The Outsider

di Big Foot
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio ***
Capitolo 2: *** Incontri e viaggi speciali. ***
Capitolo 3: *** Bere. A volte è meglio, altre no. ***
Capitolo 4: *** Sudati, stanchi e ansimanti. ***
Capitolo 5: *** Una svolta inaspettata ***
Capitolo 6: *** Viaggi, imbarazzi e furie pelose ***



Capitolo 1
*** L'inizio ***


-0-

Non sono mai stato un ragazzo che si sveglia facilmente la mattina. Io la buona volontà ce la metto, imposto 5 o 6 sveglie sul mio cellulare, ma non sono uno di quelli che si alza di botto urlando: "Buongiorno mondo!"; no, io sono uno di quelli che non si vuole alzare la mattina, che scende dal letto rotolando e, non si sa bene come, riesce a mettersi in piedi e a barcollare fino alla cucina. Sono uno di quelli che, se gli dici: "Buongiorno" ti risponde con un grugnito degno di un cavernicolo. Mi avete inquadrato? Bene, bene. E' qui che inizia la mia storia, o meglio, la nostra storia visto che la sto raccontando a voi; ecco, quella mattina mi svegliai subito, staccai subito la sveglia (decisamente anomalo per me) e mi misi a sedere di botto, sapendo fin da subito che i miei capelli ricordavano la Sidney Opera House. Me ne pentii subito perché iniziai a vedere stelline ovunque e sentii la testa roteare meglio di una trottola (anche la mia bassa pressione cercava di farmi capire che quel giorno dovevo starmene a letto). Fatto sta che dopo qualche minuto mi alzai (con più calma stavolta) e andai in cucina; solito caffè,venuto uno schifo come ogni mattina; solita tazzina, retaggio dell'anziana signora che viveva precedentemente in quell'appartamento;  solita posa da macho in mutande mentre lo sorseggio (ovviamente non riusciva neanche un po' e anche adesso la situazione non è cambiata) e per finire in bellezza solito sguardo alla fotografia che c'è sulla mia scrivania: siamo io e una ragazza su una spiaggia, sorridenti; lei minuta, i capelli castani e ricci, con un sorriso da pubblicità di dentifrici, le orecchie piccole e la pelle abbronzata; io alto, goffo e pallido (d'estate ho due scelte: o resto bianco come un lenzuolo o rosso come un'aragosta), con una selva di capelli castano rossicci in testa, mai al loro posto, con ciocche che sembrano animate di vita propria; uno sguardo che fa pensare a un'intelligenza degna di un cetriolo e un sorriso incerto, ma sincero. Lei si chiama Roberta ed è la mia ragazza da più di due anni ormai, viviamo nella stessa città (la dolce, graziosa e fumosa Torino) e da Ottobre studiamo all'università, lei medicina mentre io ingegneria meccanica. Guardavo ogni giorno quella foto perché (come avete capito dalla descrizione della foto) non mi sento un bel ragazzo e mi chiedevo come mai una bella ragazza come lei, una ragazza intraprendente, spiritosa e sexy, stesse con un tipo come me, il campione degli spaventapasseri, laureato cum laude  in farfugliamenti applicati, professore emerito del disordine e con la stessa memoria di un pesce rosso. Mi faceva pensare, quando ero steso sul letto cercando di prendere sonno, che forse mi sbagliavo su di me, che magari in fondo, molto in fondo, ero carino e forse era per questo che mi svegliavo con quel perché in testa ogni mattina. Perché pensarci mi rendeva felice, felice di sbagliarmi su di me. Cancellava anni di pensieri negativi e di discorsi fatti al me stesso al di là dello specchio del bagno.
Se solo avessi saputo che quel giorno avrei saputo la risposta e mi avessero detto qual'era forse sarei rimasto a letto. Sapete, così, per far rimanere tutto com'era e per far rimanere me in quel dolce mare chiamato Ignoranza.

-1-

Ero all'università, quel dedalo di corridoi tremendamente uguali che gli studenti chiamano il Poli, così complicato che hanno messo una mappa sul sito per non far perdere le matricole mentre cercano disperatamente un'aula e sopratutto perché molte volte neanche gli studenti più grandi sanno dove si trovano le aule e per chiedere informazioni sono inutili; per la precisione ero nell'aula 4 (non una di quelle sotterranee almeno) quando mi arrivò un messaggio, lo aprii e lessi: "Vediamoci nella piazza di fronte al Poli alle due e mezza." Era di Roberta e, fidatevi, avrò anche la memoria di un pesce rosso e l'intelligenza di un cetriolo, ma lo capisco quando qualcosa non va; in questo sono bravissimo. Quando stai due anni con una persona queste cose le impari. Osservai lo scorrere delle ore guardando nervosamente l'orologio ed era come se il tempo attorno a me scorresse più lento, avvolto da un profondo e appiccicoso strato di melassa. Come quando tieni la Nutella nel frigo e poi provi a infilarci dentro il cucchiaino, urlando per la rabbia, e quando riesci a tirare fuori qualcosa ti senti come Artù che ha estratto Excalibur dalla roccia. Quando il prof terminò la lezione quasi saltai dalla sedia, raccolsi tutto con fare frenetico e volai fuori dall'aula, urtando persone e balbettando scusa, a volte in italiano e a volte in inglese; corsi fuori dall'università, mettendomi di fretta il giubbotto e attraversai senza quasi guardare. La piazza era ricoperta di neve e il mio respiro e quello delle altre persone si condensava in tante nuvolette che facevano sembrare Torino più fumosa di quanto non fosse già; e mentre mi guardavo in giro, famelico di notizie come uno squalo a digiuno, famelico di risposte, caricato dall'attesa la vidi: era vicino a una panchina, in piedi. Mi avviai verso di lei e quando la raggiunsi le dissi subito: "Ciao, che è successo? Non mi hai neanche.. Insomma, sei stata piuttosto brusca prima." Lei sospirò e un'altra nuvoletta si aggiunse alle altre, mi guardò un attimo e poi tenne gli occhi bassi, fissi sulle scarpe; "Entriamo," mi disse indicando il bar dall'altra parte della strada, "preferisco parlare là, qua fuori si muore di freddo." Entrammo nel caldo del bar (una sensazione che per me, cresciuto sotto il caldo sole siciliano, è ancora stranissima) e, dopo aver ordinato due caffè, le chiesi: "E quindi?" Altro sospiro, mentre si passa la mano tra i capelli, quelli con cui giocava quando parla al telefono e  che a me piaceva tirare delicatamente; "Noi.. Noi non possiamo più stare insieme. Vedi, io ti voglio bene, ma non provo più.." "Cosa?" "L'attizzo, ecco." La guardai con gli occhi sgranati e feci una pausa riflessiva. Mi sembrava di aver ricevuto una martellata sui denti. "Non provi più.. L'attizzo?" Lei distolse lo sguardo concentrandosi sul tavolo, di sicuro molto più interessante di me in quel momento, e mi rispose di sì con un filo di voce. Non nominò nessun Danjuma il nigeriano o un Abdul, focoso kebabbaro, e neanche un Marco o un Michael, ma ebbi come l'impressione che quella sera avrei comunque dovuto abbassare la testa per rientrare in casa per quanto grandi fossero le mie corna. Perché ha distolto lo sguardo, capite? Questa volta sono io a sospirare, senza nessuna nuvoletta, chiedendole se è finita. Lei mi guardò e mi fece cenno di sì con la testa, "Sì, è finita, Alberto." Il mio nome, che tanto mi piaceva quando era lei a pronunciarlo, cadde come un sasso nel silenzio che seguì a quella frase. Arrivarono i caffè, lasciai perdere il mio e le dissi semplicemente ciao, con la voce tremante, scappando come un vigliacco per non far vedere a quella che ormai era la mia ex-ragazza che stavo piangendo come un bambino.

-2-

Quella corsa verso casa fu la più lunga della mia vita. Il mio mondo mi era crollato addosso di colpo, come un bel castello di carte. Entrai a casa e accesi lo stereo, mentre mi toglievo il giubbotto e lanciavo lo zaino sul letto. Non ricordo bene cosa ho fatto, immagino di aver girato per casa, cercando di riuscire ad afferrare col mio cervello, che in quel momento aveva le stesse capacità di uno yogurt alla banana, quello che era successo. Ovviamente non ci sono riuscito, mi aspettavo un altro sms che mi diceva "Guarda che scherzo!" Per farvi capire, mi sembrava verosimile anche ricevere qualcosa di simile a "Quella era la mia gemella di cui non ti ho mai parlato, perdonami e perdona quella cretina." Avrei ritenuto credibile qualunque cosa, qualunque film, qualunque scherzo. Mi ricordo che mi misi a leggere, cercando di entrare in quei libri, di non pensare. A un certo punto iniziai a pensare di essere anche io un personaggio di un libro, solo che il mio autore, anzi, la mia autrice aveva cambiato la bozza del mio libro mentre era in preda alle sue cose, piangendo e mangiando gelato, borbottando che gli uomini sanno solo far soffrire; avrei davvero voluto mandarla al diavolo, maledetta autrice. Mi ripresi poi quando mi misi a letto, vivo e vivace quanto uno zombie triste; ci misi del tempo ad addormentarmi, mentre il mio cervello passava dalla modalità yogurt alla modalità vuoto assoluto, ma alla fine ci riuscii. Il mattino dopo mi svegliò il citofono, uno dei peggiori modi per svegliarsi; rotolai giù dal letto e mi ritrovai davanti all'infernale apparecchio senza la minima idea di come io fossi riuscito ad arrivarci. "Chi è?" chiesi, biascicando; mi risposero ruttando "Fammi salire, idiota." Ecco, è qui che inizia la parte avventurosa della mia storia.

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Capitolo 2
*** Incontri e viaggi speciali. ***


-3-

Avevo riconosciuto la persona al citofono senza che mi dicesse il suo nome e, visto in che modo è riuscito a parlarmi, devo darvi qualche informazione, così, per non farvi spaventare tra qualche riga.
Lui si chiama Marco ed è una matricola proprio come me; è uno sbruffone (in senso buono se così si può dire) e si sente molto sicuro di se, nello sport, nel rapportarsi con gli altri e, ovviamente, con le ragazze: ha le sue tecniche infallibili, così dice, per portarsele a letto e non perderebbe mai l'occasione di poterci onorare con una di queste perle di saggezza; da bravo ingegnere informatico sta anche lavorando a un programma chiamato "The List" su cui vuole inserire tutti i nomi e le caratteristiche di tutte le ragazze con cui ci ha provato con tanto di voto; vuole farla diventare anche un applicazione per il suo cellulare, rigorosamente Android.
L'aspetto fisico lo aiuta, essendo lui poco più alto di me, ma decisamente più atletico, con la carnagione scura e capelli neri tenuti sempre corti. Gli occhi lasciano un po' perplessi all'inizio: l'occhio sinistro è castano scuro, mentre l'altro è azzurro ghiaccio; la prima volta che me ne accorsi non riuscivo a smetterli di fissarli, ma dopo qualche tempo ci feci l'abitudine, come tutti.
Come avrete notato dal nostro dialogo di prima un'altra sua caratteristica è il saper ruttare a comando anche per minuti interi, dicendo intere frasi e terminando con un commento soddisfatto come "Questa, amico mio, è poesia."
Ma torniamo a noi, io sapevo già che quando avrei aperto la porta Marco sarebbe stato vestito impeccabilmente come sempre, senza un capello fuori posto, e la cosa sarebbe risaltata ancora di più visto il mio stato in quel preciso momento: boxer, ciabatte e la solita scultura d'arte moderna sulla testa, e infatti quando aprii la porta vidi che era vestito proprio come mi ero aspettato, con un pizzico di trascuratezza dato dalle Converse che aveva ai piedi a cui è decisamente affezionato; non appena entrò mi abbracciò un attimo e poi mi disse "Ho saputo che quella tipa ti ha mollato. E ti ha anche fatto diventare un cervo, la stronza."
Io lo guardai con gli occhi spalancati e risposi di sì, che era vero, ma lui come l'aveva saputo? "Il mondo è piccolo e poi a Medicina c'è mia cugina, ti ricordi?" Ci pensai un attimo e poi mi ricordai: Andrea è la cugina torinese di Marco che, guarda caso, era diventata amica di Roberta.
Chiusi gli occhi, mi sedetti sul divano e chiesi a Marco di raccontarmi ciò che sapeva; lui ruttò un "Comandi!" con tanto di saluto militare e iniziò a raccontare: da qualche mese Roberta provava per me solo amicizia senza però riuscire a dirmelo; in questo stato confusionale si era gettata tra le braccia (o per meglio dire tra le gambe) di un figlio di papà che era nel suo corso, finendo poi per innamorarsi di lui. E fu così che, da timido cerbiatto qual'ero, divenni un possente cervo con un paio di palchi altrettanto imponenti. Dopo che ebbe terminato gli chiesi "Marco, ma com'è possibile? Stavamo insieme da due anni, le ho dato tutto me stesso e lei cosa fa? Mi tradisce con uno solo perché ha il portafogli più grande del mio?". Lui mi diede una pacca sulla spalla e replicò "Vedi Alby, certe ragazze dopo tanto tempo si annoiano e hanno bisogno di nuovi stimoli, nuove esperienze.. Con questo non voglio dire che lei non abbia sbagliato, è stata proprio una stronza, ma tu ora non pensarci. Devi uscire, divertirti e sopratutto pensare a..?" "A scopare," risposi io sorridendo, " lo so." Sorrise anche lui e poi iniziò ad intonare una delle sue solite "poesie", facendomi cascare dal divano per le risate. "Dai, ora devo andare che ho lezione, magari avessi anche io il venerdì libero!".
Lo accompagnai alla porta e ci salutammo; mentre la chiudevo pensai che in fondo avesse ragione: dovevo distrarmi e cercare di non pensarci più. Animato da questo proposito mi feci una doccia, mi vestii e andai a farmi un giro per il centro. Mentre mi allontanavo da Mirafiori sul mio fidato tram, Torino iniziava a farsi sempre meno fumosa (se escludiamo tutti i fumatori che girano per strada) e meno caotica, più ordinata; arrivai alla mia fermata, la stazione di Porta Nuova, perennemente in restauro, e scesi allontanandomi dalla folla, desideroso di compiere a piedi l'ultimo tratto.
Passai dentro un piccolo parco e vidi un ragazzo e una ragazza che scrivevano le loro iniziali, sopra le loro orme, lui è più alto e per questo la abbraccia da dietro toccandole la testa con il mento; li invidiai, invidiai la loro felicità, ma poi mi feci forza dicendomi che anche io, un giorno, sarei stato felice come loro, forse anche di più. Passai sotto ai portici con la neve che turbinava per le strade, incurante delle macchine che ricopriva; entrai in una libreria antiquaria e mi misi a osservare i volumi senza acquistare niente, ma mi piacque stare lì, al caldo e circondato da quell'odore di antico, ma non vecchio.
Uscii nuovamente al freddo, ma stavolta misi le cuffie e premetti play: Ghost 'N' Stuff iniziò a darmi la carica mentre attraversavo Piazza Castello, apparentemente senza meta e forse lo ero davvero, ma in fondo a chi importava? Sorrisi quando riuscii a prendere un singolo fiocco di neve con la mano, quando feci il photobomber a una famiglia tedesca che si stava facendo una foto davanti a Palazzo Madama, sorrisi persino quando scivolai su un mucchio di neve come una pattinatrice ubriaca. Prima che me ne rendessi conto si fece buio e arrivò una mia amica: la fame; così entrai al McDonald's e ordinai uno dei miei soliti menù enormi, pensando che forse in quei panini c'era l'ultimo cassiere che era stato licenziato.
Dopo aver preso tutto mi avvicinai a uno dei banconi e mi sedetti vicino alla presa, lontano da un gruppo di ragazzi seduti a un tavolo; iniziai a mangiare (o forse è meglio dire divorare) il primo panino quando entrò un ragazzo straniero, forse brasiliano dall'accento,  con un trolley al seguito. Era decisamente un bel ragazzo, vestito molto bene, con i bicipiti che scalpitavano inquieti sotto le maniche della camicia color pesca e i capelli neri nascosti da una coppola; mentre aspettava la sua ordinazione gli squillò un telefono in tasca, rispose e lo sentii dire che è appena arrivato a Torino e poi alcune frasi su un posto letto a Caselle, cosa che mi fece pensare che fosse uno studente universitario anche lui.
Mi concentrai sul mio secondo panino e dopo qualche minuto sentii una voce con un accento particolare, la sua voce, che mi chiede se può sedersi al mio posto per usare la presa; io gli risposi con un "Sì certo, figurati" e mi spostai sullo sgabello accanto; "Sei stato gentile, grazie davvero." mi disse, io gli risposi che non doveva preoccuparsi, in fondo io la presa non la stavo usando.

