Hey, you!

di The queen of darkness
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Strange life ***
Capitolo 2: *** Daily routine ***
Capitolo 3: *** Jessy. ***
Capitolo 4: *** Stop. ***
Capitolo 5: *** The power of the unknown ***
Capitolo 6: *** Love (?) ***
Capitolo 7: *** The noble knight ***
Capitolo 8: *** Change... ***
Capitolo 9: *** Thoughts ***
Capitolo 10: *** Meeting sex symbols ***
Capitolo 11: *** Kisses ***
Capitolo 12: *** Morning, again ***
Capitolo 13: *** How to destroy a life ***
Capitolo 14: *** Bad girl ***
Capitolo 15: *** Disaster ***
Capitolo 16: *** Request ***
Capitolo 17: *** Eliza ***
Capitolo 18: *** Sugar ***
Capitolo 19: *** Miss Harper ***
Capitolo 20: *** Rockstar! ***



Capitolo 1
*** Strange life ***


La valigetta nera in mano, gli occhiali posati sulla radice del naso, i capelli tirati all'indietro.
Era da anni che non entrava in un'università. Era assolutamente spaesato e infastidito, per diverse ragioni: per prima cosa non era abituato a svegliarsi così presto. In secondo luogo, le scarpe erano strette da morire e terzo, il trucco gli mancava moltissimo. Anzi, forse era la cosa che più gli mancava di tutta la menata che era stata la sua vita. Un infinito gioco a rincorerre qualcosa di fatto inesistente ed effimero, che non aveva neanc'ora capito a che diavolo servisse.
Probabilmente non era mai stato tanto normale, in un sobrio completo scuro, fasciato in abiti usuali ad un uomo che lavora e che vive, il più delle volte, in modo civile. Per non dire monotono, si diceva, ma voleva negare l'evidenza.
Il bello era che progettava questa cosa da tantissimo tempo, e quando tutto era già stato portato a termine cominciava a pentirsene.
I corridoi silenziosi erano diversissimi da quelli sporchi e pieni di scritte a cui era abituato, le porte celavano solo un lieve brusio e non delle voci assordanti che si accavallavano, luci psichedeliche e pubblico in visibilio.
Si era divertito finchè era durato, ma non voleva consumarsi, perdersi nel modo in cui stava succedendo. Voleva vivere, il buon vecchio caro protagonista della sua vita fino ad allora. E chi era lui, personaggio secondario dietro le quinte, per opporsi?
Arrivò davanti ad una lucida porta di legno, e bussò discretamente tre volte, come avevano tentato di insegnarli quand'era bambino.
Odiava le porte in legno: le trovava prive di senso. Perchè una porta doveva essere elegante?, pensava.
Non serviva a nulla, dal momento che nessuno cagava minimamente l'aspetto della porta, ma solo quello che c'era dietro, ovvero una camera d'albergo, una casa o un ufficio, nel suo caso. Ma che senso aveva pulire e curare un semplice blocco fra stipite e stipite, un rettangolo a dimensioni umane che serviva a schermare l'aria tra una stanza e un'altra?
Non lo avrebbe mai saputo.
Una signora ultra settantenne sbucò fuori dall'uscio, in modo così repentino da farlo sussultare. Era così assorto nelle invettive verso la porta da non accorgersi della vecchia.
Anche lei, rifletteva, rispecchiava l'oggetto: legnosa, sottile, dritta e curata, con dei fastidiosissimi occhiali che terminavano a punta dalla montatura viola. E non un viola discreto, ma anche piuttosto aggressivo, come se lo stesse sfidando.
-E lei?- chiese annoiata.
-Sono il nuovo professore di arte-, si presentò.
Sua madre glielo diceva dalla notte dei tempi: la prima impressione che dai è la più importante. Quindi, l'aver offeso una porta, essersi spaventato davanti ad una vecchietta e non aver nemmeno salutato giocavano di certo a suo sfavore.
-Entri- concluse la megera, dandogli una rapida occhiata.
Non gli rimase che obbedire. L'ufficio, all'interno, era come se l'era aspettato.
Una scrivania essenziale che doveva costare un sacco di soldi, tappeti soffici ma vecchi, quadri pacchianissimi alle pareti e una scaffalatura assolutamente rispettabile rimpinzata di tutti i maggiori classici letterari. Non c'è che dire, vecchietta, i miei complimenti.
La donna gli fece cenno di sedersi; era leggermente claudicante, e camminava un po' curva.
La sedia scricchiolò sonoramente appena si sedette: ma perchè le brutte figure doveva farle tutte il primo giorno?
Lei si sistemò la catenella degli occhiali e scartabellò qualcosa, fogli che gli sembravano irrilevanti. Dalla finestra, come nei film, filtrava appena una piccola parte di luce dorata, che si diffondeva parzialmente a strisce arancioni sul pavimento. Rimasero in silenzio a lungo, anche perchè lui non sapeva proprio cosa dire.
-Ho capito- disse la vecchia spezzando il silenzio, ma a cosa si riferisse rimaneva un mistero. Lui sorrise cortese, mentre una volta le avrebbe urlato in faccia qualche parolaccia e buona notte. 
Strinse una mano sul proprio ginocchio, come a dire "trattieniti". Una goccia di sudore rotolò sulla sua tempia. Quanto gli avrebbe fatto piacere un bello scotch in quel momento!
-Bene, signore, il suo curriculum mi è arrivato la settimana scorsa, e devo dire che mi fa molto piacere notare i suoi requisiti- Un altro scricchiolio di sedia sottolineò il concetto. -Per me può iniziare domani
Ottimo, pensò. Il suo sorriso si allargò, ma non in modo troppo aperto, perchè aveva paura che vedesse il tremito sui suoi denti. Finalmente si accorse della targhetta dorata posata sulla scrivania. La vecchia si chiamava Miss Harper, e si chiese se non fosse veramente il suo nome e cognome, prima di darsi del cretino.
Le strinse una mano: era una persona, quella che gli stava di fronte, che non sorrideva né si scomponeva, e a lui tanto bastava. Gli ci volevano un po' di tipi professionali dopo anni di cazzoni incopetenti.
-La ringrazio- riuscì a dire. Intravide un flash nel quale reggeva soddisfatto il premio "baccalà dell'anno".
-Si figuri. Benvenuto fra noi, mister Brian Warner.

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Capitolo 2
*** Daily routine ***


Per poco non si sgozzò con il rasoio. 
Lo fece cadere ansimando sul lavandino, prima di decidere a buttarsi un po' di acqua fresca in faccia. 
Gli fece subito bene: la crisi passò immediatamente. 
Ormai capitavano sempre più spesso, e sperava che non gli succedesse anche al lavoro, soprattutto durante il suo primo giorno. 
Buttò l'occhio sull'orologio alla parete spoglia, bianca e banale; avrebbe dovuto prendere la metro tra poco. 
Aveva sempre odiato i mezzi pubblici, perchè lo facevano sentire vecchio, anche se non lo era. 
Pigiarsi in mezzo a tutte quelle persone sudate e affaticate dai bagagli, impomatate e strette nei loro abiti lindi e stirati da mogliettine premurose, agitati e maleducati, pieni di fretta ed impazienza. 
Aveva passato una settimana vagando tra un sedile e l'altro, per abituarsi al susseguirsi delle linee e delle destinazioni. Perdersi, infatti, non faceva parte dei suoi doveri di insegnante. 
L'abbonamento giaceva abbandonato sul letto. Lo infilò nella tasca della giacca, facendo una lista mentale di ciò che avrebbe dovuto portarsi dietro. 
Indossò il suo cappotto a cui, nonostante tutto, non aveva voluto rinunciare, sistemò gli occhiali e spense la luce. 
L'appartamento preso in affitto era squallidissimo: grigio, triste e spoglio, una moquette rovinata color vomito, giusto l'essenziale per sopravvivere per quanto riguardava mobilio e una piccola credenza in cui aveva trovato una tazza con scritto "you're welcome" a caratteri cubitali, quasi fosse una presa in giro. Si era subito rifiutato di berci dentro, comprandone una nera più sobria al supermercato lì sotto.    
Era un mese che ci abitava, e gli pareva ancora di stare in una stanza d'hotel. Non si fidava a disfare le valigie, e le aveva lasciate quasi intatte. Come faceva negli alberghi, sistemava su un asciugamano solo la biancheria, in un cassetto vicino al letto, ma i vestiti li tirava fuori giorno per giorno, osservandone poi il pigro moto nell'oblò della lavatrice alla lavanderia a gettoni. 
Non voleva arrendersi ad essere finito così, sperava ancora in un ritorno alla sua vita, alla Vera Vita, quella che lo riempiva di passione e che si godeva fino in fondo. 
Quando ancora si sentiva appagato; finito, consumato, ma appagato. Non poteva credere di barattare un vestito pulito con una mezz'ora di sguardo fisso al volantino giallo "4 $ di pura freschezza!". 
Nessuna chiaccherata interessante: o meglio, nessuna chiaccherata in generale. Non aveva mai incontrato una persona con cui si fosse fermato a dire qualcosa, a parte una volta, quando tramite telefono pubblico, fissando il numero di alcune prostitute incollato alla parete, ascoltava il suo ex-bassista descrivergli il casino che gli aveva lasciato.                 
Non aveva trovato compagnia nei suoi vicini di casa. Uno spacciatore mancato, che usciva prestissimo e tornava tardissimo, circondato da un'aria torva e circospetta; una casalinga di circa dieci anni più di lui sposata ad un uomo, che non aveva mai visto, la cui vita sessuale era molto attiva, soprattutto quando Brian cercava di dormire; una vecchietta che teneva il volume della TV alzato al massimo negli orari più strani e che lo guardava di traverso da quando aveva saputo che era un'insegnante; un uomo d'affari vagamente allucinato, che viveva solo, forse cliente del vicino; infine una donna anoressica, che sembrava uno scheletro e portava sotto braccio un topo spacciato per cane, dagli occhietti isterici e sporgenti.
Di certo una combriccola interessante, ma dalle abitudini strane. Forse nel tentativo di sedurlo, la ragazza tutta ossa lasciava le tendine spalancate del bagno in modo che l'uomo, dalla camera da letto, potesse ammirarne la pelle grinzosa e precocemente vecchia. 
Motivo per cui teneva le tende serrate in modo vagamente maniacale.      
Fece due giri di chiave e scese le scale, uscendo nell'aria fredda di fuori: l'inverno era arrivato prima del solito. Era sempre stato molto sensibile ai cambiamenti climatici, ma non ci aveva più fatto tanto caso con la scusa dei dischi e dei viaggi. 
Ora era molto più attento. 
Mentre formulava questo pensiero, si rese di nuovo conto di non sapere il vero motivo per cui aveva abbandonato tutto. 
Certo, il non riuscire a reggere era una scusa più che sufficiente, ma non bastava. Era quella l'esistenza a cui era abituato, nessun'altra, ma forse il desiderio di sedentarietà lo aveva spinto alla rivoluzione. 
Si sentiva vecchio, vecchio e stanco, con bisogno di stabilità.  
Le relazioni occasionali e i tradimenti di una notte avevano smesso da tempo di renderlo felice, perchè avevano perso il fascino del proibito. 
Alla sua fidanzata smise di importare, dopo un po', e anche a lui. 
Non succedeva raramente di svegliarsi impastato di cocaina in mezzo a ragazze sconosciute.             
Svoltò a sinistra, come decine di volte aveva fatto in quei giorni. Continuava a domandarsi perchè avesse voluto continuare a mantenere il proprio nome, nonostante fosse mutato tutto il resto. 
Boh, chi lo sa. 
Gli rendeva più familiare il nuovo ambiente? Era parte di lui? 
Non si può vivere per quarantatré anni in un modo e cambiare all'improvviso. Già vedersi come docente gli pareva strano.        
In fila alle scale mobili, una vaga inquietudine lo disturbò: e se qualcuno mi riconoscesse? 
Si diede dell'idiota. Impossibile; anche quando lo credevano struccato in pubblico, in realtà era più conciato di tutte le loro mogli messe insieme. Quindi, no, nemmeno questo problema esisteva. 
Fece un gioco con se stesso: se avesse trovato dieci buoni motivi per tornare alla sua esistenza di prima, lo avrebbe fatto, per quanto incasinato sarebbe stato. 
Salì sul vagone assieme ad un centinaio di altri sconosciuti. 
"4 $ di pura freschezza!". 
In fondo, cos'aveva da perdere?

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Capitolo 3
*** Jessy. ***


Era stata una giornata orribile. 
Fin da quando era arrivato, la signora Harper l'aveva intercettato per informarlo dell'aggiunta di altre due classi alle tre che gli erano state affidate, il che significava il doppio del lavoro in più. 
Aveva vagato fra i corridoi in ogni cambio d'ora per spostarsi da un'aula all'altra e a fine giornata aveva la testa piena di nomi e di facce. Era sempre stato un disastro a ricordare il nome delle persone, una sorta di caso patologico. Ma se messo così alle strette ci avrebbe impiegato mesi solo per riuscire a fare l'appello senza sbagliare l'accento sui cognomi dei laureandi.   
Alla prima ora, aveva fatto in tempo ad arrivare puntuale. Salendo le scale, aveva subito individuato la 307, come la chiamavano tutti ma senza un motivo preciso. Aveva sistemato la cartella mentre i giovani affluivano ai loro posti, pensando amaramente che in circostanze normali quelle persone sarebbero state tutte vestite di nero, truccate all'inverosimile e intente a ballare e scatenasi. 
Ma quei tempi erano finiti. Aspettò che si fossero sistemati; si sentiva bene, dalla crisi di quella mattina, e sperava non ce ne fossero altre in vista. Deglutì sonoramente. Era un po' intimorito dalle ordinate schiere di studenti, tutti sicuramente più preparati di lui. Voleva presentarsi senza sembrare un idiota. 
-Buongiorno a tutti - esordì - Io sarò il vostro professore di arte da adesso in poi. Oggi sarà meglio dedicare la giornata alle presentazioni...per darvi l'esempio, io sono Mr. Brian Warner - Prese un gessetto e tracciò con la sua pessima calligrafia il proprio nome, sottolineandolo con una riga precisa. 
-Ora toccherà a voi, ma invece che dirmi le vostre passioni e cosa fate nel tempo libero da bravi scolaretti che siete -,la classe fu percorsa da una risatina - vi chiedo di dirmi il vostro livello di preparazione, gli studi eseguiti in passato e su che genere siete orientati.
Una mano si alzò subito, lasciandolo un po' perplesso, perchè non si immaginava certo che avrebbero già cominciato con i quesiti. A voler domandare qualcosa era un ragazzo fra le prime file con piercing e borchie. Indossava una canotta nera con sopra una collana fatta a catena. Senza un motivo preciso, contribuì a rendergli il luogo più familiare. 
-Di già?- si lasciò sfuggire, sollevando l'ilarità dei ragazzi. Era piacevole, tutto sommato. 
-Come ti chiami, giovanotto?   
-Charlie-.  
Sorrise:- Bene, Charlie; quali dubbi può averti suscitato questa consegna?
Altra risata generale.  
-In verità nessuno - disse con aria arrogante, - è un dubbio che riguarda lei, più che altro. Non è che in realtà è Marilyn Manson in incognito? 
I ragazzi esplosero in una risata, ma Brian rimase agghiacciato. 
Un fan, proprio nell'università in cui insegnava, che l'aveva riconosciuto al primo colpo. Una cosa che poteva rovinarlo e fargli ricominciare tutto daccapo. Non poteva mandare all'aria mesi di preparazione, non come aveva fatto con la sua carriera, così decise (nei disperati momenti che seguirono la domanda) di mantenersi sul neutro, nonostante al suo interno si sentisse scoppiare. 
Assunse a fatica un'espressione divertita, perché anche volendo non poteva troncare un posto di lavoro iniziato da 24 minuti precisi e un appartamento in affitto, il più comune che era riuscito a trovare. 
-Charlie, apprezzo molto la tua fantasia, essenziale per un corso come questo, però vediamo di dargli un freno, d'accordo? 
I ragazzi risero, lo studente ridacchiò soddisfatto. Per un momento il pericolo era scampato, ma aveva altre quattro classi da seguire quel giorno: giovani ragazzi che potevano essere tutti potenziali conoscitori del genere che aveva abbandonato, nonché del personaggio il cui ruolo aveva abilmente travestito per anni, senza apparentemente stancarsi mai. Un circolo vizioso, una scelta che a rivelava all'improvviso azzardata. 
Ora capiva perché i membri della band non avevano lasciato mollato anche loro; oltre alla passione comune c'era anche la vera e propria impossibilità di non sentirsi braccati ogni giorno, per tutta la vita, col timore di essere riconosciuti o seguiti, ricattati o perseguitati, che le luci della ribalta si accendessero di nuovo sulla sua testa, inondandolo di una pioggia di fredda luce. 
Un istinto da non poter ignorare, lui che non era mai sul serio fuggitivo da qualcosa. E adesso doveva scappare dalla meta più ardua, ovvero se stesso. 
**
Come constatò amaramente, la saletta con scritto "PAUSA CAFFÈ" era una presa in giro bella e buona. 
Innanzitutto, non c'era nessuna sedia. In secondo luogo, quella brodaglia fumante rigurgitata da una macchinetta risalente al secolo scorso non poteva definirsi in generale anche solo potabile. Il contenuto colava pigro in un gigantesco bicchierone di carta che aveva un aria riciclata, con un aspetto assolutamente privo di consistenza. 
Portandoselo alle labbra, scoprì che era inverosimilmente amaro e bollente. Fece molta fatica a trattenere un conato di vomito, prima di integrare l'intruglio con chili e chili di dolcificante, l'unica cosa vagamente salubre nella stanza. Uno spazio freddo e color senape: un pugno in occhio, praticamente, con un moccio appoggiato alla parete rovinata e delle fastidiose piastrelle a scacchi che puzzavano di bagno pubblico. 
Non vedeva l'ora di uscire, ma per contratto doveva stare lì un'ora di più dopo la fine delle lezioni, rintanandosi in sala insegnanti a scartabellare fra documenti di cui non aveva mai capito un accidente. Sentì all'improvviso un suono che aveva imparato a riconoscere, grazie al suo orecchio che di suoni ne conosceva e analizzava tanti in ogni momento grazie all'esperienza: era il ticchettare delle scarpette di Miss Harper, la quale si stava avvicinando inesorabilmente alla stanza. 
Posò subito la bevanda, in quanto non poteva impedire al disgusto di trapelare dal suo viso al solo contatto con il contenitore sudicio, e si girò già prevedendo la sua entrata. 
Non fu deluso. Sbucò come suo solito, repentinamente e con un gesto secco, lasciando uno spiraglio aperto dietro di sé. A differenza di molte vecchiette, Miss Harper non aveva affatto l'aspetto indifeso, nonostante il maglioncino grigio tenue e la gonna a pallidi motivi scozzesi. Forse era colpa degli occhiali, la presenza di quell'espressione arcigna, o forse era solo incattivita per motivi suoi. 
Fatto sta che cominciò a palare mentre lui era ancora assorto nei suoi pensieri, dando continuazione alla precedentemente iniziata catena di brutte figure: -Oh, mister Warner, cercavo proprio lei. Sa, ci tenevo a presentarle una sua collega, anche se insegna in un'altra scuola. Una ragazza laureatasi da poco,estremamente brillante che ha trovato lavoro quasi senza difficoltà.
L'ex cantante non poté che annuire: il tono, come al solito, non ammetteva repliche. 
La preside si voltò a richiamare il soggetto in questione. La ragazza, oltre che giovane, doveva essere senz'altro un genio per suscitare l'ammirazione della vecchia strega, e quindi di aspetto poco gradevole. Solitamente le pupille del genere di persona incarnato da Harper, erano socialmente disadattate e fissate solo su determinati concetti, dalla mente poco elastica e, per giunta, incazzate col mondo. Le tipiche insegnanti giovani che riuscivano a sopravvivere senza tentazioni nelle scuole superiori grazie al nascondere peli sotto calze scure e pesanti, indossare gonne lunghe e di lana, leggere l'Odissea in lingua originale per divertirsi, e cose di questo tipo. Insomma, coloro che hanno il destino segnato dalla derisione di ragazzi in età adolescenziale. 
Meglio affrontate la prospettiva di una conversazione noiosa con una bella sorsata di caffè, perché nulla avrebbe potuto sembrargli peggio di ciò che stava bevendo. E invece, a sorpresa, dalla porta spuntò una ragazza bella come poche: una chioma rossa che lo stordì per la sua unicità, accompagnata da un viso sottile e graziosissimo, assolutamente privo di lentiggini e qualsivoglia bruttezza. E quel corpo, così...perfetto: gambe snelle fasciate dai jeans, un maglione bianco candido che ne metteva in risalto il busto modellato e un sorriso gentile, venato appena di stanchezza di una tipica persona che termina un turno di lavoro. 
-Piacere - disse sorridendo, bellissima e letale, -sono Jessy.
Un fascino innocente ma anche provocante, un cervello vivacemente intelligente celato da occhi scuri. Miss Harper aveva fissato la scena senza dir nulla, ma Brian a stento ci fece caso, incuriosito com'era dal nuovo incontro. Indubbiamente una bella donna, niente da dire, ma sapeva che lei sarebbe stata, nella sua vita, una presenza davvero interessante.

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Capitolo 4
*** Stop. ***


"Adesso basta", pensò esasperato, mentre l'ennesimo gemito perforava la sottile divisione rappresentata da pochi centimetri di cartongesso fra un'appartamento e l'altro. 
Andavano avanti da ore, ormai, e quando pensava fosse finito, la sentiva strillare ancora più forte e ululare degli strazianti  "oh sì, ancora" ripetutamente. 
Era una situazione assolutamente esasperante, che lo faceva più che altro riflettere sulla sua vita sessuale degli ultimi tempi, ovvero assolutamente piatta, come l'elettrocardiogramma di un morto, per capirsi. 
Una volta non sarebbe stato affatto difficile trovare una donna, per usare termini volgari. O si trattava della sua ragazza di turno oppure di una qualsiasi, finita chissà come in camera da lui. 
Però, in quel periodo, gli pareva quasi sconveniente trascinare donne a casa sua. In fondo, si diceva, era pur sempre un professore (anche se solo da una settimana), un esempio da seguire (anche se ai suoi studenti non fregava assolutamente nulla della sua vita all'infuori dell'ambito scolastico), e doveva mantenere almeno un minimo di dignità. 
Infatti nella sua vita non si era mai rivolto a prostitute o cose del genere, perché l'aveva sempre trovato abbastanza scialbo, e non ne aveva certo bisogno.   
Ma ora, i respiri pesanti dei vicini, i gemiti e i cigolii, lo strofinare delle coperte e di corpi selvaggi, famelici, lo spingeva a pensare. A ritenersi un idiota di tutte le infedeltà, a desiderare ardentemente una donna da avere affianco, e non per divertimento. 
Era giovane, anche se non si sentiva tanto in forma. 
Era ingrassato, questo sì, e se si guardava allo specchio vedeva sfiorire sempre più precocemente gli antichi tratti delicati, che avevano mandato fuori di testa molte ragazze, a suo tempo. 
Nonostante le urla sfacciate di due coniugi ignoranti e volgari, riuscì comunque a trarre un lato di romanticismo dall'accozzaglia di rauchi suoni sudici che provenivano dalla stanza accanto e a desiderare come mai prima d'allora d'essere amato. 
E di ricambiare.       
Un'altra incitazione "al mio stallone" lo disgustò e, prevedendo un'altra sessione ancora più calda della precedente, agguantò la vestaglia e uscì ciabattando dalla camera. 
I due non demordevano: lo facevano con così tanta passione da essere insopportabilmente rumorosi. Il salotto e il bagno non erano luoghi sicuri.
Portò un cuscino e una coperta in cucina, si sdraiò sul pavimento freddo e cercò di concentrarsi esclusivamente sui raggi pallidi che striavano le mattonelle davanti al lavandino.    
Si sentiva tristemente solo. 
Ecco un buon motivo per ritornare, sussurrò una voce maligna al suo orecchio; non hai nessuno accanto e ti senti un verme. Senti questi due contadinotti scopare e ti viene duro. 
No, frena un attimo.  
Si tirò immediatamente a sedere, scoprendo il bacino. Se doveva fare lo schizofrenico, che almeno recitasse bene, perché non era eccitato affatto, anzi. 
Solo un po' di malinconia, una cosa che passa, si era detto, ma il tanto atteso punto uno della sua lista (SOLITUDINE), non voleva sparire.    
Il bello però, pensando che erano soltanto le tre e trentaquattro, faceva un freddo cane, dormiva in cucina e il giorno dopo doveva essere al lavoro non più tardi delle sette e cinque, stava nel fatto che lui continuava a vedere nei suoi ricordi il viso nitido di Jessy, comparso subito dopo le urla dei due focosi amanti (che ci stavano ancora dando dentro). 
Un accoppiamento grottesco, se si voleva paragonare la grazia della giovane donna e la sua spiccata simpatia con lo strusciare di due corpulenti e sudati individui qualsiasi.     
La ragazza, ora che ci si concentrava, era a scuola da lui ogni giorno. Le superiori dove insegnava erano proprio lì accanto, ma mancavano di aule; i docenti non sapevano dove rifugiarsi dopo le lezioni non trovando nessun posto che non fosse un angolo fra un corridoio e l'altro. 
Così la maggior parte andava a casa, mentre lei ne approfittava per sbrigare un po' di lavoro nella sala vuota all'ateneo. Dove, guarda caso, anche lui si trovava per quelle inutili cartacce da burocrati affibbiatigli per contratto.  
Spesso, i due ne approfittavano per parlare, e ogni argomento era buono per far nascere una conversazione interessante. La giovane era preparata su tutto, dal cinema ai libri, e l'arte, naturalmente, ma aveva un modo così intelligente e pungente di vedere le cose, che i soliti pensieri erano rimescolati e fatti propri, così speciali da sembrare diversi. 
Non era una cappuccetto rosso smarrita nel bosco: lei il lupo lo usava per conversare e farsi raccontare vicissitudini sulla vita di tutti i giorni, gli chiedeva qual'era secondo lui la parola numero 43 orizzontale del cruciverba del Times e citava filosofi greci parlando di Fast-food. 
Una personcina originale che, evidentemente, parlava solo con lui.   
Era una cosa strana, aveva notato Brian, che non avesse rapporti con i colleghi della sua età, ma quando per sbaglio parlò con uno di loro, capì il motivo: avevano un modo di pensare così rigido e inflessibile che era noioso persino chiedere un'informazione. 
Lei era elastica e creativa; si sentiva onorato di ricevere la sua attenzione.
Si spostò su un fianco, perché sentiva la schiena indolenzita. 
Decise, in quel momento di apparente silenzio, di cercare di migliorare sé stesso. 
Secondo il suo ragionamento, una ragazza venticinquenne aveva trovato in lui un bravo ascoltatore. E quindi, visto che nessuno l'aveva mai visto in tal veste, si sentiva in dovere di essere una persona migliore, non solo di sembrarlo. Si sarebbe messo a dieta, avrebbe passeggiato ogni tanto, avrebbe accettato l'invito ai corsi d'aggiornamento e ripreso in mano la scaletta del teatro della città, riportata su un volantino invitante consegnato ogni mattina davanti al suo appartamento, a mo' di pubblicità gratuita. Sì, si sarebbe sentito meglio con le sue passioni di nuovo a portata di mano. E avrebbe scritto anche qualcosina di non pubblicato, per il gusto di sentirsi ancora capace di fare qualcosa. 
Si addormentò sorridendo, il nuovo Brian Warner, ancora una volta trasformato, così determinato nei suoi obbiettivi che riuscì ad ignorare, per il resto della notte, quella che era la libidine irrefrenabile della grassa casalinga e del suo instancabile marito.

