I'm not as bad as you think.

di plateau_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sigh no more. ***
Capitolo 2: *** The cave. ***
Capitolo 3: *** Winter winds. ***
Capitolo 4: *** Roll away your stone. ***
Capitolo 5: *** White blank page. ***
Capitolo 6: *** I gave you all. ***
Capitolo 7: *** Little lion man. ***
Capitolo 8: *** Timshel. ***
Capitolo 9: *** Thistle and weeds. ***
Capitolo 10: *** Awake my soul. ***
Capitolo 11: *** Dust bowl dance. ***
Capitolo 12: *** After the storm. ***



Capitolo 1
*** Sigh no more. ***


"Serve God, love me and mend
this is not the end
live unbruised we are friends
and I’m sorry."
Mumford and Sons, Sigh no more.

 
Bahorel.

Lunedì, prima ora, chimica. Preferirei camminare sulle braci ardenti, piuttosto.
È una materia abbastanza pesante da seguire, specialmente quando non apri libro più o meno dall’inizio dell’anno. Come se non bastassero a motivarmi il mio non-studio e l’inizio tragico della settimana, un mal di testa martellante mi sta divorando vivo.
Perché? Perché ieri sera ho avuto la felice idea di seguire Grantaire al pub; non l’avessi mai fatto! Come al solito, non ha fatto altro che parlare di quell’inquietante e strano rappresentante d’istituto tanto fissato con le manifestazioni e quant’altro – Enjolras, forse? Continua a sfuggirmi il suo nome. Questo perché Grantaire si riferisce a lui sempre e solo con Apollo. Che poi, perché Apollo? Non credo di voler sapere quale sia l’origine di questo nomignolo, effettivamente.
«Non mi considera.» Diceva tutto triste, mentre scolava l’ennesimo cocktail dalla dubbia provenienza.
“Chissà perché…” pensavo, fra me e me.
In ogni caso, tanto ha parlato e tanto ha fatto che ho alzato il gomito anch’io. Pessima decisione, davvero, perché poi ovviamente è finito tutto in rissa con dei tizi che erano lì al tavolo accanto – Théo e la banda. Un tempo andavo in giro con loro, poi ho rivisto le mie priorità. Fortunatamente per me e per il mondo, mi sento in dovere di aggiungere.
Non che mi dispiaccia infondo prendere a pugni gente a caso e/o idioti di mia conoscenza – che ho da perdere dopotutto? –  ma l’aria da comatoso e il labbro spaccato non sono esattamente il meglio per rimorchiare di lunedì mattina.
Eccolo il mio regno, la scuola: gli occhi sono tutti puntati su di me, mentre faccio il mio giro trionfale per i corridoi; il sole che mi bacia il volto, la leggera brezza di fine settembre che mi scompiglia dolcemente i capelli– no, sto esagerando adesso.
In ogni caso, gli occhi sono tutti puntati su di me… e poi spunta fuori Joly da qualche parte vicino agli armadietti facendo un fracasso tremendo. Mi afferra per la collottola e, agitandomi quasi fossi un delizioso frappè alla fragola, mi urla in pieno volto con aria scossa e disperata: «Ho il vaiolo, Bahorel, ho il vaiolo!»
«Il va… cosa?»
«Il vaiolo! Guarda, guarda! Sta iniziando, si diffonderà in pochissimo tempo! Oh, Dio, morirò presto. Forse dovrei andare da Musichetta… devo dichiararmi prima di morire, Bahorel, o non dirle niente al fine di non farla disperare una volta che sarò morto e sepolto? Aiuto Bahorel, sono troppo giovane per morire!»
Spesso mi chiedo quale sia la droga che gira in quella pseudo associazione politica dove tutti i ragazzi si incontrano la sera, quella gestita dall’Apollo di Grantaire. So solo che è molto pesante, perché Joly sta urlando in mezzo a centinaia di persone di avere il vaiolo, mentre si indica un minuscolo brufolo sulla fronte. Forse dovrei iscrivermi anche io, e prendere quel che passa il convento.
«Joly, per l’amor del cielo, è un brufolo.» Bossuet che arriva in mio soccorso. Santo, bravo, dolce e caro Bossuet.Cosa farei senza di te, che tieni sotto controllo questo pazzo giovane schizzato ipocondriaco?
«Ho appena visto Courfeyrac correre in cortile, mi ha detto che c’è rissa fuori. Suppongo questo possa interessarti.» Dice Bossuet, con un sorriso ironico, mentre tappa con una mano la bocca di Joly che non vuole calmarsi.
Lunedì, prima ora, chimica, e fuori c’è rissa. La mia giornata è appena diventata divertente.
Con molta calma mi sfilo giacca e zaino, e deposito ai piedi del giovane – inutile provare a parlare con Joly, che si tortura istericamente le mani in preda alla disperazione più nera, bofonchiando contro la mano di Bossuet parole come “vaiolo”, “morire” e “Musichetta”.
Una ragazza ci passa accanto con delle orchidee fra le braccia, e Joly starnutisce.
«Aiuto! Morirò per l’allergia ai fiori! Polline, polline ovunque!» Urla, ma nessuno dei due lo considera più di tanto.
«Bossuet, ho del lavoro da fare. Ci vediamo in classe.» Gli dico, mentre mi avvio senza ulteriori spiegazioni verso il cortile.
Nessuno a scuola, nessuno si azzarda ad iniziare una rissa degna di essere chiamata tale senza di me; è una regola fondamentale. Ergo, qualcosa non va.
E infatti mi rendo conto che qualcosa di sbagliato c’è davvero una volta giunto fuori. Non c’è nessuna rissa.
I bastardi della sera prima – e qui mi congratulo con me stesso per non essere stato così tanto fuori e ubriaco fradicio da riuscire ricordare effettivamente di aver preso a pugni Théo & Co. – se la ridono meschinamente mentre uno di loro sbatte un ragazzo con veemenza contro il muro. Questo se ne sta in silenzio, senza dire una parola, accusando il colpo.
Non lo conosco di persona, ma l’ho visto qualche volta in giro. Jehan, o qualcosa del genere. Se ne sta lì con aria tranquilla, libri in mano e lo sguardo attento. Sembra così fragile, comparato ai quattro armadi che lo stanno prendendo in giro. “Fragile, bello, roseo”, sono le prime parole che mi saltano in mente guardandolo.
Sento una delle scimmie senza cervello chiedere: «Niente coroncina di fiori, finocchio?»
Inizio a sentire la rabbia crescere, specie perché nessuno interviene: decine di ragazzi e ragazze stanno assistendo alla scena, ma sono tutti in silenzio. Non sono una delle persone migliori a questo mondo e ne sono cosciente, ma non sopporto quelli che se la prendono con i più deboli.
«Niente coroncina di fiori. Tuo padre l’ha presa come souvenir quando ha lasciato casa mia l’altra sera, e non ho avuto il tempo di farne un’altra. Magari posso farne una anche per te se vuoi… Sai, solitamente si dice “tale padre, tale figlio”. Per quanto mi riguarda io amo le orchidee, tu hai per caso un fiore preferito?»
Sono così spiazzato che quasi non mi rendo conto del pugno che il poveraccio si becca in pieno volto. Neanche io sarei riuscito a tirare fuori una frase così… fantasiosa. Forse debole non è la parola più adatta a quel giovane dai capelli rossicci.
Fragile, ma coraggioso.
Cerco lo sguardo di Courfeyrac fra la folla, e gli faccio un piccolo cenno di assenso.
Pochi minuti dopo i quattro stronzi sono in fuga con Courfeyrac alle calcagna, ed io sto aiutando il ragazzo ad alzarsi. Gli porgo alcuni dei libri caduti.
Non c’è nessuno: la campanella è suonata, e tutti sono corsi in aula. Un altro ritardo a chimica, perfetto. Come se non ne avessi già fatti abbastanza.
“Ma questa volta”, mi dico “è per una buona causa”.
«Ti conviene cercare del ghiaccio, o ti ritroverai un bel livido sullo zigomo.» Gli dico, osservandolo. Da quando si è rialzato non ha fatto altro che trarre dei profondi sospiri, tenendo lo sguardo fisso altrove. Sta forse per piangere? Lo osservo meglio.
No, i suoi occhi sono asciutti.
«Jehan, ti chiami Jehan vero?» Improvvisamente due occhi azzurri mi scrutano. «Sono Bahorel, piacere di conoscerti. Ora, se vogliamo essere amici, devi fare una cosa. Non sospirare più, perché la cosa mi irrita. È strano vero? Eppure odio i sospiri, e odio sospirare. Quindi, fai qualsiasi altra cosa, mmh?»
È sicuramente la cosa migliore da dire ad uno sconosciuto che è reduce da un’aggressione e che probabilmente sta avendo un crollo nervoso o roba del genere.
“Sei stupido, Bahorel. Ma anche tanto”.
Ma l’intrepido Jehan non se lo fa ripetere due volte, e mi sorprende con un sorriso inaspettato. 






Da dove iniziare? Saaaalve a tutti, e grazie per aver avuto il coraggio di arrivare a leggere fin qui! 
Premettendo che questa è la prima storia che scrivo su Les Mis, e la primissima storia a più capitoli che sono riuscita a completare, mi sento in dovere di ringraziare in primo luogo Giues_ (la mia migliore amica) per avermi spinta a scrivere questa cosa che nasce da un pomeriggio noioso, un post su tumblr e l'ascolto di qualche canzone, e in secondo luogo Iamsherlocked, per avermi sopportato in tutto questo tempo.
Sono molto debitrice ai Mumford and Sons (non si era capito?) pur non essendo una loro fan: semplicemente, ascoltando le canzoni del loro primo cd ho avuto un colpo di genio e ho deciso di basarci la mia storia: ogni capitolo porta almeno un sottile riferimento ad una canzone del cd.
Cercherò di essere quanto più puntuale possibile nel pubblicare i capitoli, che dovrebbero essere caricati all'incirca ogni tre giorni - salvo complicazioni.
Non mi dilungo più di tanto: sperando che la storia possa davvero piacere a qualcuno, mi dileguo. Grazie di nuovo per aver letto, al prossimo capitolo! :3

Erica.

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Capitolo 2
*** The cave. ***


“But I will hold on hope
And I won’t let you choke
On the noose around your neck
And I’ll find strength in pain
And I will change my ways.”
Mumford and sons, The Cave.
 
 
Bahorel.
 
