il cuore dell'oceano

di Vally98
(/viewuser.php?uid=257544)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ritorno nei ricordi ***
Capitolo 2: *** tutto come prima... o quasi ***
Capitolo 3: *** sono parte della natura ***
Capitolo 4: *** vecchi e nuovi amici ***
Capitolo 5: *** la voce del mare ***
Capitolo 6: *** un amore... tra le stelle ***
Capitolo 7: *** la mano dell'oceano ***
Capitolo 8: *** uno specchio in frantumi ***
Capitolo 9: *** broken-heart ***
Capitolo 10: *** fughe indiscrete ***
Capitolo 11: *** eclissi ***
Capitolo 12: *** "tu sei speciale" ***
Capitolo 13: *** la pioggia ***
Capitolo 14: *** Inizino le danze! ***
Capitolo 15: *** Amore sotto le stelle ***
Capitolo 16: *** Colpa della luna ***
Capitolo 17: *** Colpa della luna ***
Capitolo 18: *** a passo di danza ***



Capitolo 1
*** Ritorno nei ricordi ***


            ARRIVO: VENERDÌ
 
Osservavo fuori dal finestrino.
Lo sguardo fisso sulle nuvole, i pensieri che volavano lontano.
Mi chiedevo come potesse esistere una tale meraviglia lassù nel cielo e come fosse possibile provare quel brivido magico nel raggiungerle.
Avevo il cuore che batteva all’impazzata, il sole diritto negli occhi mi accecava ed ero percossa da un’intensissima emozione, di felicità, nostalgia e impazienza.
Ormai guardando in viso i miei nonni, che mi accompagnavano in quella lunga vacanza, e vedevo i volti dei miei amici, che avevo dovuto abbandonare un anno prima insieme al villaggio turistico di Marina di Camerota, al suo mare, la sua spiaggia...
Era già passato un anno, da non credere! Mi sembrava solo un mese prima che piangevo disperata, abbracciando alla cieca chiunque mi fosse capitato a tiro. Non volevo lasciare il villaggio, quel posto magico in qui passavo coi miei nonni un mese della mia estate, da dieci anni.
Non riuscivo nemmeno più a ricordare i primi anni in cui ero stata lì, solo che la primissima volta avevo perso di vista i miei nonni e mi affannavo a chiedere alle signore delle pulizie e ai passanti se li avessero visti. Che spavento mi ero presa quella volta!
Gli anni a seguire erano stati pressoché tutti uguali: ero troppo piccola per essere considerata dagli animatori, troppo timida per andare al miniclub, fatto apposta per i bambini della mia età.
L’ultimo anno era però stato diverso: avevo quattordici anni ed ero entrata nello young club, un gruppo di ragazzi come me che svolgevano attività indette da un animatore-guida. Era stato un ottimo mezzo per farmi degli amici, per divertirmi come non mai e per conoscere la persona più speciale della mia vita.
Si trattava di un ragazzo, ovviamente. Il mio amore impossibile. Il mio vero unico amore.
I suoi occhi verdi mi provocavano un eccessivo batticuore ogni volta che li incrociavo; mi facevano sentire il vuoto nello stomaco, come quando l’aereo sobbalza.
I suoi capelli ricci, mi ricordavano le fronde degli alberi scosse dal vento, e gli attribuivano un affascinante aspetto selvaggio. Li teneva a bada con una fascetta nera, che si mimetizzava nella massa disordinata di ciocche brune.
Il suo naso importante, stretto e lungo, concentrava tutti gli altri elementi del viso verso il centro della faccia.
Teneva la barba sempre ben rasata, e un sorriso di denti leggermente storti spesso in uso.
Era però troppo grande per me, decisamente, e questa era la cosa che mi faceva stare più male.
Di preciso aveva dieci anni e un mese in più di me, essendo lui nato il 17 maggio dell’88 e io il 17 giugno del ’98.
Ora che avevo compiuto quindici anni lui ne aveva venticinque. Anche se io ero più grande dell’anno prima, non ero ugualmente una considerevole preda delle sue conquiste.
Dieci anni sono tanti. Per me è già fin troppo un anno, quest’anno di attese, di nostalgia, di messaggi lontani e distaccati, di ricordi. Ma l’anno è finito, il momento è arrivato, finalmente.
È ora che ritorni a Camerota, che rincontri i miei amici dell’anno scorso e magari anche Mirko.
Mi troverà cambiata? Più grande? Più bella? Più matura? S’innamorerà di me? Saremo uniti come l’anno scorso?
Quante domande, nessuna risposta. Servono solo a far crescere l’impazienza.
 
Scesi dal pullmino correndo.
Mi tuffai in quelle possenti, enormi, calde braccia che mi accolsero con affetto.
Una lacrima di felicità scivolò sulla mia guancia, bagnò in un piccolo cerchio la maglia arancio evidenziatore di lui.
Strinsi le braccia attorno a quel busto così enorme rispetto al mio. Chissà quanto mi trovasse esile in quella stretta morsa con cui mi aveva accerchiato?
Non avevo il coraggio di staccare la guancia da quel petto così familiare, così amato, così accogliente.
Sarei rimasta lì così, abbracciata a Mirko per sempre, in quell’angolo di paradiso, tra le sue braccia, le uniche che mi facessero sentire al sicuro, e felice, felice per davvero.
Alzai lo sguardo, con gli occhi lucidi, mordendomi una guancia: non avrei voluto sembrare una bambina nel mio ridicolo pianto di felicità.
Mi costrinsi a sorridere, il che non fu troppo difficile quando incontrai i verdi occhi di Mirko.
Le mie gambe iniziarono a tremare, sotto il peso di quello sguardo. Mi era mancato così tanto... era una di quelle tante cose che una telefonata o una chat non può dare, un’emozione di cui avevo tanto sentito nostalgia.
Un sorriso di denti bianchi non perfetti si spalancò davanti al mio.
Avevo il viso rivolto verso il cielo per poter vedere quello di Mirko, così in alto rispetto a me, a capo suoi metri.
- Ciao – mi sussurrò dolcemente.
I miei occhi tremolarono al suono della sua voce, così particolare, così unica.
Sorrisi in una smorfia per trattenere le lacrime di gioia di essere lì, stretta all’uomo che amavo.
Sospirai e mollai la presa, sciogliendo l’abbraccio.
- Quest’anno ancora qui, eh?! – mi fece l’occhiolino.
Ero troppo presa, rapita dal suo sguardo per potergli staccare gli occhi di dosso.
Era raro che un animatore del villaggio si ripresentasse a lavorarvi per due anni di seguito. Per fortuna Mirko era uno di quei casi rari.
- Già... – mormorai trattenendo l’euforia che mi cresceva dentro, l’unica cosa in grado di costringere le mie gambe a non cedere all’emozione.
Era facile cogliere il pizzico di impazienza nella mia voce, la voglia di rincominciare da dove avevo lasciato tutto l’estate precedente.
- Che bella che sei – mi sorrise scompigliandomi i capelli. Anche se lo disse in tono scherzoso e affettuoso, come ad una bambina, lo presi come un complimento serio.
- Vabbò, dai, ci vediamo dopo – lo salutai illuminandomi in un nuovo sorriso.
Il suo sguardo era perforante, esercitava su di me una strana pressione, schiacciante. Mi sentivo letteralmente pressare verso il suolo ghiaioso della reception.
Mirko si allontanò in silenzio, nella sua maglietta arancio evidenziatore ed i pantaloni neri con la scritta “equipe” sul sedere.
Lo rimirai in tutta la sua altezza, le gambe lunghe e muscolose, la schiena perfettamente proporzionata, le braccia possenti; immaginai il suo busto tonico e scolpito e mi morsi il labbro inferiore per trattenere il desiderio di corrergli dietro ed abbracciarlo nuovamente.
- Debora ci sei? – la voce di mia nonna mi riportò alla realtà, strappandomi da quel mondo magico che mi ero creata per restare sola con Mirko.
Afferrai il trolley che avevo gettato a terra proprio dove poco prima c’era il pullmino che mi aveva portata al villaggio dall’aeroporto. Ora la macchina era sparita, lasciando la mia valigia abbandonata in mezzo alla strada.
Restai a guardare il cielo limpido ormai rossiccio di quella giornata che volgeva al termine. Era tutto perfetto: Mirko, il cielo fantastico, il sole caldo che mi carezzava la pelle pallida... sarebbe stata una bella estate.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** tutto come prima... o quasi ***


Era ormai il tramonto quando attraversai il ristorante, nella parte alta del villaggio.
Per raggiungere l’alloggio che avrei occupato per il mese a seguire, avrei dovuto attraversare il self-service, un massiccio edificio dai muri bianchi che ormai, dopo dieci anni, conoscevo benissimo.
Sospirai, trascinandomi dietro il trolley verde smeraldo, il suono delle ruote che rompeva il silenzio fracassante che incombeva nell’edificio.
Guardai ogni tavolo nella stanza con avidità, quasi volessi imprimere nella memoria quel luogo che conoscevo da sempre.
Proseguii lentamente, assaporando ogni passo, godendomi l’aria di vacanza che mi trasmetteva quel posto.
In lontananza vidi un’ombra scura stagliarsi contro il rossore del tramonto. Appunto per il contrasto col sole non mi fu possibile distinguere la figura che fronteggiavo, che sembrava essere l’unica persona a trovarsi lì con me in quel momento.
Avvicinandomi riuscii a distinguere un paio di occhiali dalla montatura rossa, dietro cui si nascondevano due occhi timidi in cerca di qualcosa.
Intercettai lo sguardo dello sconosciuto e lo vidi sorridere.
Sembrava provare una gioia incontenibile. E mi fissava.
Socchiusi gli occhi, cercando di riconoscere il viso. Proprio in quel momento ritrovai in quella figura un amico che l’anno prima mi aveva accompagnata per tutta l’estate.
Anche la mia gioia fu incontenibile e mollai a terra il trolley quando lui corse ad abbracciarmi. Gli gettai le braccia al collo, con un sorriso enorme sul viso.
- Ehi! – sentivo le mie labbra umide sul suo collo. Era una bella sensazione, o forse ero solo felice di riabbracciare un amico a cui volevo un bene dell’anima.
Incrociai il suo guardo intenerito, che indagava alla ricerca di un qualunque mio cambiamento.
Nessuno dei due aveva il coraggio di aprire bocca, a entrambi ci scrutavamo come due cagnolini che fanno conoscenza.
- Ti vedo bene – mormorai mordendomi il labbro inferiore per evitare che il mio sorriso si espandesse su tutto il viso, cancellando qualsiasi altro elemento.
- Anche tu mi sembri... magnifica – mi disse dopo un sospiro, con la sua solita gentilezza.
Mi fissava con estrema attenzione e constatai che era rimasto colpito dal mio viso, che dall’estate precedente era diventato magro e sottile, come quello di una vera donna.
- Quando te ne vai? – gli chiesi, per sapere quanto tempo da passare insieme avremmo avuto a disposizione.
Cercai i suoi occhi neri come la pece per avere una risposta.
- Fra dieci minuti – disse lui tutto d’un fiato, triste.
Rimasi pietrificata al suono di quelle uniche tre parole, con le sopracciglia alzate in un’espressione incredula.
Scossi debolmente la testa, gli occhi fissi sul mio vecchio amico. Speravo di aver capito male, che fosse solo uno scherzo, ma ogni mia speranza svanì col suo muto annuire.
Dunque avevo aspettato un anno nella certezza di trascorrere insieme un’altra estate a torto?
- Ma perché? – domandai lamentosa.
- Dispiace anche a me...-
Era altissimo rispetto a me, ma meno di Mirko, ed ebbi l’impressione che nel tempo in cui non ci eravamo visti fosse cresciuto ancora di più.
Lo guardai negli occhi.
- Non ci posso credere! Come farò senza di te? – gli dissi in un sussurro.
- Come farò io senza di te?! –
Sentii una voce alle mie spalle chiamare il nome di Simon. Fissai il mio amico quasi terrorizzata: sapevo cosa significasse quella chiamata.
Scosse debolmente la testa, in modo quasi impercettibile, mentre sulle sue labbra cercavano di crearsi le parole che io anticipai:
- Devi andare –
Mi guardò come mortificato. Rimasi immobile, a fissarlo negli occhi scuri e profondi. Lui distaccò a fatica lo sguardo e mi passò accanto con noncuranza. I miei occhi rimasero fissi nel vuoto, proprio dove pochi secondi prima c’era Simon.
Quando la sua spalla sfiorò la mia sentii un brivido. Lui parve accorgersene, perché si fermò al mio fianco e mi guardò, ma i miei occhi rimanevano fissi e muti.
Restai così per eterni minuti riflettendo, ricordando, pensando a quanti progetti avevo fatto per quella estate e quanti ricordi non avrebbero avuto un seguito, perché il mio migliore amico mi stava abbandonando.
Mi voltai di scatto e sentii un tuffo al cuore vedendo il corridoio vuoto, senza Simon.
Presi un profondo respiro, afferrai la maniglia del trolley e mi avviai fuori dal ristorante.
Sbucai proprio davanti all’anfiteatro. Era rimasto come l’anno prima: le sagome di cartone nero che creavano dietro al palco l’area delle quinte.; la console, a destra era rimasta la stessa cabina dal tettuccio in legno e dai muri bianchi dell’anno prima. La lunga finestra che dava sul palco, permettendo al DJ di vedere le esibizioni e regolare le musiche e le luci era chiusa tramite pesanti ante scorrevoli in legno.
Gli spalti erano i soliti gradini di mattonelle rosse sovrastati da seggiolini di legno. Ritrovai anche l’ulivo secolare al centro dell’ultima fila di posti a sedere.
In lontananza riuscivo a vedere i due tavoli da pingpong che erano lì praticamente da sempre; i campi da bocce e il parco giochi, coi suoi cavalli ciondolanti, le altalene ed il castello.
Quanti ricordi... io stessa a piccola avevo giocato in quel perimetro, sentendomi come una principessa imprigionata tra le mura del castello giallo, o come una valorosa dama in fuga in sella ad un cavallo giostra.
Chiusi gli occhi e respirai a pieni polmoni quell’aria di vacanza che aleggiava nell’aria. Finalmente! Dopo un anno scolastico estremamente pesante era arrivata l’ora del riposo.
Sorrisi al cielo e a quella natura travolgente che si esibiva da secoli.
Finalmente mi decisi ad avviarmi verso il residence, dove i nonni stavano sicuramente disfacendo i bagagli.
Camminavo con lenta pigrizia e affascinata da quel posto così familiare che mi avvolgeva come in un abbraccio caldo, dandomi il benvenuto, anzi, il bentornato.
Strisciando la valigia dietro di me percorsi il boschetto che conduceva al mio alloggio. Mi soffermai ad annusare l’aroma di ulivo che aleggiava nell’aria, ad osservare gli aghi di pino che ricoprivano il suolo secco del boschetto.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** sono parte della natura ***


Abbassai timidamente la maniglia del residence 304, lo stesso che mi ospitava da dieci anni.
- Debora! Quanto ci hai messo! – esclamò mia nonna senza nemmeno rivolgermi un’occhiata: era troppo impegnata a disfare le valigie spalancate sul letto per prestarmi attenzione.
Era lì che trafficava con vestiti, scarpe, maschere, spazzole, shampi e costumi, mentre mio nonno le prestava assistenza senza spiccicar parola. Lui sapeva meglio di me che protestare o anche solo aprire bocca in quel momento avrebbe causato una crisi di isteria a mia nonna.
Lei aveva i capelli bianchi perlati, gli occhi verdi sbiaditi nascosti dietro un paio di occhiali neri e abbelliti con un pizzico di mascara.
Indossava un vestito a fiori tutto colorato, che ricadeva sulla schiena curva con dolcezza e svelava le nude gambette segnate dall’età.
Mio nonno era bassino, almeno quanto lei. Aveva una testa rotonda, coronata da capelli bianchi cortissimi, simili a punte d’ago. Da piccola avevo più volte cercato di organizzarli in una cresta, ma loro lunghezza li rendeva praticamente immobili.
La fronte ampia e rugosa sovrastava gli occhi, neri come la pece, circondati da un paio di occhiali dalla montatura invisibile e le lenti spesse.
Decisi che sarebbe stato meglio togliere il disturbo per non essere d’intralcio a mia nonna, così assorta nel suo compito di disfare i bagagli e organizzare tutto secondo i suoi criteri.
- Vado in spiaggia. Torno presto – mormorai.                    
Non ricevetti risposta, ma a quel punto ero decisa a fare un giro per conto mio; e chissà: magari avrei trovato qualche vecchio amico che mi avrebbe tenuto compagnia.
Così lasciai la mia valigia insieme coi nonni ed il loro macello, e mi avviai lungo la strada ghiaiosa che conduceva alla spiaggia.
Percorsi con gli occhi ogni tratto del paesaggio: dai cespugli, agli ulivi, alle Bougainville, al più insignificante fiorellino.
Volevo imprimermi nella mente ogni minimo particolare del villaggio, ricordarmelo per sempre, portarlo con me ovunque andassi.
Ero felicissima di essere lì, di nuovo, dopo un anno di attese. Quella era la mia seconda casa, era il mio paradiso segreto, il mio posto preferito per rintanarmi dopo un anno di fatiche.
Mi abbandonai al frinire delle cicale e alla brezza del vento che sembrava spingermi lungo il sentiero verso la spiaggia.
E fu allora che lo vidi: il mare. Bellissimo, come sempre, luccicava sotto gli ultimi scoppi della luce del sole che ormai stava affievolendosi.
Sembrava un’enorme distesa di fuoco, inglobato in quella rovente luce del sole che dava i suoi ultimi saluti.
Scorsi Capo Palinuro in lontananza, sbiadito per la distanza, confuso nella nebbia che si avvicinava.
Iniziai a scendere le solite, interminabili scale che rappresentavano l’ultimo tratto da percorrere prima di raggiungere la spiaggia.
Il cuore mi martellava in petto mentre iniziai a correre, saltando talvolta due o tre gradini insieme.
All’ultimo scalino mi bloccai di colpo. Fissai con il cuore a mille la passerella che iniziava proprio là dove le scale finivano. Mi sarebbe bastato allungare il piede per raggiungerla.
Non lo feci. Rimasi a fissare la terra rossa che era in perfetta sintonia con la luce del tramonto e che sembrava ricoprire tutto, nascondersi sotto i cespugli che ancora celavano la spiaggia.
Spiccai un salto in modo teatrale ed atterrai sulle travi di legno della passerella. Sorrisi e iniziai a correre. Sentivo le assi scricchiolare sotto il mio peso, ad ogni mio passo.
Sfrecciai accanto alle docce, senza degnarle di uno sguardo, così come ai camerini e al bar. Quasi non vidi nemmeno le lunghe fila di ombrelloni a righe verdi e bianche che occupavano tutto il mio campo visivo, nascondendo il mare alla mia vista.
Continuai a correre lungo la passerella, ignorando qualunque sguardo da parte degli ultimi ritardatari rimasti nella spiaggia deserta.
Appena terminò la passatoia, dopo un profondo respiro e un’eccessiva impazienza che scorreva nelle vene, affondai i piedi nella sabbia tiepida e iniziai a correre verso la riva.
Era così piacevole sentire i granelli tiepidi insinuarsi tra le dita, sentirmi sprofondare in quella massa dolcemente.
Solo allora mi assicurai che il bagnasciuga fosse deserto e nel piccolo spiazzo di sabbia che precedeva la riva mi sfilai la maglietta, svelando il busto pallido e magro. Saltellando tolsi anche i pantaloni, ma senza mai smettere di correre. Li abbandonai così, nella sabbia, come corpi morti. Ormai nulla aveva più importanza di raggiungere il mare.
Col suo boato e il suo luccichio mi attraeva più di qualsiasi altra cosa. Era come una calamita per me; sentivo che esercitava una strana forza su tutto il mio corpo, e sulla mia mente. Mi lasciai attirare dall’acqua, che quasi sentivo chiamare il mio nome.
Lanciai da parte le scarpe da ginnastica e mi gettai con un teatrale tuffo di testa nell’acqua gelida.
L’impatto mi tolse il respiro. Sentii il cuore bloccarsi in petto, ma quando riaffiorai in superficie la sensazione dell’acqua gelata che liberava il mio viso caldo fu impagabile.
Rimasi a mollo a godermi il freddo che mi pungeva la pelle in modo piacevole.
Chiusi gli occhi e mi abbandonai alla corrente. Nulla poteva essere rilassante quanto lasciarsi cullare dalle onde sotto la luce di un romantico tramonto.
Sentivo il mio corpo muoversi sotto una forza non mia, essere cullato da qualcosa di più dolce di due comode braccia. Immaginavo i miei capelli agitarsi come alghe nell’acqua marina.
Quando riaprii gli occhi la luce infiammata del tramonto mi fece sussultare il cuore: era uno spettacolo magnifico rimanersene lì a galleggiare come un corpo morto, in preda ad una natura così potente e meravigliosa, fissando un cielo mozzafiato.
Mi immersi sott’acqua, godendo il gelo che mi aggredì il viso; poi tornai a riva in una rana disordinata.
Non pensai a quanto si sarebbero arrabbiati i miei nonni vedendomi in acqua a quell’ora, in mutande e reggiseno, da sola. Avrebbero come sempre elencato tutte le cose peggiori che mi sarebbero potute succedere ed io avrei alzato gli occhi al cielo fingendo di ascoltare i loro rimproveri.
Ma ora ero sola. Sola. Col mio amato mare, la mia amata spiaggia, nel mio amato villaggio.
Mi sedetti sulla riva, le gambe stese nell’acqua, impegnata a trarre un respiro profondo gettando la testa all’indietro, gli occhi chiusi.
Poi un’ombra calò su di me, vidi il rossore del tramonto diventare tenebra sotto le palpebre chiuse. Spalancai gli occhi, allarmata.
Mi trovai davanti al viso un ragazzo. Mi guardava dall’alto, un’aria mista tra il preoccupato e l’affascinato.
Si sedette accanto a me, sulla riva del mare.
Non pensai che il mio abbigliamento fosse poco idoneo per un primo incontro, anzi, non ci feci proprio caso.
- Sei nuova? – mi chiese lui.
Aveva una voce limpida, cristallina. Era come una dolce melodia per le mie orecchie, la prima voce umana che interrompeva il mio silenzio.
Annuii timidamente. Quanto avrei voluto essere da sola, senza quel ragazzo, a godermi tutta la natura in silenzio, tra me e me, immersa nei miei pensieri e nei suoi suoni. Ma sarebbe stato troppo scortese cacciarlo.
Lui indossava un paio di pantaloncini blu, corti fino al ginocchio, ed una t-shirt azzurro pallido.
Aveva gli occhi azzurri che luccicavano. Erano bellissimi e mi vedevo riflessa, coi capelli bagnati spiaccicati sul volto e sulla testa. Li scossi un po’, sprigionando una pioggerellina di goccioline.
Lui si passò una mano tra i capelli neri e lisci. Erano puliti e lucidi, e profumavano di shampoo.
- Com’è l’acqua? – mi domandò in un sorriso, indicando con un cenno della testa il punto dove mi ero tuffata poco prima.
Feci per rispondere con acidità, per liquidarlo senza troppe storie, ma la dolcezza dei suoi occhi mi fece cambiare idea.
- Splendida, come mi ricordavo –
- Sei già stata qui, dunque!? –
Annuii debolmente, ma mi astenni dal dire che era la decima estate che trascorrevo al villaggio.
- Io no, ma sono arrivato una settimana fa. Sono già innamorato di questo posto – disse lui senza ch’io gli chiedessi niente.
- E chi non lo è? – mormorai guardando lontano.
Il sole era già sparito all’orizzonte e il rossore che aveva lasciato come ricordo stava cedendo il posto ad una buia oscurità.
Vidi con la coda dell’occhio il ragazzo sorridere, o ridacchiare, ma non ci feci molto caso.
Lui volse le sue attenzioni finalmente lontano da me, spostando lo sguardo all’orizzonte.
Rimase in silenzio. Apprezzai davvero molto che non dicesse nulla e che mi lasciasse godere quegli ultimi attimi di luce.
Non sembrò infastidito dal mio mutismo, anzi, sembrava goderne come me.
Anche lui contemplava il paesaggio mozzafiato.
Rimanemmo così per una decina di minuti, seduti uno accanto all’altra, godendoci quel paradisiaco spettacolo che la natura ci offriva.
Poi ebbi un brivido. Mi ricordai d’un tratto che ero ancora bagnata, e senza vestiti. Senza il sole il leggero venticello mi faceva sentire freddo, e probabilmente il ragazzo se ne accorse: si sfilò la sua t-shirt e me la porse.
- A me non serve: non ho freddo – mi disse in un sorriso, inclinando la testa.
- Nemmeno io – dissi: non mi sarei infilata la maglietta di un estraneo quando avevo la mia... dove? Mi volsi indietro a guardare se ce ne fosse traccia. Riuscii a vederla, buttata a terra con incuranza.
Un altro soffio di vento mi fece rabbrividire. Mi voltai a fissare il mio compagno per vedere se se ne fosse accorto. E sì: mi stava fissando, ed ora mi porgeva la maglietta con insistenza.
Mi arresi e l’afferrai con rassegnazione.
Me la infilai sulla pelle bagnata e sfilai i capelli dallo scollo, lasciandoli tutti scendere sulla spalla sinistra. La maglia mi stava larghissima.
- Grazie – mormorai.
- Mi chiamo Jacopo – disse porgendomi la mano.
- Debora – sorrisi afferrandola.
- Si sta facendo buio, che ne dici se iniziamo a salire? – mi propose.
Guardai il cielo e osservai che la luce era sempre più tenue.
- Dico che è una buona idea – risposi alzandomi in piedi.
Solo allora mi accorsi che Jacopo era molto alto, e che la t-shirt mi arrivava proprio sulle cosce, come fosse un vestito smollato.
- Ti sta bene – mi disse lui, indicando la maglietta con il mento e accennando un sorrisetto ironico.
Risi guardandomi bene: la t-shirt doveva starmi come se avessi infilato una tenda da circo!
- Ti conviene raccogliere i vestiti che hai disseminato per tutta la spiaggia – mi consigliò lui ridacchiando. Quel suo umorismo mi piaceva.
- Lo farò – sorrisi chinandomi a raccogliere le scarpe da ginnastica piene di sabbia. Mi accorsi che il reggiseno bagnato aveva creato sulla maglietta due enormi chiazze scure.
- Mi dispiace di avertela bagnata...-
- Non fa nulla – disse non curante.
Raggiunsi i pantaloni e la maglietta e li ammonticchiai in una pila aggrovigliata che strinsi tra le braccia.
- Andiamo –
Così iniziammo a salire le scale, mentre il buio iniziava ad inghiottire tutto il paesaggio.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** vecchi e nuovi amici ***


