No Woman No Cry.

di _Frency_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nesta Green. ***
Capitolo 2: *** Do You Remember Us? ***
Capitolo 3: *** Another World. ***
Capitolo 4: *** Again. ***
Capitolo 5: *** Lucky You. ***
Capitolo 6: *** We are. ***
Capitolo 7: *** Fight. ***
Capitolo 8: *** Escape. ***
Capitolo 9: *** Trust Me. ***
Capitolo 10: *** Broken. ***
Capitolo 11: *** Under The Blue Sky. ***
Capitolo 12: *** If I Fall... Down. ***
Capitolo 13: *** We Aren't A Lie. ***
Capitolo 14: *** Don't Leave Me Alone. ***
Capitolo 15: *** America. ***
Capitolo 16: *** No Woman No Cry. ***



Capitolo 1
*** Nesta Green. ***


No Woman No Cry



Capitolo 1: Nesta Green.

§

Nesta Green. Già per il nome ai quattro ragazzi era apparsa una tipa strana, una di quelle ragazze che difficilmente incrociavi per strada. Averla incontrata in ospedale, quindi, aveva fatto di lei un personaggio ancor più singolare. Le stranezze stavano sia nel suo aspetto che nel suo carattere. Soprattutto in quest’ultimo. Ognuno aveva pensato la sua vedendola la prima volta, quando la barella candida su cui era stesa, trasportata da due robusti infermieri, gli aveva superati nell’atrio dell’ospedale. Sembrava una questione seria, non certo un semplice svenimento. Non aveva una bella cera, quella piovosa mattinata di marzo. Sembrava un leoncino spelacchiato, con quella massa di capelli rasta sparsi scompigliatamente sulla barella, fradici e gocciolanti di acqua. La pelle, che avevano immaginato biscottata dal sole, era bianca come il latte, innaturalmente grigiastra quasi. Le labbra piene erano screpolate, gli occhi strizzati convulsamente sotto le palpebre. Il corpo scosso dai tremiti. Ecco come si era presentata ai loro occhi Nesta Green, per loro semplicemente La Strana, ancora senza nome nei loro cuori.

Bill Kaulitz era stato ricoverato a fine marzo del 2008, a causa di una ciste presente nelle sue corde vocali, che gli impediva il corretto uso della voce. Tom, il suo fratello gemello, non lo aveva mai perso di vista, facendogli sentire tutto il suo affetto. Lo stesso era stato per Georg e Gustav, sempre pronti a offrirgli il loro sostegno. Poi c’era stata mamma Simone, Andreas e David, e addirittura i più intimi conoscenti all’interno della troupe.

Durante gli stessi giorni, era stata ricoverata Nesta Green. La prima volta in quell’ospedale, ma certo non la prima in tutta la sua vita. La causa del suo ricovero? Un principio di overdose. Era arrivata ad un passo dal rischiare seriamente la pelle. Il problema? Non era la prima volta.
Per lei niente fratelli o sorelle, niente genitori in lacrime, niente amici o amiche. Niente conoscenti. Nessuno. Non un  mazzo di fiori aveva ornato la spoglia e fredda camera dell’ospedale, non un sincero sorriso aveva illuminato le sue giornate. Era stata ricoverata per meno giorni del cantante, essendo priva di soldi per garantirsi l’assistenza sanitaria. L’unico motivo per cui l’avevano trattenuta più del dovuto era stata la compassione che aveva mosso medici e infermiere, desiderosi di non rigettare nelle braccia della morte certa l'ennesima ragazza. L’ennesima bambina cresciuta troppo in fretta.

Tom aveva incontrato Nesta nel bar dell’ospedale, la seconda volta dopo circa quattro giorni. L’aveva vista seduta, da sola, ad uno dei piccoli tavolini bianchi. Aveva una tazza stretta tra le mani, che doveva essere assai calda a giudicare dalla sottile scia di fumo che rilasciava. Lo sguardo di lei era perso nel vuoto. Ne aveva scorto gli occhi, e il loro colore intenso: verde. Verde come smeraldi, come i prati in primavera, come la speranza. Lei, la ragazza senza nome dallo sguardo assente, aveva dei meravigliosi occhi verdi speranza. Una speranza così forte e disarmante da palesarsi in tutta la sua meraviglia. E tutta la speranza che celava in fondo a quegli specchi smeraldini sembrava aver abbandonato il suo corpo, per andare a rifugiarsi solamente nei suoi occhi chiari.

Non l’aveva visto arrivare; non aveva visto nessuno. Aveva continuato a fissare un punto imprecisato di nulla, oltre le spalle del ragazzo. Le ci era voluto qualche istante per mettere a fuoco la figura del ragazzo dalla sua medesima conciatura. L’aveva fissato, assente. E lui aveva deciso di interpretare quella totale mancanza di espressione come una gran voglia di essere lasciati in pace.
Il terzo incontro tra Nesta Green e i quattro membri della band aveva avuto luogo in un corridoio, ad un orario assai improbabile come le sette di mattina. Era passata quasi una settimana. Sei giorni durante i quali i ragazzi erano stati sommersi di lettere dirette a Bill, in cui auguravano al cantante una pronta guarigione e lo sommergevano degli usuali complimenti/dichiarazioni d’amore. Il ragazzo si era mostrato desideroso a livelli quasi patologici di sgranchire le lunghe gambe e di cambiare aria. Il fratello e gli amici non seppero dire di no a quegli occhi da cucciolo e a quel labbrino tremante. Decisamente, non seppero resistere. Come al solito.

Lei aveva indossato, per la prima volta da giorni, i suoi abiti di quando l’avevano raccattata dalla strada in preda al delirio. Un paio di jeans stracciati a vita bassa, decisamente grandi per il suo bacino stretto, e una maglia a righe rosse, gialle, verdi e nere. La felpa scura che portava sopra era slacciata e le maniche arrotolate mostravano una quantità notevole di braccialetti di cuoio o perline ai polsi. Le Victory slacciate e sformate nere ai piedi. E quella massa di rasta scuri che le ornavano il capo, tra cui ora notavano alcune perline colorate e una ciocca tinta di verde, che le scivolava lungo il collo. Era buffa, vista così: particolare, sicuramente.
Bill, se avesse potuto parlare, avrebbe fatto uno dei suoi soliti commenti a riguardo del fatto che molte persone si lasciavano andare senza ritegno. Avrebbe criticato gli abiti poco femminili, e magari le avrebbe anche proposto il nome di un paio di negozi firmati, senza forse rendersi conto che lei faceva fatica ad arrivare a fine mese. Ma lo avrebbe fatto con un’innocenza e una tenerezza tale che lei forse avrebbe soprasseduto. O probabilmente gli avrebbe lanciato le braccia al collo, urlando come una pazza. Anche se di quest’ultima opzione Tom dubitava fortemente: non aveva mai fatto scenate simile, e gli aveva già incontrati. In realtà aveva incrociato solo lui, almeno coscientemente, e non aveva detto nulla. Anzi, pareva che nemmeno l’avesse visto.

Quella volta, però, sembrava decisamente più in forma. E anche pronta per andarsene, dopo un soggiorno quasi illegale in quel posto tutto luminoso e pulito e che odorava di disinfettante. Per la prima volta apparve loro lucida, sveglia e cosciente. Presente, e non solo con il corpo. Presente con la mente.
Tom avrebbe voluto dirle qualcosa, qualsiasi cosa. Non sapeva nemmeno lui il perché di quel desiderio, che stava diventando quasi un bisogno. Era curioso forse, tutto lì. Era desideroso di conoscere il suono della sua voce, che nonostante tutto non riusciva proprio a immaginarsi melodioso. L’associava ad un suono graffiante, stridente. Poi però le guardava gli occhi luminosi, e cominciava a richiamare alla mente una melodia malinconica e struggente. Dolce.
Contro ogni previsione, fu lei a parlare per prima, dopo alcuni attimi di silenzio durante i quali tutti e cinque avevano osservato il panorama urbano fuori dalle immense vetrate del corridoio. Le aspettative di Tom non furono deluse, non del tutto almeno.

-Ehi, sei tu quello per cui le infermiere e le dottoresse impazziscono tanto?- domandò.

La sua voce era bassa, leggermente soffocata e strascicata. Aveva un non so che di stridente, come se celasse una nota stonata tra le corde vocali e che questa le alterasse il suono della voce. Niente saluti, niente presentazioni. Tom la capiva. Era più facile saltare subito al dunque, perché perdere tempo in inutili convenevoli?
Bill annuì, sorridendo gentile, nell’impossibilità assoluta di parlare. Georg parlò per lui, anche se di solito era il gemello a farlo. Eppure, al momento quest’ultimo era troppo impegnato a osservare la ragazza che aveva difronte.

-Sì, è proprio lui. È stato operato alle corde vocali; non parlerà per un pezzo- Georg sorrise, mentre a Bill si arrossavano lievemente le guance.

-Ah, operazione eh… Fortunato- asserì lei.

I quattro la guardarono con tanto d’occhi. Di solito in quelle situazioni si dicevano cose come “Auguri, rimetti presto!” o “Vedrai, il tempo passerà in fretta, nemmeno te ne accorgerai” oppure ancora “Tranquillo, tornerai a cantare presto”.  No, lei aveva detto “Fortunato”. Era una fortuna essere operati? Beh, per certi versi magari sì, ma…

-F-fortunato? Ehm, beh, immaginiamo di sì, insomma adesso starà meglio…- provò Gustav, grattandosi la nuca.

Lei lo degnò a malapena di uno sguardo compassionevole, come se loro non potessero capire veramente. E in effetti era così, loro non potevano capire realmente. Prima ancora che scendesse un imbarazzante silenzio, Tom si preoccupò almeno di chiederle come si chiamasse.

-Green. Nesta Green- aveva risposto lei sommessamente, appoggiando meglio i gomiti al cornicione della ringhiera delle scale e tornando a fissare fuori dalla vetrata.

-Che nome particolare- aveva constato il chitarrista, mentre il fratello annuiva.

-Ompf, si vede che tua madre non era una fan sfegatata di Bob Marley come lo era la mia- ribatté lei, ma davanti a quell’affermazione apparvero solo più confusi, costringendola a spiegarsi meglio.

-Nesta era il secondo nome del famoso cantautore giamaicano-

Ecco, si spiegavano molte cose ora. Ad esempio, quella sua aria decisamente orientale, la maglia dai colori della bandiera giamaicana e quei rasta.

-E come mai sei qui tu?- domandò allora Georg, anche se nel profondo un vago sospetto l’avevano tutti. Lei rimase un attimo in silenzio, per poi rispondere.

-I medici l’hanno chiamata con un cazzo di nome: quasi un' overdose. È una minchiata. O è overdose o non lo è. Ma va beh, sta di fatto che forse avevo esagerato un po’. Tutto lì- sbottò, alzando gli occhi al cielo e arricciando 
le labbra in una smorfia.

I gemelli si scambiarono un’occhiata d’intesa. Loro l’avevano già capito che in quella ragazza c’era qualcosa che non andava.
Nesta si stiracchiò, mentre al piano inferiore riprendeva una certa vita. Si ficcò le mani in tasca, scostandosi una ciocca di capelli dal volto.

-Non penso che ci rivedremo. In bocca al lupo- fece rivolgendosi al cantante e salutandoli con un cenno della mano, mentre scendeva svelta le scale e spariva dalla loro vista.

L’incontro con Nesta Green si era rivelato una delle tante chiacchierate da archiviare sotto la voce “Interessante”, ma che certamente ben presto sarebbe andato dimenticato. Uno dei tanti incroci con persone più o meno sconosciute, il cui ricordo nel giro di qualche giorno si faceva già affievolito. Eppure, vedere quella ragazza in quelle condizioni così disperate aveva acceso un non so che all’interno del cuore dei due gemelli, che ancora una volta si erano ritrovati accomunati da pensieri ed emozioni simili. Ad ogni modo, nonostante l’interesse, avevano finito per dimenticarsi presto di lei, troppo presi dai relativi impegni.
Bill avrebbe dovuto aspettare un mese abbondante prima di poter ricominciare a parlare. Un mese che si annunciava lungo e stranamente, forzatamente silenzioso. Il gemello maggiore era convinto che Bill, anche se ne avesse avuta l’occasione, non avrebbe dialogato molto. E non sapeva se esserne felice o meno.
Il cantante afono aveva trascorso il tempo facendo fisioterapia e un sacco di terapie simili. Aveva scritto canzoni e anche semplici pensieri a proposito di quel periodo così inusuale. Aveva rivolto anche due righe alla strana ragazza, quella che aveva incontrato durante il suo soggiorno in ospedale. Georg l’aveva supportato in mille modi, dimostrando ancora una volta quanto il legame tra il più piccolo e il più anziano membro della band fosse forte. Tom spesso e volentieri perdeva la pazienza o non ne aveva la voglia di assistere il fratello con gli esercizi, anche perché la sua voglia di sentirlo nuovamente chiocciare da mattina a sera non aiutava. All’inizio aveva pensato che avrebbe gradito quel periodo silenzioso, ma ben preso si era dovuto ricredere: lui adorava i discorsi logorroici del fratello più di quanto volesse ammettere. Ecco allora che la figura del bassista si era rivelata provvidenziale: con pazienza e perizia, che non raramente aveva dimostrato di possedere, si era dato da fare. Bill gli era stato grato. Gustav, invece, aveva curato la parte fiscale della questione, tenendo a debita distanza dal cantante qualsiasi essere vivente dotato di block-notes o microfono. Con questi personaggi si era dimostrato gentile ma distaccato, sfornando una parlantina esauriente e, a tratti, quasi tagliente. Il moro, quando aveva capito che era stato il suo adorato batterista a permettergli un mese senza disturbi vari, si era letteralmente commosso. Aveva capito quanto i suoi amici e suo fratello tenessero a lui. L’avevano fatto sentire protetto, amato. E Bill sapeva che non avrebbe mai potuto ricambiare in altro modo se non prendendosi cura di loro (metaforicamente) come loro avevano fatto con lui.

