When The Sun Goes Down

di MissNothing
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** I, adagio ***
Capitolo 3: *** II, profumo di viole ***
Capitolo 4: *** III, parallele ***



Capitolo 1
*** prologo ***


When The Sun Goes Down

-prologo-



 

Gerard continuò a fissare le luci dei lampioni stradali fuori dal finestrino della macchina in cui si trovava in quel momento, pensando al fatto che non aveva idea di dove si sarebbe riparato dall'alluvione che era da poco cominciata. Fissò le luci che si appannavano nelle tante piccole goccioline colorate di cui era tempestato il vetro che lo separava di qualche centimetro dalla pioggia battente, e ci poggiò una mano sopra nel tentativo di bilanciare il suo peso prima di trovarsi col volto schiacciato contro la fredda superficie trasparente. Sospirò, il calore della sua bocca che si condensava in vapore contro il finestrino e formava un piccolo cerchio.

Pensò che se fosse stato piccolo probabilmente ci avrebbe disegnato qualcosa sopra, ma quello non era il caso.

Pensò anche che probabilmente, con i soldi che aveva guadagnato a quella sera, avrebbe potuto comprare qualche tela. Erano passati secoli dall'ultima volta che Gerard aveva avuto l'occasione di dipingere con gli strumenti adatti, e il solo pensiero che avrebbe potuto farlo di nuovo di lì a poco rendeva tutto più sopportabile. Sapeva che ne valeva la pena, e che anche se non ne fosse valsa, bhè, non era qualcosa che dipendeva da lui

Pensò che doveva ancora pagare la bolletta dell'acqua, che a casa c'era il frigo vuoto e di conseguenza avrebbe digiunato di nuovo.

Pensò che il giorno dopo gli avrebbero mandato la prima delle rate in cui si era fatto dividere la bolletta della luce del mese precedente e che non aveva idea di come avrebbe fatto a pagare tutte quelle cose nel giro di qualche settimana, e improvvisamente tele e tempere non sembravano poi così importanti.

Pensò anche che Mikey era da solo a casa e che probabilmente aveva ordinato qualcosa da mangiare, pagando con gli ultimi spiccioli rimasti, e non ebbe tempo di pensare altro prima che lo sconosciuto dietro di lui -nonché proprietario della macchina- venisse con un urlo quasi straziato, interrompendo il filo dei suoi pensieri. Veloce e indolore.

Gerard roteò gli occhi al cielo e non riuscì a trattenersi dal pensare che forse era quasi divertente. E non l'urlo, eh: era divertente il fatto che un cinquantenne con la fede al dito andasse a puttane. Era divertente pensare che se lui avesse avuto la possibilità di sprecare tutti i soldi che quest'uomo gli aveva dato, sicuramente ci avrebbe fatto qualcosa di meglio. Qualcosa di utile.

Poi, preso dalla realizzazione del fatto che la puttana in questione era lui, decise di smetterla di fare la morale e di cominciare a muoversi da quella posizione del cazzo. Si mise a sedere, si rialzò i pantaloni di fretta e furia (impresa non facile, visto che erano stretti come una seconda pelle) e controllò di sfuggita che non gli fossero caduti dalla tasca i soldi guadagnati. Ebbe appena il tempo di sfoderare un finto sorriso e di azzardare un "ciao" con la mano che subito si trovò di nuovo per strada, cercando un posto dove ripararsi dal diluvio in attesa che si facesse l'ora prevista per il suo rientro.

Tutto sommato, quella serata stava andando bene: niente richieste strane, niente stronzi sprovvisti di preservativo, niente posizioni imbarazzanti che lo avrebbero costretto a guardare il cliente negli occhi e niente soggetti complessati che volevano facesse addirittura finta che gli piacesse. A dire il vero niente di niente, in un certo senso. Niente se non trecentoventidue sterline in tasca, che lo spinsero a prendere la decisione di tornare a casa- per quella sera andava bene così.

Camminò riparandosi sotto i vari cornicioni dei palazzi e -grazie a Dio- evitò di rovinarsi i capelli che si era effettivamente impegnato ad acconciare per la prima volta in un bel po' di tempo. In generale il ritorno fu tranquillo e silenzioso: non gli piaceva girare da solo a quell'ora, ma alla fine chi avrebbe potuto esserci per strada alle quattro del mattino di mercoledì sera? Gerard si rese conto che probabilmente il tipo strano e apparentemente malintenzionato che le persone avrebbero evitato era esattamente lui, ma nonostante l'atmosfera pacata e quella nuova sicurezza acquisita, si sentì protetto solo una volta ritornato nel suo quartiere.

Lui e suo fratello vivevano in un sobborgo, sì, ma fra i sobborghi del Jersey in cui erano cresciuti e i sobborghi di Manchester in cui vivevano adesso c'era una differenza epocale: niente sparatorie, niente traffici di droghe, niente lotte fra gangs. Niente di niente. Niente se non persone che un appartamento in centro proprio non potevano permetterselo. Niente se non quella casalinga che stendeva i panni in giardino alle cinque meno venti del mattino e che ogni volta lo guardava e azzardava un cenno con la mano, un po' restia a salutarlo. Niente se non il palazzetto arroccato dove lui e Mikey vivevano, fatto di mattoni che sembravano sgretolarsi solo a guardarli.

Tutto era familiare.

Tutto sapeva di casa.

E, anche mentre Gerard girava attentamente la chiave nella serratura della porta, tutto era normale. Non sapeva nemmeno perché, ma cercava sempre di fare il meno rumore possibile nell'eventualità che suo fratello stesse dormendo; d'altronde, però, non sarebbe stata normalità se Mikey non l'avesse aspettato fino al suo ritorno, rannicchiato in un angolino del divano a due posti a guardare repliche di Little Miss America.

«Hey.» Cominciò Gerard, osservando il modo in cui la TV -unica fonte di luce nella stanza- si rifletteva negli occhiali del più piccolo. Guardò la sua stessa sagoma nello specchio che c'era all'entrata e si chiese come facesse suo fratello a non sapere che si prostituiva quando tutto (dall'eyeliner sbavato ai vestiti un po' troppo stretti, e di nuovo dalle paghe un po' troppo alte e un po' troppo frequenti per un semplice "cameriere" agli orari eccessivamente sballati) sembrava urlarlo forte e chiaro. Un po' si sentì in colpa, un po' no. Diciamo che una parte di lui diceva che forse, se c'era qualcuno che doveva sentirsi in colpa per quella situazione era proprio in quella stanza, ma sicuramente non era Gerard.

«Hey. Hai fatto prima.» Replicò il minore, monotono.

«Meglio, no?» Gerard disse, calciando via gli anfibi in un angolo del salotto (che poi, se vivevano praticamente in un bilocale, si poteva definire tale?). Si andò a sedere accanto al fratello, fissando lo schermo con interesse pressoché inesistente.

«Com'è andata al bar?»

«Tutto bene. Poca gente. Ho quasi buttato un vassoio addosso a dei clienti. Ha.» Inventò il maggiore in risposta a suo fratello, cercando di intricare qualche dettaglio qui e lì per rendere più solido il suo alibi e di parlare il più velocemente possibile così da impedirgli di sottolineare possibili incongruenze con quello che stava dicendo in quel momento e quello che avrebbe potuto aver detto giorni, mesi... anni fa. «Tu stai... bene?» Si intromise dopo qualche secondo di silenzio.

«Bene. Prima credevo che mi stesse venendo una crisi e volevo chiamarti, però poi mi sono reso conto che stavo bene e che non so più nemmeno riconoscere una crisi ed è preoccupante come cosa, no? Non riesco a capire se sto bene o... o no.» Gerard deglutì, ringraziando Dio che non lo avesse chiamato e osservando il modo freddo e impassibile in cui suo fratello parlava di certi argomenti. Nemmeno lo guardava in faccia, e per raccattare un po' dei pezzi che gli sembrava perdere ogni volta che dialogavano con tanta tranquillità a proposito di una cosa che evidentemente uno dei due stava prendendo più seriamente dell'altro, si rannicchiò con le gambe strette al petto e il mento poggiato fra le ginocchia.

«A te sembra felice quella bambina?» Continuò il più piccolo dopo non aver ricevuto alcuna risposta.

«La bionda?» Chiese il maggiore, indicando un angolino del televisore con così poca forza che dopo qualche secondo sentì il braccio cedere e cadere al posto di prima.

«Mh-mh. Quella con la tiara.»

«...A me no.» Constatò, osservando l'evidente voglia di sprofondare in un buco di quella quasi-neonata. Era un cazzo di miracolo che sapesse già camminare, in effetti.

«Nemmeno a me. I genitori dicono che il suo sogno è di essere una reginetta di bellezza, ma hey, chi cazzo ve l'ha detto se non sa nemmeno parlare?» Sbuffò Mikey, probabilmente molto preso dalle avvincenti cronache e ingiustizie che accadevano nel mondo dei concorsi di bellezza per bambine. Gearard non poteva dargli tutti i torti. «E poi pensaci- stanno vendendo l'immagine delle loro figlie per soldi.» Continuò, mandando abbastanza in ansia il fratello con quell'ultima affermazione.

«Mikey, cambia prima che ti venga un'ulcera.» Disse Gerard nel tentativo di fermare quella discussione prima ancora che cominciasse, afferrando il telecomando poggiato esattamente nella parte vuota del divano. Sbuffò una volta cambiato argomento, non riuscendo più a seguire il vero e proprio filo logico di ciò che stavano dicendo e rispondendo con dei versi, dei monosillabi o delle affermazioni veramente poco coinvolte.

Certe volte si chiedeva chi dei due fosse più furbo fra lui e suo fratello. Certo, non era sicuro che avesse capito e magari quelle sue uscite improvvise non erano altro che delle coincidenze, ma in caso Gerard non fosse stato così fortunato da essere riuscito a nascondere al suo stesso fratello (che insomma, cazzo, viveva con lui ed era anche un bastardo piuttosto perspicace) la fonte dei suoi guadagni, allora Mikey era un sadico bastardo. Uno di quelli a cui piace punzecchiare i cadaveri degli uccelli trovati a terra con i rami, per fare i sempliciotti.

Infondo era quello che faceva: vendere la sua immagine.

Anche il suo corpo, in effetti. Non è che ce lo puoi infilare dentro un'immagine, ecco.

E a quel punto era chiaro che a Mikey non avrebbe fatto granché piacere saperlo.

«Gerard?» Lo chiamò quest'ultimo, facendogli rendere conto che erano più o meno dieci minuti che non rispondeva ad una domanda che nemmeno ricordava. Il ragazzo si voltò verso il più piccolo, schiacciando la guancia sinistra contro il ginocchio in una posizione non molto confortevole. «Gerard, stai bene?» Gli chiese, aggiustandosi gli occhiali sul naso e preoccupandosi come se fosse lui quello che appena il giorno prima era stato sul punto di svenire. Così come il giorno prima ancora, e quelle tre volte della settimana precedente, e anche quella volta di un po' di tempo fa che, effettivamente, era svenuto davvero.

«Certo, perché non dovr-» Disse, interropendosi per sbadigliare. «-dovrei?»

«Ti sei rannicchiato. E lo fai quando qualcosa va male.» Disse, e Gerard sbuffò mentalmente. Certe volte era orrendo dover vivere con qualcuno che lo conosceva così affondo, specialmente per qualcuno come lui che preferiva non annoiare le persone con i suoi problemi. D'altronde non poteva dargli torto: effettivamente tutto andava male. E sedersi in quel modo lo faceva sentire tranquillo, al riparo. In qualche modo lo convinceva che le cose sarebbero andate per il verso giusto, e quella convinzione rimaneva con lui per un po' di tempo. Quanto bastava per distrarlo, almeno.

