roteai il collo.
«Prof, dovrei andare».
«Vuoi del tè freddo?»
Scoppiai a ridere. «Scusi se mi permetto, ma lei è un teinomane!»
Si mise a ridere pure lui. «Forse sì, è già pronto, ti prendo quello alla menta che è ottimo, ti serve come sprint prima della palestra». Si alzò.
«Prof…è un po’ imbarazzante…non è che potrei cambiarmi qui? Arriverò già un po’ in ritardo, se passo dallo spogliatoio l’istruttrice mi massacra».
«Sì, certo, lì c’è il bagno» mi disse indicandomi una porta e dirigendosi verso la cucina.
Presi il borsone e mi infilai dentro quella stanza. Nonostante fossi stata in quella casa un centinaio di volte, mi resi conto che quella era la prima volta che entravo nel bagno. Era ordinatissimo, come il resto della casa. Le pareti erano ricoperte di piastrelle nere fino a metà, mentre l’altra metà era intonacata di bianco. Anche i sanitari erano bianchi.
Allineati sul mobile dello specchio si trovavano il dopobarba, il profumo, la schiuma da barba e il deodorante. Mi avvicinai alle boccette e inalai la fragranza del profumo che mi aveva inebriato la mente più di una volta. Ebbi la tentazione di metterne un po’ sull’asciugamano della palestra per annusarlo di tanto in tanto, ma poi notai che l’avrei lavato non appena sarei tornata a casa e quindi non sarebbe stata una buona idea.
Sfiorai con il dorso della mano gli asciugamani appesi immaginando il prof asciugarvi le guance appena rasate. Toccai con la punta del dito il pettine infilato dentro un bicchiere poggiato accanto al dopobarba. Aprii uno sportello dove stavano riposti il dentifricio e lo spazzolino.
Quando mi resi conto di star invadendo un po’ la privacy, mi levai la maglietta e il reggiseno e tirai fuori dal borsone la canotta e il reggiseno sportivo – felice di lasciarne sempre uno nel borsone- .
«Alice, mi sono reso conto che il tè non conviene zuccherarlo dato che è freddo, vuoi assaggiarlo lo
stesso?»
Il prof mi parlò attraverso la porta.
«Sì, sì» dissi io.
Il cuore mi batté all’impazzata. Ero a petto nudo e mi trovavo a pochi metri da lui. L’unica cosa che ci separava era qualche centimetro di legno della porta. Levando quel pensiero dalla testa mi vestii velocemente e uscii dal bagno. Il prof era davanti la porta e reggeva una tazza per mano. Si mise a ridere.
«Non sono molto esperto di moda, ma ho l’impressione che quella maglietta non sia messa bene» mi disse.
Mi guardai e diventai scarlatta: aveva ragione. Si vedevano la targhetta e le cuciture, per la premura l’avevo infilata al rovescio. Imbarazzata mi infilai in bagno e rimediai alla distrazione.
 
***
Qualche sera dopo andammo al “Punto d’incontro” per festeggiare in ritardo la fine del liceo. Una scusa come un’altra per fare qualcosa, il mio paese era piccolo e non offriva molte alternative di divertimento. Per la prima volta fu Carlo a venirmi a prendere a casa. Mi infilai un vestitino elegante, passai il mascara sulle ciglia e misi le scarpe con la zeppa.
Quando Carlo mi vide finse un infarto e gli diedi una pacca sulla spalla dandogli del cretino.
I miei compagni di classe e altri alunni delle quinte erano lì. Paola era con Manuele, Veronica flirtava con un compagno di classe di Carlo.
Prendemmo posto in un divanetto un po’ più appartato, non mi piaceva molto l’idea ma Carlo aveva già preso posto e non c’era comunque molta scelta.
«Che succede se ti faccio ubriacare?» mi chiese con un tono tra il serio e lo scherzoso.
Io misi in bocca un paio di salatini, masticai lentamente mentre vedevo che lui mi guardava.
«Non ho intenzione di ubriacarmi» sentenziai «Ad ogni modo non so, potrei vomitare, potrei dormire, potrei scoppiare a ridere… non mi sono mai ubriacata» continuai. Lui parve sorpreso. «Mai? Allora c’è sempre una prima volta, ti ordino da bere» mi disse.
«Ti ho detto che non ho intenzione di bere» gli ritornai a ripetere. Non mi piaceva per niente la piega che stava prendendo quel discorso. Cercai di mettermi vicino agli altri, mentre avevo la sensazione di essere osservata. Mi guardai intorno, ma non vidi nessuno in particolare guardare verso di me. Carlo parve leggermente infastidito del fatto che volessi avvicinarmi agli altri, anche se, purtroppo, la posizione del divanetto ci lasciava comunque isolati.
«Scappi?» Mi chiese.
«No, no» risposi.
E ricominciai a mangiare nervosamente i salatini. In che casino mi ero infilata? Ero stata cieca. Spinta dalle mie amiche avevo dato retta a Carlo, non dovevo.
Il cameriere venne a prendere le ordinazioni e io ordinai un bacardi breezer. Carlo prese della vodka secca e quando gli feci notare che doveva guidare e doveva darmi un passaggio lui mi disse che dovevo stare tranquilla, avrebbe saputo guidare benissimo. Paola si aggiunse a noi, per un paio di minuti. Mi fece i complimenti per il vestito e mi strizzò l’occhio. Poi andò via e io rimasi nuovamente sola con Carlo. Avrei voluto parlare con Paola in privato, tirai fuori il telefonino e pensai di mandarle un sms per dirle di venire in bagno. Quando vidi il telefono rimasi stupita. C’era un messaggio, ed era di Coco.
 
 
Coco: Ti sta dando fastidio?
Io: Chi?
Coco: Carlo
Io: No, perché?
Coco: Se dovesse darti fastidio dimmelo ok?
 
Mi guardai intorno ma non vidi traccia del prof. E poi che significava “ti sta dando fastidio”? Dimenticai di mandare l’sms a Paola e riposi il cellulare nella borsa. Che voleva dire quell’sms? Ma soprattutto perché me lo aveva mandato Coco? Carlo notò il mio viso stupito.
«Tutto ok? Mi devo ingelosire?» Mi chiese.
«Non ne avresti motivo, non è che stiamo insieme» Sbottai forse un po’ troppo acida.
Carlo accorciò le distanze tra noi due. Mi sorrise malizioso. «Mi piacerebbe…» non completò la frase perché gli squillò il cellulare.
«È un numero sconosciuto» disse tirando il cellulare fuori dalla tasca e osservando lo schermo.
Pigiò un tasto e si portò il cellulare all’orecchio.                    «Pronto?» disse. «Pronto?» si allontanò un po’ da me e tappò l’orecchio non occupato dal cellulare con la mano. «Pronto?» ripeté.
Allontanò per un attimo il cellulare dall’orecchio per rivolgersi a me. «Sto uscendo un attimo, non sento niente» mi disse. Si alzò e rimettendo il telefono all’orecchio si allontanò ripetendo una serie di “pronto”.
Paola mi sorrise e notai che Silvia stava pomiciando con il ragazzo con cui poco rima parlava. Bevvi il bacardi e sbadigliai. A quanto pare quel tipo di alcool, pur se poco, mi avrebbe fatto addormentare. Carlo tornò qualche minuto dopo.
«Non parlava. Mi è arrivata una chiamata anonima e non parlava nessuno. La cosa ancora più strana è che si sentiva del rumore di sottofondo e sembrava che la chiamata provenisse da qui. Sarà lo scherzo di qualcuno di quel tavolo» mi disse facendo cenno con il mento al tavolino dove erano seduti gli altri nostri amici.
Carlo si sedette accanto a me, di nuovo vicinissimo. «Dove eravamo rimasti?» Mi chiese.
Io portai la bottiglia alla bocca e, dopo aver bevuto un poco, lasciai la bottiglia vicino alla bocca. Carlo allontanò la bottiglia e rapidamente avvicinò il suo viso al mio e mi baciò. Prima si fece spazio tra le labbra e poi intrufolò la sua lingua dentro la mia bocca. Rimasi con la bocca aperta, ma la mia lingua non collaborava al bacio perché ero troppo impegnata a pensare. A pensare quanto fossi stupida. Perché mi ero lasciata coinvolgere da Carlo? Perché avevo permesso di avere tutta questa confidenza con me tanto da pensare di avere il diritto di baciarmi? Perché lo avevo illuso? Sapevo sin dall’inizio che non avevo intenzione di stare con lui. Perché avevo illuso me stessa che potesse interessarmi qualcun altro? Mi allontanai interrompendo il “bacio”.
«Carlo non posso». Le parole diedero voce ai miei pensieri. Penso ad un altro. Non voglio essere ipocrita. Non sento le scosse elettriche quando tu mi tocchi.
«Non me la sento di iniziare una storia con te. Fra due mesi saremmo ognuno alla ricerca di una casa per l’università in due città diverse d’Italia. Non me la sento di avere una storia a distanza qualche mese dopo averla iniziata».
In fondo era vero, avevo sbagliato sin dall’inizio per più di un motivo.
Carlo rimase a guardarmi allibito. Sbatté le palpebre più volte e velocemente. «Sei stronza» mi disse dopo un paio di secondi di silenzio.
«Ora non esagerare» sbottai io.
«Cosa significa non esagerare? Porca puttana ti corteggio da sei mesi e mi vieni a dire che non sei interessata a me?»
Mi sentii come se un pugno mi avesse colpito in viso. Era vero. Ero stata stronza. No. A dire il vero ero stata ingenua, mi ero convinta che potessimo uscire e che potessimo essere amici quando lui mi aveva fatto capire che non era l’amicizia ciò che voleva da me. Mi ero illusa che potessi sopperire il pensiero di Coco.
«Perdonami» gli dissi mentre lui aveva uno sguardo indecifrabile in viso. Oddio, non mi dire che si era innamorato!
«Sarei dovuto andare appresso a Silvia, con lei avrei concluso qualcosa!» esclamò quasi come se io improvvisamente non fossi più lì accanto a lui. Da un lato la frase mi rese più sollevata perché mi fece capire che non era poi così interessato, dall’altro mi sentii un po’ arrabbiata. Un po’ di decenza però!
Poi si alzò. 
«Io vado» mi disse.
«Dove?»
«A casa, sono stanco».
Aprii la bocca per fargli notare che doveva riaccompagnarmi a casa ma poi pensai che non era il caso. Andò via senza neppure pagare e lasciandomi sola.
Paola si avvicinò qualche secondo dopo. Aveva uno sguardo curioso.
«Alice…cosa è successo di preciso?» mi chiese.
«Ci siamo baciati. Gli ho detto che non ero interessata. Se ne è andato. Voglio andare a casa» dissi le frasi in stile robot mentre prendevo il cellulare per chiamare mia sorella e farmi venire a prendere. Ebbi di nuovo la sensazione di essere osservata ma non riuscii di nuovo a vedere qualcuno guardare verso di me direttamente.
«Alice…ti accompagno? Vuoi che faccia qualcosa?» Mi domandò Paola premurosa.
«No no, ho solo un po’ di mal di testa e voglia di andare a casa. Goditi la serata, verrà mia sorella a prendermi è tornata da un paio di giorni e le farò fare da tassista» dissi sorridendo verso la mia amica.
«Sei sicura che non vuoi che faccia qualcosa?» Mi domandò nuovamente.
«Ti chiamo domani mattina ok?» dissi alzandomi e aprendo la borsetta per prendere i soldi.
«Ok».
Poi mi lasciò un bacio sulla guancia e raggiunse gli altri che nel frattempo avevano rivolto la loro attenzione verso di noi. Andai a pagare e uscii dal locale mentre il messaggio di mia sorella mi avvisava il posto dove aveva parcheggiato.
Sospirai. Fortunatamente la scuola era finita e non avrei incontrato Carlo tra i corridoi.
Certo, il paese era piccolo, ma dato che avevo intensificato gli studi per gli esami, uscivo poco ed era difficile incontrarlo pure per strada. E poi era vero pure quello che gli avevo detto: saremmo andati via entrambi, in università e città diverse.
Mentre camminavo sulle zeppe percepii dei passi dietro di me. Niente di preoccupante. Il paese era tranquillo e poi non potevo certo aspettarmi di camminare in un vicolo e non trovare nessun altro. La cadenza dei passi dietro di me era irregolare.
«Ehi» disse una voce dietro di me.
Il cuore iniziò a martellarmi nel petto.
«Ehi» ripeté la voce.
Mi girai. Non riuscivo a vedere l’uomo in viso, però dedussi dalla camminatura barcollante che doveva essere brillo. Aumentai il passo. Maledizione al senso unico, maledizione a Paola che doveva flirtare con Manuele e non volevo disturbarla, maledizione alle zeppe che mi facevano rallentare.
L’uomo mi raggiunse. Mi appoggiai alla ringhiera nella speranza di riuscire a tenere l’equilibrio pronta a dargli una ginocchiata.
Non ce ne fu di bisogno. Con gli occhi lucidi e l’alito che puzzava di alcool, di fronte a me c’era il prof.
«Scappi?» mi chiese.
«Pensavo…pensavo fosse qualcun altro».
«Pensavi fossi capelli ricci?» fece un sorriso sbilenco.
«No. L’ho mollato poco fa».
«Davvero? Ho visto male o vi siete baciati?»
Era di fronte a me, aveva un po’ il fiatone per aver camminato velocemente per raggiungermi e lo sguardo torbido.
«No, non ha visto male, ma poi mi sono resa conto che non era adatto per me».
Sorrise sottecchi.
«Sono contento di ciò».
Mi meravigliai, era geloso? Una parte dentro di me gongolò di felicità e aspettai la prossima mossa. Lui stette immobile accanto a me, così iniziai a fantasticare su possibili scene che mi sarebbe piaciuto che accedessero.
«Alice…non posso più continuare così» mi disse ad un certo punto facendomi sobbalzare.
Sembrava che fosse sul punto piangere.
«Così come?»
Si avvicinò e mise entrambe le mani sulla ringhiera ai lati dei miei fianchi. Ero circondata dalle sue braccia.
«Ti sogno la notte, il tuo pensiero mi tormenta durante il giorno, ti voglio» mi disse guardandomi negli occhi.
C’era solo un pelo d’aria che separava la mia bocca dalla sua. Il cuore prese a battermi all’impazzata, oddio, mi stava per baciare. Finalmente, dopo mesi che lo sognavo. Il bacio arrivò. Ma non sulle labbra. Arrivò sul collo, leggero, veloce. Poi con le labbra percosse tutto il bordo del mio orecchio. Sentivo il suo fiato e mi faceva fremere. Mi baciò dietro l’orecchio, nella morbida pelle vicino alla mandibola. Mi baciò piano, con le labbra a ventosa, sentii lo schiocco che fecero al contatto con la mia pelle.
«Ti desidero da morire…non sai che cosa ti farei se potessi…purtroppo non posso» aveva la voce roca, come se fosse in una sorta di dormiveglia.
Sentii un formicolio in mezzo alle gambe. Poteva farmi tutto quello che voleva, ero pronta ad abbandonarmi tra le sue braccia. Invece si allontanò.
«Ti accompagno, dove devi andare?» Mi chiese come se non fosse successo nulla in particolare.
«Io…sono quasi arrivata, c’è mia sorella che mi aspetta».
 
