ANGEL'S APOCALYPSE -Lo sterminio

di E m m e _
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** CAP.1 NELLA TANA DEL LUPO ***
Capitolo 3: *** CAP.2 : UN'IMMAGINE NELL'OSCURITA' ***
Capitolo 4: *** CAP.3: Il Caduto ***
Capitolo 5: *** CAP.4: MORTA ***
Capitolo 6: *** Cap.5: C'è sempre speranza ***
Capitolo 7: *** Cap.6: CADUTA LIBERA ***
Capitolo 8: *** Cap.7 solo un vetro appannato ***
Capitolo 9: *** Cap.8: La Resistenza ***
Capitolo 10: *** Cap.9. BISOGNI ***
Capitolo 11: *** Cap. 10 Notte Insonne ***
Capitolo 12: *** Cap. 11 E basta ***
Capitolo 13: *** Cap.12: Protettore ***
Capitolo 14: *** Cap.13: Il dolore è come un fantasma ***
Capitolo 15: *** Cap.14: A sangue freddo ***
Capitolo 16: *** Cap.15 - Annegare sulla terra ferma ***
Capitolo 17: *** Cap.16 Il respiro del passato ***
Capitolo 18: *** Cap.17: Il miracolo compiuto ***
Capitolo 19: *** Cap.18 Per dirti ciao ***
Capitolo 20: *** Cap.19 : La Luce tra le mani del Peccato ***
Capitolo 21: *** Cap.20: Alla fine c'è sempre l'alba. ***
Capitolo 22: *** Cap.21: Il passato che ritorna ***
Capitolo 23: *** Cap.22: Io ci sarò ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


  SCRITTO DA MIRIANA (ME)    Prologo:
-          17 anni prima   -
 
Correva, rapida come il vento, dolorante come se quest’ultimo la picchiasse con il suo soffio infernale. I suoi passi erano accelerati grazie alla sua reale natura, ma allo stesso tempo rallentati dal corpo umano nella quale si era insinuata.
Sentiva la schiena pulsare e sporcare i residui della sua giacca verde del proprio sangue.
Quando sentì il suono dell’ennesimo sparo, si nascose in un vicolo buio.
Stretto a sé, il piccolo fagotto bianco si agitava tra le sue braccia tremanti e stanche.
Sentì i loro passi sfrecciare lungo l’asfalto, le loro voci gridare ordini di ricerca e di attacco.
La donna gemette, poi corse verso i secchi dell’immondizia.
Si guardò intorno poi, quando vide un’ombra soffermarsi sull’entrata del vicolo, sussultò.
Prese il fagotto agitato, e l’adagiò tra le grandi buste scure.
-          Tornerò… Te lo prometto.
La creaturina allungò la mano, come se volesse sfiorare il viso della donna.
Quest’ultima si guardò intorno, per assicurarsi che nessuno scoprisse il piccolo rifugio.
L’uomo era già andato via, gridando ai suoi compagni di raggiungerlo.
Guardò per l’ultima volta il fagotto, e sfiorò il viso della creatura per metà umana e per metà divina.
-          ECCOLA!
Uno degli uomini la indicò, facendo si che anche il resto degli uomini la individuasse.
La donna lanciò un’occhiata tra i sacchi neri, poi prese ad indietreggiare, dapprima lentamente, poi sempre più veloce, ma alla fine tutto ciò che trovò fu solo una ruvida e fredda parete di mattoni.
Un vicolo senza via d’uscita, un tunnel dritto dritto all’oscurità eterna.
L’alta figura nera si avvicinò, fredda, senza nemmeno un volto alla quale poter far riferimento.
-          Mi dispiace, angioletto.
Alzò il braccio e la sua pistola argentata scintillò nel buio.
Né uno sguardo, né una parola di conforto.
Solo il rumore del proiettile e del suo fragile corpo che cadeva a terra.
La donna si lasciò cadere lungo la parete, la ferita che si faceva man mano più ampia all’altezza del cuore, senza però ucciderla del tutto.
Sarebbe stata una morte lenta, piena di dolore.
Gli altri uomini non infierirono, si limitarono a guardarla con occhi pieni di soddisfazione, per poi voltarsi e sparire nell’oscurità che gli aveva creati.
La donna gemette con forza, premendo le mani contro la ferita.
Il suo sguardo era però posato sul piccolo fagotto tra le buste della spazzatura.
Con tutta la forza che aveva in corpo tentò di rialzarsi, ma solo per ricadere pesantemente sulla strada sotto di lei. Gemette con forza, poi guardò le sue mani sporche di sangue.
Non aveva forza per alzarsi, o per gridare e chiedere aiuto…
Con le dita sporche di sangue scrisse qualcosa sulla parete, così che, quando il tempo sarebbe passato, quando il mondo avrebbe sfiorato la sua fine, o la sua rinascita, avrebbero saputo:
 
02041996
IL PARADISO E’ CADUTO NEGLI INFERI.
 

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Capitolo 2
*** CAP.1 NELLA TANA DEL LUPO ***


(SCRITTO DA ENGI) 
 
Mikael
 
Il buio era intriso dell’odore metallico del mio sangue, che oramai aveva preso il posto dell’ossigeno all’interno dei miei polmoni. Le tenebre erano diventate la mia luce.
Avevo la mente annebbiata e dolorante; sentivo le tempie pulsare copiosamente, alla stessa velocità, da troppi giorni. 
Tenaglie di ferro affondavano nelle mie caviglie, tenendomi sospeso dal soffitto e lasciando ricadere il corpo all’ingiù, dove anche i polsi erano circondati da pesanti catene, che mi impedivano i movimenti delle braccia.
Tentai di far forza sugli spessi bracciali, ma l’unico risultato fu un rumoroso tintinnio. Digrignai i denti e cominciai a dimenarmi furiosamente. Possibile che esistessero catene in grado di contrastare la forza di un Caduto?
- Non riuscirai a liberarti, Mikael.
La voce, arrochita dai millenni, fu seguita dalla comparsa della luce chiara del giorno. Troppo chiara per il buio che riempiva i miei occhi. Chiusi le palpebre, sicuro di aver sentito uno sfrigolio e la puzza di bruciato.
- Tu dici? 
La mia voce mi stordì. Non ricordavo nemmeno quale ne fosse il tono. Quasi sentii dolore nel pronunciare quelle parole, come se le corde vocali fossero state addormentate fino a quell’istante.
- Sono troppo spesse persino per te.
Ribatté l’uomo dai lunghi capelli biondo-rossicci. Somigliava ad un irlandese, con quella sua barbetta incolta, a cui avrei tanto voluto dar fuoco, se solo ne avessi avuto la possibilità. Ce l’avrei visto con un’accetta in spalla, in mezzo agli alberi di un bosco, e le bretelle.
Sorrisi tra me, a quell’assurdo pensiero.
- Riderei ancora per poco, se fossi in te.
Lo ignorai, sapendo che l’avrei irritato e cominciai a girare e rigirare i polsi, sperando di allentare le morse di ferro. Non sarei rimasto lì ancora a lungo, non ne avevo alcuna intenzione.
- Non perderci troppo tempo.
Fece lui, le labbra incurvate in un sorriso divertito, indicando le catene. Finsi di sentirlo, ancora, e il suo sorriso morì immediatamente, abbandonò la sua bocca, come il respiro abbandona quella di un morto.
- Sai una cosa, continua pure!
I suoi occhi mi ricordarono le braci di un incendio nel pieno della sua furia.
- Ma ti avverto, il corpo di un ragazzino non è stata una gran scelta, non resisterà…
- Abbi fede.
Lo interruppi, sfoggiando un mezzo sorriso provocatorio. L’uomo scoprì i denti come un lupo potrebbe fare contro la canna di un fucile da caccia.
Lasciò la stanza, borbottando qualcosa di incomprensibile, e tornai a tirare le catene con ostinazione.
Sentii un leggero scatto, ma prima che potessi accertarmene, qualcuno spinse l’interruttore della luce. 
Anche se a testa in giù, riuscii comunque a riconoscere l’alta figura appena entrata. Una fitta mi prese il petto, un dolore interiore.
- Nelchael…
Ma quel nome rimase sospeso nell’aria. Dopo tutto non mi sorprendeva più di tanto.
- Cosa ti hanno promesso? Un posto assicurato di fianco al Divino?
Quelle parole non sembrarono nemmeno sfiorarlo, e la sua risposta fu solo una risata, secca e tuonante, che rimbalzò tra le pareti della misera stanza spoglia, come un eco sempre più distante.
- Quello è sicuro.
Disse con un sorriso, tutt’altro che amichevole.
Nelle sue mani si materializzarono due pugnali. L’elsa di entrambi era in oro bianco e le lame di un cristallo lucidissimo, tanto trasparente da sembrare acqua.
Un brivido gelido mi percorse il corpo intero.
- Ed è sicuro che se non risponderai alle mie domande, di quel tuo corpo rimarrà davvero poco.
Mi costrinsi a sorridere, ma sapevo che non scherzava, lo sapevo benissimo. Non c’era nulla che Nelchael non fosse in grado di fare. Era temuto anche agli Inferi, famoso per le sue torture che difficilmente fallivano, sempre che l’obiettivo non fosse fin dall’inizio ridurre in pezzetti lo sfortunato.
In meno di due falcate mi fu davanti. Il suo corpo era enorme. Dalla mia posizione non riuscivo a scorgere nemmeno il soffitto, per quanto imponente fosse.
Si chinò, ancora con quel suo sorriso arcigno dipinto in volto.
- Te lo chiederò solamente una volta, e se la tua risposta non mi soddisferà…
La sua voce era un sussurro agghiacciante, ma il mio sputo gli fece perdere la voglia di concludere la frase, e si raddrizzò. L’irlandese e l’altro sgherro trattennero il respiro, curiosi di vedere la reazione dell’imponente Angelo, che però rimase in silenzio e, pulendosi il volto con la manica della lunga giacca, girò attorno al mio corpo.
- Quanti siete?
Domandò da dietro la mia schiena.
- Cosa?
- Risposta sbagliata.
E uno dei pugnali affondò in una delle cicatrici che percorrevano, come lunghi e dritti fiumi, il mio dorso. Sbarrai gli occhi, sorpreso. Come faceva a sapere che quello era il punto più sensibile dei Caduti?
Gridai. Per la prima volta, dopo torture di ogni tipo, sentii il vero dolore. 
- Chi vi guida?
Strinsi i denti, concentrandomi su tutto ciò che non fosse quello che sentivo.
- Non ho idea di chi tu stia parlando.
Dissi a fatica, strascicando le parole attraverso i miei respiri affannati.
- Sbagliato, ancora.
L’altro pugnale penetrò all’altezza della scapola, il punto principale dove, un tempo, la mia ala andava a contatto con la pelle, fondendosi in profondità con lo spirito. E ancora urlai d’angoscia. Sentivo solo la presenza estranea dei pugnali nelle carni e il dolore che essi provocavano.
- Adesso…
L’irlandese si avvicinò, rigido nella sua postura. Mi lanciò un’occhiata, un mix di dispiacere e disgusto, e poi i suoi occhi si posarono sul lungo ferro appuntito che teneva stretto nelle mani tremanti. Deglutì e sparì dalla mia visuale, raggiungendo il suo capo.
- Dimmi, come faccio per Vedere?
E lo giuro, in quel preciso istante, la voce di Nelchael mi fece davvero paura per ciò che mi sarebbe successo.
Tossii e un fiotto di sangue mi sfuggì dalle labbra, macchiandomi la fronte di altro sangue.
- Tu sei pazzo.
La mia voce si trasformò in un ululato quando passarono lungo tutta la spina dorsale il ferro rovente. La punta incandescente sfrigolava contro la mia pelle. La sentii come se si stesse sciogliendo, tanto che il caldo raggiunse le vertebre.
Le mie grida si accavallavano tra di loro nella stanza, finché, come fossero una ninnananna, scortarono i miei occhi al buio totale.
 
 
Tu-tum. Tu-tum. 
Il battito del mio cuore era assordante, troppo grande per essere contenuto nel mio cranio.
E poi due voci confuse lo sovrastarono.
Parlavano tra di loro, si facevano domande ma non si davano risposte.
- Loro non sanno, ma conosciamo il loro segreto.
La voce sgradevole dell’Irlandese fu nuovamente coperta dal martellare pulsante e frenetico all’interno della mia testa.
Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.
Il dolore alla schiena tornò insieme ad un’altra voce.
- … Sangreal.
Nient’altro, ma quella singola parola mi risvegliò, una forza ormai quasi estinta, riprese a scorrermi nelle vene, insieme al sangue.
Spalancai gli occhi e con un movimento secco dei polsi, le catene cedettero e tintinnarono a terra, pensati.
Mi sollevai con la schiena, ignorando le fitte, e le tenaglie alle caviglie cedettero. Il corpo ricadde a terra, in tutto il suo peso. Ignorai l’impatto con il pavimento e mi rialzai velocemente. 
I due uomini, paralizzati e stupiti, non fecero in tempo a proferir parola che, con il semplice chiudersi della mia mano in pugno, le loro teste si scontrarono.
Sentii il rompersi dei loro crani tra loro e poi i loro corpi afflosciarsi al terreno, esanimi.
Una sirena si animò e avvisò l’intero edificio della mia fuga. Mi fiondai fuori dalla porta e passai lo sguardo sui due corridoi opposti.
In un attimo, a destra, comparvero uomini armati fino ai denti.
Urlarono qualcosa e corsero verso di me, impugnando i loro fucili.
Partirono i primi proiettili e cominciai a correre dalla parte opposta.
Dovevo uscire. 
Corsi e imboccai i primi corridoi che incontrai, senza nemmeno pensare a dove mi avrebbero portato. Riuscivo solo a pensare all’uscita.
Arrivai all’estremità e mi ritrovai bloccato da un muro. Mi guardai indietro e le voci dei soldati mi raggiunsero, sempre più forti e chiare.
Tornai con gli occhi alla parete e sollevai lo sguardo.
Sorrisi. La luce fioca del giorno filtrava dal vetro della finestra.
Lanciai un’altra occhiata alle mie spalle e, nel momento in cui il primo uomo comparve da dietro l’angolo della parete, presi la rincorsa e saltai con tutta la forza che mi rimaneva nelle gambe.
I vetri si infransero intorno a me, mentre rotolavo fuori dalla struttura. Rami e sassi mi penetrarono nelle ferite della schiena, ma non avevo tempo per pensare al dolore, non in quel momento.
Prima che potessero raggiungermi, mi rialzai in fretta e, con il respiro affannoso, mi addentrai nel bosco. Non passò molto tempo perché le voci degli uomini tornassero a farsi sentire. 
- Per di là!
Gridò uno. Riuscivo a udire i loro passi pesanti sul fogliame. Erano sempre più vicini e io sempre più debole.
Caddi a terra, stremato. Perdevo sangue e forza da ogni ferita.
Strisciai dietro una grossa pietra.
I soldati superarono il mio nascondiglio e continuarono a correre, convinti di raggiungermi poco più avanti.
Aspettai in silenzio, trattenendo anche il respiro, temendo di essere sentito. 
Ma, quando provai a rimettermi in piedi per andarmene lontano da lì, il buio mi inghiottì.

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Capitolo 3
*** CAP.2 : UN'IMMAGINE NELL'OSCURITA' ***


Capitolo 2 (SCRITTO DA MIRI -ME) :
Un’immagine nell’oscurità
 
La luce del Sole filtrava dal vetro della finestra con tal forza da far divenire anche la polvere simile a frammenti di luce chiara e pura che si disperdeva tra i raggi.
Ed io gli guardavo, ammirata, mentre il loro volo finiva tra le ombre proiettate dagli oggetti della stanza.
-          Hariel?
La donna dai lunghi capelli biondi invase la mia visuale.
Era Bernadette, la nostra domestica; era lei che mi svegliava ogni mattina per consumare la colazione, un atto sacro nella mia famiglia, uno dei pochi pasti che ci univano tutti insieme in un’unica stanza.
-          Cosa mangiamo? Toast? Uova? Frutta?
Il mio tono parve stranamente autoritario, e immediatamente me ne scusai.
Bernadette e le altre facevano parte della famiglia, proprio come me e Gabriel.
-          Non so, piccola. Prova a chiedere di sotto.
Mi alzai dal letto, tentando di disfarlo il meno possibile.
Lanciai un’occhiata alla mia immagine riflesso nello specchio: i lunghi capelli biondi e lisci erano arruffati e stranamente gonfi, gli occhi color del mare parevano stanchi e incerti, e per non parlare della pelle più pallida del solito.
Non si preannunciava una bella giornata…
 
-          Hariel? Mi faresti un favore, tesoro?
Bernadette strinse con forza la piccola maniglia dorata del cassetto della mia stanza, evidentemente bloccato. Mi avvicinai alla domestica, ma quest’ultima mi fermò.
-          In cantina c’è un cacciavite nuovo, lo andresti a prendere? Ti prego, sono decisamente indaffarata qui!
Annuii, senza dire una parola, poi uscii dalla grande stanza da letto che i miei genitori mi avevano riservato. Per un attimo, lasciare quelle mura bianche, le grandi finestre di vetro sottile, i miei giochi dell’infanzia, la mia foto con Gabriel sul cassetto, mi lasciò un grande senso di vuoto, e non capivo il perché.  Misi la mano sullo scorri-mano mentre scendevo sulle alte scale a chiocciola.
Dalla metà degli scalini riuscivo ad intravedere la porta della cantina, l’unica di materiale diverso dal legno. Passai rapidamente sugl’ultimi scalini di marmo, correndo poi verso la porta, attenta che nessuno mi vedesse.
Non ero mai scesa in cantina, i miei genitori mi avevano sempre proibito il piacere di scendere nel buio tremulo della stanza, inondandomi dall’odore delle cose dimenticate e però cercate da chissà quando. Con la mano sfiorai la superfice liscia e fredda della porta d’acciaio, poi le mie dita scivolarono sulla maniglia. La girai una, due, tre volte, poi finalmente si aprì, senza fare alcun minimo rumore. Mi lanciai un’ultima occhiata alle spalle, poi entrai chiudendomi la porta alle spalle. Le mie dita scivolarono sulle pareti circostanti, cercando un interruttore, ma tutto ciò che trovai fu una piccola torcia legata di fianco alla parete ruvida.
Dopo vari tentativi si accese, lanciando un fascio di luce davanti a me.
Respirai profondamente e andai avanti a passi lenti, fino ad arrivare a due grandi scrivanie, munite di spessi strati di polvere grigiastra e cassetti di legno chiaro.
Aprii uno dei cassetti e, al primo tentativo, trovai il cacciavite che cercavo, posto sopra vari fogli ingialliti dal tempo. Improvvisamente, il mio cuore prese un ritmo irregolare, sentendo il sangue pulsare nelle dita, fino ai polpastrelli che intanto sfioravano il materiale cartaceo.
Lasciai che il cacciavite ricadesse nel cassetto mentre illuminavo con la torcia le parole segnate in grassetto sui fogli chiari.
“25 dicembre 1995.”
Le parole erano come parlate nella mia mente, gridavano, si insinuavano scaltre e oscure.
“Hariel Sangreal, Parigi.”
Il mio nome? Quella data? Che cosa volevano dire? Io non capivo. E se fosse stato il mio…
Non riuscivo a crederci.
Ma quel cognome? Quel giorno? Parigi? Era tutto così sbagliato, diverso.
“Sophia Martinique e Nicolas Sangreal.”
Mi venne una fitta al petto, forte come un tuono che precedeva la tempesta.
-          HARIEL! HAI FATTO?
La voce di Bernadette mi scosse mentre i miei occhi tremolavano di qua e di là nella cantina.
L’odore di polvere e di vecchio divenne, ad un tratto, nauseante, quasi quanto il pensiero di quel posto dimenticato dalla luce del Sole e dal calore della cura umana.
-          HARIEL!
Quella volta fu la voce di mia madre a richiamarmi, ma ero certa che non sapesse che ero lì giù.
I fogli mi caddero di mano, mentre il mio cuore batteva all’impazzata.
“Nata alle 23:59.”
E anche se sentivo di dover andar via di lì, non riuscivo a staccare gli occhi di dosso a quelle carte, illuminate leggermente dalla luce della torcia.
Un ultimo grido, un ultimo richiamo, poi lasciai cadere la torcia a terra. Questa emise corti fasci di luce, poi si spense del tutto, lasciandomi sola ed immersa nelle tenebre.
Scattai in avanti, cercando nell’oscurità la fragile figura della porta illuminata dalle luci della sala che la precedeva. Corsi fino ad essa poi, nel panico, cercai la maniglia. Appena la trovai, iniziai a girarla per tre volte, poi la porta si aprì ed io mi catapultai fuori, il respiro affannoso.
Il mio passo si fermò quando, avanti a me, trovai Gabriel, gli occhi dorati che mi guardavano con sorpresa.
-          Ehi, che cos’è successo? Ti cercavamo tutti per la notizia…
Lo guardai, gli occhi che affondavano nelle lacrime, i respiri che si confondevano tra loro.
Mi asciugai le lacrime, tentando in tutti i modi di regolare il mio respiro o il battito del mio cuore, ma mi fu impossibile.
-          Quale… Quale notizia?
Il mio respiro tremolò tra le labbra, mentre il suo sguardo percorreva il mio viso.
-          Eri in cantina? Quante volte dobbiamo dirti che…
Il mio sguardo scivolava sul pavimento, terrorizzata e leggermente imbarazzata di essermi fatta scoprire così in fretta. Lo presi a braccetto poi gli sussurrai:
-          Non dovevamo scoprire una notizia? Su, su, andiamo!
E Gabriel non si oppose…
 
 
-          L’esercito?!? 
Mia madre si alzò di colpo dalla sedia, gli occhi pieni di una strana rabbia mista a confusione.
Gabriel annuì, lentamente, gli occhi chiusi e le labbra leggermente schiuse.
-          Io… Io non capisco. Perché?
Non avevo mai visto mia madre così furiosa.
Eppure quando guardavamo la televisione e ci capitavano scene di eserciti pronti a scaturire anche la pace, i suoi occhi erano sempre stati gonfi d’orgoglio!
-          Tu non ci andrai! Non ci pensare neanche!!!
Lei distese l’indice, indicando il viso di mio fratello. Nella mia mente quelle varie immagini si mixavano con quelle della cantina: i fogli, le parole, i nomi, le date, tutto era così confuso nella mia mente…
-          Sapevo che avresti detto così, mamma…
Gabriel si alzò, le labbra serrate, poi si voltò verso nostro padre, serio.
-          Papà dille qualcosa!
Ma neanche lui disse nulla per salvarlo. Il ragazzo, allora, si voltò verso di me, ma anch’io, come il resto della famiglia, tacqui.
Gabriel emise un verso simile ad un sospiro misto ad un borbottio, poi si alzò di scatto, ribaltando la sedia. Il forte rumore mi fece sussultare, come il tuono che mi aveva sempre spaventato nella mia infanzia, nei giorni di tempesta.
-          Gabriel…
Mi alzai, ma lui stava già uscendo dalla stanza…
 
 
Correvo per le strade, la luna mi illuminava la via e l’aria fredda mi pizzicava le guance, arrossendole leggermente.
Chiamai a gran voce mio fratello, ma nessuno rispose.
E nonostante non fosse molto tardi, la città sembrava deserta.
-          GABRIEL!
Ma quella volta non seguì il silenzio, ma il suono di qualche passo, il rumore di qualcuno che si avvicinava, scaltro. Mi voltai, e solo un’ombra si mosse sulla strada.
Mi rivoltai verso la direzione primaria, un groppo in gola, le dita che tremavano per il freddo.
-          Gabriel?
Quando anche quella volta alla mia richiesta seguì solo il nulla, ripresi a correre.
A quell’ora le strade sembravano tutte uguali, gli alberi proiettavano maestose ombre lungo l’asfalto, la luna illuminava i miei passi e il vento cantava una malinconica melodia tra le foglie e le case.  E poi, improvvisamente, tutto scomparve se non le alte mura di qualche palazzo abbandonato già da tempo.
L’odore aspro della spazzatura s’insinuò nelle narici, fermando la mia corsa. 
Le grandi buste nere facevano da ingresso ad uno strano vicolo che, anche se ero certa di non aver mai percorso, mi pareva più che familiare.
E poi un’immagine: una donna che correva rapida, i suoi abiti sporchi di sangue.
E poi di nuovo la strada vuota.
Sussultai e mi guardai intorno; nessuna traccia della donna ferita.
Mi addentrai nel vicolo, sentendo i miei passi riecheggiare nell’aria gelida della sera.
E poi di nuovo ancora: la donna sfiorò il viso della bimba, poggiandola sui sacchi scuri, e poi di nuovo riprese a correre, fino alla fine del vicolo, appoggiando la schiena sul muro di mattoni.
Battei le ciglia e tutto tornò alla normalità.
Sentivo il cuore battere, il respiro diventare man mano più affannoso, la paura e la confusione divennero parti integranti della mia mente…  Respirai e mi avvicinai alla parete di mattoni, che sembrava consumata dal tempo. Sfiorai piano i mattoni, sentendo i polpastrelli scorrere con difficoltà sulla superficie ruvida.  E poi un ultimo flash: uno sparo, la donna che cadeva a terra, ancora viva, e dopo le sue dita, tremanti e sporche di sangue, contro la parete, incidendo parole ben chiare: “02041996 - IL PARADISO E’ CADUTO NEGLI INFERI.”
Sfiorai piano il punto dove, diciassette anni prima, v’erano le scritte scarlatte e liquide.
-          Hariel?
Mi voltai, gemendo, le dita contro le labbra tremanti, gli occhi rigonfi di lacrime amare.
Gabriel corse da me, e mi strinse forte, la mia testa che affondava contro il suo petto caldo.
-          Lei ha avuto la Visione…
Una voce nuova ci fece sussultare, facendoci voltare verso l’entrata del vicolo.  Un’ombra ci osservava da lontano… 

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Capitolo 4
*** CAP.3: Il Caduto ***


                                                                                Capitolo 3:  Il Caduto (MIRI(Io) E ENGI )
Hesediel

Il rumore era assordante.
Milioni di particelle che si infrangevano contro i miei timpani.
Ed il buio… Era asfissiante.
In un solo respiro miliardi di bolle chiare invasero la mia visuale mentre, per la prima volta da chissà quanto, mi svegliavo.
La libertà era più pesante di quanto ricordassi…
E poi aprii gli occhi e, quando mi resi conto che l’acqua mi circondava, il mio corpo iniziò a sprofondare.
Il panico sostituì la calma, l’acqua, invece, il mio ossigeno. Immagini di vita e di morte invadevano le mie retine, acqua e sangue che si confondevano in un unico grande grido pieno di dolore.
Sentivo l’acqua nella gola, e nelle narici, e, improvvisamente, non fu la corrente a scuotermi, ma il gelo. Il petto divenne pesante come un macigno mentre tentavo di risalire, con grandi bracciate, a galla. E poi, finalmente, ecco la terra sotto i piedi, e la luna nel cielo.
Brillava pallida, lei, accompagnata dalle fiere stelle.
Quando l’acqua finì, un nuovo freddo mi avvolse; il gelido soffio del vento attraversava la camicia strappata in vari punti: scapole, cuore, e fianco destro. Un ultimo soffio e crollai sulle ginocchia che, a loro volta, bruciavano di dolore a causa delle pietruzze sulla quale poggiavano.
Le fitte erano tremende, scivolavano tra le scapole, inondandosi di sangue e d’acqua.
Un gemito mi sfuggì dalle labbra quando, con forza, qualcosa iniziò a spingere contro le ferite, squarciando la pelle sana. Caddi a terra, il petto contro le pietruzze appuntite e bagnate dall’acqua del lago. Strinsi la terra tra i pugni, strillando dal dolore. Ed improvvisamente, tutto scomparve: il dolore, le lacrime, le grida.
Appoggiai la guancia, piccole gocce di sudore caldo che scendevano sulla fronte, poi respirai piano, scorgendo con la coda dell’occhio dei fasci di luce impura, sporcata da fasci più scuri, astratti.
Solo quando l’oscurità avvolse del tutto la luce, chiusi gli occhi, e svenni…


Una calda carezza mi sfiorò il volto. Un dolce e leggero bacio, appena percettibile.
Riaprii gli occhi. Le palpebre sembravano pesare un quintale, come fossero di piombo, e tenerle aperte mi costò un’immensa fatica.
I deboli raggi del sole penetravano attraverso le scure chiome degli abeti, creando delle sorte di sottili fasci di luce, come se tante torce pendessero dai rami.
Rimasi immobile, ad ammirare come le nuvole che, minacciose, inghiottivano il sole.
Trassi un profondo respiro, gustando ogni singola molecola d’ossigeno che gonfiò i miei polmoni e il dolore acuto che provai al petto quando esso si sollevò.
Portai una mano al torace e qualcosa di caldo e bagnato andò a contatto con le mie dita.
Sangue, pensai osservandole. E subito ricordai ciò che era successo, e come fossi arrivato lì, steso sulla terra umida, in prossimità del lago che era stato la mia via di fuga.
Sì, fuggito, perché il posto dove prima mi trovavo era una prigione, un inferno dove i mostri non erano i Demoni, ma esseri muniti di bellissime e candide ali…
Una fitta mi percorse la schiena.
Angeli, sussurrò una vocina nelle mie orecchie.
Un’altra fitta, questa volta però più acuta. Anche il solo pensare a quelle divine creature mi provocava dolore, dolore e… Cos’era quell’altra sensazione che sentivo tremare dentro il mio petto? Che mi agitava?
Sollevai il busto, rimanendo seduto a terra, e mi guardai intorno.
I tronchi degli alberi erano poco più in là, distanti qualche metro, e formavano una specie di barriera tra il mio corpo e il cuore del bosco.
Le pietruzze, infilate nelle ferite ancora fresche, si staccarono dalla mia schiena.
Abbassai lo sguardo e, strappandomi di dosso ciò che restava della mia camicia, vidi i piccoli graffi che ricoprivano il mio petto, come ragnatele. Poi mi guardai le mani, macchiate di sangue. Del mio sangue.
Il respiro si impigliò tra le labbra e immagini veloci ed accecanti, come il flash di una macchina fotografica, si accavallarono tra di loro.
Mi coprii gli occhi e scossi il capo, tentando di cacciarle, ma queste non scomparvero. E nuovamente provai tutto il dolore che avevo patito in quei… Cosa? Ore? Giorni? Mesi?
Strinsi i denti con forza, trattenendo il grido che si era formato nella mia gola.
Tutte le urla, i pianti e i lamenti tornarono a rincorrersi nella mia testa, come fastidiosi e interminabili ronzii.
Mi alzai, velocemente, e cominciai a correre. Lontano. Via da quelle immagini, dai ricordi. Via dal dolore.
Corsi, corsi sempre più veloce. I tronchi e i massi non erano nient’altro che lunghe e confuse macchie che offuscavano i lati della mia visuale.
Il vento sferzava il mio volto, come violenti colpi di frusta.
Mi stavano seguendo? Mi osservavano? Perché?
Caddi rovinosamente a terra, ma immediatamente tornai in piedi e ricominciai la mia fuga.
Me li sentivo addosso. Sentivo i loro occhi pesare sulla mia pelle. Riuscivo persino a udire il fruscio delle piume che andavano a contatto con l’aria circostante.
- Andate via!
Urlai, lanciandomi un’occhiata alle spalle.
- State lontani da me!
Agitai le braccia. Percepivo la loro presenza intorno a me, come sciami d’api.
Qualcosa bloccò il movimento dei miei piedi e ancora mi ritrovai steso a terra. Il cuore che galoppava alla sinistra del petto, impazzito.
Rotolai sulla schiena e guardai ciò che aveva intralciato la mia corsa.
Il respiro mi si bloccò direttamente nei polmoni, che parvero congelarsi. Strabuzzai gli occhi e un verso strozzato mi sfuggi dalla bocca.
Un corpo. Un ragazzo.
Le corte ciocche dei capelli, secche e marroncine, ricadevano sulla fronte pallida e rigata da vene di sangue non ancora del tutto asciutto, che proseguivano come ruscelli lungo tutto il volto magro.
Mi avvicinai al cadavere, cauto.
Le palpebre chiuse del giovane erano coronate da ciglia incrostate di sangue, abbastanza lunghe da sfiorargli gli zigomi.
Percorsi il suo corpo con gli occhi, soffermandomi sulle numerose ferite che ancora rilasciavano il liquido scarlatto. E poi un suono quasi impercettibile, ma presente, mi paralizzò ogni muscolo.
Respirava. Anche se il suo petto pareva immobile, il ragazzo stava respirando.
Non è morto, e quel pensiero mi percorse la mente come un brivido. Scattai in avanti. Il contatto con quel corpo esanime sembrò bruciare i palmi delle mie mani, ma non ci feci caso.
- Ehi, ehi mi senti?
Non ricevetti alcuna risposta, ma non mi diedi per vinto.
Lo scossi un po’ e, quando questo non diede segni di reazione, provai a sollevarlo, ma il risultato fu il solo ribaltarlo.
La sua schiena era attraversata, in corrispondenza della colonna vertebrale, da un lungo squarcio arrossato. La pelle che circondava la ferita era annerita, come un foglio di carta bruciato.
Ma ciò che in realtà asciugò la mia bocca e riuscì ad arrestare anche lo scorrere del mio sangue nel corpo, fu la vista dei due pugnali, infilzati fino all’impugnatura nelle sue scapole. Ma non erano quelle a preoccuparmi, ma ciò che le ricopriva…
Davanti ai miei occhi si materializzò l’immagine di una schiena, di quella schiena. Era priva di ferite, non c’erano i pugnali, e, a sostituire le due profonde cicatrici che sovrastavano le scapole, v’erano delle ali. Maestose e lucenti. Pura luce, tanto da riuscire a sentire le iridi dei miei occhi sciogliersi insieme alle pupille.
Erano bellissime e irraggiungibili. Ogni piuma era ben distinta dalle altre; più ci si avvicinava alla punta più la forza era percepibile, quasi palpabile. Le piume si irrobustivano, fino a diventare potenti e spesse penne.
Quelle ali sembravano in grado di cambiare la direzione del vento, di sradicare le piante dal terreno al solo passarci accanto.
Eppure non erano immortali, non erano infinite come davano l’idea di essere, perché cominciarono a perdere il loro splendore, le piume si staccarono e le penne iniziarono a deteriorarsi.
Un urlo rimbombò nelle mie orecchie. Non era il mio.
L’immagine vorticò davanti ai miei occhi e tutto divenne rosso e dolorante. Comparvero le due cicatrici, aperte e pulsanti.
Tornai bruscamente alla realtà, scombussolato.
Guardai il ragazzo, ancora fermo nella sua posizione. Il desiderio di fuga si insinuò nella mia mente, percuotendo le mie gambe con copiosi e convulsi formicolii.
Arretrai, strisciando tra le foglie secche, come un verme.
Scappa, mi consigliava la voce. Scappa, è uno di Loro.
Mi alzai ma, nonostante gli avvertimenti di quella voce, non mi mossi. Qualcosa mi impediva di abbandonare lì quel ragazzo.
Lo so, risposi alla mia stessa mente, lo so bene. Eppure…
Allora perché rimani qui? Vattene!, ribatté la voce, impetuosamente.
Sigillai le mani in pugni, fino a far divenire le nocche bianche.
Tornai vicino al ragazzo, ignorando le urla di disapprovazione che aleggiavano nella mia testa.
Con esitazione afferrai i due pugnai e li estrassi, gettandoli il più lontano possibile. Due flussi di sangue esplosero dalle ferite appena aperte.
Nessun movimento da parte del giovane.
Mentre mi passavo il suo braccio dietro al collo, attesi di sentire gli insulti della voce, ma questa stranamente tacque.
E, cominciando a muovermi, nel mio cervello tuonò un percorso, un sentiero in mezzo agli alberi che portava ai confini del bosco e proprio lì, ancora nascosta tra gli abeti, poco prima che cominciasse la strada asfaltata della città, si ergevano le alte mura di un convento. Ed era proprio lì che dovevo dirigermi.
 

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Capitolo 5
*** CAP.4: MORTA ***


Gabriel
 
-          Damabiah…
Quel nome mi uscì dalle labbra quando l’ombra scivolava dall’oscurità per raggiungerci alla poca luce del lampione. L’alta figura dell’Angelo ci guardò, imponente ed elegante, anche se il suo travestimento da barbone era tutto fuorché di classe.
Hariel si strinse a me, guardando la figura che riaffiorava dalle tenebre, tremando con forza tra le mie braccia.
L’uomo avanzò verso di noi, uno strano sorriso sul volto.
Appena arrivò ad una manciata di passi di distanza da noi, una strana forza esterna mi spinse a trascinarmi a terra, in ginocchio, il capo chino.
Sentii Hariel sussultare guardandomi con occhi sbarrati e da cerbiatta.
-          Gabriel!
Gemetti piano sentendo i muscoli contorcersi sotto pelle, rendendomi impotente e paralizzato al suo potere. Hariel si inginocchiò di fianco a me, prendendomi il viso tra le mani come se volesse aiutarmi a rialzarmi e reagire.
E poi un dito le sfiorò sotto il mento, alzandoglielo lievemente per permettere a Hariel di guardare Damabiah dritto negli occhi.
-          Non posso crederci…
L’Angelo la guardò con i grandi occhi grigio argentei.
-          Sei identica a lei…
Mi si gelò il sangue nelle vene. Strinsi forte i denti, le mani chiuse in pugno contro le gambe.
-          Sta zitto…
Il mio risultò un ringhio, ma nelle mie condizioni sarei potuto sembrare solo un gatto spaventato.
Damabiah guardò ancora mia sorella, attentamente, come se stesse studiando un quadro antico.
Le porse la mano, per aiutarla a rialzarsi, e lei acconsentì, senza staccare gli occhi da lui.
Hariel lo guardava, silenziosa, studiava ogni suo sguardo, ogni sua azione.
Una mente criminale nel corpo di una ragazzina; un calcolo poco evidente per qualcuno che non la conosceva da sempre come me.
E finalmente trovai la forza…
-          Non toccarla!
Scattai in avanti ma, con un solo gesto della mano, l’Angelo mi spinse contro la parete del vicolo, bloccandomi nuovamente a terra.
-          Hariel…
Ma mia sorella non mi degnò di uno sguardo, rimase lì, ferma, a guardare l’uomo dagl’occhi d’argento.  Se stava calcolando qualcosa, quell’operazione era troppo complicata persino per lei.
-          Sei identica a tua madre…
La sua mano scivolò sulla guancia di lei, che iniziò a seguire con gli occhi i movimenti delle dita.
E poi un suono, dapprima lontano, poi sempre più veloce.
Hariel si voltò di scatto, un movimento così veloce che mi sorprese; a stento mi voltai verso la città. E poi tutto crollò.  Uno degli edifici più grandi della nostra cittadina iniziò a cadere, piano; i vetri si infransero, le mura iniziarono a disintegrarsi tra di loro, lanciando intorno a sé uno scudo di polvere grigia e fitta, come una nebbia a Settembre.
-          Angeli…
Damabiah guardò prima me, poi mia sorella. I suoi occhi d’argento vennero invasi da infiniti fasci d’ombra, il suo corpo tremò, come indeciso sul da farsi, poi afferrò Hariel per un braccio, trascinandola indietro, quasi fino a me.
-          DOBBIAMO ANDARE!
Gridò a gran voce mentre mi liberava dal suo potere.  Mi alzai, riprendendo Hariel tra le mie braccia.
-          Noi non verremo con te!
L’allontanai da lui, pronto a morire, a far qualsiasi cosa pur di proteggere mia sorella da lui.
Damabiah gesticolò guardandomi negli occhi, furioso e confuso su cosa dire per farmi cambiare idea.
-          Tu… Non capisci! Voi DOVETE venire con me!
Battei un piede a terra, facendo mettere Hariel dietro la mia schiena.
-          No! Io capisco, capisco fin tutto bene! Voi siete degli assassini, è questo che siete!
L’Angelo fece un passo avanti, ringhiando.
-          Razza di… Ok… Ma pensa ad una cosa: lì ce ne sono altri, proprio come me, se sono loro i distruttori di tutto, se io facessi parte di loro, perché dovrei aiutarvi? Perché vorrei che lei si salvasse?
I suoi occhi si posarono su Hariel, scossa dal tremore e dalla paura.
-          Lei è diversa dagli altri… Quindi permettimi di salvarla, Gabriel. Non farle del male più di quanto loro non vogliano farne a te.
Damabiah allungò la mano, ed io lasciai che Hariel prendesse la sua decisione.  Mi voltai verso di lei, sfiorandole le spalle con le mani.
-          Gabriel… Io…
Aveva le lacrime agli occhi. Le due pupille nere erano dilatate, rendendo l’iride azzurra sottile e quasi del tutto invisibile: il tipico sguardo che adottava quando era confusa.
-          Va con lui…
La guardai serio, il respiro mozzato per l’ansia.  E se fosse stata la scelta sbagliata? E se le avessero fatto del male ovunque l’avessero portata?
-          Ma…
Hariel si morse il labbro, tremando leggermente sotto la mia presa.
-          Tornerò a prenderti, ma prima ho bisogno di sapere che tu sei al sicuro.
Mi voltai verso Damabiah, e sperai che fosse davvero così.
 