«Sono solo un po' preoccupato per tutte le cose da pagare...» Cominciò, e in effetti era vero. Stava nascondendo solo una piccola parte del problema. «...rate, bollette, scadenze...»

«Woah, Gerard, tranquillo. Alla fine ce la caviamo sempre, in un modo o nell'altro, no?»

«Già...» Riuscì a trattenersi a stento dal dirgli che sì, cazzo, se la cavavano sempre, ma non sarebbe stato così ottimista riguardo la situazione se fosse stato lui quello che faceva sesso con dei completi sconosciuti per avere almeno un tetto sotto a cui vivere, e si rese conto di quanto quella situazione lo stesse rovinando; poche volte era stato così acido in vita sua, e soprattutto si sentiva orribile nel nascondere tutte quelle cose da suo fratello, che da un anno a quella parte gli aveva confessato alcune fra le peggiori cose che avesse mai fatto.

«Tranquillo.» Disse di nuovo Mikey, allungando il braccio per dargli una pacca sulla spalla.

«Sai che ti dico? Io... io vado a dormire.» Gli sorrise il più grande, alzandosi con una calma sconcertante e sentendo un dolore assurdo per tutto il corpo. Fece una smorfia per trattenersi dall'urlare e si stiracchiò nel tentativo di eliminare quella sensazione delle ossa che si sgretolavano l'una contro l'altra, avviandosi verso la sua "camera da letto". Si approcciò ad aprire la porta e, prima di ritirarsi definitivamente, si girò per sorridere a suo fratello. «Notte Mikes.»

«Notte.» Ricambiò l'altro con lo stesso ghigno stampato in volto.

 

**

 

Frank sbuffò -come sempre- mentre entrava in casa, gettando le chiavi nell'apposito contenitore posto su uno degli scaffali all'entrata. Non ebbe nemmeno il tempo di togliersi le scarpe praticamente fradice che subito il telefono fisso cominciò a suonare, causando un ennesimo lamento silenzioso.

Certe volte era brutto avere una casa enorme e vuota.

Del tipo che anche se stava solo maledicendo tutto il mondo, voleva solo che qualcuno lo sentisse. Che qualcuno potesse dirgli di smetterla o potesse incazzarsi ancora di più e dargli un modo per sfogarsi. Certe volte voleva solo qualcuno.

«Frankie!» Non ebbe nemmeno bisogno di controllare il numero sul display o anche solo di chiedere chi fosse per rendersi conto che il mittente della chiamata poteva essere solo una persona al mondo: sua madre, unico essere umano con la voce così alta e squillante e soprattutto unica che, anche dopo il compimento e superamento abbondante dei vent'anni lo chiamava ancora così.

«Hey, ma', ciao.» Rispose dall'altro lato della cornetta che, pur separandoli di un oceano, non celava nemmeno un minimo del suo mancato entusiasmo. «E' successo qualcosa?»

«No Frankie! Io e tuo padre volevamo solo sapere come stai.»

«Bene, ma', grazie..»

«Non vediamo l'ora di vederti lunedì! Una settimana intera insieme!» Merda. Col cazzo che se lo ricordava. Era già un miracolo se si ricordava di respirare, durante i periodi di casting alla Skeleton Records, figuriamoci se aveva tempo di pensare alle sue "vacanze".

«Oh, sì- certo, certo mamma, certo...» Disse, e non aveva seriamente idea di come sua madre avesse potuto credergli. Magari voleva illudersi, no? Far finta che suo figlio avesse tempo per ricordarsi dei suoi gran galà annuali o delle settimane di vacanza da loro. Delle cene con gli amici di famiglia e con la famiglia stessa, di tutte quelle cose di cui non gli era mai importato granché in tutta la sua vita e per le quali continuava a nutrire il più genuino disinteresse.

«Conosceremo il tuo fidanzato questa volta?» Chiese Linda dall'altro lato del mondo, e Frank -che era nel bel mezzo di un fallito tentativo di andare in bagno per asciugarsi senza sgocciolare acqua sul parquet- rimase pietrificato nel bel mezzo del suo salotto, cominciando a sentire i brividi di freddo ogni volta che gli si appiccicava la camicia fradicia al petto.

«Oh.» Replicò semplicemente Frank: la verità era che, dopo essersi cacciato in svariati casini, aveva finalmente capito che forse era ora che la smettesse di mentire ai suoi genitori giusto per farli felici, anche se vivevano a distanza. Infondo la sua vita sentimentale -o morte, forse era più adatto come termine- era solo e unicamente affar suo, ed era sbagliato e stupido che si sentisse in dovere di rassicurare i suoi riguardo essa. Merda.

«Sì?» Chiese sua madre, speranzosa.

Frank avrebbe potuto farla finita lì.

Avrebbe potuto dire qualche stronzata come "ci siamo lasciati l'altro giorno", o anche solo che era via per lavoro in quel periodo. Casualmente. C'erano centomila modi per porre fine a quel guaio enorme, eppure lui non aveva intenzione di farlo: che c'era di male a fingere di essere un'altra persona con un'altra vita per una settimana?

E poi Frank aveva un piano. Mica era un coglione a caso, no. Era talmente abituato a mettere in scena quei piccoli teatrini una o due volte all'anno che probabilmente adesso era come una seconda professione. Agente Iero, bugiardo seriale.

«Certo!» Rispose con finto entusiasmo, guardando con aria sconsolata i calzini ormai passati a miglior vita.

«Fantastico! Non vediamo l'ora, Frankie!» Continuò, e dopo qualche scambio di inutili chiacchiere e qualche accertamento sullo stato di salute del figlio -che, a proposito, nel frattempo aveva cominciato a starnutire un copioso ammonto di volte-, Linda attaccò, lasciando finalmente Frank da solo.

Ora gli serviva soltanto un modo per metterlo effettivamente in pratica, questo piano.

 

**

 

Heeeeeeeeya!

Lo so, aoifjewifjewr, ho finito da tipo dieci giorni una long di diciassette fottuti capitoli, però sapete che vi dico? Ho talmente così poco da fare....... <3

Non so precisamente quando, mi sembra verso le vacanze di Pasqua, parlando con quella zoccolona a pedali di Shaddix (tvb xdxd) mi è venuto un secondo il bisogno di staccare da, appunto, la storia che stavo ancora completando in quel periodo. Si sa che alcune volte quando ci metti del tuo in quello che fai poi ad un certo punto c'è bisogno di fermarsi per un po', e durante quella pausa, questo è quello che è nato (?)

E' una cosa completamente nuova per me perché non ho mai scritto una vera e propria AU, quindi non so precisamente dove andrò a parare e soprattutto ho cercato di tenere i personaggi abbastanza fedeli a quelli originali, ma spero vi piaccia lo stesso uwu

Come ho detto anche nella descrizione la trama si basa vagamente su Pretty Woman, anche se cercherò di distaccarmi il più possibile dal film per non- cioè, non so come spiegarlo, riscrivere la stessa cosa con personaggi diversi? L'effetto che vorrei evitare è quello

Mi rendo conto che ci sono molti buchi e cose che non sono spiegate proprio benissimo, in questo capitolo (tipo che cazzo ha Mikey, perché vivono a Manchester, piccolezze di cui non fotterà un cazzo a nessuno sparse qui e lì <3), ma l'intenzione era proprio quella di creare tipo una suspance o qualcosa del genere con un nome abbastanza chic, e sono tutte cose che vorrei affronare, appunto, nel corso della storia.

Il titolo è preso da When The Sun Goes Down degli Arctic Monkeys, e non è che come canzone c'entri granché con la storia, lo ammetto, ma parlando comunque di (come odio questa cazzo di parola wsgferiurj) prostituzione ho detto "vabbè", e mi sono decisa. Credo che non metterò titoli ai capitoli, dato che chiunque mi abbia seguita per anche solo due giorni avrà capito che non sono un asso, e quindi anche voi (ipotetici) "nuovi arrivati" spero ci facciate l'abitudine <3

Comunque per come sono fatta potrebbe venirmi all'improvviso la cosiddetta "capata" e potrei mettermi a inventare un titolo per ogni capitolo già postato, quindi chissà *^*

Umh, non so che altro dire?

Se vi girano abbastanza e ne avete voglia seguitemi su twitter (@weumhbelui), dove, principalmente, passo le giornate a lamentarmi <3

Fatemi sapere cosa ne pensate! :D

xo

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Capitolo 2
*** I, adagio ***


When The Sun Goes Down

-I, adagio-




Erano le due, o forse erano le tre. 