Alice…ho qualche immagine confusa di noi due di ieri sera. Ho fatto qualcosa che non dovevo? Ti chiedo perdono, ho bevuto qualche bicchiere di troppo. Spero di non essermi comportato in maniera irrispettosa.
 
Non ricordava niente veramente o si vergognava? Dovevo dirgli qualcosa?
 
Non è successo niente, è stato gentile, mi ha accompagnato fino alla macchina di mia sorella. Un vero galantuomo.
 
Mi fa piacere sentirtelo dire, ho i ricordi vaghi. Alice…non prendertela a male, ti dispiace se annulliamo tutte le ripetizioni? Te la senti di studiare a casa da sola prima degli esami? Spero di averti insegnato pure un metodo di studi o magari studi con Paola. Sarebbe meglio non vederci se non dopo gli esami…ho degli impegni che non posso annullare.
 
Non ebbi più sue notizie per un bel po’.
 
 
 
 



Note dell’autrice
Allora che ve ne pare? Su, su fatevi sentire!
Secondo voi come andrà a finire?

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Capitolo 13
*** Capitolo 12- Non è un addio ***


I giorni passarono velocemente, diventammo delle pazze stressate per gli esami e alla fine fummo tutti maturati. Quello che mi fece più piacere era aver preso 14 nella seconda prova. Ero felice di potergli sentire dire che era orgoglioso di me.
Festeggiammo la fine del liceo nella casa in campagna di Cesare. Casa mia era più grande, però, dato che sarebbero state invitate anche persone al di fuori della classe, non mi andava di avere sconosciuti per casa.
In fondo la casa sarebbe servita per tenere le cose in frigo e riscaldare il cibo. Saremmo stati tutti fuori seduti nei tavolini di plastica. Da mangiare c’era un po’ di tutto: insalata di riso, bruschette, salsiccia, sottocosto, gelato, marshmallows. Da bere c’era principalmente birra, poco o niente bevande non alcoliche.
In mattinata aiutai a cercare la legna per il falò dove abbrustolire i marshmallows, dopo pranzo con Paola improvvisammo un duetto al karaoke. Giocammo al gioco dei mimi, a Taboo, al tiro alla fune e alla corsa coi sacchi. Fino a quando il livello di alcol nelle vene non fu troppo alto, la giornata trascorse tranquilla. Parlai pochissimo con Coco. A dire il vero, parlai pochissimo con Coco dalla sera che mi venne incontro semi ubriaco. Anche agli esami parlammo pochissimo e i nostri argomenti verterono esclusivamente sulla matematica. Mi aveva mandato solo un sms per complimentarsi della mia prova di matematica.
A metà pomeriggio rimanemmo meravigliati del professore Lombardi che si mise a suonare la chitarra e la Salanicco ci venne a fare un saluto insieme al figlioletto.
Quando l’alcol iniziò a annebbiare molte menti e certe persone iniziarono a non avere più pudori, la maggior parte dei professori andò via.
Lui no. Era seduto sul divano e parlava con una ragazza che non faceva parte della classe. Una bionda. Ok, gli piacevano le bionde. Tra il disgusto e il dispiacere presi la quinta bottiglia di birra della giornata e andai a cercare Paola. La trovai distesa nel divano di un’altra stanza. Non era ubriaca ma neppure troppo lucida.
«Ti va di fare una passeggiata nel boschetto?» Le chiesi.
Lei si voltò verso di me. «No, non mi sento benissimo in questo momento, ti raggiungo dopo».
«Ok».
Andai fuori e inspirai l’aria che cominciava a riempirsi di umidità. C’era ancora luce. Stavo per inoltrarmi in un boschetto, ma era recintato e non troppo grande. Non c’era alcun pericolo. Per una maggiore sicurezza presi il cellulare e notai che avevo campo, ok ero piuttosto lucida.
Passo dopo passo- l’alcol non mi aveva annebbiato il cervello ma mi aveva rammollito le ginocchia- mi misi a camminare nel bosco.
Non so per quanto tempo camminai, mi misi a guardare le ombre degli alberi calare e scomparire, stava per fare buio e decisi era meglio tornare dagli altri.
Mi appoggiai per un attimo ad un albero, scolai l’ultimo sorso di birra e chiusi gli occhi.
«Può essere pericoloso girare la sera tardi».
Avrei riconosciuto quella voce tra mille altre. Aprii gli occhi e lui era proprio di fronte a me.
«Sì, magari incontro un ubriaco che sta per provarci e poi non mi considera più per settimane» sbottai io.
Lui sollevò le sopracciglia rimanendo in silenzio.
«Non mi dire che non ricordi, non ci credo» dissi io vedendo che non aveva intenzione di parlare.
«Ti chiedo scusa Alice…non so che mi sia preso quella sera». Io sbuffai. «Ti assicuro che non è il comportamento di quella sera che mi ha dato fastidio, ma quello che hai avuto in seguito».
Mi resi solo in quel momento che gli stavo dando del tu.
Chi se ne fregava? Ormai non era neppure il mio professore!
Lui si morsicò il labbro. «Alice…tu sei una mia alunna».
«Ero».
Poggiò il braccio destro sull’albero, accanto alla mia testa, il suo polso sfiorava il mio orecchio. Era incredibilmente vicino.
«Hai ragione, eri. Ma quando ti ho allontanata eri ancora una mia alunna. Non potevo rischiare di avere particolari atteggiamenti con te…»
«Fanculo» sussurrai.
«Come scusa?» chiese senza allontanarsi.
«Sto provando ad esprimerti ciò che volevo dirti da tempo».
Mi prese il mento tra le dita della mano sinistra e mi costrinse a guardarlo negli occhi, sorrideva. «Ripeti quello che hai detto due secondi fa» non sembrava arrabbiato, anche la sua presa era morbida.
«FANCULO!»
Svincolai la testa dalle sue dita per guardare verso il basso.
«Io…io credo di amarti» dissi rivolta alle mie scarpe.
Sentii che sospirava.  «No che non mi ami. Sei solo ubriaca» disse.
«Non sono ubriaca» sbottai «Ho bevuto qualche sorso di troppo, ma non sono ubriaca».
Il prof si avvicinò verso di me. «Tra qualche mese ti sarai pure dimenticata di me, te lo assicuro».
Era a qualche centimetro da me. Sentivo il suo respiro sul mio viso. Avevo il cuore che mi martellava in petto, lo stomaco sottosopra.
«Non mi dimenticherò di te. Io…provo qualcosa per te» avevo la voce rotta.
La sua vicinanza mi causava più delle farfalle nello stomaco. Io sentivo che le viscere mi si stavano letteralmente e non figurativamente attorcigliando.
«Ecco. Adesso hai utilizzato delle parole più appropriate, anche io provo qualcosa per te».
Prese un ciuffo dei miei capelli e ci giocherellò con le dita. Sciolse il riccio, l’attorcigliò attorno al dito. Mi mise il ciuffo dietro l’orecchio e mi accarezzò la guancia con il pollice. Poi scese lungo la mandibola fino a fermarsi al mento. Lentamente. Notai che si fermò a guardarmi le labbra. Cosa provava per me? Era desiderio quello che leggevo nei suoi occhi o avevo la vista annebbiata dall’alcol?
Il suo pollice salì sulle mie labbra e prese ad accarezzarmele mentre il suo sguardo non si era spostato da esse.
«Non siamo più professore ed alunna» sussurrò più a se stesso che a me.
Chiusi gli occhi sperando che si avvicinasse con le sue labbra. Aspettavo quel momento da tanto tempo.
Quando improvvisamente realizzai che l’attorcigliamento delle budella non era dovuto soltanto alla sua vicinanza. Mi spostai bruscamente e appena in tempo per non rimettere sopra le sue scarpe. Mi sentii umiliata. Mi stava per baciare e io avevo vomitato.
Lui scoppiò a ridere. «Devo dedurre che ti faccio proprio ribrezzo».
Poi si avvicinò a me tirando fuori dalla tasca un fazzoletto e porgendomelo.
«Grazie» dissi asciugandomi la bocca.
«Scherzi a parte, stai bene?» Mi chiese con dolcezza guardandomi negli occhi.
«Sì, ora sì».
«Forse…forse è meglio tornare dagli altri. Potremmo fare qualche sciocchezza e almeno tu hai la scusa che sei ubriaca e io non vorrei approfittarne».
Stavo per dirgli che non approfittava per niente, anzi avrei voluto che riprendessimo il discorso da dove l’avevamo lasciato -alito mio permettendo- quando arrivò Paola.
«Oh, eccovi, non si può capire che cosa sta succedendo di là, sembra una grande orgia, ma io dico che inviti amici di amici di amici ad una scampagnata di classe dove ci sono pure i prof?…Ma ho interrotto qualcosa?»
Chiese maliziosa guardandomi.
«Alice si sentiva male, le ho tenuto i capelli» disse il prof accennando al vomito.
Certo che quella dei capelli poteva risparmiarsela, erano troppo corti per potersi sporcare. Paola mi mise un braccio sulle spalle.
«Stai bene?»
«Sì, sì tranquilla».
 
Più che grande orgia sembrava una grande bolgia. Persone ubriache che ballavano sui tavoli, persone che limonavano. La maggior parte dei prof era andata via, quelli che erano rimasti stavano seduti nella veranda a fumare erba. Strabuzzai gli occhi.
«Forse è meglio andare» disse Paola prendendo il cellulare e pronta a chiamare suo fratello.
«Vi accompagno io» disse il prof facendo a Paola il segno di fermarsi.
«Ok».
«Vado a prendere la borsa e qualcosa da buttare giù per levarmi questo sapore orrendo dalla bocca» mi allontanai e trovai alcuni pezzi di pizza sul tavolo. Troppo pesanti, li avrei rimessi sicuramente. Paola si avvicinò con una coppa di gelato alla fragola in mano.
«Mangia questo, prendo io la tua borsa» le sorrisi mentre mettevo in bocca la prima cucchiaiata di gelato. Mi scese lentamente in gola raffreddando l’irritazione e cancellandomi un po’ di nausea.
Paola tornò reggendo in mano la mia borsa con fare trionfante. «Non hai idea di cosa stiano facendo nella stanza dove abbiamo posato le borse».
«Risparmiami i particolari, non ho intenzione di vomitare nuovamente».
Il prof era già in macchina che tamburellava le dita sullo sterzo a suon di musica.
«Abito in via Gabriele D’Annunzio» disse Paola non appena si infilò in macchina.
Casa mia si trovava nell’altra entrata del paese quindi Paola venne lasciata per prima.
Quando rimanemmo soli il prof abbassò il volume della radio, poi, quando cambiò marcia, posò la mano sul mio ginocchio.
Sobbalzai dentro di me. Non volevo che la levasse. Non la spostò, non la mosse, la lasciò lì mentre guardava la strada.
«Spero che questo non sia un addio, ma dubito che ci rivedremo».
Era sempre rivolto alla strada.
Alcune lacrime fecero capolino dai miei occhi.
«Che addio? Ci rivedremo, ci sentiremo».
Ma anche io sapevo che non sarebbe stato per nulla facile.  «Sì, certo. All’inizio ci sono le email, gli sms…quanto potrà durare un anno? Poi si passa agli auguri di Natale e Pasqua e alla fine non ci si sente più».
«Lei deve farsi Facebook».
«Hai ripreso a darmi del lei? Non è facebook che cambierebbe le cose te lo assicuro. Sei ancora piccola, vedrai che non appena inizierai l’università ti cambierà il mondo». «Non sono piccola!» Soffocai un singhiozzo, piangere non avrebbe certo rafforzato la mia affermazione, e poi non volevo piangere di fronte a lui.
«Mi mancherai tantissimo. Mi mancheranno le nostre chiacchierate. Mi mancherà prendere il tè con te. Mi mancherà la tua goffaggine, il tuo sorriso, i tuoi ricci che ti stanno allungando, la tua voce, il tuo odore. Mi mancherai sul serio Alice» aveva la voce rotta.
Arrivammo davanti casa mia, accostò e io cercavo di non mettermi a piangere. Non dovevo e non potevo piangere.
Mi girai verso di lui che notò che mi tremava il labbro.
«Su su, non è morto nessuno» poi si avvicinò lentamente e mi diede un bacio. Leggero. Solo un contatto veloce delle sue labbra sulle mie.
«Arrivederci Alice».
«Ciao» scesi dalla macchina e andai verso casa senza voltarmi. Dovevo darmi una calmata altrimenti avrei fatto preoccupare i miei. Respirai a pieni polmoni mentre sentivo la KA che ripartiva. Non l’avrei più rivisto, pensai. Respirai di nuovo e di nuovo, dovevo pensare ad altro. Ero così disperata che non pensai neppure che mi aveva, seppur molto velocemente, baciata.
 
