Il sentiero delle foglie secche di Haruakira (/viewuser.php?uid=98001)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
1 long reborn
IL
SENTIERO DELLE FOGLIE SECCHE
Qualcuno
diceva: ha qualcosa addosso, come una specie di infelicità
(A. Baricco, Seta)
Per arrivare a scuola doveva percorrere un lungo viale alberato.
Durante l' autunno i rami degli alberi sembravano più
lunghi,
più scheletrici.
A volte aveva come l' impressione che si allungassero su di
lui nel
tentativo di afferrarlo, che si muovessero.
Quel sentiero gli incuteva
un certo timore, specie nelle giornate più uggiose e
cupe, quando Namimori veniva coperta da un velo di nubi fuligginose.
In realtà, se avesse fatto una fotografia a
quella strada e l' avesse sviluppata, avrebbe potuto definirla bella.
Un po' malinconica e un po' romantica. Di una dolcezza e di un torpore
infiniti.
Tuttavia ogni mattina Takeshi la
attraversava a passo svelto, ignorando gli alberi e camminando a testa
alta con lo sguardo fisso verso la fine.
Sentiva scricchiolare le
foglie secche sotto le scarpe da ginnastica.
Inizialmente quel rumore
-quel crack che sapeva di rotto- lo infastidiva, poi aveva preso ad
utilizzare un paio di cuffie aumentando al massimo il volume del suo
mp4 un po' vissuto.
Il rumore delle cose che si rompevano -il vaso che cade per terra, un
vetro che va in frantumi, la matita che si spezza- lo infastidiva
profondamente.
Ciò che si rompe non può essere
aggiustato, lo aveva capito da un pezzo.
Lo aveva capito da piccolo quando sua madre aveva fatto la valigia e se
ne era andata senza guardarlo.
In quell' occasione aveva guardato suo padre con un' aria
interrogativa e preoccupata. Il genitore gli aveva regalato un sorriso
malfermo dicendo di non preoccuparsi.
Gli aveva scompigliato i capelli scuri e gli aveva detto:- Tu li
conosci gli eroi, vero Takeshi?
Aveva annuito e il padre allora aveva continuato.
-Bene, la tua mamma è come un' eroina. Lo è di
sicuro. E
lo sai, gli eroi non possono stare tanto a casa perchè il
mondo
ha bisogno di loro. Devono correre tutto il giorno qua e là,
poverini. Oggi al Polo Nord e domani al Sud, a colazione sono in Russia
e a pranzo in Turchia perchè c' è sempre qualcuno
che
chiede aiuto. La mamma proprio ieri è stata promossa per
essere
il capo di una squadra di eroi.
All' epoca non sapeva dove fosse la Turchia e nemmeno la Russia, ma
aveva capito che erano posti lontani.
-E... quindi non viene più?- aveva domandato poco convinto.
-Se il mondo non ha bisogno di lei, verrà.- quel
"verrà"
gli era sembrato detto a denti stretti, in modo un po' forzato e
stentato. Come
se quella parolina non volesse uscire dalla bocca del padre- Devi
essere orgoglioso della tua mamma. Non tutti i bambini possono dire di
avere una super mamma che salva il mondo e noi non dobbiamo essere
egoisti.
Takeshi aveva sospirato e ci aveva creduto.
Quando accendeva la
televisione sperava di vedere il volto della sua mamma mentre
combatteva accanto a Batman o all' Uomo ragno.
Ma non era mai successo.
Un po' il cuore gli si era gonfiato di orgoglio ma di certo prevaleva
un enorme dispiacere che si era andato sempre più
accentuando
col passare dei giorni e dei mesi. E poi degli anni.
Gli sarebbe bastato vederla anche solo una volta, per cinque minuti.
Ma un eroe è veramente così impegnato?
Allora aveva provato a chiedere aiuto. Gridava "Aiutami super mamma,
aiutami!" ma non succedeva niente, quindi aveva pensato che forse
doveva
essere in pericolo per davvero e si era buttato nel fiume. Lo aveva
salvato il suo papà che stava pescando sulla riva.
Era stata la prima volta in cui aveva visto l' uomo piangere. Non
voleva più vedere suo padre soffrire.
Quel giorno si era impegnato affinchè suo padre
fosse
felice, ed era stato sempre un bambino bravo, allegro e felice.
