Life On The Murder Scene

di MissNothing
(/viewuser.php?uid=144132)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Starting all over again ***
Capitolo 2: *** Waiting was worth it ***
Capitolo 3: *** We knew that we were destinated to explode ***
Capitolo 4: *** If home is where the heart is, then, we're both just fucked ***
Capitolo 5: *** As we stop becoming friends and we start.. ***
Capitolo 6: *** ..Becoming lovers ***
Capitolo 8: *** Exceptions ***
Capitolo 9: *** No title ***
Capitolo 10: *** All apologies ***
Capitolo 11: *** What's my age again? ***
Capitolo 12: *** I'm (not) okay ***
Capitolo 13: *** Need a lil' time to wake up ***
Capitolo 14: *** I'm officially off the rails ***
Capitolo 15: *** 'Cause I've always been stronger than that, hold the weight of the world on my back ***
Capitolo 16: *** You're down for selling me in while I play dumb and it's cool 'cause I let you ***
Capitolo 17: *** What's life like bleeding on the floor? ***
Capitolo 18: *** Trade mistakes ***



Capitolo 1
*** Starting all over again ***


1. Starting all over again

a.k.a “the prologue”.

 

 

 

Gerard si sentiva chiamare: non sapeva chi fosse o se fosse, molto più semplicemente, l'alcool che gli annebbiava il cervello, ma sapeva bene che non si sarebbe girato, la testa così pesante e gli occhi così appannati che forse non si sarebbe reso conto di chi fosse anche se ci avesse provato. Sorrise, pensando che non era l'unico in quelle condizioni: era strano come l'infelicità altrui riuscisse a rallegrarlo, ma sapere che quella sorte era comune a buona parte dei ragazzi del Jersey, beh, era già un passo avanti. Lo faceva sentire parte di qualcosa, in un posto come il mondo che era sempre stato troppo grande per lui, che lo aveva sempre lasciato indietro, isolato, che lo aveva fatto sentire sempre minuscolo.

Andare a qualsiasi festa ci fosse, bere qualsiasi cosa si trovasse, calarsi anche le pillole per la pressione della nonna, facevano ormai parte della routine di una generazione intera, e a volte a Gerard piaceva pensare che lui fosse diverso, di essersi riuscito a distinguere dalla massa dopo aver messo su quel suo gruppetto, ma poi si ricordava che l'unica differenza fra il Gerard che ancora andava all'accademia d'arte, lì a New York, ed il Gerard -aspirante- cantante, era che adesso a quelle feste ci suonava. E poi finiva ancora una volta ubriaco. Infondo non era cambiato così tanto.

Insomma, il peggio di tutto era che lui odiava bere; odiava svegliarsi chissà dove, con la testa pesante, nessun ricordo della sera prima e davvero niente da ricordare. Le sue non erano sbronze di quelle che capitano quando ti diverti davvero tanto e ti succede di alzare un po' di più il gomito, ma quelle che purtroppo pianifichi, cercando disperatamente di non fare tappezzeria e di divertirti.. almeno per una sera. Odiava bere eppure si sentiva come in dovere di farlo.

A volte pensava di voler cambiare, smettere, ma poi si ricordava che liberarsi da qualcosa era per persone forti, e quindi si trovava di nuovo lì, nel giardino di chissà chi, con la testa fracassata dalla musica che proveniva dalla casa di un completo sconosciuto, in un mix di alcool e pillole che gli impedirono anche di capire che era appena caduto -collassato- col volto schiacciato contro un materiale molto familiare: jeans.

Non sapeva come ci fosse finita la sua faccia sul cavallo dei pantaloni di un altro ragazzo, ma si alzò guardandolo come per chiedere scusa. O si era davvero fottuto il cervello e non si era accorto prima che non era l'unico lì fuori, o era fottutamente finito a Narnia, con tanto di prati alti due metri che nascondono le persone. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma sentiva solo le guance completamente rosse e poco controllo della sua stessa bocca, fattori che furono abbastanza per dissuaderlo da quell'idea. Il ragazzo gli sorrise e cambiò posizione: se prima era steso, si alzò quel minimo che bastava per non sembrare addormentato, poggiandosi sui gomiti per bilanciarsi. Silenziosi, si guardarono: uno dei due sembrava abbastanza divertito, e notizia dell'ultima ora: non era Gerard. Cominciò ancora una volta a chiedersi se fosse necessario bere per rendersi un po' più confidenti con il genere umano se poi per lo stesso motivo finiva in situazioni che avrebbero messo in imbarazzo chiunque.

«Sono Frank.» Gli sorrise, e Gerard riuscì a malapena a processare tutte le parole nel suo cervello, figuriamoci se pensò anche di rispondere. Ingoiò l'inevitabile groppo che gli si era formato in gola, sperando che continuasse. «Vi ho visti suonare prima. Siete forti.» Frank prese un sorso dalla sua bottiglia di birra (che Gerard non aveva nemmeno notato), guardando l'altro come se, fortunatamente, non avesse finito lì. «Anche io ho un gruppo, umh-» Si fermò un secondo, probabilmente chiedendosi se ad una persona che non aveva nemmeno proferito parola potesse davvero importare. «..suono la chitarra.» Frank sorrise vagamente, mettendosi seduto con le gambe incrociate mentre Gerard continuava a fissarlo da quella posizione così ridicola, steso a pancia sotto, con i gomiti a terra mentre si reggeva il capo con le mani.

«Io sono Gerard.. ciao?» Buona parte del disagio iniziale cominciò a sparire, lasciando spazio a nient'altro che pura noncuranza proprio quando Gerard si rese conto che riusciva a parlare in maniera piuttosto coerente per uno visibilmente distrutto. Si sentì di nuovo -quando meno se l'aspettava- preso da quella sensazione di debolezza, e cadde ancora addosso a Frank, questa volta con la guancia completamente schiacciata contro la sua coscia.

«Wow, sei davvero fatto come sembravi sul palco.» Il ragazzo ridacchiò, ma Gerard si sentì come.. giudicato. Certo, era stato carino a non mandarlo via o picchiarlo fino a farlo sanguinare -perché sul serio, insomma, viveva pur sempre in New Jersey-, e se fosse stato sobrio si sarebbe trattenuto tutto, ma un lui ubriaco era la voce della verità e doveva per forza rispondere. Insomma, odiava quando gli si diceva com'era. Sia perché lui, in quel caso, non era un pazzo ubriacone (o almeno ci provava, eh, ognuno fa del suo meglio), sia perché in generale non sapeva nemmeno lui chi fosse veramente, e aveva paura che forse un giorno si sarebbe trovato di fronte all'innegabile verità e a quel punto lo avrebbe scoperto, e avrebbe continuato ad identificarsi così per una vita intera. Era comodo essere così.. senza identità.

«Tu invece sai cosa sei?» Gerard cominciò, riposizionandosi come prima e tirando su col naso (gesto che un po' rovinò l'atmosfera, ma ehi, non c'era da dimenticarsi che era stato così fatto poche volte in vita sua), e Frank aggrottò le sopracciglia, probabilmente aspettandosi insulti o qualcosa del genere. Gerard invece si fermò a guardarlo seriamente, per la prima volta, senza vedere niente di male in lui. Niente se non un ragazzo piuttosto carino con due piercing (entrambi ad “anello”, uno al naso, l'altro sul lato destro della bocca), un tatuaggio piuttosto ben nascosto, e tante altre cose dietro la sua apparenza. Frank sembrava, al primo sguardo, uno di quei classici ragazzi dell'ultimo anno di college che fumano erba e suonano nel garage del padre della mattina alla sera, ma dietro quei jeans strappati, dietro i capelli così scombinati, dietro quell'accenno di muscoli che, a giudicare dalla sua forma generalmente mingherlina, sembrava aver lavorato molto per ottenere, c'era un universo da scoprire. E Gerard non sapeva perché, ma aveva una voglia assurda di scoprirlo. «Sei il tipico ragazzo che vorrebbe fare il chitarrista in un gruppo punk ma che è stato obbligato dei genitori a studiare per diventare “qualcuno”..» Gerard non mimò le virgolette, ma le lasciò intendere.. e a giudicare dallo sguardo di Frank, non aveva tutti i torti. «Quindi vai alle feste, fumi, bevi, ti metti i jeans strappati e cerchi di ribellarti, ma poi guardati..» Sorrise, e inalò l'odore di ammorbidente che si sentiva lontano un miglio. «..odori di biancheria pulita.» Scosse il capo, ed il ragazzo sembrò quasi imbarazzato, ma anche, in un certo senso, affascinato da quello sconosciuto che in maniera spaventosamente dettagliata gli stava descrivendo la sua vita. «Allora poi entrerai all'università, non so cosa farai- l'avvocato, il medico, il cazzone retribuito, chi se ne frega.» Si strinse nelle spalle, continuando a guardarlo negli occhi. «Il problema è che lascerai quello che ti piace. Farai i primi due o tre esami e poi sarai costretto a lasciare il gruppo, perché, beh, penserai che quella sia la cosa giusta da fare. Conoscerai una donna, la sposerai.. magari la conoscerai ad uno dei tuoi stessi corsi!» Gerard sorrise, in un sorriso che più che ironico o divertito era quasi disilluso. «Farete lo stesso mestiere, avrete dei figli e poi quando sarai un quarantenne in carriera e con quella che sembra la vita perfetta, ti ricorderai della tua chitarra e passerai i momenti in cui non lavori suonando. E forse sarà quello il momento in cui ti renderai conto che probabilmente la cosa giusta da fare era quella che volevi tu.» Frank abbassò il capo, immaginando per la prima volta la sua vita in quel modo. Era stanco di fare sempre quello che gli altri decidevano fosse il meglio per lui, eppure si sentiva come in dovere di farlo per non deludere nessuno. Ma cosa sarebbe successo se poi, come aveva ipotizzato il ragazzo, si fosse trovato deluso di sé stesso?

Frank voleva, in un certo senso, essere come Gerard. Libero. Libero di fare quello che voleva, di seguire il suo sogno in un gruppo anche piuttosto cazzuto. Poi guardava sé stesso e non vedeva altro che un futuro avvocato che un giorno avrebbe raccontato ai suoi colleghi di quando suonava in quel gruppetto di sfigati emergenti, i Pencey Prep, ridendo mentre beveva un qualche bicchiere di costose vino, seduto ad una riunione fra ex compagni di università in uno di quei ristoranti così cari che era quasi ridicolo che la gente ci andasse. Ma lui non voleva essere quello. Lui voleva suonare: era quella la sua passione. Non voleva essere pieno di soldi come un avvocato ma essere ugualmente un fallito, preferiva essere un fallito ma essere un chitarrista. Come sognava da quando aveva sette anni. Voleva ridere con i suoi compagni di band, bevendo birra in un qualsiasi bar, raccontando di quando aveva provato a fare l'avvocato e di quanto non si pentisse di aver mandato a fanculo ciò che volevano gli altri e aver seguito solo ed unicamente sé stesso.

«Sei sicuro di non conoscermi?» Ridacchiò Frank, malinconico, dopo essersi reso conto che era stato in silenzio per praticamente venti minuti.

«Sono solo uno che osserva molto.» Gerard si rotolò su sé stesso, rimanendo steso a fissare il cielo, cosa che fece anche l'altro, cambiando posa per la terza volta. «E osservandoti, sai.. non sei male.» Cominciò a tamburellare le mani sulla sua pancia, cercando di non pensare alle macchine che intanto passavano sulla strada principale di Belleville di sabato sera.. proprio alla loro destra. «Voglio che suoni con noi.» E non sembrò nemmeno una domanda, a dire il vero. Proprio per questo Frank scattò, girando il volto in modo tale da guardarlo e rendersi conto che l'altro lo stava facendo già da un po'. Gerard gli sorrise, nient'altro. Come se fosse una cosa normale che qualcuno gli chiedesse di suonare nella sua stessa band senza aver nemmeno mai visto l'altro con una chitarra in mano.

«Sarebbe figo, perché.. siete uno dei miei gruppi preferiti, certo, però.. però non so se posso lasciare in questo modo i ragazzi, hai presente?» Frank si morse il labbro inferiore, giocherellando un po' con l'anellino metallico che c'era intorno ad esso, e Gerard non riuscì ad evitare di farsi rosso in volto al pensiero di essere davvero fra le band preferite del ragazzo. Pensare che lui aveva già, in qualche modo, sentito la sua voce e che, anche quando ancora non gliel'aveva detto, sapeva già il suo nome, era a dir poco strano. Un'ondata di felicità (mista ad un momento in cui si sentì anche un po' troppo pieno di sé stesso) lo pervase, e in quel momento niente sembrava importare.

«Ci scambiamo i numeri e fra un mese mi richiami. Non farmi il giochetto del “ti chiamo se è okay, se non lo faccio è un no”. Mi chiami lo stesso e magari rifiuti, per me va bene. A patto che mi chiami, perché ci tengo a-» Gerard si fermò prima di dire qualcosa di stupido, e immaginò come sarebbe stato se il fontman di uno dei suoi gruppi preferiti gli avesse offerto il suo numero di cellulare, senza riuscire a trattenere una stupida risatina.

«Frank Iero, comunque.» Il ragazzo si sedette di nuovo con le gambe incrociate, dopo un breve momento di silenzio, porgendo la mano a Gerard come se volesse suggellare la promessa in quel modo. L'altro si sedette allo stesso modo, e purtroppo, quella volta, non riuscì a trattenere il suo impulso da completo idiota. Il problema era che Frank era bellissimo e lui non riusciva più a far finta di non averlo notato dal primo momento in cui l'aveva visto, perciò..

«No, baciami.» Frank aggrottò le sopracciglia, confuso, e Gerard, in un momento di puro genio, riuscì anche a giustificare il perché di quello che aveva appena detto (inventandolo sul momento, ovviamente). «Le promesse escono dalla bocca, non dalle mani. E poi un bacio non fa mai male, no? Se solo la gente si baciasse di più..» Gerard si avvicinò, ed il ragazzo sembrava quasi terrorizzato. Ecco, aveva fatto una stronzata.

«Se la gente si baciasse di più, come ci si dimostrerebbe che ci si vuole davvero? Se diventasse un gesto di tutti i giorni, come salutarsi?» Frank domandò, e nonostante Gerard si fosse trovato abbastanza confuso, non esitò a replicare.

«Si farebbe sesso, che diavolo ne so io?» Sorrise, inumidendosi le labbra già consapevole che quella era, ad ogni modo, una battaglia vinta in partenza.

«Allora perché credi che anche le troie abbiano un codice di onore secondo il quale non baciano?» Inarcò entrambe le sopracciglia, sorridendo con soddisfazione, come se quella fosse una gara a chi fosse più nel giusto. A Frank non importava di evitare il bacio: Frank voleva il bacio, ma voleva vedere fino a che punto Gerard era disposto a “combattere” per averlo.

«Credi che quello che facciano sia giusto? Che il considerare una donna come un oggetto sia giusto? Anche i mafiosi hanno un codice d'onore, ma non vuol dire che facciano una cosa buona, non trovi?» Sorrise, soddisfatto del modo in cui era riuscito a replicare. Dio, lo faceva impazzire il fatto che Frank stesse facendo il difficile. Adorava quando qualcuno riusciva a tenergli testa; un po' perché con le parole era difficile batterlo, un po' perché.. beh.. aveva un debole per le persone dal carattere forte, ed era sempre stato così. L'altro, nonostante tutto, si avvicinò ancora di più a Gerard e chiuse le distanza fra loro senza esitazione, infrangendo le labbra contro le sue come un'onda conto uno scoglio. Entrambi sapevano che non se lo sarebbero ricordato, eppure, nonostante tutto, cercarono di renderlo un'esperienza il più piacevole possibile. Erano, comunque, al 99% sicuri del fatto che se fossero stati nel pieno delle loro capacità di intendere e di volere, non si sarebbero mai lasciati trascinare in una cosa del genere, e probabilmente non l'avrebbero nemmeno desiderata, perciò non sarebbe stata poi una grande perdita. Forse sarebbe stato ancora meglio: cominciare la loro amicizia in modo pulito, dando la colpa al caro vecchio alcool. Senza il peso di un bacio ingiustificato alle spalle, ci sarebbe stato un clima più sereno per entrambi. Si staccarono dopo qualcosa come cinque minuti, entrambi con il fiatone, e si guardarono negli occhi:

«Promesso?»

«Promesso.»

 

**

 

Oddio ciao *__________* Sono tipo un po' scomparsa eccetto quella shot, ma ehi, ci sono. (?)
Sappiate che dovendo cominciare il liceo potrei sparire per un bel po' perché ancora non so quanto dovrò studiare, i miei orari e tutto il resto, ma ho un paio di capitoli pronti e dovrei essere abbstanza regolare.. credo. HAHAHAHAHA.
Poi, bhe, non saprei.. ho scelto questo titolo perché proverò ad essere il più realistica possibile, seguendo tutto il filo del DVD perché ovviamente sono una sfigata. -w-
Questo primo capitolo è un po' più corto degli altri perché era nato come un prologo senza premesse, invece poi ha fatto nascere qualcosa come più di quindici capitoli quindi, SI', è ufficiale, questa storia sarà tipo infinita, complicatissima e blablabal. Al contrario delle altre, che in effetti erano nate per scherzo. :'D
Bene, detto questo, mi ritiro nel mio antro *cough*, al prossimo capitolo!
PS: recensite, mettete nelle seguite, ballatemi il tango, fate uno striptease- giocatevela come meglio vi pare, ciau. <3<3

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Waiting was worth it ***


 

2. Waiting was worth it

 

 

 

Era ufficialmente passato un mese (preciso) dalla festa.

L'aria afosa e calda di agosto cominciava a lasciare il posto a quella già più fresca di settembre, e il dodici -giorno che segnava l'esatto scadere del tempo preventivato dal patto-, i fratelli Way avevano anche trovato le prime foglie ingiallite cadute dagli alberi in giardino. E le avevano lasciate lì.

Non era cambiato praticamente niente: la band continuava a fare le prove, avevano cominciato a ri-arrangiare le canzoni inserendo una seconda linea di chitarra (perché in effetti avevano deciso che, Frank o non Frank, avrebbero trovato ugualmente un chitarrista ritmico) e ogni giorno passava secondo la solita routine, acquisendo un pizzico -almeno per Gerard- di vitalità solo per via della possibilità ancora concreta di ricevere finalmente quella telefonata che tanto aspettava, e che mai si sarebbe deciso a fare, perché infondo non era altro che uno sconosciuto ubriaco con il quale aveva fatto un patto, e cominciava a domandarsi perché ci sperasse così tanto.

In quel mese, Mikey era sempre rimasto scettico: conosceva bene suo fratello e sapeva che era facile che si fidasse un po' troppo delle persone o che le sopravvalutasse, e ogni giorno, quando lo vedeva sempre più giù per un'altra possibilità persa, si faceva ancora più pessimista, sempre meno convinto che quella telefonata sarebbe arrivata. E non poteva dare tutti i torti a Frank, in effetti: a giudicare dalla storia che gli aveva raccontato Gerard, non era stato uno degli incontri più formali di sempre. Probabilmente aveva accettato solo per scrollarsi dai coglioni quel “ragazzo strano” che gli si era accollato all'improvviso, ma dentro di sé era già sicuro che non si sarebbe mai fatto sentire.

Certo, lui ormai ne era quasi convinto, ma era difficile farlo capire a suo fratello senza spezzargli definitivamente il cuore: se non fosse stato completamente sicuro che Gerard fosse ancora innamorato perso di quella ragazza che conobbe anni prima all'accademia d'arte, avrebbe persino detto che si era preso una qualche specie di cotta per quel ragazzo.

«Lo capirai mai che non ti caga?» Mikey sbuffò, steso sul letto che un tempo era il suo, mentre continuava a colpire il poster sul muro davanti a lui con una pallina raccattata dai meandri del pavimento di camera suo fratello. Gerard sembrò quasi offeso, e doveva esserlo veramente tanto se interruppe addirittura il disegno che stava facendo per alzarsi, afferrare al volo la pallina che suo fratello continuava a lanciare e gettargliela in faccia, mancandolo di poco solo perché quel bastardo aveva buoni riflessi e aveva già fatto in tempo a coprirsi metà faccia con un cuscino.

«Vaffanculo, ne riparleremo quando dovremo trovare uno spazietto extra per aggiungere il suo nome sulla copertina del demo.» Rassegnato, piuttosto demotivato dalle sue mancate doti da giocatore di palla avvelenata e ormai quasi convinto della teoria di Mikey, decise di smetterla di sperarci.. eppure non lo ammise, per il semplice gusto di non darla vinta a quel surrogato di essere umano che molto più spesso chiamava come “suo fratello”.

«Questo Frank nemmeno ti ha ancora chiamato, non sai come suona e ti preoccupi di trovare un posto al suo nome sul demo?» Mikey quasi scoppiò a ridere alla lista delle priorità di suo fratello, eppure cercò di trattenersi, perché mancava meno di un'ora allo scadere del periodo di “ritiro spirituale” del ragazzo e quando si sarebbe reso conto che non avrebbe mai chiamato, Gerard avrebbe preso a lamentarsi come una ragazzina ed il più piccolo era già sicuro che glie lo avrebbe rinfacciato fino alla tomba. «Sul serio, Gee, mettiti l'anima in pace, forse gli piace il gruppo in cui è ora ma si sente in colpa a dirti di no..» Passò un minuto interminabile di silenzio in cui Mikey si sentì come se avesse appena confessato un triplice omicidio, finché il maggiore non si alzò e si andò semplicemente a stendere accanto al fratello, nella cosiddetta posizione alla “testa e piedi”.

«Questi calzini puzzano.» Constatò, cambiando completamente discorso come era suo solito fare quando non voleva più affrontare la verità. Si fermò a fissare il soffitto, così come suo fratello, e trovandosi in una ex cantina era piuttosto basso. Il fatto che fosse di legno scuro, poi, lo rendeva ancora più inquietante. Come se fosse pronto a cadergli addosso. Come avevano fatto -ormai da tempo, ad essere sinceri- le sue speranze.

«Gerard..» Lo apostrofò il fratello, cercando una vera risposta.

«Mikey, non so che dirti, va bene!?» Sbuffò, alzando la voce di almeno un tono senza nemmeno rendersi conto. Era brutto che se la stesse prendendo così tanto, ma non poteva farci nulla. Perché ci teneva. Forse un po' più di quanto dovesse, eppure l'idea di non rivedere mai più Frank, la consapevolezza che non lo avrebbe mai sentito suonare, che non avrebbe mai più sentito la sua voce, faceva morire una piccola parte di lui che ormai pensava di aver dimenticato a New York. «Io.. ci speravo, okay?» Cominciò dopo poco, sentendosi come se fosse stato troppo aggressivo nei confronti di qualcuno che non se lo meritava, e soprattutto, sentendo un improvviso bisogno di sfogarsi. «Credevo di aver fatto tutto bene.. credevo di avergli lasciato qualcosa, hai presente?»

«Ma cosa, l'herpes?» Sghignazzò Mikey, convinto che forse Gerard avesse fatto bene ad evitare l'argomento, prima, e che non fosse il caso di affrontarlo in quel momento. In tutta risposta, il maggiore gli diede una piedata in pieno volto.

«L'ultima parte è solo capitata. Ti giuro che abbiamo parlato sul serio.» Sospirò, serrando gli occhi e ripensando ai dettagli di quel breve lasso di tempo che aveva passato a dialogare con lui. Perché infondo, non c'era da mentire a nessuno, ma era proprio quello che voleva cancellare. Frank non gli piaceva: nemmeno lo conosceva, e insomma, sarebbe stato ridicolo dire una cosa del genere. Il problema con Frank era che aveva un fascino di quel tipo che Gerard sperava di non incontrare mai più in vita sua: non aveva voglia di limonarci per tre ore di fila come quando ti piace qualcuno -anche se non gli sarebbe dispiaciuto, a dirla tutta-, ma aveva voglia di parlarci una nottata intera. Perché lui gli interessava, ecco tutto, e c'era una parte di lui che sperava veramente che, anche se non per questioni legate alla band, lo avrebbe risentito.

«Okay, okay, davvero, non c'è bisogno che ti scoraggi in questo modo..» Cominciò Mikey dopo un silenzio spacca-timpani che si era protratto per una frazione di tempo imbarazzantemente lunga. «Ci sono altri centomila chitarristi nel New Jersey e sono sicuro che se questo qui non ti ha chiamato è soltanto un cogl-» E, proprio prima che potesse finire la frase, il trillo assordante della suoneria di Gerard riempì la stanza. Quest'ultimo diede un veloce sguardo all'orologio, rendendosi conto che mancavano ancora dieci minuti alla mezzanotte, e si alzò, quasi con gli occhi a cuoricino, correndo da un lato all'altro della stanza alla ricerca del telefono. Di solito lo teneva sempre con sé, ma in quell'ultimo periodo, tendeva sempre a nasconderlo chissà dove pur di non vederlo e ricordarsi ogni volta di quel chiodo fisso che lo tormentava. Pregò qualunque Dio che non smettesse di squillare proprio in quel momento, e finalmente lo riesumò dal fondo di una pila di vestiti, sotto gli occhi increduli di Mikey, che ancora non si capacitava degli urletti ansiosi che stavano uscendo dalla bocca di suo fratello. Si affrettò a rispondere, e quasi si sciolse quando si rese conto che era proprio lui.

«Ehi, Gerard, umh.. credevo.. credevo che non avresti risposto più..» Ridacchiò nervosamente Frank dall'altro capo del telefono. Gerard per poco non andò in iperventilazione, e si ritrovò completamente paralizzato, incapace di parlare. «..Umh.. ti chiamavo per.. quella cosa del gruppo, no?» Il ragazzo domandò, ed il più grande si sentì un po' stranito nel vedere che la sua voce suonava così disorientata e confusa: si era quasi dimenticato del fatto che era possibile che rifiutasse.

«Sì, ehi, mh.. dimmi.» Disse, cercando di suonare il più calmo possibile.

«Vorrei accettare, se.. ecco.. non è troppo tardi.» Replicò Frank, e Gerard avrebbe giurato che si stesse morendo il labbro, a giudicare dall'impercettibile rumore metallico che aveva prodotto il contatto del suo dente contro il piercing che aveva. «Mi rendo conto di averti chiamato un po' all'ultimo momento.. ma non.. non ero sicuro, mi dispiace..» Balbettò un po', e per poco lo stomaco del più grande non si arrotolò su sé stesso prima di esplodere.

«È okay, davvero, insomma, quando hai chiamato mancavano ancora dieci minuti all'ora x, perciò..» Gerard ridacchiò, trascinando con sé anche una risatina nervosa da parte di Frank. Per la prima volta dal mese di prima, poteva dirsi veramente contento. E non contento per via di quella speranza che ancora aveva, ma veramente contento. Lottò contro i suoi istinti primordiali per non cominciare ad urlare, rassicurando sé stesso e rendendosi conto che avrebbe avuto tutto il tempo del mondo per farlo, e decise di darsi una mossa e combinare un incontro il prima possibile. «Ehi, noi in teoria domani abbiamo una prova, tu.. cioè, ti va di..» Mikey si alzò, occhi sgranati per via della stronzata che aveva appena detto suo fratello, continuando a boccheggiare dei “no” e a gesticolare, nel disperato tentativo (fallito) di fargli rendere conto di quanto fosse impossibile organizzare una prova all'ultimo minuto. «Ti va di venire?»

«Non vedo perché no!» Frank esclamò dall'altro lato del telefono, probabilmente sorridendo.

 

**

 

Gerard sembrò ricordarsi solo dopo due ore che nessuna fra le regole del galateo era “lascia il tuo ospite moribondo sul letto sfatto di camera tua”, e nonostante tutto, ancora non si era convinto ad andare a vedere come si sentiva Frank. Le prove erano cominciate più che bene: i ragazzi avevano a dir poco apprezzato il nuovo arrivato ed ormai sembrava facesse parte del gruppo da anni. Nonostante il gruppo stesso avesse meno di sei mesi, in effetti.

Avevano parlato di musica, ovviamente, ma anche di cose un po' meno collegate alla band, come film, libri, fumett- o meglio, Gerard aveva blaterato roba su dei fumetti, scuola e famiglia. E a dire il vero, sembrava andasse tutto una meraviglia. Grazie a Dio nessuno aveva nemmeno lontanamente accennato al fatto che quella prova fosse stata organizzata all'ultimo minuto solamente perché il fontman era peggio di una stupida fangirl e, specialmente quando impugnarono strumenti e simili, tutti si resero conto che in effetti l'aggiunta di un quinto membro era stata una scelta vincente. Specialmente perché, sorpresa delle sorprese, Frank, oltre ad essere illegalmente interessante, con dei gusti che gli avevano fatto guadagnare almeno trenta punti bonus in una scala di giudizio da uno a dieci, simpatico e veramente tutte, tutte, tutte le qualità che chiunque avrebbe desiderato di trovare in una persona, era anche incredibilmente abile a suonare. Così tanto che in effetti, persino Ray rimase stupito nel sentire che aveva imparato da solo, aiutato solo per qualche mese dal padre.

Certo, aveva le pecche dell'autodidatta- ignorava i nomi di svariate tecniche nonostante sapesse eseguirle, non sapeva leggere le note (ma infondo nessuno di loro sapeva farlo, e non era nemmeno un problema) e soprattutto certe volte non sapeva bene quando cominciare a suonare e quando smettere, essendo abituato ad essere l'unico chitarrista, ma fortunatamente, niente di grave.

In effetti, quella era una delle sue peggiori preoccupazioni riguardo il ragazzo: Mikey in un certo senso aveva ragione quando aveva detto che quello che aveva fatto era stato a dir poco ridicolo e avventato. Se non fosse stato all'altezza (non che loro si reputassero dei geni musicali, ma non si poteva mai sapere) sarebbe stata una serie di eventi imbarazzanti uno in fila all'altro. In primis, avrebbero dovuto dirgli che avevano cambiato idea. Il che sarebbe stato, oltre che a dir poco vergognoso, un vero peccato, considerando che al 99% li avrebbe odiati a vita per avergli fatto scaricare l'altro gruppo. Poi avrebbero dovuto trovare un sostituto, il che, più che imbarazzante, sarebbe stato quasi impensabile. Ma a coronare il tutto, c'era quello che per Gerard era forse l'aspetto peggiore oltre al perdere una persona con la quale si sentiva già così tanto in sintonia: avrebbe dovuto spiegare perché.

Perché lui, con altri centinaia di musicisti.

Perché lui, che a malapena conosceva.

Perché lui, che in effetti, non sembrava bravo quanto in realtà era.

Essendo andata bene, il ragazzo si era giustificato parlando di istinto: nessuno aveva fatto altre domande, visto e considerato che quella sensazione primordiale, ancora una volta, ci aveva preso.. ma in caso contrario, veramente, non avrebbe saputo come giustificarsi senza dare per l'ennesima volta ragione a suo fratello ed ammettere di avere una specie di cotta per quel ragazzo; cosa che, in effetti, era vera solo per un 5%. Gerard si stupì del suo avventatissimo uso delle percentuali, quel giorno, e ritornò con un sospiro simile ad un lamento sul pianeta terra.

In sintesi, musicalmente e sul piano di sintonia era andato tutto bene.. finché Frank non aveva detto che gli girava la testa. Avendo deciso che quella sera avrebbero cenato lì e lo avrebbero presentato ai proprietari della casa dove avrebbe passato almeno due ore al giorno, era stato semplicemente mandato a riposare in camera di Gerard. E forse il problema era che nessuno, oltre quest'ultimo, aveva dato importanza al fatto che lui avrebbe preferito tornare a casa: forse aveva fatto buon viso a cattivo gioco. Forse non li sopportava e non vedeva l'ora di allontanarsi, non farsi sentire mai più, per poi tagliare tutti i contatti telefonici, scappare dall'altro lato del mondo e cambiare nome. E davvero, nonostante la vena un po' troppo creativa del cantante, era possibile. Bastava guardarlo per capire che in effetti era un po' fuori posto in un gruppo di ragazzi come- come loro.

Eppure, nonostante tutto, dopo essere stato convinto dalle paranoie di sua madre riguardo la salute degli ospiti (“se morisse in casa nostra!?”) e gli incoraggiamenti dei ragazzi, Gerard era lì, fuori la porta di camera sua, terrorizzato da quello che era il suo spazio come non mai. Fissò i cartelli di “vietato entrare” che lui e Mikey avevano appeso quando ancora condividevano la stanza e cominciò a formulare possibili modi per iniziare una conversazione, citandone persino un paio ad alta voce per sentire il suono del suo stupido tono stridulo (certe volte non si capacitava del fatto che fosse un cantante), interrotto da un'altra, di voce, che per poco non gli procurò un infarto.

«Perché parli da solo?» Frank era scoppiato a ridere dall'altro lato del muro, sembrando più in salute che mai. Gerard si maledì mentalmente per la sua idea del cazzo e per l'aver sempre ragione riguardo la gente, ed entrò con cautela, quasi come se non fosse già stato scoperto. Si fermò all'uscio, chiudendo la porta alle sue spalle con il peso del suo corpo ed appoggiandocisi contro. Si morse il labbro superiore, fissando il ragazzo che ancora se ne stava rannicchiato sul suo letto, sotto il suo piumone di Batman che avrebbe tanto desiderato di aver cambiato, quella mattina. In quel momento si vergognò anche la sua tradizione del piumone tutto l'anno: non ci dormiva sotto, per carità, a settembre (così come per metà di tutto l'anno) sarebbe stato pazzesco, ma gli piaceva dormirci sopra, affondare nella morbidezza delle piume e, in generale, sentirsi avvolto da esso. Frank gli sorrise ancora di più, questa volta non per lui, ma per qualcosa che in effetti Gerard non riusciva a capire.

«Ciao.» Esordì quest'ultimo.

«Hai la camera più pazzesca del mondo.» Constatò il più piccolo, e fu una vera e propria sorpresa per l'altro. In effetti la sua camera era stata motivo di profondo imbarazzo qualche ora prima per via di quelle svariate cose che avrebbero trovato migliore accoglienza nella stanza di un bambino di dieci anni, e lui la trovava “pazzesca”? Si grattò la guancia, ormai anche un po' rossa per l'imbarazzo, rendendosi conto di quanto lui stesso fosse stato diverso la sera in cui lo aveva conosciuto. Forse era anche per questo che lo stava prendendo per il culo- perché non poteva essere serio, giusto?

«Sii sincero, tipregotipregotiprego, quanto abbiamo fatto schifo da uno a dieci?» Il più grande chiuse gli occhi, terrorizzato dal verdetto, e quando si trovò vittima di un silenzio imbarazzante, aprì prima l'uno e poi l'altro, con la stessa cautela di quando si guarda un film horror, trovandosi di fronte ad un espressione quasi shoccata. Frank si era seduto, ancora troppo coperto considerando che un mese prima era agosto, e guardava Gerard come se avesse appena bestemmiato in chiesa.

«Zero meno uno?» Domandò, sgranando gli occhi come se fosse una cosa ovvia.

«Se ci metti l'uno davanti allo zero, magari..» Il cantante sospirò, rendendosi conto che aveva frugato per camera sua quando notò il pipistrello imbalsamato fuori posto. Fece cadere la testa all'indietro, sbattendo in maniera meno aggraziata di quella che avrebbe sperato al solo pensiero delle cose che avrebbe potuto trovare lì dentro. «Noi siamo noi, e tu sei.. sei tu?» Gerard cominciò, e si rese conto solo dopo essersi ascoltato che verso il finale la frase si era trasformata quasi in una domanda e che gli era considerevolmente scesa la voce. Il più piccolo sembrò ancora più confuso di prima, ed il ragazzo si sentì in dovere di spiegare quella frase che, in effetti, non aveva poi tanto senso. «Ti sei chiuso qui e.. io- non- ho pensato che avessi solo fatto finta di sopportarci.» Sospirò, facendo finalmente chiarezza. Chiarezza che fu spiazzata in un secondo non appena vide Frank scoppiare a ridere sotto i suoi occhi.

«Sono solo io ad essere patetico.» Disse, trasformando quel ghigno in un sorriso un po' amaro prima di abbassare il capo. «Sono venuto alle prove anche se ho i decimi di febbre, ed- io- la mia salute va a puttane continuamente. Cominciate a farci il callo.» Si strinse nelle spalle, e subito Gerard si sentì come se gli avessero appena sollevato un macigno dalle spalle. «Ed ero sincero.»

«Grazie..» Biascicò in maniera piuttosto affrettata, abbassando lo sguardo non appena quello dell'altro ragazzo tornò in contatto col suo, arrossendo appena. «E ora stai meglio, mh?» Chiese, speranzoso che il piano per quella sera non fosse cambiato: ora che sapeva che si apprezzavano allo stesso modo, avrebbe passato anche trent'anni di fila anche solo a parlare.

«Decisamente.» Sorrise, e qualcosa nello stomaco di Gerard si ribaltò in maniera un po' imbarazzante. L'intera situazione era la più ridicola nella quale si fosse mai trovato. «Anzi, ad essere sincero, sono stato così invadente che mi sono messo a frugare un po'..» Il più grande avrebbe potuto giurare che Frank stesse arrossendo (di nuovo), ma poi continuò a parlare e smise seriamente di pensarci. «Da quello che ho capito hai ottimo gusto in ogni cosa.» Ridacchiò, e anche se Gerard avrebbe voluto continuare, capì che quello era una sorta di monologo. «Ma mi sono limitato prima di arrivare all'armadio, tranquillo.» Gli fece l'occhiolino, mantenendosi sul tono scherzoso. «Ho letto qualche numero di Hellboy che non ero riuscito a trovare da nessuna parte, ho fissato per tipo dieci minuti il tuo amico imbalsamato per capire se fosse vero..» Gerard ridacchiò, ricordando l'aneddoto dietro quel regalo che un lontano parente gli fece e voltandosi velocemente a guardarlo. «..Poi sono rimasto intrattenuto da questo..» Il più grande si portò le mani fra i capelli, esasperato, già consapevole di ciò a cui il ragazzo si riferiva anche prima che prendesse quello scatolo e lo agitasse leggermente, come a mettere in evidenza l'imbarazzante quantità di materiale lì dentro.

Non ne andava particolarmente fiero, doveva ammetterlo; avere un contenitore pieno di riviste porno sotto il letto non gli faceva granché onore e certe volte si sentiva abbastanza male con sé stesso, ma altre volte, invece, le esigenze chiamavano, e doveva ammetterlo che non ne comprava da secoli- da prima che partisse per New York, a dire il vero. Ne aveva buttate parecchie, anche: gli servivano all'accademia per ovvi motivi, ma una volta ritornato si era trovato stomacato dalla quantità di porcate che conservava in un solo scatolo ed aveva tenuto solo quelli più memorabili. Come l'edizione di Playboy in cui, intenti a ritoccare il fisico di una ragazza, dimenticarono di rimetterle l'ombelico. E nonostante si fosse trovato così immerso nei suoi pensieri, continuava a non riuscire a dimenticare l'imbarazzo. I ragazzi lo sapevano, certo, ma conoscendosi da anni era facile accettarlo. Frank, invece, lo avrebbe giudicato a vita come un maniaco. Fine.

«Ehi, Gerard, scusami, io.. non.. cioè, non lo intendevo con cattiveria, anzi, io..» Frank cominciò a balbettare, come se la cosa aiutasse in qualche modo. «Ho dovuto pensare a robe come la mia bisnonna in costume per evitare di fare cose un po' inappropriate nel tuo letto, quindi, cioè, io..» Anche il più piccolo arrossì, mentre sul volto dell'altro cominciò a formarsi l'ombra di un sorriso. «Sono l'ultimo che può giudicarti, se è così che ti senti. Mi dispiace. Non dovevo mettere mano fra le tue cose, in primo luogo, e poi.. Scherzavo. Scherzo sempre. Continuamente. Sono un coglione.» Chiuse gli occhi e si morse il labbro, rassegnato all'idea che non avrebbe mai messo insieme delle parole sufficienti per spiegare quello che voleva dire, ma ehi- era pur sempre Gerard, il ragazzo che gli aveva descritto per filo e per segno la sua vita senza nemmeno averci mai parlato: avrebbe capito. Rimase in silenzio per un po', e solo ad acque calmate picchiettò sul letto, come se volesse indicare all'altro di andarsi a stendere con lui. Gerard esitò per qualche secondo, ma poi si rese conto che peggio di così non poteva andare, dunque..

«Ti facevo un tipo di poche parole.» Il più grande disse, giusto per spezzare il silenzio. Ed in un certo senso, era vero: per quanto Frank, da quello che aveva visto alla festa, fosse circondato di gente, non aveva detto molto la prima volta che si erano visti.

«Ti facevo logorroico, se è per questo.» L'altro cominciò a ridacchiare, girandosi sul fianco per guardare verso Gerard, che invece, aveva lo sguardo fisso sul soffitto e le braccia piantate ai lati come due pezzi di legno: quasi come se non facessero parte del suo corpo. Quest'ultimo sorrise, più a sé stesso che al ragazzo, rendendosi conto che non era stato l'unico a comportarsi stranamente quel giorno.

«Oh, credimi, ti pentirai di avermi stuzzicato a parlare.» Voltò appena il capo, poggiando la guancia contro il cuscino per incontrare lo sguardo di Frank e rendersi conto di quanto entrambi stessero addirittura sudando sotto quell'eccessiva quantità di tessuto e piume. «Non smetto mai di parlare, ad essere sincero, ma devo avere qualcosa da dire e devo essere sicuro che all'altra persona interessi.» Continuò, accertandosi, appunto, che il chitarrista volesse davvero ascoltarlo. «La parte difficile per me è fare il cosiddetto primo passo.» Tornò con lo sguardo rivolto verso quel legnoso soffitto (non troppo lontano, trovandosi in una ex cantina) tappezzato qui e lì di poster e disegni.

«..Disse il ragazzo che mi piombò addosso, prese a raccontarmi per filo e per segno del mio carattere e della mia vita, mi chiese di far parte del suo gruppo e mi baciò.» Frank subito si pentì di ciò che aveva detto, rendendosi conto che risultò imbarazzante per entrambi. Le sue parole (specialmente le ultime tre) rimasero a fluttuare nell'aria per un tempo indeterminato ma pur sempre troppo lungo in cui, insieme al loro eco, furono gli unici suoni a riempire la stanza.

«Speravo fosse abbastanza ovvio che ero poco in me, quella sera..» Cercò di sdrammatizzare, sperando davvero che fosse abbastanza per spiegarsi e che non dovesse ricadere in quella spirale di pensieri che non era sicuro che sarebbe riuscito a spiegare in maniera esaudiente. «Non lo so, davvero, volevo lasciare un impatto, qualcosa, perché ero consapevole del fatto che le chance che mi chiamassi erano una su un milione..»

«In un certo senso lo hai fatto, perché se non mi avessi descritto in quel modo, quella sera, credo che adesso sarei già partito per la facoltà..» Gerard sorrise fra sé e sé alle parole del ragazzo, soddisfatto. «Il fatto che fosse così lampante che non fossi felice di ciò che facevo mi ha fatto sentire ridicolo.» Scosse il capo, girando il volto solo quando si rese conto che fissare l'orecchio del ragazzo non lo avrebbe portato a molto. «Prima ho anche parlato con Mikey, mentre andavi a prendere i ragazzi..» Continuò, e Gerard deglutì al pensiero di ciò che sarebbe potuto scappare dalla bocca di suo fratello. «È bellissimo quello che sei riuscito a fare dopo tutto ciò che hai passato.»

«Non sono un martire, sono solo uno sfigato. Non mi merito nulla di quello che stai dicendo.» Si fermò un secondo, cercando di mettere insieme le parole per spiegarsi. «Cosa ho passato? Sono stato il ragazzo un po' emarginato, sono andato alla scuola d'arte, la ragazza di cui ero perso ha preferito il mio “migliore amico” a me, e poi boom- l'undici settembre.» Si strinse nelle spalle. «Mi ritengo fortunato, ad essere sincero. C'è gente che è morta in quella data, ed io sono ancora qui.» Frank rimase ad ascoltarlo, che molto spesso, era l'unica cosa che riusciva a fare. «Credo che mi abbia fatto rendere conto che è inutile vivere nel passato o sprecare la propria vita a fare qualcosa che non ci piace, perché ad essere sincero, i soldi sono l'ultima cosa.» Si fermò per guardare un secondo il più piccolo, sorridendogli nonostante non potesse vederlo. «È ridicolo che sia io a dirlo, perché, insomma, sono- sono giovane, e molto, anche, ma ti posso dire che ho sprecato tre anni all'accademia pensando ad una ragazza che in realtà non avrei mai avuto e poi troppo tempo a portare il caffè a delle persone che vivevano il mio sogno, e non mi ha portato a niente..» Sospirò, e anche se Frank avrebbe voluto aggiungere qualcosa, fu subito interrotto da un nuovo flusso di parole prima che potesse. Gerard aveva ragione: era logorroico. Ma al ragazzo, stranamente, non dispiaceva. Si trovava rapito da quelle parole, come se stesse vivendo per filo e per segno l'esperienza di New York, come se finalmente fosse in sintonia con lui. «Lo chiamavano apprendistato.. io l'ho rinominato schiavitù, perché davvero, era inutile. Ti risucchiavano lì dentro, ma nessuno ti obbligava a rimanere: eri tu che ci speravi davvero, nonostante dopo un po' ti rendessi conto che forse quello non era nemmeno l'ambiente del quale volevi fare parte.» Il più piccolo, in quel momento, sentì un vuoto che non riusciva a spiegarsi: avrebbe voluto fare qualcosa -così come Gerard aveva fatto per lui-, eppure non si sentiva in grado. Avrebbe voluto prendergli la mano, abbracciarlo, dirgli qualcosa, anche solo grazie, eppure, c'era qualcosa che glielo impediva. «Ed è quello che successo a me. Quel giorno stavo andando in ufficio, e mi sono reso conto che la morte era dietro ogni angolo. È brutto da dire, ma non puoi mai sapere quando una persona dall'altro lato del mondo deciderà di ammazzarti per ciò in cui credi, perché le vostre tradizioni sono diverse dalle loro, perché sono semplicemente pazzi o completamente rincoglioniti. Insomma, pensi che quelle persone se lo aspettassero? Pensi che se lo meritassero? Nessuno dovrebbe morire in quel modo. Eppure è successo. Ed io ho capito che non volevo schiattare facendo fotocopie e girando fra i piani di un edificio a fare il lavoro che qualcun altro si scocciava di fare.» Ci fu una lunga pausa ed un momento di silenzio prima che il ragazzo si decidesse a continuare, arrivando alla parte un po' più leggera. «Ho scaricato il lavoro, sono venuto qui e ho deciso di mettere su una band. Fare carriera o no non è il punto: il punto è che per ora sono contento così.»

«E questa è la parte dove arrivo io?» Domandò timidamente Frank, stupendosi nel risentire la sua voce dopo essersi così abituato a quella più vellutata di Gerard.

«Esatto. Mi ha fatto tristezza vederti in quel modo, e, io- Cristo, non voglio che la prendi male. Non l'ho fatto per carità, anzi, volevo che riprendessi fiducia nei tuoi sogni perché avevi, come.. non lo so nemmeno io.» Sospirò il ragazzo, portandosi le mani sul volto e stropicciandosi gli occhi. «Te lo si leggeva in faccia che te lo meritavi, credo?» Entrambi si voltarono per guardarsi, sorridendosi a vicenda per poi tornare immersi nello stesso, imbarazzante silenzio di prima.

Gerard si sentì in colpa a non avergli confessato proprio tutto, ma forse, in effetti, non era il momento. Non voleva che lo prendesse come un essere umano perfetto e superiore e blablabla, ma di certo non voleva confessare una cosa del genere già ora. Un po' di ammirazione non faceva mai male a nessuno, specialmente con l'autostima sotto i piedi del ragazzo. Anche perché, dopo un po', si rese conto che con tempo, il fatto che avesse “qualche” problema con alcool e simili sarebbe stato ovvio, e forse di parlarne non ce ne sarebbe stato nemmeno il bisogno. Rimasero zitti, ancora, Gerard preso dai sensi di colpa e Frank avvolto da uno strano sentimento di ammirazione che non conosceva poi così bene.

«E lei com'era?» Domandò dopo qualche minuto, non volendo che la conversazione finisse lì.

«Carina, simpatica, dolce quando le pareva.. credevo di esserne innamorato.» Il più grande ridacchiò, e l'altro aggrottò le sopracciglia, guardandolo in cerca di spiegazioni e tentando di evitare di chiederne verbalmente. «Non riuscivo a stare senza di lei nemmeno un minuto. Le mandavo continuamente messaggi, la telefonavo sempre, avevo un muro pieno di disegni di lei, era.. era ridicolo. Non ero innamorato, ero dipendente. E questo era perché era l'unica ragazza che mi avesse mai dato corda, anche se poi-»

«Non riesco a capire come tu faccia a dire che non fossi innamorato.» Lo interruppe per la prima volta. Forse la spiegazione sarebbe arrivata dopo, certo, ma in quel momento si sentiva così stupido che non avrebbe aspettato un secondo in più. Attese pazientemente una risposta, ma nel vedere Gerard zitto ed immobile lì, si rese conto che forse era stato inopportuno. Forse aveva toccato un tasto dolente, o forse -sperava- era uno di quei suoi momenti in cui cercava di organizzare il discorso in maniera abbastanza semplice e concisa.

«Amore e dipendenza sono due cose diverse. Non può nemmeno lontanamente piacerti qualcosa di cui sei dipendente.» Disse, e Frank avrebbe voluto prendersi a testate nel muro per non esserci arrivato da solo. «Per esempio, tu fumi, no?» Gerard si voltò verso di lui in cerca di una risposta, e Frank annuì di fretta e furia per non mettersi in mezzo di nuovo. «E ti piace il fatto che tu lo faccia?» Chiese nuovamente, e l'altro scosse il capo. «Ti sei risposto da solo.» Si strinse nelle spalle, tornando a guardare da un'altra parte. «L'altro giorno aveva un esposizione qui, ad un'ora di macchina.. è una fotografa.» Sorrise Gerard fra sé e sé, e Frank si stupì della semplicità con cui parlava di lei, la fantomatica ragazza che lo aveva trattato in maniera così brutta, senza nemmeno un velo di tristezza in volto. «Ci siamo salutati come se niente fosse. È sposata con il mio ex-compagno di stanza e stanno programmando di avere un bambino, te ne rendi contro?» Si voltò a guardarlo con espressione shoccata, come se un bambino fosse una cosa assurda per una coppia sposata. Per il più piccolo era più assurdo il fatto che non si sentisse malinconico, che non si pentisse di averli fatti conoscere, che non la odiasse. «Eppure sono stato bene. Ci ho parlato come se niente fosse perché l'effetto dipendenza è passato, Frank. È stato difficile smettere, in un primo momento, ma tornando all'esempio della nicotina, una volta che ne fai a meno per tanto tempo, poi non ti tenta più. Ed è esattamente quello che è successo nel mio caso..» Senza nemmeno accorgersene e senza nessun vero motivo, entrambi sorrisero. In qualche modo, si sentivano come se avessero appena aperto gli occhi. Come se avessero cominciato a vivere solo in quel momento. Gerard poteva finalmente condividere tutto questo con qualcuno che lo avrebbe ascoltato, e Frank, finalmente, aveva qualcuno a cui era convinto di poter chiedere consiglio su ogni cosa. «Mikey dice che lei mi piace ancora, pensa!» Scoppiò a ridere dell'”ignoranza” di suo fratello, respirando profondamente prima di parlare. Ancora. «E tu, invece?»

«Io?» Frank balbettò, scattando sull'attenti. Non era sicuro di come fosse stato possibile, riuscire a balbettare anche una parola monosillabica, ma ci riuscì senza troppi problemi. «Umh.. stavo con una ragazza, due mesi fa, credo.» Si rese immediatamente conto di quanto patetica fosse la sua storia, messa a confronto con quella che aveva appena sentito. «Ma credo che fosse più per fare un favore ad un amico che voleva conoscere sua sorella.» Si morse il labbro inferiore, ripensando a quella settimana meno un giorno in cui era stato “impegnato”. Gerard scoppiò a ridere, e Frank non riuscì a non arrossire: non era quel tipo di ragazzo, sul serio. Era solo uno che si sottometteva alla volontà degli amici pur di non dover dire “no”.

«Romantico!» Esclamò fra un ghigno e l'altro, ed il chitarrista cercò di ridere con lui almeno un po', nonostante gli scarsi risultati. «E poi com'è finita?» Domandò, sinceramente interessato. Era pazzesco trovare qualcuno che sapeva sia parlare, sia ascoltare.

«Mi ha scaricato perché ha scoperto tutto.. e sua sorella ha scaricato il mio amico.» Ridacchiò, questa volta di gusto, nel rendersi conto di quanto fosse ridicola quell'intera storia.

Rimasero a parlare del più e del meno per ore, praticamente. Persero la cognizione del tempo proprio quando Gerard prese a mostrare a Frank alcuni dei suoi disegni (gli fece vedere persino alcuni dei più personali), ancora stesi l'uno accanto all'altro in un letto che, ad essere sinceri, era singolo. La giornata sembrava passare così velocemente che era quasi ridicolo, e nonostante sapessero che sarebbe arrivato il momento in cui qualcuno li avrebbe chiamati per cena, quando Mikey aprì la porta nessuno dei due era pronto. Sapevano che forse erano un po' troppo vicini, ma nessuno dei due si aspettava che il ragazzo avrebbe semplicemente chiuso la porta alle sue spalle, senza nemmeno finire la frase. Cominciò a blaterare delle scuse, come se li avesse appena beccati a letto insieme nel senso vero della parola, ed entrambi tentarono di sopprimere le risate.

Gerard pensò, in quel momento, che forse doveva cominciare a piombare addosso alla gente più spesso.

 

 

**


 

Asdfghjkl massalveeeeeeeeeeeeeeeeeH!

Sono reduce dai miei primi tre giorni di liceo e aggiorno molto alla buona perché la mia vita sociale ha subito un improvviso sprazzo di vitalità e sto uscendo, quindi yeaaaah.

Questo era uno dei capitoli già scritti, quindi ho aggiornato un po' prima rispetto alle previsioni- tutta colpa di quella miopeta di The Last Thing I See che mi ha assicurato che non faceva troppo schifo e mi ha supportata moralmente nella ricerca del fantasma di casa mia (?)

Quindi bon, sto di nuovo qui a rompere le palle! Se ci siete fatevi sentire, plise c.c

XOXOXOXOXOXOXOXOXOXOXOXOCONVENTIONALWEAPSONOFJEIRFJHEUIFHJE AIUTO MUOIO XOXOXDOFJIEFJEFEWIFHD NON CE LA FACCIO POPO OGGI CIAU. <3

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** We knew that we were destinated to explode ***


3. We knew that we were destinated to explode

 

 

 

Era la giornata più piovosa che il New Jersey avesse mai visto dal mese di Febbraio, e di certo, Gerard e Ray non avrebbero potuto scegliere un giorno peggiore per andare a fare “propaganda”. L'unico rumore udibile in tutto l'isolato era quello dello scrosciare della pioggia sui palazzi, la strada o su qualche singolare oggetto metallico e quello dei passi dei due, che normalmente non sarebbe stato così riconoscibile, se non fosse stato per il semplice fatto che le loro scarpe fossero zuppe, così come il resto degli abiti. Se ne stavano in silenzio da un po', ormai, troppo nervosi per parlare senza rischiare di strapparsi qualche organo vitale a morsi.

Ovunque entrassero, non facevano che ricevere dei “no” secchi. Gli unici venditori abbastanza aperti sembravano quelli dei negozi di musica, che ovviamente, nel ricevere una richiesta da parte di un gruppo di lasciare un volantino di propaganda per uno show, non potevano rifiutare. Anche solo per coerenza o per non perdere clienti: diciamo che c'era un guadagno da entrambe le parti. Il peggiore era stato sicuramente Matusalemme, come lo chiamavano in città per ovvi motivi (e anche perché, in effetti, quasi nessuno conosceva il suo vero nome), cioè il proprietario della videoteca comunale: non lavorava più lì, ma certe volte, mentre i figli che ora gestivano il posto erano via per qualche motivo, si trovata semplicemente a custodire il negozio così che nessuno rubasse niente.. anche se, in effetti, avrebbero potuto rubargli anche un polmone e forse non se ne sarebbe accorto. Erano entrati, beccandosi quegli sguardi che sapevano tanto di maledizione, e lui aveva cominciato ad urlare qualcosa sulle nuove generazioni, la seconda guerra mondiale, ed il suo amico mutilato. Avevano fatto dietrofront, tanto per restare in tema, rinunciando a subirsi uno dei suoi ulteriori discorsi sul degrado sociale (quelli che si dovevano beccare quando noleggiavano un film erano sufficienti) e tornarono alla fredda desolazione che li aspettava fuori. Provavano ad attaccarli qui e lì sui pali della luce, sulle cassette della posta, ma ovviamente sapevano che non avrebbero tenuto molto, data la pioggia, e tutto il loro lavoro sarebbe stato vano. Non avevano soldi da sprecare per fare altre fotocopie, ad essere sinceri, e nemmeno tanta voglia di trovarsi davanti alla possibilità di dover passare un'altra giornata così. Trovarono improvvisamente una fermata del pullman, e perché no, essendo coperta da un tettuccio, Gerard pensò bene di “marchiarla”.

«Ehi, Ray, guarda lì..» Indicò quella specie di gazebo, e subito il riccio si voltò, alzando lo sguardo dal rotolo di scotch con il quale continuava a giocherellare. «Almeno è coperto, che dici?» Continuarono ad osservare, finché decisero che peggio di così non poteva andare. Si diedero un cinque di incoraggiamento e si avvicinarono alla panchina, correndo da un lato all'altro della deserta strada con i cappucci alzati.

«La prossima volta facciamo prima a pagare per un annuncio alla radio, per cinquanta dollari di differenza.» Sbuffò di nuovo Toro, inacidito per via dei capelli, che ora, oltre ai vestiti, cominciavano a bagnarsi. E di certo Gerard non poteva fargliene un torto, considerando il tempo che ci avrebbe messo ad asciugarli. Quest'ultimo sbuffò, estraendo dalla tracolla che un tempo usava all'Accademia uno dei numerosi poster. Cercò di evitare di guardare la sua faccia in foto, nonostante fosse già consapevole che non era una delle migliori, e lo poggiò un secondo sulla panchina in attesa che Ray strappasse con i denti un po' di scotch. Ne attaccarono almeno tre o quattro, giusto per far sì che dessero nell'occhio, e poi tornarono a girovagare nel nulla più assoluto. Nessuno dei due si era mai reso conto di quanto, senza gente, quel posto fosse effettivamente inutile. Era come camminare in una landa desolata, con case, case, case e qualche negozio quando capitava. Non era una città grande, e di questo chiunque ci vivesse ne era consapevole, ma mai era sembrata così vuota. E Gerard, nonostante fosse così preso dai suoi pensieri, non esitò a scacciarli quando si sentì chiamare dal ragazzo accanto a lui.

«Ehi, Gerard, tu e Mikey avete ancora contatti con quel tipo.. Andy?» Chiese Ray, spezzando il silenzio ed il filo dei pensieri del ragazzo, che, nel sentirsi porre quella domanda, rabbrividì- e purtroppo, non per la pioggia.

Andy era stato come un padre e come un migliore amico, nonostante non fosse altro che il proprietario della fumetteria vicino casa loro. Era un uomo sui cinquanta, che diciamo, andava più per i sessanta(cinque). Capelli bianchi, occhiali, alto poco più del bancone dietro al quale passava le giornate lavorative e tipico faccione tondo, simpatico. Sembrava quasi Babbo Natale, e quello fu uno dei motivi che spinsero Gerard ad avvicinarsi a lui quando era poco più che un neonato. I due frequentavano quel posto da quando avevano sì e no cinque anni, e ormai, quell'uomo era quasi uno di famiglia. Si spedivano gli auguri a Natale, lui li mandava al compleanno dei ragazzi ed i ragazzi non si dimenticavano mai di mandarglieli per il suo, quello dei figli e quando se lo ricordavano, quello della moglie. Andava lì da ancora prima che Mikey nascesse, che si trattasse di leggere -imparare a leggere-, passare le giornate sul parquet rovinato a disegnare e giocare mentre lui ed Elena chiacchieravano, o anche solo comprare volumi su volumi, per finirli il più in fretta possibile in modo tale da ritornare non appena ne aveva la possibilità. Poi, ovviamente, cominciò a crescere: non smise mai di andarci, no, ma cominciava ad avere i problemi di ogni adolescente, e quando suo fratello era ancora troppo piccolo o lui stesso si vergognava di parlargli di certe cose, quando si rendeva conto che non avrebbe mai potuto chiedere a suo padre perché gli piaceva un po' troppo rimanere negli spogliatoi maschili dopo l'ora di educazione fisica e quando sua madre non era la persona più adatta a cui chiedere consiglio su come invitare una ragazza ad uscire, era l'unico a cui poteva parlare di certe cose, senza mai vergognarsi e sempre sicuro che non avrebbe mai ricevuto giudizi di alcun tipo.