Camminavamo in silenzio, senza disagio però, in modo naturale.
Poi mi squillò il telefono, nella tasca dei pantaloni. Non potevo però prenderlo, avendo le mani occupate a reggere tutti i vestiti.
- Prendimelo tu per favore – dissi a Jacopo, voltandomi.
Lui si affrettò a rovistare tra la massa disordinata, mentre tintinnare acuto e monotono della suoneria mi iniziava a dare sui nervi. Per un momento credetti che avrei perso la telefonata, ma poi Jacopo mi porse il telefonino trionfante.
Lo fulminai con lo sguardo, facendoli notare che non avevo mani disponibili per poter rispondere, così lui schiacciò il tasto verde e mi appiccicò l’apparecchio all’orecchio.
- Pronto? – dissi guardando Jacopo negli occhi – sì... sì...- alzai gli occhi al cielo e sospirai.
- Ok, ok! – risposi ad una voce al di là della cornetta, alzando la voce, seccata – sì nonna... arrivo, sono qui... tranquilla! – rimasi in silenzio per un po’, ascoltando la voce di mia nonna mascherata dal telefono – ok, ciao, ciao –
Allontanai un po’ la testa dal cellulare, così che Jacopo capisse che avrebbe dovuto chiudere la conversazione.
- Mia nonna – alzai gli occhi al cielo ricominciando a camminare.
- Cosa voleva? –
- Che tornassi subito al residence, che andiamo a cena –
- Ma sono le sette e mezzo! –
- Lo so... lei mangia presto. Io di solito ceno alle dieci, vedi un po’ te! –
- Sei qui con i tuoi nonni? – mi domandò.
- Sì. Tu? –
Eravamo arrivati in cima alle scale. Io avevo il fiatone: non ero ancora abituata a percorrere tutta quella rampa in una volta.
- No, io sono da solo – disse come se la cosa avesse poca importanza.
- Come da solo? – chiesi stupita. Poi mi bloccai, una vaga idea che mi fulminava la mente – quanti anni hai? –
- Diciotto – rispose lui ridacchiando della mia reazione.
Rimasi un secondo in silenzio, senza sapere cosa dire: mi aspettavo avesse la mia età, più o meno, per sentire il dovere di avvicinarsi a me e iniziare una conversazione.
- Wow... – riuscii solo a dire. In realtà non lo avevo osservato quasi per niente, presa com’ero dal paesaggio, ma ora che lo facevo riconobbi che dimostrava l’età che diceva di avere.
- Non guardarmi così! Perché, tu quanti ne hai? –
- Quindici –
- Quindici? Te ne davo di più – disse lui, quasi deluso.
- E ora farai finta di non avermi conosciuta, visto che sono troppo piccola? – chiesi un po’ irritata.
- Troppo piccola per cosa? –
- Per essere amica di uno come te...-
- Perché dici così? – si sentì accusato.
- Di solito i diciottenni sono tutti spocchiosi e non vogliono stare con quelle più piccole –
- Di solito! – disse alzando un indice - a me va bene, anche se sei più piccola –
Sorrisi sotto i baffi. Poi mi bloccai di colpo, lo sguardo atterrito volò sulla ghiaia e poi negli occhi di Jacopo.
- Se mia nonna mi becca che ho fatto il bagno mi ammazza...-
Lui sembrò riflettere con calma, mentre io venivo travolta dall’agitazione: già il primo giorno avrei fatto incavolare mia nonna.. ma bene!
- Vieni da me – disse d’un tratto, serio.
- Cosa? – sperai di aver capito male.
- Vieni a casa mia. Se vuoi ti fai una doccia, ti asciughi i capelli, ti rivesti e i tuoi crederanno che sei solo scesa in spiaggia, no? –
Rimasi sulla difensiva, fissando Jacopo con sfiducia: andare a casa di un diciottenne? Da soli noi due? Cosa sarebbe potuto succedere? L’idea mi dava i brividi.
- Se ti dà fastidio che ci sia io posso andarmene, ma ti lascio la casa – mi disse lanciandomi le chiavi. Le presi al volo. Lessi sulla targa in legno che le accompagnava il numero 222.
- No, non mi da fastidio. Ci sto – dissi cercando di rassicurarlo con un sorriso.
Non avrei voluto sembrare scortese dimostrando di pensare che Jacopo avesse cattive intenzioni; lui in fondo era stato molto gentile con me.
Mi condusse in un boschetto, poi su per una scalinata di pietra fino ad una casetta, uguale alla mia, con segnato a caratteri grandi il numero 222.
- Prego – mi invitò ad entrare aprendo la porta.
Mi guardai attorno scrutando la stanza. Era proprio uguale alla mia e a tutte le altre del villaggio: appena dopo l’entrata, sulla destra, c’era un piccolo bagno, con una doccia, un grande specchio che sovrastava un lavandino, un bidet e un WC; a sinistra si trovava un grande armadio di legno, seguito da una scrivania attaccata al muro, incastrata tra l’armadio ed un letto a castello. Di fronte ad esso, sulla parete opposta, un letto matrimoniale con due comodini ed una lunga mensola. La parete opposta alla porta d’entrata era dominata da un’enorme finestrone che dava sul mare. Che vista stupenda!
Le tende che la circondavano erano rosse, come i copriletti.
Jacopo spalancò la finestra e si sedette sul terrazzo, dove (come sul mio) c’erano un tavolino e due sedie di vimini.
- Sicuro che non ti do fastidio? – chiesi sbucando da dietro la tenda.
- Nono. Fai con comodo – mi disse in tono freddo.
Mi avviai verso il bagno, mi chiusi la porta alle spalle; girai la chiave nella serratura.
- Usa l’asciugamano che c’è sulla finestra – mi gridò Jacopo dal terrazzo.
Il mio sguardo volò sul davanzale e vi trovai l’asciugamano.
Mi sfilai la t-shirt ed entrai nella doccia.
Il suo getto caldo mi fece rilassare. Mi abbandonai alle sue dolci carezze e il piacere era così tanto che era quasi difficile reggermi in piedi.
Appena mi ricordai della fretta che avevo di raggiungere i miei nonni spensi l’acqua e mi immersi nell’asciugamano bianco e morbido. Cercai su tutti i muri il phon, attaccato ad un anello di plastica.
Lo accesi e iniziai ad agitarmi i capelli sotto il suo soffio caldo e secco.
Dopo cinque minuti erano asciutti. Anche la biancheria che indossavo prima era poco bagnata. Mi rivestii in fretta, allacciai le scarpe ed uscii dal bagno.
Appesi fuori sul corrimano del terrazzo l’asciugamano, in modo che l’aria fresca lo facesse asciugare; rivolsi a Jacopo un’occhiata frettolosa e corsi via urlando un “grazie”.
 
Arrivai al ristorante con il fiatone. Sentivo la gola gelida, bloccata da un enorme nodo di ghiaccio. Non ero mai stata brava a correre, e ne risentivo soprattutto quando mi fermavo.
Il mio cuore batteva all’impazzata, avevo i capelli arruffati e il fiato mi mancava.
Procedetti a passo svelto per il corridoio del ristorante e raggiunsi il tavolo dei miei nonni.
- Ma dove ti eri cacciata Debora? – mi rimproverò la nonna.
Purtroppo ora non c’erano i bagagli da disfare a salvarmi dalla sgridata.
- Scusa nonna è che... la spiaggia mi è mancata...- che scusa stupida! – ho fatto una lunga passeggiata e ci ho messo un po’ a tornare... scusate –
Senza stare a sentire la risposta mi avviai verso il bancone dove venivano serviti i primi piatti.
- Poca pasta coi funghi, per favore – dissi al cuoco.
Era un ragazzo giovane, biondo, con gli occhi azzurri un po’ smorti; aveva la faccia un po’ da svampito, ma mi sorrise con calore, augurandomi “buon appetito”. Lessi sulla targa che aveva pinzata al camice bianco da cuoco il suo nome: “Andrea”.
Quella parola mi rimbalzò per la mente come un’eco ripetuta all’infinito fino a che non raggiunsi il tavolo col mio piatto di pasta.
- Buon appetito! – esclamai.
Iniziai a mangiare, affamata com’ero.
Mio nonno era già al secondo e mia nonna era in giro per il ristorante in cerca di un contorno.
- Allora? Come ti sembra Camerota? – domandò mio nonno.
Alzai lo sguardo dal piatto, e quand’ebbi terminato di masticare la pasta risposi:
- Bellissima, come sempre – sorrisi.
- Immaginavo mi avresti risposto così – ridacchiò mio nonno infilzando un piccolo polpo che aveva nel piatto.
- Beh, è la verità! –
- Hai trovato qualcuno che conosci? –
Mandai giù i due maccheroni che avevo appena finito di masticare.
- Solo Mirko., l’animatore.. c’era un mio amico, Simon, che è partito proprio oggi. E poi ho conosciuto Jacopo, uno nuovo. È già qui dalla settimana scorsa – mi ficcai in bocca un’altra cucchiaiata di pasta.
Non volevo parlare a mio nonno del mio nuovo amico, né dirgli cosa avevo fatto quel pomeriggio. Mi avrebbe segregata nel residence per il resto della vacanza!
La cena trascorse tranquilla, tra chiacchiere e risate e allegria.
Dopo aver mangiato la torta al cocco e cioccolato i miei nonni mi lasciarono libera di alzarmi da tavola.
Così feci e raggiunsi l’anfiteatro. Erano le otto e un quarto, e a quell’ora praticamente tutti andavano a mangiare. Solo io e i miei nonni cenavamo prestissimo, all’apertura del ristorante.
All’uscita mi imbattei in un ragazzo alto e slanciato, dal fisico atletico e tonico che conoscevo bene: Mirko. Indossava la divisa degli animatori: una maglietta grigia con una grande scritta “Equipe” e dei pantaloni di jeans lunghi e neri, stretti in vita da una cintura.
Lui li portava bassi, come la moda comandava.
- Ciao Deb! – mi salutò con euforia.
Ebbi un tuffo al cuore incrociando i suoi occhi ridenti e dolci.
- Wei! – esclamai con un saltello.
- Già mangiato? – mi domandò.
Annuii alzando i pollici verso l’altro, in una muta risposta affermativa.
- Allora ci vediamo dopo!? –
- Ciao – lo salutai.
Si addentrò nel ristorante, proprio da dove io ero uscita. Lo seguii con lo sguardo fino a che non scomparve del tutto dalla mia vista e mi avviai verso il pingpong.
Mi sedetti su una panchina di pietra proprio sotto il campo da bocce. Rimasi lì, in silenzio.
Osservavo le famiglie che andavano a cena, tutte vestite eleganti, alcuni amici che si ritrovavano. Allora mi chiesi dove fossero i miei, di amici. A quanto pareva non erano venuti quell’estate. Ma perché non me lo avevano detto?
Sbuffai.
Ero così immersa nelle mie riflessioni che non mi accorsi che una ragazza mi si era seduta accanto. Aveva l’aria annoiata almeno quanto la mia e la sorpresi a fissarmi con la coda dell’occhio.
- Anche tu sola? – chiesi senza guardarla in faccia.
Per un attimo mi pentii di aver parlato, dato che non ricevetti risposta.
- Sì...- fece poi una voce sottile e intimidita.
Mi consolava sapere che quella ragazza fosse più timida di me: sarebbe stato più facile fare amicizia.
- Mi chiamo Debora – dissi cercando i suoi occhi.
- Io Sofia – mi rispose, accennando un sorriso.
Aveva i capelli castani, come i miei, due labbra sottili, gli occhi verdi incastonati nel suo visetto sottile.
- Di dove sei? – le domandai, giusto per cominciare una conversazione.
- Brescia – rispose. Sembrava che la timidezza la bloccasse.
- Io di Milano – dissi senza che me lo chiedesse.
- È il primo anno che vieni qui? – mi domandò lei.
- No, il decimo. Tu? –
- Il terzo...-
- Sei appena arrivata? –
- Sì, proprio oggi – sorrise ancora, mostrando due file di denti piccoli e bianchi.
- Quanti anni hai? – chiesi nuovamente.
- Quindici –
- Anche io! – mi si illuminò il volto, divertita per la coincidenza.
Sentii un rumore, come quello di una posata che picchiava su un piatto. Tesi l’orecchio con attenzione, il che fu facile, visto che Sofia non accennava a parlare.
Mi alzai lentamente, mezza accucciata, in modo che la ragazza capisse che ero in cerca di qualcosa e che non la stavo abbandonando da sola. Seguii il suono metallico fin dietro un cespuglio. Sobbalzai alla vista di un ragazzo accucciato.
- Jacopo! – esclamai rilasciando il fiato che avevo trattenuto per la paura.
Era seduto a terra, immerso nelle foglie, con in mano un piatto del ristorante, da cui prendeva avide forchettate di pasta.
- Ciao – mi salutò con la bocca piena.
Mi accucciai accanto a lui. Davanti a me sbucò la timida faccia di Sofia, che mi aveva seguita.
- Che ci fai qui? Non puoi mangiare come le persone civili seduto ad un tavolo? – non volevo che sembrasse un rimprovero.
- Preferisco essere solo che mal accompagnato –
Rimasi un po’ perplessa a quelle parole.
- Di chi parli? –
- Niente, non starmi a sentire –
Feci spallucce e decisi di non insistere: non volevo che mi etichettasse come “l’impicciona”.
- Che spettacolo fanno gli animatori stasera? – chiesi.
- Umh...- aveva ancora la bocca piena – presentano tutto il personale del villaggio –
Guardai Sofia con una smorfia.
- Che noia... facciamo qualcos’altro? –
- Certo! – concordò Jacopo pulendosi la bocca con un tovagliolo.
- Ah, Jacopo, lei è Sofia – la presentai indicandola col dito – Sofia, lui è Jacopo –
La ragazza si intrufolò dietro il cespuglio e si inginocchiò accanto a noi.
- Piacere – disse soltanto.
- Che vi va di fare stasera, allora? – domandò Jacopo, guardando me, poi Sofia e di nuovo me in cerca di una risposta.
Feci per rispondere, quando mi squillò il telefono. Non lo sentii vibrare però nella tasca dei pantaloni.
Guardandomi attorno freneticamente, in cerca del punto preciso da cui proveniva il trillo della suoneria mi accorsi che non avevo io il cellulare: Jacopo me lo sventolava davanti agli occhi.
- Lo hai lasciato a me –
Sospirai e lo afferrai con più energia di quanto avessi voluto. Poi sparii dietro il cespuglio.
- Pronto? –
Mi sedetti sugli spalti dell’anfiteatro deserto.
- Ehi! Ciaoo! – la voce che rispose era di un ragazzo.
- Simon! – esclamai in un sorriso: che bel pensiero chiamarmi.
- Deb, come vanno le cose? – mi chiese.
- Senza te non è lo stesso...-
- Non puoi però rimanere sola per tutta la vacanza! Saresti sprecata! –
Risi di gusto per quella specie di complimento.
- Tranquillo: ti ho già rimpiazzato! –
- Come si chiama? –
- Jacopo –
- È carino? –
- Può darsi! – rimasi vaga per scatenare la gelosia da amico.
- Non dimenticarti di me, però! –
- Non lo farò mai! Tu sei unico! – risi.
- No, non scherzo! –
- Sìsì! Tranquillo... ma voglio divertirmi questa estate! –
- Fai pure! – esclamò lui dall’altro capo della cornetta – hai visto Mirko? –
Ebbi un tuffo al cuore: sapevo di piacere a Simon, me lo aveva confessato lui stesso quell’inverno, gli avevo detto che ero innamorata di un ragazzo molto più grande, ma non ero certa che avesse capito di chi parlassi.
- Sì, certo...-
- È un grande! –
- Lo so... ma quest’anno non si occupa più dello young club, vero? –
- No, purtroppo no...-
Sbuffai scoraggiata.
- Che fai stasera? – gli chiesi.
- Esco con un paio di amici – non mi sembrava troppo entusiasta della risposta.
- Cosa c’è che non va? –
- È che vorrei essere lì con te, ora...-
- Anche io vorrei che tu fossi qui... vorrei picchiarti! Perché te ne sei andato così presto! – gli gridai la mia disperazione nella cornetta.
- Vabbè... domani ci risentiamo, così mi racconti come va laggiù... ti voglio bene, ricordatelo – quel ragazzo sapeva essere davvero molto dolce, talvolta. Mi colpiva sempre per questo.
- Che tenero! – esclamai stringendomi le ginocchia al petto – anche io ti voglio bene Simon... ciao –
- Ciao –
Mi fu difficile allungare il dito verso il pulsante che avrebbe messo fine alla chiamata, ma prima che potessi pigiarlo di mia spontanea volontà un leggero gridolino alle mie spalle mi spinse a premerlo per lo spavento.
Mi voltai di scatto. Trovai Mirko che rideva per la riuscita della sua impresa di farmi spaventare.
- Ti diverti? – ribattei fingendomi irritata.
- Simon!! Uh!! – fece versetti maliziosi.
Lo guardai scuotendo la testa, poi scattai in piedi e lo riempii di leggere sberle. Lui tentò di proteggersi con le braccia, sempre ridendo.
Era dall’anno prima che Mirko sosteneva che tra me e Simon ci fosse qualcosa, e ci scherzava sempre sopra.
- Sei solo geloso, ecco! – gli dissi scherzando, ma senza smettere di menare sberle.
Lui mi afferrò per i polsi e mi guardò fissa negli occhi.
All’inizio cercai di liberare le mie mani dalla sua stretta, agitandomi, ma quando incrociai il suo sguardo rimasi ferma immobile, incapace di muovere un muscolo. Forse per la sua stretta possente, forse solo per il contatto coi suoi occhi, che mi pietrificava ogni volta.
Il mio cuore prese a battere forte. Forte. Lo sentivo galoppare impazzato in petto.
Lessi una strana indecisione sul viso di Mirko, come se non sapesse  cosa fare ora che mi aveva in pugno. Incontrai un’infinita dolcezza sul suo volto, mi scrutava come se fosse l’ultima volta che mi avrebbe vista. E il mio cuore impazziva. Faceva capriole, salti mortali... le mie gambe stavano per cedere, quando lui mi lasciò andare, scompigliandomi i capelli.
- Sì, sono gelosissimo! – si allontanò ridendo.
Rimasi immobile come Mirko mi aveva lasciata, con lo stesso vuoto nello stomaco, le stesse farfalle nella pancia, gli stessi brividi che mi trasmetteva sempre.
Quanto mi piaceva quel ragazzo... ne ero sicura: ero innamorata di lui. Lui era la mia vita, il mio sole, era in ogni mio respiro, era l’unica ragione che spingeva il mio cuore a continuare a battere, era lui il mio futuro. Era così strano ammetterlo, anche solo nel pensiero: Mirko era così lontano... non mi avrebbe mai visto come una ragazza innamorata, ma solo come una bambina con cui scambiare qualche sorriso.
Mi lasciai cadere seduta sugli spalti, poi mi misi sdraiata, la schiena mi faceva male sulle assi di legno. Il cielo era scuro e puntinato di stelle: la mia speranza di poter stare un giorno con Mirko, felici ed innamorati era come una di loro. Dovevo solo trovare quale fosse tra quelle migliaia e migliaia. Quando l’avrei riconosciuta l’avrei tenuta d’occhio, mi sarei assicurata che non si sarebbe spenta mai, ma che anzi avrebbe preso a brillare sempre più intensamente.
Sospirai e chiusi gli occhi. Anche nelle tenebre che calarono insieme alle palpebre riuscivo a vedere la luce delle stelle che mi era rimasta impressa negli occhi.
Ti amo... è così difficile da credere? Per me è dura ammetterlo, perché sei irraggiungibile, ma io non rinuncio. Ti amo e lotterò con tutti i mezzi, in tutti i modi per averti. Dieci anni non sono tanti se l’amore è vero. Il mio lo è. Vorrei solo sapere che tu sei innamorato di me come io lo sono di te. Perché il fuco che mi arde dentro quanto mi sei accanto non si spegnerà mai. E sono disposta ad aspettare quanto hai bisogno per capire che anche tu provi quello che provo io. Ti amo Mirko. Ti amo”
Spalancai gli occhi quasi con le lacrime agli occhi per quei pensieri, così intensi. Non potevo credere che una ragazzina come me potesse provare simili sentimenti, così forti, così veri. E soprattutto come poteva provarli per una persona così lontana, così impossibile. Ma io sapevo che non era tutta una fantasia, ma che quello che provavo era autentico e più vero di alcuni amori degli adulti.
Sobbalzai alla vista del viso di Jacopo davanti al mio.
- Stai bene? – mi chiese quasi preoccupato.
Chiusi gli occhi: come stavo? Ero appena arrivata e già ero fuori di testa! Solo allora, per la prima volta pensai che era stato un errore tornare al villaggio dopo quello che avevo provato per Mirko, e che avevo scoperto di provare ancora.
- Non lo so –
- Chi era al telefono? – chiese Sofia, ma sembrò pentirsene subito, credendola una domanda troppo invadente. Per rassicurarla che non era così le risposi:
- Un mio amico -
- Ah... è colpa sua dunque! – lo accusò Jacopo.
Scossi la testa e mi rialzai.
- Facciamo qualcosa allora? –
Sofia annuì.
Alla fine di cose passammo la serata a ridere e scherzare. Ci divertimmo un mondo a dire cavolate e raccontare esperienze divertenti. Tornai a casa col mal di pancia per il troppo ridere, e con un sorriso ebete dipinto in faccia, forse perché ripensavo alle scemenze che ci eravamo detti quella sera, forse per nascondere il dolore che davvero sentivo, forse perché stavo impazzendo.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** la voce del mare ***


I GIORNO: SABATO
 
Il giorno dopo di mattino presto ero già in spiaggia. Erano le nove ed era deserta.
Per un momento credetti di essere in quei sogni in cui ti ritrovi ad essere l’unico essere vivente sulla faccia della Terra.
L’acqua era limpida. Era bellissima. Era così pulita che il fondale era nitidamente visibile.
Il cielo era sereno e all’orizzonte sbiadiva e si confondeva con la linea del mare.
Immersi i piedi nell’acqua. Non era fredda. Era perfetta.
Vedevo guizzare qualche pesciolino di passaggio, di tanto in tanto, nella trasparenza dell’acqua.
Ero rimasta per qualche minuto seduta all’ombrellone, poco prima. Mi stavo quasi sentendo male, ma male davvero. Avevo sentito la necessità di avvicinarmi al mare. Lo sentivo chiamare il mio nome, la sua voce che riecheggiava nella mente, come un boato sommesso.
Non capivo se fosse tutto uno strano effetto dovuto al desiderio di vivere al massimo quelle vacanze, quel mare che avevo davanti, quell’estate fantastica.
Mi sembravo una pazza, dipendente dall’acqua del mare.
Mi tuffai con un perfetto tuffo di testa.
Sentii l’acqua del mare accarezzarmi il viso, tirarmi delicatamente i capelli dietro la testa. Sentivo le mie braccia sfidare la morbidezza di quella massa acquosa che mi stringeva nel suo abbraccio, l’acqua che come una leggera brezza mi accarezzava con dolcezza tutto il corpo.
Appena riemersi sentii l’aria fresca del mattino che mi raggelava il viso. E allora ficcai nuovamente la testa sott’acqua.
Quel mare così limpido mi fece credere che avrei potuto vedere il fondo anche aprendo gli occhi sott’acqua, visto che potevo distinguere ogni singolo granello della sabbia del fondale, guardandolo da fuori.
Non avevo mai aperto gli occhi sott’acqua. Avevo sempre avuto paura di farlo, non mi piaceva l’idea che mi entrasse l’acqua salata negli occhi, che sarebbe bruciato da morire. Inoltre avevo visto numerosi film in cui, quando qualcuno sprofondava nell’oceano o nel mare e allungava le braccia verso l’alto spalancava gli occhi. In quelle scene i volti delle persone con gli occhi spalancati facevano davvero paura, erano terrificanti.
Così avevo sempre avuto il terrore di assomigliare loro o di sentire bruciare gli occhi.
Sospirai, facendomi coraggio. Poi tirai un grandissimo respiro, come volessi aspirare tutta l’aria nei dintorni. E mi immersi.
Mi sdraiai sulla superficie dell’acqua a pancia in giù, la faccia immersa nel mare.
Mi feci coraggio e spalancai gli occhi.
Ero pronta a richiudere le palpebre, certa di sentire un gran bruciore, un gran fastidio.
Invece no. Era come guardarsi in giro con la testa fuori dall’acqua e, cosa che mi sorprese ancora di più, riuscivo a distinguere nitidamente ogni cosa. Tirai la testa fuori dall’acqua per essere certa che stessi davvero guardando in mare e che riuscissi davvero a vedere bene come se fossi fuori dall’acqua.
Rimmersi il viso. Riuscii a distinguere una sogliola sul fondo, un fiorellino di mare in balia della corrente, un’occhiata che nuotava spensierata davanti a me. La fissai negli occhi, tondi perfetti.
Quando ritirai fuori la testa, per mancanza di fiato, sentii chiamare il mio nome.
Mi voltai e vidi, in piedi sulla riva, Sofia, che agitava le mani per farsi vedere. Era in costume e avanzava lentamente nell’acqua, che diventava sempre più alta.
Iniziai a nuotare in uno stile libero disordinato verso la mia amica.
- Ciao Sofi – la salutai con un sorriso.
- Ehi Debora! – avanzava a rana verso di me.
- Ho fatto una cosa fortissima! –
- Ah sì? –
- Ho aperto gli occhi sott’acqua. Non l’ho mai fatto in tutta la mia vita! –
- Come no? Perché? –
- Credevo facesse male agli occhi, invece no! –
- Beh... un po’ bruciano –
- No, nemmeno un po’! Era come guardare fuori dall’acqua...-
Sofia rimase un po’ perplessa, ma non disse nulla.
- E inoltre si vede benissimo... nei particolari... è... è stato bellissimo! –
Il volto della ragazza si fece ancora più corrucciato.
- Non è vero... si vede leggermente appannato...-
- No, per niente – ribattei sicura di quello che affermavo.
La vidi parecchio stranita, come se fosse una cosa nuova anche per lei. Poi cercò di cambiare argomento:
- Ho visto Jacopo stamattina a colazione –
- E…?-
- E mi sembrava imbronciato, così sono andata a parlargli. Mi ha detto che ha incontrato una persona che non avrebbe dovuto incontrare...-
- Chi è questa persona? – domandai, ripensando alla sera precedente, quando lo avevo trovato a cenare dietro il cespuglio: mi aveva detto quella frase “meglio solo che male accompagnato”, come se si nascondesse da qualcuno.
- Non me lo ha detto. Mi ha spiegato che è meglio non saperlo –
- Perché? – mi sorprendeva quello che sentivo.
- Non lo so, non mi ha voluto dire proprio niente... mi chiedo solo chi sia questa persona...-
- Già, me lo chiedo anche io...-
Insieme decidemmo di andare a nuotare più al largo.
Restammo in acqua a sguazzare ed immergerci per un’oretta buona. Poi decidemmo di uscire.
Tremavamo come due foglie. La sabbia già scottava sotto i nostri piedi, che affondavano.
Cercammo tra le fila l’ombrellone numero 222, corrispondente all’alloggio di Jacopo.
Lo trovammo sdraiato sulla sdraio, bello comodo ad abbronzarsi, sotto i raggi del sole. Appena sfiorai la sua pelle rovente lui schizzò a sedere, spaventato.
Indossava solo un paio di pantaloncini del costume, corti sopra il ginocchio, di un blu scuro che gli donava.
Si sfilò i Ray-Ban che aveva indosso, svelando i suoi splendidi occhi azzurri.
- Ciao Jacopo – lo salutai sedendomi accanto a lui sulla sdraio verde e bianca.
- Ragazze! – esclamò. Sembrò sinceramente felice di vederci.
- Non ti fai il bagno? – gli chiese Sofia.
- Stavo  prendendo il sole...-
- Abbiamo notato! – esclamai io.
Sofia si sedette nella sabbia calda. Io iniziai a picchiettare con le mani sugli addominali scolpiti di Jacopo.
- Ciao ragazzi – ci salutò Mirko passando davanti al nostro ombrellone, senza quasi degnarci di uno sguardo. Andava di fretta, ma dove?
- Dove vai? – gli chiesi.
Lui si fermò, ma non si voltò a guardarmi. Rimase impiantato nella sabbia e iniziò a guardare a destra e a sinistra in cerca di qualcosa, ma cosa?
- Avete visto...? - prima che finisse la frase sembrò trovare ciò che cercava – Ah, eccola! –
Lo seguii con lo sguardo con eccessiva attenzione.
Lo vidi raggiungere l’ombrellone degli animatori del centro nautico, la zona dov’era possibile prendere in prestito una canoa, un windsurf o un pedalò.
Sentii montare la gelosia quando lo vidi avvicinarsi ad una ragazza più o meno della sua età, i capelli bruni, gli occhi scuri, che indossava la stessa sua divisa dell’animazione.
Li vidi parlare, sotto il mio sguardo ossessivo.
- No! No! – esclamò Sofia.
Mi voltai di scatto a guardarla. La trovai che mi fissava, l’espressione stupita che aveva dipinta in volto mi fece capire che aveva seguito il mio sguardo.
- Ma davvero? – fece ancora più stupita.
Strinsi gli occhi, cercando di capire cosa volesse dire la ragazza.
- Mirko? – mi sussurrò incredula.
Lanciai uno sguardo fulmineo a Jacopo, chinato verso Sofia, che cercava di capire quella massa di esclamazioni senza un apparente filo logico.
- Mirko cosa? – chiesi un po’ timorosa di sentire svelare il mio segreto.
- Ti piace Mirko? – gli occhi sgranati di Sofia mi lasciarono un po’ perplessa: riteneva dunque impossibile che io fossi sinceramente innamorata di Mirko?
Le tappai la bocca facendole segno di stare zitta.
- No, non è così! – mentii, alzando la voce più di quanto avrei voluto.
- Invece sì! – esclamò Jacopo tirandomi una gomitata maliziosa.
- Invece no! – dissi esasperata alzandomi in piedi. Avevo perso la pazienza decisamente troppo in fretta, avevo avuto una reazione esagerata, sì, ma mi vergognavo troppo ad ammettere che ero pazzamente, perdutamente, irreparabilmente innamorata di Mirko.
Vidi Jacopo e Sofia che scattavano a rincorrermi, mentre io mi ostinavo a scappare via verso il bar, pestando i piedi a terra.
- Ferma! – la voce di Jacopo era vicina – ehi! – mi afferrò il braccio.
- Stavamo solo scherzando! – mi sussurrò con dolcezza.
- Scusate... è... difficile...- dissi dopo aver tirato un respiro profondo.
- Allora è una cosa seria...? Non... sai, quelle cottarelle per gli animatori...? –
- Ma scusa... sei arrivata ieri, no? Com’è possibile che già ti piaccia così tanto? - mi domandò Jacopo, un po’ dubbioso.
- Gli muoio dietro da due anni! Da quando l’ho visto l’anno scorso per la prima volta, a quando mi ha lasciata salire sul pullmino che mi avrebbe riportata a casa, in lacrime, a quando l’ho rivisto ieri sera in reception! – mi lasciai sfuggire tutto d’un fiato.
Vidi i visi dei miei amici ammutoliti.
- Wow...- si limitarono a dire.
Io annuii compatendo la mia stessa sorte.
- Sì, ma ora lasciamo perdere... non ne voglio parlare – ribattei secca.
- Perché no? – l’ingenuità di Sofia mi fece sorridere.
- Perché lui non mi considera! È troppo grande per me... e va tutto male con lui –
- Ma lo hai appena rivisto, magari dovete solo rinsaldare il vostro rapporto se l’anno scorso ne avevate uno...-
- Sembra facile, eh?! –
Jacopo mi guardò con dolcezza, gli occhi azzurri che sembravano acqua zampillante.
- Facciamo qualcos’altro – tagliai corto io bruscamente.
Nessuno ribatté, e fui grata per questo. Decidemmo di andare al campo di beach volley.
Prendemmo una palla, abbandonata lì vicino sulla sabbia e ci sistemammo nelle due metà campo, segnate da una corda arancione che correva per terra a formare due quadrati.
- Palla! – gridai alla battuta.
Servizio ottimo. La palla volò sulle nostre teste e arrivò giusto nel centro del campo avversario.
- Mia!- gridò Jacopo ricevendo il servizio con un bagher.
La palla si alzò verticalmente, il ragazzo scivolò di lato cedendo il suo posto alla compagna di squadra, Sofia, che eseguì un palleggio, rispedendo la palla nel mio campo.
Arrivò molto laterale; dovetti lanciarmi a terra e colpirla col pugno a braccio teso.
Miracolosamente il mio tentativo ebbe successo e mi affrettai a rialzarmi in piedi per prepararmi ad un’altra recezione. La palla andò in rete al terzo passaggio, quando Jacopo aveva tentato di schiacciare.
Tirai un sospiro di sollievo.
Continuammo a giocare, senza tenere il punteggio, così, solo per divertirci. La sabbia iniziava a scottare sotto i piedi, il sole a cuocerci le teste e bruciarci la pelle.
Lanciai un’occhiata nostalgica al mare, che sembrava una lastra di metallo riflettente, sotto i raggi luminosi del sole.
- Ho bisogno di fare un bagno – dissi iniziando a correre verso la riva.
I miei due amici mi imitarono, lasciando cadere la palla nel campo con non curanza.
Sentivo la voce delle onde chiamarmi, pregarmi di avvicinarmi, di immergermi nell’acqua salata.
Il richiamo del mare era così intenso che affrettai la mia corsa. Ora non sembrava più un modo per raggiungere il bagnasciuga evitando di scottarmi i piedi; sembrava una corsa disperata, come se fossi in fuga. Ma da cosa? Dovevo raggiungere l’acqua, ancora qualche minuto e sarei svenuta, altrimenti.
Vieni Debora!
Una voce suadente mi riecheggiò in testa. Una vera voce, ne ero certa. Questa volta non era un richiamo nascosto tra le onde, un nome tra mille boati. Era stata una vera voce, chiara e nitida. E chiamava me.
Mi bloccai bruscamente a qualche metro dalla riva. Mi guardai attorno freneticamente, in cerca di qualcuno che avesse parlato. Erano tutti troppo impegnati a giocare e sguazzare nell’acqua o a controllare i bagnanti. Nessuno prestava attenzione a me. Accanto non avevo nessuno. Ma allora quella voce... forse mi ero immaginata tutto, ma prima che potessi giungere a questa conclusione sentii cedere le gambe, le palpebre chiudersi con sinistra dolcezza e il mio corpo precipitare al suolo.
Mi accasciai a terra. Non ero svenuta, ero ancora sveglia e sentivo il mio corpo muoversi. Peccato che a muoverlo non ero io. Tentai invano di spalancare gli occhi, di muovere un braccio, ma ora giacevo completamente immobile sulla sabbia.
Sentii la voce di Sofia riecheggiarmi nell’orecchio. Non potevo vederla: le palpebre chiuse rappresentavano come una barriera tra me e il mondo che avevo intorno.
- Debora! – la sua voce era spaventata.
Vieni! Vieni!
Ancora quella voce... ma era diversa da quella della mia amica: non sembrava venire da fuori, ma da dentro di me.
- Jacopo! – gridò la ragazza in preda al panico - che facciamo? – la sua paura era palpabile.
Poi il dolce suono della voce di Jacopo. Mi stava accarezzando la fronte sudata.
- Chiama i bagnini – ordinò serio.
Mi immaginai il suo volto rabbuiarsi, gli occhi circondarsi da un’ombra scura, mentre iniziava ad analizzare la situazione.
Debora torna a casa! Vieni, vieni!
L’ultima cosa che sentii fu quella voce suadente che mi fece vibrare tutto il corpo, poi persi i sensi.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** un amore... tra le stelle ***