È successo un bel gran affare dopo l’episodio del cortile: Apollo ha chiesto al preside una punizione esemplare per i quattro idioti, e quest’ultimo non se l’è fatto ripetere due volte.
Espulsione per tutti. “Perché in questa scuola non c’è spazio per l’odio”, ha detto quel vecchio che a volte – ma solo a volte – combina qualcosa di buono.
È passato ormai un mese, e Jehan è diventato mio amico, uno dei tanti. Ed io probabilmente sono il suo unico amico: credo però che diventare mio amico non sia stata una delle sue scelte migliori.
La sua solitudine mi mette tristezza: solo una volta sono stato nella sua cava – come lui stesso chiama solitamente il suo minuscolo appartamento – e sono rimasto a bocca aperta. Ovunque, ovunque ci sono fogli con poesie, testi, schizzi; un flauto traverso giace abbandonato sul letto e almeno dieci piante diverse crescono rigogliose e cariche di fiori nei pochi angoli della casa.
Le finestre sono sempre spalancate, così da permettere al sole di entrare e illuminare tutto.
Jehan mi affascina, devo ammetterlo. È una di quelle anime pure che raramente si vedono di questi giorni, con i ragazzi troppo presi a cercare un’ideale canone di bellezza perfetta e ricercata, senza però rendersi conto che questa si trova nelle cose più semplici, e non nel sofisticato.
Jehan è genuino, e per un ciarlone dalle mani bucate come me, questo significa tanto. Essere genuini è difficile, ed è una delle più alte forme di coraggio. Essere sé stessi merita rispetto; io non riesco ad essere me stesso la maggior parte delle volte.
Jehan è un genio, le sue poesie sono oro – ne ho lette poche e di sfuggita, non vuole mostrare i suoi lavori al mondo – ma non è difficile realizzare che non è una persona felice. Malgrado il sorriso non sia poi così raro da scorgere sulle sue labbra, i suoi occhi esprimono tutt’altro.
Nella speranza di risollevargli il morale in qualche modo, ho iscritto entrambi all’associazione di Apollo dove si riunisce tutta la banda, gli Amici dell’ABC: ho scoperto che non ero poi così in torto parlando di droga.
Sono un gruppo con intenzioni e motivazioni serie, ma la maggior parte delle volte non riescono a concludere niente. La riunione tipo dell’ABC si svolge così: Enjolras e Combeferre cercano di sensibilizzare noi poveri ragazzi ignoranti parlando della situazione disastrata nella quale stiamo vivendo – in Francia, ma così come anche in tutta Europa – ma riescono a controllare il tutto solo per massimo quaranta minuti. Nel giro di meno di un’ora Grantaire è in piedi ubriaco sul tavolo mentre inscena uno spogliarello usando Courfeyrac come palo, Joly tartassa Bossuet con le sue malattie immaginarie, Feuilly distribuisce il vino insieme a me, Jehan chiacchiera sereno con Marius. Combeferre, invece, si ritrova confortare un Enjolras devastato dalla visione di così tanta infantilità e disinteresse nei confronti della sua nobile causa.
A fine serata siamo tutti ubriachi, chi più, chi meno. Ma siamo tutti sorridenti, Jehan compreso.
Più morti che vivi io, Jehan e Grantaire stiamo camminando verso casa sua per la strada buia. Non se ne parla di prendere la macchina, finiremmo dritti fuori strada alla prima curva: anche solo stare in posizione eretta è una sfida. Menomale che è sabato, perché sbornie di questo tipo sono colossali.
«Avete mai provato ad immaginare la solitudine del Sole?» Chiede improvvisamente Jehan scrutando il cielo, ubriaco pure lui questa volta, ma sicuramente il più sobrio fra tutti.
Grantaire risponde: «Non dovrebbe essere la Luna quella sola?»
«No, la Luna ha le stelle. Possono essere lontane o vicine, ma ci sono. Il Sole non ha nessuno, se non sé stesso. È abbastanza triste.»
 «Ho sempre visto la Luna come quella svantaggiata, perché insegue il Sole ogni giorno senza mai poterlo raggiungere.»
«E chi ti assicura che è il Sole a scappare dalla Luna? È costretto a muoversi, perché da lui dipende la vita di molti. Secondo me preferirebbe fermarsi.»
Il silenzio cala. E tu chi sei, Jehan? Il Sole o la Luna? La risposta è semplice: nessuno dei due. Una stella che risplende di luce propria, ma è troppo piccola per diventare il centro di una galassia; una stella che vive nell’ombra di qualche altro stupido Sole.
Se solo tu capissi quello che sei, Jehan…
“...E se solo tu ti accorgessi che sei ubriaco fradicio, Bahorel, smetteresti di pensare queste cose da dodicenne innamorata.”
Grantaire cambia strada, e sparisce, dicendomi che mi aspetta al solito posto. Entriamo nella cava, e Jehan crolla sul letto matrimoniale che occupa la stanza più grande di casa sua.
Lo osservo: lo sto forse portando sulla cattiva strada?
Forse dovrei cambiare i miei modi di fare quando sono con lui: un conto è devastare me con alcol, fumo e risse, un conto è devastare lui.
Devo preservarlo dalla rovina, perché rovinarlo sarebbe rovinare una delle cose più pure che io abbia mai conosciuto.
Mi riprometto di comportarmi bene con lui. Ha solo me, e non devo essere un cattivo esempio.
Però l’ho salvato. Quel giorno nel cortile l’avrebbero pestato se non fossi intervenuto. Eppure sento che, salvato o meno dai bulli, iscritto o no all’ABC, la vita di Jehan non è migliorata. Devo essere io a migliorargliela?
Non credo di esserne in grado; posso a stento badare a me, prendermi cura di un’altra persona sarebbe abbastanza difficile. Impossibile, quasi.
So che è triste, posso vederlo. Sono quello che porta avanti la baracca, fa risse e crea problemi di ogni tipo, ma non sono stupido.
Devo chiederlo? Sì, devo. Perché sono l’unico amico di Jehan, e perché voglio parlargli. La sua voce a tratti dolce a tratti virile è bella da ascoltare.
«Ti senti solo, Jehan?»
Attendo una risposta.  
“Mi piacerebbe farti sapere che ci sono, Jehan. Mi piacerebbe farti sapere che non sei solo, perché io ti ammiro. Ma tu sei così distante, sembri venire da un’altra galassia. Vieni forse da un pianeta fatto di arte e parole…? Non puoi essere umano. Ma sei costretto a stare sulla Terra: esci dalla tua tana, e permettimi di farti esplorare il mio mondo. Non voglio che tu sia triste.”
Attendo una risposta, ma tutto quello che sento è il suo respiro farsi pian piano pesante. Dorme, dorme come un bambino.
Mi guardo attorno a disagio, e il mio sguardo distratto si fissa sulle orchidee rosa nell’angolo. Jehan è strano. Solo e felice, triste e forte. Sembra una contraddizione vivente: quello che un minuto è un agnello,  un minuto dopo è un leone dalle fauci spalancate; è possibile esistere essendo così diverso?
In silenzio sgattaiolo via: Grantaire mi aspetta al pub per il secondo round, perché alcol e botte non sembrano essere mai abbastanza.
“La cava non ti tratterrà più, Jehan. Non soffocherai qui dentro, nel cappio della tua solitudine: ci sono io”.

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Capitolo 3
*** Winter winds. ***


 “As the winter winds litter London with lonely hearts
Oh the warmth in your eyes swept me into your arms
Was it love or fear of the cold that led us through the night?
For every kiss your beauty trumped my doubt.”
Mumford and sons, Winter Winds.
 
 
Bahorel.

La sua schiena aderisce perfettamente al mio petto in un’unica curva. Stretto fra le mie braccia sotto la montagna di coperte disordinate, riesco a sentire il suo cuore battere ancora all’impazzata sotto le mie dita: sorrido contro i suoi capelli sudaticci, perché è davvero così spaventato e agitato.
Il peggio è passato Jehan, adesso puoi stare tranquillo e rilassarti. C’è una prima volta per tutto, e sono contento di essere stato la sua prima volta. So che così non mi dimenticherà mai, accada quel che accada.
In un certo senso, è stata anche la mia priva volta. Avevo dei dubbi, perché sono sempre stato abituato a tutt’altro, sono sempre stato abituato alla ragazze francesi. Ma le sue gote rosse, la sua voce roca e i suoi occhi azzurri mi hanno fatto cambiare idea; è perfetto, e non posso negarlo. Cos’è una ragazza qualunque paragonata a lui? Niente.
Dopotutto, un animo perfetto è sempre accompagnato da un corpo perfetto: Madre Natura – o Dio, a scelta – ci s’impegna davvero a tirare fuori certi capolavori dal cappello magico. Perché lui è un capolavoro, e un giorno troverò il coraggio di dirglielo.
Ogni suo bacio ha scacciato via ogni singolo dubbio, stasera. E sono il dubbioso per eccellenza.
Ma, ovviamente, non mi smentisco mai.
Ora mi ritrovo ad interrogarmi: sono ancora convinto che questa sia stata la cosa giusta da fare? Forse ho rovinato tutto.
Il mio sorriso si spegne improvvisamente; fortunatamente non può vedermi, perché sono sicuro che gli si spezzerebbe il cuore: forse è troppo presto, o forse ho sbagliato tutto e basta.
Cosa ne sarà di me, o di lui? Cosa ne sarà di noi adesso, se di noi si può parlare?
“Ecco Bahorel che s’incasina di nuovo. Congratulazioni, cento punti per te Bahorel. Continua così, vai alla grande”.
Sono in conflitto. Voglio amarlo, ma ho paura.
Ho paura di non essere abbastanza per lui, ho paura che possa cambiare idea, ho paura di ferirlo. Come potrei mai convivere con me stesso sapendo di aver causato una crepa in un animo così fragile come il suo? O come potrei mai convivere con me stesso sapendo di aver macchiato con la mia stupidità un’anima così candida come la sua?
Devo amarlo?
“Sì”.
Devo amarlo?
“No”.
Lo stringo anche più forte.  Cosa devo fare, Jehan? Non voglio lasciarti solo.
Il vento invernale soffia attraverso la finestra – spalancata, come sempre. Non c’è verso di fargliela chiudere, neanche con il ventaccio freddo che c’è stasera.
Non sono un po’ come il vento di fine dicembre? Mi insinuo ovunque, freddo come non mai, meschino, senza soffermarmi più di tanto a pensare su quello che faccio. Pecco di impulsività, purtroppo.
Non mi conosce, e questo mi fa male. Probabilmente, se mi vedesse e conoscesse per quello che sono in realtà, non sarebbe qui stretto al mio petto.
Ma è anche vero che ascoltando questo discorso, mi riderebbe in faccia, dicendo che sono una persona meravigliosa; lo conosco fin troppo bene.
Mi ami, Jehan? Ed io ti amo? Non ne sono sicuro, e questo mi sta letteralmente mandando a puttane tutto.
Devo essere ragionevole: non so amare. Non ho mai amato davvero – così come non sono mai stato amato davvero – e ho paura di farlo. Perché? Perché mi conosco. Rompo tutto quello che tocco, e in un modo o nell’altro romperei anche lui.
«Grazie».
La sua voce flebile mi riscuote, allontanando quei brutti pensieri dalla mia testa per qualche minuto. Realizzo quello che sta accadendo, metto a fuoco quello che sta succedendo adesso.
Io e lui. Fine. Non devo pensare ad altro.
«Grazie per cosa?»
«Per tutto. Per stasera, per gli ultimi mesi, per avermi iscritto all’ABC, per avermi difeso nel cortile. Probabilmente non sarei qui senza di te. Probabilmente sarei altrove, e non di certo vivo.»
Rabbrividisco.
Ho paura, di nuovo. E questa volta non solo di amarlo.
Ma nel giro di pochi secondi il suo volto è a qualche centimetro dal mio, e non posso far altro che fissarlo e ammirare la sua perfezione, ancora una volta. Guardarlo negli occhi è un po’ come perdermi: c’è così tanto di inesplorato che non so come muovermi, da che parte andare, cosa osservare. Sento il bisogno di tornare indietro, perché probabilmente scoprirei cose troppo grandi per me.
C’è così tanto in lui, ma il mondo è troppo ottuso e non riesce a vedere. C’è così tanto in lui, e neanche lui stesso se ne rende conto.
Ed è un peccato, uno spreco.
Accoccola il suo viso contro il mio petto, e si addormenta: è così indifeso. Ma non credo di avere le armi necessarie per difenderlo, non credo di essere pronto.
Poso un bacio leggero sulla sua fronte, combattuto.
Chi sono io, in confronto a lui? Dovrei inchinarmi davanti a tanta… non so, tanta di quella roba che lo riempie e rende unico.
Mi sto comportando come uno dei personaggi di chissà quale commedia drammatica e romantica, me ne rendo conto. Ma non posso fare a meno di sentire che ho sbagliato tutto.
Eppure, non posso abbandonarlo. Non ora.
Non ora che ha riposto tutte le tue speranze in me. Se resto, gli faccio male. Se vado, gli faccio male.
Ho forse qualche possibilità di vincere questo conflitto? Forse. Ma per ora non riesco a trovarne nemmeno una.
Una folata di vento più forte alza le tende, e scorgo la Luna in cielo. Penso a Grantaire, seduto da qualche parte da solo nel pub.
Forse adesso posso capirlo, posso capire perché è sempre lì attaccato alla bottiglia a lamentarsi su Enjolras, sui suoi modi di fare, sulla sua apatia.
“L’amore è una brutta bestia, Taire. Mi spiace non essermene reso conto prima, ma adesso ti capisco”.
Penso, prima di scivolare anch’io nelle braccia di Morfeo. Presto sarò costretto a prendere una decisione, ma non oggi. Oggi è un giorno perfetto, e non voglio rovinarlo.
 

È passata una settimana. Domani sarà Natale, e mi troverò in Inghilterra: ho preparato il trasferimento a casa di mia zia, mi sono iscritto ad una nuova scuola, ho fatto perdere le mie tracce a tutti.
Sarò un fantasma, da oggi in poi.
Aspetto infreddolito sulla panchina della stazione; per terra c’è un fiore completamente calpestato. Aguzzo la vista: è un’orchidea.
Improvvisamente i miei pensieri volano altrove – raggiungono la cava, e Jehan che probabilmente si starà chiedendo se sono ancora vivo – e mi sento in colpa; ma il mio treno è arrivato: è troppo tardi per cambiare idea.

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Capitolo 4
*** Roll away your stone. ***


“Darkness is a harsh term don’t you think
Yet it dominates the things I see.”
Mumford and sons, Roll away your stone.

Jehan.