Cazzo. 
Frank non ricordava nemmeno se fosse già entrata in vigore l'ora legale, dato che tutti gli altri orologi che possedeva la cambiavano automaticamente. 
Guidava verso i novanta chilometri orari in un'autostrada deserta, direzione Stockport, rassicurato solo dal fatto che era ancora fra i confini di Manchester e che se mai si fosse addormentato alla guida e avesse fatto un incidente di quelli cazzuti che si vedono nei programmi, almeno avrebbero saputo dove cercarlo. Più o meno.
Guidare gli era sempre piaciuto, anche in casi come quelli in cui non aveva una vera e propria meta. Certo, "direzione Stockport" dava quasi l'idea che sapesse dove andare e come arrivarci, ma non era così. "Direzione Stockport" era per uno con le idee chiare. Forse più la parola "direzione" che la parola "Stockport", perché almeno mentre guidava ne aveva una, di direzione. 
In effetti la direzione gli era sempre mancata, un po' in tutti gli ambiti.
E anche la moderazione.
E la considerazione.
Ed era per questo che adesso si trovava a guidare verso la periferia di Manchester, più che verso questa fantomatica Stockport che non aveva mai visto in vita sua, su un'autostrada che aveva imboccato per un motivo ben preciso.
Insomma, l'idea era anche semplice: pagare qualcuno che facesse finta di stare con lui per una settimana, così anche quella volta sarebbe riuscito ad abbindolare sua madre, suo padre, le vecchie con più botox che cervello che frequentavano e anche i vecchi con i capelli trapiantati.
Anzi, l'idea di per sé era proprio elementare -roba che un bambino di cinque anni sarebbe stato più capace di quanto dopo il primo, il secondo e altri svariati tentativi non lo fosse stato Frank-, ma il problema era proprio questo: l'idea era semplice, era la parte pratica che forse lo era un po' meno. Il problema, Frank aveva deciso dopo aver fermato la quinta persona nel giro di un'oretta, forse erano i soggetti che gli si ponevano davanti, non proprio lui. 
Avete presente quei soggetti che forse sarebbero stati più a loro agio ai tempi del successo dei Village People?
Quelli muscolosi, con la testa rasata e la barba curata? L'orecchino d'oro e la canottiera?
Ecco. 
Quelli non solo a Frank facevano salire i conati di vomito, ma con i loro fisici da armadio e quei cinque centimetri in più di altezza gli facevano anche paura. 
Se c'era una cosa che la vita gli aveva insegnato, era che con il suo carattere finiva sempre per far incazzare le persone, in un modo o nell'altro. E se c'era una cosa che la vita non gli aveva insegnato e che preferiva di gran lunga aver imparato per supposizione e non per esperienza, era proprio che, una volta appreso come finivano le cose ogni santissima volta, doveva escludere a priori i palestrati e gli stanghettoni dalla sua vita sentimentale- finta o vera che fosse.
Ad un certo punto aveva anche pensato che forse sarebbe andato più sul sicuro con una ragazza: certo, sarebbe stato stupido darla vinta ai suoi -con i quali aveva combattuto da quando aveva sedici anni per dimostrare che non era "solo una fase"-, ma a quel punto era talmente disperato che forse fare ricorso agli estremi rimedi non era proprio un problema. Infondo non doveva farci effettivamente qualcosa, eh. Era tutta scena.
Poi però lo vide.
E si chiese quanto sarebbe suonata stupida quella frase scritta da qualche parte, mentre una parte un abbastanza lontana di lui pensava che forse ci sarebbe rimasto anche un po' male se avesse rifiutato
Probabilmente aveva la sua età, qualcosa giù di lì. Sicuramente era sotto i trenta. 
Aveva il naso spigoloso nel senso migliore del termine, e Frank avrebbe tanto desiderato di poter vedere il colore dei suoi occhi. I capelli erano neri, "sistemati" in quel tipico taglio-non taglio che probabilmente su di lui non era nemmeno una scelta stilistica, e sinceramente gli pulsavano le dita dalla voglia che aveva di spostarglieli dal volto e raccoglierne una ciocca dietro l'orecchio, anche solo per finta. Alla fine non era quello l'intero scopo della faccenda? L'obiettivo non era recitare?
Frank pensò che forse stava andando a rimuginare troppo su delle cose alle quali in quel momento avrebbe preferito non pensare, quindi accostò dal lato opposto della strada, spense la radio per evitare che "First Day Of My Life" dei Bright Eyes contrastasse troppo con l'immagine da duro che in quel momento voleva dare di sé e bloccò il motore prima di poterci pensare due volte.
Osservò ancora un po' il ragazzo fermo sul marciapiede accanto e si prese il tempo per decidere cosa dire e, soprattutto, come dirlo.
Chiunque fosse, se ne stava appoggiato contro un lampione. Come se fosse semplicemente ciò che faceva normalmente, come se non fossero le due (o forse le tre, cazzo, Frank continuava a non saperlo), come se starsene a piedi in autostrada fosse perfettamente normale.
Ogni tanto si portava una sigaretta fra le labbra, aspirando e successivamente espirando con la bocca curvata in una "o" perfetta mentre la sua testa giaceva leggermente piegata all'indietro, la stessa espressione di puro relax che Frank aveva in volto praticamente ogni volta che lasciava il suo studio per una pausa nicotina. 
Se non fosse stato per la strada in cui si trovavano e l'orario, probabilmente Frank avrebbe pensato che fosse esattamente uno come tanti. Era strano rendersi conto che forse questo ragazzo durante il giorno aveva una vita, perché per quanto fosse triste dirlo, ormai sembrava appartenere a quel posto. Sembrava che tutta la sporcizia e lo schifo che in quel momento lo circondavano a quel punto fossero diventati parte di lui, e l'idea che probabilmente appena poche ore prima era stato una normale persona mentre ora agli occhi di molti poteva apparire come un semplice oggetto era... degradante. Faceva sentire persino Frank -che poco e niente c'entrava con la situazione- sporco dentro. O forse, per quanto ben intenzionato, anche Frank stesso stava contribuendo alla situazione che poco prima aveva tanto criticato. Cazzo.
Non capiva perché, ma ogni volta che faceva una critica mentale alla società finiva sempre per escludersi dai suoi stessi discorsi. Condannava stronzi, maschilisti, violenti e quant'altro, come se poi per lui esistesse un discorso a parte, come se potesse per un po' astrarsi dallo schifo circostante e guardare con obiettività il mondo con il successivo scopo di criticare con quelle solite parole taglienti che proprio non riusciva a tenersi dentro.
Frank stava contribuendo alla situazione, che gli piacesse o meno.
Non importava la visione da buon samaritano compassionevole che aveva di sé stesso, perché anche se gli faceva tristezza vederlo così non si era fatto il minimo scrupolo quando aveva fermato la macchina dal lato opposto della strada e aveva osservato il ragazzo come fosse carne al taglio, merce sul banco, un oggetto all'asta: stava alimentando lo stesso fuoco che avrebbe calpestato con i suoi stessi piedi se solo fosse stato sicuro che sarebbe servito a spegnerlo, ma se proprio doveva farlo allora ci avrebbe messo del suo. Certi fuochi non è che puoi spegnerli, e magari è meglio lasciartici scottare, che tanto è di lunga più facile.
Ridicole ed eccessive analisi a parte, Frank aveva pensato persino che anche il ragazzo lo stesse guardando. E se non avesse saputo troppo bene come stavano le cose, allora a quel punto si sarebbe sentito le farfalle nello stomaco e tutte quelle stronzate lì, ma in quel momento, nella realtà in cui si trovavano, probabilmente stava solo fissando una macchina come tante, chiedendosi chi ci fosse dentro e valutando l'opportunità di guadagno.
Nient'altro.
Quindi, in conclusione, perché Frank doveva sentirsi così intimidito e farsi tutti quegli scrupoli per colpa di un bel visino come tanti?
Abbassò il finestrino, facendogli cenno di avvicinarsi con la testa. 
Il ragazzo gli fece il sorriso più finto del mondo, gettò via la sua sigaretta ormai finita e si attraversò in maniera agonizzantemente lenta la strada. Più si avvicinava, più Frank cominciava a sudare freddo. Insomma, un'idea elementare non era necessariamente un'idea giusta, e più ripassava mentalmente il piano, più si rendeva conto che forse stava per fare un grandissimo errore.
«Hey.» Disse lo sconosciuto, poggiando il gomito sul finestrino aperto dell'auto e usando la mano per sorreggersi il volto che intanto aveva leggermente piegato verso sinistra. Frank avrebbe voluto fermare l'immagine come quando una scena di un film è così bella che ti alzi, prendi il telecomando del lettore DVD e metti in pausa per renderti giusto un secondo conto di ciò che hai appena visto. Per metabolizzarlo. E cazzo se in quel momento aveva da metabolizzare, quel povero coglione di Frank.
Ecco, ce le avete presenti quelle bambole di porcellana? Perfette, bianche, pallide, con la pelle liscia perché- bhè, perché grazie al cazzo, sono finte?
Quel ragazzo ne era forse la trasfigurazione più realistica che ne avesse mai visto. E forse era la luce della luna o la mancanza di un'effettiva fonte di luce, forse era il fatto che Frank quella mattina aveva dimenticato le lenti a contatto e l'effetto sfumato faceva guadagnare parecchi punti un po' a tutti, forse stava solo perdendo il cervello -e sinceramente ci pensava molto a quest'ultima ipotesi, molto spesso e in relazione a molti dei gesti che stava compiendo in quell'ultimo periodo-, ma la voglia che aveva di toccargli le guance anche solo con un dito era forse troppa da sopportare per una sola persona. 
Frank però non fece nulla di tutto quello. Si schiarì la gola e si spronò mentalmente a fare la persona seria, pensando improvvisamente alla faccia ridicola che probabilmente aveva fatto mentre lo osservava. Sentì tutto il sangue che aveva in corpo affluirgli alle guance.
«Hey.» Provò a dire, cercando di sembrare rilassato quanto lui. Come se andasse a puttane ogni venerdì sera (anche se a dire il vero non sapeva quanto una cosa del genere avrebbe potuto fargli onore ai suoi occhi) quando poi la verità era che Frank non riusciva a non pensare al fatto che la faccia dello stesso ragazzo che poco prima aveva osservato come fosse l'ultimo essere umano rimasto sulla terra era a distanza di pochi centimetri dalla sua. 
«Come ti chiami?» Chiese l'altro, spostando il peso da una gamba all'altra e facendo una veloce scansione dell'interno dell'auto e del suo conducente. Provò anche a sorridere, e sinceramente Frank si sentì un po' male nel notare quanto ognuno di quei gesti fosse calcolato nel minimo dettaglio, quanta esperienza doveva avere per fare tutto in maniera così meccanica. Si chiese quanti fossero venuti prima di lui quella sera. Doppisensi a parte.
«Frank.» Disse, e non riuscì a non notare il modo in cui l'altro cercò di trattenere una risata. «Che c'è?» Chiese... nemmeno aveva iniziato e già stava sbagliando qualcosa. A +.
«No, seriamente, andiamo, Frank?»
«Questo dovresti dirlo a mia madre.»
«Oh. Cazzo.» Disse l'altro, sbarrando gli occhi e dimostrando tutto il suo improvviso imbarazzo. «Scusami, di solito nessuno dice il suo vero nome. Wow.» Continuò a giustificarsi mentre il muro di persona confidente che si era costruito cominciava già a cadere un po' a pezzi: non era altro che un ragazzo come lui, Frank doveva cominciare a capirlo. «Che fallito.» 
«No, non lo sei... tranquillo. Tu invece?» 
«Umh... chiamami Gee.» Solo in quel momento Frank notò il tono della sua voce: era più stridulo di come lo aveva immaginato, ma sicuramente gli si addiceva di più. Il ragazz- no, Gee cominciò a guardarsi intorno, e solo in quel momento all'altro venne in mente che ciò che stavano facendo era illegale. Una scarica ingiustificata di adrenalina lo pervase al solo pensiero di ciò che sarebbe successo se lo avessero beccato, e si rese conto che tutto il fottuto mondo sarebbe venuto a saperlo. «Qual buon vento?» Disse il ragazzo, tornando a guardare Frank e usando in maniera totalmente intenzionale quell'espressione ormai praticamente scomparsa.
«Okay, ascolta, è una cosa un po'.. strana.» Disse, e in tutta risposta Gerard alzò gli occhi al cielo e sbuffò con un sorrisetto in volto, come se sapesse qualcosa che Frank non sapeva.
«L'ottanta percento delle persone che vengono da me pensa che ciò che vogliono sia strano, ma alla fine se fai questo lavoro ti ci abitui.» Rispose, tendendo un braccio verso Frank per aggiustargli la cravatta mentre quest'ultimo faceva del suo meglio per cercare di non sobbalzare a quel contatto così rassicurante e così stranamente familiare. Vide Gee sorridere, ma questa volta era diverso: fissava le sue stesse mani e non lo guardava negli occhi con quell'espressione spregiudicata, ed era come se in un certo senso stesso sorridendo a sé stesso, per un motivo che certamente a Frank non era ben chiaro. 
«No, no, credimi, strano davvero.»
«Dai, dimmelo... andiamo, vuoi legarmi al letto? Ammanettarmi? Sculacciarmi? Far finta che io sia il tuo professore di matematica del liceo? Insultarmi? Puoi andare tranquillo, ho fatto tutte queste.» Disse, e Frank non riuscì a non ridere. In realtà la risata era una di quelle fatte per nervosismo e soprattutto era anche piuttosto forzata, perché mentre Gee continuava a tirargli la cravatta e fornirgli tutte quelle immagini che sinceramente non lo stavano aiutando più di tanto, mesi e mesi di astinenza (non volontaria, sia chiaro) cominciarono improvvisamente a pesargli. Frank sospirò.
«Cominci a salire?» Propose, e il ragazzo annuì. Fece il giro per andarsi a sedere dal lato passeggeri e Frank cominciò a chiudere il finestrino, assicurandosi che nessuno li vedesse.
«Quindi?»
«Quindi. Umh. Te la farò breve: mi serve qualcuno che venga con me in California e faccia finta di essere il mio ragazzo davanti ai miei genitori. Per una settimana. E' una storia un po' ridicola, davvero, te la risparmio...» Gee sembrava abbastanza sconvolto, e sgranò gli occhi così tanto che Frank era già pronto a raccoglierli in caso gli fossero caduti dalle orbite, giusto per prevenire.
«Non risparmiarmela. Racconta.»
«Viviamo lontani e raccontargli una caterba di palle mi pareva più semplice e veloce che sorbirmi cazziate telefoniche di due ore su come sto pensando solo al lavoro e un giorno sarò solo. Blah blah blah.» 
«E tu credi che abbiano ragione? Che il lavoro ti assorba troppo, intendo?» Chiese, come se davvero gli interessasse qualcosa. Frank pensò che comunque era carino anche solo che facesse finta, quindi tanto valeva dargli corda. Magari se fosse stato amichevole ci sarebbero state più chances che accettasse.
«Forse sì. Ma è normale, ho talmente tante cose da fare che non avrei nemmeno tempo per un ragazzo, va... va bene così, direi.» Gee annuì, accavallando le gambe e girando il volto verso destra per guardare l'altro.
«Quando partiresti?»
«Lunedì.» Frank deglutì. Ora si passava alla parte seria. «Non questo, quello... dopo.» Pensò bene di specificare, sperando profondamente che sarebbe riuscito a convincerlo. «Posso darti cinquecento sterline al giorno. Per sette giorni.» Disse, rendendosi conto che probabilmente la domanda successiva sarebbe stata quella. Una convinzione che prima non c'era sembrò fare click sul volto di Gee. C'era quasi.«Ovviamente speserò io il viaggio e... qualsiasi altra cosa potrebbe servire. In qualche modo possiamo anche dormire separatamente, se ti dà fastidio, ma nella stessa camera perché altrimenti... altrimenti qualcuno sospetterebbe, hai presente?»
«Ascoltami, umh...»
«Frank.» Gli ricordò, sentendosi inspiegabilmente offeso dal fatto che l'altro non ricordasse nemmeno il suo nome. 
«Sì, Frank, giusto, ascoltami. Ho bisogno di una garanzia e soprattutto devo sistemare delle cose a casa perché la situazione è... è un po' complicata. Ci sto, ma non posso darti nessuna certezza per il momento. Perché non mi lasci il tuo numero ed io vedo di chiamarti appena so qualcosa? Ovviamente il prima possibile.» Bingo.
«Di che tipo di garanzia hai bisogno?» Chiese, cercando di sistemare almeno uno dei due problemi che Gee sembrava avere. Sinceramente non riusciva a credere che tutta quella stronzata stesse funzionando, e improvvisamente non vedeva l'ora di partire. 
«Non prenderla male, okay? Non si tratta di una garanzia economica, è che io...» Improvvisamente Frank capì. Certo. Certo che era anche solo un minimo spaventato, quando uno sconosciuto voleva portarlo dall'altro lato del paese. Per quello che Gee sapeva di lui, Frank sarebbe potuto essere chiunque. E avrebbe potuto fargli qualsiasi cosa. 
«Ho capito, tranquillo. Come vuoi gestirla?» 
«Parlami di te...?» Chiese timidamente, come se fosse qualcosa di cui vergognarsi. Frank si schiarì la voce, si sistemò per guardarlo in volto come stava facendo lui e cercò nel bauletto dell'auto il suo portafogli. Estrasse più documenti possibili e glieli mostrò. Eccetto la parte in cui aveva bisogno di conferme scritte e avrebbe ricevuto svariate migliaia di sterline per uscire con lui, quello con Gee sembrava quasi un primo appuntamento.
«Sono Frank Iero, nato a Newark il trentuno ottobre millenovecentoottantuno.» Disse, mentre Gee sfogliava le varie carte e si divideva fra patente, carta d'identità, passaporto, tessera sanitaria e quant'altro. "Corretto", sussurrò, e l'altro gli sorrise. «Umh... sono cresciuto a Belleville?» Provò a dire. Non c'era molto che gli veniva in mente quando gli veniva posta una domanda del genere. Specialmente perché se avesse cominciato a parlare di hobby, musica e film non gli avrebbe dato la concreta garanzia che cercava, ecco. Servivano dati legali. 
«Non ci credo.»
«Cosa?»
«Anche io.» Disse l'altro, stupito dal fatto che c'era una probabilità su cento di incontrare qualcuno del Jersey lì a Manchester e lui aveva beccato proprio quella. Scambiarono due parole veloci a proposito di quel buco di città in cui entrambi sembravano aver passato l'adolescenza e poi Frank continuò.
«Vivo a Manchester da quattro anni. E non so davvero che dirti? Cioè, guardami, se anche ti volessi fare... qualcosa di male, ecco, cazzo, ti arrivo appena alle spalle, potresti atterrarmi in un momento, io...» Disse, e Gee scoppiò a ridere. Poco dopo anche l'altro si rese conto della completa stronzata che aveva detto e lo seguì a ruota, quando improvvisamente entrambi furono azzittiti dalla suoneria di un cellulare che non era certamente quello di Frank. Gee frugò nelle tasche alla ricerca di uno di quei vecchi Nokia malandati e guardò lo schermo per scoprire il numero del mittente. Tutto ad un tratto sgranò gli occhi, come fosse preoccupato.
«Scusa, devo... devo rispondere.» Disse, catapultandosi fuori dalla macchina.
 