Sarei stata in una nuova città, con nuovi colleghi, nuove materie. Lui chissà dove sarebbe finito ad insegnare. Entrai a casa relativamente più calma. Salutai i miei e mi infilai sotto la doccia. Non l’avrei più rivisto, pensavo. Fortunatamente mi sbagliai.
 
Note dell’autrice
C’è un motivo per cui il prologo inizia con “ora” e “prima” no? : )
Che cosa succederà Ora?

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Capitolo 14
*** Capitolo 13- Senza tabù ***


Ora
 
«Uhh…aria di cambiamenti, ci sono quattro ragazzi nuovi» aveva detto Luisa, la mia collega, entrando nel pub subito dopo di me e vedendo il gruppo di uomini che comprendeva il prof.
Per la filosofia di Lara, l’altra mia collega, in sei eravamo troppe ed avremmo spaventato qualsiasi possibile avventore, così ci eravamo divise in due gruppi di tre e ora stiamo aspettando il cameriere.
Il professore, appoggiato al bancone, mi viene quasi di fronte però non mi ha ancora visto.
Ho due opzioni: andare da lui, ma non sono così audace, o aspettare che Luisa beva un poco e con la sua risata attiri l’attenzione.
Mi riconoscerà? Più precisamente: si ricorderà di me?
Ho fatto allungare i capelli, per il resto nessun cambiamento. Ah, sì, adesso porto i tacchi di dodici centimetri senza problemi.
Chissà se mi ha pensato pure lui in questi anni.
Arriva il cameriere per prendere le ordinazioni e ci porta frattanto degli stuzzichini. Salatini, patatine, pizzette mignon. Mentre addendo un mini arancino mi sento osservata. Non c’è bisogno di domandarmi chi mi stia guardando. Lo posso percepire.
È come se io fossi un magnete e lui una calamita. Alzo lo sguardo e lui mi sorride. Mi ha riconosciuta.
Ho ventitré anni, ho avuto il ragazzo fisso per due anni e per altri due ho avuto qualche storiella. Non è che si può dire che non sia abituata ad avere le attenzioni di un uomo. Ma essere guardata da lui in questo modo mi fa scombussolare dentro. Mi fa sentire speciale. Ci sono decine di donne dentro questo locale e l’attenzione di molte di loro è rivolta a lui. Ma lui sta guardando me, sta sorridendo a me.
Dimenticavo: è da due mesi che dico alle mie colleghe, amiche, coinquiline, che per ora ho smesso di uscire con gli uomini, perché voglio dedicarmi completamente ai colloqui di lavoro.
Luisa si sistema la maglia ad altezza del seno.
«È proprio un peccato che non sei interessata agli uomini in questo periodo. C’è uno degli uomini del gruppo nuovo che ti sta guardando». Mi sorride maliziosa.
«No!» esclamo alzando un po’ il volume della voce.
Poi mi calmo. «Volevo dire, oggi credo che farò uno strappo alla regola». Le mie colleghe ridono, sento vari commenti come “furba la ragazza”.
«Però, il patto è che devi essere tu ad andare da lui» mi dice Luisa.
«Che patto?» domando.
«Il patto che te lo lasciamo dopo che sono mesi che dici che non vuoi ragazzi, altrimenti vado e ci provo io».
Mi alzo di botto. Ok. Ci posso riuscire. No, non posso perché non l’ho mai fatto, non sono mai andata ad attraccare un ragazzo, ho sempre aspettato da loro la prima mossa. Anche se c’è da dire che ora non stavo andando né ad attraccare, forse, né era un perfetto sconosciuto.
Nonostante tutto sono convinta che arriverò lì, mi metterò a balbettare un poco, mi farò prendere per stupida e tornerò a sedermi. Fortunatamente lui mi viene incontro. Ha posato la bottiglia di birra, detto qualcosa agli amici e adesso viene verso di me.
 
«Alice».
E il mio nome mi sembra bellissimo. Non tanto perché è pronunciato da lui ma perché mi fa capire che non solo mi ha riconosciuta, ma si ricorda di me, anche se vagamente.
«Prof…»
«Non ti azzardare, sono Edoardo». Mi poggia le guance sulle mie e mi lascio inondare della sua fragranza. Cuoio, dopobarba, l’odore della sua pelle. Ha la pelle liscia, appena rasata.
Il cameriere con le ordinazioni mie e delle ragazze ci passa accanto e posa il vassoio sul tavolo.
«Ci sediamo io e te in un tavolino a parte?» mi chiede.
 
Annuisco, ho la gola secca. «Prendo il mio cocktail e ti raggiungo» dico. Suppongo che bere tutto in un fiato la piῆa colada non sia un buon metodo per idratare la gola. Così mentre vado al tavolo rubo un paio di sorsi di acqua seltz a Morena, la collega che avrebbe dovuto guidare. «Mi devi tutti i particolari». Mi dice strizzandomi l’occhio.

Quando prendiamo posto faccio in modo da dare le spalle alle mie amiche, non sopporterei di avere il loro sguardo puntato su di me tutto il tempo.
Poi mi accorgo che gli amici di lui ci stanno guardando e cambio nuovamente posto. 
«Tutto ok?» Mi chiede Edoardo.
Annuisco e bevo un poco del mio cocktail lasciando che la fragranza fruttata mi riporti indietro il respiro.
«Sembra che cerchi qualcuno con gli occhi. Sei fidanzata?»
«No, no. Ho avuto una storia “seria” poco dopo l’inizio dell’università. Con un collega. Poi per la specialistica lui è andato fuori e mi ha mollato dicendomi che non se la sentiva ad avere una relazione a distanza. Poi una storiella di qualche mese. Tu? Fidanzate? Alunne?»
«Scherzi? Fortunatamente ascolto più il cervello che ho in testa che quello in mezzo alle gambe. Ho bisogno di un lavoro, non di trovarmi in prigione per pedofilia».
Mette la sua mano sulla mia e mi guarda malizioso. «E poi…senza false modestie…non ho mai avuto problemi a trovare una ragazza».
 
Arrossisco. Certo che non ha problemi. Come si può resistere a quello sguardo magnetico che ti faceva sentire già nuda? Come non si può desiderare che quelle dita lunghe e sottili ti percorressero il corpo? Come non immaginare quelle labbra carnose a contatto con le proprie?
«Senza false modestie» dico facendogli verso e cercando di non apparire eccitata.
 «Alice» mi dice.
Sembra come se se lo ripetesse per accertarsi che io sia lì veramente. O almeno è questo che io voglio credere.
«Come sta la mia ex-alunna preferita? Che ci fai qui?»
«Fra tre settimane mi scade il contratto, mi godo gli ultimi giorni in città».
 
Non si inizia così un discorso dopo tanto tempo che non ci si vede, ma devo rimettere le rotelle del mio cervello al proprio posto per potermene accorgere. Lui scoppia a ridere, ovviamente ha capito che sono imbarazzata. Oddio, cosa può pensare di me che mi imbarazzo anche dopo tutti questi anni e alla mia età?
«Cosa facevi prima che il contratto ti stesse per scadere?» mi chiede.
«Mi sono specializzata in fisica-chimica». Non riesco a fare conversazione questa sera.
Poi, mentre lui chiama un cameriere e ordina una birra, inspiro profondamente. Sono grande abbastanza da flirtare con un uomo senza emozionarmi. Anche se, nel nostro “rapporto” è sempre stato lui a dare vita alle conversazioni.
«Quanti anni hai?»  Mi chiede non appena il cameriere si allontana.
 «Ventitré».
«Pensavo fossi più grande».
«Sembro più grande?»
«A dire il vero no, è che mi ero illuso che le mie alunne crescessero e io invece rimanessi sempre lo stesso. Non è così purtroppo, non si può andare contro la matematica. Se la differenza di età è un tot rimarrà sempre quel tot».
 
Poi socchiude gli occhi, sembra che si stia concentrando in qualcosa.
«Ti sei laureata in cinque anni in una facoltà per niente facile, complimenti! Sei veramente brava».
«Eh, sai, avevo qualche problema di matematica al liceo, fortunatamente ho avuto un professore molto bravo che mi ha fatto recuperare».
«Davvero? Che altro sai dirmi su questo professore?»
«Uhm… vediamo…ricordo che era molto sexy».
 «Era?»
«A dire il vero alcune fonti recentissime mi hanno confermato che lo è ancora». Guardo verso il mio cocktail, è quasi tutto lì. Dove ho trovato tutto quel coraggio?
«E lui come faceva a concentrarsi con una così bella alunna al suo fianco? Ci ha mai provato?»
Faccio mezzo sorriso.  «Forse. Un paio di volte. Più o meno».
 
Scuote la testa. «Devo dire un paio di parole a questo qui. Non si fa così. Non si può più o meno provarci. Rimedierò io» fa un sorrisetto malizioso «Ci proverò spudoratamente» continua a dire.
«Tanto non concluderai niente con me» preciso.
«Perché?»
«Perché io sto per andare via, noi stiamo di nuovo per separarci e non mi va di rendere il tutto ancora più difficile».
«Ma dai! È un segno del destino il nostro incontro, dobbiamo recuperare il nostro rapporto».
Sospiro. «Noi avevamo un rapporto?» Chiedo.
Edoardo arriccia le labbra. «Più o meno. Non puoi dire che non c’era del feeling tra di noi e mi piacerebbe farlo rinascere» mentre dice l’ultima frase mi circonda le spalle con il braccio.
«Lo facciamo rinascere e poi morirà di nuovo. Non ho voglia di mettermi a recuperare cocci» affermo.
Lui sembra pensarci su. «Solo che adesso siamo entrambi adulti, con le nostre esperienze, potremmo fare tre settimane di puro divertimento» mi dice facendomi l’occhiolino. L’idea mi alletta ma la mia ragione mi mette in guardia.
«Però mi piacerebbe che tu mi corteggiassi» dico.
«Corteggiare?» Domanda meravigliato.
«Sai…fare complimenti, invitare a cena, guardare un film insieme…queste cose così».
Inarca le sopracciglia come per chiedere se dico sul serio.
«Certo! Non è che dato che ti conosco vengo a letto con te tranquillamente».
«Ma mi avevi detto che mi amavi!»
Arrossisco, speravo che se lo fosse dimenticato


«Be’, mi sbagliavo, avevi ragione tu!» Borbotto.
«E poi pensavo che cinque anni di lontananza potessero bastare come preliminari!» esclama.
«Hai un concetto particolare di preliminari»
 Lui si avvicina e mi sussurra all’orecchio: «Sei tu che non sai cosa ho pensato in cinque anni».
Rimango sbalordita.
«Hai pensato di avere dei preliminari con me?» Chiedo tra la meraviglia e lo sbalordimento.
Si allontana dal mio collo per sorridermi malizioso. «A dire il vero ho immaginato anche ben oltre i preliminari».
 
In mezzo alle mie cosce scoppia un incendio. Anche io qualche volta mi ero svegliata con la mano in mezzo alle mutande dopo un intenso sogno con noi due come protagonisti, ma non voglio dargli soddisfazione.
«Be’…» sono imbarazzata e purtroppo non riesco a trovare una battuta sagace capace di mettere in imbarazzo pure lui.
 
Inizio a guardare le persone nella sala. Luisa mi strizza l’occhio e io torno a guardare verso il sorriso strafottente di lui.
«Ma sei ancora vergine?»
La sua domanda mi fa sobbalzare.
«Co-come? Ma che domande fai?» Chiedo mentre un’ondata di rossore si propaga nel mio viso.
«Scusa, non volevo imbarazzarti. Dato che sei…restia ai contatti».
«Perché sono restia ad avere troppo confidenza con persone che conosco poco».
 
Lui annuisce «Fai bene. E comunque non ci sarebbe niente di male se lo fossi, è solo per sapere come mi devo comportare».
È così sicuro che finirò a letto con lui? È ovvio che ci finirò, sogno quel momento da anni, però non subito, voglio che sia speciale.
«Al liceo lo eri, vero?» chiede interrompendo il mio flusso di pensieri.
«Cosa?»
«Vergine» mi dice sempre sorridendo.
«Tu sei Vergine» gli dico cercando di cambiare discorso.
Lui ride. «Lo sapevo, eri diversa dal resto delle tue compagne».
 
Si avvicina a me. Tantissimo. Avvicina le sue labbra al mio orecchio.
«Fossi in te non mi farei tanti scrupoli. Ti prometto che se mi permetti di accompagnarti a casa e stenderti sul letto, ti faccio passare la migliore notte della tua vita». La sua voce è calda, suadente.
«E domani mi richiameresti?» chiedo cercando di restare indifferente all’improvvisa umidità tra le mie gambe.
Lui si allontana, prende a scrutarmi e mi chiede: «Vuoi una storia seria?»
«Sì. No. Non lo so...»  Sospiro. «È possibile che non si può avere una storia di sesso con una persona che si conosce un po’? Per quanto tempo ci frequenteremo tre settimane? Non sono abituata ad andare a letto con persone che non sono miei fidanzati» continuo. «Intendi dire che dovremmo diventare tipo i trombamici o cose di questo genere?» Mi chiede. Io annuisco ma non parlo.
 