Quando riaprii gli occhi mi sentivo la testa pulsare, le braccia e le gambe pensanti, il respiro affannato.
Mi misi a sedere nonostante mi fu molto faticoso.
Mi guardai attorno: ero sdraiata su un letto. Non era una brandina di ospedale; era un letto a castello.
La stanza era parecchio disordinata: magliette, calzini, scarpe, felpe, costumi erano sparsi dovunque, ricoprivano ogni mobile.
Una piccola porta conduceva in un bagno piastrellato di piccole dimensioni. C’erano solo due piccole finestre, per questo la luce nella stanza era fioca e tenue.
C’era una scrivania, forse nell’unico angolo sgombro della stanza. Un ragazzo sedeva di spalle e fissava con insistenza un computer.
Tossii. Avevo la gola secca. Non riuscivo bene a ricordare cosa fosse successo prima che perdessi i sensi, ma pensarci mi faceva sentire la testa ancora più dolente.
Il ragazzo si voltò di scatto: forse quel flebile colpo di tosse era il primo segno di vita che davo.
Avevo gli occhi socchiusi, sembravo sul punto di svenire un’altra volta.
Il ragazzo mi si avvicinò. Notai che indossava la maglietta arancio evidenziatore degli animatori e gli stessi pantaloni dell’equipe.
Camminava un po’ gobbo, con le braccia scimmiescamente a penzoloni lungo i fianchi. Il portamento animalesco veniva richiamato da un viso rozzo, ampio, dove facevano capolino due aggressivi occhi neri, un grande naso dalle narici estremamente dilatate e una bocca sottostata da un selvaggio pizzetto.
Una chioma di capelli neri discretamente lunghi era nascosta sotto una fascia da sole dello stesso colore.
Con la sua camminata primitiva l’animatore mi ricordava un enorme scimmione. Si avvicinava a me con passo veloce, i suoi occhi spaventosi mi puntavano rabbiosi.
Si bloccò di colpo appena fu accanto al mio letto. Rimase gobbo, col collo proteso leggermente in avanti, come se quella fosse la sua posa abituale.
- Ciao – disse così velocemente che quasi non capii.
Fece un sorriso di un secondo, poi il suo viso tornò serio.
- Dove sono? – gli chiesi grattandomi la testa.
- Nella mia stanza – rispose con una vocetta acuta.
Mi guardai attorno. I letti erano due: quello su cui stavo io e quello sopra di me. chi era dunque l’altro animatore che dormiva nella stanza?
- Come ti senti? – mi chiese mentre mi passavo le mani sul viso.
- Bene... credo...- lo guardai un po’ perplessa, studiandolo a fondo, ma forse lui non apprezzò tanto, visto lo sguardo aggressivo che mi rivolse – cos’è successo? –
- Hai preso un’insolazione, ha detto il medico –
Fu allora che ricordai la voce che mi chiamava verso l’acqua, l’attrazione che sentivo verso il mare.
- Un’insolazione? Ma se sono stata solo una mezz’oretta al sole? Inoltre avevo i capelli bagnati! Com’è possibile? –
- Il sole era caldo oggi! – mi disse lui.
- Ma che ore sono? – gettai le gambe giù dal letto, ma rimasi seduta. Mi sentivo ancora stordita.
Lui guardò l’orario. Teneva un orologio al polso, di plastica rossa.
- Sono le sei –
- Le sei? – strabuzzai gli occhi. Ma quanto avevo dormito?
L’animatore annuì con noncuranza.
- Sei arrivata ieri? – mi chiese invece, cambiando argomento.
- Sì, ieri sera –
- Non ci siamo ancora presentati: io sono Roberto – mi strinse la mano in modo rozzo.
- Debora – per evitare che calasse un silenzio imbarazzante chiesi: - Chi è il tuo compagno di stanza? –
- Mirko – mi rispose indicando il letto su cui stavo.
D’istinto, quasi senza pensare scattai in piedi: perché ero nella camera degli animatori? Perché non nel mio residence? Perché proprio nella stanza di Mirko? Perché lui non c’era? Che ci facevo nel suo letto in compagnia di uno sconosciuto? Chi mi aveva portato lì?
- Dov’è lui? – mi trovai a chiedere prima delle altre domande che mi si erano materializzate in mente.
- In spiaggia. Lui è il capo sport: non poteva smettere di lavorare –
- Certo... capisco – mormorai un po’ delusa che non fosse lì – e... perché sono in camera vostra e non nella mia stanza? –
- Perché i tuoi nonni dovevano ancora sistemare le cose, e volevano stessi tranquilla. Noi animatori non siamo quasi mai in camera, così... Mirko ti ha portata dal medico in braccio e poi ti ha lasciata qui –
Mirko aveva fatto questo? Mi aveva tenuta stretta tra le sue braccia? Magari era anche preoccupato per me! E io in tutto quel tempo ero senza sensi e non mi ero potuta godere il viaggio in braccio al mio Amore!?
- Era preoccupato. Ha aspettato fino a che il medico non dicesse cos’era successo, poi il capo animatore ha insistito perché tornasse al lavoro –
Nonostante Roberto mi fissasse non riuscii a trattenere un sorriso enorme.
- Devo andare a casa ora... mi sento meglio e...-
Roberto mi spinse a sedere sul letto.
- Rimani ancora un po’. Devi riposarti. Metti che ti senti male per strada? –
Sospirai. Non avevo la forza di ribattere, inoltre se fossi rimasta lì ancora un po’ magari Mirko sarebbe tornato in stanza per farsi una doccia e per prepararsi per la sera.
Così obbedii e mi misi sdraiata sul letto.
Mi girai a pancia in giù, affondando il viso nel cuscino. Inspirai a fondo l’odore che emanava, sapendo che era come prendere una parte di Mirko.
Chiusi gli occhi abbandonandomi a quel dolce profumo che mi travolse come un tornado. In pochi minuti caddi in un sonno profondo.
Mi svegliai dopo non so quanto tempo. La lampada sul soffitto era accesa ed illuminava la piccola stanza di una luce arancione, che tingeva delle sue sfumature tutti gli elementi nella camera.
Alla scrivania non sedeva più nessuno; il computer era spento.
Per un attimo credetti di essere rimasta sola. Osservai bene tutto attorno a me per accertarmene. Mi misi seduta per vedere meglio.
Sentii uno scricchiolio, seguito dall’aprirsi della porta del bagno.
Ebbi un tuffo al cuore quando ne uscì un ragazzo altissimo, con legato alla vita un asciugamano bianco: Mirko.
Si agitava i capelli per asciugarli con un altro pezzo di stoffa e si stava ancora guardando allo specchio mentre varcava la porta.
Quando si girò io balzai in piedi per lo spavento, nonostante lo avessi già visto qualche secondo prima.
Mi voltai di scatto.
- Scusami – mi parai il viso con la mano, come per fargli capire che non avevo intenzione di rimanere a guardarlo.
Avevo però fatto in tempo a passare gli occhi sui suoi addominali scolpiti, ancora ricoperti da goccioline d’acqua, che mi rimasero bene impressi nella mente anche quando mi voltai.
D’improvviso pensai che dimostrare a Mirko di sentirmi così a disagio nel vederlo in accappatoio gli avrebbe fatto pensare che ero ancora una bambina, ma prima che potessi fare qualunque cosa lui mi prese le mani e mi voltò verso di lui.
- Stai meglio? – Mirko sembrava perfettamente a suo agio.
- Sì – riuscii a dire trattenendo il fiato.
- Lo sai che mi hai fatto preoccupare? –
- Me lo ha detto...- al momento mi sfuggiva il nome – Roberto –
Lui annuì cercando i miei occhi, ma io evitavo il suo sguardo.
- Forse è meglio che vada. Grazie di tutto – dissi di fretta scattando verso la porta d’uscita. Ero visibilmente a disagio.
- No, tu non vai da nessuna parte – mi bloccò lui tenendo ben salda la presa sul mio braccio.
- Sto bene – ringhiai a denti stretti, quasi minacciosa, fissandolo finalmente negli occhi in modo aggressivo.
Lui forse intuì che la situazione mi faceva sentire fuori posto e mi lasciò andare. Raggiunsi a passo svelto la porta ed uscii all’aperto, sbattendola dietro di me.
Poggiai la schiena alla parete e chiusi gli occhi: sembravo ridicola... ma perché avevo reagito così? Questo peggiorava solo le cose... inoltre Mirko era stato molto gentile e premuroso con me, era così che lo ripagavo? Con una così scortese fuga? Mi pentii così tanto della mia reazione che dovetti mordermi il labbro per non continuare a condannarmi. Il fatto era che il mio cuore aveva preso a battere troppo veloce quando era apparso Mirko e le circostanze del nostro incontro non mi avevano aiutata molto.
Presi un bel respiro e mi allontanai dagli alloggi degli animatori. Si trovavano proprio in cima alle scale che conducevano alla spiaggia; avrei dovuto raggiungere da sola il residence 304.
Seduti fuori, invece, trovai i miei nonni. Li guardai con dolcezza accasciati in modo disordinato su una panchina. Dovevano essere lì da ore.
Solo allora osservai che il cielo era già scuro, le stelle già brillavano; ero certa che non erano ancora le otto, perché Mirko a quell’ora sarebbe dovuto essere già al ristorante a salutare gli ospiti.
- Ciao – mormorai.
I miei nonni scattarono in piedi e mi accarezzarono le spalle.
- Come stai tesoro? –
- Io bene – risposi in un sorriso, per far loro capire che stavo davvero bene.
- Sicura? –
- Certo! È stato solo un brutto incidente. Ora che mi sono riposata però mi sento benissimo –
- Ti va di mangiare qualcosa? – chiese mio nonno.
- Come no! – esclamai con euforia, rendendomi conto solo allora che avevo una fame incredibile: avevo anche saltato il pranzo.
Prima però passammo dal residence per vestirci eleganti, per la sera. Io indossavo ancora i pantaloncini da spiaggia sopra al costume!
Mi infilai un graziosissimo abito di Abercrombie a righe bianche e rosa, con ricamati dei fiorellini blu.
Ficcai i piedi in un paio di ballerine bianche e indossai orecchini di perle.
- Sono pronta – annunciai a gran voce.
- Sicura di star bene? – la voce preoccupata di mia nonna mi irritò un po’.
- Sì nonna! Sto benissimo! –
Così dicendo risalimmo il boschetto che ci separava dal ristorante, prendemmo il nostro solito tavolo.
Erano solo le otto meno un quarto.
Mangiai moltissimo quella sera: ero davvero affamata, ma forse questo preoccupò ancora di più i miei nonni.
- Ora vado a prendere una boccata d’aria – fu così che li liquidai alzandomi da tavola e raggiungendo l’uscita del ristorante.
Fuori, nell’anfiteatro non c’era nessuno. Era deserto come il giorno prima. Mi sedetti sulla panca di pietra vicino ai tavoli da pingpong.
Mirko, Mirko... perché va sempre tutto male con te? Perché non so mai come comportarmi? Di sicuro penserai che sono solo una bambina, ma tu non immagini nemmeno quello che provo per te. Io ti amo! Ti amo davvero... vorrei solo che tu lo capissi. Ti amo...
Mi resi conto di aver chiuso gli occhi solo quando la voce di Jacopo mi richiamò alla realtà.
- Ehi! –
Appena aprii le palpebre incontrai i suoi rassicuranti occhi azzurri.
- Ciao J – gli sorrisi, seguendolo con lo sguardo mentre si sedeva accanto a me – come stai? –
- Come stai tu, piuttosto!? Ho aspettato fino alle tre fuori da quella stanza...-
- Sto bene, ora – gli sorrisi, per rassicurarlo.
- Sicura? –
- Sì! ma perché non mi crede nessuno?! –
- Perché se sei rimasta senza sensi fino ad ora... beh... è un po’ preoccupante –
- Non fino ad ora: mi sono svegliata verso le sei – ribattei.
- È lo stesso tanto! –
Sbuffai: bastava guardarmi in faccia per capire che ora stavo benissimo, non c’era bisogno di trattarmi come un’inferma.
- Ero nella stanza di Mirko e Roberto – dissi con un sorriso enorme, immaginando me senza sensi tra le braccia del mio grande amore, che mi poggiava sul letto e mi stampava un bacio sulla fronte.
- Lo so – rispose lui quasi infastidito.
- Lo conosci bene Mirko? – gli chiesi. Volevo raccogliere più informazioni possibili su cosa avesse fatto durante l’anno, ma non me la sentivo ancora di parlargli apertamente.
- No. Non mi interessa. Non mi piace come persona – disse con durezza. Sembrava volesse cambiare argomento.
- Come mai ti infastidisce così tanto? Ah, già, sarà perché non lo conosci... io ti dico che è una persona stupenda – mi luccicavano gli occhi a parlare di lui.
Vidi con la coda dell’occhio Jacopo scuotere la testa, poi voltarsi di scatto verso di me. mi prese le mani e mi guardò negli occhi con una serietà che mi spaventò.
- Devi stargli lontano Deb! Non è la persona giusta per te... può essere pericoloso -
- Perché mi dici questo? – mi sentivo offesa, come se stesse parlando male di me anziché di Mirko, e avevo paura, paura che qualunque cosa intendesse dire fosse vera.
In fondo lui non lo conoscevo nemmeno troppo bene: la nostra amicizia si limitava a racconti di esperienze personali, scherzi e risate. Io non sapevo troppi fatti di Mirko... non quelli che di solito si preferisce non raccontare, almeno.
- Non ti dirò altro, ma ti prego: sta attenta...-
- Ok basta... mi sa tanto di film. Dimmi: cosa c’è che non va? – sbottai saltando in piedi.
- Chiedilo a lui... –
Feci per ribattere, ma non avevo voglia di litigare con un amico conosciuto da poco, così decisi di lasciar perdere. Fui orgogliosa dell’autocontrollo che riuscii a mantenere.
- Lo farò... oggi niente cena dietro un cespuglio? –
- No, ho mangiato in modo più normale – mi sorrise.
- Come... seduto sul tavolo da pingpong? – feci un cenno con la testa verso il piatto abbandonato sul tavolo blu.
- Emh... sì!? – si illuminò di un sorrisetto colpevole.
Scoppiai a ridere.
- Tu sei strano –
- Perché? –
- E me lo chiedi? – sgranai gli occhi: insomma... chi è che si metteva a mangiare dietro un cespuglio o su un tavolo da pingpong?
- Che avete fatto oggi tu e Sofia? –
- Oltre ad avere aspettato fuori dalle stanze degli animatori? –
Sorrisi con dolcezza, facendoli capire che apprezzavo davvero molto quello che avevano fatto.
- Abbiamo giocato un po’ a pingpong giù in spiaggia e abbiamo fatto un bagno –
- Wow – voltai lo sguardo verso il ristorante e vidi Sofia e Mirko che parlavano avvicinandosi sempre di più a me e Jacopo.
Feci finta di non averli visti e poggiai la testa sulla spalla del mio amico.
- Che sonno, mamma mia...- dissi simulando uno sbadiglio.
Lui sembrò irrigidirsi quando mi accasciai su di lui; dopo un momento di esitazione però mi circondò il fianco con il braccio.
Mirko e Sofia arrivarono dopo meno di un minuto, un tempo che però mi sembrò interminabile.
Feci finta di non avere la più pallida idea che Mirko fosse lì, fino a che non parlò.
- Scusate, interrompiamo qualcosa? – dietro il suo tono scherzoso sentii un pizzico di irritazione, ma forse quella percezione era dovuta solamente al desiderio di farlo ingelosire.
Mi alzai di scatto, rimettendomi a sedere e fingendomi sorpresa di trovare lì, dietro di me, Mirko.
Finsi di essere un po’ imbarazzata, mentre Jacopo lo era davvero.
Fissai l’animatore come se vedessi un angelo. Non sapevo perché, ma in quel momento sembrava essere tutto ciò di cui avevo bisogno. Semplicemente lui.
Lo guardavo con occhi supplichevoli, sembravo pregarlo. Per cosa? Lui ricambiava il mio sguardo. Sembrava altrettanto preso; magari però era solo una mia impressione, il desiderio di leggere nel suo cuore che sentiva per me quello che io sentivo per lui.
- No...- mormorai ancora imbambolata.
Il tempo sembrava essersi fermato, il mondo essere svanito. C’eravamo solo noi due. Io e Mirko. E il nostro amore. No, mi stavo immaginando tutto, stavo viaggiando con la fantasia... non avrei dovuto illudermi così, mi avrebbe solo fatto stare peggio al momento della verità.
Tutto ciò che era scomparso intorno a me riapparve, e la magia finì. Abbassai lo sguardo, ma sentii gli occhi di Mirko puntati su di me.
Forse cercava di decifrare il mio incomprensibile comportamento. Il fatto era che ogni volta che gli ero vicino la mia mente si spegneva, smetteva di funzionare. Ragionavo col cuore.
- Come stai? – mi chiese, sinceramente preoccupato.
- Sto bene, grazie – risposi un po’ fredda.
Lui rimase un attimo lì, in piedi, esitante. Forse si aspettava che gli dicessi qualcosa, ma non avevo intenzione di farlo. Poi sentii i suoi passi mentre si allontanava sulla ghiaia.
All’improvviso ripensai a quello che Jacopo mi aveva detto di Mirko poco prima.
Scattai in piedi ed iniziai a correre nella sua direzione.
- Aspetta! – gli gridai prima di raggiungerlo.
Già mi immaginavo gli sguardi perplessi dei miei amici che mi fissavano.
Mirko si voltò di scatto e si fermò. Lo raggiunsi.
- Scusami... io... non volevo sembrare scortese – il cuore mi batteva all’impazzata e lo sguardo un po’ severo di Mirko provocò un’accelerata improvvisa.
- Tranquilla – disse con non curanza. Aspettò che dicessi qualcosa, ma io rimasi in silenzio; così  si voltò.
- No, aspetta – lo fermai tirandogli il braccio. Ero decisa a chiedergli spiegazioni per quello che mi aveva detto sul suo conto Jacopo.
- Grazie per oggi...- non riuscii a chiedergli quello che davvero avrei voluto sapere. Sorrisi. Ero 0
nervosa – ho saputo che mi hai aiutata molto. Anche se personalmente non posso saperlo – ridacchiai tutto il nervosismo che sentivo crescermi dentro.
Il suo sorriso mi calmò.
- Non c’è di che – mi fece l’occhiolino e se ne andò.
Rimasi lì immobile a fissarlo, autocommiserandomi per non aver aggiunto subito qualcos’altro, in modo da dare inizio ad una conversazione.
Avrei voluto picchiare la testa su un muro, ma non ne avevo a portata di mano; così mi limitai a girare i tacchi e raggiungere Jacopo e Sofia sulla panchina di pietra.
- Che gli hai detto? – mi domandò lei appena mi sedetti.
- L’ho ringraziato –
- Perché? – chiese Jacopo, come se non potesse esistere nessun buon motivo per ringraziare Mirko.
- Perché oggi si è preoccupato per me – mi voltai un istante per vedere che fine avesse fatto e lo vidi parlare con una ragazza.
Sentii montare la gelosia: lei era alta, i bruni capelli lisci sembravano perfetti, abbinati agli occhi color nocciola che luccicavano sotto la luce del lampione che li sovrastava. Indossava uno splendido abito bianco, cortissimo, che faceva risaltare la sua abbronzatura. Era davvero carina, dovevo ammetterlo, e, ancora peggio, aveva la stessa età di Mirko.
Avevo la vista annebbiata dalla gelosia, quindi mi costrinsi a voltarmi. Quella scena mi faceva troppo male... anche perché pensai a quante altre ragazze potesse avere intorno il mio Mirko, con quante di loro flirtasse... quei pensieri mi mozzarono il fiato.
- Tutto bene? –
- Benissimo – ringhiai a denti stretti.
- Che si fa stasera? – domandò Sofia, la sua voce limpida mi calmò un po’.
- Potremmo scendere in spiaggia – proposi io.
- Oppure andare in discoteca, fuori dal villaggio –
- I miei nonni non mi lasceranno mai...- dissi io.
- Potreste venire in camera mia – propose invece Jacopo.
Lo guardai storto.
- A far che? – non avrei voluto trovarmi lì, con Sofia e Jacopo a non far nulla o a continuare a chiederci a vicenda “che facciamo?”.
- Non so... due chiacchiere, un drink...? –
Mi grattai un sopracciglio, sperando che quel gesto rimpiazzasse il mio silenzio. Avrei preferito che fosse Sofia a rispondere prima di me.
- Per me va bene – disse infatti, con l’aria di chi si accontenta.
- Allora ok – sorrisi io.
Ci alzammo tutti insieme dalla panchina e scivolammo sulla ghiaia silenziosamente, chiacchierando del più e del meno.
Quando passai dietro a Mirko lui non mi degnò di uno sguardo, preso com’era da quella Barbie che si rigirava ciocche di capelli profumati di lavanda tra le dita.
Mi morsi la guancia per mantenere la calma. Ultimamente avevo poco autocontrollo.
Sofia percepì quello che provavo e tentò di consolarmi:
- Ti trova la più speciale di tutte – mi sorrise toccandomi una spalla.
Io ridacchiai scuotendo quasi impercettibilmente la testa: sapevo che non era vero, ma non volevo dirlo per non averne la certezza.
Pensai che era solo il primo giorno che ero a Camerota, che ero già stata male, che mi sentivo già distrutta da quell’amore così difficile... non avrei retto un mese in quel modo se già al primo giorno mi sentivo così sfinita!
- Bene giovani – esclamai – sono lieta di annunciare che stasera sono carica! –
Jacopo rise.
- Ma brava! – disse scompigliandomi i capelli.
- E adesso... – caricai un salto – voglio sentire se lo siete anche voi! – e mi slanciai verso l’alto.
- Sì! – dissero all’unisono i miei due amici.
- Non ho sentito! – ripetei più forte.
- Sì! – gridarono loro per tutta risposta.
Battei le mani entusiasta. Mi sentivo come una presentatrice che cercava di caricare il pubblico.
Una coppietta di cinquantenni in quel momento ci passò accanto e ci fulminò con lo sguardo.
Continuammo a camminare, strisciando i piedi nella ghiaia per sentirne il suono fino alla stanza 222.
- Domani vi va una gita in canoa? – proposi.
- Sì! – l’entusiasmo di Sofia era sincero.
- Emh...- Jacopo, invece, sembrò più indeciso – non ci sono mai andato... e non ho idea di come si faccia...- ammise un po’ imbarazzato.
- Non importa! Ti insegniamo noi! –
Jacopo girò le chiavi nella serratura della porta.
Ci fece entrare per prime, poi lui ci seguì.
Mi lasciai cadere con un tonfo sul letto matrimoniale. Il materasso era duro e mi accolse con un tonfo.
- Accomodati – mi disse sarcastico, visto che mi ero già sistemata.
Sofia si sedette sulla sedia della scrivania, Jacopo accanto a me.
- Allora...- disse il ragazzo strofinandosi le mani – che si fa? –
 
