Sabbia

di Hyarviel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** sabbia 01 ***
Capitolo 2: *** Cristalli ***



Capitolo 1
*** sabbia 01 ***


Mi sveglio
all'interno di una casa, più un palazzo,
lo so perché percepisco la frescura dei muri e la penombra.
I soffitti alti mi danno un senso di nausea e di vuoto.
C'è che mi guardo intorno per capire dove sono, almeno, e non credo di aver mai visto questo posto.
Il portone è la parete dura su cui poggiavo la testa fino a un secondo fa, pesante e di legno, ha i battenti di bronzo lucidato, e animali strani si rincorrono fusi nel metallo.
La luce è aranciata, come di pomeriggio, giornata estiva caldissima, sudo.
tende pesanti alle finestre e polvere, polvere ovunque.
ci sono divani di pelle, coperti da drappi colorati di seta, ricami, arabeschi dorati e frange.
Tutto ha un aspetto vecchio, ma non necessariamente abbandonato, come, soltanto, appartenesse a questo posto da sempre.
l'atmosfera mi piace, è come accogliente, materna. il silenzio non mi disturba e sento solo i fischi del vento, di fuori. Scosto le tende vaniglia impolverate, per guardare fuori.
un deserto vastissimo, danza ai miei occhi. sabbie sollevate in folate immense, il sole così coperto a tratti, ha un aspetto malato, depresso.
tutto questo bianco, e giallo, e rosa, disegna un po' di luce sui miei ricordi sbiaditi. Ma ancora non è molto chiaro, il mio ruolo qui. Proprio mentre decido di muovermi e faccio qualche passo, lascio le impronte dei piedi nudi, sul marmo, Aaron compare con un calice di vino, sorride,
scintilla la spada, alla cintura.

"Ti vedo stanca" mi dice. "Come ti senti adesso?"
Le sue mani hanno tatuaggi colorati di disegni geometrici, le vene in vista sulle tempie e sul collo, mi fanno pensare che sia teso, agitato.
"Mi sono appena svegliata, a dir la verità, ma non ricordo il sogno."
"Avrai sognato la nostra battaglia, sicuro, succede sempre così. Che ne dici di mangiare qualcosa?"
Allunga il braccio, mostrando un grappolo d'uva tra le dita, e indica un punto imprecisato dalla parte opposta del salone "da quella parte c'è la cucina, Eire è di là coi sopravvissuti. cominciava a preoccuparsi anche per te."
"Eire..." ripeto ad alta voce
i puntini sospesi disegnano una traccia grigia nell'aria
scompare come fumo a respirarci sopra.

credo che se la vedessi, la riconoscerei
ma ancora non ricordo cosa ci faccia, in questa parte del mondo.
Eire ha capelli rossi, un sorriso felino, cattivo. Nel quadro in corridoio siede al limitare di uno stagno di cemento, tiene in mano della carta da regalo, in piccoli pacchetti colorati, ne tende uno verso lo spettatore. Dietro di lei condomini nordici e sfasciati, roba da muschio alle pareti, schifezze, vetri rotti.
Altro che ricordo vagamente sono dei pantaloncini da surf, grondanti d'acqua, e il sapore brillante deciso di Aaron, in bocca. Un letto di fiori, profumo di albicocca. Closeup su piedi in uno specchio, all'interno di un ascensore, in un albergo costosissimo molto altrove.
Cenere, di sigaretta, sulla moquette. Bicchiere che rimbalza. Vino che macchia il tappeto.
Vuoto.