Il mese era, in definitiva, passato velocemente ed egregiamente bene. Niente scleri silenziosi o verbali da parte di coloro che ancora avevano la voce. Niente capricci. Solo…tranquillità. E un’insolita e rilassata routine.
Tom, quella serata calda dei primi di maggio, aveva deciso di uscire un po’ per una passeggiata, convinto che una boccata d’aria, unita ad una di fumo, gli avrebbe fatto bene. Era soddisfatto, e piacevolmente felice. Niente impegni impellenti, meeting o interviste snervanti. Solo relax che da tempo non ricordava di aver assaporato. Si accese la sigaretta, camminando lungo una strada che costeggiava il parco vicino a casa loro. Aveva imboccato il sentierino di ghiaia chiara che attraversava tutto il parco, inoltrandosi in quel paesaggio così familiare. Il cielo terso era ancora luminoso e irradiato dai raggi del sole che tramontava, mentre un lieve soffio di vento faceva ondeggiare le foglie verdi degli alberi. Proprio queste ultime, con il colore intenso mentre venivano baciate dai raggi caldi del sole che calava, gli riportarono alla mente una cosa che pensava di aver dimenticato. Il bagliore di un paio di occhi del medesimo colore delle fronde. Così intenso e luminoso, così ricolmo di speranza.

Come si chiamava la ragazza?
Nesta Green.

Sì, quell’assurdo nome esotico se lo era ricordato il chitarrista. E si era anche ricordato del motivo, a grandi linee. Non riusciva a ricordare però il resto, o meglio, faceva una gran fatica. Rammentava come era fatta, per sommi capi: rasta ribelli, pelle ambrata sotto il pallore preponderante. Visino pulito, ma brutte occhiaie a incorniciare gli occhi. Addirittura non si era dimenticato della sua voce strana, quella voce così poco armoniosa e smielata che però lo aveva affascinato, incantandolo come la più dolce melodia. Il suo profumo faceva fatica a ricordarlo. Sotto l’odore insopportabile di disinfettante dell’ospedale, gli ricordava quello… Quello che gli sembrava si sentire nell’aria proprio in quel momento. Assurdo. Se lo stava immaginando, era poco ma sicuro. Non era possibile, si era solo fatto suggestionare. Eppure…
Spense nervoso la sigaretta sotto la suola della scarpa. Alzò nuovamente il capo, respirando a pieni polmoni. No, non era una sua impressione: lo sentiva veramente quell’odore dolciastro e penetrante. Proveniva da poco distante, precisamente da un albero alla sua destra, qualche metro più avanti, dietro a cui intravedeva una figura.

Gli sembrava di essere tornato un bambino, quando con il nasino all’insù fiutava l’aria profumata di biscotti provenire dalla cucina. Allora andava a chiamare Bill, solitamente chiuso nella loro stanzina a comporre versi, e insieme facevano un’incursione in pieno stile Kaulitz in cucina, riempiendosi i palmi delle manine di quelle meraviglie più che potevano. Si rifugiavano poi a sgranocchiare il bottino in camera, sotto il letto, finché mamma Simone non li scopriva e fingendosi arrabbiata gli rimproverava, senza però impedire ad un sorriso dolce di incorniciarle le labbra. Allora li tirava su, spolverava le loro magliette da polvere e briciole, e tirandoseli dietro imbastiva una bella merenda sotto l’albero del giardino. Peccato che l’albero non fosse lo stesso, e che non ci fosse nessuna mamma e nessuna appetitosa merenda. Tom scacciò quei preziosi ricordi, costringendosi ad archiviarli nuovamente in un angolo della mente e a concentrarsi su quell’odore. Gli pareva di conoscerlo, ma non lo associava a niente di esattamente corretto.

Mosse qualche passo, e quando fece il giro del tronco imponente dell’albero per vedere che cosa celasse dall’altro lato, rimase alquanto stupito. Nesta Green, una sigaretta stretta tra le dita della mano destra e lo sguardo vacuo, stava appoggiata al tronco. Qualche bottiglia vuota le giaceva accanto, bagnandole la stoffa dei jeans di scuro. Un penetrante odore le aleggiava intorno.










My Space:

Ciao a tutti! :)

Sono Frency, una sfegatata Alien che si è appena decisa a pubblicare questa fan-fiction sui suoi adorati musicisti. Adoro i Tokio Hotel, e ho pensato di scrivere qualcosa di fuori dagli schemi per rendere omaggio ai miei idoli nel miglior modo che conosco: scrivendo.

Spero che questo primo capitolo sia di vostro gradimento, ci ho messo tutta me stessa.

Un'unica avvertenza, soprattutto per quanto riguarda i prossimi capitoli: non tratterà di temi leggeri questa storia, anzi. Penso che però sia importante, a volte, anche aprire gli occhi, mettere da parte feste e simili e concentrarsi di qualcosa di più attuale e, purtroppo, vicino a noi.

Grazie a chi deciderà di seguirmi.

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Capitolo 2
*** Do You Remember Us? ***


Capitolo 2: Do You Remember Us?

§

 

L’aveva squadrata sconvolto per una manciata di secondi. Lei aveva continuato ad ignorarlo, aspirando ed espirando fumo beata. Tom, per la prima volta dopo tempo, si era ritrovato incerto sul da farsi. Lui, ragazzo sicuro di sé come pochi, era indeciso su come agire. Lasciarla marcire con l’oggetto dei suoi desideri stretto tra le dita affusolate, tirarle un ceffone e urlarle di smettere di sputtanare la sua vita o aiutarla ad alzarsi e portarla nella clinica più vicina? Le prime due ipotesi le scartava a priori: lui non avrebbe mai permesso ad una persona – se era una giovane ragazza soprattutto – di buttare nel cesso la propria esistenza, e in secondo luogo lui non avrebbe mai alzato le mani su una donna. Ovvio, se non per certe cose, ma… Va beh, quello al momento non centrava e se ne rese conto immediatamente. Mordicchiandosi le labbra e torcendosi le mani nervoso, prese la sua decisione.

-Nesta- provò a chiamarla, sperando che non fosse eccessivamente fatta. Lei alzò lo sguardo vacuo verso di lui, che represse a fatica un istintivo ribrezzo per quelle pupille dilatate e quegli occhi arrossati.

-Nesta, mi senti?- continuò, inginocchiandosi davanti  a lei. La ragazza rimase un istante silenziosa, per poi scoppiare a ridere isterica; una risata vuota che feriva le orecchie di Tom.

-Ahahah, e tu chi saresti? Ahahah, che strano!- quasi gli urlò in faccia Nesta, facendo ciondolare il capo. Il ragazzo si diede del deficiente solo per aver sperato che lei interagisse con lui in maniera civile. Afferrò il cellulare dalla tasca dei jeans, componendo svelto il numero di David Jost.

-David, ho un problema e non sapevo chi chiamare- disse, il tono grave della sua voce solitamente baldanzosa che fece incupire il sui interlocutore.

Due ore dopo, quando Nesta riprese coscienza, si ritrovò l’ormai nota stanza sconosciuta davanti agli occhi. Aveva un mal di testa tremendo, e un insopportabile formicolio che le intorpidiva tutti i muscoli. Avrebbe voluto vomitare, chiudere nuovamente gli occhi e sparire. Nesta avrebbe voluto letteralmente sparire. Cercò di mettere a fuoco l’ambiente che la circondava: una stanza piuttosto grande, luminosa e calda nonostante fuori fosse buio. Non fredda come le usuali camere d’ospedale, puzzolenti di disinfettante. Era una stanza in cui il calore della lampada accanto al comodino si diffondeva, e permetteva di scorgere le tenebre fuori dalla finestra. Le lenzuola erano profumate di bucato, di un bel giallo sole. Per il resto la stanza era abbastanza banale: un paio di quadri astratti alle pareti e un armadio a muro difronte al letto.
Quello che successe dopo, però, la lasciò abbastanza perplessa.

Dapprima era entrato un uomo dalla chioma brizzolata e il gli occhi celesti, così chiari da apparire biancastri. Indossava un camice bianco. Era entrato silenziosamente, pensando probabilmente che non si fosse ancora svegliata. Quando però incontrò il suo sguardo smeraldino le sorrise con calore e distacco allo stesso tempo. Si avvicinò nuovamente alla porta, sporgendo la testa fuori dall’uscio e facendo cenno a qualcuno di entrare. Era un uomo giovane, dallo sguardo agitato e i movimenti nervosi. Le aveva lanciato un’occhiataccia fugace, non esattamente amichevole. Solo astiosa e snob. Avevano confabulato per un paio di minuti, cercando di non farsi udire troppo da lei. Dal suo canto, lei era troppo stanca per preoccuparsi di quello che si stavano dicendo, anche se molto probabilmente la riguardava da vicino. Dopo un po’, l’uomo che intuì dovesse essere un medico le andò vicino, sedendosi al bordo del suo letto.

-Buonasera, signorina-

Signorina? Scherziamo?

-Come si sente? Io sono un medico, è in buone mani- aveva un voce che non le piaceva. Troppo falsamente apprensiva e accondiscendente. Troppo professionale. La voce di un medico. E lei odiava i medici.

-Ho passato momenti migliori- rispose sbuffando e cercando di tirarsi su, poggiando la schiena alla testiera del letto.

-Lei lo sa, vero, perché è stata… “ricoverata”- mimò un paio di virgolette quando pronunciò la parola ricoverata.

-Ancora? Boh, no, ad essere sincera non lo so-

-Uno dei miei ragazzi l’ha trovata che stava delirando in un parco. Stava fumando. Non erano sigarette- intervenne l’altro uomo, quello nevrotico.

Uno dei suoi ragazzi? Ma che caz…?

Ebbe come un flash: il parco, il ragazzo di cui non riusciva a mettere a fuoco il volto, poi tutto si era fatto nero.

-Ah, ci sarò andata un’altra volta un po’ troppo pesante- disse dopo qualche istante, per poi porre la domanda che le premeva di più.


-Dove sono?-

La sua era una specie di ossessione: odiava trovarsi in posti sconosciuti, odiava non sapere dov’era.

-È a casa mia- disse l’uomo –Vicino al parco dove è stata trovata-

Ecco, ora almeno sapeva che si trovava a parecchi minuti di strada da casa sua. Tutt’altra parte, decisamente. Pieno centro, quando lei invece abitava in periferia.

-Quando posso andarmene?- chiese, facendo oscillare lo sguardo da uno all’altro.

-Anche subito, per quanto mi riguarda- fece l’uomo, ma un’occhiataccia del medico lo fece desistere dall’andare avanti.

-Signorina, lei ha bisogno di riposo. È letteralmente uno straccio. E deve smettere di fumare, se ci tiene alla vita- ribatté il medico. Le labbra di Nesta si arricciarono in un sorriso amaro.

Se ci tieni alla vita.

Come poteva spiegare? Lei aveva un rapporto particolare con sé stessa. Lo disse ai due uomini, che rimasero alquanto sorpresi e stupiti.

-Ad ogni modo, David si preoccuperà di ricondurla a casa domattina stessa- disse, ma da come lo squadrò allibito quello che doveva chiamarsi David non ne avevano discusso precedentemente.

-Cosa?! Ho degli impegni con i ragazzi io domani, non posso certo saltarli per fare da taxista a questa donna- quasi urlò, e lei fece di tutto per sopprimere
un’espressione sofferente dovuta al mal di testa martellante.

-Non c’è problema, andrò a piedi- fece lei risoluta. Il medico avrebbe voluto ribattere, ma dall’espressione fredda di lei preferì lasciar perdere.

-Vuole avvertire i suoi genitori, magari? O qualcuno, un parente, un’amica…- disse semplicemente l’uomo brizzolato.

-Non ce n’è bisogno. Grazie- fece Nesta, smorzando qualsiasi altro tentativo di conversazione.

Poco dopo entrambi erano usciti, lasciandosi dietro una stanza buia e una ragazza silenziosa.

Vuole avvertire i suoi genitori, magari?

In effetti, non le sarebbe dispiaciuto risentirli. Ma era un desiderio tanto lieve quanto irrealizzabile. Chissà dove erano… Avrebbe di gran lunga preferito contattare sua sorella Jacqueline. O magari suo fratello Christian. Con lui c’era sempre stato un rapporto particolare, si erano sempre capiti al volo. Forse era perché erano nati a soli due anni di distanza, mentre Jacqueline era decisamente più matura di loro due. Voleva bene a quella strana famiglia che si ritrovava, dove tutti loro si aiutavano l’un l’altro, per il semplice motivo che non avevano nessun’altro… se non sé stessi. Non avevano colpe se erano nati in un mondo dove per quelli come loro non c’era spazio. Era semplicemente andata così. Le vennero in mente i sorrisi luminosi delle piccole gemelle, e immaginò le loro vocette squillanti mentre le domandavano come mai non era tornata quella sera, come mai non avevano ricevuto il loro bacio della buonanotte che dato da lei era ancor più speciali, secondo loro.
Avrebbe voluto appisolarsi, giusto per evitare di pensare e giungere così a conclusioni poco piacevoli. Aveva chiuso gli occhi da nemmeno dieci minuti, quando un bisbiglio concitato proveniente da dietro la porta della sua camera la fece svegliare. Sbuffò infastidita, sperando che non fossero nuovamente il dottore e l’uomo nevrotico. Non sapeva se c’era qualcun altro in quella casa. Rimase sorpresa, perciò, quando non una, ma ben quattro teste fecero capolino dalla porta. Sgranò gli occhi, riconoscendo in quei visi qualcosa di familiare.

-Nesta!-

L’esclamazione proveniva dal ragazzo che riconobbe avere la sua stessa capigliatura.

-Ci conosciamo?- chiese ironica, ben sapendo che in qualche maniera lei e quei quattro avevano già avuto modo di conoscersi.