A un certo punto gli chiesi cosa studiasse e lui dopo una risatina mi rispose "No, no, io non studio. Faccio un lavoro che mi porta a girare per tutta Italia e a volte anche in Svizzera o in Francia e quello con cui parlavo era un mio cliente."
"Capisco," replicai sorseggiando la mia Coca-Cola "ma di dove sei?" Mi disse che era brasiliano e che era arrivato lì in Italia da qualche anno, poi mi guardò e mi chiese se io studiassi e io gli dissi di sì, "Studio Ingegneria Meccanica qui al Politecnico."
"Fai bene!" Replicò, "Io mi sono sempre pentito di non aver studiato. Studiare è importante. Tu però hai qualcosa che non va, vero?" Sorrisi, un sorriso mesto e dolce come l'aceto, "E' così evidente?" "No, ma io sono abituato a vedere queste cose." Finii la Coca e risposi "La mia ragazza mi ha mollato, dopo due anni che stavamo insieme. Mi sento distrutto, anche se sto cercando in tutti i modi di non pensarci."
"Fai bene," risponde lui mentre controlla il cellulare,"anzi benissimo! Forse è per queste cose che mi piacciono gli uomini e poi i miei clienti queste cose non le fanno mai." Lo guardai un attimo e poi chiesi, già sapendo quale sarebbe stata la risposta, "Ma che lavoro fai tu?" Lui mi guardò negli occhi e disse "Andiamo, hai capito che lavoro è il mio. Ogni tanto, quando mi capita l'occasione di parlarne con uno sconosciuto, faccio questo discorso. Mi fa sentire meglio parlarne con qualcuno che non conosco. Non che io mi possa lamentare, è un lavoro pagato molto bene ed è anche divertente se capisci cosa intendo."
Eccome se intendevo cosa volesse dire. Insomma, stavo parlando con un escort brasiliano di lusso. "Tu non sei torinese, vero? Di dove sei?" gli risposi che ero siciliano e lui disse "I siciliani sono davvero molto bravi, ma un po' tirchi, mentre i migliori sono i sardi, non sai che scopate ho fatto lì." E io non avevo intenzione di sapere i dettagli, quindi me ne uscii con un goffo "Direi che hai trovato un ottimo lavoro." Lui staccò il caricabatterie dalla presa e disse "Lo so, lo so. Io vado, il mio cliente mi sta passando a prendere, è stato un piacere parlare con una persona gentile come te. E non pensarci a quella ragazza, con quel sorriso ne troverai altre cento. Buona fortuna con lo studio!" e se ne andò, mentre lo salutavo con la mano farfugliandogli un ciao. Buttai il mio vassoio e uscii anche io, avviandomi verso la stazione; vidi una Ferrari bianca che si allontanava dal fastfood e pensai che con la crisi che c'era un lavoro come quello l'avrebbero voluto tutti e che quelli a cui non andava tanto bene si sarebbero di sicuro adattati.
Camminai cullato dalla musica che una violinista suonava in Piazza San Carlo, rapito dallo spettacolo insolito, per me, della neve che cadeva e ricopriva ogni cosa. Ero sul tram quando mi accorsi che quel ragazzo mi aveva detto che sono carino. Era gay, è vero, ma cazzo mi aveva fatto un complimento. Quello sì che mi fece sorridere.

-4-

Passò qualche giorno, la routine quotidiana mi risucchio nel suo caos di orari, di lezioni e di studio e pian piano iniziai a pensare sempre meno a Roberta. Non mi ero dimenticato di lei, ma semplicemente la accantonai, chiusa in un angolino remoto della mia mente, e ci riuscivo quasi sempre, davvero. Eccetto la mattina, quando la forza dell'abitudine mi faceva cercare la nostra foto, e la sera mentre cercavo di dormire, che è il momento in cui analizzo la giornata appena trascorsa e organizzo la successiva; è una mia abitudine, cerco di evitare problemi inaspettati, ma ora vi chiedo: dopo che avete conosciuto Marco secondo voi potevo farcela? No, ovviamente.
Una sera, era passata una settimana dal mio incontro insolito al McDonald's, ero sdraiato sul letto a fissare il soffitto e, mi duole ammetterlo, pensavo di chiedere a Roberta di tornare insieme; la mia mente contorta pensava che, se eravamo stati insieme due anni senza nessun problema, potevamo tornare insieme. Difficoltà? Le avremmo superate. Il problema dell'attizzo? Le avrei fatto tornare in mente perché prima lo provava nei miei confronti. Le mie corna? Ci avrei messo una pietra sopra. Ad essere sincero non era per niente un bel momento. Mentre pensavo al discorso da farle mi arrivò un messaggio di Marco con scritto "Hey Alby, domattina facciamo un giro con alcuni miei colleghi e Andrea, non accetto un no come risposta. Tieniti pronto perché alle otto e mezza ti passo a prendere! P.S. Portati un cambio di vestiti. " Feci un sospiro a metà tra il seccato e il divertito e gli risposi che sarei andato con loro. Ovviamente iniziai a pensare all'organizzazione della giornata: i vestiti puliti c'erano, la barba era accettabile e per i capelli usai la Tecnica n°4 Per Avere i Capelli In Ordine (T.P.A.C.I.O. n°4) che consiste nell'andare a letto con i capelli in un completo disordine, facendo così si ha il 30% di probabilità di svegliarsi con i capelli in ordine. Dopo aver ricreato di proposito il caos sulla mia testa mi lanciai nel letto e mi addormentai subito.
Il mattino dopo mi ricordai di aver compiuto un gravissimo errore: non avevo impostato la sveglia. Corsi a rispondere al citofono, il dannatissimo citofono, e risposi urlando "Sono svegliooooo!!" Ci fu un po' di silenzio e poi una voce mi disse, con una calma glaciale "Io invece sono il postino e una volta avevo dei timpani." Mi scusai, pensando che non c'era modo migliore di iniziare la giornata se non con una figura di merda. Subito dopo arrivò Marco che mi disse di sbrigarmi e io, saltellando con una gamba dentro i pantaloni e l'altra fuori, gli risposi di andare al diavolo; seguì un discorso decisamente filosofico sulle professioni e le compagnie delle rispettive sorelle, finché non riuscii a vestirmi (senza pettinarmi, perché la Tecnica aveva funzionato) e a volare di sotto, dove mi aspettava una Fiat 127 color senape riconvertita a metano, una macchina così piccola che il bagagliaio era occupato interamente dalla bombola. Chiamata, e anche molto seriamente, il Bolide, quella era la macchina di Marco che, come le sue Converse, stonava un po' col suo lato elegante, ma faceva parte di lui; saltai nel comodo divanetto posteriore e salutai Andrea che era seduta davanti.
Andrea è una ragazza più alta della norma, con i capelli ramati tagliati sempre molto corti, un bel sorriso e uno sguardo ipnotico: se suo cugino ha gli occhi di due colori diversi i suoi sono caratterizzati dal mosaicismo cromatico, ovvero metà iride del suo occhio sinistro è castana, mentre sia l'altra metà che l'altro occhio sono di color verde smeraldo. Nonostante sia una ragazza gentile scherza proprio come Marco e fin troppo spesso li ho sentiti lanciarsi in una gara di "poesie" dopo aver bevuto litri di bevande gassate; diciamo che è una ragazza particolare, forse un po' un maschiaccio nel modo di vestire (con una passione per le magliette larghe), ma decisamente carina.
"Ciao Andy!" le feci con un sorrisetto , sapendo che le avrebbe fatto girare le scatole, "Non provare a chiamarmi ancora così, brutto.." Ma prima che potesse continuare venne censurata da un rutto di suo cugino che ci fece ridere tutti; "So già che mi farai qualche domanda al riguardo, quindi ti rispondo prima" continuò lei, "con Roberta non ci parlo da quando mi ha detto quello che ti ha fatto, come ha detto il mio cuginetto è stata proprio una merda. Davvero, non te lo meritavi.. E sapessi con chi l'ha fatto! E' un coglione totale." "Non ci pensare," mi fece Marco, "e anche tu, cuginetta, dovresti evitare di tirare fuori questi argomenti. Piuttosto Alby, prova a indovinare dove andiamo oggi!"
"Mmm.. Andiamo all'Otto Gallery?" 
"Acquaaa!" Mi risposero in coro. "E poi a cosa cazzo ti servirebbe il cambio di vestiti se andassimo in un centro commerciale?"
"Giusto, giusto. Mi portate di nuovo al Museo dell'Automobile?"
"Amico, credo che otto volte possano bastare, per adesso. E mi sembra che tu non abbia capito la storia del cambio."
"Sai che mi piace. Per il cambio lo sai che sono un deficiente. Un pranzo in collina?"
"Se prima era oceano ora stai risalendo il fiume," fece Marco "Almeno hai indovinato che stiamo uscendo da Torino."                                                                                           
"Non dirmi che stiamo davvero andando a fare quel viaggio negli States in macchina."      
"Ho detto che stiamo uscendo da Torino, non dall'Italia. Cos'hai in testa, le ragnatele?"
"Certo che no, la spolvero ogni tanto. Datemi almeno un indizio, dai!"
"Vediamo.." disse Andrea girandosi verso di me, "Dove stiamo andando c'è un bel porto e fanno della focaccia davvero buona."                                       
"Andiamo a Genova?" Chiesi con gli occhi grandi quanto due palline da tennis.
"Ebbene sì! Abbiamo pensato che ti potesse fare bene. E dormiamo anche là! Ah, per il costume non preoccuparti, te ne presto uno io."
"Ma siamo a Gennaio!! Ci sono cinque centimetri di neve!" Dissi  indicando il paesaggio fuori dal finestrino.
"Smettila di fare lo scemo e dimmi chi preferiresti ascoltare: gli U2 o i Green Day?" Mi chiese Andrea con il telefono in mano. Rifeci lo stesso sorrisetto di prima e risposi "I Daft Punk non vanno bene?" Domanda alla quale seguì un brutto gesto e Holiday.
Tra una risata e l'altra arrivammo a Genova che era, proprio come Torino, ricoperta di un candido manto di neve; parcheggiammo la 127 (che in questo senso era decisamente pratica) vicino l'acquario e poi ci incamminammo verso l'entrata. "Insomma," dissi io a un certo punto, "è proprio una giornata perfetta per un bel bagno." Marco mi diede uno spintone affettuoso e mi disse "Ma ringrazia che ti abbiamo portato qui invece che lamentarti del meteo." A questo punto fu lui a beccarsi uno spintone, ma da sua cugina; "Veramente l'idea dell'acquario l'ho avuta io," fece lei, "non prenderti il merito." Lui alzò gli occhi al cielo, "Sì, ma ti sarebbe venuta in mente se io non ti avessi detto che da piccolo voleva fare il biologo marino?"
"Forse no," replicò Andrea mentre mi si aggrappava al braccio, "ma oggi me lo spupazzo io. Tu corri a provarci con quella tua collega con una quarta di seno, riesco a vedere fin da qua che ti aspetta all'ingresso." Marco rise, mentre io mi chiedevo, rosso come un peperone e con un sorrisetto da ebete,  perché diavolo Andrea si fosse aggrappata al mio braccio come un pappagallo si aggrappa al suo trespolo; "Ti sbagli, cara. Con le donne bisogna far finta di essere indifferenti e dovresti saperlo." 
All'ingresso trovammo, oltre alla ragazza di cui parlavamo prima, altri due colleghi di Marco che non avevo mai visto prima; dopo aver fatto i biglietti ed evitato una foto con Splaffy, la mascotte dell'acquario, iniziammo il nostro tour. Quello di Genova è un bellissimo acquario, c'è di tutto: meduse, squali, pesci palla, persino i coccodrilli! Vi risparmierò le battute che ci siamo scambiati con Marco non appena abbiamo visto quant'era grande una tartaruga marina ("Tua sorella è ancora più grassa!") e neanche la soddisfazione che ho provato nel vedere l'orrore dipinto sulla sua faccia quando, con l'inganno, gli ho fatto vedere il millepiedi gigante; il resto della visita l'ho passato a chiacchierare con Andrea, a scherzare e, ogni tanto, io le spiegavo che pesce era quello o come faceva il polipo a cambiare colore; "Sei bravo a spiegare le cose, sai?" Sorrisi, "No, sono solo un po' fissato con gli animali. E poi mi piace aiutare gli altri. Mi fa stare meglio." Lei si mise en garde e mi puntò addosso una spada immaginaria, "Non sarai mica un novello Zorro?" Io usai la mappa dell'acquario come scudo facendola ridere e risposi "No, preferisco chiamarlo il complesso del supereroe." Riprendemmo a camminare per non perdere gli altri e continuai "Quando vedo qualcuno in difficoltà cerco sempre di dare una mano per tirarlo fuori da quella situazione e se non ci riesco sto male. Ma male sul serio, cioè mi viene il mal di pancia. E visto che mi succede con tutti ho deciso di chiamarlo complesso del supereroe. In altre parole, Andy, il tuo amico è un disagiato mentale."
Lei rise di nuovo (ho già detto che ha una bella risata?) e mi arruffò i capelli, "Non credo che tu stia così male, vorresti solo essere superman!"
"Non ti ho detto tutto! Ho anche paura delle vespe e delle api." dissi io, passando davanti a un terrario pieno di rane pomodoro.
"Non ci vedo niente di male."
"Ma ho così paura che, quando entra una mosca in casa, se mi passa vicino la testa mi nascondo sotto il tavolo o corro via dalla stanza pensando sia una vespa, nonostante io sappia benissimo che è una mosca!"
"Ok, questo è già più preoccupante. Facciamo una prova."
"Cosa intendi con..?" Ma prima che io potessi finire lei iniziò a girarmi attorno ronzando e io, cercando di non ridere, iniziai a correre agitando le braccia sotto gli occhi di tutti mentre Marco faceva finta di non conoscerci.
Quando il giro dell'acquario finì ci dirigemmo verso un ristorante dove, ovviamente, ordinammo tutti pasta al pesto. All'improvviso, mentre io stavo finendo la mia seconda fetta di torta, Marco mi chiese di uscire un attimo; io bofonchiai con la bocca piena e andai con lui, una volta fuori mi chiese se mi stavo divertendo e io risposi "Sì, certo. Ho come l'impressione che non mi divertissi così da tanto tempo. Tu invece? Come va con la bionda?" Lui sbuffò "Lei? E' un nove pieno, ma è fin troppo appiccicosa per i miei gusti. Ciò non toglie che qualcosa riuscirò a concluderla," e mi fece l'occhiolino, "quindi ti dovrai tenere mia cugina per un po' stasera, mentre io me la faccio in ogni posizione fisicamente possibile nella nostra stanza." "Resta anche lei?" chiesi, "Mi aspettavo che in albergo saremmo rimasti solo noi, i tre moschettieri." mi guardò con l'aria di chi la sa lunga e disse "Se con le donne sai come comportarti puoi convincerle a fare qualunque cosa, regola n°5." Sbuffai, "E sia, porterò tua cugina a fare un giro, ma mi devi un favore, compare." Lui  mi mise un braccio attorno alle spalle e disse "Te lo restituisco, tranquillo. Ora vai a finire la torta che è meglio. Ancora non riesco a credere che hai avuto la faccia tosta di chiederne un'altra dopo aver fatto il bis di praticamente ogni cosa." Alzai le spalle, "Che vuoi che ti dica? Quando ho fame ho fame."