O così, almeno, pare.
Ah, non sapeva perchè la mamma non fosse arrivata e allora
aveva
capito, in qualche modo, che non sarebbe mai più tornata,
ragion
per cui aveva cercato di non pensarci più, dimenticandola.
Gli eroi, per inciso, non gli piacevano più.
Quel giorno a scuola era arrivato un nuovo ragazzo. Si chiamava Hayato
Gokudera ed
era italiano. A guardare il nome non si sarebbe mai detto, la sua
famiglia -giapponese- si era trasferita nel paese del sole un paio di
generazioni prima. Persino il suo aspetto non diceva nulla riguardo
alla sua
provenienza. Aveva un incarnato chiaro e occhi verdi, lo si sarebbe
potuto dire nordico, infondo.
Quando era
arrivato in classe aveva guardato tutti e nessuno senza particolare
interesse.
Aveva l' aria annoiata. Un po' triste.
Takeshi pensò che dovesse essere una persona triste.
La tristezza è una cosa che si vede.
Gli occhi di una persona infelice hanno un che di torbido, una precoce
stanchezza della vita.
L' infelicità diventava un laccio intorno all' anima, la
succhiava rubandole tutte le emozioni. Inevitabilmente ti cambiava
rendendoti più cinico, più disincantato, meno
ingenuo.
Takeshi lo sapeva perfettamente.
Era una
tiepida mattinata di metà autunno quando era arrivato, il
cortile era pieno di
foglie secche da giorni e le nuvole sembravano correre veloci nel cielo.
Hayato Gokudera trovava quella cittadina incredibilmente stretta.
Ah, ora che ci pensava si era detto la stessa cosa di tutti i posti in
cui era stato negli ultimi anni.
Per qualche motivo nessun posto sembrava adatto ad
accoglierlo.
Ogni luogo era o troppo vuoto o troppo pieno, troppo rumoroso o
viceversa silenzioso, con troppo verde o troppo asfalto.
Era sbagliato.
Hayato non apparteneva a niente e a nessuno, si sentiva come
la
pallina di un flipper, sempre sbattuto alla ricerca frenetica e
ossessiva di qualcosa. Avrebbe proprio voluto saperlo, cosa? Cosa
cercava? Cosa gli mancava?
Che doveva fare per sentirsi parte di qualcosa?
Non si sentiva nemmeno parte dell' umanità, certe volte.
Guardava la gente con quel distacco un po' superiore che
caratterizzava
il suo modo di fare.
Forse il problema stava nel fatto che fosse
un genio. Non c' era materia in cui non eccellesse, non c' era
argomento che non conoscesse.
Era anche un po' troppo cervellotico a
dirla tutta e anche piuttosto impulsivo. Ed egoista.
Odiava la
gente. Tendenzialmente la evitava. Non gli piacevano le file, i luoghi
affollati, gli autobus, la musica assordante e le feste studentesche e
più in generale i luoghi in cui era costretto a stare a
stretto
contatto col vicino di turno.
Aveva un' idea di spazio personale
piuttosto ampia.
Non è che avesse paura della gente o altro, semplicemente,
riteneva la maggior parte degli essere umani... stupidi.
Tutti
quelli che lo circondavano sembravano essere impegnati a parlare di
scemenze.
"Oh, quando
finiamo devo correre immediatamente a casa che sta per incominciare X",
gemette la ragazzina al suo fianco guardando tristemente l' orologio
sul display del cellulare.
Aveva confemato la sua tesi.
Durante la
pausa pranzo se ne era stato seduto tranquillo al suo banco per i primi
cinque
minuti, poi una mandria di pecore impazzite -i suoi compagni di classe-
lo aveva accerchiato guardandolo come si guarda un essere esotico e
cercando, con scarsi risultati, di fare conversazione.
-Lo segui il Grande Fratello? L' ultima entrata è troppo
gnocca!
Gokudera si era
voltato verso il ragazzo che aveva espresso una simile perla di
saggezza, la studentessa al suo fianco aveva ridacchiato:-
Già
s' è fatta il fratello della sua migliore amica che era
entrato
prima di lei.
Gokudera si
chiese, giustamente, se per caso sapessero cosa stava accadendo nel
mondo. O almeno cosa fosse un telegiornale -e anche lì, c'
era
da andarci con i piedi di piombo, almeno dalle sue parti-
-Scommetto che una di voi vuole fare la ballerina- tirò a
indovinare sorridendo mellifluo.
