Step with Me

di Aine Walsh
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Welcome to my life ***
Capitolo 3: *** Young folks ***
Capitolo 4: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Ciao! c:
Se hai aperto vuol dire che ti ho incuriosito e questo mi fa un grande piacere *la sua autostima fa un balzo in avanti*, quindi ti ringrazio. Per aver fatto aumentare il numero delle visite e avermi fatto credere che a qualcuno importi davvero questo storia.
Storia che magari (anzi, sicuramente) non è niente di speciale, anche se ho un progetto ben chiaro in testa: voglio "sperimentare" qualcosa e spero proprio di riuscirci *incrocia le dita e spera di non fare brutte figure*.
Bando alle ciance, vi lascio il prologo e aggiungo il resto più giù!


                                   

Prologo
 

King’s Cross, Londra, 23/07/2004

 
La stazione pullula di gente da tutte le parti, la maggior parte delle quali pronte per andare in vacanza. Si distinguono subito: vestiti sbarazzini e colorati, cappelli con la visiera ben calcati in testa, valigie stracolme… hanno già assunto l’aria da turisti prima ancora di arrivare a destinazione.
Tiro appena il colletto, accaldato e innervosito. Non è stata una saggia scelta quella di indossare la camicia in un giorno caldo come questo, lo so e mi maledico da solo, ma a quanto pare sono l’unico a non aver visto le previsioni meteo e a non aver saputo del brusco aumento delle temperature. Seduto su una panca posta tra i binari nove e dieci (cosa che mi fa inevitabilmente pensare ad Harry Potter), alzo il capo in direzione dell’enorme orologio digitale e sospiro. Solo un’altra mezz’ora e il treno mi porterà via.
«Arriverà» mi consola Johanna, battendomi affettuosamente la mano sulla spalla.
«Ma sì, – sorride Thomas – sappiamo tutti com’è fatta, no? È una ritardataria cronica, non c’è da che preoccuparsi».
Chino la testa e mi massaggio una tempia. «Non ne sono tanto sicuro. Abbiamo litigato di brutto e non la sento da quattro giorni».
Jo e Tom si scambiano un’occhiata allarmata. Va bene, litighiamo un giorno sì e l’altro pure, ma non arriviamo quasi mai a non parlarci per così tanto tempo e quando succede sto proprio di merda.
«Dai, non spararla grossa adesso. Stiamo parlando di Dana, non mancherà perché sa che non se lo perdonerebbe mai» dice il biondino, ed è evidente come stia cercando di mettere in pratica tutto ciò che ha studiato negli ultimi tempi per convincermi.
«Tom ha ragione, fattelo dire da una che la conosce da anni e sa com’è fatta. Non ti preoccupare».
Annuisco, più per troncare l’argomento che per convinzione. Una parte di me continua a credere che verrà, ma l’altra mi ricorda quanto sia testarda e quanto io abbia esagerato al telefono l’altro giorno. Ma forse verrà lo stesso. Forse è davvero in ritardo. Forse, per una volta, se ne fregherà di quel suo famoso orgoglio da donna e mi saluterà prima di non vedermi per… 
Il fischio del treno che annuncia il suo arrivo mi scuote violentemente facendomi sobbalzare.
«E che cazzo!» sento urlare una voce da qualche parte dentro di me (dalla zona del fegato, probabilmente). «Proprio questa carcassa doveva arrivare in anticipo?! Proprio oggi?!».
Ma invece mi alzo e tento un sorriso raggiante ai due amici che mi hanno accompagnato. «Penso sia meglio salutarci qui, non c’è bisogno che aspettiate ancora».
«Oh, non vedevo l’ora che tu lo dicessi! Io e Johanna abbiamo tanto da fare ed è stata una tortura scortare un musone alla stazione». Rido e gli mollo una finta gomitata al fianco. Questo ragazzo è un grande, sono sicuro che avrà una carriera eccezionale dopo il RADA.
La morettina mi si avvicina e mi abbraccia. «Ci vedremo presto».
«Lo spero tanto».
«Beh, a me manca un solo anno prima della laurea e poi ti raggiungo. Mi auguro che tu riesca a cavartela anche senza di me, intanto».
Sì, sarà un bravo attore. Più lo guardo e più me ne convinco. Gli batto il cinque prima di prendere il borsone. «Spero che tu riesca a cavartela senza di me – lo rimbecco allegramente – E vedi di non combinare troppi casini. Jo, confido in te».
«Oh sì, mi prenderò cura io di questo baldo giovine» mi risponde quella con tono da ufficiale dell’esercito.
Thomas ci guarda con finto sgomento mentre asserisce: «Voi state complottando contro di me e questo non va affatto bene. Impara ad usare skype, Whishaw, poi vedremo chi combinerà casini».
I passeggeri che scendono dai vari scompartimenti ci fanno capire che il momento a nostra disposizione è finito. Un altro abbraccio, un’altra pacca sulla spalla, altri sorrisi e poi ci separiamo. Mi mancheranno, lo so ed è inevitabile. Faccio qualche passo in avanti e mi fermo,  voltandomi per guardare i due che si allontanano. C’è del tenero tra di loro, Dana non fa altro che ripetermelo dal giorno dopo in cui ci siamo conosciuti e anche io la penso così. Magari, quando sarò tornato, mi aspetterà una bella notizia. Anche se è proprio questo il punto: quando tornerò? Okay, non ho una parte di rilievo nel film (e con uno come Daniel Craig nel cast, dubito fortemente che avrei potuto), ma spero almeno di essere notato ed ottenere altri ingaggi. Non che mi aspetti fama e gloria, e a essere sincero nemmeno mi importa più di tanto, ma spero di potermi portare avanti.
Guardo dentro un po’ di scompartimenti, ma sono tutti pieni e continuo ad avanzare fino a quando non ne trovo uno semivuoto. Busso appena e faccio cenno alla coppia di anziani, che mi sorridono cordialmente e mi invitano ad entrare. Li ringrazio, sistemo il borsone nel portabagagli e mi metto a sedere accanto alla finestra, proprio davanti all’arzilla vecchietta. Avranno più o meno settant’anni e sembrano totalmente rilassati e in pace col mondo; mi chiedo dove stiano andando. Sembrano anche davvero simpatici e ho la sensazione che sarà un buon viaggio, però non ho molta voglia di parlare al momento e non faccio altro che guardare fuori.
Ci sono così tanti volti là, visi di tutti i tipi, eppure manca proprio quello che cerco. Non so che pensare e ho la mente completamente imbiancata. Perché illudersi ancora? È evidente che non verrà, chiaro come il sole. Non avrei immaginato di troncare in questo modo, con una sfuriata dovuta ad un motivo che ho già quasi dimenticato. Certo che però da lei non mi sarei mai aspettato una reazione così infantile. Si crede tanto grande e matura, intavola discorsi sul futuro prendendo spunto da tutti i libri che divora e poi si comporta così. Vuole sbarazzarsi di me? Bene, perché non dirmelo?! Mi sarei fatto volentieri da parte senza pensarci un attimo di più, evitando tutta questa farsa e, soprattutto…
«Giovanotto, ho come l’impressione che quella ragazza stia cercando di attirare la tua attenzione» m’informa il vecchio, sorridendo sotto i baffoni bianchi. Lo fisso inebetito per un secondo, prima di capire il senso delle sue parole e guardare attraverso il finestrino. Dana smette di saltellare e alza le braccia al cielo. Abbasso in tempo il vetro per sentirla esclamare: «Grazie a Dio!».
«Pensavo che non saresti venuta» le dico mentre mi sporgo di quasi mezzo busto verso fuori.
«E perdermi la tua partenza? E non avere l’ultima occasione per ricordarti che sei un cafone?» sorride. Non è arrabbiata, non più, e le rivolgo un ampio sorriso a mia volta.
«C’è stato un brutto incidente che ha paralizzato mezza città, renditi conto. Sono scena dal taxi e ho cominciato a correre e quando sono arrivata ho incontrato Jo e Tom che stavano uscendo e mi hanno detto che eri già  salito e che il treno stava per partire e…». Parla velocemente, ansimando un po’, con le guance arrossate dal caldo e dalla corsa. «…e ho pensato di non arrivarci. Mi dispiace per l’altro giorno, ero furiosa per i fatti miei e ci sei andato di mezzo tu, anche se per una volta non c’entravi niente».
Le faccio cenno di zittirsi e avvicinarsi. Tende la mano e mi porge una busta da lettere. «Cos’è?» domando prendendola.
«Ricordi. Mi piace pensare che non ti dimenticherai di noi dell’Accademia, quando sarai una star internazionale ricca sfondata. Potresti guardarli qualche volta, forse, comodamente sdraiato sul grande divano in pelle nera della tua casa di Hollywood… oppure immerso fino al collo nella jacuzzi che tieni in giardino, quella della casa a Miami».
«Cerca di non farti altri nemici, d’accordo?» rido.
«Ma ti pare? No, tu resti l’unico e il solo».
Mi sollevo in punta di piedi e arrivo a stringerle meglio la mano. Tra noi cala il silenzio, ma sappiamo entrambi di non sentire la necessità di riempirlo. Sorride, sorrido e il mondo sembra fermarsi qui. Ma la portiera viene chiusa con un tonfo e il macchinista comincia ad azionare il treno, posso già sentire le ruote stridere sotto di noi.
«Tornerò, te lo prometto».
«Ogni promessa è un debito, Whishaw».
«Dove sta il problema? Pensi di perdermi davvero così?». Il treno inizia a muoversi, ma non mi decido ancora a lasciarla e non so perché. «Chiamami. Tutte le volte che vuoi».
«Sei tu l’uomo, tu devi chiamarmi» ribatte e le sue guance diventano di nuovo rosse.
«E dove sta scritto?».
«Da nessuna parte, – risponde saccente – è la Regola».
«Ah, la Regola».
«Non sfottere. Stai partendo e non ci rivedremo per chissà quanto, non voglio litigare».
La carcassa  della locomotiva sta per uscire dalla stazione e non vorrei che si sfracellasse cadendo tra i binari.
«Chiamami quando arrivi!» esclama, ferma lì dove le ho lasciato la mano.
Aspetto di perderla completamente di vista prima di tornare a sedermi. Il vecchio sta leggendo una copia del Telegraph e sua moglie mi fissa sorridendo, con gli occhietti blu che scintillano. Quando non ne può più, si sporge in avanti e mi chiede: «È la tua ragazza?».
Sorrido appena. «Forse».


Step 1, come a little closer...

Quindi rieccomi!
Sorvolo sulla storia ed evito di commentare questo prologo per passare a schematizzare le cose più importanti.
Dunque...
1. Ho fatto un blend. HO FATTO UN BLEND! *emozione*
2. A conti fatti, ho già deciso che la storia sarà composta da quattro capitoli. Anzi no, due capitoli+prologo&epilogo. In più, se tutto va bene, dovrei riuscire a pubblicare ogni settimana, così in mese finisco e siamo tutti più contenti ed io posso dedicarmi alle "emergenze" (intendi: "scrivere la tesina" ç_ç)
3. Eh, bisogna ringraziare l'omuncolo che mi ha fornito lo spunto e il titolo per questa fic. Un applauso a Michael Holbrook Penniman Jr., in arte Mika! :')
4. Come mi accade spesso, ho dimenticato tutte le cose che avevo in mente di dirvi... Ah, la vecchiaia che avanza...

I pomodori son ben accetti, ma vi prego di evitare quelli completamente andati a male, se potete. Anche se non dubito che li merito.

Au revoir,

A.