«Non funzionano mai, alla fine uno dei due si innamora. Finisce sempre così» Mi dice lui. C’è un attimo di silenzio.
«Non voglio una storia seria, non ora, sono incasinata perché sto cercando lavoro. Potrei trovarlo e trasferirmi dall’altro lato del mondo! Però se dovessi finire a letto di qualcuno, vorrei conoscerlo un po’ perlomeno. Non mi interessa, ora come ora, che sia il mio fidanzato, ma non deve essere uno sconosciuto. Per quel che ne so potresti esser diventato un molestatore di studentesse» dico tutto quasi in un fiato.
«Ehi! Non ti permettere!» Poi dice qualcosa che mi fa meravigliare. «Tu mi hai avvelenato» e lo dice più rivolto alla birra arrivata qualche secondo prima che a me.
«Cosa?»
«Non ho più dato ripetizioni a ragazze. Solo ed esclusivamente a ragazzi».
«Perché? Che significa che ti ho avvelenato?»
«Non è stato facile dimenticarti, sai?»
«Ma…perché non mi hai contattata allora?»
«Alice…io ero un uomo. Mi ero laureato, avevo il mio lavoro, la mia indipendenza. Tu eri una ragazzina, dovevi ancora vivere i tuoi momenti importanti. L’emancipazione, l’università. Cosa dovevo fare? Mi ero preso una tremenda cotta alla veneranda età di venticinque anni. Per una mia studentessa. Ho fatto quello che ho ritenuto giusto, ho tagliato i ponti. L’ho fatto per il bene di entrambi in un certo senso».
«Dicono tutti i vigliacchi» soffio.
«Vigliacchi? Che avresti fatto al posto mio? Non c’era molta speranza per noi due, io sono entrato quest’anno di ruolo, sai che significa che ho cambiato città anche quattro volte l’anno in questi cinque anni? Cosa avremmo potuto fare?»
 
Rimango in silenzio, è vero, non avremmo potuto fare alcunché. Non c’era una solida storia che potesse farci continuare ad andare avanti nonostante la nostra lontananza.
«Ok, hai ragione» dico ad alta voce.
«Ma possiamo recuperare tutto il tempo non passato assieme».
Mi guarda malizioso «Il contratto ti scade fra tre settimane, quindi ancora hai una casa…»
«Ma sei serio? Ti ho detto che non mi accompagnerai a casa stasera».
«Stasera! Ma un’altra sera sì… spero».
«E poi io ho una doppia e stasera c’è la mia compagna di stanza, quindi sarebbe stato impossibile comunque» dico non rispondendo alla sua affermazione.
«Io ho prenotato in un bed and breakfast fino alla fine della settimana, devo trovare un appartamento. Fra due settimane inizierà la scuola e vorrei avere uno spazio tutto mio prima di allora. Non posso portare persone in un b&b» mi spiega.
«Nessun problema».
«Che fai in questi giorni?»
«Cerco lavoro, mi preparo per i colloqui e mi annoio un po’».
«Mi fai compagnia per girare gli appartamenti?»

Me lo sta chiedendo veramente? Io avevo abitato per cinque anni in un appartamento dove la moquette era piena di muffa e i muri sembravano dover cadere da un momento ad un altro per la pigrizia di non doverne trovare un altro.
«Prendo il tuo silenzio per un sì?»
E meravigliandomi di me stessa rispondo proprio “sì”.
 
 
Arrivo a casa stanca, per quanto mi sia abituata a portare i tacchi i miei piedi li odiano. Mi strucco, mi svesto, ripenso alla serata trascorsa e mi scappa un sorriso.
Prendo il telefono e compongo un numero. Uno squillo, due squilli, tre squilli. «Pronto?» mi risponde una voce pastosa dall’altro lato del telefono.
«Indovina chi ho incontrato?»
Paola dice una serie di imprecazioni. «Non potevi aspettare domani mattina per dirmelo? Sono le tre e mezza di notte, mi hai fatto preoccupare!»
Paola abita in un’altra città, nonostante la lontananza però, è rimasta la mia migliore amica e quindi posso anche chiamarla a quell’orario, no?
«Va be’, ormai mi hai svegliata. Chi hai incontrato?» Mi chiede.
«Edoardo Coco».
Dopo un paio di secondi e la voce di Paola molto più sveglia domanda:
«QUELL’Edoardo Coco?» sento un rumore di lenzuola che si muovono e suppongo che si sia messa a sedere.
«Non ne conosco altri».
«Che avete fatto? Ti ha riconosciuto? Di che avete parlato? È ancora un figo pazzesco?» chiede tutto d’un fiato.
«Non eri interessata a dormire tu?» chiedo ironicamente.
«Non cambiare discorso, allora?»
Rido e inizio a raccontarle l’incontro per filo e per segno.
 
Note dell’autrice
Che ve ne pare del cambiamento di Coco?
 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14- Tra un cornetto e un cappuccino ***


Vengo svegliata dal cellulare che vibra. Merda. Ho dimenticato di spegnerlo. Stendo la mano verso il comodino e prendo il telefonino. L’orologio mi avvisa che sono le dieci, ho dormito solo cinque ore. Quando non sei fidanzata metti come numero preferito per i minuti illimitati quello della tua migliore amica. Eravamo state un’ora e mezza al telefono.
Noto che ci sono quattro sms e apro il primo
 
Dove abiti?
 
Digito velocemente l’indirizzo. Poi penso che non ho controllato il mittente ma la batteria cede e il cellulare si spegne.
Mi alzo come un automa, ho ancora qualche residuo di alcol nelle vene e ho bisogno di un caffè. E di una doccia. Mi annuso i capelli, a dire il vero ho bisogno pure di uno shampoo ma in questo momento non ho voglia di dedicarmi ai miei capelli. Per gestire i capelli ricci lunghi ci vuole una laurea.
Mi infilo in bagno, mi spoglio, mi faccio i capelli a crocchia e mi fisso la cuffia per non farli bagnare.
Mi lavo lentamente lasciandomi accarezzare dall’acqua. Sto morendo di sonno. Quando esco dalla doccia mi accorgo che ho delle occhiaie leggere e c’è ancora qualche residuo di trucco. Non ho ancora imparato a struccarmi bene. Mi passo il cotone con lo struccante sul viso e, attorcigliando un asciugamano attorno al corpo, esco dal bagno. Sento provenire delle voci dalla cucina. Noto che la voce di Rosanna, la mia coinquilina, sembra essere cambiata di qualche tono, assomiglia quasi a quella di una bambina. Scuoto la testa mentre mi dirigo verso la mia stanza quando sento distintamente la voce della persona con cui sta parlando la mia coinquilina. Che ci fa lui qui?
 
Sospiro. Ecco a chi avevo mandato il messaggio e mentre lo realizzo penso gongolante che lui ha ancora il mio numero memorizzato. Mi infilo velocemente nella mia stanza e cerco qualcosa di pulito e carino da indossare. Passo un po’ di correttore nelle occhiaie e mi sistemo i capelli. Quando mi ritengo soddisfatta del mio operato mi dirigo in cucina.
Rosanna ed Edoardo stanno parlando. Perché lei non mi è venuta a chiamare? Ma soprattutto perché l'ha fatto entrare in casa? Non è che può fare entrare chiunque, senza averlo mai visto prima, solo perché aveva detto che mi conosceva. E se fosse stato uno stalker? E se fosse stato un emerito sconosciuto che voleva derubarci e che per caso sapeva il mio nome?
 
Da come gli fa gli occhi dolci capisco che lo avrebbe fatto entrare anche se non avesse chiesto di me, anzi, solo perché cercava me non l’ha ancora invitato nella sua stanza.
«Buongiorno» dico entrando nella cucina.
Edoardo mi guarda, sorride e si alza.
Rosanna non è contentissima del mio arrivo.
«Buongiorno» mi dice lui. Mi avvicino e ci scambiamo un bacio sulla guancia.
È così strano comportarmi in maniera così tranquilla con lui.
«Ho pensato che potremmo andare in giro, non ho ancora girato del tutto la città…se ti va da farmi da Cicerone…o non ti va?» Mi chiede lui.
«Certo, possiamo andare, è solo che mi sono meravigliata un po’ a trovarti qui».
«Mi hai scritto tu l’indirizzo, secondo te cosa dovevo farmene?»
Sono ancora troppo addormentata per spiegargli tutto. 
«Andiamo?» Esordisco alla fine. Edoardo congeda Rosanna con una stretta di mano che la lascia delusa, io prendo la borsa e andiamo fuori.
 
Mentre lo seguo vado sbadigliando.
«Sto morendo di sonno, non so fino a che punto possa esserti utile oggi» dico.
«Ma dai, a che ora sarai andata a letto? Alle tre e mezza?»
Mi guardo la punta dei piedi. «Alle cinque» mormoro.
«Alle cinque? Se non sono indiscreto, posso chiederti che hai fatto?» Sembra veramente meravigliato.
«Ho parlato al telefono...con Paola» Chiarisco onde evitare fraintendimenti.
Lui si mette a ridere.
«Ne avevate cose di cui parlare!»
«Sì ».
Non voglio dargli la soddisfazione anche se so che ha capito di che abbiamo parlato. Ci fermiamo davanti una moto, Edoardo prende due caschi e ne porge uno a me.
«La moto? Ti prego non mi dire che sei diventato il classico bello e maledetto».
«Per il fatto che sono bello non ci posso fare niente, prenditela con i miei, con madre natura, con dio o chi vuoi tu. Per maledetto che intendi?»
«Hai i tatuaggi, l’orecchino…dico non mi dire che fai a botte sei un alcolista o cose del genere. Perché altrimenti non ti seguo nel tunnel e mi innamoro perdutamente di te. Ti mando a fanculo».
«Ehi, ehi…questi pregiudizi».
«Non sono pregiudizi. È che ultimamente va di moda questa cosa del ragazzo tutto che picchia e fa il violento. Io voglio un bravo ragazzo».
«Ma tanto noi non ci stiamo mettendo insieme no?»
No? Vuole una risposta? Devo essere sincera non saprei che rispondere. So che la nostra storia avrebbe serie difficoltà a durare se dovessimo metterci assieme, però l’idea che io e lui ci mettiamo assieme, seriamente, senza tutti i giochetti che abbiamo fatto, senza tutte le frasi che mi lasciano sempre con la speranza che lui è interessato, questa idea mi piace.
 
 
Infilo il casco e aspetto che metta in moto per poter salire in sella. Non trovando altri appigli mi abbraccio a lui, non troppo forte. Dopo un paio di curve mi stringo forte a lui sentendo la solidità del suo corpo sotto le mie dita.
«Hai paura?» Mi chiede.
«Un po’» Mento.
All’inizio, quando l’ho stretto avevo un po’ paura, ma adesso, mentre l’abbraccio, provo tutt’altra sensazione. È come se sentissi che lui ed io fossimo avvolti in una bolla che ci protegge da tutto ciò che ci circonda.
Ci fermiamo in un bar sul lungomare.
«La tua coinquilina mi ha detto che non hai fatto colazione» Mi spiega mentre parcheggia la moto e posa pure il mio casco.
Io ordino un cappuccino e un cornetto e lui prende solo un caffè.
«Non muori di fame bevendo solo quello?» Gli chiedo mentre mordo il mio cornetto.
«Io ho già fatto colazione» chiarisce.
«Ma allora…hai paura che io abbia un calo di zuccheri?» sorrido. «Pago io ovviamente, ti devo ancora la merendina» continuo.
«Cosa? Te ne vuoi uscire con un caffè? Guarda che sono passati quasi sei anni, con gli interessi maturati devi pagarmi almeno la cena!»
Rido.
«Ok, ok, avrai fatto bene i conti dato che sei un matematico, ti offrirò la cena uno di questi giorni».
«E vedi che deve avere l’antipasto, il primo, il secondo, la frutta…» si morde l’angolo del labbro.
«E il dolce» concludo io leggermente imbarazzata.
Lui sorride.
«E il dolce. Ma posso scegliere io che tipo di dolce avere?»
Ha uno sguardo malizioso mentre si lecca le labbra.
«Ma sei sempre stato così maiale?» Chiedo, anche se la mia mente pensa che può decisamente scegliersi il dolce.
«Maiale? Ho solo chiesto un dolce, se hai dedotto qualcos’altro tu non sono io il colpevole».
Bevo il mio cappuccino e lui si avvicina con la sedia a me.
«Ma non mi dispiacerebbe avere pure ciò che hai dedotto tu» mi sussurra.
«Ricorda quello che ti dissi una volta. Sono un uomo. Ho le mie necessità, le mie voglie, le mie pulsioni».
 
Lo guardo fisso negli occhi e potrei abbandonarmi a lui lì, davanti a tutti. «Forse…un giorno…forse» ma il tremore nella mia voce fa capire che non vedo l’ora.
«Come vuoi tu…»
«Il fatto che non abbia rapporti da poco più di un anno, non fa di me il tipo di ragazza che casca immediatamente tra le braccia di qualcuno».
È una considerazione che sto facendo a me stessa, mi accorgo troppo tardi di aver parlato ad alta voce. Sul volto di lui c’è meraviglia.
«Poco più di un anno?»
Mi dedico al resto del cornetto, sono troppo imbarazzata.
Improvvisamente lui si avvicina paurosamente al mio orecchio.
«Ti prometto che resterai così appagata che ti sentirai soddisfatta anche dopo anni di astinenza» mi sussurra con una voce suadente.
E ho caldo, ho i brividi, ho una serie di scosse elettriche che mi percorre il corpo. Bevo tutto d’un fiato il cappuccino sperando che possa calmarmi. Ovviamente non funziona.
«Facciamo una passeggiata?» mi propone lui mettendo di nuovo un po’ di distanza tra i nostri corpi.
Faccio di sì con la testa. Edoardo chiama il cameriere e paga il conto, poi ci alziamo e io inizio a guardare il mare che si scaglia contro gli scogli. L’odore della salsedine arriva alle mie narici, mi dà fastidio ma non dico niente.
«Che hai fatto in tutti questi anni?» chiedo ad un certo punto.
«Che ho fatto? Ho cambiato città e città aspettando disperatamente di entrare di ruolo. Finalmente lo sono diventato e sto comprando a rate la moto. Ora sono alla ricerca di un appartamento e domani mi accompagni».
«Domani?» chiedo meravigliata.
«Certo, mi devo dare una mossa, non ne posso più di stare in un bed and breakfast. Voglio un appartamento mio».
«Dove riempire un’intera credenza di infusi di tè» dico.
Scoppia a ridere. «Pure per quello, sì».
 