Non si dimenticava mai di passare, anche solo per un saluto: quando andò per un po' a New York, gli mandava addirittura delle cartoline. Le cose erano cambiate solo da quando erano cominciati gli impegni del gruppo, e per quanto fosse un po' ridicola come motivazione, passava molto più tempo fuori città di quanto non facesse un tempo, o ne passava ancora di più chiuso in casa a provare. Quei pochi giorni in cui non aveva nulla da fare, era troppo distrutto anche solo per alzarsi dal letto, e bastò quello per perdere un po' quel rapporto speciale che c'era prima. Già una mese dopo si era sentito in colpa, ma non avrebbe saputo in che modo giustificarsi per tutto il tempo passato, e così i giorni continuavano ad accumularsi, poi le settimane, e poi un altro mese, fino a quel giorno.

«Non tanto.. perché?» Gerard rispose, rendendosi conto solo in quel momento che si era fermato nel bel mezzo del marciapiede solo per pensare. Cosa che, incredibilmente, gli succedeva spesso. Era come se si isolasse per qualche secondo dal mondo intero e ritornasse indietro nel tempo con la mente, lasciando momentaneamente lì il corpo.

«Siamo vicino al suo negozio, credo che ti lascerebbe appendere qualsiasi tipo di volantino, no?» Domandò Ray, fissando lo sguardo sul malandato cartello del “Belleville Comics”, scritta rossa su sfondo giallo sbiadito. Il negozio era vuoto, il cantante notò dopo una veloce osservazione, e se di solito non c'era molta gente in generale, figuriamoci con quel clima. Considerò l'opzione di andarsene, perché con che cavolo di coraggio si sarebbe presentato in quel modo? Eppure, si rese conto, sarebbe stato un peccato sprecare quella chance. Arricciò le labbra, considerando e cercando un po' di coraggio, quando poi, ormai convinto, prese un respiro profondo.

«Perché no!» Esclamò, finto entusiasmo che trapelava da tutti i pori, e rispose al sorriso a trentadue denti di Ray, che aveva già cominciato a camminare verso l'altro lato della strada. Gerard, un po' meno motivato, fece passi lenti e piccoli, nonostante fosse consapevole che il momento di entrare sarebbe arrivato comunque, e senza rendersene conto si trovò già davanti allo zerbino. Il chitarrista entrò, entusiasta, seguito a ruota dall'altro, che per poco non si nascose dietro la sagoma di cartone a dimensioni reali di Superman per via del rumore un po' troppo ovvio prodotto dalla campanella appesa alla porta, messa lì apposta per segnalare l'arrivo di un cliente. Andy alzò lo sguardo dal giornale locale che stava leggendo, e sgranò gli occhi, incredulo -il ragazzo, in altre circostanze, avrebbe pensato che fosse stato incredulo nel vedere un cliente in generale-, nel vedere suo nipote (così lo chiamava, a volte) lì. Gerard abbozzò un sorriso che lasciava trapelare tutto il suo evidente imbarazzo, e alzò la mano destra in cenno di saluto, fissando di sfuggita Ray mentre si andava a sistemare su quella specie di poltrona verde lì nell'angolo.

«Ciao?» Esordì il ragazzo, senza che gli passasse niente di meglio per la testa, praticamente imbambolato ancora all'entrata. Fece uno o due passi avanti, guardandosi intorno senza trovare niente di così diverso dall'ultima volta che era stato lì.

«Ciao, Gerard!» Disse l'uomo, aggiustandosi gli occhiali come se temesse che fosse solo un miraggio ed allontanandosi dalla sua postazione di lavoro -dipinta di vernice verde smeraldo e piena di graffi, così come la ricordava- si avvicinò al ragazzo, dandogli una pacca sulla spalla come se non fosse successo nulla. «Sei stato impegnato a vivere la “vida loca”?» Ridacchiò in maniera un po' malinconia, mimando le virgolette sulle ultime due parole. Da lì, Gerard capì che forse ci era rimasto peggio di quanto potesse immaginare, ma non voleva farglielo pesare. Era fatto così.

«Io, uhm- ho girato un po' il Jersey con il gruppo e- non- non sono stato molto in città.» Abbozzò un ghigno, spostando nervosamente il peso da una gamba all'altra mentre si aggiustava la tracolla sulle spalle. «E se c'ero ero stanco, me ne stavo a casa, e.. ci è arrivata la lettera per il compleanno di Mikey, sai? Tra un po' scoppiava a piangere..» Cominciò a ridacchiare nervosamente, cambiando discorso nel bel mezzo della frase come era solito fare. Andy ricambiò la risata, più genuinamente.

«Vuoi metterti a sedere? Non credo che arriverà nessun altro..» Sospirò l'uomo, nonostante fosse abituato alla mancanza di clienti. Gerard certe volte si chiedeva come facesse a sopravvivere e provvedere anche a due figli -un maschio ed una femmina, per la quale una volta aveva avuto una cotta- e una moglie casalinga, eppure in qualche modo ci riusciva. Si ricordava di un'annata particolarmente difficile in cui dovette trovare un secondo lavoro, e dunque mancava più o meno tre giorni di turno, sostituito da un ragazzo poco più che ventenne. Annuì ed accettò l'offerta con un sorriso, sistemandosi accanto a Ray mentre il più anziano spostava a fatica lo sgabello che c'era dietro la cassa per mettersi seduto accanto a loro.

«Gerard voleva chiederti una cosa!» Esordì il riccio in maniera piuttosto inopportuna. L'altro gli diede una gomitata, cercando di non far sembrare che quella visita fosse dovuta solo allo scroccaggio di un favore, perché, infondo, non era vero. Sospirò, affondando nella poltrona prima di cercare i volantini nella tracolla quando fu sollecitato da Andy stesso a “sputare il rospo”.

«Non sei obbligato, davvero, ma vorremmo lasciare qualcuno di questi qui..» Gli porse una pila moderatamente grande di fogli, osservando la sua espressione mentre si concentrava a leggere le scritte su uno di essi. Strizzò gli occhi più volte, segno dell'età che avanzava inesorabilmente, prima di alzarsi, sorridente e soddisfatto come un genitore potrebbe esserlo per il successo del figlio, per metterli in vetrina. Gerard sorrise di riflesso, aspettando un qualche commento.

«A quanto pare la tua mancanza ha dato i suoi frutti, eh?» Disse, tenendo ancora in mano uno dei fogli, come se volesse conservarlo come si fa con un compito da “A” dei propri figli. Entrambi annuirono, ed il cantante gli lasciò anche il demo che portava sempre con sé perché “non si sa mai”. «E questo qui chi è?» Domandò Andy, indicando Frank, l'unico ragazzo nella foto che non aveva mai visto. Ray cominciò a ridacchiare, ancora troppo preso dall'episodio del giorno prima.

«Il ragazzo di Gerard.» Il quale, lo fulminò con lo sguardo, sferrandogli l'ennesima gomitata della giornata.

«Piantala!» Lo intimò, voce troppo stridula perché potesse effettivamente intimidirlo, carezzandosi il braccio come se lo avesse preso a coltellate.

«Gerard, forza, non c'è bisogno che ti vergogni del tuo fidanzat-»

«Ma non lo è!» Quasi urlò, esasperato dal modo in cui fossero riusciti a prendere una cosa minuscola e tramutarla in quello che, ormai, era diventata. Mikey aveva questa brutta abitudine di saltare troppo in fretta alle conclusioni, e Ray e Matt avevano quella ancora più brutta di credere a qualsiasi cosa gli si dicesse.. specialmente se si trattava di qualcosa che sarebbe andato a vantaggio dei loro sfottò e scherzi vari. Gerard sbuffò, incrociando le braccia al petto come un bambino al quale vengono negate le caramelle.

«Ti abbiamo mandato a controllare se si sentiva meglio e tre ore dopo vi abbiamo trovati a ridere e scherzare. Stesi a letto. Insieme.» Ray lo fissò, e il ragazzo abbassò lo sguardo di fronte a quell'affermazione. Okay, forse era tutto più facilmente equivocabile, detto in quel modo, ma infondo lui sapeva che non c'era stato nulla dopo quella sera del dodici agosto, e forse, in un certo senso, poteva prendere vantaggio da quello che stava succedendo. Trattenne abilmente un sorriso di quelli che faceva solo quando aveva una di quelle idee geniali e conservò il tutto per dopo.

«Qualcuno si è preso una cotta..» Lo stuzzicò nuovamente il più anziano dei tre, ora a conoscenza della versione completa dei fatti. Gerard sbuffò per l'ennesima volta, mentre il ragazzo accanto a lui continuava a sorridere. «Andiamo, credevo che già a sedici anni fossi maturato abbastanza per capire che può capitare di sentirsi attratti da qualcuno del proprio sess-» Andy continuò, quasi come un padre di quelli un po' invadenti, per poi trovarsi interrotto dal ragazzo a metà frase.

«Forse un pochino. È simpatico, carino, intelligente, quello che cavolo volete.. però non- non lo so..» Continuò a muoversi goffamente sulla sedia, sotto gli occhi soddisfatti dei due Cupidi improvvisati. Gerard pensava davvero le cose che aveva appena detto; dopo quella conversazione non poteva negare il fatto che probabilmente, un minimo di cotta per quel ragazzo ce l'aveva. Il fatto che le ammettesse “pubblicamente”, però, faceva parte del piano. E che piano.

«Lo ha ammesso, signori e signori, finalmente.» Ray commentò, schiacciando il cinque a quell'uomo che aveva visto sì e no due o tre volte in vita sua con un certo orgoglio. Ma nessuno aveva capito che quello era solo l'inizio.

 

**

 

Gerard era tornato a casa e già aveva programmato ogni singolo dettaglio del discorso che avrebbe fatto a Frank. Non sarebbe stato facile farlo senza che notasse che, in un certo senso, non gli sarebbe dispiaciuto per niente se quello non fosse stato solo uno scherzo. Sapeva che fra qualche mesetto gli sarebbe passata, eppure non poteva ignorare quella lampante cotta che aveva in quel momento. Dopo lo scherzo sarebbe andata via, no? Si sarebbe tolto quel piccolo sfizio di stare con lui e bom. Niente più, niente meno. Ne era praticamente sicuro.

Aveva programmato con cura maniacale ogni singolo dettaglio, persino la posizione in cui si sarebbe dovuto trovare per fargli la fatidica richiesta, manco gli stesse domandando di sposarlo. Quindi entrò in casa, cauto a non rovinare la sua chance, e trovò Frank in salotto, così come prevedeva il suo piano.

«Hey.» Lo salutò immediatamente il più piccolo, spostando lo sguardo dall'interessantissimo e sicuramente arricchente programma di incidenti stradali pazzeschi che stava vedendo. Gerard non riuscì a farne a meno e si ritrovò ugualmente catturato dal teleschermo quando una Smart finì per schiantarsi contro un rimorchio auto.. nei pressi delle cascate del Niagara, nel quale, entrambe le vetture finirono. Strizzò gli occhi e storse la bocca così come Frank, e nel notare quanto fossero state simile le loro reazioni, ridacchiarono entrambi. «Com'è andato il volantinaggio?»

«Poteva andare meglio, non c'è che dire..» Si morse il labbro Gerard, mettendosi a sedere sul bracciolo del divano con ancora la giacca indosso e la borsa a tracolla, troppo preso dagli schianti fra auto. «Però poteva anche andare peggio, siccome ce ne sono rimasti solo venti e ti ho preso uno di quegli hamburger per svitat.. vegetariani.» Estrasse dalla tracolla -che qualche secondo dopo gettò via- una confezione di quella roba fatta con chissà cosa, visto e considerato l'esito poco positivo della cena completamente carnivora della sera prima, e la porse al ragazzo, che in tutta risposta gli fece un sorrisone a trentaude denti.

«Dio, no, Gerard, non dovevi..» Blaterò, insieme ad un altro centinaio di scuse.

«Ehi, Frank, tranquillo, anche io sto per chiederti un favore piuttosto enorme, quindi..» Si morse il labbro, osservando l'espressione confusa del chitarrista, che ovviamente, adesso, cercava spiegazioni. «Umh..» Cominciò il più grande, improvvisamente muto. Era ridicolo come riuscisse a fare certi discorsi gloriosi nella sua mente, e poi, quando si trattava di metterli in pratica, si trovava ad avere difficoltà persino nell'articolare una semplice frase d'esordio. «Mettiamoci insieme. Per finta, dico. Facciamo uno scherzo un po' bastardo ai ragazzi, che dici?» Domandò, sorridendo nel tentativo di incoraggiarlo, e si alzò dopo qualche secondo per lasciare che avesse il tempo di riflettere. Non voleva pressarlo, a dirla tutta: sapeva che, in caso avesse rifiutato per qualche motivo stupido, avrebbe insistito -perché Gerard era semplicemente fatto così-, ma se avesse detto no e basta, no perché non voleva, no perché non gli andava, allora lo avrebbe lasciato fare come preferiva, perché era più che giusto così. Si diresse verso la cucina, vagabondando disorientato per quella che era la sua stessa casa.

«Quindi dovremo far finta di stare insieme?» Domandò Frank con un sorriso in faccia, come se dopo la spiegazione “super-dettagliata” che Gerard gli aveva appena fatto non fosse già abbastanza ovvia. Il ragazzo annuì, aprendo il frigo alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti prima che arrivasse qualcuno in grado di preparare una cena commestibile. Se non sua madre, almeno Mikey.

«Mh-mh.» Commentò il più grande, aprendo una lattina di coca-cola -unica sopravvissuta- così da ricaricarsi con un minimo di zuccheri e tirare per almeno un'altra mezz'ora con la brioche di quella mattina che ancora gli galleggiava nello stomaco. «È una specie di esperimento. Oggi Ray ha rotto le palle tutto il tempo perché è convinto che tu mi piaccia..» Il ragazzo si fermò a prendere un sorso, poggiando in seguito la lattina già mezza vuota sul bancone di marmo bianco/grigiastro della cucina e beandosi delle sue doti sa bugiardo diplomatico.. «Allora diamogli quello che vogliono, no? Facciamo finta di stare insieme e vediamo quanto ci mettono a scocciarsi, così potremmo rinfacciargli la loro ipocrisia per una vita intera.» Sorrise, guardando negli occhi (seppur da lontano) il chitarrista, che intanto se ne stava sul divano del salotto. Si avvicinò a lui, sedendoglisi accanto e non riuscendo ad ignorare il modo in cui il corpo del più piccolo sobbalzò alla presenza di un altro essere umano così vicino a sé. «Ci stai?»

«Non lo so, Gerard, andiamo- se mi odiassero tutti?» Domandò, abbassando lo sguardo da quello del ragazzo e posandolo sulle sue stesse mani, con le quali continuava a giocare nervosamente da un bel po'. «Vi conoscete da secoli, magari nel tuo caso lo prenderebbero come un semplice scherzo, ma io.. sono con voi da due giorni, si sentirebbero presi per il culo, andiamo..» Continuò, balbettando e inciampando con le parole.

«È tutta psicologia- non sono così, non se la prenderanno. E poi dirò che è stata una mia idea, ovviamente.» Gerard non smise per un secondo di fissarlo, e improvvisamente il suo sguardo si incontrò di nuovo con quello di Frank quando quest'ultimo alzò il capo e si morse il labbro.

«Lo faccio solo per il bene dei tuoi studi freudiani.» Sorrise, e fu subito ricambiato dal più grande. «Ma..» Cominciò con un tono ben più alto di quello usato prima, facendo sobbalzare l'altro. Un tipo difficile, il ragazzetto. «Se si incazzano è solo e soltanto colpa tua.» E Gerard ebbe appena il tempo di balbettare un “certo, okay, sicuro” che il ragazzo partì in quarta ad elencare i motivi. «Davvero, non è per cattiveria, ma non voglio sputtanare quel poco di fiducia che avranno in me già dal primo mese.» Tornò a guardare altrove, e una piccola parte del cantante morì in quell'esatto momento. Non sapeva cosa, esattamente, lo seccasse così tanto del fatto che Frank non volesse essere responsabile di nulla, perché cavolo- infondo lo sapeva che non avrebbe mai ricambiato il tipo di interesse che provava lui. Era uno scherzo, ma forse il modo in cui si era comportato il giorno prima e quello che aveva lasciato che accadesse alla festa gli avevano lasciato credere che un po' di quella stupida speranza da ragazzina fosse giustificata, e poof- per qualche secondo, nella sua mente, si era fatta strada quella stupida convinzione che in qualche modo potesse piacergli.

«Okay, non c'è problema.» Replicò, sorridendo ed annuendo come se nella sua testa non fosse appena successo quell'infinito casino di pensieri intrecciati fra di loro. Improvvisamente, sentirono dei rumori in giardino. Non era una novità che i ragazzi aggravassero sempre la situazione, e probabilmente, era quello che era successo in quel momento: “rimarremmo bloccati nel traffico per almeno mezz'ora, ragazzi, c'è l'apocalisse, alcuni dicono che sia morto un uomo mentre guidava e che dobbiamo aspettare la rimozione auto per passare!”. Gerard ridacchiò all'esagerazione dei tre, e subito si preparò ad accoglierli secondo il copione della loro piccola messa in scena. Si guardarono negli occhi e subito capirono cosa dovevano fare: Si scombinarono i capelli, il più grande si sedette sulle gambe di Frank e si inumidirono le labbra così da far sembrare che la cosa stesse andando avanti da un bel po' di tempo prima che Gerard poggiasse la fronte contro quella del ragazzo, immobile.

Fu strano, in un primo momento;

Frank si lasciò prendere un po' troppo e, quasi senza volerlo, affondò le mani nei capelli del ragazzo, portandolo più vicino a sé nonostante non stessero facendo assolutamente nulla, ma la parte più strana dell'intera faccenda, era che non era stato un banale riflesso, non un gesto di abitudine, ma semplicemente quello che voleva. Non si rese conto del perché non volesse fare quello che stava facendo -nonostante avesse già ammesso a sé stesso che l'interesse per Gerard andava ben oltre la semplice amicizia-, ma era come se volesse semplicemente tenere a bada quella cotta già un po' eccessiva nei confronti di un ragazzo che conosceva da così poco. Continuava a ricordare a sé stesso che quello era solo uno scherzo, che Gerard non voleva stare con lui, che era solo un modo per far tacere i ragazzi, eppure era così divertente credere che non lo fosse, che Frank si lasciò prendere. Sapeva che li stavano spiando e probabilmente si stavano spanciando dalle risate, perché, diciamocelo, non era umanamente possibile che ci si potesse mettere così tanto per parcheggiare una macchina in un garage, ma se lo spettacolo era così divertente, allora, dovevano renderlo ancora meglio.

«Gerard, ho un'idea, alzati..» Gli sussurrò all'orecchio, staccandosi a malavoglia da quel contatto così morbido e già così familiare e cercando di sembrare il più enfatico possibile per l'audience. «Credo che ci stiano guardando, ma tu fai finta di non vederli, mh?» Fu appena un sospiro, di nuovo, e Gerard sorrise. Aveva sempre le idee migliori, e in quel momento non ne era mai stato più sicuro. Frank si tolse la maglietta, nervoso per paura del giudizio che avrebbe potuto avere il ragazzo. Solo dopo un'attenta riflessione, si rese conto che si stava comportando in maniera a dir poco ridicola; farsi tutte quelle preoccupazione per il giudizio di qualcuno che non era nient'altro che un amico? Era quasi sicuro di essere tornato alla sua prima cotta, stupide preoccupazioni comprese. Invitò Gerard ad alzarsi e lo portò verso il piano di sotto, cercando di trattenersi dall'immaginare cosa sarebbe successo se quella situazione fosse stata reale con una semplice risatina repressa. Non appena furono lontani dagli sguardi dei ragazzi, si chiusero in camera. A chiave, per sicurezza.. poi bastò il tempo si essere sicuri che fossero soli in casa, che entrambi scoppiarono a ridere così forte da lacrimare, quasi.. nonostante fosse solo per distogliere l'attenzione dal fatto che entrambi avrebbero voluto che quei gesti si ripetessero in circostanze diverse.

«Cristo, Frank, sei un genio!» Gerard esclamò fra una risata e l'altra, un po' troppo preso dal modo in cui il più piccolo si stava infilando nuovamente la bianca t-shirt a maniche corte per formulare una frase di senso compiuto. Maledetto Andy e maledetto il modo in cui aveva sempre ragione. Si stese a letto, ancora un po' troppo preso da quello che era appena successo ma pur sempre stremato.

«E' stato.. divertente.» Frank lo guardò, sorridendo e annuendo, e Gerard schiuse appena gli occhi per godersi la scena. Subito il chitarrista arrossì, rendendosi conto del fatto che la frase che aveva appena detto sarebbe stata facilmente fraintendibile. «..lo scherzo, intendo.» Tossì nervosamente, e Gerard, ridotto ad un ammasso di neuroni ben poco funzionanti, sorrise di nuovo, come se fosse l'unica cosa che potesse fare in quel momento. «Mi dispiace solo di non aver potuto vedere le loro facc-» E subito Fank fu interrotto da due colpi di nocche sulla porta.

«Ehi, vi abbiamo visti! Potreste almeno cercare di farlo senza rumori?» La voce di Matt dall'altro lato della porta interruppe il loro relativo silenzio, seguita dalla risata squillante di Ray e dagli inevitabili versetti straniti di Mikey. I due si guardarono, custodendo il loro segreto e mordendosi le labbra nel tentativo di non ridere e sputtanare tutto il loro “duro” lavoro.

«Cortez, è mio fratello, piantala prima che si spacchi il culo!» Urlò Mikey in un improvviso sprazzo di mascolinità, rendendosi conto solo dopo del doppiosenso capitato un po' troppo a fagiolo. Quella volta nessuno dei cinque riuscì a contenersi, eccetto, forse il più piccolo dei fratelli. Gerard non capiva cosa gli desse così fastidio nel sentir parlare di sesso e suo fratello nella stessa frase, ma poi si rese conto che forse era perché era il minore dei due e di certo non avrebbe mai capito come ci si sentiva. Si rotolò a letto, troppo stremato anche per mettere in piedi un'altra messa in scena.

«Tranquilli, per oggi vi risparmiamo.» Disse Frank, come se gli avesse letto nel pensiero. Si avvicinò alla porta, aprendola e lasciandoli entrare fra una risata e l'altra

Da lì in poi, per quello che entrambi ricordino, non fu altro che una serie di alcuni fra gli eventi più divertenti che avessero mai vissuto. Comunicarono a tutti il loro “fidanzamento”, in primo luogo, e le facce che fecero furono così senza prezzo da meritarsi di finire direttamente fra quelle immagini che erano il motivo per il quale non sarebbero mai più stati tristi in vita loro, e che sicuramente avrebbero tirato su il morale ai due, nonostante tutto. Scoprirono che avevano addirittura puntato dei soldi su di loro, provando ad approssimare la quantità di tempo che ci avrebbero messo per “rendersi conto che erano perfetti l'uno per l'altro” (e quella frase, nessuno dei due lo ammise, ma fece male ad entrambi) e che, a quanto pareva, aveva vinto Ray e si era addirittura intascato cento dollari per uno stupido scherzo.

Matt aveva fatto l'errore di credere che si sarebbero presi il loro tempo, e aveva addirittura firmato un foglio dove comunicava che “il gentile Signor Cortez dichiara di essere convinto che fra poco più di un mese troveremo il signor Way ed il signor Iero a scopare come conigli” e puntava, appunto, la somma che ora si era trovato a dover dare al vincitore, che invece, così convinto di sé stesso, non aveva nemmeno preso parte al contratto. Mikey si era astenuto: aveva semplicemente blaterato due stronzato su come non si sarebbero mai e poi mai messi insieme, nonostante fosse stato il primo a cominciare con quella faccenda, e quella era stata la cosa più simile ad una scommessa che fosse uscita dalla sua bocca.

E in generale, cavolo, entrambi sapevano che forse quella cosa gli sarebbe sfuggita dalle mani: c'era un attrazione pericolosa fra i due, che combinata alla formula e al tipo della loro “relazione”, era a dir poco una bomba a mano. Erano pronti ad esplodere da un momento all'altro, davvero: bastava che quel semplice scherzo andasse anche solo di tanto così fuori dai limiti e boom.

Un disastro.

Uno scoppio.

Letale.

 

**

 

Sciao ragazze! *^*

Allora, mi rendo conto che sto andando un po' velocemente, ma tutto questo è perché principalmente i capitoli, fino a metà del dieci, non sono altro che l'introduzione alla storia vera e propria...... ciò non vuol dire che siano meno importanti, ma che se avessi preso il tempo per fare tutto per bene, vi lascio solo immaginare.. ah, ho detto che in totale sono diciassette? COUGH. Diciamo che ce ne saranno ben altri di guai e casini, quindi godetevi la parte bellina e amorevole finché potete. <3

Il titolo è preso da Time Bomb degli All Time Low -si ringraziano le due Francesche, ehueheu <3-, quindi yeah. Si ringraziano anche le anime pie che hanno lasciato una recensione ai capitoli precedenti e come al solito, i commenti non mi fanno schifo. :'3

Al prossimo capitolo! asdfghjkl

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** If home is where the heart is, then, we're both just fucked ***


 

4. If home is where the heart is, then, we're both just fucked

 

 

 

Quelle due settimane erano state la conferma che, quel gruppo, era letteralmente la cosa migliore che gli fosse mai capitata, e Frank cominciava sul serio a sentirsi a suo agio a casa Way.

Non solo cominciava a conoscere gli ambienti in maniera più dettagliata e non aveva bisogno di chiedere di essere “scortato” anche solo per pisciare, ma con la famiglia in generale: il padre a malapena lo vedeva (e forse era meglio così), ma Donna lo trattava come fosse un figlio. Beh, per non parlare di Gerard, Mikey ed i ragazzi della band in generale; ormai era quasi come se li conoscesse da anni, anche se era l'ultimo arrivato. A saperlo prima, insomma, non avrebbe mai aspettato un mese intero prima di chiamare.. specialmente perché, fra l'altro, non aveva mai dubitato del fatto che avrebbe accettato.

Proprio per questo, ora che si trovava a distanza di due giorni dall'ultima prova, non vedeva davvero l'ora di bussare alla porta. Scorse da lontano i mattoncini marroni del tetto e sorrise, quasi istintivamente. Si aggiustò per un secondo la chitarra in spalla e poi, a passi più veloci, raggiunse l'entrata come se fossero passati tre anni dall'ultima visita; era davvero qualcosa che non riusciva a spiegarsi, quella sensazione di calma e serenità che provava ogni volta che varcava quella soglia. Forse era la sua famiglia, il clima che c'era da lui ogni giorno, le continue lotte fra i suoi genitori o, spesso e volentieri, con i suoi genitori, che lo facevano sentire benvenuto più lì che a casa sua.. e come diceva un vecchio detto, “casa è dov'è il cuore”.

Percorse il vialetto ciottolato che conduceva all'entrata e si fermò per qualche secondo prima di bussare: era strano, ma non si sentiva nessuna voce se non quella di un conduttore televisivo di qualche gioco a premi proveniente dal salotto. Si sarebbe sporto a guardare dalla finestra, ma si sarebbe sentito un po' troppo inquietante per uno che da un momento all'altro sarebbe entrato e avrebbe visto tutto (qualsiasi cosa stesse succedendo) sotto i suoi occhi, perciò strusciò una o due volte i piedi sullo zerbino e poi pigiò l'indice sul bottone dorato del campanello, aspettando. Sentì dei passi, e senza alcun motivo tirò un sospiro di sollievo: non si erano dimenticati di lui, almeno.

Sollievo che, purtroppo, quando vide Donna sull'uscio sparì. Non che avesse qualcosa contro di lei, ma insomma, di solito non era quella che apriva la porta e questo poteva significare solo una cosa: effettivamente, lo avevano dimenticato. La donna corrugò le sopracciglia ormai disegnate, e si fece spazio sul suo viso un'espressione quasi compassionevole contornata da qualche inevitabile rughetta d'espressione.

«Frank, che ci fai qui?» Domandò, piegando un po' il capo verso destra. «I ragazzi non ci sono ancora..» Ecco, in quel momento il ragazzo si sentì l'ultima ruota del carro. Come se nessuno si fosse preoccupato di avvisarlo, perché tanto che importava? Che importava di lui, in effetti? Abbassò il capo, sentendosi un po' a disagio ad aver disturbato come un cretino. Prese un respiro profondo e guardò Donna nuovamente.

«No, mi.. mi 'spiace. Posso anche andarmene, davvero..» Replicò, cominciando a frugare nella speranza di trovare in tasca il telefono: almeno si sarebbe regolato con gli orari e avrebbe girato un po' in città, ora che era in centro. Il dispositivo cominciò a vibrare all'accensione, e Frank non riuscì a non sentirsi in colpa per quello che aveva anche solo pensato quando trovò dieci chiamate perse da parte dei quattro e alcuni messaggi che lo avvisavano che le prove erano rimandate all'ora successiva. Lo ripose in tasca, già pronto all'idea di girare per almeno sessanta minuti.

«Ma che dici, entra!» Lo invitò, con un sorrisone quasi comico stampato in volto: Frank si era definitivamente dimenticato del “piccolo”dettaglio che Donna era diventata parte dello scherzo dopo che Mikey e la sua lingua lunga non erano riusciti a trattenersi dallo sputtanare tutto ai quattro venti. Forse la possibilità di girare in tondo era decisamente migliore che quella di subirsi un interrogatorio lungo un'ora a proposito di una relazione che nemmeno esisteva. Frank cominciò a scuotere il capo, blaterando già dei ringraziamenti affrettati, quando di nuovo la signora lo interruppe. «Insisto! Infondo sei il ragazzo di mio figlio e in più a quanto pare sei quello che abita più lontano, perciò.. entra!» Si spostò dalla porta, lasciando al ragazzo la possibilità di entrare, che dopo quello che aveva detto, non poteva proprio rifiutare senza sembrare il più grosso ingrato sulla faccia della terra. C'era qualcosa nella madre di Gerard e Mikey che non si poteva semplicemente ignorare; specialmente dopo averla conosciuta meglio, si era reso conto che non si trattava solo di quell'espressione rugosa che ispirava una simpatia non indifferente e quei capelli un tempo biondi che ora erano solo tinti, ma della cura che si prendeva di tutti. Era semplicemente buona, e questo non lo si poteva negare in alcun modo.

«E va bene, grazie- grazie mille..» Sospirò, facendosi strada a testa bassa in quel salotto che ormai conosceva così bene. Donna sorrise, probabilmente già pianificando centomila domande da fare al ragazzo, visto il modo in cui di solito Gerard provava a scappare da esse.

Entrambi si accomodarono al tavolo che c'era in salotto, sistemandosi in modo da essere l'uno di fronte all'altra. Donna, in perfetto stile Way, gli offrì più o meno qualsiasi genere di cibo possibile e immaginabile, ma Frank accettò solo un semplice bicchiere d'acqua nonostante da un momento all'altro sarebbe crepato di fame: era okay il non sentirsi a disagio quando i suoi non c'erano -e credetemi, non c'erano praticamente mai- oppure quando si trattava semplicemente di salutarli di tanto in tanto quando si trovava a girare per casa, ma questa era completamente un'altra situazione.. una di quelle che Frank non sapeva bene come manovrare.

«Ti dispiace se ti chiedo delle cose? Gerard mi evita sempre quando proviamo a scambiare due parole..» Ridacchiò, ed il ragazzo annuì, deglutendo quando sentì quella chiara conferma di ciò che più temeva. Donna gli sorrise di nuovo, girando il cucchiaino del suo tè mentre probabilmente pensava a qualche modo per metterlo a disagio, anche non intenzionalmente. «Beh, vediamo, come vi siete conosciuti?» Inclinò di nuovo il capo, e Frank cominciò a pensare che forse era quasi un tic.

«Umh.. a.. ad una festa..» Sì, insomma, infondo era vero. Preferiva decisamente tenere la storia il più realistica possibile, perché già il loro fidanzamento era una cazzata piuttosto grande e difficile da gestire. «Tramite.. umh.. amici comuni.» Di certo non gli poteva dire che Gerard gli era piombato addosso da ubriaco, perciò.. meglio così. La donna sorrise ancora di più, e stranamente non sembrò notare il tono poco convinto di Frank, che decise di andare avanti ad ogni modo. «E siccome sapeva che suonavo, mi ha.. mi ha chiesto di far parte del gruppo ed ho accettato, tutto qui.» Fece spallucce, abbozzando un sorriso.

«E come siete finiti insieme?»

«Credo.. che.. umh.. cioè.. è semplicemente capitato? Insomma, gira e volta uno.. ecco.. io..» Il ragazzo rispose, arrossendo. Okay, la cosa si faceva veramente troppo strana. Si aggiustò sulla sedia, cercando di abbassare il capo per non farsi notare, anche se probabilmente, se gli avesse chiesto il perché di tutta quella vergogna, avrebbe potuto dare la colpa all'imbarazzo di parlare così apertamente con la madre del “proprio fidanzato”, che in effetti sarebbe stato più che normale.

«E te l'ha chiesto lui o..?» E prima che Donna finisse, Frank pensò bene di prendersi la responsabilità. Non gli andava di mettere in bocca a Gerard parole che non aveva mai detto, specialmente perché sapeva che generalmente era una persona abbastanza timida -nonostante non lo avrebbe mai e poi mai detto dal loro primo incontro- e che se avesse detto a sua madre che era stato lui a proporsi, figuriamoci se lei gli avrebbe creduto. Dunque, ancora una volta, si prese la responsabilità di quell'enorme guaio che stava diventando un semplice scherzo..

«No, no, sono stato.. io..» Frank sorrise di riflesso all'enorme ghigno della signora davanti a lui, che, dal modo in cui reagiva man mano che qualche dettaglio veniva rivelato, sembrava non aver mai visto suo figlio con una ragazza (o.. beh.. un ragazzo). C'era qualcosa di contagioso nel sorriso di Donna; forse, in generale, era qualcosa nel DNA Way che riusciva puntualmente a fargli curvare le labbra in quella specie di smorfia che ormai era linguaggio universale, e nonostante non sapesse precisamente cosa, non se n'era mai e poi mai lamentato.

«Cosa ci troverai mai in un rompipalle come mio figlio?» Domandò, ridacchiando con un'espressione raggiante, e Frank si sentì quasi in colpa nell'essere consapevole che una cosa che la rendeva così felice non era altro che uno scherzo. Forse era divertente con i ragazzi, ma così.. così era una vera e propria cattiveria. Cercò di abbozzare un sorriso e pensare: in effetti, cosa ci trovava in un rompipalle come Gerard? Certamente un grande amico -se non il suo migliore amico-, ma come fidanzato? Dio, Frank avrebbe voluto che Gerard lo fosse davvero, ma..

«Beh, sarà un rompipalle, ma almeno è un bravo ragazzo, no? Mi.. mi tratta bene, è premuroso, cioè, io.. ci tiene, ecco tutto.» Si strinse nelle spalle, osservando nuovamente la faccia della madre del “suo fidanzato”. Sembrava soddisfatta: e forse non soddisfatta del fatto che suo figlio “avesse trovato un ragazzo che ci teneva a lui”, ma più del fatto che qualcuno avesse davvero definito suo figlio in quel modo. Che qualcuno pensasse davvero cose così belle di lui, perché davvero, da quello che Gerard gli raccontava di solito, non aveva mai avuto dei veri amici.. figuriamoci poi fidanzate/i. Subito, quando venne a conoscenza di quel “dettaglio” della sua vita, sentì una brutta sensazione all'altezza del petto che forse non era altro che malinconia.

La donna prese un sorso dalla sua tazza di tè, poi un altro, Frank si lasciò coinvolgere e accettò un biscotto, e forse si lasciò coinvolgere (un po' troppo) anche dall'idea di avere una storia con Gerard. Il resto di quell'ora, insomma, passò stranamente veloce: il ragazzo si sentiva a suo agio, ormai, anche a parlare di una cosa del genere, nonostante ci fosse sempre quella nota di rimorso nello star prendendo in giro una donna così gentile ed entusiasta della felicità del suo figlio maggiore: quello che, a giudicare dalle foto che rispettando il tipico cliché gli aveva mostrato, da piccolo non aveva avuto nessuno se non la sua famiglia. Madre, padre, fratello, ma soprattutto la nonna, che a quanto pareva, era il motivo per cui ora Gerard e Mikey non erano a casa e per il quale nemmeno i loro genitori ci passavano molto tempo. A Frank dispiaceva che non gli avesse mai detto che stesse male, perché.. ecco.. si sentiva come se non si fidasse di lui: come se non si fidasse abbastanza da dirgli una cosa così importante. Eppure non lo avrebbe forzato, affatto; avrebbe solo trovato il modo ed il momento giusto per chiederglielo, senza ovviamente fargli notare che sapeva già tutto a proposito di Elena, così si chiamava.

Improvvisamente il campanello suonò, quasi a mettere ancora più in evidenza il fatto che il tempo era letteralmente volato e che Frank si era divertito anche un po' troppo a parlare del suo ragazzo immaginario, e quando Donna si alzò ad aprire la porta e Mikey e Gerard entrarono in casa, a giudicare dall'espressione di quest'ultimo, il ragazzo non era l'unico che si stava chiedendo come avrebbero dovuto comportarsi ora. “Mamma Way”, infatti, sembrava già aspettarsi qualcosa di più del semplice saluto con la mano che si erano scambiati, e non aveva proprio tutti i torti: insomma, ora che non c'erano nemmeno gli amici a fare facce disgustate, chi li avrebbe fermati?

«Frank, abbiamo provato a chiamarti ma a quanto pare sei troppo coglione per accendere il cellulare!» Esclamò Mikey, andandosi subito a sedere sul bancone della cucina mentre il più grande dei fratelli era ancora lì, paralizzato all'entrata della porta. Gerard. Era. In ansia. Insomma, c'era una parte di lui che avrebbe voluto baciare Frank (perché che cavolo, il tempo passava ed erano sempre così vicini che stava impazzendo), ma c'era un'altra parte di lui che gli diceva che forse era meglio evitare, e..

«Ciao Gee.» A interrompere il filo dei suoi pensieri fu Frank, che lo salutò con una voce un po' troppo languida. Okay, era definitivamente entrato troppo nel personaggio. Come quella attrice in una creepypasta che gli aveva raccontato suo cugino più grande, che recitando la parte di una serial killer, si trovò ad uccidere l'intero cast. Frank rabbrividì al pensiero di quelle serate di quando lui aveva otto anni e suo cugino tredici e puntualmente andava a letto terrorizzato per via delle cazzate che gli raccontava, ma pochi secondi dopo, si trovò a rabbrividire ancora di più per il contatto fermo e saldo delle labbra screpolate di Gerard sulle sue. Ebbene sì, quando aveva risposto al saluto e si era avvicinato così vertiginosamente a lui, Frank non se n'era nemmeno accorto, immerso com'era nei suoi pensieri, e ora doveva anche cercare di sembrare rilassato; come se fosse una cosa che facevano tutti i giorni. In effetti si rese conto solo in quel momento anche del fatto che in nessun modo le loro labbra si stavano muovendo, e forse era meglio così, perché, insomma- era quello il tipo di bacio che ci si dava di fronte a dei genitori, per fortuna. Gerard si allontanò con uno stupido rumore schioccante ancora prima che potesse rendersi conto di quello che era successo, e se Mikey aveva finto di versarsi un bicchiere di latte pur di rimanere distratto durante quella frazione di secondo in cui si erano “baciati”, Donna sembrava non essere mai stata così contenta. Come se avesse avuto bisogno di quella conferma per credere a quello che Frank gli aveva raccontato quel giorno.

«Okay ragazzi..» Disse la signora mentre si alzava, sorreggendosi con le mani al tavolo ed emettendo il tipico sospiro da “sforzo” delle persone in età un po' avanzata. «Io vi do' il cambio da nonna!» Continuò, dirigendosi verso il divano. Si mise in spalla la borsa e dopo qualche ultima raccomandazione, si accinse ad uscire dalla porta, seguita qualche secondo dopo da Mikey.

«Io vado a prendere i ragazzi in macchina, Gerard, oggi è il mio turno.» Disse, seguendo sua madre fuori dall'uscio come se rimanere con una “coppietta” fosse l'ultima cosa che volesse fare. Entrambi salutarono, e quando la porta si chiuse alle loro spalle, Frank e Gerard aspettarono il giusto numero di passi prima di scoppiare a ridere.

Frank cominciava a capire perché il suo cuore fosse lì, ma più lo capiva, più capiva che era fottuto.

 

**

 

Così come era arrivato, Gerard, era anche andato; questa volta non a trovare sua nonna in ospedale, ma fra le braccia di Morfeo. Non gli aveva chiesto spiegazioni riguardo alla sua assenza, conoscendo già il verdetto che avrebbe ricevuto, ma non riusciva a smettere di pensare al fatto che sarebbe stato bello che glielo dicesse di sua spontanea volontà. Sarebbe stato bello se avesse condiviso anche gli aspetti meno belli della sua vita con lui, ma, nonostante tutto, Frank pensò che forse doveva essere lui il primo a farlo, e con l'arrivo del compleanno di suo padre, un paio di idee che di certo avrebbero funzionato cominciarono ad affollarsi per la sua mente.

Era un evento più unico che raro che Gerard dormisse: non sapeva perché, ma ogni volta che si svegliava di notte per bere -cosa che capitava abbastanza spesso, a dire il vero-, lo trovava sempre molto lontano dal sonno e anche piuttosto lucido. C'erano volte in cui non lo trovava e basta, e quelle erano le volte in cui si girava dall'altro lato del letto e smetteva di pensarci, convincendosi che fosse semplicemente andato al bagno. Uno dei lati positivi del dormire tutti ammassati nel basamento del ragazzo era che, in effetti, conosceva le abitudini in fatto di sonno di tutti e quattro i suoi compagni di gruppo. Non sapeva perché, ma aveva sempre avuto uno strano interesse riguardo l'argomento, specialmente da quando si era convinto che il modo in cui qualcuno dormiva, rappresentava in qualche modo il suo carattere e il suo tipo di vita. Per esempio, -ma casualmente-, Gerard: non lo vedeva mai dormire perché era uno spirito libero, in un certo senso. In quelle due settimane che avevano passato insieme, lo aveva capito senza troppi problemi. Era iperattivo nel senso buono della parola, era una di quelle persone che aveva un continuo flusso di ispirazione e che, in qualche modo, ti ci avvolgeva dentro e te ne rendeva partecipe anche solo con la sua presenza. Parlava, continuamente, ed era shoccante la quantità di cose che aveva da dire e quanto tutte queste fossero giuste, e non mancassero mai di un ragionamento alla base. Era per queste caratteristiche che in effetti, si era guadagnato inesorabilmente un posto nel suo cuore; se non come cotta, come lo aveva catalogato sempre, almeno come migliore amico. Era assurdo dirlo dopo così poco tempo, ma anche ai suoi vecchi compagni di band, non aveva mai concesso quell'appellativo, così come a nessuno che prima di quel momento- Frank non aveva mai avuto un migliore amico per definizione, ora che ci pensava, e questo era perché aspettava una persona come Gerard. Aveva passato una vita intera a seguire qualcuno, e, anche se, in qualche modo, lo stava facendo anche ora, era sicuro che pian piano stesse imparando anche a guidare. E questo era perché aveva finalmente trovato qualcuno che era disposto ad insegnarglielo.

Frank invece dormiva, ma sin da piccolo, il suo sonno era sempre stato tormentato: non riusciva a dormire per più di due ore di seguito, e se lo faceva, veniva tormentato dai peggiori incubi possibili. Con il tempo aveva capito che questo era probabilmente perché, in effetti, non era una persona tormentata solo quando si trattava di dormire. Era facile fingere di essere superficiale, a volte, -e quindi dormire-, ma quando si svegliava, ahimè, di facile c'era ben poco. Gli incubi, invece, aveva deciso di attribuirli semplicemente alla sua vena un po' macabra.

Anche Gerard, in quel momento, sembrava avere degli incubi;

Frank non si sarebbe mai perdonato quello che stava facendo, perché spiarlo mentre dormiva era a dir poco ridicolo, ma non poteva perdersi l'occasione (più unica che rara) di vederlo in un momento così personale, un momento in cui era debole e senza difese, e così se ne stava seduto sulle scale di quella ex-cantina, pronto ad andarsene se fosse stato necessario, con gli occhi fissi sullo spettacolo che era in atto a qualche passo da lui.

Gerard aveva un modo tutto suo di dormire: non era il classico bocca appena aperta ed espressione tranquilla. Lui aveva le labbra chiuse, quasi saldate e respirava a pieni polmoni (nonostante fosse impossibile sentirlo, Frank lo capiva dal modo in cui la sua cassa toracica si riempiva e si svuotava) ed era chiaro che in quel momento era nel bel mezzo di un sogno. O come aveva ipotizzato poco prima, un incubo. Il ragazzo si avvicinò appena, determinato a scoprirlo (e a non essere scoperto, anche), e quando si trovò a qualche centimetro di distanza da lui, non riuscì a trattenere un pensiero un po' più frivolo di quelli che aveva formulato prima;

Gerard era bellissimo.

Dentro e fuori, ovviamente, ma se aveva rimuginato così tanto sulla sua bellezza interiore, poco si era fermato su quella esteriore, per paura di ammettere a sé stesso che forse -ma solo forse-, era completamente morto dietro quel ragazzo. Non era della bellezza tipica, e questo era per certo: Frank, in generale, non sapeva quale fosse esattamente la bellezza tipica dei ragazzi, perché insomma, non credeva che gli piacessero. In generale, non avrebbe mai creduto che gli sarebbe potuto piacere un ragazzo, fino a quella sera del dodici agosto, ma quanto aveva incrociato lui, si era a dir poco ricreduto. Quando aveva incrociato quella massa di capelli neri e spettinati, quegli occhi verdi/marroncini, il pallore della sua pelle e la forma un po' strana del suo naso e della sua bocca, non era riuscito a trattenersi dal pensare la stessa cosa della quale, nel vederlo così vulnerabile, aveva trovato conferma. Erano bellissime quelle sue stupide ciglia così lunghe da sembrare quelle di una ragazza, quella specie di macchiolina rossa un po' sotto l'occhio, e persino le sue forme mingherline a piuttosto.. morbide?

Frank prese, senza muoversi troppo, la sedia della scrivania del ragazzo, posizionandola proprio accanto al suo letto. Gerard emise uno strano rumore che in un primo momento lo fece sobbalzare: se si fosse svegliato in quel momento, sarebbe stato a dir poco fottuto. Non c'era modo in cui avrebbe potuto negare che lo stesse guardando mentre dormiva, eppure, quando si rigirò dall'altro lato, Frank tirò finalmente un sospiro di sollievo e trovò conferma alla sua teoria: stava avendo un incubo. Avrebbe voluto entrare nella sua testa e sapere cosa stesse succedendo di così brutto da farlo smuovere in quel modo, da fargli emettere quei versi così simili a lamenti, avrebbe voluto poterci fare qualcosa. Avrebbe voluto vederlo dormire serenamente, accarezzargli la guancia -per quanto smielato potesse suonare-, baciargli la fronte e mettersi a dormire accanto a lui. In quelle circostanze, anche se non si fosse mai più svegliato, non si sarebbe nemmeno lamentato.

Purtroppo, ad interrompere quel momento così apparentemente idilliaco, furono dei rumori al piano di sopra. Frank mise di fretta e furia la sedia al suo posto, arrivando alla conclusione che probabilmente erano Mikey e Ray -visto e considerato che Matt “si era sentito male”-. A malavoglia svegliò il ragazzo, così almeno avrebbe avuto una scusa per essere lì, e si precipitò avanti ed indietro alla ricerca di qualcosa che potesse essere un indizio di quello che aveva fatto fino a quel momento: cioè, essere disgustosamente inquietante e invadente. Solo in quel momento si ricordò che in effetti, erano “fidanzati” e che poteva fare quel che cavolo voleva, con lui. Sorrise, osservando il modo in cui piuttosto che svegliarsi, il ragazzo non aveva fatto altro che girarsi dall'altro lato e lamentarsi. Si avvicinò, mettendosi in ginocchio accanto al letto così da trovarsi alla sua stessa altezza. Gli stuzzicò più volte la spalla, gli tirò un po' i capelli, e finalmente si voltò, anche solo per guardarlo.

«Gee, dai.» Frank gli sorrise, voltandosi verso la porta quando lo spiraglio di luce che proveniva da essa fu parato da due corpi. «'Giorno..» Si morse il labbro, come se fosse appena stato “colto nel sacco”, e in quel momento si rese conto di aver toccato il fondo: era ufficialmente l'essere umano più vile e patetico al mondo. Far finta di essere fidanzato con Gerard invece di dirgli semplicemente che gli piaceva era la cosa più ridicola che fosse mai successa in tutta la sua vita sentimentale (nonostante non fosse stata poi così varia), e su questo poteva metterci la mano nel fuoco.

«Gerard, non ci crederai mai.» Cominciò Mikey, gesticolando, come se volessero giustificare il loro ritardo (del quale, almeno a Frank, non importava proprio nulla). Il più grande dei fratelli sembrò ritornare cosciente, alzandosi quel minimo che bastava per guardare i ragazzi e poggiandosi sui gomiti, sbadigliando silenziosamente e stropicciandosi gli occhi di tanto in tanto.

«Cosa, Mikey, hai visto l'ennesimo ufo?» Domandò, voce ancora assonnata e molto poco coinvolta. Frank si rese conto che era ancora lì, inginocchiato davanti al letto di Gerard, e pensò bene di alzarsi, mettendosi a sedere sulla scrivania nonostante non fosse proprio un peso piuma mentre i due si facevano posto in quella che ormai era un po' la camera di tutti, facendo più luce possibile giusto per mettere in chiaro che l'ora della nanna era finita da un bel po'.

«Oh, no, Gerard, credimi, questo è più pazzesco di ottocento alieni messi insieme.» Lo avvertì Ray, con la sua voce squillante che svegliò definitivamente il cantante dal suo letargo inaspettato. Gerard si mise in piedi, lentamente, e per un secondo Frank avrebbe giurato che stesse per cadere all'indietro. Sorrise al pensiero, decidendo di prendere finalmente parte alla conversazione.

«Mikey sta per avere un bambino?» Domandò, scherzandoci sopra e girandoci intorno.

«Mikey no, ma siamo più perplessi per suo frat-» Ray non ebbe nemmeno il tempo di finire la frase, che si trovò interrotto da una gomitata da parte di Gerard, che fortunatamente stava almeno ridacchiando: se si fosse scocciato di quella faccenda, davvero, Frank non avrebbe saputo cosa fare. Come comportarsi intorno a lui senza non poter nemmeno fare finta che ci fosse qualcosa, come parlargli, come andare avanti col peso di essere cotto del suo migliore amico.

«Dici che quelli di MTV sarebbero interessati alla nostra storia?» Chiese con occhi languidi Gerard.

«Decisamente sì.» Interruppe Mikey al posto di Frank, prima ancora che potesse aprire bocca. «Qualcuno invece è interessato alla mia?» Domandò, sbuffando. Non che non volessero saperlo, ma si erano semplicemente dimenticati che stesse parlando. Tutti accordarono senza articolare troppe frasi inutili, concedendogli finalmente il “permesso” di parlare. Si sedette sul letto dove poco prima c'era suo fratello, prima di cominciare ad enunciare. «Qualcuno stava buttando un flipper, di quelli modello anni ottanta, e dei DVD.. per quelli voleva farsi pagare e ne ho potuto salvare solo uno, ma cazzo, come puoi?» Alzò gli occhi al cielo, e dall'espressione che fece, Frank si rese conto che per lui (e un po' anche per l'altro dei due Way, che poco dopo lo imitò) quello sarebbe stato un motivo sufficiente a scatenare qualcosa come una Terza Guarda Mondiale.

«Dovrebbe essere un crimine contro l'umanità buttare qualsiasi cosa provenga dagli anni ottanta. Non scherzo.» Si allarmò il più grande, occhi sgranati mentre metteva in ordine alla bell'e meglio i disegni sul suo tavolo da lavoro. «Spero che come minimo ve lo siate caricato in macchina, oppure temo che la nostra amicizia potrebbe finire qui.» Cominciò con tono così serio che se non fosse sicuro al 99% che facesse parte dello scherzo, gli avrebbe creduto. Sfoggiò un sorrisone, e Frank scoppiò a ridere senza nessun preciso motivo.

«Dopo vari tentativi ci siamo riusciti.. o meglio, ci sono riuscito mentre tuo fratello urlava per il dolore “al pollice che si era rotto”!» Puntualizzò Ray, suscitando ilarità collettiva, anche da parte del menomato Way.

«Che film buttavano?» Si ritrovò a chiedere Frank, riportando l'attenzione su quel dettaglio che avevano così ampiamente tralasciato durante la febbre da flipper (che poi, avrebbe mai funzionato funzionato? Probabilmente a nessuno dei sue due nuovi proprietari importava). Mikey schioccò le dita nella sua direzione, come se gli avesse appena ricordato qualcosa di “vitale importanza”, estraendo da una bustina che era rimasta dimenticata sulla scrivania di Gerard una copia di “Trainspotting”. Frank sbuffò: se c'era un film che non sopportava, lo avevano trovato. «Bhe, non avevano tutti i tort-» Cominciò, ma non ebbe neppure il tempo di finire la frase che si trovò tagliato.

«Oddio, Frank, ma scherzi?» Domandò Gerard, occhi sgranati ed eccessiva teatralità.. non che quella fosse una novità, poi. «Capisco che la trasportazione cinematografica non è stata il massimo, ma con un libro del genere, Dio, il mio libro preferito, io- Cristo.» Sbuffò, così preso dal suo monologo che per poco il ragazzo non scoppiò a ridere.. e non fu l'unico nella stanza. «Frank, devi vederlo.» Disse, dopo un breve momento di silenzio.

«Ho letto il libro un po' di tempo fa perché mia zia ha una specie di cotta da teenager per il cervello di Irvine Welsh e l'ho odiato. Chiedo perdono?» Dio, l'effetto che gli facevano le critiche di Gerard. Anche quando non erano propriamente critiche, a dire il vero- basava che non fossero d'accordo su qualcosa, e gli crollava il mondo addosso. Ed era, inutile dirlo, a dir poco la cosa più ridicola che gli fosse mai successa.

«Ehi, Frank, lascia stare, se la prende tanto perché per lui è quasi biografico..» Ridacchiò Ray, e nonostante Mikey lo seguì a ruota, gli unici non divertiti sembravano proprio lui e Gerard stesso. Quest'ultimo fulminò tutti e tre con un'occhiataccia, e Dio, nonostante fosse sicuro che il momento sarebbe arrivato, non pensava che sarebbe arrivato così; aveva evitato di dire a Frank che aveva dei “problemi”, e ora saltava fuori così? Ridendo e scherzando? Sapeva che non era finita lì. Sapeva che avrebbe chiesto spiegazioni, perché era palese che in quella stanza fosse l'unico a non aver capito per cosa, esattamente, fosse calato quel clima così astioso, ma sperava che gliele avrebbe potute dare nel giusto modo, sperava di dirglielo lui, così non sarebbe stato dalla parte del torto del tipico amico che non è del tutto sincero, eppure, evidentemente, aveva aspettato troppo. Sospirò, ormai visibilmente innervosito. Questo non era il momento giusto per parlarne: lo sapeva.

«Ve ne andreste tutti, per cortesia?» Chiese, dopo un silenzio imbarazzantemente lungo.

Ray e Mikey, se ne andarono senza fare un cenno: sapevano di essere colpevoli e di aver toccato un argomento delicato per lui in un modo poco adatto, ma Frank, dal suo canto, rimase paralizzato, cosciente del fatto che era all'oscuro di qualcosa e che, nonostante non avesse fatto nulla, davvero, si ritrovava vittimizzato allo stesso modo.

«'Key, umh, ciao eh..» Sussurrò appena, biascicando con le parole e cercando di dare un senso a quelle che poco prima aveva pronunciato l'altro chitarrista: “biografico”. Continuò a chiedersi cosa potesse esserci di biografico per Gerard in un film che parlava di problemi di alcool, droga, e poi in quel momento lo colpì, come una doccia fredda nel mese di Febbraio. Uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle e appoggiandocisi contro come se avesse bisogno di sostegno per non cadere.. cosa che in effetti, era più che vera.

Il loro primo incontro, ora che ci pensava, si spiegava da solo. E forse anche il fatto che in quegli unici tre o quattro show che avevano suonato Gerard fosse sempre molto poco capace di intendere e volere, doveva fargli capire che infondo, dietro tutto quello, c'era qualcosa. Frank prese un respiro profondo e si allontanò dal seminterrato del ragazzo prima di lasciarsi prendere da una crisi di nervi.

Quella era la seconda volta che gli nascondeva qualcosa.

 

**

 

Hollaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaoifejiofjegjer!

Questo è uno dei capitoli già scritti, ho avuto a malapena il tempo di rileggerlo anche se credo sia tutto giusto, ma in ogni caso, non esitate a farmi notare eventuali errori. (?)

Il titolo è preso da 27 dei Fall Out Boy (tantoamore), e ho spudoratamente inserito la stessa citazione anche nel testo del capitolo stesso. Spero non ci siano troppi errori e robe così, sciaooo çwç

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** As we stop becoming friends and we start.. ***


 

5. As we stop becoming friends and we start..

 

 

 

Non appena Frank riuscì nuovamente a mettere piede in camera di Gerard, entrambi si scusarono. Era ovvio che c'era, fra i due, qualcuno che non aveva nulla per cui scusarsi, ma d'altronde era più equilibrato che litigare, e nonostante la curiosità e le domande a proposito della cosiddetta questione fossero ancora tante, rimasero celate: alla fine lui chi era per dirgli quel che doveva fare?

Certo, era brutto saperlo. Era parecchio brutto saperlo, ma ancora peggio era sapere che aveva preferito non dirglielo. Come se se ne vergognasse. Frank era dell'idea che se c'era qualcosa che Gerard non avrebbe mai dovuto fare con lui, era vergognarsi di sé stesso. Perché era al cento per cento sicuro che avrebbe probabilmente accettato qualsiasi aspetto della sua personalità o di lui stesso, o di qualsiasi cazzo di cosa in generale. Non che fosse perfetto: al contrario. Era semplicemente Frank, che stupido com'era, non riusciva ad odiare nulla di lui.

Era tutto tornato incredibilmente alla normalità nel giro di due giorni. Per quanto quella si potesse chiamare “normalità”. E alla fine, che cos'era normale? E cosa non lo era?

Il momento in cui decisero di farla finita con quello scherzo, che dopo quella piccola parentesi di rivelazioni e mezzi-litigi aveva fatto diventare la situazione ancor più ambigua di quanto non fosse, fu più o meno una settimana dopo. La cosa aveva cominciato a farsi un po' troppo seria e credibile ed entrambi erano sinceramente preoccupati di raggiungere il “punto di non ritorno”, il quale, una volta superato, avrebbe portato tutti a credere che stessero davvero insieme. Qualunque cosa avessero detto. E a dire il vero, non c'era da biasimarli, a giudicare dal modo in cui si erano lasciati coinvolgere: Gerard lo sapeva che spesso si comportavano come una coppietta anche in situazioni che non lo richiedevano per la buona riuscita del loro (si poteva dire suo, alla fine) piano, e nonostante non ce ne fosse mai stato uno, (se non, se ne era reso conto troppo tardi per fermarsi, approfittarsi di Frank e togliersi quell'enorme sfizio di vedere come sarebbero state le cose con lui) probabilmente a quel punto ci era arrivato anche l'altro.

Era successo quando, quattro sere prima, si erano fermati a guardare la TV insieme mentre tutti dormivano e senza nessun preciso motivo se ne stavano stretti l'uno all'altro nonostante Frank ridesse convulsamente ogni cinque secondi, era successo quando quella stessa mattina per poco non si erano tolti il pigiama insieme, nella stessa stanza (cosa che avrebbe implicato il trovarsi nudi l'uno davanti all'altro), senza nemmeno accorgersene, come se fosse una cosa normale, che facevano tutti i giorni, e, quasi come a confermare che non era solo una loro impressione (e questo Frank non lo sapeva, per fortuna), era successo quando la madre di Gerard gli aveva chiesto (ancora prima dell'”annuncio ufficiale”) con un sorriso raggiante se si fosse fidanzato.

E Gerard non voleva che questo succedesse più.

Non era stanco né nello scherzo e né di Frank, per carità, ma era stanco di avere sempre paura di oltrepassare la linea, di fare quel passo più lungo della gamba che avrebbe rovinato lui, la loro amicizia e sicuramente anche il gruppo. Non era biasimabile il fatto che entrambi cominciassero a provare delle strane voglie. Non per forza a livelli esagerati, ma anche solo baciarsi sarebbe stato abbastanza. Erano stati così spesso divisi da distanze a dir poco millimetriche che, fra fattori come il conoscere a memoria l'odore dell'altro, le punte dei nasi che si sfioravano e le fronti quasi “incollate” l'una all'altra, non faceva nemmeno più ridere. Spesso speravano segretamente che nessuno dei ragazzi cominciasse a lamentarsi o prenderli in giro pregandogli di staccarsi, nonostante quello fosse lo scopo iniziale.