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Capitolo 2
*** Welcome to my life ***


Capitolo 1 – Welcome to my life
 

Do you ever feel like breaking down?
Do you ever feel out of place?
Like somehow you just don't belong
And no one understands you

 
«È la casa migliore del quartiere, ve lo posso garantire» ripeto per l’ennesima volta, perdendo anche il conto.
La signora Hobbs non mi degna nemmeno di uno sguardo. Credo ce l’abbia con me per la troppa attenzione che, invece, mi presta suo marito. Mi mette in forte imbarazzo questo tipo, davvero indisponente, maleducato ed estremamente viscido. Le sue occhiate mi fanno quasi rimpiangere di aver scelto una camicia un po’ più aderente del mio solito. Sospiro impercettibilmente; in fondo non mi importa. Devo solo riuscire a vender loro questa casa e poi scomparirò dalla loro vita per sempre. Eppure Malefica in Biondo non sembra disposta a volerlo capire e continua imperterrita la sua battaglia personale nei miei confronti  trovando difetti in questo o in quell’appartamento. Se riesce a trovarmi qualcosa che non va anche qui, giuro che…
«Caro, tu che ne dici? A me non piace quest’orrida moquette blu, è così poco igienica» commenta sgarbatamente storcendo il naso.
Il signor Hobbs alza le spalle e mugugna qualcosa di incomprensibile. Sono pronta a scommettere che anche lui sia stufo di girare di casa in casa alla ricerca della Terra Promessa che soddisfi questa Megera.
Su, Dana, ricorda: il cliente ha sempre ragione. Ma questo non vuol dire che tu non possa provare a fargli cambiare idea.
«Signora, mi permetta di ricordarle che può sempre sostituire la moquette con ciò che lei trova più conveniente, qualora acquistasse il locale». È difficile apparire gentili quando senti la furia degli elementi scatenarsi dentro di te.
La risposta? Un «Questo lo so» talmente acido che mi domando come faccia il suo stomaco a restare incolume con tutto questo veleno in circolo.
Lancio un’occhiata disperata all’orologio e noto con orrore che sono già le tre e mezza. Ho ancora tempo prima di dover essere in aeroporto ma preferisco arrivare in anticipo, per una volta nella mia vita.
Crudelia Demon e il suo (in)fedele babbuino di compagnia continuano a girare per i vani, lui parlando a bassa voce, lei non avendo alcun timore a confessare tutto ciò che vi trova di terribilmente sbagliato e poco adatto. Nemmeno fosse la Regina in persona, tsè!
Sono esausta, affamata e ho un dolore lancinante ai piedi per via dei tacchi che sono costretta a portare; rimpiango amaramente i giorni in cui ero libera di indossare jeans e Converse senza preoccuparmi di dover apparire professionale.
Mi avvicino alla finestra centrale, la più grande, e ammiro il panorama della città. Westminster, vista sul Tamigi, pieno centro, a due passi dal St James e dall’Hyde Park: come si fa a non voler abitare in un posto del genere? La luce che filtra dalle finestre al tramonto, le pareti bianco ottico, il caminetto all’angolo… non sono motivazioni sufficienti, queste? Anni fa sognavo una casa del genere e sapevo anche come arredarla. Ennesimo sogno infranto, rotto, calpestato, morto e sepolto da qualche parte. Mi aspettavo una vita diversa dopo l’Accademia, lo ammetto. Una vita in cui giravo il mondo invece di restare bloccata in una squallida agenzia immobiliare, in cui avevo un posto tutto per me invece di dipendere dalla signora Millian e dall’imminente matrimonio di sua figlia, in cui all’alba dei trent’anni avessi già creato qualcosa di concreto come una solida carriera o una bella famiglia.
«Basta così, – sbotta la Hobbs – non mi piace. Non va bene per niente. È questo il meglio che sa fare, signorina Downey?».
Guardo velocemente il signor Hobbs, sperando che mi aiuti. Niente, il suo sguardo è sempre rivolto a ciò che la scollatura a V mi nasconde. Porco maiale depravato.
«Dalloway, il mio cognome è Dalloway. E mi rincresce sapere che l’immobile non rispecchia i suoi gusti, devo essermi sbagliata». Dio, la voce che trema no, ti scongiuro!
«Che impertinenza!» esclama la scrofa, avviandosi verso l’uscita.
Mai rivolgersi con maleducazione al cliente, per nessuna ragione.Ma puoi sempre rigirare la frittata a tuo favore e far capire che sta sbagliando. Sii una leccapiedi se ce n’è bisogno, difendi la tua dignità in modo schietto ma velato.
«Non sono impertinente, signora, volevo solo chiederle scusa e darle appuntamento in ufficio per discutere e trovare insieme una…».
Si volta a guardarmi infuriata, con gli occhi che quasi schizzano fuori da quella costosissima montatura Vogue che ostenta tanto. «Appuntamento? Ufficio? Insieme? Non ci sarà un altro incontro. Non so se ha ben capito, signorina Downey, abbiamo bisogno di qualcuno con esperienza nel settore e non di una ragazzetta qualunque alle prime armi». Le sue parole sono veleno e non ho mai visto tanta cattiveria in un sorriso.
Estrema cordialità, fa andare il nemico in bestia, diceva sempre nonna.
«Mi scuso per non essere stata all’altezza e spero vivamente che la nuova agenzia cui deciderà di rivolgersi sia in grado di soddisfarla, signora Hobbs. Consenta a questa ragazzetta qualunque alle prime armi di dirle una cosa, però: procuri un paraocchi a suo marito. È sgradevole e molto sconveniente sorprenderlo a fissare il decolté altrui».
Melinda Hobbs diventa livida per la rabbia, ma non riesce ad aggiungere altro. Prende Richard per mano e lo trascina fuori dall’appartamento, sbattendosi violentemente la porta alle spalle.
Strascico fino all’angolo della stanza, mi accascio per terra con le spalle al muro e inizio a piangere.
Umiliata, frustrata, delusa e incazzata con me stessa, è così che mi sento. Sono una fallita e non penso che qualcuno potrebbe definirmi diversamente. Mi sento come se avessi perso le redini della mia vita, come se avessi preso una scorciatoia sbagliata e mi trovassi adesso con le ruote anteriori dell’auto impantanate nel fango, con l’orribile sensazione di aver lasciato qualcosa indietro ad aggravare la situazione. Non ricordo nemmeno più come ho fatto a ficcarmi in una situazione del genere, con uno schifo di lavoro che non mi piace e nemmeno uno straccio di vita sociale.
A volte penso che dovrei mollare tutto e trasferirmi a Venezia da mamma, o a New York da papà. Il buon senso mi dice di restare ferma qui dove sono perché quei due sono incapaci di gestire una famiglia e perché sono convinta che mi sentirei troppo in imbarazzo. Il lato triste è che penso che quella parte di me abbia ragione. Quanti anni avevo quando hanno divorziato? Sei? Sette? Voglio bene ai miei genitori e loro ne vogliono a me, ma è meglio per tutti se stiamo lontani e ci limitiamo a vederci solo una o due volte l’anno.
Poi c’è stato quel disastro di convivenza durata appena due mesi, certo. Quella è una parentesi talmente squallida della mia vita che non vale nemmeno la pena di parlarne. In fondo, non avevo mai pensato che Aaron potesse essere la mia scelta decisiva per il futuro, il mio asso nella manica. Non quando lo vedevo stravaccato sul divano a scolare bottiglie e bottiglie di birra mentre io mi davo da fare ai fornelli per preparare qualcosa di decente. Quei sessanta giorni sono stati la realizzazione del mio incubo più grande, anche se non nego che Aaron ci tenesse davvero a me. Più che altro, mi rimprovero sempre quell’unica volta in cui ho preso qualcosa alla leggera senza averci pensato sopra per almeno quarantotto ore come è mio solito fare. Mi sono odiata per questo, ma devo ammettere di essermela cercata. Uno dei consigli del buon vecchio Peter Dalloway diceva di non avere mai a che fare con gente delle campagne sperdute del nord, specie se vivevano a Londra e si trovavano ad un passo dal licenziamento. Il ragazzotto era solamente tanto pigro e lavativo, uno di quei tipi che continua a procrastinare senza un domani e che non si preoccupa nemmeno di accompagnare la sua ragazza alla porta quando esce di casa per andare a lavoro e portare qualcosa da mangiare.
Mi tiro su a sedere e decido di andare via. Meglio non perdere ancora più tempo, soprattutto se lo impiego a piangere sul latte versato e a torturarmi per le molte, moltissime, scelte sbagliate che ho fatto in passato.
 

* * *

 
Quando arrivo all'aeroporto sono in grandissimo ritardo. A nulla è valsa la corsa verso la metro, quella maledetta serpe mi ha fatto perdere più tempo del dovuto e del meritato. Ho anche provato a rifarmi il trucco in parte sbavato per le lacrime, ma il risultato è stato disastroso e alla fine ho deciso di ripulirmi del tutto con un fazzolettino trovato per caso nella cartella.
Gate 2, Gate 2, Gate 2... Si vede che ho poca dimestichezza con gli aeroporti e con i viaggi in genere. Il mio massimo è stato prendere il treno per andare a Blackpool, una volta sola che è bastata a segnarmi per tutta la vita.
Continuo ad aggirarmi completamente sperduta tra tutta quella calca: Heathrow è immenso, riuscirò mai a trovare Johanna prima della mezzanotte?
Mi fermo e mi passo una mano tra i capelli, confusa. Le telefonerei volentieri, se il cellulare non mi fosse morto tra le mani mentre venivo qui. Per un velocissimo attimo l’idea di farla chiamare dagli altoparlanti mi sfiora il cervello. No, proposta malsana, proprio malsana e idiota. Subito dopo, però, un altro pensiero prende forma e questo sembra più realizzabile del precedente. Apro la cartella con i documenti ed estraggo quello con le informazioni degli Hobbs; tanto male, hanno detto che non verranno più a farci visita (che peccato!) e in caso posso sempre ristampare il modulo. Scribacchio Johanna S. Moore sul foglio e vado a cercare lo Starbucks all’interno della struttura perché, se conosco la mia amica, quella sarà la sua prima meta.
Mi avvio su per le scale mobili, quando qualcuno bussa letteralmente alla mia schiena e sono costretta a girarmi. Sono già abbastanza stressata e nervosa di mio, ci manca solo qualche scocciatore che voglia sapere…
«Mi scusi, non sono riuscita a fare a meno di osservare il nome che ha scritto sul foglio e, non so se sia uno scherzo o una coincidenza, ma corrisponde al mio».
Capelli lunghi, liscissimi e castani; occhi cerulei da cerbiatta;  voce gentile e un largo sorriso tra le labbra sottili: sì, non ci sono dubbi.
«JO!» esclamo buttandomi al suo collo. E poco importa se abbiamo bloccato la fila e stiamo per ricreare il famoso effetto domino con delle cavie umane.
Johanna, sicuramente più saggia e intelligente della sottoscritta, scioglie l’abbraccio e mi trascina poco più in là, senza però smettere di ridersela.
«Iniziavo a sentirmi come Tom Hanks in The Terminal» ammetto togliendole di mano la valigia.
«L’ho notato».
«Da quanto mi seguivi?».
«Da quando hai iniziato a guardarti intorno come una folle e non ti sei accorta che io fossi seduta proprio davanti a te. Fammi indovinare: hai il cellulare scarico e qualcosa è andato storto al lavoro».
«Sono in condizioni così oscene?» mugolo.
Johanna scuote la testa e mi carezza una guancia. «Solo per chi ha uno sguardo attento come il mio. Che è successo?».
«Oh, credimi, non vale neanche la pena di parlarne. Andiamo a prendere qualcosa di estremamente dolce e ipercalorico per favore, sento che potrei svenire. – propongo facendo strada – Ma ora dimmi, com’è andata a Chicago?».
«Niente di che, è stato uno dei corsi d’aggiornamento più noiosi a cui abbia mai partecipato. Ho solo imparato che l’eco pelle è il nuovo materiale del futuro e che le balze in tulle sono terribilmente out anche per i balli settecenteschi del Re Sole. Voglio dire, come si fa a ricreare lo stesso effetto senza balze e tulle? E l’eco pelle! Di solito stringe e non fa traspirare i tessuti, sono in tanti ad odiarla! – sospira – A volte mi chiedo perché abbia scelto quel corso di studi».
«Perché l’hai sempre desiderato, perché ci metti passione, perché sei in gamba e perché nessuno meglio di te avrebbe potuto sopportare le angherie di Miss Mitzy».
«No no no no! Non nominare quel maledettissimo nome da arpia!» piagnucola coprendosi le orecchie con le mani.
Sghignazzo maleficamente. Strano modo, quello di scaricare la rabbia su un’innocente. «Perché? Miss Mitzy era una brava donna. Gracchiava come un corvo quando parlava e non era mai felice di niente e più di una volta ti ha costretta a ricominciare da capo a lavoro finito, ma dove saresti adesso se non l’avessi avuta come insegnante?».
Jo prende posto e poggia le mani sul bancone. «Forse da nessuna parte, ma non avrei sprecato nemmeno un briciolo della mia sanità mentale».
«Non preoccuparti di quella, è sempre destinata a sparire».
«Disse l’esperta. – ridacchia la mia amica legando i capelli in una coda – Mi mancano gli anni del RADA».
«Anche a me» ammetto mentre sfoglio il menu, pur sapendo che finirò sempre con lo scegliere il mio solito frappuccino alla vaniglia.
«E allora dovresti venire alla festa, stasera».
Colpo basso, Johanna, davvero colpo basso. Alzo lo sguardo e mi viene spontaneo fare la svampita. «Quale festa?».
«Lo sai benissimo, non fingere. Abbiamo frequentato lo stesso corso di recitazione, so quando reciti» replica col tono di chi non ammette obiezioni.
Scoperta ancora prima di darci davvero dentro, mi decido ad uscire allo scoperto. «Ho detto che mi mancano gli anni del RADA, non i suoi studenti. Non ho voglia di vederli e ho perso i contatti con tutti, cosa dovrei andare a fare lì? Clare mi odia da sempre, poi!».
«Non è vero che hai perso i contatti con tutti».
«Tu sei l’unica eccezione».
«E non è vero che Clare ti odia».
«Uhm, devo ricordarti il famoso ‘incidente della mensa’?».
«Ci sarà Jimmy Patterson».
«Oh cavolo, non posso proprio perdermelo!».
Johanna sbuffa, visibilmente irritata. «Non ti sopporto».
«Va’ tu. La mia presenza non è indispensabile e ho passato una giornata tremenda, non credo che sarei di gran compagnia stasera. Ho solo voglia di sedermi a gambe incrociate sul letto e divorare un barattolo di gelato mentre piango guardando Ritorno a Cold Mountain».
«Non ti lascerò ingrassare come una balena e deprimerti come se non ci fosse un domani, quindi verrai con me, che ti piaccia o no. – dà un’occhiata all’orologio – A proposito, è tardi e dobbiamo andare».
«E il frappuccino?» lamento a bassa voce.
La risposta arriva chiara e forte, simile ad un ruggito: «Non c’è tempo!».
Sì, a volte la mia migliore amica riesce davvero a farmi paura.
 