-5-

Quando il pranzo finì (dopo la mia terza fetta di torta e il caffè) salutammo i due colleghi di Marco che tornarono a Torino, mentre il resto della comitiva, inclusa Ingrid, la tettona scandinava, si dirigeva verso la pensione che ci avrebbe ospitati per la notte. Pagammo le stanze (due doppie che solo in teoria furono divise in maschile e femminile) e portammo su i nostri miseri bagagli; sul pianerottolo, mentre io cercavo di aprire la porta, Marco propose di fare un giro la sera tutti e quattro "per divertirci tutti insieme." Le ragazze accettarono mentre io mi immaginavo già come sarebbe finita, ovvero con la padrona della pensione che si lamentava per i rumori molesti in tarda notte. Quando chiusi la porta chiesi a Marco se sarebbe andata così e lui, ghignando, mi rispose "Amico, cercherò di non farla urlare troppo." "Pfff," sbuffai, "non riusciresti a far urlare una donna neanche con un coltello in mano e la faccia da maniaco omicida." Lui raccolse la sfida, ed iniziammo:
"Tu ce l'hai così piccolo che quando devi pisciare devi usare le pinzette per prenderlo."
"Il tuo è così piccolo che stanotte userai soltanto una narice di Ingrid, altro che patata." Colpito e affondato.
"Tua sorella è così grassa che quando morirà dovranno seppellirla in una Multipla senza sedili."
"No, eh. La Multipla no." E mi ritrassi da lui, schifato. "Sai benissimo cosa ne penso."
"E invece andrà proprio così." Rispose lui soddisfatto.
"Ah sì? Beh, tua sorella l'ha preso così tante volte nel culo che ormai non si accorge più di dover cagare."
"La tua l'ha data via così tante volte che ormai è in saldo."
Gli risposi tirandogli una scarpa, che venne schivata abilmente, a cui lui rispose svuotandomi addosso mezza bomboletta di deodorante. Dopo aver fatto una ventina di minuti di sano wrestling sul pavimento ci lanciammo sul divano, sfiniti; "Vai a farti la doccia, che stasera si tromba!" Mi alzai ridendo e precisai "Casomai 'Vai a farti la doccia, che stasera trombo!' " Lui agitò la mano, "Non c'è bisogno di essere così pignoli su queste sottigliezze."
Dopo esserci lavati, vestiti e profumati (senza wrestling stavolta) bussammo alla camera delle ragazze e sentimmo la solita battuta del solito copione: "Cinque minuti!" Sospirammo avviliti, "Non cambieranno mai, vero?" feci io, "No, non accadrà," mi rispose Marco, "se esistono infiniti universi sono sicuro di una cosa: in tutti questi universi le donne chiedono altri cinque minuti per sistemarsi usandone in realtà almeno quindici." Mi sedetti sul pavimento, "Una costante multiversale quindi?" Lui seguì il mio esempio e disse "Sì certo, un po' come.."
"Gli autobus in sciopero quando devi prendere l'aereo?"
"Ovvio. Come anche la regola dell'ombrello: se ce l'hai non piove, se non ce l'hai arriva una tempesta monsonica ovunque tu sia."
"Allora anche la regola dei cassetti: quello che cerchi è sempre nell'ultimo che controlli."
"O quel piccolo buco nero in ogni lavatrice che fa sparire i calzini, sennò come te li spieghi quelli spaiati?"
"Ho come l'impressione che la vostra teoria faccia acqua da tutte le parti." Replicò una voce dall'alto.
Ci alzammo di scatto e ci trovammo davanti Andrea, o meglio, quella che sembrava essere Andrea: aveva degli stivaletti da neve in camoscio beige  ai piedi, seguiti da degli attillatissimi pantaloni in pelle neri, un top grigio, che mostrava come la natura fosse stata decisamente generosa con lei, e una giacca militare verde oliva; "Allora, come sto?" ci chiese la ragazza che si rivelò essere proprio Andrea, "Beh, stai davvero molto bene!" Risposi io non appena recuperai l'uso della parola, Marco le pizzicò una guancia e disse "Sei uno schianto, cuginetta." Lei sorrise, radiosa, "Grazie ragazzi, ho voluto provare qualcosa di diverso stasera. Alberto, ma stai bene? Sembra che tu abbia visto un fantasma." Scossi forte la testa, "Tranquilla sto bene, un piccolo calo di pressione." Certo, la pressione. Dopo un pochino uscì anche la bionda, infilata a forza in un vestitino rosa confetto, e andammo allo stesso ristorante del pranzo.
Quando entrammo dentro il cuoco scoppiò a piangere dopo avermi riconosciuto e, dopo avergli promesso che quella volta mi sarei limitato, ci sedemmo al tavolo. "Allora cosa prendete?" chiese il cameriere, "Alberto," mi disse Marco, "tu ricordati della promessa che hai fatto al cuoco." Alzai gli occhi al cielo, "Sì, sì, me lo ricordo. Vorrà dire che prenderò la grande grigliata mista." Sentii dei singhiozzi provenire dalla cucina e sospirai tra le risate degli altri, "Va bene, prenderò dei cannelloni alla ligure allora." Poi dissi sottovoce al cameriere "Passi più tardi che ordino il dolce." Andrea, seduta accanto a me, sorrise e scosse la testa, borbottando "Sei incorreggibile.."
Dopo una cena modesta, e dopo aver promesso al cuoco che prima di tornare in quel ristorante lo avrei avvisato due settimane prima, salutammo e uscimmo fuori. "Ragazzi," ci disse Marco, "io accompagno Ingrid alla pensione che non si sente bene. Voi fatevi un giro," e qui mi fece l'occhiolino, "ci vediamo dopo!" Lo salutammo e dissi sottovoce ad Andrea "Lo sai cosa stanno andando a fare, vero?" Lei sorrise e disse "Sì, infatti non capisco perché mio cugino continui a inventarsi cazzate. Allora, dove andiamo?" "Direi proprio di andare verso quella parte" replicai io, indicando a destra. Lei alzò un sopracciglio, "Perché di là? Non vorrai andare in quel parco?" Sbuffai, "Non sono un malato come tuo cugino, ho proposto di andare da quella parte perché c'è un irish pub e, visto che il clima non è proprio estivo, è meglio stare al caldo, no?" "Gne gne," fece lei sorridendo, "sei davvero insopportabile." Risi anche io, "Mai quanto lei, milady. Se ora vogliamo avviarci.." "Ecco, visto cosa intendevo? Sei odioso." "Minchia, sta parlando!" E continuammo a punzecchiarci così fino al pub. Dopo essere entrati al caldo (ancora quella strana sensazione) ci sedemmo a un tavolo e chiamammo un cameriere; "Cosa vi servo, ragazzi?" "Vediamo," dissi, " io prendo una scura artigianale da mezzo litro." Lui lo appuntò e poi fu il turno di Andrea.
 "Io invece prendo una Coro.." ma si bloccò vedendomi scuotere lievemente la testa.
 "Cioè, intendevo una Moret.." scossi nuovamente la testa.
"Ok, prenderò una Nast.." scossi la testa con più foga delle altre volte.
"Volevo dire una bion.."  la bloccai per l'ennesima volta.
"Ok," sospirò lei, "Prenderò la stessa che ha preso lui." E io, finalmente, annuii.
Dopo che il cameriere, visibilmente scocciato, se ne andò lei mi tirò un calcio sotto al tavolo e mi disse "Ecco cosa intendevo quando prima dicevo che sei insopportabile!" Risi,"Volevo solo consigliarti." Lei alzò le braccia, incredula e divertita allo stesso tempo, "E non potevi dirmelo a voce?" "Nossignora," feci io appoggiandomi allo schienale della sedia, "perché facendo così hai imparato una delle più grandi lezioni che la vita possa mai insegnarti." Lei scoppiò a ridere e poi disse "E quale sarebbe, sentiamo." Assunsi una posa da macho, "Semplicissimo: quando vai in un irish pub con me prendi sempre quello che prendo io." "E' arrivato," replicò lei, "l'esperto di birra." "Quanto scommettiamo che ho ragione io?" Lei mi guardò con aria di sfida, "Scommetto un secondo giro offerto da chi perde." "Così ti voglio!" ruggii, "Qua la mano!" E siglammo il patto.
Al terzo giro Andrea si accorse che la regola riguardante me e la birra funzionava e ammise che aveva torto. "Cavolo se ci sai fare." "Non sono fissato solo con gli animali" replicai divertito io, "Iniziamo ad avviarci verso la pensione?" "Sì, credo sia un'ottima idea" rispose lei, alzandosi. Io rimasi un momento fermo a notare quanto la natura fosse stata generosa con lei anche dietro e poi mi alzai di scatto, pagai io, nonostante le sue proteste, e uscimmo fuori. "La prossima volta pago io però" mi disse lei, agitandomi minacciosamente un dito davanti la faccia; "Va bene," dissi io sorridendo, "la prossima volta è tutta tua." In quel momento iniziò a nevicare e, come io e Marco avevamo previsto, nessuno dei due aveva un ombrello;  dopo che glielo feci notare scoppiammo entrambi a ridere e, dopo un po' di tempo, lei si strinse a me. "Scusami, ma fa freddo.." La presi a braccetto e dissi "Non preoccuparti tu, non c'è niente di male." "Ma tu sei stato appena lasciato, Alby, e non mi va che pensi che sto cercando di saltarti addosso, ecco.." Le diedi un buffetto sul naso, "Smettila, scema. Fa freddo, è normale. E poi non devo pensare a lei, ricordi?" "Sì, sì, però.." e iniziò a tossire. Io mi fermai e le chiesi "Tutto ok?" "Sì," rispose, "solo un po' di tosse." "Mmm.." feci io, "Hai la gola un po' scoperta.. Tieni metti questa" e le porsi la mia sciarpa.
"Ma.. No, non posso."
"Perché?"
"Ma perché è la tua e se la dai a me ti verrà il mal di gola!"
"E a te verrà una broncopolmonite se non la indossi. Mettiti 'sta cosa senza fare storie."
"Ma.."
"Niente ma. Ti sto forse offrendo una scelta?"
"No, però.."
"Niente però. Anzi, ti offro una scelta: o la sciarpa o la giacca."
"Dammi quella cazzo di sciarpa, ho bell'e capito di aver perso."
"Brava. Su, avvicinati a me."
Arrivammo alla pensione e, quando bussai alla porta della mia camera, uscì fuori Marco in mutande; "Ehilà," fece, "com'è andata?" "Bene, bene." rispondemmo in coro. Dopo un momento di imbarazzo chiesi "Allora, con le stanze come ci organizziamo?" "Ehm," esitò Marco, "Ingrid si è addormentata di qua, quindi se non è un problema per voi dormire insieme.." Stavo per rispondere che magari non era il caso, ma Andrea mi anticipò dicendo "Tranquillo, va benissimo. Buonanotte allora." "Buonanotte!" rispose lui e corse dentro. "Sicura che vada bene?" Le chiesi, "Non ho neanche il pigiama." Lei agitò la mano mentre apriva la porta, "Tranquillo anche tu, e poi noi siamo amici, no? Gli amici le fanno queste cose." "Beh sì, solo che mi toccherà dormire in mutande.." Sorrise, posando le chiavi sul comò, "Non sbircio, promesso."
"Sì, ma.."
"Niente ma."
"Però.."
"Niente però. Ti sto forse offrendo una scelta?" Disse lei, con quella gioia selvaggia che provi quando puoi usare con qualcuno la stessa frase che ti ha detto poco prima.
"Va bene," mi arresi, "allora vado prima io in bagno."
Dopo essere uscito dal bagno (ci misi un po' di tempo a causa della birra) la trovai ad aspettarmi con addosso solo una maglietta enorme che le arrivava a metà coscia; "Tranquillo, non ho solo questa" mi disse lei, come se mi leggesse nel pensiero, prima di chiudersi nel bagno. Io mi svestii e mi infilai sotto le coperte, aspettandola e sperando che il mio missile intercontinentale non decidesse di alzarsi in volo di botto solo perché stavo per dormire con una ragazza accanto.
Lei uscì, si mise sotto le coperte e spense la luce. "Beh, buonanotte allora" mi disse poi; "Buonanotte, Andrea" replicai. "Ti dispiace se, sempre per il discorso del freddo.." Sorrisi, "Cosa?" "Mettiti a pancia in su." "Ok, fatto" le risposi; lei poggiò la testa sul mio petto, fece passare il mio braccio attorno alle sue spalle e si avvinghiò a me. "Spero che per te vada bene.." mi chiese, titubante. "Shhh.." le risposi io.
E dormimmo così, abbracciati. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

-6-

Il mattino dopo fu uno dei risvegli più belli che potessi mai sognare, se eliminiamo un piccolo particolare. Procediamo con calma.
Aprii gli occhi e mi resi conto che non era camera mia; stavo per mettermi a sedere di scatto, quando mi ricordai cos'era successo il giorno, e sopratutto la notte, prima. Lei era ancora lì, con la testa sul mio petto, che dormiva con un sorrisetto in faccia; sorrisi a mia volta e fu in questo momento che mi accorsi del problema. Il missile alla fine si era alzato in volo e si vedeva nonostante le coperte.
Immaginatevi lo scenario peggiore che possiate immaginare.
Fatto?
Vediamo se avete vinto.
Proprio mentre mi accorgevo di tutto questo, sgomento e impotente, Andrea si svegliò. Mi sorrise e mi disse con un sussurro "Buongiorno." Sorrisi anche io, imbarazzato, e risposi "Buongiorno, hai dormito bene?" Nel frattempo supplicavo la dea Sfiga di chiudere un occhio per stavolta e di evitarmi questa figura di merda; "Beh sì, abbastanza bene. Tu inv... Alberto?"  Grazie mille, dea della Sfiga.
"Sì Andrea?"
"Perché il tuo piccione ha preso il volo?" Chiese lei allontanandosi un pochino da me.
Sospirai, "A volte capita che di prima mattina decida di fare due passi, ecco."
"Quindi non c'entro io, vero? Insomma, per il discorso di ieri.."
"Quello con cui mi hai detto che non volevi farmi pensare di volermi saltare addosso, sì me lo ricordo."
"..Ecco sì, proprio quello. Quindi non.."
La bloccai, cercando di salvarmi in calcio d'angolo. "Dammi un secondo."
Corsi in bagno e mi chiusi dentro, maledicendo la Sfiga, i suoi parenti e i suoi amici, e nel frattempo richiusi il piccione dentro la gabbia con un po' d'acqua gelida. Tornai a letto e dissi "Andrea non voglio che pensi che sia colpa tua, è una cosa che capita. E' normale. Volevo ringraziarti per avermi fatto passare questo weekend, per avermi fatto stare bene. E' sopratutto merito tuo visto quello che ha fatto tuo cugino tutta la serata di ieri," e qua lei sorrise, "quindi.. Beh, grazie." "Non c'è bisogno che mi ringrazi," mi rispose," però devi farmi un favore." Risposi che l'avrei fatto e lei mi disse di sdraiarmi, senza mettermi sotto le coperte, e di chiudere gli occhi; io, con una parte del cervello che lavorava senza sosta per far risvegliare il piccione contro la mia volontà, ubbidii.
Fruscii.
Altri fruscii e un cigolio, sento un pochino di freddo.
"Andrea, ma che..?" "Shhh."
Altro cigolio.
"Ok, ora puoi aprire gli occhi."
Lo feci e me la ritrovai accanto con in mano un'enorme palla di neve.
"No. No. Enne o." E invece lei colpì, con estrema precisione aggiungo, prima la faccia e poi il piccione che nel frattempo cercava di scappare. Sputacchiai, ansimante, mentre diventavo un ghiacciolo e mentre lei si rotolava sul letto dalle risate. "L'hai voluto tu!" E prima che potesse accorgersene le lanciai la coperta addosso chiudendola come se fosse un sacco; a quel punto iniziai a farle il solletico finché lei non urlò pietà e mi implorò di farla uscire. Aprii il "sacco" da cui spuntò la faccia rossa e ansimante di lei.
"Sei proprio odioso, sai?" Disse mentre si liberava dal resto della coperta.
"Hai iniziato tu, o sbaglio?"
"Futili dettagli. Ora fila a svegliare mio cugino e quell'altra così possiamo vestirci."
Mi alzai, "Va bene, comandante."
"Alby," sentii, "aspetta."
"Dimmi, Andrea."
E mi diede un abbraccio, che ricambiai.
"Ora fila davvero però," mi disse staccandosi, "non vorrai tornare a casa in mutande, vero?"
"Gne gne." E uscii dalla camera.
Bussai una volta, senza ottenere risposta. Bussai due volte e questa volta sentii un rumore molto simile a quello che fanno gli autobus mentre accelerano seguito da un "Che schifo!" La porta si aprì e Ingrid corse fuori, con una faccia decisamente sconvolta; io entrai e vidi Marco che mi sorrideva steso nel letto, con le mani incrociate dietro la testa, e gli dissi "Ma cosa gli farai mai tu alle donne?" Lui rise, "Il fascino di una dichiarazione d'amore eterno fatta ruttando non ha eguali, amico mio, non ha eguali!" Gli tirai le sue mutande in faccia e gli dissi che andavo a farmi una doccia. Quando uscii lo trovai già pronto e quando gli chiesi come avesse fatto mi rispose che aveva fatto la doccia con Ingrid nel bagno delle ragazze. "Come hai fatto a convincerla?" Ci pensò un attimo e poi mi disse "Beh, era solo un ruttino, niente di che. Ne abbiamo fatta di ginnastica ieri." Scossi la testa mentre saltellavo per mettermi i pantaloni, "No, non quello. L'altro problema." Mi guardò, dubbioso, "Quale problema?" Riuscii a infilarmi i pantaloni, "Andiamo, so che ti chiamano Tempesta." Lui sorrise soddisfatto, "Perché le lascio tutte sottosopra?" "No, perché vieni in un lampo." Feci appena in tempo ad abbassarmi per schivare il deodorante, ridendo.
Quando fummo tutti pronti (e quando io e Marco finimmo di tirarci addosso le cose) andammo a fare colazione nel bar accanto alla pensione dove presi un solo cornetto tra lo stupore del resto della combriccola. "Mi rifarò a pranzo," dissi, "vedrete." E infatti, dopo aver girato un altro po' per Genova e dopo aver visto il porto, tornammo allo stesso ristorante. E subito il cuoco iniziò a strepitare, agitando un cucchiaio di legno sporco di sugo, dicendo che dovevo avvisarlo, che oggi aveva la giornata piena e che non poteva farsi venire un altro esaurimento nervoso.
"Senta," dissi io con calma, "non potremmo trovare un accordo? Potrebbe farmi un menù a sua scelta così non le rubo troppo tempo."
Seguirono urli e insulti in genovese, poi una crisi isterica, ma alla fine si arrese.
Mi sedetti al tavolo e comunicai agli altri la mia vittoria, "Finalmente si mangia," dissi, "ho una fame che non ci vedo."
"Per chi è il menù bimbi?"
Rimasi in silenzio, mentre il cuoco mi guardava con malvagità da dietro il vetro delle porte della cucina; alla fine, tra le risate degli altri, dissi "E' mio" con la voce più funerea possibile. "Maledetto cuoco," fu il mio giudizio dopo aver spazzolato tutto, "non posso neanche lamentarmi." "Perché?" Mi chiese Marco,"Di solito questa è la tua merenda." Sospirai, "Lo so, però era buono." "Ben ti sta," mi disse Andrea, "così impari a limitarti." Presi le mie posate e dissi "Marco, c'è qualche problema se mangio tua cugina?" Con nonchalance lui rispose "Assolutamente no, fai pure." Questo fece ridere un po' tutti e mi accorsi che quando Andrea rideva io stavo meglio e forse se ne accorse anche lei, forse per quello si tenne stretta a me quando camminavamo verso la macchina. E forse sempre per questo motivo si mise nel sedile posteriore insieme a me, facendomi ascoltare alcune canzoni dal suo telefono per poi finire con la testa sulla mia spalla. Quando arrivammo a casa mia era buio, salutai Marco e lo ringraziai della sorpresa che mi aveva fatto, "Non c'è problema Alby, sei mio amico e mi sembra il minimo dopo quello che ti è successo." Insieme a me scese anche Andrea che, con la scusa di accompagnarmi al portone, mi seguì; "Tu ce l'hai il mio numero?" mi chiese, "No, veramente no" risposi. "Tieni" e mi diede un foglietto.
"Ora però devo andare, Alby."
"Lo so, lo so. Ancora grazie per il weekend."
"Figurati. Ciao, scemo." Mi diede un bacio sulla guancia e andò verso la macchina.
Io balbettai un ciao e poi rimasi sorridente come un ebete finché non mi misi a dormire, per la seconda volta da quando mi scoprii cornuto, felice. 