 
Hariel
 
-          Dove siamo?
Damabiah mi tolse la benda dagli occhi, ed improvvisamente un mondo nuovo si aprì davanti ai miei occhi. Le pareti di mattoni si estendevano in ampie stanze invase dalla luce del sole che stava sorgendo, le grande colonne erano piazzate con estrema precisione ogni sette passi.
Continuai a camminare, ammirando le meraviglie di quel posto, senza però togliermi dal viso quell’aria seria di una persona che era stata portata via dalla sua realtà per essere catapultata in una del tutto nuova.
-          Quando tornerà Gabriel?
Ancora una volta nessuno rispose. E poi accadde…
La porta che avevamo oltrepassato qualche attimo prima sbatté di colpo, ma subito dopo venne riaperta e lei, una ragazza dai lunghi capelli scuri e la pelle pallida e al tempo stesso luminosa, presa per ambedue le braccia, veniva ritrascinata all’interno. Lei iniziò a gridare, furiosa, gli occhi pieni di lacrime, e le labbra tinte di rabbia e parole incomprensibili.
Mi si strinse lo stomaco fino a farlo divenire simile a un chicco minuscolo di riso.
I due uomini la lasciarono cadere a terra, confusi sul da farsi.
-          È spagnolo.
Dissi senza smettere di guardare la giovane che, a sua volta, ricambiava il mio sguardo, i suoi occhi dritti nei miei.
-          Qualcuno parla spagnolo?
Il mio cuore batteva a mille, confuso e spaventato. Volevo aiutarla, volevo che andasse via da quel luogo, come sembrava che anche lei volesse fare, ma non potevo far nulla per darle una mano.
Mi voltai verso gli uomini di Damabiah, ma tutti scossero il capo.  Per la seconda volta la porta si aprì di colpo, facendoci voltare tutti verso di essa.  Quest’ultima mostrò l’immagine familiare  di Gabriel.  Sussurrai il suo nome e, l’attimo che seguì questa mia azione fu accompagnato dalla sua corsa verso di me. Mi prese in un tenero abbraccio, facendomi roteare.
-          Sei venuto a prendermi… Grazie.
Il sorriso che mio fratello aveva avuto stampato sulle labbra fino a qualche attimo prima scomparve, improvvisamente, lasciando sul viso solo un’espressione carica di tensione e terrore.
-          Noi non andremo via…
Mi stupii di quanto potesse tremare la mia voce. Gabriel abbassò lo sguardo, annuendo piano.
Un altro rumore, questa volta molto più lontano, fece voltare tutti, persino Gabriel che mi lasciò libera dal suo abbraccio. 
-          Che cos’era?
La sua voce era seria, ma mai quanto il suo sguardo rivolto verso Damabiah, gli occhi dorati che si oscuravano di un nero oblio.
-          Stessi angeli… Palazzo più vicino…
Gli occhi grigi di Damabiah, che fino a qualche tempo prima avrei etichettato come quelli di un barbone qualunque, si spostarono su di me.
-          Nuovo obiettivo.
Un brivido mi attraversò la colonna vertebrale, il mondo crollò tutt’un tratto.
-          Io?
Il mio fu un gemito strozzato. Gabriel afferrò Damabiah per il braccio, trascinandolo indietro, il più lontano possibile da me.
-          Che cosa centra lei?
Damabiah tentò di liberarsi, ma oramai mio fratello lo teneva in pugno…
-          CHE COSA CENTRA LEI? DAMABIAH RISPONDIMI!
Mentre i due litigavano una voce bassa, sottile, mi invase la mente, senza che potessi fare niente per evitarlo. Fu una frase detta rapidamente, le parole si distorsero nel loro viaggio per raggiungermi, ma io sapevo benissimo da che parte dirigere il mio sguardo. Mi avvicinai alla ragazza mora, ancora tremante, la schiena poggiata alla gamba di un tavolino. Mi sedetti davanti a lei, in ginocchio. Le voci di Gabriel e Damabiah divennero solo un ricordo lontano nella mia mente…
-          Che cos’è successo? Perché sei qui?
La ragazza scosse il capo, poi le afferrai le mani, per calmarla, e lei mi guardò con i profondi occhi scuri. Respirò piano, poi abbassò il capo.
-          Era de noche… Hacía frío. Ya era tarde cuando estábamos durmiendo y entonces… Un sonido en la oscuridad.
E anche se le sue parole erano in una lingua che non avevo mai studiato, la traduzione che ne venne fuori fu molto più che facile da percepire. Fu come se i ricordi di quella povera ragazza si fossero fusi con i miei, mandandomi flash di quei ricordi. La notte. Il freddo. La ragazza che dormiva e poi un rumore…
-          Mi mamá entró en la sala, diciéndome que no fuera.
Non la vidi in viso, ma la donna entrò davvero nella stanza, dicendole parole di conforto, per poi concludere con l’ordine di non scendere. Il silenzio e poi un grido.
-          E poi ho sentito le grida e…
Sussultai quando la sentii parlare nella nostra lingua, mantenendo leggermente il suo accento spagnolo. Lei mi guardò negli occhi, il sussurro silenzioso di una persona che voleva solo essere lasciata in pace.
-          Non erano Angeli, ma Demoni…
Afferrò la piccola croce che portava appesa ad una catenella d’argento, e la baciò più volte, dondolandosi piano avanti ed indietro. I suoi occhi si riempirono di lacrime mentre tornava a stringere le mie mani. Voleva raccontare la sua storia, e al tempo stesso non voleva ripeterla a sé stessa.
-          Mi hanno picchiata…
Davanti ai miei occhi si stese la figura di tre uomini, tutti muniti di splendenti ali bianche, mentre gridando minacce in una lingua antica picchiavano prima la madre della giovane, e poi la stessa ragazza. E poi puntò la pistola contro la donna… Gemetti e solo quando mi resi conto di star piangendo le lasciai le mani, facendo tornare tutto alla normalità.
-          Él mató mamá! ¿Por qué? ¿Por qué no me mataste, también? ¿Por qué?
Perché non aveva ucciso anche lei? Non lo sapevo, non sapevo più niente ormai. La ragazza si afflosciò contro il mio petto, piangendo forte. Mi voltai, il petto vuoto di battiti e di qualsiasi altra cosa… Gabriel mi guardò sconvolto, Damabiah, invece, soddisfatto. Ero morta, e non lo sapevo…

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Capitolo 6
*** Cap.5: C'è sempre speranza ***


CAP.5 --> C'E' SEMPRE SPERANZA (ENGI)

Hesediel

Il cielo si faceva sempre più grigio, e le nuvole dense minacciavano pioggia.
L’immagine della struttura in mezzo agli alberi era ancora vivida e pulsante nella mia mente, come il ricordo continuo di un incubo quando ci si sveglia.
Le foglie secche si lamentarono ad ogni mio passo, anime angosciate e morenti.
Capii di dovermi affrettare appena il primo tuono vibrò sopra le chiome delle piante, un ringhio basso che riecheggiò fin dentro di me, fondendosi al battito del cuore, vivo e giovane, ancora libero di pompare il sangue. Il respiro del ragazzo era sempre più fievole, e la pressione del suo peso gravava sulle mie spalle ogni attimo di più. Anche il mio, di respiro, suonava spezzato e pesante, ma non potevo cedere alla stanchezza, non in quella situazione.
Non avevo idea del tempo che avrei impiegato a trovare quel posto, né di quello che rimaneva all’Angelo dalle cicatrici…
Quando riaprirà gli occhi, fece la voce, con il suo tono strascicato, ti ucciderà.
Non le diedi retta, ma parve non interessarle che l’ascoltassi oppure no, perché continuò: Qualunque cosa l’abbia ridotto a quello stato, non era sicuramente sua amica.
E con questo?, le domandai, non riuscendo a trattenermi.
Ma non ci arrivi proprio, tu!, ribatté, con fare seccato.
Continuai a camminare, tacendo.
Si sfogherà su di te, oppure ti porterà dai suo amichetti alati.
E le sue parole rimasero ben incise nella mia mente, come marchiate a fuoco.
Non aveva tutti i torti. Come potevo sapere che era dalla mia parte, contro gli Angeli? Come sapevo che meritava il mio soccorso?
E il mio istinto? Perché non mi ordinava di abbandonarlo lì, in mezzo alle pietre e i rami? Tanto sarebbe stato rintracciato dai suoi alleati, no?
Allora?, cominciavo a non sopportarla più quella dannata voce.
- Non credo sia dalla loro parte.
Bisbigliai e, anche se ciò che dissi non lo pensai mentalmente, rispose: Cosa te lo farebbe pensare?
Sesto senso, feci io, sperando di chiudere lì il discorso, ma, evidentemente, non era della mia stessa idea: Tu sei pazzo… E’ per le ali, vero?
Non risposi.
Solo perché ha delle cicatrici al loro posto non significa niente, affermò.
E, ancora una volta, non aveva torto.
Mi morsi la lingua con forza, non avevo alcuna intenzione di risponderle.
Non era un Angelo! Doveva non esserlo, o ciò che stavo facendo, in quel momento, per lui, perdeva ogni significato, ogni senso.
Gli Angeli hanno le ali, mi auto convinsi.
Sai perfettamente che lo è! Perché menti a te stesso?
Non lo sapevo nemmeno io. Doveva essere così e basta.
Mi fermai, riconoscendo ciò che mi circondava. Era lì. Il posto che stavo cercando era quello, ma mancava qualcosa di importante. Mi guardai intorno, perplesso.
Proseguii per qualche metro, confuso e quasi deluso. Ad un certo punto, gli alberi si interruppero in un’ultima e precisa fila orizzontale, e, davanti ai miei occhi, balzò l’asfalto grigio-piombo di una strada.
Tornai indietro.
Dov’era il convento?
Mi girai intorno, provando a spostarmi prima più verso destra, poi a sinistra.
Anche se non era particolarmente caldo, goccioline di sudore scivolarono giù, lungo le mie tempie.
Ero stanco e dolorante.
Afferrai il polso del ragazzo e cercai il battito cardiaco. Veloce, troppo veloce.
Adagiai il suo corpo inerme su un cumolo di foglie e afferrai una pietra. La strinsi con forza e, gridando di frustrazione, la lanciai lontano.
Niente aveva senso.
Un altro tuono brontolò nell’aria umidiccia e carica di elettricità. Alzai lo sguardo e le prime gocce di pioggia caddero sul mio volto, piccole granate gelide che si scagliavano contro le mie guance.
Portai le mani al capo e urlai nuovamente, desideroso di liberarmi della rabbia repressa.
- Chi sei?
Un uomo uscì da dietro il tronco di un albero. La voce estranea si tramutò in un brivido che corse su, per tutta la mia schiena, disperdendosi tra i miei cortissimi capelli scuri.
L’uomo non dimostrava più di trent’anni, ma, anche se il volto era privo di rughe, i folti capelli mori andavano ingrigendosi in prossimità delle tempie. Lì teneva tirati indietro in uno stretto codino, che rendeva il suo viso più duro e squadrato, e, allo stesso tempo, risaltava i luminosi occhi castani, illuminati da uno strano bagliore.
E in quel momento capii che era un Angelo. Sentivo la sua anima, la luce e l’energia che essa sprigionava.
- Io…
Ma i suoi occhi guizzarono alle mie spalle. Mi voltai. Guardava il ferito e, anche prima che potessi battere ciglio, l’uomo scattò in avanti. Si chinò sul giovane e l’osservò, proprio come un inventore possa rimanere affascinato dalla sua stessa creazione o uno scienziato dalla sua scoperta.
- Cosa vuoi fare?
Ringhiai, quando l’Angelo allungò una mano verso il ragazzo.
- Tranquillo…
Fece lui, lanciandomi un’occhiata da sopra la spalla. Un enorme sorriso gli luccicava sulle labbra.
- Non voglio fargli del male… e nemmeno a te.
Lui sapeva. Aveva capito. Appena i suoi occhi si erano posati nei miei, avevano cominciato a leggermi dentro, a rassegnare ogni mio ricordo. Le torture, gli esperimenti, le iniezioni… Tutto.
Sollevò il ragazzo, come se non ne percepisse il peso, e mi guardò. Guardò me. Ciò che ero stato, ma, soprattutto, ciò che ero adesso.
Deglutii il groviglio di spine che, fin da troppo tempo, era incastrato nella mia gola.
- Sarai al sicuro con noi…
- Noi?
La mia domanda si mescolò con la folata di vento freddo, che percosse gli alberi e accompagnò altre delle loro foglie in un valzer leggero e malinconico, finché queste non caddero a terra, abbandonate al loro destino.
L’Angelo sorrise ancora e un’ondata di calore mi prese tutto lo stomaco.
Lo guardai, interrogativo e lui mi fece cenno di girarmi. Obbedii. Il respiro mi morì sulle labbra.
Il convento si innalzava proprio davanti ai miei occhi, lì, dove poco prima non c’erano altro che foglie secche e rami. Le immense mura in mattone erano ricoperte agli angoli da grovigli confusi di rampicanti, e le ampie finestre lasciavano intravedere parte dell’interno dell’edificio.
Strabuzzai gli occhi, più che stupito.
- Ma come… Da dove… Tu…?
Non riuscivo a formulare la domanda. Ero a corto di parole, tutte mischiate tra loro nella mia testa confusa.
- Benvenuto alla Resistenza.
Provai a trattenermi dallo spalancare la bocca per lo stupore, ma riuscii solo a rallentare la caduta della mascella.
Avevo già sentito quel nome, ricordavo qualcuno che lo sussurrava, che lo ripeteva fino alla nausea come una preghiera. Resistenza… L’unica parola che ai Laboratori ti infondeva un briciolo di speranza. Una sorta di leggenda: nessuno l’aveva mai vista, ma si ostinava a sostenere che esistesse. Gli Angeli subito ci informavano che era cosa vecchia, che chi faceva parte della resistenza era già stato eliminato, tutti sterminato. E io avevo sempre pensato che non esistesse nessun superstite, e chi invece sosteneva il contrario lo faceva solo per non pensare a ciò che li attendeva, che a tutti ci attendeva… Ma adesso ero lì, e davanti ai miei occhi c’era la prova vivente che anche le leggende sono vere. Che c’è sempre una speranza, anche se invisibile.

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Capitolo 7
*** Cap.6: CADUTA LIBERA ***


Capitolo 6:
CADUTA LIBERA (DI MIRI)
 
Hesediel
 
L’Angelo ci condusse fino all’interno del convento, dove, un’accesa discussione tra un altro Angelo e un ragazzo stava avendo luogo proprio davanti ai nostri occhi.
-          Damabiah…
L’Angelo ancora privo di un nome fermò la lite verbale dei due, poi disse qualcosa all’altro Angelo di nome Damabiah che ci guardava annuendo piano.
-          Andiamo.
Mi aiutò nel reggere il ferito, poi ci scortò in una grande stanza dalle pareti color panna, priva di quadri o di qualsiasi altra cosa che avesse dato un tocco di vissuto in quelle quattro mura.
L’Angelo posò il ferito sul letto e quest’ultimo respirò con forza, senza però aprire gli occhi.
-          Pensi che sopravvivrà?
La mia voce risuonò tremante eppure seria, avevo freddo e anche paura. Sembrava che tutto quell’intreccio di sensazioni, azioni, destini, fosse solo un piano programmato e ben preciso.
Qualcosa di inaspettato, come un’eterna partita di scacchi, e noi eravamo solo le pedine di un gioco inaspettato che ci metteva tutti a rischio.  Scappa, diceva la voce nella mia testa, corri via e non voltarti più indietro!
-          C’è qualcosa che non va, ragazzo?
Mi voltai verso l’Angelo, ma non gli risposi. Indietreggiai e basta, la mia vocina interiore gridava con forza, la voce mutata dal mio nero animo che emergeva sempre di più.
-          EHI! DOVE VAI?!?
Chiusi la porta, mettendomi contro di essa guardandomi intorno, alla ricerca di una chiave con la quale poter chiudere entrambi all’interno della stanza.
Bravo Hesediel, mi parve strano che la vocina si complimentasse con me, ma sapevo che non avrei dovuto farci molto l’abitudine.  Per la seconda volta mi guardai intorno, e alla fine trovai ciò che cercavo. La piccola chiave di metallo sporgeva sotto un minuscolo tappetino verde, che all’inizio non avevo notato.  Afferrai rapidamente il piccolo oggetto, poi chiusi la porta più volte.
Sono Angeli, Hesediel, non ragazzini!, la vocina ritornò fastidiosa ed invadente nei miei pensieri.
BLOCCA LA PORTA!, il suo fu un grido interminabile.
Afferrai il comodino di legno bianco e lo misi contro la porta, così che loro non potessero evadere.
Il mio sguardo rimase fisso sul corridoio vuoto e all’apparenza eterno.
Iniziai a camminare, silenziosamente, poi sempre più rapidamente, fin quando i miei piedi non si adattarono ad una rapida fuga fuori da quel convento.
Uscire di lì, cambiare vita, città, esistenza…
Era quella la mia nuova speranza.
 
Hariel
 
Camminavo nel lungo corridoio vuoto, l’unica speranza era di uscire in fretta da lì.
Sentivo i passi pesanti di Gabriel seguirmi nel grande viale dalle pareti bianche come latte.
-          Ehi aspetta, fammi spiegare!
Continuai a camminare, senza voltarmi. Sentivo le scarpe alte ticchettare rumorosamente sul pavimento. Quando, finalmente, mi ritrovai nella prima stanza che ci Damabiah mi aveva mostrato, proprio sull’ingresso, eppure parve così lontana vedendola vuota e silenziosa.
-          Ho detto aspetta!
Le dita calde di Gabriel mi stritolarono il polso, costringendomi a voltare lo sguardo verso i suoi occhi dorati.
-          Lasciami. Voglio tornare a casa.
Tentai di liberarmi dalla sua presa, ma fu tutto inutile. I suoi occhi continuavano a cercare i miei, con una forza tale che mi fu impossibile contraccambiare il suo sguardo.
-          Noi non abbiamo più una casa, Hariel? Capisci? È andato tutto… Distrutto.
I suoi occhi si lucidarono di lacrime, senza però versarle.  E improvvisamente capii che avrei voluto solamente che lui abbassasse lo sguardo, ma non lo fece. Strinsi gli occhi, sentendo le lacrime bagnare le palpebre. Gabriel mi lasciò il polso ed io avanzai verso un alto tavolo di legno, per appoggiarmi e riprendere fiato.
-          Non lo avevamo mai saputo o… Sospettato.
La sua voce riecheggiava nel buio della mia mente, come se quest’ultima si fosse svuotata, improvvisamente, di ogni certezza, di ogni verità.
-          Né uomo, né demone, né benché meno un angelo. Niente di tutto ciò…
Aprii piano gli occhi per poi guardare la mia immagine riflessa davanti al vetro di una finestra.
-          E allora cosa? Non riesco a capirlo. Eppure loro continuano a cercarti, vogliono… Cancellarti.
La bionda ragazza fissava a sua volta sé stessa, gli occhi azzurri di una sconosciuta che, sfortunatamente, conosceva.
-          Hariel…
L’immagine di Gabriel invase la visuale nello spazio ristretto dello specchio.
-          Non ti credo.
Mi sfiorò la mano ma io la ritrassi, violentemente. Abbassai lo sguardo, poi strinsi con forza gli occhi. Chiusi le mani in pugno, rimanendo in direzione dello specchio.
-          Tu sei stata adottata.
Un’ultima botta all’anima e tutto svanì. Guardai il mio riflesso nello specchio ed improvvisamente non vi fu più l’Hariel che conoscevo. La sconosciuta prese il sopravvento e mi guardò con asprezza attraverso il vetro. Chi sei tu?, mi chiese inclinando leggermente il capo.
Sono Hariel, ma la mia risposta le provocò solo un grande sorriso sulle labbra.
No che non lo sei, sorrise ancora continuando a lanciarmi sguardi fulminei.
Io lo sono, la sua voce vorticò nella mia mente come in un tunnel senza via d’uscita.
-          Dobbiamo andare. 
Damabiah ringhiò, accompagnato da un secondo Angelo che non avevo mai visto.
-          Gabriel, raggiungimi al furgone.
L’Angelo dagli occhi grigi sembrava furioso, eppure seriamente preoccupato. Che cosa poteva essere mai successo?
-          Ma…
Il ragazzo si voltò verso di me, ma io non mi mossi dalla mia postazione, ruotai solamente il capo per guardare la reazione del secondo Angelo che mi guardò senza fiatare.
-          Vieni anche tu.
Mi guardò senza far nulla.
-          Cosa? NO!
Si mise tra me e loro, allungando un braccio affinché rimanessi al di dietro della soglia da lui prestabilita.
-          Voi non toccherete mia sorella!
Il suo fu un sibilo aspro. L’Angelo guardò Damabiah, come per accordarsi su qualcosa e, quando il secondo annuì, l’altro schioccò le dita. Le immagini che seguirono il suono provocato dalla sua azione si susseguirono in rapida successione: Gabriel che cadeva a terra, il suo corpo che si contorceva in rumorosi spasmi, suoni di ossa che si spezzavano una dopo l’altra.
-          NO! BASTA, BASTA!
Mi lanciai contro l’Angelo, in lacrime.
-          Verrò con voi! Ma lasciatelo! Vi prego…
E così fu…
 
Hesediel
 
Ricordavo perfettamente quella sensazione, il respiro straziato dal vento e dal fiatone imminente.
Correvo, o meglio, fuggivo.
Ricordavo esattamente i punti di quel bosco che avevo percorso con il ferito sulle spalle, e allo stesso tempo dimenticavo i miei passi, riempendomi la testa della mia prima fuga dagli Angeli.
Erano passati ben cinque mesi; mia madre mi aveva svegliato quella notte e mi aveva gridato di fuggire, che non voleva più vedermi in quella casa, che non mi sarei dovuto voltare indietro.
Ma mentre uscivo di casa, il mio mondo distrutto, mi voltai, e fu allora che gli vidi:
mia madre era ferma sulla soglia della porta, le labbra schiuse nel pronunciare il mio nome, e la spada di luce che gli perforava il petto, all’altezza del cuore.
Quello era il mio ultimo ricordo prima del mio risveglio nel Laboratorio, e prima delle voci che si erano iniettate nella mia mente come un veleno.
Improvvisamente un rumore mi riportò alla dura realtà della mia fuga.
Mi voltai intorno perdendo, d’un tratto, l’orientamento.
Gli alberi apparivano tutti uguali, il cielo era scuro e privo di stelle, o della stessa Luna che, un tempo, sarebbe stata la mia guida.
-          Ti prego, fallo smettere.
La voce femminile trafisse l’aria come la punta acuminata di una spada. Mi voltai di colpo e l’ombra scura si piegò su sé stessa. 
-          Ehi… Va tutto bene?
Feci un passo avanti, ma la figura si nascose ancora di più nell’ombra.
La sentivo tremare, come una foglia al vento, battere i denti, strusciare con le scarpe contro la terra umidiccia.
La prima cosa che notai di lei, illuminate da una debole luce, furono le sue mani che stringevano qualcosa contro la terra.
La sentii alzarsi, il suo passo leggero contro il terreno. Il mio sguardo si spostò al cielo che si schiariva, man mano, illuminato da una luna che cresceva pian piano nel cielo.
Un rumore metallico mi fece rivoltare verso la figura.
In quell’istante il volto di una ragazza fu illuminato per intero e, con esso, anche la parte finale della balestra puntata verso di me.
-          Questo è per mio fratello.
E poi la freccia scattò…
 
 
Hariel
 
-          Pensi che potrebbe attaccarci?
Guardai l’Angelo, il suo sguardo era quello di un cacciatore che aveva preso la sua prima preda.
-          Non fin quando rimarrà lì dentro.
Mi voltai verso il quadrato di vetro oscurato e antiproiettile, dove l’ombra lontana del ragazzo si mostrava seduta e curvata contro sé stessa.
Il ragazzo mosse lentamente il capo verso di me, poi la sua figura, rapida come un soffio di vento, iniziò a battere i pugni contro il vetro gridando come un pazzo, facendo versi strazianti e animaleschi. Mi feci leggermente indietro quando la sua testa iniziò a ruotare velocemente su sé stessa, senza controllo. Sentivo le sue mani spingere contro le pareti di metallo, come se volesse buttarla giù, e trattenni il respiro, terrorizzata. Ma quando mancava per tornare?!?
-          È questo il tuo potere…
Mi si smorzò il respiro. Allungai la mano verso la direzione dove sentivo le sue, la superficie della parete era liscia e fredda. Il suo respiro caldo appannò il vetro ma non abbastanza per nascondere i suoi occhi azzurri che cercavano i miei.
-          Aiutami…
E poi tutto scomparve; il ragazzo era seduto su una struttura di ferro, simile ad un blocco d’acciaio, legato con massicce catene nere sia ai polsi che alle caviglie. Il suo gemito, la sua richiesta sussurrata tra le labbra, mi risuonava nella mente, scivolando da una tempia all’altra, come un mal di testa stranamente indolore.
-          Ah, non guardarlo bambina… Il mondo che ti mostra è solo nella sua mente malata…
Mi voltai, uno strano dolore al petto, come di insoddisfazione, come se privassi me stessa della presenza dello strano fuggiasco. Abbassai lo specchietto del veicolo, abbastanza per vedere cosa faceva il giovane. Lo vidi alzarsi verso il grande specchio della parete, gli occhi sbarrati nel riconoscere la sua immagine.
Il suo sguardo rimase fisso sul petto nudo, dove la freccia iniettata di calmante spiccava ancora tra la spalla sinistra e il resto del petto. Il ragazzo ringhiò e la estrasse con violenza, senza pensare alle conseguenze che avrebbe potuto avere.
E poi voltò il suo sguardo a terra. I suoi occhi si spalancarono, e poi la sua bocca fece lo stesso, in un grido. Il ragazzo si lasciò cadere a terra, come se le sue ginocchia non reggessero più il peso del suo corpo, poi strisciò lontano dal centro della struttura.
-          L’ho ucciso! Oh mio Dio, oh mio… L’ho ucciso!
Il ragazzo continuò a guardare il posto vuoto al centro della struttura metallica. Mi strappai via la cintura di sicurezza, ma l’Angelo mi fermò. Le sue grida erano strazianti, avevo le lacrime agli occhi e non potevo far niente. Continuai a guardare attraverso lo specchietto e fu allora che lo vidi: il fuggiasco afferrò la freccia e, con forza, si incise un profondo taglio sul polso.
-          NO! Ferma la macchina!
Il polso iniziò a macchiarsi di sangue rosso e scuro. L’Angelo però pareva indifferente.
-          FERMA LA MACCHINA!
Lui sbuffò e chiuse gli occhi, frenando di colpo e facendo catapultare i loro corpi in avanti.
Respirai profondamente per fermare il batticuore che mi aveva preso il petto in quel momento.
Quando sentii il sangue ritornare a scorrere normalmente nelle vene, scattai fuori dall’auto e corsi verso la struttura che ci portavamo dietro, come la parte inferiore di un camion.
Aprii le pesanti porte di ferro e mi lanciai all’interno, verso il corpo del ragazzo.
-          Ehi! Guardami negli occhi! GUARDAMI! Non devi chiudere gli occhi!
 
 
Hesediel
 
Ed io la guardavo, il cuore che aveva perso ogni singolo battito.
-          Bravo… Continua a guardarmi. Così…
I suoi occhi intensi continuavano a fissarmi, le labbra chiare schiuse in un timido sorriso, appena accentuato sulle labbra. 
-Ti prego, lasciati salvare da me. 
La voce femminile era dolce e sottile nella mia mente offuscata e oscura. Salvezza?
L'avevano chiamata così in molti, ma mai ne avevo creduto l'esistenza, o almeno fino in quel momento.Le sue dita fredde e pallide mi sfiorarono la guancia e, dopo secoli di astinenza, una lacrima la rigò, rapida come pioggia e calda come una giornata d'estate.
-Ti prego... 
Forse lei non lo sapeva, ma l'aveva già fatto...

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Capitolo 8
*** Cap.7 solo un vetro appannato ***


                                                                                         Capitolo 7
          Solo un vetro appannato (ENGI)
Mikael

Osservai l’uomo che, borbottando e lanciando maledizioni a qualcuno, tentava in tutti i modi di aprire la porta, posta al centro di una parete color panna. Prima girava la maniglia con forza, poi, non vedendo i risultati, prendeva un passo di rincorsa e, con una spallata, provava a sfondare il legno, e, subito dopo, sbatteva i pugni, sicuramente sperando di essere udito.
- Possibile che nessuno passi mai per questo corridoio?
Domandò a voce alta, come se oltre la porta ci fosse qualche orecchio di passaggio. Si piegò in avanti e, chiudendo un occhio, guardò dentro la serratura.
- Credo che se qualcuno fosse stato là fuori, ti avrebbe già aperto.
Mi sentii in dovere di dirgli. L’uomo si voltò, sorpreso dalla mia voce.
- E tu, da quanto sei sveglio?
- Da abbastanza tempo per assistere al tuo pietoso tentativo di aprire la porta.
Gli occhi diventarono due sottili tagli luminosi nel suo volto. Non mi stavo guardando con rabbia, o fastidio per ciò che gli avevo appena detto, ma come se cercasse di leggere un libro scritto in una lingua sconosciuta.
Spostai lo sguardo sulla porta, confuso.
- Sei un Angelo… Come può una porta resisterti?
A fatica mi alzai dal letto bianco. Il bruciore alla schiena non era ancora del tutto scomparso, ma il lungo sonno aveva fatto sì che le ferite cominciassero a rimarginarsi. Perché il mio corpo guariva da solo, senza il bisogno di cure esterne. Ero una macchina da guerra, creato con il preciso compito di rialzarmi finché ne avessi la forza, finché la morte non mi avesse sconfitto.
- Co… Cosa fai?
Il corpo dell’uomo s’irrigidì. Mi avvicinai alla porta e feci scorrere la mano sulla sua superficie liscia e scura. I miei occhi scivolarono sugli stipiti, preziosamente e abilmente intagliati a creare una cornice di piume che vorticavano tutt’intorno. Poi guardai la serratura in oro.
Ripensai a ciò che ero stato in grado di fare a quei due Angeli, e nuovamente sentii quel suono sordo che avevano fatto le loro teste sbattute una contro l’altra. Un formicolio mi percorse le mani. Ero stato io a volerlo, desideravo con tutto me stesso che accadesse.
Chiusi gli occhi e, nella mente, visualizzai i diversi meccanismi della serratura. Immaginai una chiave che, girando nel buco, li azionava. Sentii un clack, nella testa, e, quando aprii gli occhi, la porta stava cigolando.
L’uomo non proferiva parola, continuava a guardarmi, sbigottito.
- Come ci sei riuscito?
Un mezzo sorriso mi incurvò le labbra. Feci spallucce e gli voltai le spalle, pronto a varcare la soglia e uscire da quella stanza.
- Aspetta… Dove pensi di andare conciato…
Mi girai e, lanciandogli un’occhiata, attesi che terminasse la frase.
- Insomma, la tua schiena… Non penso sia il caso che giri per i corridoi così.
Disse, facendo un cenno nella mia direzione. I nostri sguardi rimasero incrociati, finché non lo distolse per primo.
- Beh, non ho nulla con cui coprirmi.
- Vieni.
Con gli occhi sempre rivolti al pavimento, mi passò affianco e fece strada lungo i silenziosi corridoi.
- Ma questo posto è deserto?
Domandai, guardandomi intorno. Non volava una mosca, non si sentivano nemmeno i generici rumori delle abitazioni. Nulla. Dalle porte chiuse, che si susseguivano lungo la parete, non proveniva nemmeno un suono, anche lieve, di passi. Dalle finestre, attraverso le quali entrava la luce chiara dell’alba, si vedeva gran parte del cortile esterno, costeggiato dagli alberi del bosco, ma privo di anime anch’esso.
- No, affatto.
- Io non vedo nessuno.
Ribattei, gli occhi ancora persi nel verde di quel prato, tra i fili smeraldini d’erba, ondeggiati da un leggero vento. Un uccellino si posò a terra, ma si rialzò immediatamente in volo, perché seguito da un altro. Si rincorsero nel cielo, stagliandosi perfettamente nell’indefinibile colore di cui era tinto. Battevano le loro esili ali con scioltezza, consci di poter andare ovunque, di essere in grado di superare ogni muro e di osservare tutto dall’alto.
Volai assieme a loro, seguendoli con gli occhi. Immaginai il vento sferzarmi il viso e la sensazione dell’altezza sopra e sotto di me. Un brivido mi percorse tutto il corpo, al ricordo delle piume mosse dall’aria.
- Mi stai ascoltando?
Gli uccellini sparirono dalla mia visuale.
- Come?
L’uomo mi guardò.
- Non hai mai sentito parlare della Resistenza?
Scossi il capo. Non mi diceva niente quel nome.
- Beh, avrai sicuramente sentito parlare di una coalizione tra Angeli, la maggior parte Caduti, e Umani. Dopotutto gli Altri non fanno altro che parlare di questo.
Annuii.
- Ma gli Umani cosa centrano?
Domandai, non capendo fino in fondo lo scopo di quel luogo.
Ci fermammo davanti ad una porta, identica a tutte le altre. Solo il numero inciso sopra lo spioncino, che prima non avevo notato, le differenziava una dall’altra.
- Numero infelice.
Dissi, indicando il 17 un po’ storto. Un sorriso sghembo deformò le sue labbra, e i suoi occhi si fissarono, pensierosi, sul quel numero.
- Il Diluvio universale.
- E anche il giorno della Crocifissione.
Il sorriso gli abbandonò completamente il viso, e, come per fuggire da una simile conversazione, aprì la porta.
Lo seguii, senza dare troppo peso al suo improvviso nervosismo. La stanza era completamente bianca, a parte l’armadio in legno a due ante, posto nell’angolino vicino alla finestra. Anche il letto e il pavimento erano bianchi.
- Scommetto che detesti il bianco.
Ma l’Angelo mi ignorò completamente e si avvicinò all’armadio. Ne estrasse una maglietta a maniche lunghe blu scuro e me la porse.
- Dovrebbe starti.
Prima che potessi infilarla mi fermò.
- Forse non sarebbe meglio che prima ti fasciassi le ferite?
- Sarebbe inutile, ormai sono completamente guarite.
Ma, dall’espressione del suo volto, capii che non era completamente convinto della mia risposta.
- Tranquillo, non te la macchio.
L’uomo arrossì violentemente e distolse lo sguardo.
Come aveva predetto lui, la maglietta mi era giusta sia di maniche che di busto, come fosse sempre stata mia.
- Vabbé, io vado.
Gli voltai le spalle e tornai alla porta.
- Cosa? E dove?
- Boh, pensavo di fare avanti e indietro per i corridoi…
Interdetto mi osservò uscire, ma, prima di chiudere la porta, mi rivoltai.
- Grazie per la maglia,…
- Caliel.
Terminò lui, quando si accorse che cercavo, invano, di ricordarmi il suo nome.
- Caliel.
Ripetei con un sorriso, poi uscii definitivamente dalla stanza, lasciandolo solo.
Appena mi fui chiuso la porta alle spalle, sospirai e mi guardai intorno. Potevo tornare indietro e ripercorrere la strada che avevo fatto insieme a Caliel, o continuare dritto nell’altra direzione.
Proseguii dritto, senza nemmeno valutare ciò che potevo lasciarmi alle spalle. Il sole era sempre più alto nel cielo e la luce sempre più calda.
Lessi i numeri sulle porte, fantasticando fino a che numero arrivassero, e continuai a camminare.
25, 26,27, …
E, improvvisamente, al posto della solita porta in legno, davanti ai miei occhi si piazzò una fredda e grigia porta in metallo. Mi fermai e, sulla superficie dura, cercai il numero 28. Ma questo lo vidi solo nella porta successiva, dalla quale ripartivano poi tutte le altre, ovviamente numerate.
Era come se quella porta in metallo fosse una sorta di parentesi, una breve interruzione.
Voci attutite, appena percettibili, provenivano dall’interno di quella stanza, oltre l’ermetica porta.
Provai a distinguerle le une dalle altre, e, quando mi resi conto di non esserne in grado, scoprire ciò che stava avvenendo in quella stanza divenne una necessità. Un bisogno tanto impulsivo da spingermi a proseguire dritto, correre fino alla fine del corridoio, dove questo svoltava e continuava, per poi svoltare un’altra volta dritto. Lì, in quella parte dell’edificio, le pareti, invece che da porte, erano interrotte da diversi dipinti, tutti raffiguranti angeli e scene di questi in guerra contro il Male.
Vidi, infondo, dove il corridoio ruotava all’infinito su sé stesso, la porta d’uscita, e prima, incastonata nella parete interna, una finestra. Mi avviai verso di essa, curioso e speranzoso che si trattasse di ciò che pensavo. Uomini e donne, dentro lunghi camici bianchi, parlavano fra loro.
Umani, pensai guardandoli. Non percepivo alcuna vibrazione divina provenire dal loro spirito.
Li osservai. Osservai i loro volti, segnati dagli anni, coperti da mascherine azzurrognole, e i loro occhi tutti rivolti verso il letto bianco, affiancato da altri due dottori. Sopra vi era stesa una ragazza. I lunghi capelli corvini le coprivano la schiena, rivolta verso l’alto. E, lì, proprio dove una volta le possedevo anche io, c’erano le sue candide ali. Lucentissime. Forse le ali più belle che avessi mai visto. Erano luce pura. Non ero in grado di distogliere lo sguardo da tanta magnificenza. Non avevano alcuna sfumatura o screziatura. Semplicemente perfette.
Mi avvicinai al vetro, come se così facendo avessi cambiato prospettiva, e, infatti, così fu, perché vidi come sfioravano il soffitto con le lunghe penne. In quell’attimo desiderai tanto toccarle. Possederle io stesso, per poterne provare la loro forza, la velocità in volo.
I dottori posarono le loro mani inguantate alla radice, dove le ali si fondevano con la pelle.
Deglutii e mi ritrovai letteralmente aggrappato al vetro. Il mio respiro lo appannava, ma non abbastanza da impedirmi di vedere ciò che accadde.

Lia

Non riuscivo a descrivere ciò che provavo, ma non fu liberatorio come pensavo. Dolore. Solo dolore. Così tanto che non riuscivo nemmeno a ricordare il motivo che mi aveva spinto a una tale decisione. Perché mi ero privata di ciò che più amavo? Perché avevo deciso di negarmi, per sempre, del mio dono? Il dono più grande, quello che in tanti bramano ma che non possono avere.
Mi odiai, perché sapevo, lo sapevo perfettamente, che non avrei mai più volato, non mi sarei più librata in aria come un uccello. Mi ero liberata delle catene che mi legavano a un’entità che non amavo, o, per lo meno, non più, per rinchiudermi in quelle che mi trattenevano al suolo, come fossi una semplice umana. Dopotutto come potevano vedere la differenza, se non la possedevo più?
A fatica mi sollevai sugli avambracci. Il dolore era accecante ma, comunque, un lato positivo c’era: la leggerezza. Non mi ero mai sentita tanto leggera in vita mia, se non in volo. Il peso delle ali non gravava più sulla mia schiena, e il dolore della loro perdita sarebbe scomparso, presto o tardi.
Guardai i dottori che mi si avvicinavano. Mi osservavano con i loro grandi occhi, traboccanti di dolore per me.
Muovendomi il meno bruscamente possibile, mi misi in piedi.
Guardai i volti pallidi che mi circondavano, timorosi che potessi cadere da un momento all’altro, e trassi un profondo respiro.
Improvvisamente, il senso di leggerezza di poco prima scomparve, e venne sostituito da un nuovo peso.
Lentamente mi voltai e, oltre il vetro della finestra, al di fuori della stanza, due grandi occhi verdi, come i prati di campagna quando il sole, infuocato, brilla nel cielo, erano posati su di me. Al loro interno non leggevo altro che tristezza. Un’immonda tristezza, come se fossero appena stati privati della più bella visione.
Sbattei le palpebre e, quando le ebbi riaperte, il ragazzo dagli occhi di smeraldo era scomparso. Di lui era rimasto solo un vetro appannato.