* * *

 
«Et voilà! Adesso guardati e dimmi che ho fatto un buon lavoro e sei stupenda» esclama Jo con troppa allegria.
In definitiva, ho accettato di andare a questa stramaledettissima festa. Dietro linciaggio a vista, però, altrimenti me ne sarei rimasta chiusa nei pochi metri quadri della mia camera. Direi che è proprio il caso di riconoscere di essere stata schifosamente costretta e ricattata.
Mi volto pian piano fino a riuscire a vedere per intero la mia immagine riflessa nello specchio a parete. Johanna ha ripescato dal fondo del suo armadio un vestito che, mesi fa, mi aveva chiesto di prestarle per una cena (anche se poi non l’aveva indossato) e adesso sto qui a chiedermi come abbia fatto a comprare qualcosa del genere: carino sì, ma non indosso a me. Mi muovo appena e faccio oscillare le pieghe plissettate sopra il ginocchio con fare molto poco convinto. Non sopporto il fatto che mi fasci in questo modo, come fossi un fagottino, o peggio, una barbie.
«Hai fatto un buon lavoro… ma sono io che non vado bene per questo vestito. Tienilo tu, a te sta meglio».
Jo alza gli occhi al cielo, scocciata. «Non dire baggianate e non entrare in paranoia, okay? Ti sta benissimo, il blu elettrico si intona perfettamente al colore della tua pelle e ti mette così in risalto il girovita che nessuno riuscirà a resisterti».
«Come se ci fosse qualcuno da far cadere ai miei piedi!» commento sarcastica mentre infilo quelle meravigliose decolté bianche che ho appena preso in prestito.
«Chi può dire il contrario?».
«Ah, ma per favore. Ho chiuso con le smancerie e la sfera affettiva in genere. Adesso voglio concentrami su…» mi zittisco di colpo, non trovando nulla per cui vale la pena spendere energie.
«Sul lavoro?».
Chiara battuta da presa in giro. Ma non gliela do vinta.
«Perché no, potrei diventare la più grande venditrice d’immobili del Paese e ricevere pure una medaglia da Guiness World Record. Potrei vendere trenta appartamenti in un solo mese, no? Immagina, puoi».
Sì, sto divagando. Mi capita spesso, specie quando sono nervosa. E penso che questo sia un ottimo momento per essere nervosa e divagare.
«Comunque sia, non ne hai la certezza».
«Di riuscire a vendere trenta appartamenti in un mese?».
«Di non essere guardata da nessuno».
«L’essere guardata è diverso dal fare colpo» obbietto.
«Non del tutto. Ci sarà parecchia gente stasera, persone che non vediamo da anni. Cinque, quattro… tre anni…».
Non mi piace il modo in cui ha evidenziato quella parolina. Diciamo che Johanna non è quel tipo di donna che riesce a fare delle frecciatine velate che lasciano dubbi.
«Oh, non vedo l’ora».
La mia amica non risponde, ha capito che è meglio non darmi modo di continuare a delirare. Mi tiro su (Dio, quanto sono alti questi tacchi!), mi risistemo di fronte allo specchio e completo trucco e parrucco. Quando finisco prendo posto proprio sotto la finestra e la guardo: Johanna indossa un abitino ancora più corto e striminzito del mio, con lunghe maniche a sbuffo e una strana fantasia pseudo-floreale beige, rossa e bianca. Sta una favola, insomma.
Sto per elaborare un complimento o qualcosa del tipo Perché non sono come te, ma il suono di qualcuno che bussa alla porta mi distrae. Mary, la minore delle quattro sorelle Moore, fa irruzione nella stanza e punta dritta dritta al puff.
«Che ore sono?» domando, avendo completamente perso la cognizione del tempo.
«Le otto e un quarto. – risponde la ragazzina – A che ore è la festa?».
Jo si paralizza alle parole della sorella, con lo sguardo nel vuoto e il mascara stritolato nella mano chiusa: lei non è affatto abituata ad arrivare in ritardo.
«Era alle sette e mezza…» rispondo pensando di non essere stata io l’ultima ad essere pronta, per una volta.
Johanna dischiude appena la labbra per dire qualcosa, con la faccia di chi ha visto un fantasma alla finestra di fronte. «E lui è già arrivato?».
Mary si rigira una ciocca tra le mani e annuisce. «Venti minuti fa, credo».
La Moore si ricompone all’istante, sfoderando un grandissimo sorriso a noi povere vittime dei suoi bizzarri sbalzi d’umore. «Benissimo! Dana, perché non vai avanti e gli dici che io sto per raggiungervi?».
La proposta/obbligo mi spiazza e penso di essermi persa qualcosa. «Dove dovrei andare?».
«Giù, in strada».
«Ma da chi?».
«Da lui».
«Lui chi?».
«Il nostro passaggio».
Ora è tutto più chiaro, decisamente. Cristallino come l’acqua del Tamigi, per la precisione.
Mary mi passa il trench, gesto carino e cordiale per farmi capire che devo andare via alla svelta. Lo infilo, prendo borsa e cellulare e apro la porta. «Pensavo che avremmo preso il taxi, come abbiamo fatto prima» dico stupidamente, prima di immettermi nel corridoio e uscire subito dalla porta d’ingresso.
Per fortuna casa Moore è solo al secondo piano e il fatto che il palazzo sia sprovvisto di un ascensore non è un gran problema. Mentre scendo non posso fare a meno di chiedermi chi sia questo misterioso signor Passaggio di cui non hanno voluto fare il nome.
Non è che Johanna si sia felicemente fidanzata senza dirmi niente, vero? No, non lo penso affatto. Anche se da lei potrei aspettarmi una cosa del genere.
Apro il portone e una folata di vento mi investe in pieno, facendomi rabbrividire. Un nome mi attraversa fulmineo la testa, ma non faccio in tempo a rifletterci un po’ su che lo abolisco immediatamente; non lo so sento da anni ormai, e sono sicura che sia lo stesso anche per Jo. Non mi resta che uscire e scoprire da sola di chi si tratta.
La strada è scarsamente illuminata e completamente deserta, fatta eccezione per la macchina parcheggiata di fronte a me, quella col conducente poggiato contro il cofano anteriore proprio sotto il palo. Almeno non è un maniaco, altrimenti non si sarebbe esposto così tanto. Mi avvicino domandomi chi sia mentre studio meglio quel poco che di lui mi è possibile vedere. Pantaloni neri, mani infilate nelle tasche della pesante giacca, viso chiaro contornato da barba e capelli tendenti al biondo. Sorride già, indice del fatto che mi abbia riconosciuta. E anche io ho capito chi è.
La notte, quando non si riesce proprio a prendere sonno, si fanno i pensieri più assurdi ed io non vengo di certo meno. Passato, presente, futuro, tutto si mescola facendoci rivedere o immaginare ciò che abbiamo fatto, ciò che facciamo, ciò che faremo o che pensiamo di fare. Ecco, questo non rientrava per niente in quello che immaginavo sarebbe stato il mio comportamento. La mia reazione tipo sarebbe stata felice, tranquilla e allegra senza cadere nel comico; una reazione normale per farla in breve. Ma sono stata colta di sorpresa e la normalità non è mai stata il mio forte, quindi è ovvio che ogni buon proposito sia andato presto a quel paese.
«Tom! – esclamo abbracciandolo – Sei tu il signor Passaggio!».
Hiddleston ride divertito. «È così che mi hanno soprannominato ai piani alti?».
«Sì, immagino volessero farmi una sorpresa. Dio Santo, come stai? Ne hai fatta di strada, sei davvero una persona importante adesso! Non sai che euforia quando…».
«Quando hai scoperto che mi era stata affidata la parte di Loki? Ti piacciono ancora i supereroi Marvel?» sorride.
«Sempre e comunque. Hai fatto vacillare il mio amore assoluto e incondizionato per Spiderman, ma va bene così. I cattivi hanno sempre il loro perché».
«Così come le rimpatriate» afferma.
Mi allontano un po’ e lo squadro, dubbiosa. «Johanna ti ha detto che non voglio venire?».
«Sì, e secondo me sbagli. Ci divertiremo, sarà una bella serata».
«Odio il vostro ottimismo e il vostro essere sempre così estroversi».
«Qualcuno deve pur tirare su il morale di Lady Tenebra, no?» ride. Vorrei fingermi offesa, ma il broncio lascia subito posto ad una risata che fa eco a quella del mio amico: fare i seri con Tom è praticamente impossibile quando lui non vuole.
Il rumore metallico del portone che si richiude ci fa voltare e Johanna avanza verso di noi sorridendo, anche se non riesco bene a capire a chi sia rivolta. Però, ci ha messo un attimo a finire ed ha un trucco perfetto. Ogni volta che la guardo sento quel poco di femminilità che ho sbriciolarsi e volare via col vento. Pazienza, non credo che mi ci ritroverei nemmeno a fare la perfettina: sono più poeta maledetto dell’Ottocento, io.
Thomas le afferra la mano e la bacia platealmente, anche sotto questa strana luce a intermittenza posso vedere le guance di Jo tingersi di rosso. Quei due hanno ancora qualcosa, ne sono convinta. Se ci fosse stato anche… ehm. Tanto lui non c’è, che senso ha parlarne?
«Principe Hal, non dovevate».
«E perché no? Un così bel fiore… senz’offesa, Dana».
Alzo gli occhi sorridendo a labbra chiuse. «Non fa niente. Avvertitemi quando finite di flirtare alla maniera trecentesca e ammettete che stavolta il ritardo è dovuto a voi e non a me, stranamente, quando arriveremo» aggiungo salendo in macchina e chiudendo la portiera. Li vedo scuotere le teste divertiti prima di prendere posto nell’abitacolo.
«Signore, è già parecchio tardi – Tom mette in moto – quindi allacciate bene le cinture perché siamo diretti a… dove siamo diretti?».
«Mayfair».
«Uh, si tratta bene la signora» commento senza troppa sorpresa. C’era proprio da aspettarselo da una come Clare Harris.
«Sì, ha sposato un imprenditore o roba del genere. Un americano di quelli abituati a essere sempre sulla copertina di Forbes» spiega Jo.
«Uno spocchioso ricco sfondato da far schifo, quindi».
«Esattamente».
«Beh, almeno l’ha smessa di sculettare a destra e sinistra per darsi da fare e pagare quel buco di stanza», le parole mi muoiono in gola quando capisco che una simile cattiveria potrebbe essere detta sul mio conto. Con la sola differenza che io non sono sposata con un riccone americano, anzi, io non ho neppure qualcuno con cui uscire.
«Però era brava».
«Cielo, Hiddles, davvero?» domanda prontamente la Moore, quasi infastidita quanto me dall’affermazione.
Tom approfitta del semaforo rosso per staccare gli occhi dalla strada e guardarci in faccia. «No?».
«Certo che no!» esclamiamo.
«E va bene, va bene, no… Ma per noi ragazzi lo era».
«La cosa non mi stupisce affatto» rido, mentre Johanna si affaccia appena dal finestrino per prendere aria.
«Fingo di non aver sentito niente. Piuttosto, ci pensate? La banda è riunita, siamo di nuovo tutti insieme!».
«No, non siamo proprio al completo. Per esserlo manca solo…».
Sospiro. «Ben».
 