Proprio per questo, fu Gerard a proporre la notte prima l'idea, giustificandosi con un semplice “non fa più ridere come prima, tanto vale preservare la sanità mentale di mio fratello e degli altri prima che vada a farsi fottere”, quando invece era tutto piuttosto complicato. Voleva togliersi qualcosa di cui ormai era quasi sicuro di avere una voglia matta pur di non rovinare ciò che già aveva (che in effetti, era sorprendentemente tanto, rispetto anche solo a qualche mese prima) e nella speranza che entrambi avrebbero semplicemente smesso di pensarci e buonanotte al secchio. Le cose più grandi, aveva capito, nascono sempre da una risata fra amici: di certo, l'inventore dell'aereo non avrebbe mai pensato che un giorno sarebbe stato effettivamente possibile di realizzare una cosa del genere. Probabilmente era anche un po' ubriaco, e ridendo e scherzando aveva avuto l'idea di una.. una macchina del cielo? Così il giorno dopo aveva continuato a scherzare, e pian piano aveva scoperto che forse non era così impossibile. Poi da un momento all'altro si era ritrovato ad avere fra le mani qualcosa di più grande di lui, e non poteva più tirarsi indietro. E improvvisamente la gente non riusciva a fare a meno di una cosa della quale pensava che non avrebbe mai avuto bisogno.

Dunque, non appena trovarono la chance, organizzarono un gran finale in piena regola.

Fecero finta di litigare. In maniera davvero, davvero, davvero pesante. Roba che ad un certo punto, Frank finse di tirargli un pugno. Non che non avesse voluto; infondo aveva accettato il verdetto e la fine di tutto, ma non poteva negare che probabilmente la stava prendendo un po' troppo sul personale. Che poi, oltre al fatto che adesso non avrebbe avuto la minima idea di come comportarsi intorno a lui, ma perché doveva essere lui a beccarsi le corna? Soltanto perché lo aveva detto una stupida monetina. “Testa o croce non mente mai”, citando Gerard, e si rese conto di quanto la situazione fosse effettivamente realistica. Non si sarebbe mai e poi mai permesso di tradire qualcuno- chiunque. Che si trattasse di Gerard (e che tutto fosse cento o duecento volte amplificato, dalle paranoie alle farfalle nello stomaco), era solo un caso. E peggio ancora, non sapeva mentire. Non capiva come fosse capace di continuare a farlo ogni santissimo giorno a sé stesso, dicendo che non gli importava, cercando di ripetersi che il motivo per cui avevano detto basta era veramente quello e che assolutamente nessuno si fosse scocciato di lui e che andava tutto bene.

Frank cercò addirittura di sorridere quando arrivarono i ragazzi a staccarli dal loro agguerritissimo match di finti pugni e schiaffi, ma solo ed unicamente perché Gerard stava ridendo e perché effettivamente lo scopo iniziale di tutto quello, era proprio farsi una risata. Cercò di sorridere quando invece voleva piangere, in tutta onestà, e continuò a ripetersi che non significava nulla. Capì però che non era vero, e quel che in tutta onestà non capì, fu il perché.

Si chiese oggettivamente perché dovesse sempre mettersi in quelle situazioni.

“Frank, non ti conosco, ma vuoi entrare nella mia band?”

“Ovviamente!”

“Frank, che ne dici se cominciassi ad essere la persona migliore del mondo e non la smettessi di starti accanto un solo secondo nonostante tu non mi piaccia?”

“Perché no!”

“Frank, ti va se facciamo finta di stare insieme nonostante io ti faccia impazzire? Perché infondo illuderti è così divertente che non riesco davvero a farne a meno!”
“Con gioia!”

E in quel momento, se fosse stato come alle elementari, avrebbe avuto la coccarda blu per l'idiota dell'anno e l'adesivo a forma di stella come premio per la recitazione, perché se c'era qualcosa che stava imparando a fare, era esattamente mettere una maschera ed affrontare ogni giorno quella situazione. Perché nonostante Gerard gli stesse insegnando tante cose anche solo esistendo, non c'era che dire: mentire era esattamente una di quelle, e nel mondo reale, quello in cui non erano solo loro due, un piumone, la notte stellata e una sigaretta, quella era la più utile di tutte.

 

**

 

«Sei sicuro che non esci?» Chiese -urlò- Mikey dall'altra stanza per la centesima volta. Era strano come sembrava non fosse cambiato assolutamente nulla. Gerard sobbalzò, mandando anche abbastanza a puttane il disegno che stava facendo distrattamente. Frank, invece, continuava a rotolarsi nervosamente a letto, troppo abituato al silenzio che era calato dopo l'annuncio. Il più grande diede un veloce sguardo al malato che si trovava fra le sue coperte, decidendo che no, non poteva semplicemente andarsene così. Sospirò, abbastanza combattuto, ma rifiutò l'offerta ad ogni modo.

«Sì, sicuro!» Urlò allo stesso modo per farsi sentire da suo fratello, sicuro che se avesse avuto i timpani rovinati anche solo un quarto di quanto lo erano i suoi -trovarsi fra cuffie e amplificatori per giornate intere non era proprio un toccasana-, non lo avrebbe mai sentito con un tono di voce normale. «E per la cronaca, è cattivo anche da parte vostra andarvene.» Continuò, più a basso tono, pentendosi subito di averlo detto e sperando vivamente che non lo sentisse. Frank, in tutta risposta, gli lanciò un cuscino prima di emettere altri suoni contrariati.

«Non lo ascoltare, uscite!» Urlò con la faccia schiacciata fra le coperte, ancora nel pieno del sonno e dell'influenza. Era già abbastanza sentirsi colpevole per aver trattenuto Gerard, figuriamoci se fosse stato la causa della rovina della serata per tutti. Aprì lentamente gli occhi, voltandosi sul fianco per guardare il ragazzo seduto a terra accanto al letto, sospirando nel vederlo ancora lì mentre Mikey li salutava, chiudendosi alle spalle la porta di casa con un tonfo che risuonò anche lì. Solo in quel momento, sonno e shock di essersi appena alzato a parte, si rese conto di star meglio. Passassero il naso tappato e la tosse, ma almeno mal di gola e mal di testa erano sulla via di passare, e riuscì addirittura ad alzarsi (anche se solo per mettersi seduto accanto all'altro). «Sei proprio gay.» Disse, trattenendo una risata per via dell'inutile serietà di quella intera situazione.

«Eri più carino quando ti faceva male la gola.» Gerard gli disse, alludendo palesemente e con quel suo solito sarcasmo al fatto che fino a tre ore fa non riusciva nemmeno a parlare (ha, ha, ha) e voltandosi a fargli la linguaccia senza alcun preciso motivo. Frank ridacchiò, scuotendo il capo e trovandosi preso da un colpo di tosse all'improvviso, sentendosi uno degli esseri umani più patetici al mondo e maledicendo mentalmente il suo stupido sistema immunitario del cazzo. Nemmeno un bambino di un anno si ammalava spesso quanto lui, davvero.

«Sul serio, per quale motivo sei rimasto?» Chiese, insistendo ancora e rendendosi conto solo in quel momento di quanto sembrasse che lo stesse cacciando dalla sua stessa casa. Rimase in silenzio, pur non ricevendo alcuna risposta, determinato a tenere la bocca chiusa ed evitare di dire stronzate inopportune. Sospirò al ghigno frustrato dell'altro, lasciandosi scivolare ancora di più a terra in uno stato di semi-coma. Non si rese conto di quanto quel coma fosse effettivamente totale e non più tanto semi finché non riuscì nemmeno a registrare la transizione dall'avere la testa schiacciata contro il materasso all'averla sbattuta rumorosamente a terra, svegliandosi da un sonno nel quale non si era nemmeno accorto di essere caduto. Si guardò intorno disorientato, cercando di non pensare a Gerard che rideva fragorosamente di lui con tanto di lacrime agli occhi.

«Se non ti parlo per più di cinque minuti cadi in trance?» Chiese, continuando a blaterare complimenti ironici a sé stesso che Frank non era ancora in grado di capire, nello stato in cui si trovava in quel momento. «.. so di essere una persona interessante, piena di cultura, cioè, sono consapevole del fatto di essere un pozzo di spunti per una conversazione, per carità, ma non credevo che la mia assenza potesse portarti a..»

«Sta' zitto, Dio mio.» Lo interruppe il più piccolo con una risata così debole che per poco non si sentì, scherzando solo per metà. Gerard lo seguì a ruota, ridacchiando con un po' più di gusto dell'altro, che di nuovo prese a tossire, questa volta più forte e più ripetutamente. Il più grande gli diede due o tre pacche sulla schiena, dimenticando per un momento che quello si faceva quando qualcuno si stava affogando e non quando tossiva per motivi naturali. Il chitarrista si liberò definitivamente, tossendo un'ultima, leggera volta, e cercando in seguito di riprendere fiato.

«Tutto okay?» Chiese Gerard, forse eccessivamente preoccupato per una semplice influenza -lo aveva detto lui che la sua salute andava a puttane continuamente, infondo-, ricevendo un semplice cenno affermativo del capo come risposta.

«Andiamo a suonare?» Chiese, come se non avesse appena finito di tossire l'anima e come se due minuti prima non si fosse addormentato senza nemmeno accorgersene.. pur avendo passato buona parte del pomeriggio a letto. Gerard ci pensò seriamente, come se potesse davvero succedere qualcosa di male e ricordandosi tanto una di quelle madri apprensive che vedeva ogni volta che passava vicino l'asilo all'ora di uscita, e sospirò, alzandosi a porgendo la mano all'altro così da offrirgli il sostegno necessario per alzarsi. Frank eseguì, sentendo all'improvviso uno strano capogiro ma evitando fortunatamente di cadere.

Si avviarono in uno strano silenzio verso la cantina che avevano arrangiato come sala prove (la verità era che in effetti era la cosa che più si avvicinava ad una sala insonorizzata che fosse in loro possesso.. o almeno dei loro genitori), e, mentre Gerard era ancora impegnato a chiudersi la porta alle spalle, Frank si era già avviato verso uno strumento con il quale l'altro non lo aveva mai visto in mano. Accese con quel sonoro “tic” che il più grande adorava l'amplificatore, mettendosi seduto a terra con il basso di suo fratello poggiato sulle gambe. Alla “sopracciglia interrogativa” del ragazzo, l'altro semplicemente sorrise, cominciando a suonare un motivetto più che familiare: “Another One Bites The Dust” dei Queen, che qualche giorno prima si erano trovati a canticchiare senza motivo, senza intonazione e, se è per questo, senza ritegno. Gerard non sapeva suonasse il basso: probabilmente, in effetti, non lo suonava. Era semplicemente una di quelle cose improvvisate, che ti ritrovi a fare in un momento di noia più per ammazzare il tempo che per altro, eppure era incredibile, ma riusciva ad essere più bravo lui di quanto l'altro non lo fosse mai stato, pur dopo aver provato a provato per anni a suonare due misere note alla chitarra. Sospirò, convincendosi che la sua vocazione era -forse- il canto, e mettendosi seduto accanto a lui mentre lo ascoltava con un sorriso stampato in faccia.

«Se ti vedesse mio fratello ti castrerebbe.» Ridacchiò Gerard, pensando a quella volta che Frank aveva provato ad approcciare il suo strumento e per poco Mikey non si era fatto prendere da una crisi di nervi di quelle serie. Frank mandò di proposito a puttane la sua performance, voltandosi per sorridergli ancora più gioiosamente di prima -sembrava quasi che fosse il suo modo di ridere in un momento in cui non ne aveva le forze- e poggiando il basso a terra, alla sua destra.

«E' dall'anno scorso che provo a suonare questo cazzo di intro sulla chitarra, ma purtroppo ha sempre fatto cagare. Troppo stridulo. E tuo fratello è una checca isterica. No all'omofobia.» Disse, ironico, e il più grande non riuscì a trattenere una risata ai ridicoli periodi sconnessi del ragazzo. «Adesso nutrimi.» Protestò Frank, mettendo in evidenza il fatto che era a digiuno dalla pastina della sera prima -che con ottime probabilità aveva anche vomitato quella stessa notte-.

«Chi sono io, tua madre?» Sbuffò in una risata il più grande, avvicinandosi comunque al frigobar nel quale conservavano qualcosa da mettere sotto i denti durante le prove. Gattonò fin lì, troppo pigro per mettersi “addirittura” in piedi, aprendo la porticina e trovando nient'altro che un pacchetto di marshmallow un po' troppo freddi per essere commestibili e più Heineken del dovuto. Fece rifornimenti di entrambi e tornò al suo posto di prima trascinandosi sulle chiappe e spingendosi quando ce n'era estremo bisogno con le mani, ancora troppo poco motivato a mettersi in piedi. «Abbiamo questi, ma scadono fra cinque giorni e sono di ghiaccio.» Comunicò, provando a sbatterli e constatando che erano effettivamente abbastanza congelati da fare un rumore un po' troppo solido una volta a contatto col pavimento.

«Scorreggiaci dentro.» Suggerì Frank, con tono così serio e al contempo casuale che se Gerard non avesse potuto giurare che stesse scherzando, avrebbe eseguito gli ordini. Il più grande ridacchiò, cominciando almeno a stappare due di quelle che sarebbero state le prime di una lunga serie di birre. Brindarono, mandandosi a 'fanculo in giapponese (la scoperta del “cin-cin” era stata un brutto colpo) ed emettendo un rumore orrendo con i colli delle bottiglie.

«Potrei..» Cominciò Gerard, tornando distrattamente all'intellettuale discorso della scorreggia imbustata di prima. «..ma finirei con lo scatenare una guerra batteriologica o stronzate del genere.» Disse, ed il chitarrista non riuscì a trattenere una risata fra un sorso e l'altro. Guardò Gerard bere, e si ricordò improvvisamente della scoperta della settimana scorsa che aveva accuratamente lasciato correre, e, preso da un'improvvisa angoscia, smise di pensarci per la seconda volta e ci bevve (ironia della sorte) sopra. «A sedici anni l'ho fatto. Poi ho detto a Mikey di aprire la busta ed è collassato. Ci vieni al ballo di fine anno con me?» Continuò, e Frank aggrottò le sopracciglia in un'espressione interrogativa ma al contempo divertita. Gerard prese a ridacchiare, già un po' brillo dopo aver finito la prima bottiglia ad una velocità a dir poco esorbitante.

«Di che cazzo parli?» Lo interpellò il più piccolo, ridendo come se non si stesse seriamente preoccupando per la sanità mentale dell'altro quando si rese conto che non stava rispondendo.

«Mi chiedevo solo se le mie imprese eroiche sarebbero riuscite a convincere la cheerleader che invitai al penultimo anno a venire con me al ballo.» Continuò a ridere, questa volta con Frank partecipe. «Peccato che ne fosse all'oscuro, cazzo, io- vedo l'attrazione nei tuoi occhi, davvero, si vede a due chilometri di distanza che mi vuoi da matti, giuro.» Disse ironicamente, nonostante fosse all'oscuro di quanta verità ci fosse in quella frase. Frank rimase al gioco, decidendo che non c'era niente di male in qualsiasi cosa fosse quello che stavano facendo. Nonostante sapesse che c'erano ottime probabilità che se ne sarebbe vergognato a morte il giorno dopo, ovviamente.

«Io ci verrei al ballo di fine anno con te, giuro.» E wow, okay, non credeva che quello equivalesse esattamente a “flirtare” (per quanto quella parola gli suonasse così patetica che avrebbe preferito associarla ad un film di Sex & The City piuttosto che alla sua vita sentimentale), ma era così che si sentiva, al momento. Diciamo solo che in circostanze normali non avrebbe mai e poi mai detto una cosa simile, e che in quel momento più che mai, si sentiva ancora più confuso dall'intera faccenda dello scherzo e dal modo in cui era finito: Gerard aveva detto che era meglio finirla prima che prendessero certe abitudini un po' troppo da coppia e che si avvicinassero eccessivamente, eppure eccolo lì, che non faceva nulla per allontanarsi. Frank sospirò, scacciando via per la seconda volta dei dubbi che era totalmente normale avere e cercando di convincersi ad etichettarli come semplici stronzate. L'altro intanto aveva aperto la busta di caramelle, fissandole come se ciò le avresse aiutate a riscaldarsi. Frank gli sorrise.

«Potremmo alitarci dentro.» Constatò il più grande come se stesse seriamente considerando l'opzione, scoppiando a ridere pigramente più per mezzo della seconda bottiglia che si era già stappato che per altro. «Oppure potrei andare a prendere il phon in bagno.» Sospirò, lasciandosi cadere a terra e rimanendo steso fra cavi, strumenti e amplificatori, rendendosi conto solo in quel momento che il basso del fratello era ancora collegato e acceso. Stese un braccio verso di esso, suonando tutte le corde in una sola volta ed emettendo un suono osceno tanto per.

«La prima sarebbe igienica quasi quanto quella della scorreggia, e la seconda richiede di alzarsi, e se fossimo disposti a farlo potremmo anche trovare del cibo commestibile in cucina.» Disse il chitarrista, stupendosi del modo in cui stava riuscendo a reggere bene l'alcool quella sera.

E parlando di alcool, appunto, era l'unico da incolpare se un'ora e qualche sorso più tardi Frank era seduto a terra con la schiena completamente bloccata contro il muro e le gambe di Gerard ai lati delle sue, praticamente inginocchiato su di lui mentre si imboccavano a vicenda marshmallows in una delle situazioni più imbarazzanti e inappropriate di sempre. Si fermarono un secondo a guardarsi, immobili, finché Gerard non si avvicinò vertiginosamente all'altro, così tanto da sentire il battito accelerato del suo cuore ed il respiro irregolare. Ormai era così ovvio quello che sarebbe successo, che Frank sentiva già il calore di un altro paio di labbra sulle sue.

«Nonna, che bocca grande che hai.. Disse, citando stupide favole per bambini senza sapere nemmeno il perché, perdendo tempo in una maniera che sarebbe dovuta risultare in qualche modo divertente, ma che per qualche strano motivo non fece ridere nemmeno un po'. Anzi, la situazione si fece di secondo in secondo peggiore, perché se prima avevano avuto al decenza di guardarsi negli occhi, adesso gli sguardi erano caduti più giù. E anche se di poco, la differenza era fatale: Frank gli stava spudoratamente fissando le labbra, cercando di smettere di pensare a tutte quelle volte in cui aveva fantastica su quel momento e rendendosi conto dopo qualche secondo durato anni che non era l'unico. Vide quelle di Gerard curvarsi in un sorriso, forse quando anche lui era giunto alla consapevolezza che l'attrazione era reciproca, e poco dopo si schiusero appena per parargli.

«Smettila di parlarmi di nonne mentre sto per baciarti.» Sospirò quasi, con l'alito che sapeva di caramelle e birra, poggiando le labbra su quelle di Frank prima che quest'ultimo avesse il tempo di ridere. I primi dieci o venti secondi furono imbarazzanti: il più piccolo non era ancora nel pieno delle sue capacità, e si stava prendendo un po' di tempo per rispondere, lasciando spaesato l'altro, che fino a qualche secondo era stato convinto che il ragazzo fosse d'accordo. Si allontanò, e subito Frank si maledì mentalmente per la sua abilità nel mandar tutto a puttane e prese il coraggio per fare quello che era, almeno relativamente, il primo passo. Poggiò le mani sul retro del collo del più grande, sentendo la forma dell'osso della sua spina dorsale e le punte dei suoi capelli che gli accarezzavano e pungevano leggermente le dita. Rimase piuttosto distratto dalla morbidezza della sua pelle, ma poi trovò il coraggio: lo avvicinò così a sé, baciandolo.

Per la prima, primissima volta.

Frank era convinto che la prima volta, di qualsiasi cosa si parlasse, dovesse essere speciale. Non solo perché poteva non esserci necessariamente una seconda, ma soprattutto perché era contrario all'idea che avevano tutti i ragazzi della sua età: non era vero che tutte le belle esperienze a seguito avrebbero eliminato una possibile prima volta con esito negativo, perché i ricordi non li avrebbe potuti cancellare come dei semplici errori a matita su un foglio. E finalmente capiva perché Gerard li avesse messi in quella situazione, in condizione di stare così vicini nonostante non ci fosse più lo stupido vincolo di uno scherzo e di un patto a legarli: semplicemente, non voleva che fosse uno scherzo. Frank non fece finta di credere nemmeno per un minuto che questo potesse significare che dopo di quel bacio sarebbero stati insieme per la vita e avrebbero cagato tanti bambini, ma almeno, in quel preciso istante, sapeva di significare qualcosa per lui. Ancora non capiva a cosa attribuire tutto quello, ma qualcosa c'era.

Lo baciò più forte quando l'altro cominciò ad emettere dei versetti frustrati, ed entrambi si trovarono stesi a terra, Frank intrappolato sotto il peso di Gerard, che a differenza di come aveva sempre pensato, era caldissimo. Forse era la temperatura eccessivamente elevata della stanza, forse erano stati stretti per abbastanza da riscaldarsi a vicenda, ma Gerard aveva quel tipico calore a metà fra il tiepido ed il fastidioso, quella perfetta via di mezzo che, specialmente con la febbre che si ritrovava, gli fece desiderare di non andarsene più dalle sue braccia.

Sospirò quando Gerard spinse (magari anche involontariamente) contro di lui, capendo solo in quel momento la piega che stavano prendendo le cose. Si staccò dal bacio, voltando il capo verso destra nel tentativo di evitare che ricominciassero. Prese fiato, ma pochi secondi dopo lo perse tutto, ad ogni modo, perché quel grandissimo stronzo aveva preso a baciargli il collo, ora più esposto di prima, e le mani erano scese dai fianchi alla cintura e Dio, probabilmente non capiva che Frank non voleva andasse così. Non che non lo volesse, ma sapeva che non poteva andare così. Non ora, mentre entrambi erano più guidati dal bisogno che da un effettivo desiderio. Intrecciò le sue dita con quelle dell'altro, stringendogli forte le mani e guardandolo negli occhi per quella che sembrò come un eternità. Rimasero a fissarsi così finché il più grande non rotolò accanto a lui, a terra, dove entrambi si addormentarono, mentre Gerard capiva che avrebbe fatto meglio a rimanere fedele alla riflessione di quel pomeriggio, piuttosto che lasciarsi trascinare dall'istinto.

 

**

 

SalveeeHHHHH!
Chiedo in anticipo scusa per questo capitolo, perché la prima parte non mi fa granché impazzire.. e boh, il titolo è preso dalla canzone “Homewrecker” di Marina & the Diamonds, e tipo boh, in effetti il titolo stesso continua con il titolo del prossimo capitolo che tipo giuro che sarà meglio e meno sconclusionato, ciao. <3
PS: da questo punto in poi, tutti i capitoli che ho sono da aggiustare o addirittura finire, quindi spero di riuscire ad aggiornare abbastanza in fretta.. in caso contrario, potete tranquillamente ammazzare i miei professori, credo non soffrirò granché la perdita. <3<3

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** ..Becoming lovers ***


6. ..Becoming lovers

 

 

 

Era ancora buio e le prime luci del mattino dovevano ancora comparire. C'era un sottotono più chiaro nel cielo, rispetto a quando Gerard era andato lì in veranda deciso a guardare l'alba come purtroppo riusciva a fare sempre meno spesso, ma nel firmamento si intravedeva ancora qualche stella, ed i lampioni erano ancora completamente accesi (segno che non erano nemmeno le sei, l'orario nel quale, aveva imparato durante le sue varie nottate, di solito si spegnevano e lasciavano il posto a quel minimo bagliore che il sole appena sorto rischiarava fra tutto quel buio). Si aggomitolò ancora di più su sé stesso, stringendosi le gambe al petto e arrotolandosi ancora di più nella coperta che, nonostante il poco freddo anche ad ottobre, si ostinava a portare con sé ogni volta che gli veniva semplicemente voglia di prendersi un momento con sé stesso e pensare.

Gerard era convinto che non ci fosse né orario né posto migliore per stare solo: sia perché era inconcepibile che qualcuno fosse per strada a quell'ora (di mercoledì), sia per il senso di libertà che era quasi incredibile provasse, chiuso com'era nel perimetro recintato del suo piccolo giardino. E soprattutto, adorava tutto ciò che succedeva dopo: adorava quando riusciva a non addormentarsi per tutta la giornata, tirare avanti ventiquattro ore senza chiudere occhio, adorava la soddisfazione nel sapere che era finalmente riuscito a trovare un momento per isolare i suoi pensieri e scomporli, e nonostante la stanchezza, quando la sera dopo andava a letto con gli occhi che gli bruciavano ed ogni singolo muscolo del corpo intorpidito, non riusciva comunque a pentirsi di quelle dodici ore di introspezione che si era regalato.

Proprio per questo, il fatto che succedesse sempre meno, non poteva che infastidirlo da un lato e lasciare un grande punto interrogativo dall'altro: Gerard non voleva pensare, o forse, come continuava a sperare, non ne trovava semplicemente più il tempo?

Era difficile farlo quando avrebbe voluto zittire quasi ogni pensiero che gli passava per la testa, ma proprio quando questo succedeva e tutto nella sua mente si annodava in maniera sempre più contorta, si rendeva conto che era il momento di snodare almeno qualche intreccio.. perché non in tutti i casi tutti i nodi vengono al pettine da sé, ma c'è bisogno di qualcuno che li sleghi.

Era questo che odiava della mente umana: il fatto che fosse così maledettamente complessa.

Gerard, sempre più spesso, si trovava a desiderare di non essere niente; stupido a dirsi o anche solo a pensarsi, ma continuava a immaginare come sarebbe stata la vita se avesse semplicemente potuto smettere di ascoltarsi per un secondo.. perché nemmeno in quel momento in cui il silenzio sembrava spaccare i timpani riusciva a sentirsi muto come avrebbe voluto. Ogni volta che ci provava finiva per pensare a qualcosa. Qualsiasi cosa. Da uno di questi ragionamenti che non era nemmeno sicuro di riuscire a fare, a un semplice motivetto troppo ritmato per uscirgli dalla testa.

E proprio in quel momento in cui cercava il silenzio, fu interrotto da un rumore molto familiare: era la porta di casa sua che si apriva, lentamente, scricchiolando così forte che Gerard cominciò davvero a chiedersi se chiunque stesse per raggiungerlo volesse davvero provare a non farsi sentire.. perché in quel caso, avrebbe già fallito.

«Vai a letto, sono le cinque e trentatrè del mattino.» La voce di Frank, un po' troppo squillante per uno che cerca di farti notare quanto avresti bisogno di sonno, lo interruppe, e forse un po' gli fu grato per averlo salvato prima che divagasse nel ridicolo. Sbuffò, cercando di non farsi sentire: non era scocciato dalla presenza di Frank in sé, ma odiava che gli si ricordasse l'orario. Era divertente scoprirlo da solo, perdersi per ore intere senza rendersene conto, tornare in casa quando si sentiva troppo stanco e guardare distrattamente l'orologio, custodendo da solo il segreto di quella nottata. Gerard gli sorrise, ma fu quasi come se stesse sorridendo fra sé e sé, stringendosi la coperta (blu con dei pupazzetti, tra l'altro) al petto. «Di classe, i dalmata sulla coperta.» Continuò il più piccolo, ridacchiando e strappando un sorrisetto (questa volta vero) anche a Gerard, perché fu quasi come se gli avesse letto nel pensiero. Frank pensò bene di sedersi, fissando il più grande -che intanto se ne stava lì, impassibile e senza nemmeno guardarlo di riflesso- con sguardo sognante.

«Guardavo l'alba.» Puntualizzò, come anticipando la domanda che l'altro gli avrebbe quasi sicuramente fatto. A volte era strano come si leggessero nel pensiero e nessuno dei due lo dicesse veramente all'altro: era come un piccolo segreto che entrambi tenevano per sé stessi. Frank annuì, continuando a non essere, probabilmente, soddisfatto della risposta.

«Perché dovresti guadare l'alba?» Distolse lo sguardo, preoccupato che se Gerard si fosse girato, lo avrebbe colto nel sacco mentre lo osservava. Ma la verità era che, a dire il vero, non sapeva nemmeno perché lo faceva; si perdeva spesso mentre fissava qualcosa, e a volte non riusciva proprio a smettere di farlo.

«La domanda è..» Il più grande esordì, voltandosi con tutto il corpo verso Frank e posizionando le gambe all'”indiana”. «..perché non dovrei guardare l'alba?» Gli sorrise, e visto il modo in cui si era voltato definitivamente verso di lui, il più piccolo pensò di fare la stessa cosa. Non replicò, troppo impegnato a sbadigliare, e proprio quando fu di nuovo in condizione di farlo, Gerard riprese, e Frank rimase zitto ad ascoltarlo. Infondo aveva sempre qualcosa di meglio da dire. «Se vuoi fare qualcosa che non fa male a nessuno, allora la puoi fare, non credi?»

«Figurati, se vuoi trascinarti come un cadavere per il resto della giornata, divertiti.» Frank fece spallucce, e Gerard scosse il capo, pensando. C'erano solo cinque anni di differenza fra di loro, ma a volte sembravano un oceano. Era quasi come se Frank non capisse che dietro ciò che faceva non c'era il semplice scopo di guardare l'alba, ma un desiderio di essere finalmente libero con sé stesso, libero da ogni pensiero, e anche se si fosse trascinato come uno zombie a destra e a sinistra, il giorno dopo, andando a dormire, avrebbe evitato di sentirsi schiacciato da un peso ben peggiore di quello della stanchezza: quello del flusso incontenibile dei suoi pensieri.

«Non importa Frank, certe cose non pretendo di spiegartele..» Gerard sbuffò, realizzando solo in quel momento quanto era effettivamente noioso quando si comportava da tipo superiore. Ad essere onesto, però non lo faceva apposta per sembrare “colto” e cazzate del genere: voleva che ci arrivasse da sé perché sapeva che avrebbe potuto farlo. E voleva che ci arrivasse da sé perché non era superficiale come faceva vedere di essere.. e Gerard, in un certo senso, questo lo sapeva e lo aveva sempre saputo.

«Scusami se non mi è così ovvio il motivo per cui dovresti avere questo comportamento da eremita solitario.» Sospirò Frank, quasi offeso, come se fosse qualcosa da prendere sul personale quando era già tanto che non l'avesse semplicemente cacciato. Gli piaceva stare con lui.. più di quanto la realtà delle cose gli concedesse.

«È che a volte tutti dovremmo stare soli.» Gerard si strinse nelle spalle, cercando, come prima cosa, di mettere ben in chiaro che non era la compagnia di Frank a disturbarlo, ma certe volte, era la compagnia in generale. «Se ognuno si prendesse un po' di tempo per pensare da solo, sono sicuro che faremmo tutti meno stronzate e staremmo meglio.»

«Non ti lamentare se poi non ti capisco, Gerard..» Il più piccolo cominciò, un sorrisetto furbo stampato in volto che fece subito capire all'altro che era pronto ad obbiettare. «..sei tu che cinque minuti fa hai detto che si può fare quel che si vuole a patto che non si faccia del male a nessun altro.» Si strinse nelle spalle, guardandolo, e Gerard dovette ammettere che in quella situazione non poteva in alcun modo replicare. «Questo significa che quindi forse non c'è bisogno di pensare per ogni cosa..» Rivolse lo sguardo al cielo, dando la possibilità all'altro di fermarsi a guardarlo per un po'.

Frank era pallido, e la sua pelle quasi risplendeva alla luce della luna, che, intanto, continuava ad affievolirsi per lasciar posto a quella del sole. Gerard non riuscì a non notare il modo in cui ognuno dei suoi tratti facciali sembrava scolpito alla perfezione, e si diede, almeno per un po', il permesso di apprezzarlo; ogni volta che si fermava davvero ad osservare il chitarrista, subito prendeva a bacchettarsi mentalmente per qualche motivo che non aveva ancora ben capito. Eppure lui stesso lo aveva detto, così come Frank lo aveva puntualizzato: “si può fare ciò che si vuole, a patto che non si faccia star male qualcun altro”. E quello che voleva fare, Gerard ne era praticamente sicuro, non avrebbe fatto del male proprio a nessuno. Non capiva cosa, esattamente, fosse andato storto la sera prima. Avevano semplicemente evitato di parlarne e stava, in tutti i modi, evitando di pensarci. Forse il problema era stato il modo, perché davvero, avrebbe potuto giurare che Frank fosse d'accordo anche più di lui. O forse, molto più semplicemente, avrebbe dovuto riprovarci ora che era fisicamente e psicologicamente in grado di capire le ragioni per cui il ragazzo avrebbe potuto rifiutare, e farla finita con quel capitolo così ridicolo della sua esistenza.

Fu un po' per questo -e un po' per il frutto di tutto quel ragionamento che aveva fatto- che il più grande decise di mettere da parte ogni tipo di imbarazzo o inibizione e, lentamente e senza smettere di guardare il ragazzo accanto a lui, poggiò la mano sulla sua coscia (o volendo sul suo ginocchio, quasi), e cominciò ad accarezzarlo, sempre più su, e proprio quando stava per toccare il punto “critico”, Frank sobbalzò, e gli prese la mano, bloccandola.

«Fermati.. un.. un secondo.» Il più piccolo disse, voce rotta e tremolante. E se lui sembrava scosso, bhè, non era niente rispetto a Gerard, che in quel momento sentì una raffica di diverse emozioni piovergli addosso come un cazzo di acquazzone in una bella giornata di Giugno. Imbarazzo, il dolore di essere rifiutato, la preoccupazione per tutto quello che sarebbe successo dopo: varie cose che il suo corpo aveva bisogno di esternare, e che furono sintetizzate in una reazione piuttosto semplice come un eccessivo rossore sulle guance. Abbassò il capo, cercando di nasconderlo, ma Frank lasciò andare la sua mano senza spingerla via, sospirando e distogliendo lo sguardo, e non sapeva se sentirsi sollevato o anche peggio di prima. «Gerard, io.. io sono..» Cominciò il chitarrista, balbettando, e nella mente dell'altro cominciarono ad affollarsi vari modi in cui avrebbe potuto continuare la frase. “Spiacente”, “innamorato di una tipa”, e già dopo i primi due smise di pensarci, perché era sinceramente troppo per lui, in quel momento.

«Sei?» Domandò, in un improvviso ed ingiustificato sprazzo di coraggio, dovuto forse al fatto che Frank si era quasi dimenticato di continuare la frase. Solo in quel momento Gerard si accorse che la sua mano era ancora lì, approssimativamente dove, se avesse avuto il jeans che di solito indossava, sarebbe stata la tasca. Improvvisamente si sentì il braccio pesante, quando vide il più piccolo fare un respiro profondo e prepararsi a dargli una risposta: ogni suo dubbio sarebbe terminato lì.

«Sono vergine.» Frank ammise, girandosi i pollici come per distrarsi. Gerard non pensava che fosse qualcosa di cui vergognarsi, ma se Frank lo aveva tenuto segreto e ora che lo aveva detto sembrava così imbarazzato, bhè, allora forse per lui lo era. E di sicuro c'era un motivo ben valido per cui non era mai andato a letto con nessuno, un motivo che di certo non implicava il suo aspetto o carattere, ma qualcosa di ben più profondo che forse non avrebbe voluto dirgli, e che certo, Gerard non voleva farlo sentire obbligato a dire. Tirò via la mano, deciso a non farlo sentire a disagio, e si sentì immediatamente meglio nel sapere che era quello il motivo per cui lo aveva respinto. «Ehi, no, aspetta!» Frank affrettò, prendendo la mano di Gerard e guidandola direttamente lì, dove fino a qualche secondo prima era ancora poggiata, gesto che fece sorridere entrambi.

«Posso capire cosa sta succedendo, o..?» Il sorriso del più grande si fece ancora più ampio di prima nel vedere Frank improvvisamente più tranquillo.

«È solo che non ho aspettato tutto questo tempo per niente, hai presente?» Cominciò, facendo una sorta di smorfia nel voltarsi a guardare di nuovo l'altro. «Quando andavo ancora a scuola vedevo tutti i miei amici perdere la verginità e andare a raccontarlo in giro, ma appena gli chiedevi con chi fosse stata la loro prima volta, non ricordavano nemmeno quello.. ed io non voglio che sia così.» Sospirò, e improvvisamente a Gerard si aprì quasi il cuore.. nel senso positivo, ovvio. «Lo so che sono un ragazzo e dire una cosa del genere è quasi stupido, perché, insomma.. non..» Si morse il labbro, distogliendo un po' gli occhi dal più grande. «Voglio una persona che ci tenga a me, voglio ricordarmelo senza inorridire, e voglio sapere se tu sei certo di poter essere quella persona..» Gerard spostò la stessa mano sul volto di Frank, “obbligandolo” a girarsi verso di lui in quella che fu quasi una carezza. «..voglio sapere quanto ci tieni a me.» Il più grande prese un respiro profondo, pensando a come mettere in parole tutto quello che in quel momento stava pensando. Fece scendere la mano che era ancora poggiata sulla guancia dell'alto e la fermò definitivamente sulla sua spalla.

«Okay, diciamo che ci tengo abbastanza da volerti rispettare.» Cominciò, cercando di non farsi fraintendere, dato che di solito era davvero un professionista se si trattava di voler dire la cosa giusta ma finire per dirla nel modo sbagliato. «Nel senso.. non devi sentirti obbligato solo per quello che ti sto dicendo e ti sto per dire.» Si strinse nelle spalle, continuando a fissare il sorriso di Frank. «Abbastanza da volerti far sentire a tuo agio, perché mi ricordo la mia prima volta e diciamo che non è proprio stata da manuale, ecco..» Ridacchiò, trascinando con sé anche un ghigno da parte del più piccolo. «Abbastanza da prometterti che non andrò a raccontare i fatti tuoi in giro..» Disse, ma subito dopo si rese conto che magari non era proprio il modo in cui voleva intendere quella frase. «.. nel senso, insomma.. prima ti sei fatto più rosso di non so cosa, e se ti imbarazza puoi star tranquillo che nessuno lo saprà mai, eh! E io..»Gerard stava per continuare, ma fu improvvisamente interrotto da Frank, che ormai convinto di quello che stava per fare, si posizionò su di lui con un brusco movimento. Si scambiarono baci per un tempo indeterminato, ancora presi dalla novità della cosa nonostante la sera prima avessero a malapena fatto altro, finché Gerard non si staccò.

«Andiamo in camera dei miei..» Sospirò a voce bassissima, convinto che l'altro lo avrebbe sentito lo stesso, e Frank, in tutta risposta, si alzò, fissandolo come se fosse completamente impazzito. «Sì, Frank, ci hai sentito bene, sono via.» Continuò, cercando di giustificarsi delle ragioni di quel gesto che sarebbe stato effettivamente folle. Il ragazzo annuì, alzandosi e baciandolo piano e a labbra chiuse prima di allontanarsi nuovamente.

«Ci sono mai in casa?» Chiese, sapendo che era quello il momento giusto e sperando che finalmente si decidesse a parargli di sua nonna.

«Possiamo parlarne dopo, per cortesia?» Chiese, sbuffando ed evitando il discorso. Frank si rese conto che forse non era né tempo e né modo che ne parlassero, e decise di mettersi in punta di piedi per unire nuovamente le labbra alle sue, questa volta decentemente, con le braccia strette al suo collo mentre entravano in casa e si accingevano a salire addirittura le scale senza nemmeno guardare più di tanto dove stessero mettendo i piedi.

 

**

 

Frank non riusciva a ricordarsi quanto fosse rimasto a guardare Gerard, quante sigarette quest'ultimo avesse fumato, né quante volte avesse finto di chiudere gli occhi se quelli dell'altro si giravano anche solo minimamente a guardarlo, distratti mentre il filtro arancione continuava periodicamente a poggiarsi sulle sue labbra rosee. Labbra che Frank -ormai non riusciva più a pensare ad altro-, aveva effettivamente baciato. Il suo stomaco ebbe una reazione piuttosto strana al pensiero, che rievocò ovviamente anche tutte le immagini di prima, perché grazie al cazzo che doveva essere il solito maledetto masochista. Sospirò impercettibilmente all'immagine di Gerard steso sotto di lui, con le palpebre fra il chiuso ed il socchiuso, le labbra appena aperte e le gambe intrecciate intorno ai suoi fianchi, mentre cercava veramente di smettere di tremare ogni volta che pensava a quel che aveva sentito nel cercare di non fargli male, o alla botta di sicurezza improvvisa quando lo sentiva praticamente miagolare al minimo tocco o lo vedeva inarcare la schiena e sospirare più forte.

Frank non era mai stato così insicuro dinanzi ad una situazione del genere: si era trovato spesso sul punto di finire a letto con qualche ragazza, ma la “sottile” differenza era che sapeva esattamente come comportarsi. E rifiutare era sempre facile, perché non aveva paura di ferire i sentimenti di una teenager un po' ubriaca che nemmeno conosceva.. specialmente perché, con il tipo di ragazze che gli si avvinghiavano, era praticamente sicuro che sarebbero finite a raccontare di “quella checca che le aveva respinte la sera prima” ridendo durante un'uscita fra amiche.

Invece, per quanto si fosse trovato spaesato, alla fine non poteva essere più contento di così. Era sicuro che nulla avrebbe mai potuto eguagliare la sensazione che aveva provato nel prendersi cura di lui, nell'assicurarsi di non far nulla che non volesse, nel vedere che forse non stava andando così male. Ma soprattutto, sopra ogni cosa, era sicuro che infilarlo in qualsiasi altra ragazza che non avrebbe fatto da nient'altro che da buco, non sarebbe stata la stessa cosa.

Continuò ad osservare la candida pelle bianca dell'altro ed il modo in cui la sua gamba destra era leggermente piegata, tirando con sé parte delle lenzuola che probabilmente dopo avrebbero dovuto cambiare. Sorrise al pensiero, e non ebbe nemmeno il tempo di fingere di dormire quando, nuovamente, Gerard spostò lo sguardo su di lui. Gli sorrise, poggiando il posacenere precedentemente adagiato sul comodino che aveva alla sua sinistra sulle lenzuola, fra lui e Frank.

«Puoi anche aprirli gli occhi, tanto mi piacciono.» Disse flebilmente, spegnendo quella che, a giudicare dalle cicche già accartocciate fra la cenere, era la terza sigaretta. Non si perse d'animo, ad ogni modo, e prese nuovamente fra le mani il pacchetto di Marlboro, porgendone una al ragazzo ed estraendone una per sé. Frank, che dapprima era poggiato sul fianco, si mise seduto quel po' che bastava per avere la testa contro la spalliera del letto, e ancora rosso in volto, portò alla bocca il filtro mentre Gerard univa le mani intorno alla punta della sua sigaretta, nel tentativo di far funzionare l'accendino un po' troppo scarico che aveva da ormai due mesi. Lo passò poi a Frank, che si destreggiò con shoccante calma e precisione nella stessa impresa, per poi lasciarlo cadere fra le bianche lenzuola sulle quali, con quel rosso sgargiante, risaltava paurosamente. Il ragazzo ricordava di averci scritto con uno di quei pennarelli indelebili (col cazzo) “MCR”, il primo giorno che Gerard l'aveva comprato, e continuava a non capacitarsi di come fosse sbiadita velocemente la scritta. Un paio di pappardelle e menate mentali su come tutto fosse effimero nella vita gli passarono velocemente per la testa, ma decise di abbandonare immediatamente quei pensieri così sconclusionati ed inutili. Tossì un po', aspirando un po' troppo e un po' troppo velocemente, e l'altro gli sorrise beffardo. «Tranquillo, tutti si affogano alla prima.» Gli disse, sarcastico.

«Simpatico.» Replicò, sorridendo altrettanto acidamente al ragazzo e ricordandosi improvvisamente dell'argomento che aveva inopportunamente messo in mezzo poco prima. Rimase in silenzio a valutare fino a che punto fosse giusto insistere su qualcosa che forse non gli voleva dire, e osservò distrattamente la camera dei suoi genitori, unica stanza che non aveva mai visto fino a quel momento. Le pareti erano bianche ed il pavimento di legno e le tende erano di pizzo rosa pallido, così come il copriletto ormai abbandonato a terra. I comodini erano dello stesso colore del pavimento, e su di essi Frank notò delle foto incorniciate. In una di queste c'era un qualche anniversario dei genitori, un'altra era quella che sembrava la comunione di Mikey (Frank riuscì a malapena a trattenersi dal ridere nel vederlo in quell'abito così ridicolo, quella solita espressione da cerbiatto puntato dai fari di una macchina nel bel mezzo della notte con tanto di flash riflesso negli occhiali), un'altra ancora, capitata proprio al momento giusto, ritraeva Gerard e Mikey insieme a quella che il ragazzo immaginò essere la nonna, stesa su un letto d'ospedale con visibilmente poche forze e tanta voglia almeno di sorridere per quel misero attimo che sarebbe rimasto catturato ed incorniciato per sempre. Sospirò, lasciando definitivamente la sigaretta a consumarsi nel posacenere e prendendo nota mentale che gliel'avrebbe dovuta risarcire (ormai era a quota dieci), decidendo, in fine, di afferrare la cornice dorata dal comodino per guardare meglio l'immagine contenuta in essa. Gerard si voltò verso di lui, stropicciandosi il volto con le mani e avvicinandosi un po' per vedere quale fra le fotografie avesse deciso di osservare.

«Quella è nonna.» Cominciò, come se nulla fosse, sorridendo malinconicamente ai ricordi che probabilmente lo legavano all'anziana signora. «Sta male.» Aggiunse, con la voce così spezzata che sembrava stesse tremando. Frank volle accertarsene, ad ogni modo, e gli prese la mano dopo aver posato di nuovo a lato la cornice nonostante non fosse sicuro di poter azzardare un gesto del genere. Rimase pazientemente ad ascoltarlo, dandogli i suoi tempi e sentendosi finalmente parte integrante di lui, della sua vita, finalmente a conoscenza di tutti (o almeno così credeva) i suoi segreti. Finalmente vicino a lui come non lo era stato nemmeno una mezz'oretta prima, quando avevano condiviso un'esperienza che di solito era etichettata come l'ideale platonico di massima felicità, descritta con concetti di unione tra due esseri, una fusione panica di corpi ed anime.

«Che ha?» Chiese, rischiando veramente di spezzare quello strano filo invisibile che li legava in quel momento. «..se posso chiedere.» Continuò, cercando di preservare al meglio quel clima così ideale per parlare di un argomento del genere.

«Bhè, sta facendo la chemioterapia.» Gerard tagliò corto, come se si rifiutasse di dire il nome di quella malattia che gli stava portando via quella che forse era la persona più importante della sua vita. «E'.. è per questo che i miei non sono mai a casa.» Spense definitivamente la sigaretta e, con la stessa mano (unica che non fosse stretta da quella di Frank, d'altronde), riportò il posacenere alla sua posizione originale in modo tale da potersi avvicinare all'altro. «Quando è all'ospedale facciamo i turni per tenerla un po' d'occhio, quando è a casa è ancora peggio..» Si trattenne visibilmente da una crisi di pianto di quelle pesanti, sospirando e fermandosi. «..è debole. E non possiamo permetterci qualcuno che la guardi notte e giorno, quindi ci dividiamo al meglio.» E poi stop, di nuovo, come se si potesse cancellare tutto, tornare indietro, rimangiarsi ciò che si era detto e ripartire da capo. Un respiro profondo e un sospiro pesante, poi parole. «E' brutto saperlo perché lei mi ha salvato, però io non posso fare lo stesso.»

«Non è colp-»

«No, è vero, non è colpa mia, non posso farci niente, il problema è che solo ora che la fine si avvicina sono consapevole che è la vera fine.» Cominciò a biascicare con le parole, come se non ce ne fossero abbastanza per concretizzare i suoi pensieri. «Più il tempo passa, più mi rendo conto che non ci sarà più nessuno a prendermi quando sto per inciampare. E allora cadrò e basta, niente salvataggi dell'ultimo minuto. Cazzo, mi rendo conto solo ora di quanto tutto questo possa suonare egocentrico, e comincio troppe frasi sconclusionate, e-»

«Ma lo hai detto tu stesso, ti ha già salvato una volta. Adesso tocca a te. Non puoi sempre contare sugli altri.» Si “intromise” Frank, non riuscendo più a reggere lo sguardo del ragazzo e spostandolo dunque al soffitto, bianco immacolato e con uno strano e kitschissimo lampadario di cristalli giallognoli che pendeva da esso. «Non tutti vorranno il tuo bene..»

«Sì che posso. Perché non siamo soli al mondo ed è giusto che chi vuole che tu ci rimanga vivo e vegeto ti dia una mano. E perché senza l'aiuto altrui è difficile rimettersi in piedi.» Il più piccolo cercò di stringere la presa sulla mano dell'altro, il quale, precedendolo di qualche secondo, la tirò via e la usò per stropicciarsi il volto insieme all'altra, intento a sbuffare nervosamente per la centesima volta. Ma Frank, ancora, si limitò a non fiatare e cercare semplicemente di comprendere «Se io stessi per cadere da un burrone, per intenderci, chi mi potrebbe aiutare se non qualcun'altro? Se non hai una guida non ti salvi. Ed io la mia la sto perdendo, e di nuovo ritorniamo allo stesso punto di prima..» Disse, scoprendosi finalmente il volto e rivelandolo, ad ogni modo, coperto da ciuffi di capelli che sembravano non essere tagliati da almeno sei mesi. «..io non ho mai avuto l'occasione di ricambiare il favore. Sono stato troppo occupato a pretendere per rendermi conto che il tempo stava passando.»

Frank si rese conto soltanto in quel momento che forse Gerard si era perso. O forse era lui stesso ad essersi perso. Forse Gerard non aveva mai voluto che lo capisse, ma aveva solo tanto, tanto bisogno di sfogarsi con qualcuno. E lui, pur non essendo pienamente partecipe di tutto ciò che stava esprimendo e pur mantenendo a fatica il passo con i suoi pensieri, chi era per toglierglielo? Pur essendo solo un tramite fra l'inconscio e la realizzazione effettiva di tutto ciò che l'altro stava pensando, che importava? Alla fine aveva comunque il privilegio di conoscere qualcosa in più, di essere quel cosiddetto passo avanti, di sperare che forse un giorno avrebbe capito a pieno.

«..Ti salvo io.» Esordì timidamente il più piccolo, e se non fosse più o meno sicuro di non averlo mai granché fatto in vita sua, avrebbe potuto giurare di essere arrossito. Era difficile fare considerazioni quando Gerard era così, perché le situazioni di sbocco erano tre: o finivi per sentirti un completo idiota, o finivi per sentirti un completo genio, o, come era accaduto poco prima in via straordinaria, finivi a letto con lui. Frank sperava in un misto fra le ultime due, ma d'altronde non c'era da biasimarlo. «Quanto potrà mai essere difficile?» Domandò, chiedendo mentalmente a sé stesso se mai la sua voce fosse suonata così stridula in vita sua, se mai le sue gambe fossero state così intorpidite, se mai si fosse sentito così lontano dalla realtà e dalla concretezza che lo circondavano. Forse era semplicemente questo il suo compito; portarlo via da spazio e tempo come stava facendo con sé stesso, perché era in quelli e nella loro banalità che stava cadendo.

Frank si ritrovò dopo poco con il corpo dell'altro schiacciato contro il suo, pelle contro pelle nel legame più semplice che ci fosse. Perché guide a parte, salvataggi a parte, alla fine era quello che erano. Due copri, magari muniti di due anime e bla, bla, bla, ma pur sempre, in primo luogo, persone. Esseri umani. Ed era pazzesco come quella fosse l'unica cosa che gli passasse per la mente mentre si baciavano. Non il fatto che Gerard sapesse di posacenere, non quanto fosse assurdo il fatto che lo stesse effettivamente baciando, non quanto fosse perso sempre più e quanto non si fosse, allo stesso tempo, mai sentito trovato come si sentiva sotto il suo calore.

«Prima dovresti innamorarti di me.» Disse il più grande, soffiando appena sulle sue labbra e stringendogli la mano ad una distanza millimetrica, calmo come se fosse una cosa da dire su due piedi. «Non ti sto obbligando, ma sarebbe bello. Perché dicono tutti che gli innamorati si salvano, che insieme ce la fanno, che è più facile in due, piuttosto che da soli..» In quel momento, Frank sentì quella strana sensazione che aveva provato solo quella volta che era svenuto in seguito calo degli zuccheri: la voce del ragazzo era soffocata, come quando ti urlano dall'altra stanza, e gli rimbombava nelle orecchie. Il cuore gli era salito in gola, la realtà era lontana anni luce e la realizzazione di ciò che aveva temuto per tanto si avvicinava ogni nanosecondo di più, come una pallonata in faccia all'improvviso. «Non dico per forza, ma potresti anche fare finta. Potremmo fare finta. Alla fine l'importante è tirare avanti, e a me per farlo basta sapere di essere amato, basta sapere di essere voluto al mondo. Anche solo per finta, perché alla fine quasi nulla ha senso. Quasi nulla è più autentico.» Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo, concentrandosi più sulla sensazione della pelle morbida dell'altro e di quanto fosse bello che per una volta fosse stato lui a stringergli la mano piuttosto che sugli svariati modi in cui sarebbe potuto andare a finire quel discorso. Alzò appena il braccio per spostargli finalmente una ciocca di capelli dietro l'orecchio e guardarlo un'ultima, decisiva volta negli occhi. «Allora, credi di poterci riuscire un giorno?» Concluse.

L'ho già fatto”, ma quel che andava detto, rimase pensato.

 

**

 

Sciaooohohohohohihfjuiehrh! :D

Okkei, sono in ritardo -nemmeno di tanto credo-, però ci sono (?)

Il titolo è praticamente il continuo di quello del capitolo precedente, stessa canzone, blablabla.

Chiedo veramente scusa per questo capitolo perché mi rendo conto che è una puppata mentale continua, che arriva a dei livelli assurdi e blablabla, ma non so perché, mi è uscito di scriverlo così. YEAHH.

Poi, siccome ho molto da blaterare, DOMANI è IL MIO COMPLEANNO IFJERIFER CHE EMOZIONEhhh no. Poi boh, vi aggiorno un po' sulla mia vita sfigata, sì: ho conosciuto l'amore della mia vita a 'sta protesta contro la riforma (CHE PROFUMO DI MERDAAH), i miei hanno acconsentito a farmi fare un tatuaggio (what the fuuuck), ho corretto il mio professore di matematica con TRE FOTTUTE LAUREE, ed è tutto piuttosto figo, niente da dire.

ALLA PROSSIMA, SPERO DI NON AVERVI FATTO TROPPO SCENDERE I COGLIONI.

(PS: Roberta, se stai leggendo: NON LEGGERE.)

Oghei me ne vado sul serio. Tanto l'ov, sciau. <3

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Exceptions ***


7. Exceptions




 

Frank percorse il vialetto ciottolato di casa sua lentamente e a testa bassa, come se stesse andando al patibolo. Quella volta era consapevole che i suoi genitori avrebbero davvero dato di matto; non importava che fosse maggiorenne, quando rimaneva fuori per la notte, doveva avvisarli. Sbuffò, cercando le chiavi di casa nella tasca sul retro dei jeans e aprendo con calma, cercando di fare silenzio nonostante fosse sicuro che lo stessero praticamente aspettando seduti sulle scale che si vedevano proprio di fronte all'ingresso. Fece un sospiro più profondo del previsto, riuscendo comunque a sbloccare la serratura troppo in fretta per i suoi gusti, e azzardò un passo dentro quell'inaspettato silenzio.. poi due, poi tre, quattro, quando al quinto rimase quasi shoccato che nessuno lo stesse riprendendo. Poggiò la chitarra che poco prima aveva in spalla contro il sottoscala, attento a non far rumore, e si affacciò coraggiosamente dalla porta aperta del salotto.

Sua madre era seduta lì, al centro della stanza, le mani poggiate sul tavolo mentre le sue lunghe e curate unghie battevano ritmicamente sulla superficie di esso e lo sguardo si perdeva verso il televisore al quale non stava certamente portando la minima attenzione. I capelli ormai un po' spenti ed ingrigiti le cadevano sulle spalle, e gli stessi vestiti che qualche anno prima avrebbe giudicato “da vecchia” coprivano la sua figura senza alcuna scelta stilistica.

Frank fissò le foto appese al muro di carta da parati giallognola a fiori per ritornare a quel passato al quale Linda, la donna che era diventata sua madre, sembrava non appartenere più; per poco non si sentì male. Di solito non gli facevano così tanto effetto, ma c'era qualcosa da quella mattina che, improvvisamente, gli faceva vedere tutto sotto una nuova ottica. Non solo uno sguardo distratto sulla composizione di cornici, ma un'attenta analisi delle foto che esse contenevano: foto di quando era più piccolo e non dovevano far finta di essere una famiglia felice perché lo erano veramente, foto di quando non aveva problemi a tornare a casa all'orario prestabilito, perché infondo stare a casa sua gli piaceva. Sentì una fitta allo stomaco e poi una strana sensazione, come se stesse per vomitare, e infine strani versi che provenivano dalla sua pancia ed un senso di colpa ingiustificato che si faceva sempre più velocemente strada in lui. Si convinse di avere solo fame.

Forse era vero che erano pur sempre i suoi genitori ed in qualche incomprensibile modo dovevano pur volergli bene, ma alla fine, a conti fatti, erano almeno dieci anni che non lo dimostravano. Frank, col tempo, aveva imparato a perdonare e comprendere, ma ciò non toglieva il fatto che da quando suo padre aveva conosciuto quella sua “amica” a lavoro, non era più un suo genitore; semplicemente una persona con cui condivideva la casa. Molto spesso si passavano vicino, si salutavano con un semplice e poco colloquiale “buongiorno”, e poi prendevano strade diverse con un sospiro di sollievo, consapevoli che non si sarebbero rivisti per il resto della giornata. Frank continuava a nutrire rispetto per lui, ma la differenza stava qui; non era più affetto, ma rispetto. Non era l'idealizzazione del genitore come l'essere perfetto, perché a quel punto lo aveva visto sbagliare più e più volte, ma era la semplice ammirazione nei confronti di un uomo che aveva abbandonato i sogni e il vero amore per crescerlo. Frank, prima che le cose si stravolgessero così drasticamente in quegli ultimi mesi, glie ne aveva sempre fatta una colpa; come se fossero problemi suoi che avesse dopo troppo tempo capito che non era con sua madre che voleva stare, ma con quella lì. Ma poi, crescendo, aveva capito che infondo non c'era nulla che ci si potesse fare. Lui stesso si era trovato in quella situazione così pazzesca della collisione di due vite, di quando per puro caso il destino ti mette in condizione di trovare quella persona nella circostanza più sbagliata di sempre. Lui, dal canto suo, lo aveva subito capito che purtroppo quello non poteva essere un semplice incontro, e aveva avuto un mese per elaborarlo ed accettarlo. Poi però si era trovato alla deriva, costretto ad accettare una raffica di altre cose con le quali non si era mai misurato: a chi si poteva mai dare la colpa se il destino aveva deciso di farli incontrare? Di far incrociare due vite diverse e due strade apparentemente separate? A chi poteva dare la colpa se quella persona era nata del suo stesso sesso? Perché alla fine le persone sono persone, non maschi e femmine, ma non è qualcosa che si dovrebbe essere psicologicamente in grado di elaborare in meno di una settimana, come aveva fatto lui. Chi poteva incolpare se gli piaceva così tanto passare il suo tempo con quella persona che forse “piacere” non era più il termine adatto? A chi poteva dare la colpa se quell'intero, magnifico, groviglio che si era venuto a creare era semplicemente la cosa più bella che gli fosse mai capitata?

E a chi poteva dare la colpa se forse la stessa cosa era successa a suo padre?

Sua madre, invece, sembrava volersi semplicemente isolare da quello sfascio di matrimonio (e da quello sfascio di famiglia) in cui si era trovata bloccata. Frank capiva che con l'idealizzazione dell'amore e della vita perfetta che hanno le ragazze, quella situazione doveva essere davvero brutta da gestire. Infondo, non è difficile capire che sono sempre le donne ad essere pianificatrici; già da piccole, quando si disegnano l'abito da sposa o programmano per filo e per segno il loro matrimonio, con tanto di descrizione dell'uomo perfetto. Per quanto fosse brutto dirlo, ormai era legata più per routine che per amore all'uomo che portava la sua stessa fede al dito, e spesso, l'accumulo di tutto questo, traboccava sul figlio.

Figlio che, ad ogni modo, le aveva perdonato anche questo.

Nonostante Frank stesso non si potesse definire un figlio modello, era ovvio che ad una certa età si sentisse più libero di fare ciò che voleva. Il problema era che di tanto in tanto, Linda (ormai la chiamava sempre più spesso per nome, invece che con il solito “mamma”) aveva bisogno di liberarsi anche solo per un po' da tutti quei problemi. Finiva sempre così; inventava problemi che in realtà erano miseri o a malapena esistevano pur di oscurare quelli più grandi, quelli che non poteva risolvere. Perché se il problema era un semplice ritardo, era sicuramente più facile risolverlo con una sana sfuriata. Dare la colpa della sua rabbia e frustrazione a lui, come se c'entrasse qualcosa. Il ragazzo, alle volte, si chiedeva se fosse possibile che credesse di dimostrare addirittura affetto tramite la sua iperprotettività.

Si morse il labbro, giocando nervosamente con l'anellino che aveva intorno ad esso; si ricordava perfettamente il giorno in cui lo aveva fatto. Era stato esattamente prima del suo diciottesimo compleanno, giusto per farli incazzare. “Avrai il permesso una volta compiuti”, dicevano.. ma non era riuscito a trattenersi: come sprecare una possibilità del genere, quando i discorsi sui quali si basavano le loro teorie anti-ogni-cosa-che-gli-piacesse erano così divertenti e si fondavano su basi così fragili che persino un bambino sarebbe stato capace di demolirle in qualche secondo?