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Capitolo 5
*** The power of the unknown ***


- Non sono d'accordo - disse Jessy con una smorfia. 
Stavano camminando fuori da scuola verso la metro: aveva appena scoperto che abitavano nello stesso quartiere, a pochi palazzi di distanza. L'aria fredda di dicembre scompigliò un ennesima volta i capelli di lei, a malapena celati sotto un cappello di lana grigia, come un riparo preso per non far divampare un fuoco rosso e ricciuto. 
- Secondo me - argomentò, - l'autore non voleva dire che gli piaceva la protagonista - svoltarono - bensì che aveva con lei un rapporto d'amicizia. 
Presero una strada meno trafficata delle altre, perché quel marciapiede era impossibile da attraversare. 
Stavolta fu Brian a guardarla di sbieco. 
-Lei è troppo innocente, signorina - le disse. - Si da il caso che quel fesso fosse un amico d'infanzia della ragazza di cui racconta la storia, no? 
La giovane annuì. 
-Giusto-, osservò, reggendo il caffè attentamente, rischiando di farlo cadere dopo una curva. 
Camminavano veloci con l'aria fredda che seghettava loro i polmoni. 
- Quindi, questo qui l'aveva sempre osservata, aveva fatto l'amico, la guardava da lontano, la spiava quasi, e alla fine? Lei si sposa e muore di parto - arrivarono alle scale della metro, che scesero con una certa urgenza. 
- Con un altro - sottolineò poi. 
Il volto di Jessy si fece dubbioso; gli insegnanti di letteratura avevano propinato agli studenti un libro da leggere e si erano accordati sia con la scuola superiore che con i docenti universitari di organizzare una sorta di concorso sull'illustrare i sentimenti del protagonista. 
Mentre i ragazzi erano impegnati a leggerlo, i professori ce la mettevano tutta per discuterci sopra. 
Era inevitabile, perciò, che i due vi si spaccassero la testa in migliaia di ragionamenti diversi. 
-Lo so- ammise la ragazza. 
Strisciò la tessera e passò oltre, e attese che lui facesse lo stesso prima di continuare. 
Senza neppure pensarci su, si immisero nella fiumana verso il corridoio 41, colorato di giallo come un fastidioso stendardo. 
- Però non puoi negare che lui le volesse bene nel modo più innocente.
Brian rispose senza esitazioni: - Quand'erano bambini, forse, non si poteva parlare d'amore. Ma con tutta la vita che avevano condiviso, era naturale che lui si innamorasse, anche perché non frequentava nessun'altra oltre lei. 
Aspettarono il treno, che già sibilava in fondo alla galleria. 
- Quindi lei era una puttana, secondo il ragionamento. 
Lui scosse la testa, salendo sul mezzo.
- Solo più sveglia -, osservò. 
La sentì ridere, e sederglisi accanto. - Odio il pregiudizio su un certo tipo di donna, come questo, ad esempio. 
Il treno richiuse le porte e ripartì cigolando, sbuffando e dando scossoni. La fretta ora era sparita: per i prossimi quindici minuti non avevano nulla da fare, avvolti dall'odore acre della metro. 
- Cioè? - chiese Brian. 
Lei prese fiato. - Insomma, lei aveva questo migliore amico con cui si confidava, e lui le stava così vicino da farle credere di non amarla se non come una sorella. Magari pure lei si era innamorata, ad un certo punto, ma poi non aveva visto interesse e aveva cominciato a conoscere gente nuova. Però non lo ha mai trascurato, cercava persino di trovargli una fidanzata, ma quando lui rifiutava forse ha pensato che fosse anche un po' gay, si era invaghita di un altro e l'aveva sposato. Ma subito i giudizi l'avevano investita come il treno su cui siamo seduti. 
Prese un profondo respiro, a conclusione del discorso. 
- È vero - ammise Brian, mettendosi comodo. -In effetti tendiamo molto a giudicare. Ma è l'uomo che deve fare il primo passo, a mio parere, perché per una donna è fondamentale sentirsi desiderata. 
Lei ridacchiò: - Sono completamente d'accordo, e più di una volta sono stata apostrofata come troppo esigente. Ma non mi sembra una cosa impossibile. E poi è da qui che si vede se l'uomo è veramente interessato - aggiunse quasi maliziosa. 
Superarono la prima stazione, e le porte si aprirono per un nuovo sali-scendi di passeggeri pieni di fretta.   
Stavolta fu Brian a ridere. -Non credere che un uomo non sia interessato solo perché magari non trova il coraggio di confessarlo.
Jessy annuì, però disse con aria furba: -Questa è anche una prova, per vedere quanto uno è disposto a rischiare e quanto saprà proteggerci in futuro. Astuto, non trovi?       
-Indubbiamente - riuscì a dire Brian.   
Restarono in silenzio per il resto del viaggio. 
Ogni tanto, la ragazza sorseggiava il caffè e guardava la cartina appesa vicino ai ganci per tenersi, con aria meditabonda. 
Alla fine, quando arrivarono alla penultima fermata, mentre il treno stava per aprirsi, lei scattò in piedi, sorprendendolo, si voltò e con una giocosa luce negli occhi disse: - Perché non scendiamo e non ce la facciamo a piedi?   
La proposta gli fece ribattere che comunque avevano un po' di strada da fare. 
- Se sei ancora incerto, decidi in fretta, perché il tempo scorre. Nella vita bisogna fare presto con le decisioni. 
Quelle parole suonarono decisive; aveva ragione. 
Lui aveva scelto la musica, anni addietro, perché non aveva mai smesso di renderlo felice, ma era arrivato ad un punto in cui accanto alla soddisfazione c'era anche il dolore, e il senso di vuoto. 
Come se avesse perso il suo scopo, e ormai cercarlo in quel campo sarebbe stato assolutamente privo di senso. Così aveva cambiato tutto, radicalmente, aveva rivoluzionato la sua esistenza, rinunciando all'agio per abbracciare l'anonimato. 
Ora che il suo nome era diventato uno qualunque, doveva armarsi per trovare la sua felicità. E forse, quella tanto attesa gioia si trovava in una semplice passeggiata. La dieta di quei giorni, lo squilibrio di quei mesi non avrebbero mai avuto un senso senza quella precisa camminata. Inoltre lo sguardo della ragazza lo ammaliava irresistibilmente. 
Appena le porte sibilarono, lui si alzò quasi fosse un richiamo e, preda di una qualche sorta di magia, scese dal treno con un ritrovato vigore.

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Capitolo 6
*** Love (?) ***


- E anche per oggi è tutto - dichiarò stancamente, prima di venire confermato dalla campanella. 
Quel suono gli aveva sempre dato fastidio, da tutta la vita, fin dai tempi della scuola, e probabilmente l'avrebbe tormentato per sempre.  
Guardò gli studenti sfilare fuori dalla porta quasi senza vederli davvero. 
Ormai era un mese che si trovava lì, in metro tutti i giorni, il ritorno con Jessy e la mattinata in università. 
Aveva perso cinque chili, si era fatto crescere i capelli e aveva imparato a cucinare. Insomma, più o meno: si sentiva importante quando spegneva gli incendi che rischiava di provocare. 
Quanto alle pietanze..le mangiava un po' alla "brûlé".   
Faceva passeggiate tutti i giorni, occupando i pigri pomeriggi fra l'incrocio tra la nona e Several Street e scartoffie di studenti annoiati con scarsa immaginazione. Il suo corso, fra le altre cose, stava andando molto bene riguardo a quel pulcioso libro autobiografico, e ne venivano fuori opere interessanti. 
Un ragazzino al primo anno delle superiori ne aveva tirato fuori un panorama orgiastico, fatto da corpi nudi e contorti, donne sofferenti e uomini superdotati con sembianze simili ad animali.  
Con Jessy, responsabile della classe, ci aveva discusso a lungo, perché al collegio docenti era sembrato che il soggetto principale del disegno le assomigliasse parecchio.  
Il ragazzo smentì però di averla presa come musa ispiratrice, dicendo di volerle solo fare piacere inserendo qualcosa di positivo in un "disegnetto dalle aspettative modeste". 
Proprio così aveva detto.   
Tutta la scuola sconvolta, ovviamente. C'erano persino state telefonate alla preside Harper (preside anche del complesso delle scuole superiori, in quanto era un unico edificio abbastanza fatiscente), dove eminenti cariche dell'istruzione discutevano a proposito del futuro del ragazzo. 
Stronzate, pensava Brian. 
Era più che sicuro che il ragazzo avesse stile, non solo per la delineazione realistica del tratto, ma anche per l'uso dei colori, giusto un po' di rosso e rosa carne in pochi punti strategici. 
Quando era per sbaglio entrato nell'ufficio della donna durante la sfuriata, si era trovato suo malgrado dalla parte dello studente. 
Certe cose non lo interessavano: adesso, da docente universitario si trovava coinvolto in questioni da quattordicenni arrapati...ma che storia era questa?   
La donna stava blaterando assatanata riguardo ai comportamenti scorretti di una mente perversa, che si erano scatenati su un innocente compito di scuola.  
Nessuno sembrava badare al fatto che il disegno fosse perfetto, in quanto a dettagli, e formato da una precisione minuziosissima. 
Non che Brian condividesse quel che era successo, perché il ragazzo aveva tirato fuori un'opera del tutto inadatta alla sua età (anche se si sa che i giovani ne sanno più di quel che fanno credere) e al compito che gli era stato assegnato, nonostante anche lui avesse pensato all'autore come un po' squilibrato e anche leggermente avvolto da un'aura di sfortuna. E poi, si era pur sempre a scuola: ovvio che certe cose non sarebbero state apprezzate.   
Ma il bello non era affatto finito: il colloquio sarebbe continuato quel pomeriggio, con lui (inspiegabilmente richiesto), Jessy e il professore di lettere, che c'entrava tanto quanto l'ex cantante. 
Un paio di pesci fuor d'acqua a sguazzare non troppo allegramente in una vasca di squali.   
In piedi in corridoio, quindi, aspettando pazientemente fuori dall'ufficio della preside, ripensò alla sua infanzia, a quante volte si era sempre trovato in attesa di parlare con Mr. Grassgrove, il responsabile della sua odiatissima scuola cattolica.  
Gli pareva quasi comico, dopo tanti anni, trovarsi nelle stesse situazioni di un tempo, provando anche le stesse sensazioni di allora. 
Non vedeva l'ora di andare a casa, anche perché moriva di fame. Con la scusa della dieta, la pulciosa insalata che costituiva il suo pranzo doveva essere accompagnata da qualcos'altro nel pomeriggio, un carburante per la passeggiata, o per arrivare alla cena senza sbranare qualcosa nel frattempo.  
Finalmente, l'arpia sbucò dalla stanza, e gli fece cenno di entrare. 
Lui eseguì, sperando che finisse tutto in fretta. 
Però, quando entrò nella stanza che ricordava bene, vide il ragazzo bianco in volto, abbandonando la solita scompostezza tipica degli adolescenti per farsi dritto come un fuso sulla sedia e, sulla seggiola affianco, Jessy, la pupilla della Harper, in lacrime, il trucco sbavato in neri rigagnoli lungo le guance. 
Il professore di lettere, invece, stava all'angolo, trafelato, ma senza prendere realmente parte alla conversazione interrotta dal suo arrivo. Era un uomo alto, magro, con i capelli bianchi e un paio di occhiali senza montatura, dal viso scialbo e rugoso. 
A catturare la sua attenzione fu però la ragazza, e una morsa gli attanagliò le viscere vedendola piangere. 
Cos'era successo di così tragico? Non pensava che vederla soffrire, per cause esasperatamente sconosciute, avrebbe fatto stare male anche lui, né che gli venisse una così bruciante voglia di picchiare a morte quel ragazzino che, senza stare attento ai propri istinti, stava facendo indirettamente del male a Jessy, e ferendo di conseguenza anche lui. 
- Miss Harper? - chiese. 
Era la prima volta che adottava un tono gelido e vagamente severo con la donna, per ora centro delle sue oscene invettive mentali. 
Fosse stato una volta, non avrebbe esitato a rovinarle la vita in ogni modo possibile utilizzando tutti i mezzi che aveva a disposizione. 
Voleva rovinarla, e si rammaricava di non poterlo fare. 
La megera aveva ingigantito la questione, e gli stava venendo il terribile sospetto che a pagarne lo scotto sarebbe stata la giovane insegnate, dolcissima ed intelligente. 
- Mr. Warner, mi pareva di averla fatta chiamare ben venti minuti fa - ribatté acida. 
Fare in modo che diventasse sua nemica non era proprio consigliabile, ma non gliene poteva fregare di meno, in quell'istante. 
- Lo so - rispose con lo stesso tono, - ma si da il caso che io sia stato assunto per fare il docente, non il rappacificatore in questioni che non mi riguardano direttamente.
- Che non la riguardano, dice? - sputò sorridendo la donna, inarcando il sopracciglio. - Lei è un professore di arte, e ha aderito a questo progetto come tutti gli altri docenti. E la condotta abominevole di questo ragazzo la riguarda, eccome anche.  
Lanciò uno sguardo fulmineo all'orologio da parete: aveva tre ore in tutto per rimanere in orario con la sua tabella di marcia quotidiana e, anche se era il primo a definirla una routine insignificante, in quel momento volle fare di tutto per mantenerla. 
Aveva bisogno di normalità dopo i fatti che si stavano svolgendo.  
- Senta, Miss Harper, non voglio essere sgarbato con lei, ma se vogliamo proprio dirla tutta il mio orario di lavoro è terminato precisamente dodici minuti fa, per rimanere in tema, e ho un appuntamento urgente.  
La preside lo guardò con aria di sfida: - E al ragazzo chi ci pensa? - disse, arrogante. 
- Lo porterò a casa io. Per quanto riguarda la signorina Moss, posso assicurarle che è assolutamente innocente, come ha affermato il ragazzo stesso. Ora, se vuole scusarmi - irrigidì il tono e lo fece diventare perentorio e quasi aggressivo - devo andare. 
Senza aspettare repliche, fece un gesto molto eloquente al ragazzo che ne approfitto per sgattaiolare dalla stanza, scambiò un'occhiata con Jessy che significava "ci vediamo dopo" e se ne andò sbattendo la porta in modo definitivo. 

**

Scesero in fretta le scale dell'ateneo e imboccarono  un marciapiede a caso, perché entrambi volevano andarsene il più lontano possibile da lì, anche se per motivi diversi.  
Le lacrime di Jessy gli avevano lasciato una sensazione sgradevolissima sul fondo dello stomaco, infuocata e bruciante, che gli aveva fatto provare una cosa che non sentiva da tanto tempo: paura. 
Timore puro e paralizzante per le sorti della ragazza e per il suo stato d'animo in quel momento.   
Non si era mai preoccupato per nessuno all'infuori di sé stesso. 
Per sua moglie, quando ce l'aveva, non aveva mai avuto particolari ragioni di preoccuparsi, perché era sempre stata una donna indipendente, e se se ne era andata era stata tutta colpa sua.   
Il suo migliore amico pensava fosse da gay, prendersi troppo cura l'uno dell'altro, e se uno della band si faceva male, il rito era un bigliettino di buona guarigione e sostituzione immediata.   
Neppure i suoi genitori apparivano nella lista; nonostante l'età sapevano benissimo badare a sé stessi da soli, e rifiutavano categoricamente qualsiasi ansia o aiuto esterno. 
L'unico che rimaneva, quindi, era lui, ma neppure in questo frangente si era mai allarmato troppo.     
Guardò lo studente che gli camminava vicino a testa bassa. 
- Come ti chiami? - chiese senza nessuna ragione in particolare, in tono anche abbastanza seccato.   
- Mike - rispose quello. -E lei?  
- Per te sarò Mr. Warner.
Silenzio.  
L'altro ci pensò su. - Non è che si chiama Brian?
Sorpreso ma ugualmente irritato, l'uomo rispose: - E tu come diavolo fai a saperlo?
Mike si affrettò ad alzare le spalle, con finta noncuranza. - Mi sembrava assomigliasse a Marilyn Manson.
Brian deglutì sonoramente. 
Possibile che un altro l'avesse riconosciuto subito, senza nemmeno una prova o altro? 
Forse mantenere il proprio nome era stato un errore, ma ormai era fatta, e non poteva cambiare le cose, del resto. 
Dal momento che non ricevette contraddizioni, il ragazzo continuò a credere che fosse proprio la rockstar, avendo quella che pensava fosse una conferma. 
- Ci manchi, lo sai? - affermò quasi malinconicamente, ma essendo di nuovo ignorato si fece insolente, col tono che doveva avere di solito. 
- Senti un po'....- disse confidenziale, - non è che ti sei innamorato di Mrs Moss? 
Per poco Brian non fece un infarto. 
- Cosa?! -disse cercando di essere truce, riuscendo solo ad arrossire e a sprofondare in un mare di dubbi. 
Il ragazzino sogghignava, evidentemente conscio di averlo colto sul fatto. 
No, non era vero, si diceva. 
Jessy era fantastica oltre che bellissima, ma la vedeva solo come un'amica, una persona con cui spendere piacevolmente del tempo. 
Certo, avrebbe voluto spogliarla, toglierle le mutandine con i denti, sentirla gemere sul tappeto del suo salotto, accarezzarle i capelli, svegliarsi con lei affianco dopo una notte di sesso selvaggio, andare al lavoro insieme e trascorrere le giornate di pioggia a casa in sua compagnia, ma non si poteva dire che provasse qualcosa....o no? 
Non erano forse queste le prove inconfutabili su ciò che sentiva per lei?      
- Ecco, siamo arrivati - disse Mike, interrompendo i fotogrammi della collega nuda e ansante che tempestavano la mente del professore. 
- Io non sono innamorato di lei -, chiarì, ma si prese in risposta solo un'occhiata divertita, prima che lo studente entrasse nel condominio abbastanza fatiscente. 
"Non amo Jessy" si ripeté continuamente sulla via del ritorno, ma non c'era nulla da fare: le immagini di una liscia e bianca schiena arcuata non lo abbandonavano. 
Per sua stessa volontà.

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Capitolo 7
*** The noble knight ***


Si erano trovati al caffè del centro, dopo aver preso rapidamente un appuntamento al telefono. 
La voce di Jessy era abbattuta, stanca e triste. 
Evidentemente la Harper doveva esserci andata giù pesante. 
L'importante, però, era che lei non piangesse più, perché gli era bastato vedere una sola volta le sue lacrime per sentirsi cadere il mondo addosso.  
Non gli piacevano le sorprese del destino, soprattutto se avevano risvolti negativi come quello, e sconvolgevano il suo modo di vedere le cose.  
Preoccuparsi...non aveva nemmeno idea di come si facesse. 
Non gli era praticamente mai successo che la reazione di qualcuno gli facesse scattare qualcosa, anche quando lo aggredivano e finiva in una rissa la cosa non lo smuoveva granché. 
Non che fosse stato mai un gran picchiatore, ma ci sapeva fare all'occorrenza.      
Comunque, si disse rimanendo sulla questione principale, non era questo il punto.  
Ci aveva pensato tanto, aspettando come una ragazzina davanti al telefono. 
Il malessere di Jessy faceva stare male anche lui, e ciò implicava qualcosa di più, e i "qualcosa di più" erano sempre sintomi di un incasinamento mentale in arrivo.  
E lui non voleva, né tantomeno poteva sostenere, anche qualcosa di vagamente simile a una relazione sentimentale. 
Se proprio ne sentiva il bisogno, poteva avere qualche rapporto occasionale con la ragazza del palazzo di fronte, la quale gli aveva fatto capire senza mezzi termini di "soffrire d'insonnia", "sentirsi sola" e "trovare piacevole la compagnia di uomini più grandi".   
Mentre raggiungeva il locale fu percorso da un brivido di disgusto. 
Oltre che giovane e frivola, la ragazza pesava sì e no una ventina di chili, se messa su una bilancia con un siamese in braccio, infagottata in fradici maglioni invernali e con quattro paia di pantaloni sovrapposti.   
Nonostante indossasse anche abiti abbastanza larghi, le si scorgevano comunque le ossa. E lui aveva sempre pensato che una donna, per essere bella, doveva avere un po' di carne nei punti giusti, chi se ne importava se magari abbondavano leggermente in punti non strategici, era più piacevole stringere una ragazza morbida che non una ossuta.  
Come Jessy, pensò. 
Ogni sua riflessione andava a finire inspiegabilmente lì.     
Finalmente, raggiunse il bar, abbastanza affollato ma riuscendo a mantenere degli angoli appartati dal resto.  
Assicurandosi che l'amica non fosse già arrivata, ne scelse uno in fondo al locale, togliendosi sciarpa e soprabito e ordinando un caffè forte.  
Gli mancava molto l'assenzio: se voleva rimanere lucido al lavoro, però, doveva rinunciarvi, anche se poco volentieri. 
Non ne aveva neppure una bottiglia a casa, e avrebbe chiesto al suo amico bassista di procurargliene un po', se non fosse stato così incazzato con lui.  
Il cameriere si fece subito vivo col suo elisir di lunga vita, e glielo posò sul tavolo. 
- Ah, scusi, potrebbe portarmene un altro? - chiese, e il ragazzo lo guardò in tralice prima di grugnire un assenso. 
Beh, se voleva iniziare coi ringhi non ne sarebbe affatto uscito vincitore, e gli lanciò un'occhiata di sfida aperta e sicuro trionfo, che fecero abbassare la cresta al giovane, diretto al bancone per l'ordinazione. 
- Con chi ce l'hai? - chiese una voce avanti a lui.  
Si voltò immediatamente: era lei. 
Cercava di sorridere, ma era pallida ed evidentemente triste. Completamente senza trucco, era persino più bella di quando sottolineava lo sguardo con un filo nero di matita o eye-liner. 
- Nessuno - rispose lui, sorridendo e distendendosi subito. 
Come cavolo faceva lei a farlo rilassare così, senza neppure uno sguardo ma solo con la propria presenza? 
Un mistero.  
Posò la borsa accanto a sé, sulla sedia libera. 
La sentì sospirare, e poi osservò con una meraviglia quasi infantile il sorriso stanco e luminoso rivolto al ragazzo che le porse il caffè, senza però fare l'infastidito, questa volta.  
Brian lo apostrofò con uno sguardo a dir poco eloquente, e il ragazzino si defilò in fretta, con la cosa fra le gambe in ogni senso possibile ed immaginabile.    
Rivolgendosi a lei, sollevò un sopracciglio: - Allora? Com'è andata?   
Jessy si prese il suo tempo per rispondere, sorseggiando la bevanda calda con un'assorta lentezza. 
- Si può dire meglio di quel che pensavo. La mia posizione non è mai stata in pericolo, a dire la verità, semplicemente non volevo che un alunno brillante fosse espulso per un'incomprensione. Semplicemente...sono riuscita con molta fatica a far intervenire una psicologa. Credo che Miss Harper non fosse d'accordo solo per ciò che sarebbe costato alla scuola - osservò con una smorfia.   
- Che tagli pure ciò che le serve dal mio stipendio, non lo uso mai tutto, ho poche spese da fare- disse lui, sinceramente.  
Un allarme si accese nella sua testa. 
"Brian? Che stai facendo? Ti stai forse trasformando in una brava persona? Eh? Vorresti forse vivere 'con il necessario'?".  
Ma ormai era troppo tardi: gli occhi della collega si illuminarono di una luce così intensa da farlo letteralmente sciogliere sul posto, come se all'improvviso tutto il mondo circostante fosse composto da caramello e zucchero. 
- Davvero? - esclamò con voce entusiasta, e lui annuì come inebetito. 
Aveva capito quanto quel ragazzo le stesse a cuore (gli pareva di aver sentito qualcosa riguardo ad una situazione familiare complicata), quanto la sorte di Mike le importasse. 
Le lacrime che tanto l'avevano fatto soffrire erano state originate dal pensiero che lo studente potesse passare dei guai, e se c'era una cosa che Brian odiava era proprio vederla piangere. 
Ribadì quindi il concetto; prima dell'attrazione, venne la consapevolezza per la prima volta che era la cosa giusta da fare. 
Doveva cambiare vita, no? E quello che stava per fare era di certo un cambiamento non indifferente. 
- Ma certo - disse con un sorriso meccanico e vagamente ebete. - Lunedì parlerò alla Harper. Se per lei non ci sono problemi, e non credo ce ne saranno, è una cosa che posso tranquillamente fare.  
A quel punto, mentre un'aura da nobile cavaliere e difensore degli oppressi gli scaturiva dalle spalle andando ad illuminargli il viso, si trovò colto del tutto sorpreso dall'abbraccio che Jessy decise di regalargli.  
Rideva contro il suo orecchio, e la curva morbida della schiena fu un invito a circondarla a sua volta.  
Respirando il suo profumo, Brian si rese conto che ne era proprio valsa la pena.