-Non ricordi? Siamo i ragazzi dell’ospedale- fece allora Georg, rivolgendole un bellissimo sorriso, che però sembrò non sfiorarla nemmeno.

-Ah, quelli famosi… L’operato dov’è?- fece sarcastica.

La capigliatura voluminosa e corvina del cantante sbucò da dietro la spalla del fratello, con cui sembrava essersi voluto proteggere da chissà quale male. La salutò con un cenno della mano inanellata, stendendo le labbra in un sorriso stranamente timido per i suoi standard. Probabilmente non lo avrebbe mai ammesso, ma quella ragazza lo metteva in soggezione per il semplice fatto che non sapeva che cosa aspettarsi da lei. Era strana, particolare, bizzarra: non importava a quale aggettivo pensasse, alla fine gli unici tre che riusciva ad associare a lei erano quelli. Bill, poi, faceva una discreta fatica a guardarla negli occhi. Non riusciva a sentirsi a suo agio, lo metteva in soggezione con un’occhiata e lo faceva sentire piccolo e insignificante nonostante il metro e ottanta abbondante di statura. Era come se si sentisse soffocare ogni volta che cercava di osservare quegli occhi smeraldini: forse per il colore, forse per il taglio leggermente allungato che li facevano apparire più grandi, forse per la scintilla che li animava. Tom, invece, a contrario del gemello non riusciva a smettere di perdersi nel suo sguardo.

-Non parla ancora?- domandò, rivolgendosi a Georg.

-Teoricamente ormai potrebbe, ma preferiamo aspettare qualche altro giorno, vogliamo tutti essere sicuri che non gli succeda nulla: sarebbe una disgrazia- rispose il bassista, mentre gli altri annuivano con cenni del capo.

-Umm… Non è che mi spieghereste un po’ bene come mai mi trovo qui? E come mai anche voi ci siete? È casa vostra?- domandò ancora.

Gustav rispose per tutti e quattro, con la sua solita calma e perizia.

-Sì, questa è casa nostra, e tu sei qui perché…-  i ragazzi si scambiarono un’occhiata d’intesa, come se avessero già pensato a una possibile risposta da darle.

-Perché quando Tom ti ha trovata al parco non stavi bene per nulla. Avevi bevuto e fumato parecchio, a quanto dicono David e il medico- finì di spiegare il batterista, mostrando un espressione di disapprovazione. Come al solito, Nesta non ne parve assolutamente toccata.

-Ah, solita routine!- esclamò, in un forzato tentativo di sdrammatizzare.

-Nesta, tu non stai bene, lo sai?- provò Tom, un tono che andava tra l’insolitamente premuroso e il convincente.

Come quando parli con un bambino piccolo, e con voce flautata cerchi di convincerlo che tutto ciò che esce dalle tue labbra è la verità, e che deve fare esattamente come dici. Avrebbe funzionato, se solo Nesta non fosse stata una ragazza di quasi vent’anni particolarmente incline a fregarsene altamente di tutto ciò che gli altri le consigliavano. Figurarsi poi uno sconosciuto.

-E tu sai che nemmeno ti conosco? Chi sei per fare certe insinuazioni?- sputò velenosa, facendolo stringere i pugni rabbioso per l’affronto. Lui, che aveva anche cercato di essere gentile con lei!

-Dovresti ringraziarmi, visto che potresti essere in coma etilico a quest’ora, o magari di nuovo in clinica per intossicazione!- ringhiò, avvicinandosele. Bill cercò invano di afferrarlo per un lembo della t-shirt.

-Oh, vuoi anche che mi prostri ai tuoi piedi, umm? Non te l’ho chiesto io di pararmi il culo così spudoratamente! Sei anche un ingenuo, avrei potuto essere una pazza psicotica che ti avrebbe picchiato fino a farti divenire irriconoscibile quell’odioso faccino che ti ritrovi!- ribatté lei, facendo allarmare gli altri tre per la foga che aveva messo in quel discorso.

-Avresti potuto essere una pazza psicotica? Tu sei una pazza nevrotica, e per giunta cannata di brutto!-

Lei assottigliò paurosamente gli occhi, riducendoli a due lame verdi che, se avessero potuto lanciare fiamme, avrebbero arrostito il ragazzo che le stava di fronte. La scena, vista dagli occhi di Georg, Gustav o Bill, era stranamente divertente e agghiacciante allo stesso tempo: Nesta, le braccia incrociate sotto il seno e le gambe incrociate sotto le coperte, mentre tentava invano di trattenere la sua furia omicida verso il chitarrista. Quest’ultimo, invece, stava in piedi vicino ai piedi del letto, le braccia tese lungo i fianchi e i pugni chiusi. Non avevano interrotto nemmeno per un istante il gioco di sguardi che era iniziato con il litigio. Nesta avrebbe palesemente ribattuto in maniera altrettanto tagliente, quando la voce di Georg li interruppe, riportando un minimo di calma.

-Ehi, ehi, frenate i bollenti spiriti. Nesta, nemmeno sai come si chiama lui! Non pretendertela troppo, è un bravo ragazzo, e noi anche. Ha semplicemente pensato che aiutarti potesse essere un gesto…carino- fece, sorridendo convincente.

Nesta non parve del tutto convinta ma, dopo un sonoro sbuffo, smise di cercare di ammazzare Tom con la sua furia. Non balbettò nemmeno mezza scusa, e lui non fu da meno.

-Bene, nel caso dovesse interessarti, il mio nome è Tom. Lui è il mio gemello Bill, e loro sono Gustav e Georg. Così sai chi ringraziare se non ti ammazzo seduta stante- sbottò il chitarrista, per poi uscire furioso dalla stanza, sbattendo la porta.

I tre si fissarono, leggermente stupiti.

-Certo che è fuori il vostro amico!- esclamò, rimettendosi comoda e passandosi una mano tra l'assurda capigliatura.

-Beh, devi ammettere che però nemmeno tu ci sei andata leggera- fece Georg, mentre Bill annuiva, difendendo a spada tratta il fratello nonostante l’impossibilità di sfoggiare la famosa parlantina.

-Ompf, non è il genere di situazioni a cui sono abituata. Anche se ormai non mi stupisco di nulla, se non della stupidità umana- fece lei, lasciandoli alquanto sorpresi.

Come poteva una ragazza del genere passare da certe perle di saggezza a parlare in una maniera volgarissima? Era estremamente contradditoria.
Qualche minuto dopo i tre levarono le tende, augurandole un buon riposo. Lei non ricambiò, ma un po’ se lo aspettarono. Si limitò ad un cenno del capo, che i tre considerarono un valido augurio di sonni tranquilli, soprattutto se fatto da una ragazza come lei. 










My Space:

Ciao gente! :)

Eccomi con il 2° capitolo, che spero sia stato di vostro gradimento. Ecco che si fa luce su un lato di Nesta: il suo carattere scorbutico e la sua insolenza. Bel caratterino la ragazza, eh? ;)

Chissà, si perderanno presto di vista senza nemmeno riappacificarsi oppure succederà qualcosa che li farà incontare nuovamente? Lo scoprirete nel prossimo capitolo!

Un grazie a tutti i lettori e a tutte le lettrici, un grazie a chi ha aggiunto la storia tra le Seguite/Preferite/Ricordate. Grazie mille a 
machan per la recensione.

Alla prossima!


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Capitolo 3
*** Another World. ***


Capitolo 3: Another World.

§


Il mattino seguente c’era un bel sole, luminoso e caldo. Era una di quelle mattinate che ti mettono voglia di uscire e girovagare senza meta tutto il giorno, senza un motivo preciso.
Nesta, come suo solito, si era svegliata praticamente all’alba. Si era premurata di non fare rumore uscendo, socchiudendo la porta della stanza silenziosamente, dopo aver rifatto il letto alla meglio. Peccato che non avesse fatto i conti con il fattore David.

Il signor Jost, famoso manager della band più acclamata del momento, non poteva che dirsi una persona estremamente paziente, visto che aveva a che fare con quei quattro ragazzi da parecchi anni. Eppure, se c’era una cosa su cui si era dimostrato intransigente, era la puntualità dei ragazzi: se lui diceva un orario, ebbene era quello. E niente scuse se uno tardava. Quel mattino avrebbe portato la band un po’ in giro per la città per sbrigare alcune incombenze, tra cui interviste e servizi fotografici, per dimostrare l’effettiva salubrità del cantante a tutto il mondo. Ecco che allora i quattro Tokio Hotel erano stati costretti ad alzarsi ad un orario indecente, almeno a detta di Tom, che però si lamentava anche per il gemello, ancora a riposo con la voce. Il chitarrista si stava ancora lamentando, mentre si dirigevano verso il SUV che gli avrebbe condotti a zonzo per la città, quando aveva scorto la figura infagottata di Nesta attraversare il vialetto diretta verso il cancello.

-Ragazzi, c’è Nesta- fece dopo qualche istante Georg, accortosi anche lui della presenza della ragazza.

Tom si limitò ad un grugnito che fece sorridere il gemello a mezze labbra; intanto sia il bassista che Gustav le andavano incontro. Il chitarrista avrebbe voluto sbattere la testa da qualche parte, pur di non essere costretto a quella tortura. Perché proprio lei? Perché, accidenti, perché l’aveva voluta aiutare? Con il senno di poi l’avrebbe lasciata a marcire in quel parco, sola. Si sentiva salire la nausea anche solo a pensare certe crudeltà, ma lei aveva la straordinaria capacità di mandare a quel paese il suo autocontrollo. Con anche grande, grandissima grazia.

-Nesta, te ne vai senza salutare?- disse Gustav sorridendo alla ragazza, che esibiva una delle sue espressioni torve di circostanza.

-Ompf, speravo, ma dal momento che vi ho incontrati non penso di potermene andare senza ringraziare- ribatté lei, un mezzo sorriso tirato a incorniciarle le labbra.
Era strano, si era ritrovato a pensare Bill, come quella ragazza si trovasse in evidente imbarazzo anche solo a ringraziare. Perché era così: a prima vista si sarebbe potuto dire che il suo fosse menefreghismo verso coloro che l’avevano aiutata, e invece no, era imbarazzo. Nonostante l’incarnato più scuro del loro, il cantante aveva chiaramente visto le guance di lei tingersi di un lieve rossore.

-Non c’è di che, è stato un piacere- fece Georg.

Nemmeno Bill avrebbe saputo ostentare una faccia da schiaffi simile probabilmente, ma il bassista sembrava cavarsela proprio egregiamente. Sembrava quasi… sincero.

Sincero.

Tom rabbrividì al solo pensiero, stringendosi nelle spalle e reprimendo un moto di stizza. Gustav, purtroppo, non fu da meno, e anche suo fratello parve tradirlo quando accennò un sorriso alla ragazza. Dagli sguardi eloquenti dei compagni e da quello fintamente paziente di lei, era palese che cosa si aspettassero da lui. Le rifilò un’occhiataccia, odiandola per la sua espressione di beata attesa, mentre già sapeva pregustare quella sottile vendetta, la soddisfazione di vederlo addirittura scambiarle qualche convenevole. Non le avrebbe mai detto qualcosa anche lontanamente simile a: “Oh, è stato un piacere, figurati! Guarda, mi ha fatto così piacere che magari potresti farti trovare ubriaca in un parco più spesso!”

Mai. No, piuttosto…

Non ricordava che Bill avesse una tale forza fisica in quelle esili braccine, ma quando lo spintonò con ben poca grazia verso Nesta non ebbe dubbi: di energia il gemellino malato ne aveva, eccome.

-Allora, qualcosa da dire, bello?- ghignò lei.

Sì, sei la più grande stronza che io conosca. Contenta?

-No, in effetti no. Tu non avresti qualche ringraziamento da fare?- sibilò Tom, beandosi della propria prontezza nel trovare una risposta adeguata per quella smorfiosa altezzosa. Nesta gli rifilò una delle sue occhiate assassine, prima di girare i tacchi e incamminarsi verso il cancello.

-Certo che sei pessimo, lasciatelo dire- biascicò Gustav, mentre salivano in macchina.

-Gus, ti prego, non è il momento- ringhiò il chitarrista, mentre dal finestrino seguiva la figura di lei che si incamminava verso una meta a lui sconosciuta.

Se però quella meta era ignota al ragazzo, era ben chiara nella mente della ragazza. Casa. Praticamente un altro mondo rispetto a quello in cui era stata catapultata per due giorni scarsi. Se ne rese conto quando finalmente raggiunse il suo quartiere. Se c’era qualcosa che accomunava tutte le grandi città o metropoli, era la presenza di due mondi che vivevano a stretto contatto, senza però mescolarsi. Quello dei quattro musicisti era un mondo, fatto di meraviglie, sogni realizzabili e speranze. C’erano bei quartieri, curati e pieni di persone raramente tristi, sempre con un bel sorriso sul volto, perché la vita gli arrideva. Poi c’era il suo mondo. Un mondo diverso, popolato da ombre. Come lei. Ombre scure che girovagavano senza meta, senza sogni e ambizioni. Pochi riuscivano ad andarsene, a scappare, a ricostruirsi una vita al di fuori di quelle mura invisibili, che però opprimevano e soffocavano. Pochi riuscivano a realizzare i propri sogni. A fare come i grandi talenti, a costruirsi un tutto dal niente. E allora nascevano persone nuove, che attraverso la propria arte denunciavano la propria condizione al mondo. Cercavano di far aprire gli occhi a tutte quelle persone che li tenevano serrati, che preferivano non guardare in faccia la realtà, perché troppo crudele e spietata. Vera. Ad ogni modo, Nesta non faceva parte di quel ristretto gruppo di abitanti del ghetto, come lo chiamava lei. No, lei si definiva realista. E pensava che no, a nulla sarebbe servito cambiare il mondo, perché tanto il mondo avrebbe cambiato loro poco a poco.