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Capitolo 3
*** Bere. A volte è meglio, altre no. ***


-7-

Il mattino dopo mi svegliai con un sorriso un po' ebete stampato in faccia al pensiero che ora potevo chiamare Andrea se mi andava di farlo, e quella mattina mi andava, avrei voluto davvero farlo.
Ma poi ci ripensai. Lei mi aveva fatto capire, e anche chiaramente, che non voleva saltarmi addosso come un falco che si avventa dall'alto su un coniglietto un po' rincoglionito che sta fermo in mezzo a un prato; quindi, per eliminare la tentazione, non lessi neanche il suo numero nel foglietto, ma lo nascosi nel mio portafogli.
L'avrei chiamata, o cercata in altri modi, ma non quel giorno.
Continuai ad andare a lezione, con le ore che non passavano mai, e mentre gli altri prendevano appunti io lo facevo distrattamente, preferendo disegnare robot giganti, auto anfibie e camion capaci di portare due carri armati  contemporaneamente. Martedì stavo tornando a casa quando mi squillò il cellulare, lo presi dalla tasca e lessi il nome più temibile che conoscevo e conosco.
"Ehm, ciao mamma" risposi.
"Se non ti chiamassi io tu ti dimenticheresti di me, ammettilo."
"Ma no, mamma. Sono stato un po' impegnato e.."
"Per una settimana? Sette giorni di fila? Io mi ero preoccupata!"
Sospirai, "Ma', ho passato un brutto periodo e.."
"Che è successo al mio batuffolino di panna montata?" Mi chiese col tono di voce improvvisamente intenerito.
Sentendo quel nomignolo diventai rosso mattone. "Vedi, Roberta mi ha lasciato."
"Piccolo mio! Sei stato tanto male, gioia de mammà?"
"Beh abbastanza, ma ora sto meglio. Marco mi ha dato una mano."
"L'ho sempre detto che era un bravo ragazzo, lui. Ma perché ti ha lasciato?"
"Non mi amava più, l'ha capito dopo che mi ha tradito credo, e quindi.."
"Aspetta, ti ha tradito?"
"Sì, ti stavo raccontando proprio.."
"Quella puttana!"
"Ehm, mamma, non esageriamo ora, insomma.."
"Ah, ma appena incontro sua madre al supermercato! Voglio vedere se non gliene canta quattro anche lei!"
Sospirai nuovamente, "Mamma, ormai è una cosa passata. Piuttosto, il lavoro come va?"
"Oh, quello molto bene. Ho finito proprio ieri l'ultimo pezzo."
"A cosa hai dovuto dare il tuo tocco magico stavolta?" Chiesi, scendendo dal tram.
"Stavolta è toccato a un basso. Ho fatto il corpo verde con dei cerchi di vari colori e una saetta che correva lungo tutta la tastiera. Se solo mi lasciassi fare così anche il tuo.."
"Mamma sai già cosa ne penso. Per adesso voglio godermelo così."
"Ma nero è così monotono! Non importa, riuscirò a convincerti prima o poi. Ti passo papà che è appena tornato. Tu cerca di non buttarti giù e ricordati che noi siamo qua per qualunque cosa. Un bacione."
"Grazie mamma un bacio anche a te, ti voglio bene." Aspettai che rispondesse mio padre.
"Pronto?"
"Ciao papà, come stai?"
"Bene, tu invece?"
"Abbastanza bene, sono stato un po' giù."
"Ho sentito, ho sentito. Ora va meglio?"
"Sì, sì."
"Ok. Bene, allora ci sentiamo."
"Ok. Ciao papà."
Questa è una normale conversazione con mio padre. Somiglio molto a lui come carattere, siamo entrambi calmi e amanti della routine; ci piace leggere e cucinare, siamo entrambi calmi e tranquilli. Mia madre invece è di tutt'altra pasta: artista con la mania del "più è colorato, meglio è", molto giovanile e senza peli sulla lingua (non ci ha pensato due volte prima di definire Roberta "puttana"). Somiglio molto a lei fisicamente, ho i suoi capelli e i suoi occhi, verdi, mentre mio padre ha i capelli neri e gli occhi scuri.
Anche per questo vado più d'accordo con lei e parliamo più a lungo; io e mio padre invece, da veri uomini, ci scambiamo solo le informazioni essenziali. Mentre entravo dentro casa mi arrivò una mail, andai a controllare ed era una foto di una scatola piena di stecche di cioccolato seguito da un messaggio di mia madre: "Pacco in arrivo! Queste ti faranno stare meglio!" Sorrisi, una cosa che adoro di mia madre è il suo tenersi a passo con i tempi.
Chiusi la porta e feci partire lo stereo mentre, nel frattempo, posavo lo zaino e il giubbotto. Mi resi conto però che c'era uno strano odore in casa; andai in cucina e vidi l'orrore: il sacchetto dell'umido era pieno e, sopratutto, in putrefazione. Mi rimboccai le maniche e presi il famigerato sacchetto, feci un nodo ben stretto e mi avviai verso la porta, ma prima che ci potessi arrivare sentii un rumore simile a uno sciaff.
Sì, sciaff.
Sapevo già cos'era successo, quindi chiusi gli occhi, presi un respiro profondo e mi girai. Il sacchetto si era spaccato e ora il pavimento era coperto di bucce varie in decomposizione, composti derivati da chissà cosa e una sottospecie di melma color rosmarino. Imprecando e ripassando il calendario andai in bagno, mi misi un paio di guanti monouso e iniziai a raccogliere tutto, melma compresa, ma ci riuscii solo perché aveva la consistenza di un budino. Mi fermai per restituire il pranzo al mondo (nel water fortunatamente) e poi scesi finalmente a buttare il sacchetto. Tornai su, ma l'odore c'era ancora, andai nuovamente in cucina e vidi che c'erano anche i piatti sporchi nel lavandino. Dopo aver lavato i piatti, passato la scopa e lo straccio per tutta la casa, cambiato le lenzuola e buttata altra spazzatura mi chiesi perché quella dannata puzza non andasse via.
Ovviamente non avevo contato la merda sotto la scarpa.

-8-

 Un giorno, poco tempo dopo la chiamata di mia madre, mentre mangiavo in mensa, notai un volantino di una discoteca su un party che si sarebbe tenuto quel giovedì. Pensai subito di avvertire Marco visto che ci sarebbe stato da divertirsi, e così lo chiamai.
"Hey, idiota!" Dissi non appena rispose alla chiamata.
"Ma va a cagare, stavo dormendo. Lo sai che oggi ho il giorno libero."
"Spegni il cellulare la prossima volta. Senti, c'è questa festa giovedì, ho letto il volantino ora; ci andiamo? Facciamo quattro salti."
"Sì, in padella. Ti ricordo che io non ho il venerdì libero. Ma.."
"Ma..?"
"Ma chi se ne frega. Alle otto sotto casa tua?"
"Perfetto. Saremo solo io e te?"
Ma non ricevetti risposta perché già russava come una motosega alla massima potenza. Chiusi la chiamata e mi chiesi perché avevo fatto quella domanda. Cosa volevo sapere veramente? Scossi la testa come per scacciare quei pensieri, ma la verità era che volevo tornare a quella notte con Andrea. Solo che non me ne accorsi.
Arrivò il grande giorno, quello della festa. Io sono molto modesto, ma quella sera ero proprio figo: scarpe grigie, jeans neri, camicia bianca e per finire il mio giubbotto di pelle nero. Mi sistemai addirittura i capelli, un evento più unico che raro.
Marco arrivò in orario col bolide e sfrecciammo subito verso il club. "Allora," mi chiese, "te li sei portati?" "Gli assorbenti? No, mi devono venire la settimana prossima." Sospirò, "Intendo i preservativi, coglione."
"Tua sorella. Comunque no, non li ho portati. Perché me lo chiedi?"
Ci mise un po' a rispondere, ma alla fine disse "Così, per curiosità. Io i miei li ho portati, di certo non esco senza."
"Cosa sei, un moderno Casanova?"
"Io? Io voglio solo dispensare piacere."
Risi, "Ma smettila che è meglio."
"Vedremo, tanto siamo arrivati."
Parcheggiammo e ci mettemmo in fila, chiacchierando un po' sulle ragazze che vedevamo in giro; Marco stava già facendo la top ten, che nel suo caso era l'ordine secondo cui doveva provarci con tutte le ragazze che gli interessavano.
Alla fine riusciamo a entrare e, mentre ci timbrarono la mano, mi sembrò di vedere Roberta in un abito blu, il suo preferito; mi dissi che non era possibile e  che la mia mente mi aveva giocato un brutto scherzo, così feci segno a Marco di buttarci nella mischia.
Dopo un pochino lui mi toccò la spalla, io annuì e ci avvicinammo a una ragazza al bar.
"Ciao," le dissi io, "avresti un minuto?"
"Dipende," rispose lei, "se sei qua per rompermi i coglioni no."
"Tranquilla, non è mia intenzione farlo. Ti rubo solo cinque minuti del tuo tempo."
"Mmm, spara." Era dubbiosa, ma potevo ancora farcela.
"Vedi quel ragazzo laggiù? Quello col completo?"
"Sì, perché?"
"E' un mio amico. Ieri gli hanno diagnosticato un tumore inoperabile al cervello e non gli resta molto tempo. L'ho portato con me stasera per farlo svagare un po'."
"Sul serio?" Iniziò a credermi, bene.
"Sì e mi chiedevo se potessi farmi un favore. Ti dispiace ballare un po' con lui? E' anche carino e poi potrebbe essere la sua ultima volta."
"Sei davvero un amico. Però.."
"Andiamo, non ti sto chiedendo chissà cosa." Usai il mio sguardo da cucciolo sperduto e abbandonato.
"Io.. Ok, ballerò con lui, ma solo quello, sia chiaro."
"Certo, grazie ancora!" E lo dissi sapendo già che non sarebbe andata così.
Mentre lei si avvicinò a lui e lo prese per mano, Marco mi fece l'occhiolino. Aveva funzionato, come sempre.
Io invece mi ritrovai da solo al bar e così iniziai a bere. Prima un cocktail, poi due, tre, qualche shortino, rubai qualche tiro a un ragazzo nell'angolo e mi rimisi a ballare. Poi l'oblio.
Mi risvegliai con il telefono che squillava all'impazzata; cercai il comodino con la mano credendo che fosse la sveglia. Poi però aprii gli occhi e mi ritrovai in una vasca da bagno. Non avevo idea di dove io fossi, anche se il bagno mi risultava familiare. Improvvisamente vidi il telefono poggiato a terra su una confezione di salmone affumicato, lo presi e risposi.
"Pronto!"
"Cazzo era ora! Ma lo sai che ore sono?? Dove minchia sei?" Era Marco ed era incazzato nero.
"Ehm non so rispondere a entrambe le domande." Mi guardai meglio in giro e mi accorsi di essere nudo a parte una calza autoreggente e un paio di slip rosa con stampate sopra delle fragole. Il bagno era sporco di vomito qua e là e dal lampadario penzolava quello che sembra essere un ammasso di mozzarella, il resto della pizza era sparso per la stanza e la salsa faceva sembrare il tutto la scena di un omicidio. "Però sono in un bagno. E ho addosso degli slip rosa."
Lui provò a non ridere, poi iniziò e sembrò non fermarsi più. "Ok," disse dopo un po', stremato, "ora cerca sul cellulare dove sei che ti passo a prendere. Ma c'è una ragazza con te? Dimmi che è una ragazza e non un uomo."
"Non so, ora vado a fare un sopralluogo. Ti richiamo io."
Uscii dalla vasca e, cercando di non calpestare il vomito, arrivai al lavandino dove mi sciacquai la faccia. Poi aprii la porta e sbirciai fuori: quel corridoio, quella porta, quei quadri, tutto lì mi diceva che ci ero già stato. A passi felpati mi diressi verso una porta socchiusa, la aprii e mi si mozzò il fiato.
C'era un letto matrimoniale con le coperte messe sottosopra, fin qua era tutto ok, e c'era una ragazza nel letto.
Una ragazza con i capelli castani e ricci.
Una ragazza che, se fosse stata sveglia, avrebbe avuto un sorriso perfetto, come nelle pubblicità dei dentifrici.
Quella ragazza era Roberta.
In quel preciso istante desiderai che al suo posto ci fosse chiunque, anche il cuoco genovese, purché non ci fosse lei nel letto. Ma funzionò? No, come sempre. Si svegliò, aprendo poco a poco gli occhi, mi guardò e, dopo aver sorriso un attimo, mi riconobbe e il sorriso si congelò.
"Tu"disse.
"Ehm, ciao" fu la mia timida risposta.
"Cosa cazzo ci fai qua e.. Ommioddio, ma sono le mie mutande quelle?!?"
"Non ne ho proprio idea, anzi speravo che potessi darmi una mano tu a ricordare cos'è successo. E a trovare i miei vestiti. Sono proprio scomodi 'sti slip."
Lei toccò una cosa sotto le coperte e poi la tirò fuori per vederla: era un preservativo usato.
"Oh, questo spiega cos'è successo, ma non perché ho addosso.."
"Tu mi hai violentata! Tu, lurido maiale schifoso!!" Avrei voluto restare immobile per lo shock, ma dovetti schivare le nocciole che mi tirava contro. Perché quella notte avessimo avuto bisogno di un sacco pieno di nocciole non l'ho ancora capito e credo che non lo capirò mai.
Raccattai in fretta i miei vestiti,  corsi fuori e li indossai sul pianerottolo; poi chiamai Marco.
"Amico, so dove sono. Sono sotto casa di Roberta."
"Ma che cazzo..?"
"Non farmi domande perché io non ricordo un bel niente. Sbrigati però, che credo mi voglia uccidere."
Infilai la calza e gli orrendi, ma sopratutto scomodi, slip rosa nella sua buca delle lettere e, non appena arrivò Marco, saltai dentro la macchina e scappammo via di lì. All'inizio ci fu un po' di silenzio, poi lui mi guardò i capelli e disse "E' farina quella che hai in testa?" Mi guardai nello specchietto e risposi "Sembra proprio di sì." Poi iniziammo a ridere. Lui mi raccontò di come avesse concluso con la ragazza del bar e di come avesse concluso con sì e no altre sei ragazze; dopo aver saziato la sua fame riguardante l'altro sesso iniziò a cercarmi, a chiamarmi, a mandarmi messaggi, ma tutto senza ricevere risposta. Si preoccupò e chiese in giro: gli dissero che mi avevano visto bere come una spugna per poi essere rapito da una ragazza che mi aveva portato in bagno, da quel momento nessuno mi vide più. Io gli dissi che, dal casino che c'era a casa di Roberta, avevamo violato almeno quaranta leggi riguardanti il bon ton e sfiorato i confini della sanità mentale. Dopo un po' mi chiese "Ma tu il foglietto che ti ha dato Andrea l'hai letto?" Io lo guardai e risposi "Veramente no, in fondo c'è solo il suo numero, no?" Rimase in silenzio un attimo e poi disse "Sì, in effetti è vero." Eravamo arrivati a casa mia, " Solo una cosa," continuò, "lei si vuole prendere cura di te, ma tu non farle male." Lo guardai, "Ovvio, amico. Non sono mica uno stronzo."
Ci salutammo e io salii a casa. Appena entrai cercai il foglietto nel portafoglio e lo lessi; c'era scritto "Forse non dovrei dirlo, ma l'altra sera sono stata davvero bene con te. E' stato divertente dormire insieme e tu sei divertente, simpatico, adorabilmente scemo.. Insomma tu.." Ma il seguito era cancellato e dopo c'era solo il numero. Di cosa si era pentita? Cosa voleva dirmi? Mi feci una doccia, lenta, fatta per pensare più che per pulirmi. Il mal di testa arrivò subito dopo, inesorabile, come se avessi sbattuto contro un muro di cemento armato. Mi decisi a chiamarla e rispose, "Ciao Alby! Come va?"
Sorrisi, rincuorato dalla sua voce, "Bene. Più o meno.  Mi scoppia la testa."
"Perché?" Il suo tono di voce era preoccupato.
"Una brutta sbronza ieri. Seguita da un risveglio altrettanto brutto e traumatico."
"Povero. Che ti è successo?"
"Mi sono ritrovato a casa di Roberta e, a quanto pare, abbiamo fatto qualcosa mentre eravamo fuori di testa. Come lanciare pizza in giro per il bagno."
"Ah. Lieta che tu ti sia divertito." Ora il suo tono era freddo, glaciale.
"Tutto ok?"
"Sì. Ora devo andare. Ciao." E chiuse.
Io mi presi la testa tra le mani, domandandomi perché niente sembrava andare per il verso giusto.