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Capitolo 9
*** Cap.8: La Resistenza ***


Capitolo 8
La Resistenza (SCRITTO DA MIRI-ME)
"Quegli uomini mi presero e mi posarono nel Secondo cielo. /.../ Là vidi angeli condannati, in catene, che piangevano, e chiesi agli uomini che erano con me << Perché questi uomini sono tormentati?>> E gli uomini mi risposero << Costoro sono apostati, che non hanno dato ascolto alla Voce del Signore ma si sono fatti consigliare dalla propria volontà.>>”
(Libro dei segreti di Enoch-Enoch Slavo- VII, 1-3
 
Hariel
Sfiorai i capelli umidicci del ragazzo che tremava contro di me, immerso in un sonno pesante.
Il suo corpo era scosso da violenti spasmi che non mi permettevano di muovermi e aiutarlo.
Stringeva le mani in pugno, che premevano contro il viso, le braccia piegate e le gambe erano strette l’uno l’altra contro il petto.
Non gridava, né reagiva alle mie mani nei suoi capelli; le mie dita si muovevano, giocherellavano tra i corti capelli imperlati di piccolissime gocce di sudore.
Sentivo i suoi respiri sfiorarmi la pelle, muovendo piano il tessuto leggero della mia maglia.
- Come sta?
Non mi accorsi nemmeno che l’Angelo aveva aperto le portiere anteriori del camioncino, e che in quell’istante guardava me e il fuggiasco con l’aria di qualcuno che vedeva più del dovuto.
- Lui…
Abbassai lo sguardo e sentii le sue dita sciogliersi dal pugno che aveva creato, per poi allargare.
- Hesediel… Mi chiamo… Hesediel.
Si alzò meccanicamente da me, le sue ossa scricchiolarono sotto i suoi movimenti lenti, facendomi rabbrividire.
- E sto bene, grazie.
Il freddo si appropriò del posto che, prima, apparteneva a Hesediel, scivolando sui miei abiti che sembravano quasi bruciare della sua assenza.
Lo guardai avanzare verso l’Angelo che, a sua volta, camminava verso di lui, lo sguardo serio che ardeva sul volto.
- Lasciami andare.
Hesediel tremava, ma non di paura; nella mia mente ripercorrevo il momento in cui si era tagliato con la freccia che, all’inizio, gli aveva colpito il petto.
Il ragazzo alzò il pugno, ma l’Angelo lo bloccò con un movimento rapido della mano; gli stritolò le dita per poi piegargli il braccio in modo innaturale.
- NO!
Scattai in avanti, il passo rapido eppure così dannatamente umano e lentissimo rispetto a quello delle creature che avevo di fronte.
Guardai l’Angelo che continuava a stringere forte la mano di Hesediel; era come se potessi vedere ogni singolo osso, a partire dalle dita, che si piegavano sempre di più, scricchiolando sotto la presa dell’uomo.
- Ti prego basta!
Gridai, ma lui parve non sentirmi. Feci un altro passo avanti ma rimasi bloccata a pochi centimetri di distanza da loro; portai la mano davanti a me, ma quest’ultima si fermò su una superficie invisibile. Riprovai, ma fu tutto inutile.
- LASCIALO ANDARE!
Il cuore pompava così velocemente il sangue che quasi lo sentivo scivolare in ogni vena, scorrendo rapido in tutto il mio corpo. Mi guardai intorno, alla ricerca di qualcosa che avrebbe potuto aiutarmi a far ragionare l’Angelo, ma non c’era nulla lì.
- Si, perché non mi lasci andare? Così ucciderò prima te e poi anche lei, come tutti gli altri!
Sul viso di Hesediel si formò un sorriso freddo, pieno di soddisfazione, e questo mi fece paura.
L’Angelo continuò a fissarlo negli occhi, le sue iridi chiare tremolavano come la fiamma di una candela e Hesediel non aspettò un attimo per approfittarne: con la mano libera sferrò un pugno all’Angelo che cadde a terra. Quest’ultimo si rialzò in un attimo, scattando verso di lui, ma Hesediel si scostò, ancora più rapido.
Prima che potesse far qualcosa, il fuggiasco afferrò il collo dell’Angelo. Le immagini percorsero i miei occhi così rapidamente che fu quasi impossibile per me seguire ogni singolo particolare, ogni singolo movimento che i due intraprendevano all’interno della cella d’acciaio. Li sentivo muoversi all’interno della stanza, braccandosi l’un l’altro, come il cacciatore e la preda. Mi guardavo intorno con uno strano senso di vuoto che, però, riempiva il mio corpo. Era come se non sentissi più niente se non il suono del mio cuore che pulsava. Improvvisamente una forza a me superiore mi spinse contro la parete di ferro, facendomi battere il capo. E poi il silenzio. Mi sfiorai la fronte, ma, quando portai la mano verso il viso, tutto ciò che vidi fu il rosso del mio sangue. Mi voltai, lentamente: l’Angelo era accasciato a terra, immobile. Respirai con forza. Hesediel comparve avanti a me l’attimo seguente, mi prese per le braccia e mi guardò con gli incantevoli occhi azzurri.
- Stai per uccidermi?
Nei suoi occhi non riuscivo a vedere nient’altro se non il dolore. Il suo cuore pulsava lento, eppure riuscivo a sentirlo con forza mentre batteva contro di me.
- No… Io…
Il mio respiro divenne sottile mentre le immagini diventavano pian piano sempre più sfocate.
Mi lasciò per un attimo le braccia, allontanando il suo sguardo dal mio per portarlo alla sua maglia stesa a terra, non poco distante da noi. Lo vidi allontanarsi, rapido, per poi ritornare con la stessa velocità. Strappò un gran pezzo della maglia e me lo portò sulla fronte.
- Hesediel?
Quando allungai la mano verso la mia fronte per stringere il pezzo di stoffa, lui tornò a guardarmi.
- Grazie.
Il ragazzo respirò, poi lasciò che io tamponassi la mia ferita da sola.
- Riesci ad alzarti?
Tentai e, anche se riuscii a mettermi in piedi, mi fu quasi impossibile fare il primo passo.
- Ok, ho capito.
Sentii l’aria sferzarmi i capelli mentre lui, rapido come il soffio del vento, mi prendeva in braccio. Chiusi gli occhi e respirai.
- Devi rimanere sveglia ok?
Annui…
Hesediel
Dovevo far qualcosa. Stretta contro il mio petto nudo, la ragazza tremava, battendo le lunga ciglia scure. Non doveva addormentarsi, non doveva chiudere gli occhi.
- Dimmi qualcosa di te.
La mia frase fu lo spezzare del silenzio che si era creato tra noi.
- È morto? Quell’uomo…
La vidi alzare timidamente lo sguardo verso di me, ma io non ricambiai lo sguardo. Decisi di non rispondere alla sua domanda.
- Hai fratelli… O sorelle?
La ragazza si accucciò contro di me, respirando. Sentivo sulla pelle nuda il suo respiro freddo che, prima di sfiorarmi, si condensava leggermente nella distanza che ci affliggeva.
- Ho… Un fratello. Si chiama Gabriel. Lui…
Strinse i denti e, di conseguenza, anche gli occhi.
- No. Non chiudere gli occhi… Andrà tutto bene.
Dissi quella frase rapidamente e a bassa voce, ma quelle parole risuonarono nella stanza.
- Lui mi sta aspettando.
Tremava così forte che mi faceva male guardarla. Ma perché? Non capivo.
Eppure aveva perso solo un po’ di sangue!
E poi le sue parole mi ritornarono in mente, più forti dello stesso eco delle mie: “E’ questo il tuo potere.”
Ero io? Era questo ciò che ero in grado di fare: provocare dolore all’unica persona che, a distanza di un tempo indeterminato, mi aveva dimostrato davvero qualcosa di più simile all’affetto umano?
E poi, improvvisamente, arrivò la fitta. Afferrò, all’inizio, il fianco, poi salendo, pian piano, anche l’attaccatura del braccio.
Mi piegai su me stesso, il dolore bruciante che stringeva il petto si spostava all’altezza del cuore.
Ressi con forza la ragazza, tentando di non farle sfiorare il pavimento freddo.
Se tutto quello che le stavo facendo provare era solo frutto della mia pazzia, il duro contatto con la realtà cosa avrebbe scaturito in lei?
Cosa tenti di fare, eh?, la vocina tornò nella mia testa appena tentai di rialzarmi da terra.
Ricaddi pesantemente, ma non abbastanza per permetterle di scivolarmi dalle mani.
Non la salverai, la voce mi risuonava nella mente con forza, SEI UN DEBOLE.
Era una cosa inevitabile.
- Io non posso lasciarla morire.
Ma lo farai, strinsi gli occhi ma la voce non scomparve.
Sei un assassino e lo sai, continuò. Ero così stanco di sentirla parlare.
La ragazza gridò con forza, portandosi le mani strette in pugno contro le tempie.
- La mia testa!
Sentivo il circolo del suo sangue farsi veloce, il liquido rossastro che scorreva furioso lungo le vene.
- STA SCOPPIANDO!
Il suo corpo si contorse contro il mio, e solo allora fui costretto a lasciarla sul gelido pavimento di metallo. La sentivo gemere, il suo corpo mosso da forti spasmi. Era come se potessi sentire tutte le sue ossa contrarsi e, infine, spezzarsi violentemente sotto una forza invisibile che la stava distruggendo.
Dovevo farlo smettere.
Dovevo trovare la forza.
- TROVA LA FORZA.
Hariel.
Il mio corpo bruciava, si disintegrava pian piano, diventava cenere ogni secondo che passava.
Gridavo, ansimavo, chiedevo pietà, ma non succedeva nulla.
- Trova la forza.
Non era la voce di Hesediel, eppure sia io che lui non vedevamo nessun altro se non il corpo inerme dell’Angelo, fermo in un angolo. Cercai lo sguardo del ragazzo, ma non mi accontentò questa volta. Quel dolore, quella terribile emozione che mi stringeva il petto, era solo la nauseante punizione per aver scoperto la realtà su di me e sulla mia famiglia? Non riuscivo a non pensare ad altro se non a quello. Sentivo gli occhi pesanti, le palpebre premevano contro il mio sguardo, che si annebbiava sempre di più.
- Trova la forza, Hariel.
Questa volta ero certa che la voce fosse di Hesediel.
- Trovala per Gabriel.
Mi sforzai di tenere gli occhi aperti, mentre tentavo di mettermi in una angolazione che non mi conciliasse il sonno tra le sue braccia forti.
- Ti riporto a casa… Al sicuro.
Respirai profondamente mentre lui, con un calcio, sfondava la porta di metallo.
- Io non ho più una casa.
Il mio era un gemito leggero.
- Mi hanno mentito per tutta la vita, tutti.
Battei le palpebre, mentre il freddo mi schiaffeggiava le gote.
- Io non ti ho mentito.
Chiusi gli occhi, avevo così sonno…
- Ehi! Ehi!
Alzai lo sguardo verso di lui. La pelle pallida brillava sotto i tiepidi raggi dell’alba che filtravano tra i rami degli alberi. I suoi occhi celesti chiedevano, pretendevano, che io li guardassi, e così fu.
- Io non potrei MAI mentirti.
Annuii piano, un leggero sorriso mi si era disegnato, inaspettatamente, sulle labbra.
- Sei un Angelo?
Ormai quella domanda mi pareva d’obbligo.
- Ora gli Angeli sono… Cattivi. Ed io… Non so.
Mi lasciai sfuggire un secondo sorriso.
- Allora non sei un Angelo, tu sei buono.
Hesediel ricambiò il sorriso.
- E tu lo sei?
Respirai lentamente…
- Non lo so.
In un attimo mi ritrovai sulla pelle fredda e nera del sedile, le mani diafane del giovane che mi allacciavano la cintura di sicurezza. Quando si sedette al posto di guida, lasciai scivolare la mano di fianco alla sua, ed allora accadde, come in un lunghissimo flash: il ragazzo rincorreva la giovane dai lunghi capelli castani, la pelle di lei che brillava della luce rossastra del tramonto. Sulla sua schiena regnavano le grandi ali bianche e piumate. E poi il rosso invase ogni cosa: lo stesso ragazzo che un tempo rideva con la giovane, ora la spingeva contro il tronco robusto della grande quercia, una lama di fuoco che gli nasceva dalle mani mentre le strappava le candide ali macchiate dal colore scarlatto del sangue. E, in un temporale, il corpo dell’Angelo giaceva spento, nella pioggia, e la disperazione nelle grida dell’assassino che, con il suo amore, l’aveva uccisa. Quando la realtà si impossessò del mio corpo, mi voltai di scatto verso Hesediel.
- Se tu fossi un Angelo, saresti in pericolo.
Si voltò a fissarmi con intensità, come per chiedermi il perché di quell’affermazione.
- Perché tu sei bello e triste, e i tuoi occhi lo sanno: tutte le cose belle sono fatte per farsi male.
Sospirai piano.
- Anche tu.
Le immagini sarebbero rimaste impresse nella mia mente per sempre, non ne avevo dubbi.
Vedevo le piume delle grandi ali bianche cadere, appesantite dal sangue scarlatto e puro.
E le grida del ragazzo si erano incise nella mia memoria, come il modo in cui lui stesso aveva guardato l’Angelo prima di ucciderla: uno sguardo pieno di amore e rispetto.
Perché l’amore è salvezza.
Ma quando è un uomo a innamorarsi di un essere divino, tutto cambia.
E quell’amore che un tempo l’avrebbe salvato, adesso lo farà bruciare negl’Inferi….
Gabriel
Ero in ansia.
Lei non tornava, e mai mi ero sentito così male in vita mia.
Damabiah mi aveva lasciato parole di conforto, ma non gli avevo creduto.
E in quel momento di movimento, dove i passi e la gente riempivano la stanza, era la sua mano calda sulla mia spalla, l’unico conforto.
E poi il meccanismo della porta scattò, facendomi alzare lo sguardo. Hariel si reggeva la testa, entrando lentamente come un cerbiatto smarrito. A reggerla c’era un ragazzo dai corti capelli castani e dalla pelle diafana che guardava con gli occhi azzurri preoccupati mia sorella.
- Hariel!
Scattai in avanti, pronto a soccorrerla, e la afferrai per l’altro braccio. Il ragazzo mi guardò con gli occhi color del cielo, il viso contratto in un’espressione seria.
- Grazie.
Il mio fu solo un sussurro. Il ragazzo abbandonò il braccio di Hariel e lasciò che fossi io a salvarla, a farla tornare a sicuro tra le mie braccia. Quando la abbracciai, mia sorella lasciò ricadere la testa sulla mia spalla. Il ragazzo si avviò verso la porta.
- Hesediel?
Sentii il mio cuore spezzarsi in una miriade di frammenti quando sentii pronunciare il suo nome e non il mio. La lasciai libera dal mio abbraccio e la baciai sulla fronte, respirando piano il suo odore che, in quelle ore di assenza, mi era mancato da morire e che avevo temuto di non poter sentire più. Quando Hariel mi sorrise le diedi le spalle e lasciai che lei corresse verso il giovane.
- Grazie… Di tutto.
E lo abbracciò. Lui le sorrise ma la allontanò lentamente, abbassando lo sguardo.
- “Io non potrei mai mentirti”. Ricordi? Ho fatto solo ciò che ti avevo promesso e ora è tempo che io vada…
Quando si voltò per darle le spalle, Hariel gli afferrò la mano.
Hesediel si immobilizzò, eppure non disse niente, né fece niente. Rimase semplicemente immobile.
- Ti prego non andare.
Il ragazzo si voltò e la guardò negli occhi, respirando piano.
- Hariel…
E poi tutto accadde velocemente: Haheuiah scattò in avanti, afferrando Hesediel per le braccia e sbattendolo contro il muro; gli sferrò un pugno, poi un altro, mentre due angeli accorrevano per fermarlo.
- L’HAI UCCISO! BASTARDO!
Hariel, caduta a terra dopo che l’Angelo aveva afferrato Hesediel, li guardava con aria sconvolta.
Haheuiah mosse le dita e, sul palmo della sua mano, comparve una lama di fuoco dorato.
- NO!
Mia sorella corse verso di loro, dividendo i due.
Gridai il suo nome per poi bloccarla per un polso.
Io guardavo Hariel, lei l’Angelo e quest’ultimo Hesediel.
- Se lo uccidi dovrai uccidere anche me.
Ci fu un attimo di silenzio mentre la stanza si riempiva dei passi di altri Angeli, uomini e sopravvissuti. Hariel respirò piano mentre Haheuiah, con la spada spianata e pronta a colpire, abbassava la lama in un profondo sospiro.
- Vieni via, su…
Damabiah sfiorò la spalla dell’Angelo che, lentamente, indietreggiò.
Quando fu abbastanza lontano dalla nostra visuale, l’Angelo dagli occhi grigi fece segno a tutti di sedersi intorno al grande tavolo rotondo e di legno scuro, che occupava una gran parte della stanza. In silenzio, lo seguimmo, sedendoci, chi a terra e chi sul grande divano di pelle marrone.
La stanza sprizzava di elettricità. Ci guardavamo tutti intorno, eravamo a malapena una trentina di persone, uomini e donne, e anche un paio di bambini, forse fratello e sorella, e pochi adolescenti che non superavano i venti anni.
- Resistenza.
Una sola, semplice parola pronunciata a fior di labbra da Damabiah; piccola e dannatamente chiara, che ci fece voltare tutti, l’uno dopo l’altro.
- Esistiamo da secoli, si sa, ma abbiamo sempre agito in segreto contro chi credevate fossero i custodi del Bene e delle sorti che vi spettavano.
Gli occhi grigi dell’Angelo si posarono pian piano su ognuno di noi, in silenzio.
- Cadono i palazzi, il tempo impazzisce, le strade si distruggono, la gente muore e non ha un assassino.
Hariel cercò la mia mano ed io l’accontentai facendo incontrare le nostre dita in un tiepido abbraccio. La sentivo tremare contro il contatto della mia pelle, il suo respiro mi riempiva le orecchie ed, anche se la stanza era piena di gente, era tutto ciò che sentivo.
- Sono scaltri, veloci, forti e invisibili. Attaccano tutto ciò che trovano decisamente insignificante: una casa, un laboratorio, un imprenditore, un contadino, un uomo comune.
Si fermò un secondo per respirare, poi riprese il discorso:
- Pensavate di essere al sicuro nelle vostre case? Pensavate che avreste potuto dormire nei vostri comodi letti ancora per molto tempo, che avreste potuto divertirvi, vivere la vostra vita come se niente fosse? Beh, vi sbagliavate! Vi aveva indirettamente avvertito, ad ognuno di voi, ma non lo avete ascoltato, non gli avete dato retta. Lui è tornato, e questa volta nessuno potrà più salvarci.
 

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Capitolo 10
*** Cap.9. BISOGNI ***


                                                                               Capitolo 9 Bisogni (Di Engi-)
Mikael

Tutti sussultarono. Paia e paia di occhi si spalancarono per la sorpresa, qualcuno tossì rumorosamente, e il pianto di un bambino si propagò nel silenzio.
Ci fu un improvviso brusio nella stanza, poi l’Angelo che aveva parlato zittì tutti con un gesto della mano.
La ragazza bionda strinse con forza la mano del giovane che le stava a fianco, come se stessero condividendo le emozioni che provavano.
- Però, se collaboriamo, potremmo avere qualche speranza.
Continuò l’Angelo, guadagnandosi la completa attenzione delle persone.
- Ma hai appena detto che nessuno potrà salvarci!
Protestò un uomo bruno dalla folta barba.
L’Angelo sorrise e capii che si aspettava una domanda del genere.
- No…Nessuno oltre a noi.
Disse, accompagnando le sue parole con un ampio movimento di mani e braccia, che fece sì che tutti si sentissero partecipi di quel noi.
Guardai tutti i presenti, confuso. Come potevano essere d’aiuto a dei fragili Umani?
I miei occhi si fermarono su un viso pallido, incorniciato da lunghi capelli mori, e nel quale erano incastonate nere pietre d’onice. La ragazza si guardava intorno, intimorita. Un cerbiatto solo in mezzo agli alberi di un bosco.
Ricambiò il mio sguardo, e, subito, lo distolse e lo puntò a terra.
- … Vi addestreremo.
Finì di rispondere l’Angelo a un’altra domanda.
- Imparerete a difendervi. Vi verranno svelati i punti deboli degli Angeli e sarete sottoposti a dure prove di apprendimento ogni settimana.
S’intromise una donna dai lunghi boccoli rossi. Gli occhi ambrati sembravano le scintille della cascata di fuoco che scaturiva dal suo capo.
- Come dei test?
Domandò un’Umana, che cullava il figlio tra le braccia.
- Diciamo missioni.
Disse un altro Angelo. I vestiti mimetici gli fasciavano i muscoli sodi di braccia e gambe, e il suo viso, attraversato da due lunghe cicatrici ai lati, gli conferivano un’immagine da guerriero.
- Siete pazzi.
Un ragazzo si alzò dal divano che, alla sparizione del suo peso, riprese la sua forma.
- Tutti quanti.
- Pazzi dici?
La voce d’Angelo, quello che prima di tutti aveva parlato, si alterò e vibrò verso il giovane, che s’irrigidì. L’Angelo dai lunghi boccoli scarlatti gli mise una mano sulla spalla.
- Damabiah, calmati.
L’altro strinse i denti e il muscolo della sua mascella ebbe un guizzo. I suoi occhi metallici scintillavano, come se la loro dura superficie riflettesse una luce.
- Tu non puoi nemmeno immaginare quello che stiamo facendo per te… per voi!
- Damabiah…
- No! Melahel, se loro credono che siamo pazzi, come possiamo vincere? Se non hanno fiducia in noi, come possono averla in loro stessi?
Damabiah si voltò verso l’Angelo dai capelli rossi, poi tornò a guardare il ragazzo, e la sua furia sembrò scemare dal suo volto.
- In ogni caso, domattina comincerete l’addestramento insieme a Yelahiah.
Cambiò discorso Melahel, indicando l’Angelo dalle cicatrici.
- Nanael, invece, insegnerà agli Angeli a comunicare a distanza, tramite lo spirito.
Si guardò intorno.
- Domande?
Chiese, pronta a rispondere a qualunque quesito, ed a risolvere ogni dubbio e incomprensione.
Attese qualche istante, ma nessuno osò dire anche una sola parola.
- Allora se è tutto chiaro, fatevi trovare domani mattina alle sette nel giardino.
Gli Angeli che fino a quel momento avevano parlato, e i cui nomi erano stati rivelati, uscirono dalla stanza, in silenzio. Alcuni Umani, prendendo esempio, se ne andarono, altri restarono a discutere tra loro dell’intera faccenda.
Diversi sguardi erano fissi su di me. Mi osservavano, o, più precisamente, si domandavano il motivo per essere conciato in quel modo: il viso coperto da striature di sangue secco di non so quanti giorni e scurito qua e là da lividi violacei, e i capelli scompigliati e, anch’essi, secchi di sangue.
Solo due occhi celesti mi guardavano con stupore, e non con lo stesso disgusto di tutti gli altri.

Hesediel

Era vivo. Respirava, lo potevo constatare dal movimento del suo petto, che si abbassava e si alzava regolarmente. Non era frutto della mia immaginazione. Era davvero a pochi metri di distanza da me. Proprio come lo avevo trovato nel bosco: con viso e capelli intrisi di sangue, solo che adesso era sveglio, e i suoi occhi verdi restituivano il mio sguardo, confusi. Le iridi non erano altro che una sottile riga, che divideva il bianco della sclera dal nero delle pupille. Tentava di ricordare il mio nome, o addirittura il mio passato, ma non poteva riuscirci. Nessuno lo conosceva oltre me.
Mi avvicinai, deciso a parlargli, a chiedergli qualcosa, ma immediatamente ci ripensai. Che motivo aveva di rispondermi? Erano affari suoi, non miei.
Continuai a fissarlo, incapace di distogliere lo sguardo.
Sospesa nella stanza, comparve l’immagine di un corpo sospeso da catene, rivoltato a testa in giù. Il sangue scorreva come tanti piccoli ruscelli lungo la pelle sempre più pallida.
Tutto si dissolse nell’aria nell’esatto istante in cui la porta si chiuse dietro il ragazzo.

Mikael

Non dovevo fare altro che trovare un bagno provvisto di doccia. Non potevo continuare a respirare il tanfo del mio sangue.
Passai davanti a tutte le porte numerate, superai quella in acciaio, e continuai dritto.
Se all’assemblea non c’erano più di una trentina di persone, sicuramente la porta con sopra il numero quaranta non mi avrebbe condotto in una stanza già abitata.
Appena mi ci ritrovai davanti, senza nemmeno bussare, provai a girare la manopola dorata e, con uno scatto secco, la porta si aprì.
Un forte odore di chiuso mi stordì e la profonda oscurità mi provocò un vuoto al petto.
Entrai e, allungando una mano alla parete, le mie dita andarono a contatto con l’interruttore della luce, che illuminò la stanza.
Un letto occupava il centro della parete di destra, e, invece, in quella di sinistra si trovavano un’altra porta, identica a quella d’ingresso però priva di numero, e, al suo fianco, un alto armadio a due ante in legno scuro. L’unica finestra, posta davanti alla mia visuale, sulla parete parallela all’entrata, era chiusa e coperta esternamente da spesse persiane che impedivano alla luce del giorno di filtrare.
In poche e ampie falcate ci andai vicino e la aprii. Il sole mattutino entrò e si mescolò con la luce malaticcia del lampadario, tristemente appeso al soffitto.
Tornai all’interruttore e lo pigiai; la lampadina cessò di brillare.
Aprii la porta interna e ne svelai il bagno. Sorrisi e, soddisfatto, mi ci chiusi dentro.
Non m’importava che ci fossero o meno il lavandino o il gabinetto, nei miei occhi non vedevo altro che la doccia a muro.
Immediatamente accesi il getto d’acqua e, mentre attendevo che cominciasse a scorrere quella calda, mi levai i vestiti.
Quando mi lanciai all’interno delle sottili vetrate scorrevoli e il calore dell’acqua sciolse lo sporco appiccicato al mio corpo, mi sentii leggero, libero da qualcosa di opprimente.
Chiusi gli occhi e mi lasciai investire interamente dal getto bollente.
Il mio corpo fremette e la pelle su percorsa da brividi di piacere.
L’acqua mi attraversava la schiena, scendeva lungo le scapole e solleticava le cicatrici, come volesse prenderne il posto.
Il bisogno di pulizia fu presto rimpiazzato dal senso di fame, che mi divorò lo stomaco con voracità. Tutti i giorni in cui avevo patito la fame, si sommarono e si tramutarono in versi rabbiosi.
Uscii dalla doccia, mi rivestii e, senza nemmeno aspettare che si asciugassero i capelli, abbandonai la stanza. Vagai per i corridoi, alla ricerca di una dispensa o una cucina.
L’immagine di un frigorifero mi si formò nella mente, facendomi venire ancora più fame, tanto da desiderare che si materializzasse proprio nel mezzo della lunga aula, aperto e pieno, talmente pieno da esplodere.
Vidi tre ragazzi, fermi davanti alla porta n°24, che parlavano animatamente, e, senza domandarmi se li disturbassi o meno, mi avvicinai.
- Ciao.
Disse il ragazzo biondo, sorridendomi sia con le labbra che con gli occhi scuri.
- Dov’è la cucina?
Chiesi, senza ricambiare il saluto.
Senza che il sorriso abbandonasse il suo volto, il giovane guardò gli altri due, pensieroso, come se potessero trasmettergli la risposta mentalmente.
- Di là.
Fece il ragazzo castano chiaro con gli occhi marroni.
- Non era da quest’altra parte?
Domandò l’altro ragazzo castano, confuso.
Il biondo aggrottò le sopracciglia, poi, concordando con il castano con gli occhi chiari, disse:
- Anche io sapevo che si trovava da questa parte.
Li guardai tutti, poco convinto. Probabilmente avevo più possibilità di trovare la cucina senza il loro aiuto, ma basandomi solo ed esclusivamente sul mio istinto di sopravvivenza.
I tre cominciarono a discutere tra loro su dove si trovasse il luogo che cercavo, scordandosi completamente della mia presenza e del fatto che non avevo ancora ricevuto una risposta.
Sospirai e mi allontanai dal gruppetto, deciso a trovare aiuto altrove.
Ok, pensai tra me e me, posso sempre sfondare qualche porta.
Passai davanti a diversi ingressi di camere, facendo la conta per sorteggiarne alcune.
Se poi trovo qualcuno dentro, posso sempre chiedere scusa.
Mi fiondai contro la prescelta e, con una poderosa pedata, la buttai giù.
- Oh, Cristo!
Sbottò una voce femminile.
La stanza all’interno era totalmente buia, ambiente perfetto per dormire.
- Deduco che questa non sia la cucina.
Dissi, provando a vedere qualcosa attraverso le tenebre, ma, a parte il profilo del letto lievemente illuminato dalla luce fioca proveniente dal corridoio, non riuscii a distinguere nient’altro che potesse presentare fattezze umane o, perlomeno, simili.
- Lástima que no haya aprendido antes de romper la puerta de mi habitación!
Sbottò la voce, ancora impastata dal sonno.
- Come scusa?
Domandai, non afferrando completamente il senso di quelle parole veloci e mischiate l’una all’altra.
- ¿Eres estúpido o qué?
- Mi hai dato dello stupido?
Non ero abbastanza intelligente da capire tutto il significato della frase, ma lo ero per capire quello di “estùpido”.
Qualcosa si mosse nel buio e s’immerse nella luce opaca.
Riconobbi immediatamente la pelle chiarissima e i capelli mori della ragazza, e subito ricordai la luce che riempì i miei occhi, anche se per pochi istanti.
- ¿Y qué?
Fece lei, scocciata. La fissai, impietrito, ancora per qualche istante, poi un improvviso senso di fastidio mi sbloccò.
- Senti, o mi dici che sai dove si trova la cucina, o tolgo il disturbo.
- Muy bien… adiós.
E mi lanciò un’occhiata eloquente, che diceva: Esci e fingi che ti abbia sbattuto la porta in faccia.
Strinsi le labbra con ostinazione poi, però, uscii, senza dire nulla, solo con le braccia ben rigide lungo i fianchi.
- Ah, tu!
Mi richiamò la ragazza. Mi voltai e i miei occhi verdi si fusero con il nero dei suoi.
Un brivido mi percorse tutta la spina dorsale.
- Espero que aggiusterai la puerta…
Disse indicando la porta accasciata a terra, staccata dai cardini.
- Claro que sí..
Mi limitai a risponderle in spagnolo.
- Hasta la vista.
Conclusi, accompagnando le parole con il gesto dell’indice e il dito medio uniti e posati contro la fronte, a mo’ di saluto, poi mi allontanai.
Qualcosa mi sconsigliò di riprovare a sfondare una porta e, quindi, dopo poco cominciai a perdere sia la speranza che la voglia. Dopotutto la fame mi aveva già abbandonato da tempo, ovvero nell’esatto momento in cui i miei occhi si erano posati su quella ragazza.

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Capitolo 11
*** Cap. 10 Notte Insonne ***


Capitolo 10
Notte insonne (Di Miri)

Prima di cominciare volevo dirvi che questo è uno dei miei capitoli preferiti, e ci ho messo tutta l'anima per scriverlo :'D
Spero solo che vi piaccia, un bacione :3 (-Miri)


Hesediel
Quella notte non dormii; guardavo il soffitto pensando chi mi aveva condotto lì e, specialmente, il perché l’avesse fatto. Continuavo a respirare profondamente, guardando in alto alla ricerca di chissà cosa. Il letto era rigido e freddo, come se fosse rivestito interamente di metallo.
Mi alzai, sentendo le gambe tremolare leggermente.
Ma hai gli incubi Hesediel?, la voce di Lui mi trillò nelle orecchie.
Gemetti un no, coprendomi le orecchie e scuotendo violentemente il capo.
Ma io so che cosa ti darebbe pace, sai?, nonostante facessi di tutto pur di non ascoltarlo, la sua richiesta appariva allettante.
Pensi di potermi sconfiggere, non è vero?, il tono di voce di Lui aumentò spaventosamente scuotendomi dall’oscurità nella quale mi ero nascosto.
Qualcuno bussò alla porta, facendomi trasalire.
- Hesediel?
Il cuore mi esplose nel petto nel sentire quella voce. Aprii la porta e Hariel mi guardò con i suoi incantevoli occhi chiari.
- Hariel…
Il mio fu un sospiro, e non capii se fosse riferito a lei, come un tono di sorpresa, o a Lui, in risposta alla sua domanda retorica.
- Scusami… Stavi dormendo?
Le sue gote arrossirono leggermente, colorandole il viso di un rosa particolarmente tendente al rosso.
Scossi il capo in risposta.
- E tu? C’è qualcosa che non va?
Hariel aveva gli occhi carichi di sonno, e da ciò dedussi che neanche lei aveva dormito un granché.
- Posso rimanere qui con te? Io e Gabriel…
Si fermò per sospirare profondamente.
- Abbiamo litigato.
Annuii piano e la lasciai entrare nella stanza, chiudendo la porta dietro di lei.
Hariel si guardò intorno, alzando lo sguardo sulla complessa struttura di archi che costituiva il soffitto di legno chiaro.
- Come mai avete litigato?
La ragazza si fermò, e si sedette sul letto, respirando profondamente.
- Per lo stesso motivo per cui non sei nel tuo letto a dormire, presumo.
La guardai negli occhi, mentre la luce azzurrina della notte si posava su di lei.
- La Resistenza, il passato…
Sospirò e mi avvicinai.
- Il futuro.
Conclusi per lei che mi sorrise.
Subito dopo aver ricevuto un sorriso da parte mia, Hariel sbuffò, buttandosi pesantemente sul letto. Quest’ultimo si modificò sotto il suo esile peso, come se fosse fatto interamente di piume morbide e candide. Hariel si richiuse in un angolino del letto e, piegando le gambe contro il petto, chiuse lentamente gli occhi.
Mi avvicinai, stendendomi piano davanti a lei, e la guardai per un minuto buono.
Quando aprii gli occhi mi trovai dannatamente vicino al suo viso, tanto da sentire il suo respiro sbattere contro le mie labbra, e le sue ciglia battere come le forti ali di un uccello in volo.
- Non mi ero mai accorta di quanto i tuoi occhi fossero blu.
La sua voce si diffuse nell’aria nell’attimo stesso in cui sorrise. Non battei ciglio, continuai a fissarla serio, in tutta la sua bellezza.
- Anche i tuoi sono molto… Blu.
Hariel rise piano e abbassò lo sguardo sulle nostre mani, divise da una dolorosa distanza, anche se di pochissimi centimetri. Era un atroce tormento guardare le sue dita diafane ferme, lontane dalle mie. Respirai piano e chiusi gli occhi.
- Penso che i tuoi siano gli occhi più belli che io abbia mai visto.
Non ebbi tempo per alzare lo sguardo, Hariel già mi guardava, trafiggendomi l’anima. Dopo un profondo respiro allungò le mani verso le mie, avvolgendole con le dita gelide.
- Mi manca casa mia, voglio tornare a casa. È per questo che io e Gabriel litigavamo prima, in camera. Lui pensa che non sia sicuro.
La guardai, senza interromperla. Non potevo dirle che cosa fare a riguardo, o come mi sentivo nel pensare alla mia famiglia. Io l’avevo persa da molto, e non avevo più speranze di rivederli.
- Ma loro? Perché non ha pensato a loro?
I suoi occhi si lucidarono di lacrime, così gli strinse.
- Io so che non sono morti, loro… Loro non possono esserlo.
Si perse in un lieve sorriso imbarazzato.
- Io lo sentirei, lo so.
Lasciò libera una mano e se la portò al petto, indicando il cuore con il palmo della mano.
La fissai.
Avrei potuto guardarla per ore, per giorni, per anni e per sempre, senza mai stancarmi.
Sarei potuto essere una piccola parte della sua vita, magari, mi sarei tenuto stretto alla piccolissima fossetta che le si disegnava sulla guancia ogni qual volta le sue labbra si incurvavano in un sorriso.
- Perché volevi andare via, dopo avermi riportata indietro?
I suoi immensi occhi azzurri ricambiarono il mio sguardo, facendomi quasi perdere la ragione.
Mi misi a pancia in su, sospirando piano.
- Quando hai una ragione per cui vivere, è facile lottare, perché faresti di tutto pur di difenderla…
La sentii respirare piano, osservando ogni mio movimento con i suoi occhi pieni d’immensa e azzurra tristezza.
- Ma io non ho nessuna ragione per combattere, Hariel. Ma ho una ragione ben valida per scappare, e nascondermi.
In quel momento mi sentii un vero egoista.
La Resistenza, da quanto avevo capito, era contro ogni singola legge che un tempo ci sarebbe parsa giusta, era contro gli Angeli, era contro Dio, ma era con l’umanità che aveva condannato ogni singolo essere respirante del nostro Pianeta.
E io vi sfuggivo, come un bambino che si inventava una falsa malattia per sfuggire alla scuola.
Ero un falso, un’egoista.
Ma ero anche umano, ed era questa la mia più grande condanna, eppure la mia più grande rovina.
- E qual è?
Sentivo i suoi occhi addosso, l’azzurro cielo era diventato un blu scuro, profondo come l’oceano più lontano. E mi trascinavano al loro interno, nell’oscurità.
Ma io ero stanco di nascondermi nell’ombra.
Mi girai verso di lei, mettendomi su un fianco, sentendo il suo respiro dolce sbattere contro il volto.
- Io non ho vissuto affatto, Hariel.
Lei non smise di fissarmi, né cambiò espressione. Allungò, lentamente, la sua mano alla mia, stringendo piano le mie dita alle sue, come un lunghissimo abbraccio.
Chiuse gli occhi e respirò, schiudendo piano le labbra.
Rimasi a fissarla, senza far rumore, senza parlare affatto.
Non pensai neanche, la mia mente era bianca, come le pareti di quella stanza che mi comprimevano in un’unica grande emozione alla quale, però, non sapevo dare un nome, e che non riuscivo a spiegare nemmeno a me stesso.
Era un calore profondo, infondo al petto, che bruciava e consumava tutt’intorno, senza far male.
Se fosse stato un colore, sarebbe stato il rosso: come il colore delle sue guance quando era imbarazzata, come il sangue che personalmente le avevo cancellato dalla fronte dopo “l’incidente”, e lo stesso sangue che avrei versato solo per salvarla da tutti i dolori della vita.
Non sapevo cosa fosse, ma mi distruggeva, ogni secondo, ogni attimo che passava.
Invadeva il mio corpo, come una violenta malattia che, però, mi teneva sveglio e cosciente di ogni mia azione.
Continuai a guardarla, poi mi feci coraggio e mi abbassai verso il suo corpo addormentato e tremante, alzando piano la coperta. Le baciai la tempia, poi respirai.
- Ti porterò da loro, Hariel.
Lei sorrise nel sonno e la fossetta sulla guancia torno a impossessarsi del suo viso dipinto di una luce ferma, calma e stanca.
Rosso.
Perché ti consuma, perché brucia come un grande fuoco, e può far male.
Perché l’amore è rosso.

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Capitolo 12
*** Cap. 11 E basta ***


Capitolo 11
..e basta.. (di ENGI)
Mikael

Sentivo la stanchezza, la sentivo ovunque. Mi pesava sulle palpebre, su ogni muscolo. Eppure non riuscivo a prendere sonno. I raggi pallidi della luna, che entravano dalla finestra, accarezzavano il mio volto, con il loro tocco freddo e distante.
Qualcosa mi agitava, ma non riuscivo a capire cosa di preciso. Mi sentivo come un bambino che, quando gira più e più volte su sé stesso e poi si ferma di colpo, vede il mondo che continua a vorticare attorno a lui.
Guardai il soffitto e sentii l’aria mancarmi, come se l’ossigeno contenuto nella stanza fosse improvvisamente finito.
Troppo vicino, pensai, continuando a fissare l’intonaco bianco della parete.
Mi alzai dal materasso e la di forza di gravità si fece schiacciante contro le mie spalle. Guardai nuovamente in alto.
E’ come il cielo, mi dissi.
E subito quell’idea mi rese irrequieto, mi pesò nella mente.
Non potevo sopportarlo. Non potevo stare così poco distante dal soffitto. Non con una certa immagine nella testa. Anche se sapevo che essa non era reale, perché il cielo non poteva essermi tanto vicino, non più.
E, anche sapendo che quello non era davvero il cielo, ma solo un’insulsa parete, non lo trovavo comunque giusto. Ero sbagliato. Ero l’errore. Non lo meritavo.
Disfai il letto, buttando a terra cuscino, coperta e materasso. Ciò che restava, ovvero la rete in ferro e la struttura dello stesso materiale, lo spostai in fondo, nell’angolo affianco alla finestra.
Sistemai il materasso sul pavimento e, prendendo solo il cuscino e lasciando la coperta abbandonata lì dove l’avevo tirata, mi stesi.
Ora mi sentivo più legato alla terra e più simile a chi era costretto a viverci per tutta la propria esistenza, invece di rivivere ogni singolo momento nel ricordo del mio passato con nostalgia e agonia.
I miei occhi percorrevano il soffitto, in cerca di punti luminosi, ma trovai solo un ragno che, paziente e silenzioso, attendeva, sulla sua ragnatela, che qualche sfortunato insetto s’impigliasse tra i letali fili invisibili, scossi dal leggero venticello che entrava dalla finestra aperta.
Continuai a osservare quel ragno solitario, affascinato dalla sua calma, anche se forse solo apparente.
Era un piccolo buco nero nel cielo bianco della stanza, che non brillava e non faceva nulla per cambiare le cose, aspettava, aspettava e basta.
Il nero del mio sogno scomparve improvvisamente e realizzai che qualcuno mi stava scuotendo per svegliarmi.
Mugugnai qualcosa e cercai la coperta per coprirmi fin sopra la testa, convinto che così chiunque mi stesse disturbando sarebbe sparito, come una bolla di sapone quando esplode, ma le mie dita non tastarono nient’altro che i miei indumenti.
- No, davvero, non costringermi a passare alle maniere forti.
La voce bassa mi stuzzicava la memoria, proiettando l’immagine confusa di un viso.
Aprii un occhio. La stanza era parzialmente illuminata da una luce grigia, fredda e chiara.
- Ma che ore sono?
Brontolai, massaggiandomi la palpebra dell’altro occhio con la mano.
- L’ora che ti alzi.
Guardai il viso magro di Caliel, chino su di me.
- Decido da me quando alzarmi, grazie.
Chiusi gli occhi e aspettai di sentire la porta che si chiudeva dietro Caliel e subito dopo i suoi passi che si allontanavano, ma ciò non accadde. Lui sbuffò, scocciato.
- Ti concedo cinque secondi per alzarti.
- Anch’io, perché tu esca dalla mia stanza.
Lui rise sommessamente, una risata che proveniva direttamente dalla sua gola.
- La tua stanza?
Aprii nuovamente un occhio e alzai il capo.
- Esattamente.
Lasciai ricadere mollemente la testa sul cuscino.
- Ah, mentre esci, porta fuori quella ferraglia che vedi lì nell’angolo.
Dissi agitando una mano in quella direzione. Per alcuni attimi il silenzio regnò nella stanza, poi, con un basso ringhio, Caliel afferrò le mie caviglie e mi trascinò giù dal materasso.
- Ehi, ma che…?
- Se non ti muovi tu, ti farò sbrigare io.
Riuscì a tirarmi fino all’entrata; neanche agitandomi come un ossesso riuscii a liberarmi dalla sua presa ben salda. Mi aggrappai agli stipiti della porta e, cercando di resistere facendo forza sulle mie braccia, gli lanciai una sfilza d’insulti, tutti uno dietro l’altro.
- Non puoi obbligarmi!
Mi lagnai, le braccia leggermente indolenzite.
- Oh, lo sto già facendo.
- Che fine ha fatto il libero arbitrio?
Domandai a denti stretti. Le mie dita scivolarono sulla superficie liscia del legno e mi ritrovai a strisciare lungo il pavimento del corridoio.
- Va bene! Va bene, mi alzo!
Lui però continuò a tirarmi, deciso a fingere di non sentirmi.
- Lasciami, dannazione!
Scalciai e riuscii a liberarmi una caviglia e, l’istante dopo, anche l’altra cadde a terra.
- Ho detto che mi alzo!
Dissi facendolo. Mi pulii gli abiti dalla polvere.
- Sbrigati.
Sbottò Caliel, fulminando i miei movimenti, eccessivamente lenti, con gli occhi.
- Se non mi avessi trascinato a terra per tutto il corridoio…
- Potrei rifarlo. Se non ti muovi.
- Mi stai minacciando?
Mi guardò malissimo, tanto che rabbrividii.
- Dove devi portarmi?
Domandai allora, ritornando quasi serio.
- Alla mensa, dove ci sono tutti gli altri.
Rispose lui, cominciando a incamminarsi.
Sulle mie labbra sbocciò un gran sorriso, che m’illuminò l’intero viso.
Quando arrivammo, la mensa era già completamente sgombra. Sui tavoli erano rimasti i piatti usati e le sedie erano fuori posto, come se tutti fossero fuggiti e, nella foga della corsa, non avessero avuto il tempo di sistemarle per bene.
Guardai Caliel, aspettando che dicesse qualcosa al riguardo, che m’illuminasse.
- Sapevo che non avremmo fatto in tempo.
Disse quasi fra sé, tanto la voce era bassa.
Lo seguii fuori, fino al giardino, con lo stomaco vuoto, che non aveva nemmeno più la forza di brontolare.
Erano tutti lì. Ascoltavano Yelahiah parlare con la sua potente voce e spiegare l’esercizio.
Avvicinandoci, Caliel gli fece un cenno di saluto, seguito da un altro rivolto verso di me, come a indicarmi. Yelahiah annuì e continuò a parlare.
- Cominciate a correre.
E gli Umani cominciarono a correre, contro voglia.
Yelahiah fece cenno a un ragazzo biondo di avvicinarsi.
Un Angelo… Anzi, non un semplice Angelo, ma qualcosa di più. L’aria intorno a lui sembrava vibrare e incresparsi, come mossa da una forza superiore.
- Come mai avete tardato così tanto?
Domandò Yelahiah, come gli fummo a pochi passi da lui. Gli occhi dorati del giovane erano puntati su di me, con fare indagatore.
Caliel mi lanciò un’occhiata, poi si rivoltò verso l’altro.
- Fattelo spiegare da lui.
Inarcai un sopracciglio e strinsi le labbra.
Ora anche gli occhi dell’altro Angelo erano su di me.
- Io non devo proprio nessuna spiegazione a nessuno.
Sbottai acidamente, irritato.
Yelahiah rise, reggendosi lo stomaco con la mano.
- Che caratterino!
Esclamò.
- Ma sbaglio, o ne mancano tre?
Domandò Caliel, svelto a cambiare argomento, anche lui irritato.
Il ragazzo si guardò intorno, accorgendosi solo in quel momento della mancanza di qualcuno, la stessa cosa fece Yelahiah, posando i suoi occhi scuri sulla marmaglia di Umani che correvano, o almeno ci provavano, c’era già chi si era fermato e chi correva alla stessa velocità che avrei tenuto io camminando.
- La morettina era qui fino a poco fa, ma gli altri due non li ho visti per niente, pensavo te ne saresti occupato tu.
Disse Yelahiah.
Caliel ci pensò un attimo, poi, facendo spallucce, rispose:
- Vorrà dire che si arrangeranno, io non ho abbastanza pazienza per andarli a cercare per le stanze.
E, detto questo, si allontanò e chiamò su di sé l’attenzione degli Umani.
Yelahiah lo guardò un attimo, poi, dicendoci di seguirlo, ci portò nel giardino dalla parte opposta del convento.
Il ragazzo aveva lo sguardo tristemente perso tra i suoi pensieri.
- Vi conoscete già?
Ci domandò l’Angelo, tanto per sciogliere il ghiaccio.
- No.
Disse il biondo, riemergendo dal suo mondo.
I miei occhi vagarono tra il verde dell’erba e degli alberi, fino a fermarsi su una figura esile e slanciata.
La ragazza batteva le mani con forza contro l’aria, come se una parete invisibile e dura le impedisse di passare oltre. A ogni colpo i suoi capelli ondeggiavano contro la sua schiena, come morbide frustate scure. Tirò un ultimo calcio e cominciò a sputare insulti e maledizioni in spagnolo.
Yelahiah seguì la direzione del mio sguardo e sorrise.
- Eccoti!
La ragazza si voltò, aveva la stessa espressione che potrebbe avere un ragazzino scoperto a rubare dei soldi dalla borsa della propria madre.
- Ti cercavamo per cominciare l’addestramento.
Continuò Yelahiah, guardandola.
- ¿En serio? Ni lo sueñes!
Gli occhi di carbone della ragazza passarono dal viso di Yelahiah a quello del ragazzo, e poi al mio, soffermandosi per qualche istante di troppo
- Pero tú eres el imbécil que rompió la puerta de mi habitación!
- Imbecille a chi?
Ringhiai, il sangue che fluiva velocemente alla testa.
- Para usted.
Ribatté lei, senza perdere un colpo, senza tentennare per un secondo.
- Mi fa piacere che tu abbia già fatto amicizia con lei…
S’intromise Yelahiah.
- Amicizia? Non scherziamo neanche.
La ragazza mi lanciò un’occhiataccia, ma, invece di rispondermi per le rime, rimase zitta.