Dopo tre ore di pura pazzia mi ero addormentata. Solo a mezzanotte mi ero svegliata di soprassalto, con l’incubo che i miei nonni mi aspettassero a casa col cuore in gola.
Ero scappata via dal residence di Jacopo, che ancora dormiva. Com’era possibile che un’intera giornata a dormire non mi fosse bastata a recuperare tutte le energie? Sentivo ancora una grande stanchezza mentre correvo verso il mio residence.
Passai per l’anfiteatro per assicurarmi che i miei nonni non fossero ancora lì. E invece fu proprio dove li trovai: seduti sugli spalti a chiacchierare con vecchie conoscenze.
- Ciao Deb – mi salutarono con un sorriso.
- Questa è Debora, mia nipote – mi presentarono con il solito orgoglio che i nonni serbano nei confronti dei loro nipotini.
- Molto piacere – dissi non curante.
- Dove sei stata tutta la sera tesoro? – la voce gracchiante di mia nonna mi riecheggiò nella mente, mentre ormai i miei pensieri erano persi altrove: davanti alla console, le luci basse, stavano due ragazzi. Mirko e la “Barbie”. Ridevano e scherzavano in allegria.
Mi sentii male a vedere quella scena. Al posto della brunetta ci sarei dovuta essere io... l’unica che avrebbe dovuto incrociare quegli occhi stupendi che Mirko possedeva ero io!
Le mie gambe tremavano, le lacrime mi ricoprirono gli occhi come una sottile nebbia. La mia testa non ragionava più.
Vedere Mirko sorridere a quel modo mi faceva stare male perché non era con me che stava ridendo. Era felice, o almeno così sembrava, e non ero io il motivo di quella sua allegria.
- Vado a casa nonna – annunciai afferrando le chiavi che lei teneva poggiate in grembo.
Corsi via, augurando un frettoloso “buona sera” nascondendo il naso e la bocca dietro la mano, mentre si arcuavano nella smorfia che precede il pianto.
Passai accanto alla coppietta versando una lacrima gelida, senza degnarli di uno sguardo.
Ebbi però l’impressione che Mirko si accorgesse di me, che mi vedesse stare male. Però non fece nulla. Era troppo occupato con la sua Barbie per considerare una bambina come me.
Mi sentii una stupida. Come avevo potuto credere che i sorrisetti di Mirko nascondessero un amore nascosto nei miei confronti? Non avevo mai ammesso di crederci, ma il dolore e la delusione che sentivo in quel momento mi fecero capire che di speranza di conquistare il mio amore ne avevo avuta fin troppa. Ed ora tutto crollava, davanti ai miei occhi. Non avevo più nulla a cui aggrapparmi... solo il vuoto, la solitudine che si impossessavano di me mi facevano sentire viva.
Con quante altre ragazze aveva flirtato in quel modo? Quante ne aveva conquistate?
Solo allora mi resi conto di quanto insensato fosse l’amore che dicevo di provare nei confronti di Mirko: di lui non sapevo nulla, nulla! E allora come mai tutta quell’attrazione mi attirava sempre più vicina a lui? Certo, era un bel ragazzo, ma non così bello da considerare solo il suo aspetto esteriore per dire di esserne innamorata. C’era dell’altro. Ma cosa?
Appena raggiunsi il boschetto sopra la mia stanza incontrai Jacopo. Non sapevo che ci facesse lì, proprio in quel momento, ma mi fece piacere vederlo spalancare le braccia e stringermi forte a lui.
Piangevo. Lacrime pesanti e sofferte. Sfogavo tutto il mio dolore. Come potevo pretendere che davvero un ragazzo di venticinque anni come lui non andasse a guardare le ragazze della sua età? Come potevo amare un ragazzo così grande? Quello che volevo io dal nostro amore era forse diverso da quello che avrebbe voluto lui... ma io lo amavo. Non sapevo darmi un perché, ma lo amavo. E questa era l’unica cosa di cui ero certa.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** la mano dell'oceano ***


II GIORNO: DOMENICA
 
Il giorno dopo cercai di non pensare a quella brutta visione.
Dimenticai anche le premure di Mirko nei miei confronti: non dovevo più illudermi.
Per distrarmi affittai una canoa a tre posti.
L’animatrice del centro nautico, Arianna, mi porse il giubbotto salvagente che avrei dovuto indossare.
Allacciai tutte le pinze e cerniere di cui era fornito e le strinsi forte.
Anche Jacopo e Sofia, che sarebbero venuti con me, avevano indossato il loro salvagente.
Arianna ci indicò le pagaie in un mucchio disordinato abbandonato sulla sabbia.
Ne prendemmo una a testa.
Fu l’animatrice che trascinò la canoa fino in riva al mare, dove ci fece salire a bordo, prima di spingerci verso il largo.
Iniziai sin da subito a pagaiare con potenza. Ero seduta davanti, a prua, in modo che potessi dare l’andatura a Sofia, seduta nell’ultimo posto dietro, a poppa. Jacopo stava seduto in mezzo, senza fare nulla. Prima avrebbe dovuto osservare attentamente il movimento per pagaiare, e poi si sarebbe unito a noi due.
- Ragazze... è un po’ umiliante essere l’unico a non far nulla... soprattutto se a fare tutto sono due ragazze! – si lamentò lui.
- Tranquillo, non lo diremo a nessuno – scherzai io.
- Ne va della mia autostima! –
- Ma piantala! – ridacchiò Sofia dal fondo della canoa.
- Ragazze, sono serio! – si ostinò ad affermare.
Io e Sofia ridacchiammo.
Lasciandomi cullare dallo sciabordio delle onde che accarezzavano i fianchi della canoa e dal loro cullare l’imbarcazione iniziai a canticchiare:
Anche se il mare è in tempesta
e mi spinge violento
verso la sconfitta
guardo negli occhi l’amore
che mi fa lottare con la forza che dà
- La conosco! – annunciò Sofia euforica – è quella delle Mermaid Melody, le principesse sirene! –
- Sì! Lo vedevi anche tu quel cartone animato da piccola? – non so come mi fosse venuta in mente quella canzone proprio in quel momento; forse perché parlava del mare.
- Anche io lo vedevo...- mormorò Jacopo incerto se ammetterlo o no.
- Davvero? – esclamai sorpresa: era una cartone per bambine.
- Più che altro lo guardava mia sorella... io non avevo alternative – sorrise imbarazzato per la sua confessione.
Io e Sofia scoppiammo a ridere, poi continuammo a canticchiare tutti insieme, al ritmo delle pagaie, che fendevano l’acqua con sonori fruscii.
Anche Jacopo si unì a noi, quando capì come pagaiare.
Andammo al largo, i bagnanti diventarono solo piccoli puntini lontani.
Poi abbandonammo la baia. Tutto scomparve dietro la scogliera che circondava la nostra spiaggia.
- Non ci staremo allontanando troppo? – chiese Sofia voltandosi indietro.
- Nah – dissi continuando a pagaiare con energia.
- Dove vuoi andare? – domandò Jacopo.
- Emh...- osservai attentamente la nuova baia a che stavamo attraversando. Anch’essa era racchiusa tra due scogliere che precipitavano a picco sul mare. La spiaggia era deserta, senza ombrelloni, senza sdraio... era fantastica. La sabbia pallida sembrava non essere calpestata da tempo, come se quella riva fosse stata dimenticata dal mondo, come se nessuno ci mettesse piede da anni. Questo era impossibile, perché per la gente del villaggio che come noi prendeva la canoa sarebbe stato facile raggiungerla.
- Là! – indicai il bagnasciuga con il dito.
Iniziammo a pagaiare tutti a sinistra, in modo da rivolgere la prua della canoa verso la riva. Poi con un’andatura normale la raggiungemmo.
Tirammo su l’imbarcazione in modo che le onde non se la portassero via, deponemmo le pagaie al suo interno e ci tuffammo nell’acqua limpida.
Era praticamente uguale a quella della nostra baia, anche il fondale era lo stesso, solo c’erano sassi più grossi, che facevano male ai piedi.
Per una mezzoretta buona sguazzammo nell’acqua fresca, tra schiamazzi e schizzi, affogandoci a vicenda e saltandoci addosso.
Poi, stremati, ci abbandonammo sulla riva, sotto il sole delle undici che spaccava le pietre.
Sentivo la mia pelle asciugarsi, le goccioline aspirate dai raggi bollenti. La sensazione di calore che mi invase era una delle più belle che avessi mai provato, ma ben presto tutto quel bollire mi fece venire un senso di nausea.
Mi misi seduta e osservai per la prima volta il paesaggio retrostante la spiaggia: c’erano alberi, cespugli, piante ad alto fusto, le cui chiome sprigionavano un meraviglioso verde smeraldo.
Nessuna casa. Nessun edificio. Nessun elemento che facesse pensare ad un insediamento umano.
Mi alzai in piedi.
- Arrivo subito – mormorai ai miei amici, che ancora stavano sdraiati sulla sabbia cocente come lucertole.
- Dove vai Deb? – mi chiese Jacopo, alzando pigramente la testa seguendomi con lo sguardo mentre mi allontanavo.
Non ti allontanare. Torna da me.
Ancora quella voce... ora ero certa che non fosse un’illusione, ma non avevo idea da dove provenisse.
Torna a casa. Debora, non andartene.
Stavo solo andando a curiosare, non stavo andando via. E poi... andando via da dove?
Mi bloccai; osservai attentamente il bosco che fronteggiavo. Quando capii che non nascondeva nulla di interessante feci dietrofront e ritornai dai miei amici.
- Cos’hai trovato? – mi chiese Sofia, le parole storpiate a causa dalla posizione: stava sdraiata a pancia in giù, con la guancia spiaccicata a terra.
- Niente. C’è solo un bosco laggiù, nient’altro –
Vieni. Vieni.
Mi guardai attorno freneticamente, per assicurarmi che anche i miei amici sentissero quella voce che non mi dava tregua. Sembrava invece che non si fossero accorti di nulla.
Mi voltai verso il mare. Il suo luccichio mi suggeriva di tuffarmi, immergermi in quell’acqua salata così ristorante... sentii la testa pulsare con forza. Iniziava a farmi male.
Presi la rincorsa e mi gettai in mare. L’impatto con l’acqua fresca mi diede una carica incredibile, tanto che per placarla un po’ dovetti gridare in acqua. Aprii gli occhi. Vidi una miriade di bollicine che si innalzavano verso la superficie del mare. Le distinguevo nitidamente, come se indossassi una maschera. Quando qualcuna mi entrava negli occhi sentivo solo un leggero solletico.
Riemersi prendendo un respiro profondo. Mi agitai frustando l’acqua con le braccia e le gambe, cercando di sminuire tutta quell’energia che stare in acqua mi dava.
Poi mi abbandonai a pancia all’aria, mi lasciai cullare dalle onde, galleggiando guardando in alto.
Vidi il cielo azzurro che si estendeva proprio sopra di me e sorrisi: che bella giornata. Ero proprio felice, lì immersa nell’acqua, il mal di testa che era passato, il battito del mio cuore che mi riecheggiava nelle orecchie, il cielo azzurrissimo che sembrava un dipinto, il sole caldo.
Mi lasciai andare a fondo nell’acqua, per risalire subito dopo. Quando spalancai gli occhi, però, notai che da dietro il bosco si avvicinavano minacciosi nuvoloni neri.
Avremmo dovuto far in fretta a ritornare alla spiaggia: quelle non erano semplici nuvole, erano quelle che portano con sé forti temporali, pioggia, vento. Sarebbe stato un guaio se ci avrebbero sorpreso in mare, con le onde che sarebbero diventate sempre più grandi.
- Ragazzi! – chiamai – dobbiamo tornare in spiaggia: si sta per mettere a piovere – con grandi bracciate raggiunsi la riva, senza però immergere il viso.
Jacopo si mise a sedere. Guardò il cielo in cerca dei nuvoloni che io avevo avvistato, poi scattò in piedi.
- Su Sofi, andiamo –
Lei per tutta risposta emise un pigro grugnito, ma non si mosse. Capivo come si potesse sentire: era proprio nel momento di rilassamento massimo che si potesse raggiungere al mare, sotto un tiepido sole da dare i brividi, sdraiati su una sabbia cocente. Eccome se la capivo, ma dovevamo muoverci!
- Dai Sofi! – insistetti io quasi pregandola.
Lei allora si alzò con una lentezza degna di un bradipo e mosse qualche passo verso il mare. Fece un tuffo, imitata da Jacopo, poi salimmo tutti sulla canoa.
Iniziammo a pagaiare con un’andatura rapidissima, spingendo con violenza l’acqua che i remi prendevano.
All’andata avevamo impiegato più o meno un quarto d’ora per arrivare... dovevamo muoverci se non volevamo trovarci in mezzo al mare quando si fosse alzato il vento e avesse creato onde alte e minacciose.
A bordo nessuno fiatava: il pagaiare così velocemente e con così tanta potenza mi toglieva il fiato e gli unici suoni udibili erano lo scrosciare dell’acqua e quello del nostro fiato.
La canoa scivolava veloce sull’acqua, i nuvoloni si avvicinavano rapidamente, in un sinistro silenzio.
Valicammo la scogliera che anticipava la nostra baia proprio quando erano sulle nostre teste. Avevano oscurato il sole e tutto sembrava più grigio senza la sua luce.
Diedi un’occhiata alla spiaggia: gli ombrelloni erano stati chiusi, la gente era risalita a casa. Solo pochi si erano rifugiati sotto il tendone del bar, in attesa che piovesse.
Vidi tre magliette arancio evidenziatore agitarsi sotto l’ombrellone del centro nautico. I tre animatori corsero in riva. Sembrava che guardassero noi, ma eravamo ancora troppo lontani per esserne certi. Agitavano le braccia nella nostra direzione, il che mi spinse a pagaiare ancora più veloce, nonostante i muscoli delle braccia non avessero più forza.
Lentamente scesero le prime gocce di pioggia; dapprima erano solo timidi schizzi, che si trasformarono in breve in un acquazzone violento. Il mare si stava agitando; la canoa dondolava sotto la spinta delle onde che lo increspavano.
Quegli ultimi minuti sembravano un tempo interminabile, in cui facevamo uso di tutte le forze che ci erano rimaste in corpo, sfidando la tempesta che stava infuriando sempre più violenta. Gli animatori agitavano con insistenza le braccia, facendo cenno di fare in fretta.
Ci avvicinavamo velocemente. Riuscii a distinguere il viso di Mirko, quello di Roberto e quello di Arianna, che ci fissavano preoccupati.
- Forza! Dai! – ci gridavano.
A circa due metri dalla riva, stremati, ci abbandonammo in cresta ad un onda, ritraendo le pagaie all’interno della canoa e lasciandoci spingere a riva.
Appena prima che l’imbarcazione toccasse la sabbia balzammo tutti in acqua.
Io non toccavo, e credo nemmeno gli altri. Restavo a galla grazie al salvagente, perché le mie sole forze non ce l’avrebbero fatta.
Gli animatori corsero a prendere la canoa e la tirarono con forza fuori dall’acqua, strisciandola sulla sabbia, fino al loro ombrellone, in modo che il mare non potesse prendersela.
Intanto Jacopo e Sofia, che avevano pagaiato con forse meno energia di me, tentavano di sfidare la corrente e raggiungere la riva.
Io ero davvero troppo sfinita per imitarli, anche se ci provavo, agitando le deboli braccia in avanti, tentando di farmi strada tra tutte quelle onde che diventavano sempre più gradi.
Vidi Arianna e Roberto aiutare i miei due amici ad uscire dall’acqua. Li sostennero in piedi e li fecero sedere sulla riva.
Stringendo i denti tentai di avvicinarmi anche io al bagnasciuga, mentre le onde sempre più impetuose mi sommergevano. Sentivo una corrente invisibile tirarmi verso il largo, come se mi afferrasse per il piede. Come una mano.
- Ah! – lanciai un urlo terrificante. Mi sembrava proprio di sentire cinque dita potenti stringermi con forza la caviglia, e trascinarmi lontano dalla spiaggia.
- Aiuto! – gridai ancora.
Lo sguardo atterrito degli animatori mi fece agitare ancora di più. Non potevo fare nulla. Non avevo forza. Ringraziavo il cielo che indossassi il salvagente, l’unica mia salvezza. Ma mi stavo allontanando dalla spiaggia, tirata da quella mano gelida.
Debora vieni con noi.
Quella voce... scoppiai a piangere, davvero terrificata. Credetti di essere in balia di un brutto sogno, solo un incubo. Invece no. Il mio terrore era qualcosa di reale, e mentre ingurgitavo acqua salata a tonnellate, vidi una maglietta arancione scivolare su addominali ben scolpiti.
Non riuscivo a tenere gli occhi aperti, la paura e l’acqua salata che avevo nello stomaco mi fecero venir voglia di vomitare. Iniziai a piangere, benché mi sentissi già morta, troppo stordita per muovermi, e troppo impaurita per pensare alla mano che mi stringeva il piede.
Sentii il suono di un tuffo. Qualcuno stava venendo da me.
- Aiuto...- mormorai con voce flebile, prima che un’onda mi spingesse sott’acqua per l’ennesima volta.
Mi sentii persa. Chiusi gli occhi. Vedevo tutto nero. Sentivo il mio cuore che esplodeva nel petto, il respiro che veniva a mancarmi, la mano che mi trascinava verso il fondo del mare.
Spalancai la bocca, liberando in una bolla l’ultima goccia di ossigeno di cui potevo servirmi, e mi lasciai trascinare, senza opporre resistenza.
Stavo per perdere i sensi, o arrendermi all’idea che la mia ora fosse arrivata, quando una mano dall’alto afferrò la mia. Questa era calda però, non come quella che mi stringeva il piede.
Sentii uno strattone dall’alto, una stretta alla caviglia. Poi la mano calda ebbe la meglio e mi trascinò in superficie.
Solo allora pensai a quanta forza dovesse avere la mano gelida che mi trascinava verso il fondo: ancora indossavo il salvagente ed era davvero, davvero difficile poter tirare qualcuno sott’acqua con quello indosso.
Finalmente la mia testa riemerse. Avevo impiegato tantissimo tempo a risalire. Quasi credevo che non ce l’avrei fatta.
Spalancai la bocca, inspirando dalle narici e dalla gola tutta l’aria di cui avrei potuto appropriarmi.
Iniziai a tossire, a piangere, a bere acqua. Mi veniva da vomitare, ma quello che mi uscì dalla gola fu solo un verso roco.
- Va tutto bene – quella voce calda e rassicurante squarciò l’oscurità che mi circondava.
Una mano tiepida scivolò sulla mia fronte, mentre io singhiozzavo.
Chiusi gli occhi e mi lasciai trascinare a riva, mi abbandonai alla nuotata lenta e monotona del mio salvatore. Chiunque fosse sentivo di fidarmi ciecamente. Anche perché forse non avevo alternativa.
Mi sdraiò sulla riva prima di uscire lui stesso.
Gli altri due animatori mi slacciarono il giubbotto salvagente e mi tirarono all’asciutto sulla sabbia. Rimasi immobile, sdraiata, a fissare il cielo scuro. La pioggia cadeva, mi schiaffeggiava il viso, che il vento congelò. Le goccioline che mi picchiavano addosso si mischiarono a lacrime amare.
Iniziai a tossire, a sputare acqua, mentre la tempesta non accennava a placarsi.
Era successo tutto così in fretta... quasi non avevo capito nemmeno cosa mi fosse accaduto.
Debora vieni a casa, torna da noi. Solo qui sarai felice.
Ancora quella voce! Ormai mi terrorizzava, appena la udivo parlare nella mia testa sentivo il sangue raggelarsi nelle vene. Avevo paura ed ero scioccata da tutto quello che era successo. Ma cos’era successo? Quella mano... era davvero un mano? Com’era possibile?
Gridai, un urlo terribile, terrificante, che avrebbe spaventato il più valoroso tra i coraggiosi.
- Basta! – urlai, la voce roca dal pianto.
Mi dimenavo sulla sabbia, come in preda alle convulsioni, tenendomi stretta la testa tra le mani, scuotendola.
- Basta! –
Arianna mi venne accanto, mi accarezzò il viso per calmarmi.
- Tranquilla, va tutto bene –
Forse credeva che fosse stato il sale che avevo ingerito in enormi quantità a rendermi pazza, ma non lo ero, non lo ero per niente. Ero solo stufa di quella voce che mi perseguitava. Cosa voleva? Non lo sapevo... mi diceva di tornare a casa, ma dove? Cosa voleva dire? Come conosceva il mio nome? A chi apparteneva? Cosa voleva davvero? Sembrava un richiamo dal mare, quasi. Cosa avrei dovuto fare? Ero davvero pazza?
- Debora – la voce dolce di Mirko – Debora –
Aveva scansato Arianna e mi stava facendo scivolare un braccio lungo la schiena, tirandomi poi a sé.
- Debora apri gli occhi, guardami! – gridò, per sovrastare le mie urla. Io ancora mi dimenavo.
- Guardami! – ripeté.
Aprii gli occhi e trovai il suo viso davanti al mio, così vicino che sentivo il suo respiro sulla mia pelle.
Mirko...
Anche solo vederlo, trovarlo lì accanto a me, sentirlo così vicino e così presente, mi faceva sentire bene. Così mi calmai, smisi di urlare e di muovermi.
Rimasi immobile tra le sue braccia, abbandonandomi al loro rassicurante calore.
Anche lui però era bagnato, come me. Aveva i capelli appiccicati al viso. Era stato lui, dunque a salvarmi?
Lo fissai, ma le palpebre si chiudevano da sole. Lui mi prese il viso con una mano e lo scosse.
- Guardami! – gridò, mentre la pioggia gli frustava la schiena e gli appiccicava i capelli ancora di più. Percepii nella sua voce una punta di terrore. Qualunque fosse il motivo non voleva che chiudessi gli occhi.
- Non dare ascolto a quella voce! – mi pregò, spaventato – non lo fare! – stava gridando, e mi implorava.
Io rimanevo zitta, immobile, gli occhi mezzi chiusi e spenti, come fossi già morta. Mi sembrò che Mirko tentasse di trattenere le lacrime.
- Parlami! Parlami ti prego! Così non la sentirai! –
Silenzio. Non dissi nulla, non avevo forza nemmeno per aprire la bocca. Lui mi fissava implorante, sotto la pioggia ed il vento, come se esistessimo solo noi due.
- Mirko...- mormorai allora.
Vidi il suo viso illuminarsi.
- Parlami! Parlami! – sul suo volto brillò un barlume di speranza.
- Grazie...- dissi, non sapendo cosa aggiungere.
Aveva gli occhi lucidi, o forse era solo uno scherzo che mi giocava la mia vista annebbiata.
- Continua –
- Io... non so cos’era... una mano mi ha afferrata e... mi tirava in fondo al mare e...- lui non poteva immaginare quanta fatica mi costasse parlare, e quanta ricordare.
- Sht! Ok, ora basta... tranquilla – mi zittii, mentre lui mi sollevava tra le sue braccia.
- Ragazzi tutto bene? – gli sentii chiedere a Sofia e Jacopo.
- Mirko...- lo chiamai con voce flebile. Dubitavo mi sentisse. Invece abbassò il viso per guardarmi negli occhi – perché è solo il secondo giorno e mi sono cacciata nei guai già due volte? –
- Non è colpa tua... – mi sussurrò, anche se non capii bene cosa intendesse dire.
- Andiamo, dai – fece Arianna incamminandosi verso il tendone del bar.
- Un ultima cosa – ripresi io – non dirlo ai miei nonni, ok? – aspettai la risposta prima di chiudere gli occhi:
- Certo. Non lo farò –
Fu bruttissimo abbandonare la calda luce verde degli occhi di Mirko per trovare l’oscurità nelle palpebre serrate. Ma sapermi tra le sue braccia mi faceva sentire al sicuro.
 
- Grazie per avermi salvata... – dissi poco dopo, seduta al bar della spiaggia sorseggiando una cioccolata calda, avvolta in un asciugamano – di nuovo – precisai. Non mi piaceva pronunciare quella frase “avermi salvata” suonava troppo da film. Ma era l’unica cosa che potessi dire, perché era stato davvero così: Mirko mi aveva davvero salvato la vita. Se non ieri, oggi certamente. Gli dovevo tutto.
Lui mi sorrise con calore. Poi si allontanò.
Ero seduta ad un tavolo con Jacopo e Sofia, che se l’erano cavata molto meglio di me in mare, forse perché avevano speso molte meno energie pagaiando. Fuori dal tendone del bar la tempesta infuriava ancora.
- Come ti senti? – mi chiese Sofia per l’ennesima volta.
- Stordita – risposi stringendo la tazza di cioccolata rovente. Il vapore che ne usciva aveva creato sulla mia fronte tante piccole goccioline.
- Ragazzi – dissi a un tratto, quasi sotto voce. Mi guardai attorno, per accertarmi che nessun altro sentisse – io... ho sentito una mano – dissi seria – una mano che mi afferrava la caviglia –
I miei amici mi guardarono allibiti. Sofia mi posò una mano sulla fronte, come per misurarmi la febbre.
- Stai delirando Deb – disse seria – hai bevuto troppa acqua di mare –
Jacopo si fece scuro in volto, ma cercò di nasconderlo, io mi scansai dal tocco di Sofia.
- No, ragazzi! Dico davvero! C’era qualcosa sott’acqua. Qualunque cosa fosse stava cercando di uccidermi. Mi tirava con forza verso il fondo... non ho nemmeno idea di come abbia fatto, visto che indossavo il salvagente! –
- Sì... certo...- finse di crederci Sofia, massaggiandosi il mento come se stesse riflettendo.
- Ti prego Sofi, prendimi sul serio! – dissi disperata: avevo bisogno di parlare con qualcuno di quello che mi stava succedendo, qualcuno che mi avrebbe creduto.
Jacopo mi fissava serio, attento ad ogni parola che dicevo. Per un attimo pensai che mi credesse.
- E cos’altro? – domandò infatti.
- Sento una voce. Mi capita spesso da quando sono arrivata qui. Mi dice: “Vieni, vieni!”... non so cosa pensare. Forse sono matta...- scossi la testa, ma poi ripresi subito ad affermare le mie tesi: - Ma sono certa che ci fosse qualcosa là sotto! Ci posso giurare! Qualcosa mi ha afferrata per il piede e mi stava trascinando con sé... se non fosse stato per Mirko...- dissi guardandolo con aria sognante. Stava cercando qualcosa nella sua borsa, qualche metro più in là.
A sentire il suo nome, però Jacopo balzò in piedi dalla sedia.
- Torno in un attimo – così dicendo si avviò, scuro in volto, a grandi passi verso Mirko, lasciando me e Sofia allibite e perplesse.
- Che vuole fare? – mi chiese lei. Ma io ero troppo impegnata ad osservare loro due per rispondere.
Vidi Jacopo raggiungere Mirko, lui alzare a malapena lo sguardo. Appena riconobbe il mio amico però si drizzò in piedi, guardandolo serissimo.
Jacopo mi indicò quasi impercettibilmente, lo sguardo sinistro e severo. Sembrò pregare Mirko di non voltarsi verso di me per non farmi capire che ero l’argomento di quel colloquio; Mirko non riuscì ad obbedire e il mio amico accompagnò il suo viso con la mano, come in una leggera sberla, per costringerlo a voltarsi verso di lui nuovamente.
Li osservai gesticolare, corrucciare, agitarsi. Sembravano nel bel mezzo di una discussione importante, ma dall’espressione di entrambi non sembrava qualcosa di piacevole. Pareva dovessero prendere una decisione.
Cos’avrei dato per sapere di cosa parlavano...
Vidi Mirko prendere a camminare nervosamente avanti ed indietro, mentre Jacopo gli parlava, forse lo rimproverava. L’animatore si fermò di botto, scosse le spalle del mio amico dicendogli qualcosa e scuotendo la testa.
Guardai Sofia, stufa di rimanere per un altro quarto d’ora a guardare.
- Che si staranno dicendo? – domandai, quasi dispiaciuta di non saperlo.
- Non ne ho la più pallida idea... ma sembra si conoscano da tempo visto il modo in cui discutono –
- È una settimana che Jacopo è qua... –
- No, credo che non sia la prima volta che si incontrino... magari si conoscevano già... hanno troppa confidenza per essere amici solo da una settimana...-
- E chi ha detto che sono amici? – tornai a fissarli.
- Conoscenti, allora!? – disse lei imitandomi.
Ora Jacopo stava tornando al nostro tavolo, aveva lasciato solo Mirko che aveva afferrato la borsa e si stava avviando su per le scale.
- Che è successo? – chiese Sofia.
- Dove va? – domandai invece io, come se Mirko fosse la cosa più importante.
- Nulla... non è successo nulla – disse lui, ignorando la mia domanda.
- No, non accettiamo questa risposta! Sono quasi venti minuti che continuate a discutere! – ribattei secca.
Mi guardò in modo indecifrabile, ma la sua serietà mi fece balzare il cuore in gola. Però lui non rispose.
Cacciai giù un sorso di cioccolata, ormai fredda. Ero stata troppo presa dalla discussione tra i miei due amici per ricordarmi di berla.
- Perché non ce lo vuoi dire? – gli domandai con un pizzico di dolcezza, come se parlassi ad un bambino.
- Perché sono fatti nostri –
- Ma l’hai indicata, prima – disse Sofia, imitando il gesto compiuto da lui poco prima – vuol dire che Deb centra qualcosa -
Lui sospirò, probabilmente condannando Mirko perché si era voltato.
- Ok, questo non ce lo vuoi dire. Ma almeno spiegaci che rapporto hai con lui – evitai di pronunciare il nome dell’animatore.
- Cosa vuoi sapere? –
Mi misi comoda sulla sedia, preparandomi a tempestare J di domande.
- Da quanto vi conoscete? –
- Da un po’ – rispose lui, con la faccia di chi dà una risposa molto esaustiva.
- Da un po’!? – cercai di istigarlo a continuare.
- Quanto po’? – s’intromise Sofia. Sembrava interessata anche lei all’argomento, ma sapevo bene che non poteva esserlo quanto me.
- Quanto basta per conoscere quasi tutto di lui – rispose quasi con disprezzo.
Rimasi accigliata a quelle parole: non mi sarei mai aspettata che quei due si conoscessero così bene come J lasciava intendere ora.
- E cosa voleva? – domandai ancora, sotto una forma diversa. Magari ora avrebbe risposto.
- Dovevamo confrontare delle opinioni che avevamo –
- Ah...- non mi diceva nulla quella risposta, ma decisi di non insistere. Non ora.
Seguì un interminabile e fastidioso silenzio.
- Ragazzi sta succedendo qualcosa di strano... dico davvero... – dissi serissima.
- Deb siamo in vacanza! Goditela! –
- Ho un mese per rilassarmi! Ma prima devo scoprire cosa mi sta succedendo! Sento delle voci, sono sicura di non essermele immaginate... io... sono confusa e voglio capire da dove provengono e cosa vogliono –
Jacopo fece per dire qualcosa, poi sembrò pentirsene e tacque.
Lo fulminai con lo sguardo, non con vera cattiveria, più che altro per fargli capire che avevo bisogno di risposte, e se lui ne avesse avuta qualcuna, beh... che me la dicesse!
Debora... ti prego... non abbandonarci... vieni da noi!
Il cuore iniziò a battermi fortissimo, come impazzito; ero bloccata dalla paura, mentre mi si dipingeva in volto un’espressione atterrita.
Jacopo se ne accorse e mi scrutò con attenzione.
Il mio respiro si fece affannato, nel mio sguardo era nascosta una richiesta d’aiuto.
- Le voci...- la voce mi tremava.
- Calmati – mi sussurrò lui accarezzandomi una spalla – non ti possono fare del male...-
Ero troppo in preda al panico per potergli chiedere cosa ne sapesse lui di quelle voci. Iniziai a prendere grandi respiri per cercare di rilassarmi.
- Voglio andare su... la spiaggia ormai mi fa paura –