Qualche settimana fa è sparito.
Ho provato a chiedere in giro, a scuola, ai ragazzi dell’ABC, ma nessuno è riuscito a darmi delle risposte serie. Nessuno è riuscito a darmi delle risposte serie fino ad oggi; ho tenuto la segreteria scolastica come ultima spiaggia – anche perché ovviamente con la scuola chiusa per le vacanze natalizie non potevo fare altro che aspettare – ed è stata proprio questa a darmi il colpo di grazia.
La gentile impiegata dai capelli bianchi mi ha semplicemente detto: «Mi sembra strano che tu sia un suo amico e non ti abbia detto niente. Ha fatto domanda di trasferimento non più di cinque settimane fa, adesso è in Inghilterra. Mi spiace, non posso dirti di più, sono informazioni che non posso rilasciare».
E così esco da quella stanza improvvisamente soffocante, un sorriso sul volto, una parola gentile e il cuore a pezzi.
Messaggi, chiamate, niente di niente. Ha cambiato numero – o buttato direttamente il cellulare, non saprei.
Sospetto che qualcuno dei ragazzi dell’ABC sappia qualcosa, ma non ho intenzione di chiedere assolutamente niente.
Sono abituato a essere lasciato solo dalla gente. Ogni volta mi dico “preparati, non durerà molto”; anche questa volta la maledizione che mi perseguita ha preso forma: Bahorel non si è dimostrato essere così tanto diverso da tutti quelli che ho conosciuto durante la mia esistenza. Si è completamente volatilizzato senza margine di preavviso.
Mi sono addormentato con lui, e la mattina dopo non c’era più.
Un tempo quando non stavo bene c’era sempre lui a chiedermi: «Sei triste?» e mi diceva che forse le cose non andavano poi così male come credevo. Mi diceva sempre di non vedere la vita attraverso l’oscurità – cosa che faccio da quando son nato.
Se fosse qui adesso e mi facesse la stessa domanda, gli risponderei che è tutta colpa sua. Che era lui la mia luce, e che adesso non riesco proprio più a vedere.
Ma ovviamente non c’è.
Improvvisamente una sonora pacca sulla spalla da parte di Feuilly mi risveglia; lo guardo interrogativo mentre si siede sulla panca in legno della sala del Cafè Musain – un delizioso ma pressoché sconosciuto bar che oramai è diventato di nostra proprietà, visto che la proprietaria è imparentata in non so che modo con qualcuno dei ragazzi – e mi rivolge un sorriso a trentadue denti.
Si avvicina con nonchalance al mio orecchio, e a bassa voce mi dice: «Ringrazia Courfeyrac dopo, ha deciso di risollevarti il morale. Vedi quel dolce che sta offrendo ad Enjolras? Fidati di me, se lo mangia assisterai ad uno spettacolo magnifico, qualcosa mai visto prima d’ora».
Non ho realizzato subito cosa quelle parole potessero significare.
Ho semplicemente capito cosa stava succedendo durante il discorso di Enjolras, quando le sue capacità comunicative si sono ridotte a zero e la situazione è precipitata improvvisamente.
Questo è più o meno quello che è successo.
«L’istruzione è qualcosa di serio, ragazzi. Non più di un secolo fa molti di noi si sarebbero trovati ai bordi delle strade a chiedere l'elemosina: questi stupidi che continuano a tagliare fondi alla scuola stanno praticamente tagliando pian piano la nostra vita. Ogni centesimo in meno è un’opportunità in meno per noi, e purtroppo il governo non sta semplicemente prendendo una manciata di centesimi dai fondi pubblici per l’istruzione: qui si parla di migliaia e migliaia di euro che finiscono nelle tasche dei politici, e con i quali questi si comprano auto da corsa, ville con piscine e pagano orde di escort affamate.»
«Escort… Sei mai stato con una puttana, Enjolras?» La voce di Grantaire si leva, interrompendo il suo discorso: nulla di insolito, insomma. «Perché potrei benissimo fartene conoscere qualcuna».
«Lasciami indovinare, tu sei la prima della lista?» Nessuno di noi ha mai sentito Enjolras rispondere ad una provocazione di Grantaire, e né tantomeno fare un commento sarcastico.
Probabilmente in un altro momento si sarebbe scatenato il panico generale per un paio di orette e successivamente avremmo stappato champagne per celebrare il grande evento, ma siamo tutti troppo scossi anche solo per ridere, così ci limitiamo a fissare la scena con la bocca spalancata.
«…Fa caldo.» Enjolras sbuffa, togliendosi improvvisamente la felpa – che fa un volo trionfale sul pavimento – e restando in canotta nera: questa, aderente all’estremo, mette in risalto la muscolatura finemente sviluppata del biondo. È gennaio, e ci sono solo un paio di gradi sopra lo zero. Sento un fischio compiaciuto partire dalle labbra di Grantaire.
La voce gentile di Combeferre azzarda una domanda, mentre Courfeyrac è costretto a spostare lo sguardo altrove per evitare di scoppiare a ridere; evidentemente nessuno è stato avvisato dello scherzo tranne me e Feuilly. «Enjolras, stai bene?»
Sento Joly bofonchiare dietro di me: «Vampate di calore, è sicuramente l’inizio della menopausa.» e Bossuet rispondere con voce esasperata: «Cristo, Joly, quanto sei stupido. È un uomo, non può andare in menopausa».
Enjolras ci scruta serio. Apre bocca, poi la richiude. Poi la riapre.
«La verità è che sono ancora vergine».
Per un momento non ho capito più niente: nel trambusto generale, ho visto Courfeyrac per terra piegato su sé stesso in lacrime, Combeferre con le mani fra i capelli, Feuilly cadere dalla sedia ridendo, Joly mantenere preoccupato ma tuttavia sorridente Bossuet in preda ad un attacco di tosse causato dal troppo ridere. In tutto questo caos, Enjolras cerca di riportare la calma.
«Non ho mai avuto il tempo materiale per… insomma, avete capito; provate voi a fare il rappresentante di istituto da quando entrate nel liceo e ditemi se avete tempo per… ecco.»
Tutto quello che riesco a pensare è “Dio, per favore, salva questo ragazzo e fallo stare zitto.”, ma evidentemente mi ignora. Anche lui.
«…Nessuno si è mai materialmente proposto, e di certo non sono uno che stupra gente a caso: lo stupro è una cattiva cosa, ragazzi. Dovete farlo solo quando il vostro partner è consenziente. Sapete quanti stupri vengono commessi, e quante ragazze sono segnate a vita? Non ridete, sono serio. Comunque, riprendendo a parlare della scuola, secondo voi il preside è pedofilo? Forse dovremmo chiamare la polizia. Una volta l’ho visto con quella ragazza del quarto anno che si è fatta più o meno tutti nell’aula di arte, ma dopo aver assistito per qualche minuto – non pensate a male, ero bloccato perché l’unica via d’uscita era dall’altra parte della stanza e non potevo passare senza essere visto… mica sono rimasto a guardare per gusto, eh! – ho pensato che non sono fatti miei. Cosa dovrei fare? Perché francamente non so come agire… Ma forse non devo fare niente, dopotutto l’amore non ha età. Anche se è abbastanza disgustoso come cosa, avranno almeno novant’anni di differenza. Secondo voi il preside ha passato il secolo? Per me ha centocinquanta anni, come Silente».
Grantaire, ridendo, ha pietà di lui e gli tappa la bocca.
Com’è andata a finire? Semplicemente, a fine serata Enjolras e Grantaire sono andati via insieme, e penso che da oggi in poi il biondo rivoluzionario non si lamenterà mai più della sua verginità. Per quanto riguarda i ragazzi dell’ABC, non riusciranno mai più a vedere Enjolras nello stesso modo, poco ma sicuro.
Per quanto rigurda me, invece… ho riso come non mai. Bahorel può aver portato con sé nella piovosa Inghilterra il mio cuore, ma non il mio sorriso.
Ho sempre qualcosa a cui aggrapparmi, e l’immagine  di Enjolras sotto l’effetto di chissà quale strana droga è un appiglio abbastanza consistente per continuare a sorridere; forse alla fine Bahorel mi ha davvero insegnato a vedere le cose in modo diverso.

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Capitolo 5
*** White blank page. ***


 “A white blank page and a swelling rage, rage
You did not think when you sent me to the brink, the brink.”
Mumford and Sons, White Blank Page.
Jehan.
 
Osservo la Senna scorrere placida, più in coma etilico che vivo: tanto per cambiare l’assemblea di fine mese è sfociata in un party abusivo con litri di alcol e roba strana; questa volta, e solo questa volta, non ho esitato ad ingurgitare incredibili quantità di tutto quello che mi è stato dato. Perché?
In realtà dovrei chiedermi perché no. Tanto sono maggiorenne da una settimana, posso fare quello che voglio.
In ogni caso, adesso mi trovo seduto su di un muretto, con le gambe a penzoloni nel vuoto e il rumore dell’acqua che scorre piano a riempirmi le orecchie. Non so neanche come ci sono arrivato qui, ma penso che molto probabilmente tornerò a casa strisciando, perché non mi sento neanche più le gambe; ammesso e concesso che mi ricordi come arrivare a casa, dal momento che riesco a stento a vedere le cose che mi circondano.
Non c’è neanche un cane in strada, tranne una coppietta intenta a pomiciare su una panchina a non più di qualche decina di metri da me: tanto peggio per loro, sento che sto per vomitare l’anima, non assisteranno a un bello spettacolo.
Improvvisamente due braccia mi afferrano all’altezza della vita, tirandomi di poco indietro.
«Prouvaire, così finisci di sotto. Ti ricordo che non sai nuotare.»
«C’è una prima volta per tutto. Ho visto genitori lanciare figli in acqua e lasciarli lì da soli fino a quando non hanno iniziato a muoversi e mantenersi a galla; è un qualcosa che funziona tipo trauma. O forse è semplicemente spirito di sopravvivenza?»
«Sì, ma i bambini non sono ubriachi fino all’osso come te.»
«Questo te lo concedo.»
Riconosco a stento la figura sfocata di Courfeyrac che si siede accanto a me, e mi guarda con un misto di divertimento e pietà.
«Ti ha ridotto proprio male, vero?»
“Sì, mi ha ridotto proprio male. Sto cadendo a pezzi. È così semplice da vedere?”
Sospiro, mentre lui si accende una sigaretta.
«Arianna.» Bisbiglio, con la lingua impastata.
«Arianna?»
«Teseo e Arianna, il mito del Minotauro, il filo di Arianna. Si amano, stanno insieme per un po’, poi lui l’abbandona su un’isola e se ne va. Mi sento Arianna.»
Ma Arianna trova Dioniso, si sposa, si dimentica di Teseo e vive felice e contenta.
Ed io? Io non ho nessuno; ma tolto questo, non posso dimenticare. E soprattutto, non voglio.
«Non voglio fare l’insensibile, Jehan, ma sono passati tre mesi. Forse… forse dovresti metterti l’anima in pace. Non sto dicendo che non tornerà – conosco Bahorel da abbastanza tempo per dire che, tempo due settimane, ed è di nuovo qua a prendersi a botte con sconosciuti in tutti i locali di Parigi – ma sto dicendo che dovresti metterci una pietra sopra. Questa cosa ti sta distruggendo, ed è abbastanza palese. Guardati, sembri un barbone.»
«La tua gentilezza e sensibilità non hanno pari, Courf.» Dico, sorridendo.
Qualcosa mi è rimasto, forse. L’unico punto fermo nel mondo sono i ragazzi dell’ABC.
«Lo so, grazie.» Mi risponde, liberando una nuvoletta di fumo nell’aria. La guardo assorto deformarsi e salire, fino a quando non sparisce. «Se volessi parlare… Certo, non sono il massimo visto le mie precedenti e disastrate relazioni, ma… boh, sono qui.»
«Si è portato via tutto, Courf.» Ammetto infine, dopo qualche minuto di silenzio. «E non lo intendo nel modo romantico tipico di una ragazza di quindici anni dopo che la sua cotta da quindici giorni è finita. Lo intendo nel modo… non riesco più a scrivere, a suonare. L’altro giorno ho passato un’ora ad osservare un foglio bianco e… ho tratto una sola conclusione. Non riesco più a scrivere, e sono arrabbiato.
Dove ho sbagliato, Courf? Averlo amato con tutto me stesso è stato forse un errore? Tutti amano, e tutti sono felici: e poi arrivo io; amo, e sono amato. Ma non dura mai.
L’amore dovrebbe essere quella bellissima cosa che ti fa stare bene, e invece guardami: mi sta uccidendo.»
Lui resta in silenzio. Posso capirlo: ammetto che a parti invertite anche io non avrei saputo cosa rispondere. Ma oramai ho preso il volo, e non riesco a smettere di parlare. Sono tre mesi di sentimenti repressi, dopotutto.
«Probabilmente adesso si starà divertendo con qualche sciaquetta inglese da quattro soldi che non lo vuole neanche. Ma io, Courf, l’avrei seguito in capo al mondo, l’avrei seguito in Paradiso e l’avrei seguito all’Inferno. E questo senza fare domande, senza pensare, senza controbattere: perché mi ha fatto sentire una persona nuova, e non mi capita spesso.
Perché è partito, perché se n’è andato? E perché non mi ha detto niente? Avrei potuto capire, avrei… non so cosa fa, dov’è, se sta bene e se è vivo. Per quanto ne so ora, potrebbe essersi beccato una bottiglia nel cranio ed essere da qualche parte in un ospedale. Potrebbe star finendo sotto un tram in questo preciso istante mentre noi siamo qui a parlare, ed io non lo saprei–» Con mia grande sorpresa, mi s’incrina la voce.
Ed ecco il corpo che mostra le sue debolezze. Non sono mai stato bravo a reprimere le mie emozioni.
«Stai piangendo?» La voce di Courfeyrac mi trapassa da lato a lato, provocandomi una fitta dolorosissima alla testa: domani avrò il peggiore post-sbornia di sempre.
Mi tocco con la punta delle dita la guancia, e noto che è bagnata. Sto piangendo davvero, e sono così fatto che neanche me ne accorgo.
Qualche secondo dopo sto singhiozzando incontrollabilmente, con la testa sulla spalla del moro che, colto di sopresa, non può far altro che stringermi goffamente a sé.
«È okay crollare ogni tanto, Jehan.» Mi dice, mentre scuoto piano la testa fra un singhiozzo e l’altro. «È okay piangere. Ma ti prometto che appena lo rivedo, non importa quale siano le motivazioni della sua fuga e chi proverà a fermarmi, gli spacco il naso a suon di pugni. Affare fatto?»
Mi lascio scappare un sorriso, mentre tutto inizia ad essere distante e ovattato. «Va bene Courf. Meno male che ci sei tu.»
Dopodiché, il buio. Non ricordo più nulla di quella sera.