Lia

Non mi sembrava il caso di rispondergli, non volevo umiliarlo. E poi non avevo neanche voglia di sprecare fiato per quell’idiota. Preferivo starmene muta, invece che fare il suo gioco, e rischiare così di sembrare più matura.
L’Angelo vestito da militare sorrise, guardando prima il ragazzo dagli occhi verdi, poi me.
- Beh, prima di cominciare, direi che bisogna fare le presentazioni.
Poi gli occhi scuri di Yelahiah si posarono sull’altro giovane, rimasto zitto per tutto il tempo.
- Io sono Gabriel.
Fece, la sua voce calda e vellutata che ricordava l’armonia di un concerto di strumenti perfettamente accordati.
Gli occhi d’oro di Gabriel s’inserirono nei miei, come falene attirate dalla fiammella di una candela.
Deglutii e distolsi per prima lo sguardo.
- Il piacere è tutto tuo, Gabriel.
Il tono del giovane dagli occhi verdi era antipatico e leggermente annoiato.
- Allora, quando cominciamo?
Domandò poi, guardandosi le unghie, con fare di superiorità. Un improvviso senso di fastidio mi prese la bocca dello stomaco. Non sopportavo chi si comportava a quel modo.
- Il tuo nome?
Chiese Gabriel, giustamente. Dopotutto lui il proprio nome l’aveva rivelato.
- Mikael.
Rispose l’altro, gli occhi assottigliati come piccole schegge di un prato.
Yelahiah mi guardò, aspettando che diedi voce al mio, di nome, ma non proferii alcuna parola, nessun suono che potesse anche solo assomigliarci vagamente.
Non volevo né dire loro il mio nome, né partecipare all’addestramento, per il semplice fatto che non mi sentivo in obbligo a fare nulla di tutto ciò.
Yelahiah riprese a parlare con i due, spiegando esercizi e tecniche, e, proprio nell’attimo in cui l’attenzione dell’Angelo si concentrò su Gabriel, notai qualcosa di strano: Mikael si portò una mano alla testa con un’espressione sconvolta, che rese il suo viso ancora più pallido.
In quel brevissimo lasso di tempo temetti che sarebbe caduto a terra stremato ma, al contrario, si riprese immediatamente, come fosse stato tutto frutto della mia immaginazione.
Yelahiah diede il via all’addestramento e i due ragazzi, esattamente come era toccato agli Umani, cominciarono a correre, solo ad un ritmo molto più sostenuto.
La loro velocità era strabiliante, più di qualunque corridore, più del vento e della luce.
Un normale occhio non sarebbe stato capace di vederli, sarebbero stati scambiati per forti folate di vento.
In un primo momento Gabriel fu in testa, enormemente distante da Mikael, che, dopo poco, lo superò di parecchio, senza alcuna difficoltà. Guardandolo riuscivo a immaginarmi quanto dovesse essere agile e aggraziato, anche in situazioni ben diverse da quella.
Quando il loro esercizio di riscaldamento fu terminato, si fermarono. Gabriel leggermente affaticato e Mikael sempre più pallido, come se il colore del suo viso fosse quello di un acquerello che viene diluito con l’acqua. Anche i suoi occhi verdi perdevano di brillantezza, scurendosi sempre più, con le pupille che affogavano il colore con il loro nero uniforme.
Lo osservai attentamente, mentre si metteva di fronte a Gabriel, in posizione di battaglia. C’era un qualcosa di fiacco in lui e non ero di certo l’unica ad averlo notato, ma Yelahiah non disse una parola al riguardo, lasciò che cominciassero a battersi, studiando ogni loro movimento e strategia, per evitare così di insegnare cose che già sapevano.
Mikael riuscì a proteggersi dagli attacchi incalzanti dell’altro, che aumentava di forza a ogni colpo, rispondendo anche con lo stesso impeto, se non più forte.
Yelahiah sorrideva e annuiva, tutto soddisfatto da ciò che vedeva.
Mikael si bloccò, improvvisamente, e Gabriel riuscì a colpirlo. Non fu un colpo molto forte e, difatti, l’altro non cadde a terra a causa di esso.
Riuscii a vedere i suoi occhi girarsi, diventare completamente bianchi, e il suo corpo andare in collisione con il terreno.
Yelahiah imprecò e scattò verso Mikael, seguito a ruota da me e Gabriel, che pallido come un cerone sembrava sul punto di vomitare.
Ci chinammo su Mikael, che dopo pochi istanti riprese conoscenza.
Di primo impatto non sembrò riconoscerci, ma come riuscì a mettere ben a fuoco ciò che realmente lo circondava cercò di sollevarsi.
- Cavolo…
Borbottò, tentando di darsi la spinta al terreno con le mani, ma i suoi tentativi andarono sprecati.
- Stai giù, non affaticarti.
Fece Yelahiah, facendogli pressione sul petto, in modo che rimanesse steso.
- Lasciami, sto bene!
Si oppose lui.
Yelahiah provò a trattenerlo, ma fu tutto inutile. Mikael riuscì a liberarsi delle premure dell’Angelo e a rialzarsi velocemente, come se nulla fosse, come se fosse solo inciampato.
Mi ricordò un gatto selvatico che, anche se ferito, non riusciva ad accettare l’aiuto di nessuno.
- Sei debole.
Disse Yelahiah, guardando seriamente il ragazzo, che invece faceva di tutto per non incontrare lo sguardo di nessuno di noi. Cosa lo spaventava?
- Non sono debole.
La voce piatta di Mikael mi fece rabbrividire.
- Sai cosa intendo.
Disse Yelahiah con un sorrisetto per niente divertito.
- Hai bisogno di…
- Io non ho bisogno di niente!
Ringhiò il ragazzo, voltandosi verso l’uomo. Aveva gli occhi di un verde così scuro da sembrare grigi.
Yelahiah non ribatté, lo guardò e, ancora, Mikael schivò i suoi occhi.
Perché non accetta il suo aiuto?, mi domandai, Cosa gli impedisce di farsi aiutare?
Prima che chiunque altro potesse aggiungere qualcosa, si allontanò. Fuggì dalle nostre parole, dai nostri sguardi preoccupati. Non si voltò nemmeno una volta. Se ne andò e basta. Forse era quello che meglio gli riusciva. Forse preferiva passare per codardo. Perché questo fanno i codardi, scappano dai problemi, dalle difficoltà… scappano e basta.

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Capitolo 13
*** Cap.12: Protettore ***


Capitolo 12
Protettore (SCRITTO DA MIRI)
Egli darà l’ordine ai Suoi Angeli di costudirti in tutti i tuoi passi.
(Salmo 90,11)
Hariel
“Ero distesa sul sottile letto di un fiume, il sole che mi baciava il viso, la corrente che mi trascinava dolcemente con sé. Il vento non esisteva, come la pioggia, il mal tempo o le cattive notizie; non esistevano gli Angeli, né la Resistenza, né un’entità malvagia che ci voleva tutti morti, solo io in quel Paradiso. Rimanevo a occhi chiusi a galleggiare, terrorizzata all’idea che tutto sarebbe scomparso una volta aperti.
- Hariel, ehi!
Una voce dolce mi cullava tranquillamente, lontana come un sogno ormai quasi del tutto dimenticato.
- Ehi, devi svegliarti.
Il tono di voce aumentò, facendomi stringere forte gli occhi, come se stesse gridando direttamente nella mia testa. Un gesto brusco accompagnò le manie mani, chiuse in pugno, contro le orecchie.
Mi sentii sprofondare, mentre le gelide braccia del fiume mi stringevano in un doloroso abbraccio.
Aprii gli occhi e gemetti, sentendo l’acqua che mi entrava nella bocca e che mi bruciava le sclere.
Improvvisamente un nuovo sapore mi invase la bocca, mentre tentavo di sfuggire alle braccia del fiume, facendo grosse bracciate: sapore di sale, di metallo, e di rosso.
Rosso come una rosa, rosso come la passione e come il peccato, rosso come il sangue e la sua vittima: Io.”
Mi sveglia di soprassalto, il mio corpo tremante fermato dalla sottile cinta elastica e grigia di una macchina.
- Dove… Dove sono?
Feci scivolare il dorso della mano contro gli occhi, tentando di rendere nitide le figure intorno a me. Mi voltai lentamente verso il posto di guida, occupato dal ragazzo dagli occhi blu, che si era voltato un attimo per guardarmi negli occhi.
- Hesediel…
Pronunciai quel nome come una condanna a morte certa.
- Mi dispiace di averti svegliato ma il mio senso dell’orientamento è come dire… scarso.
Con uno scatto mi guardai intorno nella piccola macchina a due posti, sfiorata candidamente dai raggi del sole.
- Dove hai preso questa macchina?!?
Hesediel sorrise. Il traffico prese a camminare, e noi con esso.
- A mali estremi, estremi rimedi.
Bisbigliò mentre apriva il finestrino di fianco a lui.
- Che cosa vuol dire? Dove mi stai portando?
Mi ressi al sedile nero e lo guardai.
- A casa tua.
Il sole gli baciava la pelle pallida, lo sfiorava come un’imponente statua greca.
- Perché?
Quando la strada si spogliò di pedoni e macchine varie, Hesediel accelerò, senza mai staccare lo sguardo dall’asfalto.
- Tu lo fai andare via.
La sua voce vibrò contro il vento.
- Chi?
Hesediel gemette, imboccando una strada a destra, sotto il consiglio del navigatore satellitare, poi sussurrò:
- La parte cattiva di me.

Gabriel

- Hariel?
Al mio richiamo seguì il silenzio, straziante e pesante come un macigno. Afferrai la maniglia dorata, per notare poi che la porta era già aperta. Entrai nel buio e mi sentii soffocare dalla sua assenza. Un rumore di pesanti passi mi fece voltare, trasalendo. Appena mi abituai all’oscurità, riuscii a scorgere una figura nel buio. Con uno scatto rapido riuscii ad afferrarlo, facendolo sbattere contro la parete.
- Dov’è lei?!?
Il mio ringhio risuonò nella stanza con furia. E poi una luce perforò il buio, una lama di fuoco e di stelle luminose, che mi colpì dritto nel fianco destro. Gridai, gemetti, mentre la figura indietreggiava, sempre più lentamente, senza però finire l’opera. Allungai la mano alle mie spalle, sulla maniglia della finestra che dava al campo di addestramento dove Caliel dava ordini ai suoi neo-soldati. Lo chiamai ad alta voce, poi aggiunsi, gemendo:
- C’è una spia! Una talpa è nell’edificio!
Gridai, straziato per lo sforzo, e mi guardai il fianco insanguinato, sperando vivamente di aver gridato abbastanza forte, di essermi fatto sentire. E poi passi, rumorosi quanto numerosi.
- Hariel…
Ma non era lei. Caliel entrò, seguito da una schiera di Angeli, agitati, che si guardavano intorno.
- L’hanno portata via.
La vista si appannò, forse per la stanchezza, forse per le lacrime. Ma non mi ascoltava nessuno, continuavano a gridare e a chiamare una certa Aladiah. Alzai lo sguardo e lì vidi Mikael, l’Angelo biondo, che guardava serio fuori dalla finestra, che osservava forse la fuga della talpa. La sua ostinazione, la sua grinta, il suo sorriso di sfida, tutto ciò mi invase di colpo, e mi bloccò per un attimo il respiro, nell’esasperante richiesta che stavo per fare:
- Trova mia sorella.
Lui si voltò, per poi squadrarmi con i magnetici occhi verdi. Mi strappai un ciondolo dal collo, lo stesso ciondolo che mia sorella mi regalò proprio prima della tragedia non ancora del tutto compiuta. Afferrai la sua mano, tremante, e gliela chiusi tra le dita.
- Ti prego.

Hesediel

Uno strano rumore riempì l’auto, di colpo, come se fosse guastata, o come se si fosse rotto un vetro, fragorosamente. E poi la macchina saltò di qualche centimetro.
Solo una fossa, quanto ero stato stupido!
E poi ancora.
- Non sapevo che ci fossero molte buche in questa zona.
Mi voltai per sorriderle, ma gli occhi di Hariel si spalancarono di colpo, terrorizzati come quelli di un cerbiatto colpito dai fanali troppo forti di un’auto.
- Fermati!
- Che cosa?
Hariel si allungò voracemente verso il volante, gridando:
- HESEDIEL FERMATI!
Fermai bruscamente l’auto giusto al centro della strada deserta; non feci nemmeno in tempo a guardarla negli occhi che Hariel, rapida come il vento, scattò fuori dall’auto, correndo verso la porta dell’abitazione. Mi fermai in mezzo alla strada, una strana sensazione che riecheggiava nel petto, che rimbombava delle mie paure, e dei miei battiti troppo rapidi.
- MAMMA!
Il silenzio che lo seguì mi spezzò il cuore.
- PAPA’! APRITE!
Ancora silenzio.
- Hariel…
E poi la strada tremò sotto i nostri piedi, frantumandosi ad ogni passo. Un forte rumore di clacson riempì l’aria, e poi lo schianto; la macchina che avevo rubato, ed un’altra uscita da chissà dove, si scontrarono con estrema forza, tanto che una di loro iniziò a rotolare in nostra direzione con rapidità.
- HARIEL!
Mi lanciai su di lei, buttandola a terra e stringendola a me, per proteggerla.
Un secondo, solo uno e tutto sarebbe finito.
Niente più battaglia.
Niente più Resistenza, o Angeli, o Bene e Male.
Niente più Hariel, niente più Luce contro la mia Oscurità.
Più niente.
E poi la terra smise di tremare, il Mondo smise di distruggersi. Sentivo il silenzio, leggermente spezzato da un leggero verso di concentrazione.
Aprii lentamente gli occhi; la macchina era vicinissima a noi, sospesa tra terra e aria.
Respirai, gli occhi spalancati, le mie braccia che coprivano ancora il corpo tremante di Hariel.
Mi voltai di scatto, dove il verso di concentrazione si faceva più profondo.
Con le braccia allungate avanti a sé, le mani aperte e sudate, il ragazzo si voltò verso di noi.
Con estrema fatica l’Angelo biondo mi strizzò l’occhio.
E poi sorrise…

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Capitolo 14
*** Cap.13: Il dolore è come un fantasma ***


Capitolo 13
(SCRITTO DA ENGI) Il dolore è come un fantasma
Mikael

Li stava per travolgere. Non avevo tempo per pensare. Potevo solo agire.
D’istinto mi buttai davanti ai due e stesi le braccia in avanti. Non ebbi timore che l’auto m’investisse. Ero sicuro, ero certo che si sarebbe bloccata, che non sarebbe riuscita nemmeno ad arrivare ai palmi delle mie mani. E proprio questo accadde: l’auto si fermò di colpo e la parte posteriore si sollevò, rimanendo per qualche istante sollevata, per poi ricadere rovinosamente sull’asfalto. I vetri dei finestrini esplosero insieme a quelli del parabrezza, creando una pioggia di schegge che, come la macchina, non riuscirono a sfiorare le mie mani.
Mi voltai, le goccioline di sudore che mi imperlavano la fronte.
Sorrisi al ragazzo, che mi guardava con gli occhi blu sbarrati.
Tornai con lo sguardo all’auto, per capire se chi stesse guidando non fosse ferito gravemente, ma era vuota.
Chi stava guidando?, mi domandai, come se potessi seriamente rispondere.
Osservai la macchina, che poco prima stava sfrecciando contro di noi, e poi le mie mani ancora tremanti per l’adrenalina.
- Stai bene?
Domandò il giovane alla ragazza, mentre la aiutava a rialzarsi da terra. Lei annuì, gli occhi di ghiaccio puntati su di me, domandandosi chi fossi e cosa ci facessi lì.
Poi il suo sguardo si fece assente per un attimo, come se stesse ricordando improvvisamente qualcosa.
- I miei genitori!
E tornò a picchiare con forza la porta dell’abitazione. Gridò i loro nomi, con la voce affogata dalle lacrime, che dopo poco presero a scorrerle lungo il viso, rigandole le guance con i loro segni invisibili.
- Aprite! Vi prego…
Le parole le si strozzarono in gola. Poggiò la fronte alla superficie della porta e continuò a piangere, disperata.
Il ragazzo allungò le mani verso di lei, per rassicurarla, per farle sentire che lui era lì, che ci sarebbe sempre stato, ma ci ripensò e le lasciò ricadere rigidamente lungo i fianchi.
- Spostati.
Le dissi, avvicinandomi anch’io alla porta. I suoi occhi chiari e bagnati mi guardarono, spaventati e confusi, mentre, con un ringhio, sferravo una forte spallata alla porta che non si mosse.
- Cosa fai?
Mi chiese con voce bagnata.
- Penso sia abbastanza evidente…
Risposi cercando con gli occhi un altro possibile ingresso. Intanto il ragazzo aveva preso il mio posto e tentava di sfondare la porta, ma senza successo.
Raggiunsi l’auto e ne staccai uno dei fanali anteriori e tornai indietro.
Senza dire una parola lanciai il fanale contro la finestra, che si affacciava sulla strada, e questa si ruppe. Ancora una volta l’eco di vetri infranti si propagò nell’aria.
La ragazza subito scattò verso l’ingresso, rapida. Fu subito seguita dall’altro, come un’ombra.
Entrai anch’io, schivando facilmente i resti della vetrata ancora attaccati.
Ci ritrovammo in una cucina. Il tavolo era rotto a metà e abbandonato a terra, i piatti frantumati nel lavello pieno d’acqua, come se chi li stesse lavando si fosse a un certo punto stancato e li avesse rotti tutti, le sedie fatte a pezzi e accatastate vicino al muro, e il frigorifero aperto con i vivere tutti riversi a terra.
Hariel scappò a quella visione e corse via, diretta a un’altra stanza ancora.
- Mamma!
Chiamò.
Si guardò intorno, ma non c’era nient’altro che mobili distrutti e muri segnati da strani disegni rossi. Soffocò un singhiozzo e salì lungo le scale che portavano al piano superiore.
Mi guardai intorno, domandandomi cosa fosse mai successo in quella casa.
Il ragazzo rincorse la giovane, chiamandola più volte per nome, come se così facendo si sarebbe fermata e tornata indietro, ubbidiente.
Salii le scale. La carta da parati era graffiata e strappata, come i pochi quadri che non erano stati staccati dalla parete. Raggiunta la cima, mi guardai intorno. Proprio come al piano inferiore, lì era tutto stravolto.
- Non li trovo, Hesediel… Non ci sono.
Seguii la voce femminile ed entrai in una delle camera da letto.
L’intonaco delle pareti era macchiato di sangue, come le coperte del letto e i cuscini. Anche il pavimento era rigato da strisce di sangue, come se avessero tentato di aggrapparsi al parquet mentre venivano trascinati via.
Hariel si reggeva lo stomaco per il dolore. Doveva essere atroce per lei. Forse non potevo neanche immaginarmelo, non potevo nemmeno supporre ciò che stava provando. Però sapevo che il dolore è come un fantasma. Che il dolore c’è, sai che c’è, lo senti, senti quanto ti fa male, quanto ti distrugge, ma non lo vedi. Nemmeno chi ti sta intorno lo vede.
Il sangue smette di scorrere quando realizzi che ciò che ami, l’unica cosa a cui hai voluto realmente bene, è svanito.
Hesediel abbracciò la ragazza, che non sembrò nemmeno accorgersi delle sue braccia che la cingevano, che tenevano stratta al petto duro di lui, che la proteggevano dal male, ma non riuscivano a strapparla via dal dolore. Perché il dolore era dentro di lei. In quel momento lei era il suo stesso dolore. Non poteva liberarsene, non era possibile.
Avrei potuto dirle tante cose, molte cose, rassicurarla come stava facendo Hesediel, ma erano tutte scomparse, le parole non c’erano più.
Il ragazzo mi guardò. Gli occhi blu pieni dello stesso sentimento che agitava lei, come se fosse riuscito a fare sua una piccola, misera, parte di quel dolore.
Distolsi lo sguardo, incapace di sostenere il peso di quell’intensità.
- Voglio andarmene da qui, Hesediel…
Sussurrò la ragazza, il viso premuto contro la maglietta di lui.
- Adesso andiamo via.
Affermò Hesediel mentre uscivo dalla stanza. Mi poggiai alla parete con la schiena e, con lo sguardo perso nel vuoto di quella casa, aspettai che i due uscissero.
Conoscevo il significato di perdere. Conoscevo anche il senso di vuoto che ne conseguiva.
Il dolore è realmente un fantasma. Non ti lascia tregua. Una volta che ti stringe fra le due spire, proprio come un serpente, non gli sfuggi più. Sei in balia di esso.
Non dici a nessuno della sua presenza, non lo faresti mai. Perché sai che se provi dolore c’è un motivo. Condividerlo con qualcuno sarebbe l’unico modo per affievolirlo, ma non puoi farlo, non vuoi. Perché solo se vuoi distruggere la felicità di una persona, gli cedi il tuo dolore.

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Capitolo 15
*** Cap.14: A sangue freddo ***


Ok,  prima di lasciarvi questo capitolo voglio dirvi giusto qualche cosetta.
Ci ho messo tutta l'anima e il cuore per scrivere questo capitolo (beh, lo faccio con tutti, ma con questo particolarmente) e spero vi piaccia tantissimo, perché è un capitolo di cui vado DAVVERO tantissimo orgogliosa :)
Beh, tutto qui, spero vi piaccia, un bacio :*


Capitolo 14
A sangue freddo (Scritto da Miri -Me)
Hesediel

Respirai e lasciai che Hariel uscisse dalla stanza, anche lei nel silenzio più assoluto.
Rimasi lì, ancora per qualche attimo, per guardare ciò che mi circondava: ansia, dolore, paura, sangue, morte…
Non sapevo cosa fare, o cosa pensare; un’unica emozione, che pesava come la pioggia intrappolata in una nuvola di oscurità, si faceva spazio dentro di me, mangiando tutto il resto:
il senso di colpa.
Perché l’avevo fatto? Perché mi ero impicciato dei fatti suoi, e mi ero fatto venire la brillante idea di portarla nel posto che più l’avrebbe fatta soffrire?
L’avevo portata nell’oscurità, nella nuvola scura della tristezza.
Mi avrebbe odiato per sempre.
Avevo perso la battaglia del renderla felice.
E allo stesso tempo anche la guerra del suo cuore era finita.
Dei passi mi riportarono alla realtà, passi unici, leggeri, femminili.
Passi solitari.
Scattai immediatamente fuori dalla stanza, e mi guardai intorno: Hariel non c’era, e lo stesso l’Angelo biondo. Lo stretto corridoio era vuoto e freddo.
- Hariel?
Mi rispose il silenzio, rotto dagli strazianti battiti del mio cuore contro la gabbia toracica. E poi un forte rumore, come lo scoppio di una bomba da lontano, e quello di tantissimi vetri che, in contemporanea, cadevano a terra, come una pioggia di schegge baciate dal sole del mattino.
- HARIEL!
Cercai rapidamente la via d’uscita ma, quando la trovai, capii che forse tutto ciò che dovevo fare era cercare qualcosa per proteggerci, una qualsiasi cosa.
E poi ragionai: chi poteva tenere un’arma in casa, e dove?
La risposta mi arrivò quasi subito.
Mi diressi nuovamente nella camera da letto, e svuotai ogni cassetto, fin quando non trovai, in fondo ad una fila di calzini e di boxer, una pistola nera e, all’apparenza, non troppo vecchia.
Sentivo il mio cuore battere all’impazzata all’idea di cosa stesse succedendo fuori.
Un forte rumore tornò a vibrare nell’aria, un suono simile allo sradicamento di un albero. E poi di nuovo un tremore della terra sotto ai miei piedi, e la luce, fortissima e immensa, contro il mio viso, arrivata talmente all’improvviso che dovetti stringere con forza gli occhi per non rimanere accecato.
- Ma guarda un po’ chi si rivede.
Aprii lentamente gli occhi, avvertendo un’ombra su di me, che vibrava leggera, come una piuma nel vento. Un viso conosciuto brillava della luce del Sole, muovendosi su candide ali che variavano dall’argento a un bianco puro; quest’ultime si muovevano lentamente, sostenendo il corpo semi-ferito dell’uomo.
- L’ultima volta non abbiamo avuto il tempo di presentarci, perché beh… Mi hai quasi ucciso.
E poi tutto tornò alla memoria: l’Angelo che avevo attaccato quella notte, nel camioncino, andando persino contro Hariel e il suo sguardo terrorizzato all’idea che potessi fargli del male, e viceversa. Il momento in cui, nella battaglia, avevo fatto sbattere Hariel contro la parete, la sua testa aveva cominciato a sanguinare e i suoi occhi ad abbandonarmi.
Non avrei mai pensato di poter cancellare anche solo un attimo di quell’orribile vicenda.
Quando battei le ciglia, tornando alla realtà, lo ritrovai troppo vicino a me, con la spada sguainata che guizzava fiamme rosse come il sangue che aveva rigato la tempia di Hariel quella notte.
- Sono Lauviah, ma tu puoi chiamarmi la “Fine”. La tua.
Ed io ero a terra, completamente sottomesso alla sua potenza.
La luce divenne del tutto insostenibile mentre, guardando l’Angelo, il suo corpo veniva irradiato di oro e di Sole. Girai la testa di lato, poggiando la guancia sul pavimento freddo e distrutto.
E poi un grido e due occhi azzurri nella luce dell’oro: Hariel.

Mikael

Quando sentii il suo grido, caddi nel panico. Con il massimo della velocità che potei permettermi, afferrai Hariel per un polso e la trascinai lungo la parete scrostata della casa, e le bloccai la bocca con il palmo della mia mano, accaldata dal troppo sangue che scorreva, bollente e troppo rapido, nelle mie vene.
- Shh, va tutto bene. Ora ti lascerò, ma tu non devi parlare, ok?
Quando Hariel annuì, continuai a descriverle il mio piano, lasciandole il viso.
- Ci trascineremo, silenziosamente, lungo la parete e poi raggiungeremo il retro della casa.
Il suo sguardo si mosse verso la porta, da dove provenivano lamenti e grida oltre ogni limite della sopportazione.
- Non temere…
Tentai di calmare la voce, senza ottimi risultati.
- Non gli permetterò che gli facciano del male.
Hariel mi guardò, supplichevole, e mi fece scappare un profondo respiro, quasi dolorante, come se nel mio petto qualcosa si fosse sbriciolato a contatto con quei suoi occhi azzurri.
- Te lo prometto.
Un nuovo grido mi convinse che era ora di battere la ritirata.
- Andiamo.
Ci trascinammo contro la parete, un passo alla volta, un grido soffocato a ogni lamento che Hesediel emetteva da dentro quella stanza maledetta. Arrivammo al retro della casa dove, Hariel, distrutta, si accasciò a terra, in lacrime amare che viaggiavano sul suo viso pallido e contorto in una smorfia di dolore.
- Ehi! Ehi!
Mi abbassai su di lei, per guardarla dritto negli occhi arrossati.
- Possiamo farcela!
Hariel deglutì e mi guardò, tirando su con il naso, come una bambina piccola che piangeva dopo essersi sbucciata il ginocchio per essere caduta giocando.
- E come?
La luce del sole variava il colore dei suoi occhi da azzurro cielo in un blu scuro e profondo, come il fondale marino.
- Beh, lui è uno, e noi tre.
Quell’ultimo numero mi uscì soffocato, perché in realtà nella mia mente si era impresso un altro numero, un due.
- Certo, con un’umana, o quasi, un ragazzo sotto una spada infuocata e un Angelo ferito, sono sicura che abbiamo molte possibilità!
Una strana acidità soffiò sulla bocca del mio stomaco, come dopo aver mangiato un limone più acerbo del normale.
- Ok, la positività non è il tuo forte, ma io te lo prometto, te lo giuro.
Le strinsi le mani, con forza, e respirai.
- Io non permetterò a nessuno, che sia un Angelo, un Caduto o un Demone, a nessuno, di farti del male, ok? Io te lo giuro.
I suoi occhi vibrarono nel suo viso pallido e triste, come la fiammella di una candela prossima a spegnersi.
- Ho promesso a tuo fratello che saresti tornata a casa, e sì, avrò la faccia del tipico ragazzo bastardo, e che fa un sacco di cavolate nella vita, ma non questa…
Immersi la mano nella tasca del mio giubbino di pelle e ne tirai fuori il ciondolo che Gabriel mi aveva prudentemente lasciato come promemoria di doverla portare a casa.
Lui contava su di me.
E questo mi portò uno strano calore nel petto, che mi stordì per qualche attimo.
E poi uno sparo.
Hariel si alzò di colpo, guardando il grande stormo di uccelli, che un attimo prima sostavano sul tetto della casa, volare via lontano emettendo un canto stridulo.
Ed il silenzio, che faceva più male di ogni cosa.
Lei si guardò intorno, smarrita, terrorizzata.
- Ehi, guardami!
Le presi il viso tra le mani, i suoi occhi che riflettevano la mia immagine, come uno specchio.
- Io vado a vedere cos’è successo, ok? Resta qui.
Lei sbarrò gli occhi, ma non le diedi nemmeno il tempo di replicare.
In un attimo la lasciai lì, sola contro il mondo, come le sarebbe successo altre volte nella sua giovane vita, come sarebbe successo a noi tutti.
Un giorno tutti noi ci saremmo trovati ad un immenso bivio, due scelte talmente difficili e differenti da completarsi del tutto.
Dovevo lasciarla sola, così avrebbe imparato a cavarsela e, forse, così, l’avrei protetta ancora di più dall’Angelo che ci stava attaccando.
E forse sarebbe stata salva.
Questo era un buon motivo per tornare a pregare un qualcosa che non esisteva.
Non più.

Hesediel

Gridai, le mani davanti al viso che bruciavano al contatto con la lama di fiamme.
Ero costretto a tenere gli occhi stretti, mentre le lacrime erano il mio unico sollievo in quell’Inferno. E pian piano la mia forza andava a diminuire, sfociando nella sua spada che scendeva lentamente verso la mia gola.
Non riuscivo nemmeno a voltarmi, o a cercare la pistola che avevo trovato nel cassetto, anche solo per rallentarlo un attimo, e tentare di formulare un piano migliore di “Morire sgozzato da un Angelo che credevo già morto”.
Mi sentivo soffocare, faceva troppo caldo, e al tempo stesso il sangue continuava a gelare nelle vene, solidificandosi e bloccando i battiti già bassi del mio cuore.
E poi un rumore, simile a qualcosa che colpiva un corpo in movimento.
La spada si spostò rapidamente dal mio collo fino ad abbandonarlo del tutto, e Lauviah si allontanò di un passo da me. Tossii violentemente, piegandomi a terra e respirando profondamente.
Alzai leggermente il capo, sentendo i capelli appiccicaticci ricadere pesantemente sulla fronte a causa del sudore, e fu allora che vidi l’Angelo Biondo con in mano qualche pietra di diversa dimensione, che non superavano, però, l’ampiezza del palmo della sua mano.
- Oggi deve essere la mia giornata fortunata.
Lauviah guardò il ragazzo che, a sua volta, gli sorrise, pienamente soddisfatto.
- Sì, lo penso anch’io.
L’Angelo tornato dalle tenebre girò tra le mani la spada di fiamme, in modo esperto e rapido, così veloce che sembrava maneggiasse uno scudo di fuoco e non un’arma.
- Mikael… Dimmi un po’, com’è che sta quella tua amichetta lì? Mmm… Forse potresti ricordarmi il suo nome.
Lauviah sorrise, impavido, e Mikael ringhiò.
- Perché ti ricordi di lei, vero?
L’Angelo Biondo lasciò cadere le pietre a terra e lo guardò, serio, con gli occhi che guizzavano odio e furore.
- In fondo è colpa tua se è morta.
Mikael scattò in avanti, prendendo di sorpresa Lauviah, che barcollò indietro con gli occhi che vibravano, spaesati.
- Come si chiamava? Mmm… Allison? No, mmm, qualcosa di più italiano, non trovi?
Mikael strinse i pugni, e in contemporanea i suoi denti stridettero in un ringhio.
- Melissa?
Lauviah continuò a provocarlo, camminando in avanti, verso di lui. Infilò una mano nei capelli, poi sorrise. I suoi occhi chiari si illuminarono di finta gioia, il suo sorriso era così freddo da mettere i brividi e la pelle d’oca sulle braccia.
- Ah, no! Non Melissa… Alissa!
Gli occhi verdi di Mikael si spensero di colpo, divennero scuri, come nel cuore del bosco di notte, sotto un cielo senza né luna, né stelle. Un ringhio si propagò nell’intera stanza, e poi una forte luce distrusse ogni cosa…

Hariel

Una forte luce penetrò fino alle pareti del retro casa, come se tutta la struttura fosse fatta di un sottilissimo strato di gesso, pronta a distruggersi da un momento all’altro.
Un ringhio rimbombò contro di me, scuotendomi come una fila di panni al venticello estivo.
Eppure io non vedevo il sole, solo un’ombra scura pronta a inghiottirci.
Mi alzai e, trascinandomi lungo la parete, lanciai un’occhiata verso l’angolo sulla quale avevamo camminato per raggiungere il retro.
Niente.
La luce era scomparsa, e con essa il profondo ringhio che mi aveva fatto sussultare.
Feci un respiro profondo e chiusi gli occhi, spiaccicandomi sulla parete ruvida e rovinata.
E poi un rumore di vetri che s’infrangeva.
Stringi con forza gli occhi, e tentai di coprirmi il capo con le mani, per proteggermi da eventuali schegge affilate. Il rumore di qualcosa che cadeva mi raggelò il sangue, che pian piano prese a scorrere sempre più rapidamente, sciogliendo e corrodendo le mie vene.
Scattai in avanti, non più silenziosa come un felino, e, al di fuori di una delle tante finestre che circondavano la casa, vidi l’Angelo biondo a terra.
Nella mano destra stringeva una pistola nera, intatta.
Mi lanciai su di lui, il fiato sospeso. Ero terrorizzata.
E se fosse…? No, non dovevo neanche pensarci.
- Ehi! Ehi!
Mi abbassai su di lui, incurante che l’Angelo che ci aveva attaccato potesse farmi del male.
Abbassai la fronte verso la sua, gli occhi che straripavano lacrime.
- Andrà tutto bene, te lo prometto.
Il ragazzo mi afferrò le mani, con forza.
Lo guardai negli occhi verdi e stanchi, poi lui mi guardò, serio, le labbra tese in un leggero ringhio.
- Uccidilo.
Mi alzai di colpo e guardai la pistola che mi aveva lasciato tra le mani, mentre il cuore mi esplodeva nel petto, come impazzito, distruggendomi le ossa della cassa toracica.
Un grido vibrò tutto intorno a noi, come se il vento lo avesse trascinato violentemente con sé.
- sarà lui a farlo a Hesediel.
Sentii il mio cuore morirmi nel petto, sprofondare nell’oscurità più totale e perire, a terra, silenzioso e privo di battiti.

Hesediel

Tra me e Lauviah non c’era alcun minimo confronto: mi stava distruggendo, non potevo dire il contrario. Tra pugni e lanci contro le pareti, mi sentivo sopraffare dal sangue e dalla paura di non farcela. Mi difendevo con le mani, graffiando le sue dita già sporche del mio sangue, che si mischiavano però al suo. E poi sfoderò la sua spada di fuoco. Gridai, quando la sentii a contatto con le mie mani, che tentavano di proteggermi il viso, mentre io stringevo con forza gli occhi.
Un rumore mi frantumò le orecchie per un istante. Aprii lentamente gli occhi, sentendo il calore della sua spada spegnersi piano, come se vi si fosse stata gettata dell’acqua su di essa.
Lauviah si fermò e si guardò il petto, forato all’altezza del cuore.
L’Angelo tossì sangue, che cadde voracemente sul mio viso, mentre le mie mani si accingevano a stringergli il tessuto della sua giacca, per poterlo spingere via lontano da me.
E poi un gemito…
Il corpo, ancora tiepido, si accasciò su di me, con un tonfo e un ultimo respiro contro il mio orecchio. Mi feci forza sulle braccia e spinsi a terra il suo corpo, mettendomi in posizione d’attacco, come un animale che si preparava a saltare sulla sua preda.
Lo osservai, in silenzio, mentre dei nuovi passi si aggiungevano ai pochi suoni che facevano parte della mia mente in quel momento: il suo gemito, il suo corpo che cadeva a terra, la sua vita che si spegneva e i suoi passi che rompevano il silenzio.
Feci scivolare le dita sulla gola di Lauviah; nessun battito percepibile.
L’assoluto silenzio.
- Oh mio Dio, è morto.
Mi voltai di scatto verso quello che avevo considerato un suono irrilevante.
Hariel aveva lo sguardo puntato su Lauviah, immobile a terra con gli occhi spalancati verso il soffitto. Respirai piano, sussurrando il suo nome, poi mi abbassai verso l’Angelo, immobile.
Misi una mano sul suo viso, facendo chiudere piano le palpebre.
- Hariel…
Mi alzai da terra, dolorante, e zoppicante mi avvicinai a lei.
Tremava come una foglia mentre la abbracciavo e la stringevo a me, facendo si che tutto ciò che potesse sentire fosse il mio cuore battere forte, grazie a lei, e non i silenzi dell’Angelo.
- L’ho ucciso, oh mio Dio, ho ucciso un uomo Hesediel!
La ragazza alzò lo sguardo verso di me, e quegli specchi chiari, come la superficie immensa di un lago, si incresparono pian piano a causa delle lacrime.
- Ehi, guardami negli occhi… Guardami!
I suoi occhi incrociarono i miei, terrorizzati.
Avrei voluto dirle mille cose, ma tutto ciò che uscì dalle mie labbra fu un leggero sospiro.
La abbracciai.

Mikael

Quando avvertii il silenzio, per un attimo il panico si fiondò in me, come una freccia nella mia carne. Mi costrinsi a rialzarmi, dolorante, mentre le mie mani tentavano ancora di sfilare le affilate schegge di vetro dal mio corpo, e subito dopo mi trascinai all’interno della stanza.
Guardai Hariel che, appena misi piede all’interno dell’abitazione, mi fulminò con lo sguardo, come se fosse sul punto di crollare psicologicamente.
I miei occhi si abbassarono verso la figura coperta dell’Angelo, oscurato dal giubbino di pelle nera di Hesediel, che ritrovai alla fine della stanza, contro la parete, che guardava Hariel, seriamente preoccupato per lei. I suoi occhi erano spenti, stanchi, come se stesse per avere una ricaduta da un momento all’altro. Non riuscivo a non guardare le sue mani, sporche di sangue secco e arrossate dalle bruciature innaturali.
Mi avvicinai al corpo fermo di Lauviah e gli scoprii il viso, con incertezza.
Il suo volto era pallido, traslucido, gli occhi chiusi e la bocca immobile, senza vita.
- Questo è per Alissa, bastardo.
Sentii Hariel sussultare a quelle parole, mentre io mi rialzavo da terra e lo ricoprivo con il giubbino.
Zoppicai verso Hariel, scivolando lungo la parete, e infilando una mano nella tasca dei jeans.
- So che sei sconvolta… Ma, ho un’altra cosa da chiederti. Devi farmi un altro favore, Hariel.
La sentii irrigidirsi violentemente, mentre giravo la testa verso di lei, per incontrare il suo sguardo di ghiaccio.
- Mi hai chiesto di ucciderlo, e così ho fatto!
I suoi occhi si riempirono di lacrime, così pesanti da riversarsi immediatamente sul suo viso bianco, come la neve alla notte di Natale.
- CHE COSA VUOI ANCORA DA ME?
Fu come sentire il suo cuore spezzarsi in un milione di piccole schegge di vetro, proprio come quelle che continuavano a tagliuzzare il mio corpo ferito.
Tirai fuori il telefonino, che mi ero fatto prestare da un ragazzo della Resistenza, e glielo posi, aggiungendo solo:
- Chiama Gabriel.

Aspettavamo.
Hariel era scoppiata a piangere quando aveva chiamato Gabriel per dirgli la nostra posizione.
Aspettavamo.
Hesediel, come avevo previsto, aveva avuto una ricaduta ed era steso a terra davanti a noi.
Hariel era scoppiata a piangere di nuovo per la preoccupazione, e mi era toccato rincuorarla ancora.
Era il lavoro più esasperante che avessi mai fatto: come si poteva sollevare il morale di una persona che aveva appena assistito alla perdita della propria famiglia, che si era macchiata della morte di un uomo e che ora vedeva steso a terra un ragazzo, un amico, pronto a respirare, forse per l’ultima volta?
Hariel gli stringeva le mani, gli occhi chiusi, e pregava.
Anche se chi aveva ricevuto quella preghiera, non avrebbe mosso un dito per salvarlo.
Ma lei continuava a sperare.
- Lui non ti lascerebbe mai qui, a soffrire tutto questo da sola.
Hariel girò il capo verso di me, ma io non mi mossi di un centimetro. La sentii respirare piano e lasciare le mani di lui, per raggiungere poi le proprie gambe, piegate contro il petto.
- Ho visto come ti guarda, sai?
Sorrisi piano, e abbassai lo sguardo.
- Come se fossi la cosa più importante della sua vita.
Infilai una mano tra i capelli e chiusi gli occhi.
- Come se tu stessa fossi il reale motivo per cui continuare a respirare ogni giorno.
Mi voltai a guardarla, i suoi occhi mi parlavano più di ogni altra cosa al mondo, mi parlavano più delle stesse parole che avrebbe potuto dire, ma che però nascondeva gelosamente per sé.
- Lui ti ama.
Gli occhi di Hariel si posarono rapidamente su Hesediel, e sorrise.
Quasi riuscivo a sentire il suo cuore battere forte contro il suo petto, mentre il sangue le arrossava le guance.
E poi un suono si impossessò del mio stomaco, un piccolo terremoto nel mio corpo, con tanto di cadute di oggetti e rumori vari.
- E tu hai fame.
Hariel scoppiò a ridere, abbassando lo sguardo.
Tutto il rancore, che aveva provato in quel brevissimo attimo in cui le avevo chiesto un nuovo favore, scomparve in un attimo.
- Aspettami qui.
Sussurrò piano mettendosi in piedi e muovendosi per la stanza messa a soqquadro dalla battaglia tra l’Angelo e Hesediel.
- Dove vai?
Mi mossi troppo rapidamente e sentii la ferita sul fianco destro ricominciare a perdere sangue.
Hariel si voltò, sorridendomi.
- Aspetta!
Scomparve per una manciata di minuti, poi il suo ritorno fu annunciato dall’atterraggio sulle mie gambe di una barretta di cioccolato rinchiusa nella carta di plastica blu e oro.
- Cioccolata! Oh, cavolo, credo di amarti!
Dissi voltandomi verso di lei, che si faceva sempre più vicina.
Strappai rapidamente la carta, e staccai un pezzo per lei che lo rifiutò.
Inghiottii il tutto, avido, masticando e ingoiando tutto rapidamente.
- Forse dovresti dormire, sembri molto stanca.
Dissi guardandola negli occhi di vetro.
- Forse hai ragione ma, se non ti dispiace, vorrei tornare lì sopra.
Una scarica di terrore mi raggiunse in un attimo, e, al tempo stesso, mi sentii scosso da un’interminabile tristezza.
- Se hai bisogno di qualcosa…
Hariel si alzò e mi sorrise, porgendomi la mano.
- Grazie mille di tutto, Mikael.
Le sorrisi.
- Non prendermi come tua guardia del corpo personale, eh! Vedimi più… Come un Angelo Custode molto, molto, molto sbadato!
Lei scoppiò a ridere e mi diede la buonanotte, per poi percorrere ancora una volta la stanza disastrata. Chiusi gli occhi, poggiando la testa contro il muro.
Forse era ora che anch’io mi facessi una meritata dormita…

Gabriel

Entrai nella sala, correndo, mentre i muscoli delle mie gambe si contorcevano per il dolore dovuto alla lunghissima corsa per raggiungere la casa.
Quasi immediatamente mi accorsi del corpo di Hesediel steso a terra, mentre faceva respiri brevi, ma intensi, e di Mikael, che mi venne incontro con gli occhi assonnati ed uno strano sorriso sulle labbra.
- Dov’è lei?
Il ragazzo dagli occhi verdi sbadigliò e mi fece segno di rilassarmi.
- È nella sua camera, voleva rimanere un po’ sola, immagino, dopo tutto quello che è successo oggi.
Lo scansai, correndo verso la stanza con uno strano sorriso disegnato sulle mie labbra e comunque un grande terrore che mi stringeva il cuore.
Che cosa era successo lì? Che cosa aveva trovato Hariel?
Mi fermai nello stretto corridoio e guardai dritto davanti a me.
La porta della stanza era socchiusa e dall’altra parte c’era solo l’oscurità.
Aprii piano la porta, che scricchiolò rumorosamente.
Altri passi mi raggiunsero, quelli di Mikael che mi seguiva come un’ombra da almeno una manciata di minuti. Allungai la mano all’interno della stanza, alla ricerca dell’interruttore.
Ma quando lo trovai, non mi piacque affatto ciò che i miei occhi riuscirono a vedere.
Il nulla.
- Lei non è qui.
Gemetti piano, guardando meglio nella stanza.
Mikael parlò, ma i battiti del mio cuore oscurarono le sue parole.
- Lei… Lei non c’è.
Corsi nella stanza affianco, quella dei nostri genitori, anch’essa vuota.
- Gabriel!
La voce dell’Angelo biondo mi raggiunse di sorpresa, facendomi sussultare nella stanza vuota.
Tremai dalla rabbia e strinsi i denti, insieme ai pugni.
Trattenni un urlo, e poi le lacrime.
- LEI NON E’ QUI!