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Capitolo 8
*** Change... ***


Stava sdraiato sul divano in una singolare posizione, sullo stile di una “balena  spiaggiata”.
Stava ripensando al suo passato, cosa che gli capitava non di rado, soprattutto negli ultimi mesi.
Al lavoro non c’erano stati ulteriori problemi, la Harper si era messa tranquilla e il ragazzino era migliorato notevolmente da quando una psicologa lo seguiva passo  dopo passo.
Jessy si era ripresa tutto sommato in fretta, tornando la solita dopo cinque o sei giorni. Era solare e allegra come sempre, mentre riscopriva la sua passione per le parole crociate e interrogandolo mentre le faceva.
-Nome del re dell’isola dei Feaci nell’Odissea, poema omerico. Sette lettere, orizzontale-, gli aveva detto all’improvviso quel giorno. Anche se sapeva la maggior parte delle risposte, voleva comunque sondare il suo livello di preparazione con una sorta di test a sorpresa.
-Alcinoo -, aveva risposto senza alzare lo sguardo dal libro che stava leggendo, -prova a vedere se ci sta.
Ovviamente ci stava.
Erano andati avanti a parlare per un altro po’, poi lei era dovuta andarsene prima per un impegno urgente, lasciandogli fare il tragitto da solo. Avevano raggiunto un buon livello di confidenza e la strada la percorrevano sempre insieme, ogni giorno, a piedi, un tocca sana alla sua salute.
Forse, pensò grugnendo, in quel momento si trovava stretta ad un belloccio conosciuto in palestra che la vedeva solo come un pezzo di carne per ricavare una notte di sesso selvaggio. E la cosa gli dava immensamente fastidio.
Non solo perché la ragazza meritava molto di meglio, ma anche perché…negava fino all’ultimo la seconda ragione.
Perché voleva essere lui quello a rotolarsi nelle lenzuola al suo fianco.
Grugnì di nuovo nel silenzio tombale dell’appartamento vuoto.
La TV stava spenta davanti ai suoi occhi: forse accenderla l’avrebbe fatto sentire meno solo, ma non lo fece per mantenere lo stupido record fatto con sé stesso.
“Avanti Brian, quanto riesci a resistere senza accenderla da buon americano medio che sei?”, si era detto una sera. Così l’orgoglio ora gli impediva persino di usare un elettrodomestico. Stai facendo passi avanti, ragazzo mio, pensava sarcastico.
E poi, forse era anche meglio che lo schermo rimanesse oscurato, altrimenti avrebbe impostato su MTV, canale in cui era comparso raramente ma che faceva ancora male da guardare.
Infatti la notizia del “cantante più shock degli ultimi anni che decide improvvisamente di darsi all’anonimato”non era ancora passata di moda, anzi, se non avesse rinunciato ai suoi diritti d’autore su certe cose forse avrebbe fatto un amiriade di quattrini stando semplicemente in poltrona.
A proposito; non aveva una poltrona. Solo un pulcioso divano bi-posto, triste e verdino, intonato alla moquette.
Non ripensava più a sua moglie in quei momenti di solitudine, alla donna che aveva disperatamente amato e che si era lasciato sfuggire per inettitudine. Una donna meravigliosa che l’aveva reso felice. Non aveva potuto però impedirsi di rovinare tutto quanto con pura bastardaggine.
Pensava a lei con affetto, a come avesse fatto di tutto per mantenere lo straccio di un rapporto con un uomo tutto preso da droghe e festini che non rinunciava a nulla nonostante la promessa davanti a Dio.
Non riuscivano più a comunicare, e a posteriori si rese conto di averla trattata come una pezza da piedi.
E lei, che non era una donna stupida, aveva fatto più che bene ad andarsene via. Se la meritava tutta la solitudine.
Bussarono improvvisamente alla porta d’ingresso, facendolo sobbalzare.
Non aveva mai ricevuto visite da quando si era trasferito lì, e non aspettava nessun ospite. Dela sua vecchia vita aveva fatto in modo di essere l’unico a conoscere il suo domicilio da uomo qualunque, ed era fuori discussione che qualsiasi impiccione l’avesse trovato: era dall’altra parte del continente, per Dio!
Per un attimo pensò che fosse Jessy, una tra le poche che non fosse una segretaria vecchia e annoiata o una dipendente della motorizzazione a sapere il suo indirizzo. Forse voleva fargli una sopresa, era così strana e imprevedibile quella ragazza!
Fu per questo che andò ad aprire, dovendo anche togliere la chiave e girare due volte: non considerò nemmeno lo spioncino.
Per poco non fece un infarto; altro che Jessy, era la ragazza anoressica dell’appartamento di fronte, fasciata in  un accappatoio bianco.
-Sì?- chiese educatamente, appena riacquistò una voce che non fosse stridula.
-Ho finito lo zucchero- disse semplicemente lei, cercando di essere seducente. Lasciò che una spalla della tela spugnosa scivolasse un po’ a scoprire l’osso sporgente.
Era assolutamente ridicola. Innanzitutto aveva scelto la scusa più improbabile, in quanto quel corpo raramente avrebbe potuto ingoiare qualcosa che non fosse saliva pura e semplice, senza nemmeno un sale minerale. E poi la sua espressione quasi annoiata e apatica tipica delle persone anoressiche che si stanno dirigendo senza rimpianti verso la morte non faceva che rendere il quadro ancora più triste.
-Aspetti qui- disse lui calando sull’uso della terza persona, per schizzare in cucina, spalancare le ante della piccola credenza e prendere l’intera confezione dell’ingrediente.
Tornò sulla porta e la trovò ancora lì, nell’identica posizione di prima, ma con la faccia delusa.
“Mi dispiace, tesoro, ma io vado solo con gli esseri umani”.
-Ecco- disse porgendoglielo. Sfiorò la sua mano fredda da cui sporgevano vene e tendini.
Provò qualcosa di molto simile alla compassione; aveva davanti una persona martoriata dalla vita esattamente come lui, solo che in una sfera diversa. Lei si era sentita inappropriata fino a privarsi del cibo, e probabilmente sarebbe morta a quanti? Vent’anni? Non era assolutamente giusto che una ragazza così giovane fosse costretta a vivere una cosa del genere, sempre che quella si chiamasse vita.
Così, invece di sbatterle la porta in faccia, aggiunse:- Te lo do solo se prometti di mangiarlo.
Lei lo guardò per un lungo istante: un uomo dimagrito, che si stava tirando fuori dalla deriva con molta fatica.
-Farò una torta- rispose lei. –Ho fame adesso.
Poche parole che potevano sembrare bizzarre, ma piene di significato.
Prima di andarsene, distese le labbra secche fino a mostrare i denti e le gengive. Era quello il suo grazie.
Il primo sorriso dopo chissà quanto tempo. 

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Capitolo 9
*** Thoughts ***


Da giovane cercava la perfezione, ma ora si accontentava di poco per sopravvivere.
Era una considerazione resa scialba dalla situazione in cui venne fatta: il pranzo. Odiava il sopraggiungere dell’orario dei pasti, perché non era mai stato in grado di cucinare qualcosa di vagamente decente.
Mangiava cibi insipidi dal momento che mancava sempre il condimento giusto, e non aveva la minima idea di come mescolare gli ingredienti per creare qualcosa che andasse oltre i semplici piatti.
E poi stava morendo di fame. Le diete trovate su internet proponevano l’immagine di un uomo che si nutrisse solo d’insalata, indipendentemente da che pasto fosse.
Necessitava di cibi sostanziosi, almeno una volta la settimana, o che avessero comunque un sapore accettabile, giusto per tirare avanti in modo dignitoso.
Si era accorto di star dimagrendo troppo, tanto che i tratti spigolosi di quand’era giovane si stavano riaffacciando sul torace, sulle cosce e sulle braccia, dove i tatuaggi ben poco professionali potevano essere mostrati solo nel buio del suo appartamento.
Non voleva toglierli, nonostante diverse operazioni col laser avrebbero potuto offrirgli questa possibilità. Ormai, dal momento che li possedeva da quasi vent’anni, facevano parte di lui quasi quanto gli organi interni o la pelle stessa. Nonostante rappresentassero tempi ben diversi e parlavano di storie che era meglio fossero sconosciute agli insegnanti universitari, si era irrimediabilmente affezionato a quegli scarabocchi eseguiti ad arte da professionisti.
Quando era andato allo studio per comprare i disegni si era sentito immensamente fiero di sé stesso, perché era il chiaro simbolo del passaggio d’età, da ragazzino ad adulto. Formavano una parte troppo importante de suo passato per essere eliminati nel giro di poche sedute in un paio di mesi.
Trovava inammissibile la sola idea.
Doveva però ammettere che erano difficili da nascondere e che, alla sua età, sembrava anche abbastanza ridicolo. Col dimagrimento l’effetto “uomo maturo cerca motociclista ninfomane” era un po’ diminuito, anzi molto, forse perché grazie all’assenza di rughe particolarmente profonde non sembrava neppure poi tanto vecchio.
Negli ultimi mesi della sua carriera era diventato gonfio e pesante, aveva la metà del fiato per sostenere tour e concerti e ogni tanto stava veramente male. Sapeva però che non era affatto colpa del cibo, bensì degli alcolici. E, (ormai non aveva più senso nasconderlo a sé stesso) anche delle droghe.
Era sempre stato un tipo goloso, ma il suo fisico di prima era senza dubbio dovuto a qualcosa di molto più nocivo del semplice McDonald.
Tornando alla questione principale: che cacchio poteva mangiare? Le riflessioni sui tatuaggi non avevano certo la fama di sfamare le persone.
Aprì il frigo; volendo avrebbe anche potuto ricavarne qualcosa di sostanzioso, ma non sapeva proprio come assemblare i pezzi. Quanto comodo era prendere un pacchetto di patatine, stravaccarsi sul divano e guardare la TV?
“No, Brian, non cedere”, pensò. “Ce la puoi fare”.
Prese una confezione di uova, del prosciutto del giorno prima e dell’olio. Ruppe le prime in una padella antiaderente (o sperava fosse tale) e si mise all’opera. Era così ossessionato dal risultato che non aveva occhi che per l’oggetto, osservandolo come un lupo affamato mentre cuoceva lentamente nel fuoco.
Usava una forchetta per evitare di bruciare tutto come suo solito, e trovava quasi comico brandire l’attrezzo come un’arma di distruzione di massa nella piccola cucina.
Il risultato venne buttato famelicamente su un piatto, e divorato immediatamente. Abbastanza salato, leggermente saporito, privo di bruciature, col potere di saziarlo. Discreto.
Nella solitudine della sua casa minuscola, scoppiò a ridere come non faceva da anni. Dapprima un sogghigno a stento trattenuto, poi una contrazione della mascella ed infine una risata che partì direttamente dalle viscere, che gonfiava d’aria i polmoni, liberatoria.
Da quanto non rideva più così tanto?
E per un motivo tanto stupido poi, ovvero avendo avuto il flash di se stesso vestito tutto elegante ad una degustazione culinaria. Un’immagine di auto-presa in giro, che aveva il potere di farlo sentire leggero, anche se per un attimo e con il rischio di essere creduto folle.
Beh, chi se ne frega! La follia era molto più divertente della ragione, sempre così fredda e controllata. Rischiava di diventare come la Harper, vecchio e curvo senza nemmeno riuscire a sorridere, a stendere serenamente le labbra. Che donna ridicola!
Era molto meglio un tipo come, ad esempio, Jessy. Anche lei era folle, completamente svitata, ma brillante e pungente, capace di calibrare perfettamente sarcasmo e cinismo in un mix quasi psichedelico. Lei, le parole crociate, l’arte, il lavoro, la routine; dolci dettagli che gli erano sempre stati sconosciuti.
Come aveva fatto a privarsi della normalità? Aveva una vita misurata, anonima, ma comunque costellata di piccole sfide che lo riempivano di soddisfazione una volta superate. Non era affatto noioso vivere come stava facendo adesso. O meglio, a volte il tempo sembrava non passare mai, ma gioiva persino di avere ore da buttare, una volta tanto.
Basta paparazzi, l’ossessione di essere seguiti ovunque, la dipendenza dalle droghe oppure donne che non aveva mai visto presentarsi alla sua porta non di certo per raccogliere firme per la pace nel mondo. Il continuo e ininterrotto arrovellarsi per trovare nuove idee che venivano sempre più di rado, cercando di essere originale, sempre e tutto per altri.
Ora basta. Gli bastava essere importante per Jessy, il resto non era affar suo.
Certo, dei disguidi c’erano, ma entravano in una visione quasi tragi-comica delle cose, come ad esempio la vita sessuale dei coniugi nell’appartamento a sinistra, che in certo senso (a posteriori) lo divertiva. Era un po’ da maniaci pensare una cosa del genere, però in effetti cercava di cogliere i lati positivi delle cose.
La lista che si era ripromesso di stilare giaceva abbandonata in un angoletto della sua testa. Il fatto era che, anche se avesse voluto proseguire, non aveva elementi per completarla. Quando cercava di pensare a qualcosa da aggiungere, gli tornava in mente il viso di Jessy, oppure risentiva la sua risata, e tutto diventava ben di verso, in quanto a contesto. Due parole potevano riassumere in modo completo il concetto: donna nuda.
Non sapeva proprio come aveva fatto a nutrire questa passione per lei in un mese soltanto, ma credeva dipendesse dalla sua predisposizione all’essere amata, forse.
Aveva infatti notato gli occhi di parecchi maschietti posarsi su di lei, che sembrava non essersene inspiegabilmente accorta. Delle volte era di un’ingenuità spaventosa.
Sentì il cellulare sul tavolo vibrare, e guardò annoiato lo schermo, anche se il buon umore aveva lasciato i suoi strascichi.
“Indovina chi avrà domani una nuova collega?”, chiedeva la ragazza, pensiero costante negli ultimi giorni. Si sentiva un adolescente con la scusa dei messaggi, anche se sapeva di non esserlo più da un pezzo. Si sentì un po’ ridicolo mentre rispondeva, posando le dita sullo schermo piatto.
“Tu!”, rispose l’altra dopo un attimo soltanto. “E’ una ragazza che non vedo da anni…da quel che ho sentito è molto cambiata”.
“In meglio o in peggio?”, chiese il cantante.
Ma non ebbe risposta.
 
  

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Capitolo 10
*** Meeting sex symbols ***


Era in ritardo senz’ombra di dubbio.
Con uno scatto improvviso e a malapena consapevole di essere stato fatto, si alzò dal letto, buttando all’aria le lenzuola.
Corse in bagno, mischiando azioni contemporaneamente e arrivando quasi a rasarsi con il dentifricio al posto della schiuma da barba. Pettinò all’indietro i capelli ancora nerissimi, sapendo che si sarebbero spettinati una volta infilata una canottiera pulita.
Da quando aveva smesso di usare schifosissime colorazioni per farsi ciuffi ridicoli, bianchi o giallastri, i capelli si stavano infoltendo, mantenendo, tutto sommato, la loro sfumatura lucente, anche se ingentilita sulle tempie da qualche capello più chiaro.
Suo padre, alla sua età, era quasi del tutto canuto. Era questo che lui considerava un successo.
Si spostò in cucina: dubitava che avrebbe fatto in tempo a prendere un toast, fatto confermato dal tetro orologio da parete, che sembrava vegliare sul suo ritardo.
Si vestì in fretta, mettendo la tessera della metro nella tasca della sua giacca nera; gli interni dell’indumento, invece di essere foderati di un noioso e sobrio colore scuro, avevano un tono color acquamarina.
Si sentiva ridicolo a tener conto di certi aspetti, ma ne aveva bisogno per mantenere una propria originalità in un mondo che lo voleva grigio e uguale a tutti gli altri.
Bevve il suo solito bicchiere di succo di frutta, avanzo della sera prima, agguantò soprabito e chiavi e si preparò per uscire.
In entrata, lo aspettava la sua fedele ventiquattrore nera, professionale e riempita di migliaia di fogli e testi, che forse non avrebbe mai letto. Bugia…era l’ultima cosa che guardava la sera, prima di addormentarsi, momento in cui la sua memoria lavorava meglio.
“Alla fin fine te ne importa qualcosa di quei ragazzi, eh vecchiaccio?”, si disse sarcastico, ma fece di tutto per ignorare il sé stesso che lo metteva alla prova.
Chiuse la porta grigia e uguale a tutte le altre: era forse l’unica cosa positiva di tutto il palazzo, ovvero avere le porte uguali ovunque. Porte che non avevano identità, in attesa che qualcuno si interessasse finalmente al loro contenuto, invece che all’estetica.
Nemmeno i numeri facevano da riconoscimento, perché non ce n’erano. Bisognava sapersi orientare prendendo riferimenti, e il suo era riconoscibile perché era l’unico appartamento senza tappetino all’ingresso. Era come se sfidasse gli ospiti a sentirsi a disagio, ma dal momento che non ne aveva mai la sfida rimaneva solo con sé stesso.
“Sono gradito in questa casa?”. Era questa la domanda giusta da porsi, ma aveva paura della risposta.
-Mi scusi… - disse una voce maschile alle sue spalle.
Si voltò con urgenza: di solito non lo fermavano mai quand’era in anticipo, come mai le cose da dire spuntavano quando non c’era più tempo per chiederle?
-Dica – cercò di essere cordiale, ma risultò solo sbrigativo. Aveva in tutto quindici minuti per prendere la metro in tempo, e arrivare in orario per la prima lezione.
-Ecco, vede, posso chiederle un favore? Sono l’uomo che abita qui vicino, proprio dall’altra parte – disse, indicando la porta all’altro capo del corridoio.
Un uomo basso, calvo, con un ventre prominente e un paio di occhiali che celavano gli occhi con il riflesso di chissà quale luce. Vestiario tipico di un impiegato senza un particolare ruolo in una non particolare azienda, ovvero camicia azzurra in un paio di pantaloni neri, classici. Persona che, al tramonto, si trasformava in un libidinoso verme assieme alla moglie pervertita, travestita con panni casalinghi per non destare sospetti.
E così era quello il famoso “stallone”?
Quell’ometto patetico era davvero la causa di decine di notti insonni? Indicava proprio l’appartamento incriminato, non c’era possibilità d’errore.
Se avesse avuto più tempo, avrebbe addirittura giocato con lui, facendolo vergognare così tanto che se ne sarebbe andato con una coda mille notti millantata come chilometrica fra le gambe grassocce e leggermente storte.
Ma aveva fretta, e al lavoro non poteva sgarrare. –Come posso esserle utile? Se non le dispiace vado piuttosto di fretta.
I baffetti si incurvarono appena verso l’alto. –Oh, questione di un attimo. Sarebbe così gentile da tenere con lei questa scatola? Si tratta di poche ore.
Il sorriso che aveva non gli piaceva per nulla, ma il pacco che aveva tra le mani sembrava innocuo. Che dentro ci fosse un serpente velenoso o una bomba non faceva differenza, in quel momento: -Ma certo, non si preoccupi, ma ora devo proprio andare.
-Sì, grazie mille, scusi se le ho rubato del tempo – disse vittorioso, porgendogli la confezione.
Brian la incastrò sotto l’appendiabiti nell’ingresso aperto da un spiraglio e richiuse con urgenza la porta.
Poi fece un sorriso tirato all’uomo, ancora impalato lì. –Grazie ancora -, disse l’inquietante presenza, prima di andarsene con quella camminata particolare.
Non ebbe tempo nemmeno di rabbrividire; ce l’avrebbe fatta in dodici minuti? Bisognava scoprirlo.
Corse a perdifiato per tutte le rampe di scale, non avendo la pazienza di prendere l’ascensore.
Attraversò a passo spedito strade su strade, fino a finire alla stazione, dove sorbì interminabili file di scale mobili, fatte metà camminando, metà annaspando fra corpi accalcati.
Per pura fortuna riuscì ad infilarsi nella fessura lasciata dalle porte del treno in partenza, pigiandosi fra un altro centinaio di pendolari.
Vide per un secondo un orologio attaccato chissà dove, e capì che gli rimanevano otto minuti. Aveva fatto un tempo da record e non si sentiva nemmeno poi così distrutto.
Il bello della vicenda arrivò scendendo e correndo per raggiungere l’ateneo dove doveva tenere una lezione quella mattina, attraversando strade affollate anche dai suoi stessi studenti facendo volteggiare al vento il suo cappotto scuro, quasi fosse una ballerina alla Scala.
Arrivò in classe per pura fortuna, riuscendo addirittura ad evadere dalla Harper, già in agguato nel corridoio davanti a lui.
Si recò subito nella stanza recuperando aria fresca: con un  sospiro sfinito si tolse il soprabito e appoggiò la cartella alla cattedra, al centro dei banchi disposti quasi a semicerchio. Doveva ammettere che stare davanti a dei ragazzi sistemati come una sorta giuria particolarmente accusatoria gli incuteva un timore non da poco, dal momento che si trovava nel mirino.
Aspettò pazientemente che tutti avessero preso posto, e attese anche i consueti cinque minuti per offrire ai ritardatari la possibilità di rimanere inosservati.
-Bene ragazzi, buongiorno, accomodatevi. Oggi parleremo del cubismo, come già vi avevo annunciato all’inizio dell’anno. Chi mi sa dire qualcosa in proposito?
 
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- Brian! – lo richiamò Jessy. Stava per uscire dalla sala insegnanti, dopo quasi un’ora di lavoro d’ufficio. Si chiedeva perché quelle vecchie arpie all’ingresso non si facessero altro che le unghie in tutta una giornata, lasciando cumuli di roba agli insegnanti. Va bene che veniva pagato per lavorare, ma quelle cose non erano affatto di sua competenza.
Per quando riguardava la ragazza, era sparita, e non l’aveva vista per tutto il giorno. Quando ne sentì la voce, si voltò immediatamente.
Non era sola. –Brian, eccoti qui. Volevo presentarti colei che da oggi è una nuova professoressa nella tua stessa facoltà -. Lasciò spazio alla ragazza vicino a lei, che doveva essere leggermente più anziana, e gli sorrideva provocante.
Era truccata molto pesantemente per insegnare in un’università, inoltre la camicia aveva un bottone aperto di troppo, per i suoi gusti. Boccoli biondi squallidamente finti le incorniciavano il viso.
Alleggerita di un po’ di trucco sarebbe sembrata persino bella, ma in quel momento pareva solo molto, molto volgare. Decisamente inappropriata alle pareti senza troppe pretese di quello che voleva essere un “tempio del sapere”.
L’altra ragazza doppiamente bella senza troppi artifici, sembrava a disagio. Lui cercò di non far trapelare nulla della sua prima impressione, limitandosi ad un sorriso gentile quanto bastava. –Molto piacere, signorina. Io sono l’insegnante di arte, Brian Warner.
-Piacere mio -, disse stringendogli la mano. “Non ne dubito”, pensò lui sarcastico, ma ascoltò la presentazione fingendosi interessato. –Sono Bridget Sully, scienze del moto del corpo umano. È una disciplina inserita da poco nei corsi -, spiegò, vedendo il suo viso perplesso, - ma spero di riuscire a coinvolgere i ragazzi.
-Non dubito sul fatto che avrà molto successo, signorina – sorrise lui. Insomma, laurea facile in una materia inutile incastrata fra le altre, eh?
Non vedeva l’ora di rimanere solo con la sua amata Jessy, decisamente più semplice e genuina, anche come impatto esteriore. Se ne stava accartocciata in un angolo, ma lui le si rivolse anche per ribadire che era lei l’unica che gli interessava. –Jessica – disse sicuro e cortese, -ti aspetto o avete da fare?
Non la chiamava mai con il suo nome per intero, ma non voleva far trasparire troppa familiarità, perché la nuova arrivata aveva tutta l’aria di voler creare problemi. - No, no, arrivo subito.
Ecco, finalmente il raggio di sole in una giornata spoglia. Ormai non aveva più senso negare a sé stesso cosa provava, perché era diventato evidente nella solitudine della sua testa. Ogni pensiero era abitato, essenzialmente, da lei.
Salutò educatamente e, prese le sue cose, uscì dall’ingresso opprimente della scuola, percorrendo a passi misurati il marciapiede.
Aveva capito dall’espressione della giovane collega che il nuovo personaggio non era necessariamente una presenza positiva nella loro vita.
E che la loro conoscenza non si sarebbe affatto limitata a quella semplice stretta di mano. 