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Capitolo 6
*** I gave you all. ***


 “Close my eyes for a while
Force from the world a patient smile

But I gave you all.”
Mumford and Sons, I gave you all.
 
Jehan.

Un’altra settimana è finita, per fortuna. O almeno, qualcosa del genere: il professore di storia ha deciso di trattenermi per mezz’ora nell’aula per parlare del mio rendimento che è improvvisamente calato, quindi sono ancora bloccato a scuola.
Mi ha detto di non lasciarmi trascinare dalle cattive influenze, e di concentrarmi sui miei obiettivi: fosse davvero quello il problema.
Fatto sta che quando esco in cortile, la scuola è ormai deserta, e ha pure iniziato a piovviginare. Perfetto.
Mancano solo due giorni alla fine della scuola, e fa freddo. Giugno è strano; credo che sia colpa del surriscaldamento globale.
«Evidentemente Joly si è dimenticato che doveva venirmi a prendere per andare a casa sua.» Mormoro fra me e me, scrollando le spalle. Sto per andare via a piedi, quando improvvisamente qualcosa cattura la mia attenzione: nell’aiuola vicino alla scalinata se ne sta solitaria un’orchidea dai colori accesi.
Rapito da questa visione paradisiaca gettata in mezzo a tanto grigio e desolazione, mi siedo sugli scalini prendendo il mio blocco dal disegno, sul quale non ci sono altro che scarabocchi. Non sono tanto bravo con la matita quanto lo sono con la penna o con il flauto, ma ci provo lo stesso.
Mezz’ora dopo sto osservando il mio disegno, incurante della pioggerellina leggera che ticchetta dolcemente sulla mia spalla: altro che orchidea, un Bahorel (rassomigliante all’originale, almeno questo me lo concedo) mi sorride dal foglio, con quell’aria da “tanto non ti dimenticherai mai di me”.
«Ti odio.» Dico rabbioso al ritratto, cambiando foglio con aria infastidita.
Non c’è davvero modo di liberarsi di lui, mmh?
«E noi odiamo te, checca.»
Ci risiamo; alzo lo sguardo con aria seccata, e davanti a me ci sono i quattro tizi dell’inizio dell’anno, quelli che mi hanno pestato. Che ci fanno qui? In teoria sono stati espulsi.
«Chi non muore si rivede.» Dico, semplicemente, mentre uno di questi mi sfila l’album dalle mani. Non penso di aver mai lanciato un’occhiata così tanto assassina in tutta la mia vita: sono un tipo che solitamente non perde la calma.
«Ecco, è per questo che non ci rivedremo più.» Dice il primo.
Quello con i disegni in mano scoppia a ridere, mostrandolo agli altri due. «Bahorel, un tempo era nella nostra combriccola. È finocchio pure lui? Un altro buon motivo per pestarlo quando lo incontro, mettendo da parte il fatto che ci ha rovinato la vita per colpa tua.»
«Nella vostra combriccola? Gli stronzi vanno sempre in gruppo, effettivamente. Ma perfino voi siete troppo scemi per lui, mi sembra normale vi abbia lasciato.» Non faccio in tempo a finire che mi hanno preso per la collottola della camicia e mi stanno trascinando via, dietro l’edificio. La borsa mi cade, ma neanche me ne accorgo.
La battuta mi fa guadagnare un pugno dritto in faccia, e una spinta che mi fa finire con il gentil fondoschiena sull’asfalto bagnaticcio. Mi passo una mano sul labbro, e sanguino.
Pazienza.
«Soddisfatto adesso?» Chiedo tranquillo.
«No, per colpa tua siamo stati espulsi.»
«Non sono stato io a prenderti a pugni.» Un calcio in faccia, e mi ritrovo completamente per terra. Due nello stomaco, tre sulla schiena, uno alle gambe.
Rido. «Questo per cos’era?»
Il più grande mi risponde: «Per aver fatto diventare Bahorel finocchio. Quando viene a salvarti? Ne ho anche per lui.»
«Non verrà.» Dico sorridendo amaro – e insanguinato – pensando a come sono cambiate le cose. All’inizio dell’anno mi ha salvato per caso, adesso è chissà dove per causa mia. Nessuno viene a darmi manforte questa volta, ma non ho intenzione di ribellarmi: non sono un tipo violento. Non che io sappia.
«Ho fatto diventare Bahorel un finocchio?! Dio, è così stupido da parte tua dire qualcosa del genere. Qual è il tuo problema con chi mi scopo? Sei mica geloso?»
Tossisco, ed è tutto rosso. Alzo lo sguardo, e capisco che ho fatto precipitare la situazione: il bastardo ha una mazza da baseball in mano. Da dove spunta fuori?
“Mondo, è stato bello conoscerti”.
Sto per morire? Il mio sguardo fiero mi copre, ma ho paura.
Sono spaventato a morte, ma non lo do a vedere.
Penso a come mi sarebbe piaciuto salutare i miei amici per l’ultima volta, o come mi sarebbe piaciuto rivedere Bahorel.
Quel maledetto. Sono ancora innamorato di lui – non si era capito, vero?
Arriva la prima botta, ma non fa tanto male. Le ho prese così tante volte nella mia vita che sono abituato a sopportare il dolore abbastanza bene.
Gli ho dato tutto, e non ho avuto niente in cambio. E adesso non ho nemmeno la chance di dirgli che lo amo per l’ultima volta: me ne andrò così, dimenticato dal mondo, in un cortile deserto di una scuola. Io, che sognavo una morte da eroe, una morte che tutti avrebbero ricordato e ammirato…!
Chissà, almeno Bahorel  mi darà la soddisfazione di venire al mio funerale.
Un’altra scarica di colpi, uno dietro l’altro. Mazza, calci, pugni, non distinguo più niente. Probabilmente qualcosa mi si è rotto nel mentre all’altezza del petto e fa un male cane, ma sono così dolorante che non ci faccio più tanta attenzione.
«Sai qual è il tuo problema… Théo, giusto? Il tuo problema, Théo, è che la tua vita fa così schifo che non puoi far altro che prendeterla con me, e picchiarmi e uccidermi se vuoi. Il fatto è che, una volta che mi mandi in ospedale, la tua vita farà ancora schifo. Questo non ti rende una persona migliore, sai? Anzi. Ti consiglio vivamente di andare a farti vedere da qualcuno prima che la situazione ti sfugga di mano. Mi consideri uno sfigato e una checca, ma qua l’unico sfigato e vigliacco sei tu.»
Una mazzata dritta in testa mi colpisce all’improvviso. Il nulla.
***
Joly.

Scendo dalla moto con un balzo, togliendomi il casco senza farmi cadere gli auricolari.
«Posso parlare adesso che sei sceso dalla moto, o rischio di farti distrarre e calpestare una formica, Joly?»
La voce di Courfeyrac arriva chiara e limpida nelle mie orecchie.
«Non ho tempo per le formiche, devo trovare un modo carino per scusarmi con Jehan, dovevo essere qui un’ora fa. Sono passato da casa, ma non c’era…» Dico, camminando con il casco sottobraccio.
«Courf, non c’è nessuno qui… Aspetta.» Trattengo il respiro. «Cazzo.»
«Cosa c’è adesso?» Courfeyrac sospira nel microfono del telefono, facendomi partire un timpano.
«Courf, c’è la borsa di Jehan per terra.» Affretto il passo, improvvisamente allarmato. Raggiungo il retro, e per un momento rischio di svenire.
Per terra appena dietro l’angolo, riverso in una pozza di sangue abbastanza larga, c’è Jehan. Mi avvicino improvvisamente in preda al panico, e balbetto.
«Dio, Courf, devo chiamare un’ambulanza. Credo che Jehan sia morto».

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Capitolo 7
*** Little lion man. ***


But it was not your fault but mine
And it was your heart on the line
I really fucked it up this time
Didn’t I, my dear?
Mumford and Sons, Little lion man.

Bahorel.