**
 
«Cazzo, eccoti.» Fu la prima cosa che disse Alicia mentre apriva la porta del suo piccolo appartamento per far entrate Gerard.
«Ciao, Alicia, ciao anche a te.» Disse il ragazzo, fiondandosi immediatamente dentro e scrollandosi dalle spalle la giacca di pelle. Improvvisamente, dopo la corsa non indifferente che aveva fatto per raggiungere la tanto ambita meta, si sentiva andare a fuoco. «Come sta?» Chiese, fermandosi nel mezzo di quel salotto così maniacalmente pulito e ordinato che si sentiva come se lo stesse sporcando anche solo con la sua presenza.
«Adesso bene, ma dovevi vederlo prima.» Sussurrò la ragazza, un po' per far abbassare il tono della voce a Gerard, un po' perché era semplicemente così che Alicia Simmons parlava. 
Alicia Simmons.
Si potevano dire mille e mille cose su di lei, ma Gerard preferiva sempre dirne una sola: dovevano farla santa, perché nonostante tutto, non era la prima volta che salvava la vita a suo fratello quando lui era così impegnato a cercare di racimolare qualche spicciolo per campare che di tempo per occuparsi di lui proprio non ne aveva.
«Che ti ha detto?» Chiese, andandosi a sedere il più delicatamente possibile sul divano per non sgualcire le federe così perfettamente sistemate. Un'altra delle cose che si potevano dire di Alicia era che se scombinavi qualsiasi aspetto della sua vita -dalla casa alla testa-, ci avresti rimesso i coglioni. Mica era una così, Alicia Simmons.
«Ha detto che non rispondevi ed è andato in panico, Gerard, non puoi continuare così, ti rendi conto che ha bisogno di te e ci sono mille altre cose che potresti fare e tu- cazzo, Gerard hai scelto la peggiore!» Alicia Simmons, poi, non conosceva le pause. E sembrava non respirasse. Alicia Simmons, per farla semplice, parlava tutto d'un fiato e ti diceva le cose così come stavano, senza addolcirti la pillola. Al massimo ti costringeva ad ingoiarla, la pillola, ma mezze misure non esistevano. Non con Alicia Simmons, almeno.
Gerard a tratti la detestava, ma molto più spesso la adorava con tutto sé stesso.
«Devi capire che quando bussano alla porta di casa tua ogni giorno perché devi pagare l'affitto e come se non bastasse hai debiti fino al collo non puoi esattamente prendertela comoda e lavorare in un fast food, Alicia. Né in un negozio. E se hai studiato alla scuola d'arte e non hai potuto pagare gli ultimi tre esami, davvero, non puoi fare proprio un cazzo.» Disse il ragazzo. Forse questa cosa dell'essere schietti glie la stava trasmettendo un po', quella grandissima stronzetta di Alicia Simmons.
Quest'ultima sospirò, arrendendosi alla pura e semplice verità. Si andò a sedere vicino a Gerard con la stessa minuziosa calma con cui si era seduto lui ed entrambi fissarono assentemente il pot-pourri sul tavolino di fronte a loro come se improvvisamente fosse diventato la cosa più interessante del mondo.
«Hai almeno intenzione di dirglielo?» Chiese, continuando ad evitare il contatto visivo. Non per vergogna o per altri impedimenti di tipo psicologico quanto per lo sforzo che muovere la testa avrebbe richiesto ad entrambi. 
«Ma scherzi? Alicia, senti, ho un'idea.»
«Spara.»
«Oggi ho incontrato questo... questo ragazzo, okay? Mi paga cinquecento sterline al giorno per sette giorni solo per far finta di stare con lui davanti ai suoi genitori. Alicia, cazzo, è la svolta. Fossero tutti così.» Sospirò il ragazzo, mentre la sua ascoltatrice sembrava quasi shoccata. «L'unico problema è che devo andare in California?» Disse Gerard, e suonò più come una domanda. Come se le stesse chiedendo implicitamente di prendersi cura di Mikey per una settimana al posto suo. 
«Se mi prometti che userai questi soldi per finire di pagare i debiti e poi cercherai immediatamente un nuovo lavoro, allora sì.»
E improvvisamente Gerard aveva dei nuovi e insoliti programmi per il lunedì successivo.
 
**
 
Buonsalve! uwu 
Bene, allora, non so che dire (?)
Mi scuso per l'attesa un po' lunga, è che ho ancora bisogno di un po' di tempo per... tipo... ambientarmi e abituarmi a scrivere una cosa così diversa delle mie solite ff, credo. 
Comunque una cosa che posso assicurare è che mi diverte tantissimo come idea, e soprattutto è una svolta, diciamo, quindi siamo a cavallo (??????)
C'è ancora questo alone di mistero dietro 'sta storia di Mikey e devo dire che la cosa è intenzionale e mi piace abbastanza, MWHAHAAHAAHDGEWFHEWRI!!!!!!!! 
Presa una un attacco di sonno, vi saluto e.e
Fatemi sapere che ne pensate!
xo

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Capitolo 3
*** II, profumo di viole ***


When The Sun Goes Down

-II, profumo di viole-



 

E tutt'a un tratto Gerard aveva anche una specie di "appuntamento".

Niente di che, insomma; diciamo solo che il giorno dopo aveva richiamato Frank per comunicargli che era abbastanza propenso al sì, e quest'ultimo gli aveva dato l'indirizzo di una Bakery (Gerard, dopo aver attaccato il telefono, era stato cinque minuti buoni a cercare di capire che tipo di posto fosse esattamente una Bakery), dicendogli di farsi trovare lì alle sei del giorno dopo. Dopo alcuni attimi di confusione che lo avevano portato a pensare al fatto che si sarebbe dovuto svegliare alle cinq- no, anzi, che subito dopo il "lavoro" sarebbe andato a prendere la colazione con Frank e dopo varie rispostine sarcastiche di suo fratello che non avevano fatto altro che confonderlo ancora di più, Gerard era riuscito finalmente a realizzare una cosa: le Bakery, qualsiasi cosa fossero, alle sei del mattino erano -con buone probabilità- chiuse.

Quindi, piccoli imprevisti a parte, il ragazzo avea capito che si poteva trattare solo delle sei del pomeriggio.

E dopo aver compreso appieno tutti gli altri dettagli riguardanti l'appuntamento e l'orario di esso, si ritrovava a camminare in una di quelle strade principali che veramente di rado frequentava, gli occhi e le borse che perennemente c'erano sotto di essi coperti da un paio di occhiali nero pece dalla forma vagamente rotonda e la esile figura che in quel periodo non faceva che diventare sempre più ossuta avvolta e abbondantemente coperta da una logora giacca di jeans che un tempo gli stava anche stretta.