Ecco un altro dei problemi dei suoi genitori: la testardaggine. Erano così convinti di ciò che dicevano, che anche avendo la verità davanti agli occhi, sarebbero stati capaci di negarla.

Tornò dopo poco alla realtà dei fatti, e la realtà dei fatti era che se ne stava ancora lì, imbambolato nel bel mezzo del salotto mentre la madre lo fissava, sguardo vuoto, assente, deluso.

«Dove sei stato tutta la notte?» Chiese, monotona, come se non fosse stato più semplice fargli una telefonata, se fosse stata davvero così preoccupata. Frank abbozzò appena-appena un “con gli amici” prima di fare per voltarsi di nuovo verso il corridoio, quando la voce della donna lo interruppe ancora una volta, più autorevolmente. «Ti ho chiesto dove sei stato, non con chi sei stato.» Il ragazzo sbuffò, andandosi a sedere dopo aver capito che per quella volta non se la sarebbe sbrigata così facilmente.

«Sono stato a casa di Mikey e Gerard.» Disse con tono convinto, sapendo di non mentire. Afferrò un pezzetto di pout-pourrie dalla pretenziosa ciotola in vetro che c'era al centro del tavolo e cominciò a giocarci, come per distrarsi da tutto ciò e con tanta improvvisa voglia di muoversi, sfogare, tenersi le mani occupate perché se non l'avesse fatto, avrebbe rotto qualcosa per i nervi.

«Credi che io sia stupida, Frank?» Quest'ultimo la guardò con occhi sgranati, odiando quella situazione: raccontare la verità e non venire creduti. Pensò a cento modi per obiettare, dimostrarglielo, ma prima che potesse aprir bocca, fu interrotto nuovamente. «Sai cosa? Io.. io non voglio nemmeno sapere che cosa tu stia facendo. Non mi importa. Ma sta di fatto che adesso sei adulto, e se pensi di poter rimanere qui e usare questa casa come il tuo albergo personale, puoi scordartelo.» Gli si fermò il cuore in gola alle parole della madre, e anche se spesso era scappato di casa o i suoi avevano minacciato di cacciarlo, mai aveva seriamente considerato l'idea di doversene andare senza alcuna possibilità di ritorno. «Devi trovarti un lavoro ed occupare il tuo tempo in altri modi. Se non hai intenzione di finire gli studi, io non ho intenzione di finanziarti nei tuoi stupidi progettini.» Disse, alzandosi improvvisamente e lasciando Frank a bocca aperta. La prospettiva, ad ogni modo, era migliore di quella di dover vivere per strada.

«Mamma?» Si trovò a domandare, chiamandola con quel nome ormai così alieno sulle sue labbra dopo svariati minuti di silenzio in cui la donna non fece altro che fissare il vuoto. Per certi versi, Frank si convinse, erano simili; non era l'unica ad allontanarsi dalla realtà. E pian piano che la rabbia scemava, il senso di compassione era sempre più forte. Le si avvicinò, sentendosi quasi cattivo nel provare quella strana pietà nei suoi confronti. Si abbassò le maniche del cardigan marroncino, sentendo improvvisamente freddo dopo una forte folta di vento che aprì persino la finestra. Le poggiò una mano sulla schiena nel tentativo di ripescarla dall'uragano dei suoi stessi pensieri, stupendo sé stesso di quanto fosse improvvisamente diventato comprensivo.

«Ti ho stirato i vestiti buoni perché tra un'ora hai un colloquio.» Disse, senza distogliere nemmeno per un secondo lo sguardo da qualsiasi cosa stesse fissando così assennatamente. Per un secondo gli passò davanti agli occhi l'immagine dei cosiddetti “vestiti buoni”, e immediatamente sentì un brivido salirgli per la schiena nel ricordare tutte quelle domeniche in chiesa passate a grattarsi freneticamente per via di quel maledetto tessuto pruriginoso. «Prova a rifiutare e ti ci mando a vivere, a casa di questo Gerard.» Continuò, immobile. Frank tirò immediatamente indietro la mano, sentendosi attaccato senza alcun motivo.

«Perché lo odi così tanto?» Domandò, alzando di troppo la voce e gesticolando furiosamente.

«Perché lo difendi? Cos'è per te?» Si girò di scatto la donna, quasi urlando in risposta alle stridule parole di Frank, e finalmente il ragazzo capì il perché di tutta l'ostilità di quell'ultimo periodo.

In casa sua, l'omosessualità o qualsiasi cosa andasse contro la concezione del cristiano un po' troppo cristiano, erano temi taboo. Il ragazzo, d'altro canto, nonostante fosse tutto meno che omofobo (e dopo essere stato alla scuola cattolica, dove avevano persino espulso una ragazza semplicemente perché era stata vista mano nella mano con un'altra ragazza, era già un'impresa), non aveva mai avuto bisogno di discuterne perché mai si era trovato in una situazione che gli potesse far pensare che forse non era etero come credeva. Sbuffò, trattenendo l'istinto di calciare la poltrona sulla quale si andò a sedere e prendendosi il volto fra le mani, capendo finalmente il perché di tutti quegli interrogatori, il perché di tutte quelle domande riguardo Donna ogni volta che si sentivano anche per soli cinque secondi al telefono, e inorridendo dopo aver capito perché avesse deciso di mettergli in ordine la stanza dopo dieci anni che non lo faceva più.

Avrebbe -in quel momento come non mai- voluto rispondere sinceramente. Avrebbe voluto poterle dire chiaro e tondo che forse, almeno dal suo punto di vista, non era più un semplice amico. Avrebbe voluto dirle di tutto, anche solo per farla incazzare: eppure tenne la bocca chiusa, sapendo che infondo era per il loro bene. Sapendo che, probabilmente, se avesse fatto come voleva, non l'avrebbe mai più rivisto. Sapendo che, specialmente adesso che aveva fatto una promessa a lui e non solo più a sé stesso, non poteva scappare all'improvviso e ritirarsi dal suo compito. Così, quell'ipotetico “tutto” che aveva voglia di pronunciare, lo tenne per sé, conservandolo nei più profondi meandri della sua mente e aggrappandocisi il più saldamente possibile.

«Mamma..» Cominciò, rendendosi conto che stava nuovamente aggirando la domanda.

«Sei cresciuto in una famiglia cristiana, Frank! Cosa abbiamo fatto di male per meritarci un figlio.. così?» Frank non rispose, sentendosi per la prima volta ferito dalle parole della madre; per quanto gli riguardava, lo avrebbe potuto offendere su ogni cosa, davvero. Non si era offeso nemmeno quando aveva chiamato una cosa in cui credeva così tanto “stupido progettino”, figuriamoci, ma se c'era una cosa sulla quale non voleva sentirsi attaccato, era la persona che dopo tanto tempo era diventato. Non le rispose, convinto che non lo avrebbe fatto per almeno qualche giorno, e continuò ad ascoltare. «Un ragazzo! Con tutte le brave ragazze che ti abbiamo presentato, le amiche di famiglia, le ragazze a scuola..» Sospirò, ormai più rassegnata che arrabbiata, e si prese il volto fra le mani mentre continuava a scuotere il capo in segno di disappunto. «Se lo sapesse tuo padre..» Aggiunse dopo poco.

«Ma mio padre non lo sa, giusto?» Si alzò, improvvisamente incazzato, forse anche il doppio di prima. «Mio padre non sa mai un cazzo perché non gli importa mai di un cazzo, no? Forse è per questo che sono “cresciuto così male”, che ne dici?» Si fermò, notando la faccia shoccata della donna dinanzi a lui. Si rese conto del tono un po' troppo minaccioso che aveva assunto e sospirò, tirandosi un po' indietro. «E a te importa solo quando ti fa comodo, no? Solo quando hai bisogno di sfogarti, quando ti faccio da antistress..» Abbassò il tono di voce, sospirando fra sé e sé a testa bassa. «E hai pienamente ragione. Ho bisogno di un lavoro perché sono stanco di essere un peso per voi. Non preoccuparti per la questione dell'albergo privato; da oggi in poi credo che ci passerò ben poco tempo qui a casa.» Alzò di nuovo lo sguardo, sorridendo all'indignazione di Linda. Era quella la sua rivincita: nonostante fosse ferito, era capace di ferirla allo stesso modo. E improvvisamente, dopo aver preso di nuovo lo strumento in spalla e aver afferrato distrattamente il porta-abiti in plastica, era deciso più che mai a farcela.

 

**

 

«Gerard?» Frank esordì, bussando alla porta di camera del ragazzo nonostante lo avesse già avvertito della sua presenza vocalmente. Gerard, in tutta risposta, si limitò ad un verso simile ad un “mh-mh”, e lasciò che il ragazzo entrasse. Quest'ultimo riuscì ad avere problemi persino ad aprire una porta che non era effettivamente chiusa a chiave, e quando entrò, vide Gerard disegnare. Per la prima volta. Cominciò a chiedersi come potesse essere possibile che non l'avesse mai così: era una cosa che faceva spesso, certo, ma non in quel modo: di solito non erano altro che scarabocchi fatti distrattamente su un block notes e stupidi disegnini senza troppo significato. In quel momento, invece, sembrava completamente preso da ciò che stava facendo, chino sul tavolo da lavoro, in un silenzio tombale. Rimase fermo sull'uscio della porta, senza nemmeno fiatare, come se non volesse interrompere ulteriormente quell'attimo che sembrava quasi rubato al tempo. Si morse il labbro per dissuadersi dall'idea di parlare, di chiedergli cosa stesse disegnando, e soprattutto smise di chiedersi se glie lo avrebbe fatto mai vedere.

«Puoi anche entrare.» Disse, cambiando nervosamente foglio per qualche ragione che Frank non colse. Il ragazzo fece come gli fu domandato, avvicinandosi e concedendosi il diritto di essere più indiscreto di quanto non avrebbe dovuto e stringendolo da dietro, poggiando il mento nel suo incavo del collo mentre osservava il modo in cui la mina della matita scorreva morbida e silenziosa sul foglio ancora quasi immacolato. Gerard non fece commenti di nessun tipo sull'intera situazione, ormai troppo assorto dalla sua occupazione perché si accorgesse di quanto il loro comportamento stesse andando oltre quei limiti che loro stessi si erano imposti. Frank, il più furtivamente possibile, sfogliò la pila di disegni che poco prima l'altro aveva girato, quasi come se ne fosse imbarazzato, e non riuscì a credere ai suoi occhi quando vide proprio questi ultimi ritratti su carta. Controllò anche gli altri, non capendo se Gerard avesse lasciato che facesse come preferiva o se più semplicemente non se ne fosse nemmeno accorto, e notò su un foglio quello che sembrava senza ombra di dubbio il suo naso. Aveva dedicato anche un intero foglio alle sue sopracciglia, il che sembrava alquanto ridicolo, ma ehi, non era certo lui che si era laureato all'accademia d'arte, e poteva anche chiudere il becco con i suoi ottusi ed inesperti giudizi. Gerard si voltò improvvisamente a guardare su cosa stessero trafficando le sue mani e arrossì, strappandoglieli via.

«Non sono ancora finiti.» Borbottò con poca credibilità, come se fosse quello il motivo per cui aveva deciso di nasconderli (tra l'altro, Frank cominciò davvero a chiedersi se non fosse quella la vera ragione.. perché infondo anche un bambino di quattro anni si sarebbe reso conto che erano ancora perfettamente in vista). Gerard non si era mai fatto problemi del genere, anzi, soprattutto quando un disegno non era ancora finito, decideva di mostrarglielo per ricevere un giudizio ed eventuali consigli su correzioni e modifiche.

«Comunque mi piace come mi hai fatto le labbra.» Esordì Frank, muovendosi a malavoglia da quella posizione così perfetta per sollevare leggermente l'ultimo disegno rimasto sulla scrivania per un semplice errore di coordinazione e precisione di Gerard. «Ma non hai preso bene la pieghetta qui.» Disse, indicando un punto microscopico sul disegno giusto per mettere ancor più in evidenza che lo stesse ritraendo. Gerard roteò gli occhi, quasi a difendersi, e l'altro non riuscì a contenere una risatina piuttosto inopportuna e a reprimere l'inspiegabile sentimento di soddisfazione.

«Peccato che non siano le tue.» Rispose, acido, e se non fosse arrossito poco prima, Frank gli avrebbe anche creduto. Ci fu un imbarazzante e non andato a buon fine tentativo di recuperare il tanto discusso foglio da parte di Gerard, e poi, nuovamente, calò il silenzio dopo un lungo sospiro di quest'ultimo. «Mi fai cadere le palle.»

«Sei troppo bravo per dire stronzate, faresti meglio a tacere.» Il più grande sbuffò alle parole dell'altro, aggrottando improvvisamente le sopracciglia nel guardarlo da testa a piedi, come se fosse appena entrato.

«Perché sei vestito come un coglione?» Disse, sorridendo genuinamente e afferrandogli la punta della cravatta blu scuro dal basso della sua sedia girevole, giocherellandoci. Frank sorrise, ricordandosi improvvisamente gli sguardi sorpresi dei commessi del negozio in cui si era cambiato d'abito quando, dopo essere entrato con cardigan e maglietta sgualciti e un jeans a vita un po' troppo bassa, era uscito con pantaloni e giacca grigi, camicia di un bianco immacolato e cravatta, congedandosi con un semplice e casuale cenno del capo. «Frank?» Lo richiamò nuovamente Gerard, tirando un po' troppo forte e facendolo quasi affogare.

«Avevo un colloquio di lavoro.» Cominciò, osservando la reazione spaesata del ragazzo, che lentamente lasciò la presa della cravatta. «Mi hanno preso.» Sorrise, alzando i pollici in segno di vittoria. Solo nel notare la reazione meno gioiosa dell'altro, però, capì il motivo della sua probabile confusione. «Ma è una cosa part-time, solo tre giorni a settimana. Cinque ore la mattina, così sono libero il pomeriggio. E' okay. E al momento ne ho bisogno. Ho litigato con i miei e mi servono soldi per pagarmi un posto dove stare, perciò..» Si morse il labbro inferiore, ripensando al litigio di prima e sentendo nuovamente i nervi risalire a fior di pelle.

«Concordo sul fatto che potrebbero servirti dei soldi..» Cominciò Gerard, gesticolando e fermandosi all'improvviso nonostante sembrasse così convinto. «..Ma un posto dove stare ce l'hai già.» Azzardò timidamente e Frank ci mise davvero un ammonto ridicolo di tempo per capire che si stesse riferendo alla propria casa. Gli si fermò per un secondo il cuore in gola all'idea di vivere effettivamente insieme, e non ci pensò due volte prima di rifiutare e togliersi dal guaio in cui stava per cacciarsi. Solo pensare a tutte le situazioni imbarazzanti nelle quali si sarebbe potuto mettere, gli fece capire che piuttosto avrebbe preferito tornare a casa sua (e mai e poi mai avrebbe pensato di poter dire una cosa simile).

«Non posso, veramente, Gerard, io..» Cominciò a blaterare, rendendosi conto solo in quel momento che non aveva un vero e proprio motivo per rifiutare eccetto tutte quelle paranoie che in teoria non avrebbe dovuto avere. «Davvero, posso farcela, devo dimostrarglielo.» Sospirò, annuendo fra sé e sé e gratificandosi dei suoi sprazzi di genialità al momento giusto. Che bugiardo del cazzo.

«Ma ormai è come se vivessi da noi! Torni a casa solo per provare ai tuoi che sei ancora vivo e cambiarti d'abito, che differenza farebbe se lo rendessimo ufficiale?» Cominciò, alzando un po' troppo la voce. Frank cominciò a pensare che forse ci tenesse seriamente, e non riuscì davvero a trattenere quella strana sensazione di gratificazione che lo fece sorridere quasi contro volontà. «Non devi dimostrargli niente, hai già trovato un lavoro.» Continuò, mettendo improvvisamente su quell'espressione da cucciolo di antilope maltrattato. «Dai, dai, dai..» Senza alzarsi, lo abbracciò. O meglio, abbracciò il suo busto fin dove riuscì ad arrivare.

«Non posso, davvero.. ti ringrazio, e non immagini quanto, ma per adesso darò ai miei una seconda possibilità.» Disse, irrigidendosi quando sentì la faccia dell'altro schiacciarsi contro il suo torso, manco fosse un cuscino. «Ma se dovessimo.. li- litigare..» Balbettò dalla sorpresa quando Gerard si alzò e, senza perdere nemmeno un secondo, poggiò le labbra su quel poco di collo che il colletto della camicia lasciava visibile, quasi sulla mascella. «..sareste i primi a cui mi rivolgere- rei.» E di nuovo si interruppe a metà parola quando arrivò poco dietro l'orecchio.

«Bla, bla, bla..» Disse Gerard, a voce così bassa che se non avesse parlato ad una distanza infinitesimale da lui non lo avrebbe nemmeno sentito. «Sei andato ad un colloquio senza nemmeno farti la barba?» Chiese, probabilmente dopo aver percepito un po' di ruvidità sulla sua guancia. Frank sorrise, e in qualche inesplicabile modo sentì che anche l'altro fece la stessa cosa, nonostante non ci fosse modo per vederlo. Il ragazzo prese un respiro profondo e cercò di scacciare tutti i discorsi possibili ed immaginabili sull'omosessualità, rendendosi conto solo in quel momento di quanto il lavaggio del cervello che aveva subito a scuola fosse, anche contro volontà, servito.

«Ehi, ehi..» Si allontanò minimamente poco prima che si baciassero, e non sostenendo gli occhi confusi dell'altro, abbassò i propri. «Scusa..» Borbottò, rendendosi conto solo in quel momento che lo aveva praticamente scacciato via. Gerard arrossì e Frank lo sentì deglutire, e in quel preciso istante fu preso dai sensi di colpa.

«Scommetto che è per questo che avete litigato, no? Ti hanno fatto sentire in colpa perché ti piace un ragazzo.» Gerard disse, visibilmente seccato. Il più piccolo perse un battito, ma solo dopo si rese conto che non c'era modo in cui potesse sapere che, effettivamente, gli piaceva -e non poco-, e probabilmente lo aveva semplicemente dato per scontato, visto e considerato quello che stava succedendo in quell'ultimo periodo. Frank esalò un sospiro spezzato, trattenendo l'urlo che già da quella mattina gli squarciava il petto in attesa di uscire.

«Gerard..» Disse invece, sussurrando appena e mantenendo la testa bassa. Gerard pensò bene di prendergli il volto fra le gelide mani, invece, “costringendolo” a guardarlo negli occhi.

«Te l'ho già detto che ti rispetto, e di conseguenza rispetto anche le tue scelte..» Cominciò, e Frank aveva paura che da un momento all'altro si sarebbe messo a piangere. «..quindi se non vuoi va bene, ma se non vuoi solo perché ti hanno fatto star male per quello che è successo, allora..» Si strinse nelle spalle, scuotendo il capo e cercando di fargli capire quanto fosse ridicolo ciò che stava facendo. Il più piccolo deglutì quello che forse era il cuore che gli era appena salito in gola.

«Ascoltami, è che-»

«No! Non è “che”!» Contestò Gerard, alzando il tono di voce e facendo immediatamente un passo indietro. Frank sentì subito la mancanza della presa delle sue mani sul volto, salda ma al contempo stranamente rassicurante, e quando le vide stringersi in due pugni, non riuscì a non chiedersi se la colpa di tutto quel nervosismo fosse proprio lui. «E' per questo, vero?» Chiese, dopo un momento di silenzio tale che il più piccolo si convinse di avere la capacità di dilatare il tempo. Con un sorriso amaro in volto, immediatamente Gerard tornò rilassato, avvicinandosi di nuovo all'altro.

«Mi dispiace, è solo che non so più che pensare..» Disse, sospirando fra sé e sé e continuando ad evitare il contatto visivo, almeno per ora che poteva. Sentì le dita dell'altro cercare distrattamente le sue, e non ci pensò due volte prima di intrecciarle con le proprie, che infondo in quel momento non importava nemmeno più di tanto. Prese un respiro profondo, cercando di non far rumore nel lasciarlo andare. Era strano, perché era sempre stato convinto di odiare quei momenti in cui c'è così tanto silenzio che persino un semplice respiro potrebbe rovinarli, eppure quello sembrava così perfetto che, una volta tanto, decise di rimanere al gioco. Si concentrò non più sull'imbarazzante rumore quanto sul calore, sulla sensazione di contatto e intimità e- Dio, non pensava nemmeno che avrebbe mai usato il termine “intimità”. Strinse più forte la mano dell'altro e cercò anche l'altra, sentendosi improvvisamente minuscolo di fronte al muro che lui stesso aveva costruito.

«Nell'antichità, l'amore fra due uomini era considerato più virile.» Cominciò il più grande, con un tono di voce così calmo che era quasi sorprendente. Frank sobbalzò impercettibilmente alla parola “amore”, che lui stesso non era mai stato capace di mettere in relazione con Gerard e che quest'ultimo usava così liberamente. «Le donne servivano solo per portare avanti il nome di famiglia.» Il ragazzo lo vide sorridere e scuotere il capo sotto quella massa di capelli corvini, come se lui stesso non riuscisse a credere di come fossero cambiate le cose in un tempo così relativamente breve. «Non che sia una cosa bella, per carità, ma prendi per esempio Wilde, Shakespeare-»

«Shakespeare aveva una moglie, Gerard.» Disse Frank, riuscendo addirittura a ridacchiare con una strana tranquillità che veramente poco gli apparteneva.

«Questo è quello che ti insegnano se vai alla scuola cattolica. Shakespeare aveva una moglie, e aveva dei figli, ma ovviamente vivendo in un paesino non poteva fare fortuna. Così andò a Londra per proporre le sue tragedie e lì conobbe l'amante.» Il più piccolo rimase incredulo a quelle parole, atterrito nel pensare a quanto fosse inconcepibile una situazione del genere, a quanto adesso le coppie si sentissero almeno una volta al giorno fra tecnologia e vita reale, a quanto, per esempio, Alicia se la prendesse con Mikey se anche solo si permetteva di risponderle con qualche minuto di ritardo. «E' strano pensare a come si siano ribaltate le cose, mh?»

«Pazzesco..» Sussurrò il ragazzo, determinato a non interrompere quel monologo.

«Ma questo d'altronde non c'entra granché. E' solo per farti capire che l'attrazione per il proprio sesso è sempre esistita e che, tra l'altro, non è legata ad alcun tipo di perversione o cosa.» Fece una smorfia, come per sfatare tutti quei miti che gli avevano incuccato sin dalla nascita. «Basta leggere un normale libro di scienze per scoprire che i nervi legati all'eccitazione sono per lo più in relazione con due dei cinque sensi: il tatto e la vista.» Si fermò, probabilmente riorganizzando i pensieri. «La prima evito di spiegartela, e la seconda si spiega da sola. Non c'entrano malattie, strane forme di pazzia o cosa: è la natura. Come a me può piacere una ragazza che vedo per strada e a te può far venire voglia di tagliartelo e farti prete.» Si strinse nelle spalle, e Frank sorrise all'idea. «Non è possibile etichettarsi e definirsi etero o gay, perché tutti abbiamo delle eccezioni.» Continuò, alzandogli nuovamente il volto allo stesso modo di prima e fissandolo negli occhi. La parola “eccezioni” rimbombò nelle orecchie di Frank così forte che la sentì persino echeggiare da qualche parte all'altezza del cuore. Era lui l'eccezione di Gerard, o quel che Gerard cercava di dire era che lui stesso poteva essere, per Frank, un eccezione? «Molti non hanno la fortuna di incontrare la propria, magari, o altri non hanno il coraggio di accettarlo..» Si morse il labbro, sentendosi stranamente chiamato in causa. «Tu che hai avuto la fortuna di non rientrare nella prima categoria, puoi mai chiuderti in questo modo e decidere volontariamente di far parte della seconda? Io credo che tu sia troppo intelligente per comportarti così, ma lascio a te la scelta..»

Eccezione”.

La parola suonava bene e Frank ci si stava già abituando. La boccheggiò più volte, abituandosi alla strana curvatura che prendevano le sue labbra quando cercava di pronunciarla. Era una di quelle parole che aveva più che altro sentito qui e lì e che, maggiormente, aveva usato in qualche tema scolastico o aveva sentito in qualche film strappalacrime. Certo, ad ogni modo era una spiegazione più che plausibile: aveva sin dalla prima sera sentito che in quell'incontro c'era qualcosa di strano, qualcosa che era più di una semplice coincidenza, e adesso lo sapeva. Era un eccezione. Lo guardò fisso negli occhi, cercando una risposta ad una domanda che non esisteva: in quel momento ci credette e trovò la risposta che gli serviva, ed era esattamente ciò che gli bastava.

 

**

 

Sciaooooeifjsigje!

Innanzitutto, mi scuso per il ritardo. Sto postando a questo orario a dir poco improponibile perché ho finito ieri sera verso mezzanotte/l'una di scrivere ma non avevo internet e non potevo postare, quindi arrivo adesso, alle cinque del mattino, prima di prendere il treno........ (ho detto tutto, o vi beccate una me assonnata, o ci ri-becchiamo la settimana prossima).

Chiedo scusa per l'ultima parte che se n'è un po' scesa rispetto all'inizio, ma non ho avuto la forza di correggere granché visto l'orario, e adesso non ne ho il tempo oesfreoigjreji porcattttroiaaahh.

Quindi bene, al prossimo capitolo -che potrebbe arrivare in ritardo come questo, perdonatemi-, le recensioni sono bene accette e vi permetto di prendermi anche a padellate.

Ciao. <3<3<3

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** No title ***


 

8. No title





 

«Grazie mille, arrivederci.» Rispose Frank all'ennesimo volto senza nome, porgendo l'ennesimo sacchetto all'ennesimo cliente nell'ennesimo giorno di lavoro. O forse era solo il terzo, ma non importava: fatto stava che era ancora peggio della scuola e la scuola era la cosa peggiore di cui avesse memoria. Questo diceva più o meno tutto riguardo le sue mattinate da “uomo impegnato”: serviva caffè, serviva dolci di ogni tipo, si impegnava a sorridere a tutti anche se il solo fatto che non si fosse trasformato in un serial killer dopo aver avuto a che fare con qualcosa come il trentesimo cliente della giornata che non si era degnato nemmeno di salutare era una nota di merito.

Da un altro punto di vista, incontrare così tante persone era quasi divertente: immaginare la storia della loro vita, le ragioni per cui potrebbero essere lì quel giorno, il motivo per cui potrebbero essere così maledettamente acide da non degnarlo nemmeno di un sorriso, il parere che avrebbero potuto avere su di lui. Tra l'altro, per quanto potesse essere terrorizzato di quest'ultimo, doveva ammetterlo, non era l'unico a farsi dei pareri: perché, per esempio, ad una faccia simpatica poteva perdonare un mancato saluto. Magri aveva un appuntamento lì e nessuno si era presentato. Chi poteva dirlo. Stava tutto nell'atteggiamento e nel caso particolare, e lui di quel caso era un po' detective, un po' giudice, e anche l'unico a scontare la pena.

«Salve.» Si sentì dire da una voce piuttosto familiare. Ma non familiare alla “ce l'ho presente”, familiare alla “la riconoscerei fra altre mille persone di un corteo urlante”. Alzò gli occhi e incontrò quelli di Mikey, coperti dai suoi soliti occhiali spessi come due fondi di bottiglia incollati insieme, e fu più o meno solo in quel momento che realizzò che erano tre giorni che non si faceva effettivamente sentire. Maledetto lavoro, maledetti genitori, maledette riunioni di famiglia per il compleanno del padre che duravano un po' troppo rispetto all'effettiva durata del compleanno del padre, maledette zie con le loro schioccate di guance del cazzo, maledette nonne possessive che non gli facevano mettere piede fuori casa solo perché loro erano nelle vicinanze, maledetto telefono confiscato del cazzo, maledetta Linda che non lo faceva avvicinare a quello di casa perché “sapeva che avrebbe chiamato quel tipo”.

«Se mi vuoi parlare dammi dieci minuti e arrivo, ma non farmi bloccare la fil-»

«Un muffin e un caffè, il solito.» Lo interruppe, fingendosi cliente abituale, e Frank dubitò davvero che la ragione per cui si trovasse lì fosse proprio quella, ma era un cliente come tanti e doveva comunque servirlo. Pagina uno del contratto, paragrafo due, “clausole generali”, le preferenze fra clienti e l'eccessiva socializzazione con essi durante l'orario di lavoro sono severamente vietati.

«Ci piscio dentro come ogni giorno?» Domandò con una fintissima voce femminile, cominciando ad aggirarsi per la cucina senza aspettare nemmeno una riposta, nella speranza che ci fosse qualcosa di già pronto. Grazie a Dio le sue preghiere furono ascoltate e afferrò il primo muffin ed il primo caffè che trovò sul pass, tornando alla cassa e sbiancando nel vedere che la fila si era ulteriormente allungata. Come se la sua fosse l'unica fottuta cassa di tutto il negozio. Ma “il cliente ha sempre ragione”, e allora Frank continuò a ripeterselo: sempre. «Porta via o consuma qui?» Gli chiese a quel punto, col tono più formale che riuscì ad usare con una persona che per lui era un fratello.

«Perché indossi quello stupido cappellino da barista?» Chiese, deridendo l'abbigliamento un po' troppo sgargiante e rosa che Frank detestava già abbastanza di suo con un'ovvia citazione.

«Perché indossi quegli stupidi occhiali da rincoglionito?» Continuò secondo il copione che imponeva la scena, porgendogli ad ogni modo un sacchetto nella speranza che decidesse di consumare altrove. Non che non gli andasse di vederlo, anzi. Era solo l'ambiente di lavoro che lo innervosiva tremendamente e gli faceva passare la voglia di avere qualsiasi contatto umano. «Sono quattro dollari e novantanove cents.»

«Quel film non ha senso.» Constatò il ragazzo riferendosi a Donnie Darko (dal quale avevano tratto lo scambio di battute di poco prima), frugando nella tasca posteriore del jeans con movimenti che in altre circostanze sarebbero stati di dubbia natura. Trovò una banconota da cinque e gliela porse con eccessiva pacatezza. «E il centesimo di resto te lo lascio di mancia perché sono veramente molto tenero, non c'è bisogno di ringraziarmi.» Afferrò il suo sacchetto bianco con su impresso il logo della catena, aspettando sicuramente un qualche tipo di risposta.

«La tua faccia non ha senso.» Sbuffò. «Tra poco stacco, aspettami da- da qualche parte.» E allora Frank si strinse nelle spalle, ricordandosi solo in quel momento che la fine della sua giornata lavorativa era finalmente arrivata, per fortuna.

«Da qualche parte, tutto chiaro.» Disse Mikey, annuendo fra sé e sé e sarcasticheggiando sulla sua mancata capacità di specificare. Frank staccò lo scontrino dal registratore di cassa che lo aveva appena stampato e glielo porse con poca delicatezza insieme al suo cent, quasi schiaffandoglielo in mano. Il ragazzo guardò la monetina così piccola da essere ridicola che c'era nel suo palmo con l'aria di uno che è veramente pieno di così domande esistenziali da annegarci dentro.

«Non posso tenerlo, le mance sono vietate. Pena il licenziamento. Cosa che non mi dispiacerebbe.» Sbuffò, aggiustandosi qualche ciuffetto di capelli sotto il cappello. Pagina quattro del contratto, paragrafo tre, “apparenza e idoneità”, vietato esporre pettinature eccentriche. Coda di cavallo per le ragazze, capelli nascosti per i ragazzi (se di lunghezza maggiore ai due centimetri e mezzo dalle orecchie in poi). Frank si sentiva come se fosse stato appena rinchiuso in una moderna versione Auschwitz, fra la dittatura lì a lavoro e quella che subiva a casa.

«Che culo. Con questa ci apro un mutuo.» Lanciò la monetina per poi riprenderla nello stesso palmo con una strana coordinazione uscita dal nulla, avviandosi via dalla fila di clienti lamentosi. «Ciao Frank!» Gli urlò, aprendo la porta del locale per uscire e fermarsi ad uno di quei tavolini sotto il gazebo plastificato di proprietà del bar. Pagina due del contratto, quinto paragrafo, “regole generali”, far cortesemente allontanare dai tavolini riservati i clienti che non hanno pagato il coperto. Ma Mikey era suo amico e non lo avrebbe di certo cacciato. Al massimo si farebbero fatti cacciare insieme a turno finito (pagina uno del contratto, paragrafo due, “clausole generali”, non è previsto alcuno sconto o agevolazione per i dipendenti).

Di fronte a lui si presentò una ragazza bionda. Una sedicenne, a giudicare da come era vestita e come camminava e si comportava, con quell'atteggiamento di ingiustificata superiorità. Era l'una e venticinque, forse era una studentessa appena uscita da scuola. Lo guardò come si guarda un cane che recita poesie ottocentesche, e se Frank sorrise, fu soltanto perché era una persona che si divertiva davvero con poco e l'immagine che la sua stessa mente aveva creato era davvero troppo. Chiese una bottiglietta di thè deteinato e un brownie senza aggiunta di zuccheri. Frank per poco non le disse che forse le conveniva prendere un bicchiere d'acqua ed un biscotto, perché se proprio doveva posticipargli l'uscita, tanto valeva farlo per un valido motivo. Ma il cliente ha sempre ragione, ed il ragazzo la servì.

 

**

 

Frank, dopo essersi cambiato alla buona nel bagno, cercò di aggiustarsi i capelli tramite quel minimo di riflesso della sua immagine che gli offriva la porta in vetro del locale. Purtroppo, dalla porta in vetro del locale, scorse anche Mikey con il suo dito medio ben in vista ed uno sguardo truce mentre boccheggiava “idiota”, e pensò bene di darsi una mossa nonostante sembrasse uno dei Beatles versione senzatetto.

«Dimmi.» Sbuffò Frank in maniera piuttosto esausta, buttando il borsone che conteneva la divisa del locale su una delle sedie del tavolino a quattro che stavano ingiustificatamente occupando e mettendosi seduto in modo tale da essere di fronte a Mikey. Mikey che, dal canto suo, si stava prendendo tutto il tempo di sorseggiare il suo caffè dalla cannuccia -il caffè con la cannuccia, poi.. dove cazzo era finito a lavorare- senza degnarsi di rispondergli. «Dimmi!» “Chiese” di nuovo dopo due minuti cronometrati in cui l'unico rumore udibile fu quello delle conversazioni altrui e dello stupido risucchio della stupida cannuccia di quello stupido color salmone. Pagina uno del contratto, clausola uno, “una breve introduzione”, il nostro logo e la nostra scritta sono color pesca. Frank un tempo ricordava anche il tenerissimo aneddoto del cazzo che c'era dietro quella scelta. Un tempo.

«Oh, anche io sto bene, ti ringrazio.» Cominciò con tono del tutto casuale, come se non si fosse presentato nel bel mezzo del suo turno senza una ragione specifica e riparando la mancanza di domande che non lo intimassero di andare al dunque da parte di Frank. «E' da un po' che non ci si sente.» Disse, poggiando finalmente il bicchiere di quello strano materiale che non era né plastica e né carta sul tavolo. «Sì, sicuro, stiamo tutti bene, lo sappiamo che ti dispiace!» Continuò sull'onda del sarcasmo, facendolo sentire in colpa anche se infondo non era scomparso così per sua volontà.

«Mi dispiace. Sono recluso in casa. Esco solo per lavoro, non me ne parlare.» Sbuffò di nuovo, come se fosse l'unica cosa che potesse fare in quel momento. Si prese il volto fra le mani e se lo stropicciò, come se in qualche modo avrebbe attenuato la mancanza di sonno.

«Avevamo immaginato qualcosa del genere.» Disse, schioccando le dita come se avesse appena scoperto l'acqua calda. «..O questo o le tigri siberiane mutanti.» Si strinse nelle spalle, dando un morso al suo muffin con la faccia di uno piuttosto denutrito. Cosa che il suo fisico avrebbe potuto confermare, ma che conoscendo le sue abitudini alimentari era abbastanza impossibile.

«Stavo pensando di farmi un tatuaggio bello in vista, presentarmi così e farmi licenziare in tronco.» Frank disse, ripensando alla conversazione che aveva avuto ieri sera col padre in cui lui stesso lo aveva appoggiato. Non che in generale fossero d'accordo su tante cose -e non che parlassero tanto, a dirla tutta-, ma quelle poche volte che lo erano, lo erano davvero. Senza compromessi. «Più o meno qui.» Disse, indicandogli una parte laterale del collo. Pagina quattro del contratto, paragrafo tre, “apparenza e idoneità”, vietati tatuaggi troppo eccentrici o troppo visibili.

«Figo.» Disse con una strana smorfia in volto. Frank si sarebbe aspettato più entusiasmo, okay, ma infondo non aveva tutti i torti ad essere preoccupato. Lo era persino lui che di solito non aveva mai un minimo dubbio su ciò che faceva, questo la diceva tutta. «Da questo deduco che ti sei dato al campeggio, perché se i tuoi ti dovessero cacciare, l'unica alternativa alla vita bucolica è quella a casa nostra.» Continuò, citando esattamente lo stesso discorso che si era mentalmente ripetuto una nottata intera. Frank sospirò, fissando il posacenere immacolato che c'era sul tavolino e sentendo un improvviso bisogno di nicotina.

«Papà dice che è d'accordo. Che non vuole che io faccia la “sua stessa fine”..» Disse, mimando le virgolette e cercando di non pensare alla tristezza che era stampata sul volto dell'uomo mentre pronunciava quelle parole. «Ma d'altronde questo non mi assicura l'appoggio di Linda, dato che litigano su tutto.» Pose particolare accento nel pronunciare il nome della madre, come se volesse mettere ancor più in evidenza i problemi familiari che aveva per tanto tempo nascosto. «Non so che fare, sul serio.» Disse, sbuffando nuovamente e mandando anche a puttane l'ennesimo “domani smetto” pronunciato il giorno prima. Cercò il pacchetto di sigarette nella tasca anteriore del borsone, capendo che forse, finché si fosse ostinato a portarlo con sé ovunque, non ci avrebbe mai dato un taglio.

«Devi pensarci sul serio.» Disse, appropriandosi del pacchetto abbandonato sul tavolo mentre Frank cercava l'accendino e scroccando una sigaretta. Il ragazzo avrebbe anche provato ad incazzarsi, ma come poteva negare una sigaretta ad una persona che probabilmente lo avrebbe ospitato a casa sua e che lo aveva effettivamente già fatto da un bel po'? «A proposito di tatuaggi ed aghi..» Cominciò Mikey, e si interruppe dopo aver ricevuto con un lancio l'accendino appena usato dall'altro. «..Sono stati tre giorni intensi per il nostro Gerard.» Continuò, trattenendo una risata. Frank sgranò gli occhi, terrorizzato dall'idea che si potesse esser fatto un tatuaggio e dalla miriade di cose che si sarebbe potuto tatuare quello psicolabile. Poi si ricordò della sua fobia, e capì che al massimo aveva fatto il prelievo.

«Ne sono quasi sicuro ma ti prego, assicurami che non si è tatuato niente perché io-»

«No, ancora meglio..» Gli fece cenno con la mano di aspettarlo un secondo, scoppiando a ridere. «Gerard si-» Provò a dire, fallendo miseramente e riprendendo a scompisciarsi. «Gerard si è fatto-» Di nuovo, secondo tentativo. «..la vaccinazione!» Quasi urlò, e Frank capì finalmente il perché di tutto quel ridere. Solo l'idea di uno di quella età seduto nella sala d'attesta del perito del quartiere ad aspettare il vaccino (e probabilmente più spaventato di tutti i bambini nell'intera stanza), era abbastanza per farlo morire un po' dentro.

«Non ci credo. Voglio i dettagli.» Disse, ancora sconvolto, chiedendosi come potesse aver posticipato così tanto un evento come la vaccinazione.

«Okay, okay, allora..» Cominciò, aggiustandosi gli occhiali sul naso come un filosofo o qualche cagata del genere e ricomponendosi un secondo per prendendo fiato. «In pratica, a quanto pare, mamma aveva di meglio da fare quando eravamo piccoli e si è dimenticata di accompagnarlo a fare l'antitetanica e l'ultimo richiamo per la pertosse..» Cominciò, e Frank scosse il capo sorridendo all'intera situazione. «Così l'altro giorno ci chiama una dottoressa e ci caghiamo davvero sotto perché fa tutta la tragica, giuro, sembrava ci stesse per dire che aveva il cancro o una cosa del genere..» Trattenne una risata per non interrompere nuovamente il discorso, e poco dopo andò avanti. «E comunque salta fuori che gli mancavano questi ultimi due vaccini e che “era molto importante che li facesse”, così è partita con un discorso di un quarto d'ora su tutte le malattie che si possono prevenire con una semplice puntura, e tu dovevi vedere come è sbiancato perché- Gesù. E' praticamente una di quelle cose che mi renderanno felice a vita. Non sarò mai più triste dopo aver visto quella faccia. E allora-»

«Salta alla parte cruenta, tanto si è capito che è per quello che ridi, sadico bastardo.»

«Dio, ma come puoi darmi del sadico? Era lì, seduto sul lettino a misura di bimbo di tre anni, e ha urlato più di tutti i neonati che c'erano prima di noi messi insieme.» Frank scoppiò a ridere, cercando di seguire comunque il filo del discorso nonostante le immagini create dalla sua mente fossero già abbastanza per fargli desiderare di essere stato lì. «Dovevi vedere come faceva passare tutti avanti, oppure quando una donna gli ha chiesto di chi fosse il papà..» Anche Mikey non riuscì più a trattenersi, e fece una pausa relativamente breve prima di riprendere il discorso. «E comunque si stava sentendo davvero male. Cioè, ha visto l'ago e gli tremavano le gambe. E' sbiancato e aveva tipo gli occhi lucidi, Frank, ti giuro su Dio che stava per piangere. E quando ha scoperto che le avrebbero fatte tutte lo stesso giorno, una sul braccio destro e l'altra sul sinistro..» Frank cercò di trattenere il suo, di pianto, nonostante fosse di natura ben diversa da quella di quello di Gerard. «Pensavano di rimandare la seconda perché aveva il battito troppo accelerato, poteva avere uno shock anafilattico o una roba del genere. E alla fine gli hanno dato un lecca-lecca, per farti capire.» Mikey si strinse nella spalle e concluse il suo “avvincente” racconto mentre l'altro spegneva la sigaretta della quale gli era passata veramente voglia dopo tutto quel ridere.

«Sono senza parole.» Disse, con un tono fra lo sconvolto e il divertito. «Sai che risate se mi facessi accompagnare da lui a farmi tatuare il collo?» Sorrise fra sé e sé, pensando a tutte le cose che si era perso in soli tre giorni e a quanto, a quel punto, fosse sicuro di quello che stava per fare. Un giorno sua madre si sarebbe pur convinta della scelta che aveva fatto, perché Frank ci credeva così tanto che anche se avesse smesso persino di chiamarlo quando era via, un giorno lo avrebbe visto in TV o da qualche parte, magari qualche cartellone pubblicitario o una roba del genere, e forse avrebbe capito che avrebbe dovuto dargli più fiducia.

«Passando alle cose serie..» Frank rabbrividì senza un preciso motivo. Mikey non passava mai alle cose serie. Che stesse cercando un modo carino di dire che non era abbastanza e avevano trovato un rimpiazzo migliore? «Dici che avremo il piacere di rivederti entro la fine dell'anno?» Chiese, con tono meno scocciato di quanto il ragazzo si aspettasse. «Cioè, dico, è okay se hai bisogno di qualche giorno di stacco però sarebbe stato bello saperlo.»

«Tu non hai davvero idea di quello che è successo.» Cominciò, rendendosi conto solo mentre cercava un modo per raccontare gli ultimi tre giorni di quanto suonasse tutto veramente poco plausibile. «Mi hanno recluso in casa, mi hanno tolto il telefono o qualsiasi strumento che mi potesse permettere di avere contatti umani, non potevo usare nemmeno quello di casa, non so che cazzo gli abbia preso.» Sbuffò sotto gli occhi increduli ma fiduciosi dell'altro. Mikey fece una smorfia, come se potesse capire come ci si sentisse.

«Non ti invidio.»

«Non hai sentito la parte peggiore.»

«Non credo di sentirmi pront-»

«Ho passato i pomeriggi con mia nonna.» Cominciò, rendendosi conto solo in quel momento che, senza conoscere i dettagli riguardanti sua nonna paterna, la situazione non sembrava così tragica. «Solo che si dimentica le cose, a volte..» Fissò lo sguardo a terra, rimpiangendo immediatamente quello che gli stava per raccontare. «A volte anche di me. Allora sono tornato a casa dopo il turno e mi ha urlato dietro, non c'era nessun altro a dirle che sono il suo fottuto nipote e mi stava per lanciare un bicchiere di vetro in faccia, Mikey, ti giuro che ho avuto paura.» Sospirò, sudando freddo nel ripensare a quella scena. Sua nonna poteva anche dimenticarsi le cose, ma di certo non si era dimenticata come usarle per colpire la gente.

«Che megera.» Disse l'altro, quasi in lacrime dal ridere.

«Che cazzo ridi, mezzasega. Le ho dovuto dire che ero il suo assistente e che avrei dovuto guardarla fino al suo ritorno in Louisiana e- e ha voluto un massaggio ai piedi, Mikey, l'ha voluto.» Si prese il volto fra le mani, cercando di rimuovere quel ricordo davvero poco piacevole come aveva fatto la sera prima. Mikey, intanto, sembrava aver trovato un altro motivo per “non essere mai più triste” oltre alla vaccinazione del fratello, così Frank rimase imbronciato davanti a lui nell'attesa che finisse. A che serviva cercare di costruire un minimo di apparenza quando la si rovina volontariamente raccontando un aneddoto del genere?

«Mi prenoto per uno shiatsu allora.» Continuò a ridere, e come se Frank non fosse già abbastanza pentito di avergli raccontato di quel piccolo incidente, cominciò a parlargli di quei tre giorni come se fossero passati anni. L'altro fece la stessa cosa, e gli disse di tutto: gli disse di come avevano fatto il bagno nella piscina dei vicini e di come erano dovuti scappare dopo essersi ricordati dei due pitbull che c'erano a guardia del giardino, di come Ray si fosse anche storto una caviglia e di come ci avessero riso su per una mezz'oretta buona prima di considerare l'opzione di portarlo all'ospedale, di come stavano per schiantarsi contro un albero, di come sarebbe stato comunque tutto meglio se fossero stati al completo. E fu solo in quel momento che Frank si sentì veramente parte di qualcosa. Gli sorrise, più spontaneamente di quanto si aspettasse.

«Domani Gerard mi doveva accompagnare a cercare un regalo di compleanno per papà..» Cominciò, cercando di non pensare a quando, solo qualche giorno prima, stavano avendo uno di quei discorsi che pensava non si sarebbe dimenticato nemmeno per tutto l'oro del mondo. «..magari faccio un salto e dico che ci ho messo più tempo. Poi dopodomani c'è la festa e abbiamo tipo mezza dinastia a casa, direi che ci rivediamo fra tre giorni, mh?» Era assurdo come dopo tutto quello che era successo, volesse ancora fare buona impressione su suo padre. Non c'era esattamente un motivo: in un certo senso era anche per dimostrare che era cresciuto, che poteva fare una scelta giusta- che si trattasse di una cazzata o di qualcosa di più importante. Per dimostrare che era uscito da quella fase in cui si chiedono i soldi ai genitori per fargli il loro stesso regalo di compleanno. Rise nel pensare a quanto fosse ridicola anche solo l'idea di una cosa del genere. Frank fu distolto dai suoi pensieri quando l'altro gli porse la mano. Ricambiò la stretta che il ragazzo voleva probabilmente usare per sigillare la promessa. E allora si ricordò immediatamente di quel dodici agosto e di quanto forse Gerard non avesse poi tanta ragione, perché non avrebbe mai voluto baciare Mikey.

Pagina uno delle regole di vita che avrebbe dovuto cominciare a scrivere, paragrafo uno, “cose da fare per campare tranquillamente”, mai prenderti una pesantissima cotta per il tuo migliore amico.

 

**

 

Oghei vi prego non mi uccidete <3

So che sono ridicola a presentarmi con un capitolo così dimmerda e così corto dopo tipo diciassette giorni, però quello che avevo scritto in precedenza non andava più bene (aka: era anche peggio) e boh. So che è tutto abbastanza inconcludente ma pffff, lasciamo perdere.

Il titolo del capitolo è davvero una di quelle cose da dimenticare, giuro che un giorno lo cambierò, ma al momento non trovavo nulla di meglio e ho già indugiato abbastanza prima di finire di scriverlo, non posso permettermi di raffinare anche con i titoli (se avete sugggggggggerimenti chiamate al 3333333333381723817267652, ma se vi garba di più scrivetemelo in una recensione).

PS: sto modificando un po' il layout (miiinchia che paroloni) dei capitoli, se l'html di alcuni dovesse essere smerdato all'ennesima potenza, i'm sorry. :c

Una me febbricitante vi dice ciau e al prossimo capitolo, vi giuro che proverò con tutta me stessa a metterci di meno <33<3<3<3<

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** All apologies ***


9. All apologies





 

Pioveva. Il che in quel periodo non era una novità perché, bene o male, succedeva almeno dieci minuti al giorno -ma soprattutto, non era una novità in generale, se vivevi in Jersey-. Frank se ne stava imbambolato a ripararsi sotto la pensilina dell'ingresso di un palazzo, poggiato con la schiena contro il muro di mattoni dipinti di bianco e vittima degli sguardi straniti dei residenti che di tanto in tanto uscivano dal portone in legno e si avviavano ovunque dovessero andare. Un tipo in particolare catturò la sua attenzione; non che avesse qualcosa di speciale, se non quella stupida sciarpa arancione e quello stupido cappello rosso. Frank lo invidiò davvero tanto per quei due indumenti all'apparenza così ridicoli, congelato com'era nella sua ancor più stupida felpa nera: si rese conto che aveva freddo. Si rese conto che aveva un freddo da cani e pregò che Gerard si sbrigasse con la macchina, pregò che arrivasse da un momento all'altro e pregò che avesse acceso il riscaldamento di quella specie di catorcio prima che andasse in ipotermia.

Fu solo quando le orecchie cominciarono a fargli male, però, che si chiese perché quel compleanno, fra tutti quelli che il padre aveva già festeggiato e che lui si era mentalmente intimato di ignorare e lasciar correre al meglio, fosse per lui così importante. Era strano che, dopo tutto quel che era successo, ci tenesse ancora così tanto a fare qualcosa di giusto dopo tutte le cose “sbagliate”, “inappropriate” con cui lo aveva deluso. Perché proprio con uno stupido regalo pensasse di rimediare a tutto ciò, perché proprio in quel momento si fosse quasi arreso a lottare per qualcosa che per un genitore non dovrebbe essere nemmeno un problema accettare, perché si fosse messo (almeno apparentemente) in riga, non provò nemmeno a chiederselo- aveva smesso di provare a capirsi già un po' di tempo fa. Si soffiò fra le mani, riscaldandole in qualche modo. Alzò il cappuccio e chiuse la zip fino al collo, tossendo e sentendosi ancora più intorpidito dal gelo di quanto non lo fosse prima.

I compleanni erano sempre stati un evento di natura quasi mistica nella loro famiglia: anche solo il fatto che si riunissero parenti che si riconoscevano a malapena (vedi anche: cugini di quarto grado) era abbastanza per fargli capire la falsità di quegli abbracci che si scambiavano tanto assennatamente ogni volta che si vedevano, eppure Frank non si era mai chiesto perché si ostinassero a continuare ad organizzare quelle feste e le aveva sempre accettate. Aveva anche imparato a conviverci: infondo, una settimana a dormire a terra nel salotto, non era nulla. Era quasi parte della tradizione. Anche il fatto che stessero quasi festeggiando la morte di qualcuno che si avvicinava, gioendo davanti ad una nauseante fetta di torta della quale aveva smesso di cercare di capire il senso, regalandogli stupidi oggetti che al 99% non gli sarebbero piaciuti, ormai aveva quasi smesso persino di dargli fastidio.. non che gli andasse a genio, chiaramente, ma se qualcosa te la incuccano per bene, ci prendi la mano. Che si fosse d'accordo o meno, loro erano “una famiglia italiana e cattolica”, ed era ridicolo, a parere di Frank, come questo molto spesso andasse a sostituire la loro stessa identità. Come li “aiutasse” a mettere da parte il loro stesso modo di pensare e coprirsi dietro un'etichetta pur di non essere sé stessi a livello di persona e non di stereotipo, ma non importava. Magari era tradizione. Magari era lui quello nato storto, chi poteva dirlo? Fare buon viso a cattivo gioco, ormai, non era tanto difficile: risultava più facile, al contrario, e rendeva felici proprio tutti. Zii, cugini, nonne, bisnonne delle quali non ricordava l'esistenza, e quelle trisavole che “lo guardavano da lassù” che per lui erano quasi una leggenda metropolitana.

Capì, in quel momento, che aveva perso la cognizione del tempo; prese dalla tasca il cellulare che aveva riavuto (almeno per quel fatidico giorno, come un criminale in libertà vigilata) e si rese conto che il ragazzo aveva già fatto cinque minuti di ritardo. In condizioni normali non si sarebbe incazzato neanche un po', ma cinque minuti di ritardo per uno che si aggira in macchina per le strade così deserte a quell'ora, possono significare solo una cosa: pigrizia. O nel peggiore dei casi, anche dimenticanza, ma Frank cercò di non pensarci, visto e considerato che lo stato psicofisico in cui si trovava non gli permetteva assolutamente di andare persino in ansia per questo. Pensò di chiamarlo: si disse che era a due minuti di strada da lui e che la telefonata lo avrebbe solo aiutato a calmare quel cazzo di neurone-pecora-nera che gli metteva certe stronzate in testa, ma poi, ancora una volta, si rese conto che avrebbe potuto peggiorare le cose. Gerard non era esattamente un genio nella gestione di attività multiple, e se avesse fatto un incidente mortale in stile Final Destination o qualcosa di egualmente apocalittico per colpa sua e delle sue chiappe troppo sensibili, non se lo sarebbe perdonato tanto facilmente. Forse mai. Forse, a quel punto, la prospettiva di morire congelato non sarebbe stata tanto male. O forse stava solo esagerando, andando in panico per nulla.

Frank pensò invece a cose calde, alle spiagge Californiane, al focolare che accendevano durante la settimana bianca, al caffè, e più pensava, più il tempo passava. Altri dieci minuti si aggiunsero alla coda, e qualcosa nel suo istinto cominciò a dirgli che forse Gerard non era per nulla in macchina, che non stava giusto per svoltare il vicolo alla sua destra, e che non avrebbe di certo rischiato la morte per una semplice telefonata. La rischiò lui, la morte, quando tolse le mani dalle tasche della felpa per cercare il telefono in quella del jeans, e forse vide anche quello che poteva essere il primo fiocco di neve della stagione, e- California, focolare, caffè.

Compose distrattamente il numero prima che gli si staccassero le dita, pregando che fosse giusto, e il telefono squillò per un tempo indeterminato ma pur sempre eccessivamente lungo. I “tum” un po' troppo lenti e ansiogeni della chiamata inoltrata non lo stavano aiutando per nulla, e fu contento quando li sentì smettere di squillare e, al loro posto, sentì un respiro. Fu sicuramente un po' meno contento nel sentire che, a seguirlo, non fu altro che una voce assonnata; Gerard era a casa, probabilmente a letto, ed il ragazzo si sentì riscaldato per la prima volta nella giornata da quella brutta, rancorosa sensazione all'altezza del petto che chiamiamo “rabbia”. Frank rimase zitto, vedendo cadere dinanzi a sé quella che era definitivamente neve, e aspettando, nella speranza che si ricordasse che quel giorno avevano un impegno insieme. Nella speranza di non essere così insignificante da cadere in quella categoria di persone che si archiviano dopo poco, che si dimenticano. Quelle persone che, se ti danno un appuntamento e lo segni su un pezzetto di carta, su un'agenda, dopo poco lo cancelli. Tirò su col naso e sperò davvero che non sembrasse che stesse piangendo, perché lo aveva fatto spesso in quell'ultimo periodo, ma quel giorno non voleva essere quel tipo di Frank.

«Cazzo. Merda. Era ogg-» Cominciò a balbettare il ragazzo dall'altro capo del telefono.

«Sì. Sì era oggi. Ti ringrazio davvero tanto.» Borbottò, battendo i denti dal freddo e non riuscendo a parlare normalmente per svariati motivi. In quel momento, sul serio, non riuscì a non dare la colpa di tutto quello a lui. «Vaffanculo.» Gettò fuori, rendendosi conto solo dopo, fra un battito di denti e l'altro, che forse non era quello che voleva dire ma che, al contempo, anche dopo essersi tolto un peso così grande dal petto, ancora non si sentiva soddisfatto. Allora decise di difendersi, in qualche modo. Non sapeva precisamente da cosa, ma sapeva che aveva bisogno di una barriera, una muraglia, qualcosa dietro alla quale nascondersi, perché se il minimo errore faceva così male, davvero, non sapeva come sarebbe andato avanti in quelle condizioni. Non ne aveva la minima idea.

«Dammi cinque minuti e arrivo, andiamo, scus-» Disse, e Frank sentì perfettamente il cambio di tono nella sua voce quando si alzò di scatto dal letto, ma non aveva più voglia di aspettare. Pioggia o non pioggia, neve o non neve.. Gerard o non Gerard. Forse aveva fatto bene a lasciarlo solo nel momento del bisogno, almeno una volta, così per cinque fottuti minuti non sarebbe più stato così dipendente da una persona. Frank doveva ammetterlo: quando ti piace qualcuno le cose sono due: o sei ottimista riguardo tutto, o fa tutto schifo- lui, a quel punto, era quasi sicuro di non far parte della prima categoria di persone.

«Cinque minuti un cazzo. Sei un egocentrico di merda e non ne posso più di aspettare.» Forse quell'”egocentrico di merda” se lo sarebbe potuto risparmiare, ma purtroppo se ne rese conto solo dopo averlo detto, e Gerard non era per nulla un egocentrico di merda, e le sue labbra sembravano non volersi fermare per qualche stupido, stupido, stupido motivo, e- «Lo sapevi che era importante per me, ma il problema sai qual'è? Che non te ne fotte un cazzo!» E okay, adesso era completamente sicuro che magari la metà delle cose che stava dicendo avrebbe potuto -e dovuto- conservarle per sé, che forse avrebbe dovuto smetterla di urlare perché era comunque in mezzo ad una strada, ma quello di cui non avrebbe voluto essere così sicuro era che forse non si stava più semplicemente sfogando per quella sua dimenticanza, ma perché in generale, in quegli ultimi quattro giorni che gli era stato lontano, aveva odiato ogni cosa riguardo l'essere uno stupido ragazzo innamorato.

Ed era giunto a conclusione che se lo era, era tutta colpa sua.

Forse “innamorato” non era la parola giusta. Forse era un po' troppo, sicuro, ma quando ti bastano solo quattro giorni per sentire la mancanza di una persona in maniera così vivida che ti sembra di avercela lì vicino ogni volta che ti giri e ti rigiri nel letto nel tentativo di addormentarti e smettere di pensare a suddetta, quando ti bastano quattro stupidi giorni per capire che senza quella persona, forse, non hai più tanto senso, quando ti bastano quattro maledettissimi giorni per desiderare che qualcuno ti tiri via il cervello dalla testa pur di smettere di collegare qualsiasi cosa a quella persona, allora quello è il momento in cui ti chiedi che cosa ci sia di sbagliato nella tua cotta, perché Frank ne aveva avute tante di amici o amiche infatuati, ma non era esattamente sicuro che qualcuno di loro fosse mai arrivato a quei livelli. Attaccò il telefono. Ma d'altra parte, come gli si poteva dare torto?

Non avrebbe mai potuto immaginare che Gerard non fosse in una situazione poi tanto diversa.

Steso a letto con gli stessi vestiti del giorno prima, chiuso a chiave in camera sua dalla sera prima, i cali di autostima che a partire dalla sera prima sembravano non volerlo lasciar stare erano solo uno dei tanti motivi per i quali aveva preferito rimanere a casa: la verità era che non si sarebbe mai odiato abbastanza per aver lasciato che una persona o l'assenza di quest'ultima potessero influenzarlo in maniera così allucinante. Di nuovo.

Non fece finta nemmeno per un secondo di esserci rimasto male per quello che Frank gli aveva appena detto, perché sapeva di meritarselo; invece, gettò via il telefono in uno strano scatto di ira, ed esso si schiantò contro un muro e in seguito a terra, a giudicare dal doppio rimbalzo che riuscì -ciliegina sulla torta, insomma- a sentire . Si girò con la faccia schiacciata contro il materasso e le mani piantate ai lati dei fianchi, cercando di evitare altri danni.

Non era che si fosse proprio dimenticato dell'impegno di quel giorno: quella era solo una scusa che gli piaceva ripetersi per non sentirsi troppo in colpa. Non voleva nemmeno metterla su questo piano, ma quando ci pensava era esattamente così: era che forse, per una volta, aveva deciso volontariamente di non presentarsi. Perché diciamocelo, è difficile dimenticare qualcosa quando una persona te ne parla almeno una volta al giorno: il ragazzo gli aveva dimostrato molteplici volte che per lui era una cosa importante, che ci teneva, che voleva a tutti i costi che lo accompagnasse a scegliere il regalo giusto, eppure eccolo lì, avvolto dalla testa ai piedi nel caldo del suo piumone mentre fuori pioveva- forse nevicava. E fuori c'era Frank.