Nesta abitava al confine della periferia, ai margini più remoti della città. Non era proprio definibile un quartiere vero e proprio, il loro. Erano un labirinto di viuzze strette e sporche, dove si ammassavano case e baracche di fortuna ai lati delle strade secondarie. Era una zona caotica e silenziosa al tempo stesso, piena di contraddizioni. Non vi abitava una sola famiglia definibile tale. Per quanto potesse sembrare assurdo, era proprio Nesta una dei pochi ad avere un qualcosa che assomigliava molto ad una famiglia. E, nonostante lo celasse accuratamente, ne era felice.
Il condominio di cinque piani non se lo ricordava tanto decadente, ma l’immagine della sua casa che aveva davanti non era mai stata rassicurante. Il vecchio palazzo era un porto sicuro, dove c’era tutto quello a cui poteva ancora aggrapparsi. C’era tutto ciò che la teneva ancorata al suolo, che le permetteva di non commettere mosse eccessivamente azzardate. O almeno così le piaceva pensare.
Non aveva fatto in tempo a mettere piede in casa che due piccoli tornadi biondi e riccioluti l’avevano investita con la loro allegria. Aveva sorriso, con fare stranamente dolce, inginocchiandosi all’altezza delle due sue adorate pesti. Queste due non avevano ancora smesso di ripetere il suo nome in coro, riempiendola di piccoli umidi baci e carezze sui capelli.

-Sei tornata, sei tornata!- le vocette stridule delle gemelle le riempivano la testa, stordendola piacevolmente.

-Ahah, sì, adesso sono qui!- arruffò affettuosa le testoline bionde delle sue stelline. Erano bellissime, almeno ai suoi occhi. Erano delicate, con quei capelli ricci così stranamente chiari, che però accennavano già a scurirsi nelle punte. Avevano il suo stesso incarnato e qualche lentiggine sulle guance, ma gli occhi di entrambe erano di un bel color cioccolato, caldo e avvolgente. Ovviamente, erano lo specchio l’una dell’altra.

Le stava ancora coccolando e riempiendo di dolci sorrisi, quando, alzando gli occhi, incrociandone un paio incredibilmente scuri. Un sorriso sghembo le increspò le labbra. Depositò un bacino sulla fronte di ciascuna bambina.

-Daphne, Denise, perché non andate un attimo in camera, così quando torno giochiamo, umm?- fece con voce gentile, che convinse subito le due bambine a fare come diceva la sorella. Una volta scomparse nella stanza affianco, si rimise in piedi, lasciandosi scappare un sospiro.

-Pensavo che fosse successo qualcosa di grave anche questa volta- sbottò il ragazzo, appoggiato a braccia conserte allo stipite della porta che dava sul salotto.

-È il tuo modo carino di dirmi che ti sono mancata?- domandò, avvicinandosi a lui, che la sovrastava di parecchi centimetri in altezza. Lui sorrise, mostrando una fila di denti bianchissimi.

-Se ci tieni a saperlo sì, mi è mancata la tua voce assillante e il tuo muso perennemente incazzato- sbottò lui.

-Ahah, sì, la stessa cosa vale per me Chris- ribatté, permettendosi di abbracciarlo, in un moto di fraterno affetto.

Si erano messi a parlare ininterrottamente, a bassa voce, per non essere uditi dalle gemelle che si erano rimesse a giocare con le bambole nella loro cameretta. Adorava confessarsi con suo fratello Christian, lo reputava l’unica persona veramente in grado di fornirgli consigli utili. Era un ragazzo intelligente, la cui sfortuna più grande era stata nascere in una famiglia non in grado di sostenerlo nella sua passione per lo studio. Così aveva lasciato presto perdere, capendo che per lui non c’erano possibilità. Di nascosto, però, quando lui e Nesta erano ancora piccoli, le spiegava con passione tutto quanto riusciva ad apprendere. E Nesta ascoltava, ascoltava incantata. Poi le cose erano precipitate, e avevano dovuto fare i conti con problemi più impellenti e grandi di loro.
Adorava suo fratello perché era un ragazzo sveglio, dalla fantasia fervida. Perché suonava la vecchia chitarra classica con grazia e struggente malinconia. E perché l’ascoltava sfogarsi senza proferire parola. Lo adorava perché era libero, come lei. E perché le voleva bene, senza chiedere nulla in cambio.

Nesta era anche gelosa del suo fratellone, perché era sempre stato un bel ragazzo, e tutte le donne gli morivano dietro. E le capiva, eccome. Ma le voleva morte ogni volta che le vedeva appese al braccio del suo Chris. Nesta desiderava che gli occhi scuri e luminosi di suo fratello fossero solo per lei, e al massimo per le altre loro sorelle. Voleva poter essere l’unica a giocare con quei riccioli scuri che erano i suoi capelli, e voleva lasciare tale onore solo alle gemelle, che vi andavano matte quanto lei. Aveva visto raramente Christian lasciarsi coccolare da Jacqueline, ma sapeva che fino a qualche tempo addietro anche la sorella maggiore si era lasciata scappare una carezza su quella chioma meravigliosa.

Nesta sapeva di far parte di una famiglia strana, ma amava ognuno di loro. E sebbene tutti, a parte le piccole, fossero restii a mostrare tali debolezze, come le definivano loro, finivano sempre per lasciarsi andare quando erano al riparo da occhi indiscreti. Ad ogni modo, anche quei rari attimi finivano presto, e loro tornavano scorbutici e casinisti come al solito. Quella mattinata, però, Nesta aveva deciso di abbassare la sua barriera, e aveva raccontato al fratello della sua (dis)avventura.

-E chi sarebbero questi?- stava chiedendo lui, mentre la sorella si preparava un caffè con la vecchia macchinetta.

-Mah, un gruppo che fa impazzire la popolazione di mezzo mondo. Forse hai sentito qualcosa in radio, in questi giorni- disse lei, armeggiando con i fornelli nella stretta cucina.

-Beh, ad ogni modo dovrei ringraziarli per aver salvato la vita alla mia Marley- ribatté lui, preparandosi alla sua occhiataccia, che non si fece tardare.

-Quante volte ti ho detto di non chiamarmi con quel nomignolo idiota?- ringhiò, sorseggiando il caffè amaro. Cercò di bearsi di quel sapore forte, di non pensare a nulla almeno per qualche minuto.

-Ascolta, io esco. Ci pensi tu alle bambine, vero?- chiese dopo un po’ Christian.

-Certo. Non combinare cazzate- si raccomandò lei, mentre lui la mandava elegantemente a quel paese, facendola sogghignare.

La mattina era passata svelta. Durante il pranzo sia da Daphne che Denise l’avevano stordita di chiacchiere, e poi l’avevano riempita di domande su dove fosse stata e sul perché non fosse tornata a casa. Lei si divertì ad arricchire un po’ la vicenda, infilandoci improbabili fatine che le avevano permesso di farla tornare a casa sana e salva. Nemmeno a dirlo, le due si erano divertite un mondo a sentirla raccontare. Nesta era consapevole del fatto che loro due fossero le uniche con cui si permetteva di fantasticare su realtà inesistenti, con cui cercasse di non essere così rigida e realista.

-Hai detto grazie hai quattro cavalieri quanto ti sei svegliata? Hai dato loro un bacino come fa la Bella Addormentata?- chiese Denise ad un certo punto, che tra le due era la più romantica, mentre finivano di sparecchiare.

Nesta sorrise, immaginandosi la scena.

-No, non gliel’ho dato un bacino, perché io non sono gentile come la Bella Addormentata. Però gli ho detto grazie- disse, mentre finiva di asciugare i piatti sporchi.

-Dovresti! Le principesse sono gentili- aveva ribattuto Daphne, incrociando le braccine al petto.

-Ah, davvero?- fece lei, prendendole per mano entrambe –Beh, le principesse vanno anche a fare un riposino quando c’è troppo caldo, sapete?-

Le guidò nella cameretta, abbassando la scricchiolante tapparella per non lasciare filtrare troppa luce.

-Su, a nanna- disse, aiutandole a sistemarsi nel letto a castello e rimboccando le coperte prima ad una e poi all’altra. Uscì dalla stanza in silenzio, socchiudendo la porta dietro di sé.







My Space:

Eccomi! ;)

Spero di aver soddisfatto, almeno in parte, la vostra curiosità.

In questo capitolo i quattro TH ci sono decisamente poco, ma prometto che mi rifarò nel prossimo! :)

Grazie mille a tutte le ragazze per le belle recensioni che mi hanno lasciato. Un grazie anche a chi segue, a chi preferisce e a chi ricorda.

Ci vediamo tra qualche giorno, posterò il prossimo capitolo il prima possibile!

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Capitolo 4
*** Again. ***


Capitolo 4: Again.

§

 

Bill sembrava che fosse stato sottoposto ad innumerevoli supplizi per ore ed ore. Mostrava una delle sue migliori espressioni sofferenti, con le labbra increspate in una smorfia che probabilmente le numerose fans avrebbero giudicato “carina” o “adorabile”. No, a Tom in quel momento l’espressione di Bill sembrava solo snervante. E deleteria per i suoi nervi già a pezzi: sorbirsi anche i suoi mugolii e le sue occhiate disperate non avrebbero aiutato. Per niente.
Il cantante si stava contorcendo sul divano di casa – quello di pelle nera che tanto adorava – nel tentativo, probabilmente, di trovare una posizione comoda. Tom aveva messo le cuffie nelle orecchie appena aveva potuto, abbassando la visiera del cappellino sugli occhi, in un modo che il gemello aveva cominciato ad interpretare come: “Non disturbare. Mordo.” Un po’ come i cani, insomma. Eppure, in quel momento, per Bill era quanto mai difficile restare buono e zitto. Soprattutto zitto. E Tom temeva il momento in cui avrebbe ricominciato a mordere il freno per poter tornare a parlare.

La cosa era cominciata qualche giornata fa, quando avevano passato la mattina e buona parte del pomeriggio tra interviste a cui Bill aveva partecipato solo con un sorriso. Questo non aveva certo aiutato il ragazzo a sopportare ancora silenziosamente quella tortura. Voleva ritornare a parlare, a fare casino in casa e con i suoi amici e suo fratello. Voleva tornare a confidare le sue paure e i suoi dubbi al suo gemello, senza doversi servire di carta e penna, o occhiate supplicanti. Ecco una cosa che, però, si era inevitabilmente accentuata in quel periodo: gli sguardi. Sia Bill che Tom non ricordavano di essersi mai trovati tanto in sintonia tra loro – e la cosa gli stupiva piacevolmente. Insomma, tra gemelli era normale capirsi al volo, leggere nel volto dell’altro le proprie stesse angosce, le stesse gioie. Però, gli sguardi e le occhiate che avevano permesso loro di capirsi e sostenersi tacitamente in quei mesi erano qualcosa di incomprensibili anche per loro. Ma era una cosa bella, dopotutto, e le cose belle non sempre necessitano di una spiegazione logica.

In quel momento Tom non poteva certo provare come si sentisse il fratello, ma era certo che avrebbe gradito una mano da parte sua. Ed ecco che era nuovamente combattuto: come fratello maggiore – ci si può considerare davvero più grandi con solo dieci miseri minuti sulle spalle? – forse avrebbe dovuto offrirgli il suo aiuto. Lui adorava il suo Bill, e glielo aveva mostrato in tutti i modi, soprattutto in quel periodo. Nonostante questo, quell’ultima settimana era stata decisamente pesante e lui si sentiva stanco. Avrebbe voluto dire a Bill che sì, magari domani ci si sarebbero messi con pazienza ed insieme avrebbero fatto tornare nuovamente la sua voce e che no, non si doveva preoccupare di niente; che sì, avrebbe ripreso a cantare e a chiacchierare logorroico come un tempo. Però ora era stanco, e avrebbe voluto solo chiudere gli occhi, addormentarsi e risvegliarsi fresco e riposato il giorno dopo. Ma Bill lo stava fissando, ne era più che certo, anche se non lo vedeva. E lo stava guardando con quello sguardo supplicante che andava oltre l’insignificante stoffa della sua maglia e arrivava al cuore. Gli sguardi del suo gemello erano così: scottavano quando erano troppo intensi, e nessuno ne usciva indenne. Men che meno lui.

Alzò con indolenza la visiera del capellino, scostando le cuffie dalle orecchie. Alzò gli occhi, incrociandone un paio identici ai suoi, per una volta privi di trucco. Bill sorrise timido, piegando leggermente il capo con fare colpevole. Perché sapeva di aver vinto, aveva vinto un’altra volta contro la sua metà, che gli si piegava senza resistergli.

-Sai, è tanto che non mi aggiorni sulle tue idee per il nuovo album. Raccontami- disse semplicemente Tom, rivolgendogli un sorriso d’intesa.

Raccontami.

Non scrivi.

Racconta.

Le labbra sottili del cantante si piegarono in un bellissimo sorriso pieno di gratitudine.

Grazie, Tomi.
 


-Nesta, Nesta dove vai?-

Lei era in piedi davanti alla porta, mentre tentava di infilare nella vecchia borsa le chiavi, il portafoglio e il cellulare. Aveva cercato di non farsi udire dalle sorelle e dal fratello mentre usciva, ma Denise l’aveva intravista appena era passata davanti alla porta della loro cameretta.

-Fuori. Torna a letto, è tardi- ribatté bruscamente senza guardare in faccia la sorellina.

-Ma tu te ne vai…- aveva piagnucolato lei, cercando di andarle incontro. Nesta l’aveva tenuta a distanza, abbassandosi all’altezza del suo volto.

-Sì, ma poi torno. Come sempre-

-Davvero? Tornerai sempre?- aveva domandato ancora la piccolina, cercando nuovamente di abbracciarla, ma Nesta la teneva gentilmente ferma per le spalle strette.

-Sì e... no, niente abbracci-

-Perché?- aveva una vocina così supplicante e dolce che qualsiasi persona si sarebbe commossa e si sarebbe lasciata stringere da quel corpicino.