Ci fermiamo e io torno a guardare il mare.
«Dovremmo farci un bagno uno di questi giorni, quando ero all’università sono andata pochissime volte a mare. Voglio approfittarne prima di tornare in quel buco di paese» dico.
«Volentieri, dopo la ricerca dell’appartamento magari».
Lo guardo e sbuffo. «Uffi e io che pensavo di essere in vacanza».
Ma non sono per niente arrabbiata.
Ieri sera Edoardo mi ha detto che il nostro incontro è un segno del destino, perché dobbiamo concludere qualcosa lasciato in sospeso. Mi ha lasciato perplessa, perché non so di preciso cosa voglia dire e perché non so cosa abbiamo lasciato in sospeso. Ma mi piace particolarmente l’idea che lui sia così preso da me.
I miei pensieri vengono interrotti dalla mano di lui che mi circonda improvvisamente il polso.
«Voglio dirti una cosa» mi dice.
«Ti ricordi che ti ho detto che sono un uomo che ha delle necessità e delle voglie? In questo momento ho voglia di baciarti. E lo farò ora» e così alla sprovvista mi si avvicina e mi dà un bacio sulle labbra.
Prende il mio labbro inferiore tra i denti e lo accarezza con la punta della lingua. Mi sciolgo. Immagino quella lingua in un’altra parte del mio corpo e una serie di brividi mi percorre il corpo. Il suo braccio destro mi stringe in un abbraccio e accorcia tantissimo la distanza tra i nostri corpi. Entrambe le sue mani scendono a circondarmi i fianchi e finalmente arriva il bacio vero. Per dare baci come questi ci vorrebbe il porto d’armi. Ti lasciano senza fiato, incapace di intendere e di volere. Nel momento in cui le sue labbra si appoggiano sulle mie e la sua lingua inizia a danzare con la mia, dimentico chi sono, cosa ci faccio lì, qual è il mio nome. Nonostante duri qualche minuto, quando mi dà un tenero bacio sulle labbra per staccarsi sono completamente scombussolata. Ho aspettato questo bacio per ben sei anni.
«Ho osato troppo?» mi chiede notando che sono attonita. «Dimmelo, perché se è così rallento».
Rallentare? Se questo è l’effetto che mi fa un semplice bacio, può osare tutto quello che vuole.

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Capitolo 16
*** Capitolo 15- Cercando un tetto ***


L’agente immobiliare apre le tende facendo inondare di luce la stanza, poi si gira verso di noi.
È una donna sulla quarantina, ha i capelli ramati ed un evidente sorriso finto sulle labbra.
«Questo è l’ingresso, come potete notare è piuttosto luminoso. Tutta la casa è decisamente luminosa, se mi seguite vi mostro il soggiorno».
Ci muoviamo dietro di lei che mentre avanza sistema qualche soprammobile o cerca di nascondere gatti di polvere con i piedi. Sbuffo.
 
Questo è il quinto appartamento della giornata che visitiamo. Perché ho accettato la proposta di Edoardo? Voglio passare del tempo con lui, però non certo in questa maniera.
Ok, è colpa mia, potevo passare il tempo anche in un’altra maniera ma ho posticipato la cosa. Perché? Il mio inconscio a volte mi lascia proprio perplessa. L’ho sempre desiderato e ora che posso averlo ho paura di lasciarmi andare. Non diventerà, forse, una storia seria, quindi perché non abbandonarmi tra le sue braccia e spassarmela gli ultimi giorni di permanenza qui? Perché sono fatta così.
Perché sono sicura che se mi rotolassi tra le lenzuola con lui in questo momento mi piacerebbe, ma non quanto mi potrebbe piacere se aspettassi qualche altro giorno. Per dare tempo al mio corpo di abituarsi alla sua presenza, per far ritornare l’attrazione tra le particelle dei nostri corpi, per far rinascere la chimica.
Sono un’inguaribile romantica e anche se so che non ci sarà futuro tra di noi, voglio che la nostra prima volta assieme sia speciale. Solo che ho paura che così mi affezioni troppo a lui. È stato difficile dopo il liceo non pensare più a lui, la tentazione di prendere il telefono e chiamargli era grandissima.
Ogni tanto, quando tornavo in paese mi dirigevo verso quello che era stato il suo appartamento nella speranza di vederlo uscire, anche se sapevo che non abitava più là.
Ma in che guaio mi sto cacciando? So che non ci sarà futuro per noi, perché devo farmi del male? Finirà come al liceo, io che gli sbavo dietro e lui dal comportamento indecifrabile. Anche se ora non ha un comportamento indecifrabile, anzi…direi tutt’altro!
 
Il mio monologo interiore viene interrotto dalla suoneria del telefono dell’agente immobiliare. La donna tira fuori il cellulare dalla borsa scusandosi con noi, corruga la fronte e, preoccupata, si allontana rispondendo.
Un paio di secondi dopo mi ritrovo appoggiata al muro. Edoardo mi guarda con una scintilla negli occhi.
«Ci siamo io, te e un appartamento semivuoto. Che ne dici se riproduciamo qualche scena de “L’ultimo tango a Parigi?”» mi sussurra nell’orecchio.
Le mie gambe si rammolliscono.
Mi dà un bacio sul collo e una serie di scariche elettriche mi percorre il corpo. Un bacio sull’angolo della mandibola, un bacio sul mento. È a qualche centimetro dalla mia bocca, prendo io l’iniziativa questa volta e lo bacio. Edoardo sembra infervorarsi ancora di più e le sue mani iniziano a percorrermi il corpo. Mi sento come se fossi ancora vergine, come se questi fossero i miei primi contatti con un uomo. Senza accorgermene un gemito mi esce dalla bocca e vedo l’incresparsi di un sorriso sulle labbra di Edoardo. Le sue mani si fermano sopra la zip dei miei pantaloni e la aprono. Sobbalzo.
 
«Ho il ciclo» dico.
«Sul serio?»
«Sono una donna, ce l’ho ogni mese».
«E che sfiga! Proprio ora ti dovevano venire?»
«Ringrazio il cielo che mi vengano puntuali».
«Perché? Rischi qualcosa…stai uscendo solo con me in questo periodo?»
«Ma sei scemo? Certo che esco solo con te» dico fulminandolo con gli occhi.
«Allora di che ti preoccupi? Anzi…gradirei che iniziassi ad avere questo tipo di preoccupazione».
«Quanto sei spiritoso» dico quasi cantilenando.
«Non sono spiritoso! Seriamente dico io voglio…» non completa la frase si limita solamente ad alzare velocemente due volte le sopracciglia.
«Edo».
«Ero più affascinante quando non potevi avermi?»
«Come?»
La nostra discussione viene interrotta dal ritorno dell’agente immobiliare. Sembra più rilassata rispetto a quando si era allontanata, tanto che quando ci vede appoggiati al muro e con gli sguardi torbidi non sembra infastidita.
Anzi, piuttosto divertita dice: «Vi mostro la camera da letto».
 
**
 
Siamo seduti al bar. Dopo aver mangiato velocemente un kebab stiamo bevendo una birra a testa. Edoardo guarda la sua agenda.
È ordinatissimo, preciso e forse un po’ troppo perfettino.
Ha scritto la lista degli appartamenti visitati, per ognuno di esso ha appuntato accanto gli aspetti positivi, gli aspetti negativi e gli aspetti negativi ai quali è possibile trovare una soluzione. Abbiamo girato dieci appartamenti e ho i piedi che mi stanno bollendo.
«Scusami è che ora sono a tempo indeterminato quindi non so fino a quando abiterò qui, mi piacerebbe prendere un appartamento che mi piace sin dall’inizio ed evitare di girare ogni anno alla ricerca di un altro posto in cui vivere» mi aveva detto.
C’è stato un momento durante la giornata che mi ha lasciato interdetta.
Stavamo visitando forse il settimo appartamento e io ormai avevo messo il cervello in stand-by.
L’agente immobiliare parlava, Edoardo faceva domande e io seguivo Edoardo solo con il corpo, la mia mente era completamente spenta.
Per una frazione di secondi però ero tornata lucida, in tempo per sentire la donna esclamare: «Qui potete sistemare la culla del bebè e in questo spazio potete recuperare una piccola sala per i giochi!»
 
Io avevo sorriso: ci aveva preso per una coppia. Addirittura per una coppia che voleva avere bambini. Quello che mi aveva meravigliato però fu Edoardo che mi aveva preso per mano. Per la prima volta dopo tutti questi giorni aveva intrecciato le sue dita con le mie e mi aveva stretto la mano. Dopo quella frase. Perché?
È l’uomo più enigmatico che abbia mai conosciuto. Solo qualche giorno fa mi sottolineava che non ci stiamo mettendo insieme e oggi mi aveva stretto la mano dopo che l’agente immobiliare ci aveva scambiato per una coppia.
Deve smetterla di fare così. Lo guardo mentre passa una mano tra i capelli, poi poggia il pollice e l’indice nella parte alta del naso e strabuzza gli occhi. È stanco. Anche io sono stanca e mi domando che ci faccia qui. Non è la mia vita. Dovrei chiudere questa storia, di qualsiasi natura sia. Prima di farmi di nuovo male, prima di illudermi nuovamente. Ma quando il suo sguardo si alza su di me ogni mio proposito va a quel paese. Io lo voglio. Lo desidero troppo. Mi rendo conto adesso che la mia messinscena “vorrei conoscerti di più” é solo una strategia del mio inconscio per farmi allontanare da lui, far passare del tempo in maniera tale che possa scappare.
 
«A cosa pensi?» mi chiede.
Vorrei rispondere che penso a troppe cose e che dovrei smetterla, così mi godrei un po’ di più la vita.
«Domani parto per la Francia» dico invece. Ed è vero.
«Quando avevi intenzione di dirmelo?» La sua voce si è alzata di mezzo tono.
Mi piace sapere che si è arrabbiato. Penso voglia dire che tenga a me.
«Tranquillo, vado domani e torno dopodomani sera. Dopodomani mattina ho un colloquio di lavoro».
Vedo che le sue spalle si abbassano per il sollievo. Stende un braccio e poggia la sua mano sulla mia spalla. Mi tira a sé.
Mi ritrovo con la testa poggiata sul suo petto, sento il suo cuore battere.
«Non mi fare più di questi scherzi» mi dice.
Ritorna ad essere l’uomo enigmatico. Cosa vuole dire?
«Lo sai che prima o poi me ne andrò vero? Fra meno di tre settimane mi scade il contratto».
La mia bocca è poggiata alla sua t-shirt ma le parole risultano comunque comprensibili. Lui mi continua a tenere stretta a sé e mi dice: «Non pensiamo a quel momento per favore, godiamoci il momento».
Mi ricorda un po’ “Ballo del tuo sogno” e mi godo nuovamente quei minuti bellissimi.
 
**
Arriviamo davanti la porta del mio appartamento. Infilo la chiave nella toppa e la giro, quando una mano di Edoardo mi cinge la vita e l’altra mi scosta i capelli dalla nuca. Improvvisamente il mio collo viene percorso da una serie di piccoli baci.
«Sei sicura che non vuoi che entri con te?» mi chiede.
Il mio corpo, in astinenza da quasi due anni mi prega di farlo entrare dentro.
«Sì» rispondo.
No, dico alle parti del mio corpo che si stanno ribellando, non sono
questo tipo di ragazza. Mi giro lentamente verso di lui che mi sorride.
«Allora ti devo dare la buonanotte qui?» mi chiede.
Accarezza il mio naso con il suo. Le sue labbra sono a qualche centimetro dalle mie.
«Mmm mmm» mugugno in segno di assenso.
Mi sposto leggermente all’indietro per evitare qualsiasi contatto
quando la porta improvvisamente si apre. Perdo l’equilibrio ma fortunatamente non cado perché Edoardo mi sorregge tenendomi per un braccio. Poi mi tira verso di sé.
È ancora più vicino di prima. Posso sentire l’odore della birra fuoriuscire dalla sua bocca. Il dopobarba, la fragranza della sua pelle.
«Questo è un segno del destino che mi invita ad entrare» mi dice. Prende il mio labbro inferiore tra i suoi denti e lo mordicchia leggermente.
Tutto il mio corpo urla la voglia di un suo contatto più profondo, ma la mia mente ha il sopravvento. Non posso cedere ai piaceri della carne, non ora.
«Non lo è. Ci sentiamo presto» dico allontanandomi da lui e spingendolo delicatamente verso fuori.
«Buonanotte Edo» dico mentre il mio corpo si ribella.
«Buonanotte?» mi chiede meravigliato lui
«Buonanotte» ribatto, poi chiudo la porta prima di avere ripensamenti.
 
Note dell’autrice
Che ne pensate del cambiamento di  Coco?