Hariel
–DUE ORE PRIMA-

Il sonno era leggero, sottile.
Riuscivo a sentire il rumore assordante dei miei pensieri, accompagnati dallo scricchiolio del vecchio letto che mi ricordava la mia infanzia.
- Tu devi vivere.
Una voce cullò le immagini nella mia mente: l’arrivo del mio materasso duro e scomodo, io e Gabriel che giocavamo, facendoci il solletico, tra le lenzuola profumate e appena messe dalla mamma.
- Tu devi vivere.
E poi quella frase ritornò in contatto con le mie orecchie, facendomi improvvisamente tornare alla realtà. Io ero sola in quella stanza… E non c’era nessuno che potesse parlarmi.
Aprii gli occhi e, nella penombra comparve una figura, alta e sottile, come un giubbino appeso alla parete, e per un attimo sperai che fu così, ma mi sbagliavo.
In meno di un nanosecondo la figura mi fu vicina, seduta sul letto.
Gemetti, più forte che potei, muovendomi e stringendo gli occhi.
Non riuscivo a guardarlo in viso: la sua pelle era così bianca che quasi tendeva all’azzurrino, i suoi zigomi alti e rigidi, e la leggera barbetta gli sfiorava il mento.
Il suo sguardo mi sfiorava con estrema cautela.
E i suoi occhi…
Le sue pupille erano di forma ovale-rettangolare, simile a quelle di una capra, e di un colore giallo intenso, che variavano, ai lati, con sfumature cremisi.
Mi sfiorò piano la guancia, con le mani lisce e gelide quanto il ghiaccio, mentre io, senza vergogna, cominciavo a piangere, terrorizzata.
- Io non voglio farti del male, bambina…
Sentii le mie labbra tremolare in profondi respiri, tentando di calmarmi
- Tu devi vivere…
La sua voce profonda e calma mi fece ritrovare, per un po’, il controllo.
Strani, quanto magnifici, i suoi occhi divennero una strana ossessione per me, non riuscivo più a smettere di fissarli.
- Chi sei tu?
I miei respiri tornarono pian piano più regolari mentre la sua mano lasciava la mia guancia.
- Io sono Azazel…
Quando sentii il suo nome mi ritirai nel letto, come se avessi la minima possibilità di nascondermi, o di scappare da lui…
Azazel… Un nome. Un’ombra. Un Demone.
- Non temere, ho giurato che non ti avrei fatto del male.
Ma chi avrebbe mai potuto essere così interessato alla mia vita? Chi l’avrebbe mai messa nelle mani di un Demone?
Terrorizzata tornai a guardare quegli occhi gialli e penetranti.
- A chi l’hai giurato?
Il mio cuore smise di battere un secondo quando lui mi sorrise, quasi gentilmente, o forse come un sorriso di sfida. Forse avrei dovuto gridare, chiedere aiuto, scappare, o fare qualcosa.
Tremavo, ero terrorizzata. Eppure, nonostante tutto, dannatamente attratta da quella risposta segreta, che moriva tra le sue labbra…
- A tuo padre.

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Capitolo 16
*** Cap.15 - Annegare sulla terra ferma ***


Capitolo 15
Annegare sulla terra ferma (DI ENGI)
Mikael

Gli occhi gialli di Gabriel erano accesi di preoccupazione e rabbia, quest’ultimo sentimento probabilmente rivolto a me.
- Dovevi trovarla!
Mi gridò contro, trattenendo le lacrime.
- Infatti! Fino a qualche ora fa ero con lei.
Ribattei, tentando di liberarmi dal pensiero di essere nel torto.
Gabriel digrignò i denti, furioso.
- Non dovevi lasciarla sola!
Sbraitò, con il viso arrossato e gli occhi tremolanti.
Aprii la bocca per rispondergli, ma mi bloccai, attraversato da un pensiero. Un ricordo di me stesso, con quegli occhi scossi dal turbine di emozioni che mi assalivano: rabbia, odio, terrore, smarrimento, angoscia…
Il pavimento del corridoio sembrò oscillare, come una nave urtata da un’onda o una culla spinta da una madre per far addormentare il proprio bimbo.
I miei piedi sembrarono staccarsi e lasciare che il corpo si librasse in aria, come il salto di un atleta in una gara.
Gli angoli della mia visuale si scurirono. Migliaia di ombra si ammassarono tra loro, finché tutto non divenne buio.

‘’Non la trovavo. Ovunque guardassi lei non c’era, non era presente.
Sentivo il respiro pesarmi dentro ai polmoni, come se l’aria fosse satura di piombo.
Il cuore mi sembrava stretto tra artigli di ghiaccio, che invece di allentarsi si chiudevano sempre più.
La mia mente fu bombardata dalle immagini terrificanti delle conseguenze delle mie azioni.
Perché non mi ero fermato a pensare, a domandarmi quali guadagni ci avrebbe ricavato entrando nel mio Mondo?
Le lacrime mi offuscarono la vista e affogarono i miei pensieri.
Fitte lancinanti mi fulminarono lo stomaco, facendomi quasi cadere a terra e contorcere dal dolore.
Perché l’ho fatto?, mi domandai, forse per la millesima volta. Ero davvero stato così stupido da pensare che la sua reazione sarebbe stata sicuramente positiva? Davvero non avevo pensato al comportamento inverso che avrebbe potuto adottare di fronte alla mia notizia?
Mi maledissi mentalmente, straziato dalle mie stesse domande.
Dove poteva essere in quel momento? Dove l’avrebbe condotta la mia verità?
Un tuono percosse tutti i miei pensieri, fermandoli. Alzai gli occhi, pronto a ricevere una cascata di gocce in faccia, ma il cielo stellato mi restituì il mio stesso sguardo confuso.
Deglutii.
La luce pulsante delle stelle mi rapì per qualche istante, riportando ordine nella mia testa.
Stai calmo, mi ordinai, e ragiona, pensa a come poterla trovare.
E così feci.
Con il passare dei minuti, davanti ai miei occhi si creò l’immagine di lunghi capelli chiari, che, con le loro onde, incorniciavano un viso delicato, sul quale sbocciava un sorriso simile ai petali di una rosa; mi concentrai più a fondo e due occhi neri si distinsero dalla pelle dorata del volto.
Alissa.
Quel nome bruciò la figura della ragazza, che gridò di dolore, come se fosse reale e quel fuoco l’avesse davvero toccata.
E capii. Ciò che le stava accedendo e il luogo in cui si trovava in quell’istante mi accecarono, apparendomi come una forte luce bianca tra le tenebre più profonde.
Cominciai a correre. I piedi che si muovevano velocissimi, alternandosi uno dopo l’altro, superandosi a vicenda, come in una gara infinita, al termine della quale non ci sarebbe stato alcun vincitore.
Poi le mie ali si spalancarono, squartando il tessuto della maglietta, potenti e maestose. Tutto sembrò illuminarsi a giorno, tanto da pensare che gli uccellini si svegliassero e cominciassero a cinguettare.
Strinsi con forza i pugni e aumentai la velocità, raggiungendo il mio limite massimo.
Lei era in pericolo, non potevo permettermi di sprecare tempo prezioso, anche un solo minuto avrebbe potuto significare la sua vita.
Come attraversando una porta invisibile, una sorta di muro invisibile che trasportava dal mondo degli Umani al nostro, fui scaraventato in un altro luogo. Non mi ritrovai più nel cielo scuro punteggiato di stelle, ma tra le gelide sbarre grigie di un’enorme gabbia d’acciaio.
Inizialmente non capii subito il motivo di tutto ciò, ma la voce soffocata da un singhiozzo che pronunciò il mio nome, mi colpì come una secchiata di acqua gelida di pieno volto.
- Alissa!
Esclamai, scaraventandomi contro le sbarre.
Tre paia di occhi chiarissimi si puntarono su di me. Ma quelli che più mi stupirono furono quelli simili al ghiaccio, quegli occhi che troppo bene conoscevo, e che una volta avevo guardato con amicizia.
- Lauviah…
Ringhiai, confuso da tutto, anche se la risposta appariva così chiara ai miei occhi. Solo che non volevo vederla, mi ostinavo a fingermi cieco di fronte alla realtà.
- Ben arrivato, Mikael. Giusto in tempo per il gran finale.
Disse l’Angelo. Teneva una mano alla testa di Alissa e con le dita le stringeva i capelli in una morsa dolorosa, che traspariva dall’espressione quasi penosa della ragazza.
- Non toccatela!
Urlai, la furia che montava sempre più dentro di me.
Lauviah rise, divertito, seguito a ruota dalle risate degli altri due.
- Sennò?
Mi domandò, provocatorio.
- Mikael, aiuto…
Disse Alissa tra i denti, portando le mani alla stretta di Lauviah, provando a liberarsi il capo.
- Zitta!
Le gridò contro l’Angelo, strattonandola. La ragazza soffocò un grido e le prime lacrime le sgorgarono dagli occhi.
Mi schiacciai ancora più contro le sbarre.
- Lasciatela!
Lauviah si voltò verso gli altri due, sorridendo malignamente.
- Avete sentito anche voi?
I compagni annuirono all’unisono, sorridenti quasi quanto l’altro.
Lauviah tornò con lo sguardo verso di me e portò il volto affianco a quello di Alissa, che s’irrigidì al contatto della sua pelle con quella dell’Angelo.
- Dopotutto penso che tenga a te.
Le disse all’orecchio, come dicendole un segreto, che però sentirono tutti all’interno della stanza.
Alissa singhiozzò e mi guardò. Gli enormi occhi neri spalancati dal terrore, in una muta supplica che udii benissimo, e alla quale risposi:
- Ti prometto che ti salverò.
Lauviah rise e le bisbigliò qualcosa all’orecchio che non riuscii a sentire, ma che la fece piangere ancora.
- Portatelo qui.
Ordinò ai due Angeli, che silenziosi eseguirono e uscirono dalla stanza.
- Perché lo state facendo?
Quella domanda suonò stupida persino alle mie orecchie. Davvero non lo sapevo? Volevo davvero bendarmi gli occhi anche da questa risposta, convincendomi di non capire?
- Credo tu lo sappia benissimo.
Prima che potessi rispondere, i due scagnozzi rientrarono e dietro di loro, legato a una spessa catena di Cristallo Celeste, v’era una creatura mostruosa, dai lunghi denti, acuminati come pugnali, e dalle possenti zampe, che ad ogni passo sembrassero far tremare la terra. Un mostro che non poteva di certo essere stato creato dal Cielo, ma solo dagli Inferi più profondi; e la mancanza degli occhi ne fu la certezza.
La paura di Alissa mi raggiunse, impadronendosi di tutto il mio corpo, tendendomi ogni singolo muscolo.
- Allora, hai due possibilità di scelta.
Disse Lauviah, rivolto a me.
- O la diamo in pasto alla nostra piccola creaturina, che ha tanta fame…
Dal mostro scaturì un vorace verso, che diede peso alle parole dell’Angelo.
Un’orribile puzza di zolfo cominciò a impregnare l’aria di tutta la stanza, entrandomi nel naso e riempiendomi i polmoni.
- … o la uccidiamo noi.
Concluse la frase senza tanti giri di parole. Il cuore mi si fermò, smise di pompare sangue improvvisamente, portandomi alla pazzia.
Presi ad agitarmi, provai a sfondare le sbarre, a piegarle, ma senza risultato.
Una forte nausea m’invase, gli occhi cominciarono a bruciarmi e le tempie a pulsarmi convulsamente.
Non mi azzardai a dargli corda. Non provai nemmeno a ironizzare. Nulla. Non potevo rischiare. Non se in ballo c’era la vita di Alissa.
- Non vuoi avere l’onore di decidere la tua punizione?
Mi domandò poi Lauviah davanti al mio silenzio.
- Se devi punire me, allora perché c’è di mezzo lei?
Le parole sembrarono carta vetrata contro la mia gola.
Lauviah rise alle mie parole, come se gli avessi appena raccontato una barzelletta.
- Perché lei è il tuo punto debole. Poi non posso di certo sbarazzarmi di te, purtroppo non sono questi gli ordini. Il tuo futuro è già stato deciso…
- Cosa?
La bestia si agitò, affamata. Aveva fame di morte, disperazione e rancore. Nient’altro. Il suo non era un bisogno, ma semplice desiderio di distruzione.
- Non avresti dovuto farla Vedere.
Alissa strinse i denti, trattenendo altre lacrime. Odiava piangere davanti gli altri, non le piaceva sentirsi debole di fronte alle proprio emozioni, nemmeno in una circostanza del genere.
- Uccidete me! Vi prego, non lei…
Ma le mie parole si dispersero nell’aria, prive di alcun peso sull’anima di Lauviah.
- Fidati, se potessi lo farei… Ma, come ti ho detto, è stato deciso che il tuo destino debba essere un altro.
- Chi l’ha deciso?
Domandai allora, non capendo la risposta che riuscivo da solo a darmi.
Prima che l’Angelo potesse dar voce alla sua risposta, Alissa fece uno scatto con il gomito, conficcandolo nello stomaco di Lauviah, che allentò di poco la presa ai suoi capelli, ma abbastanza perché la ragazza potesse divincolarsi.
- Scappa!
Le gridai, vedendo che rimaneva ferma a fissarmi, domandandosi se provare a liberare anche me o salvare solo sé stessa. Ma non mi diede retta, mi venne in contro, anche lei senza pensare alle conseguenze delle sue azioni.
- No!
E Lauviah la raggiunse subito, ancor prima che potesse arrivare alla gabbia. Alissa gridò, ma non poteva sfuggire dalla salda presa dell’Angelo, che le stringeva il braccio con forza, tanto da creare degli aloni bianchi dove premeva con le dita.
- Ti pentirai di ciò che hai fatto.
Alissa gli sputò addosso.
Rimasi impietrito alla vista dell’espressione oltraggiata di Lauviah, che con un movimento veloce le storse il braccio, bloccandoglielo in una posizione scomoda. Estrasse un pugnale dalla lama in cristallo e glielo puntò alla gola.
- Anzi…
E lo spostò dietro alla schiena di lei.
Il cuore.
- Ringrazialo del regalo che ti ha fatto… Alissa.
Calcò il suo nome con così tanto odio e piacere, che io stesso rabbrividii.
Alissa sbarrò gli occhi e in quell’istante il pugnale penetrò nella sua schiena, perforandole il petto da dietro.
Il mondo mi crollò addosso, in tutto il suo peso, in tutta la sua intensità. Gridai, ringhiai, piansi.
Urlai il nome di lei, più e più volte, sperando che così facendo la sua anima non si sarebbe staccata dal corpo, non l’avrebbe abbandonata, non avrebbe abbandonato me.
La ragazza si guardò il petto, ancora incredula, poi rialzò il capo e mi sorrise.
Un fiotto di sangue le si riversò sul mento, scarlatto come le sue labbra.
I suoi occhi si accesero di luce propria, proprio come se fossero realmente fatti di splendore.
- Grazie…
Quell’unica parola ebbe la stessa forza, lo stesso vigore, che potrebbe possedere un’onda contro il legno di una barca, e, com’essa, mi fece oscillare, scosse le mie emozioni, mi fece perdere l’equilibrio, riversandomi nel mare di tristezza e solitudine, delle speranze perdute, delle promesse non mantenute.
E, alla stessa velocità con cui vita abbandonò i suoi occhi, il suo corpo, io annegavo in quella gelida gabbia, sulla terra ferma, e quella piccola parola, composta solo da cinque lettere, si tramutò nell’acqua torbida di quel mare, che mi riempì la bocca, le orecchie e mi entrò nel naso.
Persi così la capacità di respirare, udire e parlare. Restai solo sul pavimento della gabbia, con il solo suono della voce di Alissa a tormentarmi. Mi rimbombava dentro, come un eco distante nel tempo e nello spazio.
Stavo per lasciarmi andare nel buio silenzioso della mia mente, ma sapevo perfettamente che al mio risveglio, come la luce del sole sarebbe tornata ad accecarmi, il doloroso tormento del ricordo di Alissa sarebbe tornato, impetuoso come prima, e mai, mai più mi avrebbe abbandonato.”

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Capitolo 17
*** Cap.16 Il respiro del passato ***


Ok, prima di leggere il capitolo volevo dirvi che io, alla fine, ho pianto mentre scrivevo, non è triste come quello di Engi (più o meno -ma lei è più brava ad emozionare la gente) quindi beh, spero vi piaccia, e se siete particolarmente sensibili i fazzoletti potrebbero servire :3
Un bacio, Miri <3


Capitolo 16 (MIRI)
Il respiro del passato.


Hariel

Brancolavo nel buio.
L’oscurità mi circondava, mi stringeva tra le sue esili braccia, mi cullava con sé come una mamma faceva con i propri bimbi quando erano irrequieti.
- Le origini della tua famiglia provengono dalla vecchia Europa.
La voce di Azazel ruppe il silenzio, mentre le mie unghie squarciavano il primo strato di pelle dei miei palmi.
- I Sangreal sono la tua famiglia… E’ il tuo vero nome.
Respirai piano, concentrandomi.
- Hariel Sangreal.
Liberai dal dolore le mie mani, e mi concentrai su tutto ciò che mi circondava, su tutto ciò che riuscivo a percepire con tutti i miei sensi, tranne la vista e il gusto.
Ciò che il mio udito riusciva a percepire era il silenzio, rotto ogni tanto dai respiri di Azazel, e da qualche sua parola in una lingua incomprensibile, il mio olfatto sentiva un forte odore di zolfo, mischiato a uno strano odore di ferro, mentre le mie dita percepivano solo i piccoli squarci che mi ero inflitta sui palmi, e il gelido pezzo di ferro sulla quale ero sdraiata.
- Che cosa vedi?
Mi concentrai, fin quando sulle mie palpebre chiuse non si disegnarono delle immagini, in movimento continuo, proprio come la scena di un film:
“La domestica chiamò la ragazza seduta sul letto che coccolava dolcemente la sua bambina.
Quest’ultima sonnecchiava tra le sue braccia, con un piccolo sorriso sulle labbra.
- Lasciala andare Sophia! Loro stanno arrivando!”

Il mio respiro si bloccò per un attimo, io avevo già visto quella donna…
Azazel mi afferrò una mano, e mi disse di calmarmi e rimanere concentrata.

- “ Magari potrebbero fare un’eccezione alla regola, non credi?
La donna alzò lo sguardo verso la domestica, senza aggiungere altro se non qualche lacrima.
- Spero che tu scherzi! Ti avevo avvertita, io! Voi non siete sposati, questa bambina è figlia del Demonio. Ormai non c’è nessuna speranza per lei!
Disse la domestica, senza pietà. Sophia si alzò, guardando il pargoletto che sonnecchiava nel suo dolce abbraccio.
- Cosa pensi che dovrei fare? Lasciarla morire qui? Così? Non dovrei dare importanza alla sua vita, come a ogni altra creatura di questo universo?”

- Oh, mio Dio, è orribile!
Gridai stringendomi di più alla piattaforma di ferro. Volevo scappare, andare via. Quelle strane immagini mi stavano distruggendo lentamente, come un fuoco che ardeva e che consumava, pian piano, ogni parte di me.
- No, non deconcentrarti, Hariel. Devi sapere, devi dirci dov’è lei.
Sentivo la voce di Azazel sempre più vicina, il suo respiro era una carezza dolce sulla pelle.
- Concentrati, bambina, concentrati…
Respirai, all’inizio molto lentamente, poi sempre più rapidamente, sentendo l’oscurità portarmi via con sé.
- Non lasciare che l’Oscurità prendi il sopravvento, vinci contro il Passato, Hariel.
E forse Azazel non lo sapeva, ma il Buio aveva già vinto…

“Il vento batteva contro il mio corpo, in ogni angolo; l’aria gelida proveniva da tutti gli angoli, senza però spostarmi, come se il mio corpo non esistesse affatto.
- C’è una famiglia verso la ventisettesima strada, loro potrebbero aiutarti.
Guardai avanti a me; attraverso una finestra riuscivo a vedere la scena.
Sophia guardò la sua creaturina, stesa sul letto, che sbuffava nel sonno.
- Ma se dovessero scoprirti, TU SCAPPA. O questo diventerà l’Inferno, Sophia.
La donna si voltò verso la domestica, poi annuì lentamente.
- Ed ora va!
La domestica prese la bimba e gliela portò correndo. Quando la piccola fu tra le braccia della sua mamma, la donna spinse le due verso la finestra socchiusa.
- Mi dispiace non potervi lasciare uscire dalla porta, ma se vi vedessero sarebbe la fine.
Sophia aprì la finestra e guardò avanti a sé. Per un attimo ebbi l’impressione che stesse guardando proprio me, ma mi resi conto di essermi sbagliata solo quando il suo sguardo guardò verso il basso.
Immediatamente seguii i suoi occhi, e mi sentii sprofondare.
Sotto i miei piedi non vi era nulla, nessun appoggio, né piattaforme, solo aria e almeno una ventina di metri tra me e la strada.
- Ehi, che cosa vuoi fare?
La donna mise un piede sul cornicione, poi l’altro, e respirò con forza, stringendo la bambina contro il proprio petto. E poi allungò la gamba verso il vuoto.
- No! NO!
Scattai in avanti, ma lei cadde, senza controllo. Sbarrai gli occhi, gridando.
E poi il bianco…”

- Che cosa vedi?
Il mio cuore batteva a mille nel petto, il respiro però era calmo e controllato.
- Bianco.
Stesi le braccia lungo i fianchi, riuscivo quasi a sentire ancora un leggero vento sfiorarmi i capelli.
- E poi?
Inizialmente non risposi, era tutto così monotono, fin quando una piccola particella di rosso non colpì lo schermo bianco davanti alle mie palpebre, scandendo pian piano delle figure lunghe e sottili: piume.
- Sono ali.
Un grido mi scosse, ma non aprii gli occhi. Sentii un gemito, un lamento, e poi un pianto di bambino. Respirai con più intensità, e strinsi gli occhi.
Pian piano il rosso invase ogni cosa, silenziosamente, mentre delle figure iniziavano a prendere vita nel racconto muto che si svolgeva nelle mie palpebre.
E poi apparve la strada, grigia e solitaria, mentre una grande abbondanza di macchine faceva avanti e indietro per la città. E poi una fila di grandi abitazioni…
Le scartai tutte, una alla volta, fin quando poi non mi fermai davanti alla grande casa dalle pareti lisce e di colore chiaro.
- È casa mia.

“Sophia sentiva i loro passi, lo sapevo, ma imperterrita continuava a correre, trascinandomi con sé come un’ombra. Bussò alla porta più e più volte, ma non aspettò risposta per entrare in casa e correre verso la camera da letto. Lo stretto corridoio buio provocò in me uno strano senso di dolore quando, come un fulmine di ricordi, mi ritrovai a dover affrontare precipitosamente la realtà di qualche ora prima: le pareti squarciate, tinte del sangue della mia famiglia.
Ancora una volta mi ritrovai a gemere, fuori da quella che, diciassette anni dopo sarebbe divenuta la mia stanza.
- NO!
Un grido mi riportò nella mia nuova realtà, facendomi sussultare.
Corsi all’interno della stanza dove Sophia, piangendo, stringeva il corpo insanguinato e senza vita di una donna sulla cinquantina.
- No!
Sophia la strattonò, la mosse con violenza, portando le mani sul suo petto, per rianimarla.
E poi un suono, un lamento, un pianto leggero che non rese né me né Sophia tristi, semmai il contrario. Un respiro di sollievo allietò l’animo della madre che, abbassandosi sotto il letto, riuscì a tirar fuori una parte di culla dove, ben coperta, la bimba mi guardava con i suoi lucenti occhi azzurri. Sì, ne ero certa: la bambina che Azazel voleva che io trovassi, mi guardava, in qualche modo mi percepiva.
- Che cosa c’è, mmh? Che cosa vedi?
Sophia si voltò, afferrando la bimba in braccio che, sbrodolando sulla giacca verde della mamma, mi indicava con il dito cicciotto, guardando fisso nei miei occhi.
Nella mia mente realizzavo solo il colore turchese ed immensamente calmo dei suoi occhi.
E poi il nero. Invase ogni cosa, a partire dalle sue pupille fino a tutto il resto, ingoiando con sé ogni cosa. L’oscurità mi scosse, vibrando tutt’intorno. Il buio, il vento, il gelo. I borbottii sommessi del vento portavano con sé la puzza di cibo, di plastica e di abbandonato.
Un odore che conoscevo benissimo e che riempiva le narici con violenza, che mi riportava in un luogo che ricordavo ma che, per tutta la vita, avevo provato a dimenticare inconsciamente.
Battei le ciglia e mi ritrovai nella strada buia di fianco a casa mia.
Una strada senza via d’uscita. L’odore dei rifiuti mi stordiva per quanto penetrante.
Sophia correva, rapida come il vento, reggendo il fagotto bianco tra le braccia. Quando mi passò davanti notai la V rovesciata disegnata sulla giacca dal sangue di un’emorragia mai curata. E poi la persi di vista. Ma dov’era? Cos’era successo?
Degli uomini mi raggiunsero, e uno di loro si fece avanti, snudando la pistola.
- Ehi! No! NO!
Gridai, ma lui non mi sentì.
- Mi dispiace, angioletto.
E il proiettile partì, lasciando nell’aria il mio grido disperato e il suono dello sparo che bucava l’aria. Passò contro il mio corpo evanescente e lo trapassò, senza alcun dolore.
E un gemito.
Mi voltai, terrorizzata.
Sophia indietreggiò, le mani vuote; la bambina non c’era, era scomparsa.
La giacca verde si tinse di un rosso acceso, violento.
- NO!
Sophia cadde a terra, pesantemente, scivolando con la schiena contro la parete. Una morte lenta e dolorosa, era questo che le attendeva? No, non potevo permetterlo, non potevo lasciarla morire.
Non lei, non ora.
Dovevo concentrarmi, dovevo salvarla.
Mi inginocchiai di fianco a lei, tentando si spostare la giacca per controllare la gravità della ferita, ma le mie mani trasparenti la oltrepassarono, facendomi gemere dall’angoscia.
Dovevo concentrarmi, concentrarmi, concentrarmi!
- Devo essere davvero morta allora… Già vedo gli Angeli!
Sussultai quando sentii la sua voce, così vicina, così vera e reale.
- Io non sono un Angelo, e tu non stai morendo.
Sussurrai e, per la prima volta, lei si voltò a guardarmi dritto negli occhi, facendomi sussultare ancora una volta. Mi vedeva, mi aveva sentito!
- Adesso apri la giacca, vediamo un po’.
Sophia seguì il mio comando e la sbottonò, senza aggiungere altro. La maglia era intrisa di sangue, il quale continuava a inumidire il tessuto una volta compatto.
Mi scappò un gridolino e mi tappai immediatamente la bocca con la mano.
- Non ti preoccupare, so che cosa succederà adesso… La Luce Bianca, un Coro di Angeli, no? Tutta apparenza e poi mi lanceranno di Sotto.
Sentii le lacrime bagnarmi gli occhi mentre, con un gesto rapido, la ricoprivo con la sua giacca verde.
- Tu non morirai… Tu…
Mi stesi al suo fianco ed avvertii il suo profumo di rose misto a quello del suo sangue.
- Invece sì, ma va bene. Lei sarà salva.
Accertatosi che gli uomini fossero scomparsi, si voltò verso i secchi dell’immondizia più in profondità.
- Brava piccola.
Sospirò leggermente, socchiudendo gli occhi. Strinsi gli occhi per non piangere ancora.
- Fidati, lei te ne sarà grata.
Dopo averlo detto, la guardai e lei mi sorrise.
- La bambina è stata data in affidamento, sono stata costretta a distruggere la nostra famiglia e gliene ho procurata una nuova. Ed ora anche questa l’ha abbandonata. Non credo che mi vorrà mai bene, e non so se mi amerà mai come potrebbe mai con una qualsiasi altra mamma che la terrà in braccio.
Chiusi gli occhi e, per la prima volta, le strinsi la mano.
- Le dirai che l’ho amata tanto?
Sophia singhiozzò ed io strinsi gli occhi, sentendo le palpebre inumidirsi.
- Lei lo sa già.
Riuscii a gemere, per sentire poi la sua mano stringermi con ancora più intensità.
- Glielo dirai?
Annuii lentamente, sentendo la sua mano farsi sempre più fredda e pallida.
- Canta per lei, Sophia, lei ti sentirà. E si ricorderà di quanto l’hai amata.
Sussurrai e lei iniziò a canticchiare una vecchia ninna nanna. E poi il silenzio.
- Lo ricorderà.
Aprii gli occhi, sentendoli bruciare per lo sforzo.
- Lei ti ama, Sophia.
La guardai, ma lei non mi rispose. Le presi entrambe le mani e me le posai sul viso, leggermente, sentendo la sua pelle inumidirsi delle mie lacrime.
- Io ti amo, mamma!
Scoppiai in lacrime e gemetti, piegandomi su me stessa.
Dopo qualche minuto ritrovai la calma, silenziosa ed assassina.
Lasciai le sue mani, e gliele posizionai sul petto, una sopra l’altra.
La guardai un’ultima volta, alzandomi da terra. Mi allontanai lentamente, in lacrime che, senza smettere, continuavano a rigarmi il viso. Il mio passo era leggero, silenzioso.
E poi presi a correre, raggiungendo il fagotto bianco tra le buste nere.
Era come se fossi riuscita ad avvertirla, lì, solo per un attimo.
Sapevo che c’era, che era salva.
La bimba mi sorrise, allungando le braccia verso di me.
- Ciao Hariel.
Gemetti ponendole il mignolo della mia mano destra. Lei rise e batté le ciglia scure e lunghe.
- Sono Hariel.”

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Capitolo 18
*** Cap.17: Il miracolo compiuto ***


Capitolo 17
Il miracolo compiuto (DI ENGI)

Mikael
L’impresa più ardua non fu convincere Gabriel che Hesediel fosse vivo, ma trovare un valido veicolo che potesse trasportarci. Io ero troppo spossato per correre, Gabriel non sarebbe mai riuscito a portare due persone in una volta e Hesediel non era sicuramente d’aiuto in quello stato.
Mi guardai intorno. Ci trovavamo nel mezzo di un quartiere di case completamente distrutte, ridotte in cumoli di macerie tutti uguali e accalcati tra loro. Le strade erano squarciate da profondi solchi che sembravano portare direttamente agli Inferi. O era quello l’Inferno? 
- Se anche la trovassimo, come faremo a metterla in moto?
Domandò Gabriel, dimostrandosi un vero e proprio pivellino nel campo del furto.
- Pff, si vede proprio che sei di famiglia ricca.
Feci, ruotando gli occhi al cielo.
Gabriel mi guardò, aspettando che rispondessi seriamente. Ricambiai con un’occhiata accigliata e un sorrisetto mi comparve sulle labbra.
- Lascia fare a me, tu non preoccuparti.
Lui non disse nulla e, a quel punto, fu Hesediel a prendere la parola con un lungo gemito dolorante. Le sue palpebre chiuse ebbero un leggero tremito, ma non si aprirono.
Gabriel lo sorreggeva, tenendosi uno dei bracci del giovane dietro al collo.
Mi bloccai davanti ad un furgoncino color ruggine. Sembrava in buone condizioni, a parte per lo sportello del guidatore completamente assente, le ruote anteriori sprofondate nel fango, un fanale mancante e l’altro rotto.
- Non sembra male.
Dissi, più per convincere me stesso che Gabriel, anche perché lui non sembrava molto contento della scelta.
- Sicuro che questo catorcio sia funzionante?
- Lo scopriremo subito.
E così dicendo mi sollevai le maniche blu della maglietta e mi avvicinai al camioncino, pronto ad azionarlo o, almeno, a provare ad animarlo.
Mi chinai sotto il volante e iniziai a trafficare con i vari fili, alla ricerca di quelli che avrebbero fatto si che l’auto prendesse vita.
- Ah!
Gridai, improvvisamente.
- Cos’è successo?
Trasalì Gabriel, gli occhi spalancati dalla sorpresa.
- Ho preso la scossa!
Mi portai il dito alla bocca.
- Idiota, mi hai fatto prendere un colpo!
Sbottò l’Angelo, innervosito dal mio comportamento.
Ridacchiai e tornai al lavoro, pronto a sentire il rombo del motore dentro le orecchie. Fallii per altre tre o quattro volte, ma, senza perdermi d’animo, alla fine riuscii a farla partire. 
Mi raddrizzai, soddisfatto, sia dal mio successo e sia dall’espressione di tacita sconfitta di Gabriel.
- Ora dobbiamo solo levarla dal pantano.
Dissi tutto sorridente, come se questo fosse il lavoro più facile del mondo, come se l’avessi già fatto. Gabriel mi lanciò un’occhiataccia.
- Quindi?
- Tu ingrani la marcia e schiacci l’acceleratore… io spingo dietro.
Gabriel non disse niente e ubbidì, salendo sul furgoncino.
Mi sistemai dietro al veicolo, posando le mani contro il porta bagagli senza copertura.
Il cielo si faceva sempre più chiaro, man mano che l’alba cedeva il posto al mattino. Si poteva già udire il cinguettio di qualche uccellino, che esprimeva tutta la propria felicità per il nuovo giorno ormai arrivato.
- Dai gas.
Spinsi l’auto con forza e, mentre questa faceva un passo avanti uscendo dalla piccola fossa, tutto il fango sul quale le ruote scivolavano si sparse sulla mia maglietta, compresi collo e volto.
Gabriel lasciò l’acceleratore e si affacciò dall’auto e, vedendomi, scoppiò a ridere.
Imprecai e, stringendo i denti, salii in macchina, dicendogli chiaramente di levarsi dal posto del guidatore. Ingranai la prima e, schiacciando con foga l’acceleratore, partimmo.
- Non ti sembra di andare troppo veloce?
Domandò Gabriel, preoccupato nel vedere quei pochi alberi superstiti ai lati della strada sfilare così velocemente davanti ai suoi occhi.
Hesediel disse la sua gemendo, quasi con rabbia. Gli lanciai un’occhiata. Era proprio messo male: la pelle macchiata da lividi violacei, il sangue che gli usciva dal labbro inferiore e dal naso, probabilmente rotti entrambi, l’intero corpo percosso da brividi di freddo e il sudore che gli imperlava la fronte erano chiari segni di febbre.
Provai ad accelerare ancora, ma non ci fu molta differenza da prima. Gabriel non disse nulla a riguardo e si mise a guardare fuori dal finestrino, perso nei suoi pensieri.
- Tu sei l’Arcangelo.
Senza rendermene conto le parole mi rotolarono fuori dalle labbra, senza controllo, come se volessi liberarmi da una simile verità. Gabriel continuò a guardare fuori dal finestrino, ma sapevo che mi aveva sentito.
- Gabriele.
E lui si voltò, gli occhi accesi da una strana scintilla.
- Tu sei dell’ordine delle Virtù, invece.
Fece, come per ribattere a ciò che avevo appena detto io, come per proteggersi dalle mie parole, per spostare il riflettore da lui a me.
Tenni gli occhi sulla strada, anche se il rischio di fare un incidente era quasi nullo.
- Ero.
Precisai, contro la mia volontà. Non adoravo parlare di me stesso, del mio passato, con altre persone, specialmente con altri Angeli.
- Perché la tua aura è così potente?
La voce di Gabriel suonava distante anni luce. Evitai i suoi occhi, costringendomi a guardare l’asfalto. Non volevo che mi leggesse dentro, non lo permettevo a nessuno da anni, perché con lui doveva essere diverso?
- Non ho idea di quello che stai dicendo.
Mi limitai a ribattere, sperando di chiudere il discorso, ma Gabriel continuò:
- La tua energia… Insomma è strana.
Quello che diceva non aveva alcun senso. Ma sapeva cos’ero in quel momento? 
- Non capisco come possa essere possibile.
Fece tornando a guardare fuori dal finestrino, come cercando una risposta in mezzo alle macerie delle abitazioni e dentro le crepe della strada.
Non capivo, proprio non ci riuscivo. Cos’aveva la mia energia di anomalo?
Il viaggio verso la Resistenza si fece più silenzioso che mai. In poco tempo le case martoriate vennero sostituite dai tronchi degli alberi e l’asfalto squartato della strada dal terreno selvaggio di un sentiero, che portava dritti dentro il bosco.
Lasciammo Hesediel nelle mani di Caliel, che lo portò in infermeria, e subito dopo Gabriel scomparve, come fumo nell’aria, lasciandomi solo.
Mi guardai intorno, alla ricerca di qualcuno che potesse farmi compagnia. Chiunque. Ma non c’era anima viva nel corridoio. Sospirai e andai nella mia stanza per farmi una doccia.
Provai a lavare i vestiti nel lavandino, usando il sapone per le mani al posto del detersivo; e debbi ammettere che pulire le macchie di fango non fu per niente un lavoro facile, ora potevo dire di sapere cosa patissero ogni volta le madri con i propri figli.
Aprii la finestra e posai i capi sulle ante, lasciando che il sole, con i suoi raggi di giorno in giorno più caldi, li asciugasse lentamente.
Mentre aspettavo mi legai un asciugamano ai fianchi e mi stesi sul letto.
Lia
Raggiunsi la sua camera e avvicinai le nocche al legno della porta, ma, ripensandoci, abbassai la mano.
Guardai a terra e mi morsi con forza il labbro inferiore.
Dai bussa, mi incitai.
Respirai profondamente e pensai a tutte le sue possibili reazioni: avrebbe potuto aprire la porta e dirmi che era occupata in quel momento, oppure aprirla e richiuderla immediatamente senza lasciarmi il tempo di dire o fare nulla, o sorridermi e invitarmi ad entrare, come se ci conoscessimo da una vita, sennò anche non aprire affatto.
Strinsi occhi e pugni.
Non mi costa nulla provare.
Non mossi un muscolo. Braccia e gambe erano paralizzate, completamente immobili.
Aprii gli occhi e guardai la superficie liscia della porta.
Ok, pensai, conto fino a tre poi busso, senza pensarci ancora.
Presi a contare, senza nemmeno accorgermi di smettere completamente di respirare.
Due.
Sperai con tutto il cuore che la porta si aprisse da sola, per propria volontà, ma subito ci ripensai: meglio di no, vedrebbe una pazza impalata all’entrata della sua stanza.
Tre.
Bussai, prima che cominciassi a pensare.
Sentii dei passi avvicinarsi e poi arrestarsi.
La porta si spalancò.
Sulla soglia comparve Gabriel con i suoi occhi luminosi come l’oro, che mi guardavano, prima duramente, tanto che temetti mi avrebbe urlato di andarmene, ma poi, il tempo che mi identificasse, si ammorbidirono.
Continuai a guardarlo negli occhi, rapita, con in sottofondo il battito accelerato del mio cuore, che parve impazzito. 
Aprii la bocca ma le parole rimasero incastrate tra le corde vocali.
Gabriel mi guardò confuso, evidentemente si era accorto del mio tentativo fallito.
- Devi dirmi qualcosa?
Domandò, provando a sbloccarmi.
- Lo siento, pensé que era la habitación de Hariel.
Dissi velocemente, quasi sovrapponendo una parola all’altra.
- Scusami, ma io non capisco.
Fece lui, scuotendo il capo. 
Legai le mie dita tra loro, cercando una domanda che potesse riuscire a capire facilmente. Lui intanto continuò a fissarmi, apprezzando il mio sforzo.
- ¿Dónde está Hariel?
Provai anche a parlare più lentamente possibile e il viso di Gabriel s’illuminò, ma poi si incupì. Abbassò lo sguardo a terra.
- Non lo so…
La sua voce era fievole, quasi che pensai che non avesse parlato affatto.
- Cómo .. ¿Qué ha sucedido?
Il ragazzo si affacciò fuori dalla porta e guardo chi ci fosse nel corridoio.
- Vieni, entra.
Mi prese per il braccio e chiuse la porta alle nostre spalle, lasciando fuori il resto, escludendo chiunque, oltre noi, abitasse in quel posto.
- Penso l’abbiano rapita.
I miei occhi vagarono lungo le pareti bianchissime, identiche a quelle della mia stanza, poi si fermarono su Gabriel, il cui sguardo era perso nel vuoto, pieno di dolore e rabbia.
- ¿Sabe quién puede haber sido?
La domanda mi sfuggì di bocca e, come mi aspettavo, Gabriel non ci capì nulla.
- Sai… chi?
Fu tutto ciò che riuscii a dire, ma a lui sembrò bastare.
- No.
Disse con occhi lucidi. Strinse con forza le mani in pugno, tanto che i palmi divennero bianchi.
Trattenni il fiato e feci in modo che allentasse la stretta, convinta che si sarebbe ferito con le proprie unghie se avesse continuato. Il contatto della mia pelle con la sua mi provocò una cascata di scosse.
Il mio sguardo corse al comodino vicino a uno dei letti singoli. Sopra c’era un braccialetto, una semplice catenella argentata con il ciondolino di una croce.
Se Gabriel disse qualcosa allora non lo sentii, perché riuscivo solo a percepire la strana forza che proveniva dal piccolo oggetto.
Senza dire nulla mi avvicinai al comodino e lo afferrai.
Un uomo dagli occhi giallo-ocra e la strana pupilla parlava con qualcuno, diceva di chiamarsi Azazel, poi riflessa nei suoi occhi vidi Hariel, che gridava tra le visioni che la tartassavano. Sentii un nome, sussurrato all’orecchio, come un segreto: Hariel Sangreal.
Infine, prima che tutto svanisse, comparve Hariel per intero, che sorrideva, ma non guardava verso me. In braccio teneva una bambina dagli occhi celesti.
“Ciao, Hariel” disse la ragazza, rivolta alla bambina che le restituiva allegramente l’identico sguardo celeste, “Sono Hariel”.
Sbarrai gli occhi, stupita, e osservai il braccialetto che tenevo sul palmo della mano.
- Cosa hai visto?
Domandò Gabriel, avvicinandosi velocemente.
Mi voltai verso di lui.
- Ho visto Hariel.
Dissi senza sbagliare nemmeno una parola, senza mischiare nemmeno con un po’ di spagnolo. Parlai come se quella fosse la mia lingua da sempre.
- Com’è possibile?
Mi portai una mano alla bocca, sconvolta.
- Dove essere il bracciale.
Disse Gabriel, avvicinandosi ancora. Me lo prese dalle mani e lo esaminò.
- Parla.
Tornò con gli occhi nei miei.
- ¿Qué puedo decir?
Strabuzzai gli occhi e Gabriel sorrise, orgoglioso di sé per essere arrivato così in fretta alla risposta.
Me lo restituì.
- Indossalo e spiegami ciò che hai visto.
Fece, guardandomi mentre allacciavo il bracciale al polso.
Controllai che non mi fosse troppo largo e poi gli raccontai tutto. Lui mi ascoltò, impassibile; solo quando nominai Azazel i suoi occhi s’illuminarono di una strana fiammata.
- Partiamo immediatamente.
Disse appena finii di parlare.
- Cosa? Ma se non sappiamo nemmeno dove si trovi!
Esclamai, sperando di riportarlo a ragionare.
- Invece sì.
E la fiamma nel suo sguardo divampò, diventando un vero e proprio incendio.