Ci fu uno squittio provenire da più parti.
Gokudera si alzò sbuffando e uscì fuori dalla
classe lasciando più pecore assai interdette.
Quegli idioti stavano violando impunemente il suo spazio vitale. Come
se avesse bisogno di loro.
Nei corridoi si
scontrò con un ragazzino con la faccia da pesce lesso.
Quello
cadde a terra gemendo come una donnetta, poi, rialzandosi, si
scusò balbettando. Forse era stato perchè
Gokudera lo
aveva guardato torvo. Lo vide correre emettendo un suono molto simile a
un "hiii"
Il ragazzo ridacchiò, quello lì stava
praticamente scappando!
Aveva deciso di
salire sul terrazzo, se gli andava bene poteva stare due minuti da
solo. Camminando vicino alle finestre vide due ragazzi suonarsele di
santa ragione, gli studenti della scuola li accerchiavano incuriositi,
qualcuno stava correndo verso l' interno, probabilmente per chiamare
qualche professore.
L' italiano
ghignò accendendosi una sigaretta. Da lì avrebbe
potuto
godersi lo spettacolo. Indegno ma pur sempre spettacolo. Probabilmente
non era raro che quelle due teste vuote facessero a botte per un pezzo
di quartiere in cui segnare il territorio -magari pisciando negli
angoli come i cani.
Ah! Ma uno dei due lo conosceva! Non era quel suo compagno dalla faccia
idiota? Sì, quello seduto dietro di lui?
-Yamamoto Takeshi- sibilò Hibari.
-Mi morderai a
morte?- l' altro lo precedette canzonatorio- l' ho sentita questa. L'
ho sentita Kyoya.- il moro portò la mazza da
baseball
sulla spalla destra picchiettandola lievemente- e cosa avrei combinato
questa volta, uhm?
-Hai picchiato l' intero comitato disciplinare.
Takeshi si
indignò:- Comitato disciplinare un cazzo. Siete una specie
di
yakuza giovanile. Ohi Hibari, lo sai che questa potrebbe farti molto
male?- domandò indicando la mazza.
Il disciplinare tirò fuori i tonfa:- Anche questi.
Takeshi sapeva che battersi con Hibari era un' idea stupida, tuttavia
lo aveva fatto. L' istinto, l' adrenalina e una buona dose di
avventatezza avevano rinchiuso il suo cervello in un sacchetto di
plastica e lasciato a marcire in un angolo.
Forse, se i professori non
fossero intervenuti, ora avrebbe più di un braccio rotto,
più di un
paio di costole incrinate, l' occhio destro gonfio come una mongolfiera
e la mascella decisamente viola.
Ridacchiò, seppur con fatica, ritenendo che l' elenco
minuzioso
dei suoi mali fisici assomigliasse vagamente alla lista della spesa.
Oh sì, sarebbe potuta finire
decisamente peggio.
La cosa positiva, che in un certo senso lo rendeva
orgoglioso di sè, o almeno un po' più soddisfatto
e meno
abbattuto, era che anche Hibari aveva avuto la sua giusta dose di
legnate. Non quante ne aveva ricevute lui, bisogna dirlo, ma l' atleta
si era fatto valere.
Non è che Takeshi si sentisse masochista... o si diceva
sadomaso? O sadochista? O... com' era quel termine? Non se lo ricordava
proprio.
Insomma non è che gli piacesse farsi picchiare, ecco.
Nemmeno gli
piaceva particolarmente fare a botte, però se veniva sfidato
apertamente non si tirava indietro.
Mai e in nessuna cosa. Potevano
sfidarlo persino, per esempio, a giocare a tennis -cosa in cui era una
schiappa fatta e finita- ma lui non si sarebbe tirato indietro. Si
sarebbe preso qualche giorno per imparare, semmai, per poi giocare,
gareggiare, battersi con tutte le sue forze.
Ora, sapeva che Hibari era dannatamente forte, che se avesse picchiato
il comitato disciplinare -cosa che in effetti aveva fatto con un certo
piacere- il loro capo lo avrebbe di sicuro pestato, tuttavia era una
cosa a cui non era riuscito a sottrarsi.
Gli piaceva aiutare gli altri e aveva ritenuto quella di picchiare il
comitato disciplinare sicuramente una buona azione.