-9-

Mi svegliò il citofono, il mio caro amico citofono. Imbestialito come un toro di fronte a un drappo rosso sventolante, mi avvicinai all'apparecchio. Memore della mia figuraccia col postino cercai di calmarmi prima di rispondere.
"Chi è?" Chiesi e, vi giuro, ero calmo. Calmissimo.
"Salve, lei cosa sa su Gesù?"
Provai a prenderla con filosofia, ma anche lei ne aveva pieni i coglioni. Sbattei la cornetta al suo posto e mi lanciai sul divano che mi accolse con un caldo abbraccio, quasi inglobandomi. Mi risvegliai con il telefono che vibrava per un messaggio non letto. Recitai mezzo calendario prima di ritrovarlo e, quando vidi il messaggio, rimasi interdetto, allibito.
Era un messaggio di Roberta, di nuovo. Mi chiedeva di incontrarci al bar per prendere quel caffè che non avevamo più preso. Ci pensai, pensai a quello che mi era successo, e presi la decisione sbagliata.
Fuori faceva ancora più freddo dell'ultima volta, così freddo che i capelli lunghi, la barba, la sciarpa, le cuffie e il cappello non mi impedivano di provare un freddo cane alla testa e al viso. Scelsi una canzone cauta, E, di Ligabue, perché intuivo che qualcosa sarebbe successo e che molto probabilmente non mi sarebbe piaciuto; ma il suono del basso mi cullava e mitigava il mio brutto presentimento facendomi sentire a casa.
Arrivai al Politecnico e scesi: lei era lì, accanto alla stessa panchina; io mi avvicinai, molto più lentamente dell'altra volta, e la salutai. "Allora, andiamo?" Mi chiese, io accennai un sì ed entrammo nel bar.
"Allora," dissi io dopo aver preso posto ed aver ordinato i due famigerati caffè, "come mai volevi vedermi? L'ultima volta non mi sei sembrata molto.. non so come dirlo in termini gentili, mi dispiace."
"So benissimo di essermi comportata nel modo sbagliato. Ma cerca di capirmi, non mi aspettavo di trovarti lì."
"Certo, molto meglio il cuoc.. Lascia perdere. Non hai risposto alla mia domanda però."
"Ho pensato molto al nostro incontro della scorsa notte e.. E mi chiedevo se non fosse il caso di tornare insieme, ecco. Ci hai pensato anche tu scommetto."
Mi presi qualche secondo per pensare e poi dissi "Sì, ci ho pensato qualche giorno fa."
"E cosa ne pensi adesso? Ti andrebbe di ricominciare insieme?" E sorrise. Quel sorriso che avevo amato in quel momento mi sembrò falso come una banconota da trenta euro.
"Vuoi davvero che ti dica cosa pensi di questa cosa?"
"Certo, dimmi tutto."
Sospirai e poi, dopo una piccola pausa per dare quel tocco di teatralità, risposi "Io dico che è una puttanata."
Un'espressione incredula le si dipinse in volto, la bocca era spalancata e gli occhi sgranati. Avrei voluto farle una foto.
"E' una puttanata," continuai, "perché dopo tutto quello che mi hai fatto osi chiedermi una cosa del genere. Una proposta talmente assurda che è paragonabile a un cuoco che chieda gentilmente a un'aragosta di tuffarsi nella pentola d'acqua bollente." Nel frattempo arrivò la cameriera con i nostri caffè, "Oh, grazie mille." Ne presi un sorso e poi ripresi, "Cerca di metterti nei miei panni: io ti ho amata,e anche tanto; ti ho dato il mio cuore e tu ci sei saltata sopra e, subito dopo, l'hai masticato e sputato a terra. E poi ci sei saltata sopra di nuovo.
 Sono arrivato al punto di capire che non me lo meritavo, neanche un po'. Non sono Brad Pitt, ma cazzo, sono di sicuro uno dei ragazzi migliori che ti poteva capitare. Tanto va sempre così, no? Vi ricordate solo degli stronzi, mentre di quelli come me conservate un ricordo minimo. Quindi la mia risposta è: vai a buttarti nuovamente tra le gambe di quel fighetto del tuo corso."
Finii di bere il caffè mentre lei cercava ancora di capacitarsi di aver ascoltato quelle parole e che le avessi dette io. Poi mi venne in mente un colpo di grazia, "Ah un'altra cosa. Mia madre dice che sei una puttana." A quel punto fu lei a scappare via dal bar senza neanche salutarmi mentre io, piuttosto soddisfatto dell'inversione dei ruoli, mi bevvi anche il suo caffè. Quel pomeriggio fui proprio un bastardo di prima categoria, ma non me ne pentii, anzi, mi piacque farle assaggiare in minima parte quello che lei mi aveva causato; ciò nonostante mi alzai dal tavolo con il morale piuttosto basso, così pensai di fare un giro fuori con qualcuno e non ci misi molto a scegliere la persona con cui passare del tempo libero.
"Pronto?"
"Ciao Andrea, sono Alberto. Senti, so che l'altro giorno ti ho detto delle cose che ti hanno fatto pensare che io mi stessi ributtando tra le braccia di Roberta dopo tutto quello che mi ha fatto e sono sicuro che ti sono sembrato un coglione."
"Ehm sì," risponde lei, timidamente, "è proprio per quello che, insomma,  mi ero incavolata."
"Ecco, volevo dirti che con lei è tutto finito. Se ti va ti spiego i dettagli davanti a un caffè." E lo dissi nonostante sapessi benissimo che con un terzo caffè quella notte mi sarei trasformato nella Vispa Teresa, altro che dormire.
"Niente birra stavolta?"
"Se preferisci quella va benissimo lo stesso."
"Meglio di no, devo vedere una persona stasera, vada per il caffè. Quello all'angolo vicino Porta Nuova?"
"Ehm va bene, ci vediamo là allora. A dopo!"
"Ciao ciao."
Mi diressi come un robot verso la metro, con le sue parole che mi rimbombavano in testa; perché mi aveva detto che doveva vedere un altro quella sera? Ma più che altro, perché mi faceva star male questa cosa? In fondo Andrea era solo un'amica, o almeno così credevo.
Arrivai davanti al bar e mi misi ad aspettare finché, dopo qualche minuto, arrivò anche lei; non era vestita in modo molto diverso dal solito e questo mi fece pensare che la persona con cui dovesse incontrarsi più tardi potesse essere una sua amica. Mi fece stare meglio.
Entrammo, ordinammo i due caffè (io dissi addio al mio sonno ristoratore di quella notte) e le raccontai cos'era successo, la mia rabbia dopo aver sentito quell'assurda proposta e il mio cambio di personalità e, dopo un altro paio di caffè, finii la mia storia.
"Questo però non spiega perché tu abbia cercato me e non mio cugino." A questa suo commento non sapevo davvero come rispondere.
"Ehm, non saprei. Volevo passare del tempo con te immagino. L'ultima volta sono stato molto bene."
"Beh, sei stato molto bene anche con lei l'ultima volta che vi siete visti, o almeno mi hanno detto così."
"Ero ubriaco, non ci sarei andato mai da sobrio. Immagino tu sappia che vestiti avevo il mattino dopo."
"Gli slip rosa, sì. Molto comodi, vero?"
"Sì, comodi come un letto fatto di chiodi. Ma come fate?"
"Mistero. Devo andare, ti avevo detto dell'appuntamento, no?"
"Sì, me l'avevi detto. Esci con un'amica?"
"No con un ragazzo."
"Ah."
"Già."
"Beh, buon divertimento allora."
"Grazie. Ciao, ci vediamo." E con questa battuta uscì dalla mia giornata.
L'unica cosa positiva era che, per quanto mi aveva fatto star male scoprire che usciva con un ragazzo, sarei rimasto sveglio tutta la notte anche senza quei tre caffè.
 
 

-10-

Quella sera rimasi fuori casa anche io, tanto nessuno mi aspettava lì. Mi armai delle mie fidate cuffie e questa volta toccò ai Tre Allegri Ragazzi Morti  esibirsi solo per me. Arrivai in Piazza Castello e scesi lungo Via Po alla ricerca di un pub e dopo poco tempo lo trovai: si chiamava Il Bucaniere  e il cartello all'ingresso annunciava uno sconto sulle birre scure solo per quella sera. Sorrisi, un sorriso amaro, al pensiero che la vita faceva di tutto pur di farmi star male. Entrai e ordinai il primo mezzo litro.
Non ricordo quanto avessi bevuto, a dirla tutta ricordo molto poco; ho dei ricordi sparsi, come degli schizzi di memoria: io che ondeggio lungo Via Roma, mentre cerco di rubare le monetine a un sassofonista in Piazza San Carlo o mentre vomito nella sua custodia. Finché una bici non mi investì.
Mi risvegliai in un letto, con un gran mal di testa e con la già citata testa che roteava e roteava e roteava..
Chiusi gli occhi e sospirai, sperando con tutto me stesso di non trovarci Roberta in quel letto; mi feci forza e guardai accanto a me e per un momento rimasi di stucco: la parte del letto accanto a me era perfetta, nessuna piega, nessuna macchia. Il cuscino sembrava nuovo di pacca, come se non fosse mai stato usato da qualcuno.
Questo era strano, molto strano. Sollevai le coperte e vidi che non solo avevo ancora addosso le mie mutande, ma avevo addosso anche addosso un pigiama. Un pigiama che non era mio, ovviamente, ma sembrava pulitissimo nonostante mi stesse decisamente piccolo. E almeno non erano degli scomodissimi slip rosa.
Guardai alla mia destra, dove c'era il comodino, e, nell'ordine, vidi: il mio cellulare, le mie chiavi di casa, il mio portafoglio e un biglietto indirizzato a me. Sì sì, proprio a me.
Lo presi, con molta cautela, e lessi: "Buongiorno dormiglione! Sono dovuta uscire, tu fai due passi in casa per sgranchirti le gambe se ti va! Elena." Posai il bigliettino sul comò e mi sentii il protagonista di Misery, ma almeno io non avevo le gambe rotte e proprio per questo decisi di seguire il consiglio della mia "carceriera".
La casa era praticamente dipinta con ogni tonalità di verde e infatti, appena uscii dalla camera da letto mi ritrovai in un corridoio verde smeraldo; alle pareti erano appesi quadri cubisti, sopratutto repliche di Picasso e, in contrasto col resto, Notte Stellata di Van Gogh. Dopo c'era un salotto arredato con mobili moderni bianco lucido e tanti oggetti di design e un lampadario a led; non mancavano tocchi vintage come una poltrona a sacco e un giradischi accoppiato a un'enorme collezione di dischi in vinile, quasi tutti di musica rock.
Andai poi in cucina dove mi accorsi di un altro biglietto che mi autorizzava a mangiare tutto quello che potevo mangiare, ma il mio stomaco non era molto collaborativo. Alla fine si arrese davanti a una tazza di latte con del muesli al cioccolato e mi accorsi subito di avere una fame da lupi. Divorai tutto mentre ascoltavo la radio, posai la tazza nel lavandino e continuai il giro della casa: un divano comodo quanto la poltrona trovava posto in sala da pranzo, due bagni e un piccolo sgabuzzino pieno di scatoloni completavano la casa. Trovai, inspiegabilmente, dei pacchi di biscotti al cioccolato nascosti accanto al divano e, mentre mi stavo chiedendo perché diamine fossero là, sentii una chiave entrare nella serratura e la porta aprirsi per poi richiudersi.
Ora, io non so dirvi perché lo feci, non lo sapevo allora e non lo so neanche adesso, ma in quel momento non ci pensai due volte e saltai dietro al divano. Immagino che il mio istinto mi dicesse che era meglio nascondersi, e ce l'avrei fatta, se solo non avessi calcolato male le distanze e non avessi dato una bella testata contro il muro seguita da un'imprecazione detta a voce alta.
"Ma che cazzo stai facendo?"
Io mi girai e vidi una ragazza un po' più bassa di me che mi fissava aspettando una mia risposta. E io la accontentai, dandole una risposta chiarissima e traboccante di significato: "Non ne ho la minima idea.."
Lei sbuffò e andò in cucina, tornò con del ghiaccio e mi disse di mettermelo sul bernoccolo che mi era già nato e cresciuto in testa.  Seduti sul divano lei all'improvviso si portò la mano alla fronte e disse "Ma che scema che sono, non mi sono neanche presentata! Io sono Elena!"
Io strinsi la mano che mi tendeva e poi dissi "Io sono.."
"Oh, lo so già chi sei Alby, mi sono presa la libertà di guardare i tuoi documenti nel portafoglio. Ma non ti ho rubato neanche un centesimo, giuro."
"Ah, ehm, suppongo vada bene. Piuttosto, come sono arrivato qui?"
"Oh, beh, mi sembrava il minimo dopo che ti ho investito con la bici. Insomma, non eri proprio in formissima."
"Davvero? Non ricordo bene.. Grazie, comunque."
"Ma figurati! Ti ho messo un mio pigiama perché i tuoi vestiti sono nella lavatrice, non erano conciati molto meglio di te. Ti sta un po' piccolo, ma non avevo nient'altro purtroppo."
"Ah, quindi tu mi hai, ehm.."
"Sì, ti ho visto in mutande, ma non sono andata oltre tranquillo. Anche se non mi sarebbe dispiaciuto.."
"Che..? Cos'hai detto?"
"Niente, niente. Piuttosto, che vuoi mangiare per pranzo?"
Mentre diceva questa frase si alzò per tornare in cucina e io potei osservarla meglio: Elena era più bassa di me o di Andrea, ma controbilanciava la mancanza d'altezza con l'energia che le sprizzava da tutti i pori; aveva dei capelli neri tagliati a caschetto in perfetto stile anni '20 e degli occhi azzurro cielo. In quel momento indossava una canottiera bianca, degli shorts di jeans e degli stivaletti neri, un abbigliamento che mi fece notare che anche lei, come Andrea, era piuttosto dotata.
Io mi scossi dal mio torpore e dissi "Non c'è bisogno che tu ti preoccupi, hai già fatto tanto per me."
"Ma figurati. E poi i tuoi vestiti sono ancora a lavare, quindi ti toccherà aspettare. Allora, cosa vuoi?"
"Ehm, un po' di pasta andrà benissimo, grazie."
"Sei stato di grande aiuto," mi disse lei con tono sarcastico. "Pasta come? Sugo, pesto, aglio e olio, tonno, amatriciana, carbonara..?"
Io sentii il mio stomaco brontolare con rabbia e scelsi la carbonara.
"Perfetto, inizia a rosolare la pancetta."
E così, tra una risata e l'altra, cucinammo insieme e ci sedemmo a tavola per mangiare.
"Allora," dissi dopo qualche forchettata, "tu sai qualcosa di me, ma io di te non so praticamente niente."
"Non posso darti torto," rispose lei sorridendo, cosa che rese il mio cervello utile come un bicchiere bucato, "da dove inizio?"
"Ehm, non so.. Dai dischi che hai di là ho visto che ti piace il rock."
"Oh quelli. Beh sì, mi piace abbastanza, ma non ascolto solo quello. I vinili erano di mio padre in parte e io, pian piano, sto ampliando la collezione."
"E cos'altro ascolti?"
"Un po' di tutto. Ultimamente sono fissata con Suzanne Vega, la adoro."
"Piace anche a me. Sopratutto Blood Makes Noise, il giro di basso è fantastico."
"Non ci credo, suoni il basso? Mi piace come strumento!"
"Sono io a non crederti, noi bassisti non piacciamo a nessuno. Tu suoni qualche strumento?"
"Sì, la fisarmonica. So che con il rock non c'entra praticamente niente, ma mi piace il suono."
"Ti capisco, piace anche a me, ma non è difficile da suonare?"
"Infatti ho iniziato da piccolina e non è stato facile, credimi."
"E ora cosa fai?"
"Lavoro quando posso, suono, ascolto musica.. Non ho una vita molto eccitante. Tu invece studi al Poli, ho visto la tessera."
"Oh, sì, è esatto. Ma tu quanti anni hai?"
"Hey, a una signora non si chiedono queste cose. Ma sono più grande di te."
"Non si direbbe, nanetta."
"Bene, laverai i piatti da solo. Sono troppo bassa per arrivare al lavabo, a quanto pare."
Dopo un pochino di suppliche e di scuse si arrese e lavammo insieme i piatti. Quando finimmo andammo sul divano e notai una macchia sul pigiama, "Oh cavolo, ti ho sporcato il pigiama."
"Lascia stare, non preoccuparti. Ti va di guardare un film? Io dico di sì." Si alzò, mise un dvd, senza darmi il tempo di dire una parola, e, incredibilmente, si accoccolò a me.
In poche settimane avevo già due ragazze che mi saltavano praticamente addosso. E meno male che io con le donne non ci sapevo fare!