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Capitolo 11
*** Kisses ***


L’AUTRICE AVVISA: capitolo scritto ascoltando “Running to the edge of the world” e “Evidence”, quindi ovviamente molto romantico. Viva Marilyn Manson, ricordate che vi amo tutti. Buona lettura ;)
 
 
-Brian, scusami, ti prego! – stava dicendo Jessy. Non aveva nemmeno fatto in tempo a scendere i gradini che già era partita con una serie di dispiaciute frasi di scuse.
Era passata una settimana da quando Bridget aveva fatto la sua apparizione, ed erano subito sorte delle divergenze.
Un insegnante era stato cacciato, un uomo che non aveva mai dato problemi, per “comportamenti molesti sul luogo di lavoro”, mentre alcuni corsi erano stati spostati per fare spazio al suo. In realtà, gli unici iscritti o erano stati obbligati a partecipare per risolvere dei crediti oppure ammiravano solo il suo “balcone”, sempre bene in vista.  
Poi, come se ciò non bastasse, gli si era appiccicata addosso da un paio di giorni, chiedendogli mellifluamente questa o quell’altra cosa, ridacchiando come una civetta per qualsiasi stupidaggine. Per colpa sua, aveva dovuto tagliare molti incontri con Jessy in sala insegnanti: quando aleggiava quel profumo nell’aria, la ragazza si rattrappiva. E a lui le sue parole crociate mancavano un sacco.
-E di cosa, scusa? – replicò. A lui bastava vederla, poco contava l’ora e mezza di ritardo. Gli aveva promesso che sarebbe tornata in un minuto ed era sparita.
-Mi dispiace, sono stata imperdonabile – disse affranta, prima che un lampo brillasse nei suoi occhi. –A Bridget serviva una cosa, ma in magazzino non c’era.
-Ah, sì? – chiese annoiato. Dunque era un complotto…quella donna aveva molta sfacciataggine nel rovinare i piani delle persone.
Con il suo passo cadenzato interruppe la marcia di Jessy, facendola rallentare. –Che fretta c’è? – disse divertito, guardandola di sottecchi.
-Hai…hai ragione – rispose arrossendo, sistemandosi al suo fianco.
Svoltarono, ma non erano diretti verso la metro. Non si erano affatto messi d’accordo, ma imboccarono la via che ci girava attorno, come a voler prolungare quel momento in cui potevano finalmente stare assieme.
Era come se la compagnia di uno riempisse i vuoti dell’altra; due persone complementari che sapevano trovare un punto di incontro anche solo stando in silenzio, o camminando lentamente, perse nei loro pensieri.
Inoltre, era stata una settimana pesantissima, non rischiarata dalle parole strane e bizzarre che la ragazza sapeva padroneggiare, oppure dalle lunghe riflessioni del professore. Anche gli studenti risentivano delle tensioni dei docenti, e usavano le sue ore per sfogarsi. Era come se trovassero in lui una certa intesa, che non avevano con tutti gli altri bacchettoni che insegnavano “scienze della terra” oppure “poesia crepuscolare”.
Anche se cercava di scoraggiare certa familiarità, i ragazzi non potevano impedirselo, e a lui faceva anche piacere, tutto sommato. Era stato circondato da giovani per tutta la vita, come poteva non arrivare a comprenderli?
-E pensare che al liceo non era così – sussurrò Jessy, quasi soprapensiero. Poi avvampò, rendendosi conto di aver parlato ad alta voce.
-Parli di Bridget? – chiese, con un sopracciglio sollevato. La vide annuire.
-Abbiamo fatto le superiori nella stessa scuola. Io era la tipica secchiona, occhiali, apparecchio e libri, mentre lei si dedicava un po’ di più all’aspetto esteriore, ma aveva comunque ottimi risultati.
Lui pensò che il suo dentista fosse stato davvero un artista a plasmare un sorriso tanto speciale, ma si riscosse, dedicandosi al discorso che gli stava facendo. –Evidentemente sentirsi desiderata era meglio.
-Già – disse l’altra, demoralizzata. – Non avrei mai pensato che diventasse una persona del genere.
Sembrava in qualche modo delusa da quella che probabilmente era stata un’amica. Forse non era pronta ad una verità del genere, oppure aveva cercato di conservare il ricordo della ragazza che conosceva, trasformatasi poi in una prostituta a poco prezzo, dedita solo a rovinare le vite degli altri. Ma a quale scopo, poi?
-Non deprimerti – disse lui, sentendosi subito male per lei. Le loro reazioni erano davvero incatenate a tal punto? –Sarebbe diventata così lo stesso.
-Lo so, ma…- cercò di dire, ma non trovò le parole esatte.
Camminarono ancora, trovandosi in una parte della città che non gli era molto familiare. Frequentava sempre le stesse zone, e non era molto pratico del resto. Inoltre, il suo terribile senso d’orientamento non si smentiva neppure in quel momento.
-Sappi solo che non è colpa tua – spiegò, cercando di farla sentire meglio. –Se una persona è cattiva non dipende certo da te.
-Però mi dispiace – disse.
-Per cosa?
-Il ricordo che avevo di lei…è quello a straziarmi. Insomma, era una ragazza per bene, e invece adesso quasi non la riconosco. Dico solo che, prima, era come se avesse fatto apposta a farmi arrivare in ritardo. Avevo l’impressione che sapesse stavo per incontrarti e fosse contraria.
-Jessy – disse lui, con voce ferma. Si bloccò e la prese piano per le spalle, volendo farle assimilare il concetto. Per la sorpresa, le sue labbra si schiusero e le guance si imporporarono, come se fosse tornata al college. –Lei vuole semplicemente essere cattiva, anche se non ne vedo l’utilità. Non dipende da te – chiarì.
Lei abbassò lo sguardo, appuntandolo sulla strada deserta e umida di pioggia. –Ha un debole per te – sussurrò.
-Cosa? Ma se mi ha conosciuto lunedì!
-Lo so, ma le piaci comunque. Si vede da come ti guarda, da come ti parla -. Aveva un tono tristissimo, come se davvero pensasse che lui avesse anche solo il desiderio di stare a pensare a quella lì.
-Beh, mi dispiace per lei, ma non avrà pene per i suoi denti, questa volta – ribatté. La storpiatura non era programmata, ma il concetto venne reso ancora più chiaro.
-Brian! – disse la ragazza, fingendosi sconvolta, ma ridacchiando sotto ai baffi.
-Non è stato un effetto voluto – spiegò. –Ora me lo fai un sorriso?
Piano, lentamente, le labbra della ragazza si stesero appena, fino a scoprire i denti bianchissimi. La teneva ancora ferma, ma entrambi avevano smesso di farci caso.
Così vicini, quel calore spontaneo e quasi timido sbocciò con raddoppiata potenza, accresciuta dall’intimità della situazione. Per la strada non c’era nessuno, non si sentiva alcun rumore, e la scuola, Bridget e tutti casini delle loro vite sembravano essere stati dimenticati, definitivamente, lasciati da parte.
Esistevano solo loro due, e quel sorriso meraviglioso: due labbra morbide, dolcemente tese su un viso liscio e dai tratti così regolari da far male, contornato da bellissimi ricci rossi, come non ne aveva mai visti.
La semplicità di quella bellezza era abbagliante, e non riuscì a resisterle, non questa volta. Lo stress della settimana si sciolse come neve al sole, e il suo cervello smise di ragionare. Anche se sapeva che non era una buona idea, che lei poteva anche non ricambiare e che avevano quasi vent’anni di differenza, le si avvicinò piano, fino a quando i fiati caldi non si unirono in uno solo.
Le labbra si fusero, in un movimento che mai gli parve tanto naturale.
Nella sua vita, spesso aveva morso, leccato, pizzicato e baciato oscenamente labbra di donne che non conosceva neppure, infilando con desiderio la lingua fra i denti e sentendola muoversi per avere di più.
Ma in quel momento, avvolto dalle sue braccia e da quel rassicurante calore, da un dolce e delicato odore di ragazza, sapeva che la fretta non aveva motivo d’esistere. Non serviva un paesaggio romantico, come un tramonto sulla spiaggia o cavolate simili, per raggiungere la comunione dell’estasi; bastavano due anime, una strada vuota che sapeva di smog, l’asfalto segnato dagli pneumatici, vent’anni e degli appartamenti fatiscenti.
Erano quelli gli ingredienti per la felicità, e lui la raggiunse quando la sentì farsi avanti in modo quasi sfacciato, sorridendo contro la sua bocca: i loro denti si scontrarono, i bacini si avvicinarono e le mani si aggrapparono ai cappotti mentre la passione li bruciava dal desiderio.
A lungo si era trattenuto e aveva cercato di combattere contro ai propri istinti, ma non ce l’aveva fatta. Perché non decidersi ad amare Jessy, alla luce del sole?
Perché non si potevano avere relazioni fra colleghi.
Perché lei era infinitamente più giovane.
Perché non voleva rovinarla col suo carattere scostante.
Perché, con l’opprimente fardello del suo vissuto, non voleva schiacciarla.
Tutte ragioni convincenti, se fosse stato solo, sul divano del proprio appartamento, a rimuginare sulla sua vita fallita. Ma in quel momento aveva altro per la mente, e quell’altro era ciò che dava un senso a tutto.
Sperò veramente che la normalità e la paura rendessero possibile un rapporto, lo voleva davvero.
E, anche se le ragioni per rinunciare erano molte, troppe, era l’ultima cosa che voleva fare.
Voleva Jessy.
E Jessy voleva lui. 

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Capitolo 12
*** Morning, again ***


Ci mise un po’ di tempo per svegliarsi, quella mattina.
Sentiva gli arti intorpiditi dalla stanchezza, e non aveva assolutamente intenzione di alzarsi dal letto, coperto dalle coltri profumate e calde.
Stancamente, tastò nello spazio vicino a sé per sentire se c’era il magnifico corpo nudo Jessy, tutta scompigliata dopo una notte di follie. Toccò solo l’impronta tiepida sul materasso, le lenzuola stropicciate dalle sue dita.
Solo in quel momento realizzò che poteva trovarsi sotto la doccia, in quanto si sentiva l’acqua scorrere nel bagno lì affianco.
Ebbe un brivido pensandola completamente senza vestiti e coperta da rivoli d’acqua calda. Era così sexy…
Si riscosse, guardando la sveglia. Ormai pensava di aver preso l’orario, talmente era abituato ad alzarsi sempre alla stessa ora, indipendentemente da che giorno fosse. Lasciava che l’odiato oggetto sul suo comodino trillasse senza pensarci troppo, accogliendo quel suono irritante con un grugnito. Spesso, infatti, aveva già aperto gli occhi da ore, facendo in modo che il soffitto non avesse segreti per lui.
6.15. L’orario in cui si svegliava di solito.
Era sempre stato un uomo che ci metteva tanto per preparasi. Una specie di zombie nella prima mattina per un effetto inconscio, e un morto vivente nel resto della giornata per contratto.
Ci metteva tanto tempo per rasarsi e vestirsi, assicurarsi di essere in ordine, e aveva bisogno di alcuni minuti per accorgersi di essere al mondo. Raramente faceva colazione, era solo un momento come un altro per godersi il proprio caffè, l’unico che si concedesse in un’intera giornata.
Inoltre, aveva dovuto cominciare a svegliarsi presto per un intero mese prima dell’inizio dei corsi: non si era mai dovuto destare prima delle nove, non aveva nessun datore di lavoro col fiato sul collo all’epoca e, da quando il suo periodo scolastico si era concluso, si concedeva tutto il sonno che desiderava. Di solito viveva di notte, ma non aveva orari quando si trattava di smaltire sbornie o postumi vari; anche se non era mai stato un dormiglione, l’aveva parecchio stressato la sua nuova routine.
Chiuse di nuovo gli occhi, le palpebre erano troppo pesanti. Si lasciò cullare dai ricordi frenetici della sera prima, dai vestiti gettati con disprezzo sul pavimento in ingresso e dai baci quasi violenti e passionali che ancora gli infuocavano il corpo.
Dal momento che c’era ancora abbastanza luce di fuori, -pallida e grigia- non accesero nessuna lampada. Anche perché, a conti fatti, non se ne erano lasciati il tempo.
Non avrebbe mai pensato che a ragazza potesse avere un animo tanto focoso, e ne era rimasto strabiliato; aveva davvero bisogno di un forte risveglio dei sensi, stanco com’era di dover subire sospiri e gemiti d’altri, e mai propri. Quella notte era stata liberatoria per molteplici motivi, per entrambi.
Jessy aveva quasi compiuto un’illegalità: lui era abituato a trasgredire, e non ci faceva nemmeno più caso. Però avere relazioni con i colleghi era contro il regolamento, e avrebbero dovuto fare attenzione per non essere colti con le mani nel sacco e trovarsi senza lavoro.
Bridget sarebbe stata l’ostacolo più ostico, forse. Come gli aveva confidato la ragazza, li stava tenendo d’occhio da un po’, probabilmente capendo ciò che l’uno provava per l’altra. Ora che il sesso, (il sublime sesso, fra l’altro) si era messo in mezzo, sarebbe stato ancor più difficile non insospettire quella prostituta mancata.
Preferì non pensare a lei, al suo profumo sgradevole e alle tette finte: riassaporò la sensazione di avere la pelle liscia di Jessy fra le mani, e si sentì subito meglio. Non era sicuro che avesse notato i tatuaggi, ma in quel caso era addirittura meglio; quand’era una rockstar avevano un senso, che adesso avevano perso, in parte. Inoltre, il marchio distintivo del suo ultimo disco prima di ritirarsi parlava chiaro, brillante in pieno petto.
All’improvviso, nel posto vicino al suo si avvertì la presenza di un peso, che fece inclinare un po’ il materasso. Un dolce profumo di bagnoschiuma lo avvolse, accarezzandolo, subito seguito da una mano delicata che, insinuatasi sotto le lenzuola, si era posata sulla pelle calda.
-Buongiorno – sussurrò contro il suo orecchio.
Lui non disse nulla, limitandosi ad abbracciarla stretta. I capelli umidi gli si posarono sulle guance e quelle gambe bellissime di agganciarono alle proprie.
Era da tantissimo tempo che non si svegliava con una donna accanto: i primi tempi di fidanzamento ufficiale, lui e quella che era la sua fidanzata passavano la maggior parte del tempo sbaciucchiandosi come dementi, ma poi finivano sempre per essere trascinati nell’onda delle reciproche stranezze e impegni, rovinando e compromettendo irrimediabilmente il loro rapporto.
Sperava seriamente che la ragazza che aveva fra le braccia lo avrebbe accompagnato per sempre.
-Ma…cos’è questa roba? – borbottò contrariato, sentendo la tela spugnosa invece della sua pelle morbida.
La sentì ridacchiare, mentre lui trafficava con la cintura di stoffa annodata. –Si tratta del tuo accappatoio – spiegò divertita. –Non sembri così gigantesco guardandoti in giacca e cravatta, sai?
-Sei tu che sei troppo magra – rispose, affogato dai suoi capelli, già in fase di arricciamento.
La sua risata arricchì l’aria dieci volte meglio di quanto avrebbe fatto una qualsiasi melodia. –Mi dispiace interrompere la tua opera di denudamento, ma si da il caso che io e te abbiamo un lavoro.
-Al diavolo anche il lavoro, allora – disse, cominciando a baciarla lungo il collo. La sentì fremere immediatamente, e se ne compiacque; evidentemente, era ancora un amante valido.
-Dico sul serio – con la mano intercettò quella di Brian, già partita per la tangente. Nello sguardo si leggeva un certo dispiacere, ma era stata educata troppo ineccepibilmente per starsene sotto le lenzuola invece di andare a lavorare.
-Guastafeste – la rimproverò lui, facendola ridere di nuovo. Le solleticò leggermente una coscia facendo finta di niente poi, completamente nudo, si alzò per andare in bagno.
Jessy fischiò compiaciuta, come fanno i motociclisti quando vedono una donna nuda. –Ma quanto magro sei? – chiese, stendendosi sul letto come una gatta.
Lui si fermò per farle una linguaccia, prima di sparire anche lui sotto la doccia. Posò i piedi sulle piastrelle bagnate, si insaponò velocemente e aprì il getto caldo, lasciando che l’acqua lavasse via la terribile pesantezza delle sue membra stanche.
Era stata, però, una fatica assolutamente piacevole.
La ragazza aveva ragione, se non si muoveva sarebbero arrivati sicuramente in ritardo, ma si rese conto che non gliene importava nulla. Che senso aveva fare la persona perfetta e sempre in orario, quando si aveva l’amore tanto atteso sdraiato sul letto?
Gli pareva molto più importante starsene con la donna che amava, piuttosto che circondarsi di ragazzetti senza arte né parte. Abbandonare la carriera di punto in bianco e diventare un’altra persona: all’improvviso il suo gesto assumeva un senso.
Se fosse rimasto Marilyn Manson non l’avrebbe mai conosciuta: sarebbe stata solo un altro viso nella folla, un pallido, urlante ed esageratamente truccato essere umano, protetto da una ringhiera da quella che era la potenza distruttrice di un idolo triste e sbagliato. Il corpo sbarrato dal vincolo potente del buonsenso; si sarebbe distrutta per lui?
Forse no, in quanto non sembrava un’ammiratrice del personaggio, ormai morto e sepolto, che aveva smesso di tormentarlo. Stava quasi per cominciare a canticchiare una propria canzone, ma se lo impedì. Doveva cancellarle dalla sua mente, dimenticarle tutte quante, fino all’ultima nota.
Sentì uno strillo nell’altra stanza, che lo riscosse immediatamente. Un lampo lo fulminò: Jessy. Non poteva essere che lei.
Senza preoccuparsi minimante di essere nudo, uscì lasciando l’acqua ancora scrosciante, rischiando di scivolare. Corse fuori dal bagno e la trovò in entrata, che gli dava le spalle, accucciata per terra ancora mezzo-svestita.
Teneva qualcosa fra le mani, ma non riusciva a capire di cosa si trattasse, in quanto la preoccupazione per la possibilità che si fosse fatta male superava ogni cosa. –Stai bene? – chiese, impaurito persino della risposta.
Lei sussultò, girando lentamente la testa verso di lui, sembrando sconvolta. –B..Brian…è roba tua?
Solo allora scorse fra le dita impallidite una rivista, oggetto che non aveva mai comprato in vita sua. Cosa ci faceva nel suo ingesso un giornale? La copertina era stata resa lucida da un qualche riflesso, e non riusciva a scorgere nessun dettaglio.
-Che roba è? -. Il sollievo per il fatto che stesse bene superò ogni cosa, rendendo il resto la solita macchia poco importante di sempre.
Lei si scostò un po’, lasciandogli vedere per bene l’oggetto incriminato che tanto l’aveva sconvolta, come la sua espressione testimoniava a gran voce. Per essere sicuro di vedere bene, anche lui si piegò in ginocchio, sedendosi sui propri talloni. Gli faceva male il pube a stare così, ma pur di tranquillizzarla avrebbe fatto qualsiasi cosa.
Ben presto, anche la sua bocca si spalancò per la sorpresa.
Pornografia. Pornografia allo stato puro, con tanto di catene, corde, punizioni corporali e corpi sofferenti, in migliaia di posizioni contorte col puro scopo di dare dolore.
Alcuni oggetti sporchi di sangue venivano rappresentati fra le pagine, e più sfogliava più gli veniva da vomitare. –Cristo…- sussurrò sconvolto. Cosa ci faceva una cosa del genere in casa sua?
Anche in passato un gruppetto composto da ragazzi e ragazze gli aveva chiesto se voleva partecipare ad una cosa del genere, mostrando gli addirittura qualche mossa, che lo avevano letteralmente allibito.
-Jessy, te lo giuro, non so cosa diavolo sia questa merda – disse, buttando in un angolo il ripugnante giornale. –Dove diavolo l’hai trovata?
La ragazza, evidentemente turbata, indicò con l’indice un punto sotto l’appendiabiti. –Sono quasi inciampata su quella scatola, l’ho fatta cadere, si è aperta e…e… - si interruppe, fissando per terra.
La rabbia cominciò a bollire sotto la pelle di Brian. –Figlio di puttana… - cominciò a ringhiare. Si affrettò a tranquillizzarla, mentre la pozza umida sotto al suo corpo si allargava per effetti dell’acqua che lo bagnava. –Qualche mattina fa quel porco del mio vicino di casa mi ha dato una scatole chiedendomi se potevo tenergliela, ma siccome andavo di fretta non gli ho chiesto cosa ci fosse lì. Ma, per Dio, non avrei mai immaginato che fosse un depravato fino a questo punto…
La ragazza gli posò una mano sulla spalla, sollevando preoccupata un sopracciglio. –Quindi non è roba tua?
Lui scosse energicamente la testa. –Per carità.
Jessy era speciale, sotto molti punti di vista. Sapevano intendersi anche senza parole, un’affinità maturata in pochi mesi di conoscenza, ma che era forte ed indissolubile; per questo sapeva che era sincero, lo capì dal suo tono.
Sospirò, facendo uscire tutta la preoccupazione e lasciando spazio al sollievo. Gli posò la testa sulla spalla per un lungo momento, poi, con voce normalissima, come se stesse dicendo una cosa come un’altra, gli chiese: -Mi aiuteresti a trovare le mie mutandine? 