* * *

 
Anche non sapendo il numero civico avremmo riconosciuto la casa… pardon, Reggia Reale, ugualmente: è la più illuminata di tutte, come se fosse giorno, cosa che mi fa credere che il marito deve essere veramente arrogante ed egocentrico quasi quanto la moglie.
Thomas fischietta stupito. «Clare ha davvero fatto il salto di qualità con il matrimonio, questa casa è grande quasi quanto quella di Chris».
«Chris?» domando.
«Hemsworth».
«Ah già» rispondo distrattamente col cervello che mi figura immagini di quel dio biondo.
Ci fermiamo davanti al cancello d’ingresso e osserviamo meglio: la villa è a due piani, bianca, con due colonne ai lati della porta d’ingresso che sorreggono un balcone al livello superiore. Mi ricorda la Casa Bianca, in un certo senso.
«Okay, chi suona?» chiede Jo, le mani ai fianchi come di chi si aspetta una risposta veloce.
Inizio ad entrare nel panico. «Non lo fai tu?».
«Dovrei?».
Tom ci fissa per un attimo e alza le mani scuotendo la testa. «Non guardate me».
«Jo…».
«Vai».
«Ho avuto una giornata tremenda, non puoi farmi questo!» piagnucolo.
«Non vedo come questo c’entri con lo spingere un pulsante».
«Mi trascini a delle feste a cui nemmeno tu vuoi partecipare, perché?» dico, pur sapendo che non avrò risposta. Sbuffo e suono il campanello laccato d’oro.
Ansia. Mi tremano le mani. Avrei anche potuto accettare di uscire, ma non per venire qui. Questo è l’ultimo posto al mondo in cui desidero essere al momento.
«Chi èèèèèè?» si sente gracchiare qualcuno dopo un po’.
I due novelli Iscariota scoppiano silenziosamente a ridere vedendo la mia istantanea espressione di puro disgusto. Quella voce così acuta, così palesemente falsa, così fintamente zuccherina mi ha sempre dato i nervi. Questa si chiama violenza psicologica.
«Siamo Johanna, Tom e… Dana» rispondo a fatica cercando di sembrare alquanto dolce. Spero non faccia davvero La Battuta.
Attimo di silenzio dall’altra parte, musica esclusa. Poi: «Dana faccia di banana?».
Ecco, l’ha fatta. Datemi almeno una buona ragione per entrare e comportarmi in modo civile, senza spaccare la faccia a quella stronzissima padrona di casa.
«Ahahahaha! Entrate pure, tesori!».
Il cancello si apre con uno scatto e Thomas lo spinge in avanti.
«Giuro che la uccido, stasera sono proprio in vena» sibilo a denti stretti.
Jo mi prende sottobraccio, sorridendo più ampiamente del dovuto alla Harris che ci tiene aperta la porta. «E invece no, sta’ vicino a noi e vedrai che non ti darà fastidio se non quando ce ne sarà estremamente bisogno. – una veloce strizzata d’occhio – Clare!».
«Johanna, carissima!» esclama quella stampandole due sonori baci sulle guance. Poi è la volta di Tom, che però riesce a defilarsi in fretta, e infine mia. Mi bacia sulle orecchie, con la chiara intenzione di darmi fastidio.
«Che meraviglia, il fantastico quartetto del RADA di nuovo tutto unito!».
«Trio, – mi affretto ad aggiungere, cogliendo al volo l’occasione di vendicarmi – siamo un trio, stasera. Se conti bene siamo tre, non quattro».
Il sorriso forzato e acido di Clare è inversamente proporzionale al mio, fintamente stupido e ingenuo.
«Sì, era quello che volevo dire» afferma  più seria, con quei suoi bei occhioni azzurri da cerbiatta che prendono fuoco.
Nessuno di noi si degna di risponderle (sono anche pronta a scommettere che Tom stia lottando per trattenere una risata) e io mi sposto leggermente più a sinistra per sbirciare un po’ all’interno: un lungo e largo corridoio inondato di luce e stracolmo di gente conduce ad un immenso giardino anch’esso affollato. Mi chiedo quanti siano gli invitati.
«Oh, ma entrate! Non vorrete mica restare qui, no? Ahahahaha!».
«Ahahahaha!» le facciamo eco con il più o meno velato intento di prenderla in giro.
Nel giro di nemmeno mezz’ora ho già salutato almeno la metà degli ospiti e con alcuni sono anche riuscita ad intrattenere conversazioni che andavano oltre il Come stai?. Direi che è un’ottima cosa, ma ho la sgradevole sensazione che la serata appena cominciata sarà molto lunga, lunga ed estenuante perché non devo mai abbassare la guardia. Non si sa mai cosa potrebbe accadermi in casa del nemico.
La situazione peggiora quando mi rendo conto di non essere più in grado di trovare Tom e Jo, ovvero quasi un’ora dopo il nostro arrivo. Sembrerà una boiata colossale, ma la villa è così grande (a proposito, c’è un terzo piano seminterrato non visibile dall’esterno) e gli invitati così numerosi che non riesco assolutamente a vederli. Inizio a sentire una sorta di panico farsi strada nella mia mente; cosa farò per tutto il resto della serata? Dove sono finiti, soprattutto? Erano dietro di me quando salutavo Berta Holbrook e cercavo di mostrare interesse per la sua folle e folgorante decisione di diventare un’egittologa e di come tale scelta l’avesse portata a conoscere l’uomo della sua vita. Sì, perché la maggior parte è tutta felicemente accasata e con prole.
Rassegnata e infastidita per essere stata abbandonata, dopo aver controllato per due volte il seminterrato senza successo, decido di restare al pian terreno convinta del fatto che, per andare via, quei due mascalzoni dovranno necessariamente passare di lì. Riesco abilmente a scansare alcuni vecchi compagni e le loro idiote domande (già tre persone mi hanno chiesto come mai non fossi in compagnia) fingendomi particolarmente interessata a dei finti Caravaggio appesi ai lati del corridoio come si trovassero in una galleria d’arte. La mia strategia non sembra funzionare con tutti, però.
«Ullalà, chi abbiamo qui? Dana Victoria Dalloway, la mia vecchia fiamma!».
Che esordio da sfigato. Tipico di un personaggio del genere, ma estremamente da sfigato.
Le opzioni sono le seguenti: posso far finta di non averlo sentito, posso dirgli di essersi sbagliato, posso scappare via a gambe levate e tornare a casa a piedi, oppure posso… semplicemente provare a rispondergli.
«Jimmy, ma quanto tempo». Impegnati di più, Dana, impegnati.
James Patterson mi si avvicina e mi bacia sulle guance con troppa confidenza. «Festa della Laurea di sei anni fa, ricordi? Ti avevo anche lasciato il mio numero e tu mi hai risposto che mi avresti chiamato, cosa che invece non hai mai fatto», i suoi occhietti da topo scintillano dietro la montatura nera.
Ma cos’è, tutta la gente più inutile e stupida del pianeta ha deciso di riunirsi oggi per darmi fastidio? Hanno appena inaugurato una nuova trasmissione, una specie di Candid Camera dei poveri?
Sento calore alle orecchie e non è un buon segno. «Sì, io… ho… perso il cellulare quella sera stessa! Sai no, ricordi… tutta quella confusione… e nessuno di noi era sobrio già da un po’…».
Jimmy annuisce vagamente convinto. Non mi importa se ci creda o no. «Capisco. Beh, è un peccato, avrai perso i contatti con tutti».
«Sì, in effetti è così».
«Quindi sarai felice di essere qui stasera. Scommetto che ti siamo mancati, scommetto che ti sono mancato».
Lancio un’occhiata veloce alla sua mano sinistra, un po’ allarmata. Non c’è nessuna traccia di anello e la cosa non mi aiuta affatto.
«Chi più, chi meno, non si può avere simpatia per tutti» rispondo neutrale, scrollando le spalle.
«Giusta osservazione. Ma dimmi, cosa fai di bello adesso?».
Altra domanda che odio. Il mio futuro non è esattamente come lo immaginavo e mi vergogna ammetterlo, anche se non si tratta di nulla di sconcio o illecito. «Lavoro, – spero che non mi chieda più nello specifico – e tu?».
«Anche, ma non più qui. Francoforte, ormai ci lavoro da quasi tre anni».
«Germania, bello». Voglia di intavolare una conversazione, stuprami!
Jimmy resta in silenzio a guardarmi come se si aspettasse che gli chiedessi qualcos’altro, e so che dovrei farlo, ma vedendo che me ne rimango zitta prende di nuovo parola. «Sono a Londra di passaggio, partirò tra due settimane».
«Oh». Il suo sguardo mi fa capire che si aspetta ancora qualcosa. Sant’uomo, quando pensa di lasciarmi andare? «Allora hai ancora tanto tempo. Rilassati e goditi le vacanze, mi raccomando».
Patterson fa per avvicinarsi pericolosamente al mio orecchio. Sa che quella è una zona off-limit, specie per lui? «Sì, sicuramente. Ma sono rimasto solo in città ormai e mi chiedevo se ti andrebbe di vederci e andare a prendere qualcosa da bere… magari settimana prossima, magari domani, magari… ora».
Inizio a non tollerarlo davvero più. Non che l’abbia mai fatto, certo, ma adesso sta esagerando e la prospettiva che la serata possa andare anche peggio di così mi turba e mi fa scappare un risolino nervoso che so per certo la mente deviata di Jimmy interpreterà per altro. «Ora non mi sembra proprio il caso».
«E domani?». Il suo braccio intorno ai fianchi mi innervosisce. Non ci vuole molto a capire che il sorcio sta cercando di rubarmi il bacio che si aspetta dai tempi del corso di pittura di scena, cosa che ovviamente non gli permetterò di fare. E aggiungo altro, questa è forse la volta buona che gli spiattello tutto in faccia e…
Una mano si poggia sulla mia spalla, delicata e timida. «La signorina domani è già impegnata con me. Scusa, James».
La faccia del Patterson cambia radicalmente espressione mentre si stacca da me e accenna a volersi allontanare. Io, dal mio canto, non penso che avrò una seconda occasione per apparire tanto idiota e insensata.
«Benjamin, è un piacere vederti» saluta cercando di sembrare meno acido di quanto sia in realtà. Estrae il cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni e si allontana. «Vogliate scusarmi, pare che qualcuno abbia bisogno di me».
Sono ancora troppo sotto shock per parlare, così lascio che sia il mio amico a salutarlo e augurargli una buona serata. È imbarazzante come questi due occhi verdi che mi fissano allegri riescano ancora a mandarmi a fuoco le guance, nonostante la vecchia abitudine e tutti gli anni passati. La sua mano però non resta a contatto con la mia pelle per più del necessario e, quando Jimmy è lontano, si sposta e ritorna in tasca.
«Allora, non dici niente?».
«Tempismo perfetto, Whishaw».
«Quello che tu non hai mai avuto» sorride mentre si fa strada verso il terrazzo.
«Sei sempre magro come uno spillo».
«Ho messo su qualche chiletto dall’ultima volta che ci siamo visti».
«Sarà, ma sembri ancora un bambino sottopeso» replico.
Ci fermiamo, ci guardiamo per un secondo o due e scoppiamo a ridere. «Ti sono mancato» afferma poggiandosi contro la ringhiera.
«Non più di quanto io sia mancata a te, tranquillo». Sono molto più felice di quanto possa sembrare, giuro. Lo guardo e non posso a fare a meno di notare quanto stia bene e quanto sia cambiato negli ultimi otto anni. «Mi piaci» dico stupidamente, e una largo sorriso prende forma nelle sue labbra, tanto che aggiungo: «Con questa barba un po’ incolta, intendo».
Benjamin si passa una mano sul mento con noncuranza. «Devo tagliarla. Spero di piacerti anche senza».
«Non importa. – scrollo le spalle – Ti sta bene» indico la sua giacca blu elettrico come il mio vestito. Il suo colore preferito, per di più.
Ben fa un mezzo giro su se stesso. «Sono accettabile conciato così? I colori s’intonano tutti?».
«Prendi ancora i vestiti a casaccio dall’armadio?».
«Non ho mai smesso di farlo. Vuoi?» domanda porgendomi un panchetto di Winston (anche quelle blu, naturalmente).
Ne prendo una e lascio che l’accenda con la sua. «Sto cercando di darci un taglio».
Espira e i suoi occhi si rimpiccioliscono mentre sorride. «Sei sulla strada giusta quindi, nulla da obiettare».
Restiamo in silenzio per un po’, fino a quando le nostre sigarette non sono quasi spente.
«Otto anni sono tanti».
«Già, ma non credere che la mia vita sia particolarmente speciale e che abbia fatto qualcosa di importante in quest’arco di tempo».
Mi rivolge un’occhiata apprensiva. «Crisi dei trent’anni?».
«Se tu la chiami così».
«Sono l’uomo giusto al momento giusto!».
Rido divertita, ma non faccio appena in tempo a rispondere che vengo fermata da una voce. «Ce l’hai fatta a venire, eh». Thomas e Johanna avanzano nella nostra direzione, vicini. Non posso fare a meno di rivolgere uno sguardo arrabbiato alla mia migliore amica, che mormora delle scuse veloci.
«Mi sono fatto forza e ho preso un taxi».
Jo abbraccia Benjamin sorpresa e penso che nemmeno lei sapesse della sua presenza.
«Tu lo sapevi?» domando rivolta a Tom. Quante cose mi nasconde la gente?
«Non ne avevo la certezza assoluta, ma lo speravo. Comunque sia, – Hiddleston si strofina le mani con fare allegro – adesso che siamo tutti qui riuniti direi che possiamo sgattaiolare benissimo fuori da questa casa di palloni gonfiati e andare a festeggiare, no?».
«Questa è la cosa migliore che abbia sentito in tutta la serata» concordo sbrigativa mentre afferro Jo per una mano e mi dirigo verso l’interno a ripescare la borsa.

Step 2, rest on my shoulder...

L'avete letto tutto? Tutto tutto? Ma sul serio? No, perchè vi meritate un applauso u.u
Aaaallora, che dire, il quartetto (Cetra) è ormai riunito e mi sto dando da fare col prossimo capitolo. Cosa che non mi sta venendo affatto facile, data l'improvvisa vena tragica che ho appena scoperto di avere. Nemmeno fossi l'erede di Sofocle, Eschilo o Euripide ._.
Quindi niente, a chi ha letto grazie e a chi non ha letto bravi xD

Mi inquino (#cit) alla vostra presenza,

A.