La mia vita in Inghilterra non è stata poi così male.
Insomma, c’è la nebbia, c’è il freddo, c’è la pioggia, il grigio ovunque… ma chi voglio prendere in giro? Ci sono stato malissimo; ma non mi lamento più di tanto: sono venuto qui di mia spontanea volontà.
Perché? Perché sono un codardo, e perché non sono mai stato bravo ad affrontare le cose che mi spaventano.
Questa volta però l’ho fatta grossa.
Ho abbandonato Jehan. Non passa giorno in cui non mi penta di quello che ho fatto: ed è per questo che ho deciso di ritornare. Ho bisogno di vedere Jehan, chiedergli  scusa – anche prendermi un calcio nei bassifondi se devo. Sono pronto al sacrificio.
Non biasimerò Jehan se vorrà farmi del male o ignorarmi completamente. Ho sbagliato a troncare così i rapporti con lui. Avevo paura di non essere all’altezza, ma… non posso negare l’evidenza, non posso cambiare ciò che è vero e reale: lo amo. Lo amo, e niente e nessuno potrà mai imperdimi di amarlo.
Perché deve essere così.
Se dovesse decidere di ignorarmi, troverei il modo di farmi perdonare. Se dovesse decidere di prendermi a pugni, mi offrirei volentieri ai suoi colpi.
Sono disperato. E spezzato, e confuso. Sono sparito per sei mesi nel niente, sono andato via, e ho lasciato la mia vita e il mio cuore in Francia per paura.
È stata tutta colpa mia. Ho giocato con i sentimenti di Jehan, e non mi perdonerò mai abbastanza per quello che ho fatto: l’ho lasciato per paura di fargli male, ma gli ho fatto male lasciandolo.
Sono un coglione, in parole povere.
Mi trovo su un aereo diretto per Parigi, a giocare con il mio smartphone a qualche giochino scemo. Accanto a me c’è un bambino francese, e quella che mi pare aver capito sia sua sorella. Manca solo un’ora all’atterraggio – minuto più, minuto meno – e non riesco a stare calmo.
La scuola qui a Londra è finita, ho passato l’anno e non ho niente di cui preoccuparmi. Zia mi ha praticamente costretto a tornare quando le ho spiegato il perché della mia fuga nella terra del tè e della bella musica.
«Ciao.» Due grandi occhioni azzurri mi squadrano curiosi.
«Gavroche, non infastidire il signore.» Quella che dovrebbe essere sua sorella mi guarda con aria dispiaciuta. «Scusa,» aggiunge. «È che non riesce proprio a stare fermo e buono».
«Oh, non ti preoccupare…»
«Éponine.»
«Non ti preoccupare, Éponine. Non mi dà fastidio.» Le sorrido, tornando poi a fissare il bambino. Il nome della ragazza mi dice qualcosa…
 «Ciao Gavroche, io sono Bahorel. C’è qualcosa che posso fare per te?»
«Bahorel? Sei per caso l’amico che fa boxe di Marius? Marius Pontmercy?  Mi ha parlato parecchio dell’ABC e…» Reclina la testa di lato, studiandomi.
«Lo conosci? Conosci Marius-amo-Cosette-così-tanto-Pontmercy? Siete per caso di Parigi?»
«È suo amico. Anche Cosette è sua amica.» Dice, indicando con un cenno la sorella. Torno a guardarla.
Lei mi sorride benevola: «Andiamo insieme ad inglese e matematica, è lui che dà ripetizioni a questo marmocchio.» Dice, scompigliando i capelli ad un infastidito Gavroche. «Suppongo che anche tu frequenti la stessa scuola, o erro? Non mi sembra di averti mai visto in giro. Anche se in realtà sono arrivata solo quest’anno.»
«O, in realtà quest’anno ci sono stato poco a scuola, ho fatto qualche mese qui in Inghilterra.»
«Bahorel, posso giocare con il tuo cellulare?» Gavroche ci interrompe, mostrandomi due occhioni supplicanti ai quali non posso dire di no.
«Certo, tieni.» Éponine pare contrariata, ma resta in silenzio. Cosa fare, se non mettere su un’amorevole chiacchierata fa compatrioti e concittadini?
«Marius non ha mai parlato di te, eppure ho già sentito il tuo nome.» Inizio, non sapendo bene che dire. «Anche se, pensandoci bene, Marius parla sempre e solo di Cosette. È abbastanza stancante a volte, ma siamo abituati alle sue lagne. Il peggio è passato: adesso stanno insieme, ma durante l’anno e mezzo di stalking… Enjolras è stato costretto a bandirlo dalle assemblee dell’ABC per un po’, era diventato insopportabile. Non so davvero con quale coraggio Courfeyrac è riuscito a conviverci, dal momento che condividono la casa.»
Eponine scoppia a ridere. «Ne so qualcosa, è grazie a me che è riuscito a rintracciarla. Ho dovuto fare Cupido per un bel po’ portando messaggi e soffiate di qua e di là, l’ho aiutato anche a prepararsi per il primo appuntamento e tutte le cose varie… probabilmente adesso senza di me si sarebbe trovato ancora nella fase stalking.»
«Un giorno mi piacerebbe conoscere Cosette, e capire cosa ha di tanto speciale.»
«Oh, è una ragazza davvero molto carina.»
«Ha un bel culo.» La voce di Gavroche ci interrompe all’improvviso, e sono costretto a guardare altrove per evitare di ridere sguaiatamente rompendo il silenzio dell’aereo.
Dopo una bella tirata di orecchie, Éponine torna a sorridermi. «Scusa, è che non riesco proprio a controllarlo. È una peste, non so come comportarmi con lui. Comunque, dicevo… uhm, diciamo che sono una specie di consulente in questioni d’amore. Sono brava a dare consigli, e mi piace ascoltare la gente.»
«Capiti a puntino, allora.» Dico, più a me che a lei. Mi osserva con aria interrogatoria. Devo proprio?
«Diciamo che ultimamente ho fatto un grande errore… Riassumendo, ho lasciato una persona per evitare di farle del male in qualsiasi modo, ma l’ho praticamente distrutta lasciandola. Cioè, non lo sento da quando sono partito, ma so che c’è rimasto male…» Sospiro, non riuscendo neanche a parlare correttamente. Sono un’idiota, e la conferma non tarda ad arrivare.
«Sei un’idiota. Spaventato, certo, ma pur sempre un’idiota. Posso dirti solo una cosa, ed è qualcosa di abbastanza ovvio: spero per te che tu sia su questo aereo per tornare dal ragazzo X e chiedergli scusa per tutto quello che hai fatto. Perché altrimenti…» La interrompo.
«Sì, sono sull’aereo per tornare da lui e sì, mi scuserò per tutto quello che ho fatto. E ho appena ricordato una cosa.»
«Cosa?»
«Tu sei la ragazza che ultimamente ha fatto una corte spietata a Combeferre.» Dico, sorridendo sornione. Eponine arrossisce violentemente.
«Veram… veramente io… io…»
«Tranquilla, non ti preoccupare. Combeferre apprezza, e presto farà il primo passo. Stai pronta.»
Quest’ultima frase non fa altro che rendere di una tonalità ancora più accesa del rosso standard le guance della povera ragazza.
Iniziamo a parlare del suo viaggio in Inghilterra, di come è stata costretta a passare le ultime settimane da sua nonna in una cittadina nei pressi di Londra e di come quindi ha perso gli ultimi giorni di scuola; chiacchieriamo di un po’ di tutto, almeno il tempo passa più velocemente. Sono fortunato ad aver trovato dei parigini – amici dei miei amici, non potevo chiedere di più – su questo volo: parlare mi ha aiutato a dimenticare parte delle mie agitazioni.
«Bahorel,» Gavroche mi chiama, porgendomi il telefono, interrompendo un’animata discussione sul nostro insegnante di fisica – a quanto pare quell’idiota insegna ad entrambi. «Ti è arrivato un messaggio, è un certo J…» Sussulto, trattenendo il respiro.
«…Joly, tieni.»
Sospiro profondamente, prendendo il cellulare fra le mani. Apro il messaggio.

 
“Credo sia mio dovere avvisarti: qualche ora fa hanno trovato Jehan a scuola, è stato picchiato.
Siamo in ospedale, sembra essere abbastanza grave.
Ti chiamo appena posso.”

 
Deglutisco più volte, cercando di afferrare ed elaborare il contenuto del messaggio. La mano inizia a tremarmi.
«Tutto bene?» Mi chiedono Gavroche ed Éponine, all’unisono.
“No, niente va bene. È in ospedale. È stato picchiato. Ed io non sono lì.”
Una hostess si avvicina con il carrello, e su questo in un angolo c’è un vaso con un paio di fiori all’interno. Il Fato sa essere bastardo e sarcastico. Orchidee.
Tutto quello che riesco a mormorare è con voce intrisa di panico: «Quando cazzo atterra questo aereo?» 

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Capitolo 8
*** Timshel. ***


“And death is at your doorstep
And it will steal your innocence
But it will not steal your substance

But you are not alone in this
And you are not alone in this
As brothers we will stand and we’ll hold your hand
Hold your hand.”

Mumfords and Sons, Timshel.

 
Bahorel.
 
Éponine mi prende per mano e mi trascina giù dal taxi insieme a Gavroche: sono così in ansia che a stento riesco a mettere un piede davanti all’altro. Nell’aeroporto sono caduto nel panico più totale, ed Éponine ha preso in mano la situazione. Devo ricordarmi di ringraziarla, dopotutto ci conosciamo da neanche due ore e si sta prendendo cura di me.
Siamo di fronte all’ospedale. Non so… non so cosa fare.
Credo di essere morto, o qualcosa del genere. Non sento più niente, non capisco più niente, non riesco a fare più niente.
“Jehan.” Mi dico, per continuare a muovermi nella confusione più totale. “Devo trovarlo”.
Entriamo, e alla reception una signora dall’aria estremamemente annoiata ci ha detto di salire al terzo piano, terapia intensiva.
«Terapia intensiva. Dio, significa che…» Balbetto, non sapendo come continuare.
«Zitto Bahorel, va tutto bene. Andrà tutto bene.» Éponine sembra nervosa: se perde anche lei la calma, vuol dire che...
Il mio cervello si rifiuta di elaborare la gravità della situazione.
Arriviamo davanti all’ascensore, ma questo ci mette troppo ad arrivare. Pianto in asso lì Éponine e Gavroche e prendo le scale: neanche un minuto dopo sono al terzo piano, di fronte al reparto di terapia intensiva, e sto affogando nella mia stesssa paura. Non posso aspettare ancora.
Entro, e nella sala d’aspetto c’è tutto l’ABC.
Mi guardano, e nessuno sembra stranito dal mio improvviso arrivo. Dopo la mia scomparsa non avevo parlato con nessuno, se non mandato mie notizie di tanto in tanto a Courferayc qualche volta al mese – su sua richiesta; eppure, nessun segno di stupore quando appaio, se non tanta preoccupazione.
Resto impalato sulla soglia, non so che fare. A stento mi accorgo di Enjolras che cammina verso di me, mi prende per un gomito e mi guida verso gli altri. Mi siedo fra Grantaire e Combeferre, e lo osservo confuso. Tutto sembra così distante, quasi stessi vedendo attraverso la mente di un altro. Come se questo fosse semplicemente l’incubo di qualche altra persona.
In realtà, è il mio incubo personale. Il mio angolo d’inferno privato.
Mi guarda: «Ho bisogno che tu stia calmo e tranquillo, Bahorel. Non andare in panico, non…» Courfeyrac lo sposta con una leggera spinta, mi osserva per quache secondo, poi mi tira un pugno in pieno volto.
Grantaire e Combeferre, consci della mia indole ribelle, si buttano subito su di me, pronti a fermare l’inizio di un’eventuale rissa. Ma non faccio niente; non ho la forza di reagire, così reclino semplicemente la testa per il contraccolpo.
«L’avevo promesso a Jehan, scusa amico.» Alzo le spalle, mentre inizio a perdere sangue dal naso.
Enjolras mi mette una mano sulla spalla e riprende a parlarmi, ma tutto quello che riesco a vedere è Joly che parla con un medico alle sue spalle.
Éponine e Gavroche ci raggiungono, e lei mi offre un paio di fazzolettini con i quali inizio a tamponarmi mollemente il naso. Gavroche inizia a giocare con Courfeyrac, mentre la sorella e Combeferre si allontanano insieme.
Joly si siede al posto di Combeferre.
«Lo stanno tenendo in coma farmacologico, e probabilmente resterà così per qualche altro giorno: il trauma cranico che ha subito non è gravissimo, ma preferiscono essere cauti. Per il resto, ha qualche costola rotta, e un bel po’ di contusioni ed escoriazioni sparse su tutto il corpo. Col tempo si rimetterà: è stato dichiarato assolutamente fuori pericolo, ce la farà.»
I ragazzi tirano un sospiro di sollievo, ma io mi sento tutto meno che sollevato. Chino il capo in avanti, e mi prendo la testa fra le mani. È tutta colpa mia, l’ho lasciato solo e indifeso.
Se fossi rimasto con lui tutto questo non sarebbe successo. E invece adesso è in un letto di ospedale, perché io ero troppo preso a fare lo scemo.
Mi odio profondamente.
Feuilly si avvicina, e si china di fronte a me: «Bahorel, fai un respiro profondo. Ci siamo noi con te, non ti lasceremo affrontare tutto questo da solo, okay? Se hai bisogno di parlare, sfogarti, piangere, fare qualsiasi cosa, ci siamo noi. Tu non sei solo, e neanche Jehan è solo. Possiamo accompagnarti in palestra, se vuoi, sappiamo bene che il sacco da boxe è il tuo migliore amico.»
«Avete non più di mezz’ora, se qualcuno di voi vuole entare. Uno alla volta.» La voce del dottore ci riscuote. Tutti mi guardano, ed Enjolras mi fa un cenno: mi alzo in piedi, e seguo il medico; dopo qualche secondo sono nella stanza di Jehan, seduto accanto a lui.
Jehan, il mio Jehan, così picchiato che a stento lo riconosco. Ha così tanti fili attaccati qua e là che non c’è un centimetro di pelle libera. Gli prendo cautamente la mano, senza neanche provare a stringerla, e resto così.
Quante cose potrei dire!
Potrei iniziare dicendogli di quanto mi dispiace, o di come ho intenzione di vendicarlo. Potrei dirgli di come l’Inghilterra è un posto bruttissimo nel quale vivere, del brutto tempo che c’è lì, o potrei dirgli di come non è passato giorno nel quale non abbia provato del rimorso per quello che ho fatto. E ancora, potrei dirgli di come la vista di ogni fiore mi faceva trasalire perché mi ricordava di lui, di come il suono del flauto traverso della vicina di casa mi spezzava il cuore, o dirgli di quanto mi erano mancati i suoi capelli rossicci, la sua voce dolce, o i suoi occhi azzurri. Potrei dirgli che non sono tornato solo ora che sta male – sono un’ipocrita, certo, ma non fino a questo punto! – e che ho preso l’aereo di mia spontanea volontà perché sentivo il bisogno di tornare da lui…
“Apri gli occhi Jehan, per favore. Appaga il desiderio di un povero stronzo, e fammi vedere quei due occhi che tanto mi fanno disperare!”
Ma la telepatia sembra non funzionare.
Infine, potrei dirgli di quanto lo amo. Ma servirebbe parlare? Mi sentirebbe? Probabilmente no.
«Sei un ragazzo intelligente.» Mi dice un’infermiera, intenta a controllare uno dei tanti monitor; non l’ho neanche vista entrare. «Ho visto tanta gente entrare qui e parlare, parlare, parlare come non ci fosse un domani. Ma non realizzano che il silenzio è la scelta migliore: riusciamo a comunicare di più senza dire niente.» Mi osserva sorridendo benevola: è una signora anziana, dai tratti dolci, una di quelle signore che t’immagini con una scatola di biscotti fra le mani circondata da un’infinità di nipotini.
«Non disperare, ragazzo. Si sveglierà, e starà bene. Fidati di una vecchia che di casi così ne ha visti tanti: tornerà come nuovo, basterà stargli vicino.» Mi sorride nuovamente, mi posa una mano sulla spalla per confortarmi ed esce.
Torno a guardare Jehan. “Starà bene,” mi dico. “Starà bene, e avrai tutto il tempo di rimediare ai tuoi errori”.
Qualche lacrima calda inizia a scorrere piano lungo le mie guance. Non avevo mai pianto prima d’ora.