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Capitolo 13
*** How to destroy a life ***


-Trovato? – chiese Bridget.
La tentazione di urlarle in faccia un “No, brutta troia, cercatelo da sola!” fu quasi irresistibile, ma dovette trattenersi per sua stessa incolumità. Se l’avesse fatto sarebbe caduto dalla scala, spaccandosi sicuramente qualche osso.
Circa mezz’ora prima la donna sbuffava perché le servivano diversi fascicoli che non riusciva a prendere con la scusa dell’altezza di uno scaffale, nel polveroso magazzino scolastico. Dal momento che insegnava una materia introdotta da poco, lui si chiedeva cosa diavolo ci fosse in quel tugurio che avesse meno di vent’anni e che fosse finito attaccato al soffitto, ma la sua educazione gli impose di accettare appena formulata la richiesta d’aiuto.
Gli aveva fornito una scala, continuando a civettare questo o quello, e ogni piolo era una vertigine. Non era mai stato amante dei rischi all’infuori delle sostanze sintetiche, e l’altezza lo intimoriva abbastanza da evitargli di cadere come un peso morto.
Starnutì un’ennesima volta, maledendola con tutto sé stesso. –Non ancora – disse, cercando di recuperare un’aria gentile e disponibile. Fallì abbastanza miseramente.
Ecco, un altro gradino e uno scaffale si stagliò grigio davanti ai suoi occhi. Persino quel blocco di legno sembrava sorpreso da quella visita inaspettata, abituato alla solitudine dopo decenni passati nel dimenticatoio.
-Ricordati, il fascicolo viola! – urlò lei, per farsi sentire. Non ce n’era affatto bisogno perché, anche se si trovava abbastanza in alto, poteva sentirla benissimo anche senza quegli strilli esagerati e fuori luogo.
Aveva qualche remora a frugare alla cieca là in mezzo: sembrava proprio il posto ideale per ospitare nidi d’insetti e altre creature non meglio identificabili, quelle con migliaia di zampette pelose o teste viscide. Non voleva rischiare un incontro di quelli, così si limitò a scorrere con lo sguardo tutti i dorsi rovinati di vecchi volumi lì accatastati, sperando di cogliere il colore con il solo uso della vista.
-Non c’è nessun plico viola qui sopra, Bridget – le fece notare, sporgendosi leggermente verso di lei, per poterla guardare in faccia. Lei era a naso all’insù con un’espressione maligna sul viso, e un lieve sorriso ad incresparle le labbra. Evidentemente aveva fatto affidamento sulla sua schiena voltata, e venne colta in flagrante; anche lei sapeva benissimo che non esisteva nessuna raccolta viola fra quei fogli stropicciati.
Per un momento, visualizzò la scena di sé stesso usare tutte le mosse di wrestling che conosceva contro di lei, ma strinse i denti e la guardò gentilmente, con il viso di chi si è palesemente rotto le scatole di quella farsa e non vede l’ora di scendere.
Quella ragazza non riusciva proprio a sopportarla. Da quando, la settimana prima, Jessy aveva dormito da lui, si era dimostrata sempre più stressante e viziata, con le sue mille richieste. Sembrava averli presi di mira entrambi, e non lasciava loro la minima pace. Ogni volta che si incontravano a chiaccherare in corridoio fra una lezione e l’altra, Bridget sbucava sempre fuori con le sue stupide frasette di circostanza.
Naturalmente, erano riusciti a tenere un profilo così basso che nessuno sembrava essersi accorto di nulla. Non avevano tagliato gli incontri in sala insegnanti e, anche se per lui era molto difficile, evitavano di fare sesso proprio sul tavolo a scuola, oppure in un angolo qualsiasi dell’istituto. Tenevano il rapporto di normali colleghi durante il giorno e di un’allegra coppietta la sera, quando ognuno si ritirava sempre più spesso nella casa dell’altro.
Una cosa che aveva molto apprezzato era stato che lei non aveva fatto commenti sui suoi tatuaggi, nonostante avesse avuto modo di vederli più di una volta. Ne aveva accarezzato uno con aria nostalgica, sorridendo leggermente, dopo essere rimasta un attimo bloccata: quella sera era stata molto più dolce del solito, quasi trasognata, mentre si lasciava stringere.
Cacciò a malincuore quelle dolci immagini dalla testa, concentrandosi sulla volgare professoressa che aveva di fronte. La scollatura oscena esibiva i seni esageratamente scottati con delle lampade abbronzanti, contornati da boccoli finti e voluminosi. Il trucco spalmato fin troppo generosamente sul viso era accompagnato da litri di profumo, pungente e penetrante.
Era davvero strano che Harper non avesse imposto nessun codice sull’abbigliamento di quella sgualdrina, e un lampo intriso di fastidio saettò nel suo sguardo.
Lei si era irrigidita improvvisamente vedendolo notare la sua espressione, che non era passata inosservata.
-Basta, ne ho abbastanza – sentenziò, cominciando a scendere.
Non tollerava di essere preso in giro in modo tanto spudorato, da una persona che di fatto non lo conosceva neanche. Non sapeva i motivi di quell’apparente odio, e non era nemmeno interessato a conoscerli: era per una cosa che aveva detto? Che aveva fatto? Erano tutti problemi dell’interessata, che in quel caso era solo una.
Era abituato ad essere odiato, nella sua vita organizzazioni ben più minacciose di quella prostituta mancata l’avevano minacciato, mandando all’aria tappe importanti alla sua professione. Se non gli era importato di quelle cose, non si sarebbe di certo fatti troppi problemi ad escludere quella persona insignificante dalla sua vita. Non gli sarebbe costato nulla, a conti fatti, e avrebbe potuto addirittura tranquillazzare Jessy.
Non avrebbe mai perdonato alla donna che cercava di rabbonirlo di aver messo in agitazione la sua ragazza. Perché l’insegnante delle superiori, a conti fatti, era a tutti gli effetti sua, e di nessun altro. L’aveva detto ella stessa di appartenegli, e lui era più che soddisfatto di confermare quella stessa versione dei fatti.
Bridget non era assolutamente nessuno per minare la sua felicità, sia che fosse derivata dalla musica o da una compagnia femminile: non conosceva il suo passato, non sapeva quali motivi l’avevano spinto a diventare ciò che era in quel momento e non poteva assolutamente permettersi di cercare di stressarlo.
Anche perché non avrebbe mai funzionato, in quanto quando decideva di ignorare una cosa era molto bravo nel farlo, e più sgradita era, più il compito gli risultava facile.
Inoltre era stanco, spossato dopo una faticosa giornata di lavoro, aveva dei testi da correggere e un pranzo da cucinare, senza contare la mezz’ora a piedi che si auto-imponeva tutti i giorni sia all’andata che al ritorno; le metro lo stavano infastidendo parecchio, soprattutto a causa del loro odore pestilenziale.
Ignorò magistralmente tutte le scuse di Bridget, mentre cercava ridicolmente di fargli capire che non voleva fare nulla di male, ma si era semplicemente sbagliata, e piegò la scala con un gesto secco.
Le lanciò un’unica occhiataccia, che valeva per mille. Quando i musicisti da lui ingaggiati, un manager o chiunque altro ne riceveva una, voleva dire che faceva meglio a sparire, che Marilyn stava perdendo la pazienza lasciando spazio a Manson. Era sempre presagio di un casino bestiale, se la vittima non si levava prontamente dai piedi.
In quel caso, lei la piantò subito coi farfuglii, lasciando che gli occhi assumessero la forma di quelli che hanno i cerbiatti quando si vedono arrivare un tir in pieno muso. Indietreggiò di qualche passo, e Brian ne approfittò per avviarsi verso la porta.
Non vedeva l’ora di uscire da lì, anche perché la polvere gli stava dando davvero fastidio, e voleva lavarsi le mani al più presto per cancellare quell’orribile sporcizia dalle dita. Il suo piano era quello di portare la scala nell’altro magazzino, quello degli attrezzi, e di tornare un attimo in sala insegnanti per prendersi la cartella, che aveva dimenticato.
Una certa soddisfazione per sé stesso germogliò lentamente accorgendosi che, dopotutto, sapeva ancora come intimorire le persone, e nel modo migliore. Era bastato solo aggrottare le sopracciglia e indurire le labbra per farla zittire, e porre fine del tutto a quei balbettii irritanti.
Aveva rimpianto il potere dei soldi, perché se non avesse dovuto mantenere un basso profilo l’avrebbe denunciata e poi scaricata del tutto dalla sua vita. Certo, l’accusa poteva benissimo essere quella di stalking, oppure avrebbe potuto inventarsi anche qualcosa di meglio, ma voleva fare in modo che l’unico documento disponibile su di lui fosse il foglio dell’anagrafe, e basta.
Ne aveva la misura colma di polizia e guai legislativi, e aveva fatto in tempo a risolverli tutti prima di sparire e ritirarsi.
Tuttavia, una singola, unica, devastante frase, gli impedì di varcare la soglia e lasciarsi alle spalle l’accaduto. Quelle parole, intrise di cattiveria e una vena di disperazione, lo annientarono del tutto. Anche se le dava le spalle, gli parve di vedere il ghigno di quell’orribile opportunista farsi strada nella faccia truccata, senza alcuna pietà; si maledì improvvisamente per qualsiasi cosa fatta, imprudenza o, alla radice, dimenticanza che poteva averlo tradito.
Il suo pensiero corse, frenetico, a Jessy, mentre pochissime sillabe minacciavano di rovinargli la vita che si stava difficilmente ricostruendo.
-Io so chi sei, Marilyn Manson.  

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Capitolo 14
*** Bad girl ***


NOTA DELL’AUTRICE: oggi scrivo in una dimensione che sfiora lo psichedelico, quindi vi prego di farmi presente qualsiasi eventuale imprecisione. Sto infatti leggendo la biografia di Mister Manson e, wow, il ragazzo ci sa fare. So che è rara da trovare e io stessa ci ho impiegato un secolo a procurarmela tramite intermediari, ma ve la consiglio caldamente. Buona lettura ;)
 
 
Si stavano guardando negli occhi, quei due esseri umani intrappolati in un polveroso magazzino.
Lui, il viso liscio e ovale, dalle guance scavate, sembrava doppiamente pallido rispetto al solito. La carnagione chiara aveva subito un cambiamento improvviso e devastante, lasciando che due anti-estetiche borse scure apparissero sotto agli occhi dal colore mutevole, tra il marrone chiaro e il verde. Il naso importante si stagliava chiaramente nell’esatto centro del viso, come a voler celare la bocca carnosa e sbigottita. Da quando aveva smesso di truccarsi, le labbra si erano screpolate, e non metteva il burro cacaco per una stupida questione di dignità. Un uomo magro, lo spettro di colui che era stato fino a poco tempo prima, alto e dalla capigliatura bizzarra, che doveva ancora sistemarsi del tutto nonostante diversi parrucchieri avessero cercato di mitigarne l’effetto shock.
Lei, invece, aveva un’espressione tionfante dipinta sulla faccia abbronzata. Gli occhi verdi erano allungati e soddisfatti, contornati da ciglia impiastricciate dal mascara, abbondantemente messo lì sopra, le palpebre scurite da un velo pesante di ombretto. Il naso sottile e dalla punta all’insù sembrava perfettamente modellato rispetto al resto dei connotati, come costruito su misura, e una bocca dalle labbra sottili e resa quasi oscena da una carica esplosiva di rossetto era atteggiata in una smorfia arrogante. Una donna spuntata all’improvviso, tanto volgare quanto avvenente, che ora lo stava del tutto incatenando con il segreto di cui era venuta a conoscenza.
Erano tante, le domande che Brian aveva voluto porre, ma non riuscì a spiccicarne nessuna. Il petto sembrava essere stato riempito di mattoni dagli spigoli ruvidi, dalla forma sbozzata e tagliente, e il cervello era stato immerso nella melassa: non riusciva a ragionare, il panico era più potente di lui.
Grazie ai pantaloni eleganti, il tremito alle ginocchia venne occultato abbastanza decentemente, ma pensò che Bridget se ne fosse accorta lo stesso. In quell’istante fece di lei l’incarnazione di tutte le sue più losche paure.
-Come diavolo hai fatto a…? – volle chiedere, ma la voce gli morì in gola. Non aveva senso bluffare ancora, in quanto ci aveva già provato e aveva fallito. Fingere di essere un comune insegnante non sarebbe più stato possibile.
D’altronde doveva aspettarserlo, una rock star dalla tale fama non sarebbe mai riuscita a ricominciare daccapo come una persona comunissima, se non ci avesse pensato una spia sicuramente i mostri che aveva accumulato nel tempo l’avrebbero spinto a tornare. La musica era la sua perdizione più assoluta, ma anche l’unica cosa che rendesse Brian Warner una persona in piena regola. Senza di lei, accontentandosi di ascoltarla e basta, gli pareva di essere incompleto; avere sia essa che Jessy sarebbe stato il massimo, ma era conscio che non sarebbe mai stato fattibile.
Doveva scegliere, e ora quell’arpia palestrata lo stava schierando davanti ad un bivio. Solo che il contenuto delle sue strade stava in mano soltanto a lei.
-Non è importante – disse sbrigativa, scuotendo piano la testa, in un tripudio di boccoli finti. Il tono si era indurito rispetto a prima e aveva abbandonato quell’espressione odiosa, facendosi solo fredda e calcolatrice.
Fin troppo ovvio che da quello scontro sarebbe uscito sconfitto, lo si capiva dall’assoluto dominio che la donna non aveva paura di esercitare su di lui.
-Cosa vuoi? –domandò allora. Se proprio doveva pagare per il suo silenzio, tanto valeva che gli dicesse tutto in fretta, facendola finita una volta per tutte. Era stanco di stare lì a farsi prendere in giro, ma soprattutto si sentiva distrutto dall’intera vicenda.
Non voleva andare a casa, ma neppure rimanere in quel luogo soffocante; la risposta giusta era che nessun posto era adatto al suo stato d’animo se non un palco circondato da uno spazio strapieno di gente, tutti urlanti, andati lì apposta per lui. Era quella l’unica medicina per qualsiasi cosa.
Folle in delirio, ragazze che si levavano la maglietta, reggiseni buttati sul palco, musicisti isterici ma in perfetta simbiosi con lui, luci, eccesso, delirio…tutto servito su un piatto d’argento che cominciava a rimpiangere amaramente.
Il suo pensiero raggiunse la ragazza che amava, infinitamente più giovane di lui e pazzamente innamorata. Una volta una ragazzina con cui aveva avuto una storia gli aveva detto che il suo fascino era, per certi versi, irresistibile, proprio perché non si basava sulla bellezza. Era l’esperienza a fare di lui un frutto proibito in cui perdersi e lasciarsi affogare.
La cosa che lo stava fregando era il suo ricambiare incondizionatamente. Non avrebbe mai più potuto vederla se anche solo una parte del suo segreto fosse uscita da quelle mura. La droga e l‘alcool avrebbero riportato in superficie il mostro che aveva cercato, inutilmente, di occultare, e lui non voleva che Jessy vedesse fino a che punto poteva arrivare a distruggersi.
Era un lato che preferiva tenere nascosto persino a sé stesso, oscurando qualsiasi specchio mentre si faceva o beveva come un alcolizzato in punto di morte. Oscurava tutto il resto e lasciava che la sua anima venisse risucchiata in un turbine di oscenità e perversione, che non aveva mai vissuto serenamente.
Improvvisamente, come se lo studio di registrazione fosse dietro l’angolo, gli vennero in mente le parole per una nuova canzone, come non ne pensava da mesi. La realtà era che quei versi l’avevano stuzzicato in ogni momento, e lui si concentrava sulla sua patetica vita solo per sopprimere il bisogno di cantare.
Allo sbigottimento si aggiungeva anche una sorta di malsana eccitazione e voglia di rovinarsi, che sarebbe di sicuro sfociata nella commiserazione e nella depressione.
Rimase contentrato sulla risposta. Non era più tanto sicuro di voler preservare a tutti i costi quella squallida esistenza comune e banale; lui era nato per essere diverso.
-Per il momento – disse la ragazza, - voglio solo che lasci quella sciaquetta di Jessy.
Brian inarcò un sopracciglio, il destro. Era stato quello la causa del rallentamento dell’intrapesa alla nuova professione, in quanto non sembrava intenzionato a ricrescere dopo essere stato rasato. –E tu questo lo chiami solo? Non mi lascerò trascinare da un’angheria personale.
Lo sentiva: quella familiare quando macabra sensazione dilagante nel torace, che gli scaldava le ossa peggio di un fuoco ardente.
Marilyn Manson.
Il personaggio che aveva costruito dalle ceneri della sua esistenza, che era stato partorito dall’aborto di tutti i suoi sentimenti mischiati insieme, in uno stato di pietà verso sé stesso, autolesionismo e sadismo, stava tornando a fargli visita.
Marilyn Manson era il riassunto di tutto ciò che trovava aberrante e violento, creato solamente per essere diviso da Brian Warner, per non intaccare la sua personalità nella minima maniera con le sue oscene deviazioni. O meglio, negli ultimi anni aveva mollato proprio perché, ormai, quella pura finzione stava diventando una triste realtà, da cui aveva fatto di tutto per fuggire. Lo stato ultimo della creazione di tale essere era la morte, e lui voleva preservarsi quel tanto che bastava per ritenersi ancora, a tutti gli effetti, una persona umana.
Forse, ora lo cominciava a capire, la vera proiezione della sua malvagità era proprio Brian, con tutte le sue stranezze e fantasie, le paranoie e la voglia di cambiare radicalmente. In fin dei conti, non aveva mai dovuto fare il minimo sforzo di immaginazione per essere Marilyn, solamente…essere sé stesso.
Questa gelida paura prese possesso delle sue membra. In realtà, colui da cui aveva disperatamente cercato di fuggire, gli era sempre stato incollato addosso! La verità inoppungabile di chi era veramente quello strano professore di arte! La vera pelle sotto i suoi tatuaggi! Non era meravigliosamente perverso, tutto questo?
-Questa è solo la prima parte per fare in modo che il tuo caro segreto resti tale – osservò lei, tagliente. –E adesso devo andare…entro domani dovrai aver già fatto.
Poi, il suo viso cambiò nuovamente, recuperando la sua aria da gatta morta, maliziosamente frivola: -Ci si vede, Mr. Warner…
La guardò scivolare fuori dalla stanza senza provare la minima emozione.
Quel diavolo che covava nelle pareti del suo corpo aveva cominciato a ridere di gusto, con la sua grassa e immonda risata spettrale, che lo stava scuotendo. Prese dalla tasca il telefono, e ne guardò lo schermo spento.
Sulla superficie piatta e scura si riflettè l’immagine di un uomo combattuto.
Ma, in verità, la decisione brillava già in fondo ai suoi occhi.
E, se si scavava ancora più a fondo, si capiva che non c’era mai stata nessun’altra opzione valida da renderlo titubante.  

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Capitolo 15
*** Disaster ***


Era sicuro di aver fatto la cosa giusta.
O almeno questo si ripeteva mentre, con passo sicuro, si dirigeva verso l’università. Migliaia di pensieri sconclusionati l’avevano tenuto sveglio tutta la notte, rendendolo abbastanza impresentabile. Per quanto si fosse lavato e rasato accuratamente, aveva ancora quell’aria da naufrago occhialuto che tanto detestava.
Sul viso pallido arricchito grottescamente da occhiaie scure si leggeva chiaramente la voglia di dormire, aggiunta ad una dose di adrenalina derivata dall’ansia, e sullo zigomo si apriva un’antiestetica piega di cuscino, che lo attraversava trasversalmente per buona metà della faccia.
La sera prima, infatti, aveva invitato Jessy a casa propria cercando di apparire normale, ma alla fine si era sentito un verme davanti a tutte le carinerie di cui la ragazza lo aveva inondato.
Gli sembrava ingiusto nascondere fatti di quell’entità proprio a lei, anche perché stava per essere divorato dalle sue preoccupazioni. Non capiva cosa Bridget avesse in mente, e forse lei avrebbe potuto aiutarlo a scoprire cosa si muovesse sotto la chioma color platino della strega.
Non era stato affatto facile confessarle tutto, ma non di certo per paura di una possibile gelosia da parte sua al pensiero che avesse parlato con l’altra insegnante, bensì perché le aveva taciuto quella parte della sua vita senza nessun rimorso, e non gliel’avrebbe mai detto se non fosse successo tutto quel casino.
Non aveva infatti intenzione di sottostare alle condizioni dettate dalla sua ricattatrice. Lui non era schiavo di nessuno, e sapeva di poter trovare un alleato in Jessy, per quanto difficile le sarebbe stato digerire la notizia. In fondo, l’uomo che amava era stato in realtà una delle rockstar più controverse degli ultimi anni, un esempio di eccessi e droga, che ora si ritrovava a condurre una banale vita come tutte le altre.
All’inizio l’espressione della giovane si era fatta incredula. La forchetta aveva tintinnato sul piatto (colmo del cibo cucinato da lei stessa, il primo pasto sostanzioso che Brian mangiasse da tempo), e la bocca era rimasta schiusa dall’incredulità. Gli aveva tranquillamente chiesto se fosse per caso impazzito.
Ma, vedendolo così certo delle sue affermazioni, era sorto un dubbio, per quanto assurda sembrasse la situazione. E al dubbio era subentrata la certezza, mentre ogni tassello del puzzle andava al suo posto, finalmente componendo l’ultima persona che avrebbe mai pensato di vedere.
Poi era accaduta una cosa davvero strana. Nel silenzio di piombo che si era creato nella stanza, lui rimaneva afflitto dall’averla delusa, poiché conosceva bene la sensazione di essere traditi dall’individuo più insospettabile, e di come facesse male affrontare la nuova realtà. Anche Jessy sembrava turbata, ma all’improvviso si era messa a piangere di gioia, ridendo fra le lacrime.
Gli era saltata al collo, dicendo di aver sempre ammirato la band e di avere tutti i loro CD. Aveva affrontato un brutto periodo sapendo della sua ritirata, rischiando di mandare all’aria anche il lavoro, ma alla fine se ne era fatta una ragione.
Ma, aveva confessato, sapere di essersi innamorata del proprio idolo “in borghese”, aveva detto quelle esatte parole, la colmava di una felicità immensa e stupita. Erano andati avanti mezz’ora a confermare indizi, idee, fatti di vita che potevano appartenere solo al vecchio Brian Warner senza nessun dubbio.
Certo, era stata diffidente e per un paio di volte aveva creduto di essere presa in giro, ma alla fine capì che era tutto vero. Altro pianto, altre risate, altra incredulità.
Persino lui doveva ammettere che non se lo sarebbe mai aspettato da Jessy, che aveva l’aria di essere una persona con la testa a posto, però non poteva negare che ciò aveva facilitato notevolmente le cose; sarebbe potuta andare avanti per le lunghe come storia, risolvendosi magari in una rottura.
Quest’ultima era l’unica cosa che voleva. Non sapeva quanto tempo di anonimato gli rimanesse, ma voleva passarlo con lei, a qualunque costo.
Da anni ormai aveva smesso di credere all’amore, dopo aver visto centinaia di relazioni sgretolarsi, impegni importanti buttati al vento, una totale incapacità di tenersi strette le persone a cui teneva. Pensava semplicemente di non essere fatto per un sentimento del genere, cominciando a prendere con insofferenza la solitudine auto-imposta. Quando aveva bisogno di sesso trovava qualcuno, e se la cosa si faceva regolare allora ben venga, meno fatica per trovare altri partner.
Ripensandoci in quell’istante gli parve un ragionamento abbastanza abominevole, in quanto a cinismo. Significava vedere le donne solo come uno strumento, ed era una cosa che non gli era mai appartenuta. Quand’era giovane giocava con i sentimenti altrui senza rimpianti, proprio grazie alla sua avvenenza. Si prendeva gioco delle persone quasi per sport, e non si faceva scrupoli davanti a tradimenti di coppia.
I suoi principi sul lavoro e sugli amici erano sempre stati però saldi. Per quanto fosse arrivato a detestare l’umanità cercava di mantenere certi punti stabili nel suo bizzarro codice morale, anche se a volte di fronte alle sue relazioni sentimentali venivano meno.
Con il tempo aveva cercato di arginare in parte il problema, riuscendoci. Invecchiando si era accorto che le persone rivestivano un ruolo importante nella sua vita, e se voleva viverla serenamente avrebbe dovuto mantenere almeno una cerchia di persone da rispettare. Da essa aveva escluso proprio sé stesso, divenatato poi causa del suo conflitto interiore.
Era davvero strano, il destino, perché spingeva a rimanere in guardia nei confronti di tutti e farsi tradire proprio dal proprio intimo, il nemico più temibile e insospettabile.
Comunque il fatto che la ragazza l’avesse presa con filosofia risolveva solo una piccola parte del disastro: la sua proposta era stata quella di vedere come la situazione si sarebbe evoluta, e intervenire di conseguenza. Lui sarebbe dovuto rimanere al gioco, fingendo di obbedirle e poi incastrarla proprio nella parte finale del piano.
Non riuscivano infatti a capire cosa potesse volere in cambio, dal momento che non disponeva di risorse economiche così in vista e nemmeno di notorietà. L’aver riportato alla luce una rockstar non avrebbe di certo fatto la sua fortuna, anche perché una volta smascherato non si sarebbe fatto scrupoli a denunciarla.
Così acconsentì alle idee della fanciulla, senza discutere. Alla fine, era l’unica cosa che potesse fare senza danneggiarsi ancor di più, e rimanere sé stesso.
Cercò di sembrare sciolto e naturale mentre saliva la breve scalinata, salutando come suo solito le due segretarie all’ingresso, entrambe molto più vecchie anche forse di sua madre. Poi si immise nel corridoio assieme ad alcuni studenti, e chiacchierò con un paio di loro riguardo ad una tesina da preparare; passò in sala insegnanti per prendere un libro che aveva dimenticato il giorno prima e si preparò alla solita routine, con un brivido.
In giro, nessuna traccia di Bridget. Quella mattina lei entrava un’ora più tardi a causa della coincidenza con i corsi, spostati proprio per incastrarci la sua materia.
Scrollò le spalle: meglio così. Non poteva dire di essere del tutto pronto alla successiva fase del piano da lei ideato, e non era certo entusiasta di venire a conoscenza delle sue oscure macchinazioni. Se fosse stato per lui l’avrebbe volentieri ignorata, come faceva con tutte le persone sgradite nella sua vita.
Proseguire le lezioni come se nulla fosse gli fu molto difficile, quel giorno. Gli pareva di essere spiato continuamente da chiunque, che tutti fossero a conoscenza della sua vita passata e lo stessero accusando, riportando alla luce tutto quanto ciò che aveva tentato disperatamente di uccidere.
Quando i ragazzi alzavano la mano per fare una domanda, temeva sempre che fosse per porre fine alla sua carriera anonima, o per deridere tutti i suoi sforzi. Quando usciva dalle aule per recarsi alle lezioni successive gli sembrava sempre di trovare telecamere o giornalisti invadenti, pronti a farlo finire su tutte le prime pagine dei giornali.
Quella di essere braccato era una sensazione spiacevole che non provava più da tanto tempo, ma lo riempì di felino istinto di fuga. Nascondersi dalle occhiate diffidenti era sempre stata la sua professione,e in un momento della mattinata gli sembrò quasi di sentire la risata di quel demonio che aveva travestito per anni, alimentandolo con il successo.
Doveva tornare alla realtà beandosi dei punti immutabili della sua nuova vita. La piega del colletto della camicia, il taglio di capelli della ragazza in prima fila, il gessetto sulla lavagna, il reticolato di rughe tatuato sul viso della Harper, la punta lucida delle sue scarpe, l’odore del corridoio opaco e il fruscio dei volantini, che svolazzavano nonostante l’aria fosse immobile.
Poi, all’improvviso, la campanella della pausa pranzo spezzò violentemente la frase che stava pronunciando. Ci mise qualche istante per riprendersi.
 –Ehm…bene, ragazzi, per domani consegnatemi le vostre relazioni. Forza, andate pure.
Alcuni studenti si fermarono a chiedergli questa o l’altra cosa, mentre altri lo salutarono e basta, andandosene subito. Lui rispose cortesemente a tutti i dubbi, aspettando urgentemente che l’aula si svuotasse; gli parve un tempo infinito, quello direttamente successivo al trillo fastidioso e penetrante, e la consapevolezza del colloquio che avrebbe avuto di lì a poco lo rese ansioso.
Una volta liberatosi degli ultimi ritardatari, si fiondò dritto verso il magazzino, certo di trovarla là. Aveva fretta di risolvere la questione in fretta, senza troppe moine, e tornare da Jessy. Era l’unica che riuscisse veramente a farlo sentire bene con sé stesso, calmando i suoi timori.
Si sedette su uno sgabello, torturando il bordo di un’unghia. Non dovette aspettare molto.
Presto, una figura sinuosa si disegnò contro il bordo scuro della porta. A causa della mancanza di illuminazione, ne vedeva solo il contorno, ma riuscì comunque ad associarlo ad una sola persona, in quel momento più persecutrice che compagnia gradita; con un movimento fluido appoggiò entrambe le mani agli stipiti allargando alle braccia, assomigliando ad un’aquila in procinto di andare a caccia.
-Sapevo che saresti venuto – disse soddisfatta.
Lui non rispose subito, e decise di ignorare l’esclamazione appena fatta. –Cosa vuoi da me?
Anche lei fece il suo stesso gioco, come a voler recuperare la sua supremazia sulla situazione. –Hai fatto quello che ti ho detto? – avanzò di qualche passo nel riquadro di luce, facendo assumere tratti più netti e precisi al suo aspetto.
Quel giorno era vestita abbastanza sobriamente, meno truccata e decisamente meno scollata. Con un normale tailleur e una pettinatura decente sembrava quasi una donna seria, in carriera, e non una sgualdrinella qualunque. Il viso da gatta era senza dubbio attraente, ma era quel genere di bellezza che non gli era mai piaciuto. Troppo predatrice, troppo aggressiva per soddisfarlo.
Lui annuì in fretta. Senza nemmeno sforzarsi apparì affranto e distrutto, logorato da quella storia. Aveva davvero bisogno di dormire.
La vide annuire con aria professionale, e farglisi più vicina: -Bene…si può dire che adesso comincerà la parte vera e propria, la più importante – posò un polpastrello sulla sua spalla, descrivendo un’ampia parabola che dal bordo della giacca arrivava a posarsi sulla camicia, in pieno petto. Sopra al tatuaggio.
Lui rabbrividì a causa di quel contatto sgradito, ma non disse nulla, limitandosi a guardarla con sguardo fiammeggiante d’ira.
Per un istante la donna assunse un aria maliconica, sognante.
-Ieri mi hai chiesto come ho fatto a venire a conoscenza della tua vera identità…ricordi? Beh, devo dire che nemmeno io ero sicura, all’inizio.
Con un passo lento, gli girò intorno, sempre mantendo il dito contro di lui, come punto fermo. Brian la guardò sospettosamente, seguendo il presentimento che quello che stava per dire non gli sarebbe affatto piaciuto.
-Come ti muovi, come parli…il timbro della tua voce, soprattutto, e i capelli. Sono solo piccoli dettagli, ma non mi sono voluta arrendere per così poco. Insomma, ero la prima a credermi pazza, ma mi convincevo sempre più di avere ragione.
Orami non riusciva a vederla in viso, essendo arrivata esattamente dietro di lui. Rimase immobile sentendo i palmi aperti posarsi sulla sua schiena e scorrere sulla stoffa scura, quasi fino ad abbracciarlo.
-Ti ho sempre amato, Marilyn – sussurrò, con un filo di voce. –Sempre.
Poggiò la testa fra le sue scapole, in un dolce movimento della guancia levigata.
Lui, dal canto suo, era sconvolto: non riusciva a crederci. Bridget una sua ammiratrice? Assurdo! In un istante le due persone più importanti della sua vita, anche se con significati opposti, si rivelavano fan del suo personaggio, ormai morto e sepolto!
Quante probabilità c’erano che accadesse una cosa simile? Una su un milione, forse. Fatto sta che in quel momento si trovava incastrato in una situazione doppiamente spiacevole, perché aveva l’impressione che la richiesta della donna si sarebbe allontanata abbastanza significativamente dalla sfera materiale, e aveva un’improvvisa paura di conoscere il possibile riscatto.
-Te lo ripeto, Bridget – disse, con tono basso e profondo, duro. –Cosa vuoi da me?
Ci fu un istante di silenzio che assorbì completamente i suoi timori più intimi e oscuri, dove ogni sospetto e sbigottimento vennero confermati dal più spietato dei destini. All’assurdo non c’era mai limite, di questo era improvvisamente certo, mentre tutto il resto si sgretolava irreparabilmente.
-Voglio un figlio da te, Marilyn. 