Il comitato disciplinare era una specie di dittatura scolastica. Se non
si faceva ciò che era stabilito da loro -dal "non correre
nei
corridoi" fino a "dammi i tuoi soldi del pranzo"- si incorreva
necessariamente in gravi punizioni.
Nel corso dell' anno Yamamoto li aveva stuzzicati con scherzi
innocenti, come la colla sulle sedie oppure il barattolo di vernice
sulla porta. Era un modo per dire a quegli stronzi patentati che gli
studenti -o per lo meno alcuni- non avevano paura.
L' unica pecca era che finiva spesso nello studio del preside ma era
disposto a sopportarlo, non aveva assolutamente importanza se poteva
rendersi utile.
E poi era un modo come un altro per riempire le giornate vuote e
condurre una vita adolescenziale normale e spensierata.
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NOTE: Riposto "Il sentiero delle foglie secche" - sono io, Haru, la ma
coinquilina pazza non c' entra niente 'sta volta- dopo vari
tentennamenti e finalmente col primo capitolo decente e completo. Non
so che direzione prenderà la storia, credo comunque che il
raiting si manterrà arancione. Se ogni tanto spunta vun
verbo al
presente, non preoccupatevi, è che mi piace fare
così.
Ci sono un paio di ripetizioni relative alla parola tristezza nella
presentazione di Gokudera, assolutamente volute.
Mi
scuso per evetuali errori ma nelle ricorrezioni dei capitoli sono una
schiappa.
DISCLAIMER: Katekyo Hitman Reborn e i suoi personaggi non mi
appartengono. La storia non è scritta a scopo di lucro.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
c. 2 il sentiero...
C'
erano dei giorni in cui Hayato si sentiva incredibilmente vuoto,
tutto gli appariva privo di senso, persino la sua stessa esistenza.
Avrebbe voluto fare grandi cose ma in realtà sapeva
benissimo
che era destinato ad essere una goccia come tante nel mare del mondo.
Non tutti siamo destinati a diventare eroi, pochi sono gli eletti che
scriveranno la storia del mondo.
E' il nome dei grandi uomini che viente impresso nelle pagine dei libri
e marchiato nella memoria dei secoli, le masse sono destinate ad essere
trainate in un destino deciso non da un dio superiore ma da un semplice
uomo come loro.
Gokudera era un genio ed era ricco. Ne era cosciente e aveva grande
considerazione di sè.
Aveva le carte in regola per diventare grande e forse gli sarebbe anche
piaciuto.
Ma gli mancava la volontà, era troppo pigro per essere
grande.
Poteva andargli bene il suo microcosmo fatto di una vita normale.
Lavorare, sposarsi, fare dei figli. Era questo lo scopo di ognuno, no?
Non si vedeva molto neppure in questa categoria tuttavia non credeva ne
esistessero altre: o la grandezza o l' anonimato.
Era certo che in entrambe non avrebbe trovato ciò che
cercava.
Che poi ancora doveva capirlo lo scopo della sua vita, il senso dei suo
giorni.
Gli mancava qualcosa.
Qualcosa e qualcuno sono termini assai generici. Non era mai riuscito a
restrinegere la sua ricerca a categorie più definite.
La logica della sua mente arguta non ne era mai stata in grado.
Trascorreva dei giorni lenti trascinandosi dietro una
gioventò vecchia e malandata che non aveva mai vissuto
davvero.
Solo una volta nella sua vita aveva provato dei brividi, aveva fatto
ciò che fanno gli adolescenti della sua età.
Abitava ancora in Italia e tutto era incominciato con una telefonata
che gli era stata fatta per sapere di un qualche compito.
Lui si chiamava Daniele ed era stato una pennellata di colori accessi
sui suoi giorni grigi.
Non ricordava più come era successo ma da quel giorno si era
ritrovato impegnato in lunghe telefonate fatte di tutto e di niente che
lo avevano assorbito per pomeriggi interi. Andava al secondo anno del
liceo classico.
Al terzo in qualche modo Daniele gli aveva detto che lo trovava
interessante. Che gli piaceva.
Lo aveva spiazzato.
Si ricordava che anche quello era successo per telefono.
Un po' gli veniva da ridere se pensava che la maggior parte delle cose
che erano successe tra di loro, per lo meno nel primo periodo, erano
passate per le linee telefoniche.