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** uno specchio in frantumi ***


Ero seduta sugli spalti con Jacopo. Mi stava abbracciando, tenendomi stretta contro il suo petto.
Mi sentivo finalmente al sicuro, e in un certo senso protetta.
J mi dava quel senso di protezione e sicurezza che mi serviva. Mi faceva bene averlo accanto.
Avevo scoperto che lui mi credeva a proposito delle voci, della mano... tutto, lui credeva a tutto ciò che io dicevo. Credevo che lui ne sapesse qualcosa di tutta quella faccenda, sempre che i due fatti fossero collegati. Io credevo di sì, me lo sentivo.
In qualche modo una creatura del mare voleva uccidermi, o solo richiamarmi nell’acqua.
Scossi la testa, cercando di scacciare quell’ipotesi: non poteva succedere davvero! Insomma: non eravamo mica in un film di fantascienza!
Le uniche creature del mare erano i pesci, con le meduse, le alghe, e tutte le specie più o meno conosciute. Ma nessuna avrebbe potuto comunicare per telepatia e nessuna aveva cinque dita.
- È tutto così strano... non posso credere che stia succedendo davvero... insomma... cosa si potrebbe nascondere nelle acque del mare? – ridacchiai per mascherare il nervosismo.
- Non lo potresti nemmeno immaginare –
- Ma tu lo sai?! – ero certa che J mi nascondesse qualcosa – perché non me lo dici, ti prego! –
- Sarebbe troppo sconvolgente Deb! Non posso svelarti... tutto insieme – sembrò trattenere qualcosa, qualcosa che non poteva, non doveva dirmi. Ma cosa?
- Tu sai molte cose... Mirko anche? – ripensai alla discussione che avevano avuto giù in spiaggia quella mattina.
- Non ti fa bene starle vicina Deb...-
- Ma io lo amo! Come puoi pretendere che non tenti in tutti i modi di stargli accanto!? –
Mi fissò in modo penetrante, in cerca di qualcosa. Poi scosse la testa impercettibilmente.
- Questo... è strano... sei sicura dei tuoi sentimenti? –
- E me lo chiedi? Sono due anni che sento il cuore che mi scoppia ogni volta che sto accanto a Mirko, due anni che non smetto per un secondo, uno!, di pensare a lui! Ogni volta mi immagino tra le sue braccia e mi sento al sicuro. Ho vissuto due anni nella speranza che tra noi potesse nascere qualcosa, ma nulla! Sono insignificante per lui... e come posso pretendere di contare qualcosa quando ha intorno ragazze magnifiche, della sua età per giunta! – sbottai, quasi alle lacrime, sfogando tutto ciò che mi tormentava da tanto, troppo tempo.
Jacopo mi riabbracciò stretta. Quell’abbraccio era tutto ciò di cui avevo bisogno.
Sospirai.
- Ti sembrerò ridicola, vero? –
- Certo che no! Capisco come ti senti... insomma... è comprensibile che tu stia così per Mirko. Poi aggiungi le voci, quello che è successo oggi, quello che è successo ieri... è normale Deb –
- Ah, giusto! Non capisco nemmeno come mai tutto il mondo ce l’abbia con me da quando sono arrivata qui! Prima svengo per un’insolazione, poi quasi muoio affogata. Grazie al cielo c’è sempre qualcuno che mi salva la pelle! – esclamai. Ripensando bene a quel qualcuno... era sempre Mirko: era stato lui, in entrambe le situazioni a prendersi cura di me, ad aiutarmi.
Questo voleva dire che un po’ ci teneva a me, oppure che si era semplicemente trovato nel posto giusto al momento giusto.
Guardai Jacopo con affetto.
-  Ti senti meglio ora? – mi domandò.
- Decisamente – annuii.
Mi allungò una mano; io la afferrai.
Quel momento così dolce venne però interrotto dallo squillare del mio telefono. Momento inappropriato.
Schiacciai il verde, dopo un primo momento di esitazione: ero tentata a non rispondere...
- Pronto? – dissi, accostandomi l’apparecchio all’orecchio.
- Ciao...- il mio tono passò dal seccato al dolce: era Simon. Mi chiese come stessi.
– Abbastanza bene. Tu? –
- Come vanno le cose laggiù? – fece la voce aldilà della cornetta.
Sospirai: non avevo intenzione di raccontargli tutto ciò che mi era successo.
- Abbastanza bene –
- Ti sento... strana!? –
- No, sto bene – sorrisi per dimostrarlo, ma poi mi accorsi che lui non se ne sarebbe accorto – sono solo un po’ stanca –
- Che fai? –
Lanciai uno sguardo fugace a Jacopo.
- Niente di che... tu? –
- Parlo con te! – scherzò lui.
Alzai gli occhi al cielo: il solito spiritosone!
- Allora? Avevi bisogno di qualcosa? – domandai io.
- Volevo solo sentire come stessi –
- Che tenero! –
Jacopo mi guardava, come in attesa che chiudessi la chiamata.
- Senti... facciamo che ti chiamo più tardi. Ti va? – dissi infatti.
- No, mi sembra perfetto. A dopo – se la cosa lo seccava non lo diede a vedere, anzi, a sentire.
Chiusi la chiamata sventolando il cellulare davanti agli occhi di J, come per rinfacciargli che era per lui che avevo tagliato corto.
- Allora? – mi chiese, come se si aspettasse spiegazioni.
- Allora cosa? – non avevo idea di cosa volesse sapere.
- Chi era? –
- Un mio amico. Era qui la settimana scorsa –
- Magari lo conosco. Chi è? –
- Si chiama Simon e...- prima che potessi dargli ulteriori informazioni J mi interruppe.
- Sì, certo! Lo conosco – annuì – è simpatico –
- Già... lo so. Io lo trovo molto dolce –
Mi sorrise teneramente.
- Certo... ti posso chiedere un favore? –
-  Beh, sì – avevo quasi paura di sentire la sua richiesta.
- Ogni volta che senti... beh, quella voce che ti chiama... insomma, dimmelo –
- Allora mi credi? – esclamai sorpresa.
- Sì, io sì. E ci terrei che mi tenessi informato –
- E... non ti sembra un po’ strana tutta questa faccenda? – chiesi, ignorando il suo intervento.
- Sono abituato alle cose strane – colsi un lampo nei suoi occhi, come un’ombra di pericolo e di avventura.
- Wow... allora sei un tipo pericoloso!? – esclamai in modo teatrale - mmh... intrigante – scherzai.
- Non te lo aspettavi, eh?! –
- No, insomma: a guardarti in faccia sembri solo un tipo misterioso. E basta... –
- Davvero? E tu mi sembri solo una tipa solitaria e silenziosa –
- Ehi! Non è affatto vero! – esclamai ridendo, tirandogli una gomitata scherzosa. In fondo però, sapevo di aver dato quell’impressione, all’inizio.
Anche lui rise con me.
- Quale sarebbe la cosa più pericolosa che hai fatto? – chiesi con una scintilla di curiosità negli occhi.
- Sapessi...- mi guardò misterioso, apposta per tenermi sulle spine – no, scherzo –
- Mi devo spaventare? – dissi ridendo, ma forse nel profondo credevo davvero di dover aver paura, anche se ancora non sapevo che tipo di pericoli avesse mai corso.
- No, dai si scherza! –
Risi di gusto, imitata dal mio amico. Finalmente mi sentivo serena, senza pensieri. Tutto il merito andava ad una risata, sincera e spensierata.
Pensai che le cose da quel momento in poi sarebbero andate finalmente per il verso giusto.
Ridemmo e ridemmo ancora. Non riuscivamo a smettere. E non era perché i nostri ultimi interventi fossero divertenti; forse era solo uno sfogo per la paura che mi ero presa quella mattina...
Il sorriso mi si cancellò dal viso, però, quando dietro la console apparve Mirko. Era con la ragazza della sera prima, la Barbie.
Sentii le lacrime agli occhi vedendoli abbracciati stretti l’uno all’altro, Mirko che le spostava i capelli dalla fronte sorridendo con dolcezza.
Lei rideva. Era felice. E come biasimarla, con accanto una persona come il mio Mirko era impossibile non sentirsi vicini al paradiso, toccare il cielo con un dito, galleggiare tra le nuvole!
Per un istante quasi dimenticai che non ero io ad essere stretta da Mirko, ma quella bellissima ragazza che sembrava prenderlo così tanto.
Li fissai mentre lui volteggiava con la Barbie tra le braccia, avvicinava il suo viso a quello della ragazza e con un sorriso le stampava un bacio sulle labbra.
Mi sentii mancare le forze, il respiro, la vista. Sentii una fitta allo stomaco mentre quel semplice contatto tra le loro labbra si trasformava in un bacio appassionato.
Non staccai lo sguardo da Mirko che avvolgeva quella ragazza tra le sue braccia, con molto più amore di quando aveva abbracciato me. E lei gli scompigliava i capelli, mentre le loro labbra si incrociavano, le loro bocce si cercavano, scivolando una sull’altra, diventandone una sola. Guardai quell’agitarsi di mani, che accarezzavano ogni cosa che toccavano, scompigliavano capelli, scivolavano veloci lungo i fianchi, quell’intrecciarsi di labbra, quel susseguirsi di baci e carezze.
Una, due, lacrime gelide mi scivolarono lungo le guance: questo spettacolo era molto peggio di quello della sera prima, davvero, mi stava distruggendo. Non riuscivo a respirare vedendo quello che sarebbe dovuto essere il mio ragazzo stringersi ad un’altra, baciarla e guardarla come io avevo sempre sognato che facesse con me.
Vedevo la passione che ardeva tra loro due... vedevo quanto erano attratti l’uno dall’altra, quanto quel bacio significasse per entrambi, e sentivo quanto significasse per me.
Iniziai a piangere, piangere davvero, mentre Mirko continuava a baciare la Barbie, quasi come se volesse mangiarsela, come se avesse paura che lei scappasse via all’improvviso.
Non la voleva lasciare fuggire via dalle sue labbra, che dipinsero una serie di baci sul collo abbronzato di lei, che chiuse gli occhi scompigliandogli i capelli. Poi le labbra di lui tornarono su quelle della Barbie, come se ne avessero sentito terribilmente la mancanza.
Con una piroetta, ma senza smettere di baciarla, l’animatore intrappolò sotto il suo peso la ragazza contro il muro. Lei intrecciò le dita dietro il suo collo, pigiando il suo petto contro quello di lui, mentre Mirko le faceva scivolare le mani lungo il corpo, con una delicatezza passionale.
Non potevo resistere alla vista di quello spettacolo. Avevo lo sguardo vuoto mentre li fissavo, non respiravo. Il mio cuore era andato in mille pezzi; mi sembrava di averlo sentito esplodere come uno specchio che si infrange al suolo.
E mentre il mio pianto esplodeva, insignificante per esprimere l’infinito dolore che sentivo dentro, corsi via dall’anfiteatro.
Scivolavo sulla ghiaia, ma non mi sarebbe importato di cadere. Anzi: avrei voluto graffiarmi tutte le gambe, sbucciarmi le ginocchia. Sentire male, un dolore irreprimibile, che combattesse quello che sentivo dentro. Ma non sarebbe mai stato così forte.
Jacopo mi aveva seguita. Scattò per raggiungermi. Mi afferrò il braccio, mentre io mi dimenavo in lacrime. Eravamo sotto l’anfiteatro, Mirko non ci poteva vedere.
Gridai, agitai le braccia, urlando tutto il mio dolore, la mia rabbia, mentre la stretta di J sul mio braccio si faceva più forte, nel disperato tentativo di calmarmi. Mi cedettero le gambe, e gridando ancora caddi a terra, rovinai tra la ghiaia, nella polvere.
Il mio viso era brutalmente rigato dalle lacrime, contorto in una smorfia terrificante.
Jacopo aveva tentato di evitare che cadessi a terra, ma ora si era buttato in ginocchio accanto a me.
Chiusi gli occhi gli occhi, incapace di urlare, senza fiato. Ero così vulnerabile in quel momento... sentii le braccia di Jacopo stringermi forte. Ci conoscevamo solo da due giorni, com’era possibile che mi avesse stretto almeno il doppio delle volte?
Mi abbandonai ad un pianto sommesso, tirando ogni tanto un respiro profondo, dopo i lunghi periodi in cui rimanevo senza fiato.
Piansi tutto il mio dolore, che J era lì, pronto a raccogliere e cancellare.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** broken-heart ***


Lo evitavo da tutta la sera. Mi faceva stare male non vederlo, non incrociare i suoi paradisiaci occhi verdi, non ricambiare il suo sorriso, non ridere con lui, ma proprio non ce l’avrei fatta ad incontrarlo.
Sarei scoppiata a piangere un’altra volta. Quell’amore mi faceva solo male. Ero sicura che lui uscisse con delle ragazze della sua età, ma vederlo coi miei stessi occhi mentre ne baciava una che non ero io, una con cui avrebbe potuto costruire una storia importante... faceva troppo male.
Magari in un futuro lontano si sarebbero potuti sposare! Pensai di esagerare, anche se la possibilità c’era.
Perché non ero nata dieci anni prima? Se avessi avuto una ventina d’anni, ne ero certa, sarei già stata la fidanzata di Mirko.
Ma le cose stavano così: lui si era trovato una ragazza con cui divertirsi, io ero troppo piccola per lui e avrei dovuto dimenticarlo a tutti i costi. Quell’amore mi stava distruggendo.
Non potevo attendere un anno intero piangendo, aspettando di rincontrarlo, e stare ancora peggio rivedendolo.
Basta mi dissi devo dimenticarlo.
Sbucai da dietro la colonna dov’ero nascosta, mi guardai attorno per assicurarmi che Mirko non fosse nei paraggi, poi sgattaiolai tra gli spalti dell’anfiteatro, raggiungendo il pingpong.
Osservai bene i dintorni: non era in giro.
- Da chi ti nascondi? –
Sobbalzai. Non avevo il coraggio di voltarmi per vedere chi c’era dietro di me. Lo spavento che mi ero presa mi aveva impedito di identificare la voce, così ora ero lì, col cuore in gola, pregando di non ritrovarmi Mirko davanti, anzi, dietro.
- Sofia...- sputai tutta l’aria che avevo trattenuto dentro, oltre alle parole.
- Chi credevi che fossi? – mi chiese sedendomi accanto.
- Chi temevo che fossi! – ancora il cuore mi batteva per la paura.
- Allora? Chi è che stai evitando? –
- Mirko – quel nome mi faceva venire la pelle d’oca.
- Perché? –
- Oggi pomeriggio ha baciato una ragazza. Davanti ai miei occhi – il solo ricordo mi fece venir voglia di piangere. Il pensiero che cercavo di impormi, cioè che ormai di lui non mi importava più nulla, mi impedì di scoppiare in lacrime.
- Com’era lei? –
- Bellissima – ammisi con disprezzo.
Seguì un silenzio fastidioso, che mi fece concentrare sull’immagine di Mirko e laBarbie...
- Il villaggio accanto è bellissimo – disse tutto d’un fiato Sofia, pur di interrompere quel vuoto.
- Davvero? - la mia voce era priva di entusiasmo o interesse - È lì che eri oggi pomeriggio? –
- Sì: i miei dovevano comprare una crema per scottature – mi spiegò.
Apprezzai molto il suo tentativo di non farmi pensare al pomeriggio che io avevo trascorso.
- Si sono bruciati col sole? –
- Sì, mia madre – disse ridacchiando – le orecchie! –
Scoppiai a ridere: come ci si faceva a scottare le orecchie?
- Che cosa? –
- Sì! Giuro! Le sono anche uscite le bolle! –
Scoppiammo a ridere tutte e due, fino alle lacrime. La cosa era divertente, sì, ma forse ridere era il metodo più efficace per nascondere il mio dolore e per non pensare.
- Hai già mangiato? – le chiesi quando recuperammo il controllo.
- No. Aspetto che arrivi Jacopo: non voglio lasciarti qui da sola come un’anima in pena –
- Che cosa? Così mi offendi! – esclamai ridacchiando, tirandole una gomitata sul braccio.
- Non era mia intenzione – stette al gioco lei.
- No, ma vai, tranquilla. Io rimango sola volentieri: non ho nove anni! –
- Preferisco tenerti compagnia, davvero –
- A proposito di J, dove si è rintanato a mangiare stasera? –
- Me lo chiedevo anche io poco fa, quando l’ho visto seduto a tavola come una persona normale! – rise lei.
- No! Non ci credo – dissi imitandola.
- Credici! Inoltre non cenava da solo: c’era un piatto di pasta al posto di fronte al suo... chiunque però stesse mangiando con lui in quel momento era in piedi. Non ho idea di chi sia –
- Non posso crederci, davvero! Stasera il nostro lupo solitario ha dato il meglio di sé! – scherzai.
- Se non ci credi vai a guardare coi tuoi occhi – esclamò Sofia in un sorriso, alzandosi in piedi, come per accompagnarmi al ristorante per controllare – no, troppo tardi – esclamò fissando l’entrata del self-service.
Sporsi la testa per capire cosa volesse dire e vidi Jacopo che si avvicinava a grandi passi verso di noi.
- Ok, vado a mangiare. Ti lascio in buone mani – mi sorrise Sofia facendomi l’occhiolino ed andando incontro al nostro amico.
Si fermarono a parlare per mezzo secondo se non di meno:
- Ciao – disse lei senza fermarsi. Jacopo invece si bloccò.
- Vai a mangiare? –
- Sì, ci vediamo dopo – rispose Sofia camminando all’indietro per un piccolo tratto. Poi riprese normalmente la via verso il ristorante.
- Ciao J – lo salutai abbracciandolo con dolcezza.
Lui ricambiò con calore.
- Ehi! – mi guardò negli occhi con così tanto amore che mi venne voglia di mangiarmelo in un solo boccone, invece mi limitai a fissare le sue iridi così azzurre e così ammalianti... – come stai? –
- Sto bene. Credo – dissi sinceramente. Ero solo un po’ confusa.
- Davvero? –
- Sì... sto evitando Mirko. Spero di non incontrarlo –
Lui annuì, d’accordo con me. Mi passai una mano nei capelli.
- Non ci pensare, dai – mi sussurrò nell’orecchio, abbracciandomi ancora.
- Mi sforzo –
Mi guardò con compassione.
- Non guardarmi così, ti prego. Sto bene –
- Difficile crederti: oggi sembravi una matta –
- Lo so, ma sforzati –
Alzò le mani, in segno di resa.
- Ok, ok... –
Gli sorrisi, per alleggerire l’atmosfera.
- Beeeeeene... allora stasera? – domandò Jacopo buttandosi sulla panca di pietra.
- Guardiamo lo spettacolo dell’animazione?! –
Mi guardò un po’ dubbioso, come in cerca di qualche segnale che gli rivelasse cosa pensassi della proposta che avevo fatto.
- Per me va bene. Ma te la senti? Cioè... lo sai, vero che anche Mirko farà parte dello spettacolo?! –
- Mirko? Chi è Mirko? – feci finta di essermelo tolto dalla testa, in modo che J capisse che cercavo di non interessarmi più a lui.
- Sicura? –
Annuii in una risposta muta.
Con la coda dell’occhio vidi una maglietta grigia della divisa serale degli animatori. Mi nascosi dietro a Jacopo, o meglio, tirai lui con uno strattone davanti a me.
- Nascondimi – gli sussurrai.
- Mirko? –
- A ore quattro! –
Vidi Jacopo che seguiva l’animatore con lo sguardo. Seguii con attenzione il movimento della sua testa, che andava dall’entrata del ristorante alla console. J alzò un braccio e agitò la mano in gesto di saluto.
Lo aveva visto... ma aveva visto anche me? No, non credo...
- Via libera: è nella console – annunciò J.
- Grazie...- mormorai uscendo dal mio nascondiglio.
Sentivo che stavo perdendo il controllo. Cercai di fare grandi respiri per calmarmi, ma sapere che Mirko era così vicino, mi impediva di non agitarmi. Il fatto era che non lo avrei mai dimenticato, perché il mio amore per lui era davvero infinito ed incontrollabile. Non sapevo cosa fosse a legarci, ma qualcosa c’era di sicuro. Non avevo mai provato qualcosa di simile ma mi sentivo come un burattino sotto il suo controllo: la mia felicità dipendeva da lui, anche se probabilmente non lo sapeva.
- J... non ce la posso fare –
- Cosa c’è? – fece scivolare dolcemente un braccio sulle mie spalle.
- Io... io non credo che riuscirò ad andare avanti così –
- Qual è il problema? –
- Lui, chi vuoi che sia – dissi guardandolo duramente negli occhi. Il loro azzurro rassicurante mi fece riacquistare un po’ di dolcezza – io non credo che lo dimenticherò... anche se sai quanti altri baci darà a ragazze che non sono io? – lo fissai, ma lui sapeva bene che non doveva rispondere – tantissimi! E a me? Sai quanti? – esitai prima di rispondere alla mia domanda – nessuno –
- Ed è meglio così Deb, davvero...-
- Perché dici così? –
- Perché tu non dovresti nemmeno essere innamorata di lui...-
- Lo so... lo so che è tutto così insolito, così strano... ma non posso evitarlo J! Tu non puoi capire com’è forte quello che sento. Non è una stupidata. Sento davvero di amarlo, almeno quanto di contare meno di zero –
- Non è così! Tu vali molto, fidati. Te lo dico io che ti conosco appena. Lui che invece ti conosce da due anni dovrebbe saperlo benissimo. Non ti merita, davvero. Ha commesso uno sbaglio in passato con te. Ora dovrebbe cercare di non peggiorare la situazione –
Rimasi un attimo a riflettere sulle parole di Jacopo.
- A cosa ti riferisci? –
Mi guardò stranito, come se non capisse di cosa parlassi, poi sembrò riflettere sulle sue stesse parole. Io aspettavo una risposta.
- Nulla, non ascoltarmi –
- No, qualcosa stavi dicendo. Se mi riguarda voglio saperlo –
Mi puntò gli occhi addosso, impassibile.
- Ti prego...- mormorai disperata.
In quel momento il suo sguardo si spostò poco dietro di me, quasi allarmato. Poi i suoi occhi tornarono ad incontrare i miei, ma lui si morse il labbro, come per avvisarmi di qualcosa. Ma cosa?
- Che succede? – domandai. Esitai prima di gettare lo sguardo alle mie spalle.
Ebbi un tuffo al cuore quando vidi Mirko che si avvicinava. Sgranai gli occhi, poi guardai J in cerca di aiuto. Anche lui sembrava non sapere cosa fare.
Impulsivamente, senza quasi rendermene conto, afferrai il polso di Jacopo e trascinai il ragazzo via dal pingpong, e le mie gambe via da Mirko.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** fughe indiscrete ***