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Capitolo 9
*** Thistle and weeds. ***


It’s getting dark darling, too dark to see
And I’m on my knees, and your faith in shreds, it seems
[…]
But plant your hope with good seeds
Don’t cover yourself with thistle and weeds
Rain down, rain down on me.”

Mumford and Sons, Thistle and weeds.

Bahorel.

Sono passati tre giorni, e i dottori mi hanno detto che oggi Jehan dovrebbe svegliarsi.
Non mi sono allontanato più di due metri dalla sua stanza nelle ultime settantadue ore: ho dormicchiato sulle sedie nella sala d’aspetto, ho mangiato solo qualche snack comprato dalle macchinette. Sono andato via solo due volte per non più di mezz’ora, semplicemente per fare una doccia veloce a casa e tornare a rioccupare il mio posto in ospedale.
La vecchia infermiera continua a fare visita a Jehan regolarmente, e ogni pomeriggio si siede accanto a me quando il suo turno finisce per chiedermi come sto e se ho bisogno di qualcosa.
Mi piacerebbe dirle che sto perdendo piano piano la speranza, e che vedo nero: mi è sempre stato difficile credere in qualcosa, anche se sono una persona abbastanza positiva. Ma credo in Jehan, e questo mi lascia quel briciolo di speranza che mi serve per andare avanti, sedermi ogni giorno nella sala d’aspetto di terapia intensiva, e aspettare.
E magari, se sono fortunato, oggi riuscirò a parlargli.
Devo essere cauto, ovviamente, ma… ho bisogno di vederlo sveglio. Ho bisogno di vedere i suoi occhi, e ho bisogno che lui mi veda.
Sto impazzendo.
Sono seduto sulla scomoda e dura poltroncina della stanza di Jehan, le braccia conserte sul letto e la faccia poggiata su di queste. Le mie dita sono mollemente posate vicino alla sua mano.
Courfeyrac e Marius hanno il turno oggi, e probabilmente sono alle macchinette a discutere di chissà cosa – politica, manifestazioni... il solito.
Ho gli occhi chiusi: non mi faccio una dormita decente da quando mi sono imbarcato sull’aereo. I ragazzi mi hanno chiesto tante volte di tornare a casa mia per dormire almeno qualche ora in un letto decente, ma mi sono rifiutato categoricamente di farlo. Loro fanno i turni, io non mi muovo e basta.
Continuo a ripetermi che Jehan è la mia sola speranza: se mi ama, si sveglia. Ed io so che mi ama, è una certezza assoluta. Di conseguenza, si sveglierà.
Osservo con aria stanca la finestra, e il sole fuori che splende radioso malgrado siano solo le sette di mattina. È una bella giornata. Richiudo gli occhi, e mi addormento.
Sogno, e mi trovo in un campo abbandonato e desolato: cardi ed erbacce sono ovunque, e mi legano le caviglie. Scalzo, cammino mentre le spine mi pungono ovunque, facendomi male: mi fermo improvvisamente, perché qualcosa ha catturato la mia attenzione.
In mezzo a tanta incuria, al centro di questo campo brutto e triste, se ne sta un’orchidea solitaria. Sorrido.
Sembrano passati solo alcuni secondi, eppure quando mi risveglio il Sole ha cambiato posizione, e sta tramontando.
Mi stropiccio gli occhi, e mi stiracchio sbadigliando.  È strano che nessuno sia venuto a svegliarmi: l’orario di visita è passato da un pezzo; evidentemente non hanno avuto il coraggio di chiamarmi. O forse ero così profondamente addormentato che non li ho neanche sentiti.
«Prima di svenire mi sono chiesto se saresti venuto al mio funerale. Suppongo che la tua presenza sia una sorta di risposta affermativa, o sbaglio?»
Mi volto molto lentamente.
“Sto sognando. In realtà sto ancora sognando”.
La realtà mi colpisce in pieno petto, facendomi mancare il fiato per qualche secondo: Jehan mi sorride, facendo un cenno di saluto con la mano. Scatto in piedi, mi allontano di qualche passo, poi torno vicino. Lo guardo, lo guardo, lo guardo.
Finalmente i suoi due occhi azzurri mi stanno fissando: finalmente mi sento completo.
Mi avvicino ancora un po’, e la mia aria sconcertata non fa altro che far sorridere anche più ampiamente il giovane nel letto.
Gli prendo cauto una mano, e bacio con gentilezza la punta dei suoi polpastrelli. Non so che fare, come reagire, cosa dire. Se avessi ancora qualche lacrima o dei liquidi in genere in corpo, probabilmente piangerei.
Ma sono troppo disidratato e scioccato per piangere.
Improvvisamente le cinque dita che fino a poco tempo prima erano premute contro le mie labbra, si scagliano con veemenza contro la mia guancia, facendomi voltare la faccia di lato.
Niente che non avessi previsto, dopotutto.
«Courfeyrac mi ha detto che ti ha davvero tirato un pugno in faccia come mi aveva promesso, ma dovevo fare la mia parte. Adesso abbracciami, Bahorel».
Mi lascio sfuggire una risata, una risata intrisa di isteria. È lo stress di una settimana che prende finalmente il volo, facendo spazio al sollievo.
Lo abbraccio con gentilezza, con il timore di fargli male in qualche modo – di nuovo. Tremo, perché non riesco più a controllarmi. Non ho più neanche la forza di controllarmi.
«Ssssh Bahorel, va tutto bene. Siediti accanto a me, per favore.»
Mi muovo a scatti, quasi fossi una macchina. Non sto capendo più niente, ancora una volta. Avvicino la poltrona alla testa del letto di Jehan, e poggio il mento sul suo cuscino, in direzione del suo volto.
Lo guardo negli occhi, e mi sento bene di nuovo. Guardo il suo sorriso appena accennato, e riprendo a vivere.
«Ho aspettato per giorni questo momento.»
«Io ho aspettato un bel po’ di mesi, invece.»
Distolgo lo sguardo, imbarazzato. C’è ancora quella cosa della quale bisogna discutere; sospiro.
«So che eri spaventato, Bahorel, ma avresti potuto almeno dirmi che stavi andando via. Avresti potuto mandarmi un messaggio ogni tanto, farmi sapere che eri vivo. Non ti avrei trattenuto, sarei stato tuo amico.»
Apro bocca, pronto a tirare fuori una giustificazione senza capo e né coda, ma lui scuote piano la testa. Resto in silenzio, pendendo dalle sua labbra.
«Non farti una colpa per quello che mi è successo mentre non c’eri, ed io non ti incolperò per esserti portato via la mia vita.»
«Sai benissimo che è stata colpa mia, in entrambi i casi. Non avrei mai dovuto lasciarti.»
«Non avresti potuto cambiare il corso delle cose, Bahorel. Il Fato è il Fato, e in un modo o nell’altro trova il modo di farci seguire il suo cammino. Non sono quasi morto per colpa tua, e soprattutto… promettimi che non andrai a cercare Théo e la banda. Prima mentre dormivi – mi sono svegliato prima di te, sì – Courfeyrac mi ha detto che hanno sporto denuncia, e la polizia è già sulle loro tracce. Promettimelo, Bahorel, e starò bene».
Non posso prometterlo, sai benissimo che appena smetterò di essere uno zombie andrò a picchiarli a sangue.
Mi alzo, mi chino su di lui, e dopo tanto tempo poso di nuovo le mie labbra sulle sue.
Mi stacco di poco, e noto che i suoi occhi sono umidi. Poso una mano sul suo volto, e con il dito asciugo piano le lacrime dal suo occhio.
Non piangere, mio Jehan, perché ci siamo appena ritrovati. E Fato o non Fato, i nostri cammini sono legati. È una promessa, la mia: non ti lascio più.

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Capitolo 10
*** Awake my soul. ***


“How fickle my heart and how woozy my eyes
I struggle to find any truth in your lies
And now my heart stumbles on things I don’t know
This weakness I feel I must finally show.”
Mumford and Sons, Awake my soul.

Jehan.

Sono a casa da tre settimane – dopo essere rimasto in ospedale per quasi un mese – e tutti sono incredibilmente gentili con me.
Sul tavolo ci sono oggetti di ogni tipo, tutti i regali che mi hanno fatto i ragazzi: un ventaglio finemente intagliato e una scatola di cioccolatini da parte di Feuilly, un paio di libri sulla filosofia orientale da parte di Combeferre, uno strano amuleto in legno da parte di Bossuet – «È uno scaccia-guai,» mi ha detto sorridendo «Con me non ha funzionato, ma credo di essere io il problema, niente funziona con me».
Al centro spicca nel vaso in ceramica blu il mazzo di girasoli che mi è stato recapitato stamane da parte di Enjolras e Grantaire; a fare compagnia a quest’ultimo ci sono una bottiglia di non voglio sapere quale vino da parte di Joly – secondo me ci ha sciolto dentro un paio di antidolorifici e medicinali vari, lo conosco troppo bene – e una scatola di preservativi  da parte di Courfeyrac, con tanto di bigliettino.

“Lui è tornato, tu sei vivo, adesso dateci dentro come se non ci fosse un domani. Pace e amore!”

Sonnecchio tranquillo nel lettone sdraiato su un fianco, stretto alla coperta, quando due labbra mi sfiorano piano la fronte, vicino ai punti. Sorrido sornione, ma mi fingo infastidito.
«No, Bahorel, voglio dormire.»
«No, Jehan, non passerai di nuovo la giornata in casa. I dottori hanno detto che…»
«Al diavolo i dottori.»
«Come siamo suscettibili». Si sdraia dietro di me, circondandomi con un braccio; un odore delicato mi solletica il naso: apro gli occhi e mi ritrovo un’orchidea rosa sul cuscino.
Devozione” nel linguaggio dei fiori, ma probabilmente lui non lo sa.
«E questo a cosa si deve?»
«È per chiederti scusa. Di nuovo.»
«Sono due settimane che mi chiedi scusa, ma ti ho detto di non pensarci.»
«Mi scuserò per il resto dei miei giorni.»
Spingo piano l’orchidea lontano da me, sul cuscino. «Allora non posso accettarla. Non voglio che tu stia sempre lì a chiedere il mio perdono, quando ti ho già perdonato da tempo.»
«Bene, allora è un ringraziamento. Grazie di esistere.»
No, non lo sa. E non sa neanche che nei primi giorni, mio malgrado, sono stato titubante.
Come faccio a sapere che mi ama ancora, e che non mi lascerà mai? L’ha già fatto una volta. Sono forte, ma lui è il mio punto debole: non voglio che mi lasci di nuovo da solo.
Non m’interessa se sono rimasto in coma per un paio di giorni, se sono rimasto un mese in ospedale, se mi hanno picchiato, o se adesso ho qualche problema con la coordinazione occhio-mano: a me basta lui. Se viene a mancare lui, vengo a mancare io.
Ed è già venuto a mancare in passato.
Ho paura di perderlo di nuovo, e ho bisogno di dirglielo.
«Promettimi che non andrai via, non di nuovo».
Si irrigidisce dietro di me; dopo qualche secondo le sue braccia mi stanno strigendo con forza, e sospira.
«Ho commesso l’errore più grande della mia vita lasciandoti, Jehan. Sbagliando s’impara, ed io ho imparato la lezione più importante di tutte».
«Quale?»
«Che senza te sono niente.»
«Come faccio sapere che non stai mentendo?»
«…Capisci perché continuo a scusarmi, allora? So che non avrai più fiducia in me, è normale. A parti invertite avrei molto probabilmente lo stesso problema». Una nota di amarezza e rimorso nella sua voce. Sono un’idiota, lo sto facendo sentire in colpa.
So che è arrabbiato: so che un giorno di questi andrà a cercare Théo, e saranno guai per lui e la sua banda. Per ora si sta controllando solo perché sa che non mi sono rimesso completamente, e non vuole farmi preoccupare. Ma riesco a vedere l’uomo spezzato che vive in lui, riesco a vedere la voglia di vendetta accrescere in lui mentre non riesco a prendere correttamente una matita in mano e faccio un po’ di fatica a versare l’acqua in un bicchiere senza farla finire ovunque, vedo la rabbia ribollire nelle sue vene. Cerca di nascondersi, cerca di nascondermi i suoi sentimenti, ma è come un libro aperto ai miei occhi.
Quindi aggiungere ulteriore rimorso, rimpianti e sensi di colpa è inutile.   
Mi giro dall’altro lato, ritrovandomi faccia a faccia con lui. Lo guardo negli occhi, e vi scovo un’infinita tristezza.
«Non essere triste, tutti sbagliamo. Perdona la mia poca fiducia, temo avrò bisogno di ancora un po’ di tempo.» Bisbiglio.
Avvicina le sue labbra alle mie, e mi dice in un soffio: «E tu tieni a mente che qualsiasi cosa io faccia, pensi o dica, ti amo più di ogni altra cosa in tutta la mia vita; fino a un anno fa ero un povero bastardo senza gloria, e guardami adesso. Mi hai reso una persona migliore, Jehan, e questo mi ha spaventato così tanto che sono stato costretto a scappare via da te: cosa ne poteva sapere il vecchio me dell’amore? Come poteva il vecchio me riuscire a stare anche solo vicino ad una persona così bella e splendente come te? La mia anima non era abituata alla luce, e poi sei arrivato tu. Hai svegliato la mia anima, in tutti i modi possibili. Mi hai amato profondamente e davvero, ed io non sono mai stato amato sul serio in tutta la mia vita».
Come posso non amarlo? Come può il mio cuore non spezzarsi ogni volta che apre bocca, o ogni volta che mi scruta con quei due occhioni da cerbiatto? Come posso non guardarlo con dolcezza, e ringraziare ogni giorno chiunque ci sia al di sopra di noi per averci fatto incontrare? Dio o Fato che sia, dovrei stringere la mano a Théo per avermi tirato un pugno in faccia quel giorno.
«Prometto di non lasciarti, comunque».
Le nostre labbra si uniscono improvvisamente, e perdo un battito. «Suono schifosamente romantico, scusami.» Mi dice, sorridendo e abbassando lo sguardo. «Non mi capita spesso, la cosa mi mette a disagio. E non poco».
Rido. «Lo sai che mi fa piacere sentire certe cose, proprio se sei tu a dirle».
«Stai per caso insinuando che io non sia romantico?»
«Assolutamente no.» Lascio salire pian piano una mano lungo la sua maglietta.
«Ecco, a proposito di svegliare l’anima, credo che qualcuno abbia deciso di svegliare qualcos’altro».
«Colpevole!» Ammetto.
«Quindi niente passeggiata nel verde insieme ai fiori? Niente picnic sul prato a guardare le nuvole? Niente suonatina di flauto post-picnic? Avevo programmato tutto…»
La sua maglietta vola sul pavimento, mentre mi riappropio delle sue labbra. Prendo fiato un attimo.
«Ti spiace rimandare di qualche ora?»
La mia mano scende lentamente, e lui sussulta. «Assolutamente no».
Mi è mancato così tanto.