Nonostante tutto non gli era mai sembrata una cosa priva di emozioni,
non gli era mai parso che si nascondessero dietro lo schermo di un
telefonino perchè incapaci di comunicare viso a viso. Non
era da
loro, non era per le loro anime un po' antiche e un po' moderne, fatte
di libri e poesia e di un velo di cinismo.
Vivevano lontani, tutto qui. All' epoca Hayato abitava in un paesino a
una decina di chilometri dalla città e Daniele... e Daniele
non
era mai andato a trovarlo.
Forse era troppo pigro, forse non gli piaceva abbastanza.
Nonostante tutto la loro storia gli sembrava quasi romantica, quasi
dolce.
Non si erano mai detti ti amo, anzi, Daniele gli ripeteva spesso il
contrario.
-Io non voglio prederti in giro, se ti dicessi ti amo mentirei.
Però ti voglio bene. Ti voglio un bene immenso. Anche dirti
ti
voglio bene mi sembra riduttivo.
Per questo non gli diceva spesso neppure quello.
-Nemmeno io ti amo- rispondeva Gokudera fumando quel che restava delle
sue prime sigarette consunte. In realtà gli faceva male,
avrebbe
voluto sentirsi dire almeno un ti voglio bene smozzicato qualche volta.
Daniele era schietto e lo feriva ma allo stesso tempo non
poteva non accettare quella sincerità disarmante. Non voleva
fargli male, semplicemente, non voleva illuderlo.
In realtà, e questo lo avrebbe capito in seguito, anche
Daniele
mentiva a sè stesso e inevitabilmente agli altri.
Più che
altro si cullava nelle sue indecisioni. Daniele era grigio, proprio
come lui, forse persino di una tonalità più scura.
Eppure quelle loro vite opache e chiazzate di colori cupi
intrecciandosi si erano in qualche modo illuminate, colorate di
tonalità pastello. Avevano bisogno l' uno dell' altro.
Ammettere la propria omosessualità per Hayato non era stato
un
grosso problema. Con Daniele ogni cosa sembrava andare oltre,
trascendere i limiti, stava talmente bene che non gliene importava
niente, che non si era mai posto il problema se fosse giusto o
sbagliato.
E poi tanto non lo doveva sapere nessuno. All' epoca non si era posto
neppure questo genere di problema, non gli interessava renderlo noto,
passare su un percorso minato da sofferenze inutili dovute all'
ottusità umana.
Stava davvero bene e tutto il resto poteva aspettare.
Erano passati dalle telefonate ai pomeriggi chiusi nella stanza di
Daniele a parlare di discorsi fatti di nuvole e a baciarsi stretti sul
letto troppo morbido. Non erano andati oltre, Gokudera non se la
sentiva, non subito almeno.
Non seppe mai dire cosa lo bloccasse visto che ogni nervo del suo corpo
sembrava gridargli di assecondare i tocchi dell' altro.
Si sentiva piccolo in realtà e stupidamente voleva aspettare
il proprio compleanno.
Daniele lo aveva lasciato dopo un paio di mesi dicendo che era senza
motivazioni, che non poteva renderlo felice.
Gokudera lo aveva accusato spesso di non andare mai a trovarlo, che non
poteva andare sempre lui in città ma a Daniele questo da un
orecchiogli
entrava e dall' altro gli usciva. Aveva pensato, da ragazzino quale
era, che fosse quello il problema. Forse lo aveva asfissiato?
Si erano lasciati per telefono.
Gokudera aveva pianto come un bambino come non gli accadeva da anni.
Gli aveva detto che non era necessario che andasse a trovarlo se non ne
aveva voglia.
Si era umiliato senza rendersene conto.
Poi, giorni dopo, aveva sorriso dicendo che andava tutto bene, che
potevano essere ancora amici.
Era un' amicizia che faceva dannatamente male, che non riusciva a
capire.
Era fatta di baci rubati, di giornate passate abbraciati nella stanza
di Daniele mentre lui gli parlava di altra gente, di altre cotte.
A un certo punto non ne aveva potuto più, quel legame lo
stava distruggendo.
In una giornata soleggiata di Marzo, mentre il ragazzo che piaceva a
Daniele passava davanti a loro con la sua ragazza, seduti su una
panchina del parco in quella mattina di sciopero, gli aveva detto che
non ne poteva più.