Masticava con aria angosciata una gomma alla menta, lasciando che la riproduzione casuale del suo ritrovato mp3 lo intrattenesse e coprisse gli insopportabili rumori della strada: macchine, clacson, bambini che urlano, mamme che urlano ai bambini di non urlare, padri che urlano alle mogli di non urlare ai bambini che urlano. Adolescenti che urlano giusto per.

Era tutto un urlare generale, e a Gerard piaceva astenervisi così.

Pochi passi e svariate grida dopo, scoprì anche cosa fosse una Bakery.

Avete presente, no? Quei posti con i muri color pastello, il quieto brusio delle chiacchiere di coppiette e gruppi di amici, le luci dalla tonalità calda che lo stesso calore te lo trasmettevano proprio in endovena, i dolci fatti di colorante e zucchero che sembravano tanto due pezzi di polistirolo schiacciati l'uno contro l'altro, l'odore di caffè.

Esattamente quel tipo di posto in cui Gerard sapeva perfettamente che si sarebbe sentito a disagio, anche se ormai nella categoria di "quel tipo di posto" rientrava più o meno qualsiasi luogo che non fosse casa sua.

A quel punto, se il disagio nello stare intorno a persone che più o meno erano alla sua portata era così alto, non riuscì ad evitare di pensare a come si sarebbe sentito a casa di qualche riccone -in California- insieme ai suoi genitori: di conseguenza, alla fine, si rese conto anche del fatto che forse era ancora in tempo per fare retromarcia e tornare indietro. Poi però vide Frank e probabilmente Frank vide lui, perché lo salutò con un sorrisone da uno dei tavolini vicino alla finestra che dava esattamente sul lato opposto della strada, e allora il ragazzo inspirò ed espirò.

Gettò via la gomma e dopo essersi tolto le cuffie cominciò ad arrotolarle assentemente intorno all'mp3 prima di metterlo in tasca.

Inspirò ed espirò.

Spinse con forza la maniglia della porta nonostante ci fosse un cartello che diceva chiaramente di tirare, e dopo un piccolo momento di panico precedente a quella scoperta riuscì addirittura ad entrare.

Inspirò ed espirò.

Si fece strada fra un'incredibile folla di gente e cercò con tutto ciò che era di non far cadere nessuno dei camerieri (troppo presi dai loro movimenti frenetici per curarsi di lui), arrivando sano e salvo al tavolo dove l'altro lo aspettava.

Inspirò ed espirò.

«Hey.» Disse, mettendosi a sedere con un movimento così fluido e casuale che si sentì compiaciuto con sé stesso per essere riuscito a non inciampare e rendendosi conto solo in quel momento che indossava ancora gli occhiali. Meglio così: probabilmente Frank non voleva essere visto insieme a lui, quindi tanto valeva coprirsi la faccia il più possibile. E fanculo gli sguardi straniti della gente.

«Ciao. Ti ho preso qualcosa?» Disse Frank, quasi come una domanda. Gerard notò solo in quel momento le due tazze di caffè e le due fette di torta che giacevano dimenticate sul tavolo, e non riuscì ad evitare il sorriso che si fece pian piano strada sulla sua faccia: non era abituato ad avere qualcuno che facesse qualcosa per lui in maniera così... spontanea?

(Che poi, qualche accurata e pessimistica riflessione dopo, si era reso conto che forse quel gesto non era altro che un modo per abbuonarselo. Insomma, avete capito, no? Infondo non aveva ancora detto esattamente di sì. O almeno non definitivamente.)

«Grazie.» Disse, voce distorta dalla strana espressione contenta che sembrava incapace di togliersi dal volto. Frank si strinse nelle spalle come se fosse una cosa da niente. E anche se non sapeva bene perché, Gerard in quel momento era veramente convinto che non fosse finta modestia, la voglia di fare il falso buonista o qualsiasi cosa: si vedeva dall'espressione che per lui era davvero una "cosa da niente". Che non si trattava di finto altruismo a scopi egoistici.

«Levati questi cosi.» Disse Frank, ridendo e scuotendo il capo mentre si sporgeva leggermente verso il lato del tavolo di Gerard e allungava il braccio per afferrargli gli occhiali che, apparentemente, erano stati rinominati come "quei cosi".

«Preferirei davvero di no.» Disse il ragazzo, glaciale.

Era così abituato a non far trasparire assolutamente nulla o ad essere sempre un personaggio piuttosto che una persona, che dopo il sorriso così sincero di prima si era trovato talmente spiazzato dal suo stesso comportamento e dal modo in cui l'altro era riuscito a scalfire anche solo leggermente la sua personale barriera, che aveva deciso di nascondersi di nuovo dietro l'immagine che voleva dare di sé. Se voleva proteggersi dalla tristezza doveva anche imparare a proteggersi dalla felicità, e questo perché, il ragazzo pensava di aver capito, non è necessariamente vero che la prima sia una cosa bella.

Gerard, ogni volta che stava bene, viveva nell'incubo che succedesse di nuovo qualcosa di così brutto da riportarlo al precedente stato di sbando e di nulla, e raramente -quando capitavano- riusciva a godersi quei momenti che determinavano la sua "felicità". Perché questa, in pratica, molto spesso dipendeva dagli altri. La tristezza, l'apatia, l'odio e tutto il resto invece nascevano da lui, e dopo aver capito quello, Gerard era arrivato alla conclusione che finché gli appartenevano, avrebbe lottato per tenersi almeno quelli.

Per quanto stupido suonasse.

«Scusa.» Disse l'altro, rimettendosi a posto con l'espressione di un cane che era appena stato sgridato dal padrone. Il ragazzo sentì qualcosa ribaltarglisi nello stomaco nel vedere una scena del genere e rendersi conto che era solo e unicamente colpa sua. D'altronde, felicità o tristezza, persone o personaggi, chi cazzo era lui per trattare male una persona che non gli aveva fatto assolutamente nulla di male?

«No, è che... ascolta, non vorrei che qualcuno che ti conosce ti vedesse con me. Lo dico per te, eh.» Disse, abbassando addirittura il tono di voce per non far intuire niente a nessuno. Come se stessero parlando dell'ipotetico grammo di coca che Gerard gli doveva vendere, o chissà cosa. Frank in tutta risposta si mise a ridere, scuotendo il capo come a dire che l'altro non aveva capito proprio un cazzo.

«Ci sono veramente poche possibilità che qualcuno che conosco io conosca anche te.» Replicò, e in altre circostanze il cervello di Gerard si sarebbe messo ad escogitare una qualche rispostina sarcastica per fargli rendere conto che certe frasi, in presenza di certe persone che per vivere fanno certe cose, forse avrebbe dovuto evitarle.

Era quasi come una difesa naturale: si sarebbe messo in piedi e avrebbe alzato il tono di voce, dicendo qualcosa tipo "Oh, i tuoi amichetti sono troppo dei ragazzetti per bene per andare con le put-ta-ne come me?", e avrebbe scandito al meglio tutte le sillabe di quella parola.

Così. Tanto per.

Giusto per metterlo in imbarazzo perché cazzo, okay, non riusciva a far finta di non essere anche solo un minimo offeso.

Però quello era Frank. E nonostante fosse offeso ugualmente, Frank era sincero.

Gerard non riuscì ad evitare di chiedersi come facesse a sapere tutte quelle cose (o come facesse a credere di saperle), ma era quasi convinto che fosse quel tipo di persona che certe cose non le dice perché le pensa davvero, o che semplicemente parla e non si rende conto di chi ha davanti, parla e non si rende conto e basta. E ora che ci pensava era anche la prima volta che passava del tempo al di fuori dal contesto "lavorativo" con qualcuno che conosceva... ecco... tutto.

Frank era, oltre a Kenneth ed Alicia, l'unica persona che lo sapeva.

Ad ogni modo Kenneth non era nella posizione giusta per fare commenti perché diciamo che sul piano dell'occupazione lui e Gerard non erano molto diversi, mentre Alicia non li avrebbe fatti e basta. Alicia era Alicia e per quanto ciò che faceva Gerard le facesse schifo, quest'ultimo sapeva che non era lui a farle schifo; per fare i sempliciotti, Alicia Simmons era quel tipo di persona che aveva la rara capacità di separare la persona dalle sue azioni- cosa che non sempre andava a suo favore, ma ad ogni modo qui non stiamo parlando della storia di Alicia Simmons, giusto?

Quindi, ecco, forse Gerard era paranoico.

Cominciava a pensare che fosse diventato così calcolatore e così fissato nello scindere ogni nanosecondo della sua vita e ogni sillaba delle parole che sentiva o pronunciava proprio perché ormai non poteva permettersi errori.

Quando ti vendi per quello che sembri non è che ti concentri tanto su quello che sei. E' la prima impressione che conta, mica poi la gente viene a chiederti la tua opinione sull'aborto, l'amore, la vita, l'adozione, i matrimoni gay, il maltrattamento degli animali.

Insomma, a furia di essere trattato come un oggetto aveva cominciato a vedersi allo stesso modo.

E, dopo due anni che andava avanti così, si vergognava persino di camminare per strada (nonostante fosse perfettamente consapevole del fatto che il novantanove virgola novantanove percento delle persone che gli passavano davanti non avevano la più pallida idea di chi fosse) e non riusciva più a prendere un semplice commento come quello che aveva fatto Frank poco prima alla leggera come avrebbe fatto una persona... normale?

In pratica aveva costruito un ragionamento e una possibile risposta acida ad un'affermazione che probabilmente aveva inteso male. O che l'altro interlocutore, pensandoci due volte, non avrebbe mai detto.

Ora che ci pensava, non era proprio una cosa normale.

Si sentiva proprio come un coglione.

No, peggio. Si sentiva come quel coglione stronzo che ti resta schiacciato sotto la coscia quando ti siedi, allora stai lì che pensi "merda, che ho fatto di male per meritarrmi un coglione così stupido?" e non sai che cazzo fare per far andare via il dolore. Ormai ti ci sei seduto sopra e per quanto tu ti possa muovere il dolore resterà lì per secoli e tu ne sei consapevole, cazzo, ecco, proprio così si sentiva. Era il coglione ritardato della situazione. Quello che se avesse un cervello a sé stante e fosse stato a conoscenza di tutto il dolore che provocava al suo proprietario, probabilmente si sarebbe odiato da solo. E Frank era quello che ancora rigava dritto e non si auto-mutilava.

«Quindi li tolgo?» Si accertò.

«Certo, a meno che non sia tu quello che ha vergogna di farsi vedere con me...» Disse Frank con un finto tono provocatorio.

«Oh, sarebbe una sfida?» Chiese Gerard, alzando un sopracciglio (nonostante un gesto del genere non fosse visibile con "quei cosi" che gli coprivano mezza faccia).

«Mh, può essere.» Frank fece una smorfia disinvolta, quelle di quando te ne frega talmente poco che sei completamente indifferente all'esito della situazione.

Gerard allora si tolse gli occhiali e non fu mai tanto contento di ritornare a vedere tutto a colori. Li lasciò accanto alla sua tazza di caffè ed ehi, cazzo, aveva il suo primo caffè della giornata lì vicino e non lo stava nemmeno bevendo, troppo preso dalle cazzate che il suo cervello gli diceva.

Era un continuo, davvero.

Gerard avrebbe fatto a cazzotti con chiunque glielo avesse ficcato in testa, se fosse stato meno esile e un po' più coordinato nei movimenti.