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Capitolo 11
*** Dust bowl dance. ***


A Giorgia e al suo malcelato amore per il comic sans: buon compleanno e altri cent'anni di questi - da passare con me, ovviamente!


There will come a time I will look in your eye
You will pray to the God that you always denied
Then I’ll go out back and I’ll get my gun
I’ll say, ‘You haven’t met me, I am the only son’

Mumford and Sons, Dust bowl dance.

Jehan.

«Devi calmarti, Bahorel».
Gli poggio le mani sulle spalle, ma le scosta con un gesto brusco – eppure gentile: ha paura di farmi male.
«Io ti porto fuori dopo aver insistito tanto, lo incontriamo a due isolati da casa tua e ti urla contro dandoti della checca. Lo ammazzo, Jehan. Torno giù e lo ammazzo. Lo prendo a pugni fino a quando non gli esce il cervello dal naso, fino a quando non lo sfiguro così tanto che sua madre non sarà in grado di riconoscere il suo cadavere e saranno costretti a fare il test del DNA, come fanno con i corpi carbonizzati».
Urla, e cammina furiosamente da una parte all’altra della camera da letto; non so cosa fare. Sapevo che un giorno di questi sarebbe scoppiato, eppure stavo pregando che la sua furia non fosse così forte quanto invece si è rivelata essere.
Mi alzo, cerco di dire qualcosa, ma mi zittisce con lo sguardo: non seguo neanche più i suoi discorsi, tanto si sono fatti distanti ed intricati. Colgo solo qualche minaccia di morte qua e là.
«Solo tre settimane di servizi socialmente utili. Ti ha quasi ucciso, Jehan, e ha dovuto solo passare tre settimane in un centro di recupero. Forse dovrei prendere a pugni anche il giudice appena finisco con Théo».
Ho paura, e non per me: ha sempre avuto questi scatti di rabbia incontrollabili, e da quanto mi ha detto Grantaire – compare di rogne da una vita – è impossibile farlo calmare; riprende il controllo di sé solo quando raggiunge il suo obiettivo.
E in questo caso le sue parole fanno intendere che il suo obiettivo non è di certo un gesto nobile.
«Per favore, Bahorel. Non essere violento, sto bene. Non ho paura di Théo, né dei suoi amici, né di quello che potrebbero farmi; ho ricevuto insulti peggiori, e credo siano abbastanza spaventati da non picchiarmi più. Ti prego, non fare cose di cui ti pentir…»
«Vado al pub con Grantaire, ci sentiamo dopo. Non aspettarmi sveglio, farò tardi.» Prende la giacca, la infila velocemente e, dopo aver messo il cellulare in tasca, esce sbattendo la porta alle sue spalle.
Sospiro preoccupato; ovviamente, non credo a quello che mi ha detto. Afferro il mio cellulare, e scrivo a Courfeyrac.

 
“Courf, credo che B. stia per combinare un casino dei suoi.
È andato a cercare Théo, ed io sono rimasto a casa sua.

Che faccio?”

Qualche secondo dopo il cellulare vibra, è  Courfeyrac.
 
“Preparati, arrivo con R e Ras.
Avresti dovuto sparargli qualche sedativo in vena piuttosto che lasciarlo andare.”
 
***

Bahorel.

Scendo da casa mia in fretta, ho paura che quello stronzo possa scappare in qualche modo; ma scemo com’è, probabilmente è ancora dalle parti di casa di Jehan. Pensa forse che ci andrò leggero, o che non ho intenzione di caricarlo di botte?
Supero di quattro volte il limite di velocità massimo consentito, passo almeno cinque semafori rossi, vado controsenso due volte, sorpasso quattro macchine in una strada con una sola corsia e per un momento mi ritrovo a guidare sul marciapiede: non m’interessa più di tanto.
Scendo dalla moto, e mi ritrovo la brutta faccia sogghignante di Théo a qualche metro. C’è solo uno dei suoi amici: tanto peggio per lui.
«Ehi, guarda Théo, il fidanzato della ch…» Un pugno dritto nella mandibola lo zittisce: sento le ossa scricchiolare e spostarsi sotto le mie nocche. Dovrà stare zitto per un bel po’, probabilmente.
Lo lascio lì, non ho tempo per un poveraccio come lui.
Il mio obiettivo è un altro.
Mi ritrovo faccia a faccia con Théo: il suo sogghigno si spegne –  mentre con il pugno insanguinato lo colpisco dritto nello stomaco – e si trasforma in quella che sembra paura.
Tanto meglio.
Non credo di sentire più i miei pensieri: non penso neanche di essere più umano. Ringhio, mentre lo scaglio contro il muro, e gli assesto un calcio ben piazzato nello sterno; si piega in avanti, e con uno spintone lo lancio a terra.
Lo sottovaluto: nella caduta, tira fuori un coltello, e mi lascia una bel taglio sul braccio. Non sento il dolore, tanto sono preso dal momento; mi lancio su di lui, mi siedo a cavalcioni, e do il via ad una scarica di pugni e colpi sparsi.
Sono furente. Per colpa sua ho quasi rischiato di perdere la persona più importante della mia vita.
In qualche modo riesce a farmi cadere all’indietro, e le posizioni si invertono: adesso le sto prendendo io. Ma niente e nessuno può fermarmi, qualche secondo dopo siamo uno di fronte all’altro, in piedi.
Metto una mano nella giacca, e con stupore di Théo mi ritrovo fra le mani una rivoltella.
Cerco di calmare il mio respiro affannato, mentre punto la canna della pistola in direzione della fronte di Théo.
«Dammi una buona ragione per non farlo».
Il braccio inizia a pizzicare, l’occhio destro fa male, e l’addome sanguina: evidentemente il coltello di Théo è arrivato da qualche altra parte.
Fa male, ma non importa. Sto sanguinando, ma non importa. Lo sguardo terrorizzato negli occhi di Théo è appagante.
«Ehi, Bahorel. Calmati. In nome della nostra vecchia amicizia…» Théo cerca di fare un tentativo, inginocchiandosi piano e alzando le mani, dopo aver deposto il coltello per terra.
«Amicizia? Dovrei spararti seduta stante, e porre fine alla tua miserabile vita. Io me ne vado a casa contento, e tu vai all’Inferno: è perfetto, non credi?»
Sono perfettamente calmo. Potrei premere il grilletto in un momento qualsiasi, e tutto finirebbe.
Eppure, il tremolio del bastardo in ginocchio davanti a me è così paradisiaco che potrei stare così per ore e sentirmi una persona completamente felice dopo.
Devo divertirmi.
«Bahorel, ho… ho una ragazza, Michelle. È incinta, e nel giro di qualche mese ci sposeremo. Non vorrai far crescere un bambino senza padre, vero?» Prega. Ho trovato il suo punto debole.
«Michelle, dici? Bene, come ti sentiresti se picchiassi Michelle mentre tu non ci fossi e al tuo ritorno la trovassi in coma? Staresti male, perché la ami. Suppongo.
Stavo tornando pieno di rimorso per averlo lasciato senza una spiegazione – un rimorso bruciante, di quelli che non ti fanno dormire la notte e ti torturano per tutto il giorno – e lo trovo in terapia intensiva, più morto che vivo.
Ora, immagina la tua Michelle in coma per colpa mia. Mi uccideresti?»
Annuisce lentamente, abbassando la testa; sì, sì mi ucciderebbe. Prendo bene la mira, la pistola puntata contro il suo cranio e, diversamente da quello che si vede nei telefilm, la mia mano non trema. Sono deciso.
«Bahorel!»
Dei passi dietro di me: non volto neanche la testa, perché riconosco la sua voce. Sento Grantaire borbottare qualche imprecazione a mezza voce; Jehan non è venuto da solo, allora.
Lancio un’occhiata veloce alla mia destra. A completare il felice quadretto familiare ci sono Courfeyrac con le mani nei capelli ed Enjolras che mi guarda con aria severa e preoccupata.
Jehan si posiziona fra me e Théo.
«Spostati, Jehan. Non ho intenzione di farti male».
«Ti credevo una persona migliore, Bahorel. Qualche giorno fa mi hai detto che ti ho reso una persona migliore; per favore, provamelo. Non puoi uccidere Théo: se non vuoi farlo per me, fallo per te stesso. Che razza di vita faresti chiuso in carcere? Ti renderebbe migliore di lui?»
«Non c’è niente di buono in me, Jehan.» Muovo lentamente il braccio, puntando la pistola contro di lui. Courfeyrac bestemmia, e non si fa scrupoli nell’abbasare la voce.
Grantaire fa un passo avanti, ma Enjolras gli posa una mano sul petto fermandolo.
Jehan mi guarda dritto negli occhi, fermo con aria fiera, senza mostrare paura. È questo il mio ragazzo, buono e coraggioso. È per questo che lo amo.
Lo oltrepasso senza problemi, e mi ritrovo a un metro da Théo. Sta piangendo.
Jehan si volta, ma non si avvicina. «Ti prego Bahorel, stai sanguinando. Andiamo in ospedale, e lasciamo stare tutto, diremo che avete avuto una rissa ma che è tutto risolto. Non vuoi essere un assassino.»
Lo ascolto appena. Lancio uno sguardo veloce al mio braccio abbandonato contro il fianco: le mie dita gocciolano di sangue; per non parlare della chiazza rossa pericolosamente grande sulla t-shirt grigia che indosso sotto la giacca.
Poggio la punta della pistola contro la testa di Théo, e lui sussulta.
«Chiedi scusa a Jehan per quello che gli hai fatto».
«Bahorel, non ho bisogno delle sue scuse…»
Mi volto, e Jehan smette di parlare.
«Scusami Jehan. Scusami tanto, sono stato un’idiota.» Dice, fra un singhiozzo e un altro.
«Adesso promettimi che insegnerai a tuo figlio ad amare tutti incondizionatamente, e che ognuno è libero di fare, essere e amare chi vuole».
Non parla neanche più, ma annuisce vigorosamente. Si appende con le mani al mio braccio, il petto che si alza e abbassa a singulti.
Lo osservo per qualche secondo, poi mi giro verso Jehan: ho perso tanto sangue, e inizio a sentirmi la testa un po’ vuota.
Apro la rivoltella, e mostro a Jehan il caricatore vuoto.
«Non sono così male come credi».
Improvvisamente un tuono rimbomba nel cielo, e inizia a venire giù la pioggia.

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Capitolo 12
*** After the storm. ***


“But I won’t rot, I won’t rot
Not this mind and not this heart, I won’t rot.
And I took you by the hand
And we stood tall,
And remembered our own land,
What we lived for.
And there will come a time, you’ll see, with no more tears,
And love will not break your heart, but dismiss your fears.”
Mumford and Sons, After the storm.

Bahorel.