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Capitolo 16
*** Request ***


-Spero tu stia scherzando – disse Brian, lapidario.
C’era stato qualche minuto di silenzio denso di incredulità, durante il quale lui l’aveva fatta staccare a forza dalla sua schiena con un moto di ribrezzo. Guardandola negli occhi, dopo aver detto una cosa tanto abominevole, sembrava avesse raggiunto una sorta di imbarazzato candore, come una ragazzina che si dichiara al compagno per cui ha una cotta. Qualcosa di così puro e innocente che si discostava completamente dalla situazione.
Dentro di lui, Marilyn si stava divertendo parecchio. All’improvviso pensò a tutte le volte che aveva respinto il desiderio di diventare madre della moglie, arrivata a pregarlo di fare un bambino.
Sarebbe una cosa meravigliosa, Brian, gli diceva, ma lui le rideva dietro, schernendola in ogni modo e uccidendo del tutto il romanticismo.
A lui piacevano i bambini; li trovava interessanti e intelligenti, poiché erano estranei alle fantasie malate degli adulti, dai loro comportamenti terrificanti, dalle migliaia di deviazioni che una mente vissuta poteva avere. Erano ingenui e pieni di speranze, il loro modo di vedere il mondo circostante nascondeva delle aspettative per il futuro, cosa che lui non nutriva da molto tempo.
Aveva sempre avuto un certo ascendente su di loro, stranamente. Non sembravano spaventati da lui, anche se davanti al trucco avevano qualche remora. Ovviamente i genitori facevano di tutto per allontanarli da lui, e questo l’aveva convinto che non sarebbe mai stato un buon padre.
Quando trattava male l’ex consorte, era per nascondere la totale incapacità che avrebbe avuto nel gestire la situazione. Lentamente aveva rovinato sé stesso, in modo irreparabile, e non voleva accadesse a nessun altro. Diverse volte si era chiesto come dovesse essere prendersi cura della miniatura dei suoi pregi, ma la paura di mandare tutto all’aria, di rovinare irreparabilmente una giovane vita, aveva sempre bloccato sul nascere i suoi sentimentalismi.
Col passare del tempo si era convinto che era una buona idea lasciar perdere. Era ingestibile e intrattabile, del tutto inadatto ad offrire qualcosa di buono. Vivere in solitudine gli era così sembrato molto più facile, ma d’altra parte era stato proprio quello a rovinarlo. Troppo abituato a starsene per conto proprio per essere un appoggio.
E poi, un ragazzino poteva davvero avere come riferimento un quarantenne truccato e urlante, dedito a sputare sugli spettatori e urlare ingiurie da un palcoscenico? Un genitore drogato e alcolizzato che stava lentamente scivolando in una melma da sé stesso creata poteva davvero dirsi un buon sostegno per un’altra persona?
Forse, con sua moglie sarebbe davvero riuscito a dare qualcosa di buono al mondo. Si sarebbe impegnato, ce l’avrebbe messa tutta, era sempre stata una persona dalla grande forza di volontà, sicuramente non avrebbe impresso danni tanto irreparabili con l’influenza di una buona madre. Invece, si era limitato a rovinare gli anni migliori della donna con la propria incostanza (per non parlare di assenza), rendendosi conto dei suoi errori solo in una stanza polverosa davanti ad una ricattatrice.
Bridget lo guardò, adorante. Scosse piano la testa, accompagnata da qualche ciocca sfuggita al fermaglio: -Nient’affatto, sono seria. Mi dispiace parlare in questi termini, ma se non mi porti a casa tua potrei sempre andare da Harper a riferire tutto…lo sapevi che resta in ufficio fino a tardi? – osservò poi, con falsa innocenza.
Per un istante, in cui si vergognò di sé stesso, pensò addirittura di ucciderla. Quello che gli stava chiedendo era assolutamente impossibile da sostenere: si parlava di mettere in mezzo una vita innocente! Nemmeno lui era meschino fino a quel punto, qualche scrupolo di fronte ad un bambino se lo sarebbe fatto.
All’improvviso, darle un colpo in fronte con una spranga sarebbe sembrata la soluzione migliore. Un secco e deciso “crack” e il suo cranio si sarebbe spezzato, assieme a quelle idee malsane che rischiavano di rovinarlo. Come pensava di poter avanzare una richiesta del genere senza conseguenze?
Però, a trattenerlo non fu la rivalutazione di fronte ad una vita umana e al valore inestimabile di essa, che voleva stroncare, bensì la possibilità di attirare l’attenzione sull’ateneo, col ritrovamento di un cadavere. Le indagini l’avrebbero incluso e poteva già leggere i titoli recitare: “Marilyn Manson in incognito uccide una giovane insegnante a sangue freddo”. Un disastro alla sua vita e a quella di Jessy.
Così strinse i pugni, ignorando la sua ultima frase. –Ti rendi conto che si parla di un bambino?
La ragazza ridacchiò, sembrando più che mai giovane e anche molto, molto ingenua. Arrossendo leggermente, continuò il suo folle discorso, rendendolo partecipe del suo evidente squilibrio. –Io ti ho sempre amato, Marilyn. Ti seguo da quand’ero una bambina, e non puoi immaginare quanto sia stato devastante per me scoprire la tua ritirata, che solco questo abbia tracciato dentro la mia anima. Mi hai tradito, capisci? Avere un bambino tuo sarebbe come esserti vicino, sempre, e lo crescerei con amore.
Riappuntò il suo sguardo felino su di lui.
-Non farò mai il padre di una tua creatura – ribattè, acido e perentorio. Se proprio doveva avere dei figli, sarebbe stato solo con la sua amata, e non una qualunque.
Lei rise di nuovo, come se trovasse la situazione molto divertente. Lo guardò divertita, fingendo quasi di trovarsi di fronte ad un bambino cocciuto piuttosto che ad un adulto dalla parte della ragione. –Ma io voglio solo rimanere incinta, poi ti prometto di sparire. So bene che non sei fatto per il matrimonio, e che non mi ami, e non chiederei mai nient’altro da te…ti lascerei in pace.
Quest’ultima spiegazione lo lasciò completamente atterrito. Ma era per caso impazzita?
Anche prendendo in considerazione l’ipotesi di acconsentire, non sarebbe mai più stato in pace con sé stesso sapendo di avere un figlio da qualche parte del mondo, e si sarebbe assolutamente dovuto informare della sua salute almeno per stare bene con la propria anima. In fondo si stava parlando di una persona di cui sarebbe stato responsabile, e il non saperne nulla lo avrebbe devastato interiormente.
Gli pareva d’altra parte impossibile che lei sarebbe stata disposta ad “accontenarsi”, senza mantenimento o successo o chissà cos’altro. La faceva sembrare una cosa nobile, ma in realtà era innammissibile. Mai si sarebbe piegato di fronte ad una richiesta del genere; andava contro alla sua morale riempita di concetti essenziali. Non era mai stato un santo, ma era troppo persino per uno come lui.
La normalità tanto agognata sarebbe stata distrutta, infranta in mille pezzi.
-Ma…ma ti senti quando parli? È una pazzia…assolutamente folle. E poi non credo che una come te si farebbe bastare l’anonimato senza prima risucchiarmi del tutto come un parassita – parlò in tono calmo, nonostante dentro non lo fosse per niente. Anche se sarebbe mai arrivato a tanto, venne assalito dalla voglia di picchiarla.
-Come ti ho già detto – disse paziente, - io ti amo. Non ti farei mai del male, e non vorrei nient’altro. Un figlio tuo sarebbe il coronamento di tutta una vita.
Ci fu un attimo di silenzio: sembrava addirittura sincera nella sua follia. Poi riprese a parlare, e ogni sillaba era un nervo in più che gli faceva saltare.
-Poi, se lo vorrai, potrai tornare dalla tua amata Jessy, o da chi ti pare.
Concluse la frase brutale con un’alzata di spalle, assolutamente indifferente. Quella situazione assurda stava davvero mettendo a rischio la sua incolumità, e presto, lo sentiva, le sarebbe saltato al collo per strangolarla.
-Così facendo il tuo piano perde completamente il suo senso – osservò lapidario. In fondo la sua ragazza aveva parlato di assecondarne il ragionamento, giusto? Ora che aveva scoperto cosa voleva, tanto valeva svelare anche i meccanismi che si alternavano sotto ai capelli biondi.
-Non è vero -, osservò la donna, calma. Sollevò un sopracciglio: -In questo modo non si chiama tradimento, no? Se lo fai mentre non state insieme sei un uomo senza legami sentimentali, e potrai avere il cuore in pace.
L’ex cantante scosse la testa, incredulo. Aveva incredibilmente sopravvalutato quella donna, pensando che fosse intelligente, o comunque dotata di una sorta di capacità di ragionamento. La scopriva molto più superficiale di ciò che aveva creduto, incredibilmente egocentrica e tanto stupida.
Si voltò per andarsene, rassegnato all’idea di finire dentro ad ogni rivista scandalistica, proprio come una volta, quando sentì le sue mani immonde aggrapparsi di nuovo alla sua giacca.
-Ti prego – sussurrò lei contro la stoffa. Brian cercò di scrollarsela di dosso, ma ciò che ottenne furono solo le sue unghie conficcate più a fondo nela fibra elegante dell’indumento. –Ti prego – ripetè.
Silenziosamente, la sentì mettersi a piangere, piano, contro la sua schiena.
 
 
Con il telefono in mano, si rese conto di sembrare un criminale in casa propria. Accucciato in bagno, nell’angolo, stava componendo il numero di Jessy mordendosi a sangue il labbro inferiore.
Alla fine, aveva ceduto: Bridget stava seduta a gambe accavallate sul suo divano, sfogliando la sua copia di “I fiori del male” di Baudelaire. Era uno spettacolo strano, se associato al suo soggiorno immacolato da uomo single; la faceva assomigliare ad una escort in attesa di prestare il proprio servizio.
Lentamente, si portò il cellulare all’orecchio, in attesa. Aveva poco tempo a disposizione e non voleva sprecarlo.
Dopo quella che gli parve un’infinità, sentì la ragazza accettare la chiamata e rispondergli, con il suo solito tono allegro. Prima di lasciarsi stregare dalla sua voce, le spiegò a grandi linee quanto era successo, senza lasciarsi interrompere.
Sentiva un groppo in gola a causa dell’indecisione, ma gli parve giusto farle sapere tutto quanto, poiché la coinvolgeva direttamente. La rese partecipe della situazione, del fatto che la donna si trovasse lì e di cosa volesse da lui. Dovette riperterglielo un paio di volte, ma alla fine lei sembrò capire. Si mise a sbraitare, a sparare ingiurie come mai l’aveva sentita e parve recuperare un attimo la calma.
Ovviamente non doveva sottostare a quell’orribile condizione, e inventarsi una scusa per mandarla via. Poi, dal momento che si trovava dai suoi genitori per il week-end e non poteva andare lì di persona, avrebbe preso provvedimenti lei stessa appena tornata in città.
Dopo mille raccomandazioni riattaccò in apprensione, mordicchiandosi ora un’unghia.
Stette per un po’ in quella posizione assurda, per pensare meglio a cosa fare con l’altra. Certo, Jessy aveva assolutamente ragione dicendo di mandarla via, ma aveva bisogno di una ragione convincente. E no, non sarebbe stato disposto a fingere impotenza. Aveva ancora una dignità, nonostante tutto.
Ad un tratto, sentì il campanello trillare. Panico. Chi diavolo poteva essere?
Schizzò fuori dalla stanza: la ragazza aveva alzato la testa, a metà fra la sorpresa e il fastidio, ma se ne stava ferma nella posa di prima, senza scomodarsi troppo. Sapeva bene di non poter andare ad aprire, e il dubbio che avesse chiamato dei giornalisti si dissolse.
Recuperando la calma, andò in entrata. Stringeva e rilassava i pugni per mantenere un certo contegno, ma i fatti degli ultimi giorni stavano mettendo a repentaglio la sua stabilità mentale.
Posando la mano sulla maniglia, tirò con forza, fino a svelare il suo ospite inatteso.
Una ragazza stava in piedi sullo zerbino, sorridendo; doveva avere al massimo vent’anni, con corti capelli biondi e un’aria felice, espressivi occhi scuri e pelle chiara. Indossava un cappotto nero che non celava del tutto un fisico magro, con delle gambe tornite appena coperte da un paio di jeans attillati.
Vedendolo, il suo sorriso si allargò, mentre nel suo sguardo si accendeva una pericolosa luce adorante.
Lui doveva avere una buffa espressione interrogativa, perché la misteriosa figura si mise a ridere. A terra c’era un grande borsone nero, da viaggio.
-Non ti ricordi di me? – chiese allegra. Lui scosse piano la testa.
Lei rise ancora: -Ma come, Brian, sono io, Eliza!
Poi, prima che lui potesse elaborare la situazione, gli gettò le braccia la collo, come se fosse un salvatore.
Perché le cose dovevano sempre complicarsi a quel modo? 

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Capitolo 17
*** Eliza ***


Il salotto del piccolo appartamento, anche se abitato da solo tre figure, non era mai stato tanto affolato: sul divano bi-posto, Bridget teneva le gambe accavallate e l’aria guardinga, dopo aver abbandonato il libro che stava leggendo. Vicino a lei, la nuova arrivata se ne stava composta nel suo angolo, reggendo soddisfatta la tazza di thé che il cantante le aveva offerto.
Lui se ne stava in disparte, sulla sedia che aveva trascinato dalla cucina, incastrato in un posticino minuscolo fra un tavolino basso e la TV. Non poteva muovere le braccia per paura di spaccare qualcosa, anche se sapeva che non sarebbe stato necessario; se aveva abbandonato il suo posto sul suo divano, non era tanto per galanteria d’altri tempi, bensì per la ripugnanza che provava verso l’insegnante lì seduta.
Nel frattempo, Eliza sorseggiò la bevanda calda, e per un attimo il suo viso venne avvolto da una nuvola di vapore.
Brian non riusciva a capire chi fosse, o dove l’avesse già vista. Le guance morbide non gli erano familiari, ma nel complesso quel viso gli rievocava ricordi confusi. Aveva abbandonato l’idea che provenisse dal suo passato, poiché in tal caso non sarebbe stato tanto felice di vederlo. Le ventenni carine che avevano avuto a che fare con Marilyn Manson raramente gli andavano a fare un’altra visita di cortesia.
Tuttavia gli era parso sgarbato mandarla via, e gli offriva anche una scusa per non attuare il folle piano di Bridget.  Lo stava guardando con odio crescente, ma per lo meno non poteva fare nulla di equivoco o dannoso, e per un istante l’uomo sperò che la ragazza si trattenesse per un bel po’.
-È davvero molto buono – gli disse, esibendo un paio di innocenti fossette. Sollevò leggermente la tazza verso di lui, come se fosse un brindisi, e accettò il sorriso nervoso che ricevette come risposta.
Se Brian non faceva domande su di lei, era solo perché la confusione che aveva in testa non gli permetteva di formulare nessun pensiero di senso compiuto. Gli pareva così assurda quella situazione che non aveva parole per sfogare la sua frustrazione, tanto che l’unica a sentirsi a proprio agio era solo Eliza.
Bridget lo guardò ancora, ma questa volta non riuscì a fare finta di nulla. Lo fulminò con iridi furenti, e le labbra si tirarono quasi a scoprire i denti in un ringhio; sembrava urlare “mandala subito fuori di qui”, o comunque qualcosa di simile.
Lui, naturalmente, non ne aveva affatto intenzione, anzi. L’avrebbe trattenuta egli stesso, tanto gli pareva che l’ospite fosse ben contenta di trattenersi ancora un po’ da lui, disponibile a una qualche chiacchierata.
Come al solito, fu la giovane a prendere l’iniziativa per una conversazione, ricevendo l’attenzione di tutti i presenti grazie ad una risatina. –Sono assolutamente sicura che non hai la minima idea di chi sono, non è così? – disse, divertita, scoccando a Brian un’occhiata indulgente.
Lui si grattò imbarazzato la nuca, non sapendo bene come rispondere e stando attendo a non rompere nulla. Gli occhi dell’altra donna saettavano impazziti dall’uno all’altra, cercando di capire quali fossero le origini del collegamento che li univa e quanto superficiale fosse la loro conoscenza.
Era fondamentale, evidentemente, carpire certi dettagli; forse c’entrava con l’attuazione del suo perverso piano, chi poteva sapere cosa si affaccendava sotto la sua chioma bionda?
La ragazza prese un altro sorso, prima di osservarlo con occhi scintillanti. Tutto quanto, in lei, parlava di riconoscenza: come lo guardava, come l’aveva abbracciato, il tono cinguettante con cui gli si rivolgeva…ogni singolo dettaglio urlava a gran voce quanto gli fosse grata per aver fatto qualcosa di cui lui non aveva assolutamente memoria.
Lanciandogli occhiatine di sottecchi, si rivolse direttamente a Bridget, ignorando la sua espressione infastidita: -Vede, signorina, quest’uomo qui presente mi ha salvato la vita.
A quest’affermazione lui drizzò le orecchie, facendola sospirare con teatralità.
-Accidenti, manco da solo tre settimane e già vengo dimenticata – fece un sorriso sghembo. –E dire che abito ad un solo pianerottolo di distanza!
Ad un tratto, tutti i collegamenti cerebrali dell’uomo di attivarono, in colpo solo. Si drizzò a sedere sullo schienale, restando dritto come un fuso, dall’espressione a dir poco sconvolta.
Un solo pianerottolo di distanza. Preso com’era dagli ultimi eventi, non si era nemmeno accorto che le tendine nell’appartamento di fronte non si erano mai scostate, e che la luce era sempre rimasta spenta. Non si era reso conto dell’accumulo della posta nella cassetta delle lettere al piano inferiore, né della vecchietta che di tanto in tanto entrava da quella porta con croccantini e annaffiatoio.
Gli eventi della sua vita l’avevano sconvolto a tal punto da dimenticarsi dello zucchero dato a quella creatura senza speranze, in un gesto compassionevole. Ricordava bene la durezza dei tendini della sua mano ossuta, la pelle grigiastra, i capelli fragili e sottili, la peluria che ne ricopriva il dorso, le gengive scure e tirate, i denti che sembravano cadere, il corpo impossibile da guardare senza un brivido.
Della persona che si era presentata in accappatoio a casa sua, per chiedere dello zucchero, si era completamente scordato.
La ragazza anoressica era Eliza. Possibile…?
La signorina di fronte a lui sorrise di nuovo davanti al suo sconcerto. Aveva i denti bianchi e le labbra carnose, con due adorabili fossette simili ad innocenti parentesi su un sorriso luminoso. I capelli erano tagliati in un caschetto alla moda, corto, composto da folti e robusti capelli biondo scuro, quasi castani. La pelle liscia splendeva, chiara ma anche giovane, nel pieno delle proprie forze, mentre il fisico magro ma la tempo stesso anche pieno e morbido stava appoggiato al suo divano come un miraggio.
-Sei proprio…? – balbettò. L’associazione fra le due stonava completamente, eppure dovette ammettere che c’era una minima somiglianza.
Lei rise di gusto, prima di guardarlo dritto negli occhi e affermare, decisa: -Sì.
Lui si dimenticò completamente di Bridget, alzandosi dalla sedia e andando ad abbracciarla. La strinse forte, gioendo della carne che ricopriva le ossa, dei muscoli rigenerati, di qualche chilo in più che le rendeva i fianchi materni.
Era davvero lui il responsabile di tale meraviglia? Davvero era riuscito a fare del bene, salvare una vita? Era bastata una confezione di zucchero, e aveva cambiato l’esistenza di una persona; mai avrebbe pensato che sarebbe sopravvissuta a quella malattia logorante, pensando piuttosto che stesse vivendo gli ultimi mesi della sua vita.
Non si era preoccupato della sua scomparsa perché, in cuor suo, l’aveva già accettata. Aveva continuato la sua carriera obliandola dai suoi pensieri, quando nel frattempo lei aveva combattuto le sue paure ed era tornata a casa.
L’insegnate accanto lui si era scostata, e ora si schiarì la voce, ma a lui non interessava. Sentiva le sue braccia sottili cingergli la schiena e si sentì felice, realizzato.
L’istinto paterno che aveva provato nei suoi confronti si riaccese, divampò come una fiamma, costringendolo a staccarsi per paura di romperla, spezzarla a metà. Guardando il suo sorriso, però, si rese conto che era ormai impossibile.
Si rimise seduto, quando l’attimo dello stupore si attenuò. –Santo cielo, è…un miracolo.
Non trovava termine più adatto di quello.
La ragazza annuì. Finì il suo thé, poi posò la tazza vuota sul tavolino lì affianco. Con una certa commozione nella voce cominciò a raccontare ad entrambi, interessati per motivi diversi, cosa l’avesse portata ad essere quello che era.
-Quando mi trasferii qui ero già ammalata – spiegò, - non mangiavo praticamente più. Vivevo di insalata e calavo quasi un chilo al giorno. Quando Brian venne ad abitare vicino a me avevo appena raggiunto i 29 chili, e mi pareva di svenire ogni volta che mi alzavo in piedi.
Fece una pausa, poi riprese: -All’iniziò mi incuriosì perché mi ricordò mio padre. Poi ho saputo che insegnava arte all’università, ed era la materia che ho sempre amato sopra ogni cosa al mondo; quando il peso si era messo in mezzo avevo deciso di rinunciarvi, perché semplicemente non riuscivo a reggere – la videro sorridere tristemente. Abbassò un attimo lo sguardo, ma il racconto non si interruppe.
Si rivolse direttamente a Bridget, allora, per spiegarle cos’era successo. –Un giorno andai da lui con una scusa, per chiedergli se organizzava corsi in privato, ma mi mancò il coraggio, così gli domandai dello zucchero. Lui me lo diede, ma a condizione che facessi una torta – ridacchiò, - e io la feci. Ne mangiai una fettina, piccolissima, ma era pur sempre un progresso rispetto alla saliva che ingoiavo di solito.
-Poi cos’è succcesso? – chiese lui, serio.
Eliza si adombrò: -Volevo portartene un po’, ma scesi drasticamente a 23 chili. Ebbi una crisi e decisi di farmi ricoverare. Accadde il giorno dopo; da allora sono in cura, ma visto i progressi mi hanno rimandato a casa per seguire autonomamente la terapia.
A sorpresa, la donna le posò una mano sull’avambraccio, sorridendo. Sembrava davvero sincera mentre la guardava, come se partecipasse veramente ai suoi successi. –Sono davvero felice per te, cara – le disse, in tono mesto.
Eliza, ignara di tutto, la ringraziò sentitamente. Era una ragazza dolce, piena di vita, non avrebbe mai sospettato vicino a quale mostro si trovasse in realtà.
Il suo sguardo vispo scivolò sull’orologio da parete, allarmandosi: -Credo che per me sia arrivata l’ora di andare – disse, in tono di scuse. –La psicologa arriva per vedere come mi sto ambientando, non posso mancare all’appuntamento, mi dispiace.
Brian si alzò per primo, posandole una mano sulla schiena. –La salute prima di tutto -, sentenziò sorridendo, poi incenerì con lo sguardo Bridget ed accompagnò la ragazza alla porta.
Lei si profuse in ringraziamenti riguardo sia al thé che all’ospitalità, per poi promettere di portargli lo zucchero che avanzava come segno del suo ritorno. Questo lo fece sorridere per un momento, ma la tensione al pensiero di rimanere solo con quella strega prese subito a tormentarlo.
La vide caricarsi il borsone in spalla e sparire oltre il corridoio. Aspettò qualche attimo prima di chiudere la porta, ma non fece in tempo: senza che se ne fosse accorto, Bridget era dietro di lui.
Aveva il cappotto ben allacciato addosso e la borsa sottobraccio, pronta ad andarsene. Sorridendo melliflua gli posò una mano sulla giacca, prima di dargli sbrigativamente un bacio sulla guancia.
-Devo andare – disse soltanto, poi si insinuò in un lampo nell’uscio semiaperto e lui, rimasto in piedi e troppo sorpreso per muoversi, sentì il ticchettio delle sue scarpe firmate farsi sempre più ovattato mentre scendeva di fretta le scale.
La porta al primo piano si aprì e si richiuse.
Poco dopo, anche Brian chiuse l’apertura, serrando la chiave a doppia mandata, senza capirci più nulla. 