 

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Capitolo 3
*** Young folks ***


Capitolo 2 – Young folks
 
And we don't care about the young folks, 
talkin' bout the young style 
And we don't care about the old folks, 
talkin' 'bout the old style too 
And we don't care about our own folks, 
talkin' 'bout our own stuff 
All we care about is talking, 
talking only me and you
 
Siamo in una grande stanza affollatissima da tutte le parti, ma non so esattamente chi sia con me. So di non essere sola, ma non riesco a vedere alcun volto familiare tra tutta questa confusione. C’è solo una grande calca che mi spinge in avanti, attraverso una camera verdognola che sembra non finire mai. Mi lascio spingere senza opporre resistenza, mentre osservo alle pareti laterali delle cornici appese e vuote che lasciano intravedere un’orrenda carta da parati. Mi chiedo che razza di posto sia questo. Qualcuno mi afferra per il braccio e mi trascina via dalla lunga fila di gente: è mia mamma. Ma non dovrebbe essere a casa sua, in Italia? Che ci fa qui, non mi aveva detto che sarebbe venuta. Tutta serie di domande prende corpo nella mia testa, ma le parole mi muoiono soffocate in gola e non faccio altro che sforzarmi di produrre qualche suono. Mamma è strana, se ne sta zitta e non mi guarda: mi chiedo se ce l’abbia con me. Mi domando anche perché stia indossando il vestito azzurrino che le avevo regalato una volta, quando avevo quindici o sedici anni, e non capisco il motivo per cui tenga quell’orrendo velo di merletto davanti al viso. Improvvisamente so dove mi trovo, sono al matrimonio della figlia della signora Millian, Grace. Mia madre è scomparsa ed io mi rendo conto solo adesso di trovarmi nell’Abbazia di Westminster, addobbata come se si trattasse del matrimonio di William e Kate. Avanzo in silenzio per vedere meglio la sposa e quando arrivo all’altare mi accorgo che lei non c’è e che l’unico ad essere presente è lo sposo, il quale si gira, mi sorride e…
Nicole Kidman e Robbie Williams? Perché stanno cantando, non ho mica inserito la sveglia. Mi rigiro nel letto e assesto un colpo al cellulare, che continua a suonare inarrestabile. Solo in un secondo momento realizzo che non si tratta della sveglia ma della suoneria e allora sgrano gli occhi e rispondo senza perdere un istante di più.
«Pronto?».
«Ce ne hai messo di tempo, stavo per riattaccare». Scott Fitzwilliam, il mio datore di lavoro, si lamenta con la sua solita voce stridula dall’altra parte del telefono.
«Hai ragione, scusa. Stavo dormendo».
«Alle dieci e mezza?».
Scott è un brav’uomo e questo suo tono di voce unito al fatto che stia chiamando proprio la sottoscritta mi allarma. «C’è qualche legge che lo vieta? Ieri sera ho…».
«Ho bisogno di te in ufficio. Adesso».
«Oggi? Ma è il mio giorno libero!» protesto debolmente.
«Ora, sbrigati» e riattacca.
Ho la sensazione che la giornata non sia iniziata nel migliore dei modi e che qualcosa di brutto sia in procinto di accadere. Ma forse sono troppo apocalittica; magari il mio capo vuole comunicarmi che ha deciso di sua spontanea volontà di darmi un aumento. Mmm. Proprio il mio giorno libero? Non avrebbe potuto aspettare fino a lunedì?
Mi lascio ricadere pesantemente sul letto, stanca prima ancora di cominciare. Il mio sguardo vaga dal soffitto, alla finestra con le tapparelle semi abbassate e si posa infine sulla scrivania piena di scartoffie e cianfrusaglie. Com’era quella frase? Fenomenali poteri cosmici in un minuscolo spazio vitale, sì. Non che io abbia fenomenali poteri cosmici, certo, però credo che il sottoscala in cui viveva Harry Potter fosse sicuramente più comodo della camera che ho preso in affitto. Ancora una volta, penso che dovrei sloggiare da qui, anche se non so ancora con quali soldi e dove dovrei andare.
La suoneria riparte.
«Fitz?».
Un attimo di silenzio. «No, Ben. Aspettavi una chiamata?».
Mi tiro su a sedere e poggio i piedi per terra. «Pensavo fossi il mio capo. Mi ha telefonato qualche minuto fa dicendo di volermi vedere in ufficio. Nel mio giorno libero».
«Ahia».
«Secondo te devo avere paura?».
«Non voglio scoraggiarti, ma… hai combinato qualche marachella di recente?».
Inizio a tirare fuori qualcosa dall’armadio. «No, niente di niente. A meno che… – un nome rischiara a giorno la mia mente e mi fa restare con la gruccia sospesa a mezz’aria – gli Hobbs, cazzo!».
«Trovato il danno. È qualcosa di grave?».
«Spero di no, ma temo di sì».
Lo sento sospirare all’altro capo del telefono.
«Sai che ti ho sognato? – cambio discorso – No, non pensare male».
«Non lo stavo facendo».
«Certo, come no».
«Fammi ricredere».
Subito. «Ti stavi sposando. Con la figlia della signora Millian, anche se ancora non era arrivata».
«Che razza di sogno…?».
«Non lo so, non hanno mai molto senso».
«Almeno è carina?».
«Direi nella norma. Bianco o nero?».
«Rosso, metti qualcosa di rosso».
Resto in silenzio, scrutando il mio guardaroba. «Mi fa strano» dico infine.
«Cosa?».
«Parlare di nuovo al cellulare con te».
Ridacchia. «Allora penso che adesso la situazione ti sembrerà più strana, visto che sto per chiederti di pranzare insieme».
Perché sento calore alle guance? Perché batto il piede per terra come faccio quando sono nervosa?
«Ci sei ancora?».
Scuoto la testa, come se potesse vedermi. «Sì sì, stavo solo pensando».
«A cosa indossare?» scherza.
«No, al fatto che potrei essere la persona più depressa del mondo una volta uscita dall’ufficio».
Me lo immagino mentre fa spallucce. «Correrò il rischio. A cosa servono gli amici, se no?».
«A ricordarti quanto sei stato idiota con due clienti molto importanti?».
«Se te lo meriti, perché no? Fammi uno squillo quando finisci, ti vengo a prendere lì dove ti trovi».
«Troppo gentile».
«Ci vediamo dopo, Blackie» sghignazza chiudendo la chiamata.
Stronzo. Sa che odio a morte quel soprannome.
 
* * *
 
Scendo dal bus e mi preparo a percorrere a piedi i pochi metri che mi separano dall’ufficio. Il sole appare e scompare da dietro le nuvole e l’aria gelida mi fa infilare le mani in tasca chiedendomi quando la primavera abbia intenzione di arrivare. Anche se “primavera” non è esattamente una di quelle parole che è possibile abbinare a Londra. No, decisamente no. Qui mesi come Marzo e Aprile non esistono proprio e Maggio si fa sentire a malapena. Mal che vada, emigro a sud: magari lì la vita e le condizioni climatiche sono davvero migliori.
Sono così presa da tutta un turbinio di pensieri di poca importanza che attraverso la strada senza nemmeno guardare prima a destra e sinistra, rischiando quasi di essere messa sotto. La cosa triste è che mi accorgo dell’impatto solo quando l’auto arriva a sfiorarmi la gamba, facendomi perdere il mio già instabile equilibrio. 
Risultato: mi ritrovo a terra e non so nemmeno come, ma c’è tanta gente che mi fissa e questo mi manda in bestia. 
Il conducente della Mercedes nera nuova di zecca non si disturba nemmeno di scendere per verificare eventuali danni alla sottoscritta, così decido di fargli una visitina. Una sgommata furiosa e via, il folle parte a tutta velocità e rischia quasi di camminare sui miei piedi. Non so quanto senso abbia, ma non posso trattenermi dall’urlargli contro un signorile: «Guarda dove vai, testa di… rapa!».
Mi guardo intorno agitata, ma noto con grandissimo sollievo che il capannello di gente si è dissolto velocemente come si era formato. Ho di nuovo la strana sensazione che questa non sarà una bella giornata e che avrei dovuto fingere una voce irrimediabilmente nasale, prima al telefono con Fitz, per poter restare in camera a poltrire e godermi tranquillamente il mio giorno libero.
Sospiro, mi ravvio i capelli e volto l’angolo. Chuck mi sorride non appena mi vede, il bianco dei denti che contrasta con la sua pelle scura.
«Non dovresti essere a scuola o al lavoro?» gli chiedo, battendogli il solito cinque.
«E tu non dovresti indossare gonna e tacchi?».
«Non cambiare discorso, sono più brava di te in questo gioco».
Sbadiglia e incrocia le braccia dietro la schiena. «Mi secca, preferisco restare qui ad aspettare te».
Lascio che mi accompagni in ascensore, seguendolo insieme ad una risata. «Torna a casa, moccioso. Tua madre sa che hai marinato?».
«Mamma ha perso ogni speranza, ormai. – risponde con indifferenza mentre schiaccia il tasto del quinto piano – Atto di ribellione?».
«No. Teoricamente oggi mi spettava il mio sacrosanto riposo, ma è andata diversamente».
Il ragazzo resta in silenzio per qualche momento, scrutandomi bene. «Ti preferisco in uniforme».
«Chissà perché lo sospettavo». L’ascensore si ferma e le porte si aprono, liberandomi dallo strazio di doverci stare chiusa dentro. «Io odio quel tailleur» affermo prima di salutarlo scompigliandogli i ricci ribelli che gli ricadono sulla fronte.
«Dana, hai impegni dopo?».
«Chuck…!» esclamo roteando gli occhi.
«Che c’è, i toy boy vanno di gran moda ultimamente».
Sorrido e lo guardo attraverso le porte che si richiudono. «Sarà, ma io ho ventinove anni e tu ne hai sempre e solo sedici». 
L’ultima cosa che riesco a vedere di lui sono il suo perenne sorriso e la sua mano agitata in segno di saluto. Spero seriamente per lui che si decida a studiare, prima o poi: è terribilmente in gamba per essere così giovane.
Sento già il sangue affluirmi velocemente verso le guance e la gamba inizia il suo solito ticchettio. Tiro via l’elastico dal polso e lego appena i capelli, giusto per non averli davanti agli occhi e anche per evitare che mi facciano sudare più del necessario. Suono il campanello e la porta si apre istantaneamente con uno scatto, rivelando Jennifer già seduta dietro la sua sfavillante scrivania.
«Quando il buongiorno si vede dal mattino. Hai due occhiaie tremende, che ti è successo?» s’informa passandomi prontamente specchietto e correttore. Jennifer Smith, la segretaria dalle mille risorse che nasconde un intero negozio di cosmesi all’interno di un cassetto.
«Niente, a parte un pirata della strada che mi ha quasi investita ed è scappato di corsa».
«Oh Cielo, e ti sei fatta male?».
«Credimi, ho più paura di Scott al momento» replico chiudendo lo specchietto.
La sua voce riecheggia mentre percorro il corridoio semi deserto: devono essere tutti all’opera. «Stendili tutti, Dalloway!».
Il mio capo ha lasciato la porta aperta e penso che mi abbia sentito arrivare.
«Non c’è bisogno che bussi, entra e basta».
Appunto.
Mi risolvo a sferrare un attacco diretto. «Fitz, se c’è qualcosa che…».
«Siediti» ordina. Il fatto che mi dia le spalle evitando di guardarmi mi innervosisce ancora di più. Quanto posso averla fatta grossa mandando affanculo gli Hobbs?
Non fiato finché lui non mi dice di farlo e lascio che gli unici suoni tra noi provengano dall’altoparlante sintonizzato su Virgin Radio. Mi sento come in bilico e non so esattamente quanto tempo passo a guardarmi intorno prima che Scott si sieda finalmente di fronte a me. Si massaggia la mascella, giunge le mani e prende parola. «Ho ricevuto una telefonata, ieri sul tardi. Pare che Richard e Melinda Hobbs siano passati alla concorrenza». Il suo tono di voce è duro e altamente inespressivo, il che mi fa pensare che sia talmente arrabbiato da potermi anche licenziare in tronco. Non oso immaginare cosa succederà dopo il licenziamento, però.
«Posso spiegare» mormoro.
«Lo so, per questo ti ho fatta venire».
La risposta mi spiazza, ma mi solleva incredibilmente perché forse (e sottolineo il forse) la situazione è meno grave di quanto avessi creduto. Così non esito a raccontare a Fitzwilliam la mia orribile esperienza con quella orribile coppia, partendo dagli esordi e non tralasciando mai nulla, soprattutto nella parte che riguarda il quinto atto.
Parlo, parlo e parlo, non riuscendo quasi più a trattenere la frustrazione che mi porto dietro da un po’. «Insomma Scott, se mi posso permettere, Richard Hobbs è proprio…».
«Un debosciato della peggior specie» conclude il mio boss con un sorrisetto amaro.
Sbianco. «No, io non volevo che tu avessi quest’impressione. Okay, non ho tollerato il suo modo di porsi nei miei confronti, ma non sto dicendo che sia un depravato cosmico» preciso. Non mi è ancora ben chiaro quale sia il ruolo di quest’essere, ma sono sicura che sia meglio non inimicarselo come ho già inconsapevolmente fatto con la moglie.
Fitz solleva gli occhiali che aveva lasciato scivolare lungo la punta del naso. «Infatti, sono io a dire che lo è. Vedi, Dana, conosco Rick dai tempi del liceo e abbiamo pure frequentato la stessa Università, so cosa fa. O almeno, speravo di non saperlo più visto che ormai siamo sulla cinquantina e non possiamo più permetterci certe… come dire, gesta eroiche, capisci cosa intendo».
Annuisco perché comprendo perfettamente cosa voglia dire, ma non so più cosa abbia a che fare questo con il mio lavoro. «Credo di essermi persa il nocciolo della questione» ammetto. Il mio capo mi fa cenno di continuare. «Il fatto che Richard e consorte abbiano scelto di affidarsi alla Jacobs&White è per noi positivo o no?».
Scott si lascia andare sulla poltrona di pelle nera e chiude gli occhi per un istante, con fare pensieroso. «Avrei preferito tagliare fuori la J&W a favore di altre agenzie, ma se il cliente è felice così… Amen. Avranno una bella gatta da pelare, Melinda è una rompipalle di prima categoria».
Sorrido col cuore leggero, pregustando la vittoria e lasciando che una meravigliosa ondata di allegria si impossessi di me da capo a piedi. «Quindi non vuoi licenziarmi?». Il mio lavoro mi fa pena, ma non posso permettermi di perderlo.
«E rischiare di portare normalità e tranquillità nel mio impero? Come ti passa per la testa?» sbuffa.
Giuro che mi vien voglia di abbracciarlo, e lo farei sul serio se non fosse così imbarazzante e quasi compromettente.
«Adesso vai, esci e goditi il resto della giornata. Lunedì penseremo ad evitare che Melinda ti denunci per non so cosa. Voi giovani dovete divertirvi» conclude con una di quelle sue solite “frasi ad effetto” recitate come se fosse l’Amleto.
Mi alzo e gli tendo la mano; nonostante questa specie di strana amicizia, Scott ci tiene a rispettare le formalità con tutti i suoi dipendenti. «Dicono che i cinquant’anni siano la seconda gioventù dell’uomo».
Uomo che mi scoppia a ridere in faccia, sarcastico. «Non quando tua moglie si è messa in testa di essere solamente nonna e di soffrire di sciatica!».
Lo guardo smarrita, non sapendo se adeguarmi o meno alla sua risata isterica. Meglio un sorrisetto neutrale, non si sa mai. 
 