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Capitolo 17
*** Capitolo 16- Rosanna ***


Ho appena finito di compilare un paio di applications, da quando mi sono laureata ho inviato centinaia di curricula e ho fatto una decina di colloqui, alcuni anche prima di laurearmi. Mi hanno detto che chimica è una facoltà grazie alla quale posso trovare subito lavoro e spero fermamente che sia vero.
Domani mattina avrò una phone interview e l’ansia mi sta divorando. Prima di tutto perché è in inglese, poi perché sono tornata ieri sera dalla Francia e ancora mi sento distrutta ma oggi pomeriggio non ho proprio voglia di dedicarmi a tutte queste pratiche. Mi gira la testa, sono stata a leggere consigli su consigli su come fare un’ottima impressione telefonicamente.
È consigliato sorridere, ci si può scrivere una lista di spunti in maniera tale da non rimanere a corto di parole, è consigliato vestirsi comunque in maniera formale e bla bla bla.
“Rilassarsi”.
Facile a dirsi.
Come faccio a rilassarmi? Mi stiracchio, roteo la testa, sbuffo. Sorrido, mi è venuto in mente un modo per rilassarmi. Un modo per aumentare le endorfine in circolazione.
Prendo il cellulare e lo vado passando tra le mani.
Perché mi devo sempre complicare la vita? Edoardo mi ha mandato un sms qualche ora fa chiedendomi di uscire. Chi mi giudicherà se andrò a letto con un uomo che non è il mio ragazzo? Me stessa.
È ora che “me stessa” si faccia un po’ gli affari suoi e mi lasci divertire un po’.
 
Compongo il numero di Edoardo. Uno squillo, due squilli, la sua meravigliosa voce.
 
 < Pensavo fossi rimasta in Francia! >
< No, purtroppo ancora non so il verdetto finale del mio colloquio, non so se tornerò in Francia. Ti devo una cena ricordi? Ti va di venire stasera da me? >
< Ricordo che una volta mi dicesti che non eri brava a cucinare >
< Ma ora ho alle spalle cinque anni nei quali ho imparato a      cucinare >
< Davvero? >
< Forse imparato a cucinare è esagerato, però so preparare qualche piatto commestibile e dal gusto discreto >
< E le tue coinquiline? >
< Non ci sono >
< Ok…allora forse è meglio che vada a fare un po’ di acquisti … >
< Tranquillo ho pure il vino >
< Io intendevo altri acquisti >
Sento che sorride e avvampo, perché sono tonta?
< Allora alle nove da me? > dico facendo cadere il discorso
< Ci vediamo alle nove >
 
Stacco la chiamata e mi metto a ruotare con la sedia.
Batto le mani, esulto. Mi sento una bambina di cinque anni che ha ricevuto un regalo e non so neppure il perché, in fondo sono stata io a posticipare tutto quello che prospetto che avverrà.
Ritorno a navigare su internet ma stavolta per cercare spunto su cosa cucinare.
Deciso il menù mi metto all’opera.
 
Attorciglio il prosciutto crudo attorno a dei grissini, li sistemo in un piatto a mo’ di raggi e metto delle piccole mozzarelle al centro della composizione, un piccolo sole culinario.
Frullo prezzemolo, tonno, maionese e carote e spalmo il tutto su dei piccoli triangoli di pancarré.
Sistemo dei sottoaceti in una piccola ciotola e la munisco di forchettina.
Come primo piatto preparo la pasta con la panna il pistacchio e lo speck.
Come secondo del petto di pollo contornato di funghi.
Il dessert lo preparo veramente: la cheesecake.
Sistemo la torta in forno e metto in rassegna i vestiti.
 
Troppo elegante, troppo scollato, troppo corto, troppo vecchio, oh questo non ricordavo neanche di averlo, troppo da zoccola (chi mi aveva convinto a comprarlo?), troppo da discoteca.
Sbuffo. Alla fine opto per una blusa scollata che mi arriva sotto il sedere, è blu scura e con un disegno argentato. Metto i leggings neri e le scarpe con la zeppa. Raccolgo i capelli in una coda lasciando ricadere un ciuffo davanti gli occhi, metto i bracciali argentati che richiamano il vestito e gli orecchini in tinta. Passo un sottile strato di ombretto grigio argento negli occhi e un filo di eyeliner.
Quando esco dal bagno soddisfatta del mio lavoro mi accorgo che sono pronta con un’ora e mezza di anticipo. E adesso?
Se mi mettessi distesa ad oziare rovinerei trucco e parrucco, non ho più nulla da fare però.
Prendo il cellulare e mando un sms sperando che il mio piano funzioni.
 
Io: Non vedo l’ora di vederti
Edo: Anche io
 
Piano fallito. Poso il cellulare sul piano cottura e penso che potrei preparare una macedonia. Sto per guardare cosa c’è in frigo quando il cellulare squilla.
 
Edo: Verrei pure ora
 
Chiudo il pugno e porto il gomito all’indietro. Sì!
 
Io: Ti aspetto, sono già pronta.
 
Decido che è meglio non preparare la macedonia, ormai che sono vestita bene e che Edoardo sta per venire, sono sicura che l’unica cosa che concluderei sarebbe quella di sporcarmi il vestito.
 
Passeggio nervosamente, accendo la tv, la spengo.
Dovrei accendere delle candele? Dovrei mettere della musica di sottofondo? Perché non mi venivano in mente prima queste idee?
Suonano alla porta e mi precipito ad aprire.
Edoardo con il suo sorriso stupendo e un mazzo di fiori in mano. Sorrido.
 
«Ma non dovevi!» dico prendendo i fiori mentre lui si avvicina e mi lascia un bacio a fior di labbra.
 
Vado alla ricerca di un vaso per i fiori, lo riempio di acqua e ci adagio il mazzo dentro. Dopo che sistemo per bene il vaso mi giro e mi ritrovo Edoardo davanti. Mi stringe a sé e mi bacia.
 
Sento le sue mani che dalle cosce risalgono al sedere e poi lungo le spalle fino al gancetto del reggiseno. Con la maglia non riescono a sbottonarlo e ritornano giù, ma l’elastico della blusa ostacola la mano che prova ad infilarsi sotto. Alla fine si arrende e mi tocca il seno da sopra il reggiseno.
 
«Per me si può passare direttamente al dessert» mi dice ad un certo punto.
 
La torta! Mi stacco immediatamente da lui e corro verso il forno.
Lo spengo, apro lo sportello e tiro un sospiro di sollievo. È ancora mangiabile. Avevo dimenticato che il timer è rotto. Edoardo è rimasto immobile e attonito.
 
«Dove posso lavare le mani?» chiede alla fine.
«Il bagno è di là» dico indicando la porta, poi lavo anche io le mani ma nel lavello della cucina.
Comincio a sistemare i piatti dell’antipasto a tavola ed Edoardo torna dal bagno.
 «Vuoi una mano?» mi chiede notando che cerco di fare spazio sul tavolo per posare il piatto della prima portata.
«Tranquillo, non ce n’è di bisogno, prendi posto e serviti della quantità che più gradisci».
Lui sorride e si siede.
«Allora come è andato il colloquio in Francia?» mi chiede mentre addenda un triangolino di pancarré.
«Bene, anche se l’ambiente non mi è piaciuto particolarmente e vogliono che entro due anni impari il francese».
«Merde».
«Fosse solo quella la parola da imparare!» dico sconfortata.
«Ho scelto la casa finalmente, domani mattina firmo il contratto» mi dice lui.
 «Qual è? L’ho vista?»
«Sì sì, è quella in mattoni rossi che si trova al centro, sarai la mia prima invitata» dice quest’ultima frase con un piccolo sorriso malizioso e sento svolazzare le farfalle dentro di me.
Da bere c’è del vino bianco e lo servo insieme alla pasta.
«Dicevi sul serio quando parlavi di saper cucinare, questa pasta è veramente ottima» Edoardo parla con la bocca aperta mentre mastica il cibo, forse per enfatizzare ciò che sta dicendo.
È troppo ordinato e pulito per poter essere così rozzo.
«Sfido io a far qualcosa dal gusto non buono con della panna, ricca di trigliceridi e quindi gustosa, speck affumicato e pistacchio» faccio notare io.  
«Poteva non piacermi il pistacchio» mi dice.
Giusta osservazione.
«Hai ragione e dovevo pure chiedertelo a dire il vero, dopo l’esperienza che ho avuto con il mio ex non ho imparato alcunché a quanto pare».
«Cioè?»
«Era intollerante a decine di alimenti e altre decine non gli piacevano. Era intollerante alle melanzane e non gli piacevano i peperoni, era intollerante alle uova e gli piacevano poco i formaggi. Ogni volta era un’impresa trovare qualcosa che potesse gradire. Secondo me era così perché era un mammone, viziato, infantile e… scusa forse è meglio che non parlo di lui».
Tra l’altro mi sono accorta pure di aver alzato un po’ il tono della voce.
«No no, per me puoi pure continuare a parlare di lui se continui a contornarlo di aggettivi negativi. Accrescono il mio ego, mi fanno sentire più tranquillo perché non lo vedo come un rivale».
«Lui non è un rivale, assolutamente. Allora dimmi tu…parlami delle tue ultime conquiste».
 «Io? Poco e niente di serio. Più storie da una botta e via, non tanto perché desiderassi questo tipo di rapporti ma quanto perché non mi andava di iniziare una storia sapendo che rischiavo di partire da un momento ad un altro».          
«Quindi in tutti questi anni…» inizio a dire, ma lui non mi fa completare la frase.
«L’unica storia mezza seria è stata una mia collega, un’insegnante d’inglese. Bella donna, un fisico mozzafiato fino a quando non ha iniziato a dimagrire a dismisura ed è diventata lunatica. Ti giuro, è cambiata da così a così. – mette la mano davanti a sé e la volta sottosopra- E poi paranoica, mi chiamava alle tre di notte per parlare con la donna con cui secondo lei stavo dormendo, perché l’aveva sognato. Oppure ha iniziato a dirmi che non la guardavo più come una volta, peccato che ci stavamo frequentando da un mese e voglio ancora capire quando era “una volta”. Sono stato contento quando mi è scaduto il contratto. Ho chiuso la storia in modo pacifico, non avrei potuto staccarmela di dosso altrimenti».
 
Nel frattempo abbiamo finito di mangiare il secondo e io ho bevuto il terzo bicchiere di vino. Mi sento la testa leggera. Mi alzo per posare i piatti dentro il lavello e prendere i piattini per il dolce quando mi ritrovo circondata dalle braccia di Edoardo.  
«Che ne dici di mangiare dopo la torta?» mi sussurra nell’incavo del collo.
 
Sono pienamente d’accordo e mi godo le labbra di Edoardo che vanno scivolando sulla mia pelle nuda. Mi lascia piccoli baci sul collo, sulle spalle. Sposta la blusa e io mi giro per baciarlo. Mi stringe a sé come per non farmi scappare via e indietreggia portandomi con sé. Ci ritroviamo seduti sul divano.
Mi solleva delicatamente e mi fa sedere a cavalcioni su di sé. La mia lingua viene presa in ostaggio dalla sua. Le sue mani, all’inizio sono ferme, poi, quando il bacio diviene più profondo, mi spingono verso di lui facendomi sentire una nuova presenza tra le mie gambe.       
 
«Quante volte ho desiderato di toccarti, quante volte ho percorso il tuo corpo con le mie mani nella mia fantasia, quante volte ho sognato il gusto della tua pelle» si mette a dire sottovoce.
 
Le sue dita veloci sono prima sui miei glutei, poi tra le mie gambe, infine risalgono lungo la mia schiena.
Mi solleva la blusa facendo cedere la morsa dell’elastico, le sue mani si intrufolano sotto l’indumento e non appena entrano in contatto con la mia pelle nuda mi sembra che abbiano attivato nel mio corpo un processo di autocombustione.
Dove si posano i suoi polpastrelli la mia pelle avvampa, desidera altri contatti. Posso sciogliermi e bruciarmi contemporaneamente andando contro tutte le regole della fisica. Mi spinge la testa all’indietro e mi riempie il collo di baci. Gemo. Piccoli rantoli escono dalla mia bocca. Voglio di più. Sono pronta. Apro la bocca per poterglielo sussurrare quando si apre la porta di casa e si accende la luce dell’ingresso.
Scendo immediatamente dalle gambe di Edoardo e guardo verso la mia coinquilina. Ma non aveva detto che se ne sarebbe tornata a casa? Poi mi accorgo che è ubriaca.
Ha un sorriso ebete sul viso, il trucco sbavato e le chiavi ancora in mano. Sembra che si stia guardando intorno per capire dove si trovi. Mi sistemo la maglietta e mi dirigo verso di lei.
 
«Rosanna stai bene?» chiedo.
Fortunatamente mi sposto appena in tempo per non ricevere la risposta addosso: il suo vomito.
Chiudo la porta alle sue spalle e l’aiuto ad andare verso il bagno, mentre Edoardo si mette un cuscino sulle gambe bofonchiando qualcosa come “Credo che non ci faccia caso se non la saluto vero? Non sono in grado di alzarmi in questo momento”.
Dopo che le sfilo la giacca Rosanna svuota nuovamente lo stomaco, stavolta fortunatamente dentro il water.
Quando noto che è difficile che la mia coinquilina cada dentro la tazza, vado in cucina a preparare un caffè.
«Nel contratto tra coinquiline c’è scritto che devi fare pure da crocerossina?» mi chiede Edoardo che finalmente è in grado di alzarsi senza ingombri.
«No, ma ho una cosa chiamata coscienza che mi invita a non fare la stronza» rispondo secca.
«È lei la stronza! Ti ha promesso di non essere a casa e ci interrompe sul più bello» ribatte lui.
 