-Perché per quelli c’è Daphne. O Jacqueline, o Christian. Io non sono per gli abbracci, lo sai, perché se no dopo non riesco ad andare più via, capisci? Se ti abbraccio poi non mi stacco più-

-Umm…- aveva tirato su con il naso, sfregandosi la manina chiusa sugli occhi.

-Brava, brava la mia stellina- le aveva lasciato un veloce bacio sulla fronte, poi le aveva fatto cenno di tornare a letto.

Lei aveva eseguito, lanciando però un’occhiata indietro alla sorella maggiore, ancora in piedi davanti alla porta. Poi, dalla sua stanza, aveva sentito il portone aprirsi e richiudersi. Allora si era alzata in punta di piedi e aveva salito la scala del letto a castello, andando ad accoccolarsi contro la gemellina.


 
-Bill, adesso basta. Va bene così per oggi- aveva detto Tom, sgranchendosi le gambe fino a quel momento tenute incrociate sul divano, davanti a Bill.

Questo sorrideva felice, nonostante fosse quasi mezzanotte e sia lui e che suo fratello avessero un gran sonno. Ma erano entrambi felici, e sarebbe stato difficile dire chi di più. Il cantante era radioso, e si sentiva come se gli avessero appena tolto un peso dal cuore. Era come se gli avessero finalmente dato lo spazio per aprire le sue ali, che aveva finalmente spiegato e aveva mosso al soffiare di uno sbuffo di vento. Sentire nuovamente la propria voce con chiarezza, e non solo a stentati monosillabi, lo faceva sentire come rinato. Era come poter finalmente respirare una boccata d’aria fresca. Ed era bello, incredibilmente bello. Per lui, la cui voce era il talento più grande, era come poter tornare a guardare avanti e non vivere solo alla giornata, non sapendo se avrebbe mai potuto impugnare il microfono.

Volse lo sguardo verso Tom, non stupendosi affatto nel vederlo addormentato poco distante da dove era seduto prima. Il suo adorato fratello, che aveva lavorato così tanto per lui, per entrambi. Per non farlo sentire un peso, per farlo sentire felice e spensierato ogni giorno. Per essersi dato da fare anche nel nome dei Tokio Hotel, e non solo di Tom Kaulitz.

-Grazie- gli sussurrò, prima di rannicchiarsi al suo fianco.
 
Nemmeno Tom, se glielo avessero chiesto, avrebbe saputo dire con certezza quando la voce di suo fratello era tornata ad accompagnare la routine della band, con mal di testa e stordimenti da chiacchiere prolisse annessi e connessi. Suo fratello era così: senza la più che vaga idea di che cosa fossero le mezze misure. Bianco o nero nel mondo di Bill Kaulitz. Niente spazio per il grigio e quelle altre mille gradazioni. O caldo o freddo. Dolce o amaro. Nessun intermezzo. E nella sua mente non vi era la ben che minima idea che, forse, si stesse perdendo qualcosa.

-E poi dobbiamo andare a fare shopping Tom, assolutamente! Non sei d’accordo? Non pensi che dovremmo assolutamente dare una rinnovata al mio guardaroba? Georg tu sei grande, fai valere la tua autorità! E tu, Gustav, non eri quello convincente? Ecco, appunto, persuadi mio fratello a muoversi da quel letto!-

Fiato.

Prima o poi dovrà riprendere fiato.

Il volto di Tom parlava per lui: di certo l’espressione esasperata era facilmente associabile alla ritrovata parlantina del fratello. Il chitarrista era mollemente steso a pancia in giù sul letto, con solamente i pantaloni della tuta addosso e il joystick della Play Station in mano. Sbuffò contrariato per tutto quel chiasso e per la decisione di far salotto in camera sua, per di più quando cercava di finire quel maledettissimo gioco.

-Ascolta Bill, non che adesso perché hai ritrovato la tua splendida voce devi per forza tornare a rincoglionirci. Stiamo bene comunque, non preoccuparti- sbottò il chitarrista, soffocando una bestemmia contro il suo soldato appena caduto a terra imbottito di piombo virtuale.

Ad ogni modo il fratello non doveva aver gradito il sarcasmo nella sua voce quando aveva pronunciato le parole “splendida” e “per forza”, tanto che Tom si seppe dare una spiegazione logica quando un cuscino planò sgraziatamente sulla sua testa.

-Ma vaffan…- nemmeno finì la frase, che Bill lo gelò con uno sguardo.

-Dicevamo?- fece angelico il cantante, spostando lo sguardo sui compagni con un’ espressione di vittoria già dipinta sul volto.

La persuasione è un dono di famiglia.

I tre musicisti si scambiarono uno sguardo afflitto.

-Va bene- esalò il bassista, mentre Tom si lasciava cadere a peso morto sul letto, ringhiando snervato contro il gemello.
 
Bill amava il centro della città. In generale, lui amava le grandi metropoli perché gli piaceva perdersi tra mille luci e persone, tra negozi e ristoranti, senza avere una meta precisa da seguire. Alzava gli occhi stupefatto davanti ad ogni vetrina, sorprendendosi ogni volta di qualcosa di diverso: vestiti, scarpe, CD, dolciumi… Bill era come un bambino nel Paese dei Balocchi, che finiva sempre con il perdersi tra infinite meraviglie. Suo fratello in un certo senso invidiava quel suo lato così infantile, perché lui non riusciva più a meravigliarsi di ogni cosa appena fuori dalla norma. No, lui aveva appoggiato i piedi per terra più in fretta, permettendosi certe infantilità solo in rari momenti. Ben celati agli occhi di tutti, meno che ad uno.

-Ti piace, Tom?-

Tanto.

Erano tutti e quattro fermi davanti ad un grande negozio che vendeva strumenti e simili. Per una volta si erano ritrovati tutti e quattro coinvolti allo stesso modo, schiacciando i nasi contro la vetrina per non perdersi nemmeno un centimetro di quella meraviglia. Il chitarrista, in particolare, aveva adocchiato una tracolla che riteneva perfetta per la sua chitarra. Negli ultimi mesi, quando erano ancora in sala prove e il cantante era ancora in possesso della sua voce, sia Georg che Gustav che Bill si erano accorti del pessimo stato della cinghia della sua chitarra, tutta lisa e consunta. Bassista e batterista erano stati zitti, consci del fatto che al loro amico interessasse ben poco in che stato fosse la tracolla: l’importante per lui era che non cedesse. Il gemello, invece, non era riuscito a tenere a freno la lingua. Come previsto Tom aveva fatto spallucce, liquidando la faccenda con un “Chissene frega”. La sera dopo, però, Bill aveva scorto il fratello che, in camera sua, si passava la cinghia tra le dita con aria pensierosa. Il ragazzo sapeva perché il fratello ci tenesse tanto: gliela aveva regalata mamma Simone per il suo decimo compleanno, e lui l’aveva sempre ritenuta importantissima. Era come portarsi sempre addosso qualcosa che gli ricordasse Loitsche. Che gli ricordasse casa.

-Tom, ti va di entrare?- domandò il cantante, con voce bassa e appena sussurrata all’orecchio del fratello. Quest’ultimo annuì, con un sorrisino mal celato.

Sì, la persuasione è veramente un dono di famiglia.

Quando erano usciti dal negozio, Bill era certo di aver visto un luccichio negli occhi del gemello che da tempo non notava. Poi era stato come un flash, e il ragazzo l’aveva rivisto bambino, con quello stesso sguardo felice e spensierato. Si era compiaciuto di essere riuscito nel suo intento: far tornare bimbo, anche per un istante, il suo adorato fratello.

In macchina Tom aveva continuato a rigirarsi tra le dita il regalo di Bill. La tracolla era veramente bella, nera con delle rifiniture bianche e blu. I quattro ragazzi si erano gettati allora a capofitto in una discussione su strumenti, classificando marche e confrontando qualità. Stavano appunto chiacchierando quando Saki, che si era offerto di far loro da autista, aveva frenato bruscamente.

-Ehi, ma che succede?- fece Georg, sistemandosi la cintura che ormai gli toglieva il fiato.

-Scusate ragazzi, ma una scapestrata ha attraversato con il rosso e ormai la mettevo sotto. Certa gente…- stava giustificandosi l’uomo, ma il chitarrista aveva smesso di ascoltare. Dal finestrino era sicuro di aver visto la sagoma della ragazza che aveva tagliato loro la strada, e che ora si perdeva tra la folla.
Un solo nome gli era balenato nella mente, notando quella massa di capelli e quei jeans talmente larghi da competere con i suoi.

Nesta.








My Space:


Sono tornata!

Scusate il ritardo, ma sono stata impegnatissima durante la settimana. Chiedo venia! ;)

Allora, due brevi parole sul capitolo. Innanzitutto, Bill ritorna a parlare, e questo direi che è già un bel passo. Per veri e propri discorsi in pieno stile Bill Kaulitz temo dovrete aspettare almeno un altro capitolo, ma per il nostro adorato questo e altro, no?

Qui abbiamo anche un altro incontro con Nesta: nel prossimo capitolo ritornerà anche lei
veramente in gioco. Sinceramente, non vedo l'ora! :)

Ringrazio tutti per le bellissime recensioni, siete fantastici. Grazie a chi segue, a chi ricorda e a chi preferisce. Grazie anche a quelli che semplicemente leggono. Siete tutti importanti!

Alla prossima!

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Capitolo 5
*** Lucky You. ***


Capitolo 5: Lucky you.

§

 

Nesta non si era mai ritenuta una ragazza fortunata. Anzi, si definiva la reincarnazione dell’antitesi della fortuna. Comunemente conosciuta con il nome di sfiga. Perciò, lei si riteneva una ragazza decisamente sfortunata. Ma non come quelle smorfiosette che odiava, che vedeva passeggiare avvolte nelle loro camicette firmate, mentre si definivano le ragazze più sfigate della Terra perché il ragazzo a cui filavano dietro non le degnava di uno sguardo. No, quella non era sfortuna. E lei avrebbe voluto urlarlo in faccia a quelle ragazzine, senza la benché minima idea di cosa volesse dire essere persone prive di una buona stella che protegge. Lei si riteneva una ragazza sfortunata per vari motivi. Tra cui l’assenza di una vera ragione per la quale svegliarsi ogni giorno.

Nell’arco di cinque minuti, però, alla lista dei motivi per cui definirsi sventurata si era aggiunto l’essere quasi investita da un SUV nero e scintillante. Aveva imprecato sottovoce, mordendosi le labbra con i denti e serrando le mani sulla stoffa dell’orlo dei jeans. Lei odiava il centro delle città nella maniera più assoluta: troppi colori, troppe persone, troppo caos. A lei piaceva la solitudine, il silenzio. E quello il centro di una grande metropoli non glielo poteva offrire.
Il solo motivo per cui si era ritrovata a dover percorrere i marciapiedi che fiancheggiavano le mille vetrine luccicanti era la fame. Non la fame intesa come bisogno di riempirsi lo stomaco, no. Fame intesa come bramosia di soddisfare una necessità del suo organismo, già rimandata per troppo tempo. E per sfamare il suo povero corpo liso interiormente doveva procurarsi la sua medicina. Decisamente poco ortodossa, ma efficacie. Almeno a sua detta.

La banda dei suoi amici si trovava sempre nel seminterrato di un palazzo poco distante dal fulcro della città. Era uno di quei palazzoni vecchi, costruito almeno un secolo prima, con i muri scrostati e le inferriate di ferro battuto alle finestre. Aveva solo quattro piani, e tutti e quattro ospitavano famiglie più o meno benestanti. Tra queste, vi era quella di uno dei componenti della loro banda. Era arduo anche per la stessa Nesta definire le persone appartenenti al loro gruppo “amici”. Era una forzatura bella e buona, e tutti lo sapevano. Gli amici, normalmente, si vogliono bene. Si proteggono. Hanno qualcosa in comune o si trovano d’accordo su molti argomenti. Gli amici si difendono e non si tradiscono. Nella loro gang, invece, si faceva tutto tranne che proteggersi e difendersi. Ognuno poteva contare solo su sé stesso, e su nessun altro. Nel loro gruppo non si volevano bene, anzi, molto spesso si sarebbero volentieri picchiati a sangue. Tra tutti erano in pochi, per non dire solo Nesta, ad aver un minimo di pazienza e a preferire dialogare piuttosto che pestarsi fino allo sfinimento. Nesta era una ragazza che sapeva essere convincente, e sapeva sedare molte limite con due parole e un’occhiata gelida. Aveva però imparato a difendersi presto, quando era stato fondamentale reagire.

Ritornare a casa più o meno integra non era una solo una cosa auspicabile, ma una vera e propria necessità. Non voleva che i suoi fratelli si impensierissero troppo, soprattutto le sue due stelline. Queste ultime erano scoppiate in lacrime quando l’avevano vista crollare davanti alla porta di casa, senza più nemmeno la forza di reggersi in piedi. Quando, invece, era ritornata  con un occhio nero sua sorella Jacqueline non se l’era bevuta la storia della caduta. Per niente. E Nesta avrebbe dovuto saperlo, perché la sua sorella maggiore aveva sempre avuto un eccezionale intuito nel riconoscere le menzogne. E le vere cadute. Il fatto che Nesta fosse l’unica ragazza nel gruppo, poiché le compagne occasionali degli altri membri non venivano considerate d’importanza, l’aveva aiutata a comprendere quanto fosse fondamentale imparare a difendersi. Chris le aveva dato una mano, anche se con una sorta di rimorso perenne ad attanagliargli il cuore. Così, Nesta Green aveva imparato a picchiare proprio come i suoi coetanei, provando sempre una sorta di miscuglio di emozioni contrastanti. Prima veniva l’eccitazione, l’adrenalina che saliva e il cuore che martellava furioso nel petto. Poi c’era la mente che si liberava di ogni pensiero e lei non pensava a nient’altro se non a parare ogni colpo. Infine, se aveva la meglio c’era l’orgoglio, la soddisfazione e l’euforia. E se invece non riusciva a difendersi egregiamente c’era la bruciante sconfitta, c’era la ferita nell’orgoglio che la dilaniava. C’era il corpo che faceva male e le membra indolenzite e la pelle livida. Ma il rischio non era sufficiente per fermarla. Lei aveva bisogno del suo toccasana, della sua boccata d’aria fresca.