Era come se una molla fuori controllo fosse scattata nella sua testa.
-Ohi- lo aveva chiamato indolente fissando un albero verde smosso dal
vento- forse è meglio se la finiamo qui. Io non ce la faccio
più. Ti rendi conto che non è normale? Baci me e
poi mi
parli di Andrea.
Daniele lo aveva guardato:- Parli sul serio?
-Sul serio.
Era capitato altre volte un discorso del genere e tutte le volte Hayato
lo chiamava un paio di giorni dopo per tornare da lui con la coda tra
le gambe, quel giorno però era diverso. Si chiese se Daniele
lo
avesse capito.
-Non è giusto e io non ce la faccio più.
-Lo so che è sbagliato ma io... io non lo so cosa provo per
te.
-No, la verità è che con me sei tranquillo. Pensi
sempre che starò lì a scodinzolare per te.
-Non hai capito un cazzo, Dera. Te l' ho detto cosa provo per te. Te l'
ho detto un milione di volte, sono sempre stato chiaro. Non ti ho mai
preso per il culo.
-Va bene- aveva annuito- posso essermi rotto il cazzo allora? Te l' ho
detto, finiamola qui. Ora come ora non riesco ad esserti nemmeno amico.
Daniele avava annuito arrabbiato e si erano alzati prendendo due strade
diverse.
Quel giorno era veramente finito tutto.
Era il compleanno di Daniele e il braccialetto d' acciaio che gli aveva
comprato era rimasto ben chiuso dentro lo zaino.
Vi erano incise due lettere, la D. e la H.
Daniele e Hayato.
Oppure Daniele Hagen.
Ironia della sorte. Proprio un bello scherzo, no? Tutto da ridere.
Nei mesi successivi l' unico amico di Gokudera, un amico a cui
però non confidava di certo i suoi redonditi segreti, lo
aveva
trascinato per pub e locali, gli aveva fatto conoscere gente, lieto che
il compagno di banco avesse finalmente deciso di aprirsi un po'. Sapeva
persino essere divertente, Gokudera, e spensierato. Non lo avrebbe mai
detto.
Poi si erano tresferiti e il pensiero di Daniele si era fatto di giorno
in giorno sempre più sbiadito, sempre più raro.
Ma non era sparito.
Il braccialetto era chiuso in una scatola assieme a tutto quello che
aveva significato.
Daniele lo aveva cambiato, aveva rafforzato quella parte scura del suo
carattere che era andata espandendosi sempre di più, come
una macchia d' olio dentro l' anima.
E se prima era solo un po' timido e imbronciato, a tratti pessimista e
realista al tempo stesso, oggi era una persona pià cinica,
più disincantata, un estraneo tra gli uomini, un adolescente
col cuore di ghiaccio e l' anima ben serrata in una gabbia.
Era come se cuore e cervello non comunicassero più, o
comunicassero male trasmettendosi vicendevolmente solo emozioni
negative.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
3 il sentiero
Con
la punta delle dita toccava un nastro multicolore, un velo fatto di
tempere chiare e di sostanza irrisoria, quasi impalpabile. Di
sè
vedeva solo le mani che si protendevano e lambivano quel velo che si
muoveva come se fosse agitato dal vento.
Non aveva freddo, non aveva caldo.
Non sentiva sensazioni sulla pelle.
Vedeva solo quel velo e null' altro.
Voleva assolutamente strapparlo con forza. Vedere cosa c' era oltre.
Nutrirsi di verità celate.
Divorarle.
Ucciderle.
In qualche modo violarle.
Sapeva che oltre il velo c' era solo il Nero. Un buio che non era buio,
che era pesante, potente.
Era afissiante come una scatola chiusa.
Appiccicoso come la pece. Poteva catturarlo e sporcarlo.
Poteva morirci dentro.
Eppure.
C' era qualcosa.
La sveglia suonò sul comodino, Hayato si girò a
spegnerla
con un gesto secco. Aprì gli occhi a fatica e gli sembava di
non
avere dormito un attimo.
I veli, i veli.
Doveva andare a scuola anche se non voleva.
Si alzò, si lavò e si vestì lentamente
saltando la colazione e uscendo di casa senza vedere nessuno.
Certe volte si chiedeva se fosse abitata.