Démone mi prende per mano, la sua pelle scura è calda. Mi diverto a giocare con gli occhi, guardare il contrasto del suo sorriso con le labbra scurissime. Un sopracciglio alzato e uno no. Percorriamo stanze con arazzi, prendiamo una scala sulla sinistra. Gli scalini, come da copione, cigolano sotto i miei passi, i suoi pesanti stivali.
"Abbiamo perso Lena" comincia. mentre ci avviciniamo, sento il profumo del cibo cotto, speziato "Liam è rimasto ferito a un braccio, ma per fortuna ce l'ha fatta" storce la bocca e volge gli occhi al cielo. Ha l'aspetto di un generale amareggiato ma consapevole di ogni importanza.
"Carmen è finita ancora peggio, non appena scende la notte vogliamo andare a recuperare il suo corpo, sperando che i bastardi non l'abbiano fatto a pezzi." dà un pugno a una parete, crepe azzurre gli rimangono fra le nocche. "con questo caldo di merda non possiamo neanche spostarci."
Affretta il passo, spalanca il portone della cucina e sono costretta a stringere gli occhi per non svenire dalla troppa luce.
"Senti... se poi stai meglio, magari, puoi venire con noi." Mi spinge in avanti, con un colpetto della mano sulle spalle "ma ora è meglio che ti lasci qui, Eire potrebbe tentare di uccidermi se ti rubo ancora del tempo".

La stanza è un viavai di persone con cicatrici sulla faccia di ogni colore. Abbiamo vetri e bicchieri e boccali di birra vuoti appoggiati in ogni angolo, cameriere grasse e con un'aria bonaria, tranquilla, vestite di stoffa grigia, che spostano cesti di pane profumato, bruciaticcio
mi siedo su uno sgabello nero, guardo la gente camminare di fretta.
aspetto che mi si rivolga la parola, prima di salutare
molti mi sorridono, chi tenta di consolarmi
Io sinceramente non capisco cosa vogliano da me, mi mostro comprensiva, greve.
dico che ora mi sento molto meglio, che sto aspettando Eire, e che li ringrazio, della loro gentilezza, che la apprezzo molto, e possono stare sicuri, me ne ricorderò. Non lo so, mi sembrano le parole giuste da dire in questi casi. non lo sono?

La sua chioma spettinata la vedo da lontano, e poi vicinissimo perché mi si getta al collo piangendo, mi bacia le guance, mi stringe le mani, singhiozza come una bambina. e mi stringe.
quasi fino a farmi male. sono costretta a spingere per staccarla.
per quel che ricordo, conosco, di lei
mi sembra decisamente poco in linea con il suo modo di essere
appena si riprende mi trova un posto a sedere, si fa portare vassoi di frutta e brocche d'acqua traboccante di ghiaccio. fazzoletti di lino.
Ogni volta che mi guarda scoppia a piangere di nuovo e non capisco
se è lei, oppure sono io.
il problema in tutto questo.
Mi stringe una mano forte e abbozza un sorriso, con la faccia distorta dal pianto
"..sta, sta malissimo" mi fissa compassionevole, e poi torna a lacrimare in silenzio
asciugandosi il viso con le maniche del vestito.
"avvelenato" dice, sembra una cosa importantissima, sembra una persona importantissima, per me, l'oggetto. sono seria, attenta, vorrei capire.
"avvelenato?" ripeto, come incredula
"è il motivo per cui siamo tornati qui. non saremmo mai scappati con la coda tra le gambe." stringe le labbra nervosamente. si morde le nocche delle dita. sputa in un bicchiere.
"posso almeno vederlo?" accenno, cautamente. chiunque cazzo sia, penso.
una delle cose più ironiche è doversi fingere presenti, certi di un bagaglio narrativo che al momento è perso. Sorride, Eire, mi carezza il viso con le mani. Mi bacia le dita e le tiene fra le sue.
"certo, che lo puoi vedere, ha chiesto di te, sai?"
Finiamo di mangiare in silenzio, mentre il tepore mi rode la schiena, con la sua luce benevola, assassina.

Scendo le scale di pietra con attenzione, Eire regge la torcia, che le trema tra le mani nervose
fa luce nel corridoio e dagli infissi col legno scrostato filtra la luce
la polvere, il fumo della pipa, disegnano cerchi grigi nell'aria
Démone fuma in un angolo, legge delle carte e le ributta a caso su un tavolo
nel vederci fa un piccolo inchino, ci scorta alla porta successiva, che da su una piccola stanza illuminata da un abat-jour sulla scrivania
un camino, la finestra è coperta.