Quando Nesta aveva cominciato a fumare era alquanto certa che no, non sarebbe tornata indietro. Non tanto perché non fosse abbastanza determinata a ritrovare la propria salute (prima o poi), ma per il semplice fatto che era convinta che non sarebbe riuscita a smettere. Era talmente sicura di questo che nemmeno aveva provato a regolarsi. Tanto, non aveva poi molto da perdere. E i vantaggi che ne traeva erano sufficienti a rafforzare questa decisione.
Nesta non era una ragazza stupida o ingenua. Sapeva i rischi a cui andava in contro, ma se ne era a conoscenza non voleva per forza significare che era stata attenta durante le lezioni di scienze a scuola. Anzi. Della scuola lei aveva ricordi piuttosto confusi e vaghi, che si intrecciavano nella sua mente togliendole la possibilità di riordinare con precisione gli anni passati tra i banchi. Era perfettamente certa di non essere mai stata una studentessa modello, ma un minimo di impegno l’aveva messo anche nello studio. Decisamente minimo, ma almeno qualche ora allo studio l’aveva dedicata durante la sua carriera scolastica, terminata qualche anno prima. Non aveva mai amato i testi di studio, e anche la lettura non era certo il suo forte. Un paio di libri l’avevano davvero appassionata, ma non era sufficiente per dire che lei amasse perdersi in una marea di parole inchiostrate.  I professori, invece, non le erano mai piaciuti. Come i medici, o i poliziotti. Come qualsiasi persona che le dicesse cosa o come fare.

Ad ogni modo, in quel momento non c’era nessun professore o chi per lui a impedirle di agire come più preferiva. E lei si sentiva più libera, più leggera ad ogni tiro; come lei anche gli altri cinque ragazzetti magri e sciupati che le sedevano accanto, tutti svaccati alla bella e meglio su un paio di divanetti sfondati e dal tessuto sgualcito. Sembravano i ragazzi più tristi e deperiti dell’intera città. Avevano gli occhi arrossati contornati da profonde occhiaie, i capelli acconciati nelle maniere più improbabili e le labbra secche che cercavano avide il collo di una bottiglia o una cartina. Ed erano tutti tremendamente soli.
Quando la ragazza aveva deciso che era ora di rifarsi viva a casa non aveva messo in conto il suo stato fisico e mentale. L’idea di ripresentarsi per l’ennesima volta in quello stato e la possibilità di spaventare le sue sorelline le sfiorò per un istante la mente. Rimuginò per qualche secondo sul da farsi, in piedi poco distante dal vecchio palazzo dove erano ancora rintanati gli altri. Come un flash le venne in mente che poco distante c’era il parco che tanto le piaceva, e che avrebbe potuto smaltire parte della sbronza e del mal di testa lì. Poi, come per un’ingrata associazione di idee, rammentò dell’ultima volta che vi era stata: il ragazzo, gli amici di lui, i battibecchi. Le venne l’inspiegabile voglia di rincontrare quell’insopportabile ragazzino testardo quasi quanto lei. Si incamminò verso il parco con un sorrisetto mal celato a incresparle le labbra.



Bill stava sfogliando svogliatamente il suo blocco di appunti, dove aveva scritto le sue idee per le nuove canzoni: erano tutti testi pieni di grinta, a cui però sentiva di dover aggiungere un tocco in più. Aveva bisogno di idee, ma quel pomeriggio la sua testa era completamente svuotata d’ogni pensiero. Suo fratello, invece, sfoggiava una delle sue migliori espressioni assorte. Fissava con talmente tanta concentrazione il tavolino posto davanti al divano che sembrava volesse carbonizzarlo.

Ancora.

Non era la prima ragazza con cui aveva a che fare, sicuro, ma era certamente una delle poche, per non dire l’unica, a cui si era ritrovato a pensare così spesso. Stava lì il punto. Lui la rivedeva, sempre. A volte si ritrovava a pensare a quella strana ragazza senza nemmeno volerlo, ma lei era così: gli era rimasta impressa nella mente. L’averla anche vista veramente non aiutava. Non poteva fare a meno di continuare a farsi domande sul suo conto; stava bene, adesso? Aveva qualcuno da cui andare?
Gli riempiva la mente di pensieri e nemmeno se ne rendeva conto.

Maledetta.

In più, era una ragazza talmente sfuggente e misteriosa, ai suoi occhi, che non avrebbe saputo dove andare a cercarla. Aveva pensato alla periferia, sicuro almeno del fatto che non alloggiasse in centro. Poi però si era ricordato che, nella sua posizione, non sarebbe mai tornato indenne da un quartiere come quello in cui probabilmente abitava lei. Non avendo voglia di coinvolgere nessuno, aveva rinunciato, anche se qualche volta il pensiero tornava a stuzzicarlo.Si consolava con l’idea che, magari, prima o poi si sarebbero rincontrati.

Per caso.

Forse, poi, il caso esisteva per davvero. Se no Tom non avrebbe saputo spiegare il loro ennesimo… scontro. Ecco come funzionava tra loro due: non si
incontravano mai, no. Loro si scontravano. E sia Tom che Nesta ormai ne erano coscienti.

Lui era uscito per fumarsi una sigaretta, proprio sotto casa. Se l’era vista arrivare incontro, con quella sua camminata ciondolante e l’aria beata. Il ragazzo serrò i pugni e assottigliò gli occhi, nel vano tentativo di calmarsi.

Se solo fossi rimasto in casa…

-Ragazzo!-

Ragazzo. Perché? Sei l’unica che mi chiama in questo modo assurdo, sai?

-Nesta…- sbuffò, prendendo una boccata di fumo.

-Ti ricordi anche il mio nome, ma che caro ragazzo- fece lei, a pochi passi dal chitarrista. Lui le gettò un’occhiata fugace: aveva sempre la stessa chioma raccolta alla bell’e meglio, e i medesimi occhi color della speranza, però sempre più lucidi e stanchi.

-Sì, tu invece continui a scordarti il mio-

-Perché, dovrei forse ricordarmelo?- ribatté lei con uno sguardo talmente sincero che Tom si sentì mancare l’aria nei polmoni.

Tu non ricordi il mio nome, mentre il tuo non fa che tormentarmi.

Ecco la semplice verità, che Nesta gli aveva sbattuto in faccia senza troppi complimenti. Non era possibile. Non aveva veramente detto quello che aveva sentito. Era stato come ricevere un pugno in pieno petto, e ora boccheggiava alla ricerca di qualcosa di giusto da dire. Qualsiasi cosa.

-Che c’è? Troppo abituato ad essere circondato da persone che ricorderebbero chi sei anche dopo il più traumatico degli incidenti?-

È un modo carino per dire fans?

-Si chiamano fans le persone che ricorderebbero chi sono anche dopo il più traumatico degli incidenti- disse il ragazzo con durezza, continuando a fumare agitato.

Era riuscita anche a toccare il suo punto debole: l’orgoglio. Quella ragazza era un serio pericolo per il suo sistema nervoso, che risentiva di ogni chiacchierata con lei. Era incredibile la calma con cui lei riusciva a smontare ogni sua certezza, era imprevedibile ogni sua parola.

-Nesta, perché sei venuta qui?- domandò lui dopo qualche istante di silenzio, spostando lo sguardo dall’orizzonte alla ragazza affianco a lui. Lei piegò leggermente il capo, osservando il chitarrista che le stava di fronte.

-Non lo so. Volevo smaltire la sbronza prima di tornare a casa, penso-

-Lasciati dire una cosa, sei strana- fece Tom, assistendo stupito all’incresparsi delle labbra della ragazza. Stava sorridendo.

-Chi è il più fortunato? Io che sono strana o tu che non lo sei?- domandò allora, senza smettere di sogghignare, gli occhi luminosi e carichi di sfida.

Tom stette in silenzio, non sapendo che cosa rispondere. Era difficile che rimanesse senza parole, ma evidentemente Nesta riusciva anche in quello.

Non lo so, non lo so.

-Quello fortunato sono io. E lo sai anche tu- rispose dopo qualche attimo di riflessione.

-Umm… certo. Sai, anche tu sei parecchio strano, ragazzo- ribatté lei, lasciandolo per l’ennesima volta con mille domande a vorticare nella mente. Parlare con lei era un po’come entrare in un labirinto: ci si rischiava di perdere in ragionamenti contorti e muri di parole.

-Però in effetti hai ragione: gli unici fortunati sono quelli che si ritengono tali- concluse poi, mentre Tom non poteva fare a meno di rivolgerle un’espressione piena di stupore.







My Space:

Ciao gente! :)

Ok, non c'è poi molto da dire, se non che da qui in poi la faccenda si infittirà notevolmente: Tom e Nesta si sono rincontrati, ed hanno avuto la prima vera e propria conversazione. Incomincia qui la loro storia.

La parte iniziale del capitolo era fondamentale per svelare un'altra parte della vita di Nesta: io adoro il personaggio di questa ragazza, e cerco di farla apprezzare anche a voi per quello che è.

Mi raccomando, fatemi sapere che cosa ne pensate.

Grazie a tutti per il sostegno e per le belle recensioni che mi avete lasciato!  :)

Alla prossima!

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Capitolo 6
*** We are. ***


Capitolo 6: We are.

§
 

Se glielo avessero chiesto, Tom non avrebbe saputo dire come era incominciata. Ad essere sinceri, non avrebbe nemmeno saputo dire che cosa era cominciata. Solo che era successo. Avevano superato entrambi quel confine immaginario che separa l’uno dall’altro qualsiasi estraneo, quel confine che distingue amici e sconosciuti. E si erano ritrovati legati. Legati da quel sottile filo che unisce ogni persona, quello stesso filo che con il tempo può inspessirsi o sfaldarsi. Il loro filo era come un insignificante germoglio verde in mezzo ad una sconfinata foresta. Non era nulla per il momento, ma rappresentava tutto ciò che sarebbe stato: racchiudeva una vita tra piccole gemme smeraldine. Il loro filo era però anche estremamente sottile, e ancora troppo sottile per permettere loro di guardare avanti.

Tom avrebbe preferito che quel giorno Nesta non gli fosse andata incontro, avrebbe preferito essere rimasto chiuso tra quelle quattro mura sicure che erano la sua casa. Avrebbe preferito rimanere da suo fratello. Avrebbe preferito che la sua vita rimanesse normale. Nesta, dal canto suo, non aveva provato il più totale accenno di qualsiasi emozione. A lei, per emozionarsi, serviva più di una nuova persona nella propria vita. Molto, molto di più.
Dal giorno di quella strana chiacchierata erano passate sì e no due settimane. Non ci sarebbe stato nulla di male, se non che ormai era diventata una strana abitudine per i due ragazzi incontrarsi. La stranezza? Non programmavano mai di vedersi, ma puntualmente si incrociavano. Ovunque. Ad esempio, qualche mattinata prima Tom stava portando a passeggio il suo amato cane, nel parco dove era solito recarsi. Lì, dietro alla medesima quercia del loro secondo incontro, c’era Nesta. Aveva delle cuffie enormi nelle orecchie, molto simili e decisamente meno costose delle sue. Gli occhi smeraldini della ragazza erano socchiusi, mentre scuoteva il capo e le spalle al ritmo della musica. Lui si era fermato un istante ad osservarla, cercando di essere il più possibile discreto. Quando lei si era accorta della sua presenza, scorgendolo in mezzo ad altre persone, l’ aveva salutato con un cenno del capo, senza mostrare particolare sorpresa nel vederlo. Anzi, al contrario: sembrava quasi che si aspettasse di vederlo comparire da un momento all’altro, e che avesse ingannato l’attesa ascoltando un po’ di musica. Lui, invece, voleva che lei si accorgesse che, bene o male, finiva sempre per attrarlo. Il problema, con Nesta, era che nemmeno Tom sapeva che cosa di lei lo mandasse fuori di testa. Forse la parlantina, spigliata e senza riguardo verso i sentimenti altrui; forse il profumo che, alla fine, aveva riconosciuto come fumo e caffè; o forse il modo di muoversi sgraziato e poco consono per una ragazza.

Durante i loro (dis)continui e brevi incontri qualche volta rintavolavano improbabili conversazioni, che erano più o meno condite di insulti a seconda dei rispettivi umori. Non era raro, perciò, che finissero per insultarsi o prendersi in giro poco scherzosamente. Solo che, alla fine, finivano per rincontrarsi e nessuno dei due serbava rancore per precedenti “litigi”. Facevano finta di niente, e riprendevano a provocarsi l’un l’altro. Nessuno dei due sembrava mai stanco di quel continuo punzecchiarsi e rincorrersi alla cieca tra le strade della città, al contrario.

Tom e Nesta si scontravano nelle viuzze dei sobborghi, che lui aveva incominciato a frequentare con la sola speranza di rincrociare il suo viso stanco un po’ più spesso. Quando la vedeva in lui si innestava una sfrenata lotta interiore, e due parti totalmente opposte del suo essere si affrontavano. C’era il suo io bisognoso di lei, che avrebbe volentieri venduto il suo orgoglio in cambio di un’altra stramba e profonda chiacchierata. Poi c’era la sua metà orgogliosa e egoista, che metteva la propria dignità prima di tutto, che non gli permetteva di concedersi una tale soddisfazione. Nell’ultimo periodo c’era anche una terza parte, però, che diceva la sua sull’argomento. E quella terza parte era decisamente più consistente e influente: Bill.