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Capitolo 18
*** Sugar ***


Nel buio della camera, Brian si prese un minuto per pensare agli ultimi avventimenti.
Erano passate due settimane da quel pomeriggio a casa sua, da quando Bridget era uscita dalla porta d’ingresso ed Eliza era tornata per seguire le proprie terapie.
A scuola aveva avuto il timore di essere braccato da occhi da avvoltoio, ma non era successo nulla di simile. Ben presto, il fenomeno da baraccone in vestiti provocanti e nuvole di profumo scadente si era trasformato in una schiva collega in tailleur scuro e sobrio, con i capelli raccolti e un paio di occhiali posati sulla radice del naso.
Ogni volta che capitava di incontrarsi in corridoio lei tirava dritto, senza nemmeno salutare; si comportava come se lui non esistesse e nulla, fra loro, fosse mai accaduto. E, se doveva essere sincero, aveva avuto il timore di che lei si fosse vendicata con i media, sfoggiando quell’aria innocente solo per depistarlo.
Da quel giorno non diede nessun segno di voler continuare quanto iniziato, né accennò di nuovo a quanto accaduto. Lui ne parlò con Jessy, sempre più confuso, ma non arrischiavano ad incontrarsi, prede di una qualche insana paura. A conti fatti erano stati stupidi, perchè di certo la donna non era onniscente, e non poteva controllarli in ogni momento.
All’inizio della settimana prima avevano ceduto, incontrandosi furtivamente come se fossero stati dei clandestini. Non vedendo nessuna conseguenza, ripresero ad incontrarsi con la stessa regolarità di prima e cominciarono nuovamente a rilassarsi nell’ambito lavorativo, mantenendo ovviamente la freddezza consona a due colleghi.
Ovviamente si chiedevano cosa avrebbe fatto lei, la strega, la ricattatrice, la femme fatale, l’unica capace di rovinarlo se lo desiderava ma, quando all’improvviso non la videro più, non ebbero più ragioni di temere alcunchè.
Bridget era semplicemente sparita: aveva portato via carte e scartoffie, il piano delle lezioni era tornato uguale a prima del suo arrivo, dal piano di studi erano state eliminate le sue ore, gli insegnanti avevano coperto i buchi e gli studenti avevano lasciato a marcire i libri riguardanti la sua materia. Volatilizzata nel nulla, era come se non fosse mai esistita davvero, ma fosse stata solo una loro momentanea fantasia.
Evidentemente non erano gli unici ad aver avuto dei dissapori con lei, infatti l’edificio sembrò respirare di nuovo quando scomparve, anche se la cosa puzzava di bruciato. Insomma, perché licenziarsi di punto in bianco quando si è ottenuto un lavoro stabile in una città tranquilla?
E poi, anche se solo loro due potevano saperlo, perché scegliere il momento in cui avrebbe potuto dirsi vicina ai suoi obbiettivi malsani? Alla fine non aveva ottenuto nulla di ciò che voleva, proprio un bel niente. Nessuna sua minaccia aveva trovato realtà nelle loro vite, e mai sarebbe successo, però era strano che avesse abbandonato di colpo le sue mire, visto quant’era agguerrita fino a neppure quindici giorni prima.
Conosceva una verità esplosiva sul suo conto, e non era cosa da nulla. Lei non era decisamente il tipo da lasciarsi sfuggire un’occasione tanto piccante di rovinare le persone, soprattutto quando aveva avuto l’opportunità di vedere realizzate le proprie ambizioni. Entrambi avevano imparato quanto potesse dimostrarsi tenace.
Quel silenzio li aveva riempiti d’angoscia: sfruttavano tutto il tempo a loro disposizione come se fosse sempre l’ultimo minuto, l’ultimo momento in cui potevano stare insieme. Aspettavano con ansia febbrile che qualcuno bussasse alla porta e scattasse fotografie, invadendo la loro vita e violandone l’anima precedentemente serena. Erano poi scivolati in una certa rassegnazione perché, non sapendo dove lei si trovasse, non avrebbero mai potuto impedirle di fare ciò che era nei suoi progetti.
Lasciavano che le ore corressero via dai loro corpi, ormai del tutto incauti e disillusi. Avevano deciso di non farsi vincere dalle sue macchinazioni, senza farsi sopraffare dalla tristezza o dalla commiserazione. Sarebbe durato quanto più possibile, ed erano decisi a conservare solo ricordi piacevoli di quel periodo insieme.
A Brian faceva bene al cuore amare nuovamente qualcuno, cercare di impegnarsi e fare di tutto per renderla felice. Lo assorbiva e gli dava qualcosa a cui pensare, per la quale vivere. Comparata alla piattezza esasperante della sua vecchia esistenza, dell’esagerazione in cui di tanto in tanto scivolava era di certo una rivoluzione in piena regola, e anche la più dolce che potesse capitargli.
Si voltò nuovamente, per osservarla dormire. Sembrava così serena e…vulnerabile. I capelli rosso fuoco, il viso giovane, le labbra carnose, indicavano la sua profonda innocenza, nonché intelligenza e un futuro brillante. Era sicuro che non l’avrebbe rovinato con le sue mani, un giorno?
Dovette distogliere lo sguardo, limitandosi ad ascoltarla respirare. Non aveva garanzie per la loro storia; legalmente non poteva sposarsi e sentiva che era troppo tardi per fare figli. Ormai era troppo vecchio per offrirle qualcosa di nuovo ed entusiasmante, o forse l’avrebbe guidata sulla strada sbagliata, come una pericolosa macchina da corsa lanciata nella carreggiata opposta, senza freno.
Non aveva certo fatto successo per la benevolenza che ispirava, dopotutto. E le droghe formavano una patina granulosa che rendeva il suo cuore inaccessibile da tutto ciò che di bello c’era nel mondo, come se fosse un morbo o semplicemente un’oscura abitudine, dura a morire. Certo, poiché nel suo corpo erano in grado di annullarsi solamente le cose positive, mentre quelle aberranti splendevano della luce riflessa dell’eccesso.
Eccolo, Marilyn Manson. Stava ricominciando a ridere di gusto, col suo ghigno malevolo, e Brian fece di tutto per soffocarlo. Non ne aveva affatto bisogno, in quel momento.
Per distrarsi prese in mano la sua cartella, che non apriva da secoli. Così assorbito dalle nuove rivoluzioni, non aveva ripreso in mano in libro che si era ripromesso di leggere e le prove d’esame che riposavano sotto il cuio ammorbidito. Aveva lasciato il lavoro ad accumularsi, e ciò non andava bene; doveva essere una persona normale, giusto?
Si alzò dal bordo del letto e si mise in vestaglia, poi ciabattò in cucina e accese la lampada sopra il tavolo dove di solito mangiava. Era l’unica superficie su cui poteva lavorare la sera, così vi aveva installato una specie di studio provvisorio, con dei libri incastrati sulla mensola delle spezie, che non avrebbe altimenti saputo come riempire.
Afferrò il primo plico, annoiato ma estremamente lucido. Quelle riflessioni aveva compromesso del tutto il suo sonno, ed era certo che non sarebbe più riuscito ad addormentarsi. Aveva estremo bisogno di fare qualcosa, qualsiasi cosa, e non voleva disturbare Jessy, che dormiva nella stanza accanto.
Sfogliò i vari documenti, scorrendo delle parole esasperatamente simili di alunni diligenti. Descrizioni accurati, studio puntiglioso, dettagli, precisazioni, date e correnti principali, influenze e artisti, il tutto buttato freneticamente su carta nello spazio ristretto, cercando di sfruttare ogni singolo pezzettino disponibile.
Ormai per loro era troppo tardi, certe menti erano impossibili da correggere. Per frequentare un corso d’arte serviva, prima di tutto, una buona dose di immaginazione e fantasia. Certo, la memoria era sempre utile, ma i suoi studenti non erano sufficientemente elastici nel creare, e si limitavano a riprodurre con buoni risultati il lavoro altrui. Un pessimo modo per essere ricordati dal resto del mondo, sempre alla ricerca di qualcosa di diverso e sconvolgente.
Presto, le sue dita distratte inciamparono in un rettangolo di un certo spessore. Sollevò un foglio, e si ritrovò davanti ad una busta di carta di zucchero, lilla.
Si chiese come potesse essere finita una cosa del genere nella sua cartella, soprattutto fra i compiti. Che qualche studente gli avesse fatto uno scherzo? Jessy infatti non aveva bisogno di spedirgli lettere, e quella non aveva la minima scritta, nemmeno il francobollo. Eppure l’aspetto parlava chiaro: era un’epistola da spedire quando si era in viaggio, oppure un contenitore per cartoline.
Curioso, aprì la chiusura e vide il bordo di un foglio piegato a metà. Il suo dubbio cresceva: chi aveva potuto mettere una cosa del genere? E poi, da quanto tempo era lì? Negli ultimi giorni non aveva mai controllato i compiti, così non poteva dire quando fosse comparso esattamente, ma aveva l’aria di essere stato vergato da una mano femminile. Sulla carta piegata, infatti, si notava l’ombra di una scrittura elegante e arzigogolata, aggraziata e leggermente più marcata sulle “g” e le “y”.
Sempre più confuso, scartò del tutto il messaggio e cominciò a leggere, riga dopo riga. E, ad ogni sillaba, il suo sconcerto si faceva sempre più grande.
 
Caro Brian,
non so quando leggerai questa lettera, ma ho bisogno di sapere che la troverai. Forse non ti interesserà saperlo, però l’ho messa qui perché so che non fuggirai mai dai tuoi doveri d’insegnante.
Non voglio scrivere troppo per non annoiarti, quindi cercherò di dirla in breve. Alla fine, ho deciso di sparire.
Ho capito che quest’alternativa non era solo la più facile, ma anche la meno imbarazzante, un modo per uscire di scena con classe. Mi sono resa conto di quanto egoistiche fossero state le mie condizioni per il tuo segreto, e anche che non avevo nessun diritto di uccidere la tua felicità.
Come ti ho già detto, io ti ho sempre amato. Potevo vederti sul palco, e solo tramite una maschera bizzarra eppure affascinante. Non conoscevo il vero te, ma purtroppo me ne sono resa conto troppo tardi; non eri felice, ma penso che questo non ti sia sfuggito, eh?
All’inizio sono rimasta devastata dalla tua scelta, ero completamente distrutta. Presi a cercarti in modo febbrile, ma fu un caso furtuito che arrivassi alla soluzione, dico sul serio: ti sei nascosto davvero molto bene, te lo concedo.
Allora ti ho visto con Jessy e ho capito che, se ti amavo davvero, ti avrei dovuto lasciare con chi tifaceva stare bene, cioè lei. Mi pianse il cuore, ma dovetti.
Non credere che io sia pazza, ti prego, sono semplicemente una persona che ha agito d’istinto, per forza della disperazione, senza pensare. È stato tutto troppo veloce nella mia mente, non ho avuto il tempo di capire quanto stessi sbagliando e che figura stessi facendo.
Quel giorno, a casa tua, ho incontrato l’amore della mia vita. Eliza è una ragazza fantastica, nonostante tutto quello che ha passato e che continua a vivere non si lascia mai cadere nello sconforto, ed è una delle doti migliori che qualcuno possa avere.
Il cielo ha voluto che lei scegliesse me così come io ho scelto lei. Andremo presto a vivere insieme, non abbiamo deciso dove, e nel suo appartamento andrà a stare sua sorella. Lei mi ha spinto a cambiare, non le ho detto nulla di questa storia.
Il tuo segreto è al sicuro, Brian. Sono decisa a cambiare pagina, così come hai fatto anche tu.
Visto che ti sto scrivendo, Eliza mi ha chiesto di salutarti; è venuta a stare da me fino a quando non troveremo la “casa perfetta”, e mi ha chiesto di allegarti una cosa che non posso guardare, quindi la metterò qui senza sapere cos’è.
Beh…cosa rimane da dire? Addio, Brian. Spero con tutto il cuore che tu possa essere felice, così come lo sono io, e che tu possa perdonarmi, un giorno. Sappi che non dirò nulla e che rimarrai per sempre una persona fantastica nella mia vita.
(Forse a mai più) arrivederci.
Tua,
Bridget.
 
Piano, con esasperante lentezza, dalla busta scivolò un piccolo involucro di carta. Con occhi confusi da ciò che aveva appena visto, Brian riuscì a vedere la scritta arancione sul fronte dell’allegato.
C’era scritto “sugar”. 

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Capitolo 19
*** Miss Harper ***


ATTENZIONE, PLEASE:
Quando iniziai questa Fanfiction, pensai quasi per gioco che mi sarebbe piaciuto che si concludesse con un numero tondo tondo di capitoli pubblicati. All’inizio pensavo sarebbero stati 30, ma adesso realizzo che non potrei tirarla più avanti di così. Quindi, questo sarà il penultimo capitolo. Mi dispiace dirlo così brutalmente, ma nel prossimo, cioè il conclusivo, farò i ringraziamenti fatti per bene.
Buona lettura :D
 
 
Quando venne a sapere che quello stesso anno la preside Harper sarebbe andata in pensione, rimase un po’ sopreso; non riusciva a capire come mai una donna tanto energica dovesse ritirarsi, ma secondo alcune voci si trattava di una questione che coinvolgeva i figli, avvoltoi assetati di soldi.
Questo gli fece capire diverse cose, comprese tutte le torture che la donna doveva superare nonostante avesse ormai un’età abbastanza considerevole. I preparativi della cermonia d’addio, quindi, assorbirono gli sforzi delle due settimane successive, tenendolo così occupato che non ebbe nemmeno il tempo di ripensare alla follia che aveva condizionato gli ultimi eventi.
 Alla fine Bridget era stata di parola: dopo quella lettera era sparita e nell’appartamento della sua giovane fidanzata era andata a vivere una strana ragazza, solare ma non incisiva come la parente. La bustina di zucchero lasciatagli come ricordo aveva un significato ben preciso, e l’aveva lasciata sul ripiano in cucina, senza decidersi a spostarla di lì. Era il suo portafortuna, per ricordarsi di essere in grado di fare ancora del bene.
Jessy, per i primi tempi, non aveva nemmeno creduto alla lettera che Brian le aveva fatta leggere, temendo che potesse essere solo uno scherzo. Tuttavia non aveva assolutamente avuto nulla da ridire riguardo alle nuove scelte di vita di Bridget, anzi, si poteva quasi dire che fosse felice per lei. Con il passare del tempo si era convinta di poter stare tranquilla, e aveva cominciato ad essere la stessa ragazza serena che aveva conosciuto e di cui si era innamorato subito.
Il suo vicino di casa aveva ripreso a farsi chiamare “stallone”. Era stata una serata fantastica per lui e Jessy ma, andando a dormire, capirono ben presto che sarebbe stato del tutto impossibile: i gemiti, i cigolii, i sussurri e le urla erano particolarmente fastidiosi quando si trattava di volersi godere la notte.
Dopo quasi un’ora rischiava di dare di matto: mentre lui era abituato, lei si era alzata già un paio di volte, aveva bevuto una tisana per calmare i nervi e i suoi battiti sul muro che separava i due appartamenti erano stati ignorati. Per lei era impossibile rassegnarsi ad una cosa del genere, e alla fine le venne un’idea.
Balzò sul letto come un gatto, accese la lampada sul comodino e lo svegliò come presa da un’illuminazione: -Ho un’idea per farli smettere – disse. Afferrò la vestaglia e, senza dargli il tempo di reagire, imboccò il corridoio e la sentì uscire.
Se doveva essere onesto aveva temuto il peggio; forse, portata agli estremi, aveva considerato l’idea di omicidio o qualcosa di altrettanto tragico ma, non appena avvertì chiaramente il bussare deciso alla porta dei due amanti dovette appiattirsi contro la parete per essere sicuro che non facesse nulla di male. La ragazza era stata abbastanza furba da spostargli i vestiti in un posto che non vedeva, in modo da impedirgli di seguirla; i coniugi si interruppero, ma più che spaventati per le possibili ripercussioni sembravano solo infastiditi. In effetti erano stati interrotti durante l’ennesimo punto cruciale, non doveva essere una situazione particolarmente simpatica.
Da quel che sentì, fu lei ad alzarsi: i passi pesanti e trascicati, gli sbuffi e i borbottii appartenevano alla signora. Non osò immaginare cosa sarebbe successo, anche se si sarebbero molto probabilmente saltate al collo a vicenda.
La porta si aprì; Brian trattenne il respiro. Nudo oppure no sarebbe scattato non appena avesse sentito il benchè minimo segno di qualcosa che non andava, anche perché nessuna delle due era una verginella facilmente impressionabile.
Stranamente, Jessy fu molto educata, e in un primo momento non capì come mai non si decidesse ad arrivare al punto. Persino l’uomo nella camera si era drizzato contro il muro, incuriosito. Ne poteva sentire qualsiasi movimento, seppur minimo, e in quel caso era quasi una benedizione, anche se avrebbe preferito di gran lunga udire solo il silenzio più totale.
Poteva sentire poche parole, ma sembrava che i toni fossero nuovamente pacati. Non riusciva a collegare la presenza della ragazza lì a quella porta e il suo essere tanto cortese con la signora, la quale evidentemente non vedeva l’ora che se ne andasse. Forse aveva solo voluto interromperli e ora li teneva svegli ma, per com’era partita, Brian sapeva che doveva aspettarsi molto di più. Jessy, quando faceva qualcosa, puntava in alto.
All’improvviso, in modo che fosse perfettamente udubile anche da lui che era dall’altro lato della camera, parlò con voce sufficientemente chiara e squillante, pronunciando quelle esatte parole: -Ecco, signora, questa scatola è di suo marito. L’ha lasciata in affido a noi, ma non ci piace la pornografia estrema, quindi la pregherei di prestare attenzione a cosa avete in casa vostra. Oh, e c’è qualcuno che vorrebbe dormire. Buonanotte.
Detto questo, lui sentì chiaramente i passi ritornare sulla propria strada, aprire la porta d’ingresso e fermarsi in entrata. L’uomo era assolutamente strabiliato, anche perché si era ormai dimenticato della scatola piena di schifezze che ormai era diventata quasi parte dell’entrata. Di certo quelle riviste avevano l’aria clandestina e, da come il resto della notte passò fra urla accusatorie e insulti lanciati gratuitamente, confermarono del tutto il proprio presentimento.
Anche se ci avevano rimesso una notte di sonno erano entrambi soddisfatti: sapevano che da allora il problema dell’insonnia sarebbe stato nettamente superato, o comunque i due vicini non ne sarebbero stati responsabili per un sacco di tempo.
Il giorno dopo, com’era prevedibile, nessuno dei due riusciva a reggersi in piedi. Brian quasi cadde dalla scala mentre stava attaccando uno striscione nella palestra della scuola superiore e Jessy, in classe, scrisse il nome e cognome sbagliato di un pittore alla lavagna, dovendo far correggere una trentina di appunti. Entrambi ci avevano messo una settimana per smettere di trovare l’aneddoto divertente, e ancora ci ripensavano con una risatina. L’uomo doveva ammettere che era stata una trovata davvero esemplare per due persone del genere.
Cullato dalla tranquillità, Brian si sentiva come un malato che trova finalmente la sua guarigione. Nemmeno in famiglia, quand’era ancora un adolescente, aveva saputo trovare la giusta dose di normalità che l’avrebbe spinto a sentirsi tranquillo. La sua famiglia era tutta scombussolata dai suoi bizzarri componenti, da amicizie insane, episodi spesso terribili e la musica, insinuatasi come una femme fatale nella sua vita, da sempre. Era stata lei ad impedirgli di essere visto di buon occhio alla scuola cattolica ed era colpa sua se aveva conosciuto mostri come droga o alcool. O meglio, forse vi sarebbe incappato lo stesso, ma con essa erano stati decisamente più facili da raggiungere. Spesso erano proprio i fan che gliene offrivano, e la sua dipendenza aveva raggiunto picchi assurdamenti mortali alla sua salute.
Forse era una cosa stupida da dire, ma gioiva di ogni singolo momento di persona normale. Era un’esperienza nuova, affascinante: omologarsi, comportarsi come tutti, sentirsi parte della massa, non essere riconosciuto da nessuno, essere speciale soltanto per pochi.
Una settimana prima aveva chiamato il suo bassista, un’altra volta, come se fosse stato un’addio. Era meno arrabbiato e si stava arrangiando con un’altra band, avendo un discreto successo. Grazie alla fama che aveva ottenuto quand’era con lui, era riuscito a rimettersi in sesto abbastanza decentemente, saltando tutto il periodo della gavetta e il pellegrinaggio da un locale all’altro, come se fosse un ragazzino alle prime armi. Disse di non avere informazioni precise riguardo agli altri, ma che se la passavano bene.
Parlarono un po’ dei vecchi tempi; l’altro fece qualche accenno lascivo riguardo alle groupies, domandandogli poi come andasse con la vita sentimentale. Lui si mantenne sul vago, poiché non voleva che di Jessy si sapesse troppo. Il musicista non insistette, e passò oltre. Stettero al telefono per un po’ e, quando attaccarono, capirono che quella era stata l’ultima chiamata.
Twiggy gli piaceva, era un “tipo a posto”. Avevano vissuto un sacco di avventure insieme, erano stati ottimi amici, ma l’ultimo periodo aveva minacciato il loro rapporto. Brian stava invecchiando, si sentiva sempre peggio ma, quando aveva cercato aiuto in lui, aveva visto soltanto altra voglia di continuare la festa, di gioire dei successi ottenuti e lasciarsi andare alla deriva.
Per quanto amasse la musica, lui non voleva cedere. Marilyn e Brian erano stati molto più distruttivi l’uno sull’altro che non Twiggy e Jeordie, e in un primo momento pensò che era stato questo a compromettere la loro amicizia. Si erano via via allontanati, avevano perso sintonia, da mesi non si trovavano più d’accordo persino sulle cose più banali.
E quella telefonata da cabina pubblica era stata l’ultima, squallidissima prova di una conoscenza deteriorata. Distrutta. Una parte della sua vita era rimasta incollata alla cornetta, ma non fece assolutamente nulla per staccarla.
In quell’istante, davanti allo specchio in bagno, si stava aggiustando il papillion. Aveva sempre odiato quell’orribile accessorio maschile, ma Jessy aveva insistito così tanto che alla fine non aveva potuto non cedere. Dall’altra parte della stanza c’era la palestra, ricca di striscioni, panche con sopra vagonate di cibo e studenti in festa, e non poteva permettersi di fare tardi.
Alla fine la Harper gli stava simpatica. Certo, era severa e spesso forse troppo fiscale, però sapeva fare il proprio lavoro e non si immischiava nelle vicende personali. Era una donna tutta d’un pezzo, incapace forse di lasciarsi troppo andare a gesti d’affetto o a battute spiritose, ma come datore di lavoro non era niente male.
La pensione sarebbe stata logorante per la scuola, Brian lo sapeva, però non voleva pensare al futuro. Aveva paura che, facendolo, sarebbe scappato di nuovo, senza riuscire a sottostare ai cambiamenti, e aveva il timore che la sua natura ora scostante gli impedisse di mandare avanti quel piccolo idillio. Fare l’uomo normale era la parte che aveva cercato di rivestire per tutta la vita; non poteva scappare dalla cinepresa, non in quel momento.
Sospirando sistemò il ciuffo cadente sulla fronte e cercò di darsi un contegno. Il suo compito principale era pronunciare un breve discorso in memoria dell’operato della donna, sorridere e stringerle la mano, per poi sedersi nuovamente al suo posto. Aveva deciso di farlo per primo: via il dente, via il dolore.
Lasciò che la porta si chiudesse dietro di lui senza nemmeno spingerla, viaggiando attraverso i corridoi vuoti e deserti; tutti gli studenti si erano ammassati nella stanza come sardine, e le classi erano quasi spettrali, abitate solamente da banchi e sedie buttati lì a caso.
Aprì piano i pannelli anti panico, entrando nello spazio addobbato di tutto punto. Poteva prendersi il merito di gran parte delle decorazioni, perché le aveva attaccate personalmente con un certo sforzo. Quella serpentina fatta di bandierine in palstica sventolava solo grazie a Brian Warner, altro che il professore di lettere che si stava pavoneggiando con l’insegnante di matematica.
Come poté vedere, la preside era già in piedi dietro al suo pulpito provvisorio, e gli fece tornare in mente tutte le provocazioni che una volta lanciava contro chiese e religioni. Stava parlando a proposito di tutto ciò che la scuola aveva fatto per lei, di cosa era cambiato e di quanti studenti avesse accompagnato nel viaggio verso la maturità.
Appariva stanca, e ancora più vecchia di quello che era in realtà. Sembrava provata da quella messinscena orchestrata per lei, non vedeva l’ora di andarsene. Quelle brevi parole, spogliate di ogni sentimento, dovevano esserle state suggerite da qualcun altro, perché  lei non avrebbe mai e poi parlato di quelle cose del tutto inutili, ma sarebbe andata dritta al sodo. Stava togliendo ogni sentimentalismo dalla voce ed era una cosa che Brian apprezzò: stava cercando di rimanere sé stessa prima che i figli la cambiassero irrimediabilmente.
Ci fu un applauso non troppo sentito per lei. Alcune professore vecchie almeno quanto lei avevano gli occhi lucidi, visto che molto probabilmente sarebbe toccato a loro una cosa simile, e nessuno avrebbe mai fatto così tanta fatica per allestire una festa comprendendo anche gli studenti.
Qualcuno gli fece cenno di salire sul palco, e lui obbedì, con una morsa nelle viscere. Non aveva assolutamente idea di cosa dirle; nelle sue mani giaceva un bigliettino con alcuni appunti scritti sopra, ma gli pareva ingiusto mostrare una tale ingratitudine nei suoi confronti. Aveva urlato davanti a folle decine di volte superiori a quella, si era spogliato e aveva fatto di tutto per far alzare le urla, non sarebbe di certo stato un evento da liceo a metterlo in crisi.
La Harper lo stava guardando da un lato del palco, seduta su una sedia di plastica grigia. Lui la guardò, prima di infilarsi il biglietto in tasca. Poi prese il coraggio a due mani, afferrò il microfono e si rivolse agli studenti lì riuniti.
-Quando conobbi Miss Harper –esordì, ostentando sicurezza, - la sua aura di autorità mi fece fare una bruttissima figura.
La folla fu percorsa da una risatina, e lui prese forza da quell’appoggio. Coloro che erano distratti tornarono a guardarlo, il chiacchiericcio si interruppe.
-Tuttavia non ebbe timore di guardarmi in tralice, stringermi una mano e darmi il benvenuto a bordo, nonostante sembrassi niente di più che un disperato.
Altra risata, altre parole.
-Devo dire che sono felice di essere stato a lavorare con lei. Perché raramente si trovano delle persone che sanno essere imparziali, e anche giuste; come non elogiava, così non riprendeva, né tantomeno faceva preferenze. Sembrerà stupido, ma è una cosa fondamentale per riuscire a soppravvivere in un posto qualsiasi di lavoro. Quando dico che per me è stato un piacere, non esagero: Miss Harper ha fatto di tutto, ne sono certo, per garantirvi un futuro decente, e mai una volta l’ho sentita commentare malignamente i risultati.
I ragazzi stavano zitti, forse sentendosi vagamente colpevoli. La donna su cui avevano inventato caricature grottesche e barzellette di cattivo gusto, alla fin fine, aveva dato loro un’oppurtunità non da poco, considerato la voglia che avevano di studiare.
-Miss Harper è sì la donna che interroga in biologia alle sette e cinque minuti di mattina, che fa le verifiche a sorpresa di algebra superiore e consegna i brutti voti in trigonometria, ma è anche colei che, a fine giornata, spolvera tutte le foto appese dei laureati, e si preoccupa che splendano, così come ognuno di voi dovrebbe fare.
Seppe per certo di aver concluso. Non la conosceva, ma aveva detto tutto quanto quello che c’era da dire su di lei. Era la rigida e imparziale, ma sapeva dimostrare a modo suo quanto tenesse ai suoi alunni, senza mai riuscire a dimenticare nessuno. L’applauso che ricevette era solo il fioco eco di quelli che poteva avere in passato ma, comparato a quelli dei discorsi che sarebbero seguiti, era il più fragoroso.
Tuttavia questo glielo raccontò Jessy, dopo; appena finito di parlare, infatti, aveva stretto la mano ad Harper e se ne era andato.
Senza sapere che, il giorno seguente, tutto sarebbe cambiato.
Di nuovo. 