* * *
 
Cammino avanti e indietro, nervosamente, con Chuck che mi osserva dalla portineria senza capire il motivo del mio atteggiamento. Magari lunedì glielo spiegherò, ma per adesso no. Devo ancora mandar giù il fatto che mi sia stato affidato un compagno e che questo sia un completo idiota.
«Perché non entri?» domanda infine il ragazzo.
«Perché ho caldo e voglio stare all’aria aperta». Il mio tono di voce è così cavernoso e sgarbato che mi affretto ad aggiungere: «Non ce l’ho con te, tranquillo».
Un collega, un duo. Io che sono sempre stata abituata a lavorare da sola, orgogliosa di farlo. Cosa diamine passa per la testa di Scott, si può sapere?!
Una Smart grigio topo mi affianca sul marciapiede e parcheggia proprio accanto a me. Oggi sento di dover stare alla larga da ogni sorta di veicolo a quattro ruote, così giro i tacchi e faccio per entrare in portineria e raggiungere Chuck.
Una risata cristallina precede un divertito «Che fai, scappi?» che mi fa voltare nuovamente.
«Scusami, non sapevo che macchina avessi e nell’ultima ora ho sviluppato un’improvvisa e grande voglia di camminare a piedi» affermo in preda alla paranoia. Ben mi guarda dubbioso. «Non farmi domande, è una cosa di scarsa importanza» dico aprendo la portiera.
«Caspita, hai un aspetto orribile».
«Anche tu sei molto bello stamattina».
Abbassa un po’ gli occhiali e mi squadra meglio. «Come ti senti?»
«Una vera merda. Non ricordo niente dopo la mezzanotte. Ho vomitato?». Il solo pensiero mi fa già tornare la nausea e trattengo un conato mentre abbasso il finestrino per salutare Chuck dalla macchina già in moto.
«Neanche una goccia».
«Sicuro? Non voglio bugie».
«Sono sicuro al novanta percento».
«E l’altro dieci?».
«Sono tornato a casa mia, non so».
«Dio, che schifezza. Di solito non lo faccio, sappilo».
«Ti credo, eri solo molto contenta di vedermi e ti sei data alla pazza gioia. Suvvia, non sei la prima né l’ultima. E poi eri molto aggraziata e simpatica, anche da sbronza».
Decido di non aggiungere niente, anche se so perfettamente che questo mio gesto non impedirà a nessuno dei due (o alla Moore e a Hiddleston) di dimenticare la mia grandissima figuraccia.
«Dove mi porti?» domando dopo un po’, incuriosita dal fatto che ci stiamo allontanando sempre più dalla City.
«Qui vicino, non temere. E se poi avrai ancora voglia di passeggiare, potremmo andare al parco». 
«Mi sembra un’ottima idea». Lo sento soffocare una risata accanto a me. «Che c’è?».
«Ieri sera abbiamo detto a Jimmy che oggi saremo stati insieme e lo stiamo effettivamente facendo».
«No, caro: tu hai detto a Jimmy che oggi saremo stati insieme e tu mi hai chiesto di vederci stamattina».
«Non vedo quale sia la differenza».
«Ed io non capisco cosa tu ci trovi da ridere».
La quiete prima della tempesta, il silenzio prima delle risate che mi fanno venire il mal di pancia.
«Perché continuiamo a battibeccarci come se avessimo ancora vent’anni?» domanda eseguendo una svolta a sinistra.
«Non ne ho idea, ma è come se non potessimo farne a meno» rispondo.
«Per non parlare dei litigi!».
«Già, a volte provavo a mettermi nei panni di Johanna e Tom…».
«Lo facevo anch’io, sai? Che grandi deficienti eravamo». 
Cerchiamo di lasciare cadere il discorso così, ma è evidente che non riusciamo proprio a pensare ad altro. 
«Avevamo litigato anche qualche giorno prima della tua partenza» dico.
Ben riflette un attimo. «Io non ricordo più nemmeno perché».
«Oh, io sì».
«Sul serio?! Dai, dimmi!».
Questo mi diverte non poco, anche se ai tempi quella discussione era stata quasi una vera tragedia. «È una cosa così idiota, ma così idiota che… bah, credo che ci sia impossibile essere ancora tanto scemi, oggi. – creo un minimo indispensabile di suspense – Mi avevi chiesto consigli su cosa mettere in valigia ed io ti avevo risposto di portare il maglione bianco perché faceva freddo, ma tu eri convinto che non ce ne fosse bisogno perché era estate e mi hai accusato di comportarmi da mammina e…».
Benjamin scoppia a ridermi in faccia e mi fermo, reagendo alla stessa identica maniera. Fa anche fatica a inserire la retromarcia e parcheggiare, ma alla fine riesce e si blocca con le mani sul volante e lo sguardo fisso davanti a sé. Poi si gira a guardarmi. «Sul serio litigavamo per cose del genere?».
«Imbarazzante, eh?» annuisco col tono di chi la sa lunga.
«Tanto. Ma guardiamo il lato positivo: adesso siamo grandi e maturi e facciamo solo discussioni serie»
Lo guardo dubbiosa e capisco dal modo in cui ha strizzato gli occhi che sta trattenendo l’ennesima risata. Sembriamo due cretini e la gente vedendoci può pensare che siamo pazzi, ma a chi importa?
«Certo, come no!» esclamo scendendo dall’auto. Mi guardo intorno, ma non riconosco bene il luogo ed ho solo una vaga idea di dove potremmo essere, così decido di giocarmela. «Barnes?».
«No, Richmond».
«Richmond? E cosa ci facciamo a Richmond?».
Ben mi squadra con finto disappunto, tenendosi il mento fra l’indice e il pollice. «Non eri tu quella con la memoria di ferro?».
«Ho mangiato poco pesce, ultimamente. E, anche se l’apparenza inganna, non sono completamente un’elefantessa». Si limita a sbuffare a roteare gli occhi. «Non stiamo insieme da nemmeno ventiquattro ore e ti ho già stufato».
«Perché, stiamo insieme?».
Il sorriso sulle labbra mi muore all’improvviso, sepolto da chili di imbarazzo. È da ieri sera che continuo a fare gaffe, devo sforzarmi di misurare le parole quando mi rivolgo a lui.
«Andiamo, dai» mi fa cenno di seguirlo e obbedisco silenziosamente. Tengo la testa bassa, fissa sulle punte delle scarpe, e quando lo vedo fermarsi e alzo lo sguardo resto di sasso.
«Ti ricordi?».
L’insegna al muro reca la scritta “Spirale Internet Cafè”, ma l’avrei riconosciuto benissimo anche senza quella. Una marea di ricordi mi inonda la mente e solo qualche secondo dopo mi accorgo di essere rimasta a bocca aperta.
 «Allora?».
«Sì».
«Racconta» mormora non smettendo di guardami sebbene non lo stia ricambiando.
«Era gennaio e fuori pioveva a dirotto. Ero chiusa in biblioteca per fare una ricerca, quando Jo è venuta saltellando e mi ha detto che il tizio molto molto carino che aveva conosciuto qualche settimana prima le aveva appena dato una locandina con l’indirizzo di un bar sconosciuto ma a cui saremmo dovute andare perché… beh, non c’era un perché. Johanna voleva andarci per quel ragazzo e a poco sono valse le mie lamentele e i miei tentativi di lasciarmi stare lì dov’ero. Così siamo andate e ho conosciuto Tom».
«Credo sia tutto giusto, ti prendo in parola. Manca solo…».
«E poi…» lo interrompo con l’aria di voler continuare.
«E poi?».
«E poi è arrivato l’amico stupido, timido e infinitamente impacciato di Tom che mi ha versato addosso tutto il suo succo di lamponi e ha macchiato irreversibilmente la mia maglietta preferita».
«Ah. Interessante. Non si può proprio fare a meno di questo finale, vero?».
«Fa parte della storia e così deve essere tramandato».
«Vedo che quando vuoi la memoria non ti manca».
«Anch’io ho i miei momenti» rispondo scrollando le spalle.
«Quindi, è questo il primo ricordo che hai di me? Di un tipo che ti imbratta la maglia grigia a righe bianche?».
Accenno un sorriso, molto più che sorpresa. «L’ho indossata solo quella volta da quando ci siamo conosciuti, come fai a ricordarla?».
«La ricordo e basta. Adesso rispondi: è quello il primo ricordo che hai di me?».
«Ti aspettavi qualcosa di diverso?».
«Onestamente sì».
«Se vuoi posso dire di essere stata colpita dal tuo sorriso smagliante e dai tuoi occhi verde intenso, ma hai recitato la parte del musone a capo chino per tutto il tempo, perciò non saprei…».
«Beh, però mi sono dato da fare dopo» conclude con un occhiolino.
Non so cosa voglia esattamente dire con quell’espressione ma riesce a farmi arrossire le guance e farmi perdere un battito al cuore, cosa che sempre e solo lui ha mai potuto fare.
«Sempre restando nei tuoi limiti» ribatto seguendolo dentro.
 
* * *
 
I tramonti in riva al Tamigi di Richmond sono qualcosa di spettacolare. Per un attimo mi torna alla mente l’immagine di mio cugino che mi spinge in acqua dopo una litigata: me la sta ancora pagando per questo. Ho molte foto che mi ritraggono qui, da bambina, quando venivo con mamma, la zia e Scott a fare i picnic durante l’estate e mi sorprende pensare che siano passati tutti questi anni e che io non sia più tornata se non di sfuggita.
«Era da tanto che non mi prendevo una pausa del genere» sospiro.
«Vita frenetica?».
«Nell’aspetto negativo. Direi più caotica. Caotica, squallida, monotona e confusionaria».
«Wow, sono davvero l’uomo giusto al momento giusto».
Alzo il capo e sorrido, dandogli una lieve spallata. «Abbiamo parlato già ieri sera del tuo tempismo, non farmi ripetere».
«Va bene, ma non puoi negarlo. Sono venuto a salvarti e ci riuscirò».
«Salvarmi, uhm. E sentiamo, mio personale paladino della giustizia, come intendi farlo?».
Il mio tono chiaramente irrisorio gli fa assumere uno sguardo di sfida. Fa qualche passo avanti e si ferma esattamente davanti a me, numerando man mano con le dita i suoi piani.
«Uno, ti trovo un lavoro. Un lavoro decente, che ti soddisfi appieno e che abbia a che fare con la tua laurea e la tua immensa passione per l’arte. Giusto l’altro giorno Tom Tykwer mi parlava di un nuovo progetto e non credo proprio possa fare a meno di una scenografa. Due, ti compro una casa. Tutta tua, ovviamente, niente più signora Millian e figlie della signora Millian. Magari a Soho, a Westminster, a Chelsea o nel West End, dove ti pare e piace. Sarà una casa magnifica, non dovrai far altro che sceglierla e al resto penserò io».
Alzo gli occhi al cielo e rido divertita ma, quando faccio per interromperlo, Benjamin alza una mano e continua deciso il suo discorso.
«Tre, ti scelgo un abito da sposa».
No, questa è assurda. «Un abito da sposa?! E cosa cavolo dovrei farci io con un abito da sposa?!».
«Dire solo di sì. Non ti chiedo altro».
Ancora prima di rendermi conto delle sue parole, mi ritrovo ad esclamare: «Stai scherzando!».
E invece no. Ben non sta affatto scherzando. Perché non è un tipo che mai scherzato su queste cose; perché non gli piace mostrare quella parte di sé che tiene sempre nascosta e, quando la tira fuori, non lo fa per gioco; perché ha sussurrato; perché mi sfiora appena la mano con la sua; perché mi guarda fisso negli occhi con la stessa intensità di quella volta di tre anni fa, quando, andandomene, gli dissi tra le altre che avevamo sbagliato a passare la notte insieme e che lui non era la persona giusta per me. Anche se in realtà non ero io la persona giusta per lui. E forse non lo sono ancora né lo sarò mai.
Faccio un passo indietro, rivolgendo il capo altrove perché sono talmente codarda da non riuscire nemmeno a guardarlo in faccia. Vorrei parlare, ma le parole mi muoiono in gola e, anche volendo, non saprei cosa dire.
«Ho provato a tenermi lontano da te, okay? Ho provato. Sono sparito, sono andato via e ho cercato di non pensarti, ma… ma non ce la faccio. Non ci riesco. E vuoi sapere come mai?».
Come c’era da aspettarsi, le lacrime iniziano a scendermi lungo le guance e non posso fare niente per fermale. «No, – mormoro – lo so già da me».
Una pausa. «Perché devi complicare tutto così?».
«Perché non vuoi arrenderti all’evidenza?».
«Perché non lo è. Non è l’evidenza che credi. Puoi ingannare chi ti pare, i tuoi genitori, Johanna, anche me se ti va, ma non puoi ingannare te stessa. E tu soffri. Sei delusa e amareggiata e quando ti guardo so che è così e mi sento una merda».
«Tu non… non hai idea».
«Hai ragione, ma vorrei averla. – si avvicina e mi asciuga l’occhio dolcemente, con il pollice – Non sai quanto mi piacerebbe starti accanto. Non mi hai mai dato una spiegazione concreta. Se c’entra in qualche modo il divorzio dei tuoi genitori…».
«Loro sono un altro paio di maniche» taglio corto. Sento di voler urlare, ho una voglia matta di spaccare tutto e mandare affanculo chiunque. Sono arrabbiata, triste, furiosa e sola. Maledettamente, completamente, fottutamente sola.
«Ho sempre trovato che fossi troppo testarda e tendente all’autolesionismo estremo. Non voglio stare qui per farti il lavaggio del cervello e convincerti che io sia l’uomo perfetto perché sarebbe un’enorme balla…».
«Perché sei qui allora?».
«Per capire. Una volta per tutte. So che non ti piace ammetterlo e continui a pensare che siano passati otto anni dall’ultima volta che ci siamo visti, ma tre anni fa…».
«Tre anni fa non c’è stato niente».
«Tre anni fa c’è stato! C’è stato, c’è e ci sarà sempre, cazzo! C’è stato anche molto tempo prima di tre anni fa, anche se in modi diversi!».
Sono state davvero poche le volte che ho sentito Benjamin urlare, potrei contarle sulla punta delle dita.
Sono state di più, invece, le volte in cui io non sono riuscita ad affrontare la realtà e sono scappata. Esattamente come sto facendo adesso.
Le sue parole mi giungono dopo che ho percorso qualche metro. Ha la voce spezzata. «Io ti amo. Non faccio altro che ripetertelo da tanto ormai, ma tu non ricambi. Non mi vuoi troppo vicino, ma non mi vuoi nemmeno troppo lontano. Ed io sono stanco, stremato, e voglio una risposta».
Per un attimo guardo il fiume con l’assurdo desiderio di annegarci dentro. Esattamente nel mio stile.
«No, tu non mi ami. Mi vuoi bene e sei solo confuso».
«Tu pensi di conoscermi così bene da poter decidere al posto mio e invece no, Dana! No!».
Mi fa male. Mi fa maledettamente male e non lo capisce. O forse sì?
«Sei un attore e non fai altro che recitare! Non riesci a distinguere la vita reale e pensi che sia tutto un film. Recitare, recitare e recitare! Sempre e con tutti!». Non mi fa per niente onore quello che ho detto e potrei benissimo scavarmi la fossa qui e adesso, se questo non fosse l’unico modo per allontanarlo definitivamente dalla mia vita.
«No, con te non l’ho mai fatto. Lo sai».
«No, Ben, non lo so».
Restiamo in silenzio. Il sole non c’è più, è ormai sparito, e il cielo si scurisce di secondo in secondo.
Incapace di fare altro, singhiozzo. Una, due, tre volte… poi il mio corpo si irrigidisce e si scuote violentemente ad ogni singulto. Non oppongo alcun tipo di resistenza quando Benjamin mi viene incontro e mi abbraccia, mentre io continuo ad imbrattargli la maglia.
Non so quanto tempo passa, forse secondi, forse minuti, ma anche quando riesco a calmarmi resto con il viso sprofondato tra la sua spalla e il suo collo, respirando il suo profumo.
Mi accarezza piano la schiena, salendo e scendendo con la mano. «Ho sempre odiato il One Million» mormora.
Non posso più stare qui, devo andare via.
Uno, due, tre passi indietro e poi mi volto, sapendo che lui non mi seguirà.
 