Lui, in qualità di gemello minore, aveva presto voluto esprimere la sua opinione, che si era dimostrata inequivocabile: odiava e ammirava Nesta allo stesso tempo. Odiava quella ragazza dalle profonde occhiaie perché la riteneva indegna dell’attenzione di suo fratello: cosa poteva mai offrire una povera disgraziata come lei a Tom Kaulitz, talentuoso chitarrista della band più emergente del momento? Nulla. Bill, però, provava un altrettanto profondo senso di ammirazione verso quella donna. La vedeva come una ragazza costretta a crescere troppo in fretta, e quella fretta l’aveva resa estremamente matura e insicura allo stesso tempo. Vedeva Nesta come una ragazza capace di offrire qualcosa a suo fratello, in fondo. Qualche lezione di vita, magari.
Ecco allora che entrambi i gemelli si sentivano combattuti davanti a Nesta Green.

-Tom, non sai nulla di lei, dopotutto… Anzi, le poche cose che sai di lei sono negative!- stava esclamando Bill quella sera, mentre finivano di sbocconcellare la pizza. Era tanto che non riuscivano a ritagliarsi un momento di tranquillità per parlare di qualsiasi cosa. Visti i recenti avvenimenti, era normale che il discorso fosse virato presto sul tema “Nesta”.

-Chi sei tu per giudicare?-

-Sono tuo fratello, il tuo gemello! Mi sembra abbastanza per esprimere un’opinione, che dici?- il tono di Bill era salito di almeno due toni nel giro di pochi secondi.

Billi, non sforzare la voce, sai che non ti fa bene…

-Dico che sei scemo, ecco cosa! Non facciamo nulla di male, semplicemente ci incontriamo casualmente qualche volta-

-Vi incontrate? Casualmente? Qualche volta?- la voce del ragazzo era sempre meno calma e pacata.

Fratellino, non esagerare, perché poi sai come finisce.

-Bill, qual è il problema con Nesta? A volte l’ammiri, altre la vorresti morta. Spiegami perché, sinceramente, non capisco- ribatté Tom.

Il problema è che ti porta via da me.

L’ammiro perché sento, a pelle, che è una ragazza forte. È una delle poche persone che ti sa tenere testa, sai?

-Non lo so- ringhiò Bill, imbronciandosi.

-Ecco- fece Tom –Trova una giustificazione migliore e potrei anche capirti-

Bill assottigliò gli occhi, e il primo istinto di Tom fu quello di darsi del demente. Quando suo fratello socchiudeva in quella maniera gli occhi non era mai, mai un buon segno. Il secondo istinto di Tom fu quello di tapparsi le orecchie e urlare che no, no, in realtà non gliene fregava nulla di cosa pensasse, per una volta. Avrebbe fatto a modo suo, tanto. Tom odiava essere così egoista, ma certe volte si rivelava necessario.

-Bene, vuoi una giustificazione? Una giustificazione? La mia scusante è che quella ragazza è solo una ragazza! È una su un milione! Ce ne sono state tante prima di lei, e ce ne saranno tante dopo. Come puoi ritrovarti con la testa così incasinata per una disgraziata come lei?- il moro prese fiato, mentre Tom cercava di continuarlo a fissare impassibile: era sempre più difficile.

-E c’è dell’altro, cara la mia rockstar dalla vita difficile: Nesta non ricambierà mai tutto quest’affiatamento! Lei non proverà mai questo tumulto di emozioni che provi tu. Lo capisci, vero?- aggiunse poi, addolcendo però il tono difronte allo sguardo di Tom, perso e duro allo stesso tempo.
Il chitarrista rimase in silenzio qualche istante, mentre nella testa le parole del fratello rimbombavano fastidiose e assillanti.

Non ricambierà… Affiatamento… Solo una ragazza… Dopo…

Nemmeno rispose, e si rese conto solo dopo essersi alzato bruscamente di aver compiuto quel gesto. Bill lo fissava, sbalordito. Non era certo la prima volta che succedeva, ma ogni volta che litigavano era come se tutti i precedenti disguidi non ci fossero mai stati, e le emozioni e le azioni erano ogni volta differenti.

-Senti, io faccio a modo mio comunque, non ho certo bisogno del tuo consiglio o della tua approvazione. Cresci, Bill! Noi… Noi siamo…- Tom tacque. Lo sguardo che il gemello gli restituiva era un esplicito invito a continuare. Lo sfidava a pronunciare quella maledetta parola.

Diversi.

Dillo, Tom. Dillo che siamo diversi. Marca il concetto un’altra dannata volta.

Il chitarrista non finì la frase, uscendo velocemente di casa e richiudendosi la porta alle spalle con un tonfo. Il cantante sospirò, sconsolato.
Aveva preso la macchina e aveva guidato senza meta per un’ora abbondante, rilassando i muscoli tesi e lasciando svagare la mente. Gli piaceva allontanarsi dal caos della città per un po’, lasciandosi avvolgere dalla calma surreale dei sobborghi. Però non aveva scelto a caso la sua destinazione, una volta abbandonata la sfavillante metropoli ancora in piena attività. No, quella volta non sarebbe stato un caso: quella volta lui era desideroso di vederla. E di dimostrare che suo fratello aveva torto.

-Rastaman!- esclamò lei non appena aveva scorto la macchina del ragazzo accostare davanti al locale fuori dal cui si era fermata a fumare una sigaretta. Lui l’aveva riconosciuta subito, anche perché era certo di trovarla lì: avevano imparato i rispettivi punti di ritrovo dopo pochi giorni. Nonostante facessero di tutto per dimostrare quanto ciò li infastidisse, alla fine non cambiavano mai zona. Anzi.

-Non chiamarmi così, stronza- sbottò lui, non appena ebbe messo piedi fuori dall’abitacolo.

-Perché no, ragazzo? Lo cantava anche Bob: “Rastaman vibration, yeah! Positive!”. Ahah!- rise lei, con quella risata che lui aveva imparato a riconoscere dopo poche volte che ne aveva sentito il suono. Era un timbro potente e vibrante, ma anche di estremamente femminile. Tom ghignò in rimando a quella sua improvvisata imitazione, scuotendo il capo. Cercava di mascherare sotto l’irritazione quella sorta di divertimento che solo lei riusciva a dargli. Lei fece un tiro dalla sigaretta, espirando poi il fumo in tante nuvolette che si disperdevano alla brezza della sera.

-Perché sei qui?- domandò lei dopo un po’, quando anche il ragazzo le fu seduto accanto sul vecchio muretto davanti al locale da cui proveniva un vociare continuo.

Tom non si voltò a guardarla, continuando a far vagare lo sguardo nel buio della sera. Non sapeva bene nemmeno lui perché era lì, forse semplicemente per distrarsi, per vedere lei, per dimenticarsi chi era per qualche ora.

-Per distrarmi- rispose vago lui, sentendo lo sguardo indagatore di lei bruciargli la pelle.

-Umm… Non è granché come posto. Ma ti capisco-

Lui rise, cinico.

-No, dubito che tu possa capire-

Nesta sogghignò a sua volta, saltando giù dal muretto in uno svolazzare di capelli e stoffa.

-Vieni, ti porto in un bel posto- disse lei con fare misterioso, afferrandogli il polso e tirandoselo dietro.

Tom si sarebbe certamente perso se non ci fosse stata lei a guidarlo in quel dedalo di stradine e viuzze buie. Dopo una decina di minuti di quel labirinto il ragazzo temette che anche la sua improbabile guida cominciasse a perdere l’orientamento. Sospirò di sollievo, però, quando lei lo rassicurò sulla loro meta: non era distante.

-Entra- gli sussurrò ad un certo punto Nesta, spingendo il portone di uno dei tanti palazzoni che al ragazzo parevano tutti uguali.

-Dove siamo?-

-Adesso lo scopri, ragazzo-

Fecero quasi di corsa tutti e cinque i piani che conducevano all’attico del palazzo. Giunti lì lei gli mostrò una scala che conduceva al tetto. Una volta sbucati all’aria aperta, il chitarrista fece fatica a credere alla meraviglia che gli si presentava alla vista. Da quella specie di spiazzo, che forse una volta era stato un giardino pensile, a giudicare dai numerosi vasi mal ridotti che giacevano negli angoli e dalla presenza di alcune piante rampicanti aggrovigliate sulla ringhiera del parapetto, si poteva osservare tutta la città. Era tutto un luccichio che si estendeva a perdita d’occhio, fino a dove le luci della città si fondevano con i puntini luminosi che erano le stelle. Il ragazzo, affascinato, si appoggiò alla vecchia ringhiera, alzando gli occhi al cielo. L’aria profumava d’estate e di buono, di fresco: lo faceva sentire bene.

-Sorpreso, eh?- fece Nesta, comparendogli affianco.

Tom non rispose, limitandosi ad annuire impercettibilmente. 









My Space:

E anche questo capitolo è completo, che bello! :)

Allora, giusto due parole. A chi interessasse e non lo sapesse, la canzone che canticchia Nesta a Tom è "Positive Vibration" di Bob Marley, appunto. A chi non la conosce ne consiglio l'ascolto perchè è veramente meravigliosa.

Come avrete notato, qui si entra nel vivo della storia. Tom e  Nesta non sono più solo conoscenti, stanno cominciando a conoscersi. Nel prossimo capitolo si scoprirà qualcosa in più sul loro singolare rapporto.

Grazie a chi continua a seguirmi e a leggere: se poi mi lasciate anche un commentino mi rendere ancora più felice! ;)

Alla prossima!


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Capitolo 7
*** Fight. ***


Capitolo 7: Fight.

§

 

I due ragazzi si erano fermati a lungo a osservare il panorama, e solo verso mezzanotte Tom si era riavviato verso casa, le immagini di quella serata inusuale che gli riempivano la mente. Non si erano certo persi in chiacchiere, ma ancora una volta si erano ritrovati a parlare di tutto e di niente con estrema facilità.

-Cosa pensi che ci sia dopo?- domandò lei.

-Dopo? In che senso?-

-Oltre l’ultima linea di luci artificiali, che cosa c’è?-

-Non lo so, penso un’altra città-

-E dopo?-

-Perché lo vuoi sapere?-

-Dimmi quanto dopo arriva la libertà- rispose lei, in un flebile sussurro.

Tom era rimasto molto sorpreso da quella richiesta così strana.

-Io… Nesta, io non lo so quanto dopo arriva la libertà-

-Secondo me non arriva proprio. Semplicemente, devo essere io a fare di ciò che mi circonda la libertà- ribatté Nesta con naturalità disarmante, mentre si accendeva l’ennesima sigaretta.

-Lo trovo un ragionamento un po’ contorto-

-Non è contorto: sei tu che lo rendi tale-

Il ragazzo, dopo quell’ennesima uscita, distese apertamente le labbra in un sorriso, ricevendo in cambio un’occhiata interrogativa dalla ragazza.

-Parlare con te è divertente, lasciatelo dire Nesta-

In effetti, era stato davvero un divertimento per il chitarrista ascoltare le idee di quella ragazza. Ora, però, doveva ritrovare il contegno, e soprattutto doveva farsi perdonare da quel testardo di suo fratello.

Un’altra alle prese con brighe famigliari era proprio Nesta. Al rientro a casa sua sorella Jacqueline era davanti al portone ad aspettarla, le mani sui fianchi e l’espressione adirata. Gli occhi scuri, identici a quelli di Chris, erano assottigliati pericolosamente. Le labbra carnose erano contratte in una smorfia di disappunto, mentre le dita tamburellavano sui fianchi coperti dalla canottiera blu. Le due ragazze si assomigliavano abbastanza fisicamente, ma Jacqueline era decisamente più formosa della mingherlina Nesta, e la sovrastava di un paio di centimetri. I capelli scuri, lunghi e riccioluti, le ricadevano disordinatamente sulle spalle, in un groviglio scompigliato. La ragazza non rimase particolarmente sorpresa da quella versione ben poco rassicurante di sua sorella, e nemmeno ne fu sorpresa. Una volta che entrambe misero piede in casa e la porta si fu richiusa alle loro spalle Jacqueline aprì bocca.

A Nesta, da piccola, sua sorella non aveva mai incusso un particolare rispetto: era solamente una ragazza poco più grande di lei che aveva la sfortuna di condividere il suo stesso sangue. Ora, però, si rendeva conto della forza d’animo di sua sorella. Jacqueline era sempre stata la maggiore tra tutti e bene o male si era presa cura di tutta la progenie dei coniugi Green, decisamente non annoverabili tra i genitori esemplari. Jacqueline non aveva mai ricevuto molti aiuti, ma ne aveva dispensati tanti a loro. In quel momento, Nesta capiva perfettamente la rabbia e l’irritazione della sorella, ma non riusciva comunque a sentirsi in colpa.

-Dove sei stata? Avevi detto che saresti rincasata presto questa sera: Daphne e Denise erano parecchio sconsolate- cominciò la ragazza.

-Mi spiace, ma ormai dovrebbero esserci abituate- sbottò Nesta, gettando in un angolo le scarpe e raccogliendo i capelli sul capo in una coda improvvisata.

-Ti dispiace? Sei un’egoista, ecco cosa! Pensi sempre e solo a te stessa, ragazzina- sbraitò Jacqueline, infervorata.

Per assurdo la prima cosa che pensò Nesta fu che capiva come si sentiva Tom quando lei lo chiamava “ragazzo”, perché era l’equivalente di “ragazzina” per lei. Lei aborriva essere soprannominata con quel nomignolo, a sua detta, idiota. E inappropriato ad una ventenne come lei.

-Non chiamarmi ragazzina, J-Line- ecco il soprannome che avevano affibbiato i quattro fratelli alla sorella maggiore.

Chris la sbeffeggiava sempre per quel nomignolo, che diceva fosse più adatto ad un rapper o ad un dj, piuttosto che a una povera in canna come lei.