Forse se lo domandava anche la gente che passava davanti a casa sua, la
villetta solitaria alla fine di una breve salita.
Attraversò il parco di corsa e poi un lungo sentiero
cosparso di foglie secche che scricchiolavano ad ogni passo.
Un po' come la sua vita, no?
Era un sentiero lungo, sembrava senza fine, sembrava rubato ad un
quadro e appiccicato alla bell e meglio alla realtà fisica.
Un quado fantastico e irreale.
Quella strada era diversa da tutto il resto. Le foglie secche coprivano
il sentiero come un lungo tappetto uniforme e senza buchi. Se ci si
guardava indietro ci si trovava di fronte vie strette e delicate,
brevi, costeggiate da rari alberi di ogni genere e tipo e da bassi
cespugli. Quel sentiero infinito e omogeneo invece sembrava un mondo
altro,
un a parte
separato dalla realtà.
Era come mettere i piedi oltre una linea di demarcazione che separava
il mondo fisico da quell' altro.
Fantasia?
Pensiero?
Coscienza?
O forse era semplice paura?
Semplice vuoto che era tale perchè dentro c' era un tutto
indistinto
che si muoveva e si mescolava senza requie mascherandosi sotto i
silenzi di quel luogo, sotto lo scricchiolare delle foglie, sotto quel
nulla apparente fatto di quiete.
Il vuoto non è mai vuoto, è sempre dannatamente
pieno solo che noi non lo sappiamo.
Non possiamo saperlo.
Dobbiamo fracassare il vuoto per renderci conto che è tale
solo
quando ci perdiamo nei nostri pensieri che si inseguono e si
attorcigliano
tra di loro creando masse intricate di una confusione che è
nera, che è notte e che ci atterrisce.
Non capiamo più niente in quell' indistinto, non troviamo
più niente, perdiamo la strada e siamo talmente confusi da
credere di non possedere più nulla, a tal punto da esserci
scordati persino
ciò che cercavamo. E non riusciamo a trovare quel qualcosa
in
quell' indistinto. Quel qualcosa che c' è, che è
lì da
qualche parte.
Ma dove?
E che diavolo stiamo cercando?
Non lo sappiamo.
Non lo sappiamo e allora c' è solo il nulla, il vuoto sui
cui confini vagare.
E' come se ci muovessimo terrorizzati sui bordi di una voragine nera.
Non siamo così stupidi da buttarci.
Siamo angosciati e ci domandiamo perchè c' è solo
un
niente che fa paura, perchè sentiamo quell' oppressione che
ci
pende sulla testa come una spada di Damocle, perchè c'
è
quel senso di... vuoto persino nel cuore.
Ci manca qualcosa che dovrebbe esserci e qualcos' altro che non
dovrebbe esserci invece c' è.
Siamo forse pazzi?
Hayato attraversò il sentiero di corsa fingendo di essere in
ritardo.
Urtò una spalla e quando si girò per chiedere
scusa riconobbe una faccia conosciuta.
Un sorriso comparve sulle labbra di Takeshi mentre si toglieva le
cuffie.
Era raro trovare gente a quell' ora.
-Yo- lo salutò
-Ehi- biascicò Hayato- scusa per prima- e voleva girarsi e
andare via.
-Aspetta
-Che vuoi?
-Siamo nella stessa classe.
-Embè?
-Mi aiuti?- Takeshi indicò la gamba e la stampella.
Hayato sghignazzò:- Ti sei fatto pestare per bene.- mosse un
paio di passi verso l' altro- che devo dare?- chiese quasi con rabbia
Takeshi sorrise:- Niente, solo farmi compagnia.
E Hayato sgranò gli occhi. Forse dopo tutto non era una
cattiva idea.
Ci fu un momento di silenzio, poi Takeshi parlò:- Ti piace
questa strada?
Hayato si voltò di scatto verso di lui. Che domanda era?
-Sinceramente- puntualizzò il moro.
L' italiano ci pensò su:-Vuoi la verità-
ponderò
-E' strano?
-Non ti puoi accontentare di una conversazione superficiale come fa la
gente normale?
-Credi che la gente faccia così?
-Di solito- tacque- spesso- rettificò.
-Lo fa quando non ha nulla da dirsi, quando è in imbarazzo-
spiegò Takeshi sorridendo.