La pioggia ticchetta insistente contro il vetro della finestra. Fuori c’è il diluvio universale in corso.
«Okay Jehan, tieni questo premuto qua e aspetta».
Come se Jehan fosse davvero in grado di tenere qualsiasi cosa in mano in questo momento: poverino, alla vista del sangue trema.
Non è colpa sua, dopotutto è il primo post-rissa al quale assiste: nei tempi passati è capitato tante volte agli altri di trovarmi sdraiato sul tavolo di casa di Joly sporco di sangue.
Joly, figlio di un noto medico chirurgo qui a Parigi, è uno che sa il fatto suo: dopo un po’ di tirocinio al pronto soccorso – e deve ancora iniziare l’università – e con l’abitudine a fare esperimenti su manichini insieme a suo padre, non è la prima volta che si ritrova a mettere alla prova le sue abilità e ricucirmi dopo una gara clandestina o una rissa in un bar.
Jehan è andato nel pallone quando Joly mi ha infilato un ago nel braccio, per iniettarmi l’anestesia.
Gli poggio la mano sulla guancia, mentre lui tiene delle garze premute sul mio addome, e Joly mi passa del disinfettate sul taglio abbastanza superficiale sul braccio.
Courfeyrac porge degli stantuffi a Joly, mentre Grantaire ed Enjolars se ne stanno buoni e fermi in un angolo della stanza.
«Jehan, non è la prima volta che facciamo questa cosa. Stai tranquillo, sto bene e non mi succederà niente di brutto».
Annuisce, ma sembra poco convinto mentre sposta lo sguardo sulla ferita che sta tamponando. Joly gli fa cenno di allontanarsi, e prende ago e filo.
Jehan impallidisce.
Si sposta dall’altro lato del tavolo, mi prende una mano, e segue con lo sguardo le mani di Joly. Appena l’ago penetra per la prima volta la mia pelle, sussulta. Con la mano libera lo costringo a voltarsi verso di me, e gli sorrido.
«Sei rimasto impassibile davanti ad una pistola, e adessi ti spaventi tanto per un pochino di sangue?»
«Un pochino di sangue? È disgustoso, credo che vomiterò.» Dice, alzando gli occhi al cielo, scrutando interessato il soffitto bianco. «E comunque non ho avuto paura di te. Certo, non sapevo che la pistola era carica, ma sapevo che non mi avresti mai sparato».
«Puoi uscire se vuoi.» Ridacchio; lancio un’occhiata a Joly, e vedo che ha quasi finito il suo lavoro. Enjolars e Grantaire escono, seguiti da Courfeyrac che sembra ancora leggermente sotto shock.
Jehan è quello messo peggio.
Joly si sciaqua le mani sotto l’acqua corrente, se le asciuga e poi mi sistema questo cerotto gigante sulla ferita fresca di sutura.
«Come al solito, aspetta almeno un’oretta prima di alzarti. L’effetto dell’anestesia dovrebbe sparire in fretta, questa era più leggera di quelle che ti faccio solitamente. Ti ho visto messo peggio.» Dice, più a sé stesso che a noi; mi passa una borsa del ghiaccio, e me la fa poggiare sull’occhio pesto.
Si guarda attorno, poi esce.
«Non potevi sapere cosa mi stesse passando per la testa in quel momento, però. Avrei potuto benissimo spararti.» Riprendo a dire, mettendomi un pochino più comodo, mentre Jehan torna del suo colorito normale.
Fino a pochi secondi fa era leggermente verdastro.
«Ed io ti dico di no. Mi ami, non l’avresti mai fatto».
«…Hai ragione, non avrei mai potuto farlo».
«E anche se l’avessi fatto… sarei morto per mano tua. Non sarei morto solo, e non sarei rimasto lì, sul marciapiede. Sarei morto accanto a te, o fra le tue braccia. Cosa posso chiedere di più? Avrei avuto paura – ti chiedi mai cosa c’è dopo? Buio o paradiso che sia, l’idea mi spaventa – ma tu saresti stato lì. È tutto quello che mi serve sapere.»
Non voglio sentire tutte quelle farneticazioni sulla morte. Ho già rischiato di perderlo una volta, e non ho intenzione di considerare l’idea del trapasso di uno di noi due per un bel po’ di anni.
«Pensi che riusciremo ad avere una relazione normale, noi due? Prima scappo in un altro Paese per paura di farti male, poi torno per scusarmi e tu sei in coma, poi ti svegli ed io rischio di ammazzare un povero stronzo. Credi che adesso riusciremo a vivere una vita normale, senza problemi?»
«Per vita normale intendi roba del tipo cene romantiche, appuntamenti in posti disparati, colazione a letto, matrimonio, bambini che corrono per casa, sedie a dondolo su una veranda piena di fiori, condivisione di dentiere e bastoni…?»
Sorrido, e mi alzo, indossando con calma la maglietta sporca di sangue e prendendo il cellulare: devo inviare dei messaggi.
«Joly ha detto…»
«Al diavolo Joly.»

 
***

Jehan.

«Perché mi hai portato a casa?»
«Sssh Jehan, smettila di fare domande».
La pioggia mi ha appiattito i capelli lungo il volto: devo sembrare una sorta di barboncino rossiccio e bagnato. Pazienza.
Entriamo nel portone, e Bahorel mi dice di aspettare qui, con gli occhi chiusi. Sono spaventato, ma nel senso buono del termine.
«Hai ancora gli occhi chiusi?» Annuisco, strizzando forte gli occhi. Qualcosa di morbido si posa sulla mia fronte: mi benda con un pezzo di stoffa.
«Seta?»
«Diciamo che il tuo primo regalo della sera; è un foulard azzurro, quando smetterà di fungere da benda potrai usarlo come meglio ti pare».
«Un foulard azzurro in seta; mi sono lamentato così tanto perché non ne avevo uno…» Odio e amo le sorprese al contempo.
Saliamo in moto, e dopo le prime due curve perdo già il senso dell’orientamento. Quando scendiamo – dopo una ventina di minuti di viaggio – sono completamente confuso, e con lo stomaco sottosopra.
Le uniche certezze sono che Bahorel è con me, e che ci troviamo all’aperto. Stiamo camminando nell’erba, e la pioggia si è fatta lieve.
Dopo qualche minuto di non semplice e bella passeggiata nell’erba alta ci fermiamo. Slega con gentilezza il foulard, mettendomelo al collo.
Perdo un battito: siamo in un campo e di tanto in tanto avvisto delle orchidee. Non ne ho mai viste così tante in vita mia in un posto diverso dalla serra, e per un momento mi sento in colpa: ne stiamo calpestando alcune.
Oramai le abbiamo schiacciate per bene. «Per favore, non muoverti ulteriormente. Stiamo commettendo un genocidio.» Dico allarmato a Bahorel, che scoppia a ridere.
Improvvisamente scorgo dei volti vicino agli alberi: con delle lanterne accese in mano, ci sono tutti i ragazzi dell’ABC. Se non li conoscessi, probabilmente starei già scappando via; sembra molto l’inizio di un film horror.
Courfeyrac, Feuilly, Bossuet, Joly e Musichetta, Marius e Cosette, Combeferre, Eponine e Gavroche, Enjolras e Grantaire. I sorrisi che mi rivolgono non promettono assolutamente niente di buono.
“Enjolras che sorride sornione. Deve essere qualcosa di davvero serio. Okay, forse dovrei iniziare ad avere paura”.
Torno a guardare Bahorel confuso, e questo si schiarisce la voce. Sembra piuttosto teso.
“Se qualcuno non mi spiega che sta succedendo entro i prossimi tre secondi, urlo”.
«Jehan…» Bahorel si guarda i piedi, sospira, e posa il suo sguardo sul mio volto. «Nell’ultimo anno ho sbagliato tante cose, mi sono trovato in tante situazioni diverse, e ho avuto modo di imparare tante cose. Ho ricevuto tante lezioni di vita, e queste mi hanno portato a prendere delle decisioni.
Una delle cose che ho imparato è che la vita è crudele, e che è corta. Porta via le cose che amiamo quando meno ce l’aspettiamo; essere pigri è uno spreco. Ho imparato che le opportunità vanno colte al volo, e che non si deve pensare due volte prima di fare qualcosa.
Basta ascoltare il cuore, e buttarsi a capofitto in tutto quello che la vita stessa ci propone.
E tu sei la cosa migliore che la vita mi ha proposto. Ho deciso di non far marcire il mio cuore e la mia mente. Stavo perdendo tante cose prima del tuo arrivo; credevo di sapere tutto, credevo di avere chiaro cosa fosse giusto e cosa non lo fosse. Poi sei arrivato tu – un’orchidea in un campo di erbacce e cardi colmi di spine – e il mio mondo si è capovolto.
Ho conosciuto il bene, ho conosciuto la speranza, ho conosciuto l’amore. Arriverà un giorno in cui la sfiga di Bossuet smetterà di perseguitare anche noi,» Un coro di risate si leva. «…e l’amore non sarà più quella cosa cattiva che ha portato entrambi sull’orlo del baratro; sarà quella cosa che salverà entrambi, che scaccerà via lacrime e paure.
Ed io voglio essere qui, quel giorno, voglio essere accanto a te. Voglio salvarti io, almeno questa volta.
Ho imparato a cogliere le opportunità al volo; pochi mesi fa è passata la legge che approva i matrimoni omosessuali qui in Francia.»
Improvvisamente si china, inginocchiandosi. Tira fuori una scatoletta.
«Ergo sono qui a chiederti, con tutto l’ABC e la Compagnia dell’Anello come testimoni… Jehan Prouvaire, vuoi sposarmi?»
Un anello fa capolino nella scatoletta aperta.
Le ultime parole mi colpiscono in pieno, stordendomi. Sento che potrei svenire da un momento all’altro. Mi ha chiesto di sposarlo. Bahorel mi ha chiesto di sposarlo. BAHOREL MI HA CHIESTO DI SPOSARLO.
Respiro un attimo, mentre gli occhi mi si riempiono di lacrime e le guance prendono fuoco. Non credo di essere in grado di controllarmi ancora a lungo. Cerco di fermare le lacrime e di darmi un po’ di contegno: non posso rovinare questo momento.
«Premettendo che sto per avere un infarto e che dovrai sorreggermi nel giro di pochi secondi perché sverrò per il troppo stress e per la troppa pressione psicologica…» Mi schiarisco la gola tossendo; tendo a non controllare la lingua quando sono nervoso.
«Anche io ho imparato qualcosa dalle esperienze dell’ultimo anno, Bahorel. Ho imparato che un gruppo di rissaioli, rivoluzionari e alcolici può diventare la famiglia che non ho mai avuto; ho imparato che i ninfomani sono ottimi migliori amici,» Courfeyrac mi fa un cenno di approvazione. «Ho imparato che il marmo può amare l’assenzio grazie ad un pochino di droga nei dolcetti, che la sfiga perseguita tutti ma tende sempre ad accanirsi su qualcuno, che gli stalker dopotutto non sono tutti psicopatici, che l’amore può sbocciare in poche settimane, che i futuri medici ipocondriaci possono finire con ragazze cazzutissime, e che un’ottima guida può essere trovata in chi tendiamo a considerare poco e niente» Feuilly mi sorride riconoscente. «… ma soprattutto, ho imparato che le anime più sole e sagge si nascondo sotto dei completi idioti. E che, a quanto pare, i completi idioti sono attratti da bei poeti in difficoltà.
In conclusione… questo bel poeta in difficoltà è felice di dire al suo personale idiota – che è in realtà infinitamente saggio – che… sì, voglio diventare suo marito».
Un boato di applausi e urla esplode, ed improvvisamente mi ritrovo stretto fra le braccia di Bahorel.
Ha smesso di piovere.
Dopo la tempesta torna sempre il sereno: non è quello che si dice sempre?
E questa volta sono sicuro del fatto che la nostra tempesta, Bahorel, è finalmente giunta alla fine. Non ne abbiamo passate già troppe?







Fiiiiiiiiiiiiiin!
Dunque, dopo taaaanto tempo sono finalmente riuscita a concludere questa storia: e cosa fare, se non ringraziare chi mi ha spinto a continuarla? Il primo ringraziamento va dunque a Giorgia e a Mina, perché senza di loro tutto questo pandemonio sarebbe probabilmente rimasto in qualche angolo del mio computer. Il secondo ringraziamento va a tutti coloro che hanno recensito, preferito, messo nelle seguite, visualizzato o anche letto per sbaglio una frase di questa storia. Il terzo ringraziamento va ai Mumford and sons, fonte infinita di ispirazione.
È stato abbastanza difficile riuscire a scrivere questa fanfiction, perché vivevo nella costante paura di rovinare o descrivere male qualcuno, o di sviluppare male un personaggio, o di mettere su una trama scontata e noiosa… ma sono felice di sapere che almeno a qualcuno è piaciuta.
Ed è con il cuore un pochino pesante – quanto mi mancheranno questi due?! – che concludo, ringraziandovi ancora una volta. Siete stati magnifici. *lacrimuccia*

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