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Capitolo 4
*** Sudati, stanchi e ansimanti. ***


-11-
Erano passati alcuni giorni da allora, io avevo dormito da Elena ancora quella notte e poi ero tornato a casa mia, scombussolato, ma felice di quella nuova esperienza. Tornato a casa la routine riprese normalmente, università, mensa, aula studio, "niente di nuovo sul fronte orientale" insomma. Andrea non provò a cercarmi, anche se mi sembrò di vederla spesso al Politecnico, ma ,ogni volta che provavo ad avvicinarmi per vedere se fosse davvero lei, scompariva nella folla. Marco, all'inizio sembrava un po' freddo e distante, ma lui non può tenermi il broncio a lungo, quindi ricominciammo a ridere e scherzare normalmente, ovvero come due completi idioti.
Però poi un giorno dovetti chiederglielo, perché aveva fatto così?
"Guarda, credo dovresti saperlo.."
"Mah, veramente non ne ho la più pallida idea, non ti ho fatto niente di male!"
Lui aprì lo sportello della 127, "Appunto, non hai fatto male a me.."
Lo guardai, pensoso, "So che ti sembrerò un decerebrato, ma continuo a non capire."
"Ma no, non sei un decerebrato, sembri solo un lobotomizzato."
"Spiritoso... Fammi andare ché sta arrivando il tram. Me lo spieghi per bene appena puoi?"
Sospirò, "Va bene, ti chiamo stasera appena posso, ok? "
"No problems."
Lui mi salutò con un rutto e partì sgommando, come al solito insomma. Tornato a casa Iniziai a prepararmi la mia porzione giornaliera di spaghetti quando bussarono alla porta; andai ad aprire e mi trovai davanti Goffredo, il padrone di casa.
Nonostante sia solo al terzo anno del poli ha già una casa da affittare, cosa che lo rende particolarmente antipatico, sopratutto dal mio squattrinato punto di vista. Goffredo è un ragazzo molto alto e con due spalle larghe come un furgone per il trasporto valori, ha i capelli neri tagliati corti e pettinati rigorosamente in un'acconciatura che forse andava di moda cinquant'anni fa; completano il quadro gli occhi castani, un naso aquilino leggermente storto (un ricordo del pugilato), la mascella prominente e le mani grandi quanto una pizza; oggi indossava dei mocassini, pantaloni color crema, una camicia azzurrina e un gilet, un outfit che raramente gli vedevo addosso.
"Bel gilet", feci io.
"Sì, sto per andare ad una laurea e devo essere presentabile, in altre parole non devo vestirmi come te." Capite ora perché mi stava antipatico?
"Ok, cosa c'è di tanto importante per farti venire fino a qui?"
"Ti ricordi che dovevi rinnovare il contratto dato che ti è scaduto..." ci pensò un attimo, " la settimana scorsa, vero?"
"Sì, certo che me lo ricordo. L'hai portato?"
Fece un ghigno malefico che non mi piacque per niente, "No, perché vedi, io ti sto per sfrattare."
Credo che in quel momento il mio mento rischiò di toccare terra, "Co-co-cosa? Mi sfratti? Ma il preavviso di sei mesi..."
"Visto che al momento sei senza contratto non ti devo nessun fottutissimo preavviso. Hai tre giorni per liberare questo buco o ti dovrò buttare fuori io, con le buone o con le cattive. Ci vediamo." E se ne andò.
Io rimasi senza parole, l'acqua per la pasta rimase a bollire per almeno un'ora e, quando poi me ne accorsi, ormai si era dimezzata. Lasciai perdere il pranzo e mi sedetti sul divano, sperduto e senza riuscire a pensare ad alcunché. Pensai di essere diventato anche io un mobile, magari uno di quelli svedesi con i nomi particolari, tipo Sklugga o Prefritz, quando iniziò a squillare il cellulare, non riconobbi il numero che mi stava chiamando, ma risposi comunque:
"Pronto?"
"Ciao Alby, sono io!"
"Ehm, io chi?"
"Certo che sei strano forte, eh? Sono Elena, la ragazza della bici!"
"Oh cavolo, hai ragione! Scusa se non ti ho riconosciuta!"
"Ovvio che ho ragione, credo di sapere ancora chi sono..."
"Ma come hai avuto il mio numero? Non mi sembra di avertelo dato."
"Beh, diciamo che l'ho preso mentre dormivi, pensavo che potesse essere utili nel caso avessimo bisogno di qualcosa, no?"
"Ehm sì, hai ragione... Quindi hai bisogno di qualcosa?"
"Sì, voglio invitarti a cena fuori. O meglio, vorrei che lo avessi fatto tu, ma visto che non l'hai fatto lo faccio io."
Diventai rosso come un peperone, "Hai ragione, avrei dovuto farlo, almeno per ringraziarti dell'ospitalità.."
"Fa niente, fa niente," mi interruppe, "l'importante è.. Ci sei stasera o non  ci sei?"
"Beh certo che ci sono, te lo devo."
"Ok, perfetto allora! Ci vediamo in piazza Vittorio per... Facciamo le otto e mezza?"
"Sì, perf...", ma non riuscii a finire la frase.
"Vaaaaa bene, a dopo allora! E ricorda, vestiti bene!" E chiuse la chiamata.
Io restai con il telefono in mano per almeno dieci minuti, sorpreso dalla catena di eventi che si stava verificando, chiedendomi quando fosse iniziata e da quando la mia vita sembrasse quella di un personaggio di un webcomic all'americana. Scossi la testa, mi alzai e mi infilai sotto la doccia, cantando ogni canzone che mi venisse in mente, italiane o straniere che fossero; mi infilai poi nell'accappatoio e andai a vestirmi, jeans scuri, scarpe in pelle, camicia grigia, maglioncino color cioccolato e la mia giacca pesante, sempre in grigio.
Salii sul tram diretto a piazza Vittorio, non sapendomi cosa aspettarmi da quella serata, mentre la neve rendeva tutto uniforme, un'enorme cappa bianca sul mondo... "Magari prima o poi arriverà la neve anche per me," pensai,"e la mia vita si uniformerà come la città che vedo dal finestrino.. Ma è quello che voglio?" Lasciai perdere le riflessioni filosofiche e mi accorsi che avevo ricevuto un messaggio di Elena che mi diceva di vederci davanti l'entrata del Soho, un locale in zona. E terminava con un cuoricino.
"Credo che mi serva una mappa, inizio a sentirmi un po' perso..."
-12-
Arrivai davanti al Soho e mi misi ad aspettarla sotto ai portici mentre guardavo la neve cadere. Dopo pochi minuti sentii qualcuno che mi chiamava, mi voltai e rimasi letteralmente senza parole: Elena era vestita con una giacca lunga fino a metà polpaccio, delle scarpe nere con tacchi a spillo, calze e un vestitino sempre nero che sembrava decisamente scollato.
"Ehm, ciao Elena. Sei... Sei davvero carina, sai?"
"Ma certo che lo so, mi sono vestita così apposta! Vieni qua che ti abbraccio!"
Dopo un abbraccio da togliere il fiato (sia nel senso che lei era uno schianto sia nel senso che non respiravo più) entrammo nel locale; prima che potessimo sederci fummo intercettati da una cameriera che ci indicò un tavolino (decisamente "ino") per due. Ordinammo due drink e iniziammo a parlare del più e del meno, senza timidezza da parte mia o da parte sua. Era molto facile, mi sembrava già di conoscerla, e in effetti già la conoscevo, ma mi sembrava di conoscerla da molto più tempo, un po' come se fossimo cresciuti insieme; gusti musicali, film preferiti, persino i cibi! Qualche drink dopo iniziai a perdere un po' il filo del discorso e lei se ne accorse.
"Alby che ne dici se paghiamo e andiamo a fare un giro?"
"Eh? Ah, sì, sì, approvo."
Mi alzai, con non poche difficoltà, dalla sedia e mi diressi verso la cassa, deciso a pagare io, ma lei cercò di fermarmi, insistendo che doveva pagare lei.
"Ecco, lo sapevo," feci io, "siamo arrivati alla classica e imbarazzante situazione del conto."
"Non preoccuparti, ci penso io"
Scossi la testa (procurandomi un bel giro su quello che io e Marco chiamiamo "l'ottovolante"), "Noooooon ci provare nemmeno,  mi hai ospitato a casa, fammi almeno pagare il conto!"
Sospirò, alzando lo sguardo al cielo e mi lasciò fare, poi ci mettemmo i cappotti e uscimmo nella gelida aria invernale, rabbrividendo.  Lasciavamo le nostre orme nella neve e questo mi fece ridere, lei mi chiese perché ridessi e dopo che le risposi iniziò a ridere anche lei.
"Meno male che ridi anche tu, credevo di essere diventato scemo!"
"Ma io rido proprio per quello, sei uno scemo integrale!"
"Proprio così, sono ricco di fibre."
Mi guardò stupita un attimo, poi ricominciò a ridere a più non posso, rischiando pure di cadere.
"Allora, dove si va?"
Lei ci pensò un attimo e iniziò a trascinarmi verso una discoteca, un luogo dove io non volevo assolutamente mettere piede. Non che non mi piaccia la musica, il mio unico problema è che non so ballare, così mi ritrovo spesso e volentieri immobile in mezzo alla pista sorridendo come un ebete. Elena è una ragazza minuta, ma molto più forte di quanto si possa credere, infatti, guarda caso, mi ritrovai in mezzo alla pista, sorridendo come un ebete, mentre lei cercava di coinvolgermi, urlandomi consigli nell'orecchio cercando di sovrastare la musica.
"Andiamo, sciogliti un po'!"
"Non so come si fa!"
"Segui me, forza!"
Iniziammo a muoverci insieme, seguendo il ritmo dei brani, immersi nei bassi, e ben presto iniziai a sudare, ma, per la prima volta, mi divertivo. prendemmo qualcosa da bere anche lì e dopo il secondo mojito iniziai davvero a scatenarmi e, come ogni volta che mi capita di fare lo spaccone, misi male un piede e caddi, ridendo per la brutta figura e stringendomi la caviglia per il dolore, a quel punto decidemmo che era davvero ora di tornare a casa. Usciti dal locale decisi che l'avrei riaccompagnata a casa e avrei corso, o meglio, zoppicato fino a casa per mettermi un po' di ghiaccio sulla caviglia dolorante.
"Sicuro di farcela?"
"Sì, tranquilla. Ora andiamo che non voglio farti diventare un ghiacciolo."
"Sarei un bellissimo ghiacciolo però."
Risi, "Lo ammetto, non ci penserei due volte prima di mangiarti." Ecco, si capiva facilmente che avevo alzato un po' troppo il gomito, ma lei si limitò a ridere di quella battutina e continuò a camminare come se nulla fosse. Ma anche lei lo aveva alzato, e non poco, forse per questo iniziammo a cercare di prendere i fiocchi di neve con la lingua, per poi passare ad una vera e propria battaglia con le palle di neve, con tanto di fortini improvvisati. Il mio era formato da  una coppietta di innamorati che non la smetteva di pomiciare, insensibili alle poche palle che arrivavano loro addosso (la nostra mira non era un granché quella sera); mentre loro mi facevano da scudo raccolsi una bella manciata di neve, la modellai in quella che mi parve essere una sfera perfetta (ma visto com'ero conciato poteva benissimo essere un cubo) e, tirando bene indietro il braccio, la scagliai a tutta forza verso Elena. Sentii un rumore di vetri infranti e inizialmente pensai di averle fatto male, poi riflettei un secondo e mi ricordai che nessuna parte di lei era fatta di vetro. In presa alla confusione mi alzai e venni travolto proprio da Elena, che mi urlò di scappare.
"Ti ricordo che per questa sera sono uno zoppo! Ma poi perché scappare?"
"Hai rotto lo specchietto di una Lamborghini di proprietà di un uomo alto e largo quanto un armadio, ti basta?"
Mi misi a correre come un forsennato, tenendomi il cappello con la mano per non farlo volare mentre urlavo imprecazioni a caso in preda all'isteria, finché non fummo abbastanza lontani, a quel punto ci fermammo per riposare ridendo come de pazzi.
"Avresti dovuto vedere la tua faccia, eri spaventatissimo!"
"E tu allora? Con quei tacchi rischiavi di cadere ogni tre per due, avevi l'ansia stampata in faccia!"
"Era colpa tua, andavi troppo veloce!"
"Non andavo troppo veloce, sei tu che hai le gambette corte."
"Ma come ti permetti? Vieni qua che ti infilo un tacco a spillo su per il culo!"
"No no, io alla mia verginità anale ci tengo e  il mio culetto deve restare così com'è!"
"E allora cammina, siamo quasi arrivati ormai."
camminammo un altro po' fino ad arrivare sotto casa sua e ad un altro imbarazzante momento di un'uscita serale: il commiato.
"Allora..." feci io.
"Beh, è stata una bella serata."
"Sì, vero, assolutamente vero,grazie mille."
"Ma di cosa? Grazie a te per aver accettato l'invito."
"Oh vero, mi hai invitato tu..."
"Già. Certo che sei messo bene a memoria, eh."
Sbuffai, "L'ho sempre saputo di essere un pesce rosso. Comunque è ora che vada..."
"Perché non sali per un the? Così almeno ti scaldi un po', devi farti un bel pezzo a piedi, da solo per di più..."
"Beh, ecco, non saprei..."
"Non farmi sfoderare gli occhi tristi.."
Riflettei un attimo sulla proposta, sul fatto che una ragazza molto carina, ma che dico, una bellissima ragazza mi stesse invitando a prendere un the a casa sua, una cosa innocente alla fin fine, che male c'era. E poi era irresistibile, non riuscivo a dirle di no.
"E va bene, andiamo a farci 'sto the..."
"Evvaiii!" Mi prese per mano e mi trascinò dentro, poi mi fece sedere in modo un po' brusco sul divano e andò in camera, "Fai come se fossi a casa tua, mettiti comodo!"
"Signorsì, signora!"
Rimasi seduto ad aspettarla per una decina di minuti finché non torno vestita solo con la lingerie e i tacchi, facendomi rimanere a bocca aperta.
"Scusa, ma c'è un po' caldo..." Aveva un tono di voce caldo come cioccolata e liquido come il miele che le avrebbe fruttato il premio per Miss Seduzione se fosse esistito un concorso del genere.
"Ehm sì, lo vedo che hai caldo..."
"Non ti ho mica messo a disagio, vero?" Stesso tono di voce, con un'espressione di finta innocenza dipinta sul viso. Me la stavo mangiando con gli occhi e lei se ne accorse, infatti si avvicinò a me sorridendo.
"Allora," disse, "hai una banana nei pantaloni  o sei solo felice di vedermi?"
"Ehm, io.."
"Va bene," disse, "vorrà dire che lo scoprirò io." E detto questo iniziò ad armeggiare con la mia cintura.
-13-
Circa due ore dopo eravamo a letto, ansimanti, sudati, e con i capelli arruffati. Io, da bravo maschio dominante che non deve chiedere mai mi scusai per la pessima prestazione. Lei mi guardò e disse che c'erano due possibilità: o ero un'idiota o avevo l'autostima sotto le suole delle scarpe.
"O magari ero solo sarcastico," ribattei io, "non ci hai pensato?"
"Eri sarcastico?"
"No, ero serio. Insomma, sono fuori allenamento, ho una caviglia slogata, sono alticcio e..."
Lei mi baciò, a lungo, dolcemente, poi mise la testa sul mio petto e mi disse che ero stato fantastico.
"Da - davvero?"
Ma in risposta ottenni soltanto il respiro profondo di chi è entrato nel mondo dei sogni, e subito dopo ci entrai anche io, con un sorrisetto stampato sulla faccia.
Il mattino dopo mi ritrovai a letto da solo e, sentendo l'acqua scorrere in bagno immaginai che si stesse facendo una doccia. Io invece zoppicai fino in cucina e iniziai a mangiare la mia tradizionale ciotola di cereali. Ero già arrivato alla terza quando lei entrò in cucina con addosso l'accappatoio salutandomi con un solare buongiorno, poi si sedette e mi guardò dritto negli occhi.
"Pensi sia stato uno sbaglio?"
"Cosa", chiesi io, ancora intontito dal sonno.
"Beh sai, quello che abbiamo fatto un po' sul divano, un po' sul tappeto, poi sulla scrivania e infine a letto."
"Ah, quello... Beh, no, non credo. Insomma, siamo abbastanza grandi da decidere quello che vogliamo, no?"
"Sì, ma... Ma c'è un problema."
"E quale? Se è il mio alito mattutino è solo colpa dell'alcol di ieri sera."
"No, vedi.. Mormoravi qualcosa nel sonno."
"Oddio, lo sapevo io... Ascolta, so che ogni tanto dico cose strane, ma ti posso giurare che non voglio davvero tornare indietro nel tempo e uccidere Winston Churchill, a quanto pare è un mio incubo ricorrente."
Lei scosse la testa, "No, è che.. Vedi, mormoravi un nome."
Ahia. Mi preparai al peggio. "Era Roberta per caso?.."
"No, Andrea. È un tuo amico? Non è che sei gay?"
Doppio ahia. "No, è... È una ragazza che mi piaceva qualche tempo fa, ma poi lei mi ha fatto capire che non era disponibile..."
Lei riacquistò un po' di colorito, "Ah, okay, perché sai, per un momento mi era sembrato che tu fossi..."
"No, tranquilla, sono etero fino al midollo."
Lei sorrise in modo beffardo, "Sicuro?"
Io feci un sorrisetto simile e le chiesi se le serviva una dimostrazione.
Dopo due ore eravamo di nuovo a letto nello stesso stato di ieri notte, se non più sudati e arruffati.
"Ti è servita la doccia di prima mattina, eh?"
Per tutta risposta mi trascinò in bagno dove ci lavammo insieme sotto un getto d'acqua piacevolmente caldo, dopodiché andammo in cucina a preparare il pranzo: spaghetti alla chitarra con ragù, polpette e mandarini.
Quando l'acqua iniziò a bollire misi il sale e lei arrivò con la pasta, ma le dissi che non bastava.
"Non basta?? MA se sono almeno duecento grammi!"
"Tesoro," feci io, "duecento grammi di pasta li mangio da solo quando voglio fare uno spuntino, metti almeno cento grammi in più."
"Okay, ma poi voglio vedere se riesci a mangiarla tutta."
Non solo mangiai tutta la pasta, ma finii anche le polpette e presi almeno tre mandarini.
Lei mi guardò sconvolta e mi disse "Ma dove lo metti il peso in eccesso tu?"
"Tutto in testa", le risposi sorridendo.
Parlammo della sera prima, compreso quello che avevamo fatto a casa sua, e ridemmo per le nostre disavventure, tuttavia sentivo che c'era qualcosa che non andava. Quando finimmo la feci sedere sul divano e le chiesi se stesse bene.
"Sì, tutto okay."
"Sicura?" E in aggiunta sfoggiai la mia migliore interpretazione dell'occhiata penetrante di mio padre.
Lei guardò in basso, verso le sue ginocchia e disse che sì, in effetti c'era qualcosa che non andava.
"Vedi, ho paura che tu sia uscito con me per avere un rimpiazzo, una ruotina di scorta, ecco."
"No, non è andata così."
"E com'è andata allora? Ho bisogno di saperlo." Le si riempirono gli occhi di lacrime e io la abbracciai.
"Tu mi piaci, ieri ho accettato di uscire con te perché mi stavi simpatica e ti dovevo un favore, ma poi durante la serata mi sono reso conto che abbiamo tante cose in comune e trovo molto piacevole la tua compagnia e... E credo che tu mi piaccia davvero."
Lei mi guardò e sorrise, un sorriso piccolo, timido e dolce allo stesso tempo, si strinse forte a me e io la cullai un po', asciugandole le lacrime.
"Ora però devo davvero andare a casa, mi sono dimenticato di dirti che ho un problema..."
"Che è successo?"
"Mi stanno sfrattando, devo impacchettare tutto e non so ancora dove andare..."
"Beh puoi venire a stare da me, qual è il problema?"
"No, non posso. Davvero, mi sembrerebbe di approfittare della tua ospitalità."
"Ma finiscila. E poi so come convincerti, caro mio."
"Ah sì? E come?"
E così per la terza volta ci ritrovammo nel letto sudati, stanchi, ansimanti e con i capelli arruffati.
"Sai," le dissi io tra un respiro profondo e un altro, "non sono ancora sicuro di..."
Non riuscii a finire la frase e me la ritrovai sopra di me, pronta a ricominciare un altro round.