-O se ti vuole impressionare- aggiunse Hayato- cioè spesso.
Quando conosci una persona cerchi sempre di fare una buona impressione.
Di sembrare speciale, magari se quella persona ti attira veramente. Si
finisce per strafare e quindi per fingere. E si mettono su
conversazioni
idiote.
-Le prime conversazioni tra due persone che si conoscono appena non
possono certo essere... intime, diciamo, no?
-Credo di sì. E allora tu che diavolo vuoi?
Takeshi rise:- Voglio rompere questa specie di regola non scritta.
Quella delle conversazioni idiote come le hai chiamate tu!
-Ah.- Hayato si concesse un mezzo sorriso- saltare le tappe, eh?
Takeshi si fermò al' improvviso, Hayato fece altrettanto
girandosi verso di lui. Il giapponese disse:
-Credi di poterlo fare? Ti sentiresti pronto a saltare i convenevoli e
buttarti in discorsi più profondi? A svelarmi qualcosa di
te, a svelare quello che si cela dietro i tuoi occhi, nel tuo
cervello?
-Ti facevo sinceramente più stupido- fece Hayato- e comunque
la
risposta e no. Dalle mie parti si dice: "fatti i fatti tuoi e campa
cent' anni", ecco, fatti i cazzi tuoi.
Gli voltò le spalle infilandosi le mani nelle tasche e
muovendo i primi passi.
-Sbrigati, idiota, o ti lascio qui- scosse la testa contrariato
soffocando le sue parole in un borbottio sconnesso- che razza di
discorsi. Di primo mattino poi.
Takeshi lo seguì sorridendo. Lo sapeva, in qualche modo quel
ragazzo era come lui.
-E tanto per chiarire- aggiunse l' italiano- di te non mi fido.
E Takeshi in quel momento pensò che sarebbe stata dura con
quello lì, che c' era molto da lavorare visto che il suo
nuovo
amico era certamente testardo come un mulo.
Alla fine delle lezioni Hayato sbirciò di sottecchi il moro.
Lo
vide alzarsi faticosamente dalla sedia mentre parlottava con un paio di
ragazzi. L' italiano prese la tracolla e si alzò a sua volta
dirigendosi verso la porta, lentamente.
-Ohi Gokudera!- quando si girò vide Takeshi zoppicare verso
di lui- aspettami.
Hayato sbuffò tuttavia si fermò ugualmente.
-Facciamo la strada insieme, ti va?
-Se andiamo nella stessa direzione tanto vale...- concesse l' altro.
Takeshi sorrise:-Se ti va possiamo fare la strada insieme ogni giorno.
La mattina ci possiamo vedere da qualche parte e andare a scuola
assieme che
dici?
-Dico che ti stai prendendo troppe confidenze.
Il tragitto fu stranamente silenzioso, a differenza della
mattina, poi si fermarono solo una volta superati i cancelli del parco.
-Qui ci separiamo- disse Takeshi.
Hayato grugnì qualcosa accendendosi la seconda sigaretta del
percorso.
-Domani ti aspetto qui- gli urlò l' altro allontanandosi e
sventolando la mano in aria.
-Come se avessi detto che ci sarò- borbottò l'
italiano.
L' indomani Hayato uscì dalla villa di fretta, con una certa
agitazione nel corpo. Fremeva.
Chissà se...
pensò.
Più si avvicinava ai cancelli del parco e più
affrettava il passo. Eppure faceva di tutto per non pensarci, non si
aspettava certo niente da quell' idiota, non si aspettava niente da
nessuno, figurarsi da un tipo simile appena conosciuto.
Andava bene fare la strada da solo. Anzi, era anche meglio.
Era anche...
Si fermò al centro della strada non appena vide Takeshi
appoggiato pigramente ad un muretto.
C' era, si disse.
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Ciao a tutti, capitolo confusionario, mi rendo conto, ma questa storia
è talmente introspettiva da essere sfuggente, i pensieri non
si toccano, assumono contorni definiti o sfumature, forme, immagini,
colori o addirittura diventano il niente assoluto e qui è
proprio questo che ho cercato di riprodurre anche se goffamente. Forse
è difficile da seguire a volte ma non voletemene, sto
sperimentando, come sempre ultimamente. Spero non sia sempre
così ^^"
Scusate per gli errori ma non ho avuto tempo di ricontrollare bene.
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