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Capitolo 20
*** Rockstar! ***


L’albergo sembrava sproporziato rispetto agli esseri umani alti meno di due metri e mezzo, sempre che ne esistessero.
La stessa hall, che aveva il compito di accogliere ospiti nel proprio ventre lucidato a specchio, era un’enorme stanza dorata con confortevoli divani color avorio disposti nelle leggere curvature del muro, mentre al centro si trovava una scala principesca che conduceva alle stanze più che lussuose. Nonostante fosse uno spazio tipicamente artificiale, la presenza semi-celata di alcune piante molto probabilmente esotiche non faceva che renderlo ancora più fuoriposto; era un mondo costoso, luminoso, solare e pulito, tutto l’esatto contrario di quel quarantenne alto e vestito di scuro.
Non avrebbe saputo dire cos’era successo con esattezza. Semplicemente, qualcosa era accaduto, ed era stato assolutamente devastante, tanto che il suo piccolo appartamento da scapolo tornò in vendita, il posto di professore di arte divenne vacante e i laureandi si trovarono del tutto spiazzati dall’assenza del loro mentore.
E Jessy.
E Jessy.
Lei era stata un punto focale in quella storia, perché le bestie che venivano quotidianamente spacciate per giornalisti si erano private di nottate intere di sonno per andare a caccia di lei, per annusare il suo odore. Non l’avevano trovata, ovviamente; anche se era stato difficile farle accettare, era riuscito a spedirla in un viaggio rilassante attingendo al suo vecchio conto bancario. Quella spesa, sotratta al totale, era assolutamente una bazzecola, e l’unica immagine che avesse di lei da più di un anno era quella di una ragazza in lacrime, accompagnata dal sapore morbido e salato delle sue labbra contro le proprie e un cappotto scuro, in una giornata di pioggia.
Dopo mesi e mesi di fatica, di ambientazione, di auto-convincimento e di disintossicazione puramente casalinga, tutto ciò che gli rimaneva dell’amore della sua vita era quello, un singolo fotogramma stampato nella sua mente. Lo custodiva gelosamente: era solo per lei che si teneva lontano dalle sostanze che un tempo gli erano familiari e da groupies che volevano festeggiare il suo ritorno in scena.
In una gigantesca specchiera a muro, intravide la sua immagine. Sembrava uno spettro; i capelli vagamente pettinati all’indietro ricadevano comunque sulla fronte, dandogli un’aria torva, mentre lo sguardo privo di sopracciglia pareva vagamente angosciato. Non era più abituato a vedersi truccato, anche se aveva addosso solo un sobrio rigo di matita, ma rivedere comunque la sua cera cadaverica gli diede un minimo di sollievo. Sistemò meglio il giubotto in pelle, facendo tintinnare abbastanza fastidiosamente le borchie sulle spalle.
Aveva lasciato la sua vita di professore con lo stesso silenzio con cui vi era entrato. Non era stato affatto difficile racimolare le proprie cose e sparire, lasciando una casa pulita e in perfetto stato, un posto di lavoro libero e un abbonamento valido per nove mesi della metropolitana, che teneva ancora in una tasca della sua valigia. Dubitava che l’avrebbe usato di nuovo, e forse si sarebbe sentito meglio buttandolo via, ma era come mantenere un contatto con quello che era diventato parte del suo passato.
Fin dalla prima volta che aveva messo piede nella sua squallida casa da uomo qualunque aveva capito che non era una situazione destinata a durare. Aveva guardato tutto con occhi scettici ma, assorbito dalla routine, aveva presto dimenticato che i suoi timori avevano radici in un’avventura durata quasi vent’anni come controversa rockstar. Così, quando si era ritrovato circondato da giornalisti curiosi che volevano accaparrarsi lo scoop su Marilyn Manson, la voglia di sbattersi una mano sulla fronte e dire “ah, già, me ne ero totalmente dimenticato!” fu enorme.
Gli era dispiaciuto abbandonare tutto, di punto in bianco, ma d’altra parte non era la prima volta. Si sentiva come un galeotto evaso di prigione, ripescato e rimesso in cella; stessa identica fine, solo che lui aveva maggiore libertà di movimento e l’avrebbe sfruttata quanto poteva.
Rimettersi a cantare e a lavorare ai dischi assunse un sapore diverso, che credeva di aver perduto per sempre. La musica lo aveva riaccolto dopo averlo vomitato fuori, con lo stesso abbraccio di una madre verso il figlio redento, tornato dopo un inconcludente pellegrinaggio.
Concerti, futuri tour, fan, album, appuntamenti, alberghi lussuosi, offerte sessuali, autografi…tutto identico a prima, come se il mondo si fosse congelato proprio in attesa del suo ritorno. Quello sciacallo che si ritrovava come agente (“Agente?” si chiedeva spesso, “Marilyn Manson si arrangia, altro che agente”) premeva per fargli scrivere un libro sulla sua esperienza, e lui stava al gioco, magari facendogli leggere qualche bozza inconcludente di tanto in tanto o fingendo di voler stipulare un contratto con una casa editrice, ritirandosi poi all’ultimo istante. Il suo scopo era farlo impazzire, in modo che desse le dimissioni e se ne andasse; non gli piaceva che Twiggy gli avesse affibbiato un baby-sitter per controllare che facesse il bravo bambino.
Comunque, la vita era andata avanti. Dopo un po’ di tempo, il suo essere sotto ai riflettori divenne nuovamente monotono come lo ricordava, ma partecipava volentieri a qualche intervista perché, anche se rimaneva sul vago, nessuno avrebbe avuto nulla da ridire. In fondo, lui era pur sempre Marilyn Manson, un artista, non facile da capire o da domare; l’audience saliva, lui non diceva nulla e la gente sembrava soddisfatta. Era un modo come un altro per lucrare su qualcosa che non fosse musica, visto che gli dava molto fastidio l’idea che l’avessero assunto come cantante solo per vendere.
Tra una cosa e l’altra, un anno o poco più era volato. All’attivo aveva quattro concerti, una partecipazione ad una serata di gala, due premiazioni, sedici comparse in programmi televisivi e sette interviste autorizzate da pubblicare su riviste internazionali, per un totale di qualche milione di dollari per punto sulla lista. All’inizio non sapeva che farsene di tutti quei soldi, visto che aveva imparato a vivere del necessario, però con la scusa della ricchezza moltiplicata,Twiggy si era trovato con un amico molto generoso. E un narghilè pieno della roba migliore che c’era in circolazione.
Infatti, guardando le vecchie spese in bagordi, si era accorto di aver scialacquato gran parte del suo cashè in divertimenti discutibili, causando un’ipotetica rovina alla propria carriera se avesse continuato su quella strada.
Nonostante tutto poteva dirsi soddisfatto. La botta di adrenalina derivata dall’essere di nuovo nel suo mondo, nel suo habitat naturale, lo aveva quasi ringiovanito; aveva cercato di non perdere le buone abitudini, anche se aveva dovuto tagliare passeggiate e simili, e gli pareva di essere rinato. Il tarlo chiamato Jessy aveva eroso gran parte del suo cervello ma, prima di vederla partire, le aveva strappato una promessa. “Quando le acque si saranno calmate, ci rivedremo”. E lei aveva annuito, sparendo.
Se fosse stato per lui, la ragazza sarebbe tranquillamente diventata la sua fidanzata ufficiale. In fondo non poteva succederle nulla, dal momento che era bravo a manipolare la sua vita sentimentale agli occhi delle telecamere e ad evitare sgradevoli paragoni con la sua ex-moglie, ma era stata lei stessa a tirarsi indietro. Non le piaceva la luce dei riflettori puntata addosso e, se doveva essere onesta, l’idea di essere soltanto “una delle tante” non l’allettava affatto. Così era rimasta nell’anonimato, ma ogni giorno che passava lo distruggeva, seppur indirettamente.
Lo rodeva nel profondo l’incertezza di dove fosse, con chi fosse, se lo stesse guardando, se si fosse rifatta una vita, se avesse continuato a lavorare lì e cose del genere, e la consapevolezza di non poter fare nulla in ogni caso lo paralizzava. Prendersi delle pause per smaltire il senso di colpa non erano una cosa tanto impossibile da fare, visto che tutti lo interpretavano come un post-sbornia, ma ultimamente sembrava che non servisse a nulla lo stesso. Gli pareva di essere comunque rimasto sul filo del rasoio, e i piedi avevano cominciato a sanguinare da un pezzo.
Poi, dal nulla, la telefonata. Da un semplice biglietto datogli dal cameriere (che in un primo momento aveva creduto omosessuale) aveva subito capito che si trattava di Lei. Era corso alla cabina telefonica che aveva indicato, piantando il resto dei commensali nel mezzo della cena, e aveva potuto parlarle, seppur per pochi momenti.
Ciao, Brian, aveva detto, provocatoria,fra un po’ sarà il nostro anniversario, te lo ricordi? Mi piacerebbe un bel caffè per festeggiare la ricorrenza, che ne dici?
Giovane. Sensuale. Misteriosa. Ecco come la ricordava e desiderava, senza rimanere deluso.
Ovviamente non aveva rivelato il giorno, ma lui non l’avrebbe mai dimenticato per nulla al mondo. In fondo, si trattava di una delle date più importanti della sua vita e, forse per una sorta di masochistico romanticismo, avrebbe potuto recitare a memoria tutte le date di anniversari, fidanzamenti e rotture delle sue storie passate anche saltellando su una gamba sola.
Guardò lo splendido orologio da parete per l’ennesima volta, soffermandosi sui decori vagamente barocchi che ne definivano il contorno; lì dentro era tutto così maledettamente giallo e sfavillante, per Dio, sembrava di stare in un gigantesco ed elegante uovo di pasqua. Distrattamente si rese conto che con la sua ex-seconda classe era stato quello l’ultimo argomento trattato: aveva dovuto portare delle fotocopie illustrative perché il testo non diceva abbastanza in merito, spendendo tutti gli spiccioli che aveva in tasca e rinunciando persino al caffè. Per come stavano attualmente le cose, si sarebbe tenuto le monete in tasca e al diavolo gli approfondimenti.
Si era sistemato e pettinato per ore; in fondo, dopo un anno l’avrebbe rivista, finalmente. Sarebbe stato un evento epico, da segnare sul calendario, ma per il nervosismo non riusciva a fare un bel nulla; si sentiva bloccato nelle retrovie del posto, un fantasma scuro che si teneva lontano dal bar elegante che gli stava di fronte, messo a disposizione dall’hotel per un cocktail con stile. Trovava semplicemente ripugnante spendere quasi dieci dollari per un espresso, però per Jessy avrebbe questo e altro: era un’occasione più che speciale.
Ad un tratto, i suoi occhi truccati si spostarono di figura in figura, fino a trovare il loro obbiettivo. Lì dentro c’era così tanta gente ricca che voleva definirsi stravagante che nessuno faceva caso a lui, nella maniera più assoluta. Era solo un uomo vestito di nero con un viso pallidissimo, nulla di cui preoccuparsi.
Però, la giovane ventenne con un elegante impermeabile scuro che si sedette ad un tavolo rotondo con la copia fresca fresca di stampa del Parisienne in lingua originale non passò assolutamente inosservata. Sotto all’orlo del soprabito, spuntavano le sue gambe perfette, dal ginocchio alla caviglia. Grazie alle calze trasparenti la flessuosità del suo corpo veniva accentuata, fatta risaltare anche da un paio di scarpe nere a tacco alto.
I capelli rossi erano stati sistemati in un’elegante e semplice acconciatura che portava raccolta sulla nuca; il viso candido era semi-nascosto da un paio di occhiali da sole grandi che le stavano magnificamente, come se fosse stata il manichino di base per testare il prodotto: non sarebbero stati bene su nessun altro, ne era sicuro.
Si rese conto di star trattenendo il respiro, ma non era capace di farle perpecipire la propria presenza (anche se era particolarmente lontano da dov’era l’entrata) neppure attraverso il fluire dell’aria nei suoi polmoni. Osservò con stupita meraviglia i gesti aggrazziati da cerbiatta che aveva usato per accomodarsi, in un angolo piuttosto isolato della sala con i sostegni in ferro battuto e il piano in vetro trasparente. Accavallò le gambe con una fluidità che minacciò di ucciderlo, sfilò gli occhiali dal viso e si mise a leggere, con espressione assorta.
Le dita sottili muovevano le pagine come se fossero fragili foglie autunnali. Era diventata, da bellissima ragazza, una splendida giovane donna, con un’eleganza senza pari e un modo pacato di affrontare le cose. Non appena la vide e comprese appieno la sua presenza si accorse di quanto gli fosse effettivamente mancata, di quanto avesse ricamato su quell’incontro anche quando non sapeva nemmeno se l’avrebbe rivista.
Assaporò la sua presenza senza perdersi neanche una mossa, un singolo gesto. Continuava a fissare le pagine, assorta, e si ripromise di uscire non appena avesse guardato l’orologio, per non farla annoiare. Ripensò quasi con nostalgia quando aveva completa libertà di movimento, che a nessuno sarebbe importato che fine faceva o dove andava, ma l’importante era che accadesse tutto nel silenzio.
Lei in quel momento gli faceva venire voglia di urlare, cantare in piedi sui tavoli, spogliarla e riassaporare la sua pelle fantastica davanti a tutti, sconvolgere e amare, come mai prima d’allora. Era decisamente la sensazione più strana che avesse mai provato in tutta la sua vita tormentata e, all’improvviso, l’idea che lei se ne sarebbe andata di nuovo lo uccise. Avrebbe fatto in modo che nessuno avrebbe potuto portargliela via perché, diamine, la amava. E ammetterlo era stato più facile del previsto.
I suoi occhi castani si posarono delicatamente sul quadrante alla parete e, come i propri, si soffermarono leggermente sugli arabeschi che correvano lungo il bordo. Prima che si re-immergesse nella lettura, Brian uscì dall’ombra, camminando a passo sicuro lungo il locale, tagliando lo spazio con la propria presenza.
Non ci fu nemmeno un borbottio ad accompagnare il suo passaggio, non un’esclamazione oppure una parola. Fu come una magia, quando si vede nei film o nelle favole i protagonisti che diventano prede dei più disparati sortilegi sensoriali; nell’esatto momento in cui Brian sorrise, Jessy alzò lo sguardo, rimanendo incatenata nel suo; sapeva che non sarebbe potuto fuggire, né avrebbe desiderato farlo.
Piano, le sue labbra rosee si schiusero come se fossero un fiore a primavera, che lo sciolse con la propria bellezza. Aspettò che fosse completamente vicino al suo tavolo per riappoggiare il suo tavolo, e quando arrivarono talmente vicini che si sarebbero potuti sfiorare lei decise di dire le parole che lui, per tutto il resto della sua esistenza, si sarebbe ripetuto nella mente, sentendo nascere in fondo al suo petto la più dolce e al tempo stesso sfrenata emozione che l’aveva fatto ringiovanire di quasi tutta una vita, accompagnata dal sorriso che non si sarebbe mai stancato di guardare:
-Sei tornato, finalmente.
 
RINGRAZIAMENTI:
Buongiorno/ Buonasera/ Buonanotte a tutti. Mi piacerebbe davvero tanto che qualcuno leggesse questa aggiunta, prometto che dopo venti capitoli smetto di rompervi e mi ritirerò in un monastero.
Allora, prima che mi dimentichi ho pensato che una buona canzone per questa FF potrebbe essere “Mr. Superstar” (spero che non sia necessario specificarne l’autore). Se avete idee migliori sono assolutamente curiosa di saperle, quindi ditemele senza paura, mi piace un sacco ricevere nuove opinioni J
Ho sempre amato questa storia come un amico alcolizzato che si incontra al bar, chino sul proprio bicchiere di roba forte, barbuto e con un cappello di flanella beige calato sulla testa. Non so perché, se devo essere onesta; forse perché sono una maledetta “cinica con influenze sarcastiche e vagamente macabre”, però mi è sempre piaciuto impersonare “Hey, you!” con quest’ipotetico personaggio inventato. Il titolo è una non molto brillante citazione della canzone “The Beautiful People”. Lo so, lo so, avrei fatto una figura decisamente più bella se avessi pescato un titolo da, chessò, Mechanical Animals, ma non me la sentivo di farvi collegare il mio disco preferito con questa cosa che, sicuramente, non sarà mai all’altezza.
Comunque, sto divagando, come al solito. Mi atterrò al titolo che ho messo in questa postilla, non preoccupatevi.
Non comincerò a fare nomi, giusto per non doverne aggiungere in futuro, però ringrazio davvero moltissimo tutti coloro che si sono fermati a recensire questa piccola e modestissima storiella. Per me è stata un’emozione bellissima poter trovare i vostri commenti magari dopo una brutta giornata, soprattutto vedendo che erano tutti pieni di complimenti :D
Ovviamente, sappiate che amo alla follia tutti i lettori che mi hanno seguito fin qui, oppure che si sono fermati prima, che hanno saltato o riletto capitoli e altro ancora, perché se loro non ci fossero io non saprei chi torturare con le mie storie dalla mattina alla sera. Grazie mille, I Love You :*
Ringrazio anche EFP (perché no?) e la sua categoria che mi ha permesso di sfogare la mia bambominchiaggine e la mia voglia di protagonismo. È una buona palestra per un futuro all’insegna della letteratura, devo ammetterlo ;)
And the last but not the least, ringrazio Marilyn Manson per il semplice fatto che stringe i denti e non parte ad insegnare storia dell’arte. In quel caso non so cosa farei, forse diventarei una versione leggermente più schizzoide di Bridget xD Lo amo moltissimo, perché anche se non lo saprà mai mi ha aiutato in momenti assolutamenti brutti della mia giovane vita con un sostegno disinteressato, e so che ci sarà sempre. A novembre faranno tre anni di matrimonio (di cui lui è inconsapevole, LOL) e sono assolutamente orgogliosa di essere una sua fan.
In conclusione, (adesso me ne vado, prometto) vorrei incoraggiarvi a scrivere in questa categoria pressochè disabitata, perché è assolutamente un peccato che ci siano poche storie. Consolatevi col pensiero che, se l’ho fatto io, potete benissimo farlo anche voi con molto più successo di me. Mi impegnerò a lasciare una recensione, a meno che la natura cerchi di impedirmelo ;)
Quindi, il succo della storia è che voi siete il sole della mia vita di scrittrice, e Marilyn quello della mia esistenza reale. Volevo semplicemente ringraziare tantissimo tutti quanti per il vostro silenzioso o esplicito sostegno, per me è stato davvero importante.
Siete tutti delle persone speciali. Grazie davvero tanto.
Sperando che non sia un addio,
Arrivederci.
The Queen.
 
PS= Oggi è l’anniversario della storia, iniziata il 4/12/2012. Che romanticiscmo, vero?? :3 

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