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Capitolo 19
*** Cap.18 Per dirti ciao ***


Ok, prima di leggere spero che vi vada di vedere questo mio piccolo appunto, per informarvi che, se siete particolarmente romantiche, potrebbe scapparvi una lacrima perché io, quando l'ho scritto, ho pianto tipo fin quando Engi non mi ha dato il capitolo 19! Vabbè, detto questo spero che il capitolo 18 vi piaccia, perché, francamente, se ci fosse una top ten tra i capitoli di cui sono più soddisfatta, questo sarebbe tra i primi 3 (ma non vi rivelerò mai quale numero muahahahahahah) :P Buona lettura :D -Miri


Capitolo 18:
Per dirti “ciao” (DI MIRI)

Hesediel

Controllo.
Ne perdevo sempre di più ogni secondo che passava.
Nell’oscurità della mia mente, sentivo solamente i miei occhi formicolare, fastidiosamente, come incollati, impossibili da aprire. Più mi sforzavo, più capivo quanto inutile fosse quel mio vano tentativo. Il mio corpo non rispondeva ai miei comandi, non mi permetteva di fare ciò che volevo. Sentivo delle voci intorno a me, forse Angeli, forse Umani, o forse il Male che aveva portato Hariel via con sé senza permettermi di proteggerla.
- Quanto sei sciocco.
Una voce famigliare mi colpì i timpani, come mille vetri che s’infrangevano, uno dopo l’altro, in una coda infinita. Mi voltai di scatto, il mio primo gesto volontario da quando mi trovavo in quel luogo buio e senza fine. Non c’era nulla a parte me lì dentro.
- Sono qui!
Quella frase fu seguita da un fischio ironico che provocò in me un insano ringhio.
Mi voltai ancora una volta, nella direzione dalla quale proveniva il suono, ma, ancora una volta, il buio mi accolse. Un minuto buono e il silenzio ritornò ad impossessarsi della mia mente.
Dovevo controllare le mie sensazioni.
Dovevo spegnere le mie paure.
E poi la mia figura, che brillava nell’oscurità, rompendo il nero e il silenzio, mi sorrise.
Ma che diavolo stava succedendo?
- Ciao, Hesediel.
Doveva essere un incubo, certo, non c’era altra spiegazione.
Oppure uno specchio, ma le figure proiettate in esso non parlano per loro volontà!, pensai sentendo il cuore esplodere all’interno del petto.
- Ti ricordi di me?
E poi un flash: le fiamme che variavano dal rosso, all’arancione e infine al giallo, bruciando tutto ciò che avevano intorno, creando cenere grigia e triste ammassata sul terreno.
Riuscivo ad avvertire le loro grida, le loro richieste d’aiuto strillate o sussurrate a fior di labbra tra un gemito e l’altro. E poi Lui. Lo avvertivo dentro.
L’oscurità. La mia parte cattiva.
- Tu…
Spalancai gli occhi e indietreggiai rapidamente. E ora riuscivo a vederlo con il suo viso, la sua vera essenza, il suo corpo umano. Per tanto tempo avevo voluto dargli un altro viso, un altro nome, ma era sempre stato quello il suo volto, i suoi occhi di ghiaccio, pari al suo cuore gelido.
- Hesediel…


Continuammo a guardarci per svariati minuti, senza pronunciare parola. Hesediel, o almeno la parte malefica di me, mi guardava con insistenza, con un sorriso beffardo disegnato sulle labbra.
Lui si avvicinò, con passo felpato e lento, senza rompere il silenzio che si era formato tra di noi.
- Pensavi di poterla proteggere, non è così?
E poi un soffio di vento gelido mi colpì, come una secchiata d’acqua gelida nel bel mezzo dell’inverno. Lui era sparito.
- Hesediel!
Mi voltai di scatto verso dove avvertivo la voce femminile.
Hariel mi guardava, gli occhi pieni di lacrime, mentre Lui le sfiorava lentamente i capelli dorati.
Le sue dita le toccavano delicatamente il collo, facendola rabbrividire e piangere.
- HARIEL!
Scattai in avanti, con furia, ma qualcosa mi frenò; la scintillante lama di cristallo sfiorò la gola morbida e bianca di Hariel, che gridò. Un sottile taglio le si disegnò sul collo, simile ad un filo rosso strappato via da una maglietta sfilacciata.
- Hesediel… Aiutami!
I suoi occhi luccicavano di lacrime, mentre tentava con tutte le forze di sfuggire dalla pazzia del mio subconscio malefico.
- Ti prego…
Il suo era un gemito sussurrato tra i denti. Lui mi sorrideva, con odio, i suoi occhi sprizzavano orgoglio per sé stesso e per le sue gesta. Ringhiai con forza, chiudendo gli occhi, e corsi in avanti, verso di loro, più veloce che potevo.
- Hariel!
La voce dello sconosciuto mi costrinse ad aprire gli occhi, rapidamente, voltandomi di scatto.
Era una voce rauca, eppure sottile e bella da sentire. Nello stesso tempo in cui avrei potuto definirlo un perfetto estraneo, il mio cuore palpò la famigliarità del suo tono.
E la sua voce mi aprì davanti un nuovo mondo, una luce chiara che distruggeva tutto il buio dentro di me; non ero più nell’oscurità.
Non ero più l’oscurità.


- Hariel! Sono tornato!
Quel nome mi fece sussultare, ma mi trattenni dal non gridare, anch’io, quel nome.
Quando la luce scomparve, lasciando trasparire solo il giusto necessario, riuscii a vedere due figure, all’interno della stanza, dapprima sfocate e confuse, poi sempre più nitide e reali, fin quando non scorsi la figura eterea di Hariel.
Mi dava le spalle con naturalezza e riuscivo a intravedere soltanto la lunga treccia bionda che spezzava il nero del suo vestito dal retro in pizzo.
Non sembrava spaventata, né ansiosa o agitata. Stava bene e questo mi fece scoppiare il cuore di gioia. La seconda figura si fece spazio più lentamente sulle mie retine, come un disegno della quale curavo ogni singolo dettaglio, molto lentamente. Sussultai nel rapporto, appena compreso, della sua voce con il viso pallido, punteggiato della corta barba incolta.
- Azazel…
Sussurrai quel nome, come una salvezza o, forse, come la peggior condanna.
I suoi occhi risplendevano di uno strano, insolito, colore dorato, sfumato nel cremisi.
- ZIO!
Gridai, scattando in avanti. Azazel si era avvicinato alla ragazza, sfiorandole con un gesto dolce, il mento, rialzandolo per guardarla dritta negli occhi.
Ma erano strani, diversi da qualsiasi altro sguardo avessi mai avuto l’occasione di guardare. Occhi caprini, gialli come il sole che entrava furiosamente dalla finestra della piccola stanza di forma rettangolare.
Nessuno si voltò a guardarmi, come se non esistessi affatto in quella realtà nella quale mi trovavo solo come uno spettatore.
- Hariel!
Gridai, ma nessuno parve sentirmi. Chiusi gli occhi mettendo le mani davanti al viso per ritornare alla mia oscurità. Qualsiasi cosa mi fermasse, era fredda e liscia, come una parete di vetro che mi divideva da quel mondo in cui non ero ben accetto.
- Che cos’è quello?
Lasciai la fronte spiaccicata contro il vetro ma riuscii ad alzare abbastanza lo sguardo per vedere Hariel abbassare lo sguardo verso le mani di Azazel, che si muovevano rapide per chiudere in un sacchetto di stoffa qualcosa di circolare e brillante.
- È la salvezza, Hariel.
La sentii indietreggiare, confusa, il suo passo scricchiolava lungo il parquet lucido.
- Salvezza?
La sua voce risuonava sincera, fresca come una folata di vento in un’arida giornata d’estate.
Lei sorrise piano, guardando Azazel; e pensare che qualche ora prima guardava proprio me con quello stesso sguardo pieno di gioia, vita, umanità…
- È la speranza. La speranza di un mondo migliore, di una vita migliore, di avercela almeno una vita! È questa la salvezza, la speranza che ognuno di noi porta proprio qui.
Azazel le afferrò la mano e gliela spinse fino all’altezza del cuore.
Ed io riuscivo a sentirlo: un cuore pulsante, vivo, elettrizzato e terrorizzato.
Il suo cuore, il suono più bello che le mie orecchie potessero sentire.
- È amore e… Compassione. È la voglia di essere vivi, Hariel. Questa è salvezza.
Lei alzò lo sguardo lucido verso i suoi occhi, senza alcun timore. Gli strinse la mano, poi lo abbracciò, come se fossero amici di vecchia data che si incontravano dopo una lunga lite.
Azazel la allontanò, dopo un minuto buono, e le afferrò entrambe le mani mettendo, poi, sui palmi il sacchetto di stoffa argenteo.
- È per te. So che ne farai buon uso.
Hariel alzò lo sguardo e sorrise. E quelle sue labbra rosee, piegate abbastanza per riempire quelle sue splendide guance arrossate, fu un grazie silenzioso.
O almeno Azazel la pensava come me, perché le mise una mano sui capelli dorati, facendola scivolare fino alla guancia, sorridendo.
- Ciao splendore.
E la baciò sull’attacco dei capelli con dolcezza. Hariel sorrise, ma era sull’orlo delle lacrime.
Lei chiuse un attimo gli occhi ma solo il tempo di riaprili che lui era già un’ombra della storia di quella stanza. Quando la porta si chiuse al suo passaggio, Hariel scoppiò a piangere, stringendo i denti e tirando i capelli con le dita, tra cui alcune ciocche bionde sfuggite alla lunga treccia. Tratteneva le lacrime, provocando grandi respiri che muovevano ritmicamente il suo petto.
- Ehi, no…
Quasi dimenticai la barriera invisibile che ci teneva separati quando, con tutto il cuore, desiderai poter andare più avanti di quel metro cubo che mi avevano concesso.
Iniziai a sussurrarle parole di conforto, come se lei potesse avvertirle, farle sue e calmarsi.
Ma questo non accadde.
Misi una mano avanti a me, sulla piattaforma liscia che mi divideva da lei, e Hariel si voltò verso la mia direzione, senza però guardarmi dritto negli occhi. Prese a camminare, lentamente, e si avvicinò talmente tanto che riuscii ad avvertire il suo odore di pulito.
La ragazza si fermò, improvvisamente, a meno di un respiro da me. Appoggiò la testa sulla superficie fredda e liscia e respirò profondamente, lasciando che due grosse lacrime le rigassero il viso. E poi allungò la mano in direzione della mia, avvicinandola così tanto da riuscire ad avvertirne il calore.
- Ti prego non piangere…
Appoggiai la fronte in corrispondenza della sua e respirai piano. Chiusi gli occhi ma riuscii ad avvertire le sue labbra tremolare lentamente.
- Non è possibile.
La sua voce era un sussurro tremante mentre il suo respiro mi colpiva il viso con delicatezza, come un vento caldo e travolgente. Riuscivo a sentirla, era vera, reale, ed era proprio davanti a me.
E se, per la prima volta, mi ero sentito come se non ci fosse niente di più importante della vita che stavo lasciando, allora sperai.
Sperai che Hariel tornasse a casa, tra le braccia di suo fratello, sperai che la guerra terminasse prima ancora di cominciare, che lei stesse al sicuro nella sua bella casa.
E sperai che lei si innamorasse, follemente, pazzamente, più che poteva, che si sposasse e avesse avuto tanti splendidi bambini, che avrebbero avuto gli occhi della loro mamma, e una vita bellissima, come quella che volevo per lei.
Ma, intanto, sperai di poterla toccare, e stringere a me.
Amarla fino al mio ultimo respiro, fino all’ultimo battito.
- Sei qui…
Hariel mi strinse le mani, la barriera che ci allontanava era del tutto scomparsa.
Ero stanco, scosso dalla violenza con la quale la mia realtà si era fusa alla sua.
Sentivo come se dentro di me qualcosa si stesse spegnendo, una candela soggetta al sospiro del vento… Lei piangeva con forza, mentre le sue dita, intrecciate alle mie, rubavano ogni forza, tremando sempre più velocemente contro di me. Sentii il suo sguardo cercare il mio, ma io non la guardai. Sarebbe stato troppo straziante vedere i suoi occhi mentre la mia forza svaniva piano dal mio sguardo, mentre la mia pelle impallidiva e il mio calore scompariva pian piano dal mio corpo.
Sarebbe stato troppo, per entrambi.
- Perché non vuoi guardarmi?
Singhiozzò lei, allungando la mano sulla mia guancia. Ebbi un tremito, poi strinsi gli occhi, costringendomi a non aprirli per nessuna ragione, anche se quella fosse stata Hariel.
Lei era la mia ragione…
- Potrai mai perdonarmi?
Sussurrai e lei lasciò cadere la mano lungo il fianco.
- Per cosa?
La sentii sorridere, imbarazzata. Non mi serviva guardarla per sapere ogni sua singola mossa.
La conoscevo, ormai, più di me stesso. Sentii una violenta fitta al petto, e strinsi i denti dal dolore.
- Hesediel!
Lei scattò in avanti, ma fui io a indietreggiare.
- Ti prego, guardami!
Hariel fece un passo avanti e mi prese il viso tra le mani.
- Perché sono un debole, non sono riuscito a portarti in salvo.
Solo allora aprii lentamente gli occhi, per incontrare quelli azzurri e terrorizzati di lei.
- Sei… Gelido.
La ragazza mi afferrò il polso per poi lasciarlo cadere pesantemente contro di me.
- Il tuo cuore batte così piano e…
Le sue dita scivolarono sulle mie labbra, lentamente, mentre si alzava sulle punte dei piedi per avere il mio viso ancora più vicino.
- I tuoi occhi…
Le afferrai entrambe le mani, spostandole dal mio viso, e stringendole con delicatezza.
- Tu… Tu…
Hariel aveva gli occhi grondanti di pesanti lacrime salate, che le solcavano il viso rapidamente, come una battaglia per quale di esse arrivasse prima. Le lasciai libera una mano, ma solo per cancellarle le lacrime che avevano bagnato il suo splendido volto.
- Lo sapevi già, nel profondo di te. Sarebbe successo prima o poi.
Era così bella, anche quando piangeva, anche quando il suo cuore si spezzava piano. Riuscivo ad avvertirlo dalla sua espressione, scossa, distrutta. La stessa espressione che aveva adottato nel momento esatto in cui si era resa conto che i suoi genitori non avrebbero aperto mai più quella porta.
- No, no, no! Tu non puoi…
Le misi una mano sulla guancia, ma questa volta lei non pianse. Le sorrisi, piano, come la prima volta che le avevo sorriso furtivamente. Ma questa volta lei non ricambiò.
- Tu non puoi abbandonarmi… Tu non puoi farlo, non anche tu!
Hariel gemette piano e tentò di allontanare lo sguardo dal mio. Si liberò dalla mia presa, e mi diede le spalle. Scattai in avanti, con la paura che una nuova barriera potesse dividerci prima ancora che potessi dirle ciò che davvero importava, perciò la bloccai per un polso, rigirandola verso di me. Le scostai una ciocca di capelli biondi scomposti dal resto della treccia, e avvicinai il viso al suo, baciandola piano, lentamente.
Perché io la amavo, e quel mio sentimento non l’avrebbe abbandonata mai, nemmeno dopo la mia scomparsa. Un bacio, solo uno.
Era l’unico modo per dirle addio…

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Capitolo 20
*** Cap.19 : La Luce tra le mani del Peccato ***


Capitolo 19:
La Luce tra le mani del Peccato (DI ENGI)

Lia
 
Gabriel camminava davanti a me, assorto nei propri pensieri. Il suo passo era leggero e sostenuto, come quello di un predatore che insegue la propria preda, ignara di tutto.
Gli uccelli cinguettavano, il vento s’infilava tra le ultime foglie degli alberi e i rami ormai rinsecchiti, e il sole brillava in mezzo al cielo, tingendo ogni cosa con la sua luce malaticcia, interrotta alle volte dai minacciosi nuvoloni.
I miei, di passi, invece risultavano goffi sul terreno ricoperto dal tappeto di foglie marroni, che si lamentavano del mio peso, lanciando allarmi alle loro sorelle, avvertendole che avrebbero avuto la stessa sorte. Strinsi i denti e provai a posare i piedi negli spazi vuoti, dove era visibile solo la terra, ma il mio tentativo fu reso vano da una coppia di sassi, che riuscirono a farmi perdere l’equilibrio e a farmi cadere in avanti, contro Gabriel.
Mi aggrappai alla sua maglietta e riuscii a evitarmi la caduta. Lui si voltò, sorpreso, e i nostri occhi s’incontrarono. Arrossii violentemente, come se mi avessero preso a schiaffi sulle guance, e mi raddrizzai, pulendo gli abiti da della polvere inesistente.
- Stai attenta, ok?
Il suo sguardo dolce mi sfiorò il viso, che si riscaldava ogni secondo di più, aumentando di conseguenza la tonalità di rosso che lo tingeva.
Annuii e, dopo che Gabriel mi ebbe lanciato un’ultima occhiata, proseguimmo.
Rinunciai completamente a provare a non far rumore o a compiere movimenti sgraziati, e, nel silenzio più possibile che riuscii a mantenere, continuai a seguirlo, guardando ogni tanto dove mettevo i piedi.
- Ma non potremmo tipo… tele-trasportarci?
Domandai, sovrastando i rumori del bosco con la mia voce.
- No. Forse volare sì, ma rischiamo di essere intercettati.
Rispose lui, senza nemmeno voltarsi. 
- Parli degli altri Angeli, vero?
- Non solo.
Lo fissai, interrogativa, e Gabriel sembrò percepire la mia muta domanda.
- Demoni.
La sua voce era un suono secco, simile a un ringhio interiore, che scaturiva gradualmente dal suo animo. Quella parola mi terrorizzò. Non avevo mai visto dei Demoni, ma la sola idea mi metteva inquietudine, ansia. Improvvisamente mi sentii circondata, priva di protezione. Era come se ci stessero seguendo, come se qualcuno camminasse proprio dietro di me, in fila, uno dopo l’altro.
Gabriel continuava ad avanzare, non provando le stesse emozioni che invece vorticavano e scombussolavano la mia mente.
- Per loro è più semplice rintracciarci, sai?
Fece lui, sempre senza guardarmi, come se fosse la sua schiena a parlare.
- I Demoni, intendo.
Precisò, non sentendo nient’altro che il mio respiro uscire dalle labbra.
- E perché?
Chiesi, sentendomi quasi obbligata a porgli quella domanda. M’immaginai un lieve sorriso incurvargli le morbide e chiare labbra, leggero come il battito delle ali di una farfalla che si posa su un fiore.
- Perché Noi siamo il loro contrario. La Nostra energia è diversa, pura. Loro la sentono con maggiore intensità perché la temono e, in qualche modo, devono evitarla.
Evitai una buca e rimasi in silenzio, pensando a quanto mi avesse appena detto.
- Noi siamo la Loro rovina, e Loro la nostra.
Concluse. 
Uno stormo di uccelli si librò in volo, facendo sì che le ultime foglie del ramo su cui era posato precipitassero a terra, tremanti e sfinite.
Guardai in quella direzione, spaventata dal rumore improvviso di rami scossi e ali sbattute contro il vento.
Gabriel si voltò. I suoi occhi dorati, scuriti da un cupo bagliore, si fissarono nei miei, agitandomi e rendendomi impossibile sostenere tale sguardo.
- Sei spaventata?
La voce piatta rimbombò tra i tronchi freddi degli alberi.
Rialzai gli occhi e riuscii a guardarlo, ma vedevo tutto tremolare, come se fosse in atto un terremoto.
- No.
Mentii. Gabriel sorrise risollevato dal mio falso coraggio.
Arrivammo a un ponte completamente ricoperto di erbacce e rampicanti, che giravano attorno all’intero corpo; entrambi i fianchi erano percorsi da una successione di piccole piattaforme semicircolari, che facevano assumere alla struttura un’aria futuristica. Era posizionato su un enorme spacco della terra, una profonda divisione dello stesso mondo, come se due diversi individui avessero litigato e poi deciso di fare uno a meno dell’altro.
Strano…, pensai, osservando il ponte. Mi fermai e, posando un piede su una delle piattaforme, guardai giù. 
Profondo.
Sembrava non aver fine, non possedere un luogo di arrivo.
Affascinata mi sporsi ancora di più, convinta di aver visto qualcosa nell’ombra.
Il rumore di qualcosa che cedeva mi mise in allarme, ma non abbastanza in tempo perché potessi reggermi a qualcosa. Le mie mani vorticarono nell’aria, ma non trovarono alcuna superficie.
Guardai il fondo dello squarcio. Adesso sarebbero usciti degli scheletri urlanti, che mi avrebbero preso per i polsi e trascinata giù, portandomi nel loro mondo? Esisteva un mondo di morte e dolore? Perché, dopotutto, la tortura più grande era continuare a soffrire anche dopo la morte; continuare a vivere nell’agonia sapendo che non ci sarebbe stata una fine.
Una forte presa mi circondò il polso sinistro e, a quel punto, gridai, chiudendo gli occhi, spaventata da ciò che avrei potuto vedere: occhi neri di buio, anch’essi senza fondo, come il posto da dove provenivano.
Non potevo far altro che urlare e tentare di sottrarmi a quella stretta, ma sembrò tutto inutile. E poi una voce. Familiare e sconosciuta allo stesso tempo, che… imprecava?
Trovai la forza per aprire gli occhi e guardare in faccia le Tenebre… e non vidi nulla, niente a parte la stessa identica crepa che finiva chissà dove.
Venni tirata indietro e i miei piedi si posarono stabilmente al terreno, felici di non rischiare più di abbandonarlo.
- Sarebbe più semplice aiutarti a non cadere nel vuoto se non ti dimenassi.
Sbottò la voce di poco prima.
I miei occhi affondarono in quelli verdi di Mikael. Le pupille esageratamente dilatate avevano inghiottito le iridi, rendendo gli occhi quasi del tutto neri.
Anche Gabriel era sorpreso, che si era appena girato, come se fosse appena emerso dai suoi pensieri.
- Cosa ci fai tu qui?
Domandò Gabriel, guardando il contatto tra la mano dell’Angelo biondo e il mio polso.
Mikael sorrise, per niente divertito.
- Faccio ciò che dovresti fare tu.
Gabriel allora alzò lo sguardo e incontrò quello ammonitore dell’altro; non rispose e decise di distogliere gli occhi dorati e posarli su un punto nel vuoto.
Mikael si voltò nuovamente verso di me.
- Tutto ok?
Domandò, esaminandomi dalla testa i piedi e, di conseguenza, provocandomi un lungo brivido.
- Sì.
Dissi, liberando il mio polso con uno scatto veloce.
Il ragazzo assottigliò gli occhi e, dopo qualche attimo, guardò in direzione di Gabriel, che era tornato a fissarci.
- Ci stavi seguendo?
Chiese Gabriel, improvvisamente preoccupato per qualcosa.
- Non proprio.
Mikael, intuendo il pensiero di Gabriel, gli rifilò una risposta poco precisa, ma abbastanza perché quella semplice preoccupazione divenisse una vera e spaventosa certezza.
- Ecco, complimenti! Ora ci troveranno!
Sbraitò l’Angelo; non l’avevo mai visto tanto furioso, anzi non l’avevo proprio mai visto arrabbiato, eppure Mikael non sembrò sorpreso dalla sua reazione.
- Allora penso sia il caso di riprendere il cammino, non credi?
Gabriel digrignò i denti, infastidito al solo udire la voce dell’altro.
Mikael fece spallucce e, superandolo, proseguì nella direzione che stavamo seguendo.
Guardai Gabriel che lo rincorse con lo sguardo, poi, dopo aver lanciato una maledizione al ragazzo, lo raggiunse.
Il sole cominciava già a scendere dal proprio posto nel cielo, triste e lento nella sua discesa in mezzo alle montagne, che si stagliavano all’orizzonte della mia visuale.
I due giovani non si parlavano da ore ormai, troppo presi a farsi il muso a vicenda e a fingere di non conoscersi.
Osservandoli notai le differenze superficiali che li distinguevano: Gabriel era di una decina di centimetri più basso da Mikael, però, per compensare, la sua costituzione lo faceva apparire più muscoloso dell’altro, che, essendo anche più magro, possedeva un fisico più asciutto e slanciato, tutti elementi che lo facevano apparire aggraziato e agile, come ne aveva dato la prova all’allenamento. 
Alzai la mano destra e guardai il braccialetto di Hariel. 
Andai a sbattere contro Gabriel. 
- Oh, scusa…
Feci, senza accorgermi che era stato lui a bloccarsi all’improvviso.
- Che succede?
Mikael si era girato a guardare Gabriel, ancora immobile, con il volto ricoperto da una maschera di ansia.
- Sono vicini. Riesco a…
E si voltò indietro, interrompendo le proprie parole. I suoi occhi spalancati vagavano oltre le mie spalle, esaminavano i dintorni, alla ricerca del pericolo imminente.
- Dobbiamo muoverci.
Disse poi, tornando a camminare velocemente, senza controllare che gli stessimo dietro.
- Quanto sono distanti da qui?
Chiese Mikael, anche lui come me accelerando il passo.
- Poco.
Si limitò a rispondere l’altro ragazzo. Nella sua voce si poteva sentire il risentimento che provava nei confronti di Mikael, per la situazione in cui ci aveva cacciati. E sembrò anche lui accorgersene.
Tacque, non sapendo cosa dire o fare per rimediare. Vedevo come si sentiva pesare la colpa sulle spalle. Un nuovo peso che si sommava a dell’altro, molto più antico e ancora presente. Ero tormentato, riuscivo a sentire la sua anima gridare, straziata dai ricordi, dal presente e dal pensiero del futuro che la attendeva. Per essa non esisteva altro che agonia e silenzio.
Mikael
Mi stava guardando. Sentivo i suoi occhi puntati addosso, che mi leggevano l’anima, incuranti che io lo sapessi o meno. Non riuscii a voltarmi. Non potevo guardare quel suo sguardo senza subire poi una pugnalata al petto. 
- Smetti di fissarmi?
Non potevo sopportare oltre. Lei tornò al presente, come se avesse ricevuto un forte schiaffo in pieno viso.
- In genere faccio ciò che mi pare.
Sorrisi alla sua risposta già pronta.
- Ah, allora hai imparato a parlare, finalmente, complimenti!
La sfottei io, contento di aver trovato un modo per distrarmi.
- Grazie.
Fece lei, senza dare peso alle mie parole. Ancora non mi girai per vedere la sua espressione, ancora non ero pronto per affrontare i suoi occhi.
Il cielo coperto dalle spesse nuvole, che avevano coperto il debole sole, si stava scurendo. Sarebbe stata una notte senza stelle e priva anche di luna. Le nubi si sarebbero tinte di oscurità e avrebbero reso tutto più buio e impenetrabile.
- Continueremo a camminare anche al buio.
Disse Gabriel, degnandoci di farci udire la sua voce.
- Bello.
Commentai.
- Ma non sarà pericoloso?
Chiese la ragazza, il rumore dei suoi passi risuonava dietro la mia schiena.
- Sì, molto più di quanto non lo sia alla luce del sole, Lia.
Gabriel non intendeva fermarsi. Voleva ritrovare sua sorella, e ci sarebbe riuscito, anche a costo di camminare per interi giorni.
Un rumore quasi impercettibile mi fece girare. Incontrai gli occhi sbarrati dal timore di Lia, ma non era stata lei a provocarlo. 
- Correte!
Gli alberi presero a scorrere veloci ai lati della mia visuale. Tutti stavamo scappando dal pericolo, che ci seguiva con altrettanta velocità.
Il Male si stava avvicinando.
Superai Gabriel e, guardando sempre dritto dinnanzi a me, gridai agli altri di seguirmi. Li avrei portati via dai Demoni, non potevo lasciare che succedesse anche questo, dovevamo trovare Hariel.
Lia
Non ero abbastanza veloce, non quanto loro. Pur essendo un Caduto ormai, non ero ancora in grado di sfruttare tutta la mia velocità.
Li persi di vista dopo qualche minuto. Davanti a me non sentivo nulla, ma dietro di me sì. Sentivo delle forze oscure avvicinarsi e dividersi in più direzioni.
Il cuore cominciò a pompare il sangue con maggiore intensità. Il respiro era spezzato e accelerato. Brividi di freddo e terrore fusi tra loro mi percorrevano braccia e gambe, e una vocina dentro di me mi urlava di scappare, correre il più lontano possibile da quei mostri, senza curarmi di dove sarei arrivata, ed io eseguii alla lettera. Strinsi denti e pugni, e provai ad aumentare la velocità.
Continuai a correre, ininterrottamente. Non m’importava la destinazione.
Mi ritrovai a seguire il corso di un ruscello e, dopo qualche istante, stavo già saltando giù, lungo la cascata che si fondeva con il fiume che poi proseguiva verso destra e s’inseriva nuovamente in mezzo ad altri alberi.
Seguii ancora la direzione delle sue acque, finché questo non s’interruppe a formare un piccolo laghetto.
Il cielo era ormai completamento scuro, non avevo la minima idea dell’ora che potesse essere o da quanto tempo stessi correndo, sapevo solo che erano non troppo lontani da me, e che mi stavano seguendo. Ero io la preda.
Altri passi si aggiunsero ai miei, proprio alle mie spalle.
Mi si bloccò il respiro e, proprio in quell’istante, presi una storta in una buca. Caddi rovinosamente a terra. Diversi rametti mi s’impigliarono tra le ciocche di capelli e pezzetti di foglie rinsecchiti mi entrarono in bocca.
Il cuore sembrò arrivare al termine della sua corsa. Lo sentivo caldissimo, tanto che temetti si sciogliesse. Avevo i polmoni doloranti e gonfi. Sentii le lacrime salirmi agli occhi. Mi tremavano le mani e i miei pensieri cominciarono a fondersi tra di loro, anch’essi bollenti come lava.
Un’enorme ombra si stagliava nel buio della notte e gravava su di me, tremenda.
Un grido soffocato mi sfuggì dalle labbra e arretrai sulle braccia, strisciando tra le foglie. Piccoli occhi scarlatti sembrarono prendere vita, come se fino a quel momento il Demone mi avesse inseguita senza il bisogno di guardare.
La voce graffiante che scaturì dalla sua gola sembrava lo stridore delle unghie o del gessetto troppo lungo su una lavagna. 
Cercai di sfuggirle, ma la mia schiena andò a contatto con la superficie legnosa della corteccia di un albero. Ero finita. Non avevo più scampo.
Il Demone disse qualcosa in una lingua a me sconosciuta e si avvicinò, minaccioso e pieno di divertimento sadico.
I suoi occhi rossi scomparvero e tornai a guardare solo la sua sagoma d’ombra.
Gridai ma non riuscii a chiudere gli occhi.
Era ormai a due passi da me, quando un’altra sagoma scura si inserì in mezzo a noi, facendomi come da scudo.
- Non la toccherai!
E quelle parole furono accese da una luce chiarissima, quasi fastidiosa agli occhi. Il volto bianco del Demone comparve nel buio: possedeva occhi da squalo e denti altrettanto affilati, la testa pelata era segnata da cicatrici miste a tatuaggi tribali, e il naso non era altro che un buco al centro del viso.
Un urlo acuto gli uscì dalla gola. 
Anche il viso di Mikael fu illuminato dalla luce che usciva dalla sua mano. Sembrava che la pelle fosse più chiara, aveva l’espressione indecifrabile, le labbra lasciavano scoperti i denti bianchi stretti tra loro e gli occhi erano fissi su quella creatura, che si contorceva dal dolore e tentava di chiudere gli occhi, dai quali usciva il fumo.
Sembrava un Angelo vendicatore, arrivato a impartire la punizione che quel Demone si meritava per tutti i peccati che lo avevano reso ciò che era.
L’odore di zolfo, che non avevo percepito fino a quel momento, si accentuò, insieme all’intensità della Luce che bruciava la pelle appesantita dal peccato del Demone.
Le grida isteriche della creatura rimbombarono tra gli alberi, propagandosi poi per tutto il bosco.
Strillò, ancora e ancora, poi la potenza della Luce divenne tanto grande che il Demone fu scaraventato contro il tronco di un albero.
Quello fu il suo ultimo grido di dolore soffocato, poi il suo corpo si abbandonò contro il terreno, morto.
Mikael rimase ancora qualche attimo così, il braccio teso in avanti, la mano spalancata con la Luce che ancora bruciava sul suo palmo, il respiro veloce che gli sfuggiva dalle labbra e gli occhi spalancati.
Poi la luce scomparve e il buio, geloso, riprese tutto il proprio spazio.

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Capitolo 21
*** Cap.20: Alla fine c'è sempre l'alba. ***


Capitolo 20:
Alla fine c’è sempre l’alba. (DI MIRI)

OK, CAPITOLO STRAMEGA IMPORTANTE. FORSE E' QUELLO PER CUI HO PIANTO DI PIU', QUINDI VABBE' >_< IO PIANGO SEMPRE PER TUTTO!
SPERO VI PIACCIA! :p
AVVISO: COLPO DI SCENAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA <3 