«Quindi?» Disse il ragazzo dopo aver preso il primo sorso dalla sua tazza.

«Già. Umh. Come stai?» Domandò l'altro, arrossendo. Gerard pensò a quanto fosse strano pensare che qualcuno si sentisse a disagio in sua presenza quando poi lui era il primo ad essere fottutamente spaventato dalla gente. Gli sorrise, cercando in Dio-solo-sa-che-modo di metterlo un minimo a suo agio.

«Bene. Tu?» Rispose, e in qualche secondo finì di bere il caffè nella sua tazzina prima che si raffreddasse ulteriormente. Solo in quel momento, dopo essersi ricaricato con la minima quantità di caffeina necessaria per il corretto funzionamento del suo corpo, Gerard cominciò a notare una piccola miriade di cose sulle quali prima non aveva avuto la forza di soffermarsi, e una in particolare catturò la sua attenzione: le viole sul tavolo.

Le viole, in linguaggio comune, significano "ti penso".

Una sfortunata e ridicola coincidenza, perché adesso, alla vista di un qualsiasi vaso di viole, avrebbe pensato a Frank.

«Bene, grazie.» Disse quest'ultimo, ricambiando il sorriso di prima.

«Senti, riguardo quella... quella cosa... dovrei far finta di essere qualcuno in particolare?» Chiese, cercando di buttarla già sul lato più professionale dell'incontro, non sapendo davvero cosa dire e imbarazzato all'idea di straparlare, fare quelle stupide conversazioni piene di domande e risposte di circostanza. Frank sbarrò gli occhi, concedendosi una breve risata solo dopo aver espresso tutto il suo shock tramite quell'espressione quasi comica che aveva fatto con gli occhi. Gerard pensò che avesse davvero una risata carina: in effetti gli faceva venire voglia di dire qualche altra stronzata per farlo ridere di nuovo, e di questi pensieri non sapeva davvero cosa farsene, onestamente.

«Perché dovresti? Fai quello che vuoi, quello che ti riesce più facile. Io sono sempre stato sulla difensiva, tipo "no, no, vedrete quando lo conoscerete", quindi non hanno nemmeno un nome, ti rendi conto? Oddio.» Cominciò, e Gerard si limitò a sorridergli per non interrompere il monologo. «Oh, umh, qual è il tuo vero nome? A meno che non ti chiami Gee, in quel caso complimenti a chiunque abbia coltivato l'erba che dovevano aver fumato i tuoi quella sera.» Frank gli chiese, e quella volta fu il turno di Gerard per ridere.

«Mi chiamo Gerard.» Gli tese la mano per stringerla, come se si fossero incontrati solo in quel momento, e quando Frank replicò il gesto, notò tutti i tatuaggi che aveva su mani e braccia. La semplicissima maglietta nera a maniche corte non faceva nulla per nasconderli, e forse era anche giusto, perché lì sopra dovevano esserci almeno due o tre stipendi di tatuaggi.

Gerard pensò al contrasto che una t-shirt del genere faceva con il completo perfettamente stirato con tanto di cravatta che aveva indossato l'altro giorno, e non riuscì a trattenersi dal pensare che avrebbe tanto voluto sapere se sotto ci fosse altro inchiostro che gli sporcava la pelle. Nel senso migliore del termine, comunque. Era come un quadro con le gambe.

«Allora, Gerard, io ti ho parlato di me... ora tocca a te, che dici?»

 

**

 

Gerard si guardò intorno, mentre i suoi pensieri sembravano assorbiti dal buco nero di disordine che ormai era camera sua. Fissò il materasso matrimoniale buttato a terra come se quello fosse un posto abbandonato, ma in realtà quest'ultimo gli faceva da letto. Fissò le due pile di libri ai lati di esso che aveva arrangiato come comodini e le lenzuola perennemente sfatte. Fissò la vecchia abat jour senza paralume che aveva trovato in un angolo della casa appena si erano trasferiti (e che aveva deciso di tenere perché "se qualcuno l'aveva lasciata lì evidentemente era il suo posto"), e fissò tutti i vestiti buttati qui e lì o addirittura piegati a terra in assenza di un armadio.

«Sei completamente impazzito.» Disse Mikey dall'altro lato della stanza, stesso tono piatto che ormai usava un po' per tutto. Gerard intanto metteva a soqquadro la stanza alla ricerca del suo passaporto, determinato almeno quella volta a non ridursi all'ultimo momento (ossia lunedì mattina, venti minuti prima di partire). Ad ogni modo quello scatto di motivazione durò ben poco, e immediatamente si arrese. Adesso doveva cercare di capire che cazzo voleva Mikey.

«Cosa?» Chiese, voltandosi improvvisamente. Sapeva bene cosa, ma gli serviva fargli perdere tempo per inventare una storia che facesse da alibi a questa sua partenza improvvisa. Fissò le tazze di una volta contenenti caffè sparse qui e lì e finalmente capì perché non le trovava più in cucina.

«Alicia mi ha detto che... vai via per una settimana.» Rispose il minore, passando dal suo tipico tono indifferente ad uno ben più preoccupato.

Lasciare Mikey da solo era come un terno al lotto: potevi tornare e trovarlo a prepararti la cena alle tre del mattino come se niente fosse successo oppure potevi trovarlo stretto ad una coperta, accasciato a terra in un angolino- come se avesse paura di qualcosa o, citando sue testuali parole, avesse "sentito delle voci". Gerard non sapeva esattamente cosa gli dicessero quelle voci, ma poteva giocarsi le palle sul fatto che non dovevano essere delle cose molto rassicuranti.

«Mi dispiace. Ha detto che puoi stare con lei, comunque. Così non rimarrai da solo.» Rispose, cercando di rassicurarlo mentre si sedeva a "letto" e calciava via le Vans nere che ormai cadevano a pezzi. Mikey abbassò lo sguardo a terra e cominciò a strusciarsi le mani sulle braccia, come se improvvisamente avesse freddo. Gearard fissò il muro di mattoni lasciato al naturale. «Ho... ho bisogno di staccare. Anche io ne ho. Ogni tanto.»

«Non devi per forza andartene. Possiamo fare qualcosa.» Si lamentò, esattamente come un bambino potrebbe lamentarsi quando gli viene tolto il giocattolo preferito. Era incredibile l'effetto che gli faceva vederlo così, e ogni volta era la stessa cosa. Per un secondo pensò persino di rimanere lì e lasciar stare tutto, giusto per farlo contento. Magari non era il fatto che fosse suo fratello ed era solo un debole.

«No. Devo partire.» Ma magari no. E quindi fissò Mikey.

 

**

 

HHHHHHHHEYYYYYY!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

Sono viva! uwu

Allora, come volevasi dimostrare ho più o meno cambiato idea e ho deciso di mettere degli pseudo titoli ai capitoli: il primo l'ho chiamato adagio, non so perché, mi metteva un'aria rilassata e quindi okay, sono rinchiudibile (?).

Quindi non tanto titoli presi da citazioni o canzoni varie perché non mi riesce bene adattare qualcosa di completamente estraneo a qualcosa scritto da me, ma più che altro dei piccoli dettagli che altrimenti sarebbero andati persi un po' così (?)

Per esempio, ecco, il profumo di viole.

E' tipo fin da piccola che ogni volta che vedo una viola io devo odorarla -lasciamo stare il fatto che ironizzando sul mio cognome mi chiamavano "de Viola" piuttosto che "de Rosa", genitori sadici che si divertono così-, è tipo una cosa che mi ha sempre accompagnata.

Poi tipo verso il duemiladieci una mia amica mi fece sentire una canzone che si chiama "Profumo", dei Passogigante (un piccolo gruppetto di Firenze molto a random), e mi tornò in mente questo dettaglio della mia infanzia (?)

(Il testo faceva tipo "Profumo di viole, blablakbalal", lo specifico per dare un senso a tutta sta storia <3)

La scaricai, poi persi i dati sul computer e scoprii che in pratica su youtube non esisteva più perché i Passogigante l'avevano rimossa. Tuffo al cuore, non l'ho sentita per almeno tre anni e poi l'altro giono l'ho trovata su Spotify.

Insomma, breve storia lunga, questo capitolo l'ho scritto ascoltando nient'altro se non quella canzone, quindi mi sono detta che forse era un segno (?)

Più in là avrà un senso anche nel contesto, ad ogni modo, ci proverò davvero. <333

Fatemi sapere cosa ne pensate, vi giuro che sette recensioni allo scorso capitolo non me le aspettavo proprio, awww ;__;

Grassie milaah, alla prossima <333<3<<3<3<3

xo

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Capitolo 4
*** III, parallele ***


When The Sun Goes Down

-III, parallele-

 

Era passata una settimana e il fatidico lunedì era arrivato.

Gerard poteva dire con orgoglio che ormai aveva acquisito le buone maniere di un gentleman pur avendo la solita, banale vita da poveraccio.

Conosceva un ammasso ridicolo di regole tratte direttamente dal galateo sulla disposizione dei posti a tavola, ma poi a casa sua non aveva nemmeno un tavolo intorno al quale farli (ipoteticamente) sedere.

Sapeva che non bisognava dire “piacere” quando si conosce una persona, e sapeva anche che non avrebbe dovuto in nessunissima circostanza masticare la gomma, nonostante fosse esattamente ciò che in quello stesso momento stava facendo.

Tutto questo contornato da altre asserzioni completamente inutili che, probabilmente, nel giro di quella settimana il suo cervello avrebbe gradualmente rimosso. Aveva anche comprato dei vestiti decenti, quindi, insomma... anche in caso di fallimento nessuno poteva negare l'evidente impegno che ci aveva messo.

Comunque, mentre volava nel cielo in una scatoletta di metallo sospesa a non-voleva-nemmeno-pensare-quanti metri di altezza, non gli importava.

Gli importava solo di arrivare a destinazione, e quando finalmente lo fece si rese conto che non sapeva proprio cosa dire: non ebbe nemmeno il tempo di mettere piede in California, che subito Gerard pensò che fosse un posto divertentissimo.

Non per chissà quale particolare motivo, ma perché sembrava che lì avessero tutti qualcosa da fare: dal momento in cui aveva raccolto la valigia dal nastro trasportatore a quello in cui era uscito dall'aeroporto e si era guardato attorno, consapevole che la situazione non sarebbe affatto cambiata e che probabilmente glielo si leggeva in faccia che arrivava da una realtà così diversa da avercela ormai cucita addosso.

Rise.

Rise davvero, a bassa voce- non quella sarcastica e cinica risata mentale che molto spesso esprimeva sbuffando o sospirando, ma una di quelle a pieni polmoni. Rise perché pensò che forse ormai aveva una specie di marchio invisibile e gli pareva assurdo che da un giorno all'altro qualcuno potesse pretendere toglierglielo di dosso, anche con tutta la buona volontà del mondo. Rise perché semplicemente tutto quello che stava facendo non aveva senso.

Ma che ci faceva lui in mezzo a tutti i ragazzini in viaggio con le famiglie, gli uomini d'affari che stanno per concludere davvero qualcosa nella vita, tutte le vecchiette piene di botox con il toy-boy al guinzaglio? Si chiese se sarebbe riuscito a ritagliarsi un posto in tutto quello schifo sintetico e magari a renderlo un minimo suo.

Ancora più divertente, poi, era il fatto che adesso avesse uno chauffeur. Incredibile.