Incrocia le braccia sul petto, sbuffa, sembra un bambino di quattro anni con il broncio.
Scoppio a ridere. «Dovresti guardarti, seriamente, hai proprio l’aria di uno stimato professore di matematica».
Il suo broncio scompare e spunta un sorrisetto malizioso.
«Perché non controlli come sta la tua amica, la metti a letto e riprendiamo da dove abbiamo lasciato?»
«Non posso metterla a letto in quelle condizioni…e poi mi sono spenta un poco» ammetto.
Lui si avvicina a me, mi abbraccia e mi guarda intensamente negli occhi. È riuscito tranquillamente a riaccendermi.
Gli do un piccolo morso sulle labbra e lui inizia invece a tempestarmele di baci. Mi spinge contro il piano cottura e sento le sue mani dappertutto. Sento pure che Rosanna inizia a cantare nel bagno.
Non ci posso credere.
Edoardo fa finta di nulla e mi bacia appassionatamente.
Sento che non è del tutto preso dal bacio, Rosanna stona.
Edoardo si rassegna, si allontana da me e sospira.
 
«Mi sa che non c’è niente da fare stanotte» dice affranto.
Mi spiace più che a lui, finalmente avevo levato i vincoli alla mia mente e mi ritrovo insoddisfatta. Ma la mia coinquilina non demorde e passa pure ad un’altra canzone.
La odio. Da domani avrà tutti i miei turni di pulizia che mi sono rimasti, anche i turni per buttare la spazzatura e forse anche le bollette.
Accompagno Edoardo davanti la porta.
«Sei sicura che non vuoi un aiuto? So badare agli ubriachi» si offre «Tranquillo, vai, penso io a lei».
Mi abbraccia, mi tira a sé e io gli sussurro “buonanotte” tra le sue labbra.
 
Note dell’autrice
Non hanno fortuna questi due eh?
Per chi se lo stesse chiedendo, i consigli per la phone interview sono veritieri.
Ho finito di scrivere gli altri capitoli, ancora sono da rivedere, siamo quasi alla fine :(
 

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Capitolo 18
*** Capitolo 17- Keep it loose keep it tight ***


Per colazione mangio un pezzo di cheesecake.
Rosanna è sul letto che dorme: la bocca aperta che lascia cadere un rivolo di bava, il trucco sbavato ed è ancora vestita.
Ma almeno ronfa come un ghiro. Beata lei, io non ho dormito per tutta la notte, non tanto perché l’abbia assistita e neppure perché ero nervosa per la phone interview, per la quale ora ho tappezzato il tavolo di post-it gialli con scritte frasi che a mio parere dovrebbero dimostrare la mia capacità linguistica e potrebbero attirare la loro attenzione.
No.
Non ho dormito perché avevo ancora l’adrenalina che mi circolava in corpo, l’eccitazione della serata, il fuoco che anziché spegnersi è stato attizzato ancora di più ed è rimasto acceso.
Peggio di quando torno dalla palestra. Ma adesso devo pensare all’intervista e ho già l’impressione che mi andrà da schifo. Ho acceso i condizionatori a palla perché indosso il tailleur elegante con tanto di collant e scarpe chiuse.
Dovrebbe servire per rendermi più concentrata, per calarmi di più nella parte. Questo sarà un vero e proprio colloquio di lavoro.
Ma non riesco a pensarci perché penso al sorriso di Edoardo.
Alle sue labbra, alle sue mani, al suo petto contro al mio, alle sue dita che si infilano sotto la mia maglietta.
Oddio come lo desidero. Ho la tentazione di prendere il cellulare e chiamargli ma non posso, devo tenere la linea libera. Non vedo l’ora che tutto finisca, qualunque sia l’esito. Controllo il cellulare e mi accorgo che prende bene, due secondi dopo squilla. Un respiro profondo, sorrido e rispondo.
L’intervista dura quindici minuti come mi avevano avvisato. Per l’agitazione ho strappato tutti i post-it man mano che li andavo leggendo. Penso di aver fatto una cattiva impressione, pazienza. Mentre mi dirigo verso la mia stanza per cambiarmi noto che Rosanna è in bagno e ha lasciato la porta aperta. Sembra che non si sia ripresa del tutto.
«Buongiorno» mugugna mentre fa pipì.
Io ricambio il saluto e mi infilo nella mia stanza non sapendo come comportarmi. Due minuti dopo, mentre sono ancora mezza svestita, Rosanna entra nella mia stanza.
«Ehi» ha la voce impastata.
«Grazie, non ricordo bene che è successo ieri sera ma grazie, suppongo che se non c’è vomito sul mio letto è merito tuo» mi dice.
 
Dentro di me ho un miscuglio di emozioni: l’eccitazione mista alla paura dell’intervista, la voglia di vedere Edoardo e saltargli addosso, la rabbia si sapere che ieri c’ero molto vicina e per colpa della ragazza appoggiata alla mia porta non è successo alcunché.                     «Prego» mi limito a rispondere quando in realtà vorrei urlarle contro.
Ma preferisco che si riprenda del tutto per spiegarle con tatto come ha rovinato la mia serata e di come quindi si prende tutti i miei turni, mica scherzavo!
«Ieri dovevo andare via, scusa, ma su duecento ragazzi non abbiamo passato l’esame in centonovanta, siamo andati a bere di prima mattina» mi dice.
«L’esame di statistica?» chiedo.
L’ho vista studiare per giorni e notti intere per quell’esame.
«Sì» mi risponde quasi sul punto di piangere.
Mi avvicino a lei e l’abbraccio cercando di non notare la puzza di vomito, sudore e fumo.
«Lo passerai la prossima volta». E io non ti cedo i miei turni, capisco come ti sarai sentita.
«Ieri c’era quel fusto qui vero? Quello che è venuto l’altra mattina».
Mi chiede ad un certo punto.
Eh, però tu non mi aizzare contro, non girare il coltello nella piaga. «Sì» dico mentre mi accorgo che la sto abbracciando ancora e mi stacco.
Ho proprio bisogno di affetto.
«Scusa, non volevo rovinarti la serata» la perdono immediatamente, mentre esce dalla mia stanza un po’ barcollante e si chiude dentro il bagno.
 
Mentre finisco di cambiarmi suona il cellulare. Edoardo.
 
< Good morning, I’m calling on behalf of an important chemistry lab. May I talk with Miss Alice Mainardi? *> scoppio a ridere                                           < Già intervistata >
< Oh, e come è andata? >
< Non lo so, non mi interessa, saprò i risultati fra tre giorni >
< E che fai in questi giorni per smorzare la tensione? >
< Mi procuro altri colloqui di lavoro >
< E che ne dici stasera di venire a cena da me? Adesso ho casa e non ho coinquilini >
< Una cena? E poi fra cinque anni gli interessi a quanto ammonteranno? >
< È proprio vero che si nota quando sorridi al telefono. Diciamo che non metterò questa cena in conto, è un ringraziamento per avermi aiutato a cercare casa >
< Ok allora ci sto >
< Passo a prenderti alle sei >
< Alle sei? Ma a che ora ceni tu di solito? >
< Ti mostro come ho sistemato la casa >
< Ti aspetto per le sei >.
 
Mi metto a navigare su internet alla ricerca di un lavoro, pranzo, guardo un film in inglese, aspetto impazientemente che si faccia un orario decente per potermi preparare.
Indosso un vestitino rosa antico con le spalline leggere e la gonna in tulle, che comprai perché mi dava l’impressione di un tutù da danza classica. Metto le scarpe abbinate e mi trucco. Sono pronta in perfetto orario e sento Edoardo che suona alla porta. Adoro le persone puntuali.
In macchina c’è la radio accesa, una canzone che mi ricorda qualcosa ma che non riesco comunque a riconoscere.
Come se mi avesse letto nella mente Edoardo mi dice: «È keep it loose keep it tight, Amos Lee».
Sorrido: la canzone che abbiamo ballato a scuola.
 
L’appartamento che ha scelto è quello nel quale l’agente immobiliare ha mostrato come ricavare una sala giochi per i bambini. Non so perché ma mi sento leggermente imbarazzata.
Edoardo accende tutte le luci e vedo che l’appartamento è ordinatissimo e con mobili e soprammobili al loro posto.
In una parete c’è appeso l’orologio con le funzioni al posto dei numeri e sorridendo penso che Edoardo ha mantenuto la sua promessa: so risolverle tutte.
«Hai fatto in fretta a sistemarti» dico.
«Questa è l’arte del trasloco. Quando cambi casa tante volte ormai sai già come sistemare tutto subito e come fare a meno dell’essenziale. Non è che io sia così entusiasta del fatto che sono bravo a traslocare».
 
La cucina è quasi spoglia, impersonale, anche fin troppo pulita, senza alcun odore.
«Ma a che ora hai cucinato?» chiedo stupefatta.
«Cucinato?»
 «Non mi hai invitato a cena?»
«Non ho detto che sarei stato io il cuoco» dice con nonchalance.
Lo guardo con cipiglio e chiedo: «Devo cucinare io?»
«No, prendiamo cibo d’asporto» sorride.
«Preferisci messicano, cinese, giapponese?» mi chiede.
«Vorrei un italiano» rispondo mentre mi infilo nella stanza accanto.
 
Nel bagno ha sistemato in fila le sue boccette di profumo, deodorante, dopobarba, dandomi l’impressione di un dejà vu.
Nella sua stanza studio –la sala per i giochi- vi è una libreria già colma di libri e una scrivania con sopra una lampada da tavolo e il laptop. Quello che attira la mia attenzione però è una cornice digitale, perché proprio nel momento in cui la guardo vedo una foto familiare. Mi avvicino per prendere la cornice mentre essa fa apparire un’altra foto anch’essa familiare. Io, Paola, Veronica, Silvia ed Edoardo davanti al British Museum.
 
«Ma dai! Le conservi ancora?» chiedo verso Edoardo che è rimasto appoggiato allo stipite della porta. La cornice mi mostra la foto successiva che non mi piace completamente: Edoardo sorridente abbracciato ad una ragazza bionda con un drink in mano.
«Ex alunna» si affretta a dirmi lui.
«Ok» poso la cornice.
Non so se mi sento un po’ delusa. Ma delusa da cosa? Era normale che avrebbe avuto altre alunne, era normale che si facesse altre foto. Le braccia di Edoardo mi circondano la vita e la sua testa si poggia sulla mia spalla.
«Sei bellissima» mi sussurra all’orecchio e mi provoca una cascata di brividi lungo la schiena.
Mi giro verso di lui e lo bacio, mentre sento le sue mani scorrermi lungo la schiena fino a fermarsi sopra i miei glutei.
«Manca ancora una stanza da visitare» mi sussurra sulle labbra e quasi fossi senza peso mi solleva permettendomi di circondargli la vita con le gambe.
 
Non controllo com’è la stanza da letto, non so neppure di che colore siano le pareti, perché mi fa distendere sul letto con lui sopra e sento le sue mani percorrermi dappertutto. Non mi interessa nient’altro che il tocco delicato e passionale di quelle dita. Le sento scorrere lungo la mia coscia, sotto la gonna e inizio a pregustare i piaceri che mi possono procurare. Quando sento che si avvicinano alla mia parte più segreta decido di prendere l’iniziativa. Tenendolo per le spalle capovolgo la situazione mettendomi sopra io.
Edoardo sorride, forse contento della mia partecipazione. Mette le mani sotto la gonna, sulle mie cosce, le fa scivolare verso l’alto in maniera tale da sollevarmi il vestito. Non appena alzo le braccia mi ritrovo solamente in intimo davanti allo sguardo di lui.
Trovando la situazione impari, gli comincio a sbottonare la camicia iniziando a intravedere la peluria sul petto. Non parliamo. Nella stanza si sente solamente il rumore della cintura che gli slaccio, della zip che si abbassa, delle scarpe e delle calzette che lancio per terra, della stoffa dei pantaloni che gli sfilo dalle gambe.
Mi poggia una mano sulla nuca mi spinge verso di sé e mi bacia. La stessa mano la usa per scendere lentamente verso il gancetto del reggiseno e sganciarlo. Edoardo torna sopra di me, levandomi definitivamente il reggiseno e prendendo tra le labbra un mio capezzolo. Le sue mani non stanno ferme, mentre io con i piedi mi levo le scarpe, lui mi denuda completamente.
È la prima volta che mi faccio vedere nuda da un uomo che conosco da così poco tempo e per smorzare un po’ l’imbarazzo decido di levargli i boxer.
Edoardo si allontana un po’ da me e dal cassetto del comodino tira fuori un profilattico.
«Vuoi fare tu?» mi chiede sorridendo.
«Io? No» mai fatto, mi imbarazzo un poco, così come mi imbarazzo notando lo sguardo di lui che si va posando su tutto il mio corpo. Nello stesso tempo però mi eccito, perché il suo sguardo è come una leggera carezza che mi percorre la pelle. Ritorna a distendersi su di me baciandomi. Un braccio lo usa per sostenersi e l’altra mano scende verso l’interno delle mie cosce. La piacevole sensazione delle sue dita che mi solleticano dentro mi fa gemere, mi fa inarcare la schiena, mi fa spingere il bacino verso di lui. Chiudo gli occhi assaporando quello che avevo negato al mio corpo per tanto tempo. Non pensavo che le semplici dita di un uomo avessero mai potuto procurarmi tali sensazioni. Che ragazzi avevo frequentato fino ad ora?
In poco tempo non sono più in grado di formulare un pensiero più sensato di “oddio muoio” oppure “è fantastico”.
Per un attimo non sento più le sue dita, spingo la testa all’indietro e mi godo l’attimo che mi piace di più. Sì penso proprio che potrei morire. Mi sembra tutto perfetto. I nostri corpi che si uniscono e si muovono assieme, le nostre lingue che si assaporano a vicenda, i gemiti, la fragranza della sua pelle, persino i miei capelli che mi solleticano il naso.
 