Pian piano che la rabbia scemava, cominciava a sentirsi relativamente più tranquillo. Si riposizionò supino e si stropicciò la faccia, cercando di convincersi che non gli importava veramente nulla di averlo deluso, che non era assolutamente vero che ci era caduto di nuovo- allora si alzò, cercando un modo per provarlo a sé stesso. Non sapeva che fine avessero fatto i disegni di qualche giorno prima, e forse li aveva coperti per non pensare a quanto fosse patetico il fatto che lo avesse davvero ritratto e a quanto lo avesse fatto sentire male il fatto che lo avesse anche colto in pieno mentre lo faceva, ma era sicuro che fossero ancora lì da qualche parte.

Mise a soqquadro l'intera camera per cercarli, preparandosi ad accettare -anche se a malincuore- quello che stava per fare. Non aveva mai strappato nessuno dei suoi disegni perché, per quanto potesse odiarli o potessero ricordargli qualcosa di poco piacevole, li aveva sempre conservati nella convinzione che se nel passato aveva sentito il bisogno di farli un motivo ci doveva essere: magari non lo avrebbe capito subito, ma il tempo lo avrebbe aiutato. Conservava ancora i disegni di Eva, da qualche parte. Quelli per un po' avevano addirittura tappezzato la sua stanza, mentre era ancora all'Accademia, e nonostante per un certo periodo fosse arrivato ad odiarla, nonostante li conoscesse ormai a memoria, continuava a non capire perché non volesse disfarsene. Un po' come un cazzo di cancro, a dirsela tutta, perché c'era sempre il rischio che ritornasse.

Quella volta invece sembrava necessario, dinanzi a quei pezzi di carta conservati in maniera così maniacale. Quello era un tipo di cancro che Gerard non era più disposto a rischiare di avere, e allora li raggruppò in un solo blocco, non sicuro che sarebbe riuscito a ripetere più volte lo stesso gesto. Si morse il labbro inferiore (nonostante lo sforzo che stava per compiere fosse più psicologico che fisico) e chiuse gli occhi. Ci provò davvero con tutte le sue forze a stracciarli, a liberarsene, a mettere finalmente punto, a chiudere una volta per tutte quella parentesi così ridicola della sua vita, ma c'era qualcosa nel suo cervello che gli impediva di farlo.

Deglutì, poggiandoli a terra e calciando il mobiletto che poco prima li conteneva. Si lasciò cadere all'indietro e finì steso a terra con il tappeto che gli pizzicava la schiena, e odiò ogni secondo di quella giornata,di quel periodo.. di quella vita, forse. E forse non era stato proprio il suo cervello a dirgli di non stracciare quei maledetti fogli una volta per tutte. Magari era più quella fitta che aveva all'altezza del cuore, a pensarci meglio, perché il cervello non doveva essere la parte razionale di noi? Il cervello dovrebbe aiutarci a rigare dritto. Il cervello è l'unica cosa che ci distingue veramente fra noi, e allora perché il suo doveva tradirlo in questo modo?

Solo una soluzione sembrava plausibile, a quel punto: metterlo a tacere, quel maledetto cervello. Fotterselo. Vincere quella piccola gara di superiorità con esso per l'ennesima volta.

Si trascinò fino a mettersi seduto in un angolino, le gambe strette al petto e il volto poggiato fra le ginocchia mentre considerava le varie opzioni, cominciando a chiedersi perché fosse così debole. Afferrò una delle bottiglie di Vodka rimaste sul pavimento dalla sera prima, e constatò con “gioia” che era piena almeno per due quarti. Prese un sorso, ma magari quello stesso sorso equivaleva ad almeno quattro o cinque nel mondo dei non-alcolisti, e poco dopo cominciò a tossire: la gola gli chiedeva pietà, quella merda era calda da morire e anche solo l'idea di bere di nuovo dopo aver appena smaltito la sbornia della sera prima lo rendeva a dir poco nauseato. Si chiese da quando avesse cominciato a raffinare così tanto, da dove venisse quel minimo di pietà nei confronti di sé stesso, e si rese conto che era vulnerabile. Che non aveva difese, non aveva via d'uscita.

Prese a singhiozzare, e nel tentativo di fermarsi prima che quei versetti potessero trasformarsi in un pianto vero e proprio, si morse di nuovo il labbro. Questa volta più forte, fino a sentire il sapore metallico del sangue invadergli la bocca, e mentre era distratto dal dolore fisico, cercò di fare mente locale: nel comodino avrebbe dovuto avere delle pillole, se la mente non lo ingannava. D'altronde non era sicuro di potersi fidare della sua mente in quel momento, ma poteva sempre fare un tentativo. Annaspò con gesti frenetici fino al mobiletto, e spalancò tutti i cassetti, uno per uno, constatando solo dopo averli svuotati completamente che non aveva niente.

Nessuna via di fuga. Nessun modo di essere felice. Non aveva nessun modo di fuggire nel suo mondo, quello dove nulla andava mai male. D'altronde, perché una dipendenza dovrebbe diventare tale? Alcolisti, tossici e quant'altro mica ci nasciamo. Però c'è chi nasce con la predisposizione per diventarlo, e Gerard di quelle persone ne vedeva tante: ad esempio i bambini che, anche in una situazione in cui apparentemente non avrebbero motivo di farlo, si isolano. Giocano. Quelli che al ristorante con i genitori portano con loro dei pupazzi di plastica, quelli che a messa si guardano insistentemente le scarpe e intanto inventano un universo tutto loro, quelli che a scuola non stanno con gli altri, ma giocano da soli. Quelli sono i bambini che sanno che i genitori li portano al ristorante giusto per convincerli che si amano ancora, nonostante si veda da un miglio che non è così. Quelli sono i bambini che, per colpa di parole proferite miliardi di anni fa da un uomo sull'esistenza del quale si dibatte dopo anni e anni, si sentono peccatori. I bambini che sono stati fatti sentire diversi, esclusi, che nella maggior parte dei casi sono i migliori. Quei bambini sono i futuri adulti che vedremo nella sala d'attesa dallo psicologo, che abbiano problemi di fiducia, bassa autostima, ansia sociale.

E a dirsela tutta, si potrebbe parlare all'infinito di bambini, ma la verità era che, venticinque anni dopo, era esattamente quello che stava provando a fare Gerard, indipendentemente dalla sua età. Il mezzo poteva essere cambiato, ma lo scopo era lo stesso: scappare via. E l'ansia cresceva all'idea che in quel momento non poteva fare appoggio a nessuna dipendenza. Si lasciò lentamente scivolare a terra, in un baratro di nemmeno-lui-sapeva-bene-cosa.

Era esattamente per quello che stava odiando Frank in quel momento.

Perché Gerard voleva davvero innamorarsi di lui, ma in quelle condizioni, gli sembrava impossibile. Lui stesso lo aveva detto, e il ragazzo gli aveva dato ragione: non puoi amare qualcosa da cui dipendi. E adesso, dopo soli quattro giorni di lontananza, non aveva assolutamente scuse per stare così male (o almeno, ne avrebbe avute se avesse ammesso a sé stesso che forse non era solo amicizia): aveva provato a rimanergli lontano anche quel giorno per mettersi alla prova, per dimostrarsi che era forte, che non aveva bisogno di lui, che quello che si erano detti erano tutte cazzate, che non lo avrebbe mai salvato- non perché non ne sarebbe stato capace, ma perché Gerard non aveva bisogno di essere salvato. Non aveva bisogno che qualcuno lo ripescasse dal fondo perché ormai si era arreso all'idea che non sarebbe mai riuscito a conformarsi a quell'ideale di eroe moderno che riusciva a risalirne: insomma, spesso si parla di “toccare il fondo”, ma sarebbe molto più facile adagiarcisi e crogiolarsi nella decadenza senza il minimo riguardo, piuttosto che tentare di uscirne. E' che persino aggrapparsi ai bordi diventa difficile, quando per te, ormai, vivere tamponando i problemi fra una dipendenza e l'altra non è nulla se non una routine. Quando campare di giorno in giorno in quello stato è abitudine quasi quanto lo è pisciare appena svegli la mattina.

Quello era il problema: che Gerard non voleva che Frank e quello che avevano diventasse routine. Perché quando si parla di amore, una delle cose che si menzionano sempre, è quella strana sensazione delle farfalle nello stomaco che, ogni volta che vedi quella persona -che sia la millesima o la terza volta- te la fa percepire esattamente come se fosse la prima. Perché basta prendere una coppia sposata per vedere che il motivo per cui stanno insieme sono i figli, l'abitudine, magari l'età che passa e che gli impedirebbe ad ogni modo di rivivere la tipica fiamma che in un primo momento porta qualcuno a compiere un gesto importante come una proposta di matrimonio. Quella fiamma che pian piano si spegne e che un po' ti brucia, ma non importa; perché quando non hai niente di prestabilito -niente di sicuro, nessun vincolo-, trovi sempre un motivo per riaccenderla proprio quando ti sembra ormai svanita completamente.

Gerard voleva quella fiamma, e voleva quelle farfalle, e in quello stato non pensava che sarebbe mai stato capace di ottenerle.

E allora nulla: si mise a letto, a dormire.

Perché se in quel momento non aveva accesso a nessuna delle sue dipendenze per alleviare il flusso dei suoi pensieri -quelli con cui le persone normali avrebbero semplicemente imparato a convivere, quelli che le persone normali avrebbero semplicemente elaborato-, tanto valeva affidarsi a quelle primordiali. Perché la verità è che tutti nasciamo già con delle belle dipendenze del cazzo -dormire, mangiare, bere- e forse Gerard non se ne era nemmeno accorto, ma in quei quattro giorni, aveva sempre più provato a metterle in secondo piano: approssimativamente, erano quarantotto ore che non mangiava e ventiquattro intere ore che non beveva nient'altro se non sostanze abbastanza lontane dall'essere acqua fresca. Ventiquattro ore che non dormiva senza svegliarsi di nuovo stanco.

Una volta alla TV avevano detto che erano sintomi di depressione.

Improvvisamente conscio degli strani rumori che stava facendo il suo stomaco e delle sue palpebre che pian piano si abbassavano, il ragazzo si stese nuovamente e chiuse gli occhi, dormendo per la prima volta in tre giorni- perché una cosa era chiuderli e far finta di dormire, una cosa era lasciarsi finalmente andare all'istinto. Che fosse per distrarsi o per bisogno fisico, ecco, forse questo avrebbe dovuto cercare di capirlo, prima o poi.

 

**

 

Il risveglio, però, fu completamente diverso: Gerard aprì gli occhi piano, quasi spaventato al pensiero che la mano che lo stava scuotendo potesse essere quella di un'infermiera e che davanti a lui avrebbe visto soltanto una fredda e sterile stanza ospedaliera. Non fu così, ad ogni modo, e riconobbe immediatamente il calore delle sue coperte e lo spazio un po' troppo personale per essere confuso di camera sua. Strizzò gli occhi nel tentativo di identificare le due persone davanti a lui, rendendosi conto all'improvviso che aveva la vista appannata senza nemmeno capire il perché, e dopo un po' finalmente le riconobbe: Ray e Frank.

Sentì ogni muscolo del suo corpo intorpidirsi, come se stesse rispondendo ad un comando ricevuto all'improvviso, e provò con tutte le sue forze a respirare senza far rumore nonostante stesse iperventilando. Non era giusto quando ci metteva tutto sé stesso per scappare dai problemi e questi non facevano altro che rincorrerlo. Una mancanza di rispetto nei confronti di quella che ormai era quasi un'abilità, volendo parlare in termini semplici, perché persino il più grande codardo sulla faccia della terra finirebbe per rendersi conto, prima o poi, che era spalle al muro.

«Ti abbiamo fatto i biscotti della pace.» Disse Frank, sporgendosi pericolosamente sul suo letto per mostrargli una teglia ancora fumante di quei biscotti che non avrebbero avuto problemi a spacciarsi per torte, a giudicare dalle loro dimensioni. Dovevano avere anche un buon odore, e Gerard avrebbe seriamente passato ore intere a sniffarlo -come faceva a più o meno cinque o sei anni-, ma purtroppo gli organi non lo stavano granché aiutando quel giorno. Ray diede al più piccolo una pacca sulla spalla, probabilmente più per farlo cadere sul letto che per incoraggiarlo a fare qualcosa, e il ragazzo ringraziò il cielo che quel maledetto hobbit avesse degli ottimi riflessi.

«Non mentire, li ha fatti sua mamma.» Nonostante Gerard avesse chiuso gli occhi, riuscì a identificare la voce di Ray. «Cioè, ci abbiamo provato, ma poi è arrivato Mikey, ha alzato la temperatura del forno per fare più in fretta e così com'è andato di nuovo via, ci ha sputtanato il lavoro di un giorno. Picchialo da parte mia.» Sentì una pressione al bordo del letto -probabilmente qualcuno che si metteva a sedere-, e il rumore metallico della teglia che veniva adagiata da qualche parte. Solo in quel momento cominciò a chiedersi quanto tempo avesse passato a dormire, se avevano avuto addirittura il tempo di bruciare una teglia di biscotti e di farsi aiutare da sua madre a rifarli.

«Comunque non li voglio. Potete anche andarvene.» Disse, stupendosi del tono fermo che riuscì ad ottenere nonostante avesse qualche problema a mettere a fuoco, tanti problemi nel riconoscere gli odori, si sentisse quasi paralizzato e in generale, sembrava fosse appena rinvenuto da un coma. Si girò con la faccia contro il cuscino, cercando di non pensare al fatto che forse aveva detto quelle parole più per continuare col suo solito vittimismo che per altro; non voleva che se ne andassero. Non voleva più essere solo. Si morse il labbro già abbastanza martoriato e si aggrappò con tutte le sue forze al cuscino, cercando di trattenersi dall'urlare.

Sentì qualcuno sospirare appena appena un “okay”, poi un silenzio spacca-timpani durante il quale, probabilmente, i due ragazzi discussero boccheggiando il da farsi, poi dei passi. Aprì gli occhi poco prima di vedere Frank fare per tirare la porta dietro di sé, e in quel preciso istante, decise che non gli importava nulla. Nulla di tutto quello stupido ragionamento, nulla di quelle stupide convenzioni che si era imposto, nulla nemmeno di essere coerente con il suo solito atteggiamento.

«Aspetta..» Sospirò a voce così bassa che sembrava che qualcuno gli avesse strappato via quelle parole pur di far sì che le pronunciasse. Frank si girò con un mezzo sorriso in volto e chiuse la porta alle sue spalle. Gerard invece non si mosse; al contrario, si coprì ancor di più, cercando di non fissare troppo l'altro mentre si metteva a sedere allo stesso posto di prima con la teglia poggiata sulle gambe. Prese uno dei biscotti che essa conteneva, porgendolo con un sorriso al più grande. «Ogni tanto mangi?»

«Solo se mi obbligano.» Disse, prendendo timidamente il pezzo di pasta frolla fra le mani dell'altro. Quasi sobbalzò quando Frank, con un sorriso a trentadue denti -ben diverso da quello di poco prima-, gli afferrò il braccio. Scoppiò a ridere nel notare che aveva ancora l'ovatta post-vaccinazione attaccata al braccio, e Gerard odiò con tutto ciò che era le magliette a maniche corte. Sbuffò, prendendo un morso solo una volta libero dalla presa dell'altro.

«Non ci credo, è ancora lì.» Disse con tono improvvisamente serio, mettendo via la teglia e avvicinandosi pericolosamente all'altro per staccare lo scotch che teneva fissato il batuffolo al suo braccio. Gerard riuscì a scansarlo abbastanza in fretta, per sua fortuna, e si coprì nuovamente fino al collo. «Hai venticinque anni. Hai venticinque fottuti anni.» Gli ricordò, perché grazie al cielo c'era Frank a ricordargli quanti anni aveva, oppure avrebbe dovuto scriverselo sull'agenda o qualche stronzata del genere, avete presente, no?

«Ho tolto l'ovatta che c'era sopra l'altra puntura ed era piena di sang-»

«Te la tolgo io.» Disse Frank, praticamente stendendosi sopra l'altro e dimenandosi con poca grazia nel tentativo di scoprirlo quel minimo che bastava.

«Ma fa male..» Si lamentò, suonando così tenero persino alle sue stesse orecchie che cominciò a chiedersi con quale ritegno il più piccolo stesse continuando a insistere. Improvvisamente, dopo aver abbassato la guardia per qualche secondo, si sentì braccato da un peso non indifferente e capì di non avere scampo. «Ti prego.» Sussurrò, strizzando gli occhi prima di sentire le gelide mani del ragazzo infiltrarsi sotto le coperte alla ricerca del tanto discusso pezzo di ovatta.

«Non farà male. Ci darò un bacino sopra.» Disse, e poco prima che Gerard se ne potesse accorgere, tirò via con uno strappo secco. Accartocciò su sé stessi lo scotch e l'ovatta ad esso attaccata, gettandoli nella spazzatura con un canestro che non era veramente da lui. Si sorrisero, come se fosse appena accaduto qualcosa di veramente solenne, e Frank mantenne la promessa: l'ultima cosa che Gerard ricordava era una sensazione umidiccia all'altezza del livido lasciato dalla puntura.

«Sei una fata?» Domandò, continuando sullo stesso tono infantile di prima.

«Sì. Sì, Gerard, sono una fata.» Sorrise, guardandosi seriamente intorno per la prima volta. Non che prima non avesse notato il disordine, certo, ma aveva sorvolato nonostante non avesse mai visto camera del ragazzo in quello stato. Solo in quel momento realizzò che non aveva idea di che cazzo fosse accaduto, e la cosa lo terrorizzava. «Che è successo qui?» Chiese, sospirando appena.

«La vera domanda è..» Cominciò l'altro, aggirando completamente l'argomento mentre cercava di respirare il più profondamente possibile nonostante fosse ancora schiacciato dal peso del ragazzo. «Che hai preso a tuo padre, alla fine?» E voilà, subito si sentì nuovamente mangiato dai sensi di colpa nel vedere la faccia rassegnata di Frank.

«Una cravatta..» Rispose con tono assente, stringendosi nelle spalle. «Sarà per l'anno prossimo..» Prese a ridacchiare malinconicamente, sorridendo più a sé stesso che all'altro nel tentativo di auto-incoraggiarsi. Notò anche un secondo particolare, in quel momento, magari era la vicinanza: i profondi solchi violacei sotto gli occhi del ragazzo. Aggrottò le sopracciglia, facendo due più due e cominciando a preoccuparsi seriamente. «..stai bene?» Sussurrò lievemente.

«Non lo so. E' che non credo di.. farcela.» E poi silenzio, nonostante fosse chiaro che Frank non aveva la minima idea di ciò a cui si stava riferendo. «Ieri sera Mikey ha ricevuto una.. una telefonata, da questo tipo che si chiama Brian e ha un cognome che comincia con la “s”, e-»

«Brian Schecter!?» Domandò Frank, sgranando gli occhi. Gerard annuì appena, un po' confuso, e questa volta ne ebbe la conferma: questa era roba seria. «Ma scherzi, Gee? Con i Pencey puntavamo a lui.» Ridacchiò, pensando a quei tempi meno lontani di quanto gli sembrassero in cui, ogni sera, cercavano puntualmente di impressionare quel tipo. «E che vi ha detto?» Chiese, determinato a mandare avanti il discorso dopo un momento di silenzio un po' troppo lungo.

«Ha detto che ci vuole mandare in tour da.. da qualche parte, ma lontano da qui. Diciamo che se siamo famosi solo in Jersey, niente disco..» Si strinse nelle spalle, evitando con maestria il contatto visivo. «..e non mi sento all'altezza.» Mordendosi nuovamente il labbro, capì di quanto fosse suonato stupido. I suoi denti riuscirono ad aggrapparsi solo a qualche piccola cicatrice in via di rimarginarsi che si era accidentalmente procurato la sera prima, e non fu granché capace di trattenere l'accelerazione del suo respiro dopo aver realizzato che non era altro che un peso per l'intero gruppo. Perché magari avevano ragione: magari era all'altezza, ma li avrebbe frenati ugualmente con la sua continua insicurezza, il suo continuo sottovalutarsi, tutti quei problemi che si faceva e che, concretamente, nemmeno esistevano. «Non so se ce la farò.»

«Ce la farai. E sei all'altezza.» Gli disse, prendendogli il volto fra le mani come in una qualche scena da film. Gerard trattenne il respiro senza alcun preciso motivo, e quando Frank si allontanò quel minimo che bastava per rotolare di lato al suo corpo e liberarlo dal proprio peso, lasciò andare via tutto il fiato che aveva bloccato nei polmoni per un po' troppo tempo. «Io, piuttosto, non so che fare con i miei. Credo che al massimo riuscirei a scappare di casa, se mi dovesse andare di culo.»

«Porta tuo padre in uno di quei locali con musica live tutta la notte, tipo, come.. come regalo.» Frank non capì bene il nesso fra ciò che aveva detto e ciò che aveva ricevuto come risposta, ma aspettò. «Provi a fargli capire perché vuoi fare questo nella vita e a fargli ricordare perché.. perché lo voleva anche lui, un tempo, no?» Gerard si voltò, sorridendogli. Il ragazzo non riuscì a fare altro che ricambiare e cominciare a chiedersi perché non ci avesse pensato prima. Non si dissero nulla, eppure entrambi capirono che a quel punto era ovvio che magari la cravatta l'avrebbe tenuta per sé. C'era un certo vantaggio nell'avere quel tipo di rapporto, perché la comunicazione non doveva essere necessariamente orale, eppure era sempre efficace.

«Sai che adesso devo scappare, vero?» Chiese Frank, e sì, ne era perfettamente cosciente. Eppure non stava male; era felice. Era assurdo, considerando lo stato in cui si era ridotto qualche ora prima, ma la sua presenza era stata così inebriante da non essere paragonabile assolutamente a nulla. E anche adesso che stava per andar via, Gerard non stava male. Proprio non ci riusciva; non era come un post-sbronza né come quel momento in cui senti che l'effetto delle pillole sta svanendo. E forse non era dipendenza.

Magari era innamorato.

O magari Frank era davvero una fata.

 

**

 

Ciao ragazze! Weoifjerijfgr
Sì, è passato quasi un mese dall'ultima volta che ho aggiornato, e seriamente, mi dispiace tanto, ma sono nel pieno di un esaurimento nervoso e mi chiedo davvero come io abbia fisicamente fatto ad aggiornare oggi, considerando che ho sei compiti in classe in cinque giorni.......
Bhè, no, seriamente, non so cosa mi succeda ma sono in un periodo in cui non mi va bene nulla di ciò che faccio <3 Per questo vi vorrei ringraziare (anche se non sono una di quelle che lo fa capitolo per capitolo, infondo mi sembra sottinteso <333) per sopportarmi sempre e beccarvi veramente quel che esce senza mai lamentarvi, ai lov gliiiiiiiiiiiiiuuuuuuuuuuuuu.
Ciao.
Il titolo è un copia e incolla di All Apologies dei Nirvana e non so, sono veramente tanto stanca.
Hasta luego, fanciulle (?)

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** What's my age again? ***


10. What's my age again?





 

«A destra, pa', a destra- poi tutto dritto.» Disse Frank, consultando la cartina per l'ennesima volta e aggiustandosi alla meglio sul sedile, ancora troppo strizzato da quella stupida cintura di sicurezza che il padre lo obbligava a portare nonostante stessero andando a due chilometri annui. «..Credo.» Aggiunse, avendo appena il tempo per rendersi conto che non era mai stato un asso nell'orientarsi prima che Anthony potesse fermare la macchina di scatto e mettersi il più possibile di lato rispetto alla corsia autostradale dove le vetture continuavano a sfrecciare.

«Frank, ascoltami, di questo passo non arriveremo mai a- ovunque tu mi stia portando, capisci?» Sbuffò, e dandogli ragione, il ragazzo piegò su sé stessa la cartina e si strinse le braccia al petto, ancora convinto che avrebbe rovinato parte della sorpresa se glie l'avesse detto. «Apprezzo tutto questo e l'impegno nell'organizzarlo, ma come vedi sono le sette, sta tramontando, e-»

«New York. Stiamo andando a New York.» Sbottò, cominciando a fare piccoli strappi con le mani sui bordi bianchi della cartina non appena sentì la macchina ripartire e mettersi nuovamente in carreggiata. Il padre lo guardò, aggrottando le sopracciglia, ma Frank si girò semplicemente verso il finestrino e fissò il cielo con le sue tonalità arancioni, perdendosi nel pensare a quanto cominciasse a tramontare in fretta rispetto anche solo a un mese prima. O magari si stava più semplicemente pentendo di quella stupida e imbarazzante situazione, rendendosi conto di quanto la cravatta rossa che si era convinto a tenere per sé non fosse tanto male. Come se una giornata con lui fosse il regalo adatto per suo padre, poi: era chiaro che avrebbe di gran lunga preferito la partita di golf che aveva organizzato con i suoi colleghi di lavoro per festeggiare i suoi cinquantadue in ritardo.

«Frank?» Cominciò il padre, e il ragazzo si stupì seriamente che stessero (forse) per avere una conversazione che andasse a toccare argomenti al di fuori di semplici indicazioni stradali. Si voltò verso di lui ancora una volta, pensando a quanto fosse fuori dal contesto in cui aveva intenzione di portarlo quella sera la camicia che stava -come in ogni giorno della sua vita- indossando. «Frank, posso parlarti di una cosa?» Chiese, un tono seriamente preoccupato che gli fece quasi pensare che magari aveva qualcosa di veramente importante da dirgli. «Frank, tua madre-»

«Cosa? Che ti ha detto adesso?» Sbuffò, roteando gli occhi al cielo.

«Niente, ma ascoltami un secondo, okay?» Disse, spostando lo sguardo dalla strada per qualche secondo nel tentativo di incontrare quello del figlio. Quest'ultimo annuì, slacciandosi la cintura di sicurezza così da potersi sedere girato verso il padre. «Forse non avrei dovuto cominciare partendo da lei, perché la verità è che si tratta anche di noi, alla fine.» Disse, fermandosi per via della coda di traffico che non sembrava volersi muovere da lì. Picchiettò nervosamente le dita sul volante e, dopo una breve pausa, riprese. «Penso che tu sappia come vanno le cose fra me e Linda, a questo punto.» Frank annuì. Eccome se lo sapeva che era un bel po' che non provavano nulla l'uno per l'altra. «Quello che non sai è che lei è malata. Manie di persecuzione, dissero.» Gettò fuori, come se fosse cosa da niente. Frank rimase a bocca aperta, e pur di ignorare la reazione del figlio che lo fece sentire tanto in colpa per essersi tenuto un segreto del genere per tutto quel tempo, premette nervosamente il clacson. Sbuffò, infine, arrendendosi all'idea che prima o poi avrebbe pur dovuto dare un finale a quel discorso. «Tutti i suoi terapeuti mi hanno sempre detto di darle ragione e di assicurarmi che prendesse le sue pillole. Ed io ho accettato, perché come potevo lasciarla sola in un momento del genere?» Si rivolse a lui con una domanda retorica, prendendo nuovamente un sospiro prima di continuare ad organizzare i suoi pensieri. «Amore o non amore, era comunque la mamma di mio figlio. E non mi sono reso conto fino a qualche tempo fa che per far star bene lei, ho trascurato te.» Frank abbassò lo sguardo, sentendosi improvvisamente in pena per suo padre, che aveva sprecato tutti quegli anni a fare da “custode” a sua madre. A cercare di salvarla. «Io ricordo solo che un tempo avevamo un bel rapporto io e te, e vorrei che le cose tornassero come prima, perché.. io- io non sono d'accordo con molte delle cose che in questi anni le ho concesso di dirti.. di farti. Ho annuito solo per far sì che andasse tutto dritto, e ho capito troppo tardi che così facendo ho perso il figlio che cercavo di preservare. Già il fatto che tu sapessi che frequentavo un'altra donna doveva essere abbastanza per odiarmi, figuriamoci l'aver fato ammalare tua madre.» Il ragazzo alzò lo sguardo, sorridendo all'adulto accanto a lui. «Allora ultimamente abbiamo firmato del carte per il divorzio. Credo che io e Janine ci sposeremo, Frank.» Disse, abbassando un po' la voce verso le ultime parole nel terrore di pronunciarle. Il ragazzo non sembrò scosso, ad ogni modo. Non scosso quanto sorpreso, e nemmeno per i motivi per cui pensava di averlo turbato. Non fu comunque capace di rispondere, in quel momento: era difficile accettare di aver perso tutto quel tempo ad odiare una persona che cercava solo di fare il suo bene.

«Papà-» Cominciò, chiamandolo veramente così per la prima volta dopo tanto tempo.

«No, Frank, ascoltami, mi dispiace, lo capisco se mi odi, ma credo che tutti meritiamo di star bene, a un certo punto. Io ci ho provato- ci ho provato a far tutti contenti, ma ho fallito. E mi dispiace. E dopo aver.. ecco.. dopo aver finto per tanto tempo, voglio solo che tu ti ricordi un paio di cose..» Prese fiato, slittando un po' troppo velocemente verso una strada di campagna vuota. Il ragazzo ebbe appena il tempo di riprendersi dal mezzo infarto che quel gesto gli procurò prima di rendersi conto che stavano viaggiando a novanta chilometri orari verso New York, finalmente sinceri l'uno con l'altro, su una strada ciottolata che probabilmente non granché adatta per le macchine. «Voglio che ti ricordi che non me ne fotte un cazzo se non vai in chiesa la domenica. Voglio che ti ricordi che puoi riempirti di tutti i piercing e tatuaggi di questo mondo, per quello che mi riguarda. Voglio che ti ricordi che la maggior parte delle persone che lavorano come impiegati o liberi professionisti finiscono per fare la mia fine. Mai fare la mia fine. Questa segnatela da qualche parte perché è fondamentale.» E in quel momento, Frank lo vide per la prima volta come un umano. Non come padre, non come “estraneo con cui condivideva la casa”, nemmeno come semplice figura da rispettare. Non più un prodotto della società, ma una persona come lui. Una persona che diceva parolacce, che sapeva guidare oltre il limite di velocità in una specie di prateria deserta e incazzarsi se la coda in autostrada non si muoveva dopo dieci minuti buoni. Frank pregò seriamente tutti gli dei esistenti che suo padre non investisse uno degli animali che pascolavano liberamente davanti a loro, e aspettò pazientemente che continuasse con il discorso. «Voglio che ti ricordi che il matrimonio è una firma su carta e che, concretamente, vale anche di meno di quella che metti su un assegno.. almeno se non c'è qualcosa di vero dietro. Che devi aspettarti tutto da tutti. Voglio che ti ricordi che per me sarai sempre mio figlio, anche se dovessi sposare lei. E più di tutte queste cose, voglio che ti ricordi che io sono contento per te. E sono d'accordo con te- ti supporto. Perché è facile dirti che non ce la farai mai, che hai sbagliato a lasciare gli studi e che le persone che riescono a sfondare come artisti sono una su un milione.. però è più difficile chiedersi perché non dovresti farcela o perché quell'uno non possa essere proprio tu, capisci che intendo?» Frank annuì, sentendo il bisogno di urlare che aveva ragione, provando con tutto sé stesso -e fallendo miseramente- a incazzarsi con lui per essersi tenuto dentro quelle considerazioni che gli avrebbero potuto migliorare tutti gli anni di sofferenza passati in quella specie di regime dittatoriale chiamato “casa”. «Se Mick Jagger o Kurt Cobain si fossero lasciati condizionare dalle mamme paranoiche adesso avremmo due medici in più e due geni in meno. Quello che devi fare tu, è esattamente cambiare il mondo.» Anthony rallentò immediatamente la macchina e Frank lasciò andare via un sospiro che non si era accorto di star trattenendo, poi finalmente ritornarono nuovamente in autostrada . «Vai lì fuori e cambia il mondo. Fai quel che cazzo vuoi a patto che tu non te ne penta, chiaro?» Il ragazzo annuì, sorridendogli e sentendosi sempre più felice nel vedere che, finalmente, anche suo padre sorrideva. «Spacca il culo a tutti, perché un giorno non sarai più solo il figlio di Linda ed Anthony, ma Frank. E l'altro giorno, quando sei andato al colloquio, è lì che ho capito che forse quel giorno è già arrivato. Un po' prima del previsto, ma è arrivato. Sei responsabile e sai quello che fai. Se sei convinto che ce la farai e sei abbastanza coraggioso, io so che potresti riuscirci.»

«Wow?» Disse sottovoce il ragazzo, più a sé stesso che a suo padre, riprendendo ancora fiato dalla corsa slalom fra le capre di poco prima.

«Ti voglio veramente tanto bene.»

«E me lo dici solo a quest'età?» Chiese Frank, rendendosi conto solo poco dopo che le parole abbandonassero la sua bocca che non avrebbe dovuto farlo sentire in colpa per la mancanza d'affetto e supporto degli ultimi anni, dopo tutto quello che gli aveva raccontato, dopo tutto quello che gli aveva dimostrato di aver implicitamente fatto per lui.

«E quale sarebbe la mia età, scusa?» Chiese invece il cinquantaduenne accanto a lui, sarcasticamente, con un sorriso in volto. «Sii felice con te stesso e andrà tutto bene. Solo questo.» Si strinse nelle spalle, come se “solo questo” fosse seriamente una cosa da poco. Tornò a guidare normalmente, come se niente fosse, lo sguardo perso fra le macchine e le loro luci lampeggianti.

Frank si rese conto che si era fatto scuro: erano le sette e mezza e al loro arrivo mancavano ancora tre quarti d'ora o qualcosa giù di lì, e solo dopo aver avuto il tempo di processare tutto ciò che suo padre gli aveva detto, capì che era stato sincero. Forse non puntuale, ma sicuramente sincero e giusto nei suoi confronti. E siccome erano in vena di confessioni, perché non farne una anche lui? Dopotutto non aveva nessuno con cui poter parlare di quella cosa, aveva capito dopo un po': sua madre aveva reagito veramente poco bene e l'avrebbe esclusa comunque a priori, Mikey, Ray e Matt avrebbero capito a chi si riferiva. E da quando li conosceva, la sua vita sociale non aveva preso una piega granché positiva, visto e considerato che era praticamente sempre a casa loro- a dire la verità, non aveva nemmeno granché voglia di mantenere i contatti con certe persone che continuavano a chiamarlo. Era facile ignorare il menù delle chiamate perse di giorno in giorno, e sarebbe stato ancora più facile quando sarebbe partito. Via. Finalmente. E allora decise semplicemente di farlo: passò mezz'ora buona a pensare ai vari modi in cui poter mettere in breve sintesi tutto quello che avrebbe voluto dire a suo padre, okay, però in quel momento era motivato a farlo.

Il più grande scoglio da superare per riuscire a concretizzare tutti quei discorsi che faceva a sé stesso, era sicuramente quello di capire cosa fossero loro due per definizione- a conti fatti, non erano altro che amici. Amici che a volte si mettevano le mani in posti inappropriati. A vicenda.

E fosse stato solo quello, davvero, magari sarebbe stato più semplice: “amici di letto”, “scopamici”, bla, bla, bla.. ormai si sentiva parlare ovunque di “relazioni” di quel tipo. Il problema era che non c'era nessun modo per giustificare le cose che si dicevano senza ammettere a sé stesso che magari lo amava sul serio. Varie volte lo aveva pensato di sfuggita, lasciando immediatamente perdere. Eppure, ancora una volta si trovava lì a chiedersi sempre le stesse cose: come fai a descrivere ciò che provi per una persona quando vuoi semplicemente che stia bene? Quando vuoi prendertene cura, almeno per quanto è nelle tue possibilità? Quando il semplice egoismo, il semplice pensare al proprio bene senza aver nessun altro di cui preoccuparti -non per cattiveria ma più perché semplicemente non hai nessuno da “salvare”-, improvvisamente, non fa più parte della tua vita?

Frank questo non lo sapeva, e forse non lo avrebbe saputo ancora per un bel po'. Non voleva saltare a conclusioni, non voleva affrettare nulla. A dire il vero, in quel momento voleva semplicemente che le cose restassero così com'erano per sempre. Fermo, immobile, continuando a far finta di non capire e ostinandosi a rassicurare sé stesso con degli stupidi “non c'è niente da capire”. Poi però si rese conto che era vivo, che respirava. Che, alla fine, la vita ha un minimo di senso solo perché è un susseguirsi di avvenimenti, di reazioni a catena- si rese conto che finché campi, le cose ti succedono. E quello, almeno per una volta, era un dato di fatto. Era qualcosa di certo e di sicuro, qualcosa al quale sperava di potersi aggrappare, per quanto vano. Qualcosa senza né “ma”, né “perché”. Ed era sicuramente sufficiente per dargli quel minimo di spinta che bastava per fare, finalmente, il salto.

«Mi piace un ragazzo.» Disse tutto d'un fiato, pur consapevole che non aveva di che preoccuparsi. Non era il modo giusto di dire tutte le cose che pensava in quel momento, questo era sicuro, ma era anche l'unico in cui poteva dirle a suo padre. Era ancora un po' difficile da accettare, non per quello che poteva significare sul suo conto quanto perché non aveva né idea di come comportarsi, né idea di come la gente si sarebbe comportata nei suoi -o ipoteticamente nei loro- confronti. Prese un respiro profondo quando vide che suo padre tardava a rispondere, e cominciò a temere che forse sua madre avesse avuto ragione, almeno su una cosa: “gli sarebbe venuto un infarto”. Ad ogni modo, poco dopo, le labbra di Anthony si curvarono nuovamente in un sorriso, prima di aprirsi lentamente. Frank sentì il nodo nello stomaco che si portava dietro da quel pomeriggio nel terrore che gli potesse scappare qualcosa a proposito sciogliersi pian piano.

«”Gerard”..» Disse con voce piuttosto acuta, quasi imitando il figlio quando gli parlava di lui. Frank arrossì, vergognandosi del fatto che fosse così palese e pentendosi di molte delle cose che aveva detto durante la cena di famiglia della sera prima: capì, ad esempio, il perché delle facce stranite dei suoi parenti quando aveva nominato il fatto che spesso condividessero il letto -pur sottintendendo che fosse in maniera prettamente amichevole- e per poco non inorridì.

«Si nota?»

«Un po'. E' il modo in cui parli di lui. E' una cosa carina.. sei tutto zucchero e sorrisi, Gerard qui, Gerard lì, Gerard mi ha detto, Gerard me lo aveva raccontato una volta, Gerard ha fatt-» Gli diede una gomitata amichevole nel tentativo di farlo smettere, ridacchiando nervosamente con le guance rosse quando si rese conto che sembrava esattamente una ragazzina. «Frank, ti ripeto, sei libero di fare quello che ti par-»

«Non sei arrabbiato?» Interruppe timidamente, sentendo la propria voce spezzarsi verso metà dell'ultima parola. Il padre si voltò di scatto a guardarlo, scettico, quasi chiedendosi mentalmente di cosa si dovesse arrabbiare. Frank abbassò lo sguardo, mangiucchiando dall'unghia del pollice gli ultimi residui di smalto nero. Nervosamente, procedette a fare lo stesso su tutta la mano in attesa di un qualche tipo di risposta.

«Perché questo tono sorpreso? Io al posto tuo farei quella faccia se ti avessi dimostrato di esserlo..» Disse, svoltando verso il parcheggio di un autogrill. Fermò la macchina, e senza che Frank avesse il tempo di chiedergli dove stesse andando o cosa dovesse fare, girò la chiave della macchina e se la mise in tasca. «Ora, se mi permetti, vado a comprare delle sigarette.» Uscì dalla macchina, lasciando il ragazzo a bocca aperta: suo padre aveva fumato per tutto quel tempo e lui non ne aveva idea. Aveva passato anni a nascondersi a vicenda pacchetti qui e lì, nei posti più disparati (vedi anche: cassa armonica della chitarra acustica inutilizzata) per poi scoprire che avrebbero potuto semplicemente fumare insieme, scappando da Linda qui e lì, controllando che non arrivasse, parlando. Condividendo qualcosa, se non un vero rapporto, almeno una piccola fuga ogni tanto.

«Te lo permetto solo se me ne offri una.»

«Se pensavi che fosse un modo originale per dirmi che fumi, hai toppato alla grande..» Cominciò il padre, e Frank si sentì quasi offeso per il modo in cui aveva rovinato la sua frase ad effetto. «..ogni volta che torni a casa puzzi di ciminiera. Fumi Pall Mall rosse e a volte le “nascondi” in un barattolo di arachidi vuoto che tieni molto discretamente in camera tua.» Il ragazzo sbuffò, roteando gli occhi al cielo nonostante stesse sorridendo. «Non parlare con gli sconosciuti.» Aggiunse ironicamente il padre, allontanandosi con un sorriso. Frank, improvvisamente, sentì che quella giornata non sarebbe stata catastrofica come aveva previsto.

 

»»

 

Ore 02:47, segnava l'orolgio a led rosso della macchina. Rosso, appunto, era l'unico colore che Frank riusciva a vedere in quel momento, gli occhi appannati dalla stanchezza e la pioggia che offuscava la visuale dal finestrino e mischiava qualsiasi tonalità si potesse anche solo scorgere con quelle dei coloratissimi fanali. Le le luci delle macchine in coda davanti a loro e l'eco dei riflettori del locale che ancora gli faceva bruciare gli occhi, la musica spacca-timpani che gli rimbombava nelle orecchie e un numero non indifferente di dolori sparsi per tutto il corpo che aspettavano solo di manifestarsi sotto forma di lividi: si sentiva un po' come se avesse fatto a botte, insomma.

Si girò e rigirò nei due sedili posteriori che aveva monopolizzato, nel tentativo di chiudere gli occhi e dissolvere almeno un minimo della stanchezza che aveva accumulato quella sera.

Era strano pensare di aver condiviso quell'esperienza con suo padre: sinceramente, se qualche mese prima gli avessero detto che sarebbero andati ad un concerto in un locale a New York insieme, sarebbe scoppiato a ridere. Anche in quel momento stava per farlo.. così come ogni santissima volta che suo padre, una figura che prima vedeva in modo quasi solenne, si trovava bloccato nel traffico dopo esser riuscito a guidare per sì e o no un millimetro e riusciva a maledire anche le trisavole dell'uomo nella macchina all'inizio della coda. “Incredulo” era sinceramente l'unica parola adatta per descrivere come si sentiva riguardo quell'intera giornata. Si stropicciò gli occhi con ancora un sorriso in volto, e poco prima che potesse tornare a cimentarsi nel suo tentativo di dormire, sentì il telefono squillare per la prima volta durante tutta la giornata; in un primo momento si era quasi dimenticato che quello strumento esistesse e che in qualche modo avrebbe dovuto mantenere contatti con il resto del genere umano -almeno per far sapere che era tutto okay-, e mentre suo padre lo incitava a rispondere e lui si dimenava alla ricerca del tanto ambito cellulare, gli passò per la testa l'idea che potesse essere sua madre. Rabbrividì al pensiero, e ancora con gli occhi chiusi aprì il display. Tirò un sospiro di sollievo quando li aprì e riconobbe le ultime tre cifre del numero di Ray, e solo mentre schiacciava il tasto verde cominciò a pensare a quanto fosse effettivamente assurdo che Linda non avesse chiamato per tutta la giornata. Magari era semplicemente schiattata.

«Frank! Frank, cazzo, lo so che sei con tuo padre ma sei stato irraggiungibile per tutta la giornata, che cazzo state combinand-» La voce acuta del ragazzo gli trapanò un timpano -che già non era nelle migliori condizioni-, risvegliandolo definitivamente. Sbadigliò mentre ancora parlava, parlava, parlava, senza nemmeno ascoltare cosa gli stesse dicendo.

«Ray, non ho ascoltato nemmeno una fottuta parola di quel che hai detto.» Ammise, sentendo dall'altro capo del telefono delle voci un po' troppo familiari che discutevano con tono un po' troppo alto delle cose più disparate. Sorrise. «Dove siete?» Chiese con tutta la calma del mondo, ignorando completamente il tono disperato che aveva assunto poco prima Ray, che probabilmente stava provando a dirgli qualcosa di seriamente importante.

«Esattamente dove dovresti essere tu: casa di Mikey e Gerard.» Sbuffò, nonostante Frank non ricordasse di aver preso appuntamenti con loro per quel giorno. Sentì le voci dei due urlargli “ciao” dall'altro capo del telefono, e la curva del suo sorriso raggiunse delle dimensioni spropositate. «Frank, cazzo, nessuno ti ha detto che domani mattina partiamo?»

«Eh?» Chiese, alzandosi di scatto e recuperando improvvisamente tutta l'energia persa. L'adrenalina cominciò a scorrergli nelle vene, manco si fosse fatto una siringa di eroina, e sperò seriamente di aver capito bene: stavano per andarsene. Non sapeva come avrebbe fatto, ma almeno adesso aveva suo padre dalla sua parte. E ora, concretamente, sapeva che non avrebbe potuto mandare nemmeno qualcuno al seguito per cercarlo: mancava circa una settimana al suo ventesimo compleanno, e finalmente sarebbe stato più che maggiorenne e più che libero di prendere le sue scelte.

«No, scusa, scusa, avrei dovuto dirtelo io. Touché. Bhe, ora lo sai. Domani mattina partiamo.» Disse, palesando qualcosa di ormai chiaro e parlando così veloce che per poco Frank non lo capì. Ebbe appena il tempo di sussurrare un “cazzo” sottovoce, talmente incredulo che aveva paura di svegliarsi da un momento all'altro e scoprire che era effettivamente riuscito a cadere in fase rem proprio quando aveva perso tutte le speranze di riuscirci, che suo padre si voltò verso di lui, chiedendogli con sguardo interrogativo cosa stesse succedendo.

«A che ora?» Chiese, cercando di calcolare quanto tempo avesse per schiaffare tutti i suoi vestiti in un borsone e darsela a gambe prima che Linda potesse vederlo.

«Alle sette e mezza del mattino.» Disse, facendo cadere a pezzi tutti i progetti anche un po' troppo accurati che il ragazzo era riuscito a formulare in quella frazione di secondo che passò fra la domanda e la risposta. Merda. «Perciò dovresti venire a dormire qui, in effetti, a meno che non-»

«No, no, è meglio che venga, fidati. Domani è domenica e mia madre si sveglierà all'alba per andare a messa. Se mi vedesse sarei fottuto.» Lo interruppe prima ancora che potesse avere modo di dargli altre possibilità, facendo cenno con la mano a suo padre di aspettare: gli avrebbe spiegato tutto dopo. E avrebbe avuto bisogno di aiuto. Tanto aiuto. «Ray, ascoltami un secondo, sono in autostrada, arrivo al più presto, okay?» Chiese, affrettandosi nella voglia di scoprire se questo aiuto, alla fine, lo avrebbe seriamente ricevuto. Poteva davvero aspettarsi che fosse cambiato tutto in una giornata? Il ragazzo rispose dall'altro capo del telefono, due sì frettolosi e appena il tempo per salutarsi, e Frank si rese conto che, come vita, la sua era davvero fantastica.

 

**

 

Il piano era semplice: “entra a casa, prendi un borsone e mettici dentro più roba possibile nel minor tempo possibile”, gli aveva detto suo padre con un tono tutto emozionato. Il problema era sorto solo quando lo aveva intimato frettolosamente di non far rumore. Per quanto il fatto che non avrebbe dovuto farsi sentire fosse sottinteso, quasi una cosa ovvia, era più facile a dirsi che a farsi: era la classica situazione in cui dovresti stare in silenzio tombale e solenne e scoppi a ridere per la minima cazzata.

Frank, ad ogni modo, aveva accettato la sfida.

In primis, si era tolto le scarpe e si era infilato le ciabatte che sua madre procurava a tutti quando passava la cera.. non avrebbe mai potuto evitare di far scricchiolare i gradini delle scale che conducevano a camera sua con quelle maledette Vans, e nonostante il tempo perso sfilarsi quelle scarpe -che tra l'altro, non gli erano mai sembrate così tanto strette- e l'umiliazione con nessun altro se non sé stesso nell'indossare delle pattine di pelo fucsia, ne valse la pena; sua madre sembrava essesi data alle pulizie, quel giorno, e quasi sfrecciava sul pavimento appena laccato. Terrore di andare a sbattere contro qualcosa o cazzate simili a parte.

Era riuscito magicamente ad entrare in camera senza far rumore con la porta, e nonostante non ebbe la stessa fortuna con le ante dell'armadio, fu silenzioso in tutto il resto. Piegò con minuziosa cura i vestiti che era quasi sicuro che non avrebbe mai più avuto la possibilità di stirare e prese un sospiro prima di avviarsi verso la porta. Si mise in spalla il borsone e la custodia della chitarra, rendendosi conto proprio qualche secondo prima di girare nuovamente il pomello della porta che non era sicuro che sarebbe riuscito ad andarsene per sempre.

Chiudere alle sue spalle quella porta con la consapevolezza che non sapeva se l'avrebbe mai aperta, era un passo enorme: dire addio alla casa che lo aveva ospitato per vent'anni, dire addio alla camera in cui si era rifugiato nei momenti peggiori, dire addio (almeno per un po') a suo padre e a sua madre, che lo avevano comunque cresciuto, nonostante tutto. Che lo avessero fatto bene o male, poi, era un altro conto. Sospirò nuovamente, cercando di non far rumore come la volta prima: cominciò a chiedersi se avrebbero lasciato camera sua esattamente com'era. Cominciò a chiedersi cosa ne avrebbero potuto fare e se l'avrebbe mai rivista esattamente così, e prima che potesse immaginarla vuota, bianca e triste, tirò la porta alle sue spalle e se ne andò. Chiudere quella di casa, ad ogni modo, fu più facile: non c'era una sola, singola cosa di cui si pentiva a proposito di ciò che aveva fatto, e adesso ne era sicuro più che mai.

Allora era uscito di casa, era entrato in macchina, e suo padre gli aveva schiacciato il cinque, così, senza motivo. Erano arrivati in meno di cinque minuti -anche se normalmente ce ne avrebbero messi dieci con anche solo un minimo di traffico- e poco prima che potesse scendere dalla macchina ancora accesa e pronta a ripartire e prepararsi all'idea di salutare frettolosamente Anthony per chissà quanto tempo, quest'ultimo fermò il motore. Frank lo guardò stranito, convinto che sarebbe immediatamente tornato indietro per non destare ulteriori sospetti quando invece, al contrario, scese dalla macchina e gli sorrise, semplicemente. Frank spostò il peso da una gamba all'altro, ansioso: aveva già capito perché voleva fermarsi, e immediatamente, sentì tutto il sangue che aveva in corpo salirgli alle guance. Si morse il labbro, calciando uno dei ciottoli del vialetto e facendo cenno con il capo al padre di seguirlo.

«Emozionato?» Gli chiese quest'ultimo mentre si avviavano verso la porta. Il ragazzo annuì e in seguito abbassò lo sguardo, cercando la sua copia della chiave nel borsone. La girò nella serratura con le mani tremolanti dall'agitazione e l'imbarazzo, e quando finalmente riuscì ad entrare, fu accolto da una specie di coro di urla e applausi per la sua fuga andata a buon fine. In salotto c'erano l'intera famiglia e l'intera band, svegli e scattanti come se fossero le quattro del pomeriggio e non del mattino, e Frank non riuscì a trattenere un sorriso nel notare le facce confuse che gli rivolsero tutti dopo aver notato che era accompagnato da “un tipo”.

«Umh- questo è papà.»

 

**

 

!SONO PRONTA AD ESSERE LAPIDATA!

No, serio, scusatemi veramente tanto, perché sto facendo sempre più tardi nell'aggiornare e boh, abbiamo rischiato che finisse il mondo senza che questo splendido (fra un centinaio di virgolette) capitolo vedesse mai la luce di EFP, e veramente, perché comincio frasi senza sapere come finirle?

La consecutio non è della mia parte. Sono stanchissima e ho avuto veramente poco tempo per scrivere questo capitolo, mi mettevo davanti ad Open Office, pensavo “e ora che cazzo mi invento?” e prima che me ne potessi accorgere si facevano le nove e mi rendevo conto di non aver nemmeno aperto un libro, giusto per dirvene una. <3

Sono stata, più che altro, impegnata a fare la studentessa modello per convincere i miei a mandarmi a vedere i Green Day e i MIIUUZ a Roma, e guess whaaaat, missione compiuta. Ah, e io e quella tipa bona di The Last Thing I See (aka Frà, ma okay) vi aspetteremo lì in tutta la nostra disperazione, pronte a darvi un bakietto. :»

Quindi, ora che sono un po' più libera dallo studio e un po' più avanti con interrogazioni e merde varie, a meno che non dovesse succedere qualcosa di molto blblblbl, dovrei riuscire a postare più spesso.

So che lo dico ogni volta, davvero, ma dal 12 in poi ho qualche capitolo già scritto -anche se parzialmente, shhh, ho tante idee- e durante le vacanze vedrò di combinare qualcosa invece di starmene qui a vegetare, quindi have faith in me, un beso, buon Natale e buon anno nuovo, scieeeeeeeeoioieoieorueor. <3

PS: titolo tratto dall'omonima canzone dei BlinkCIIIIIENTOTTANTAEDUUUUE. <3

PPS: perché quando scrivo le outroduzioni (NON MI VIENE IL CONTRARIO DI INTRO IN ITALIANO???!?!=!"/!&%"!) sembro una fottuta analfabeta?

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** I'm (not) okay ***


11. I'm (not) okay




..And in the night, we'll wish this never ends..” /17-10-02/

 

 

«Frank?» Il ragazzo, che fino a pochi secondi prima di sentirsi chiamare era praticamente sicuro di essere sul punto di addormentarsi, improvvisamente sentì un peso accanto al suo. Il materasso scricchiolava tremendamente nel silenzio del piano interrato che Gerard amava chiamare “camera sua”, e Frank non sapeva se sentirsi felice all'idea di dormire con il più grande oppure semplicemente ansioso. Proprio come una verginella. Cosa che in effetti si poteva dire parzialmente realistica, visto e considerato che l'unica persona con cui fosse mai andato a letto era il suo migliore amico. Sospirò, pensando più a contare le ore di sonno che gli rimanevano piuttosto che a provare effettivamente a dormire, e accettò cautamente l'idea che non avrebbe chiuso occhio. «Frank

«Gerard.» Rispose fra uno sbadiglio e l'altro, muovendo le dita di mani e piedi ormai intorpidite nel tentativo di sentirsi di nuovo gli arti. Prese un respiro profondo, evitando di spostarsi anche solo di un centimetro perché in quel momento sarebbe stato un fottuto sport estremo, e pensò ad un modo per far capire al nottambulo compagno quello che li aspettava il giorno dopo e quanto sarebbe stato impossibile affrontarlo senza minimo nove ore di sonno alle spalle. Cosa che non avrebbero potuto avere, ad ogni modo, ma perché sprecare almeno quelle magnifiche tre ore e mezza che in quel momento gli sembravano tanto un dono del cielo?

«Posso dormire qui? Mi fa male la schiena se sto a terra.» Sussurrò, aggiustandosi alla meglio sotto le coperte -senza aspettare nemmeno una conferma- dopo aver capito che Frank era corpo morto e non si sarebbe mosso neppure a pagarlo. Il ragazzo sospirò: quello era il suo letto, alla fine, chi era lui per dirgli no? Rabbrividì quando sentì la gamba del pigiama di Gerard pericolosamente vicina alla sua, e solo in quel momento si rese conto che era in biancheria e t-shirt, e Cirsto Santo, quello non era definitivamente un letto a due piazze, era tutto sbagliato, tutto-

«E' il tuo letto.» Fece spallucce il più piccolo, cercando di ignorare lo sguardo che poteva praticamente sentirsi addosso quando, in un disperato tentativo di deglutire via un po' del groppo che gli si era formato in gola, finì per tossire miserabilmente. «Ma sappi che questa me la lego al dito, perché mentre sono stato via immagino abbiate fatto doppi turni per dormire qui. Che culo pesante che sei.» Disse, pensando a quanti cambi aveva perso. Di solito era sempre così: a turni, uno di loro dormiva sul letto di Gerard e gli altri nei sacchi a pelo.

«No. Abbiamo dormito tutti a terra. Per rispetto.» Gli sussurrò all'orecchio, quasi per fargli capire che ehi, intorno a loro c'erano pur sempre altre tre persone che dormivano, ed ehi, non potevano fare tutto il casino che volevano, e soprattutto che ehi, cazzo, se anche solo il rumore di uno dei due che si muoveva sul letto faceva girare Mikey dall'altro lato, figuriamoci che effetto avrebbe avuto su di lui il loro cialtrare. I due rimasero in silenzio, terrorizzati all'idea che qualcuno si potesse svegliare e farsi strane idee -che sarebbero state, ad ogni modo, terribilmente giustificabile-. Si voltarono simultaneamente a guardare l'ammasso di sacchi a pelo sul pavimento e le persone che dormivano in essi, e Frank si lasciò scappare uno stupido commento:

«Carini.»

«Carini è dire poco.» Sospirò Gerard, e nonostante fosse piuttosto difficile vederlo, riuscì a capire che stava sorridendo. «Lo sai, Frank, molte volte ho pensato di dirtelo ma mi dimenticavo continuamente, e.. sai una cosa? Hai..» Cominciò di nuovo, con il tono di uno che era piuttosto fra le nuvole. Si alzò leggermente dalla sua posizione, mettendosi di fianco e poggiandosi su un gomito mentre con la mano dell'altro braccio spostava il viso del ragazzo in modo da inquadrarlo perfettamente a suo piacimento e faceva pressione su punti come la curva del naso, le ossa delle guance. Frank spesso non si capacitava di come fosse possibile che ci fosse uno scheletro che viveva dentro di lui, o meglio, del fatto che lui stesso fosse effettivamente uno scheletro. O gli organi, Cristo, per non parlare degli organi. Solo l'idea che dentro di lui ci fossero due polmoni, il fegato, la milza.. era una cosa che lo rendeva nauseabondo. E il fatto che quella piccola “ispezione” glielo stesse ricordando, bhe, non era il massimo. Gerard non gli aveva ancora detto che cosa avesse, esattamente, ma in quel momento non poteva nemmeno sforzarsi di pensare che gli importasse, e chiuse gli occhi, trattenendo il respiro. Il più grande approfittò per poggiargli i polpastrelli sulle palpebre, passando in seguito -un po' meno delicatamente- all'osso sotto l'arcata sopraccigliare. «..hai una struttura ossea perfetta.» Constatò, e Frank non riuscì a trattenere un ghigno.

«Cos'è, una delle vostre frasi fatte da artisti per farvi qualcuno?» Chiese, cercando di non fare rumore e trattenersi dallo scoppiare nel bel mezzo di quel silenzio spacca-timpani con scarsi risultati. Gerard, in tutta risposta, smise di tastare quelle sue ossa così “perfette” (Frank ancora rideva internamente) e gli diede un buffetto in piena fronte nonostante non stesse esattamente ridendo meno di lui.

«Oh, sì, e ne abbiamo tante altre.» Disse, sorridendo e annuendo fra sé e sé. Anche se, di nuovo, non c'era un modo per dirlo con certezza: era semplicemente la sua voce che glielo suggeriva. «Per esempio, se dici ad una ragazza che è la tua musa ispiratrice, insomma, lei si sentirà tutta lusingata, no?» Frank annuì con un silenzioso “mh-mh”, e lasciò che il ragazzo andasse avanti. «Ma la verità è che l'unica circostanza in cui ti ispira comprende te, una stanza buia e una mano nei pantaloni.» Questa volta fu il turno dell'altro, con gli schiaffi, ancora ridacchiando fra sé e sé.

«E.. e le usate davvero?» Chiese, non sicuro di quanta verità ci fosse in quello che stava dicendo.

«Ma certo Frank. Certo che le usiamo. Tutte.» Iniziò Gerard col tono più sarcastico di sempre, ed il più piccolo cominciò mentalmente a roteare gli occhi al cielo per la frustrazione dovuta all'ennesima figura del cazzo. «E andiamo tutti in giro vestiti in pantaloni aderenti, maglie a righe bianche e nere e un foulard rosso. Anche il basco, a volte.» Quello era vero e proprio terrorismo culturale per il suo povero cervello che, a quell'ora, non era capace nemmeno di distinguere il sarcasmo da una vera e propria affermazione, ed era ciò che bastava perché Frank decidesse di usare un trucco veramente sporco per portarsi in vantaggio: il solletico. Le sue mani cominciarono a muoversi sulla pancia del ragazzo, poi sui fianchi, poi il collo, e senza nemmeno saperlo o accorgersene, si ritrovò completamente steso su di lui, che intanto moriva internamente nel tentativo di trattenere le risate e allo stesso tempo scacciarlo. Frank gli prese i polsi e glieli bloccò sul cuscino, giusto in tempo per evitare di beccarsi uno schiaffo in piena faccia e rendendo entrambi disarmati: quello segnava la fine del loro piccolo conflitto, eppure nessuno dei due si mosse di un centimetro. Nemmeno Gerard, che avrebbe dovuto come minimo volersi liberare le mani.