A quel punto gli stava venendo praticamente da sbellicarsi, perché mai e poi mai nella sua vita avrebbe pensato di trovare un signorotto della stessa taglia dell'armadio che si era venduto qualche mese prima per pagare l'affitto che lo aspettava fuori l'aeroporto con un cartello sul quale c'erano scritti il suo nome e cognome a caratteri cubitali. Un signorotto che quel cartello lo teneva bello in vista, come se fosse fiero di aspettare una persona del “suo calibro” e fosse felice di poterla scortare. Questa volta però non rise, e fu uno sforzo così forte che sentì il sangue fargli pressione nelle tempie.

C'era da dire che comunque era a dir poco impressionante e forse anche ironico (ma ironico nel senso brutto e amaro, torbido e antiomologato) che ci fosse talmente tanta gente che in quel momento stava traendo vantaggio da una farsa.

Gerard pensò che forse alla fine la verità non esiste davvero, che non siamo tenuti a conoscerla e che semplicemente scegliamo la nostra bugia preferita e ce la viviamo così come viene.

Pensò che ci poniamo in un certo modo perché è quello che vogliamo essere, è così che vorremmo apparire.

Pensò che forse non siamo mai veramente contenti con noi stessi finché non decidiamo di incarnare un qualche ideale che non ci appartiene e di essere qualcosa che non siamo, che fosse tutto un po' un'illusione per dare un senso a qualcosa che molto spesso gli sembrava solo una qualche allucinazione di brutto tipo.

Che forse anche lui era molto più contento così, perché un po' si amava, in quel momento.

Si amava perché credeva di starselo ritagliando davvero quel pezzo di individualità di cui parlava prima, e senza fare nulla di particolare poteva essere qualcun altro per una settimana.

Qualcuno che il Gerard di tutti i giorni avrebbe amato, appunto.

 

**

 

«Frank? Frank, credo di essermi perso.» Disse Gerard con voce abbastanza impanicata, senza nemmeno aspettare una conferma del fatto che l'interlocutore dall'altro lato del telefono fosse lui. Rimase immobile e imbambolato nel centro di una stanza che, a furia di girare per il corridoio avanti e indietro, ormai gli pareva di aver visto altre cinquanta volte. Si chiese se fosse effettivamente normale perdersi in una casa se inizialmente voleva solo andare al bagno, quando la risata dell'altro interruppe qualsiasi tipo di filo logico ci fosse nella sua testa. Si guardò da capo a piedi nello specchio che aveva di fronte, imbarazzato non solo per il suo senso dell'orientamento ma anche per come era stato obbligato a conciarsi.

«Dove sei?» Chiese, e Gerard riuscì a sentire chiaramente tramite la cornetta il momento in cui Frank si alzò dal letto e cominciò a cercarlo, ma non per questo si sentì più a suo agio. Il ragazzo si guardò intorno.

«Umh... c'è un pianoforte?» Provò, e capendo che probabilmente non era abbastanza, si girò a destra, a sinistra, a destra di nuovo, ma effettivamente sarebbe stato impossibile essere preciso come voleva perché il pianoforte era proprio l'unica cosa che c'era. Pareva così antico che Gerard aveva paura di romperlo anche solo a guardarlo, e insieme ad esso non c'era altro se non lo stesso specchio che poco prima aveva usato per autocommiserarsi per il suo aspetto. Sbuffò. «C'è anche uno specchio... una finestra!» Continuò, come se fosse veramente un dettaglio determinante, convinto che probabilmente era finito in una qualche dimensione parallela o qualcosa di ugualmente fantascientifico.

«Che pianoforte è? Petrof o Schimmel?» E in quel momento, mondi alternativi e altre stronzate a parte, il ragazzo pensò che forse era anche normale perdersi in una casa con più di un pianoforte e un'intera stanza dedicata ad ognuno di questi. (“E chi cazzo ha bisogno di più di un pianoforte?”, una parte del suo cervello gli suggerì di dire, ma fu abbastanza furbo e pronto a trattenere l'impulso giusto per un soffio.)

Camminò lentamente intorno allo strumento nel tentativo di capire a cosa si stesse riferendo Frank, e notò una scritta in oro sulla cassa. Per qualche strano motivo sentì il bisogno di sfiorarla con la punta delle dita, e così lo fece, in maniera quasi impercettibile. Sospirò.

«Kampiiller? Ti prego, dimmi di sì.» Domandò Gerard, ancora preso dai tasti perfettamente lucidi e il color nero pece del pianoforte di fronte a lui. Prima che potesse finire la frase si sentì rimbombare più e più volte nell'orecchio destro un rumore registrato, e fu solo dopo aver capito che forse l'altro aveva attaccato il telefono che si girò di scatto per trovare Frank appoggiato all'uscio della porta, sorrisetto tra il malefico e l'infantile e telefono ancora vicino all'orecchio.

«Cercavi il bagno?» Chiese, come se non lo sapesse già perfettamente. L'altro annuì. «Era sulla sinistra. Hai presente che ogni volta che sali al piano successivo c'è un salone, no? Ecco, da lì ci sono un corridoio che va sulla destra e uno che va sulla sinistra. Hai sbagliato lato.» Frank disse, gesticolando talmente tanto che per il ragazzo fu un po' difficile seguire le indicazioni, preso com'era dai movimenti che stava facendo con le mani.

«Sul serio, ma chi cazzo vive in un posto così?» Rispose Gerard, prendendosi qualche momento per cercare -anche solo minimamente- di mettere a fuoco nella sua mente l'immagine che si era trovato davanti quando qualche minuto prima era arrivato a casa dei genitori del ragazzo, a Santa Barbara.

Dal suo punto di vista, era piuttosto ridicolo che la gente spendesse così tanti soldi per delle case.

Certo, lui viveva in un qualcosa che poteva essere a malapena considerato bilocale, ma non stava esattamente male. Stava un po' stretto, e soprattutto i topi non erano la compagnia più piacevole di sempre, ma c'era da dire che nemmeno avere una villa a tre piani, un numero indefinito e indefinibile di saloni, una piscina, un esercito di camerieri che popolano la casa come fossero ospiti in un albergo, cinque o sei bagni e svariate collezioni di ancor più svariati (e, Gerard avrebbe aggiunto, inutili) oggetti si poteva considerare proprio nella norma.

D'altra parte, cazzo, era in California, mica in New Jersey o nei sobborghi di Manchester.

Era in California, e anche se Gerard la California l'aveva vista solo nelle puntate di 90210, una cosa la sapeva: era un posto di plastica. Di frasi fatte e sentimenti preconfezionati. Di apparenze e di tette al silicone, di sorrisi sbiancati. E che gli piacesse o meno, anche di ville sfarzose e saloni lussuosi, quindi avrebbe dovuto fare in fretta ad abituarsi all'idea per viverci anche solo una settimana.

Frank intanto se la rideva beatamente.

«Non vivono qui, ci vengono in vacanza. Forse avrei dovuto dirtelo?» Disse, e Gerard rimase talmente attonito nel pensare che no, quella che sembravano curare in maniera così maniacale non era nemmeno la loro casa, che onestamente preferì buttarsi sull'ironia.

«Già, magari.» Disse, avvicinandosi all'altro e seguendolo per il corridoio. Frank si girò giusto per sorridergli, voltandosi nuovamente per continuare a camminare. Fu una cosa quasi carina.

«Caffè?» Gli chiese, e se c'era una cosa che la vita gli aveva insegnato era non rifiutare mai un caffè gratis.

 

**

 

Diciamo che Gerard era convinto che da lì in poi la situazione sarebbe migliorata, no?

Per qualche strano motivo, il suo cervello riusciva a formulare frasi e trovare argomenti di conversazione in maniera molto più disinvolta davanti ad un caffè piuttosto che in altre situazioni, eppure in quel momento si sentiva così a disagio che nemmeno quello aiutava.

Erano seduti in un salone enorme e anche solo il minimo rumore produceva un eco degno di una caverna.

C'era una collezione di gufi di cristallo sparsa sull'enorme libreria di fronte a loro e quei migliaia di occhietti nero pece lo facevano sentire terribilmente osservato.

Le cameriere giravano a destra e a manca chiedendo ai due se avessero bisogno di qualcosa ogni due o tre frazioni di secondo, e Gerard non ne poteva più di quei tipici pantaloni pruriginosi e teneva le gambe accavallate in maniera particolarmente disagiata.

In sintesi, tutto stava scivolando pian piano in un baratro di imbarazzo e vergogna, prima che Frank -in maniera completamente inaspettata-, prendesse in mano la situazione.

«Cristo Santo, non ce la faccio più, scendiamo.» Disse, alzandosi e afferrando la tazzina di caffè di Gerard con la mano che non era occupata dalla propria. Si avviò verso un lato della casa in cui l'altro pensava di non essere mai stato. Lo seguì, ad ogni modo, e solo dopo un po' si rese conto che stava praticamente correndo.

«Puoi- puoi fermarti un secondo? I- i miei cazzo di polmoni.» Gerard disse, affannato. Frank, che intanto si apprestava a scendere di corsa quella che era almeno la terza rampa di scale, si fermò e gli sorrise, destreggiandosi manco fosse un circense di professione con le due tazzine ancora quasi piene e con ottime probabilità bollenti. Salì cinque o sei scalini, giusto per avvicinarsi un minimo all'altro, e si appoggiò contro il corrimano in attesa che riprendesse fiato. «Si può sapere che stiamo facendo?»

«Andiamo giù in cucina. Già questa situazione non è delle più gestibili di sempre, figuriamoci se poi dobbiamo fare finta di essere abituati a vivere una vita che nessuno di noi due vive.» Frank alzò gli occhi al cielo, e ricominciò a scendere scalino dopo scalino. Questa volta, però, il ritmo era sopportabile per entrambi, e qualche secondo dopo erano seduti a un tavolo di legno che sicuramente s'addiceva più ad entrambi.

«Perché la cucina qui giù?» Chiese Gerard, notando la totale assenza di finestre che indicava che si trovavano in un seminterrato. Frank, intanto, stava preparando un'intera caraffa di caffè dopo che entrambi avevano mandato già un po' troppo velocemente la misera quantità che la tazzina poteva contenere. Il ragazzo rise, come se anche lui che doveva essere abituato alle stranezze di quel posto non riuscisse ad accettarle completamente.

«Non ne ho la più pallida idea. E' come se avessero vergogna di ammettere che anche loro mangiano.» Disse, spegnendo il fornello e portando a tavola la brocca. Versò una tazza a entrambi e ricambiò il sorriso che Gerard gli stava facendo.

Poi il silenzio.

Era divertente, in un certo senso, perché entrambi erano imbarazzati e sapevano di esserlo, ma erano arrivati ad un punto in cui avevano imparato a conviverci.

Anzi, forse più che divertente forse era un po' squallido, e per fortuna Frank ci arrivò molto in fretta a quella conclusione.

«Senti, sai una cosa? E' tutto così imbarazzante! E' ridicolo, quasi. Quindi adesso ti racconto una cosa ancora più ridicola su di me e magari ridiamo un po'-» Cominciò, parlando un po' troppo veloce perché l'altro potesse effettivamente assimilare il ragionamento che doveva aver fatto Frank. «Quando avevo cinque anni, credo, mi sono incastrato la testa nella sedia. A scuola. E nessuno riusciva a togliermela da lì, e hanno dovuto tagliarla in due con uno di quegli aggeggi strani. Ho avuto una paura assurda, non hai idea, e hanno cominciato tutti a chiamarmi testa d'uovo ed è stata una cosa che mi ha perseguitato per metà della mia vita, capisci? Me lo porterò fino alla tomba.» Gerard rise, e questa volta davvero. E Frank era felice che magari per almeno cinque minuti avrebbero potuto smetterla di sentirsi obbligati a parlarsi e lo avrebbero fatto di loro spontanea volontà.