Non parlo, mi sento tremendamente soddisfatta e calma. Guardo lui che si sfila il profilattico, lo ripone nella bustina e la appoggia ai piedi del comodino. Poi si distende accanto a me facendo passare un braccio sotto il mio collo e stringendomi verso di lui.
 «È da sei anni che desidero questo momento».
Mi carezza i capelli infilando le dita tra i miei riccioli.
«Cinque» preciso.
«Sei. L’ho desiderato sin dal primo momento che ti ho vista».
Io arrossisco.
«Lo dico veramente, ormai ti ho sedotto non è che lo sto dicendo per portarti a letto. O devo fare di nuovo tutto daccapo per avere un secondo round ora?»
Scoppio a ridere.
«Puoi avere tutti i round che vuoi».
 
 
 
* Buongiorno, chiamo per conto di un importante laboratorio di chimica, posso parlare con la signorina Alice Mainardi? (se dovessero esserci errori in questa frase ricordate che è stata pronunciata da un non madrelingua, “Edoardo” può sbagliare :P)

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Capitolo 19
*** Capitolo 18- Conviviamo? ***


Con le tazze di tè in mano vado verso lo studio di Edoardo.
Lui è seduto alla scrivania, una mano poggiata sulla fronte, l’altra regge una penna rossa.
Sta correggendo alcune verifiche.
Poggio le tazze sulla scrivania per attirare la sua attenzione e quando alza la testa mi sorride. È stanco.
«Prenditi una pausa, ho preparato quello che si chiama intruglio di qualcosa, non vedo l’ora che si raffreddi, sono curiosa di assaggiarlo» dico accennando con la testa verso la tazza.
Lui sorride. «Quello che vorrei in questo momento sono le tue labbra. Vieni qui». Mi tira a sé facendomi imporporare le guance.
 
Mi sono trasferita da lui per due settimane, ma ormai mancano solo quattro giorni prima che io vada via. Solo quattro.
Poi torno in paese, non saprei come giustificare la mia assenza ai miei genitori.
Edoardo mi bacia.
«E se andassimo di là?» propongo io riferendomi alla stanza da letto.
«Oppure potrei scaraventare a terra tutto quello che c’è sulla scrivania…» mi dice lui scherzando.
Nel frattempo mi ha fatto sedere a cavalcioni sulle sue ginocchia. Mi bacia con trasporto e le sue mani, poggiate sui miei glutei, mi spingono verso il suo corpo. Lentamente si porta indietro con la sedia e si alza tenendomi in braccio.
Mi porta nella stanza da letto e mi stende sul letto. Mi lascio guidare da lui che mi prende i polsi e me li solleva sopra la testa. Mi dà un bacio sulla fronte, uno sulla punta del naso, uno sulle labbra, uno sul collo e la sua mano veloce sbottona la camicetta lasciando libero il seno.
Prende un capezzolo tra le dita e il mio corpo impazzisce, come è impazzito in queste settimane. Mi sento felice, appagata, serena, soddisfatta, contenta, tranquilla. Non saprei descrivere con un solo aggettivo lo stato d’estasi in cui mi trovo in queste settimane.
Non saprei descrivere le sensazioni che la lingua di Edoardo sta facendo provare in questo momento al mio corpo assaggiandolo. Infilo una mano nei suoi capelli, le dita dei piedi mi si piegano e mi lascio andare a quella sensazione di spaccarsi in migliaia di minuscoli pezzi.
Edoardo si alza e mi lascia distesa e nuda sul suo letto.
«E tu?» gli chiedo.
«Mi va bene farti felice» mi dice sorridendo e andando nell’altra stanza.
«Ma io voglio fare felice te» gli urlo.
«Lo sono».
 
Mi metto su un fianco e penso. Questi giorni sono passati in maniera veramente veloce. La mattina mi alzo, solitamente dopo che Edoardo è andato a lavoro, faccio colazione o se c’è ancora Edoardo preparo la colazione per entrambi. Quando Edoardo esce sistemo un po’ la casa, navigo su internet, studio un po’ d’inglese, preparo il pranzo e mangio con Edoardo non appena torna.
Ci mettiamo a letto, ci coccoliamo e poi mentre lui sbriga i suoi affari scolastici io faccio il bucato.
La sera… mi alzo con un pensiero in testa. Sono ancora nuda e, scalza, vado nella stanza di Edoardo. Lui solleva la testa, sorride ma non mi guarda in faccia.
«Ma noi stiamo convivendo» gli dico.
«Sì» mi dice senza cambiare la direzione dello sguardo.
«Ma nel vero senso della parola, noi stiamo convivendo come una coppia».
Lui guarda verso i miei occhi.
«La cosa ti dà fastidio?» mi chiede.
Io ci rifletto due secondi.
«No, è solo che è strano, ti conosco così poco».
Lui torna a non guardarmi in viso.
«Ma perché non vieni di là?» gli chiedo maliziosamente.
«E che dico ai miei alunni quando mi chiedono i compiti?».
«Che non li hai corretti perché hai fatto tanto sesso, vedrai che ti giustificheranno».
Scoppia a ridere.
«Bella figura che ci farei, questa è ancora la verifica iniziale…al diavolo, finisco di correggere questo e ti raggiungo in camera da letto».
Io prendo una vestaglia e vado verso il mio laptop. Ormai mi viene spontaneo controllare le e-mail ogni volta che posso. Accendo il computer e penso che sto convivendo con Edoardo.
Non avrei pensato a quell’opzione neppure nei miei sogni. Inizio a canticchiare e inserisco la password d’accesso.
Certo, ora tornerò al paese, ho già inviato i pacchi con gli oggetti della mia stanza a casa, ma non ho alcun impegno e penso proprio che dopo due settimane che starò con i miei genitori troverò una scusa per tornare ad abitare qui. Sospiro.
Già, mi sembra proprio di vivere in un sogno. Apro la pagina di Hotmail e il mio entusiasmo si smorza.
Il computer mi riporta alla realtà, il sogno è finito.
Non so se devo essere entusiasta o devo mettermi a piangere per ciò che sto leggendo.
Edoardo entra nella stanza e mi guarda leccandosi le labbra con fare grottesco.
Poi mi scruta in viso e si accorge del contrasto di emozioni.
Si avvicina, si mette dietro di me e guarda lo schermo.
Inizia a leggere l’e-mail ad alta voce. È in inglese ma lui la traduce automaticamente in italiano.
 
«Gentile Signorina Alice Mainardi, siamo lieti di informarla che, visto il suo curriculum e dato l’esito del suo colloquio, vorremmo averla come membro del nostro staff di ricerca. Il contratto che le offriamo sarà per cinque anni, se la nostra collaborazione risulterà fruttuosa, saremmo lieti di prolungarlo a tempo indeterminato. Sollecitandola a rispondere il prima possibile le porgiamo i nostri più cordiali saluti».
 
Deglutisce, più volte, vedo il pomo d’Adamo che sale e scende.
«Dov’è?» mi chiede alla fine.
«In Finlandia».
 
 
Note dell’autrice
Siamo alla fine, manca solo l’epilogo :’(

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Capitolo 20
*** Epilogo- Vissero felici e contenti ***


È il mio capitolo preferito : ) spero piaccia anche a voi
baci
 
 
Con la mia Skoda Fabia mi dirigo velocemente all’aeroporto. Sono in ritardo. Parcheggio nel primo posto disponibile e scappo verso gli arrivi. Edoardo è appoggiato alla sua valigia, mi sta aspettando. Quando mi vede sorride e mi viene incontro.
«Scusa il ritardo, dovevo finire una relazione per poter uscire dal lavoro» dico.
Mi stampa un bacio sulla guancia. «Figurati, anzi grazie di essere venuta a prendermi».
Prende la valigia e gli faccio strada verso la macchina.
«Mika ci aspetta al ristorante, Annaick ci raggiunge dopo. Forse è meglio accelerare il passo» dico io.
«È geloso?» mi chiede.
«Abbastanza, meglio non farlo attendere troppo».
Gli scappa mezzo sorriso mentre posa la valigia nel bagagliaio, poi prende posto e metto in moto.
«Come è andato il viaggio?» chiedo.
«Bene, bene. A parte che ogni volta che arrivo qui mi sembra di arrivare in un altro mondo. Tutto pulito, ordinato».
«Freddo» aggiungo io.
«Sei in un paese scandinavo che ti aspettavi?»
Faccio spallucce a mo’ di risposta.
«Dai, che ora cambierai vita. Sai che non ho idea se sia un paese caldo o freddo?» È più un’affermazione che una domanda la sua.
«A dire il vero non ho controllato neppure io, tanto mi trasferisco in blocco, vestiti estivi e invernali» ammetto.
«Mi raccomando prendete casa grande, così vi veniamo a trovare e non sentirete la mancanza di questo posto. In fondo ci hai abitato cinque anni». Sorrido e cambio marcia.
 
Cinque anni. Era trascorso così velocemente il tempo. Ed erano cambiate così tante cose da quando ero arrivata.
Ero una neolaureata spaesata e senza un amico, fortunatamente i miei datori di lavoro mi avevano procurato una casa e alla prima occasione possibile Edoardo mi era venuto a trovare. È stato strano. A poco a poco ci rendemmo conto che la nostra sintonia non era adatta ad un rapporto d’amore, ma ad un rapporto di amicizia. Stavamo bene insieme, ma non c’era quella chimica speciale, non c’era alchimia. Era passione, pura e semplice passione.
Non c’era amore tra noi due, solo affetto.
 
Così, nonostante mi venisse a trovare saltuariamente, smise di dormire nel letto con me, smettemmo di baciarci, ma diventammo degli ottimi amici.
D’altro canto io scoprii di avere affinità con un mio collega: Mika. Alto, magro e un po’ più scuro di colori rispetto ai canoni finlandesi. Il rapporto con Mika è diverso da tutti gli altri che avevo avuto. Lui è simpatico, gentile, intelligente, spiritoso. È di una bellezza particolare. Non è particolarmente muscoloso, così come non è un uomo –come Edoardo - che fa girare la testa a tutte le ragazze dentro un locale, ma a me non importa.
A me piace, io lo trovo affascinante, ma soprattutto a me piace dentro. Come cerco di spiegargli sempre –nei momenti in cui si fa prendere dalla gelosia- io voglio invecchiare con lui. Il tempo segnerà il suo viso, lo solcherà di rughe e indebolirà il suo fisico, ma io sarò sempre attratta da lui, perché prima di tutto sono attratta dal suo essere più che dal suo apparire.
L’ho capito sin dal nostro primo bacio, è stato veloce, ma ho subito capito che sarebbe stato lui l’uomo della mia vita. Come in un perfetto romanzo rosa mi sono ritrovata con le farfalle nello stomaco, con la mente in subbuglio e la pelle accaldata.
Con Edoardo non era stato così, era stato bello, ma era tutt’altra sensazione.
 
Arriviamo al ristorante e vedo Mika venirci incontro, sembra quasi sollevato di vederci. Sorride. È bellissimo. Che buffa coincidenza che abbia anche lui un piccolo neo poco sopra il labbro. Stringe la mano ad Edoardo e lo guarda sottecchi. È una delle persone più gelose che conosca.
Sarebbe geloso di Edoardo anche se questo fosse stato bruttissimo e antipatico o anche senza sapere il nostro passato relazionale. Ci sediamo a tavola e ordiniamo da mangiare anche per Annaick.
Alla seconda portata, truccata e perfetta arriva lei. Alta, biondissima, il naso all’insù da perfetta francese, gli occhi acquamarina e un corpo perfetto. La donna di Edoardo. Ci alziamo per salutarla e bacia Edoardo. Lui le mette una mano nella schiena, la tira a sé e le sussurra qualcosa nell’orecchio che la fa arrossire.
 
Edoardo aveva continuato a venire a trovarmi come amico e poi si è innamorato di lei: la mia collega francese.
Non potevo essere che contenta, in fondo io ero stata fortunatissima avendo trovato la mia anima gemella. Mi siedo e stringo la mano a Mika. È così bella la sensazione ogni volta che lo faccio. Sento che mi completo. Ecco come mi sento con il mio uomo: completa.
Ma anche felice, fortunata, libera di essere me stessa, libera di essere sincera.
Annaick prende posto e comincia a mangiare avidamente, sembra quasi stonare con la sua aura angelica. Edoardo la guarda divertit0 e lei dice che odia il suo lavoro che la fa finire ad un orario così assurdo e la fa morire di fame. Mi fa ridere un po’ la sua cadenza francese mentre parla in inglese.
 
Il pranzo trascorre tranquillo. Si parla, si sparla, si spettegola. Questo è l’ultimo pranzo finlandese al ristorante. Fra tre giorni parto, vado in Giappone per lavoro, ma non sarà come quando sono partita per la Finlandia. Non sarò un’anima sperduta in un paese dalla lingua sconosciuta, perché non sarò sola stavolta. Sento le dita di una mano intrecciate alle mie.
Stavolta, sarò con il mio vero amore.
 
Note dell’autrice
Premetto che credo nell’amore a prima vista, io sto vivendo una storia fantastica con un ragazzo di cui mi sono innamorata al primo sguardo. Ma capisco che sono fortunata e che comunque succede raramente, quindi ho voluto dare un’impronta più realistica a questa storia. È comunque un lieto fine: tutti trovano il proprio amore. Spero che la storia vi sia piaciuta, fatemelo sapere : )
 
Ed è finita l’avventura tra Edoardo ed Alice.
Vi ringrazio tantissimo, per avere letto questa storia. Spero che continuerete a seguirmi.
Un bacione.

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