Lui è nel letto, tremante di febbre, Eire abbandona il mio fianco, sento il suo calore mancare.
"sono ore che delira, fa strani sogni, ha febbri e allucinazioni" la voce si allontana mentre avanzo.
Liam è sdraiato vicino a lui, gli carezza le bende, asciuga il sudore dal viso. E' amorevole e buono, sorride, assorto in contemplazione.
Liam ha i capelli lunghi, che gli arrivano alla vita, rassomigliano le radici di un albero, tra le lenzuola, serpeggiate ovunque, marcano il territorio.
Mi guarda con sospetto, fatica. Scivola via dalle coperte con un soffio. La sua ombra è grandissima e traballa per il fuoco. Mi apre le mani e vi ripone gli anelli, un pendente con un simbolo argentato ed un nome. "Meglio che li tenga tu". Lo dice in una lingua non mia.
Io ficco tutto nelle tasche, non penso.

Mi avvicino al letto e Lui apre gli occhi, mi fa cenno di sedermi lì accanto.
Poggia la schiena contro il muro, scoprendo le bende sul ventre. Posso vedere le macchie di sangue sul lino chiarissimo. Posso vedere le lame che l'hanno ferito. Gli occhi del pazzo che ha scagliato le frecce.
Palmo contro palmo le mie mani sono almeno la metà delle sue.
piccoli tagli sulle dita sanguinano ancora, un poco. Il mio sangue si mischia con il suo, ora rischio di perdere la lucidità del finora.
Le sue labbra sono fresche e tremanti, di rabbia, di fieno. La mia mano rabbrividisce al contatto.
La barba è ruvida, accarezzo la sua gola con le dita, gli scosto ciuffi di capelli sudati dal viso.
Bacio le guance, lo sguardo si spegne un attimo nell'assaporare.
Mi guarda con occhi neri animali. Non so nemmeno se mi riconosce.
Sembra grato dei miei gesti, respira profondamente, piano.
Il suo abbraccio è ferino, mi stringe un polso con artigli d'oro, mi tira verso di se e mi bacia.
Liam tossisce, Lui gli ringhia di sparire. Con le braccia forti, infiacchite dal veleno, mi stringe a sé sussurrando stronzate qualsiasi.
"sono così felice, che tu sia qui". dice faticando a scegliere le parole.
Mi accarezza il viso ed è gentile, mi bacia ancora, sciogliendomi nella sua bocca, bestia inaudita.
Mi spoglia con le dita, sciolgo le bende trovando carne pulita. cerco il calore dei suoi abbracci e la violenza dei suoi lamenti mi pulisce dal sonno.
Quello che vorrei da. è che mi dicesse chi sono. Lo curo con i baci e con la saliva. Trascolora, giudica, stupisce, assume un'aria da bambino indifeso. Lui mi insegna le sue parole sospese.
Soffoca il suo grido sulla mia pelle, affonda i denti nel mio collo, sprofonda in me le urla di dolore e di rimpianti. Il mio nome lo scandisce a sillabe mute che rimangono intatte in bocca.
Mi sollevo per cercarle. Mi aggrappo alle sue spalle per tirarmi su, raggiungere il suo viso splendente.

Mi sveglio.
In una stanza bianca. Lenzuola arancio.
Nessun ricordo del sogno.
Eire entra in camera con la colazione, sorride, mi chiede se voglio della frutta. Quasi senza pensarci rispondo di sì.

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Capitolo 2
*** Cristalli ***


Nei cristalli dei castelli delle cattedrali di cazzate
che sono le tue parole
tu ti bagni, nella poesia, e sorridi.
non hai bisogno di acqua, per sopravvivere.

ben oltre il fisico, le bonnes chances, si spingono i tuoi occhi.