«Se ci aggiungi una baguette e dei baffi curati è la perfetta descrizione di un francese.» Disse Frank, rendendosi conto solo in quel momento di quanto fosse già senza fiato. Sentì Gerard che provava a muovere le mani e lo lasciò andare, facendo per rotolarsi nuovamente nella sua porzione di letto ma venendo bloccato dalle braccia del ragazzo che gli si strinsero in vita. Tossì nervosamente, sperando veramente di riuscire, in qualche modo, ad alleggerire quell'atmosfera.

«Che brutti stereotipi.» Gli sussurrò all'orecchio, così vicino che Frank riuscì a sentire le sue labbra curvarsi in un sorriso proprio accanto al suo lobo. Sospirò un po' troppo rumorosamente e fece attenzione a rimanere zitto, non avendo veramente nulla di interessante o coerente da dire. Riuscì addirittura a chiudere gli occhi: infondo era rilassante stare così -nonostante fosse abbastanza difficile muoversi senza che l'altro si lamentasse-, e si lasciò completamente prendere dalla situazione schiacciando il volto contro il petto dell'altro. «Frank?» Si sentì chiamare di nuovo, e questa volta era ben intenzionato a limitare le sue risposte a dei semplici versi di disapprovazione. «Frank.» Sbuffò piano il ragazzo. «FrankFrankFrank.» E ancora, sempre più fastidioso. «Frank, se non mi rispondi giuro che urlo.» E questa volta, terrorizzato all'idea che potesse svegliare tutti, fu costretto a seguire gli ordini. Un fottuto cagnolino.

«Cosa?» Disse, intimandolo implicitamente ad abbassare la voce che, probabilmente senza accorgersene, aveva alzato di qualche tono di troppo. Gerard lo stava guardando -o almeno pensava che fosse così, perché ancora una volta non riusciva a vedere un fottuto nulla in quel buio- senza dire nemmeno una parola. «Ehi?» Chiese, e in seguito a quella così poco articolata domanda, si rese conto che le mani del ragazzo erano scese un po' troppo in basso. Frank rimase a bocca aperta e anche abbastanza felice che in quel momento non lo potesse vedere. Gerard infilò i pollici nell'elastico dei boxer dell'altro, e fu solo in quel momento che quest'ultimo capì esattamente cosa stava per succedere. «No, no- fermo.» Disse, sentendo il respiro bloccarglisi in gola. «Gerard, dormono-» Si fermò improvvisamente nel realizzare che il resto del palmo della sua mano era semplicemente fermo , e dovette prendere un respiro profondo. «Dormono tutti.»

«A maggior ragione, di che ti preoccupi?» Gli chiese a bassa voce, baciandogli appena-appena la spalla. Il più piccolo emise un versetto frustrato all'idea che, in effetti, non era che non volesse: aveva solo una maledetta paura che qualcuno si svegliasse e, soprattutto, non era psicologicamente pronto ad accettare che stava succedendo di nuovo. Con lui, specialmente.

«Non sai mai chi potrebbe star ascoltando..» E a quello, invece, il ragazzo semplicemente rise.

«Credimi, le nottate insonni mi hanno insegnato a riconoscere il russare di tutti, e se fai abbastanza attenzione..» Smise improvvisamente di parlare, e proprio in quel momento, sentirono qualcuno emettere uno strano verso. Frank sorrise. «..puoi sentirli tutti.» Il più piccolo sospirò, arrendendosi ancora una volta. Non che quel tipo di arrendevolezza non fosse piacevole, ad ogni modo.

«Ti detesto.» Disse, ma in realtà quello non era altro che un modo per dirgli che sì, era riuscito di nuovo a farsi convincere. «Riesci sempre a farmi dire sì, Dio

«Non sono io che sono un manipolatore.» Disse Gerard, cominciando a spogliarlo il minimo che bastava perché la situazione si facesse imbarazzante. «Sei tu che mi adori troppo.» E in quel momento, pur con un sorriso stampato in faccia, Frank non riusciva a non sentirsi stupido mentre provava a calciare via le sue ancor più stupide mutande bianche (ingiallite dai costanti lavaggi in candeggina) che l'altro si era già preso la premura di abbassare al massimo delle sue possibilità. Il più piccolo non si fece troppi problemi nemmeno a farsi togliere la maglietta, e solo dopo si rese conto che forse aveva sbagliato: era esposto, completamente nudo. E pur essendo al buio, il pensiero che in quel momento era vulnerabile non smetteva di tormentarlo.

Non si era mai psicologicamente preparato all'eventualità che gli sarebbe successa una cosa del genere, almeno non nei prossimi dieci, venti anni. Insomma, era sempre stato convinto che a quell'età non si facesse nulla del genere; non il sesso in sé perché sarebbe stato da stupidi credere che nella società in cui viveva ci fossero molti diciannovenni vergini, quanto il modo in cui stava capitando, l'atmosfera, e soprattutto la vergogna. Frank aveva, più o meno, sempre pensato che alla loro età gli unici amplessi possibili capitassero per caso. Nel senso, i genitori del tuo migliore amico partono, lui organizza una festa a casa sua e una ci prova: se sei in camera da letto dei genitori di qualcuno, la tua priorità non è spogliarti completamente. Sei nell'angolo sperduto di un locale e i riflettori potrebbero puntarti da un momento all'altro. Sei a casa di lei e i suoi potrebbero entrare quando meno te lo aspetti e non pensi a spogliarti quanto a coprirti il più possibile. Quanto a raggiungere l'egoisticoico obiettivo che ormai era la principale motivazione per cui le persone del ventunesimo secolo si prendevano ancora la briga di far finta che si desiderassero davvero. Invece, mentre provava disperatamente a togliere all'altro la t-shirt che indossava ed entrambi cercavano di soffocare le risate, non era nulla di tutto questo. Erano ancora una volta pelle contro pelle, umani e niente più, due persone che reciprocamente si offrono l'un l'altra. E quello che ancora si chiedeva, era esattamente il perché di tutto quello. Forse semplice fiducia, ma la verità era che in quel momento non gli importava nulla.

Quello che gli importava un po' di più, forse, era che non sapeva nemmeno da dove cominciare, adesso che erano entrambi svestiti: più per imbarazzo che per vera indecisione, ma infondo per certe cose devi prenderci l'abitudine. Dicono che il sesso migliore si fa verso i quarant'anni perché si è più consapevoli di sé stessi, più aperti ad accettare il proprio corpo.. eppure Frank ne aveva diciannove e, superato il blocco iniziale, era pronto a giurare che nessun quarantenne, per quanto raggrinzito ma “sicuro di sé” e pieno di esperienza avrebbe mai eguagliato quello. E con “quello” non intendeva soltanto la sensazione, ma anche quelle piccole cose che era sicuro che, se si fossero trovati ad una festa, in una discoteca o in qualunque altra situazione da sveltina, non avrebbe mai notato.

“Oddio” fu l'ultima cosa che si ricordò di aver detto prima che entrambi collassassero. Improvvisamente non era più stanco: magari era solo l'adrenalina,anche se non ci avrebbe giurato, visto e considerato che ai tempi della scuola, quando si svegliava con un'erezione mattutina (essere un ragazzo faceva schifo, okay) ed era costretto a “liberarsene”, non si era mai sentito più propenso ad alzarsi o più energico, quindi punto e a capo, non sapeva da dove venisse quell'improvvisa voglia di rimanere sveglio quel che rimaneva della notte ad ascoltare semplicemente il respiro dell'altro che pian piano tornava normale. Gerard, intanto, sembrava essere della stessa idea: piuttosto che provare a chiudere occhio, cominciò con l'indice della mano destra a tracciare il contorno delle ossa della colonna vertebrale di Frank, che improvvisamente lo sentì ridere.

«Che c'è?» Chiese, cominciando a preoccuparsi di aver sbagliato qualcosa. «Ho- ho fatto qualcosa che non va bene?» Continuò, e lo stomaco gli si annodò su sé stesso.

«Nah. E' che stavo ripensando a quando ti ho detto che hai “una struttura ossea perfetta” e mi sono reso conto di essere suonato abbastanza gay.» Rispose, e l'altro cominciò finalmente a ridere con lui. «Avevi tutta la ragione di questo modo a prendermi per il culo, Dio..» Annaspò fra un ghigno e l'altro, cercando di cominciare a reprimere le risate prima che diventassero troppo rumorose. Frank fallì nel tentare di fare la stessa cosa, e rimasero almeno altri dieci minuti a cercare di zittirsi l'un l'altro con degli inutili “shh” che non facevano altro che provocare altri stupidi versetti.

Quando gli sghignazzi si affievolirono, ecco, forse quello fu il momento in cui la stanchezza tornò. Era bello perdere la cognizione del tempo, starsene semplicemente così: sapeva che era tardi ma non aveva intenzione di chiudere occhio, sapeva che avrebbe dovuto rivestirsi ma non riusciva a fregarsene più di tanto, era perfettamente consapevole di quello che avevano appena fatto -per la seconda volta, andiamo, sul serio?- eppure non riusciva ancora a crederci. Onestamente, se gli avessero raccontato la stessa identica scena e l'avessero attribuita a un qualche film, non si sarebbe fatto troppi problemi a credere che appartenesse proprio a quest'ultimo. E ad essere ancor più veritieri, l'intera piega che aveva preso la sua intera vita, ultimamente, era surreale.

«Sei felice?» Chiese, e non aveva la minima idea di cosa lo avesse spinto a fare una domanda del genere e quale coraggio lo avesse messo in condizione di farla davvero. Il suo mento era fisso nell'incavo del collo dell'altro e quindi lo sentì deglutire un po' prima di rispondere. Gerard per una volta profumava di bagnoschiuma -pur sempre misto a sudore, ma infondo era un passo avanti- e, nel vederlo tacere, Frank pensò che forse aveva toccato un tasto dolente.

«Sì. Mi rendi felice.» E cazzo, con quello sapeva di poter morire soddisfatto. Sapere di aver portato anche solo un minimo di felicità nella vita di qualcuno era qualcosa di nuovo per lui. Specialmente che glielo dicessero in modo così aperto, senza fraintendimenti, senza che lo dovesse interpretare lui, almeno per una volta, era il massimo. E, personalmente, non poteva chiedere di meglio dalla vita. Perché era vero che c'erano ancora tante cose in sospeso fra loro, ma per quel momento? Per quel momento era abbastanza. Anche di più. «Io ti rendo felice, invece?» Chiese Gerard col fiato corto. A Frank si bloccò il respiro.

«..Tanto.»

 

**

 

I wanna scream I love you from the top of my lungs, but I'm afraid that someone else would hear me..” /24-06-04/

 

Ma, ad ogni modo, più il tempo passava, più era ovvio che non era così.

Era da quando Elena era morta che c'era semplicemente qualcosa che non andava. Non era qualcosa che avresti visto da un kilometro di distanza: Gerard era schifosamente bravo a nascondere quel che provava, eppure, a due anni di distanza da quel dodici agosto, Frank poteva dire di conoscerlo così bene da riuscire a rendersi conto che non era “tutto okay” come diceva ogni volta che gli domandava se era felice. Più i giorni si accumulavano, più era ovvio che nessuno dei due lo era, che forse nemmeno riuscivano a farsi stare granché bene a vicenda, a quel punto. E questa era la cosa che faceva più male: la loro incapacità di farsi del bene a vicenda come avrebbero voluto. Ormai Frank lo sapeva per esperienza: non c'era nulla di più difficile che guardare negli occhi qualcuno a cui avevi promesso aiuto e non vedere nient'altro che buio. Non vedere nient'altro che un baratro nel quale rischiava di cadere anche lui, nel tentativo di ripescarlo. Stare semplicemente lì, accanto a quella persona, appoggiato al bordo mentre le tendi la mano. Impotente di fronte a qualcosa che, per quanto si stesse impegnando, non riusciva a cambiare. Stare semplicemente vicino a quella persona e offrire ogni fibra di te stesso senza riuscire, ad ogni modo, a combinare qualcosa. Provare e fallire, provare di nuovo e fallire ancora. Magari arrendersi? Questo Frank non lo sapeva, né voleva prenderlo in considerazione, almeno per un altro po'.

Sapeva soltanto che in quel momento erano bloccati fuori un autogrill, che non era stato così male da quando era nato, probabilmente, e che il motore del van era completamente partito. Sapeva soltanto che erano seduti sul ciglio della strada e che non era normale tremare di freddo il mese di giugno, ma che era bello avere qualcun altro a riscaldarlo. Gerard gli continuava a dare pacche sulle spalle mentre lui tossiva anche l'anima, incitandolo ad appoggiare il capo sulla sua spalla. Frank non se lo fece ripetere due volte ed eseguì, strizzando gli occhi mentre questi si appannavano di lacrime. Maledette difese immunitarie di un neonato, maledetti ritmi del cazzo.

«Con calma.» Disse tranquillamente il più grande, continuando a pattargli la schiena come se potesse effettivamente servire a qualcosa. «Rilassati.» Continuò, e Frank si sentì come se fosse ad un corso pre-parto o una riunione per buddisti. Pian-piano, i suoi polmoni sembrarono dargli una tregua, e cautamente riaprì gli occhi. Prese un respiro profondo che gli fece pizzicare indecentemente la gola e sembrò fargli esplodere i polmoni, e si rese conto che era fottuto.

«Come cazzo faccio, Gerard?» Chiese, il tono di voce più stridulo che gli fosse mai uscito. A distanza di due giorni dal loro primo vero “ingaggio”, ovviamente, si era ammalato. Entrambi sbuffarono, stringendosi meglio nella coperta un po' troppo piccola per essere condivisa che stavano disperatamente usando per coprirsi. Piuttosto che dargli una risposta, ad ogni modo, l'altro rimase a fissare il van fermo davanti a loro, cercando di convincersi del fatto che avrebbero trovato un meccanico in tempo e che tutto sarebbe andato per il meglio.

«E' tutta una questione.. psicosomatica.» Il più grande disse, e Frank si chiese seriamente se sapesse addirittura il significato della parola che aveva appena detto, perché lui certamente non aveva una cazzo di idea di cosa volesse dire. «Se la smetti di tormentarti ti passa.» Continuò, e le pacche di prima si trasformarono in carezze un po' troppo energiche. In altre circostanze, avrebbe pensato che stesse solamente cercando di riscaldarsi le mani. Il più piccolo chiuse gli occhi e sospirò. Le voci degli altri che “litigavano” sul da farsi gli arrivavano quasi soffuse, come in una di quelle esperienze extra corporee che si vedevano nei film poco prima della morte di qualcuno, ed effettivamente, se fosse morto non se ne sarebbe stupito.

«Sto per morire.» Decise allora di comunicargli, e immediatamente si pentì di aver parlato nuovamente quando si rese conto che ogni sillaba aveva l'effetto di una grattugia sulla sua gola.

«Non anche tu..» Gerard disse, e nonostante quello fosse un discorso prettamente ironico, la sua voce suonò talmente spezzata che Frank cominciò a chiedersi se non ci fosse un secondo significato a quel che aveva appena detto. Ultimamente, Gerard parlava sempre con frasi ambigue. Come se non potesse dire ciò che voleva come un tempo, e al ragazzo andava sempre il compito di interpretare, di capire a cosa si riferisse veramente. E le cose non facevano altro che peggiorare: era sempre stato difficile intendersi con Gerard, eppure adesso stava diventando impossibile. Come avrebbe potuto salvarlo se non riusciva nemmeno a capirlo, questo non lo sapeva. Sapeva però che non poteva abbandonarlo così, e questa era una certezza. Forse nemmeno voleva, e quello non era altro che puro masochismo. Magari amore. Ma che cos'è l'amore se non una forma di masochismo?

«No, io non ti lascio.» E quando le parole abbandonarono la sua bocca, fu quello il momento in cui si rese conto che , aveva appena detto una cosa del genere. Era quasi ridicolo come riuscissero a fare discorsi simili e buttarli lì, in situazioni talmente inappropriate da riuscire a far finta che non fossero nemmeno mai avvenuti. Due anni fa, ci avrebbe pensato come minimo mille volte prima di dire una cosa così fraintendibile: adesso invece era più facile, principalmente perché sapevano che la maggior parte delle cose che si dicevano, le avrebbero dimenticate. O almeno avrebbero fatto finta di averle semplicemente rimosse- a quel punto, Frank era arrivato alla conclusione che erano capaci di fare veramente di tutto pur di non pensare a cosa significassero davvero.

Gerard gli sorrise, un sorriso così semplice che il ragazzo constatò con gioia che quello era uno di quei momenti, finendo inevitabilmente per ricambiare di riflesso. Non capitavano spesso, però quando capitavano era il meglio: quei momenti in cui sembrava che il mondo esterno non contasse nulla.

Uno di quei rari momenti in cui Frank riusciva finalmente ad ignorare il fatto che qualche giorno fa si fosse fermato in un internet-point per stampare fogli contenenti documenti con titoli che andavano da “iniziative per il recupero dei tossicodipendenti” a “elaborare il lutto”, tutto per colpa sua. Tutto perché qualche anno prima, con delle stupide parole, gli aveva messo in testa questa stupida idea che un giorno lo avrebbe salvato. Che poi, ogni volta che ci pensava, si rendeva conto che non era una colpa se aveva deciso di aiutarlo. O almeno, non era colpa di Gerard: Gerard non voleva alcuno aiuto, e questo era palese. La colpa non era di nessun altro se non sua.

Certo, se c'era qualcosa per la quale non poteva incolparsi, era la morte di Elena. Quello per cui poteva farlo, però, era la sua inettitudine. Il suo promettere, promettere, promettere, ma non riuscire mai a mantenere e il suo non essere nemmeno minimamente all'altezza della donna. E questo sì, decisamente, era colpa sua: non era capace nemmeno di salvare sé stesso, figuriamoci qualcun altro. Sapeva benissimo che non avrebbe mai avuto un ruolo simile a quello che aveva avuto lei nella vita di Gerard, eppure Gerard stesso gli aveva detto che bastava che si innamorasse di lui, ma nonostante tutto, anche adesso che Frank ci avrebbe messo la mano sul fuoco per giurare che non era mai stato tanto perso per qualcuno, non stava andando esattamente secondo i piani.

«Ti vado a fare una camomilla.» Disse il più grande, completamente ignaro di tutto quello che stava contemporaneamente succedendo nella testa di Frank. Era strano pensare che, nonostante il legame che li univa, Frank viveva confinato nella sua testa e fuori da quella di Gerard. Certe volte gli sembrava semplicemente di stargli così vicino, che si chiedeva come fosse possibile che l'unica cosa a unirlo a lui fossero le parole, che non ci fosse modo per poter conoscere senza le censure che impone il cervello prima di collegarsi alla bocca tutti i suoi pensieri. Era quasi ingiusto, perché non avrebbe avuto bisogno di altro: capirlo. Capire il problema e trovare una soluzione, o magari capire perché le soluzioni che era stato grossolanamente capace di elaborare non avessero funzionato.

«Mi fa schifo la camomilla. Thè?» Chiese, sfoderando la migliore faccia da cucciolo bastonato che fu capace di fare e trovandosi davanti nient'altro che un Gerard piuttosto senza speranze che alzava lo sguardo al cielo. Il più grande si alzò, e Frank fu da un lato infinitamente contento di potersi coprire decentemente, dall'altro un po' meno della mancanza del suo calore accanto a lui.

«Il thè è eccitante, non ti aiuterebbe.» Disse, e il chitarrista cercò davvero con tutto sé stesso di non scoppiare a ridere a quel doppiosenso come un ragazzino di prima media durante la lezione di scienze sull'apparato riproduttore. Gerard, ovviamente, noto la sua reazione, e sbuffò ancora più forte di prima. «Ascoltami, una volta tanto.» Lo pregò, una madre apprensiva nel pieno di una crisi.

«Okay, okay. Camomilla sia.» Si arrese, constatando per la centesima volta che non era altro che il suo chihuahua di compagnia. Stava quasi per cominciare a frugare nella sua tasca alla ricerca di sigarette e accendino, quando si rese conto che, nelle sue condizioni, fumare non sarebbe stato proprio un toccasana. «Gerard?» Chiese, alzando un po' la voce in modo tale che lo sentisse e si voltasse prima di entrare. «So che è soltanto uno schifoso autogrill, ma vedi se hanno dei cerotti alla nicotina o qualcosa del genere? Magari per i camionisti che fanno turni lung-»

«Oh. Mio. Dio.» Gerard scosse il capo, stropicciandosi il volto fra le mani. Frank si rese conto solo dopo aver visto la sua reazione di quanto fosse suonato disperato. «No, non ti comprerò degli stupidi cerotti alla nicotina. Cristo Santo.» E detto questo se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle. Frank rimase ad aspettare, guardando da lontano Mikey, Ray, Matt e Brian che cercavano disperatamente di far capire all'unico meccanico disponibile nel raggio di duecento kilometri che cosa gli servisse. Ovviamente la fortuna non era dalla loro parte, e il loro “amico” Mohamed riusciva a capire ben poco della loro lingua. Il più piccolo non fece altro che godersi la scena e ridacchiare pigramente da lontano quando alle sue spalle comparve nuovamente Gerard.

«Ecco a te.» Si sedette accanto a lui, reclamò il suo lembo di coperta e gli porse una confezione bianca di “Niquitin”, insieme quello che odorava a tutti gli effetti come un thè. Frank lo guardò con un sorriso smielato e prese a sbattere le palpebre nel modo più femminile possibile: quella era la prova che, forse, non si era totalmente inacidito. L'altro, in tutta risposta, scoppiò a ridere e si raggomitolò il più vicino possibile. «Cinque dollari, mancia non inclusa.» Disse, chiudendo gli occhi per la prima volta in quelli che, a conti fatti, potevano essere anche due o tre giorni.

Frank non rispose. Cercò con tutte le sue forze di buttare giù il thè un po' troppo caldo per essere vero che si trovava in mano e dopo poco aprì il pacchetto, cominciando a chiedersi se dei pezzetti di carta appiccicosa avrebbero mai avuto lo stesso effetto di una sigaretta. Sospirò, attaccandosene comunque uno al braccio e fissando l'altro che lo usava come cuscino.

Non doveva arrendersi.

Non poteva.

 

**

 

EHILAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAASDOFIJSIGFWRJ!

Come al solito sono scomparsa, okay.

Ma davvero, ho dei motivi che non sto qui a dirvi, asdfghj. <3

Okay, avrete notato che il capitolo è come al solito diviso in due parti, ma questa volta sono divise oltre che dagli asterischi anche da due sottotitoli con le date, perché ho un debole per gli sbalzi di temporali, non odiatemi. <3<33<<3<3

Quindi, bhe- non ho idea. Il titolo del capitolo non sto qui a dirvi da dove l'ho preso, il primo sottotitolo è di "I miss you" dei Blink182, il secondo di "The (shipped) gold standard" dei Fall Out Boy. c:

Mi era saltata in testa la malsana idea di cominciare a usare twitter, ma non ho la minima idea di come funzioni, quindi venite a motivarmi, sciao. <3 (sono @weumhbelui, non fate domande AHHAHAHHAHAHAHA)

PS: IL FATTO CHE 40 FOTTUTE PERSONCINE ABBIANO MESSO QUESTA STORIA NELLE SEGUITE PER ME è DAVVERO TROPPO, GRAZIE 40 VOLTE. <3<3<33<3<33<

PPS: SE CI SIETE BATTETE UN COLPO :C <3

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Need a lil' time to wake up ***


12. Need a lil' time to wake up



/26-06-04/

 

 

Quasi come a festeggiare l'arrivo al Warped, senza nemmeno aver suonato il primo show lì, si ritrovarono coinvolti in uno di quei “raduni” che organizzavano. Loro non se ne intendevano di festival e di grandi tour in generale, ma a quanto pareva, sembrava ce ne fossero praticamente ogni sera e che non fossero nient'altro che una scusa per bere il proprio peso corporeo in alcool e far finta che fosse okay. Frank rabbrividì anche al solo pensiero: non era proprio un amante del fare casino ogni santissima sera, per quanto potesse sembrare il contrario, ma aveva deciso comunque che ci avrebbe provato con tutte le sue forze: sembrava veramente l'unico del gruppo ad essere turbato all'idea, e anche se odiava svegliarsi con dei mal di testa allucinanti ogni mattina e non riuscire nemmeno a muoversi in maniera dignitosa, non sarebbe rimasto da solo nel bus a far niente.

Nonostante tutto, però, la prima serata non andò male: erano più o meno le due meno un quarto e Gerard e Frank si stavano trascinando nel van con quelle poche forze rimaste che avevano, mentre gli altri sarebbero rimasti via ancora per un po'. Non importava quanto, perché decisamente, sarebbe bastato: era dall'inizio della serata che non facevano altro che aspettare il momento giusto per allontanarsi senza dare troppo nell'occhio, ed era da più o meno un'ora che erano diventati abbastanza brilli da ammettere a sé stessi che era quello che entrambi volevano da molto prima dell'inizio della festa..

Non appena si trovarono fuori dal locale dove era organizzato l'evento, l'aria gelida rispetto a quella che c'era dentro, fra centinaia e centinaia di corpi che si muovevano freneticamente, colpì le pelli di entrambi, che subito si resero conto di essere, in effetti, un po' troppo sudati. Le labbra di Gerard non si staccarono nemmeno per un secondo da quelle di Frank, seppur si fecero più pigre nel tentativo di concentrarsi a camminare senza urtare nulla e rovinare il momento perfetto. Raggiunsero il parcheggio, a meno di due passi da lì (nonostante il fatto che non volessero separarsi l'uno dall'altro avesse reso tutto più complicato), e quando la schiena di Gerard urtò la porta del malandato furgoncino, Frank prese ad armeggiare con la chiave nel tentativo di aprirla, riuscendoci stranamente in maniera dignitosa e fermando solo per un secondo il bacio nel tentativo di far stendere il più grande, così da potersi stendere a sua volta su di lui. Entrambi emisero uno strano suono che in altre circostanze sarebbe stato anche imbarazzante, ma che in quel momento dimenticarono in un nuovo bacio, questa volta più veloce di prima. Il più piccolo si aiutò con il piede per chiudere la porta dietro di sé, e andarono avanti così per un tempo che sembrò infinito, finché Gerard non si rese conto che non avrebbero avuto l'intera nottata, e cercando di farlo capire anche a Frank, inarcò la schiena per far incontrare il suo bacino con quello dell'altro. Il più piccolo fu appena capace di fermare giusto in tempo un ridicolo ed inopportuno gemito prima di aggiustarsi sul corpo del moro, in modo da riuscire a fargli piegare e allargare le gambe quel minimo che bastava per posizionarsi fra di esse, cominciando ad armeggiare con quella stupida cintura con una fibbia a forma di pipistrello. Chi cazzo avesse avuto il coraggio di produrre una cosa simile e di venderla, anche, Frank non l'avrebbe mai capito, eppure in quel momento decise di non pensarci. Quasi urlò di gioia quando riuscì a spogliarlo quel minimo da vedere un po' di pelle, la realizzazione del fatto che non vedevano l'altro completamente nudo da almeno un anno che lo colpiva in piena faccia. Si fermò a guardarlo negli occhi, desiderando di rimanere così per sempre, quando invece Gerard annuì senza alcun motivo, e Frank per poco non scoppiò a ridere. Lo fissò per un ultimo secondo prima di sollevargli di poco la t-shirt, giusto per il gusto di fermare saldamente le mani intorno ai suoi fianchi, nuovamente preso dal modo in cui i tatuaggi sulla pelle quasi stonavano contro il bianco pallore di Gerard e da quel poco di ciccia che aveva sui fianchi che non faceva che renderlo ancora più bello ai suoi occhi. Prese un respiro profondo e cominciò a tracciare una linea di baci quasi innocenti, giusto per dimostrargli in qualche modo che per lui quella era molto più di una sveltina e se avesse avuto il tempo sarebbe rimasto ore solo a baciarlo, partendo dall'ombelico fino ad arrivare alla zona “critica”. Gerard si sfilò finalmente quella maledetta giacca che si ostinava a portare nonostante in quel van facessero 40° e la lanciò ai sedili di dietro, dove dormivano Mikey e Ray. Da lì in poi, nient'altro che flashbacks e immagini sfocate;

Frank adorava il sesso con Gerard. Non voleva chiamarlo solo “sesso”, ma chiamarlo “amore”, forse, era ancora un po' troppo. Non avrebbe mai avuto il coraggio di andare da Gerard e chiedergli di fare l'amore, ma nemmeno avrebbe mai avuto il coraggio di andargli a chieder e di fare sesso, anche se sarebbe suonato già più accettabile. Come un favore fra amici.

Ma invece tutti gli aspetti che Frank apprezzava non erano quelli che di solito si contemplano durante una tipica scopata e questo gli dava da pensare. Adorava l'intero aspetto dello stare insieme in quel modo, dell'intimità che sembrava riempire l'aria quasi così tanto da soffocarlo- in qualsiasi posto si trovassero. Che fosse reciprocato o meno, ormai, non faceva più alcuna differenza: il solo pensiero di averlo reso, in qualche strano modo, felice, era abbastanza. Era bello anche solo il fatto che gli avesse dato il permesso di farsi vedere in quel modo, perché nonostante ormai lo dovesse condividere con tutto il mondo, quell'aspetto di lui in particolare era ancora un segreto per molti. Era bello quando faceva delle strane espressioni che se avesse visto lo avrebbero messo in imbarazzo, senza rendersi conto che a Frank non importava perché tanto avrebbe apprezzato anche quelle. Era bello quando faceva degli strani versi e gli metteva le mani sul capo: non spingendolo, come si farebbe in una sveltina, ma accarezzandolo, giocando con i suoi capelli, a volte fermandolo, giusto per il gusto di baciarlo. Ed il fatto che facesse queste cose, a dire il vero, cominciava a dargli un nuovo tipo di speranza. Cominciava a crederci: forse lui e Gerard facevano l'amore.

Fu per questo che, mentre il più grande si stava ancora riprendendo da quello che era appena successo, Frank pensò bene di cogliere l'occasione.

«Gerard..» Disse, tossendo inopportunamente. Forse non era una delle idee migliori provare a fare un discorso strappalacrime quando ti brucia la gola come se avessi appena bevuto lava incandescente e sei ancora un po' rincoglionito dall'alcool, ma probabilmente se non l'avesse fatto in quel momento non l'avrebbe fatto mai più e allora 'fanculo. «..Gerard io credo di amarti. Non come amico, non come fratello, io..» Si schiarì la voce, nuovamente, alzandogli di un po' boxer e pantaloni e poggiando il capo sulla sua coscia, cercando di abituarsi alla strana sensazione del jeans contro la sua guancia. «..Ti amo. Voglio salvarti, posso farlo.» Concluse, ricordando quel discorso fatto anni prima che così tanto lo aveva colpito. Magari Gerard lo aveva dimenticato; lui no. Alzò lo sguardo per incontrare il suo.. e in quel momento, era già addormentato. Frank avrebbe voluto gettarsi contro un muro e sfracellarsi e morire per sempre. Semplicemente. Eppure continuò a sperare che lo avesse sentito. Che fosse solo troppo distrutto per rispondere in quel momento e che avesse chiuso gli occhi per non sentirsi obbligato a farlo proprio ora che non ne era in condizione, e quando sentì il vociare degli altri, si rese conto che doveva fare la stessa cosa e ringraziò mentalmente sé stesso per aver vestito Gerard.

«Ve l'avevo detto che li avevo visti andare verso l'uscita!» Sentì qualcuno esclamare: non capì bene chi, ma probabilmente era Matt. Oppure Ray. Qualcuno aprì la porta della parte posteriore del furgoncino, e subito Frank sentì l'aria gelida dell'esterno mischiarsi a quella calda e che quasi odorava di sudore che c'era lì dentro. Tutti scoppiarono a ridere, mentre Mikey fece un qualche verso disgustato: il finto-addormentato non riuscì a trattenersi, e sorrise.

«Sono quasi carini quando sono vestiti.» Constatò Ray, con la voce ancora più alta del solito, e subito Frank si rese conto che quello che aveva sentito parlare prima era decisamente il batterista, tono troppo virile per essere quella povera checca afroamericana. Ridacchiò di nuovo a quell'appellativo, pensando ad un pretesto per utilizzarlo il più in fretta possibile, prima che gli sfuggisse di mente.

«Abbiamo trovato dei sopravvissuti..» Cominciò Brian, e Frank si chiese in primo luogo da dove fosse saltato fuori, ricordandosi solo dopo che rimaneva comunque il loro tour manager, e dopo, a cosa si riferisse. Arrivò in breve alla conclusione che potesse trattarsi della giacca che Gerard non si era fatto troppi problemi a gettare via, prima, e di nuovo, sghignazzò, raggomitolandosi ancora di più in posizione fetale nel tentativo di non far uscire dalla sua bocca nessun suono.

«Li coprite, per cortesia?» Esclamò Mikey, e la sua voce suonò così lontana che Frank si chiese se non fosse caduto in un qualche buco e stesse comunicando da lì.

«Intendi-» Cominciò Ray, probabilmente gesticolando in un qualche modo che il ragazzo non poteva vedere. «Intendi coprirli per non vederli o coprirli perché fa freddo?» Sentì la mano dell'altro chitarrista pericolosamente vicina alla sua testa, e sfoderò la sua migliore espressione da finto-sonno, convinto che stesse solo cercando una di quelle scolorite coperte che conservavano da qualche parte sotto i sedili. Sentì il lembo di qualcosa di morbido pizzicargli contro il naso per una frazione di secondo, ma poi fu avvolto da una sensazione di caldo, familiare e puzzolente pail, e si rese conto che forse aveva gli amici migliori del mondo se si prendevano la premura di coprirli con due coperte diverse e se, addirittura, riuscivano a farlo ridere anche dopo non essere stato cagato di striscio in seguito ad una dichiarazione d'amore. Sospirò al pensiero, che, inspiegabilmente, aveva scacciato per un po'.. almeno fino a quel momento, ovvio.

«Entrambe, se è possibile..» Il più piccolo Way che all'apparenza era il più piccolo del gruppo in generale -e Frank a volte era contento di non sembrare, almeno, il più piccolo, perché davvero, era già quello basso e se avesse avuto anche l'aspetto di uno della sua età, avrebbe cominciato a credere che Madre Natura lo stesse seriamente prendendo per il culo- riemerse dal suo buco, e l'unico a ridere fu Brian, senza alcun preciso motivo. Passò una frazione indeterminata di silenzio in cui il ragazzo si sentì particolarmente osservato: e la cosa più brutta era che non poteva farci nulla, perché se avesse aperto gli occhi, ovviamente, avrebbe dovuto spiegare troppe cose. Quando invece li trovavano a dormire, di solito, lasciavano correre.

«Dite che li lasciamo a dormire qui? Non vorrei svegliarli e farmi staccare a morsi un dito..» Cortez disse, emettendo uno strano verso mentre si metteva a sedere, probabilmente accanto a Brian, il guidatore della situazione- ecco uno dei tanti vantaggi dell'avere un amico astemio. Frank sentì il rumore metallico delle chiavi mentre venivano inserite nel van e poi il “rombo” del motore, prima di cadere quasi a terra per via dell'improvvisa sgommata che proprio non si aspettava.

«Io direi che più che altro non vorrei che inaugurassero il bus, quindi..» Sbottò Mikey, sempre più scocciato, provocando una risata generale. Frank a volte si sentiva quasi offeso, ma poi si rendeva conto che il problema non erano loro, il problema era che Gerard era suo fratello, e di certo anche se fosse stato con una ragazza gli avrebbe dato lo stesso identico fastidio.

Una volta stabilito il silenzio, invece, le sue paranoie tornarono;

Frank, in quel momento, cercò di addormentarsi sul serio.

 

**

 

Il risveglio fu strano, caotico e pieno di dolori, eppure non poteva essere più perfetto di così. Finiti i soliti rituali come sbadigli, stiracchiamenti vari e versi stupidi, il ragazzo cominciò a guardarsi intorno seriamente: il van era vuoto, eccezion fatta per lui e Gerard, ed erano stati “cortesemente” parcheggiati a chissà quanti metri dal bus. Alla sua destra c'erano solo alberi, alla sua sinistra solo altri bus. Frank sapeva che forse avrebbe dovuto guardare al centro, dove uno spettacolo un po' più interessante si stava svolgendo.

Il più piccolo non riuscì a smettere di sorridere nel vedere Gerard ancora addormentato, a pochi centimetri da lui, e quando realizzò che in effetti stava dormendo su di lui -su quel corpo, su quei vestiti, cullato dalla sua aura così familiare-, quel ghigno si trasformò in una semplice e sincera speranza. Nonostante fosse piuttosto stupido ed infantile, continuava a credere che in qualche modo il cantante l'avesse sentito, e cavolo, ogni secondo che passava, la fiaccola alimentata da quella possibilità non faceva che diventare sempre più brillante. La speranza era come combustibile per Frank; potevi non dargliene affatto e si sarebbe bloccato, ma potevi dargliene troppa e sarebbe andato in tilt. Ed era proprio quello che gli successe in quel momento, quando decise di interrompere quell'istante -cosa che normalmente non avrebbe mai fatto- per avere la risposta che attendeva dalla sera prima.

«Gerard..» Cominciò a punzecchiargli forte la coscia sulla quale non era poggiato, sapendo quanto fosse sensibile in quella zona e quanto a volte gli desse fastidio. Lo aveva capito una sera, seduto su quello stesso sedile, quando credeva di tranquillizzarlo mentre invece non faceva che renderlo più nervoso. Le due dita che stava usando, purtroppo, non diedero molti frutti, e salirono fino al naso, tappandoglielo per qualche secondo in modo che i suoi malandati polmoni facessero il resto del lavoro. «Buongiorno.» Frank disse col tono più vellutato possibile per uno che si è appena svegliato, accompagnando il tutto con un sorriso mentre si trovava ancora intrappolato fra le sue gambe e con veramente poca intenzione di muoversi. Gerard, purtroppo, quasi lo costrinse a farlo, prendendo a muoversi freneticamente per mettersi seduto, con la schiena poggiata contro lo sportello del furgoncino. Provò seriamente a fermare il suo cervello dal cominciare a fare pensieri apocalittici e dal convincersi che era fottutamente tutto finito, che aveva mandato ogni cosa a puttane, che aveva superato un qualche confine che non era tanto sicuro avessero più, a quel punto, e cercò di dare la colpa dello strano modo in cui aveva reagito al fatto che effettivamente lo aveva appena quasi soffocato per svegliarlo.

«Ciao Frank.» Si tranquillizzò Gerard nel vederlo, stiracchiandosi e sbadigliando allo stesso modo in cui l'altro aveva fatto prima: Frank non riuscì a nascondere un sorriso nel vedere che forse non erano così diversi come spesso sembrava. Quello che in teoria era il più grande fra i due si strinse ancora di più nella sua coperta di plaid celeste (rinominata Ines durante una serata non meglio identificata), ed il ragazzo si ricordò solo in quel momento che in effetti era proprio sua, ma soprattutto, si ricordò di quella volta che gli aveva raccontato del suo primo Natale e del fatto che gliela avessero regalata quando aveva meno di un anno. Sospirò.

«Direi che sono stati carini a lasciarci in un posto civilizzato.» Ridacchiò fra sé e sé, trascinando con sé anche la risata di Frank che rispose con un semplice “già” prima di rendersi conto che era il momento di arrivare al punto. Ora o mai più, per così dire.

«Ti ricordi quello che ti ho detto l'altra sera?» Domandò, mettendosi a sedere in maniera decente e osservando speranzoso l'espressione dell'altro. Purtroppo, quando lo vide aggrottare le sopracciglia in maniera piuttosto confusa, si rese conto che non si ricordava davvero nulla: non era una di quelle cose sulle quali poteva aver solo bisogno di semplici chiarimenti. Gliel'aveva detto nel modo più semplice possibile e sapeva di non aver fatto giri di parole, anche perché non ne sarebbe stato in grado. Di nuovo, tutto ciò non fece altro che ridurlo in pezzi per l'ennesima volta.

«Non puoi dirmelo di nuovo?» Chiese, riprendendo a muoversi nuovamente senza trovare pace. «Ehi, Frank, spostati, devo pisciare.» Continuò, come se non stessero parlando di qualcosa di fottutamente importante e ci fosse ancora bisogno di ironizzare e ridicolizzare la situazione. Frank sbuffò, muovendosi a malavoglia di appena qualche millimetro per poi decidere che sarebbe rimasto lì, imbronciato, giusto per dispetto, davvero, e Gerard se la sarebbe cavata per fatti suoi. «Se non ti muovi ti piscio in faccia, giuro.» Continuò, visibilmente innervosito, e se non fosse stato troppo impegnato a dover raggiungere il suo scopo (che poi, qual'era?), Frank si sarebbe lasciato scappare un sorriso per via di quella piccola vittoria. Il più grande si morse il labbro, picchiettando nervosamente uno dei piedi sul sedile. «Frank, Frank, ehi, facciamo che tu vieni con me e cerco di ricordarmi cosa mi hai detto, mh? Urinarsi in faccia fa troppo “avanti Cristo” per il ventunesimo secolo, no?» Accennò un sorriso, e l'altro fece, nuovamente, l'errore di crederci. Annuì, veramente poco speranzoso ma pur sempre più sollevato di prima, e cercò di destreggiarsi in quello spazio ridicolmente piccolo per far uscire Gerard (prima di precipitarsi dietro di lui, ovvio).

«Dì la verità, vuoi che venga con te solo perché non hai voglia di arrivare fino al bus ed hai vergogna di farla da solo tra gli alberi.» Sbuffò Frank, ricordandosi solo in quel momento di quanto fosse lontano il loro bus. Il ragazzo, quasi a metà della sua fuga “geniale”, si prese il suo tempo per voltarsi, fermarsi a guardarlo e sorridergli, semplicemente, in maniera così genuina che persino il minore non riuscì a resistere e si lasciò andare ad un improvviso ed inspiegabile sprazzo di buon umore.

«Mi conosci così bene che siamo arrivati a dei livelli ridicoli.» Ridacchiò Gerard una volta che entrambi furono fuori, e subito cominciò a dirigersi verso la fila di alberi che recintava il parcheggio. Frank rimase cautamente dietro di lui, tenendo le braccia strette al petto quasi nel tentativo di non farle cadere dalla frustrazione. Sospirò, sentendo improvvisamente il rumore metallico della cintura e della zip del ragazzo che scendeva.

«Questo vuol dire che in realtà non ti ricordi nulla e non hai intenzione di parlarn-»

«Smettila di fare il coglione e dimmelo!» Voltò il capo Gerard, interrompendolo con un tono di voce esasperato: Frank sperava davvero che stesse cominciando ad incuriosirlo almeno un po', davvero, altrimenti non aveva idea di come avrebbe fatto addirittura a persuaderlo a tentare per la seconda volta quella specie di suicidio che era stato dichiararsi. Rimase un po' in silenzio, consapevole di quanto fosse difficile concentrarsi a pisciare con qualcuno che ti parla accanto, e quando vide Gerard far cadere il capo all'indietro con gli occhi chiusi, come se si fosse liberato di un macigno, si fece mentalmente i complimenti per essere così “un genio nel comprendere la mente umana”. O meglio, almeno dei meccanismi riguardanti la vescica. Per il resto era completamente alla deriva. «Dai, Frank..» Lo implorò, tirandosi su i pantaloni e avvicinandosi al ragazzo, poggiandogli le mani sui fianchi e portandolo più vicino a sé. Frank non pensò minimamente a quanto fosse antigienica la cosa o a quanto in altre circostanze gli avrebbe fatto salire i conati di vomito: affondò semplicemente il voltò nel suo incavo del collo e cercò con tutte le sue forze di non piangere, pur non capendo da dove gli venisse l'impulso per farlo.

«Non era niente..» Disse, suonando poco convincente persino alle sue orecchie per via del respiro un po' troppo accelerato che probabilmente Gerard sentiva persino contro il collo e dalla connotazione un po' troppo amara e spezzata che aveva assunto tutto ad un tratto la sua voce. Frank non sapeva che cosa ci fosse di sbagliato in lui, per passare dai sorrisi ai pianti in due minuti, ma di sicuro qualcosa c'era. Trovò fra un momento di imbarazzo e l'altro una posizione comoda per le sue braccia, stringendole intorno alla vita dell'altro e rimanendo così finché non si calmò.

Il che, a dire il vero, richiese un bel po' di tempo.

Non gli importava nemmeno più che Gerard sapesse che stava piangendo; ormai era quasi sicuro di avergli persino bagnato la maglietta di lacrime, e sicuramente la sua prima intenzione era andata a puttane.. almeno, però, non voleva che lo vedesse. Frank aveva sempre pensato che, probabilmente, doveva sembrare davvero stupido quando piangeva. Le uniche volte che si era visto allo specchio dopo averlo fatto lo avevano dissuaso dall'idea di farlo di nuovo, ed ogni volta che piangeva, decideva sempre di dormirci sopra, sperando di avere una faccia più presentabile al suo risveglio. Tirava su con il naso, quando piangeva, e anche tanto: per questo motivo gli si arrossava, probabilmente, e faceva dei rumori a dir poco imbarazzanti. Gli tremava il labbro inferiore -ed era fermamente convinto di essere l'unico umano al mondo-, e gli si arrossivano così tanto gli occhi che certe volte usava il collirio perché tornassero normali. Insomma, in generale, non era una condizione in cui gli piaceva essere visto: non tanto per ciò che significava, ma più per una questione di semplice aspetto fisico.

Almeno, fino a quel momento era stato così; quella volta era tutto a dir poco diverso con Gerard lì con lui. Di certo, se lo avesse visto piangere, gli avrebbe chiesto perché. E se c'era qualcosa che in quel momento Frank non se la sentiva di fare, era spiegare perché. In quel momento aveva voglia di piangere, sputare fuori tutto quello che non poteva gettare via in parole perché avrebbero fatto male, un giorno, e di sicuro si sarebbe pentito di averlo fatto- e a dire il vero, non voleva nemmeno chiedersi il perché. Per quello avrebbe di sicuro avuto tempo.

«Frank..» La voce di Gerard tremò, o forse era semplicemente Gerard e basta, eppure lo strinse più vicino nonostante non avesse la minima idea di ciò che stesse facendo, probabilmente. Gerard era bravo quando si trattava di parole, su questo non c'era dubbio, ma quando c'era di mezzo un vero e proprio pianto e non una pseudo-crisi esistenziale, una di quelle domande che spesso non avevano né capo né coda, allora era sempre Frank che doveva fare qualcosa; era semplicemente il suo compito, ed era sempre stato così. Come una regola non scritta di un contratto che avevano mentalmente firmato, in un certo senso. Ed era per questo che non poteva permettersi di cadere. Almeno non ora che aveva il compito di sorreggere entrambi. «S- s- smettila di piangere e.. dimmi che hai.»

«Non ho assolutamente niente..» Disse, cercando di convincere sé stesso più che Gerard, e nonostante avesse rinunciato ormai da un po' all'idea di nascondere le lacrime, se c'era qualcosa a cui non avrebbe rinunciato, era il suo diritto di tacere e tenere per sé ciò che provava ma facendone in qualche modo comunque qualcosa di visibile. Rendendo comunque quello che stava passando un problema, facendo preoccupare qualcuno. Il suo sacrosanto diritto di cercare e rinnegare allo stesso tempo attenzione, così come faceva l'altro da ormai anni. Almeno una volta non avrebbe ceduto a Gerard e non avrebbe fatto finta che dopo averne parlato andasse tutto bene: aveva tutti i motivi per piangere, urlare, dimenarsi, e volendo, anche farsi venire una crisi isterica. Non avrebbe dovuto, e questo lo sapeva, ma in quel momento non voleva fare altro. Voleva liberarsi del peso della sanità mentale (perché diciamocelo, alla fine si trattava solo di questo, per quanto suonasse brutto) dell'altro che gravava sulle sue spalle e pensare anche solo per un po' a mandare a puttane la sua. Perché se lo meritava. Meritava di sconvolgersi in tutti i modi possibili e immaginabili e tornare pian piano alla normalità. E ne aveva bisogno.

«Allora non piangere?» Gerard disse, eppure suonò più come una domanda, come se volesse che Frank gli desse la conferma che quello che aveva detto fosse la cosa giusta. Il ragazzo apprezzò il fatto che almeno non stesse insistendo, eppure allo stesso tempo lo fece sentire come se non glie ne importasse veramente nulla di lui. Ed era semplicemente questo che voleva sentire: sensazioni contraddittorie, pensieri così diversi l'uno dell'altro che, nonostante tutto, continuavano a collidere l'uno con l'altro in uno schianto che, se non fosse stato semplicemente metaforico, gli avrebbe probabilmente fatto esplodere il cervello. Ed era tutto perfetto, lì nella nebbia. Lì nel buio e nella confusione, lì dove voleva rimanere per sempre. Voleva continuare a barcollare così, e solo ora capiva perché anche Gerard ci tenesse così tanto a rimanere in questa condizione: perché il vittimismo era semplicemente la cosa più bella di sempre. E ogni tanto non c'era nulla di male nel concedersene il vezzo.

«Mi dici di non piangere, Gerard?» Disse, assumendo improvvisamente un tono arrabbiato sotto gli occhi increduli del ragazzo. Non capiva più nemmeno cosa stesse dicendo, perché lo stesse dicendo.. non era nemmeno più sicuro di ricordarsi il suo nome, il perché di quel pianto che comunque non riusciva a fermare. E in quel momento, più di ogni altra cosa, voleva stare vicino a Gerard in tutti i modi possibili. Perché “odio” a parte, non c'era da dimenticarsi che lo amava. E, dopo averlo detto l'altra sera, ne era sempre più convinto: doveva smettere in quell'esatto momento e doveva farlo per il suo bene. Doveva smetterlo di demolirlo ancor di più di quanto non avesse fatto in quei dieci minuti e doveva ritornare ad essere quell'unica certezza che poteva avere. Frank doveva tornare ad essere il suo posto sicuro anche in un momento in cui non era sicuro di averne uno tutto suo. «..scusa.» Sussurrò, asciugandosi gli occhi con la sua maglietta senza nemmeno chiedergli il permesso. Si allontanò di poco e rimase con lo sguardo fisso a terra.

«No, scusa tu.. credo?» E Gerard aveva ragione a non essere sicuro di quel che diceva: infondo non aveva idea del perché stessero avendo quella discussione. «Infondo non so che mi hai detto l'altra sera ma dev'essere qualcosa di importante, no? Allora scusami se non ti ho dato la giusta attenzione o.. o se non ero in condizione di ascoltarti. Scusa.» Anche il più grande trovò improvvisamente molto interessanti i suoi piedi, ed entrambi rimasero in silenzio. Che cosa c'era da fare in quelle situazioni? Era mai successo a qualcun altro che il diretto interessato di una dichiarazione di amore si addormentasse proprio dopo quest'ultima? Se gli avessero raccontato di una situazione del genere, Frank probabilmente avrebbe riso. Di gusto, anche. Però, almeno a viverla, poteva assicurarlo per esperienza personale che non c'era nulla di così comico. Allora lo abbracciò di nuovo mentre continuava semplicemente a chiedersi perché dovesse succedere proprio tutto a lui, e ogni volta che lo faceva non trovava nessuna valida risposta. Magari il karma.

«Frank?» Che poi comunque, karma o non karma, quando Gerard lo chiamò dopo dieci minuti di silenzio cominciò a capire che forse prima o poi si sarebbe dovuto muovere da lì. Che magari non era altro che una palla al piede che al contempo poteva essere sia l'unica cosa che lo teneva ancorato lì, sia, in altri casi, nient'altro che un qualcosa di scomodo e indesiderato. Così lasciò la presa, si voltò di scatto e fece due, tre, quattro passi, continuando a non volergli dare la possibilità di vederlo in quelle condizioni così pietose. «Frank.» Disse di nuovo, e nonostante se lo aspettasse da quando aveva sentito dei passi seguire i suoi, fu comunque una sorpresa quando si sentì afferrare il braccio.

«No. Sardina.»

«Eh?» Gerard chiese con tono stranito, e quando Frank non si spiegò oltre il semplice ripetere di nuovo la stessa parola, scoppiò a ridere. In qualche modo riuscì a far sì che anche l'altro ridesse: forse era quello l'unico scopo in quel momento, e anche l'unica cosa giusta da fare.

«Non so che dire, quindi sardina, hai presente?» Disse, arrendendosi all'idea che si sarebbe dovuto voltare, prima o poi. Ricambiò il suo sorriso e cercò di non pensare allo sguardo compassionevole dell'altro che lo faceva sentire tanto un caso perso, sospirando e abbassando di nuovo il capo.

«Sardina, tutto chiaro.» Ripeté il più grande, grattandosi il capo come se non avesse nulla di meglio da fare, come se dovesse trovare un modo per allentare la tensione, per giustificare quella pausa improvvisa e avere il tempo di pensare a qualcosa da dire. E la cosa peggiore di tutta quella situazione era che adesso erano anche a disagio l'uno con l'altro, e questo era davvero da pazzi perché, insomma, che diavolo? Se ne stavano zitti, tossivano di tanto in tanto mentre cercavano il bus, facevano commenti occasionali sul tempo. Quelle erano le classiche conversazioni di chi deve riempire in qualche modo il nulla perché fra sconosciuti il silenzio è un problema. Fra sconosciuti il silenzio è imbarazzante, e stare in silenzio con uno sconosciuto, si può dire, è quasi come una sconfitta. Come se una persona si dicesse, di tanto in tanto, che forse fra lei e quell'altro individuo appena conosciuto era proprio lei quella più noiosa. Quella senza nulla da dire. Invece fra di loro il silenzio aveva sempre parlato e questo perché non erano mai stati sconosciuti, in qualche modo.

Di certo non prima di quel momento.

 

**

 

O-checcazzo-key.

HO FATTO PRIMA! *balleggia*

Cioè, dieci giorni rispetto a un mese è un passo avanti, no? <3 Di brutto c'è da dire che questo è solo perché la prima parte del capitolo era già scritta da tempo, però shhhh, facciamo finta che non sia successo niente. <3<33<<<333<3<333<

Allora. Non so davvero che dire. Umh.......

Fra compleanni di amiche organizzati con maniacale precisione che finiscono per essere passati in un bagno e la voglia di lasciare la scuola e andare a fare la parrucchiera (you go gurl) sono autorizzata a non sentirmi in vena di fare nulla, giusto? Sì. Lo prendo come un sì. <3

Il titolo è preso da Morning Glory degli Oasis e forse (dico FORSE) è un po' sadico mettere un nome che sfiora l'ironico ad un capitolo che in teoria dovrebbe essere deprimente, ma buttiamola sul ridere, che è meglio. <3

E boh. Davvero. Credo non avrei potuto fare di meglio dato il momento, boh, comprendetemi. <3

SCIAO DONNE, ALLA PROSSIMA, battete un colpo.<3

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** I'm officially off the rails ***


13. I'm officially off the rails

 

 

 

Ma quello che Frank non sapeva, era che Gerard, effettivamente, sapeva.

Quando aveva sentito quelle parole, era rimasto semplicemente zitto: non perché non sapesse come rispondere, ma perché voleva che gli rimanessero impresse. Voleva ricordarsele, e soprattutto voleva crederci. Tremava ancora, e di sicuro non se la sentiva di formulare una frase adatta a sintetizzare tutte le cose che voleva dire, ma per il suo comportamento non c'era scusa che tenesse.

Sapeva che quel giorno sarebbe arrivato, in un certo senso; non che fosse sicuro che Frank si sarebbe innamorato di lui, certo, ma più che altro era sicuro del fatto che sarebbe arrivato il momento in cui sarebbe stato convinto di esserlo, e l'avrebbe detto nel momento meno opportuno. Perché cazzo, quale se non quella era la specialità di Frank?

Gerard continuava a girarsi e rigirarsi nel suo scompartimento del bus (non che non avesse sonno, ma semplicemente perché cazzo, ora poteva farlo), le palpebre pesanti ed ogni centimetro della sua pelle così teso contro i suoi “muscoli” che gli sembrava che da un momento all'altro sarebbe semplicemente esploso. Continuava a chiedersi cosa, esattamente, avrebbe dovuto fare in quel momento. Continuava a valutare quanto patetica fosse la sua condizione.

Sapeva di averlo pressato. L'intero discorso del salvarsi, dell'amarsi anche per finta: Gerard era consapevole che forse aveva fatto sì che ci credesse un po' troppo. E questo perché se non per il suo semplice egoismo? Per il semplice bisogno di avere qualcuno su cui contare? Si sentiva come se gli avesse fatto qualche tipo di lavaggio del cervello, perché di sicuro Frank non era innamorato di lui- affatto. Era difficile che qualcuno si innamorasse di un egoista come Gerard, e Gerard stesso sapeva quanto fosse difficile innamorarsi a sua volta di qualcuno per un egoista come lui. Doveva solo mostrargli quello che lui già sapeva, e subito Frank sarebbe partito in quarta per tornare in ritirata. Forse sarebbe stato anche contento del fatto che “non l'avesse sentito”. E anche se aveva effettivamente considerato l'opzione di farsi avanti allo stesso modo in cui era stato capace di fare l'altro, tante, tante, tante volte in quei due giorni, c'era una vocetta stridula del cazzo che ogni cinque secondi gli ricordava di tutto il male gli aveva probabilmente fatto, anche senza volerlo. Sapeva di non essere pronto per condividersi con qualcuno, per il semplice fatto che non aveva nulla di buono da dare. Non in quel momento, almeno. In quel momento non poteva essere altro che un peso per chiunque si prendesse la briga di caricarsi addosso uno come lui, e non era di certo l'impatto che voleva avere sulla vita di qualcuno. Specialmente se quel qualcuno era qualcuno di importante, a cui teneva, a cui non voleva far del male per nessuna ragione al mondo- e cazzo, ora come ora, era sicuro che l'avrebbe fatto. Magari non volontariamente, di sicuro non l'avrebbe mai e poi mai fatto con l'intenzione di farlo, ma non avrebbe perso l'occasione di vivere al meglio ciò che più desiderava con chi più desiderava viverlo solo perché in quel momento non riusciva a considerare le conseguenze delle sue azioni e, soprattutto, non era libero. Non era libero perché era schiavo della società, schiavo di sé stesso, schiavo di tutte quelle cose, sostanze, semplici liquidi e polveri compattate. Tutte cose delle quali cercava di convincersi di non aver bisogno ma che ogni giorno dimostravano di essere più forti di lui. Gli dimostravano che non era abbastanza, che non era padrone di sé stesso. Schiavo.

Ed era dura innamorarsi ed accettare di essere amato per chi, come lui, non riusciva ad amare sé stesso in primis.

Poi gli saltò in mente che di mezzo non c'erano solo loro due; di sicuro, se avessero avuto una lite, non sarebbe stata da persone civili. Si sarebbero urlati addosso per ore, si sarebbero mandati a 'fanculo, si sarebbero detti quanto si “odiavano” e non si sarebbero parlati per giorni, settimane, mesi.. anni. Perché di “ciao” ne avevano avuti tanti, come tutte quelle volte che si erano attaccati il telefono in faccia o se n'erano andati sbattendosi la porta alle spalle, ma gli addii erano un'altra cosa, e loro di addii non ne avevano mai avuti. Gli addii erano qualcosa che non si poteva semplicemente aggiustare con un po' di scotch come tendevano a fare di solito con i loro problemi, ed erano quel tipo di cosa che, probabilmente, avrebbe segnato la fine del gruppo. Perché poteva andarsene uno di loro e di sicuro, pian piano, come con un puzzle difettoso, sarebbero venuti via tutti i pezzi. Mikey senza di lui non ci sarebbe mai riuscito.. e in generale, ad essere onesto, l'idea di trovarsi troppo lontani era impossibile da sopportare per entrambi. Era quasi come se i ruoli si stessero pareggiando, a quel punto della loro vita non: era Mikey, il fratello minore che dipendeva da Gerard. Era Mikey che aveva bisogno di Gerard, e Gerard, che forse anche un po' di più, aveva bisogno di Mikey. Il problema era che il più grande era praticamente sicuro che non ce l'avrebbe fatta nemmeno senza Frank -sotto tanti punti di vista-, e quindi, in sintesi, sarebbero stati più fottuti di una spogliarellista. Perché non c'era quintetto che tenesse con tre membri in meno.

Allora, dopo un'attenta riflessione del cazzo, era giunto a conclusione che l'unico modo per prevenire di far del male a Frank, era fare del male a Frank.

Non direttamente: non come coppia, certo, ma giocando sporco sul vantaggio che aveva. Conosceva il suo punto debole e Gerard sapeva -Dio se lo sapeva- che sarebbe bastato che lo vedesse con qualcun altro per scatenare l'inferno. Eppure se avesse continuato a rifiutarsi di ripetere nuovamente la dichiarazione, Gerard sarebbe “ovviamente” rimasto “all'oscuro di tutto”, e quindi, in sintesi, la colpa di chi sarebbe stata? Di Frank. E Frank che avrebbe fatto? Nulla. Non avrebbe fatto nient altro se non capire finalmente che non era modo e tempo che stessero insieme; non perché Gerard non lo volesse, ma perché sapeva, nel profondo, che non poteva. C'era qualcosa che lo legava troppo a lui, qualcosa che odiava così tanto che certe volte avrebbe soltanto voluto strapparla via dal suo stesso petto, come quando sentiva il groppo in gola se lo vedeva sorridere e sapeva che era merito suo o le farfalle nello stomaco se si guardavano a lungo senza proferire parola.