* * *
 
Ho camminato a lungo, ho preso un taxi e mi sono fatta portare a South Kensington. Sono esausta, mi muovo come un automa e ho il morale dilaniato e l’unica cosa di cui ho veramente bisogno è una bella chiacchierata con Jo, approfittando magari dell’assenza della sua famiglia (partita per andare in vacanza a Dover, come fa sempre in questo periodo) per restare anche a dormire.
Il portone è aperto, così salgo e suono il campanello alla porta. Aspetto, ma nessuno viene ad accogliermi. Suono ancora per sicurezza, ma non cambia nulla e decido di dare un colpo di telefono alla mia amica per essere sicura che non sia uscita. La cosa strana è che riesco a sentire il suo cellulare squillare all’interno, da qualche parte. Comincio a farmi prendere dal panico e a bussare ripetutamente.
«Jo! Jo, sono io, apri! Johanna! JOHANNA!». Do un ultimo colpo disperato prima di comporre il numero dei pompieri, pregando che Jo non si sia sentita male. Ho già portato il cellulare all’orecchio quando sento i cardini della porta scricchiolare e vedo comparire il suo volto.
Svengo.
 
* * *
 
Ho qualcosa di umidiccio sulla fronte, ma non riesco a toglierlo e non posso nemmeno aprire gli occhi. Ascolto il mio respiro e sono sollevata dal sentirlo tornato regolare, ma subito dopo una voce mi distrae.
«Sembra fredda». 
È Johanna ed è preoccupata. Così tanto da credermi in punto di morte. Ahia… Vorrei riuscire a sollevare almeno una palpebra per dimostrarle che sono ancora qui e…
«È svenuta, non morta. Sviene spesso, non ricordi?».
Ecco, bravo. Esattamente. Diglielo tu, Tom, magari ti crede e smette di pensare queste cose.
Un attimo.
Tom?
«Ben cosa dice?».
Ben?! E cosa diamine c’entra Ben in tutto questo? Perché Ben deve entrarci sempre?
«Dice che sono stati insieme fino a pomeriggio inoltrato e… beh, hanno litigato di nuovo. Immagina il perché. – Thomas sospira – Te l’avevo detto io non forzare niente, così non facciamo altro che peggiorare la situazione e aiutarli notevolmente a stare peggio».
«Ma Dana sta già notevolmente peggio! Devo fare qualcosa!».
Tutto questo è interessante nell’accezione negativa del termine. Cosa vogliono dire? E perché ho una brutta, bruttissima, sensazione?
«D’accordo, è giusto che tu voglia aiutarla, ma non ti sembra altrettanto corretto che sia lei a gestire la parte sentimentale della sua vita?».
«E lasciarla sola a piangere e mangiare schifezze mentre ascolta Celine Dion?». 
Signore e signori sono molto più che lieta di annunciarvi l’opinione che la mia migliore amica ha di me. Bello. 
«Non sto forzando proprio un bel niente, voglio solo metterle davanti quello che ha sempre saputo e rinnegato a se stessa». 
Se potessi farlo senza essere scoperta, sbufferei: pare proprio che gli altri mi capiscano molto meglio di quanto non faccia io stessa. 
Ma c’è dell’altro, perché Johanna non ha finito qui.
«Tom, non le ho ancora detto che stiamo insieme. Mi sembra… brutto, non lo so».
A questo punto potrei morire. Basta, finiamola qua. Chiudiamo il sipario e restituiamo agli spettatori i soldi del biglietto.
Non se a sconvolgermi sia più la notizia che loro due stiano insieme o che lei abbia paura di dirmelo. Ci rifletto tu, ma capisco subito che il fatto che Jo non voglia confidarsi con me mi ferisce maggiormente; del resto, avrei anche potuto immaginare che facessero coppia, ho sempre pensato che prima o poi sarebbe andata in questo modo.
Il problema adesso è rinvenire. Non mi resta molto da fare, così metto in pratica quello che so e fingo un ascesso di tosse sufficientemente lungo, alla fine del quale riesco a mettermi seduta e ad aprire gli occhi.
Jo e Tom mi guardano felici, ma un attimo dopo mi fissano come se si stessero aspettando la furia degli elementi. 
Sbranarli o perdonarli, sbranarli o perdonarli, sbranarli o perdonarli… ma se li sbrano non mi resta più nessuno. Uhm. Tanto vale perdonarli.
Abbozzo un sorriso e li guardo, ma mi blocco quasi subito con un’espressione facciale sicuramente poco intelligente. E va bene sforzarsi di non urlare e apparire calma e gentile, ma trovarseli addirittura davanti uno in boxer e l’altra con una maglietta più grande di lei e chiaramente non sua no, eh!
«Dana…».
Uno, due tre.
«Quanto hai sentito?».
Quattro, cinque, sei.
«Posso spiegare».
Sette, otto, nove.
«Mi dispiace, avrei dovuto dirtelo per tempo».
Dieci.
«Ho sentito quanto basta e non mi servono spiegazioni. In fondo sei la mia migliore amica, non la mia ragazza, giusto? E poi sono contenta per voi, stracontenta. Anche se per adesso non lo do a vedere perché sono sconvolta ma… cavolo, ce ne avete messo di tempo». Mi lascio ricadere sul letto e Johanna mi si butta praticamente sopra, abbracciandomi.
«Senti da che pulpito viene la predica».
Sollevo un sopracciglio e alzo la testa per quanto mi è possibile. «Qualcosa da obbiettare, Hiddleston?».
«Io? Assolutamente no».
Aspetto che la mia amica si sposti prima di riprendere parola e accorgermi di essere effettivamente molto imbarazzata. «Okay… adesso sarà meglio che vada… devo piangere ascoltando Celine Dion e magari sulla strada mi fermerò a comprare un barattolo di gelato e una confezione di marshmallows». Jo abbassa lo sguardo e Tom si gratta la nuca impacciato. Ne approfitto per alzarmi e correre fuori. «Va bene, allora… ciao… e scusate».
«Dalloway».
«Dica pure, Moore».
«Noi stiamo insieme da due mesi e mezzo, ormai. E tu e Ben?».
«Io e Benjamin non stiamo insieme».
«Per adesso» ribatte.
«Facciamo che…».
«Non voglio saperlo, voglio solo che tu ci pensi su».
Odio quando usa i suoi trucchetti psicologici, riesce sempre a farmi capire molto più di quello che dice in realtà. Per un certo senso, è come parlare con la mia coscienza.
 