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Capitolo 5
*** Una svolta inaspettata ***


-14-
Il mattino dopo mi svegliai presto, sgusciai fuori dalle coperte e andai in cucina a preparare la colazione per entrambi: the caldo alla vaniglia, biscotti al burro e qualche mandarino. Misi tutto su un vassoio e lo portai in camera, poi lo posai ai piedi del letto e provai a svegliare Elena.
"Ele, mi senti? Svegliati, su."
"Mmmmmvaffanculo."
"Ti ho portato la colazione, so che la vuoi."
Lei aprì lentamente gli occhi, "Mi vuoi prendere per la gola?"
"No, per il culo... Mettiti seduta che prendo il vassoio."
Facemmo colazione a letto, passandoci a vicenda i biscotti, sorridendo in silenzio. A volte il silenzio è imbarazzante, ma ci sono alcuni momenti in cui il silenzio riesce a comunicare molto di più di quanto possano fare le parole; e quello era uno di quei momenti. Dopo una doccia calda decidemmo di iniziare il trasloco e, visto che nessuno di noi due aveva la macchina, decisi di chiedere aiuto a Marco. Decidemmo di incontrarci sotto casa mia, così prendemmo il tram e ci avviammo.
"Sicura che non è un problema se mi trasferisco da te, vero?"
Lei sbuffò, a metà tra il divertito e l'irritato, "Hai un'altra opzione, caro?"
"Non è una risposta. Non voglio crearti disagio."
"Allora vedila così," disse lei guardandomi dritto negli occhi, "te l'ho proposto perché lo voglio. Sto bene con te, sei una persona piacevole e per me non sei solo un amico."
"Ah. E cosa sono allora?"
"Diciamo un "consorte in prova"," mi rispose, appoggiandosi bene sul sedile, "sempre se questa cosa non ti metta in soggezione."
Sorrisi, "No, no, anzi... È che sta accadendo tutto molto in fretta e..."
Mi baciò all'improvviso, a lungo, con tanta dolcezza. "Prenditi tutto il tempo che vuoi per capire se è quello che vuoi anche tu o no, va bene?"
"Io... Va bene. Grazie, davvero..."
"Ma tranquillo. Ora andiamo, che la prossima è la nostra."
Arrivammo sotto casa mia, o meglio, sotto quella che per poco ancora potevo definire "mia". Marco era già lì e, dopo le necessarie presentazioni, salimmo per iniziare a imballare le mie cose.
Dopo un'oretta di lavoro Elena disse "Certo che ne hai di roba, eh?"
Io sorrisi, "Sicura di volermi ancora ospitare?"
E per tutta risposta mi arrivò un cuscino proprio in faccia, seguito dalle risate di Marco e da "Ne hai di palle, ragazza!"
Visto che la macchina era piccola impiegammo un intera giornata per portare gli scatoloni a casa di Elena ed erano ormai le sette quando ormai, stanchi e sfiniti, portammo giù gli ultimi. Davanti il portone incontrammo quel simpaticone di Goffredo che, con il solito ghigno malefico, si complimentò per la celerità che avevo dimostrato.
"Ah, quindi tu sei il suo ex padrone di casa," chiese Elena.
"Sì, sono io. Perché me lo chiedi? Sei rimasta impressionata dai miei bicipiti?"
Io guardai Elena e vidi nei suoi occhi un odio così profondo da definirsi ancestrale, persino Marco se ne accorse, mentre l'unico a non averlo notato era quel tonto palestrato che le stava di fronte.
Se ne accorse solo quando vide che la gamba di lei si stava avvicinando molto rapidamente alle sue palle, e immagino se ne accorse anche dopo, quando, steso a terra, si senti apostrofare "brutto stronzo di merda". Io e Marco eravamo allibiti, con delle espressioni così sconvolte da sembrare comiche stampate sul volto.
"Su, forza. Andiamo," dissi io, e così prendemmo baracca e burattini e ci infilammo in macchina.
Dopo un po' di silenzio, un silenzio imbarazzante stavolta, mi azzardai a parlare:
"Ricordami di non farti mai incazzare."
"Neanche io ci tengo," proseguì Marco, "il mio attrezzo mi serve, porca puttana!"
Lei rise sonoramente, "Tranquilli ragazzi, lui se lo meritava, e non vi ci vedo a fare gli stronzi."
"Neanche un po'?"
"Sicura al cento per cento?"
"Così mi fate preoccupare però!"
E con una risata mettemmo da parte quell'evento. Portammo su gli scatoloni e poi Marco mi fece capire che doveva parlarmi in privato, così lo accompagnai alla macchina.
"Allora, ti sei sistemato, eh?"
"Non proprio," risposi io, "è più complicato di quanto sembri. Per ora diciamo solo che siamo coinquilini."
"Aha, okay. Sicuro di non averci scopato? Neanche una volta?"
Sospirai, "Sì, un paio di volte, perché?"
"Ma niente, così, per sapere. Un'altra cosa, Andrea ti vuole parlare."
"Beh, può chiamarmi, no?"
"Lei preferirebbe di persona, sai com'è..."
"No, non lo so com'è. L'ultima volta che ci siamo visti usciva con uno e non ci sono rimasto molto bene."
Stavolta sospirò lui, "Senti Alby, io sarò sempre tuo amico, e lo capisco che per te è stato un periodaccio, ma concedile almeno 'sta possibilità. Fallo per me, sennò con chi si sfoga secondo te?"
"Mmm, domanda da un milione di euro... Scommetto che si sfoga su di te."
"Ma va? Ti chiamavano Sherlock al liceo?"
"Spiritosone," dissi, e gli diedi uno spintone giocoso, " e va bene, diamogliela 'sta possibilità. Dille che può scegliere lei quando e dove incontrarsi, okay?"
Lui disse che l'avrebbe fatto e poi mi disse un'altra cosa su di lei, una cosa che mi fece sgranare gli occhi.
"Ah. Ma davvero l'ha fatto?"
"Eh sì."
"Wow... Non so che dire davvero... Appena mi riprendo ne riparliamo o ne riparlo direttamente con lei..."
"Va bin, io vado adesso, okay? Ci si sente!"
"Ciao demente," dissi, e ottenni un bacetto in risposta.
Tornai a casa e Elena mi chiese se andava tutto bene, "Sì, tranquilla. Doveva solo chiedermi se avessimo fatto qualcosa."
"A letto?"
"Fammi indovinare, ti piace dire ovvietà vero?"
Quella sera scoprii che una donna può farti molto male usando solo una borsa .
-15-
Quei giorni con Elena erano fantastici, mi sentivo davvero bene, in pace con me stesso. Ci divertivamo, parlavamo sul divano o a letto e i momenti, anzi, le nottate sexy non mancavano. Iniziai a non radermi più, cosa che a lei piaceva molto e piaceva molto anche a me, ho sempre considerato un'agonia il taglio della barba. Un giorno stavamo lavando i piatti un po' scherzando e un po' giocando, quando, ad n certo punto, mi arrivò un messaggio di Andrea sul cellulare, nel quale mi diceva che dovevamo parlare. E basta. Niente ciao, niente a presto, solo quello. Io le risposi che se voleva potevamo vederci anche quel pomeriggio stesso, lei mi disse un luogo. Era quella piazza, quella di Roberta, quella dove mi aveva piantato. Non poteva andare bene, già lo sapevo. Dissi tutto ad Elena e lei, a malincuore, mi lasciò andare, diciamo; la baciai e le dissi che sarei tornato presto.
Mi diressi verso quello strano appuntamento col cuore in gola, immaginandomi mille scenari uno peggiore dell'altro. Faceva freddo e nevicava, proprio come l'ultima volta e questo non fece altro che peggiorare la situazione. Quando arrivai ci misi un po' a vederla: era sulla statua in mezzo alla piazza, in alto; mi diressi verso di lei e la salutai, lei per tutta risposta mi sputò accanto. Io guardai la saliva a terra, poi lei e le chiesi che diavolo volesse dire. Lei mi guardò male, molto male, e disse:
"Vuol dire che sei uno stronzo, ecco che vuol dire! Come hai potuto?? Come puoi farlo?? Io e te, per i miei parenti, persino per i miei amici, eravamo fatti per stare insieme! Eravamo perfetti l'uno per l'altra! Lo dicevano tutti, tutti quanti! E tu, invece, cosa fai?? Appena puoi ti infili nel letto della tua ex!"
E mentre diceva queste cose urlava, si metteva le mani ai capelli e piangeva a dirotto. La lasciai fare per 5 minuti, poi mi arrabbiai e iniziai a urlare anche io:
"Okay, sono stato a,casa della mia ex, non abbiamo fatto sesso, ed ero ubriaco! Ubriaco marcio per essere precisi!"
"Ah, bene! Vantatene, mi raccomando!"
"Sì, accidenti, almeno io mi sono divertito un po'! E tu, proprio tu, non puoi proprio lamentarti!"
"E perché, sentiamo!?"
"Non ti ricordi? Non ricordi di tutti i ragazzi con cui sei uscita dopo quella volta? Ti sei dimenticata presto di me, eh? Marco me ne ha parlato qualche giorno fa e devo proprio dire che ci sono davvero rimasto molto male..."
"Io..."
"No no no, niente io! Tu non hai alcun diritto di trattarmi a pesci in faccia così! Sei scappata, pur di non risolvere il problema hai trovato altri che saziassero il tuo bisogno di affetto... Mi fai davvero schifo Andrea. O dovrei chiamarti Alessia?"
Lei si asciugò gli occhi, "Nessuno mi chiama col mio secondo nome e anche tu sai quanto io lo odi!"
"Sì che lo so, sennò non l'avrei usato!"
Ricominciò a piangere a dirotto e poi iniziò a urlare che non lo sopportava quel nome, che quel trattamento non era giusto, che ero uno stronzo e che le stavo facendo male.
"Perché," mi chiese tra le lacrime, "perché mi tratti così?"
"Perché te lo sei meritato! Per tutte le volte in cui non mi hai risposto, per tutte le volte in cui non mi hai cercato e hai cercato altri! Io c'ero, volevo esserci! Sarebbe bastata una chiamata, un messaggio! Ma no, meglio non rischiare! Meglio sparire! Sai che ti dico? Vaffanculo Alessia."
E me ne andai così, mentre lei piangeva e si passava le mani tra i capelli corti.
Io incazzato come una biscia, lei triste come non mai.