Ad ogni modo, però, gli serviva un'occasione. E cercare una scopata facile al Warped Tour era come cercare della paglia in un pagliaio. O un ago in una sartoria, per così dire. Dunque aspettò che si presentasse a tiro, e fu qui che entrò in gioco Bert. Frank, come era stata consuetudine in quei due giorni, era con Gerard, il quale aveva ideato una tattica che si era rivelata più efficace del previsto per evitare discorsi che andassero oltre il “mhh..” e il “non qui, Gerard, oh mio Dio”, ed era, semplicemente, sbatterlo contro la superficie piana più vicina e baciarlo. Non che ci volesse un genio a capirlo, ma di certo ci voleva un pizzico di stupidità per far funzionare una stronzata del genere. E Gerard di stupidità ne aveva a quantità industriali, stava pian piano capendo.

Frank cominciava a lamentarsi per il dolore, perché “la lamiera del bus era bollente contro la schiena”, e in più “si sentiva continuamente di cadere se aveva le gambe strette intorno a lui in quel modo”, eppure nessuno dei due stava facendo molto per cambiare la situazione, e sembrava andare benissimo così. Avevano appena finito di suonare, ed essendo il sole ancora alto e battente, entrambi erano sudati e -Frank se ne accorse, Gerard ormai ci faceva meno caso-, più fetidi di due barattoli di maionese lasciati al sole per l'intero mese di giugno. Nonostante, alla fine, nessuno dei due sembrasse lamentarsi così tanto nemmeno di quello, abituati ad odori ben peggiori dopo aver passato una settimana tutti stretti nel van e senza doccia. Erano in un angolo semi-sperduto del parcheggio, ovviamente, e stavano approfittando del fatto che ci fossero ancora molte band nella setlist per prendersi un momento di privacy- perché ovviamente, lo stavano capendo pian piano, al Warped Tour non c'era un minimo di privacy. Al Warped Tour, a dire il vero, non c'era un minimo e basta: dopo qualche giorno, si erano cominciati a stupire anche del fatto che avessero dell'acqua potabile e l'elettricità. Per questi motivi, quando sentirono delle voci avvicinarsi, entrambi furono colti di sorpresa. Frank cominciò a fare degli strani versi contro le labbra dell'altro, che giunsero però come delle semplici vibrazioni, e Dio, se prima un Gerard non era sicuro di riuscire a fermarsi, adesso ne era a dir poco convinto. Sentirono dei passi, e poi delle risate, e quelle erano definitivamente più di tre persone. Frank continuava a dimenarsi fra le sue braccia, implorando, eppure per farli smettere, ci volle qualcosa di più concreto.

«Ehi, ve la riuscite a trovare una stanza, froci?» Una voce un po' squillante e troppo sicura di sé interruppe il bacio. Frank si arrampicò di nuovo fino a tornare con i piedi per terra, imbarazzato e con lo sguardo paralizzato verso il basso, e Gerard, in quel momento, era convinto dell'esistenza della fortuna. O della sfortuna.

Bert McCracken non era esattamente il prototipo di quello che la dea bendata ti porterebbe: era decisamente un tipo strano, viscido in tutti i sensi (e ora che lo guardava, Gerard, pur non essendo proprio in buoni rapporti con il sapone, non invidiò per nulla le condizioni dei capelli di quel tipo), ed era fottutamente perfetto per lo scopo del ragazzo. Si erano sentite tante, tante, tante storie sul conto di quel ragazzo; molte delle quali, a dire il vero, erano a dir poco da far accapponare la pelle. Non c'era dubbio che fosse esattamente quello di cui in quel momento aveva bisogno, e nonostante il suo prender parte a quel teatrino che stava diventando la sua vita si potesse più considerare una sfortuna che una fortuna, andava bene così. Gerard era convinto che in qualche modo la vicenda sarebbe rimasta bloccata in quel modo senza di lui, e fece il primo passo.

«Vorremmo, ma purtroppo tutte impregnate dal tuo fetido odore..» Gerard si morse il labbro inferiore, fingendo sconforto, e Bert, invece di sembrare incazzato, innervosito, scosso, sembrò quasi felice. Felice di aver trovato un degno avversario, forse. Felice di qualcosa che il ragazzo non colse bene, ma che di sicuro andava a suo vantaggio. Sorrise, ma dietro la semplice ilarità, il suo volto celava ben altro. Persino i ragazzi dietro di lui risero (Quinn, Jepha, e.. Dan?), ed un coro di “ti ha fottuto”, “ritirati” e svariati simili si diffuse nell'aria. Frank sorrideva, ma d'altronde Gerard non ne era stupito: il peggio doveva ancora iniziare. «Gerard.» Porse la mano, presentandosi formalmente come se ci fosse qualcosa di effettivamente formale in quell'incontro.

«Bert.» Il ragazzo la strinse, con un po' (molta) più di forza del necessario. Si guardarono, da capo a piedi, entrambi un po' insicuri sul da farsi. Il ragazzo fece un cenno col capo ai suoi compagni di band, che, non appena ricevuto il messaggio, si allontanarono frettolosamente da loro.

«Gerard, andiam-» Cercò di inserirsi quello che fino a quel momento era stato il terzo incomodo, balbettando sempre più di sconforto mentre si faceva di secondo in secondo più chiaro che forse il ragazzo aveva intenzioni completamente diverse.

«No, Frank, vai tu.» Immediatamente si sentì male: sapere cosa provava per lui e dovergli dire quelle cose per il suo bene (che poi, era seriamente sicuro che fosse esattamente per il suo bene e non per la sua codardaggine? C'era un'altra voce nella sua mente che gli ripeteva, oltre a quella stridula del cazzo, che forse poteva sbagliarsi.. che forse sarebbero stati felici se solo avessero avuto l'un l'altro) gli faceva venire un inspiegabile voglia di buttarsi a volo d'angelo dall'Empire State Building in quel preciso momento. «Lasciami un po', mh?» Continuò, voltandosi verso di lui per guardarlo con l'occhiata più acida che fu capace a sferrare e riuscendo giusto in tempo a decifrare la risatina di Bert prima che il ragazzo andasse via, scoraggiato. Gerard prese un respiro profondo e si fece coraggio: non aveva idea di come sarebbe andato avanti con quella scenata. Fortunatamente, invece, il ragazzo sembrò meno indeciso di lui e anche decisamente meno inibito: non perse nemmeno un secondo prima di prendere a palpargli il fondoschiena come se fosse sicuro che non avrebbe mai ricevuto un “no” come risposta. E nonostante la sua eccessiva spavalderia, forse, aveva solo capito che con Gerard andava sul sicuro. Prese un respiro profondo e cercò di tirare a somme, più o meno, una cifra approssimata per sintetizzare lo schifo che si faceva in quel momento. Chiuse gli occhi -più per tentare di immaginare che niente di tutto quello stesse succedendo che per altro- mentre lo sconosciuto davanti a lui gli si avvicinava disgustosamente. Si rese conto che per l'ennesima volta aveva fatto centro. Aveva questo tipo di intuito sempre e solo per cose negative: diciamo che aveva tutte le buone intenzioni di commettere le peggiori azioni di sempre.

«Giù le mani.» Disse quando un paio di dita completamente sconosciute si avvicinarono pericolosamente al lembo della sua t-shirt, sorridendo mentre nella sua testa cercava di formulare una scusa che non suonasse troppo come un “ti prego, stammi almeno a sei metri di distanza”. «Il resto sta sera.» Disse, e a giudicare dalla risata dell'altro se l'era cavata anche abbastanza bene. Cercò di ridere di rimando con scarsi risultati, impedito dalla realizzazione del fatto che quella era veramente una terribile, terribile idea. Sospirò, allontanandosi con fare quasi scherzoso quando sentì il suo fiato sul collo. Okay. Finché poteva rimandare, era meglio farlo.

«A sta sera.» Disse Bert, forse un po' troppo convinto che il bacio al primo “appuntamento” non fosse una semplice leggenda metropolitana.

«A sta sera.» Si allontanò l'altro, il sorriso più finto di sempre incollato al volto come una fotografia. In quel momento voleva solo che una certa “vecchia signora” gli preparasse thè e biscotti e gli dicesse che sarebbe andato tutto bene, alla fine.

 

**

 

Frank sapeva che qualsiasi cosa ci fosse tra loro non sarebbe durata per sempre. Non si era illuso nemmeno per un secondo che tutto sarebbe andato così a vita, né aveva mai sperato che fosse possibile, perché infondo non era altro che un continuo correre dietro a qualcuno che stava chiaramente scappando da lui. Quello che non avrebbe mai immaginato, però, era che Gerard si allontanasse ancor di più per un perfetto sconosciuto. Che facesse in maniera così drastica quell'ultimo, fatidico, passo via dal terreno sicuro che si era impegnato a circoscrivere. E quello che faceva più male di tutto, era pensare che non era possibile che non avesse capito che a chiunque-fosse-quel-tipo non importava minimamente di lui. Gerard doveva averlo capito: era lui quello perspicace, eppure magari non glie ne importava e basta, e questo era ancora peggio. Magari non gli importava di sé stesso, ed era qualcosa che Frank non poteva proprio accettare dopo quel che aveva fatto perché stesse bene.

E allora per la prima volta decise di fare la cosa sbagliata.

Ormai aveva passato così tanto tempo ad essere quello che sapeva sempre cosa fare e perché andasse fatto, così tanto tempo a caricarsi miliardi di responsabilità sulle spalle, aveva passato così tanto tempo a combattere l'istinto che gli diceva che doveva smetterla di essere come una cazzo di assicurazione sulla vita per Gerard che non si ricordava più nemmeno dove avesse messo la voglia di fare cazzate e distruggere qualcosa che tanto lo contraddistingueva verso i diciotto/diciannove. Almeno prima aveva una ragione per impegnasi a farla, tutta questa cosa dell'essere responsabile: aveva Gerard e sapeva che quest'ultimo aveva bisogno di lui. E gli bastava questo, davvero, per lui era stato fottutamente sufficiente, okay, manco fosse un cazzo di matrimonio. Ma adesso Gerard stesso gli aveva dimostrato che forse non era così, a quel punto.

Forse non era più di tanto così e forse Frank non era più di tanto obbligato ad essere lì per sorreggerlo durante tutte le sue cadute. Perché adesso aveva Bert -Bert era il nome di quel figlio di puttana, aveva scoperto-, e nonostante a Bert non fregasse un emerito cazzo delle sue cadute, era lui che aveva deciso di far andare così le cose. A Bert non fregava un emerito cazzo delle poesie di autori francesi che Gerard tanto amava recitare a memoria e non era stato assolutamente lui e sorbirsele ogni santissimo giorno, anche in lingua originale. A Bert non fregava un emerito cazzo dei disegni Gerard né del bilanciamento dei colori e né delle linee troppo confuse perché semplicemente non era stato lui che li aveva visti tutti, uno per uno, quei maledetti pezzi di carta. A Bert non fregava un emerito cazzo perché non era stato lui che aveva amato singolarmente, pezzo per pezzo, ogni cosa che Gerard avesse mai rappresentato. Ogni cosa o persona che avesse mai avuto la fortuna di avere anche solo un minimo di lui. Ed era giusto che fosse così perché quello era un po' il ruolo di Frank, e un po' lo era sempre stato. Era giusto anche che Gerard scegliesse consapevolmente che preferiva lui -lui che non avrebbe mai fatto nemmeno finta di capire un verso di Baudelaire, lui che non avrebbe mai cercato per mezzo bus un semplice pennarello nero, lui che non lo avrebbe mai e poi mai amato nemmeno metà di quanto Frank amasse anche solo un suo semplice capello, maledizione-, e questo semplicemente perché perché il suo, di ruolo, era sempre un po' quello. Era lui quello enigmatico. Era lui quello che era un'impresa capire.

Ma quello che non era lui, Frank ne era sicuro, era il Gerard che davanti ai suoi occhi si divideva nei peggiori modi fra Bert McCracken e Adam Lazzara. Era il Gerard che fissava con le iridi un po' lucide dall'altro lato del locale e che faceva finta di ignorare, di non vedere, che provava addirittura a cancellare dalla sua vi(s)ta voltandosi verso le luci appannate e colorate dell'angusto spazietto nero. Quel tipo di luci gli faceva comodo perché erano abbastanza brillanti per vedere ma anche abbastanza mediocri da permettergli di non esser visto o, in caso qualcuno si fosse proprio accorto di lui, da dargli comunque la possibilità di dire che non stava piangendo: era colpa delle luci.

Frank strinse i pugni il più forte possibile e si costrinse ad entrare nella mischia, che gli piacesse o meno. Si ripromise che ne sarebbe uscito tumefatto o con qualcosa di sbagliato quasi quanto un corpo pieno di lividi, se non di più, e dopo aver assestato per bene cinque o sei gomitate, dopo essersi beccato il doppio di esse proprio sulle costole, dopo un numero indefinito di calci, schiaffi, piedi pestati.. dopo tutto quello la vide sorridergli, e quel semplice gesto fu la cosa più sbagliata ma al contempo giusta della quale avesse fatto parte in quegli ultimi giorni. Quindi le sorrise anche lui. E le tese la mano senza pensarci due volte perché non voleva fare altro che andarsene da lì, ed aveva la sensazione che insieme ce l'avrebbero fatta. Voleva andarsene da lì con lei, anche se nemmeno la conosceva, anche se tutta quella situazione era ridicola: perché al contempo, oltre a tutto ciò che stava provando, sentiva chiaramente che non era nulla che potesse anche solo scalfire o affievolire il fatto che lui amasse lo stesso ragazzo che durante una serata piuttosto simile aveva conosciuto. Quella ragazza, chiunque fosse, insieme al suo sorriso non aveva fatto altro che risvegliare qualcosa in lui. Forse nient'altro che un minimo di speranza, ma fatto stava che in quel momento la voleva da matti, e sì, quello era esattamente il tipo di errore che voleva fare. Esattamente a metà dall'essere la cosa migliore di sempre e qualcosa di cui si sarebbe presto pentito.

E mentre trafficavano per chiudere la tendina dello scompartimento di Frank, quest'ultimo si rese conto che Gerard non sarebbe più stato la sua prima e ultima volta. Era una cosa che aveva sempre data per scontata perché dopo tutte le volte che erano stati insieme, tutte le volte che si erano appartenuti nel più primordiale dei modi, aveva capito che non avrebbe voluto nessun altro. Mai e poi mai. Eppure il modo in cui voleva quella.. quella ragazza era- era completamente diverso. Non era altro che la sua ultima speranza, in quel momento, e voleva aggrapparsi a lei in tutti i modi.

 

**

 

Era notte fonda o magari erano le prime luci del mattino. Frank ancora cercava di capire perché avesse fatto ciò che aveva appena fatto, processando nella sua mente la consapevolezza che adesso non era più nemmeno vergine all'infuori di Gerard. Si poteva dire che a quel punto non fosse proprio più niente, in relazione con lui: non un amante perché entrambi avevano qualcun altro, non un'eccezione e nemmeno un amico, a dirla tutta, perché sarebbe stato stupido far finta che non fosse successo nulla, che andasse tutto bene, che fossero ancora pappa e ciccia come i primi tempi.

Si rivestì: quando l'aveva vista fare lo stesso e andarsene prima ancora di poterle chiedere come si chiamasse, si era sentito disgustato. Si era chiesto se quella fosse davvero la vita che desiderava, piena di sveltine, di volti senza nomi, tette ovunque. Tette. Frank prima di quella sera non aveva mai visto un paio di tette dal vivo, figuriamoci l'intero corpo femminile. E adesso che era successo si sentiva strano. Ma nonostante gli fosse sembrato tutto troppo meccanico, troppo naturale, lei lo aveva aiutato a fargli dire con certezza e per esperienza (non più per semplice supposizione) che c'era solo una persona che voleva e che nessun altro sarebbe entrato in competizione con essa. Che se c'era qualcuno con cui voleva passare il resto dei suoi giorni, allora poteva smettere di cercare. E nonostante si stesse pentendo di aver spezzato così quell'ultimo legame che lo teneva ancora vicino a quella persona, era esattamente una cazzata quella che era partito con l'intenzione di fare, e ci era riuscito. Era riuscito a fare qualcosa che nessuno si aspettava da lui, ed era una bella sensazione.

E, quasi a dire che quando parli del diavolo spuntano le corna, sentì i passi quasi zoppicanti di qualcuno che rientrava dalla nottata e non ebbe troppi problemi a capire che era Gerard. Sbuffò silenziosamente; non poteva dire di odiarlo ma sicuramente aveva tutto il diritto di avercelo un po' sul cazzo dopo quel che gli aveva fatto. Okay, forse era vero, non aveva idea di come si sentiva Frank nei suoi confronti e nelle sue condizioni forse non era nemmeno granché capace di rendersene conto, ma fatto stava che se si fosse sforzato di capirlo anche solo un minimo in più sarebbero stati tutti bene, e questo sì, era decisamente colpa sua. Frank quindi non gli rivolse parola, nemmeno per salutarlo e avvisarlo che era effettivamente sveglio. Perché poi avrebbero passato la nottata insieme e si sarebbero perdonati l'ennesima volta, ed era esattamente ciò che tutti si aspettavano succedesse. E Frank stava sviluppando un nuovo gusto per l'imprevedibile.

Gerard ad ogni modo gli dimostrò di essere ancor più fuori dagli schemi di lui: senza il minimo riguardo aprì la tendina dello scompartimento del ragazzo, e lo guardò dritto negli occhi. In quel momento il più piccolo sobbalzò, per poi prendere a fissarlo in un silenzio tombale che nessuno dei due era, apparentemente, deciso a spezzare. Se c'era qualcosa che lo distruggeva sempre allo stesso modo, qualcosa alla quale non si sarebbe mai abituato, allora era vedere Gerard in quel modo. Vedere il suo volto un po' troppo magro rispetto a qualche anno prima marchiato da due occhiaie profonde, i capelli più sporchi che mai andare in ogni direzione, un taglio sulla guancia al quale preferiva non pensare e le labbra un tempo morbide completamente ruvide e spaccate. Ogni volta che lo vedeva così gli passavano per la testa centinaia di pensieri e si ribaltavano in essa un miliardo di domande, ma fra queste, quella più importante era sempre una: come. Non sapeva come fossero arrivati al punto di farsi tutto quel male se lui voleva solo aiutarlo, però evidentemente ci erano riusciti, e adesso eccoli lì, ad un punto che sembrava il culmine, l'arrivo, ma che il più piccolo sperava fosse solo una nuova partenza. Sperava fosse un modo di cominciare tutto da capo.

«Com'era lei?» Gli chiese Gerard con gli occhi pieni di lacrime, e Frank, nelle stesse condizioni, preferì non domandarsi come facesse a saperlo. Preferì piuttosto concentrarsi sul fatto che non poteva e non doveva dargli il potere di farlo sentire in colpa, perché era esattamente ciò che aveva fatto lui, e per quanto ripagarlo con la stessa moneta fosse stata la cosa meno adatta in quel momento, era stata anche l'unica cosa che aveva permesso a Frank di ritrovare la determinazione necessaria per fargli del bene e smetterla di ferirlo ulteriormente. Se lei non fosse mai arrivata, forse coverebbe ancora tanto di quel rancore represso nei suoi confronti che in quel momento non lo starebbe nemmeno guardando in faccia; ma lei per fortuna era arrivata, e lo aveva fatto innamorare di nuovo. Non di sé stessa quanto dell'idea dell'amore. Gli aveva fatto rivalutare quel sentimento che per tanto tempo aveva semplicemente etichettato come una cosa stupida, che non gli aveva portato altro che sofferenze, e con quel sorriso gli aveva dato una nuova speranza: quella che si sarebbe impegnato per far sì che un giorno anche la persona che amava potesse sorridergli in quel modo. Che anche Gerard potesse sorridergli in quel modo.

«Com'era lui, invece?» Chiese, consapevole che non era l'unico che quella sera aveva avuto un incontro un po' “particolare”. Era giusto che entrambi elaborassero la cazzata che avevano fatto, e per una volta era giusto che fossero sullo stesso piano, che nessuno dei due stesse colpevolizzando l'altro senza ammettere i suoi errori. Era giusto che si stessero finalmente sfogando insieme ed era fottutamente giusto che per una volta non stessero mettendo da parte i loro problemi. Gerard pianse, quella sera. E anche quello era giusto, ad essere sinceri, anche se Frank avrebbe potuto giurare che il dolore che sentiva al petto nel vederlo così non fosse solo morale ma in gran parte si fosse tramutato anche in effettivo dolore fisico, perché quella era una situazione assurda. E un modo per far sì che facesse meno male c'era, così, messo da parte l'orgoglio, si decise a farlo stendere accanto a lui: prevedibile o no, in tutta sincerità, quella era una prevedibilità della quale non si sarebbe mai stancato. Gli accarezzò i capelli mentre l'altro continuava a versare lacrime sulla sua spalla, e solo dopo un po' Frank si rese conto che non era l'unico. Si rese conto che stavano piangendo insieme. E non era vero che “non era più nulla in relazione con lui”, perché se quello non era qualcosa, allora non aveva davvero idea di cosa lo fosse. Se quello -nonostante tutto il dolore- non era uno dei modi più belli di condividersi, allora Frank non ne aveva davvero idea.

«Mi- mi..» Provò Gerard, ma fra un singhiozzo e l'altro era difficile parlare. «Mi sento..» E se per un attimo il ragazzo era stato quasi convinto che stesse per scusarsi, immediatamente abbandonò l'idea mentre l'altro continuava con i suoi isterismi. «..mi sento una stupida puttana.» E dopo l'improvviso sprazzo di lucidità, continuò a blaterarlo all'infinito: “sonno una puttana”, “una troia”, “nient'altro”. E a Frank si bloccò il cuore nel petto pensando che qualcuno lo avesse fatto sentire in quel modo anche se, nonostante tutto, non se lo meritava.

«Ti ha fatto male?» Chiese, e nonostante Gerard scuotesse freneticamente il capo per dirgli di no, Frank sapeva che quello era un chiaro sì. Ed era terrorizzato al'idea che avesse potuto fare anche di peggio per ridurlo in quello stato, così trattenne il fiato e si preparò a qualsiasi cosa avesse da dirgli. Perché per la notte -o quel che restava di essa- loro erano semplicemente l'uno dell'altro, ed era perfetto così, nonostante l'alba facesse paura più di ogni altra cosa e il giorno avrebbe probabilmente cancellato tutto.

 

**

 

CIAAAAAAAAAAAAAAAAAAOOOOOO!

Ho fatto di nuovo un po' primaaah! Pochissimo, però sì.. cioè credo (?)

Allora, ho tante tante cose da dire, e una di queste non riguarda nemmeno il capitolo ma ci tengo a metterla in chiaro <3<3<33<<33<<<3<

Allora, punto uno: il titolo è preso da una frase di Effy in Skins. Mi pare si tratti della terza stagione, ma non ricordo l'episodio preciso, soreehhy -w-

Punto due: Bert McCracken ed Adam Lazzara sono ingiustamente sfruttati e mi dispiace tantotanto perché poi magari sono due coccoloni, capite che intendo?

Punto tre: quando Frank parla di “ricominciare da capo” è un riferimento al titolo del primo capitolo. MINCHIA SFOCIAMO NEL POETICO coro di vaffanculi registrati...........

Ikkeyy, adesso. Umh. Lo famo? FAMOLO.

Non so perché ma ho visto molta gente andare in paranoia per questa storia di Mikey e Sarah, la tipa ventenne con la quale sembra essersi fidanzato (????)

Ovviamente non stiamo parlando solo di rumors perché ci sono le foto, e ovviamente avete ragione a dire che non sono cazzi nostri perché non c'è nulla di più vero, non lo sono per nulla.. però dovete pur sempre capire che è logico rimanerci un po' di culo, non tanto per la sua vita quanto per il fatto che una persona che magari hai tanto stimato va contro i suoi stessi ideali....... Cioè, per intenderci: questa ragazza verso il 2007/2008 non era altro che una fan come tante. Non erano proprio loro i primi a dire che non vanno con le groupie? Cioè, se non rispettano i loro principi su cose del genere, che dobbiamo aspettarci? Boh, è come non poter avere fiducia in nessuno. (????)

Ci sono stati momenti dell'anno scorso in cui non avevo le parole di nessun altro se non le loro a confortarmi, e questo vale per tante altre ragazze, immagino, e quindi, nonostante abbia provato sempre a sostenere le loro scelte, questa volta lo dico ad alta voce che NO, non sono d'accordo. Perché, lasciando stare la scorrettezza morale di far scoprire a tua moglie tramite una ricerca fatta da fan che le metti le corna in maniera spaventosa e del fatto che questa Sarah è una fan ventennte (in America non è nemmeno maggiorenne, just sayin'), sei pur sempre un personaggio pubblico e le tue scelte influiscono comunque sulla gente. Se anche avesse voluto mettere le corna a sua moglie, fin qui non sono cazzi nostri: ma permettere ad una ragazzina di mettere foto di voi su instagram, dove sono visibili a tutti, allora qui lo rendi affare pubblico e dimostri di non essere tanto più maturo di quelle ragazze quattordicenni che hanno un centinaio di album su facebook di loro che si slinguazzano col fidanzato. Questo non cambia niente per me: resta comunque una grande ispirazione, ma in un certo senso questa storia me l'ha fatto umanizzare e boh, okay, volevo solo sfogarmi, questa cosa non ha né capo né coda :c

Ho chiuso con questa storia. <3333333

Spero che il capitolo vi piaccia, come sempre battete un colpo e ci sentiamo al prossimo, gentagliaah <3

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** 'Cause I've always been stronger than that, hold the weight of the world on my back ***


14. 'Cause I've always been stronger than that, hold the weight of the world on my back


 

Avete presente quelle situazioni in cui cominciate a parlare, parlare, parlare, ma onestamente non avete alcuna idea di cosa stiate dicendo? Quelle situazioni in cui le parole cominciano ad ammassarsi l'una sull'altra, alcune perdono importanza, altre che di solito si sarebbero ignorate cambiano invece l'intero significato del discorso, altre che in teoria sapete che dovreste tenere per voi vi solleticano letteralmente le corde vocali e fremono dalla voglia di uscire?

Ecco, Frank ricordava tutto quello. Non ricordava cosa avesse detto, ma ricordava di aver sicuramente detto qualcosa che lo aveva fatto incazzare da pazzi. Fin lì andava tutto bene. Ricordava di aver avuto quella grandissima faccia di cazzo davanti a lui e di essere stato particolarmente incazzato e ubriaco. Poi ricordava che, dato che certi concetti non si possono esprimere con nessun “vaffanculo” al mondo, gli aveva letteralmente sputato in faccia. Così. Tanto per.

Poi ricordava gli sguardi indignati di tutta quella gente che in quel momento lo credeva come una specie di pazzo, un eretico, come un ebreo che aveva appena preso a calci nelle palle un nazista, come se Frank fosse paragonabile al nulla solo perché si era permesso di dissentire, di esprimere lo schifo che provava nei confronti di Bert McCracken. Poi ricordava come si era sentito vivo prima di ricevere un pugno in pieno volto; ricordava il modo in cui il cuore aveva cominciato a battergli più forte di quanto non avesse mai fatto e le vene sembravano pulsargli sotto la pelle, il modo in cui era perfettamente consapevole che stessero per picchiarlo -e anche forte-, eppure più di tutto ricordava il modo in cui era stato lì, aspettando semplicemente di prenderle, e ogni volta che rivedeva la scena nella sua mente si sentiva sempre meglio. Sempre più vivo. Come se, dopo anni di vita, fosse stato spedito sulla terra solo in quel momento. E ci fosse arrivato a calci in culo.

Ricordava la forza del primo pugno che aveva ricevuto, premeditato e fin troppo ben assestato, la paradossale morbidezza della mano di Bert e ricordava perfettamente il momento in cui era finito a terra e aveva chiuso gli occhi. Ricordava le luci soffuse e i volti appannati quando li aveva riaperti brevemente e ricordava l'istante in cui tutto aveva preso a girare e si era arreso di nuovo al buio. Ricordava tutti i calci nelle costole, ricordava le risate degli altri e ricordava vividamente il momento in cui aveva desiderato di poter perdere conoscenza.

E un po' era quello che si aspettava, quando faceva a botte: si aspettava di svegliarsi all'ospedale e non ricordare nulla come era sempre stato. Infondo se l'era cercate, ed era proprio quello che desiderava- insomma, non andava semplicemente a sputare in faccia a uno di cinque centimetri più altro di lui perché in quel momento gli girava così.

Ed il primo pugno era stato fantastico, finire a terra era stato fantastico, ma sbattere ripetutamente la testa contro il cemento lo era stato un po' meno. Quando aveva cominciato a sputare sangue, poi, aveva simultaneamente cominciato a sperare di poter semplicemente chiudere gli occhi, ignorare il dolore, e far finta che non ci fosse nessuno lì. Far finta che non si fosse creata una folla di accaniti spettatori senza palle che preferivano guardare ed esprimere versi di sdegno piuttosto che agire e far finta di non sentire le loro voci. Se fosse stato in condizioni di parlare li avrebbe mandati tutti a fare in culo. E okay che si era sentito vivo, che aveva cercato un po' di adrenalina, ma aveva smesso di sentirsi così “vivo” e carico proprio nel momento in cui aveva pensato che sarebbe morto così.

Poi però ricordava di aver sentito una presa, e a quel punto si era aggrappato ad essa: perché c'erano mille voci che gli dicevano che forse non avrebbe dovuto fidarsi di nessuno, in quel momento, soprattutto perché non riusciva granché a mettere a fuoco il volto dello sconosciuto che lo stava tirando via e volendo avrebbero potuto portarlo nel bosco più vicino e lasciarlo lì a crepare, ma a quel punto la cosa peggiore era proprio la possibilità che chiudesse gli occhi e non li riaprisse più, e a quel punto aveva già metabolizzato l'idea. Non aveva mai pensato che si sarebbe mai arreso così facilmente al fatto che forse sarebbe morto, se nessun l'avesse aiutato, eppure eccolo lì che valutava se la prospettiva di essere mangiato da un qualche animale mentre era paralizzato fra l'erba fosse migliore di quella di morire per mano di quel coso-Mc-comecazzosichiamava: e non c'era dubbio, pensare che sarebbe morto senza nemmeno ricordarsi cosa avesse detto per meritarselo era decisamente peggio.

A due giorni di distanza dall'accaduto, continuava a non avere la minima idea di quale affronto così tremendo il suo cervello fosse stato capace di partorire per dare un buon motivo a quel cazzone cavernicolo di ridurlo in quello stato. Frank non era proprio morto, ma sicuramente ci era andato vicino. Sicuramente la morte era qualcosa di simile non solo a quello che aveva provato quella sera, ma anche allo stato in cui si trovava in quel momento.

Era steso nel suo scompartimento da due giorni interi. Gli unici motivi che lo avevano spinto anche solo a muoversi erano le cuffie dell'mp3 che gli scivolavano via dalle orecchie, la bottiglia d'acqua che finiva troppo velocemente e la vescica che chiedeva di essere svuotata. Nient'altro. Passava il tempo fissando il nulla. E sapeva perfettamente che quello non era lui.

Ogni volta che lo chiamavano diceva di non sentirsi bene: il primo giorno aveva pensato che forse, se nessuno si faceva problemi a credergli, era solo perché era sempre stato uno che si ammalava facilmente. Adesso però aveva avuto un'altra nottata per riconsiderare tutto e cominciava a pensare che magari, molto più semplicemente, non fregava un cazzo a nessuno. Ecco tutto.

E fu per questo che, quando sentì dei passi avvicinarsi nella sua direzione e vide effettivamente Ray entrare nel suo scompartimento e mettersi a sedere dal lato opposto rispetto a quello dove lui aveva poggiato la testa, rimase.. stupito? “Stupito” non era la parola adatta perché se ti isoli per due giorni interi e uno dei tuoi migliori amici ti viene a cercare non c'è nulla di cui “stupirsi”. Era forse un po' più sorprendente nel suo caso, dato che aveva passato qualcosa come dodici ore ad auto-convincersi che lo odiasse, però era okay. Nonostante non stesse dicendo una singola parola andava bene. Anche solo avere qualcuno che gli stesse vicino era perfetto, quindi rimase fermo, anche lui in silenzio, e chiuse gli occhi. Perse la cognizione di tutto: non aveva idea di quanto tempo avesse passato così e né voleva scoprirlo. Quel che sapeva sicuramente, però, era che era proprio sul punto di addormentarsi nel momento in cui sentì Ray tirargli via le cuffie e strattonarlo con poco contegno.

Aprì pigramente gli occhi e sbuffò, stropicciandosi il volto con l'intero palmo della mano.

«Frank, è un'ora che ti chiamo.» Disse, e in quel momento fu piuttosto strano sentire dopo due giorni la voce di un qualche essere umano che non fosse accompagnata da una base musicale e non provenisse dalle sue auricolari. Frank deglutì, mettendosi a sedere con le gambe strette al petto. E ora? Ora era ancora zitto. Ed era a disagio. E, soprattutto, non capiva cosa gli fosse successo per cambiare così radicalmente: era sempre stato più forte di quel che gli succedeva, ma c'era poco da fare in quel momento. «Frank

«Cosa.» Chiese, sbuffando dall'esasperazione che provava nei suoi stessi confronti. Si stupì del suono della sua voce: erano due giorni che non parlava e di conseguenza non la sentiva, e ora gli sembrava tutto nuovo, come se fosse stato rinchiuso in una qualche campana di vetro per tutta la sua vita e ne fosse stato appena liberato, come se avessero alzato improvvisamente il volume della radio e fosse tutto amplificato per cento. Tossì due volte per mandar via quella strana sensazione che aveva in gola e osservò l'altro scuotere il capo, manco avesse fatto qualcosa di male, manco si aspettasse un qualche tipo di risposta anticipata ad una domanda che non aveva ancora fatto.

«Hai qualcosa da dirmi?» chiese, e Frank aggrottò le sopracciglia.

In effetti erano tante le cose che aveva da dirgli, ma optò per l'opzione più facile: il silenzio.

«Dovrei?» Chiese con il tono di voce più casuale di sempre, come se non fosse perfettamente consapevole del fatto che gli stesse nascondendo un centinaio di cose. Frank sapeva di essere il peggior amico di sempre sotto quel punto di vista, ma allo stesso tempo sapeva che certe cose non poteva semplicemente spiegarle se non le aveva ancora capite. Come gli avrebbe potuto spiegare perché si era fatto prendere a pugni da quel coso se non lo sapeva nemmeno lui? Come avrebbe potuto spiegargli la fitta di gelosia che lo aveva preso ogni volta che aveva sentito Gerard difenderlo mentre era ancora in stato confusionale e teneva premuta contro l'occhio una busta di fagiolini surgelati? Cioè, in tutta onestà, come poteva spiegare al tuo migliore amico che credeva lo odiasse?

«Non ricord- non ricordi niente.» Constatò, balbettando la frase prima con tono di domanda e poi, per intero, come affermazione. Frank in effetti non ricordava niente, ma non sapeva fino a che punto desiderava che qualcuno gli rinfrescasse la memoria. L'occhio nero faceva già abbastanza male di per sé, figuriamoci poi se si fosse ricordato anche che cosa aveva fatto per meritarlo.

«No.» Deglutì rumorosamente, sentendo all'improvviso quello strano peso all'altezza del petto che senti quando sei in ansia e sai che sta per arrivare. Sai che fra qualche secondo potrebbero ribaltarti completamente e non sai se sarai a terra oppure ti riuscirai a rialzare dal limbo del momento perché in effetti non sai nemmeno fino a che punto ti convenga sapere la verità. E infondo cos'era quella sua morte momentanea se non il suo modo di rimanere impassibile di fronte a ciò che lo circondava e rifiutarsi di vedere la verità?

«E vuoi che te lo racconti?» Ray domandò, come se a quel punto non lo avesse incuriosito abbastanza da fargli desiderare di sapere di più e ci fosse davvero il bisogno di assicurarsene. Frank si strinse nelle spalle nel tentativo di celare ansia ed entusiasmo e rimase zitto, mettendosi seduto con le gambe strette al petto e sopprimendo i versetti di dolore che lo pregavano di uscire per colpa di quel movimento brusco. «Forse stai decisamente meglio adesso che non lo sai.» Disse dopo una lunga pausa di riflessione e dopo un momento in cui gli era sembrato che stesse per parlare, e fu lì che Frank cominciò seriamente a preoccuparsi.

«Non può essere così male.»

«Diciamo che è cinque tipi diversi di malignità.»

«Parla.» Replicò Frank, tono più intimidatorio possibile per uno che era nelle stesse condizioni di un orfanello denutrito. Poi cominciò a sentire il battito del suo cuore accelerare così tanto che gli rimbombò anche nelle orecchie, ed era più o meno sicuro che stesse già cominciando a subire le conseguenze di almeno due dei cinque tipi di malvagità che l'altro aveva nominato prima. O qualcosa del genere.

«Oh mio Dio, Frank..» Cominciò. «Partiamo dal presupposto che stavi da cani, perché quell'amico di Mikey- quel tipo.. Wentz, credo, ti ha fatto portare un numero non meglio definito di drink perché secondo lui avevi “bisogno di scaricare la tensione”..» Frank si parò il volto con le mani. Era consapevole del fatto che tutte le peggiori storie cominciassero così. Ne era perfettamente consapevole. «E andava tutto bene, cioè, okay che lo hai chiamato amore e avete.. ballato, credo? Eravate in piedi su delle sedie, comunque.» Ray si fermò a ridere e Frank si fermò a metabolizzare il suo imbarazzo. Dal semplice essere devastati al ballare con Pete Wentz c'era una sottile linea e lui sapeva di averla appena oltrepassata e di averci apparentemente ballato sopra. «Comunque poi sei uscito fuori da solo perché “volevi una boccata d'aria fresca”..» Disse Ray, mimando due virgolette. «E da quello che racconta in giro, Bert dice che lo stavi guardando- cioè, cazzo, ti rendi conto dei problemi che deve avere questo coglione?» Frank prese a mordersi le unghie. Cominciava a ricordare, e più i flash gli passavano per la testa, più aveva paura di cosa avrebbero potuto rivelare una volta collegati l'uno all'altro. «Ti si è avvicinato, e..» Ray si fermò, e immediatamente qualcosa nel suo tono da cantastorie e nel suo volto relativamente calmo e rilassato cambiò. Frank si inumidì le labbra spaccate e sentì lo stesso sapore di sangue di quella sera. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie. «Io non lo so che cosa abbia detto precisamente, ma da quel che ho capito non c'era bisogno che lo fissassi perché “non è colpa sua se sei una ragazzina checca con una cottarella che non è capace di accettare il rifiuto di una persona a cui fa schifo”.» Disse, e calò il silenzio. L'espressione del più piccolo fra i due era completamente vuota. Nulla. Non c'era nulla nei suoi occhi o nella curvatura delle sue labbra che potesse anche solo minimamente tradire un qualche tipo di emozione. Forse Frank era di per sé vuoto, e l'anima di una persona non è semplicemente qualcosa che puoi riempire di parole e frasi fatte, quindi rimase zitto. «Poi gli hai detto qualcosa su quanto ti facesse schifo, precisamente non lo so. E gli hai sputato in faccia.» Concluse l'altro, magari in un tentativo fallito di smuoverlo e di ottenere una qualche risposta, ma niente. Niente oltre un breve e appena sussurrato “okay”, seguito da un “grazie” ancora più flebile.

«Chi è che mi ha portato via?» Domandò solo dopo almeno cinque minuti di nulla.

«Wentz. Si sentiva in colpa perché crede che, probabilmente, se non ti avesse fatto bere non avresti fatto nulla di tutto.. quello. Ma io dico che né è colpa tua se quel Bert ha dei seri problemi a contenere la sua rabbia e né è colpa tua se sei innamorato, no?» A quelle parole gli si bloccò il cuore in petto. Solo in quel momento lo sfiorò la consapevolezza che adesso Ray sapeva. E che probabilmente anche Mikey e Matt sapevano. Che adesso praticamente chiunque poteva saperlo, Gerard compreso. E la parte peggiore di quella situazione era che lo aveva capito quel cavernicolo e lui no. Ci era arrivato Bert che lo conosceva da tre o quattro giorni e Gerard, che conosceva praticamente dal momento in cui cominciavano gli unici ricordi precisi che aveva della sua vita, ancora non riusciva a rendersene conto. Qualcosa dentro di lui si risvegliò: non era più vuoto perché adesso poteva dire di essere completamente distrutto. Schiacciato dal peso di sé stesso.

«Mi dispiace se non te l'ho mai detto.»

«Ognuno ha i suoi segreti.» Si strinse nelle spalle il più grande. Silenzio. «E tu hai scelto il peggiore, coglione.» Riprese, dandogli uno schiaffo amichevole in testa e ridendo. Frank non sapeva proprio in che modo ci riuscì, eppure sorrise. Un minimo, ma era pur sempre un inizio. «Avremmo potuto.. fare qualcosa.»

«Minacciarlo?»

«Qualcosa del genere. Saremmo entrati in casa sua con i passamontagna.»

«Immagino che a questo punto avremmo già fatto grandi progressi.» Sbuffò Frank, rimboccandosi le coperte e stendendosi nuovamente dopo quei dieci minuti di puro dolore che gli aveva provocato lo stare seduto. Cominciò a chiedersi quando quei dannati lividi sarebbero scomparsi, e, soprattutto, se magari fosse il caso di vedere un vero medico, uno che non facesse parte dello staff del Warped Tour, perché cazzo, persino il tocco di un polpastrello per anche solo un secondo gli faceva inarcare la schiena dal dolore e digrignare i denti per bilanciarlo equamente.

«Aspetta, cazzo, non hai ancora sentito la parte in cui arrivi e lo salv-»

«Credo di aver scoperto il tuo segreto.»

«Eh?» Domandò Ray, l'espressione più confusa di sempre stampata in volto.

«Sei uno sceneggiatore di telenovele argentine.» Rispose Frank, combattendo contro l'istinto di ridere sia per il dolore che sentiva ogni volta che lo faceva (sul serio, era come se i polmoni gli sbattessero contro una parete fatta di aghi), sia perché avrebbe rovinato il tono della battuta. Si morse il labbro mentre l'altro rideva, trattenendosi, e improvvisamente Ray schioccò le dita come se si fosse ricordato di qualcosa di importante.

«Oh! Ora che mi ci fai pensare, che cazzo hai fatto a Jamia?»

«Jam- chi?» Chiese Frank, sentendo la sua voce aumentare di qualche ottava. L'ultima cosa che gli serviva erano altri problemi. E tra l'altro, qual'era il nesso fra una telenovela argentina e la sua vita? Stupido Ray.

«Jamia. La nostra tecnica del suono. Qualche sera fa usciva di qui piangendo e ora non ti vuole più parlare.» Disse, e in quel momento, dopo aver brevemente pensato un “non che mi avesse mai parlato” con il tono mentale più stronzo di sempre, Frank, battutine a parte, capì con un brivido a chi si riferisse. La ragazza del sorriso.

Jamia. Jamia? Jamia.

Quelle cinque lettere non sembravano voler trovare la porticina “uscita” del suo cervello, e Frank, in quel momento, si rese conto che un nome non era quello che voleva. Non voleva la storia della sua vita, né scoprire improvvisamente che forse avevano più legami in comunque di quanto pensasse, né voleva sentirsi obbligato a frequentarla solo perché a quanto pareva era un'amica di amici: quella sera lui l'aveva voluta per quello che conosceva di lei, che fosse poco e niente non importava, ed era finita lì. E sembrava così anche per lei, onestamente, perché non aveva perso tempo prima di rivestirsi e andarsene, e Frank ora ne era sicuro: non aveva colpa. Zero. Quei sensi di colpa che lo stavano affogando erano completamente inutili e ingiustificati, e soprattutto in quel momento non credeva davvero di meritarseli. Maledizione.

«E' subito andata via, non pensavo le importasse..» Disse, abbassando gradualmente il tono di voce quando vide Ray sbuffare e scuotere il capo come per dirgli che non aveva veramente speranze. Se non era proprio capace di cavarsela con i rapporti umani, potevano mai fargliene una colpa?

«Le piaci da anni.»

«Non c'era modo in cui potessi saperlo.»

«L'hai fatta piangere.»

«Mi dispiace..» Ed era vero, okay, non riusciva nemmeno a mettere in parole il dispiacere che provava in quel momento, ma soprattutto non riusciva a immaginare la stessa ragazza che gli aveva fatto rivalutare interamente gli stessi rancori che si portava dietro da anni con un solo sorriso mentre piangeva. Era assurdo. Era come se l'intero ideale di amore che si era creato in quei giorni gli stesse crollando addosso pezzo per pezzo, come se tutte quelle certezze che aveva acquisito avessero improvvisamente perso senso. E sapere che poteva fare quell'effetto ad una persona, poi, era qualcosa da fantascienza.

«Non importa, Frank, al massimo.. non so, prova ad uscirci qualche volta, non è come tutte le ragazze, davvero, e non puoi stare ad aspettare qualcosa che non sai se mai arriverà, okay, io- non te la prendere, lo dico per.. per te.» Frank annuì. Eccome se lo sapeva che “non era come tutte le altre”, ma questo non lo faceva sentire più sicuro riguardo l'ipotesi che avrebbe potuto effettivamente provare ad uscirci insieme. Da un lato Ray aveva ragione: stava passando una vita intera a sperare che qualcosa succedesse, che qualcosa dentro Gerard si smuovesse e che finalmente capisse che se voleva davvero qualcuno che lo amasse, allora forse non si era mai davvero scomodato a cercarlo, dato che ce l'aveva sotto il naso ogni santissimo giorno e ancora non lo aveva capito. Stava passando il tempo a guardare mentre quest'ultimo gli scorreva davanti, e non sapeva più come uscire dal circolo vizioso. O meglio, ci provava, ma più ci provava -così come ci aveva provato con Jamia, così come ci aveva provato con la scazzottata-, peggio andava.

«Ci penserò, okay?»

«E' un inizio.» Ray gli diede una pacca sulla spalla, e con un sorriso se ne andò.

E Frank stava annegando nella sua stessa testa.

 

**

 

Questo capitolo è cortissimo. Sul serio.

E chiedo veramente scusa, scusa, scusa a tutte voi per il tempo che ci ho messo a scriverlo.

La verità è che non so, semplicemente non riuscivo a far nulla di meglio e allora mi sono detta che la situazione non sarebbe migliorata e boh, ecco qui.

So che molte di voi rimarranno tipo.. deluse, credo, da come sta continuando questa storia (?)

Il punto è che non so dove sto andando a parare e in relazione a quanti ne ho già postati mancano veramente pochi capitoli e addirittura alcune di voi mi hanno chiesto di un ipotetico seguito, cioè, no, non ho proprio idea, davvero.

Quindi, umh, la fine si approccia ed io sono sempre più in balia della scuola e delle mie crisi di ispirazione (che poi cazzo dico, alla fine sono solo attacchi nervosi <3), mi scuso nuovamente!

Il titolo del capitolo è preso da “Love, selfish love” di Patrick Stump (<3<33<<33<33<<3<3<3), e si ringraziano i Crystal Castles che mi inquietano quel poco che basta per farmi mettere a scrivere.. o farmi venire la folle idea di postare un capitolo a cui mancava una parte intera.

Un grazie gigante che a parole non si può nemmeno scrivere, ciao. <3<3<3<3

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** You're down for selling me in while I play dumb and it's cool 'cause I let you ***


15. You're down for selling me in while I play dumb and it's cool cause I let you



 

Il drink si chiamava Artemisia Bohemian e Gerard non aveva idea di quanti ne avesse bevuti a quel punto, ma era quasi sicuro che non fosse altro che Assenzio.Per prepararlo si dovevano versare 25 millilitri della bevanda in un bicchiere di forma conica, porre sopra di esso un cucchiaio e lasciarlo in bilico sui bordi con sopra una zolletta di zucchero imbevuta di Assenzio. Poi la si doveva lasciar sciogliere un po' con una fiamma ossidrica, e in seguito spegnere il fuoco prima che lo zucchero si caramellasse, colmando il bicchiere con dell'acqua calda così da far sciogliere definitivamente la zolletta. Ma d'altronde a Gerard non importava di tutte quelle stronzate: sapeva solo che era alcolico da morire, e gli andava bene così.
La testa gli girava da morire mentre barcollava per il locale: sbandava avanti e indietro, a destra e a sinistra tra la folla, e, fra un conato e un capogiro, cominciava persino ad avere freddo. Aveva freddo mentre tutte le persone intorno a lui sudavano e ballavano con dei sorrisi così enormi ma al contempo così finti che sembravano quasi tirati da due mollette invisibili, e l'unica spiegazione possibile era che forse stava davvero male. Il posto, poi, faceva completamente schifo: un angusto buco sotterraneo la cui acustica faceva sì che la musica di qualsiasi gruppo stesse suonando rimbombasse il doppio nelle sue orecchie. Bastava amplificare tutto più o meno altre dieci volte per colpa dell'effetto dell'alcool e fare il conto per ottenere un numero che non si avvicinava nemmeno lontanamente a quello delle testate che Gerard avrebbe voluto dare contro il muro.


Cercò infondo a sé stesso tutta la motivazione e la forza che gli sarebbero servite per arrivare di nuovo fino al bar dopo almeno venti minuti in mezzo al pogo; venti minuti durante i quali aveva semplicemente sperato che, con lo stesso metodo con cui era riuscito a farsi trascinare fino in prima fila, potesse riuscire ad arrivare anche al bancone.

Purtroppo il piano non funzionò granché: nonostante tutte le preghiere Gerard era ancora contro la barricata, appoggiato ad essa quasi nel terrore che se l'avesse lasciata sarebbe svenuto, mentre continuava ad essere spinto in avanti da chissà quanti altri corpi e la cassa sua cassa toracica veniva ripetutamente pressata contro il ferro dai loro movimenti. Gli sembrava quasi che, ad ogni cambio di canzone o assolo di chitarra con conseguente delirio del pubblico, i suoi organi si stessero pian piano compattando l'uno con l'altro. Che i riflettori non gli avessero mai fatto bruciare tanto gli occhi e che non si fosse mai trovato così a disagio in una stanza piena di gente, così disorientato e senza la minima idea di ciò che stava accadendo intorno a lui.

Era lì, almeno fisicamente, ma era sicuro che sarebbe potuto non esserci e sarebbe stata la stessa identica cosa. Certe volte si pentiva di quella sua scelta di essere completamente passivo di fronte al mondo intorno a lui e nient'altro che un nulla per chiunque sprecasse il tempo standogli vicino, ma alte volte, invece, non credeva ci fosse altro modo per tirare avanti; un po' come quelle volte in cui vedeva la gente intorno a lui sorridere e divertirsi davvero e si chiedeva se mai avesse provato le stesse cose, se mai qualcuno lo avesse osservato da lontano e avesse pensato esattamente ciò che in quel momento pensava lui mentre, con la testa piena di un qualcosa che riconosceva lontanamente come “gelosia”, immaginava di essere parte di qualcosa.

Fu solo quando riconobbe finalmente le prime note di una qualche cover (o almeno Gerard pensava fosse una cover, perché nonostante non riuscisse a ricordare il titolo della canzone originale, era troppo famosa per essere stata scritta dai ragazzini appena-appena maggiorenni che aveva sotto gli occhi) che si rese conto che forse non era ancora parte di qualcosa, non proprio, ma sicuramente per un po' si sarebbe sentito come se lo fosse stato. Improvvisamente non gli importava di non appartenere a quel posto o di non avere nulla a che fare con la gente intorno a lui, perché conosceva tutte le parole a memoria riusciva ancora a ricordarle e ripeterle sotto voce, come una preghiera. Come se quelle parole fossero, in qualche modo, anche un po' sue.

Jesus Christ, that's a pretty face
The kind you'd find on someone I could save
If they don't put me away
Well, it'll be a miracle

Gerard le recitò come se non fossero passati anni dall'ultima volta che le aveva sentite, attento a non emettere nemmeno il più flebile dei suoni perché quello era un momento che apparteneva solo a lui; quella canzone era esattamente quel tipo di canzone che conosci a memoria, ma che per qualche motivo non hai mai avuto sul tuo mp3. Né ne hai mai conosciuto il titolo, né sai chi è stato a scriverla e comporla, ma non ti importa perché in qualche modo è semplicemente giusto che sia così. Quella canzone era quel tipo di canzone che non è giusto ti appartenga finché non hai un pretesto per renderla tua, un particolare momento a cui collegarla. Un po' un momento come quello.

Do you believe you're missin' out
That everything good is happening somewhere else?
But with nobody in your bed
The night's hard to get through

Quel tipo di canzone che semplicemente non puoi apprezzare davvero finché, anni dopo dalla prima volta che l'hai ascoltata, non comincia a descrivere tutto ciò che sei. Allora all'inizio la apprezzi perché chissà, magari ti fa sentire in un determinato modo o è orecchiabile, chi può dirlo, ma è quando cominci a scrivere i suoi versi ovunque -è in quel momento- che la apprezzi ad un livello totalmente nuovo, la apprezzi da un altro punto di vista e da mille diverse prospettive. Ed era così che Gerard la stava apprezzando in quel momento: sentiva che sarebbe stato capace di tatuarsi quelle parole sulla pelle, se non fosse stato un completo cagasotto.

Se c'era qualcos'altro che sentiva, però, era che doveva sedersi. E in fretta.

Attese giusto fino alla fine di quel pezzo per farsi finalmente strada a gomitate fra tutti i volti sconosciuti intorno a lui e grazie a Dio trovò un posto libero al bar per sedersi. Con un colpo improvviso di fortuna riuscì a sedersi sullo sgabello senza farlo cadere all'indietro e rimase in silenzio e a testa bassa almeno per i dieci minuti successivi, un po' imbarazzato per via dello sguardo impietosito del barista che riusciva praticamente a sentirsi addosso (era la sesta volta che si recava lì in tre ore, non poteva biasimarlo) mentre tracciava contorni immaginari sulla superficie di metallo laccato del bancone. Era gelido, e Gerard ebbe appena il tempo di ricordarsi del freddo che sentiva prima di buttarsi nella mischia, che subito sentì una voce familiare che ordinava due Adminal. D'altra parte voci come quella non le avrebbe semplicemente dimenticate con uno schiocco di dita, né erano così comuni che le sentiva tutti i giorni, ma sicuramente ad un certo punto aveva imparato a distrarsi da esse, per esempio concentrandosi sui dettagli più stupidi della frase ed ignorando completamente il resto. “Adminal” poteva fare al caso suo, in quel momento, perché almeno a primo impatto non faceva accendere nessun allarme: per prepararli si doveva versare del liquore Cherry, del Gin e il succo di mezzo limone in uno shaker. Si doveva aggiungere del ghiaccio e agitare bene, per poi filtrare tutto in due coppe da cocktail. E immediatamente Gerard si sentì la gola asciutta, quasi tentato di parlare e ordinarne uno anche per lui, perché anche se non si poteva dire che stesse proprio bene, se era ancora capace di riconoscere la voce di Frank, allora non stava male abbastanza. Non male quanto voleva. E se riusciva ancora a concentrarsi su quei dettagli che prima era riuscito a lasciar perdere e ricordarsi che il motivo per cui aveva ordinato due drink se al bar c'era solo lui era perché quella sera aveva un appuntamento con chiunque-fosse-quella-tipa, bhè, allora doveva stare proprio una meraviglia. Una favola.

«Ciao.» Gli disse il più piccolo con un'espressione che non celava nemmeno un minimo di tutto il suo evidente imbarazzo, e Gerard per poco non gli rise in faccia. Non quel tipo di risata cattiva, né una vera e propria risata- più quel tipo di risata sconsolata, quel tipo di risata che sta quasi a dire “che cazzo fai”. Era ridicolo. Era ridicolo che gli dicesse “ciao”. Due come loro non si dicevano “ciao”. Due come loro era già abbastanza strano che si fossero trovati, che qualche stupido scherzo del destino li avesse accoppiati e praticamente ammanettati insieme, figuriamoci poi quanto potesse essere giusto il loro ostinarsi a parlare e quel loro scambio di saluti di circostanza.

Lo fissò dal suo sgabello mentre, senza aver nemmeno ricevuto una risposta, Frank era ancora bloccato in una fila così lunga che era quasi ridicolo che la gente continuasse ad aggiungercisi. Lo fissò e si rese conto per la prima volta che forse nemmeno lui avrebbe voluto salutarlo. Si rese conto di quanto fosse brutto riuscirgli a leggere in volto che non aveva mai desiderato qualcosa tanto quanto non desiderasse allontanarsi da lui in quel preciso momento e per più tempo possibile, e sapere che era esattamente quello che aveva voluto, -nient'altro che frutto di quel piano che aveva maniacalmente organizzato e portato a termine con sfrenata dedizione- poi, era ancora peggio. Gerard si portò una mano alla bocca per tapparsela prima di cominciare ad urlare, mordendosi le unghie e strappando pellicine senza nemmeno curarsi del fatto che probabilmente gli avrebbero cominciato a sanguinare le dita. Riusciva a capire perfettamente il motivo per cui quella sera Frank era lì con quella tipa, qualunque fosse il suo nome: non ci voleva molto a capire che stava ricominciando da zero, che stava tappando la sua solitudine. Non ci voleva molto nemmeno a rendersi conto che era la cosa giusta, quel suo rimettersi in gioco, che quello era semplicemente il naturale scorrere dei fatti e che non poteva chiedere che Frank gli rimanesse accanto per sempre, che Gerard aveva miseramente fallito nel tentativo di farlo sentire amato o almeno un po' felice anche quando ancora si sforzava a provarci e che ancora una volta era tutta colpa sua se adesso era lì a guardare lui, poi a guardare lei, poi di nuovo lui senza riuscire nemmeno a rendersi conto di come due persone così fossero finite insieme. Se c'erano due persone più sbagliate di lui e Frank, forse erano proprio Frank e quella tipa. E non per gelosia, eh. Figuriamoci.

Gerard ammetteva di passare la maggior parte del suo tempo immerso fino al collo in quel sentimento, e proprio per questo poteva dire di conoscerlo bene: poteva dire di saper riconoscere almeno il perché della sua gelosia, e poteva dire di essere sicuro che il motivo di essa non era assolutamente il loro stare insieme.

Sapeva di non essere geloso di Frank solo perché adesso poteva contare su di lei, né perché per qualche stupido motivo le persone innamorate come lui non riuscivano proprio a dimenticare continuavano a covare uno strano senso di possessività nei confronti della persona amata e bla, bla, bla. Se c'era qualcosa per cui era geloso di Frank non era il fatto che fosse andato avanti: era la sua capacità di innamorarsi così facilmente di ogni cosa. Della prima tazza di caffè della giornata, della pasta al dente, degli antidolorifici che funzionavano in fretta e certe volte anche delle persone. Dei loro vuoti, delle loro debolezze. Era geloso di Frank perché, al contrario, lui aveva sempre avuto paura di qualsiasi cosa riguardasse anche solo lontanamente la parola con la “a”.

Riguardo Frank e quella ragazza non era geloso, no: era solo scoraggiato. L'unica cosa che sentiva riguardo quella loro situazione era un semplice sentimento di impotenza e, ancor più specificamente, di tristezza. Una tristezza che non riusciva ad allontanare ogni volta che pensava che a Frank non interessava altro che avere qualcuno, non lei, mentre invece a lei non interessava nessun altro se non Frank stesso, che invece con lei cercava semplicemente di sentirsi un po' meno sperduto nel mondo. Tristezza dovuta al fatto che non avrebbero mai potuto darsi tutto quello che meritavano, al fatto che non avrebbero mai saputo come cedersi totalmente ciò che erano.

Dovuta al fatto che quell'intera situazione era colpa sua.

Perché adesso ci sarebbe potuta essere una ragazza felice in più, un ragazzo afflitto in meno, e, in secondo piano, magari anche lui sarebbe stato felice. Sinceramente, in quel momento non importava: la sua felicità, dopo quello che aveva fatto, poteva anche rimanere in secondo piano. E doveva rimanerci, almeno finché non fosse uscito dal labirinto in cui lui stesso si era murato vivo: aveva rovinato con le sue stesse mani ciò che aveva disperatamente cercato di proteggere, e solo in quel momento lo aveva capito. E, oltre a rovinare sé stesso -che infondo ne aveva tutto il diritto-, stava rovinando probabilmente tante altre persone. Stava facendo preoccupare gli unici che gli erano rimasti intorno e stava facendo illudere chi provava ad avvicinarglisi. Non c'era niente di bello in tutto quello. Niente di giusto in quella situazione. Niente che si fosse salvato come aveva promesso a sé stesso. Si era fatto autogol, per così dire. Si era sbarrato il percorso da solo.

Però c'era sempre un modo per rimediare.

Poteva impegnarsi per mandare di nuovo la palla in porta e, se non vincere, almeno pareggiare.

Poteva scavalcare tutti i muri che lui stesso aveva costruito, ma ovviamente doveva cominciare dai piccoli gesti. I più subdoli.

E già rassegnato a tutto il male che avrebbe dovuto compiere, lo capì: Gerard faceva parte di qualcosa, se non del mondo che aveva intorno, almeno del suo.

Si alzò con il cuore che gli martellava il petto e la testa che improvvisamente pesava svariati chili più del solito, e cominciò a vivere dopo un bel po' di tempo.