Hariel
Corsi verso lo specchio, le mani che stringevano i bordi dorati di quest’ultimo, e presi a scuoterlo gridando il suo nome con forza. Ma Hesediel non comparve, la sua presenza era del tutto scomparsa. Continuai a scuoterlo, ringhiando con forza, mentre le lacrime mi rigavano il viso sempre con più rapidità. E poi la porta si aprì, rompendo le mie grida e portando con sé il silenzio.
- Tu devi essere Hariel. 
Era una ragazza sulla ventina, i capelli neri raccolti in una crocchia e vestita di nero, forse era la divisa da cameriera. I suoi occhi erano di un rosso scuro, come il sangue rinsecchito, tendente al marrone. 
- Dov’è Azazel? 
La guardai sorridermi, esponendo un’affilata fila di denti bianchissimi.
Mi strizzò l’occhio, poi mise una mano sul fianco, senza smettere di sorridere.
- Non sono tenuta a rivelarti la sua posizione in questo momento.
Scattai in avanti, precipitosamente, tanto da rimanerne sbalordita. La ragazza mi guardò, stupefatta, poi si sfilò dalla crocchia una penna, lasciando che i capelli cadessero rapidamente sulla schiena, poi si avvicinò alla scrivania di legno chiaro. Afferrò uno dei tanti fogli bianchi messi in fila uno sopra l’altro fino a formare un rettangolo piuttosto grande. 
Prese a scrivere, dicendo ad alta voce i suoi appunti. 
- La Prescelta sviluppa una velocità ulteriore a quella umana, molto più sviluppata e silenziosa. 
La guardai, stringendo i denti con forza. Perché lo stava facendo? Cosa voleva da me? Dov’era Azazel? Sentii il mio respiro diventare affannoso mentre mi cancellavo le lacrime dal viso, come se fosse un gesto troppo pesante da sopportare.
- Sei tu…
Gemetti, mettendomi una mano sulla fronte sudata. La stanza vorticava intorno a me. 
Non la guardavo in viso, ma sapevo che stava sorridendo. Ero stanca, soffocata dal dolore e dalle ombre che si stavano iniettando intorno a noi, sulle cime degli alberi nel bosco, nella grande torre in cui ero rinchiusa, in quella stanza. 
- È colpa tua se mi sento così.
Strinsi lo stomaco, attorcigliato, con la mano e i denti fin quando non li sentii stridere tra loro, rumorosamente. 
- Instabile. 
Commentò lei, scrivendo ancora sul foglio. Ringhiai e tentai di fare un passo avanti, invano. 
Caddi a terra e la guardai. Respirai piano e mi concentrai. 
Dovevo farcela, potevo attaccarla e vincere. 
- Rabbiosa, infuriata senza un motivo. 
Strinsi i pugni contro il parquet gelido. 
- Smettila. 
Il Demone mi lanciò un’occhiata, quasi annoiata, e poi mi sorrise. 
I suoi occhi si illuminarono di una luce scarlatta, mentre mostrava i suoi denti bianchissimi e affilati come coltelli. Era un animale affamato, una bestia inferocita.
Ed io la preda. 
- La Prescelta mostra chiari segni di pazzia… 
E poi scattai in avanti, prendendola per il colletto della divisa e alzandola in aria. 
- HO DETTO SMETTILA! 
La lanciai contro la parete che reggeva lo specchio e ringhiai con forza, per poi scoppiare in lacrime quando il vetro si distrusse in mille pezzi, e con lui la possibilità di rivedere Hesediel. 
Respirai con talmente forza che i miei respiri parvero lame nei miei polmoni. 
Mi guardai le mani, sconvolta. Ma cosa avevo fatto? E come?
Il Demone però, al contrario di ogni mia aspettativa, respirava ancora e non ci mise molto a rialzarsi da terra per fulminarmi con i suoi occhi color sangue.
D’un tratto scomparve dalla mia visuale per poi ritrovarmela davanti al viso, con un sorriso sghembo che le distorceva le labbra. La ragazza si avvicinò di un altro passo, tanto da farci dividere solo dal suo respiro, afferrandomi per il collo e stringendo in pugno l’altra mano. 
- Addio, bellezza! 
E mi spinse lontano. Sentii il mio peso distruggere la vetrata trasparente della finestra, e poi il mio intero corpo andare in collisione contro il vento, mentre un forte gemito pieno di terrore e morte mi riempiva le orecchie, e non capii se fosse il mio o no.
Il tempo sembrò fermarsi durante la caduta. E per la prima volta capii cosa provavano gli Angeli nella mia stessa situazione, solo che io non avevo il peso delle ali soccombere su di me. 
Allungai un braccio al cielo e respirai piano. Dalla densa rete di nuvole nere, qualcosa brillò nell’oscurità. 
- Hesediel… 
Sussurrai piano e una lacrima volò lontana dal mio volto, come la pioggia che ritornava indietro nella tempesta. 
- Sto venendo da te. 
Quelle parole mi uscirono sforzate dalle labbra, come se potessi davvero pensare che lui fosse andato via senza di me, senza nemmeno salutarmi. 
Chiusi gli occhi e lasciai che un flebile raggio di luna mi circondasse. 
- Sto morendo…
Lia
"Sto morendo." 
Sussultai violentemente e strinsi con forza gli occhi e i denti, bloccando del tutto il mio cammino. Di conseguenza Mikael e Gabriel si voltarono, ma solo negli occhi dorati di quest'ultimo trovai una grande preoccupazione; Mikael mi lanciò un'occhiataccia, scocciato dalla nostra momentanea pausa. Mise le mani sui fianchi e questo gesto mi ricordò mio padre la notte in cui ci abbandonò dopo aver furiosamente litigato con mia madre.
- Che cosa c'è ancora?
Gli lanciai un'occhiata, pronta a raccontare, a gridare tutto ciò che mi passava per la testa, eppure non trovai nessuna parola in grado di esprimere tutta le mie sensazioni.
Aprii la bocca, ma da lì uscì solo un lieve respiro, nient’altro. Mi sentii avvampare per la vergogna; ero così inutile e debole. Spostai lo sguardo su Gabriel, convinta che, in quel momento, lui mi stesse guardando nello stesso modo in cui avevo colto Mikael a guardarmi. Ma mi sbagliai; Gabriel mi sorrise, gli occhi pieni di una gratitudine fin troppo lontana dalla mia comprensione.
Mi prese per le mani e le strinse forte. 
La rabbia che avevo visto nei suoi occhi poco prima si trasformò in una strana luce, piena di felicità, eppure io non capivo. Gabriel si voltò verso Mikael, ancora confuso sul perché del suo comportamento. 
- L'ha trovata.
Mikael sgranò gli occhi e girò la testa nella mia direzione. Tremavo, e sapevo benissimo il perché.
La voce della ragazza mi tuonava nella mente, con forza eppure fragile come un fiocco di neve misto alla pioggia d’inverno. 
- Su, allora, dov’è?
L’Angelo mi sorrise, senza smettere nemmeno un minuto. Mi costrinsi ad abbassare lo sguardo, e fu allora che sentii i suoi stessi occhi riempirsi di una tristezza infinita.
Non volevo guardarli, non potevo. 
- Gabriel… 
La voce di Mikael ruppe l’imbarazzante silenzio che si era creato tra noi.
Divise le nostre mani, delicatamente, poi la mia testa prese a girare. 
- C’è qualcosa che non va con Hariel. 
Gabriel scattò in avanti, ma Mikael lo frenò, mettendo un braccio tra noi due. La mia testa venne afflitta da un improvviso e strano dolore, eppure non riuscivo a farlo mio, a far sì di mascherarlo. 
Non ci riuscivo. 
- Lia, ascoltami.
Mikael si mise tra me e Gabriel, che strinse le mani in pugno, senza parlare. 
L’Angelo biondo mise le mani sulle mie spalle e mi guardò, respirando piano. Sapeva di buono, di fresco, di vero e di altamente distruttivo. Non c’era niente come i suoi occhi che mi ispirasse emozioni tanto contrastanti, come se la mia mente mi chiedesse di correre ma mi ordinasse, al tempo stesso, di restare. Ma poi i suoi occhi mi abbandonarono, scivolando sul mio polso, lì dove la catenella argentata reggeva strettamente la piccola croce.
- Va tutto bene. Questa non sei tu. È Hariel. 
Mi afferrò con delicatezza il braccio e mi sfilò il braccialetto, facendolo cadere a terra. 
- Ma sei impazzito? E’ l’unico modo per trovarla, e tu lo sai!
Mikael si voltò di scatto verso Gabriel, che aveva finalmente dato voce ai suoi pensieri. Mi guardai il polso nudo, finalmente libero da ogni oppressione o dolore. 
- Sta zitto! Non vedi che le stava facendo del male?
L’Angelo biondo si rivoltò verso di me, e mi sorrise, stranamente cordiale, ma cosa gli prendeva ora? Non riuscivo a comprenderlo. I suoi cambiamenti di umore nei miei confronti riuscivano a procurarmi ogni volta violente crisi nervose, ma non quella volta.
- Va tutto bene? 
Lo guardai attentamente, ogni muscolo del suo corpo era teso, le sue mani mi stringevano le spalle, le sue labbra erano schiuse, i suoi occhi seri e dolci. 
Annuii piano, silenziosamente, poi il mio sguardo sorvolò fino a Gabriel che, dietro Mikael, serrava i pugni e guardava me con aria distrutta, come se avesse appena perso di nuovo qualcuno. 
Quella visione mi fece così male che tornai immediatamente nello sguardo di Mikael che, anche se poco tempo prima mi avrebbe fatta sentire un’emerita idiota, era in quel momento l’unico sguardo in grado di farmi respirare liberamente, senza alcun peso. 
Ma poi arrivò la dura domanda:
- Adesso dimmi: dov’è Hariel? Dove l’hai trovata?
Alzai lo sguardo e lo allontanai da loro, per spostarlo su qualsiasi cosa avessi mai visto prima.
Oltrepassai Mikael, e Gabriel, e poi persino gli alberi. 
- No, non sono stata io a trovarla. È lei. 
Il mio sguardo era fisso sull’immensa torre che era appena comparsa dal nulla, come se fosse solo una finzione prodotta dalla mia mente. 
Mikael si voltò verso la direzione che anch’io stavo guardando. 
Allora non era una finzione, la vedevo davvero.
E se era vero, anche la piccolissima figura, simile ad un pallino in lontananza che cadeva dalla parte più alta della stanza era reale.
- Lei ci ha trovati.
Mikael
Avevo il cuore a mille. Lo sentivo esplodere, bombardare ogni centimetro di pelle alla sua altezza, come se fosse intento a squarciare e a cadere fuori dal mio petto. 
Correvo, rapido, contrastando il vento, contrastando il mondo, e il Destino. 
Il suo. 
Saltai su uno degli alti rami di un albero che non riuscivo a riconoscere, poi su un altro, e un altro ancora, fin quando non mi trovai nei pressi della grande Torre Bianca. 
E mi lanciai. Le mie dita strusciarono a contatto con il materiale freddo e innaturale della torre, e iniziai a scivolare sempre di più lungo di essa. 
- HARIEL!
La ragazza era a qualche metro più in alto di me, ma continuava a precipitare, più lentamente rispetto a quanto avessi mai immaginato. Come se qualcosa non avesse abbastanza forza per fermarla, ma abbastanza per rallentare la sua fine. 
Ma non si voltò a guardarmi, la forza del vento che la attraeva a terra era più forte della mia voce.
Sentivo le dita consumate, il sangue che usciva da esse e che colorava verticalmente lungo un angolo della Torre. E fu allora che la vidi: una fessura, poco più giù di lì, in direzione di Hariel. 
Quando fu a meno di qualche centimetro da me, saltai, mentre il suo corpo andava a scontrarsi con il mio, prendendo, improvvisamente, velocità. Mentre cadeva, le afferrai la mano e gliela strinsi con forza, mentre con l’altra mi reggevo alla fessura sabbiosa. Feci forza sul mio braccio e la tirai su, incitandola a stringermi le braccia contro il collo, per reggersi con maggiore stabilità. 
Hariel eseguì tutto silenziosamente, senza aggiungere nulla se non una tirata di naso. 
E poi una strana sabbia bianca mi sfiorò le dita, che presero a bruciare con forza. Strinsi i denti e lasciai che i brividi di dolore scendessero fino ai piedi, mossi solamente dal forte vento. 
- Lasciamoci cadere. 
La voce di Hariel mi arrivò stranamente secca, decisa. Mi voltai a guardarla, ma lei aveva lo sguardo vuoto, distante. 
- Che cosa? Non ci pensare neanche! Non sai neanche cos’ho dovuto inventarmi per non farti sbriciolare al suolo come una bambola di porcellana!
Gridai, involontariamente, verso di lei. Anzi, l’intenzione c’era tutta, in realtà. Come poteva darmi un ordine del genere dopo che quasi perdevo le dita per salvarle la pelle? 
- Io dovrei salvarti, non permetterti di farti ammazzare!
Hariel mi lanciò un’occhiataccia e mostrò, muovendo le labbra rosee, i denti bianchissimi.
Nei suoi occhi azzurri vidi la tragedia che provava dentro, come se tutto ciò che stesse dicendo, lo dicesse per farmi un piacere, non per sé stessa. Come se fossi io a non capire.
- È l’unico modo!
Gridò guardandomi seria. E se fosse stato davvero così? Se fosse stato davvero l’unico modo?
- Ne sei sicura?
Hariel si limitò ad annuire. Respirai piano e la guardai. La sua espressione non mutò: sembrava una bambina fin troppo cresciuta, eppure spaventata del suo futuro o del suo presente che ben presto, notando la notevole distanza che ci divideva da terra, sarebbe diventato un passato comune.
- Al mio tre; uno… due… 
Hariel affondò la testa contro il mio petto e riuscii a sentirla respirare contro il tessuto della mia maglietta. Dovevo trovare il coraggio, dovevo trovare la forza, la volontà…
Dovevo trovarla per lei, per onorare la mia promessa.
- TRE! 
La Torre Bianca era così tremendamente alta che sembrava ci volesse un'eternità prima di raggiungere il terreno erboso del bosco che lo circondava. Questo mi ricordò la Caduta; gli Angeli venivano scagliati con furia fuori dalle porte del Paradiso e poi lanciati ancora più dolorosamente sulla Terra. Una Terra mortale, terra di peccatori e di condanne. Una terra dal quale nessun Angelo rimaneva indenne. Nemmeno quando chi, nel peccato, trovava la Salvezza in uno sguardo, in una confidenza come un bacio, in un figlio come in una migliore amica. 
Alissa mi dispiace, pensai mentre una lacrima mi rigava il viso per poi sorvolare nell'Immenso, come il bacio più leggero lasciato su una guancia della propria amata.
Non avevo potuto salvare lei quel giorno, ma avrei salvato Hariel in questa vita e in altre mille se ne avessi avuto l'opportunità. 
Le somigliava così tanto che guardarla così, in lacrime contro il mio petto, faceva male come perderla per una seconda volta. 
Ma io non l'avrei permesso. 
Non ancora.
Mai più.
Era questa la mia nuova promessa.
Gabriel
- Hariel!
Sentii la gola bruciare più che mai in quel grido straziato. 
Spiegai le ali ma, appena feci un passo avanti, queste si richiusero violentemente, affondando nella carne e sfiorando le ossa. 
Mi stavo consumando, come una candela accesa da ore, ogni secondo, ogni minuto che passava senza sapere che mia sorella, nonostante l’adozione, nonostante le bugie, e nonostante tutto, stesse bene, al sicuro tra le mie braccia. 
- Oh, mio Dio, Gabriel!
Lia alzò un dito in alto, verso la grande Torre comparsa dal nulla e trattenne un grido. 
Il piccolo puntino che era riuscita a intercettare, pian piano divenne la figura lontana dei corpi di Mikael e di Hariel che si schiantava, sempre più rapidamente a terra, senza che io potessi far niente per evitarlo. Tentai nuovamente di spiegare le ali, ma queste continuarono a strappare la pelle senza però farmi alzare nemmeno di un centimetro dalla terra ferma. 
FA QUALCOSA!
Mi voltai verso Lia che, a sua volta, mi guardava con gli occhi pieni di terrore. Ma io non potevo far niente, il terrore mi paralizzava, ma non era per questo che non riuscivo a muovermi. 
C’era qualcos’altro che mi bloccava, come se la Torre Bianca non mi volesse far avvicinare, come se qualcuno non volesse che io fossi lì per salvarla. 
E poi l’oscurità, accompagnata dal forte rumore di ali che sbattevano, oscurò ogni passo avanti a noi, e noi non potemmo far altro che alzare lo sguardo, confusi.
Le enormi ali nere, le più grandi che io avessi mai visto, sfrecciarono veloci nel cielo, come frecce lanciate dal miglior arciere, e poi altre, in fila, uno dopo l’altra, fino ad oscurare l’intero cielo. 
- Che cosa sono quelli?
Allarmato, misi un braccio davanti a Lia, spingendola indietro fino a gli alberi che riportavano nel bosco. La feci fermare lungo un grande tronco di un albero e le tappai la bocca, mimando tra le labbra la parola “Demoni”. I suoi occhi si spalancarono rapidamente, poi spostò lo sguardo da me fino alla Torre, non troppo lontana dalla nostra posizione. Vidi uno dei Demoni sfrecciare avanti, verso le figure di Hariel e Mikael, che precipitavano sempre più rapidamente dalla Torre. E poi uno dei due si staccò dall’altro, ma eravamo troppo lontani per poter vedere chi dei due avesse preso l’iniziativa. 
- NO! 
Scattai in avanti, fino a uscire allo scoperto, e poi sentii un grido, lontano, forse di Hariel che, a pochi metri da terra fu afferrata da due paia di mani pallide, illuminate da una strana luce che spezzava l’oscurità del cielo. Il mio cuore smise di battere per qualche secondo mentre la ragazza veniva condotta fino a terra con delicatezza infinita. 
- Hariel!
La ragazza si guardava intorno, confusa e comprensibilmente sconvolta. I suoi occhi erano carichi di lacrime che le arrossivano gli occhi ogni secondo in più che passava.
- Dov’è Mikael? Dov’è? 
Nessuno però le diede una risposta. Nella notte il suo respiro spaventato era tutto ciò che riuscivo a sentire. Corsi verso di lei e lei si voltò a guardarmi, gli occhi spalancati, le labbra schiuse e tremolanti. Gli ultimi passi furono lenti, pesanti, pieni di rabbia repressa e paura terribile di averla persa. Avrei voluto gridarle contro, arrabbiarmi con lei, divenire furioso come non mi aveva mai visto ma, invece di fare tutto ciò, respirai profondamente, fermandomi giusto davanti a lei, senza parlare.
- Gabriel! 
Sembrava volesse aggiungere dell’altro, ma non glielo permisi. 
La avvolsi nel mio abbraccio e le premetti la fronte contro la sua, respirando piano. Sentii qualche lacrima rigarmi il volto, rapidamente, bruciando come fuoco liquido. Hariel tremò solo un attimo, avvertendo le mie lacrime sulla pelle e, in silenzio, così come si era avvicinata, si allontanò. Fece un passo indietro, e poi un altro. 
- Che cosa c’è? Stai bene?
Domandai, con un filo di voce. Lei scosse il capo, e scoppiò a piangere, come non la vedevo fare da tempo ormai. 
- Non sei felice? Siamo riuscirti a portarti indietro, ora sei salva!
Ma poi mi guardò, con gli occhi di quella che non poteva più essere vista come una bambina. Respirò piano: una, due volte, poi si cancellò le lacrime dal viso serio. 
- Non sono più la ragazzina che deve essere salvata, Gabe. 
La guardai, confuso, e feci un passo avanti per ottenere un ulteriore allontanamento da parte sua. Mi fermai per continuare a guardarla, e Hariel non si mosse. 
- Non sarei mai dovuta esserlo, e non lo sarò mai più. 
Ma cosa voleva dire? Cosa voleva fare? Non riuscivo a capire, e questo mi distruggeva più di qualsiasi altra cosa al mondo. 
- Per… Tutta la vita ho pensato di essere diversa, più fragile e degna di essere salvata. Ma non è vero. C’è qualcosa di sbagliato in me, c’è qualcosa che deve essere distrutto. Non è così? Non è per questo motivo che gli Angeli mi stanno cercando? 
Sentii l’aria venir meno; ogni respiro che facevo era più corto del precedente, come se stessero per finire di colpo. Avrei voluto sussurrare il suo nome, ma tutto ciò che ne uscì fuori fu un altro respiro smorzato. 
- Oh, che bellezza! Ci sono degli ospiti! 
Una figura apparve dal portone principale che non avevo nemmeno notato fino a pochi attimi prima: l’uomo camminò, un passo alla volta, naturale e slanciato, una persona all’apparenza normalissima se non fosse stato per i magnetici occhi gialli che spezzavano l’oscurità. 
Azazel, pensai. D’istinto scattai in avanti, trascinando indietro Hariel e nascondendola dietro di me. 
- Avreste dovuto avvisare della bella notizia! Non aspettavamo che voi per annunciare il lieto evento! 
Poi alzò il mento verso di me, a mo’ di saluto, anche se i suoi occhi erano rivolti verso Hariel che, dietro di me, respirava normalmente, senza paura. 
- Vieni qui, cara!
Hariel annuì meccanicamente e fece un passo avanti, fiera di qualcosa che ai miei occhi sfuggiva, ma che il mio cuore avvertiva come qualcosa di sciocco e assolutamente pericoloso. 
Un rumore ci costrinse tutti a voltarci verso alcuni alberi, le cui chiome, mosse dal vento, creavano un'inquietante melodia che vibrava tutt'intorno, nutrendosi dell'oscurità della notte. Un Demone, con le possenti ali nere che spezzavano il vento mentre scendeva a terra, e l'espressione di chi aveva viaggiato cento giorni, lasciò cadere a terra Mikael che, a sua volta, appariva molto più stanco del dovuto. 
- Mikael!
Un grido giunse dal nulla, portando poi la figura di Lia, che correva rapida, verso l'Angelo biondo che gemette piegando le braccia verso di sé. 
Lì le fasciature che gli stringevano le mani si erano già ritinte di sangue fresco. 
- -Oh che meraviglia, la famiglia al completo! 
La voce di Azazel ci costrinse a voltarci nuovamente verso di lui che, come se niente fosse, cingeva le spalle di Hariel. Sentii Lia trasalire, per poi chiedere a Mikael se stesse bene. L'Angelo rispose alzandosi da terra e lanciando un'occhiata furiosa alla schiera di Demoni che ci stava circondando.
- -Pensavo che come minimo avresti perso le dita, Mikael, ma sei più forte di quanto immaginassimo. I miei complimenti. 
L’Angelo biondo guardò, mostrando i denti bianchi in un ringhio furibondo. Sembrava stressato, confuso, in battaglia contro i Demoni, e contro le proprie oscurità. 
- E perché avrei dovuto? Un graffio di un oggetto mortale non può che lasciarmi un leggero prurito il giorno dopo. 
Mikael sembrava irato. Dalla sua espressione schizzava veleno come i suoi occhi le fiamme. 
- La tua risposta risulterebbe esatta se, come hai detto, fosse stato un oggetto mortale a laceranti i polpastrelli. 
Azazel si voltò verso Hariel, invitandola con uno sguardo ad avvicinarsi. La ragazza si mosse, rapida, per poi fermarsi a meno di un respiro da lui. Il Demone alzò la mano, coperta da un guanto di pelle nera. Con estrema lentezza lo sfilò mostrando la pelle bianchissima della sua mano destra.
- Ed ora vorrei che tu graffiassi il palmo della mia mano.
Sembrava quasi un mago intento a dare gli ultimi dettagli alla sua assistente. Hariel annuì, senza fiatare. Quello strano circo di ombre e sorprese inattese sembrava stringersi sempre di più intorno a noi, soffocandoci; Azazel era il burattinaio, che muoveva i fili della volontà di Hariel, che faceva tutto ciò che lui le chiedeva, come una marionetta tra le sue mani. Con un colpo secco, Hariel lacerò il palmo del Demone con le sottili unghie affilate. Il taglio prese a fumare con intensità, mentre il Demone si liberava in un ringhio spaventoso, simile a quello di una bestia rabbiosa. Ma riuscì comunque a contenersi quando, con calma, fece scorrere il polpastrello della stessa mano contro la superficie ruvida della Torre Bianca. Anche quest'ultimo lo fece gemere, mentre la pelle si squarciava lasciando cadere a terra qualche goccia di sangue scuro, quasi nero. 
- La Torre Bianca è fatta dello stesso materiale che costituisce le ossa e le unghie di Hariel.
Azazel fece una pausa per riprendere un lungo ed inutile respiro. 
- Una sostanza né umana né divina. Né quantomeno demoniaca. 
Il Demone scattò in avanti e afferrò la mano di Hariel, ferendole il polso con le unghie. Dapprima lei gridò, facendomi allarmare, poi lasciò cadere un semplice gemito mentre il suo sangue rosso acceso cadeva sulle zone ferite di Azazel. 
- Hariel è molto molto di più. 
In meno di una manciata di secondi le ferite di entrambi si rimarginarono senza lasciare alcun segno del loro passaggio.
- Hariel ha l'essenza stessa della Luce dentro di sé.
Hariel
Mi ritrovai a indietreggiare bruscamente, lasciando che la mia mano, che pochi secondi prima era tra quelle di Azazel, ricadesse rumorosamente lungo il mio fianco. Il Demone si voltò verso di me, ma non si avvicinò, non fece niente per darmi consolazione. 
- Perché pensiate che la stiano cercando, eh? 
Azazel spostò lo sguardo verso Gabriel, poi verso le figure di Lia e Mikael, e infine su tutti i suoi Demoni. 
- La guerra è cominciata, come negarlo? I palazzi cadono, gli alberi vengono sradicati, e la gente viene uccisa senza un motivo.
Il suo sguardo si posizionò su una figura in lontananza, un’immagine che i miei occhi non riuscivano a distinguere nel buio della notte.
- E poi ci siete voi: una Resistenza. Un gruppo di sopravvissuti, di Angeli e di Uomini. Ma quanto pensate di durare, senza un’arma segreta? 
E poi il viso di Azazel si illuminò in un sorriso quando, voltandosi di scatto verso di me, ritrovò ancora la mia immagine fissa nel guardarlo. 
- Oh, ma aspetta! Voi l’avete! E’ lei… Il motivo per cui l’avete presa è questa, o sbaglio? 
Mi tese la mano, ma io non la strinsi. 
- Chi non vorrebbe un’arma come lei, capace di ferire e allo stesso tempo salvare sia gli Angeli che i Demoni? Che potrebbe uccidervi quanto assicurarvi la vittoria?
Azazel continuò a guardarmi mentre altre grida si alzavano, dopo la sua, richieste e affermazioni sul mio essere miracolosa, che sembrava un’ipotesi azzardata persino per me. Questo mi ricordò la Resistenza, la paura e le preoccupazioni che la gente, la mia gente, aveva a riguardo di questa guerra, e del nostro gruppo. In quel momento avevo solo pensato che fosse un brutto sogno, che tutto ciò fosse stato solo un’immaginazione all’interno della mia mente. E poi un gemito, straziato. Uno dei Demoni cadde a terra, perforato dalla luce dorata di una spada angelica. Sussultai e guardai Azazel, tirandomi indietro. La persona che aveva attaccato, e poi ucciso il Demone, scomparve tanto velocemente come era arrivata. Di soppiatto. Nel più assoluto silenzio. Un paio di ali si innalzarono in volo, condotte dai Demoni più giovani, che partivano, più o meno, dai dodici ai diciotto anni, gli altri invece accerchiarono il bosco, alcuni si divisero tra Lia e Mikael, mentre Gabriel correva verso di me, seguito da altre ombre scure.
- Hariel, vieni con me!
Azazel mi afferrò per mano ed io mi bloccai a guardarlo. In un attimo tutte le sicurezze che avevo avuto nei suoi confronti, scomparvero magicamente, senza lasciarne traccia. 
- No… 
Dissi con un filo di voce mentre lui, in un leggero ringhio, mi trascinava con sé verso una strada vuota vicino al retro della Torre, lì sicuramente non ci sarebbero stati altri Demoni. 
Ma ci sarebbe stato il loro capogruppo, però… Azazel. 
- Ho detto di no!
Mi tirai indietro, affinché lui lasciasse la mia mano. Caddi pesantemente a terra, battendo la testa contro il muro più vicino della Torre. 
- HARIEL!
Le voci mi arrivavano confuse, doppie, triple, quadruple, lontane e gridate da vicino, come in un incubo in cui non avevo nemmeno la possibilità di scappare. Una figura sbucò dalle ombre del bosco e attaccò Azazel che, pochi attimi dopo, era davanti a me, talmente vicino che i suoi occhi mi abbagliavano, e le labbra sporche di sangue nero e denso. 
- Hariel…
Il suo era un gemito, un lamento, mentre la mia vista era un misto di profonda confusione e nebbia. 
E poi il suo viso cambiò, si tramutò fino a diventarne un altro: occhi azzurri e spaventati, labbra chiare e morbide, pelle più pallida del solito e i capelli biondi spettinati e secchi di sangue. 
- Hesediel…
Mi sfuggì solo un latrato, come un cane ferito che voleva solo scappare. Mi misi in piedi mentre la sua figura prendeva a sputare sangue, continuando a sussurrare il mio nome. 
Sentii le mani di Gabriel aiutarmi a rimettermi in piedi mentre il mio corpo prendeva a pesare come un macigno pronto a farmi ricadere a terra. 
- È morto.
Il peso del mio cuore aumentava, aumentava, aumentava, fino a diventare insopportabile. 
Scoppiai in lacrime mentre Gabriel continuava a farmi indietreggiare con lui. 
- No, no, no! 
Lo frenai, staccandomi dalla sua presa per correre poi verso il suo corpo. Gli presi il viso tra le mani e gli infilai le dita tra i capelli mentre le lacrime mi scorrevano sul viso, senza tregua. Strinsi gli occhi e tentai di sfuggire al dolore, ma niente mi pesò più del sussurro del mio nome; e poi un lamento, seguito dal calore della sua mano contro le mie. 
- È amore, è compassione, Hariel. Questa è la tua salvezza, questo è il tuo dono.
Quella frase, quella voce… 
Aprii istintivamente gli occhi mentre le mani di Azazel stringevano tra le mie un sacchetto color argento. E poi chiuse gli occhi. 
Gabriel si voltò per guardarmi, spaventato, mentre i miei occhi, per la prima volta, si aprivano alla verità. Non era semplicemente un Angelo ad aver scatenato la rissa tra i Demoni, Azazel non era morto per un semplice Angelo come tanti altri… 
Era, era… 
- Hesediel!
Era pieno di sangue.
Il nero e il rosso erano sparsi ovunque, come chiazze scure ben distinte in una tela bianca ancora da dipingere e da definire. E c’erano corpi, fermi sul terreno freddo, pronti all’ultimo e fatidico Giudizio. 
- Hesediel!
Mi guardavo intorno, fingendo che tra i volti dei Demoni morenti non potesse esserci alcuna minima possibilità di ritrovare anche il suo. Sentivo voci, grida, lamenti, gente che chiamava il mio nome, e gente che intimava di uccidermi. Ma non mi interessava. Correndo nell’Inferno, nel sangue e nelle fiamme che mi corrodevano l’anima, tutto ciò che scorreva nella mia mente era il suo nome, gridato nella mia voce come una condanna. 
- HESEDIEL!
E poi una figura nell’oscurità. Una fredda luce gli sfiorava le membra, lì, sotto la grande quercia dai lunghi rami che sfioravano l’immensità. Sembrava che il cielo si fosse aperto, mostrando la sua Luce, solo per lui. Mi lanciai verso il ragazzo e lo afferrai per le spalle, scuotendolo. I suoi occhi, però, rimasero chiusi. 
- No, NO!
Gridai stringendolo a me. Sentivo le lacrime corrodermi l’anima, non le guance. Non c’era più tempo per piangere, né per disperarsi. Solo per sperare. Sperare e basta, più che potevo, più che dovevo. E poi lo percepii, come un profondo bruciore vicino alla gamba, lì, dove il dono di Azazel, giaceva immobile. Aprii con forza il sacchetto argenteo e ne sfilai fuori il piccolo oggetto circolare e d’argento, per poi infilarglielo al dito. Sembrava calzargli a pennello, era perfetto. La piccola croce di cristallo, dapprima trasparente e quasi invisibile, prese a colorarsi, pian piano, di un rosso acceso, intenso. Lo stesso colore del suo sangue, che gli riempiva la maggior parte del viso scarno, delle labbra pallide, e del fianco destro. 
- Funzionerà, funzionerà. Deve funzionare. 
E pregai, stringendogli le mani con le mie. La sua pelle era gelida, come se del giacchio si fosse insinuato all’interno del suo corpo. 
- Funziona… FUNZIONA! 
Ringhiai contro il suo corpo, che non dava alcun segno di vita. 
- Ti prego, ti prego svegliati!
Piansi, non potevo far nient’altro. Gli lasciai le mani e strinsi gli occhi, ma riuscivo ad avvertirlo: un battito di ali leggero, un respiro sussurrato appena, la sua vita che tornava nel corpo. Il suo cuore. E poi un torpore. Aprii gli occhi, lentamente per paura di star sognando. La mano di Hesediel sfiorò la mia guancia, cancellando le lacrime calde che mi rigavano il viso. 
- Oh mio Dio, Hesediel…
Dalle sue labbra uscì un leggero verso, il segno di tacere, però con dolcezza infinita, mentre i suoi occhi azzurri cercavano i miei, e il suo corpo si alzava verso il mio. 
E poi mi baciò, con leggerezza, posando le sue labbra sulle mie con delicatezza infinita, come una farfalla che volava su un fiore appena sbocciato. 
Come il nostro amore. 
- Sei vivo… Pensavo che tu…
Hesediel mi zittì con un altro bacio infilando una delle mani tra i miei capelli, e l’altra reggendomi il mento bagnato. 
- Ti avevo promesso che ti avrei salvata, ma alla fine sei stata tu a salvare me. Mi sento in colpa… Perché, forse, se ti fossi stato lontano anche dal primo istante, tu non saresti tanto vicina alla morte come lo sei stata negli ultimi giorni. 
Disse staccandosi dalle mie labbra con la stessa delicatezza con la quale le aveva avvicinate. 
Lo guardai, confusa. In colpa? Si sentiva in colpa?
Io non potevo crederci. Dopo tutto ciò che aveva fatto per me, dopo ogni sguardo, ogni sorriso, ogni carezza, ogni bacio perduto, lui si sentiva in colpa? 
- Sta zitto.
Lasciai che lui si sedesse sull’erba e che mi fissasse, mentre la mia espressione, sicuramente furiosa, si tramutava in un’espressione di dannata angoscia. 
- Tu sei vivo, ok? È questo quello che conta! A me non importa di ciò che mi accade, non senza di te. 
Hesediel mi guardò mentre mi alzavo dall’erba sporca del suo sangue. Allungai le mani davanti al viso dove i segni delle sue ferite sembravano aprirsi nelle mie. Il suo sangue nel mio sangue, la sua vita nella mia. Gli diedi le spalle e continuai a piangere, non riuscivo a guardarlo nemmeno in viso. A fatica riuscì ad alzarsi e a raggiungermi ma quando lo fece, tutto ciò che riuscii ad avvertire furono le sue braccia intorno al mio corpo, le sue labbra sulla mia fronte.
- Però non mi hai fatto finire!
Quasi rise. 
- Stavo dicendo: ma io ti amo. E non posso, non ci riesco, a lasciarti andare. 
Lo guardai e, senza cancellarmi i segni delle mie lacrime, lo baciai, con forza.
E se la prima volta, un bacio, aveva segnalato la fine di un qualcosa, quel giorno segnalò l’inizio di tutto…
 

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Capitolo 22
*** Cap.21: Il passato che ritorna ***


Capitolo 21
Il passato che ritorna (DI ENGI)

Mikael

Restai sveglio. Hariel si era assopita con la testa sulla spalla di Hesediel, che a sua volta posava la sua su quella della ragazza; Gabriel, anche lui seduto a terra, era posato contro la corteccia di un altro albero e teneva gli occhi chiusi, che ogni tanto tremolavano sotto la palpebra, come se vedesse le immagini del proprio sogno simili a tante diapositive che si susseguivano tutte, una alla volta. Lia, invece, stava stesa sul terreno, tutta raggomitolata per tenersi caldo e con le mani sotto il lato della testa, a mo’ di cuscino. Potevo vedere ogni piccolo fremito del suo esile corpo, all’apparenza così fragile e inerme, ma, forse, dentro resistente come le più dure delle corazze.
Il piccolo fuocherello che Hesediel era riuscito ad accendere, utilizzando ramoscelli, pezzi di corteccia e foglie rinsecchite, si agitava in mezzo a loro, illuminando ogni pallido volto con la sua calda luce e proiettando enormi ombre danzanti sui tronchi legnosi.
Io me ne stavo in disparte, al buio, a contemplare l’universo infinito e ogni suo mistero immortale, in balia della luce delle stelle che mi riempiva gli occhi.
Non potevo permettermi di dormire, almeno uno di noi doveva rimanere sveglio a sorvegliare e proteggere gli altri. I Demoni sarebbero potuti tornare e, questa volta, più preparati di prima.
Alle mie spalle, oltre lo spesso tronco che mi divideva dagli altri, il fuoco scoppiettò, facendo volare verso l’altro piccole scintille rosse, che si spensero non appena si ritrovarono lontane dal calore delle fiamme, svanirono nell’aria rigida della notte perdendo la strada del ritorno.
I miei occhi rassegnavano ogni stella, ogni singolo astro, provando a riconoscerne il nome e a immaginare la linea che univa le une alle altre.
Un fruscio non troppo distante da me mi riscosse, mi trascinò giù dal cielo scuro e dalle stelle candide, e mi fece precipitare un’altra volta al terreno.
Lia si sedette, appoggiando la schiena contro l’albero, e anche lei contemplò il chiaro di luna, che creò nei suoi infiniti occhi neri una piccola pupilla bianca.
Improvvisamente mi accorsi di non star più guardando il cielo, ma quella creatura così ricca di piccole imperfezioni ed emozioni incontrollate, che potevano scatenarsi in qualsiasi momento, senza riuscire a prevenirne l’intensità o la grandezza.
La sua pelle rifletteva la luce pallida dell’enorme satellite, che sembrava perdere d’intensità; i capelli erano scuri quanto una notte priva di stelle, e le incorniciavano l’intero volto, fino a ricadere leggeri sul petto, che si alzava e abbassava a seconda dal respiro.
- Conosci il nome delle costellazioni?
La sua voce era dolce e piena di curiosità, i suoi occhi erano rivolti verso il cielo, come se io non fossi degno nemmeno di uno sguardo.
- Sì, qualcuna me la ricordo ancora.
Feci, e la mia voce mi parve dannatamente sbagliata in confronto a quella di lei.
Un piccolo sorriso le fece risplendere le labbra, incurvandogliele in una semplicità priva di ogni impurità. Lei era purezza, semplicemente questo. La sua anima brillava più di tutte le stelle e la luna messe insieme, più di una danza di lucciole, più della Luce stessa, quella che era sfuggita inspiegabilmente dalle mie mani la notte prima per salvarle la vita.
Sorrisi anch’io, al pensiero che fosse la prima volta che la vidi serena per qualcosa che avevo detto o fatto. E quel suo sorriso mi sollecitò a parlarle, a dirle tutto ciò che voleva e desiderava.
- Quella dovrebbe essere la costellazione del Cigno.

Lei osservò più attentamente il cielo, anzi, l’universo che non temeva di mostrarsi che di notte, al buio più eterno, alla tenebra più fitta.
- Quale?
- Quella.
E con un dito unii i puntini luminosi, creando quella linea che prima cercavo di individuare con i soli occhi. Il suo sorriso si espanse sul suo volto chiaro, senza perdere né forza né lucentezza.
- Lì, invece, c’è il Dragone.
Le indicai una lunga composizione di stelle, senza temere di sbagliare.
Lia mi ascoltava, in silenzio, senza interrompermi una sola volta, nemmeno per chiedermi di continuare, dopotutto non era necessario, perché finché lei non mi avesse fermato io avrei continuato a dirle il nome di ogni singola stella, al costo di inventarmene qualcuno e ripeterne degli altri.
- Chi ti ha insegnato a riconoscerle?
Chiese a un tratto, continuando a guardare in alto, lasciandomi struggere dal desiderio che quegli occhi guardassero me, e non il cielo. Ero un egoista, ma cosa ci potevo fare? Chi non avrebbe desiderato avere il suo sguardo addosso? Dentro il proprio?
- Non ricordo.
Dissi in un gran sospiro di stanchezza.
- Forse sono sempre stato in grado di farlo.
Aggiunsi, distogliendo in fretta gli occhi da lei, ma riuscii solo a farli scivolare giù, sul suo polso. Il piccolo braccialetto le brillava freddamente contro la pelle.
- L’hai ripreso.
Osservai, dando voce alla mia perspicacia.
Anche Lia si guardò il polso e, d’istinto, lo allontanò dalla mia visuale.
- E’ l’unico modo che ho per riuscire a farmi capire da voi.
La sua voce era soffocata dalla sua stessa fragilità, e vidi che lei si odiava per questo, per le sue debolezze, per via di ciò che non era in grado di fare senza l’aiuto di nessuno che le stesse accanto, che le mettesse a disposizione anche la propria forza.
- Ti farà solo del male.
E lei sollevò lo sguardo, lucido e improvvisamente infiammato. Lei aveva capito. Aveva inteso tutto. Sapeva ciò che provavo, sapeva i miei obiettivi e quello che stavo facendo per raggiungerli.
- E tu? Tu non stai facendo questo?
A quel punto anch’io rialzai lo sguardo, che salì finché non si scontrò con quello di lei.

Lia

Lo stavo ferendo, ne ero consapevole. Ogni mia parola, da quel momento, ogni singola sillaba, sarebbe stata come una pugnalata sferrata contro il suo petto, dritta dritta al cuore.
I suoi occhi verdi si scurirono.
- Cosa t’importa di quello che faccio io?
Capii che stava ergendo delle mura intorno a sé, le stesse che poco prima, erano state momentaneamente abbattute. Si stava chiudendo di nuovo in sé stesso, con le proprie emozioni, all’interno della corazza.
- Non ne capisco il motivo!
L’esasperazione della mia voce mi stupii. Ero stanca, ero davvero esausta, del suo inutile comportamento. Mikael deglutì e distolse lo sguardo, posandolo sulle ombre tra le tenebre.
- Tu non capisci ed io… io non posso spiegarti.
Fece, e la sua serietà mi colpì come uno schiaffo.
- Io capisco, invece.
Ribattei, infastidita da quella sua affermazione.
- Cosa? Pensi davvero di conoscermi? Credi seriamente di sapere quello che provo, solamente osservando quello che lascio trasparire in superficie?
Il suo sguardo mi ricordava la chioma degli abeti scossi durante un temporale. Fremevano di collera, accesi dalle emozioni che reprimeva dentro sé stesso.
Da quanti anni, da quanti millenni, sopportava tutto? Quanto il tempo che non si sfogava con qualcuno? Che non permetteva che gli si potesse leggere dentro qualunque tipo di sentimento?
- Beh, ti sbagli.
Aggiunse.
- Tu scappi.
Dissi, senza riuscire a trattenermi. Volevo dimostrargli il contrario di ciò che pensava, di ciò che aveva detto.
- Tu fuggi non appena qualcuno è disposto ad aprire il proprio cuore con te o per te. Oppure come vedi che è l’altro a chiederti di aprire il tuo, tu ergi una cortina di ferro, che divide te e le tue vere emozioni da qualsiasi tentativo di amore nei tuoi confronti.
Non parlò. Non mosse nemmeno gli occhi nella mia direzione.
- Tu credi di non poter meritare nulla, quindi scappi, portandoti tutto dentro, e impedendo a chiunque di aiutarti.
Riuscivo a percepire il suo cuore sanguinare alle mie parole, e la sua anima piangere, ma Mikael non diede segno di nulla, come se in realtà tutto quello non stesse accadendo, come se le mie parole non fossero altro che aria nel vento.
- Ma, dopotutto, come puoi sfuggire da ciò che è dentro di te?
Mikael fu scosso da quella mia domanda, pensò alle parole che la componevano e, come ne comprese il significato immediato, la schivò.
- Il tuo tentativo di dare un senso alla mie azioni è veramente patetico.
Anche il tuo tentativo di far terminare il discorso, pensai furiosamente.
- Cosa c’è che non va in te? Perché non accetti le tue emozioni e quelle degli altri?
Una strana consapevolezza mi colpì la mente insieme al ricordo dello sguardo del ragazzo dietro la vetrata appannata mentre i dottori mi liberavano dalle mie oppressioni.
Tristezza, smarrimento, delusione, rabbia e… invidia.
Sbarrai gli occhi, mentre il cuore perdeva diversi battiti, diminuendo il suo costante pulsare.
No, pensai terrorizzata, non è vero, non può esserlo.
Mi cancellai subito quella risposta dalla mente, spaventata anche al solo averla pensata.
- Non puoi continuare a scappare. So che puoi mettere fine al dolore che t’infliggi.
Ormai non avevo più parole, come potevo averne, non potevo continuare a dire le stesse identiche cose col risultato che lui le respingesse ogni volta, impedendo il loro tentativo di fargli capire che era inutile punirsi per il proprio passato e le proprie azioni.
- La tua falsa speranza mi disgusta.
Fece dopo un altro attimo di silenzio.
- Come i tuoi tentativi di salvarmi. Nessuno può farlo. Il mio passato non ti riguarda e mai ti riguarderà. Lasciami in pace e pensa alla tua di vita, così che non debba più avere il peso di pensare anche a te. Perché è questo che fai… Tu pesi su tutti noi, su di me.
Il mio momentaneo stupore si tramutò immediatamente in rabbia, che si manifesto in brucianti lacrime che salirono ai miei occhi, rimanendo lì, a ustionarmi e offuscarmi la vista.
Guardai Mikael e per un attimo anche i suoi occhi tornarono nei miei. Né tristezza, né pentimento o rammarico per le parole che aveva appena riversato su di me, erano presenti nel suo sguardo duro e crudele. Quelle cose, tutto quello che aveva detto, le pensava davvero.
Forse aveva ragione, ero un peso, eppure non fu tanto quello a ferirmi, ma la mia reazione al suo giudizio. Mi sentii un’illusa, come se mi fossi lasciata abbindolare dalle mie emozione e dai miei pregiudizi. Perché pensavo davvero di riuscire ad aiutarlo, che la mia speranza, il mio aprirgli gli occhi alla realtà, sarebbero bastati… ma evidentemente mi sbagliavo. Avevo provato ad aiutarlo e, anche se nessuno mi aveva assicurato che lui si sarebbe lasciato soccorrere, rimasi stupefatta dal mio fallimento. Aveva ragione e io torto: non potevo aiutarlo né io né nessun altro, solo lui poteva decidere le proprie azioni, solo lui era in grado di decidere se ciò che faceva era giusto o no.
Se avesse voluto salvarsi, allora ci sarebbe dovuto riuscire da solo, perché nessuno lo avrebbe più aiutato.
- Marcisci all’Inferno.
Mi sentii dirgli a denti stretti, mentre le lacrime si ingigantivano, senza però scendere.
Non volevo piangere. Non davanti a lui. Non gli avrei dato questa soddisfazione. Le sue parole non dovevano contare nulla per me.
Mi alzai, prima che il mio volto cominciasse a rigarsi e tornai vicino al fuoco, decisa a rimanere lì a piangere in silenzio, lontana da lui.
Decisi di abbandonarlo lì, con il suo dolore, con le sue emozioni, con le sue ombre, nel buio della sua anima.

Hariel

I primi raggi di sole che si posarono sulla pelle del mio viso mi svegliarono.
Sbadigliai e subito l’odore di Hesediel mi raggiunse, inebriandomi. Lo ritrovai a guardarmi con i suoi grandi occhi celesti, un celeste che nemmeno il cielo sarebbe riuscito a raggiungere.
Gli sorrisi, imbarazzata. Mi aveva guardata mentre dormivo?
Sentii stranamente caldo, nonostante il forte freddo, e mi alzai, pulendomi il retro dei pantaloni, sicuramente sporchi di terriccio e pezzi di foglie.
Mi guardai intorno. Gabriel stava spegnendo le ultime braci del fuoco che Hesediel aveva acceso; Lia si stava appena svegliando, anche lei per via dei deboli e tiepidi raggi di luce, la sua pelle era più pallida che mai e mi parve sottilissima, come se durante la notte qualcuno gliel’avesse consumata, gli occhi arrossati e leggermente gonfi mi fecero pensare che avesse pianto. Sentiva anche lei nostalgia per sua madre?
Cercai Mikael, ma non lo trovai, finché non fu lui a comparire dal nulla, come un fantasma. Le spesse ombre sotto agli occhi erano il risultato della mancanza di sonno e anche lui mi sembrò abbastanza scosso, anche se non dava segni di pianto. Cos’era successo quella notte?
- Dobbiamo ripartire.
Fece Gabe, guardandoci tutti e, infine, soffermandosi con gli occhi su di me. Distolsi lo sguardo e vidi Hesediel affiancarmi e allacciare le sue dita a quelle della mia mano. Non riuscii a trattenergli un sorriso, che lui ricambiò dolcemente. Ero consapevole che Gabriel ci stava ancora guardando, e che sicuramente il suo umore non si fosse sicuramente risollevato. Ma perché non poteva essere contento per me? Per noi? Avevo finalmente trovato qualcuno che mi rendeva felice, eppure lui era come se non riuscisse ad accettarne nemmeno l’idea.
Mikael aspettò alcuni istanti poi, con aria assente, s’incamminò da solo, spazientito dalla nostra poca volontà.
Gabriel lo seguì per primo, poi partimmo anch’io e Hesediel, infine Lia, che restò in fondo per tutto il viaggio, silenziosa come l’anima di un morto, e la stessa cosa fecero Gabe e Mikael.
Tutti tormentati dai loro pensieri. Perché solo io e Hesediel eravamo contenti?
La risposta mi apparve immediatamente chiara, cristallina quasi.
Noi avevamo l’amore, ecco perché. Loro invece no, forse lo respingevano, lo schivavano, o semplicemente non lo avevano ancora trovato, ma, in ogni caso, era il nostro amore che ci rendeva felici e ci differenziava.
Strinsi, senza rendermene conto, la mano di Hesediel, che ricambiò a sua volta, e con la stessa intensità, la presa.


Appena arrivammo alla Resistenza, Damabiah ci mise alle strette, bombardandoci di domande, senza preoccuparsi del fatto che sembrasse ciò che realmente fosse: un interrogatorio.
L’unico riuscito a scampare era Mikael, scomparso chissà dove.
Gabriel gli fece un breve riassunto di tutto, raccontandogli del bracciale, di ciò che era riuscita a fare Lia grazie ad esso, del salvataggio di Mikael mentre cadevo dalla Torre Bianca, dell’esercito di Demoni che si è abbattuto su di noi, di Azazel e tutto ciò che aveva detto sul mio conto, che ero un’incognita, senza identità quasi. Non disse nulla su Hesediel o su come fosse riuscito miracolosamente a tornare in vita grazie all’anello.
- E Azazel che fine ha fatto?
Domandò Damabiah, speranzoso di sentire una buona notizia.
- Credo sia fuggito.
Fece Gabriel, come se avesse appena rivelato un suo fallimento. L’Angelo annuì, chiudendo gli occhi grigi, poi li riaprì. Non era arrabbiato e la sua delusione fu subito sostituita dalla comprensione. Ci guardò, poi ci disse di andare a ripulirci e riposare.
Gabe lo ringraziò e, prima di tutti, s’incamminò verso la nostra stanza. Lo seguii con lo sguardo. Teneva le spalle leggermente ricurve e camminava quasi strisciando i piedi a terra, come se non avesse la forza di sollevarli.
- Puoi venire da me se vuoi.
Mi disse Hesediel, guardandomi negli occhi, e intuendo i miei pensieri. Mi sentii lo stomaco improvvisamente leggero per l’agitazione, ma declinai l’offerta, dicendo che ero affamata. Lui annuì e avvicinò il suo volto al mio, finché la distanza tra le nostre bocche non si azzerò e queste si unirono, diventando un’unica cosa. Ci staccammo dopo qualche minuto e lui si ritirò nella sua stanza, ribadendo che se avessi cambiato idea lo avrei trovato lì.
Mi girai verso Lia, ma anche lei era sparita. Probabilmente era andata via mentre mi baciavo con Hesediel, pensando di disturbarci se fosse rimasta, quindi restai sola.
Con un sonoro sospiro, mi avviai in direzione della mensa, realmente affamata. Era da giorni ormai che non toccavo cibo, e il mio corpo cominciava a risponderne con fiacchezza e capogiri.
Entrai nella dispensa e presi le prime cose che mi capitarono sotto mano: pane, formaggio da spalmare e succo di frutta. Mi munii di coltello e piatto, poi mi andai a sedere a uno dei tavoli. Presi una fetta di pane e, silenziosamente cominciai a spalmarci sopra col coltello il formaggio.
Appena gli sferrai il primo morso, la porta della mensa si aprì. Mi voltai e, sulla soglia, individuai un uomo sulla cinquantina. I capelli castani, striati qua e là da alcune ciocche grigie, gli ricadevano sul collo, gli occhi azzurri erano fissi su di me e la sua bocca piegata in una smorfia di stupore misto a... gioia?
- Hariel?
Fece con la sua voce sconosciuta e rotta dall’emozione.
Lo osservai, confusa. Chi era costui?
- Chi sei?
Quella mia domanda sembrò ferirlo e smorzare la sua infondata gioia.
- E come sai il mio nome? Te l’ha detto Damabiah? Gabriel?
Lui scosse il capo, sorridendo mestamente.
- No, Hariel. Sono… Sono tuo padre.
Lasciai ricadere il pane nel piatto e mi alzai di colpo, tossendo per via del cibo che mi andava di traverso.
Ricordai le parole di Azazel, la prima volta che lo vidi.
- Ti manda Azazel?
Gli chiesi, seria e intimorita.
L’uomo fece un passo avanti ed io arretrai di due.
- No! Non osare avvicinarti!
Gridai, ringhiando il più minacciosamente possibile.
- Ma cosa… Perché?
Sembrava veramente confuso e sconvolto dal mio comportamento.
- Rispondi, sei stato tu a incaricare Azazel di rapirmi?
L’espressione dell’uomo fece si che il mio cuore si contorcesse, improvvisamente stretto in una morsa gelida.
- No.