- Che fai? Si sarà accorto che cerchi di evitarlo! È tutto il giorno che scappi ogni volta che cerca di avvicinarsi – mi rimproverò Jacopo.
- Lo so! – sbottai – ma non ho affatto voglia di starlo a sentire... ogni volta che lo vedo penso a quel bacio – scossi la testa per scacciare il brutto ricordo.
Jacopo mi prese il viso tra le mani e lo avvicinò al suo. Sgranai gli occhi per la sorpresa, il mio cuore prese a battere forte, sperando che non volesse darmi un bacio.
Mi fissò con un’espressione mista di dolcezza e rimprovero.
- Basta! Dimenticatelo! Fidati, Mirko non è giusto per te! Dovresti lasciarlo perdere –
Lo fissai ammutolita, imprigionata tra le sue mani che mi comprimevano le guance.
- Ragazzi! – una voce lontana ci fece sussultare ad entrambi – vi ho cercati dappertutto! –
Sofia. Come ci aveva trovati?
Jacopo mi lasciò libera, mentre la nostra amica si avvicinava.
- Ho... interrotto qualcosa? – chiese mortificata e quasi dispiaciuta, indicando me e J.
- No, nulla... cercava di calmare i miei nervi – sorrisi per rassicurarla che non stava succedendo nulla.
Jacopo non disse niente, ma rimase a fissare in modo penetrante Sofia.
- Che c’è? Perché mi fissi così? – domandò lei imbarazzata, quando se ne accorse.
- Io? Non sto facendo nulla – staccò lo sguardo a fatica da Sofia, che quella sera era davvero carina. Indossava una canotta bianca e una gonnellina di jeans portata a vita alta, proprio sotto il petto, che arrivava appena a coprire le cosce.
La trovavo molto affascinante ed immaginai che J pensasse lo stesso.
Per la prima volta da quando eravamo arrivati di corsa in quel posto mi guardai attorno: eravamo in mezzo ad un prato verdissimo, immerso nell’oscurità della notte. Gli alberi erano pochi. Dovevamo trovarci dietro il campo da tennis, appena sotto i tavoli da pingpong.
C’erano numerosi tavolini di plastica, rossi e bianchi, incrostati di argilla, e ancora più sedie, molte delle quali erano abbandonate a terra.
I miei due amici si accomodarono ad un tavolino.
- Arrivo subito. Vado a prendere un sorso d’acqua –
Sgattaiolai via da quella che, lessi su un cartello, si chiamava “Oasi relax”, e mi addentrai nel ristorante, guardandomi bene in giro per assicurarmi che non ci fosse nessun “Animatore Indesiderato” intorno.
Via libera.
Raggiunsi senza problemi la macchinetta dell’acqua, nel corridoio del ristorante, vicino all’ingresso alle cucine, cercando di mantenere un atteggiamento normale.
Afferrai un bicchiere di plastica appoggiato in cima alla macchinetta; schiacciai il pulsante dell’acqua fredda naturale.
Appena il livello dell’acqua raggiunse la metà del bicchiere spensi l’interruttore ed aprii quello dell’acqua calda naturale.
Prima di andarmene mandai giù tutto il contenuto del bicchiere e lo buttai nel cestino apposito.
Mi guardai bene attorno, in cerca di Mirko, ma fui sollevata nel constatare che non era nei paraggi. Mi voltai di scatto, pronta a correre via e raggiungere i miei amici dietro il campo da tennis, ma andai a sbattere contro qualcosa di morbido e sodo.
La mia testa rimbalzò all’indietro, chiusi gli occhi. Quando li riaprii mi trovai davanti una maglietta grigia che finsi di non riconoscere. Alzai lo sguardo lentamente, esaminando i pettorali che mi trovavo davanti, il collo bene rasato. Socchiusi gli occhi quando raggiunsi il viso. Pregai che non fosse di... Mirko!
Era lì davanti a me. Mi guardava sorridendo, divertito della mia reazione nel riconoscerlo: mi immaginavo pallida, gli occhi sgranati e la faccia da fantasma. Sperai di non sembrare davvero così.
- Chi cerchi? – mi domandò in tono gentile.
Il cuore iniziò ad accelerare i battiti. Le gambe mi tremavano, ma mi feci forza per combattere tutta quella mielosa cortesia che caratterizzava la sua voce.
- Nessuno – gli scivolai accanto, schivando la sua spalla.
Combattendo le mie tentazioni, con uno sforzo disumano uscii dal ristorante senza voltarmi. Ero curiosa di vedere che faccia avesse Mirko, se fosse rimasto lì a fissarmi o immobile a riflettere. Non lo avevo mai snobbato così.
Mi sentii terribilmente in colpa: che diritto avevo io di trattarlo così? Povero... non mi sarebbe piaciuto per niente se qualcuno avesse fatto così con me. L’immagine di lui avvinghiato alla Barbie, però cancellò qualunque senso di colpevolezza.
A passo svelto raggiunsi l’oasi relax. Trovai Jacopo e Sofia che chiacchieravano e ridevano in allegria, seduti ad un tavolino rosso.
Bastava vedere come si guardavano per capire che tra loro c’era alchimia.
Sorrisi intenerita e forse un po’ invidiosa di tutta quella loro felicità.
- Che si dice? – domandai, ma quelli quasi non mi sentirono, piegati com’erano in due dalle risate.
Guardai il cielo e pregai di essere in grado anche io di divertirmi così, dimenticandomi di tutti i problemi che avevo, almeno per una volta.
Mi sentivo un’intrusa in mezzo ai miei stessi amici. In silenzio, senza farmi vedere sgattaiolai via, ancora una volta.
Il fatto era che col mio pessimo umore non avrei voluto rovinare l’atmosfera che si era creata tra J e Sofia... erano così dolci. Magari ero io che desideravo vedere solo coppie felici, come quella che avrei voluto formare con Mirko, e allora vedevo occhiate dolci dappertutto; però i miei amici sembravano divertirsi... quindi... avevo deciso di togliere il disturbo.
Sospirai: cosa avrei potuto fare? Ero sola, non avevo altri amici. Non avevo però per niente voglia di andare a dormire, di deprimermi stesa su un letto a fissare un soffitto vuoto, come il mio cuore.
L’idea di andare in spiaggia mi tentava parecchio, ma avevo il terrore che potesse succedere di nuovo qualcosa di male, di sentire quella voce che mi ossessionava, di sentirmi stringere da quella mano gelida... ebbi un brivido. No: non sarei scesa in spiaggia.
Passeggiavo sulla ghiaia, che scricchiolava sotto le mie All Star azzurre. Stavo passando sotto l’anfiteatro, invisibile e silenziosa, un elemento anonimo, insignificante.
Possibile che andasse tutto male? Era un anno che aspettavo con impazienza di rivedere quel posto, il mio posto. Qualcosa era cambiato però. Non del paesaggio, non nel villaggio, ma dentro di me. Di qualunque cosa si trattasse avrei dovuto scoprire cosa fosse, anche se non ne avevo la minima idea, ma forse mi avrebbe aiutata a capire cosa mi stesse succedendo. Forse sarei stata meglio.
Inspirai l’aria impregnata dell’aroma delle olive, che maturavano sugli alberi secolari che occupavano tutto il villaggio.
Camminavo lentamente, riflettendo, senza fretta, in modo rilassato.
La serata era tranquilla, il cielo sereno puntinato di stelle. Era tutto perfetto... l’unica cosa che guastava l’atmosfera era la tempesta che infuriava nel mio cuore.
Mirko... ti sento così lontano...
Scossi la testa: avrei dovuto dimenticarlo, non pensarlo con nostalgia come stavo facendo ora...
Sentivo la musica dell’anfiteatro accendersi, diffondersi con leggerezza per tutto il villaggio. Ma ora non mi sentivo più parte del villaggio, non per quanto riguardava le persone; avevo però l’impressione di essere in sintonia con la sua natura, così bella da togliere il fiato. La sentivo quasi respirare insieme a me, percepivo la sua vita scorrermi nelle vene. Era una sensazione magnifica.
Camminavo assaporando il leggero venticello che mi agitava i capelli. Chiusi gli occhi, abbandonandomi alla sua dolce fragranza, al suo tocco delicato.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** eclissi ***


III GIORNO: LUNEDÌ
 
Quel giorno ero determinata a godermelo fino in fondo, evitando i pericoli, ignorando le voci, non pensando a Mirko.
Ero lì, abbandonata sulla riva, sotto un sole fantastico, sdraiata sul mio asciugamano con gli auricolari ficcati nelle orecchie, la musica al massimo del volume.
Se anche tutti i presenti in spiaggia si fossero messi ad urlare non li avrei sentiti.
Avevo intenzione di escludermi dal mondo, quella mattina, di stare per un po’ davvero in pace, godermi quella vacanza finalmente come tale.
Rimasi lì, abbandonata al dolce tempore del sole e della sabbia, forse per ore. Quello stato di pace assoluta mi aveva messa di ottimo umore.
- Ehi! – Jacopo mi si sedette accanto sulla sabbia, tirando il filo degli auricolari per sfilarmeli.
- Ciao J – era dura risvegliarsi da quel dolce stato di torpore.
- Come butta? –
Rimasi accigliata per quel tentativo di fare il gradasso, un ruolo che non gli si addiceva proprio. Gli scompigliai i capelli con affetto, mettendomi a sedere.
- E Sofia? – mi guardai attorno, e mi accorsi che mancava.
- È al bar a prendere... qualcosa – mi sorrise – ci raggiungerà appena avrà finito –
- Cosa avete fatto ieri sera? –
- Siamo rimasti tutta la sera dietro il campo da tennis, seduti a quel tavolino –
- Entusiasmante...- dissi sarcastica.
- Già... ma tu? Perché ieri sei sparita? Dove ti sei cacciata? –
- Emh... ero andata a bere, poi non me la sentivo di rovinare la serata che a te e Sofia stava andando così bene, così... ho fatto una passeggiata –
- È che all’inizio credevo fossi con Mirko. Magari, sai, avevate chiarito e tu avevi deciso di passare una dolce serata con lui... poi gliel’ho chiesto, ma lui mi ha risposto di averti vista solo alla macchinetta dell’acqua –
Lo fissai per un momento, ascoltando con attenzione.
- Io con Mirko ho chiuso. Ora è l’ultimo dei miei pensieri. Insomma, guardalo! Ha venticinque anni! – pronunciai quell’ultima frase con enorme disprezzo, riconoscendo quell’unico ostacolo tra me ed il mio amore – in quante ragazze vedrà le sue future mogli...-
Vidi Jacopo guardarmi con compassione, nel vedermi autocommiserarmi così, poi scuotere la testa sorridendo debolmente, come beffandosi della mia ignoranza.
- Cosa c’è? –
- Non lo dimenticherai se ti piace tanto come dici...-
Lo guardai in modo accusatorio.
- Grazie! Così mi aiuti, devo dire! – esclamai sarcastica con scherzoso rimprovero – sto cercando di autoconvincermi che lo dimenticherò, che anzi già non mi importa più nulla di lui! E tu mi vieni a dire che non ce la farò mai a togliermelo dalla testa... già lo so, grazie! Sto solo cercando di crederci –
- Scusa – mi scompigliò i capelli mentre si alzava in piedi – vado a recuperare quell’altra... vedo che fine ha fatto –
Lo seguii con lo sguardo fino a che non ebbe raggiunto la prima fila di ombrelloni, poi tornai a sdraiarmi sotto il sole cocente di mezzogiorno.
La mia impresa era riuscita: avevo trascorso tutta la mattina in totale relax e finalmente mi sentivo davvero in vacanza.
All’improvviso un’ombra scura eclissò il sole. Scattai a sedere voltandomi di scatto, convinta di trovare Jacopo, che magari aveva incontrato Sofia poco dopo che io mi ero messa sdraiata ed ora mi avevano raggiunto insieme.
- Siete già qui?! – esclamai strappandomi gli auricolari dalle orecchie mentre mi voltavo.
Davanti ai miei occhi però non trovai il caldo viso di J, con i suoi rassicuranti occhi azzurri; solo due gambe lunghe e slanciate, che percorsi in altezza fino ad un paio di pantaloncini neri, a degli addominali scolpiti e tonici, a un viso giovane e selvaggio con due occhi verde smeraldo.
Prima che potessi riconoscere chi avevo davanti la luce del sole mi accecò, costringendomi a strizzare gli occhi.
Quando li riaprii (un istante dopo) il ragazzo si era accucciato sulla sabbia, per vedermi bene negli occhi.
Il mio cuore sussultò, sentii il vuoto nello stomaco quando riconobbi Mirko che mi sorrideva.
- Bella giornata, eh?! –
- Già...- mormorai scocciata rimettendomi sdraiata, come se non mi importasse per niente che lui fosse lì.
Invece mi importava, eccome! Insomma: mi era venuto a cercare! A me! E poi... era così difficile fingere che fosse solo un fastidio averlo lì, ignorarlo a quel modo, trattarlo così male... era davvero, davvero doloroso fare finta che non lo volessi lì, vicino a me, che mi infastidisse trovarmi il suo sorriso e i suoi occhi divini davanti a me... d’altro canto, non me la sentivo proprio di parlargli, di affrontarlo, nemmeno di guardarlo in faccia, dopo quella scena terribile a cui avevo assistito, che era stata come un pugnale al cuore... che situazione difficile!
- Signorina posso parlarle un attimo? – sporse la testa in avanti, eclissandomi nuovamente il sole.
- Dipende – rimasi impassibile, gli occhi serrati, fingendomi di godermi il sole come se nulla fosse.
Lo sentii sospirare. Poi, dopo un minuto di silenzio si alzò. Mi sentii più leggera: se n’era andato e non ero più costretta a fingermi indifferente. Così, almeno, credevo...
Sentii invece due braccia possenti afferrarmi. Cacciai un gridolino mentre mi sollevavano dall’asciugamano.
Guardai a terra: ero piuttosto in alto. Per paura di cadere mi aggrappai al collo di Mirko. Poggiai la testa sui suoi pettorali.
- Ok, ora puoi mettermi giù!? –
Avevo sempre avuto il terrore di essere presa in braccio. Forse non avevo mai avuto molta fiducia in chi mi sollevava... ma ora era diverso: mi sentivo così al sicuro in braccio a Mirko, che nemmeno cercai di liberarmi dalla sua presa.
Mi portò via, lontano dagli ombrelloni, lontano dalla nostra spiaggia; attraversò quella del villaggio accanto. Eravamo lontanissimi da dov’ero poco prima.
- Che vuoi fare? – gli chiesi fingendomi spaventata. In realtà ero solo un po’ perplessa.
- C’è qualcuno che si comporta in modo strano, o sbaglio? – continuò a camminare, imperterrito.
- Si può sapere che ti passa per la mente? –
- Prima dimmelo tu –
Alzai gli occhi al cielo: quel giorno Mirko aveva selezionato la modalità “intrattabile”.
- Mettimi giù per favore! – esclamai acida. Quel giochetto mi stava stufando: che cosa aveva intenzione di fare?
- Subito! – mi accompagnò con le braccia fino a che non ebbi posato i piedi nella sabbia.
Mi aggiustai i ricci scompigliati e fissai con aria di sfida l’animatore.
- Che cosa ti è saltato in mente? – feci per tornarmene indietro alla nostra spiaggia, ma lui mi trattenne afferrandomi il polso con fermezza.
Mi tirò contro di sé e non potei evitare di guardarlo negli occhi, così vicini, così meravigliosi, come un cielo immenso che si ergeva proprio sopra di me, che mi faceva sentire al sicuro.
Il cuore mi iniziò a battere impazzito. Avevo paura che Mirko potesse sentirlo galoppare... le gambe stavano per cedere, ma ero troppo presa da quello sguardo che tanto amavo per compiere anche il minimo movimento.
- Allora – mi disse, allentando la presa – mi dici che succede? –
Lo guardai un po' perplessa.
- Tu mi hai praticamente rapita, trascinandomi fino a qui per chiedermi questo? – lo fissai con aria accusatoria, poi feci per andarmene, ancora – io me ne vado –
Non potevo ammettere che lo stavo evitando perché lo avevo visto baciare un’altra ragazza! Sarei sembrata una bambina ridicola.
- No... – mi bloccò ancora, con la stessa presa, ma senza forza. Sapeva che non me ne sarei andata – ti prego dimmi che c’è che non va? Sei arrabbiata con me? – me lo disse col tono che si usa coi bambini, il che mi mandò in bestia.
- Va tutto benissimo! – sbottai alzando incredibilmente la voce.
- Non mi sembra...-
- È che... sono stanca di essere trattata come se fossi ancora all’asilo nido! Ho quindici anni! – gridai esasperata passandomi una mano nei capelli – non ne posso più! –
- Io non ti vedo affatto come una bambina Debora – mi sussurrò con dolcezza.
Tirai un forte respiro per calmarmi.
- Va tutto bene, comunque. Grazie per l’interessamento. Ora puoi tornare tranquillo a lavorare –
Lui rimase qualche secondo lì a fissarmi, scuotendo la testa con un accenno di sorriso dipinto in volto.
- Non è vero. Perché sei arrabbiata? –
- Non è per te – mentii, cercando di essere il più convincente possibile – è che... il villaggio mi è mancato così tanto... non vedevo l’ora di tornare. Ma tutto sembra andare storto – feci spallucce – volevo solo godermi una vera vacanza. Sai: il sole, il mare, la spiaggia, il beach volley, gli amici... ma sembra che tutto sia contro di me – sospirai scoraggiata.
Lui mi guardò con dolcezza, mentre gli confessavo quasi tutte le cose che mi tormentavano.
- Vedrai che le cose andranno meglio... hai un mese di vacanza! –
Sospirai.
- Me lo auguro –
Ero così presa da Mirko che non mi ero accorta che il cielo si era rannuvolato. Ora piccole gocce di pioggia bagnavano le nostre teste, quasi accarezzandole con la loro delicatezza.
- Piove – guardai il cielo, bagnandomi il viso, spalancando le braccia ed aprendo i palmi, così da raccogliere la pioggia che cadeva.
- Torniamo indietro per ripararci, allora – fece per incamminarsi – continuiamo il nostro discorso strada facendo –
- Non so a te ma a me piace la pioggia – dissi camminandogli affianco.
- Sì, anche a me – rispose guardando lontano – ma... ancora non ho capito cosa centro io in tutti i tuoi problemi, insomma: sei arrabbiata con me, me ne sono accorto! Mi eviti da ieri! –
Diventai d’un tratto tutta rossa in viso.
- Emh... sì, ma... è una sciocchezza –
- Dimmi allora – mi sorrise lui.
- Emh... no, meglio di no... è tutto passato, quindi non ti preoccupare – velocizzai il passo, cercando di sfuggire all’interrogatorio, ma Mirko mi raggiunse con facilità.
Intanto la pioggia mi bagnava, mi appiccicava i capelli al viso, e immaginai che anche quelli di Mirko fossero zuppi, ma ero troppo imbarazzata per voltarmi a guardarlo.
Averlo vicino mi faceva mancare la terra sotto i piedi, sentire il vuoto nello stomaco, arrossire, galoppare il cuore, il cui battito diventava l’unico suono udibile nella mia testa, mentre uno strano imbarazzo si impossessava di me, impedendomi di essere davvero me stessa.
- Ti devo pregare in ginocchio per sapere cosa non va? – lo vidi con la coda dell’occhio voltarsi verso di me, assumendo un’espressione supplichevole da cartone animato.
Mi girai anche io, pronta a ribattere in modo un po’ scherzoso, per non guastare l’atmosfera divertente che stava cercando di creare. Mi trovai però a bocca aperta, senza dire nulla, fissando il viso ricoperto di pioggia di Mirko, i suoi capelli spettinati e impregnati d’acqua.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** "tu sei speciale" ***


All’improvviso mi riaffiorarono alla mente immagini del giorno prima, quand’ero troppo scossa per poter ricordare anche la minima cosa dopo il rischiato affogamento.
Mi ricordai del viso di Mirko, della sua espressione spaventata. Era molto simile a come lo vedevo in quel momento, bagnato fradicio, con la pioggia che gli puntinava il viso, i capelli bagnati. L’immagine era la stessa, il momento diverso.
Un’altra serie di immagini dei momenti che avevano seguito il mio salvataggio si fecero strada come flash tra i miei ricordi dimenticati.
Sentivo la voce impaurita di Mirko riecheggiarmi nelle orecchie in parole che mi sembrava di non avere mai udito.
"Non dare ascolto a quella voce!” diceva “parlami, così non la sentirai!”
Sembrava spaventato, mentre pronunciava quella frase, mentre cercava di farmi tenere gli occhi aperti. Ma perché? E perché mi ero dimenticata di quei momenti? Forse ero troppo scossa, dopo essere quasi stata trascinata in fondo al mare.
Il turbinio di ricordi finì, e mi resi conto di essere ancora con la bocca spalancata e gli occhi vuoti, mentre Mirko cercava di farmi riprendere da quel momento di defaiance.
- Ehi! – mi schioccava le dita davanti al viso – ci sei? –
- Tu...- lo fissai in modo accusatorio.
- Io cosa? – mi guardò stranito, indietreggiando.
Immaginai che il mio sguardo indagatore e la mia espressione potessero mettergli paura, soprattutto dopo il momento di trance di cui ero stata vittima.
- Tu...- avanzai qualche passo verso di lui, che ancora arretrava lentamente, guardandomi stranito e confuso – tu sapevi delle voci... –
- Quali voci? – sembrò impallidire un po’.
- Ieri, dopo aver rischiato di affogare, mi hai detto di parlare con te, così non avrei sentito le voci... però non ne avevo ancora parlato con nessuno... come lo sapevi? –
- Sapevo cosa? – mi guardava atterrito, ma non capivo se fosse spaventato da me o terrificato all’idea di venire scoperto – mi stai facendo paura...-
- Scusa... non è mia intenzione – dissi scuotendo la testa e riacquistando un’espressione normale. Feci cenno con la testa di riprendere a camminare sul bagnasciuga fino alla nostra spiaggia, così Mirko si rimise al mio fianco, anche se un po’ titubante.
- Voglio solo sapere... – ricominciai a parlare, ma senza guardarlo negli occhi – sono molto confusa e... ho il dubbio di essere matta! Insomma: sentire delle voci strane è un po’... insolito... mi sembra di essere in un film fantasy...-
- Non so cosa dirti –
- Ti prego...- ora che ricordavo quei momenti, sapevo che mi nascondeva qualcosa.
- Non sei matta, questo te lo posso assicurare –
- Come fai ad esserne certo? –
- Lo so e basta. Non posso dirti altro – fu lui ora ad accelerare il passo.
Per rimettermi al suo fianco dovetti accennare una corsetta lenta.
- Aiutami ti prego! Non so che mi succede! Ma tu sì! Per favore Mirko...- gli passai una mano sul braccio, come in una carezza supplichevole.
Lui si fermò, mi guardò negli occhi, indeciso; poi riprese a camminare.
- Non è il momento. Ma ti prometto che presto te lo dirò, davvero –
Sbuffai scoraggiata.
- Ma perché? Cosa c’è di così... misterioso da dovermi nascondere? In fondo ho il diritto di sapere perché è qualcosa che mi riguarda. Sbaglio? –
- No, certo che no...-
Eravamo arrivati alla nostra spiaggia, la pioggia che ancora picchiava. Mirko si fermò davanti a me, vidi in lontananza un’animatrice che lo chiamava.
- Debora – mi disse con dolcezza – tu sei speciale –
Prima che potessi fare domande mi lasciò sola, lì sotto la pioggia, frustata dal vento, piena di domande, di dubbi, di timori... e con un batticuore da paura.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** la pioggia ***


- Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaa! – urlai per l’ennesima volta – mi ha detto che sono speciale!! – gridai ancora.
Sofia alzò gli occhi al cielo: quante volte in quegli ultimi secondi avevo ripetuto le stesse parole!?
Sospirò, comprendendo il mio entusiasmo, ma astenendosi dal dire che forse lui aveva parlato senza darci troppo peso, tanto per dire.
Ma lei non sapeva che Mirko era serio in volto, non scherzava, non sorrideva nemmeno... non ero nemmeno sicura che fosse un complimento quello che mi aveva fatto, visto l’espressione un po’ cupa che aveva.
- Davvero, non ci posso credere!! – urlai di nuovo, saltellando sulle travi i legno sotto il tendone del bar.
- Ecco Deb: il tuo asciugamano e il tuo iPod – disse J porgendomeli. Era arrivato di corsa dal bagnasciuga, dove li aveva recuperati, sfidando la pioggia che lo aveva inzuppato dalla testa ai piedi.
- Grazie sei un tesoro – esclamai afferrando le mie cose e stampando al mio amico un bacio sulla guancia.
Lui mi guardò dubbioso.
- È successo qualcosa? –
Sospirai guardando in alto con un’espressione imbambolata e persa.
- Oook... che è successo con Mirko? – intuì Jacopo.
- Mi ha detto che sono speciale... non è un amore? – mi morsi il labbro per contenere la tenerezza.
- Ma... come te lo ha detto? – non sembrava molto felice per me, solo un po’ preoccupato.
- Mi ha detto: Debora tu sei speciale – imitai l’animatore con la sua stessa espressione di poco prima, poi un enorme sorriso tornò ad illuminarmi il volto – vuol dire che per lui sono importante...! –
Mi guardò con dolcezza, quasi sembrò compatirmi, ma non capii il motivo.
Lo vidi guardarsi intorno, come in cerca di qualcosa, mentre si mordicchiava l’interno della guancia.
- Jacopo... va tutto bene? – gli domandai, vedendolo un po’ preoccupato.
Lui mi guardò, poi mi si avvicinò.
- Ti ha detto qualcos’altro? – mi domandò serio.
- Emh... no, cos’avrebbe dovuto dirmi? – il cuore iniziò a battermi forte, e per un attimo sperai davvero che Jacopo sapesse qualcosa su quello che Mirko provava per me, e considerai seriamente la probabilità di piacergli. Mi sentii per un attimo le gambe deboli e un batticuore pazzesco, e venni assalita dal nervosismo che di solito precede una rivelazione importante. Mi preparai a sentire “Mirko è innamorato per te, per questo ti rivolge così tante attenzioni” oppure “lui prova i tuoi stessi sentimenti, ma non riesce a dichiararsi”.
- Nulla, ma non devi dare peso a quello che dice... è un animatore: parla così a tutte... insomma...- fu come un tuffo al cuore sentire quelle parole: avevano infranto in un secondo tutte le mie speranze di essere ricambiata, e anzi, ancora peggio, mi avevano fatto rendere conto che mi ero illusa, e che quello che Jacopo diceva era la cruda verità.
- Basta! – lo bloccai: non volevo sentire altro... mi sarei sentita troppo ridicola nell’ammettere a me stessa che avevo solo frainteso tutto - grazie mille, che bell’amico che sei...- sbottai.
- Scusa... non era quello che volevo dire. È solo che... non vorrei che poi tu rimanessi male se poi lo trovassi con un’altra ragazza... insomma – sembrava davvero a disagio e pareva pentirsi di ogni parola che diceva.
- Ok, ho capito – lo bloccai: sapevo che non era sua intenzione farmi rimanere male. Voleva solo impedire che mi illudessi.
Ormai però il mio sorriso era scomparso e tutta l’euforia che mi aveva animata fino a qualche attimo prima svanì. Ripensai all’espressione seria di Mirko, l’ultima volta che lo avevo visto, e le sue parole. Mi ero solo illusa, un’altra volta.
Vidi Sofia che fulminava con lo sguardo J, come per rimproverarlo. Decisi che era ora di rallegrare l’atmosfera:
- Vi va un gelato? – domandai, sforzandomi di apparire serena, nonostante quel... momento appena trascorso.
- Certo –
Così ci avviammo tutti insieme verso il bar. Sentii il calore del corpo di Jacopo sulla mia pelle, e la sua voce sussurrata nell’orecchio.
- Scusa, mi dispiace –
Sorrisi, anche se lui, essendo dietro di me, non poteva accorgersene; però, appena mi passò accanto per superarmi gli passai una mano sulla spalla, per fargli capire che andava tutto bene, e che non avevo dato peso alle sue parole, facendola scivolare lungo il braccio e poi nella sua mano. Lui la strinse forte e mi guardò negli occhi, sorridendo.
Mi sentii calma e felice incontrando l’azzurro limpido del suo sguardo, ma il mio cuore era colmo di una tristezza affilata da far male.
- Un Caffè Zero alla nocciola, grazie – dissi al barista, un uomo sulla quarantina, la faccia ovale coronata da radi capelli castani. Sotto una fronte ampia luccicavano due grandi occhi scuri.
Mi servì in fretta, così come ai miei amici, poi insieme ci accomodammo ad un tavolino sotto il tendone.
Fuori pioveva ancora. Guardavo cadere la pioggia che tintinnava sulla sabbia e ricopriva in un manto malinconico tutto il paesaggio, col suo grigiore romantico e triste. Vedevo in ogni goccia che scendeva il viso di Mirko, le sue labbra così irraggiungibili per me, i suoi occhi, che erano la fine del mondo. Mi chiesi quale mistero di lui mi intrigasse così tanto, ma in fondo al cuor non si comanda avevo sentito dire. Mi resi conto che non avrei potuto evitare di provare quell’amore così forte per lui nemmeno se lo avessi voluto. Avevo bisogno dei sentimenti che provavo, essere certa che fossero autentici. Erano l’unica speranza a cui aggrapparmi, l’unico motivo per continuare a sperare, sperare che un giorno sarei stata ricambiata. In fondo io potevo aspettare: avevo tutta una vita davanti, ero giovane. Ma Mirko aveva l’età giusta per mettere su famiglia, volendo, e io non avrei potuto evitarlo. Era triste, ma era così, dovevo accettare la realtà. Dieci anni sono tanti e io non avrei potuto renderli una differenza insignificante, nemmeno tutto l’amore che provavo ne sarebbe stato in grado.
Mi voltai a vedere i miei amici e sorrisi nel vedere Sofia che addentava il gelato di J: lui le aveva offerto di assaggiarlo.
- Buono? – chiesi sorridendo senza troppo calore. Volevo dimostrare di essere serena, ma in realtà non lo ero per niente.
Lei emise un verso di conferma, ancora intenta a gustarlo.
Poi tornai a succhiare dalla cannuccia il mio gelato. Era un prodotto davvero particolare: si mangiava come fosse una granita, ma in realtà era un gelato. Però c’era da dire che era proprio buono!
- Il tuo? – mi chiese Jacopo, osservando il mio Caffè Zero un po’ perplesso. Di sicuro non lo aveva mai provato.
- Assaggialo – lo invitai porgendoglielo.
Lui non esitò e obbedì.
- Umh... è davvero... – cercò la parola giusta - particolare –
Risi divertita da quell’insolito giudizio.
- Ti piace? –
- Sì, è buono – mi sorrise lui.
- Tu l’hai mai provato Sofi? –
- Sì, ma non alla nocciola. Al mocaccino –
Annuii, poi tornai a guardare la pioggia cadere, abbandonandomi al tintinnio che emetteva picchiettando sul tendone. Lanciai uno sguardo lontano, al mare, puntinato da mille goccioline.
Vieni Debora...
Mi tappai le orecchie...
- Basta...- mormorai.
Jacopo mi guardò preoccupato, Sofia perplessa.
- Senti...?- iniziò J, ma io anticipai le sue parole:
- La voce... è la prima volta per oggi – sospirai – non ne posso più... non capisco cosa voglia dire... io...-
- Ignorala –
- Come faccio? Mi tormenta e mi fa paura... come posso far finta di nulla? – non riuscivo a capire e di certo Jacopo non sapeva come fosse sentire quella voce che mi chiamava. Per dove?
Lo vidi scuotere la testa.
- Devi essere allegra affinché non ti tormenti –
- Allegra? – avevo tanti di quei pensieri che mi deprimevano che non avevo idea di come sarebbe stato essere serena.
Mi presi il viso tra le mani, cercando di farmi coraggio, di ignorare quelle voci a cui non sapevo dare una spiegazione, sforzandomi di non farmi domande a cui non avrei saputo dare una risposta.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Inizino le danze! ***