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Capitolo 6
*** Viaggi, imbarazzi e furie pelose ***


-16-
Tornai a casa di Elena e lei si accorse che ero alterato, si avvicino e mi strinse forte, ma in modo dolce;
“È andata male?”
“Estremamente male,” risposi io, “ma ora voglio solo sdraiarmi con te sul divano e rilassarmi un po'..."
“Ehm, vedi... C'è un piccolo problema.”
La guardai con una delle mie espressioni interrogative migliori, ma lei evitava di guardarmi e sembrava piuttosto imbarazzata, così le chiesi quale fosse il problema.
“Beh diciamo che c'è un ospite che ha preso possesso del divano.”
"Esco per risolvere una questione spinosa e ti sei già trovata il ruotino di scorta?!"
"No, stupido è solo..."
"Meow"
Mi girai lentamente verso il soggiorno e sulla soglia della stanza vidi un enorme Maine Coon tigrato che mi guardava con due occhioni verdi.
"Ma è..."
"È solo Archimede, il gatto della vicina."
"Veramente sembra più un puma visto quanto è grosso, però sembra tenero... Archimede? Vieni qua, micio!"
Un quarto d'ora e parecchie urla dopo mi ritrovai con una quantità inimmaginabile di graffi sulle braccia e con quella peste di felino che mi soffiava contro da sopra l'armadio, e fu così che feci la sua conoscenza.
Elena mi prese dal braccio, causando altre urla da parte mia e mi portò in bagno per disinfettare le mie cicatrici di guerra; poi mi spiegò come interagire con quella belva:
"Guarda, basta una leva," disse prendendo un librone cartonato e un contenitore cilindrico, "lui si diverte così."
"Cioè, mi stai dicendo che abbiamo in casa un gatto, che più che un gatto sembra una tigre, a cui piace giocare con le leve e i piani inclinati e che per questo si chiama Archimede?"
"Beh sì, immagino sia per questo, sì. "
"Ossignur, è peggio dei supplì al telefono..."
Giocammo quindi con il gatto per un po', ovviamente a debita distanza, poi all'improvviso Elena lo prese di peso e lo confinò in camera da letto, poi si girò verso di me e con tono suadente disse: "Vado a farmi una doccia e tu vieni con me."
"Non avrei rifiutato per tutto l'oro del mondo, cara..."
Andammo in bagno e tra un bacio decisamente piccante e un altro, ci togliemmo i vestiti e stavamo per entrare nella doccia, quando Elena si bloccò e mi chiese se avessi spostato le sue cose in bagno.
"Beh sì, ma giusto qualcosa. Non ci stava la mia di roba sennò..."
Si girò verso di me, infuriata, "Ma cazzarola, era troppo difficile chiedere dove potevi metterla?! Avremmo trovato un modo senza che tu mi mettessi sottosopra la toilette!"
"Intanto modera i toni, primo. Secondo sì, non eri a casa quando ho svuotato quello scatolone e terzo si chiama bagno, non toilette!"
"Il mio cesso lo chiamo come mi pare, porca troia, e potevi chiamarmi, cazzo! O aspettarmi!"
Sbuffai, "Senti, possiamo sempre trovare un altro posto per metterla adesso..."
"Ah beh, ma io l'ho già trovato il posto, caro!"
"E sarebbe..?"
"Su per il tuo flaccido culo di merda! E adesso fuori, me la faccio da sola la doccia!" E, detto questo, mi buttò fuori dal bagno, pardon, dalla toilette.
Mi rivestii e andai da Archimede per provare a giocare un po', quindi per prima cosa provai ad accarezzarlo un po' e, con mia sorpresa, iniziò persino a fare le fusa mentre si strofinava tra le mie gambe.
"Certo che sei proprio un gatto diabolico tu, eh? Prima stavi quasi per ammazzarmi."
Lui smise di fare le fusa, mi guardò per qualche secondo e poi andò ad infilarsi in una scatola di cartone che era là vicino; quindi sì, neanche il gatto voleva avere a che fare con me.  Ricominciai a sistemare la mia roba nell'armadio della camera da letto, di spazio vuoto ce n'era a sufficienza quindi non mi preoccupai eccessivamente, finché Elena non entrò in camera:
"Senti, mi spiace di aver reagito in quel modo prima, è che... Aspetta, stai mettendo la tua roba nel mio armadio?"
"Ehm sì, qualcosa non va?"
"Certo che sì, quello spazio mi serve! Ma porca troia, non hai imparato niente da quello che è successo prima?! Mi rimangio le scuse e ti prendo anche a pedate se tra cinque minuti tutti i tuoi cazzo di vestiti non sono nell'armadio che c'è in corridoio! Cazzarola, sei proprio impossibile!"
Mentre la mia amorevole ragazza usciva dalla stanza incazzata io sospirai e iniziai a spostare i miei vestiti nell'altro armadio poi, dopo una decina di minuti, lei tornò da me di corsa, abbracciandomi e chiedendomi scusa, in lacrime.
"Sono una stupida, è più forte di me... Vedi, io ho questa mania di dover mettere le cose in un certo modo e nessuno deve spostarmele... E quando succede non rispondo più delle mie azioni..."
"Ti capisco, Ele... Io ho lo stesso problema..."
"Davvero?"
"Certo! Pensa che, l'altro giorno, avevo comprato una manciata di azioni di una società su internet che sembrava andare bene, peccato che dopo neanche mezza giornata aveva perso talmente tanti punti che valevano meno di una bottiglietta di sabbia nel Sahara!"
Mi fissò proprio come aveva fatto il gatto, poi iniziò ad imprecare e a picchiarmi con una delle ciabatte che aveva ai piedi; io provai a difendermi dicendo che la battuta non era neanche al livello di quella in cui una gallina va in tribunale per deporre, ma non sembrò migliorare la situazione. Quindi provai con un'altra tattica:
"Guarda, il modo migliore per risolvere questa situazione è fare un bel viaggetto... Siamo entrambi molto stressati temo, e ho già in mente un'ottima meta!"
"Un viaggio?.. Beh in effetti al momento sono ancora disoccupata, quindi non ho problemi con le ferie. Mentre tu hai le vacanze di natale a breve, no?"
"Esatto, giusto un paio di settimane, ma sì, le ho."
"E che meta avresti scelto?"
"Eeeh indovina."
"Londra? Berlino? Amsterdam?"
"No, no e no. Pensa al sole, al caldo e a taaaaaaaante situazioni imbarazzanti."
"Aspetta, tu mi stai dicendo che... Oh no."
"Oh si, andiamo in Sicilia, baby!"
A quel punto lei iniziò con le solite pippe mentali da donna, per esempio "come ci andiamo", "devo ancora fare le valigie" e la migliore in assoluto: "devo depilarmi le gambe e rifarmi le sopracciglia". Le dissi di non preoccuparsi e che ci avrei pensato io. "Fai le valigie per entrambi, non preoccuparti di limiti di peso, schiaffaci dentro tutto quello che ci potrebbe servire, costumi da bagno compresi che giù da me fa caldo. E non dimentichiamoci di quella furia scatenata che ci ha affibbiato la vicina."
Poi fuggii da casa telefono alla mano e non appena potei chiamai Marco e gli chiesi un favore enorme che vi svelerò più tardi; "Ma certo," rispose lui, " vi passo a prendere tra... Un'oretta e mezza?"
"Vada per un'ora e mezza, grazie Maestro. E non ti ringrazierò mai abbastanza."
"Portami due chili di paste di mandorla e saremo quasi pari. Ci si vede dopo!"
Tornai da Elena e la aiutai con i bagagli che finirono per essere due enormi trolley e due zaini stracolmi. Avevamo appena finito quando citofonò Marco e scendemmo e ci trovammo davanti lui e... Un'altra macchina! Era una Twingo del '93 color verde pisello con la tappezzeria blu e rossa, con quei fari e l'antennona che ti ispirano subito simpatia. "Ti ho portato il bolide, trattamelo bene, che sennò mia zia prima uccide me e poi uccide te."
Elena girò intorno alla macchina e disse "Ci andiamo a Caselle con questa, vero?"
"No, acqua", feci io.
"Allora a Porta Nuova?"
"Oceano. Vasto, freddo e sconfinato."
"Ma allora... Cioè, tu mi stai dicendo che... Oh no. No. No, mi rifiuto."
"E invece ti tocca! Adoro i viaggi on the road! Stereo a palla, pisciatine negli autogrill, chilometri e chilometri da macinare con le ruote, aaaah un sogno..."
Nel frattempo Marco tra una risata e l'altra aveva sistemato i bagagli, ci salutò, ci ricordò delle paste di mandorla e mi chiese di chiamarlo quando arrivavo, poi entrammo in macchina e partimmo. Andammo prima a fare il pieno e poi corsi a scatenare i miei cinquanta cavallini francesi in autostrada, mentre Elena mi teneva il muso.
"Dai, cosa c'è che non va?"
"C'è che potevi almeno chiedermelo."
"Non ti piacciono i viaggi in macchina?"
"Non mi piace che alla stratosferica velocità di 130 all'ora ci metteremo più di dieci ore! Dieci, cazzo!"
"Se continui a lamentarti metto i cd Vasco Rossi. Tutti."
"Non oseresti," mi disse con uno sguardo truce.
"Quanto ci scommetti?"
"Va bene, va bene, basta che metti Liga..."
E così "con Radio Clash da casello a casello" c'era ancora bumba per noi e il nostro viaggio era iniziato, tra le luci dei lampioni, i guardrail, i cavalcavia e un nastro d'asfalto che per me, sin da bambino, significava casa.
-17-
"Svegliati scema, stiamo per prendere il traghetto."
"Nnnnooo daiii... Non mi va di svegliarmi, cazzo... Lasciami dormire."
Io alzai al massimo il volume dello stereo e, dopo, parecchie urla, riuscii a farla svegliare per bene.
"Non si può stare in macchina durante la traversata, sennò ti avrei lasciata dormire. E poi io guido da ore e non mi sto lamentando."
Lei mi lanciò uno sguardo truce, "Ci credo, saresti capace di guidare questa carretta per degli anni, completamente no stop."
"Vabbè, sorvoliamo che è meglio. Guarda, sta arrivando il traghetto!"
Lei fece una faccia sconvolta e mi chiese se la società che possedeva il traghetto si chiamava davvero "Caronte".
"Beh," risposi io, "in Sicilia fa abbastanza caldo in quasi ogni periodo dell'anno. Ad Agosto ti si scioglie l'asfalto sotto le ciabatte."
Salimmo sul traghetto e poi prendemmo le scale per andare sulla "terrazza panoramica" per goderci l'alba in santa pace. Il mare era piatto come una tavola e il sole saliva lentamente, illuminando piano piccole barche cariche di pescatori e di pescato, il porto e la Sicilia, le cui coste si vedevano benissimo in quella limpida mattinata.
"Che dici, dovremmo chiamare i miei?"
Lei strabuzzò gli occhi e mi guardò con una faccia sconvolta. "Non l'hai ancora fatto? Sul serio? Vuoi piombare a casa dei tuoi senza neanche accennarglielo?!"
"Ehm, sì?"
"Ma perché cazzo sto con te, ricordamelo!!"
"Sono... Molto simpatico?"
E mentre lei mi rincorreva per picchiarmi con la borsa per tutto il traghetto completammo la traversata, tornammo in macchina e volammo nell'ultimo tratto di autostrada, lavori permettendo.
Eravamo per l'appunto in coda a causa di un cantiere ("La Salerno-Reggio Calabria: l'unica autostrada dove puoi i trovare i cartelli -Autostrada tra 5 km-") quando ci guardammo negli occhi folgorati dallo stesso pensiero: "Il gatto!!"
Visto che eravamo fermi in coda scendemmo dalla macchina di corsa per prendere il micio e il suo trasportino, ma, invece del gatto, trovammo una palla di pelo, artigli e furia.
"'Ccidenti, lo odio 'sto gatto! Mi chiedo ancora perché tu abbia detto di sì alla vicina!"
"Perché la vicina è quella che ogni tanto mi cucina il polpettone con la pancetta, ecco perché!!"
"Al diavolo tu e il polpettone. Fila in macchina che ci stiamo muovendo. E porta quella bestia davanti."
Alla fine arrivammo a Giarre, dove i miei genitori avevano la loro casa. Parcheggiai la macchina, scrissi a Marco che era andato tutto bene e che il bolide era intero, poi presi il disastro peloso e aprii il portone con le mie chiavi. Salimmo al terzo piano e, quando aprii la porta dell'appartamento sentimmo dei gemiti provenire dal salone. Mi avvicinai con cautela, mentre Elena restava due o tre passi dietro di me, quando all'improvviso...
"Mamma! Papà! Cosa cazzo state facendo?!"
Loro si tirarono addosso il lenzuolo che copriva il divano in velluto e mi guardarono come se fossi un fantasma. Poi videro Elena e diventarono rossi come due peperoni arrosto.
"Razza d'idiota, te l'avevo detto io di chiamare."
Dopo qualche altro secondo di silenzio imbarazzante feci le presentazioni, mollai il gatto vicino al divano e dissi che scendevamo a prendere le valige. Mentre scendevamo sentii mia madre dire "Ma cavolo, c'è un macello in questa casa, che figura! Fammi prendere l'aspirapolvere!"
Io e Elena ridemmo, finalmente senza quella tensione che ci sentivamo entrambi addosso da qualche tempo e mentre imitavo i miei genitori nei loro comportamenti più disparati ce li trovammo improvvisamente davanti. "Allora," disse mia madre, "Ci accompagnate a fare la spesa? Così ci conosciamo un po'."
"Va bene ma', però devo liberare la bestia prima."
"Amore di mamma, non mi sembra il caso... Siete appena arrivati e già devi chiuderti in bagno?"
"Parlavo del gatto, mamma," le risposi in tono gelido. Non appena fu libero Archimede si andò subito a spaparanzare sul mio letto, soffiando non appena qualcuno osava avvicinarsi troppo. Eh sì, per essere un gatto aveva un carattere da leone.
Mentre eravamo in macchina mio padre ci chiese il perché di questa visita inaspettata: "Insomma, non che ci dispiaccia, sopratutto ora che tuo fratello è in vacanza in Inghilterra, però pensavamo rimanessi a Torino ancora un po'."
"Beh, diciamo che mi.. Ci serviva una sferzata di novità, giusto?"
"Diciamo di sì," disse Elena, "e poi, ammettiamolo: noi avremo anche le piscine, ma il mare qua è favoloso."
"Beh, non è male," disse mia madre, "ma devi sapere che quando andammo in Sardegna, per il viaggio di nozze ovviamente, c'era...." e si lanciò in una storia che raccontava sempre. Mia madre purtroppo non lo ammetterà mai, ma credo sia gelosa fino al midollo. Ovviamente, essendo Scorpione come il sottoscritto, non mi darebbe mai, e dico veramente mai, questa soddisfazione. Neanche se la pagassi. Così ogni tanto litighiamo, scherzando, su questa cosa, mentre mio padre alza gli occhi al cielo e sopporta, non volendo dare ragione né all'uno, né all'altra. Il caldo sole siciliano, la mancanza di cibo nello stomaco e, sopratutto, la carenza di sonno fecero sì che mi addormentassi in macchina come un bambino troppo cresciuto e, quando mi risvegliai eravamo di nuovo sotto casa e, incredibilmente, mia madre e Elena chiacchieravano e ridevano senza sosta!
Mio padre mi prese da parte e mi disse "Ormai è andata, figlio. Si son trovate e d'ora in avanti sarà come vivere con tua madre."
Alzai gli occhi al cielo e risposi: "Grazie papà, tra questa cosa e la scena indecente che ci avete propinato oggi credo di non saper decidere quale delle due metterà la parola fine sulla mia vita sessuale."

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