* * *
 
Si dice che la notte porti consiglio.  Magari, se fossi tornata a casa e avessi dormito avrei davvero concluso qualcosa. Ma non sono tornata a casa perché non avrei retto, così, con le buste della spesa (se spesa può essere definito il cibo spazzatura), mi aggiro per la periferia della città.  Periferia che, guarda caso, corrisponde proprio al West End.
Mi piacerebbe poter dire che sono arrivata qui per puro caso, senza rendermene conto, ma sarebbe una balla galattica che non ha un briciolo di senso. Mi piacerebbe anche poter dire che sono seduta su questa panchina perché mi va e non perché sto aspettando Ben. Potrei anche smentire di avergli mandato un sms e allo stesso modo potrei aggiungere che lui non mi abbia risposto “Arrivo”, uscendo di casa a mezzanotte per raggiungere una squilibrata con vistosi sbalzi d’umore.
Lo vedo arrivare nello stesso momento in cui volta l’angolo. Alza appena una mano e il cuore prende a martellarmi veloce nel petto.
So già come comportarmi e di cosa dover discutere ed è meglio non perdere (ancora) tempo.
«Perché lo usi?». 
«Cosa?» domanda stranito.
«Il One Million; hai detto di odiarlo».
«Perché piace a te. Alle lunghe sono riuscito anche ad abituarmi».
«È illogico».
«È amore».
«È una battuta da film».
«Forse, però guarda: abbiamo smesso di litigare e parliamo come due persone civili».
«Parla per te».
Sorride e strizza gli occhi in quella maniera che mi piace tanto. Poi azzarda un abbraccio e mi bacia tra i capelli. «Hai fame?».
«No».
«Vuoi andare a casa?».
«Sì».
«Posso accompagnarti?».
«No».
«Possiamo provarci?».
Sbuffo e sciolgo l’abbraccio. «Mi dai il tormento. Mi manderai al manicomio».
«Non abbiamo mai provato sul serio».
«Io odio i manicomi, non sono bei posti. A zia Lizzie non piaceva stare lì».
«Se ci dessi una possibilità…».
«C’era sempre gente che urlava quando andavo a trovarla».
«Dana».
«Gente che urlava e odore di segatura».
«Dana».
«E la sua compagna di stanza non faceva altro che rubarmi i pennarelli».
«Blackie».
«Cazzo Ben, non chiamarmi così!». Andrò all’ospedale psichiatrico sul serio, di questo passo. Posso già iniziare a fare le valigie. «Perché vuoi stare con me? – sbotto infine – Sono un rottame, una carcassa. Sono mentalmente limitata e allontano tutti quelli a cui voglio bene. Mangio troppa cioccolata e non riesco a farne a meno. Amo i lunedì perché dopo il riposo della domenica tornare al lavoro mi fa sentire una persona utile. Arrivo sempre tardi agli appuntamenti perché perdo troppo tempo immersa nella vasca da bagno a fantasticare senza mai mettere in atto. Ascolto solo musica a volume assordante. Cammino sotto la pioggia senza preoccuparmi di rincasare bagnata dalla testa ai piedi e la lista è ancora lunga. Vuoi che continuo?».
Ben scuote il capo sorridendo sbarazzino. «Ti sei mai chiesta se a qualcuno siano mai piaciuti questi tuoi difetti? Nessuno è perfetto e, anzi, tu sei la persona più imperfetta del mondo, ma questo non significa affatto niente. Tu sei confusionaria e casinista, io sono serio e impacciato: se fossimo uguali sarebbe noioso».
«Sei bravo a rigirare la frittata».
«Mi capita di farlo spesso con i giornalisti».
«Ma io non sono una giornalista, quindi non voglio che tu cambi discorso».
«E io non voglio che tu continui la lista perché ti conosco meglio delle mie tasche e so come sei fatta. Se dopo otto… o tre anni sono ancora qui, chieditene il motivo».
«Hai una casa nel West End, dove vorresti essere?».
«Hai capito».
Ho capito, sì. Una volta per tutte, finalmente. Perché poi ha ragione: l’ho sempre rifiutato senza mai nemmeno capire il perché, non gli ho mai dato una vera possibilità. Non ci ho mai dato una vera possibilità. Lo pensavo, ma non lo facevo. Chi dice che le cose non possono provare a cambiare, del resto? La verità è che credo di aver avuto troppa paura. E ne ho ancora, ma a cosa serve?
«Volevo proteggerti dal casino che sono» mi ritrovo a mormorare, di nuovo con i lucciconi. Anche questa versione non è da sottovalutare.
«Lavoro a parte, ho una vita monotona e ritengo che un po’ di pepe non mi faccia male».
«Sei uno stronzo, non mi permetti di difendermi e controbattere».
«Non so se hai capito quali siano le mie intenzioni oggi, ma…».
Non pensavo di poter cambiare idea così improvvisamente e di essere talmente vulnerabile da venire sconfitta in meno di ventiquattro ore. Una parte di me si oppone e sostiene che io non abbia mai cambiato idea dal momento che l’ho sempre saputo, anche se represso per chissà quale strano e idiota motivo. In definitiva, pare che fossi innamorata del mio migliore amico già da parecchio tempo, più di quanto io stessa voglia ammettere. 
Che cliché.
Ben parla ancora, ma non lo ascolto più; mi limito a guardarlo sotto la luce biancastra del lampione, ad osservarlo, ad apprezzarlo, ad ammirare i suoi grandi occhi verdi, quelli che mi hanno fatto perdere un battito la prima volta che hanno incontrato i miei. E tutte le volte a seguire, oggi compreso.
«…cioè, voglio dire, questo è il corteggiamento più lungo della storia di tutti i tempi ed io non so più cosa…».
E poi mi trovo a poggiare le mie labbra sulle sue, piano, mentre gli stringo forte la mano. Mi allontano prima che possa rendersene conto e lui mi fissa sbigottito.
«Basta parlare, parliamo troppo. Dobbiamo agire».
«Hai sbagliato battuta, adesso avresti dovuto dire che sono possibile con te. Devo proprio correggerti, eh?».
«Devo proprio tirarti un ceffone, eh?».
Mi accarezza una guancia con la mano libera e agisce di sua spontanea volontà. Mi do dell’idiota quando sento le gambe cedermi e sicuramente lo avverte anche lui, dato che sposta la mano sulla mia vita e mi stringe ancora di più.
Si avvicina al mio orecchio e inizia a sussurrare: « Se fossimo più coraggiosi, più irrazionali, più combattivi, più estrosi, più sicuri e se fossimo meno orgogliosi, meno vergognosi, meno fragili, sono sicuro che non dovremmo pagare nessun biglietto del cinema per vedere persone che fanno e dicono ciò che non abbiamo il coraggio di esternare, per vedere persone che amano come noi non riusciamo, per vedere persone che ci rappresentano, per vedere persone che, fingendo, riescono ad essere più sincere di noi».
«E allora tu saresti senza lavoro». Dal manuale Come rovinare il momento più romantico della vostra vita. «Sono incommentabile, lo so».
Ben scoppia a ridere mentre mi sfila le buste. «Sono io che ti metto in agitazione… perché ti piaccio… e perché mi ami anche se preferisci rinnegarlo… No, non obbiettare. Dimmi piuttosto che c’è qui dentro, pesano un botto».
«Ehm… schifezze varie… patatine, marshmallows, tre o quattro barrette di cioccolata e anche del gelato…».
«Sarebbe un peccato far sciogliere il gelato, no?».
«Un peccato mortale» correggo, baciandolo un’altra volta.

Step 3, I'm calling you baby...

Ma quanto è lungo? E quanto poco senso ha? È il capitolo clou della storia ed è venuto un abominio ._.
Però mi sono impegnata, lo giuro ç_ç *eh, questa è la cosa grave...*
Allora, scempio a parte, quel bel discorso che riguarda il rapporto cinema-attori-gente comune non è mio. Non poteva esserlo. L'ho ripreso da un amico che non so dove l'abbia pescato, ma... diamo a Cesare quel che è di Cesare.
E poi niente, manca solo l'epilogo *rotola una palla di fieno* e poi abbiamo concluso.
Ci tengo però a ringraziare quella povera anima pia che ha la pazienza (e la forza) di leggere e recensire. Che farei senza di te, che farei?

Mi dissolvo,

A.

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Capitolo 4
*** Epilogo ***


Epilogo
 

Abbey Road, Londra, 06/06/2014

 
Guardo l’orologio. Scosto la tenda e controllo: niente. Faccio un po’ di zapping in tv, ma non trovo nulla di interessante e spengo. Guardo nuovamente l’orologio. Ho l’ansia. Mi preparo un caffè, ma un attimo prima di berlo penso che non mi farà bene e aumenterà solo la mia già crescente agitazione. Lo vuoto lo stesso.
Avrebbe già dovuto essere qui, non capisco perché stia ritardando. Non mi ha nemmeno dato un colpo di telefono, quindi non so se l’aereo abbia effettivamente ritardato e stia ancora in volo oppure se sia già atterrata e, magari chissà, su un taxi diretta verso casa nostra.
Casa nostra.
Sorrido come un idiota.
È da due settimane che non la vedo e, nonostante mi abbia raccomandato di non fare il cucciolo bastonato, non sono riuscito ad evitare di sentirmi solo. Ho anche rifiutato buona parte degli inviti di Tom in questi giorni: adesso che lui e Johanna sono sposati ed hanno una loro (molto più che felice) vita matrimoniale mi sembra brutto trattenermi intere serate a casa loro quando invece potrebbero… fare altro, ecco.
Il punto è che senza Dana mi sento un pesce fuor d’acqua. È triste da ammettere, anche perché ho quasi trentaquattro anni, ma è così. Senza di lei sono (pateticamente) perso, il caso è chiuso.
Quasi quasi mi pento di averla presentata a Tykwer e di non averla lasciata lavorare presso quell’agenzia immobiliare…
Mi accorgo di essere rimasto fermo e immobile davanti alla porta d’ingresso solo quando vedo la maniglia ruotare piano e lentamente. Per un attimo mi domando se non debba spostarmi e farmi trovare intento a fare qualcos’altro, giusto per non dare l’impressione del fidanzato triste, abbandonato e disperato che sono in realtà, ma prima che possa muovermi di un solo muscolo vedo la punta bianca delle sue Converse posarsi sul pavimento e sorrido a cuore aperto. Quando vedo anche l’altra punta sistemarsi accanto alla prima, alzo il capo e scrollo le spalle. Ha i capelli raccolti in una coda disordinata e il viso leggermente abbronzato e stravolto dalla stanchezza, ma sprizza gioia da tutti i pori ed è bellissima.
«Quanto sei stupido, Benny!» esclama lasciando cadere con un tonfo la valigia per gettarmi le braccia al collo. Inspiro a fondo il suo profumo, sempre lo stesso, e non perdo ancora tempo prima di baciarla.
«Direi che il sole di Miami ti ha fatto bene» sussurro al suo orecchio.
«Sarà, ma qui si sta decisamente meglio».
«Raccontami com’è andata. Tom ti ha fatto lavorare troppo?».
«Nient’affatto, – replica scalciando via le scarpe e sedendosi poi sul divano – è un tenerone».
«Il viaggio è stato pesante?».
«Non più del dovuto».
Prendo posto accanto a lei e le accarezzo una mano. Mi dà un buffetto sulla guancia. «Sembri un cagnolino scodinzolante. O un gatto che fa le fusa, se preferisci, visto la tua avversione per il mondo dei canidi».
«Beh, potrei far uscire il felino che è in me se volessi… e lo voglio… adesso…» scherzo mentre inizio a baciarle l’incavo del collo. Dana ride ma non si oppone e subito dopo le nostre labbra sono di nuovo unite. Premo appena il mio corpo contro il suo e, quando si distende del tutto, prendo a carezzarle i fianchi sotto la maglietta.
«Buono, micio, sta’ calmo» ridacchia.
«Non vedo nessun micio, scusa».
Le sue dita si soffermano a giocare con i miei capelli. «Mi sei mancato tanto, Ben, avrei voluto ci fossi anche tu».
Le mie mani continuano a salire fino alla cucitura del reggiseno e sto per risponderle che anche lei mi è mancata tantissimo, ma non faccio in tempo perché si irrigidisce e mi ferma di colpo rimettendosi seduta.
La guardo sorpreso e, ahimè, appena dispiaciuto. «Ti ho fatto male?».
«No».
«Sei tesa».
«È tutto okay, tranquillo».
Mi sposto un po’ per permetterle di respirare. «Apro la finestra?».
«Non mi sembra il caso».
«Per aprire una finestra?» chiedo perplesso.
«No, per… farlo».
Ho la brutta sensazione di aver sbagliato totalmente momento. «Sei in quel periodo del mese?».
Abbassa il capo e fissa le sue unghia. Come se non la conoscessi; c’è qualcosa sotto e non vuole dire cosa.
«No… non in quel periodo… in… in un altro…».
Mi chino per guardarla in viso e alzo un sopracciglio come per invitarla a vuotare il sacco. Sospira profondamente e mi intristisce pensare che non voglia confidarsi con me.
Sembra passare troppo tempo prima che riapra bocca.
«Lasciami prima parlare con la ginecologa… Non è niente di certo, può voler dire tutto e niente, ma ho un ritardo… di diciotto giorni… e… non è ancora sicuro…».
Mi sento come attraversato da una scarica elettrica. Mi alzo di scatto, senza rendermene conto e mi ritrovo a dire «Vado a comprare dei test» con un emozione nella voce pari a quella di un automa.
«Già fatto. Ne ho comprati più di uno».
«E…?».
«E secondo loro è sì» mormora.
Sarà il mondo che ha preso a girare troppo velocemente o sarà la mia testa che va a tremila, ma sono agitato. Agitato, esaltato, confuso, felice e con un voglia matta di urlare a tutta la città che Dana è incinta e che io sono l’uomo più fortunato del mondo.
La sua risata cristallina mi riporta alla realtà. Sta piangendo e ridendo insieme. La prendo per le mani, la tiro su e iniziamo a ballare, stretti l’uno all’altra, scalzi e rigorosamente senza musica.
«L’hai presa proprio bene».
Annuisco, improvvisamente incapace di formulare qualsiasi parola. Restiamo in silenzio, interrotti solo dai nostri respiri. Mi sembra di sentire il cuore esplodermi o forse è solo il battere del suo contro il mio petto che mi dà questa sensazione.
Sta per parlare e credo, spero, di sapere cosa abbia intenzione di dirmi.
«Ti amo».
È da stupidi avere gli occhi lucidi per una frasetta del genere?
«Anche se non me lo dici spesso?».
«Prometto di impegnarmi di più. Meriti di saperlo e sentirtelo ripetere almeno cinque volte ogni giorno».
«Solo cinque?» sorrido.
«Vacci piano, per adesso sono sufficienti. Chissà che non aumentino col tempo».
«Dana?».
«Hm?».
«Ti amo anch’io».
 
Il finale perfetto, arrivati a questo punto, richiederebbe un bacio lungo e appassionato, con tanto di proposta di matrimonio in ginocchio, coronamento conclusivo del sogno d’amore, progressiva dissolvenza dell’immagine e un bel “The End” prima dei titoli di coda.
E invece no.
Perché io e Dana non siamo quel genere di coppia lì, perché nel nostro piccolo siamo fuori dal comune e perché io non sono ancora riuscito a decidere quale anello regalarle quando verrà il momento.
Così, mentre io mi avvicino socchiudendo gli occhi, la mia ragazza si divincola velocemente dalla mia stretta e scappa via.
«Dove stai andando?!».
«A prendere il cellulare, devo assolutamente chiamare Jo! Nessuno sa niente, volevo che tu fossi il primo!» esclama con foga prima di lanciarsi verso l’altra stanza.
La guardo e rido.
Sarà tutto incredibilmente bello.

Step 4, we can get married...

Epilogo. Fine. The End.
*L'immagine va progressivamente dissolvenza prima dei titoli di coda*
Che dire, sono emozionata :')
Nonostante questa storia non sia un granchè, nonostante nessuno conosca Ben (ç_ç), nonostante le poche recensioni e visulizzazioni... beh, nonostante tutto devo dire che a me questa storia piace. Mi piace e mi è piaciuto scriverla e, anche se spesso mi lamento, credo che sotto sotto non cambierei una virgola. Se non fosse necessario ai fini della lettura o della grammatica, sia chiaro.
Spero solo di essere riuscita a distrarvi per un po' e a farvi stare simpatici quella pazza sconclusionata di Dana e quel bloccato di Ben. Non esprimo su Tom e Johanna perchè quei due sono l'incarnazione della famiglia Mulino Bianco (?).

Ringrazio te, e te, e te, e anche te per aver letto distrattamente e aver inserito la storia nelle preferite/seguite/ricordate e ringrazio te che forse leggerai questa fic prima o poi :)
E ringrazio te, mia Johanna. Ti voglio bene.

Alla prossima, magari!


A. 

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