- Allora? Ha smesso di piovere? – la voce di mia nonna che si risvegliava dal sonnellino pomeridiano risvegliò me dal mio mondo.
Mi guardai attorno per la prima volta da ore, impegnata com’ero a fare i compiti sul terrazzo del residence.
- Sì, è anche uscito il sole! –
- Bene, così nel pomeriggio riusciamo a scendere in spiaggia –
Mi voltai a rivolgere un dolce sorriso a mia nonna. La vidi sul letto, sdraiata su un fianco che mi fissava. Poi il mio sguardo si spostò sul letto matrimoniale, il mio, dove mio nonno ancora russava alla grande.
Guardai l’ora sul cellulare: erano le quattro.
- Ok nonna, ci vediamo dopo. Ora raggiungo Jacopo e Sofia all’anfiteatro. Ciao –
Così dicendo chiusi i libri su cui teoricamente avrei dovuto studiare e li infilai distrattamente sotto il tavolino di vimini e poi corsi via.
Attraversai il boschetto sopra a casa e raggiunsi l’anfiteatro, dove, seduti sotto un ulivo, stravaccati su una panchina di legno, trovai i miei amici.
- Ciao ragazzi. È tanto che siete qui? –
- Emh... tutto il pomeriggio, diciamo –
- Potevate avvisarmi che vi raggiungevo! – non mi piaceva venire esclusa.
- Ma avevi detto che avresti fatto i compiti! – s’intromise Sofia.
- Sì ma... dai sono in vacanza! –
Passò dietro di noi Roberto, proprio in quel momento.
- Ciao – ci salutò distrattamente, senza quasi degnarci di uno sguardo. Solo per un attimo incrociai i suoi aggressivi occhi neri, poi lo osservai addentrarsi nel ristorante con la sua camminata scimmiesca.
- Non lo trovate un po’ strano? – domandai alla compagnia, indicando l’animatore con un lieve cenno della testa.
- Chi? Roberto? Un po’... ma non lo conosco bene –
- Nemmeno io. L’ho conosciuto due giorni fa quando mi sono risvegliata in camera sua, dopo l’insolazione –
- Ah, lui è in stanza con Mirko? – mi chiese Sofia.
- A quanto pare... –
- Beh, allora? Che si fa oggi pomeriggio? – domandò Jacopo, cambiando discorso.
- Andiamo in spiaggia, no? – proposi io, come se fosse ovvio.
Vidi J tirare un forte sospiro, poi alzarsi in piedi.
- È dura dopo ore che stai seduto! – esclamò ridendo.
- Ti si intorpidiscono le gambe? –
- Sì... mi portate in braccio ragazze? – scherzò.
- Ceeeeerto! – feci io sarcastica, ridendo.
- Zitto e cammina! – ordinò in un sorriso Sofia, scompigliando i capelli di J.
- Detto e fatto – fece quello facendo strada.
Durante il tragitto fino alla spiaggia l’atmosfera era piacevolissima: si rideva, si scherzava, si cantava come degli ubriachi.
Era proprio bello avere degli amici. Con loro riuscivo a divertirmi e a volte perfino a dimenticarmi di tutte le cose strane che mi stavano accadendo.
Volevo un gatto nero nero nero
È invece un gatto bianco quello che hai dato a me!
Volevo un gatto nero nero nero
Mi hai dato un gatto bianco ed io non ci sto più!
Cantavamo come degli scemi vecchie canzoni dello Zecchino d’Oro. E non ci sentivamo minimamente ridicoli. Nemmeno Jacopo che era addirittura maggiorenne. In realtà mi sorprendeva che riuscisse a divertirsi con me e Sofia. All’inizio credevo che i nostri fossero due mondi completamente diversi, i modi di divertirsi totalmente differenti. Anzi, credevo che J potesse reputare troppo infantili i miei modi di passare il tempo. Ora invece non sembrava pensarla così.
Arrivammo in spiaggia. Il sole era molto caldo. Forse cercava di recuperare col suo compito di scaldare, il lavoro che la pioggia gli aveva impedito di eseguire quella mattina.
Andammo dritti al campo di beach volley. C’era un leggero venticello che mi aveva fatto passare la voglia di fare il bagno. Io e i miei amici avevamo pensato che forse scaldarci con una partitella sotto un sole cocente ci avrebbe fatto tornare la voglia di buttarci nell’acqua fresca del mare.
Ci organizzammo in due squadre e con ancora i vestiti addosso iniziammo a giocare.
La palla volava veloce da una metà all’altra del campo, i colpi con cui la ricevevamo erano potenti e precisi. Mi stavo divertendo, quando apparse sulla passerella Mirko, con la sua maglietta evidenziatore.
Rimasi a fissarlo per un po’, fino a che non si voltò verso di me.
Lo salutai con un cenno della mano mentre lo guardavo imbambolata. Sentivo il cuore battere a mille, le fantasie che esplodevano nella mia mente, le gambe deboli. Perché ogni volta che lo vedevo mi sentivo così?
Lui ricambiò il saluto con un gesto distratto. Mi avrebbe fatto piacere anche solo un sorriso... ma vabbè: vederlo era meglio di niente.
- Yuhu! Deb! Possiamo tornare a giocare? –
Mi voltai di scatto. C’era Jacopo con la palla stretta in mano, Sofia accanto a lui ed entrambi mi fissavano, in attesa.
- Scusatemi...- tornai a concentrarmi sul gioco.
Dopo una mezz’oretta ci decidemmo a fare un bel bagno. All’inizio restammo sulla riva a schizzarci ed affogarci come bambini; poi però Sofia propose di andare un po’ più al largo.
- Emh... ragazzi andate voi – dissi invece io.
- Tu non vieni? – mi domandò J.
Scossi la testa fissando i miei amici con un espressione serissima.
- Perché no? – chiese con dolcezza Sofia.
- Perché non voglio cacciarmi nei guai –
- Ti riferisci a ieri? Dai è stato solo un incidente –
- Un incidente? Peccato che per poco non sono affogata! – ribattei quasi seccata: possibile che loro non si rendessero conto del pericolo che avevo corso? Della serietà della situazione del giorno prima?
- Ma dai! Non andiamo mica lontano! –
- No, davvero. Andate voi. Io vi aspetto qui – dissi in un sorriso forzato, per far loro capire che non mi dispiaceva rimanere a riva da sola, piuttosto che allontanarmi.
- Ma perché? Non succederà nulla, dai! È un mare tranquillo! –
- No! Davvero non insistete –
- Allora rimaniamo qui tutti – la solidarietà di Sofia mi irritò un po’, anche se era carina a non volermi lasciare sola.
- Facciamo così: fate un paio di bracciate al largo e poi tornate da me. Ok? – proposi in un sorriso radioso, come se fosse la cosa più entusiasmante che potessimo fare.
Sofia guardò Jacopo come per pregarlo di ribattere e convincermi ad andare con loro. Lui mi guardò e fece spallucce.
- Sicura? –
- Ragazzi! Sembra che stiamo discutendo di vita o di morte! Dai, su! – mi sedetti sulla riva, le gambe pucciate nell'acqua. Le onde mi facevano muovere in continuazione: prima mi risucchiavano verso il mare, poi mi spingevano con forza contro la spiaggia.
Rimasi a guardare i miei amici che, dopo un attimo di esitazione, si erano decisi ad andare un po’ più al largo.
Li guardavo intenerita. Sembravano proprio due fidanzatini che si facevano una romantica nuotata insieme.
Li vidi avanzare con una rana scoordinata, si tenevano per mano. Non mi ero dunque solo immaginata tutto quel feeling tra i due!
Si fermarono a una trentina di metri da me, confusi nella luce rossastra del pomeriggio che si stava infuocando.
Li osservavo con invidia, provando a sentirmi un po’ come se fossi stata Sofia, cullata da un ragazzo a cui piacevo davvero, e non solo nella mia immaginazione.
Li vidi fermarsi, guardarsi in faccia, muoversi un po’ nell’acqua. Procedettero un po’ a destra e un po’ a sinistra, solo per tenersi a galla, mentre parlottavano tra loro. Ridevano, si schizzavano di tanto in tanto. E io li guardavo, senza che nemmeno se ne accorgessero.
Talvolta uno dei due andava sott’acqua, per ricomparire poco dopo. Vidi Sofia spingersi sulle spalle di Jacopo, che finiva sotto ingerendo parecchia acqua salata.
Poi si trovarono vicini, molto vicini. Immaginavo i brividi che avrei provato se fossi stata Sofia, o il batticuore che mi avrebbe assalita. Era un po’ che credevo che tra i due stesse nascendo qualcosa, ma ero convinta che fosse solo la mia fissa di vedere amore dappertutto, anche dove non c’è... invece... anche se si conoscevano da soli tre giorni c’era alchimia tra loro.
Erano così vicini che quasi i loro nasi si toccavano. Bisbigliarono qualcosa, poi vidi Sofia indicarmi e Jacopo che stava per girarsi. Spostai subito lo sguardo altrove, fingendomi completamente disinteressata da loro due, per non venire sorpresa ad osservarli e per non farli sentire a disagio sotto il mio sguardo ossessivo.
Ma io non avevo intenzione di perdermi nessun dettaglio di una storia così romantica, che sarebbe potuta essere la mia, chissà! Ma io ero troppo intenta ad inseguire un ragazzo impossibile per accorgermi di altre occasioni che la vita mi offriva.
Vidi Jacopo avvicinare il suo viso lentamente a quello di Sofia, piano, come se fosse tutto a rallentatore. J fece scivolare una mano sul viso di lei e lo tirò a sé, impossessandosi delle sue labbra in un bacio appassionato. E in quel groviglio di mani che si accarezzavano, labbra che si incrociavano, emisi un gridolino di entusiasmo, come se fossi io a dover esprimere i sentimenti di Sofia.
Mi morsi il labbro, intenerita, senza accorgermi che qualcuno mi aveva raggiunto dalla spiaggia.
- Bel film, eh?! –
Cacciai un urlo dallo spavento, voltandomi di scatto.
Qualcuno mi si sedette accanto: era Roberto.
Lo guardai perplessa: che ci faceva qui?
- Allora? – mi fece lui – che fai? –
- Niente, non si vede? –
- Sono i tuoi amici quelli là? – mi domandò, indicandoli con un cenno del mento.
- Già...- annuii orgogliosa – sono teneri, vero? –
- Sì: disgustosamente romantici –
Mi voltai a guardarlo.
- Non li trovi dolci? –
- Certo che sì, ma io non amo le cose dolci –
Annuii, tornando a fissare J e Sofia, ancora immersi l’uno nell’altra.
- Non vai a fare i balli di gruppo? – mi chiese poi Roberto alludendo alle lezioni di ballo che gli animatori davano in spiaggia.
- Nah... non sono tipo da... scatenarmi in pista – scossi la testa.
- Non devi per forza scatenarti. Basta che muovi le gambine – esclamò lui, accennando un balletto.
- Oooook... diciamo che non sono fatta per ballare...-
- Perché no? hai mai provato almeno? –
- Senti, li conosco i trucchi di voi animatori che cercate di coinvolgere tutti nei vostri balli, ma... io non sono quel tipo di persona che si lascia convincere a fare una figuraccia sforzandosi di “muovere le gambette”! –
- Ma che figuraccia e figuraccia! – esclamò. Poi aggiunse, visto che non dicevo niente: - Scommettiamo che se provi, magari qualcosina riesci a combinare? –
Lo guardai con una specie di sorrisetto, ma poi scossi la testa in un “No” molto deciso.
- Dai allora, voglio vedere te ballare! – lo stuzzicai.
- Io lo faccio ogni sera... non vedi i balli di gruppo in anfiteatro? –
- No, di solito sono in giro per il villaggio, la sera –
- Ah... allora non sai cosa ti perdi! – disse alludendo a sé stesso e alle sue doti di grande ballerino.
- Immagino... – esclamai sarcastica.
- Non potresti mai! Stasera vieni all’anfiteatro. Se non balli ti faccio ballare io –
- Non ce la farai –
- Ti assicuro il contrario –
Scossi la testa, sorridendo divertita che lui fosse convinto davvero di riuscire a farmi ballare una Salsa, o una Baciata, o un Tiburòn.
 
- Noo! – esclamai per l’ennesima volta quella sera, mentre una mano insisteva nel tirarmi giù dalli spalti.
- Sììì!! – ribatté Roberto tirando uno strattone che mi fece avanzare di un passo – devo dire di chiamarti al microfono della console? –
No, decisamente! Sarebbe stato troppo imbarazzante!
- Su non farti pregare e vieni a ballare! – non accennava a lasciarmi perdere: continuava a tirarmi per il polso ed io ero costretta a cedere sempre più terreno al mio nemico.
Una cosa era certa: non sarebbe riuscito a farmi ballare!
Purtroppo... mi sbagliavo...
Qualche minuto dopo ero in pista, con Roberto avvinghiato al polso che cercava di farmi “muovere le gabette”.
- Dai, su! Sciogliti un po’! –
Lui se la cavava coi passi, ma io ero una frana! Non avevo mai sentito nemmeno le musiche, figuriamoci ballarci sopra!
Mi sforzai di imitare l’animatore a tempo, quando mi cadde lo sguardo sul palco di pallide mattonelle rossicce: c’era Mirko che conduceva il ballo, danzando davanti a tutti per mostrare i passi a chi non li sapeva.
- Sai che ti dico? – feci strattonando il braccio, così che sfuggisse alla presa di Roberto – mi impegnerò a ballare oggi – sorrisi trionfante, avendo trovato un’ottima scusa per osservare il mio Mirko tutta la sera.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Amore sotto le stelle ***


- Brava! – esclamarono i miei amici battendo le mani, quando li raggiunsi sugli spalti.
Io risi, sapendo benissimo che non ero stata affatto brava.
Poi ci godemmo lo spettacolo serale offerto dall’animazione.
Finì tardi, verso le undici e mezza e, dopo aver detto ai miei nonni che sarei rimasta in anfiteatro e che non sarei tornata subito a casa, decisi di andare con Jacopo e Sofia fino alla spiaggia.
- Di notte dev’essere fantastica! – esclamò lei con gli occhi che luccicavano.
- Sì, ma tutto questo buio fa paura...- mormorai io, mentre ci incamminavamo.
- Dai! Ma hai paura di tutto! – esclamò Jacopo.
- No, affatto! È solo che... non lo so... ultimamente ho sempre una brutta sensazione quando scendo in spiaggia... mi agito –
- Tranquillizzati Deb: non succederà nulla –
- Ho paura di sentire quelle voci – sussurrai a Jacopo. Non volevo che Sofia sentisse. Avevo capito che non mi credeva affatto, che senso avrebbe avuto parlare con lei dell’argomento se mi reputava solo una pazza?
- Ti basta non ascoltarle –
- J non è così semplice! – sbottai – insomma... loro mi chiamano! E io non ho idea da dove provengano, cosa vogliano, io... non so nulla. Mi turbano. E parecchio, anche! –
- Posso capirti Deb, ma fai uno sforzo... presto dovrai affrontarle e... non sono pericolose –
- Come fai a dirlo? –
- Perché so da dove provengono – mi disse in un sorrisetto.
- Davvero? Dimmelo allora! –
Ma prima che lui potesse rispondermi Sofia lo tirò verso di sé, forse infastidita di essere esclusa da quel colloquio silenzioso.
- Di che parlate? –
- Musica – rispose prontamente J.
- E non potete alzare un po’ la voce? Io non sento –
- Scusa – mormorai io. In realtà mi sentivo un po’ in colpa ad escluderla e scommettevo che credesse che ci provassi con Jacopo, dato che non sapeva il vero argomento della nostra discussione.
Arrivammo alle scale che conducevano alla spiaggia. Erano buie da paura e avevo il terrore di cadere: non vedevo dove mettevo i piedi e addirittura riconoscere un oggetto a un metro dal mio naso diventava un’impresa quasi impossibile, a causa dell’oscurità.
Sentivo le assi di legno scricchiolare sotto il mio peso, vedevo le flebili luci rossastre del villaggio vicino, poco più di minuscoli puntini lontani.
Cercai alla cieca la passerella, quando raggiungemmo la fine delle scale. Io fui fortunata a trovarla subito, Sofia invece inciampò, ma aggrappandosi a Jacopo riuscì a reggersi in piedi.
Percorremmo la passatoia facilmente: la luce della luna piena che fino a poco prima era rimasta nascosta dietro gli alberi illuminava quasi a giorno tutta la spiaggia, gli ombrelloni, il mare.
Ogni cosa sembrava abbandonata, deserta, dimenticata da tutto e da tutti. Quella luce biancastra della luna e quell’aria di solitudine che aleggiava sulla spiaggia le attribuivano un’aria malinconica e romantica.
Camminavo davanti ai miei amici sulla passerella, e quando mi voltai per dir loro qualcosa mi accorsi che si tenevano teneramente per mano. Sorrisi e tornai a guardare dove mettevo i piedi.
Mi sentii un po’ un’intrusa e mi pentii di averli accompagnati fin laggiù: magari avrebbero preferito restare un po’ da soli e io ero solo un problema. Perché non ci avevo pensato prima?
Mi ripromisi che, passata una quindicina di minuti avrei salutato tutti con la scusa di essere davvero molto stanca e li avrei lasciati soli.
Avanzammo tra gli ombrelloni chiusi, tra le sdraio vuote, il bar sigillato, e raggiungemmo la riva deserta. Era insolito vedere il bagnasciuga senza tutti i bagnanti che lo animavano di giorno, senza schizzi e schiamazzi. Nulla.
C’era solo un silenzio meraviglioso, che entrava nella testa e nelle ossa, rotto solamente la rimbombo del mare. Le onde si infrangevano sulla scogliera in meravigliosi spruzzi bianchi, la luce della luna faceva luccicare le creste in lontananza.
La baia era magnifica illuminata dalla sua luce biancastra, e tutto sembrava danzare al ritmo del canto delle onde, che si gettavano sulla riva per rimangiarsela subito dopo, cercando di portarla via con sé.
Mi tolsi le scarpe e le gettai nella sabbia. Rimasi immobile coi piedi immersi nei granelli gelidi e umidi. Venni percossa da un brivido: che senso di tristezza e solitudine conferiva quel contatto.
Sospirai e mi avvicinai piano alla riva. Ero pronta a sentire rimbombare un richiamo nella mia testa, parlare quella voce raccapricciante e spaventosa, che mi voleva con tutte le sue forze.
Avevo paura, ma cercavo di nasconderla addirittura a me stessa. Dovevo essere coraggiosa per godermi quella serata sfidando le voci e il richiamo del mare, a cui faticavo a resistere: avrei volentieri obbedito alla sua chiamata, tuffandomi nelle sue acque gelide e tristi, ma il terrore di venirne inghiottita o trascinata via era abbastanza vivo da farmi resistere.
Camminavo lenta, passo dopo passo, lasciando delebili orme sulla sabbia bagnata.
Jacopo e Sofia mi superarono correndo, per mano. Li vidi scattare, saltare, inseguirsi come due bambini, e poi cadere a terra uno sull’altro.
Questa volta non sarei rimasta a guardarli come in un film. Dovevo imparare a vivere la mia vita, ad affrontare il mio amore, non a fingere di essere felice nei panni di qualcun altro.
Mi allontanai dalla coppietta e mi avventurai da sola nel mondo dei miei pensieri.
Avrei assolutamente dovuto parlare con Jacopo. Lui sapeva molte cose. Lo avrei convinto a spiegarmi la natura di quelle voci, il perché mi perseguitassero così accanitamente. Poi avrei dovuto parlare finalmente a Mirko, spiegargli di quell’amore che mi stava uccidendo, come una persona grande, dimostrandogli che non avevo paura di lui, né dei miei sentimenti e nemmeno dei dieci anni che ci separavano.
Mi chiesi se ne avrei avuto la forza. Come avrei trovato il coraggio di parlargli di un argomento così delicato? Come avrebbe fatto lui a credermi se mi vedeva solo come una bambina? Insomma... io gli avrei detto che ero innamorata persa di lui, non che era solo un’insignificante cotta! Mi avrebbe creduta? Capita? Come avrei reagito ad un suo rifiuto? A perderlo per sempre? No, non ero ancora pronta ad un passo così grande. Non avrei perso in un così futile errore l’amore di una vita. Dovevo fare le cose per bene, e con calma.
Debora! Nulla ti trattiene ormai! Vieni, vieni da noi!
Sentii il sangue raggelarsi nelle vene. Venni assalita da un terrore intensissimo. Mi voltai di scatto verso Jacopo, in cerca del suo aiuto: avevo troppa paura a restare sola e a sfidare le voci; ma lui era troppo preso dalla sua cotta estiva per dare peso a me, e io di certo non avrei rovinato il suo momento romantico.
Dovevo sbrigarmela da sola.
Vieni da noi! Troverai le risposte che cerchi!
- Chi... chi siete? – mi sentivo un po’ ridicola, in realtà a parlare da sola.
Siamo le tue sorelle Debora, vieni, vieni da noi!
- Lasciatemi in pace! Io... io non vi darò ascolto! – mi tremava la voce, nonostante cercassi di convincermi a non aver paura.
Ahahah come sei ingenua quella risata gelida mi fece rabbrividire tu non ti ricordi di noi, ma noi ti vogliamo aiutare! Vieni da noi
- Non ho idea di cosa vogliate, da dove veniate. Però io... io non mi lascio abbindolare. Lasciatemi in pace! –
È per il tuo bene Debora, seguici! Noi veniamo dal mare! Tu sei una di noi!
Ero così spaventata che, senza accorgermene, avevo preso ad arretrare, ad allontanarmi dalla riva lentamente.
Feci per rispondere a quella voce pungente ed acuta, quando urtai qualcosa con il tallone del piede. Era proprio dietro di me. mi voltai di scatto cacciando un urlo terrificante, seguito poi da un altro grido. Di chi?
Alzai gli occhi timorosa di scoprirlo. Davanti a me c’era un ragazzo, un ragazzo in pelle e ossa, uno vero!
Mi sentii svenire: la paura che mi scorreva a litri nelle vene mi aveva irrigidita tutta, ma quel falso allarme mi fece sentire stremata, senza forze, dato che il terrore non mi animava più.
Alzai gli occhi e li puntai sul ragazzo che si ergeva in piedi davanti a me. Era immerso nell’oscurità e aveva il viso illuminato dalla luce della luna.
Sorrideva, mostrando due file di denti perfetti e bianchissimi. Aveva gli occhi ridenti e vivaci, di un nero intenso, i capelli dello stesso colore erano in balia alla brezza notturna, il ciuffo che gli attraversava la fronte lo rendeva davvero un tipo affascinante.
Indossava un paio di jeans di un blu pallido, portati a vita bassa, nonostante la cintura che li stringeva in vita; ed una t-shirt infilata nei pantaloni, che esaltava il suo fisico atletico e snello.
Lo guardai in adorazione, come fosse un angelo. Il fatto che non fosse nulla di spaventoso e collegabile alle terrificanti voci con cui stavo discutendo mi fece sospirare. Ero davvero felice di essermi immaginata in pericolo. Perché per fortuna non era la realtà.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Colpa della luna ***


- Mi dispiace se ti ho fatta spaventare, prima... c’era qualcosa che ti... insomma... metteva paura? – la sua voce dolce accompagnava il battito del mio cuore come una ninna nanna.
- No, solo sciocchezze... – scossi la testa in un sorriso.
Le mie gambe avevano ceduto per lo stress e l’intensità del momento, così mi ero lasciata cadere nella sabbia. Sentivo la gonna prendere l’umidità dei granelli, ma non mi importava, perché accanto a me avevo qualcuno con cui mi sentivo al sicuro e senza problemi.
- Ti dovrei io delle scuse... non avrei dovuto gridare a quel modo – sorrisi imbarazzata al ricordo di qualche minuto prima.
- Ma io ho sbagliato a sorprenderti alle spalle – ribatté per sostenere che fosse lui a dovermi delle scuse.
- Stiamo gareggiando per chi è in torto? – lo guardai perplessa e divertita.
- Passiamo alle presentazioni – mi disse lui in un sorriso radioso, scuotendo la testa. Era luminoso quasi quanto la luna, coi suoi denti così bianchi.
- Mi chiamo Debora – dissi stringendogli la mano.
- David –
Ripetei il suo nome a me stessa, formandolo sulle labbra in una parola muta. Come sembrava dolce quel nome, com’era... tranquillo.
- Quanti anni hai? – gli chiesi.
- Sedici, quasi diciassette – rispose. Poi mi indicò con un cenno del mento.
- Quindici – dissi con aria di sufficienza, esprimendo il mio disprezzo per la mia età.
- Vorresti essere più piccola? -
- Più grande! – esclamai io come se fosse ovvio.
- Quanti anni vorresti avere, sentiamo? –
Feci per pensarci su, sorridendo. La risposta in realtà la sapevo bene, e anche il motivo era ben chiaro. Per il mio cuore, almeno.
- Venticinque –
- Venticinque? No! A quell’età tutto è troppo serio... ora sei più spensierata, no? –
- In che senso? –
- Non devi pensare al futuro, trovarti un lavoro, farti una vita... è dura avere venticinque anni –
Non l’avevo mai vista sotto quel punto di vista.
- Già...- risposi annuendo, dopo una breve riflessione – hai ragione! –
- Lo so – mi sorrise.
- E di dove sei? –
- Di Milano –
- Davvero? – esclamai stupita – anche io! –
- Di che parte? –
- Un po’ in periferia, a sud della città –
- Io centro, in Duomo –
- Wow... non siamo tanto lontani! –
Rimanemmo qualche minuto in silenzio, a guardare il mare, seduti sulla sabbia uno accanto all’altra. Quel silenzio mi mise a disagio. Avrei voluto continuare a parlare, dire qualcosa, ma non mi veniva nulla in mente.
- E... che ci fa una giovane ragazza come te qui giù in spiaggia da sola? – fu lui a riprendere la conversazione.
- Potrei farti la stessa domanda –
- È vero – ammise – ma io ho la precedenza: sono stato io a chiedere per primo –
- Non sono da sola – dissi, senza rispondere alla domanda.
Lui sembrò trovare subito i miei amici con lo sguardo: forse li aveva già inquadrati prima..
- È brutto essere il terzo incomodo, vero? –
- No, non è così... è che... tra di loro sta nascendo qualcosa e io...-
- Non vuoi essere d’impiccio – mi interruppe, intuendo il seguito della mia frase.
- E tu? Che ci fai qui? –
- Scappo –
- Da cosa? – chiesi ridendo.
- Dai miei genitori –
- Devono essere proprio cattivi per mettere in fuga un ragazzo come te – scherzai ridacchiando.
- Eh già... sono dei killer spietati... devi vedere come mi picchiano quando dico qualcosa di sbagliato...- disse ridendo.
- Allora dovrei starti alla larga, o potrei finire male anche io – stetti al gioco.
- Allora addio! – esclamò alzandosi, e fingendo di andarsene. Prima però che fosse completamente in piedi gli afferrai la mano e lo tirai a sedere ancora accanto a me.
Lo guardai con dolcezza, tornando seria.
- Tienimi un po’ di compagnia...- mormorai.
David sorrise dolcemente, fissandomi con uno sguardo ammaliante.
- Certamente –
- Grazie...- sussurrai poggiando la guancia sulla sua spalla.
Rimanemmo così, in silenzio, vicini, a guardare lo stesso mare, lo stesso orizzonte, illuminati dalla stessa luce biancastra della luna.
- La luna piena fa fare cose strane, eh? – disse lui, dopo eterni minuti di dolce silenzio.
- Già...- non si riferiva a me e alla mia mossa avventata di essermi poggiata a lui, ma mi rialzai comunque.
- Hai degli occhi davvero belli – mi sussurrò.
 il suo sguardo era così attraente che non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso, il suo viso così dolce che non riuscivo a non scatenare il batticuore quando lo esaminavo.
- E tu un sorriso molto... luminoso – era il più bel complimento che mi venne fuori. Ed era la verità.
Lui rise.
- Di solito sono i ragazzi che fanno i complimenti –
- Non volevo sentirmi in debito – sorrisi.
Eravamo così presi l’uno dall’altra... come calamite. Nessuno dei due riusciva a staccare gli occhi di dosso dall’altro. Mi batteva forte il cuore e mi sembrava quasi di sentire anche il suo pulsare allo stesso ritmo.
Aveva uno sguardo così dolce, così tenero coi suoi occhi scuri... il suo profumo inebriante mi invase le narici. Tirai un forte respiro, assaporando ogni sfumatura di quella fragranza.
- Che buon profumo – mormorai avvicinandomi un po’ a lui.
- Ti hanno mai detto che sei molto carina? – sussurrò lui dolcemente, scostandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Sorrisi: - Decisamente la luna piena fa andare in palla gli ormoni! – ridacchiai senza smettere di fissare i dolci occhi di David – ci fa abbassare la guardia e... fare pazzie -
- E allora? Lasciamoci guidare dalla sua pazzia – mormorò con voce suadente, passando lo sguardo dai miei occhi alle mie labbra, e poi di nuovo ai miei occhi.
Avvicinò il suo viso al mio, lentamente.
- Non credo sia il caso...- mormorai, ma ormai quell’attrazione che avevo sentito fin da subito verso David si stava scatenando. E mentre il suo viso si avvicinava al mio fissavo le sue labbra, che presto sfiorarono le mie con dolcezza.
- Ma che stiamo facendo? Nemmeno ci conosciamo! – esclamai in un sorriso dubbioso subito dopo, ma lui riposò la sua bocca sulla mia.
- Avremo tempo per conoscerci... ora lasciati andare...- sussurrò, prima di impossessarsi delle mia labbra con avidità, scatenando un bacio famelico e passionale. Sentivo le sue mani che mi accarezzavano i capelli, mentre lui non smetteva un secondo di baciarmi, non abbandonava un attimo le mie labbra. E io mi lasciavo cullare dalle sue carezze, mentre intrecciavo le dita dietro il suo collo e mi spostavo per avere una posizione migliore.
Lui mi tirava il viso contro il suo, mentre le sue labbra inseguivano le mie in un bacio romantico.
Mi sedetti sopra di lui, lasciandomi andare a quel bacio appassionato che mi fece dimenticare tutto il resto del mondo, tutti gli altri problemi che avevo.
Le possenti braccia di David mi strinsero forte a sé, sentivo il mio petto premuto contro il suo, mentre le nostre bocche non accennavano ad allontanarsi. Mi lasciai cadere sopra di lui sulla sabbia. E così, sdraiati uno sull’altro, continuare quel bacio che non avrebbe mai significato niente. Ad un tratto mi calmai un po’, pensando al perché lo stavo facendo. Insomma: io ero innamorata persa di Mirko. Perché allora stavo baciando quello sconosciuto incredibilmente attraente? Giunsi alla conclusione che avevo finalmente deciso di lasciarmi andare, di dimenticare quell’amore che mi stava rovinando e di divertirmi, senza pensare ad altro.
Finalmente avevo permesso alla passione di impossessarsi di me, mentre mi aggrappavo a quel ragazzo immerso nella sabbia che mi stringeva forte.
Mi sentivo bene. Per la prima volta dopo tanto tempo mi sentivo davvero bene.
E mentre le labbra di David accarezzavano le mie con romantica impazienza, quasi avessero paura di lasciarle andare, un colpo di tosse ci riportò alla realtà.
Alzammo lo sguardo, ancora sdraiati una sopra l’altro. Riconobbi una maglietta grigiastra nell’oscurità della notte. Mi sedetti sulla sabbia, David si rialzò, mentre in quel viso che ci sovrastava riconobbi l’ultima persona che avrei voluto vedere in quel momento.
- Mirko...- mormorai atterrita. Ero impallidita di colpo, e lo guardavo come se avessi visto un fantasma.
Lui fissava me e il mio “nuovo amico” accigliato. Mo voltai di scatto verso David, per vedere la sua reazione: guardava l’animatore come rimproverandolo e pregandolo di sparire all’istante.
- Va... va tutto bene? – quella domanda suonava così fuori luogo in quel momento... ma la voce impassibile di Mirko tradiva la sua espressione sconvolta. Mi guardava con un’espressione accusatoria, forse delusa.
- Sì perché? – rispose scocciato David. Io non avevo avuto la forza di rispondere ed ora non osavo parlare. Non sarebbe dovuto succedere, né il bacio, né l’arrivo di Mirko! Ma perché tutto a me?
- Ho sentito un urlo spaventoso, una ventina di minuti fa...- disse fissandomi con disprezzo. Io abbassai lo sguardo. Mi sentivo troppo a disagio... – come sapete quassù, in cima alle scale, ci sono le camere di noi animatori... abbiamo sentito tutti qualcuno che urlava. Hanno mandato me a controllare che tutto fosse a posto –
- Lo è! – ribatté acido David - Ok, ora puoi...- fece cenno col mento di andarsene.
Mirko mi guardò ancora, apparentemente deluso; poi, dopo un attimo di esitazione, obbedì e si allontanò nell’oscurità.
Rimasi a fissare il punto dov’era sparito, inghiottito dalle tenebre, col cuore in gola, il pianto che stava per dare spettacolo.
- Allora? Dov’eravamo rimasti? – David richiamò la mia attenzione.
Lo guardai un secondo, con lo sguardo vuoto. Avevo ancora davanti agli occhi l’immagine di Mirko, della sua espressione che mi faceva sentire il vuoto nello stomaco.
- Non posso – scattai in piedi – devo andare... io...- ero confusa, stanca, addolorata, e stavo per piangere. Ma cosa avevo fatto? Quel ragazzo nemmeno lo conoscevo! E per colpa di... beh, quell’incidente avevo forse perso l’amore della mia vita. Se anche forse io fossi piaciuta a Mirko ora tutte le mie speranze di stare con lui erano svanite. In un bacio. Lui forse credeva che lui non mi interessasse, che mi piacesse... quello sconosciuto. Che casino!
- Scusa... ci vediamo domani – così dicendo iniziai a correre verso la passerella, per recuperare le mia scarpe.
Invece che rimanere lì, fermo, però, David mi seguì.
Trovai le mie All star azzurre, mi chinai per prenderle, mentre il ragazzo mi raggiunse.
- Ehi, che succede? Dove... dove vai? –
- Devo andare a casa, scusami – risposi assente, infilandomi le scarpe.
- Ma... cos’è successo? Io... credevo che...-
- Senti, mi dispiace. Ci vediamo domani e... parliamo –
- Ehi, se è colpa mia mi dispiace... sono stato troppo avventato, lo so...- continuò a scusarsi inseguendomi anche sulla passerella.
Mi fermai di scatto, voltandomi verso di lui. Quasi non mi finì addosso.
- Ehi, tranquillo. Non è colpa tua... è solo che i miei nonni mi aspettano e... ciao – così dicendo corsi via, con un’immagine impressa nella mente: il viso stupendo e un po’ rassicurato di David, che mi guardava fuggire via.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Colpa della luna ***