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Capitolo 23
*** Cap.22: Io ci sarò ***


Capitolo 22
Io ci sarò (DI MIRI)
Hariel
Stavo esplodendo. 
Ogni singola particella del mio essere entrava in collisione con un’altra, fino a spintonarsi tra loro, per autodistruggersi, come le particelle che si scontrano nel momento esatto in cui la fiamma inizia a bruciare il legno. 
Semplicemente, piangevo. 
-          Non ti credo.
Mentii, facendo un altro passo indietro. Gli occhi azzurri simili al cielo mi scrutavano, muovendosi su di me e intorno a me, come per controllare che non ci fosse una seconda porta dalla quale fuggire. 
-          Stai mentendo! 
I suoi occhi… Non riuscivo a scrollarmeli di dosso! Pesavano come due enormi macigni sulle mie spalle già cariche di problemi di per sé. 
Lui si avvicinò, velocemente, ma fermai il suo inseguimento scivolando dietro al bancone di marmo bianco e afferrando un affilato coltello da cucina. 
L’uomo indietreggiò, lentamente, alzando le mani fino all’altezza delle spalle. Feci un passo avanti, e poi un altro, e un altro ancora, fin quando a dividerci non fu che meno di un metro.
-          Sei come lui, vero? Come tutti gli altri che ci hanno attaccato questa notte! 
L’uomo mi lanciò un’occhiata, confusa, mentre inarcava un sopracciglio con estrema spontaneità. 
I suoi occhi sembravano quasi chiedermi se fossi seria o meno, come se tutto ciò che mi era appena scivolato dalle labbra fosse una stupida barzelletta.
-          Cosa? Oh, ti sbagli tesoro. 
Fece un passo avanti, forse pensando che avessi abbassato la guardia, ma con abilità alzai il coltello, allungando rapidamente il braccio nella sua direzione. 
-          Loro ti hanno rapita, controllata, e manipolata. 
Continuò ad avanzare, mentre abbassava una delle mani, ancora alzate, sfiorando con un dito la punta affilata del coltello. Quando lo vidi premere con forza l’estremità dell’arma, presi a tremare. La lama affilata tremolò tra le mie dita strette con talmente forza da diventare bianche, mentre il materiale argentato si tingeva di un rosso acceso. E non nero come mi sarei aspettata. 
-          Non sei un… 
Le mie parole erano tremolanti e nella mia mente apparvero assurde. Ogni mio pensiero, in quel momento, era del tutto irrazionale e distruttivo nei miei confronti. 
Lasciai cadere il coltello e l’uomo si pulì il rivolo di sangue che gli usciva dal polpastrello sulla stoffa del pantalone scuro. 
-          Demone? No di certo! Loro sapevano che cos’eri, Hariel, loro sapevano che la guerra sarebbe iniziata, e chissà, forse l’hanno persino provocata! Questo non lo so per certo, ma posso dirti ciò di cui sono sicuro: tu hai un dono, piccola. Qualsiasi cosa tu fossi qualche settimana fa, ora è completamente svanita. 
Fece un altro passo avanti, quasi azzerando la distanza tra di noi, poi continuò a guardarmi per qualche secondo, in silenzio, sembrava quasi che non respirasse neppure. 
-          No… Non è così. Io sono e sarò sempre la stessa.
Non avevo mai detto così tante bugie in una sola frase. 
-          Invece sì, e loro lo sapevano più di chiunque altro, ed erano gli unici a poterti contattare senza sembrare dei possibili sospetti. Perché loro sapevano di me, e conoscevano la mia situazione. 
Rimasi in silenzio a fissarlo, senza muovermi di un millimetro. 
Sentivo il mio corpo vibrare, muoversi incontrollatamente, come una foglia contro la potenza del vento. 
-          E qual è la tua situazione?
L’uomo fece un passo avanti, ma questa volta fui pronta ad arretrare, anche se le mie gambe.. in realtà il mio intero corpo, mi supplicavano di rimanere immobile.
-          Non potevo entrare nella Torre Bianca e non potevo portarti via da lì, nello stesso momento, non avevo la più pallida idea di come entrare qui dentro fin quando la battaglia con i Demoni non fosse finita. Avrei dovuto aspettare ancora una volta una fuga, una pazza idea di uscire nel quasi unico posto in cui saresti potuta essere al sicuro. Ed io non potevo aspettare ancora.
Mille domande vorticavano nella mia mente, spingevano, si strattonavano sulla mia lingua, ma non riuscii a pronunciarne nemmeno una. Scoppiai a piangere ancora una volta e strinsi gli occhi.
Chi era lui? Perché era lì? E se diceva la verità, perché non si era fatto avanti prima che tutto ciò cominciasse? 
Mi sentivo debole, fragile più che mai, in quel momento sapevo solamente che volevo essere forte, che dovevo sapere, avevo il diritto di sapere tutta la verità. 
-          Quando ti ho tenuta in mano per la prima, unica volta, eri così piccola. Eri un piccolo batuffolo biondo, leggerissimo e bellissimo. Anche se avevi solo pochi giorni, avevi già la testa piena di capelli!
Quasi scoppiò a ridere, ma si contenne mostrandomi solamente un dolce sorriso. 
-          Eri davvero minuscola! Così tanto piccola che quasi stavi sulla mia mano!
Così dicendo aprì la mano destra e me la mostrò. 
-          E poi sono dovuto partire.
Improvvisamente il suo volto si rabbuiò, i suoi occhi divennero bassi, oscuri e assenti. Avevo paura di parlare, di pronunciare la fatidica domanda che mi pesava sul petto: dov’eri tu quando Sophia, mia madre, era morta? Dov’eri tu quando venivo trasportata da una famiglia all’altra?
-          Quando tua madre è morta e fu annunciata la tua scomparsa, pensai al peggio. Il giorno della tua nascita, molti avevano optato per avere il tuo affidamento. Famiglie di Angeli, di Demoni, anche di Caduti. Tutti avevano scoperto la verità su di te e sul tuo enorme potere: una capacità talmente unica e rara che in mani sbagliate avrebbe potuto procurare una vera condanna per tutti noi, anche se eri così piccola… E poi… 
Alzai lo sguardo verso di lui che, a sua volta, prese a guardarmi con talmente tanta intensità che sentii il mio stomaco ridursi quasi ad un chicco di riso. Sentivo il respiro affannoso, il cuore battere a mille contro la cassa toracica.
-          Annunciai la tua morte. 
Sentii il mondo cadermi addosso, mentre dentro di me milioni di schegge affilate laceravano tutto ciò che trovavano nel loro cammino. 
-          P…Perché?
Fu tutto ciò che riuscii a dire, con le mani sudaticce e tremanti che stringevano una parte del vestito scuro. 
-          Perché eri viva, Hariel. Quella notte temetti il peggio, ma non abbastanza per comprendere quanto falsa fosse questa mia assurda idea. Se tutti loro avevano ragione, se tu eri, anzi sei, tutto ciò che loro pensavano, beh, le conseguenze della tua morte sarebbero state disastrose per l’intero pianeta! E la conferma mi è arrivata il giorno in cui la domestica di tua madre, Doreen, venne a farmi visita fingendo di voler dare le dimissioni. 
Il suo viso si illuminò in un immenso sorriso che quasi mi sciolse il cuore. 
Pareva quasi che stesse rivivendo quel momento. 
-          E ti disse tutta la verità. 
Mi sfuggì di bocca, mentre i miei occhi cercavano disperatamente i suoi. All’inizio non capii perché quel gesto, per me, sarebbe risultato tanto importante: forse perché volevo sapere se avevo ragione, o forse perché, finalmente, dopo anni e anni in cui mi ero sentita completamente diversa dall’intero mondo, ora potevo finalmente dire a me stessa di aver trovato qualcosa che finalmente mi apparteneva. Un padre, una famiglia… E poi, come un fulmine al ciel sereno, il mio umore cambiò e altre mille domande si aggiunsero alle precedenti, lasciandomi quasi senza fiato. 
-          Non sei mai venuto a prendermi. 
Tremai dalla rabbia e gli lanciai un’occhiata di fuoco. 
-          TU MI HAI ABBANDONATA!
-          Io ti amavo Hariel, dal primo istante, dal tuo primo respiro! Perché mi parli così? 
Con le lacrime agli occhi, battei un piede a terra e gridai, con tutta la forza che avevo, con tutta la rabbia accumulata nell'ultimo periodo della mia vita. Urlai per l'esasperazione che mi riempiva il petto, fino a soffocarmi. 
-          Perché mi hai fatto questo! Perché per tutta la vita sono stata circondata da futili bugie, da stupidi sogni e da stupide speranze di una vita normale! 
Sentivo miriadi di lacrime scandire ogni secondo che passava, come un assillante promemoria di tutto il dolore che stavo subendo. E per un attimo mi chiesi: perché io? Perché la vita aveva scelto di scagliarmi tutto quello come un pesante macigno, con la quale potevo solo sperare di aver abbastanza forza per sostenerlo? Io, che di forza non ne avevo mai avuta abbastanza nemmeno per vivere la mia vita? Io che per diciassette anni avevo vissuto nella forza di mio fratello, sempre se avevo ancora il diritto di chiamarlo così? E poi avevo avuto la faccia tosta per fare lo stesso con Hesediel e Mikael e con tutti gli altri, come se la mia vita , in qualche modo, valesse di più della loro. 
E mi odiavo, mi odiavo così tanto in quel momento! 
-          Come sei riuscito a farlo, a fingere per diciassette anni che non contassi un bel niente per te, eh? Come puoi farlo quando io, allo stesso tempo, piangevo perché mi sentivo parte di qualcosa che non mi apparteneva? Mentre io mi sentivo così dannatamente diversa, SBAGLIATA?! Questo riesci a chiamarlo amore? Perché io non ci riesco, proprio non ce la faccio... 
Avevo detto tutto ciò con odio, tra le grida più alte che la mia gola avesse dovuto sopportare.
L'uomo davanti a me non parlava, era fermo e respirava a malapena, ma riuscivo comunque a vedere il suo petto alzarsi e abbassarsi attraverso il tessuto leggero della sua camicia azzurra. 
-          Forse hai ragione, piccola mia. Non ti avrò amata come meritavi, ma ti ho amato più che ho potuto, più di quanto tutti gli altri potessero accettarlo o almeno concepirlo. 
Quell'affermazione mi fece più male che uno schiaffo, eppure continuò a farmi piangere. 
E per un attimo sperai davvero che stesse mentendo, mentre la parte opposta di me mi gridava di abbracciarlo e di non dover temere più per niente perché finalmente avevo trovato la mia vera casa, il vero posto in cui potermi sentire davvero me stessa e al sicuro dagli occhi degli altri. 
E poi la porta si aprì con un colpo secco, mostrando l'imperiosa figura di Damabiah, spalleggiato da altri Angeli, che per me rimanevano volti senza nome, e lì, in fondo a tutti loro, Hesediel, che mi guardava impietrito davanti alla scena della quale ero la protagonista. 
Lanciai un'occhiata all'uomo, che però aveva già abbassato lo sguardo verso il pavimento. 
-          Va via Nicolas, mi pare che tu abbia già fatto abbastanza qui. 
Tuonò Damabiah con gli occhi fissi su di lui che, però, aveva ancora lo sguardo basso, come un condannato a morte. Per un attimo pensai che lui avrebbe alzato lo sguardo verso l'Angelo e gli avrebbe detto qualcosa, ma l'uomo si limitò ad avvicinarsi alla porta. 
-          Allora è così che finisce. Come puoi odiarmi così tanto?
Questa volta fui io ad abbassare lo sguardo, imbarazzata dalle mie grida. Lui non rispose e mise
una mano sulla mia spalla, lasciandosi sfuggire un breve sospiro. E poi tutto accadde in una frazione di secondo: l'immagine si stese davanti ai miei occhi, come un paesaggio davanti agli chi di un pittore.
 
“Vidi due grandi dita sfiorare la pelle nuda della schiena del neonato, lì dove due sottilissime cicatrici avevano lasciato il ricordo di un qualcosa che aveva tentato di lasciar sfuggire e che però aveva solamente lacerato un sottile strato di pelle.
-          Mamma mia, quanto è piccola! 
La voce maschile e famigliare mi riempì le orecchie con talmente tanta violenza che quasi non mi scoppiarono i timpani. 
-          E quanto è bella! Proprio come la sua mamma! 
L'uomo afferrò la neonata e la poggiò sul materasso, con delicatezza infinita, come se persino un respiro stonato dagli altri avesse potuto farle del male. 
-          Avete già scelto un nome per lei? 
E solo allora riuscii a riconoscere quel tono di voce. Damabiah lasciò che il padre della piccola potesse riprenderla tra le sue braccia. 
-          Hariel. 
Mi sentii sprofondare nel vedere il volto dell'uomo che, un attimo prima, era avanti a me e adesso sorrideva all'Angelo che lo aveva scacciato. 
-          Colei che porta chiarezza.
Vidi Damabiah sorridere mentre pronunciava quelle parole con tono potente. 
-          Il Leone di Dio, la sua più grande potenza, é così che l'hanno chiamata! Come se fosse un'arma, questo proprio non riesco ad accettarlo. 
Detto questo alzò la bimba verso la luce artificiale del lampadario, anche se la bambina stessa pareva brillare di luce propria. 
-          É destinata a grandi cose, lo sai. 
Nicolas avvolse la bambina con una copertina, poi si voltò verso l'Angelo, guardando serio nei suoi occhi chiari. 
-          Lei non sarà mai costretta a fare qualcosa che non vorrà. Hariel non sarà mai un oggetto nelle loro lucide mani.
Nicolas lasciò la bimba nella culla e, senza smettere di guardarla, prese a mormorare piano le note di una vecchia ninna nanna.
-          Neanche se questo dovesse prevedere la fine dell'immenso Piano che il Signore aveva per ognuno di noi? 
La frase che Damabiah pronunciò, bloccò la ninna nanna di Nicolas che afferrò con dolcezza il ditino della bimba, e questo sembrò riservargli un tenero sorriso.
-          Neanche se fosse Dio stesso a reclamarla.
Riuscii appena a vedere Nicolas incontrare gli occhi della bambina, con gli stessi occhi adoranti che avevo anch’io, una volta, guardando quello che avevo creduto fosse mio padre. Uno sguardo pieno di orgoglio, e poi tutto divenne buio."
 
Fui catapultata violentemente alla realtà, mentre il mondo si faceva più delineato e dettagliato sulle mie retine. Eppure qualcosa continuava a sfumare la scena davanti a me. 
Forse le lacrime, forse la verità che mi era stata negata per molto tempo. 
-          Ti prego, non andare.
Ma quando la mia vista migliorò, Nicolas era già lontano, verso la porta. 
-          Non puoi farlo ancora! Non puoi abbandonarmi così!
Corsi in avanti, ma Damabiah e Hesediel mi fermarono, bloccandomi entrambe le braccia. 
Mi voltai prima verso l’Angelo e, per la prima volta, lo guardai con occhi diversi. Con gli occhi di una persona nuova, che sapeva una verità che tutti fingevano di non conoscere. 
E poi mi voltai verso Hesediel che, però, non mi guardava dritto negli occhi come sempre. Il suo sguardo era distante, assente, come se stesse ricordando qualcosa di molto lontano da allora. 
-          Lasciala. 
Era la sua voce, eppure tutto mi pareva diverso in quell’istante.
Quante cose erano cambiate in quella frazione di secondo in cui avevo visto la mia vera identità, in cui avevo conosciuto il mio vero sangue, per la prima e forse ultima volta?
Damabiah disse qualcosa, ma le parole rimbombarono nel nulla. Per un attimo sentii solo le dita calde di Hesediel abbandonare il mio braccio, e il suo sussurro suggerirmi di correre, e alla svelta.
E così feci. 
Superati Damabiah e Hesediel, superati gli Angeli, e superata la prima porta, riuscii a raggiungerlo. 
Lo abbracciai da dietro, piangendo, mentre lui si voltava piano, guardandomi quasi con confusione. 
-          Ti prego non lasciarmi!
Lui mi guardò negli occhi. Le sue iridi blu nelle mie. E poi infilò una mano nella tasca dei pantaloni, tirando fuori un cartoncino. 
Me lo mise tra le mani, poi si avvicinò a me, baciandomi la fronte.
-          Per ora è meglio così, piccola. Ma io ti ritroverò, sempre!
Lo guardai mentre si allontanava, oltrepassando il grande portone. Mi strinsi in me e Hesediel si avvicinò, senza parlare. Mi baciò la fronte e mi circondò nelle sue braccia. Ma io non riuscivo a guardarlo. 
Volevo soltanto morire, ancora. 
Abbassai lo sguardo verso le mie mani, che stringevano ancora il cartoncino. 
“ Via del Santo Cuore, 87. Io posso aiutarti. –Papà.”
 
Mikael
 
Guardai il vuoto tremulo della stanza, lo sguardo fisso in un punto inesistente. 
Sentivo il mio cuore battere forte contro la cassa toracica, e sembrava non aver alcuna intenzione di farla finita.
Dalla zona inferiore del convento urla e gemiti salivano alti, come sussulti spaventosi del vento, preceduti da grandi passi che correvano chissà dove e porte sbattute con furia.
Avrei voluto solo avere la forza di alzarmi da quel letto e andare a controllare cos’era successo, ma il mio corpo mi imponeva di rimanere lì, immobile, a respirare il silenzio e a farne dono, una volta tanto. Ma perché parlavo così tanto? Perché qualsiasi cosa uscisse dalla mia bocca pareva il veleno fatale di una serpe assassina?
Ma poi decisi: dovevo alzarmi. 
Feci forza sulle braccia e alzai il mio peso dal materasso sfondato, e mi sporsi in avanti. 
Per un attimo le immagini davanti a me furono distorte da un improvviso giramento di testa che, per qualche secondo, mi tolse il fiato. 
Dondolai fino alla porta, dove trovai sostegno nella gelida maniglia d’ottone, che parve l’unica cosa in quella stanza vuota a darmi sollievo. 
Chiusi gli occhi e respirai profondamente, stordito da quel brusco cambiamento fisico che era appena avvenuto in me, senza controllo. 
L'oggetto era freddo, immobile, proprio come me.
Bene Mikael, hai raggiunto il massimo delle tue aspettative, pensai senza muovermi di un millimetro. Ora sei il pomello della porta, una volta quel pensiero mi avrebbe fatto ridere, ma non quella. 
Almeno sono un bel pomello, la mia finta modestia continuò a non farmi nemmeno sorridere.
-          Ok, adesso basta, sono stufa! Pensi davvero che questo servi per proteggermi? Perché io non credo!
Hariel. La sua voce mi fece sussultare, il mio cuore prese a scalpitare di una strana paura che non capivo; era la stessa sensazione di quando sei un ragazzino e i tuoi genitori ti beccano mentre violi una regola da loro imposta.
In quell'istante non feci nulla, bloccato dalla nauseante sensazione di aver fatto qualcosa che non andava fatto. Ma improvvisamente capii; quell'agitazione, quell'ansia, quella paura, non erano mie, non mi appartenevano.
Erano state inviate...
-          NO, TU SMETTILA! Smettila di far finta che non sia successo niente, o che un gruppo di Demoni non ti abbia rapita o quasi uccisa!
Gabriel. 
Il suono della sua voce mi inviava, invece, sensazioni reali, che mi appartenevano. E la prima a scuotere il mio animo fu sicuramente l'irritazione, seguite da altre non molto piacevoli. Il mio corpo mi spinse verso la finestra aperta dalla quale, purché da una notevole distanza, riuscivo a vedere l'intera scena: Hariel e Gabriel erano l'una davanti all'altro, mossi semplicemente da un tremito di rabbia e affanno causato dalle alte grida.
Salta, suggerì una voce nella mia testa.
E sta attento a non farti vedere!, le diedi ragione. Affacciato alla finestra, notai che erano abbastanza lontani perché potessi saltare nella siepe senza essere beccato.
Potevo farcela. 
Senza staccare gli occhi dalla siepe saltai, sentendo l'aria irrompere tra i miei capelli e modificarne la forma a suo piacimento.
Atterrai sui piedi, perfettamente in silenzio, come un felino, un piede avanti all'altro, senza esitazioni. 
-          Pensi di potermi proteggere, non è così? Oppure pensi che io ti debba qualcosa, per avermi custodita come un trofeo da mostrare? 
Hariel tremava, i suoi occhi azzurri vibravano di tristezza.
-          Io sono tutto ciò che rimane della tua famiglia! Quella che ti ha mantenuta fino a poco tempo fa!
Gabriel, invece, ringhiava e mostrava i denti, come un animale.
-          E tu questa la chiami famiglia? Un paio di persone che si vedono a malapena e che mantengono il loro rapporto raccontandosi bugie? È questa la famiglia per te?
Gli occhi di Hariel erano tristi e impenetrabili. Difficili da dimenticare quando sai che, un tempo, avevi la sua stessa espressione disegnata sul volto.
Sentivo le dita di Gabriel scrocchiare in un pugno, che faceva ricadere pesantemente sul fianco destro.
-          Hariel...
Il suo era un ringhio spaventoso, stava per perdere la pazienza, eppure Hariel non lo accontentò, continuò a gridare e a piangere ininterrottamente.
-          Tu non sai niente sulla famiglia! 
Gridò lei, facendo un passo avanti.
-          Questa è la tua famiglia, ora! 
E con forza si strappò la catenina che portava al collo, probabilmente un cimelio di famiglia.
Allora Gabriel scattò in avanti, con un nuovo ringhio, ancora più spaventoso del precedente. Sembrò passare meno di una frazione di secondo quando Hariel si ritrovò a terra, la mano poggiata sulla guancia pulsante, che brillava di luce rossastra lì dove era stata colpita dal colpo preciso di Gabriel. 
-          Io ho deciso che tu saresti potuta rimanere con noi, i MIEI genitori non sapevano nemmeno se tenerti con loro o aspettare che l’ambulanza ti portasse via!
Scoppiò a ridere quando si accorse di aver sottolineato quella possessione sui suoi genitori. 
-          E poi ci sono i tuoi genitori! Ma loro che hanno fatto, invece?
Le sorrise, maligno. La ragazza, invece, tremò ancora, il labbro inferiore e roseo si muoveva lentamente, come i suoi occhi azzurri e opachi. Hariel era una candela che stava per spegnersi.
-          Tua madre di ha abbandonata, tuo padre ha preferito vivere la sua vita come se tu non fossi mai nemmeno esistita. Io sono la tua famiglia, Hariel, e non ti permetterò di fuggire di qui ancora una volta! 
Hariel tremò, solo un attimo, poi guardò Gabriel e, con non so quale forza riuscì a dire con voce seria:
-          Allora preferisco restare senza una famiglia.
Un'affermazione tanto pungente da gelarmi il sangue nelle vene. Ma c'era qualcosa in me che bruciava, all'interno della mia anima sepolta, lì dove risiedeva il mio infallibile istinto, per la quale molti mi ricordavano. Lo stesso istinto che in quel momento mi diceva che Gabriel l'avrebbe colpita ancora una volta e che era il momento di reagire.
Saltai in avanti e con la mia velocità, riconoscibile solo in determinati Angeli, afferrai Hariel e la spostai a una decina di metri da lui.
Quando Gabriel mi vide, con la stessa rapidità con cui lo avevo allontanato, azzerò le distanze, facendomi battere la testa a terra.
Lo afferrai per il colletto della camicia e feci lo stesso, ribaltando i ruoli.
Lo strattonai con talmente violenza che riuscii a vedergli un rivolo di sangue segnargli la tempia e bagnargli una piccola ciocca di capelli biondi. Mi sorprese quando, con una spinta, mi fece ricadere bruscamente a terra, procurando un rumore talmente forte da attirare file di curiosi intorno a noi. Anche Lia.
-          Portatela via.
Fu tutto ciò che riuscii a dire, in un sospiro.
Alcuni si avvicinarono ad Hariel, che però non parve volersi muovere di un solo millimetro dalla propria posizione.
Gabriel si lanciò verso di me, ringhiando. E Lia lo guardava. Mi guardava! I suoi occhi divennero ancora più scuri quando, spaventata, gridò:
-          ATTENTO! 
O forse lo immaginai talmente tanto da crederlo reale un attimo prima che la lama infuocata di Gabriel mi colpisse...
 
Lia
 
Strillai, ma l'attimo dopo Mikael era a terra, un braccio allungato avanti a sé, in direzione di Gabriel che venne catapultato contro la parete bianca. Mikael gridava, o forse gemeva dallo sforzo delle sue azioni. Un’azione che mi riempi il cuore di paura quando lui chiuse con forza la mano in pugno e un rumore di ossa spezzate riempì l'aria.
Un ultimo grido, solo uno, poi entrambi gli angeli ricaddero a terra...
 
 
Gabriel si voltò meccanicamente quando, debolmente, bussai alla porta già aperta della sua stanza. Senza che lui rispondesse, entrai. 
-          Sono uno stupido, non è così? 
Mi vietai, mentalmente, di rispondergli e mi sedetti di fianco a lui, sul letto dalle coperte grigiastre.
-          Volevi proteggerla.
Mi limitai a dire, guardando le mie mani intrecciate contro il mio grembo.
-          L'ho picchiata, Lia. Per diciassette anni ho fatto di tutto perché non accadesse mai, perché nessuno la ferisse. E poco fa sono stato io a farlo.
Mi voltai a guardarlo, e vidi molto più di due iridi dorate; in fondo a quello sguardo notai la tristezza, il terrore di aver perso tutto ciò che amava.
-          Per tutta la vita le ho promesso che mai, neppure una volta, si sarebbe mai dovuta sentire sola. Ci sarei sempre stato io a proteggerla, a stringerla a me quando sarebbe stata triste.
Gabriel si piegò su sé stesso e si coprì il viso con le mani grandi e pallide.
-          Sono stato un bugiardo.
Ebbi un brivido, sentendo la voce di Gabriel spezzarsi in un gemito, poi i miei occhi formarono una sottile patina di lacrime che prese a sfumare la mia visuale.
Non avevo mai visto Gabriel piangere, e mai avrei voluto farlo. Ma quelle lacrime, che tanto mi bruciavano gli occhi, non erano le mie, e neppure riuscivo a sentirle tali.
Il mio sguardo si posò sul braccialetto che mi sfiorava il polso, e lentamente presi a respirare, concentrandomi a far mia quella sensazione di calma sperando che, forse, anche Hariel l'avrebbe provata.
-          Come sta? 
Rimasi in silenzio e il respiro rimase fermo tra le mie labbra talmente tanto a lungo che i miei polmoni presero a bruciare.
-          Appunto.
Non disse nient'altro per un bel po’ di tempo, abbastanza a lungo per percepire i nostri battiti cardiaci andare uno più rapido dell'altro, come in una gara senza premi. Strinsi gli occhi e, allo stesso tempo, le mani in pugno contro le coperte. Dovevo sembrare proprio una stupida!
-          Cosa posso fare per farti stare meglio? 
Tutto pur di rompere quel dannato silenzio tra di noi. Per un attimo pensai che avrebbe detto "Niente", poi i suoi occhi smisero di tremare e, con il suo intero corpo, si voltò verso di me.
Provai a guardarlo, ma al tempo stesso non riuscivo a sostenere tanta brillantezza, 
così abbassai lo sguardo, chiudendo quasi del tutto gli occhi.
Sentii il calore del corpo dell'Angelo farsi sempre più vicino mentre io rabbrividivo.
Le sue dita mi sfiorarono il polso che reggeva il braccialetto, ma furono talmente calde e improvvise che mi ritrovai ad allontanarmi con un gesto fulmineo. Pensai che Gabriel se la sarebbe presa, ma, al contrario, sorrise. 
-          Non muoverti...
La sua voce fu un sussurro leggerissimo.
Quando la sua mano ritornò sul mio polso, trattenni il fiato, e aprii un po’ di più gli occhi, abbastanza per vedere le sue abili dita sfilarmi rapidamente il gioiello.
-          Ma... 
Gabriel mi interruppe solamente avvicinando di più il viso al mio.
-          Voglio solo che quello che sto per fare sia reale.
Il mio cuore si ritrovò a sopportare nuovi battiti, sempre più massicci e veloci contro le costole.
-          Como? 
Sentii Gabriel sorridere mentre il suo viso era talmente vicino da poter sentire l'odore del suo respiro freddo contro il mio volto.
E poi le sue labbra sfiorarono le mie, delicatamente, come se da un momento all'altro mi sarei potuta rompere in mille pezzi.
Erano calde, dolci, mentre si muovevano contro le mie. Ricambiai il bacio, poi Gabriel inarcò il suo corpo verso il mio, dando più intensità al bacio. Ricambiai nuovamente, poi qualcosa mi frenò, facendomi rabbrividire.
-          Gabriel...
Mi staccai dal suo corpo e ripresi respiro, indietreggiando sul letto e riprendendo il braccialetto dal materasso.
-          Io... Mi... Mi dispiace.
Anche Gabriel si allontanò, abbassando lo sguardo e poggiando prima i gomiti sulle ginocchia, poi la testa tra le mani.
Non parlò, non si mosse neanche di un millimetro. L'avevo ferito ancora di più, e non potevo far niente per evitarlo.
E allora non potei far altro che alzarmi e dirigermi verso la porta.
-          Vai da lui, non è così? 
Sapevo già a chi si riferiva, ma non risposi. Aprii la porta e feci un passo avanti ma, prima di oltrepassarla del tutto, lanciai un'occhiata alle mie spalle, lo sguardo fisso verso la figura dell'Angelo ricurvo su sé stesso e con lo sguardo pieno di tristezza e rimorso.
-          Sei un bravo fratello, Gabriel.
 
Mikael
 
La porta si aprì scricchiolando, di una lentezza infernale, e da lì subentrò la figura esile di Lia, con i capelli scuri che le scendevano sulle spalle e le mani che reggevano un vassoio lucente, sul quale erano posizionate file e file di bende pulite e varie boccette che contenevano, sicuramente, medicinali. 
-          Aladiah è già passata, per tua informazione. 
Lei non mi guardò neanche, fece un passo avanti e, con il piede, chiuse la porta, facendola sbattere rumorosamente. Posò le bende e le boccette sul letto, poi si sedette di fianco a me. 
Con assoluta non curanza mi afferrò la mano bendata e iniziò a sfilare la benda che presentava già piccoli puntini rossi in superficie. 
-          Infatti, è lei che mi ha mandato qui, ha dimenticato di disinfettare la ferita sulla mano e ha chiesto a me di venire. 
Non aggiunse nient’altro ed io la guardai mentre mi sfilava la benda dalla mano, mostrando lo strano squarcio che mi si era formato sul palmo quando la Luce era sprizzata via dalla pelle, colpendo Gabriel e facendolo arrivare sulla parete del convento. 
-          Qui devo disinfettare.
Disse allungando l’altro braccio verso una boccetta bianca.
-          Brucerà per un po’. 
E detto questo spruzzò il contenuto liquido su un pezzo di ovatta grande quanto la mia mano, per poi posarlo sulla ferita. Un brivido mi percorse la schiena quando il liquido entrò in contatto con la pelle ancora lacerata. Poi passò sui polpastrelli, anche se lì le ferite erano quasi del tutto rimarginate. 
-          Fa male?
In un attimo notai quanto la sua voce si fosse spezzata, in un batter di ciglio. Alzai lo sguardo verso di lei, ma Lia manteneva gli occhi sulle sue mani, tremanti contro le mie. 
La guardai, senza darle una risposta ben chiara. Volevo solo che lei andasse via di lì. Volevo soltanto rimanere solo. 
-          No. 
La mia risposta risultò più secca di quanto volessi. 
Silenzio assoluto, così tentai di migliorare la situazione con un “Ma grazie dell’interessamento.”, anche se lei non si voltò. 
Lia tentò di nascondere le lacrime mentre, rapidamente, afferrava la benda e la faceva scorrere lungo il palmo della mano, con attenzione infinita.
-          Non farlo mai più. 
La sua voce ruppe il silenzio tombale che si era formato tra di noi, come una nebbia protettiva che non ci permetteva né di attaccare né tantomeno di essere feriti. 
-          Cosa? Prendere a calci in culo il tuo fidanzatino? 
Inclinai la testa verso di lei, e mi costrinsi a farle un sorrisetto ironico. 
-          Mi dispiace ma è stato lui a cominciare. Io mi difendevo dal tuo angioletto e proteggevo Hariel. 
Lia alzò lo sguardo verso di me, e schiuse le labbra, lentamente. 
-          Avrebbe potuto ucciderti!
Si alzò di scatto e indietreggiò rapidamente. 
-          Pensi davvero che una checca come Gabriel possa anche solo scalfirmi?
Lia mi dava le spalle, ma improvvisamente si voltò, i suoi capelli si mossero rapidi nell’aria immobile della stanza, come frustate mute.
-          Prima di arrivare lì, ero nella biblioteca del convento. Cercavo informazioni su ciò che erano i nostri Alleati, un tempo: gli Arcangeli.
Mi fermai a guardarla mentre i suoi occhi si riempivano di strane lacrime. 
-          Dio diede loro un terribile potere, che poteva essere definito come la prima maledizione mai esistita: gli Angeli potevano avere tutto, come non potevano avere niente, ma gli Arcangeli, beh, loro potevano avere tutto ciò che volevano. Dio dava loro un obbiettivo, e loro lo avrebbero superato in un modo o nell’altro. Anche l’aspettativa più semplice poteva trasformarsi in un bagno di sangue senza limiti. 
Tremava, piangeva, era immobile ed era fuggiasca. Mille sentimenti contrastanti mi riempivano il petto, scalpitando furiosamente per arrivare a un traguardo inesistente. La realtà dei fatti che però nessuno vedeva. Era lontana, quasi quanto la verità che Lia manteneva dentro di sé. 
-          Gabriel è uno di loro, non è così? 
Non mi mossi, non dissi nulla, la guardai e basta. La risposta mi rimase suggellata tra le labbra, senza sfuggirmi. 
Gabriel era un Arcangelo, come tutti gli altri. 
E come con tutti gli altri, lo avevo affrontato senza paura, prima e dopo la Caduta. 
Per un Paradiso senza oppressioni. Per un mondo migliore, senza paura dei sentimenti e di Dio. 
Un’esistenza piena di amore e di speranza, per un mondo dove Angeli e Uomini, Mortali ed Eterni, avrebbero potuto vivere in pace per la Grazia di Nostro Signore. 
Era questa la nostra causa, il motivo della nostra Caduta.
-          E tu lo sapevi. 
E adesso guardavo lei, con gli stessi occhi con cui, per la prima volta, vidi un essere umano, con gli stessi occhi con cui avevo guardato Alissa ogni giorno prima della sua morte.
Con gli stessi occhi guardavo Lia, senza che lei ricambiasse tale intensità. 
I suoi occhi erano fiamme scure, che brillavano, si contorcevano in tiepidi tremiti, che scoppiettavano di un fuoco tremendamente soffocante. 
-          Forse sarebbe stato meglio se l’avesse fatto, non trovi?
Quella frase mi uscì spontaneamente, senza alcun timore di ciò che lei avrebbe pensato.
Lia non parlava, era immobile davanti a me, con lo sguardo perso nel mio. 
Forse, infondo, pensava anche lei che avevo ragione. Forse una parte di lei, non so quale e di quanta importanza, sapeva che la sua vita sarebbe stata più facile senza di me nei paraggi. 
-          Io ti odio. 
Fu tutto ciò che riuscì a dire, spezzando il silenzio. 
-          Ti odio così tanto!
I suoi occhi si fecero pieni di lacrime, talmente grandi e pesanti che le fu quasi impossibile tenerli aperti. 
-          E ti odio perché non riesco a odiarti! Ed è così… frustrante
Mi sembrava quasi impossibile vederla come un leone furioso quando il suo aspetto era simile a quello di un gattino terrorizzato. 
-          Io voglio odiarti, perché sarebbe meglio. Perché così tutti sembrano soffrire di meno, anche se in piccola parte. E vorrei odiarti, con tutto il cuore e con tutta l’anima! Ma lo giuro…
Si fermò un attimo per prendere fiato, poi incollò le braccia lungo i fianchi, con un gesto secco. 
-          Io lo giuro. 
Un’altra pausa mentre i suoi respiri diventavano sempre più affannosi. 
-          Ci ho provato. Ma non ci riesco. 
Non riuscivo a guardarla, volevo solamente scomparire dal suo mondo. Lei non mi voleva, eppure sentivo che se fosse svanita il mio avrebbe fatto lo stesso. 
-          Si chiamava Alissa. 
Sentii i suoi occhi sulla mia pelle, scrutarmi piano, studiando la mia espressione cupa, piena di rimorso. 
-          L’ho vista morire davanti ai miei occhi. 
Strinsi le mani in pugno e gemetti. 
-          Avrei potuto salvarla, ma non l’ho fatto. 
Le parole uscivano, mio malgrado, con rabbia, con una forza che sembrava non finire mai. 
-          Ed è morta. 
Pensavo che non avrebbe parlato, ma taciuto nel mio dolore, lasciandomi solo nella mia oscurità, nel mio passato che mai sarei riuscito a dimenticare. 
-          Non riesco a capirti, Mikael. Un minuto prima mi odi, l’attimo dopo mi stai appiccicato, prima sei protettivo, poi totalmente assente. Ed ora… 
Poi abbassò lo sguardo, e strinse le mani contro lo stomaco, come se stesse per vomitare. 
E fu allora che notai il braccialetto di Hariel scintillare sul suo polso. 
Lia prese a tossire e si piegò piano, e, involontariamente, dondolò avanti e indietro. 
Scattai, fulmineo, verso di lei, per reggerla prima che cadesse. 
Singhiozzò contro di me, ed io la aiutai a reggersi in piedi. Un rivolo di sangue le era scivolato dal labbro e fu allora che il mio cuore prese a palpitare notevolmente. 
-          Che cosa vuoi davvero?
Quando alzò lo sguardo, i suoi occhi erano completamente asciutti, come se tutte le lacrime fossero scomparse miracolosamente. Con la mano libera le sfiorai il mento, e avvicinai il viso al suo. La sentii chiudere gli occhi, e le sue labbra si mossero come se volesse parlare, ma io la zittii, avvicinandomi ancora di più a lei. Sfiorai piano le sue labbra con le mie, sentendo il sapore del suo sangue entrare in contrasto con quello dolce della sua bocca. 
Fui preso da un attimo di terrore quando le sue labbra si fermarono.
-          Lia…
Sussurrai. Forse stavo per scusarmi, forse stavo per riprendere, oppure stavo per aprire gli occhi alla realtà. 
-          Shh… 
Il suo fu solo un sussurro quando, infilando le dita tra i miei capelli, mi baciò, con più intensità di prima. Il suo corpo sfiorò il mio, per un attimo, mentre le nostre labbra danzavano le une contro le altre, un tango lento, passionale, pieno di magia. 
Aprii lentamente gli occhi e la guardai. I suoi erano un misto di paura e sconforto. 
Allungò una mano verso il mio viso e mi sfiorò lentamente la guancia, fino a scivolare sulle mie labbra, raccogliendo il sangue che lei stessa mi aveva lasciato durante il bacio.
-          Salvala, Mikael. So che è questo ciò che vuoi.
 
Hariel
 
Strinsi il bordo del lavandino con forza, sentendo le nocche di entrambe le mani diventare bianche, e le dita indebolirsi pian piano. 
Il sangue usciva a fiotti dalla bocca, incontrollatamente, e non sapevo quanti asciugamani avessi usato per tentare di ripulire il danno, senza alcun successo. 
Fermati, fermati, DANNAZIONE!, nella mia mente gridavo, ma nella realtà non avevo la forza nemmeno di riprendere respiro. Lanciai uno sguardo allo specchio mentre il sangue, lentamente, si bloccava, soffermandosi sul mio viso e sulla montagna di asciugamani che avevo accumulato sul lavandino. Respirai, sempre più rapidamente, tentando di riprendere il controllo di me stessa. Ma il mio cuore continuava a pompare sangue con più veemenza, e le mie labbra non sentivano altro che sapore metallico su di loro. 
-          Oh mio Dio, ma cos’è successo? 
Mi voltai di scatto verso la figura di Hesediel, bloccato vicino alla porta. I suoi occhi azzurri erano spaventati, completamente spalancati verso di me. 
-          Hesediel!
Corsi per abbracciarlo, terrorizzata, e lui non si staccò da me, nemmeno per un secondo. 
Lo strinsi a me, con forza, mentre le sue mani calde mi sfioravano la schiena, per fare lo stesso. 
-          Devi aiutarmi. 
Gemetti, tentando di pulirmi il viso con la manica del pigiama che uno degli Angeli mi aveva portato quando Damabiah stesso mi aveva scortato in camera, seguito da un gruppetto di Angeli e Uomini. 
-          Che cosa devo fare? 
La domanda era così chiara, semplice, eppure non riuscii nemmeno per un attimo a parlare. 
Un rumore distolse la mia attenzione, ma decisi di non aprire gli occhi, anzi, li strinsi con ancora più forza affinché tutto ciò che riuscissi ad avvertire fossimo io e Hesediel, insieme. 
-          Dobbiamo portarla a Via del Santo Cuore. 
Aprii gli occhi per incrociare quelli di Mikael, le quali labbra, come le mie, erano sporche di sangue ormai raffermo. Iniziai a tremare quando Hesediel prese a lasciare la presa su di me. 
-          Da suo padre.
E poi Mikael lanciò a terra il cartoncino che Nicolas mi aveva lasciato.
Quello di mio padre.
 
Siamo noi i figli degli antichi mostri
e dei giganti delle epoche passate?
Siamo noi eroi possenti
o solo piccole persone di sempre?
A noi appartiene il mondo e la realtà,
noi ne siamo i padroni…
Oppure siamo solo schiavi ribelli
sempre in lotta alla ricerca di qualcosa?
Vediamo lontano ma siamo ciechi,
sentiamo tutto ma siamo sordi...
Siamo noi angeli caduti e immemori,
oppure siamo demoni tristi
battuti ma non rassegnati?
Siamo noi messaggeri
che non ricordano
quale sia il messaggio
e quale la sua destinazione?
Amiamo e odiamo
con forza e passione
oppure restiamo immobili
per tutta la vita
ottenebrati dall’orrore
della rivelazione?
Forgiamo da soli il nostro fato,
oppure crediamo in superiori forze
che ci obbligano ad un triste destino?
Siamo noi esseri immortali,
ignari della nostra natura
e imprigionati in una materia
dolorosa e mortale?
Siamo noi gemme splendenti
ma sporche di fango…
Siamo noi stelle cadenti
ma che brillano intense…
Siamo noi capaci di gelido fuoco,
Siamo noi capaci di malvagità,
Siamo noi capaci di bontà.
Siamo noi Angeli o Demoni…
Ma dove sta la verità?

( Vallant Langosco )

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