Sono cristalli di gole già vuote
arse dalla sabbia del vento di scirocco
magazzini mai sazi di attività e sgomento (vedi)
Cammino controvento cercando ombra, e la trovo al riparo di un patio dall'aspetto messicano dell'immaginario comune.
col vento, la polvere sporca e secca distrutta dal sole. I sassi. I muri bianchi.
C'è un recinto, con un cavallo vecchio che si abbévera stanco. Una porta, di legno; mi ci asciugo contro il sudore dalla fronte, ed entro.
Una volta qualcuno mi disse che lo scirocco è il vento degli assassinii.
Mi disse che crea un'atmosfera particolare, che respirandolo si impazzisce, si impugnano i coltelli, le spranghe, i fili di ferro, e semplicemente... si uccide. Mi fece paura il racconto, in quel momento. Lo ricordo in un'auto in corsa, su una strada grigia e brulla, forse verso casa.
E' tutto molto vago, in fin dei conti.
Potrebbe essere stato molto tempo fa.

Salgo le scale nella penombra, capito in una hall messa male, come al solito, in questi scenari non posso che trovare case distrutte, cercando frescura. Una sorta di par condicio degli spazi.
Il gentile receptionist, un uomo sulla trentina, ha i capelli corti e unti, quasi bagnati, mi sorride con denti falsi di metallo e mi allunga una chiave, scintilla il numero quattrocentosei.
Mi piace la sensazione dell'argento sulle dita, del legno poroso e marroncino, al tatto.
Il suo contrasto con le mie dita.

Lo ringrazio, gli stringo la mano, porgo i miei documenti
in tutta risposta mi introduce in una stanza ballatoio, balconcino
un uomo morto prende il sole tranquillo, sotto una rete da pesca
le braccia bucate e piene di tatuaggi riconoscibili ambra
ha ancora una siringa infilata, poco sopra il polso destro, spilla sangue e liquido scuro, sebo, diluito in stille granata.
mi guarda, si gode le sue prime ore di non-vita, mi guarda fisso e demoniaco, sembra in una trance di godimento o dolore, ha l'aspetto da portoricano, la pelle scura, gli zigomi paffuti e i capelli liscissimi neri, lunghi. uno scarafaggio cerca riparo sotto la sua nuca. brilla per un attimo nel sole prima di sparire.

Lui compare da dietro una porta a destra, si inchina alla me presenza, toglie la giacca e sbuffa, dal caldo. La appoggia aperta sul corpo del fortunato, per impedirmene la vista. Si preoccupa, che carino, aggrotta le sopracciglia diventando più vecchio.

Indossa una maglietta bianca tutta sudata, sotto il vestito elegante, mi prende per una mano citando versi dell'Alcesti a memoria. “Chaere, principe” è ciò che vorrei comparisse a mezz'aria
dipinto nell'aria dalla mano di un grafico sullo schermo.
Apre bocca tendendo le labbra verso il vento, forse cerca le parole giuste.
“intrappolati in un triste fandango, gireremo a vuoto battendo i tacchi sul parquet, ancora per cent'anni, forse”
punta il dito contro il latino morto “lo vedi quell'uomo, cara?”
annuisco, per farlo continuare, mi sembrava in attesa, mi sembrava
“lo vedi, bene. lui sta bene così com'è. penso abbia preso il treno un po' in anticipo, rispetto al dovuto, ma chi siamo noi per giudicare?”
Osservo intorno a me i muri grigi pieni di ragnatele, il suo sorriso mi illumina un poco, in questo contrasto fortissimo tra luce e ombra, quel tipo di chiarore al quale devi socchiudere gli occhi, per non soffrire.
L'invetriata che scorgo, scostando un po' lo sguardo oltre la ringhiera, è sporca di sangue, schizzi, macchie percepibili, strisciate di mani frettolose che cercano aria.
Lui mi tende il braccetto, per accompagnarmi dentro ancora.
“sono d'accordo. ma io non voglio finire così, principe”
“noi abbiamo un'altra strada, da seguire. E io lo so, tu sei come me.
l'ho capito subito, quando ti ho vista.
non sarei qui. Altrimenti”

Io ci credo, nel sussulto che è il tuo viso quando mi guardi.
perchè - mi guardi?
so che ogni tanto lo fai (non mentire), tanto con me non ci riesci
credi che così, trincerandoti dietro un vacuo splendore, di quello che la parole dicono, credono, o fanno, potrai salvarti? non è vero. nemmeno tu ci credi. fino in fondo.