- Mi dispiace se ti ho fatta spaventare, prima... c’era qualcosa che ti... insomma... metteva paura? – la sua voce dolce accompagnava il battito del mio cuore come una ninna nanna.
- No, solo sciocchezze... – scossi la testa in un sorriso.
Le mie gambe avevano ceduto per lo stress e l’intensità del momento, così mi ero lasciata cadere nella sabbia. Sentivo la gonna prendere l’umidità dei granelli, ma non mi importava, perché accanto a me avevo qualcuno con cui mi sentivo al sicuro e senza problemi.
- Ti dovrei io delle scuse... non avrei dovuto gridare a quel modo – sorrisi imbarazzata al ricordo di qualche minuto prima.
- Ma io ho sbagliato a sorprenderti alle spalle – ribatté per sostenere che fosse lui a dovermi delle scuse.
- Stiamo gareggiando per chi è in torto? – lo guardai perplessa e divertita.
- Passiamo alle presentazioni – mi disse lui in un sorriso radioso, scuotendo la testa. Era luminoso quasi quanto la luna, coi suoi denti così bianchi.
- Mi chiamo Debora – dissi stringendogli la mano.
- David –
Ripetei il suo nome a me stessa, formandolo sulle labbra in una parola muta. Come sembrava dolce quel nome, com’era... tranquillo.
- Quanti anni hai? – gli chiesi.
- Sedici, quasi diciassette – rispose. Poi mi indicò con un cenno del mento.
- Quindici – dissi con aria di sufficienza, esprimendo il mio disprezzo per la mia età.
- Vorresti essere più piccola? -
- Più grande! – esclamai io come se fosse ovvio.
- Quanti anni vorresti avere, sentiamo? –
Feci per pensarci su, sorridendo. La risposta in realtà la sapevo bene, e anche il motivo era ben chiaro. Per il mio cuore, almeno.
- Venticinque –
- Venticinque? No! A quell’età tutto è troppo serio... ora sei più spensierata, no? –
- In che senso? –
- Non devi pensare al futuro, trovarti un lavoro, farti una vita... è dura avere venticinque anni –
Non l’avevo mai vista sotto quel punto di vista.
- Già...- risposi annuendo, dopo una breve riflessione – hai ragione! –
- Lo so – mi sorrise.
- E di dove sei? –
- Di Milano –
- Davvero? – esclamai stupita – anche io! –
- Di che parte? –
- Un po’ in periferia, a sud della città –
- Io centro, in Duomo –
- Wow... non siamo tanto lontani! –
Rimanemmo qualche minuto in silenzio, a guardare il mare, seduti sulla sabbia uno accanto all’altra. Quel silenzio mi mise a disagio. Avrei voluto continuare a parlare, dire qualcosa, ma non mi veniva nulla in mente.
- E... che ci fa una giovane ragazza come te qui giù in spiaggia da sola? – fu lui a riprendere la conversazione.
- Potrei farti la stessa domanda –
- È vero – ammise – ma io ho la precedenza: sono stato io a chiedere per primo –
- Non sono da sola – dissi, senza rispondere alla domanda.
Lui sembrò trovare subito i miei amici con lo sguardo: forse li aveva già inquadrati prima..
- È brutto essere il terzo incomodo, vero? –
- No, non è così... è che... tra di loro sta nascendo qualcosa e io...-
- Non vuoi essere d’impiccio – mi interruppe, intuendo il seguito della mia frase.
- E tu? Che ci fai qui? –
- Scappo –
- Da cosa? – chiesi ridendo.
- Dai miei genitori –
- Devono essere proprio cattivi per mettere in fuga un ragazzo come te – scherzai ridacchiando.
- Eh già... sono dei killer spietati... devi vedere come mi picchiano quando dico qualcosa di sbagliato...- disse ridendo.
- Allora dovrei starti alla larga, o potrei finire male anche io – stetti al gioco.
- Allora addio! – esclamò alzandosi, e fingendo di andarsene. Prima però che fosse completamente in piedi gli afferrai la mano e lo tirai a sedere ancora accanto a me.
Lo guardai con dolcezza, tornando seria.
- Tienimi un po’ di compagnia...- mormorai.
David sorrise dolcemente, fissandomi con uno sguardo ammaliante.
- Certamente –
- Grazie...- sussurrai poggiando la guancia sulla sua spalla.
Rimanemmo così, in silenzio, vicini, a guardare lo stesso mare, lo stesso orizzonte, illuminati dalla stessa luce biancastra della luna.
- La luna piena fa fare cose strane, eh? – disse lui, dopo eterni minuti di dolce silenzio.
- Già...- non si riferiva a me e alla mia mossa avventata di essermi poggiata a lui, ma mi rialzai comunque.
- Hai degli occhi davvero belli – mi sussurrò.
 il suo sguardo era così attraente che non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso, il suo viso così dolce che non riuscivo a non scatenare il batticuore quando lo esaminavo.
- E tu un sorriso molto... luminoso – era il più bel complimento che mi venne fuori. Ed era la verità.
Lui rise.
- Di solito sono i ragazzi che fanno i complimenti –
- Non volevo sentirmi in debito – sorrisi.
Eravamo così presi l’uno dall’altra... come calamite. Nessuno dei due riusciva a staccare gli occhi di dosso dall’altro. Mi batteva forte il cuore e mi sembrava quasi di sentire anche il suo pulsare allo stesso ritmo.
Aveva uno sguardo così dolce, così tenero coi suoi occhi scuri... il suo profumo inebriante mi invase le narici. Tirai un forte respiro, assaporando ogni sfumatura di quella fragranza.
- Che buon profumo – mormorai avvicinandomi un po’ a lui.
- Ti hanno mai detto che sei molto carina? – sussurrò lui dolcemente, scostandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Sorrisi: - Decisamente la luna piena fa andare in palla gli ormoni! – ridacchiai senza smettere di fissare i dolci occhi di David – ci fa abbassare la guardia e... fare pazzie -
- E allora? Lasciamoci guidare dalla sua pazzia – mormorò con voce suadente, passando lo sguardo dai miei occhi alle mie labbra, e poi di nuovo ai miei occhi.
Avvicinò il suo viso al mio, lentamente.
- Non credo sia il caso...- mormorai, ma ormai quell’attrazione che avevo sentito fin da subito verso David si stava scatenando. E mentre il suo viso si avvicinava al mio fissavo le sue labbra, che presto sfiorarono le mie con dolcezza.
- Ma che stiamo facendo? Nemmeno ci conosciamo! – esclamai in un sorriso dubbioso subito dopo, ma lui riposò la sua bocca sulla mia.
- Avremo tempo per conoscerci... ora lasciati andare...- sussurrò, prima di impossessarsi delle mia labbra con avidità, scatenando un bacio famelico e passionale. Sentivo le sue mani che mi accarezzavano i capelli, mentre lui non smetteva un secondo di baciarmi, non abbandonava un attimo le mie labbra. E io mi lasciavo cullare dalle sue carezze, mentre intrecciavo le dita dietro il suo collo e mi spostavo per avere una posizione migliore.
Lui mi tirava il viso contro il suo, mentre le sue labbra inseguivano le mie in un bacio romantico.
Mi sedetti sopra di lui, lasciandomi andare a quel bacio appassionato che mi fece dimenticare tutto il resto del mondo, tutti gli altri problemi che avevo.
Le possenti braccia di David mi strinsero forte a sé, sentivo il mio petto premuto contro il suo, mentre le nostre bocche non accennavano ad allontanarsi. Mi lasciai cadere sopra di lui sulla sabbia. E così, sdraiati uno sull’altro, continuare quel bacio che non avrebbe mai significato niente. Ad un tratto mi calmai un po’, pensando al perché lo stavo facendo. Insomma: io ero innamorata persa di Mirko. Perché allora stavo baciando quello sconosciuto incredibilmente attraente? Giunsi alla conclusione che avevo finalmente deciso di lasciarmi andare, di dimenticare quell’amore che mi stava rovinando e di divertirmi, senza pensare ad altro.
Finalmente avevo permesso alla passione di impossessarsi di me, mentre mi aggrappavo a quel ragazzo immerso nella sabbia che mi stringeva forte.
Mi sentivo bene. Per la prima volta dopo tanto tempo mi sentivo davvero bene.
E mentre le labbra di David accarezzavano le mie con romantica impazienza, quasi avessero paura di lasciarle andare, un colpo di tosse ci riportò alla realtà.
Alzammo lo sguardo, ancora sdraiati una sopra l’altro. Riconobbi una maglietta grigiastra nell’oscurità della notte. Mi sedetti sulla sabbia, David si rialzò, mentre in quel viso che ci sovrastava riconobbi l’ultima persona che avrei voluto vedere in quel momento.
- Mirko...- mormorai atterrita. Ero impallidita di colpo, e lo guardavo come se avessi visto un fantasma.
Lui fissava me e il mio “nuovo amico” accigliato. Mo voltai di scatto verso David, per vedere la sua reazione: guardava l’animatore come rimproverandolo e pregandolo di sparire all’istante.
- Va... va tutto bene? – quella domanda suonava così fuori luogo in quel momento... ma la voce impassibile di Mirko tradiva la sua espressione sconvolta. Mi guardava con un’espressione accusatoria, forse delusa.
- Sì perché? – rispose scocciato David. Io non avevo avuto la forza di rispondere ed ora non osavo parlare. Non sarebbe dovuto succedere, né il bacio, né l’arrivo di Mirko! Ma perché tutto a me?
- Ho sentito un urlo spaventoso, una ventina di minuti fa...- disse fissandomi con disprezzo. Io abbassai lo sguardo. Mi sentivo troppo a disagio... – come sapete quassù, in cima alle scale, ci sono le camere di noi animatori... abbiamo sentito tutti qualcuno che urlava. Hanno mandato me a controllare che tutto fosse a posto –
- Lo è! – ribatté acido David - Ok, ora puoi...- fece cenno col mento di andarsene.
Mirko mi guardò ancora, apparentemente deluso; poi, dopo un attimo di esitazione, obbedì e si allontanò nell’oscurità.
Rimasi a fissare il punto dov’era sparito, inghiottito dalle tenebre, col cuore in gola, il pianto che stava per dare spettacolo.
- Allora? Dov’eravamo rimasti? – David richiamò la mia attenzione.
Lo guardai un secondo, con lo sguardo vuoto. Avevo ancora davanti agli occhi l’immagine di Mirko, della sua espressione che mi faceva sentire il vuoto nello stomaco.
- Non posso – scattai in piedi – devo andare... io...- ero confusa, stanca, addolorata, e stavo per piangere. Ma cosa avevo fatto? Quel ragazzo nemmeno lo conoscevo! E per colpa di... beh, quell’incidente avevo forse perso l’amore della mia vita. Se anche forse io fossi piaciuta a Mirko ora tutte le mie speranze di stare con lui erano svanite. In un bacio. Lui forse credeva che lui non mi interessasse, che mi piacesse... quello sconosciuto. Che casino!
- Scusa... ci vediamo domani – così dicendo iniziai a correre verso la passerella, per recuperare le mia scarpe.
Invece che rimanere lì, fermo, però, David mi seguì.
Trovai le mie All star azzurre, mi chinai per prenderle, mentre il ragazzo mi raggiunse.
- Ehi, che succede? Dove... dove vai? –
- Devo andare a casa, scusami – risposi assente, infilandomi le scarpe.
- Ma... cos’è successo? Io... credevo che...-
- Senti, mi dispiace. Ci vediamo domani e... parliamo –
- Ehi, se è colpa mia mi dispiace... sono stato troppo avventato, lo so...- continuò a scusarsi inseguendomi anche sulla passerella.
Mi fermai di scatto, voltandomi verso di lui. Quasi non mi finì addosso.
- Ehi, tranquillo. Non è colpa tua... è solo che i miei nonni mi aspettano e... ciao – così dicendo corsi via, con un’immagine impressa nella mente: il viso stupendo e un po’ rassicurato di David, che mi guardava fuggire via.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** a passo di danza ***


Corsi a perdifiato per minuti e minuti. Mi sembrò un tempo infinito. Me ne fregavo altamente del lancinante mal di fianco che avevo, del fiato che mi mancava, del fiatone che mi soffocava o delle lacrime che combattevano la mia volontà di non piangere.
Ignoravo il terribile mal di gambe che mi aveva assalita correndo su per le scale, o le botte che prendevo ai piedi inciampando negli scalini.
Lo vidi davanti a me: non era lontano. Strinsi i denti e corsi ancora più forte.
Quando gli fui dietro lo afferrai per il braccio.
- Fermati ti prego! – non riuscivo nemmeno a parlare, sentivo davvero il fiato mancarmi, le gambe doloranti, ma avevo altro per cui preoccuparmi.
- Deb...- sembrò sorpreso di trovarmi lì.
Rimasi in silenzio, piegata in due, respirando affannosamente.
- Stai bene? – iniziò a preoccuparsi.
- Ho corso come una pazza per raggiungerti...-
Rimase in silenzio, mentre io tentavo di regolarizzare il respiro, con un batticuore pauroso, dovuto anche alla vicinanza di Mirko, non solo alla corsa.
- Perché? –
- Non volevo che capissi male....- mi misi finalmente diritta, guardandolo negli occhi, anche se non vedevo niente a causa dell’oscurità.
- Perché? –
Rimasi spiazzata, non sapendo che cosa rispondere.
- Beh... perché sì! –
- Ehi – mi sussurrò con dolcezza, poggiandomi una mano sulla spalla – stai tranquilla! Non devi darmi nessuna spiegazione –
Annuii, poco convinta. Lui aspettò che aggiungessi qualcosa, ma io rimasi in silenzio, così si voltò e fece per andarsene; ma io lo fermai ancora.
- Mirko – che strano effetto pronunciare il suo nome... – io... non volevo farlo è che... non so... la luna piena rende pazzi – pensai a quello che mi aveva detto poco prima David.
Lui rise.
- Magari sei tu che sei pazza, sempre – scherzò.
- Mi stai insultando? – ridacchiai.
- No, affatto – lo vidi sorridere nell’oscurità – ti va di fare un giretto? Ho paura a lasciarti sola stasera... mi sembri un po’...-
- Pazza? – proposi io.
- Pericolosa – annuì lui in un sorriso – ci stai? –
Sorrisi, mentre sentivo un’euforia incontenibile crescermi dentro.
- Ci sto – dissi prendendolo a braccetto.
Insieme, fianco a fianco, riprendemmo a salire le scale, poi Mirko, anziché fermarsi in camera sua, mi condusse fino all’anfiteatro.
- Allora – iniziò lui – raccontami di questo ragazzo –
- Qual...- quasi mi ero dimenticata di David, talmente ero felice di essere lì con il mio Mirko – David...-
- David? È così che si chiama? –
- Già... io... non lo conosco bene, in realtà... erano solo le circostanze che ci hanno... fatti impazzire...-
- Ahah certo – rise, ma non era una risata sincera, c'era dell'altro. Gelosia? Fastidio? Forse. O forse era ciò che speravo di trovarvi.
Mi sentivo un po’ in imbarazzo a parlare di quello che era successo, perché sinceramente, nemmeno io avevo capito cosa fosse accaduto poco prima... insomma c’era una grande attrazione tra me e David, ma era strano che avessi lasciato che uno sconosciuto mi baciasse. Ero proprio messa male se avevo permesso che succedesse!
- E tu...- non vedevo l’ora di fare quella domanda, ma non ero sicura di essere pronta a sentire la risposta – ho visto che... succede qualcosa con quella ragazza...? – volevo sapere lui cosa pensasse della loro storia - è... è carina...- tentai di fargli credere che non ero per niente gelosa.
Incrociai i suoi occhi. Sembrava sorpreso che mi fossi accorto dell’avventura con la Barbie.
- Ah... tu dici... Marina? – sembrava costargli molto parlarne – beh... forse ci è successo quello che è successo a te e a David – pronunciò il suo nome con un noto disagio.
Mi sentii... benissimo a sentire quelle parole: quindi tra lui e Marina non c’era nulla? Oddio! Che bella notizia! Mi sentii svenire per la felicità, il cuore che mi martellava sempre più forte in petto.
Le gambe cedettero e per poco non caddi.
- Bene... che altro mi racconti? Cos’hai fatto in tutto l’anno? – mi chiese lui. Sembrava sinceramente interessato.
Ho aspettato di rivederti e ho pianto rendendomi conto di quanto fossi lontano... non potevo certo dirlo.
- Ho studiato, cosa vuoi che abbia fatto!? – ridacchiai il nervosismo che mi cresceva dentro – non sono come te che me ne vado in giro per il mondo! – gli feci l’occhiolino, lui sorrise.
- Presto potrai farlo anche tu –
- Sì, lo so... ma per ora... sono troppo giovane – sorrisi. Non avevo detto “troppo piccola” perché non si ricordasse che lui era troppo grande per me, dato che ora mi stava trattando come una sua pari. E la cosa era... stupenda!
Raggiungemmo il bar vicino al ristorante, su in anfiteatro, parlando del più e del meno, ridendo e scherzano in allegria.
- Vuoi qualcosa? – mi chiese quando fu al bancone.
- Mmmh...- mi guardai attorno in cerca di qualcosa di buono – qualcosa di forte per sconfiggere la luna. Scegli tu –
Mi guardò un attimo, un po’ dubbioso. Forse non era sicuro che potessi bere alcolici, ma ordinò per tutti e due.
- Assaggia – mi porse un bicchiere con un liquido azzurrastro dentro, condito con una fettina di limone.
- Che cos’è? – chiesi in un sorriso, un po’ esitante.
- Dimmelo tu –
- Come faccio? A me sembra solo... qualcosa di paurosamente blu...! – guardai con una smorfia nel bicchiere. Sembrava una pozione magica.
- Assaggiala. E poi dimmi –
- Sicuro che non è veleno? –
Lui rise.
- Ti fidi di me? –
E c’era da chiedermelo? Certo che mi fidavo, completamente, ciecamente!
- Certo...- dissi sulla difensiva, non riuscendo a capire dove voleva andare a parare.
- Ti dico che è buono. Assaggia – mi disse tirando un sorso al suo drink.
- Vado sicura? Se muoio poi è colpa tua, sappilo! – scherzai ridendo, poi chiusi gli occhi, mi portai il bicchiere alla bocca e tirai un piccolo sorso. Mi preparai una smorfia schifata, invece il sapore era davvero delizioso.
- Mmmh! Che buono! – esclamai in un sorriso radioso.
- Che cos’è? – mi domandò Mirko bevendo un altro sorso del suo drink.
Lo imitai, cercando di distinguere gli ingredienti di quella magica pozione. L’animatore mi fissava attento.
- Cocco...- lo vidi annuire. Mi concentrai ancora sul sapore del drink – menta..., qualcosa di alcolico molto... forte –
Lui mi sorrise.
- E cacao –
Annuì: - Indovinato. Poi ci sono gli ingredienti speciali che non sa nessuno –
- Ah... e il tuo? A che gusto è? –
- Il mio? – tirò su il bicchiere. Mi accorsi solo allora che era vuoto.
- Ok... a che gusto era? – mi corressi.
- Limone ed ingredienti speciali –
- Buono! – buttai giù tutta la pozione.
Uscimmo dal bar e venimmo accolti da una musica leggera e soffusa. A Mirko si illuminò il viso.
- Sai ballare? –
- Io? – scossi la testa – no, per niente –
Ma prima che potessi finire la frase l’animatore mi aveva trascinata giù dagli spalti: due volte in un giorno ero stata portata in pedana... wow! Se me lo avesse raccontato qualcuno non ci avrei mai creduto.
- Dai vieni – mi fece fare una giravolta, poi mi prese delicatamente tra le sue braccia: con uno mi tirò a sé spingendomi in avanti la schiena, con l’altro mi afferrò la mano.
Mi guardò negli occhi e mi sorrise.
- Senti... io non sono capace – dissi ridendo.
- Non importa, segui me! –
- Sembra facile a dirsi! –
- Lo è! Devi solo capire... come mi muovo io, entrare in sintonia con me. E seguire i miei passi –
Dopo i primi passi che sbagliai completamente entrai in perfetta sintonia col mio compagno, e non fu difficile ballare seguendo i suoi movimenti.
Anzi, sembravamo perfetti, una coppia di esperti ballerini.
- Sembra che balliamo insieme da sempre! – mi disse lui infatti.
- Ed è una cosa buona? – certo che lo era!
- Sì – mi sorrise, fissandomi negli occhi così intensamente che sbagliai passo.
Il cuore mi tamburellava in petto con un’energia incredibile. Stavo così bene a volteggiare tra le braccia di Mirko che non mi resi conto del tempo che passava. Lo seguivo alla perfezione, ci muovevamo perfettamente in sintonia, parlavamo tra di noi, ci raccontavamo varie esperienze, e ballavamo, ballavamo, ballavamo.
Stavo così bene che per un attimo credetti di essere in paradiso... davvero pensavo che stessi sognando... insomma: stavo danzando tra le braccia del mio unico amore, che non mi aveva mai presa davvero in considerazione! Le circostanze erano davvero insolite.
Appena terminò l’ennesima canzone mi decisi a guardare l’ora. Era l’una e un quarto!
- O cavolo... o cavolo...- esclamai lasciando la presa su Mirko – devo andare a casa. È tardi! –
Lui mi guardò un attimo, mentre mi agitavo.
- Ti accompagno a casa, poi vado a dormire anche io –
Già stavo morendo a stargli così vicino, a sentire il suo respiro sul mio collo, il battito del suo cuore, premuto contro la mia guancia, a ricordare gli sguardi di fuoco che ci lanciavamo... ora che mi rivolgeva quel caldo sorriso offrendosi di accompagnarmi a casa... mi sentivo morta per davvero!
Accettai la sua offerta ed insieme attraversammo il boschetto sopra il mio residence.
- È proprio strana la luna piena... fa saltare il cervello a tutti – sussurrai.
- E il cuore – aggiunse Mirko.
- E il cuore – confermai io.
E siccome ormai mi ero convinta di essere in un sogno, decisi di rischiare ed esagerare: facendo finta di nulla afferrai la mano di Mirko nell’oscurità che incombeva nel boschetto di pini e ulivi.
Lui la strinse forte, e quando mi voltai ci sorridemmo dolcemente. Non avevo idea di cosa volesse significare quella serata per lui. Per me, di certo, voleva dire molto, anzi, moltissimo.
Erano due anni che speravo in una serata così, una! E sarei morta col sorriso, ora!
Non pensai più però a tutto quello che avevamo fatto, perché ero convinta che il giorno dopo mi sarei svegliata con le lacrime agli occhi rendendomi conto che era stato tutto un sogno...
Arrivammo al residence 304 e dovetti salutarlo.
- Buonanotte – gli sussurrai.
Lui mi guardò in un modo dolcissimo che mi fece sciogliere, poi si avvicinò a me. tentai di indietreggiare, ma ero paralizzata dal suo sguardo ammaliante.
Avvicinò lentamente il suo viso al mio, ma prima che i nostri nasi si potessero toccare si fermò.
Rimase con uno sguardo cupamente vuoto così vicino e così lontano al tempo stesso. Io aspettavo paralizzata dal batticuore.
Mi fissò in modo penetrante. Vidi una grandissima indecisione sul suo volto, poi, non so perché, ma con uno sguardo malinconico e auto commiserevole dipinto in volto si ritrasse.
Esibì un sorriso forzato.
- Buonanotte –

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1802965