Aveva tutte le intenzioni di impegnarsi come non aveva mai fatto.

 

**

 

Frank non sapeva esattamente cosa fosse successo.

Sapeva solo che un secondo prima stava ordinando da bere per lui e Jamia e che un secondo dopo quest'ultima era passata da occhi “a cuoricino” ad occhi da “ti spezzo le gambe”, tutto nel giro di massimo dieci minuti in cui il ragazzo era sicuro di non aver fatto niente di male.. a meno che respirare e camminare non fossero diventate due cose che davano particolarmente fastidio alle ragazze, che cazzo ne sapeva lui, mica ne aveva mai capito nulla della mente femminile.

Allora si era trovato da solo in uno degli angoli un po' più tranquilli del locale, fra le mani quei due drinks che aveva pagato anche un po' troppo e nella testa tutta quella confusione che non riusciva a gestire. E siccome si sentiva particolarmente in vena di non sprecare, quella sera, decise di berli entrambi. E fu un po' in quel momento che tutto fece click, che i tasselli tornarono a posto.

Ricordava di aver visto Gerard al bar. Un secondo prima gli aveva detto “ciao” e un secondo dopo era andato via senza nemmeno salutare. Magari non erano le persone a sparire o cambiare idea troppo in fretta ma era solo lui ad essere lento, però, ora che ci pensava, poco prima di tornare da Jamia aveva visto il più grande praticamente scappare via. Quindi le cose erano due: o stava correndo fuori a vomitare -cosa che ormai era all'ordine del giorno-, o aveva fatto qualcosa. Qualcosa che lo aveva fatto vergognare tanto, o almeno qualcosa che non voleva si scoprisse opera sua.

Click.

Frank uscì dal locale con la stessa velocità con la quale era riuscito a farlo l'altro dieci minuti prima, e come volevasi dimostrare, lo trovò ancora lì.

«Gerard.» Frank gli urlò dall'altro lato del parcheggio deserto, sperando che non facesse finta di non sentirlo anche quella volta e che la smettesse di dargli le spalle. «Gerard!» Disse più forte, e quest'ultimo accelerò il passo. Frank allora fece la stessa identica cosa: era ridicolo che dovesse rincorrerlo per parlargli, ma non c'era modo. Non c'era più modo per stargli intorno. Non c'era mai stato altro modo per amarlo, anche se, prima di quel momento, il suo “correre” era stato sempre e solo metaforico. «Gerard.» Lo afferrò per la spalla, bloccandolo con una forza della quale non si credeva capace. Riprese fiato, guardandolo negli occhi per la prima volta dopo tanto tempo. Sul fatto che fossero diversi non c'era dubbio, ma così tanto non avrebbe mai pensato.

«Frank.» Rispose l'altro, casuale come non mai.

«Che cazzo hai fatto?» Chiese, un tono quasi implorante. Lasciò la presa, continuando ad attendere un qualsiasi tipo di risposta. Gli dispiaceva che non fosse capace di considerare le conseguenze delle sue azioni, ma certe volte non riusciva a credere che fosse davvero così incurante. Certe volte non riusciva a non pensare che, magari, quel personaggio che si era creato non fosse altro che un pretesto per fare sempre ciò che voleva. Gerard sospirò, guardando a terra. Frank capì che era davvero dispiaciuto per qualsiasi cazzo di cosa avesse fatto quella volta (o che almeno si stava impegnando per farglielo credere, in quel caso A«), e ancora una volta la sua rabbia calò considerevolmente. «Gerard..» Disse, questa volta quasi come se stesse cercando di consolarlo.

«Volevo solo che me ne parlassi, prima di vederla.» Rispose, e Frank non riuscì a credere che la ragione fosse semplicemente quella. «Volevo che sapesse che voi due non eravate destinati a stare insieme.» Continuò, e nonostante stesse cominciando letteralmente a delirare, il più piccolo non riuscì a non dargli ragione. Aveva semplicemente fatto ciò che un giorno avrebbe dovuto fare lui. Gli aveva risparmiato l'ennesimo ostacolo, ma ancora una volta gli aveva tolto ogni possibilità per ricominciare. Aveva murato l'unico foro dal quale vedeva provenire uno spiraglio di luce, e Frank non riuscì ad ignorare il fatto che forse, per quanto gli fosse grato di avergli risparmiato l'immagine di Jamia con le lacrime agli occhi per colpa sua, bhè, probabilmente era qualcosa che avrebbe semplicemente meritato. Probabilmente doveva farlo lui, era come una specie di rito di passaggio, un modo per dire a sé stesso che era finalmente non aveva più bisogno di nessuno. Che era capace di organizzare da solo la sua vita. «Tu non sei suo e le non è tua.»

«Ma cosa significa tutto questo, Gerard?» Frank prese un respiro profondo ad occhi chiusi, cercando di dimenticare la tensione e fermare le sue stupide e inappropriate lacrime prima che scendessero.

«Che lei non era adatta a te.»

«Questo, se permetti, avrei dovuto deciderlo io.» Cominciò, esponendo l'innegabile realtà dei fatti. «Nemmeno io credo che quel tipo sia adatto per te, e per quanto io abbia provato a fartelo capire non mi sono mai messo in mezzo. E l'unica volta che l'ho anche solo guardato mi ha picchiato a sangue. Nemmeno io credo che ti faccia bene sniffar-» Continuò, e dopo aver detto quella fantomatica parola, gli occhi di Gerard si fecero enormi. «Credi sul serio che non lo sappia? Ormai lo sappiamo tutti. E proviamo ad aiutarti, ma tu non vuoi l'aiuto di nessuno, giusto? Tu sei forte. Fortissimo, no? Lo hai detto tu, e allora noi ci fidiamo. Io mi fido.» Disse, fermandosi per tirare su col naso. «Io mi sono sempre fidato di te e adesso guarda che situazione del cazzo.» Frank disse, e nel dirlo, vide una lacrima rigare il volto dell'altro.

«Io non vedo altra via d'uscita, dimmi- dimmi- dimmi tu cosa dovrei fare.»

«Stai. Con. Me.» Disse Frank, scuotendolo per le spalle e scandendo con maniacale precisione ogni parola così che, almeno quella volta, il messaggio arrivasse forte e chiaro. L'altro rimase a bocca aperta nel vero senso della parola, e il più piccolo cominciò giusto un po' ad iperventilare. «Io lo so che sono banale. Lo so, non puoi immaginare quanto ne sia consapevole, però non è colpa mia. Non è colpa mia se mi sono posto tanti obiettivi che non sono riuscito a raggiungere, se mi sono detto che un giorno sarei riuscito a scalare tutte queste montagne, a riempire tutti i tuoi vuoti. Non è colpa mia e non è nemmeno colpa tua.» Disse, prendendogli le mani quando lo vide abbassare il capo per nascondersi. «Però adesso possiamo ricominciare da qui, e non importa se sei lontano.» Disse, liberando le loro mani da quell'intreccio e abbracciandolo come non faceva da troppo tempo. «Qui.» Disse di nuovo.

Frank non era mai stato nulla per nessuno. Era una cosa difficile da descrivere perché di solito, se ne parlava con qualcuno e gli esponeva sinceramente tutte quelle sue preoccupazioni, c'era sempre quell'amico che gli diceva che aveva lui. Che aveva i suoi genitori. Che aveva tanta gente che gli voleva bene e nemmeno si rendeva conto che per Frank non era abbastanza. Che forse Frank stesso non era abbastanza, e non lo era mai stato.

Perché infondo cos'era stato?

Un “bravo ragazzo” che non aveva mai avuto voti abbastanza buoni a scuola per essere considerato un prodigio, che non era mai andato abbastanza bene in nessuno sport per essere considerato un atleta, che non era mai stato abbastanza alto secondo il pediatra, che in un periodo era come tutti gli altri e non si sentiva abbastanza per i suoi standard personali e in un altro decideva improvvisamente di comportarsi come cazzo gli pareva e non era più abbastanza per gli altri. Poi era arrivato lui, e nonostante Frank capisse quanto ridicolo fosse il fatto che avesse avuto bisogno di un'altra persona per sentirsi finalmente, per l'appunto, abbastanza, non era qualcosa che poteva cambiare, a quel punto. E le cose erano semplicemente andate così. Si aggrappò ancor di più al corpo immobile davanti a lui quando lo realizzò, ma prima che potesse aprire nuovamente bocca, l'altro si staccò dalla presa e andò via.

Ma quella volta Frank non avrebbe corso.

Affatto.

Quella volta le gambe facevano male quasi quanto il cuore all'idea che non c'era più nulla da fare.

 

**

 

Altro capitolo corto. Ungh. Fa nulla, perché onestamente con tutte le cose che sono successe nell'ultimo periodo è già tanto così.

Intanto, prima cosa, lo scioglimento del gruppo

Penso ci siate rimaste tutte di merda come me e su questo possiamo concordare, no?

Cioè, non me la sentivo proprio per nulla di scrivere qualsiasi cosa riguardante loro perché ogni cinque minuti continuavo a pensare che almeno come band non esistevano più, quindi okay, non ho idea, davvero. <3

Starei qui ore intere a parlare di quei primi tre giorni post-breakup ma mi pare proprio inutile <33333

Quindi, umh.

Se devo essere onesta credo anche di aver ucciso la grammatica italiana ma non ho più la forza di star qui a correggere e rimuginare qualcosa che nemmeno mi aggrada tanto,ma sappiate che il prossimo capitolo è già scritto e mi piace più di questo, quindi esultate con me UoU (oddio cosa cazzo è)

Ah, ho anche incominciato a scrivere altra roba che non c'entra niente con questa storia, giusto perché avevo bisogno di staccare un po' la spina e poi, alla fine, tutte le bozze mi sono cominciate seriamente a piacere, dunque stay tuned perché anche se questa storia è quasi al culmine potrei anche postarle, un giorno di questi \m/

E niente, dai <3

La canzone che viene spezzettata nel testo della storia è "Jesus Christ" dai Brand New, ed è talmente bella che credo che prima di nascere dovrebbero farla ascoltare a qualsiasi neonato, proprio come requisito per vivere sulla terra (ergo: vi conviene sentirla) <3

Il titolo del capitolo è tratto da “The ballad of sal villanueva” dei Taking Back Sunday e cazzo, mi rendo conto solo ora che per colpa di questa maledetta fanfiction sto sviluppando delle conoscenze in argomenti un po' strani (?) (Vedi anche: preparazione di superacolici e iniziative per il recupero dei tossicodipendenti)

Alla prossima -il prima possibile-, e fatevi sentire (??????) <3

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** What's life like bleeding on the floor? ***


16. What's life like bleeding on the floor?

 

 

 

Quel mattino si svegliarono tutti di buon umore: eccezion fatta per Gerard, al quale nessuno faceva più caso siccome sembrava vivesse continuamente in uno stato di profondo e cosmico scazzo, dal momento in cui apriva gli occhi fino a quello in cui andava a dormire. Era quasi routine.

E si poteva dire quasi che il motivo della felicità che accomunava quattro su cinque di loro era sicuramente il fatto che stessero per partire, lasciando (finalmente) alle spalle proprio quella routine e qualsiasi cosa, persona o abitudine che la riguardasse. Eccezion fatta, anche questa volta, per Gerard, che invece sembrava quasi contrariato all'idea di non avere più un pretesto per fare ogni sera qualsiasi cosa potesse, a lungo andare, ucciderlo. Eppure nessuno ci fece caso: era solo un abitudine e sarebbe passata una volta imboccata l'autostrada che li avrebbe portati a casa, pensavano tutti.

Tutti tranne Frank.

L'idea che quella situazione potesse perpetuarsi più a lungo di quanto non avesse già fatto era insostenibile e molto spesso cercava di scacciarla, eppure restava lì a tormentarlo nei momenti meno opportuni, come un incubo. Non che le sue fossero paure infondate, a dire il vero: quelle di Gerard non erano solo cattive abitudini e il suo comportamento non si poteva semplicemente giustificare così, pensando alle “brutte influenze” che aveva avuto in quell'ultimo periodo o qualcosa del genere, manco fosse un liceale alla prima sigaretta. Frank sapeva che la più brutta di tutte le brutte influenze per Gerard era proprio sé stesso, e il fatto che non potessero aiutarlo era peggio di tutto. La verità era che poteva proteggerlo dal mondo intero e per anni ci aveva provato, senza capire quanto fosse inutile tenerlo in quella campana di vetro quando poi era lui stesso a farsi del male. Non che non avesse fiducia in lui, anzi. Il problema era che si trattava pur sempre di sostanze tossiche, che indipendentemente da chi ne facesse abuso rendevano l'individuo dipendente, senza distinzioni: il fatto che fosse Gerard, che si fidasse di lui nonostante tutto, che fosse ancora il suo migliore amico e forse anche un po' di più non aveva nulla a che vedere con tutto ciò. Questa volta la fiducia non c'entrava: e anche se ci fosse entrata qualcosa, Frank cominciò veramente a chiedersi se fosse ben riposta, e non appena schiuse gli occhi, parte del sollievo che lo aveva preso in un primo momento lo abbandonò di fretta e furia, lasciandolo ad un ennesimo dibattito mentale con la pecora nera (così la definiva, ogni volta che gli metteva in testa cosa che per quanto fossero giuste si rifiutava di credere) del suo cervello.

Non c'era tanto da fidarsi di lui, in effetti, e pian piano lo stava capendo;

Lo aveva pregato più e più volte di darsi una calmata con qualsiasi cosa stesse facendo, ed il fatto che lo sentisse già lamentarsi per la mancanza di alcool alle sette e trentadue del mattino era una chiara prova che si era rifiutato di ascoltarlo. Lo aveva trascinato via da chiunque avesse anche solo l'aspetto di qualcuno che potesse peggiorare la situazione, a costo di sembrare una di quelle madri apprensive e paranoiche, eppure era corso indietro come se non avesse nessun altro a cui aggrapparsi. Ma più di tutto, questa volta non solo lui, gli aveva chiesto di rivalutare quello che stava facendo e di chiedersi se ne valesse la pena.. e di nuovo, il fatto che avesse trovato una mezza bottiglia di birra avanzata dalla sera prima e la stesse anche finendo (alle sette e trentaquattro del mattino), rendeva ancora più ovvio il tutto.

Frank non poteva fidarsi di Gerard.

Nessuno poteva, a dire il vero.

Non in quel momento.

Si ricordava ancora il periodo in cui si era fidato talmente tanto di lui che era quasi comico: aveva avuto abbastanza fiducia in lui da lasciargli il suo numero il primo giorno che lo aveva conosciuto dopo sì e no dieci minuti di conversazione, si era fidato di lui quando gli aveva proposto di fare un cazzo di scherzo di merda alla sua famiglia ed aveva accettato, dopo essersi lasciato convincere che nessuno ce l'avrebbe avuta con lui una volta giunti al termine di esso, ma la prova più eclatante di tutte stava nel fatto che si era fidato così tanto della stessa persona che adesso a malapena gli rivolgeva la parola da perdere la verginità con lui, okay, e per quanto fosse imbarazzante anche solo pensarlo non c'erano mezzi termini, era così.

E adesso lo guardava e non sentiva nient'altro che pentimento.

Frank non era il tipo che di solito si pentiva delle cose che faceva. Era sempre stato convinto che bisognasse fare tutto ciò che si desiderasse, a patto di rivalutare tutto a tempo debito.. eppure in quel periodo cominciava a pentirsi di un sacco di cose, e fra tante c'era quella. Ancora più ridicolo, forse, era il modo in cui tutte le altre gravitavano comunque intorno a lui.

Frank si stropicciò il volto, lasciando perdere tutto quello che aveva in testa: per quel giorno ne aveva fatte abbastanza delle sue riflessioni zen, e giungere alla conclusione che non poteva avere fiducia nel ragazzo di cui era innamorato, era già tanto per un giorno solo. Sospirò, prima di uscire dal suo scompartimento e cominciare ufficialmente una nuova giornata. Non nel migliore dei modi, ma almeno era ancora vivo.

Tossì un paio di volte per schiarirsi la voce, e senza neanche guardarsi allo specchio, raggiunse i tutti a tavola (per quanto si potesse considerare tale uno di quei tavolini da pic-nic pieghevoli), rendendosi conto di essere l'ultimo. Si mise a posto, rispondendo al coro di “buongiorno”, “ecco la bella addormentata”, eccetera, eccetera, e con la consapevolezza che forse non era più così contento come la sera prima. Sospirò, cercando di fissare lo sguardo sulla tazza di cereali che gli avevano già piazzato sotto il naso, manco avessero paura che morisse denutrito, e di non pensare all'inopportuna sistemazione dei posti e al fatto che Gerard fosse lì, davanti a lui, e lo stesse guardandolo come se si aspettasse che gli dicesse qualcosa. Anche se, non avendo proprio niente da dire, rimase zitto.

Frank affondò controvoglia il cucchiaio nella sua tazza, quasi disgustato dal modo in cui quei cereali sembravano essere stati a mollo in quel latte per una notte intera. Ne inghiottì una cucchiaiata o due, giusto per ricaricarsi con un minimo di zuccheri prima di mettersi in viaggio per una giornata intera, e poi la spinse leggermente in avanti, solita abitudine.

«Lo sapevate che dobbiamo lasciare il bus qui?» Mikey, fra tutto il chiacchiericcio mattutino, fu l'unico ad attirare l'attenzione di Frank, con quella frase: sgranò gli occhi al massimo delle sue possibilità, in quanto pochi minuti prima avesse trovato difficoltà anche nel tenere le palpebre schiuse, e lo guardò in cerca di maggiori spiegazioni. «Mh-mh..» Annuì fra sé e sé il più piccolo dei fratelli. «In pratica è proprietà dello sponsor che l'ha fornito e ci serviva solo per “accamparci” qui. Che puttanata.» Sbuffarono tutti alla notizia, consapevoli che si sarebbero beccati di nuovo quel vecchio van che funzionava per miracolo e puzzava di piscio, piuttosto stupiti di non averci pensato prima.

«Voleranno delle teste.» Borbottò Matt, alzandosi per riporre la tazza di caffè che stava sorseggiando -ormai vuota- nel lavello, dove a quel punto si accumulavano un numero indefinito di supplementi da cucina sporchi e non.

«Abbiamo resistito per secoli in quel coso, direi che possiamo farcela per un giorno, mh?» E come al solito, Gerard dovette trovare un motivo per lamentarsi: e non per lo scomodo mezzo per viaggiare, ma per il fatto che gli altri avessero iniziato una conversazione che a quanto pare a lui non importava. Come ogni cosa, dopotutto. «Apprezzate almeno il fatto che ce l'abbiano dato.» Continuò, dopo essersi reso conto che dopo la sua affermazione era caduto il silenzio per la prima volta in almeno mezz'ora da quando si erano svegliati tutti.

«Ci dispiace, Gandhi.» Esordì Ray, ridacchiando fra sé e sé con quel ghigno che avrebbe potuto far scoppiare a ridere anche nel pieno di un funerale, riemergendo da chissà dove. Per fortuna il moro sorrise, calmando stranamente i suoi improvvisi istinti un po' troppo hippy. E Frank, come al solito, continuava a tacere, limitandosi ad un sorriso.

«Dico solo che entro domani sera saremo a casa, cioè, potrebbe andare peggio, no?» Continuò, addentando un toast. Il chitarrista non sapeva cosa ci fosse in Ray (forse era la voce, forse il fatto che avesse sempre un buon modo per sdrammatizzare ogni cosa, ma molto più probabilmente era la pettinatura da cazzone), eppure riusciva a far calmare Gerard ogni santissima volta, e quasi lo invidiava per quella sua capacità. Perché per quanto lui ci provasse, non ci era mai riuscito quanto lui. Non in maniera così spontanea, almeno.

«Dio santo, una doccia vera.» Cortez si beò, affondando ancora di più nella sedia con gli occhi chiusi ed un espressione sognante in volto. Era assurdo il fatto che una cosa semplice e alla portata di tutti come una doccia potesse mancare così tanto, ma nessuno dei ragazzi poteva biasimarlo: di certo dopo aver fatto la loro prima esperienza seria ad un festival avevano capito l'importanza dell'igiene e quanto certe volte fosse un bisogno primordiale sentirsi un po' più profumati di un cavallo morto nell'età del bronzo.

Avevano solo un tubo condiviso, lì: era come una di quelle pompe da giardinaggio, e per mezz'ora al giorno erogava acqua calda. Considerando il numero dei gruppi e la precedenza a quelli che avevano più date, non serviva un genio a capire che a loro, ovviamente, restava il turno degli ultimi due minuti.. ed essendo in cinque, si poteva ben dedurre quanto fosse sempre una lotta. Frank si ricordava ancora quella volta che un anno prima si era lavato a freddo per la disperazione, e il giorno dopo aveva suonato con un trentasette e mezzo di febbre. Eppure, nonostante tutto, non riusciva a pentirsi. Ed il fatto più triste era che non ci riusciva per via delle attenzioni che si era beccato da parte di Gerard nei giorni di convalescenza. Probabilmente era solo perché non gli andava di rimanere con un chitarrista febbricitante per più di due o tre giorni, ma a Frank piaceva credere che fosse per puro volere. Fu proprio quando si sentì interpellare a proposito di un argomento completamente diverso che il ragazzo si rese conto che forse era rimasto a fantasticare per un po' troppo tempo, e decise di ricomporsi, facendosi ripetere nuovamente la domanda e cercando di rispondere al meglio.

«A nessuno piace quel disegno che ti ho fatto vedere l'altro giorno. A nessuno piace mai un cazzo qui. A te piace, vero?» Ci mise un secondo a processare il fatto che era Gerard che gli stesse parlando, e poi cercò di ricordarsi il disegno in questione. «Vero che ti piace?» Il cantante sorrise di gusto, stranamente, e subito il più piccolo si sentì la bocca impastata, le parole bloccate in gola e uno strana felicità che non si sapeva spiegare.

«La scimmia con la testa da uomo?» Improvvisamente si ricordò, ed in effetti era una figata. L'intera storia dietro il personaggio lo era, a dire il vero, ma Frank non riusciva a ricordarsela in quel momento. Era già un miracolo che si fosse ricordato come parlare, figuriamoci.

«È un uomo con un corpo da scimmia.» Gerard sbuffò, roteando gli occhi in quel modo così esasperato che al ragazzo non fece altro che far ridere, eppure decise di contenersi, sghignazzando solo quando il genio incompreso abbassò lo sguardo sulla cartellina con i disegni. E a proposito, quando e da dove era saltata fuori? «Spaceboy.» Disse, facendo una strana smorfia di noncuranza dopo aver trovato il nome che tanto aveva cercato in quegli ultimi giorni e continuando a colorare qualcosa di celeste sulla sagoma del corpo del personaggio.

«Per me hai perso tutta la credibilità già dalla seconda pagina.. chi cazzo le ha messe incinte tutte quelle donne?» Si lamentò Mikey, che stranamente aveva la stessa identica opinione che Frank semplicemente non aveva avuto il coraggio di esprimere. Di solito non si tratteneva se si trattava di dire la sua, ma.. lui era lui. Nessuno gli rispose, ad ogni modo, e cercò nuovamente un modo per attirare l'attenzione. «Io vado a raccattare gli strumenti, chi mi accompagna?» Si alzò l'occhialuto, guardando il gruppo di gente troppo pigra per accettare che si ammassava intorno a lui. Sbuffò, ed in un certo modo ricordò Gerard, prendendo per i polsi Ray e Matt e trascinandoli con sé verso l'uscita del bus che di lì a poco avrebbero dovuto abbandonare.

Cazzo. No no no no. No.

Frank si sarebbe letteralmente tagliato un orecchio per non rimanere solo con il più grande dei Way, perché questo avrebbe certamente portato ad un nuovo litigio proprio ora che le acque sembravano essersi calmate, e quando fece per alzarsi i ragazzi erano già troppo lontani, e Gerard lo stava guardando con le sopracciglia aggrottate ed un espressione quasi sul dispiaciuto stampata in volto che gli faceva venire una voglia matta di rimanere, e- e così rinunciò, rimettendosi seduto. Se fosse andato tutto bene, nessuno dei due avrebbe aperto bocca. Sospirò, sentendosi improvvisamente male con sé stesso per aver pensato tutte quelle cose appena qualche minuto fa. Si mordicchiò il labbro, nervoso, prese a mangiucchiarsi le unghie e a picchiettare il piede a terra, e tutto questo non servì ad altro se non a rendere ancora più ovvio il fatto che in quel momento si sentisse in tanti modi, ma di certo non a suo agio.

«Tutto okay?» Domandò Gerard, alzando lo sguardo assorto dal suo block notes.

«Mi dispiace.» Frank non rispose alla domanda, ma disse certamente quello che l'altro voleva sentirsi dire, e ancora una volta aveva ceduto. Non credeva di essere colpevole quella volta, eppure proprio non era riuscito a trattenere quelle due parole. Gerard era il suo migliore amico, e secondo questo presupposto, sarebbe dovuto essere il primo a venire a sapere di Jamia. Eppure le cose si complicavano perché, in effetti, almeno dal lato di Frank ci si metteva in mezzo qualcosa di un po' più grande della semplice amicizia ed era così difficile che gli aveva semplicemente fatto rinunciare a tutto. Era brutto sapere che, qualsiasi tipo di contatto avessero mai avuto, sarebbe stato sempre Frank a dare di più: era più innamorato, più clemente, più stupido, per così dire.

Succedeva quasi in tutte le relazioni: c'era sempre chi era disposto a fare di più dell'altro, ma le coppie normali (e bastava pensare al fatto che loro non fossero nemmeno una coppia per rendersi conto di quanto la bilancia cadesse da un sol lato) avevano un equilibrio che Frank invidiava tanto, e che permetteva ad entrambi di vivere bene insieme, senza quasi nemmeno accorgersene.

Gerard gli aveva sempre dato una parte di sé, questo non poteva negarlo; aveva capito più cose su sé stesso e su quello che lo circondava in generale da quando conosceva quel ragazzo che in tutta la sua vita, eppure pareva che gli venisse naturale comportarsi da mentore con tutti, senza considerare differenze di età o circostanze varie. Dopo tanto tempo Frank era arrivato alla conclusione che Gerard era un'artista, ed essere geniale in quel modo gli veniva naturale. Quella parte di sé che gli stava donando non apparteneva solo a lui, ma a chiunque avesse avuto modo di parlarci anche solo per cinque minuti, perché lui era così.

Quello che ogni giorno Frank gli donava era più implicito: non erano lezioni di vita o frasi di quelle che gli facevano pensare. Non erano lunghe chiacchierate notturne che lo aiutavano a placare quei pensieri che gli impedivano di dormire, e nemmeno quelle cominciate per caso quando, invece, aveva veramente bisogno di qualche ora di sonno: era la comprensione. Era Frank che metteva in gioco qualcosa che non gli veniva naturale, qualcosa che doveva sforzarsi per fare.

E infondo, quello che faceva non era negli istinti di nessuno. Si scusava, diventando carnefice anche se era vittima. C'era sempre per lui, e non con le parole, perché con quelle non era lui l'esperto, ma anche solo per abbracciarlo quando era giù. Gli aveva perdonato tutto e pian piano gli stava offrendo ogni pezzo di sé, convinto che un giorno non ne sarebbe rimasto più molto.

Eppure Gerard sembrava darlo per scontato; anzi, a dire il vero, sembrava quasi non gradire quello che ogni giorno Frank provava a dargli (perché infondo voleva). Come uno di quei maglioni di lana fatti a mano dalla zia. Di quelli che ti regalano a Natale, e che anche se vorresti buttare nella spazzatura, ti ostini a tenere giusto per pietà.

Il più piccolo dei due si trovò così immerso nei suoi pensieri che nemmeno si accorse del fatto che Gerard si era alzato, posando sul tavolo colori e fogli e avvicinandosi a lui. Lo abbracciò, semplicemente, con un espressione illeggibile che non era né un sorriso e né un broncio. Frank inalò il più possibile di quell'odore così buono che gli era mancato così tanto che quasi faceva male, e poi ricambiò, stringendosi ancora più forte contro il corpo caldissimo dell'altro. Nemmeno si accorse di aver lasciato che il suo volto affondasse nell'incavo del collo del ragazzo, facendoci caso solo quando Gerard cominciò a parlare e sentì il suo fiato caldo nei capelli.

«Mi manca il mio migliore amico.» Fu quasi un sussurro, e la sua voce suonò così spezzata che Frank quasi ci credette. «Mi manca quando mi dicevi tutto, ed è per questo che mi sono comportato da stronzo..» Il più piccolo lo strinse ancora più forte, desiderando solo di rimanere così per sempre. «In realtà so che è colpa mia.. ed è a me che dispiace.» Per poco non si sentì mancare al suono di quelle parole: gli avrebbe potuto dire mille cose in quel momento. Era l'attimo perfetto per dirgli che lo amava, per dirgli quanto era stato male in quel periodo o semplicemente per dirgli quanto fosse contento che finalmente si stesse scusando. Eppure non disse niente di tutto quello.

«È tutt- tutto okay..» Balbettò, in maniera piuttosto patetica. «Ti voglio bene..» Continuò, e quella fu più o meno la frase di chiusura di quel momento. Desiderò di non averla mai detta, quando Gerard si allontanò da lui e gli sorrise, ma infondo le cose non andavano così bene da chissà quanto, e non poteva ritenersi insoddisfatto.

Frank si rimangiò tutto;

Quello era decisamente il risveglio migliore degli ultimi due mesi.

 

 

**

 

Che Gerard avesse sempre avuto una certa fissa per il sangue, la pelle, il corpo umano e tutto ciò che lo riguardasse, era una cosa risaputa: il problema stava nel capire quando quella semplice fissa si fosse trasformata in autolesionismo e per quale motivo, e nonostante riuscisse con facilità a ripercorrere i suoi passi sulla strada dell'ossessione, era difficile da un lato più personale.

Aveva solo tre o quattro anni quando sua madre cominciò a portarlo con lei dall'estetista, troppo spaventata di tornare e trovare la casa sottosopra al ritorno.

Per qualche strano motivo, uno dei suoi primi ricordi (e, più di vent'anni dopo, lo sentiva ancora come se fosse ieri), era un discorso fra sua madre e la proprietaria di quel piccolo centro di bellezza in cui parlavano della pelle di Donna. Ora, Gerard da bambino non aveva la minima idea di cosa tutto ciò volesse dire, ma nella sua mente arrivò alla conclusione che la pelle fosse come uno scudo, come una corazza. E sapere di essere ricoperti da un'armatura del genere, insieme alla curiosità e alla fantasia di un bambino, a cosa lo aveva portato? Semplice.

Quella sera stessa, quando si mise a letto, non riuscì a smettere di pensare a quello che aveva sentito quel giorno: cominciò a pizzicarsi, grattare piccole aree di pelle con le unghie, tirarne qualche minuscola parte via, incurante di quel poco dolore già attenuato dalla soddisfazione di aver scalfito finalmente quella “indistruttibile” corazza di cui era ricoperto il suo corpo.

Non passò molto prima che i suoi genitori se ne accorgessero, e nonostante fosse ovvio che ad un bambino di massimo quattro anni non passassero per la mente certi meccanismi psicologici, quando il medico di famiglia gli consigliò di portarlo da uno psicologo, pensarono bene di farlo.

Venne fuori che aveva una brutta forma di dermotillomania, un disordine ossessivo-compulsivo che lui non poteva fare molto per fermare, trattandosi di un paziente così giovane, ma che sua madre riuscì almeno ad attenuare con dei piccoli sotterfugi come farlo dormire con dello scotch fra le dita, tagliargli spesso le unghie, delle pillole di valeriana per farlo dormire meglio.

Il disordine passò nel giro di due mesi, e fu ben presto dimenticato ed archiviato dall'intera famiglia come un semplice brutto periodo che ormai si era già concluso.

Anche Gerard se n'era quasi dimenticato, ma, quando alla scuola elementare cominciarono le lezioni di scienze, per quanto basilari furono ugualmente capaci di risvegliare quel suo piccolo tic che, a nove anni compiuti, riprese più forte che mai. Certo, ancora non si rendeva conto che doveva nasconderlo ai suoi genitori, e fu per questo che, per la seconda volta, lo psicologo “di famiglia” si trovò nuovamente alle prese con il ragazzo, questa volta era già più capace di esporre i suoi problemi.

Apparentemente, a far scattare la scintilla della sua dermo, fu la lezione sul sangue: ora era abbastanza grande e cominciava a capire le funzioni del suo corpo, e trovò così affascinante il fatto che a far funzionare tutto fosse un semplice liquido, che di nuovo, prese a grattare via la pelle alla ricerca di esso. Questa volta in sezioni sempre più ampie, ed in maniera sempre meno superficiale.

Lo psicologo cominciò a credere che volesse attirare l'attenzione: diede la colpa alla nascita di suo fratello e alle premure che i suoi genitori, probabilmente, stavano rivolgendo in maniera maggiore al piccolo Mikey piuttosto che a lui, e nuovamente, la famiglia accettò il verdetto, dimenticando (volontariamente) di considerare i problemi che Gerard stava avendo con i suoi compagni di classe.

Di nuovo, con la prescrizione di un leggero farmaco di valeriana, tutto si fermò in meno di un mese, per poi ricominciare nel peggiore dei modi in seconda media.

Gerard era cresciuto, e il non avere amici, in quel momento, cominciava a pesare. Quando hai ancora otto o nove anni non è un problema, ma quando cominci a vedere tutti crescere sotto i tuoi occhi, comitive che si formano a più non posso, quando comincia quel momento in cui si inizia ad uscire e si torna relativamente tardi la sera e tu ti rendi conto che stai passando il sabato da solo a casa mentre tutti sono fuori con gli amici, allora, cominci a pensare che ci sia qualcosa di sbagliato in te. E se fino a quel momento Gerard non aveva mai pensato che quello che faceva con la sua pelle potesse rilassarlo, dovette ricredersi quando cominciò a punzecchiarsi con una matita durante le ore di lezione. Non si trattava più di semplice fascinazione nei confronti della sua “corazza”: anni di studio gli avevano fatto capire che la sua pelle non era indistruttibile. Il problema era che più il tempo passava, più lui stesso rimaneva distrutto dal modo in cui i suoi anni da adolescente stavano passando. Quelli che gli avevano sempre dipinto come “gli anni migliori”.

Non era nemmeno rilassante, in un certo senso: non lo era affatto, a dire il vero, era semplicemente l'unica distrazione che aveva lì a portata di mano. A volte si isolava nei suoi pensieri, ma come al solito, questi ultimi finivano sempre per toccare quei tasti dolenti che lo avevano spinto a volersi allontanare dalla realtà esterna. E non puoi scappare dalla tua stessa mente.

Perciò, detto fatto, si metteva come sempre nell'angolo della classe, solitario e con un temperamatite sempre a portata di mano. Una volta aveva punzecchiato, grattato, tirato così tanto lo stesso punto che aveva preso a sanguinare in classe.

E aveva sorriso.

Non aveva mai pensato di poter sorridere per del dolore fisico, eppure era successo. Le delusioni si accumulavano l'una sull'altra, come una pila di fogli simile a quella dei suoi test andati male, e non solo sul piano sociale, a quel punto della sua vita. La scuola andava male, in famiglia si litigava, e dubbi di ogni tipo cominciavano a pesargli sulle spalle. L'unica cosa che lo liberava un po' da tutto questo, era il piccolo “vizietto” che negli anni, nuovamente, non aveva fatto altro che peggiorare.

La prima volta che si tagliò seriamente fu all'ultimo anno di liceo, in pieno inverno: Gerard non era sicuro di come avrebbe dovuto gestire la situazione, e se qualcosa fosse andato storto, avrebbe almeno potuto nasconderlo sotto strati di magliette e felpe, dando la colpa alla gelida aria del Jersey nel mese di febbraio. Era febbraio, per l'appunto, il ventidue, quando il suo rasoio trovò anche una seconda occupazione. Il primo fu un taglio netto, preciso e poco profondo: Gerard doveva ammettere che, nonostante stesse pensando di farlo da un bel po', la paura era ancora tanta. Ricordava chiaramente il momento in cui, con delle lacrime agli occhi che non aveva lasciato scendere, osservò un rivolo di sangue colargli lungo l'avambraccio, sorridendo. Si sciacquò immediatamente, medicandosi ed aspettando che la ferita fosse completamente rimarginata prima di provarci di nuovo- perché era ovvio, a quel punto, che ci sarebbe stata una seconda volta. E una terza. Una quarta. Una quinta.. finché, già due mesi dopo la prima incisione, non perse il conto.

Dopo un po' di tempo, in effetti, smise persino di aspettare che i tagli si rimarginassero per farne di nuovi: aveva capito che dopo un po' scomparivano sempre, anche totalmente, e non aveva nessun motivo di preoccuparsi che in qualche modo si potessero vedere, ad estate giunta. Sarebbe bastato solo evitare qualsiasi contatto con il rasoio che non includesse la barba come tramite per le due settimane precedenti alla loro vacanza al mare e sarebbe andato tutto bene, no?

Certo, quando a marzo aveva organizzato tutto con così maniacale precisione, non avrebbe mai immaginato che non sarebbe riuscito a smettere.

Era stato Mikey il primo a notarlo: Mikey notava sempre tutto. Erano in spiaggia, e Gerard era rimasto per quindici minuti buoni nella cabina per cambiarsi, deciso a non uscire come se il tempo passato lì dentro lo avesse potuto aiutare a far scomparire tutti quegli orrendi graffi che andavano dal polso fin quasi alla piegatura del braccio. Continuò a rifiutare, rifiutare, rifiutare persino quando suo fratello lo implorò di uscire, dicendo che quelli erano gli ultimi mesi insieme prima della sua partenza per New York, dicendo che non voleva che stesse male, qualunque cosa fosse successa, dicendo che si sarebbe divertito, dando persino la colpa ad una semplice vergogna di mostrarsi in costume, e Gerard rifiutò di nuovo. A quel punto Mikey entrò, temendo il peggio e trovando esattamente quello. Il più grande si nascondeva, seduto in un angolino, rannicchiato su sé stesso con le gambe strette al petto, e quando fu obbligato a mostrare i polsi, entrambi si trovarono davanti alla innegabile verità: c'era qualcosa che non andava. Gerard lo pregò di non dirlo ai loro genitori, terrorizzato dalla reazione che avrebbero potuto avere -temette persino che non lo avrebbero mandato a continuare i suoi studi da solo-, ma ancora una volta non fu ascoltato, e nuovamente era in quello studio dalle pareti giallognole, seduto di fronte allo stesso uomo che anni prima gli aveva prescritto della valeriana per un piccolo tic e che adesso gli stava prescrivendo dello Xanax per un problema di autolesionismo. Il ragazzo accettò di nuovo il verdetto, tornando a casa ed inghiottendo la prima di una lunga serie di pillole non solo metaforiche.

Le cose in famiglia erano cambiate drasticamente: adesso era come se Gerard fosse il più piccolo. In quei due mesi prima della sua partenza era sempre stato obbligato a stare in compagnia di qualcuno, che si trattasse di Mikey, sua cugina, sua nonna, Andy o Ray -suo unico amico al tempo-, che nonostante fosse all'oscuro di tutto ciò che stava succedendo, era abbastanza per tenerlo sotto controllo. Ogni giorno sua madre gli controllava qualsiasi posto possibile in cui avrebbe potuto tagliarsi; era la cosa più imbarazzante che avesse mai provato, e probabilmente lo era anche per sua madre, ma i complimenti che riceveva alla fine della “perquisizione” erano l'unico motivo per cui si sentiva anche solo minimamente vivo. La pillola che era costretto ad assumere ogni santissimo giorno teneva a bada le sue emozioni; Gerard non sentiva più bianco e nero, ma solo grigio, ugualmente moderato dall'azione calmante delle compresse. Ogni giorno si guardava allo specchio e sentiva di non essere sé stesso, ed esattamente in quel momento cominciarono i problemi. Poco dopo la sua partenza, decise di prendere una decisione che avrebbe deluso tutti, ma che forse sarebbe stata l'unica cosa giusta da fare per il rispetto di sé stesso e della persona che aveva lottato tanto per costruire negli anni: smise di assumere i suoi farmaci, nascondendolo alla famiglia. Le domane a telefono d'altronde erano sempre le stesse, e non era difficile rispondere semplicemente con un “sì” e all'ultima, fatidica domanda con un “no”.

“Gerard, hai preso le pillole?”

“Sì.”

“Gerard, tutto apposto?”

“Sì.”

“Gerard, non ti stai facendo del male, vero?”

“..No.”, rispondeva ogni volta, sapendo che infondo non diceva il falso, ma sentendosi ancora completamente morto. Perché era ovvio che non era solo l'assunzione di antidepressivi ad avere effetti collaterali, ma anche l'interruzione della cura che aveva intrapreso con essi- specialmente se era fai-da-te come quella del ragazzo.

Non aveva mai voglia di uscire dalla sua stanza- per carità, non ne aveva avuta tanta nemmeno quando stava “bene”, figuriamoci adesso. Era sempre stanco e non riusciva granché a concentrarsi. Quelle poche volte che dormiva (l'insonnia era fra i principali motivi della sua stanchezza, ma quella non era una novità), dormiva per ore nonostante gli incubi, e molto spesso saltava delle lezioni senza nemmeno volerlo. Non era colpa sua: semplicemente si svegliava e si rendeva conto che erano le cinque del pomeriggio. E tutto questo andò avanti per i primi tre mesi, finché non conobbe il suo nuovo compagno di stanza: Sam.

Sam era un ragazzo della sua stessa età, sveglio, festaiolo, alto, abbronzato e biondo. Aveva l'aria del tipico ragazzo che al liceo lo avrebbe picchiato perché preferiva l'ora d'arte a quella di educazione finisca, eppure era un fotografo, e sembrò addirittura apprezzare Gerard, trascinandolo ovunque andasse e presentandolo ai suoi amici di classe.. e amiche. Fra di esse, appunto, Eva (soprannome di Eveline Perrier, ancora se lo ricordava), la sua nuova dipendenza. E parlando di dipendenze, tra l'altro, Eva sfortunatamente non era l'unica. Nonostante fosse sempre riuscito a liberarsi da esse, passati gli anni all'Accademia, quelle come alcool, droga e pillole erano ancora lì con lui, come un peso sulle spalle che doveva portare con sé continuamente. E come se non bastasse, ora che si trovava chiuso nel cesso di un McDonald's con in mano la stessa lametta che portava con sé da una settimana, aveva capito che anche quella che fra di essere temeva di più era tornata: dopo anni e anni aveva ripreso a tagliarsi, e questa volta finalmente capiva perché.

Non aveva mai ben compreso quale meccanismo della mente umana scattasse quando la gelida lama percorreva una linea immaginaria sulla sua pelle diafana e la lasciava macchiata di rosso, eppure riusciva sempre a farlo stare meglio: solo adesso capiva.

Capiva che aveva sempre sentito di meritare il dolore, implicitamente.

Quindi, da una settimana a quella parte, portava con sé quel maledetto pezzo di acciaio. Sempre. Ed era questo che faceva la differenza fra una dipendenza ed una mania: il fatto che non riuscisse a separarsi dal suo carnefice, che fosse una persona o un oggetto. Era successo con Eva, con le famose “pillole con la X”, e adesso stava succedendo con quello. Perché apparentemente non c'era niente che in quel momento riuscisse a farlo sentire completo, quindi tanto valeva farsi a pezzi.

Ignorò il rumore osceno di qualcuno che pisciava nel bagno affianco e cercò di moderare i suoi stessi singhiozzi, incidendo più profondamente possibile sui polsi, parte del corpo che aveva accuratamente evitato perché gli ricordava troppo vividamente il suo primo taglio e tutta la catena di eventi che si era susseguita dopo esso. Il suo braccio, internamente, era un disastro. Le sue cosce, poi, sembravano un campo di battaglia.. per non parlare dei fianchi, precisamente la zona poco sopra le ossa, che dopo giorni continuava a sanguinare di tanto in tanto.

Aspettò pazientemente che uscissero tutti, sperando che nel mentre non entrasse nessun altro; aveva bisogno di lavare via il liquido, del quale, cominciava a pensare dopo un minuto intero passato lì seduto sulla tavoletta abbassata del cesso, aveva già perso un po' troppo. Quando finalmente pensò di essere solo e pronto per la parte più dolorosa -niente uguagliava il bruciore che provava nel dover toccare ferite appena fresche, ma se non voleva infettarsi doveva-, vide davanti a lui l'ultima persona che avrebbe voluto vedere: Frank.

Continuarono a fissarsi, immobili e shoccati dalla situazione, Gerard completamente debole e con i peggiori capogiri della sua vita, Frank con le gambe tremolanti e lo sguardo fisso sul braccio sinistro del ragazzo, praticamente tinto di rosso. Il più grande deglutì, facendo appena un passo avanti e temendo seriamente di cadere.

«Lavati e vai immediatamente nel van.» Il chitarrista disse, monotono, e suonò più come un ordine che come una proposta o una domanda di qualsiasi genere. Gerard credeva di non averlo mai visto così incazzato in vita sua: non gli urlava contro come al solito, per poi mettersi a piangere abbracciato alla stessa persona a cui aveva poco prima tirato i peggiori insulti di sempre. Era tutto nel suo sguardo, quello che aveva da comunicargli, ed in un certo senso era meglio così.

Frank andò via, sbattendo la porta, e Gerard eseguì.

E strada facendo, ebbe finalmente il coraggio di liberarsi dal suo carnefice.

 

**

 

Allora, okay.

Premettendo che questo capitolo mi piace proprio tanto............. continuo a non sapere se sia in qualche modo coerente con la vita reale.

Nel senso, non conosco l'autolesionismo in prima persona e non so se sia possibile che cominci così e mi scuso se ho sparato una marea di cazzate anche con tutte quelle persone che ci convivono ogni giorno, non so se comprendete (?)

Tutta st'idea un po' malata nacque sentendo Pretty Handsome Awkward dei The Used, che si vocifera sia dedicata a Gerard e ha una frase che dice qualcosa come “You bleed just like you puke while running a mile”...

Mi sono seriamente evitata di analizzare quel “puke” per non arrivare a cose che non avrei saputo nemmeno gestire e mi sono concentrata sul “bleed” c:

Però sta a voi dirmi se questa concentrazione è effettivamente servita a qualcosa. (?)

Il titolo non sto nemmeno a dirvi da dove l'ho preso (<333333) e spero davvero che vi facciate vive (?)

(MANCANO SOLO DUE CAPITOLI BITHCES)

Sciaooooooo <3<3<3

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Trade mistakes ***


17. Trade mistakes

a.k.a “the epilogue”.

 

 

 

Caro Andy,

Oggi è lunedì. Il lunedì alla Saint Mary's la sveglia suona alle otto due punti doppio zero. Abbiamo riso in bianco a pranzo e pollo a cena. Dalle quindici due punti dieci alle sedici due punti trenta, qui alla Saint Mary's facciamo il mini-torneo di Poker e subito dopo la seduta di terapia di gruppo. Abbiamo, per quelli a cui girano i coglioni di fare effettivamente qualcosa, la palestra aperta e il recupero delle aree disboscate intorno al giardino. Io però personalmente non faccio niente di tutto questo, e alla Saint Mary's mi sembra di non starci più di tanto.

Il lunedì come il martedì, e il martedì così come dal mercoledì alla domenica.

Io non faccio proprio niente di tutto questo perché non sono venuto qui per trovare me stesso o la fede in Dio, né tanto meno per piantare alberelli o prendere il vizio del gioco.

Io sono venuto qui per andarmene. Ma non andarmene e rimanere in contatto con l'amichetta anoressica o il vicino di stanza cocainomane: andarmene proprio. Andarmene e non sentire più il bisogno di tornare, capisci? Perché altrimenti che senso avrebbe?

Guardo tutti i pazienti intorno a me e mi rendo conto che forse sono l'unico ancora recuperabile.

Più che di “disintossicazione”, stanno seguendo un percorso di “intossicazione”; si riempiono la testa di stronzate e si uccidono il cervello di psicofarmaci, fanno amicizia con gente che non vedranno mai più e si auto-convincono che agli infermieri importi davvero della loro vita. Poi domani sarà martedì, la sveglia suonerà di nuovo alle otto due punti doppio zero e saremo tutti punto e a capo: ma cosa faranno quando non ci sarà nessuno a decidere a che ora dovranno svegliarsi e il compagno fedele sarà dall'altro lato del paese?

Sinceramente, se c'è una cosa che ho capito, è che questi sono problemi che non mi riguardano.

Però forse ti dovrei spiegare come ci sono finito in un posto del genere, eh?

Non mi va di girarci e rigirarci intorno: potrei indorarti la pillola dicendo che “ho passato un brutto periodo” e altre stronzate del genere, ma la verità è che bevevo fino a stare di merda e mi ci sarà voluto un annetto per capire che non potevo “smettere quando volevo”. Mi sono calato psicofarmaci di tutti i tipi senza nessuna prescrizione e se tu potessi vedere le cicatrici che ho sparse per tutto il corpo penseresti che sia uscito da uno di quei film dell'Enigmista.

Ecco tutto. Ecco cosa succede.

Succede che certe volte hai bisogno di qualcosa che ti faccia stare bene subito, e non pensi tanto alle conseguenze. E con tutta la merda che c'era nella mia vita, credimi, ti dirò che adesso mi sembra impossibile pensare che uscirò da qui e starò automaticamente bene.

Non hai la minima idea dell'inferno che è la Saint Mary's.

La notte tremo, e ti giuro che ucciderei cinque infermiere per una birra. Forse sei. Tanto mi stanno tutte sul cazzo. L'altra sera, cercando di prendere un sorso d'acqua dal bicchiere sul comodino accanto al letto, l'ho fatto cadere senza nemmeno averlo sfiorato. Non mi sentivo più le mani.

La mattina vomito. Non so cosa, però vomito di continuo. Vomito finché non vedo il sangue mischiarsi alla bile e, psicologicamente, mi sento bene. Lo so che non c'è un motivo per cui dovrei vomitare; il dottor Cooper mi ha detto che è il fegato che reagisce alla mancanza di alcool, e io gli credo. Il dottor Cooper è l'unico che mi ha ascoltato quando gli ho detto che non volevo prendere alcun farmaco, e come minimo devo fidarmi se mi dice che passerà presto.

La cosa peggiore, però, è che mi manca la vita fuori da questo posto.

Sembra sempre di essere in qualche universo parallelo: le infermiere usano parole come “acciderbola” e abbiamo telecamere ovunque. Grazie a Dio nel giardino c'è come una specie di “area libera”: un buco nella sorveglianza video, come il nostro piccolo triangolo delle Bermuda. Tutti fanno finta di non sapere che esista -infermiere comprese-, ma tutti sanno che c'è. E grazie a Dio che c'è, Andy, perché se ti dico che sarei fottutamente impazzito se Mikey non mi avesse portato regolarmente sigarette da fumare come un clandestino, allora devi credermi. Credo di aver raggiunto la quota di due pacchetti al giorno: entro per disintossicarmi ed esco con un tumore ai polmoni.

Oh, e poi mi manca la gente. Non la gente in generale: è ovvio che posso ricevere visite, ma mi manca stare con chi voglio all'orario che voglio. Per esempio mamma e papà non possono ancora venirmi a trovare perché hanno problemi con il lavoro e il viaggio (ti ho detto che questo buco è in Canada?), e Cortez non è venuto. Mikey e Ray dicono che se l'è data. Non “se l'è data” per un po' di tempo: “se l'è data” nel senso che non risponde alle chiamate, non è nel suo vecchio appartamento e nemmeno dai suoi genitori. Pace all'anima sua. Non tutti restano quando la merda arriva al ventilatore, giusto? Tra l'altro, volendo dire la verità, non mi manca nemmeno. Sono talmente incazzato che non potrebbe mancarmi: mi odierei da morire se mi mancasse. Però sai chi mi manca? Mi manca Frank.

Non fraintendermi, lo capirei se si fosse rotto il cazzo di me. Ha resistito per così tanto tempo che non potrei biasimarlo se non volesse più avere avermi in giro, ma il problema è che lo amo così tanto e nemmeno gliel'ho mai detto o anche solo dimostrato. Se mai dovesse decidere che abbiamo chiuso vorrei soltanto potergli chiedere scusa, perché infondo aveva ragione: saremmo stati perfetti. Con tutto quello che ha passato per avere una possibilità, ne avrebbe meritate anche mille. Ed io continuavo a volerlo “proteggere”, senza capire che se c'era qualcuno che alla fine di tutto questo ne sarebbe uscito ancora più fottuto di prima ero io. Cazzo. Quante cose che ti sei perso.

Non hai idea di come mi faccia star male parlare di tutto questo... di quello che provo. Parlare del passato, di “se” e di “ma” mi è sempre parso inutile: tanto indietro non posso tornare, il futuro non lo posso prevedere e in questo momento sono chiuso qui dentro, e posso solo fermarmi e aspettare che succeda qualco-

Gerard sentì qualcuno bussare alla porta -nonostante fosse aperta- e sobbalzò, chiudendo immediatamente il quaderno e rimanendo pietrificato alla vista di Frank fermo all'entrata, mazzo di fiori in una mano e bicchiere di caffè Starbucks nell'altra, tutto sorridente come se niente fosse.

«Non sapevo quale dei due avresti preferito, ma qualcosa mi dice che sei più tendente al caff-»

«Tu.»

«Cosa?»

«Quello che avrei preferito. Sei tu.» Gerard avrebbe giurato di non essersi mai sentito così stupido in tutta la sua vita, e osservò Frank cambiare radicalmente espressione e fissare lo sguardo a terra. Gli batteva così forte il cuore che era convinto che probabilmente Lenny, il paziente della stanza accanto, lo avrebbe potuto sentire senza nemmeno troppi problemi.

«Posso?» Chiese il più piccolo, e l'altro sperò davvero che fosse una domanda retorica anche mentre annuiva in una specie di stato di trance. Aggiustò di fretta e furia i fiori nel vaso sul comodino accanto al letto e si andò a sedere vicino a Gerard, dalla parte opposta del tavolo rotondo di legno, porgendogli il caffè con lo stesso sorriso di prima. Il più grande, intanto, non riusciva nemmeno a muovere le mani per prenderlo; teneva le dita intrecciate, cercando di limitare i tremori e di riuscire a tenere lo sguardo fisso nel vuoto. «Mi dispiace se non sono venuto prima.» Disse Frank, spezzando il silenzio imbarazzante e trasformandolo in una conversazione che forse era ancora peggio.

«Non... non fa niente.» Si sforzò di dire Gerard, trafficando impacciatamente con il coperchio di plastica del suo Starbucks per toglierlo e zuccherare il caffè. Frank lo fissò, e non gli ci volle molto per capire che non stava per niente bene e che, a giudicare da come si muoveva, probabilmente non si sentiva più le mani. Non sapeva perché una parte di lui si aspettasse di trovarlo esattamente come prima che tutto quel casino iniziasse: razionalmente era consapevole del fatto che forse era un desiderio piuttosto irrealizzabile, ma che ci poteva fare? Aveva fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità e alla fine si era rivelato utile, quindi grazie al cazzo che avrebbe continuato così. Sussurrò un “dai, faccio io” e gesticolò verso il ragazzo in modo da farsi passare le bustine di zucchero e il caffè con il cucchiaio di plastica, evitando che Gerard facesse cadere tutto e ripassandogli la bevanda pochi secondi dopo. Lo vide arrossire; probabilmente era imbarazzante non riuscire a fare nemmeno le cose più basilari ed era comprensibile, ma ad ogni modo non riuscì a trattenersi dal fargli la paternale.

«Non hai nulla di cui vergognarti... ti rendi conto di quello che hai fatto? Cazzo. Se ci fossi riuscito io probabilmente mi sentirei invincibile o qualcosa del genere.» Disse, poggiando un gomito sul tavolo e sorreggendosi il capo con la mano mentre continuava a sorridere per cercare di metterlo a suo agio. Gerard riuscì a compiere la titanica impresa di bere un sorso del suo caffè, e rimase in un silenzio tombale mentre fissando il pavimento. «Gearard?» Provò Frank in un tentativo di far reagire l'altro.

«Scusa.» Replicò semplicemente.

«Cosa?»

«...Non lo so. E' che pensavo davvero che- che non saresti venuto, ecco, e quindi non... non ero pronto per vederti.» Frank perse un battito a quella risposta.

«Vuoi che ti dica la verità?» Chiese, pensando che effettivamente con lo sforzo che aveva fatto se la meritasse in tutto e per tutto e aspettando che Gerard annuisse per continuare. «Sono venuto il quinto giorno. Giusto il tempo per stare un po' a casa, fare le valigie e prenotare i biglietti. Sono subito corso qui. Però sai cosa è successo?» Il più grande lo guardò in volto per la prima volta in quelli che sembravano secoli, aspettando. «E' successo che ho incontrato una donna... la tua psicologa. E mi ha detto che se veramente sono innamorato di te allora dovrei starti lontano, perché ora come ora hai bisogno di tempo per te stesso, e che io- che io ti ho fottuto il cervello, e dovrei lasciarti perdere perché non hai tempo per me.» Gerard rimase a bocca aperta. Le mani smisero di tremargli. Era tutto vuoto. «Ed io le ho creduto.»

«Hai creduto a lei ma non... non a me.»

«Non una sola volta mi hai detto di volermi nella tua vita. O almeno non recentemente.» Rispose Frank, e fu come se a Gerard stessero piovendo addosso centinaia di coltelli affilati. Come se solo in quel momento si fosse reso conto di quanto aveva fatto schifo in quell'ultimo periodo. «Ti amo.» Disse il più piccolo, pensando all'ultima volta che si era lasciato scappare quelle due parole.

«...Lo so. Ti ho sentito quella sera e mi dispiace di non aver detto niente, però ti prego... non te ne andare.»

«Non vado da nessuna parte.» Replicò Frank, che in quel momento non riusciva nemmeno ad essere arrabbiato.

«Anche io ti amo.» Disse Gerard almeno dieci minuti dopo, e fu come se in quel momento tutto il peso che quella situazione aveva fatto gravare sulle sue spalle per ben tre anni fosse scomparso. Svanito. Dissolto nel nulla. Non si sentiva debole o vulnerabile come aveva sempre pensato che si sarebbe sentito nel dire una cosa del genere a qualcuno, anzi, si sentiva come se niente e nessuno avrebbero potuto anche solo scalfirlo.

Guardò il volto shoccato di Frank accanto a lui e si lasciò prendere la mano. Era surreale quanto fosse riuscito a procrastinare quel momento, e soprattutto, ora come ora, tutti quei motivi che si era dato per farlo gli sembravano così insignificanti rispetto a ciò che provava che era quasi assurdo che li avesse anteposti alla felicità di entrambi. Nonostante tutti i dubbi, era una follia. E quegli stessi dubbi continuava ad averli anche in quel momento: continuava a non sapere dove sarebbero andati a finire. Cosa avrebbero fatto, come sarebbero stati capaci di farlo. Continuava a chiedersi se quella fosse la cosa giusta, se mai se ne sarebbero pentiti. Continuava a non avere la più pallida idea di come si sarebbe dovuto comportare adesso.

Ma se c'era una cosa di cui era convinto, era che Frank lo aveva salvato.

 

**

 

Okay, ora è proprio la fine.

Wooooooooooow.

Ciao?

Sul serio, non so proprio cosa dire.

Non sono brava con i “ciao”, gli “addio”, i finali in generale, ma posso dirvi che mai, nel complesso, sono stata così soddisfatta del risultato di qualcosa scritto da me. E vi dirò di più: sono così soddisfatta che credo che alla fine questa storia non continuerà come avevo pensato in principio, per il semplice motivo che mi sento apposto così, in un certo senso. Non vorrei infilarmi in una situazione che non so come gestire e finire per rovinare tutto il precedente (?)

Quest'ultimo capitolo l'ho scritto di getto in veramente poco tempo rispetto ai miei standard (non pensate alla data di pubblicazione dello scorso perché davvero, mi ci sono messa solo oggi), ma credo che segni la conclusione adatta. (?)

Non sono per i finali che “schiattano” insieme tutto ciò che ci sarebbe dovuto essere in una storia intera: insomma, per quanto il mio parere riguardo ad un mio stesso lavoro possa valere, credo di aver messo in questi diciassette capitoli tutto ciò che che avevo preventivato di metterci, ed è per questo che quest'ultimo capitolo è così corto. In effetti, più che un capitolo vero e proprio mi sento di chiamarlo un epilogo.

Il titolo è preso, appunto, da “Trade Mistakes” dei Panic! At The Disco (che, a proposito, se proprio non avete nulla da fare è proprio un bel sottofondo per leggere <3), e per l'ennesima volta sto qui a ringraziarvi perché mi fate sorridere come una cretina ogni volta con tutti 'sti complimenti.

Ringrazio chi ha recensito, costantemente e non.

Ringrazio le cinquantotto persone che hanno messo questa storia nelle seguite, le venti che l'hanno preferita e le cinque che l'hanno ricordata.

Non ho davvero parole, siete un casino di gente. Tipo che certe volte immagino di mettere ottantatrè persone in una stanza sola e wow (?)

Mi pare tutto così assurdo çwç

Grazie mille <3

Prima o poi mi rifarò sentire!

-MissNothing (che vorrebbe cambiare nickname in una maniera che nemmeno vi immaginate)

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1259518