Un cane sporco raggiunge i suoi piedi, lecca la punta di una scarpa, Lui trema per la sensazione altissima, lo schifo, non so.
fissa il pavimento, subito dopo, come a cercare qualcosa; ficca la mano in tasca, accarezzando le chiavi, il coltello a serramanico che dorme nell'anima di legno.
“ci sono giorni, in cui vedo cose bellissime” mi dice, accarezzando il dorso delle mie mani.
si accomoda su una poltrona in un angolo, con vista sul deserto, di fuori
gli siedo in grembo, tirando i lati della gonna per non scoprire le ginocchia
“queste cose, a volte, sono talmente belle da farmi piangere”si liscia i pantaloni sulle gambe, mi accarezza i fianchi, inspira il mio profumo
“immagini, no? quando te ne esci in strada e ogni cosa è lentissima, i colori sono vividi, e la vita esplode nelle sue forme più stupide e chiare. ogni scheggia e ogni sasso è la voce di una poesia più grande di te. che batte a gran voce, scuotendosi il petto, i ritmi bestiali.”
“lo capisco” concedo “ed è un problema?”
“ci sono persone, piccola mia, ci sono persone che non le vedono, queste cose. che non colgono il respiro, che non si lasciano commuovere, toccare, travolgere, dai profumi / tu li vedi? / io li vedo, quei profumi. li distinguo, gli dò colori, forme e nomi strani. li compongo nell'aria, tu le riconosci, le mie forme?”
“non sempre. ma fanno piangere anche me”
“piangere. che parola strana. vorrei non doverla pronunciare mai.”.

mentre è lì, che mi stringe nell'ombra
penso a quanto sarebbe carino che arrivasse qualcuno ad offrirci delle rose, ora.
quanto mi piacerebbe entrare in un supermercato e guardare gli scaffali, scegliere una confezione di cereali e una di burro, la carta colorata delle patatine e i biscotti leggeri alla farina di riso, da mangiare con le cose salate.

Penso che mi basterebbe addormentarmi qui, con la testa poggiata sulle sue spalle forti. sognare i profumi e i colori di cui mi parla, lasciarmi sradicare da terra dagli striscioni dipinti delle pubblicità, le tinte febbrili dei vestiti nelle vetrine.
spingere a lato dai passanti, mano nella mano con il principe degli stupidi.
penso che gli alberi e i neon non sarebbero cose nuove per me.
uguale natura al pareggio finale delle necessità.

L'intensità, a tenere gli occhi aperti
(sì, in questo ha ragione)
a volte, mi costringe a crollare a terra, in ginocchio
pregarti di fermarti, fermare tutto, per un attimo.
o altrimenti piangerò, sarò costretta a piangere.

In fin dei conti, è quello che faccio / no, non me ne importa niente di salvarmi. non ora.
allora glielo dico “non mi importa niente di salvarmi, non ora”
“ma non posso rinunciare al mio sangue freddo. senza quello rischio di perdermi davvero”

“non ce n'è bisogno, zuccherino
io sono qui apposta, adesso.”
“cosa intendi?”
“se volessi prendermi il tuo autocontrollo
entrerei di mattina, in punta di piedi. a baciarti tra le lenzuola.”
“e invece?”
“e invece me ne sto qui, nel silenzio. senza urla. sempre prima che il sole sorga”
“...”
“non vorrei bruciarmi”

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