«Al secondo anno di liceo dei ragazzi mi hanno chiuso a chiave in un bagno per ragazze, e quando le ragazze hanno cominciato ad accorgersi che la porta di quello scompartimento era sempre chiusa e che da sotto la porta spuntavano delle scarpe da maschio hanno chiamato il preside, e il preside ha sfondato la porta, e ha cominciato a farmi due palle così su come si deve rispettare la privacy delle ragazze e tutto il resto, no? E mi volevano sospendere, non hai idea, finché ad un certo punto non gli ho detto: “Senta, signor Thurmer, io vorrei solo dirle che comunque a me piacciono i ragazzi e che se ero in quel bagno è solo perché suo nipote e i suoi amici mi ci hanno chiuso dentro”. E' stato così divertente, non hai la minima idea. E' sbiancato. Lo rifarei cento volte.»

«Parlando di sessualità e liceo, una volta mi è venuta un'erezione in palestra e il mio professore di educazione fisica mi ha chiamato in disparte e mi ha detto che era completamente normale, finché non era per colpa sua. Mi ero ripromesso che non lo avrei mai detto a nessuno.» Disse invece Frank, andando contro il suo stesso giuramento pur di continuare il loro botta e risposta. Sì coprì il volto per non far notare all'altro il colorito rossastro che avevano assunto le sue guance, e si rese conto che forse non era così terribile come storia ora che da “adulto” aveva avuto il tempo per metabolizzarla. Gerard cominciò a ridere così tanto che probabilmente gli sarebbero saltate le costole: era una vicenda così imbarazzante che cominciò a sentire un'ondata di vergogna nonostante non fosse lui ad averla vissuta.

«Possibile che abbiamo avuto due adolescenze così piene di disagio?» Domandò, cercando di riprendersi fra una risata e l'altra. E anche l'altro rise, e continuarono a parlarne per almeno un'ora.

Per un po' si dimenticarono del vero motivo per cui Gerard era lì.

 

**

 

Frank sospirò davanti allo specchio, aggiustandosi in maniera quasi compulsiva la cravatta che era comunque perfettamente a posto. Gerard intanto stava avendo dei seri problemi con la sua, di cravatta, e cominciò veramente a chiedersi se fosse necessario indossarla. Tanto verso metà cena avrebbe semplicemente voluto toglierla e, probabilmente, una volta usciti dal ristorante lo avrebbe fatto.

Frank, ad ogni modo, notò la lotta che era in corso fra lui e quel singolare accessorio, e gli si avvicinò per dargli una mano.

«Lascia.» Disse, e in pochi secondi riuscì a fare il nodo che l'altro aspirava a fare da più o meno dieci minuti.

«La vita è una scalata.» Sbuffò Gerard, sarcastico.

«Non hai idea.» Disse Frank, riuscendo a mantenere un tono tremendamente serio ma lasciandosi prendere da un sorriso rivolto all'ignoto, e non all'uomo di fronte a lui.

Sembrava tutto nuovo, sconfinato e senza orizzonti ai suoi occhi, perché un po' si sentiva felice e magari questa felicità di cui tutti parlavano non era una cosa così stupida come di tanto in tanto si ripeteva. Magari era normale che vedesse tutto in maniera così distorta perché era felice, ed era così cretino che sperava sarebbe durato per sempre.

Era felice perché mentre aspettavano che i suoi genitori arrivassero aveva raccontato a Gerard di tutto e di più, e Gerard aveva riso davvero, in un modo così genuino che Frank si era chiesto se non lo avesse fatto per altri motivi che lui evidentemente non coglieva.

E poi Gerard gli aveva raccontato che una volta era rimasto chiuso in un bar per una notte intera perché al momento di chiusura era in bagno, e tanti altri dei suoi aneddoti di vita di strada che forse lo avrebbero dovuto far rattristare o qualcosa del genere, ma che raccontati da lui prendevano un certo tono di ilarità.

E così si erano fatte le sette e mezza e almeno Frank non si sentiva più a disagio a stare con l'altro.

Semplicemente perché adesso vedeva la parte di lui che era una persona e basta, con i suoi ricordi imbarazzanti e tutti quegli episodi di una vita che fino a quel momento non aveva mai incoricato la sua, ed era bellissimo riuscire ad umanizzarlo.

Era felice e non riusciva a capire perché.

 

**

 

«Dev'essere fantastico! E che tipo di quadri dipingi?» Linda Iero -la direttrice generale di una rivista di abiti da sposa che Gerard non aveva mai sentito nominare- gli chiese. Ma Gerard purtroppo era un po' troppo preso dall'enorme crostaceo che aveva nel piatto, e rispose con le prime -e sicuramente poco adatte- parole che gli vennero in mente.

«Oh, un po' di tutto. Arte moderna con un tocco di barocco, alle volte semplicemente quadri astratti. Mi prendo molte libertà come artista.» Gli venne un sacco da ridere, perché era lì che parlava di tutte quelle stronzate che aveva studiato alla scuola d'arte e si rendeva conto che durante quei cinque anni nessuno lo aveva preparato all'idea che prima o poi avrebbe dovuto mangiare un'aragosta davanti a della gente di altro calibro. Nessuno si era preso due secondi per insegnargli come cazzo fare a staccare le chele, cosa doveva mangiare e cosa no, nessuno gli aveva detto proprio niente e adesso era lì che parlava di tocchi di barocco davanti a due chili di pesce.

«Adorabile. Dove si trova la galleria? Frank non ci ha detto proprio niente di te.» Il suo cervello andò per un secondo in sovraccarico, e cercò di non fissare quella cosa stranissima che aveva nel piatto. Si concentrò piuttosto sul trovare una risposta, e si rese conto che erano cinque minuti che li avevano serviti e che non poteva semplicemente non mangiare. Allora si diede una regolata e rimediò ad entrambe le situazioni.

«E' ancora in fase di costruzione, quindi non risulta né sugli elenchi telefonici né su internet. Ad ogni modo è nel centro di New York, ci servono ancora alcuni fondi ma la raccolta dei volontari sta andando bene, quindi chi può dirlo. Potrebbe essere aperta domani oppure l'anno prossimo.» Si strinse nelle spalle, lanciando di sfuggita uno sguardo a Frank. Quest'ultimo sembrò approvare il mucchio di balle che stava raccontando, e gli mimò cosa fare per smembrare quello schifo che gli avevano già ordinato quando era arrivato.

D'altra parte però era una cosa fighissima, perché quando mai gli sarebbe capitato di mangiare un'aragosta?

Preso quello strano aggeggio che aveva accanto alla forchetta e incise le chele, notando qualcosa di commestibile che emergeva pian piano. Decise di assaggiarlo mentre nessuno lo guardava per confermare questa sua ipotesi, e capì di aver fatto proprio bingo. Da lì in poi non fu difficile, una volta capito il meccanismo.

«Dov'è che hai studiato?» Gli chiese in maniera molto più intimidatoria il padre di Frank, che faceva un altro lavoro piuttosto complicato che Gerard non aveva ben capito. Ad ogni modo gli dava un tono autoritario, e gli si addiceva.

«Alla School Of Visual Arts. Ho fatto storia dell'arte, pratica in vari campi e storia della cinematografia per puro vezzo.» Sorrise, anticipando quella che probabilmente sarebbe stata la prossima domanda colma di diffidenza. Anthony si girò verso il figlio, sorridendogli.

«Abbiamo degli amici che insegnano lì, giusto Frank?»

«Mh-mh.» Annuì il ragazzo, che intanto era in procinto di buttar giù il quinto bicchiere di vino rosso della serata. Gerard non aveva nemmeno avuto il coraggio di toccare il suo, e quando Linda glielo fece notare per poco non gli si raggelò il sangue nelle vene.

«Oh, io non bevo.» Rispose, sorridendo aggiustandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«Vuoi che ti faccia portare dell'acqua? Dovresti proprio insegnare a mio figlio.» Disse, lanciando un'occhiataccia a “suo figlio”. Quest'ultimo intanto sembrava entrato in una dimensione tutta sua, e Gerard era effettivamente tentato da quel vino perché un po' gli sarebbe servito calmare i nervi come aveva fatto Frank.

«Se non è un problema, ovviamente. Grazie mille.» Sorrise, e Frank fece la stessa cosa prima di fargli l'occhiolino e scambiare il suo bicchiere vuoto con quello ancora colmo di vino che il ragazzo aveva davanti. Linda lo fulminò con lo sguardo, e Gerard pensò che forse avrebbe dovuto appoggiarla in quella sua crociata anti-etilica, giusto per entrare un po' nelle sue grazie.

«Frank...» Lo riprese, stesso tono di una moglie esasperata al settimo anno di matrimonio.

«Gerard.» Replicò l'altro con un cenno del capo, come se lo stesse giusto salutando. Gerard notò che era veramente entrato in quella fase in cui non lo poteva più definire un po' brillo, perché era proprio partito: aveva questo sorrisone stampato in faccia che il ragazzo pensò sarebbe rimasto lì per sempre, se ne stava seduto in maniera scomposta persino per i suoi standard e si guardava intorno come se cercasse qualcosa.

«Frank!» La madre lo riprese, tono completamente diverso da quello che aveva usato il ragazzo poco prima. Gli diede una leggera gomitata contro il braccio, così subdola che sembrò quasi casuale, e Frank si rimise a sedere dritto. Strizzò gli occhi, probabilmente per il mal di testa, e con le dita cercò di massaggiarsi le tempie. Gerard si stupì dell'impassibilità del padre, che in realtà gli era parso un tiranno, e decise di fare qualcosa prima che tutto prendesse una brutta piega.

«Se vuole lo riporto a casa.» Si offrì.

Venti minuti dopo stava aiutando Frank a salire su una limousine.

 

**

 

…............Non so veramente cosa dirvi.

Potrei mettermi a dire che sono stata impegnatissima, che ho vissuto a pieno l'estate, che ne so, potrei dirvi veramente un milione di cose.

Ma prendere per il culo la gente non mi piace, quindi in tutta onestà vi dirò che non ho avuto proprio niente se non un blocco assurdo.

Ho riscritto questo capitolo almeno tre volte. L'ho iniziato in un centinaio di modi e non me ne piaceva uno, non sapevo veramente che fare... quindi ad un certo punto ho deciso di lasciar perdere per un pochino e vedere cosa succedeva. E' saltato fuori che in realtà questo “pochino” si è rivelato essere tre mesi (credo, non ho avuto il coraggio di controllare), e adesso sono qui che aggiorno.

Eheh.

Ciao <33333333333

Devo dire che dopo averci buttato sangue, sudore e metaforiche lacrime sono abbastanza soddisfatta.

Il titolo del capitolo è “parallele” per via della doppia vita di cui parla.

Ci sono dei riferimenti a frasi dette da Marilyn Manson da qualche parte, Thurmer è il nome del direttore del Pencey Prep ne “Il Giovane Holden” e la storiella della sedia è un triste e traumatico aneddoto riciclato dalla vita della sottoscritta. L'asilo è stato un periodo buio.

Non ho risposto prima alle recensioni perché era come se già sapessi che mi ci sarebbe voluto più tempo, quindi ho pensato di avvisarvi dell'aggiornamento tramite risposta! :)

Se qualcuno è disposto ancora a leggere, un commento sarebbe più che apprezzato <333

Grazie mille per la pazienza, se siete arrivati fin qui o se avete anche solo aperto il link al capitolo, vi prometto che questa volta proverò a rientrare in dei tempi più accettabili!

XO <3

 

 

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