-Perché, se no che fai? Sei solo presuntuosa e incredibilmente cocciuta, lasciatelo dire-

Il litigio avrebbe potuto protrarsi per ore, di quel passo. Ma nessuna delle due aveva voglia di sprecare fiato al momento.

-Senti, dimmi perché mi stai urlando contro così la risolviamo subito- sbottò Nesta.

-Perfetto! Apri bene le orecchie, perché non mi ripeterò: in questo ultimo periodo hai esagerato, ok? La cosa non mi sta per nulla bene, soprattutto per il fatto che ti sei fatta ricoverare ben due volte, e una nemmeno in ospedale-

-Tutto qui?-

-No, affatto. Non mi sta bene che sputtani i soldi che io e tuo fratello guadagniamo con fatica, chiaro? Vuoi comprarti la roba? Bene, comincia a lavorare e a tirar su i soldi necessari per pagartela, altrimenti comincia a disintossicarti, che ti farebbe solo bene!- urlò Jacqueline, incurante ormai di svegliare le due gemelline.

Nesta aveva smesso di ascoltarla, e si era diretta a passo veloce nella sua stanza. Nemmeno lì, però, sua sorella parve volerle dare pace.

-Scappi? Non ho finito, Nesta! Cresci un po’, per l’amor di Dio, e impara a prenderti le tue responsabilità-

-Ma sentila!- sbottò la ragazza contrita.

-Come se tu fossi meglio di me! Come se la maggior parte della volte tu non te ne andassi senza dire niente!- aggiunse poi iraconda, gli occhi verdi assottigliati pericolosamente.

-Stupida, se me ne vado c’è un motivo! Mi faccio in quattro per cercare un lavoro fisso, e scusa tanto se è necessario girare tutti i locali della zona- sibilò.

Per Nesta fu come ricevere un pugno in pieno petto; rimase senza fiato, con gli occhi sgranati, per un attimo. Non aveva mai pensato una cosa simile. Mai. Nonostante fosse una ragazza sveglia, l’idea che sua sorella si adoperasse tanto per loro non le era balenata per la mente neanche una volta. Forse era perché lei non sarebbe mai arrivata a tanto, nonostante volesse bene ai propri fratelli. Tutto in una volta si sentì sciocca, superficiale e ingenua. Avrebbe fatto di tutto, però, per non dimostrarlo a sua sorella, che la fronteggiava sicura. Certa di essere dalla parte del giusto.

-E tu, invece? Tu con chi passi le tue giornate vuote?- domandò Jacqueline, secca.

Giornate vuote… Con chi?

Se c’era una cosa che Nesta non aveva mai fatto, era parlare di Tom e dei Tokio Hotel a sua sorella. L’aveva accennato solo a Chris, che non si era dimostrato troppo contrariato. Peccato che J-Line fosse l’opposto di Christian.

-Io le passo con il mio gruppo- biascicò lei, cercando di mostrarsi convinta.

-Il tuo gruppo? Vaffanculo Nesta, non prendermi in giro!- ringhiò l’altra, mentre, inosservate, due testoline bionde facevano capolino dalla porta della loro stanza.

-Sono giorni che non li vedo gironzolare nei dintorni, mentre nostro fratello mi ha accennato di un certo ragazzo. Sbaglio?-

La voce di Jacqueline invitava silenziosamente Nesta a ribattere, a sprofondare ancora di più nella sua fossa. Purtroppo, lei era solita a raccogliere ogni tipo di sfida. E la voce di sua sorella sapeva celare benissimo certe…trappole.

-Dimmi chi è-

Non era una domanda, o un invito, o una proposta. No, quello era un ordine vero e proprio.

-È quello che ti ha aiutata quando sei stata male?- incalzò.

-Non è nessuno- sibilò, stringendosi nelle spalle.

-Nesta, non farmi perdere la pazienza: dimmi chi è- ripeté poi Jacqueline.

La giovane donna si rendeva perfettamente conto che, forse, stava esagerando, ma doveva assolutamente accertarsi che sua sorella non stesse frequentando l’ennesima conoscenza sbagliata. Purtroppo, nonostante sperasse vivamente il contrario, sapeva che Nesta si sarebbe chiusa maggiormente dopo quella specie di interrogatorio. E non le avrebbe certo rivelato nulla sull’identità di quel ragazzo.

-Cosa te ne frega a te? Umm, che cosa?-

Voglio proteggerti.

Nesta sapeva che sua sorella non avrebbe mai ammesso le sue debolezze, e in particolare il fatto che tenesse a loro.

Mi dispiace, J-Line, ma ho vinto un’altra volta.

-Bene, non mi pare che abbiamo altro da dirci- così dicendo Nesta spinse malamente la sorella maggiore fuori dalla sua camera, intercettando lo sguardo lucido delle due gemelle, nella frazione di secondo prima di sprangare la porta con un rumore sordo.
 
Qualche pomeriggio dopo la loro serata sul tetto Tom era tornato in periferia, approfittando di un impegno di lavoro rimandato. Bill aveva mugugnato parecchio, dato che aveva sperato di passare la giornata con il fratello e gli amici: Tom, invece, l’aveva liquidato con la promessa che avrebbero riguadagnato il tempo perduto.

Aveva curiosato tra le varie casupole e i palazzoni, cercando di ritrovare il locale dove era solito a incontrare Nesta. E in fatti l’aveva trovata, solo che non era fuori, ma dentro il pub. L’aveva scorta da una delle grandi vetrate annerite dal fumo di quest’ultimo, con indosso un vecchio grembiule sporco e liso in più punti e le mani impegnate a sorreggere un vassoio pieno di bicchieri. Non poteva credere ai suoi occhi.

Perché stai lavorando lì?

L’espressione della ragazza, anche da lontano, la diceva lunga su come dovesse sentirsi. Aveva gli occhi rivolti al cielo e tutto il corpo teso trasudava frustrazione e noia. Un moto di compassione animò il ragazzo, deciso a capire il motivo di quell’impiego chiaramente sgradito.

Che cosa è successo, Nesta?

Tom aspettò Nesta fino a che lei non smontò il turno. La vide uscire dalla porta sul retro del locale, il volto e le mani un po’ imbrattate di salsa e macchie scure di cui il ragazzo preferì non indagare l’origine. Le andò in contro, pieno di domande. Non gli pareva strano che una ragazza nella condizione della sua “amica” avesse bisogno di lavorare nonostante la giovane età. No, quello che trovava strano era che fosse Nesta a lavorare. Non ne avevano mai parlato di lavoro e simili, forse perché Tom non avrebbe dovuto specificare granché, mentre la ragazza avrebbe dovuto rimanere in silenzio per la mancanza di esso.
Insomma, il chitarrista non aveva idea di cosa facesse la ragazza o la sua famiglia per sopravvivere. A dire il vero, lui nemmeno gli conosceva i suoi parenti. In quel momento però importava poco. C’era lei, e il resto poteva essere rimandato.

-Nesta!-

Non doveva essere così squillante la sua voce, non poteva tradire nemmeno qualcosa di simile a felicità di rivederla. Lei, ad ogni modo, si voltò a mala pena a guardarlo, per poi continuare a camminare ignorandolo bellamente.

-Ehi, ragazza! Che fai, fingi che io non ci sia?- sbottò lui, sempre di buon umore, pensando solo a quanto fosse lunatica la ragazza.

-Non è serata, moccioso- lo smontò subito lei, lapidaria e fredda come le prime volte che si erano incrociati.

-Tsk, con te non è mai serata- sbottò di rimando lui.

La continuava a seguire però, come un fedele cucciolo segue il proprio padrone. Quando Nesta se ne rese conto sorrise amara, senza essere notata dal suo cucciolo. Continuò imperterrita a seguire la sua strada, nell’intricato dedalo di strade.

-Ehi, ma ti vuoi fermare!- la richiamò lui.

Forse non era stata una buona idea, ma il ragazzo se ne rese conto quando era decisamente troppo tardi. Nesta si era fermata in mezzo ad una viuzza malamente illuminata da un lampione, e il profilo della sua schiena tesa era chiaramente visibile al ragazzo nella penombra. Voltò il capo con lentezza, in modo quasi inquietante.

-Ragazzo, non scherzo. Vattene, non ho voglia di vederti- fece lei gelida, trafiggendolo con quel suo sguardo smeraldino. Detto questo gli voltò nuovamente le spalle, e con passo svelto riprese la sua strada, senza voltarsi indietro. Tom rimase qualche istante impalato a fissare il punto da cui lei se ne era andata. E, forse per la prima volta in vita sua, si sentì abbandonato.








My Space:

Buonasera gente!

Care, carissime Alien, ce l'ho fatta! Ho aggiornato anche questa volta, ahahah!

Allora, sul capitolo dirò giusto una cosa: Nesta e J-Line hanno avuto un significativo litigio, che avrà qualche conseguenza anche al suo rapporto con Tom. Per ora non vi svelo altro, temo sarete costretti a proseguire con la lettura! ;)

Piccola avvertenza, inerente alla storia in generale: la fanfiction avrà circa una quindicina di capitoli, e i giorni di aggiornamento saranno mercoledì e domenica.

Non mi dilungo oltre, grazie a tutti i miei lettori e lettrici, grazie a chi preferisce, segue, ricorda o recensisce. Grazie anche a chi, semplicemente, dà una sbirciatina.

Alla prossima!

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Capitolo 8
*** Escape. ***


Capitolo 8: Escape.

§

 

Bill si stava specchiando nell’immenso specchio appeso nel bagno al piano superiore, quando aveva sentito la porta si casa sbattere in modo preoccupante.

Per l’ennesima volta.

Da parecchi giorni, ormai, Tom tornava a casa sempre irritato e nervoso. Ogni volta, poi, filava dritto nella sua stanza e attaccava a suonare tutto il repertoriopiù scatenato che conosceva, senza mai scegliere qualche pezzo più melodico o struggente.

E dire che di canzoni romantiche e dolci ne abbiamo composte…

In quel momento il ragazzo poteva sentire chiaramente i passi del gemello che saliva le scale, poi il cigolio della porta della sua stanza che si apriva e infine il rumore sordo del corpo del fratello che si lasciava scivolare sul letto. Sentiva quegli stessi suoni da troppo a questo punto, e avrebbe potuto contare i minuti che separavano le sue povere orecchie dall’ennesimo assolo di chitarra acustica.

Chitarrista da strapazzo dei miei stivali!

Tsk, è ora di farci due chiacchiere caro mio.

-Tom!- sbottò allora il cantante, lasciando perdere smalti e simili per dirigersi a passo di marcia nella stanza del suddetto ragazzo.

-Tom- ripeté Bill socchiudendo la porta della stanza. 
La finestra era chiusa e la tenda tirata, nonostante fosse relativamente presto. Nemmeno le sei e mezza di sera e nella camera di suo fratello sembrava notte fonda. Il cantante alzò gli occhi al cielo, sentendo il grugnito del fratello provenire dalla sua bocca premuta contro il copriletto.

-Ma che ti prende, si può sapere?- chiese il moro, facendosi largo tra biancheria, cappellini e fogli di carta appallottolati per raggiungere la tenda, scostarla con un gesto secco e aprire finalmente i vetri della finestra.

Ah, aria.

Il chitarrista premette ancora di più il volto contro il materasso, alzando elegantemente un dito medio in direzione del gemello.

-Sì, ti voglio bene anche io. Ora si può sapere che ti succede?-

-Bill, per favore, esci-

Questi scrollò la lunga chioma, rivolgendo per l’ennesima volta lo sguardo al cielo, esasperato dalla testardaggine del fratello.

-No, non esco finché non mi vorrai spiegare il motivo della tua regressione da ragazzo più o meno normale a psicopatico e lunatico chitarrista, che si diverte a spaccarmi i timpani da un numero indeterminato di giorni!- fece Bill, cocciuto come poche volte in vita sua.

-Ho lasciato correre le prime volte, ma adesso non ce la faccio più!-

Tom da un lato sarebbe stato contento del ritorno a ragazzo logorroico e paranoico da parte di suo fratello, se non fosse che quella paranoia e quei fiumi di parole si riversassero inevitabilmente contro di lui.

-Allora?- incalzò il moro, sedendogli accanto sul letto e strattonandolo malamente per un braccio.

Esasperazione. Suo fratello lo prendeva per esasperazione, ecco perché finiva sempre con il raccontargli tutto.

-Prometti che se rispondo te ne vai e mi lasci in pace?- domandò incerto il rasta, senza nemmeno alzare lo sguardo dal copriletto contro cui aveva ancora il viso premuto.

-Sì- rispose sicuro l’altro, sempre più curioso. Sentì Tom respirare profondamente, senza però essere sicuro del motivo. Sperava semplicemente che non fosse accaduto niente di grave per cui preoccuparsi.

È quasi un mese, se non certamente di più, che mi vedo con Nesta. È speciale.

Ecco che cosa avrebbe dovuto dire, senza troppi giri di parole.

-Ti… ti ricordi di quella ragazza, Nesta?- provò incerto il chitarrista.

Bill sgranò gli occhi, senza nemmeno cercare di nascondere lo stupore. Tom aveva alzato il volto di pochi centimetri dal materasso, ma vedendo l’espressione del fratello preferì seppellire nuovamente il viso nel morbido copriletto, afflitto.

-Nesta, quella Nesta?-

-Cacchio Bill, secondo te quante Nesta conosco?- sbottò Tom, esasperato dal comportamento del fratello. Lui aveva un disperato bisogno di comprensione, e quello che faceva? Gli spiattellava davanti la migliore espressione stupita del suo repertorio.

-Da quanto va avanti questa… questa cosa?- domandò il moro.

Cosa. Anche per te è inconcepibile chiamare la nostra… cosa “rapporto”, vero? Ah, mi sento sollevato, almeno non sono il solo a trovarlo difficile.

-Boh, è già un po’ che ci vediamo. Sai, quanto abbiamo qualche ritaglio di tempo libero durante la giornata ci incontriamo. Te ne avevo già accennato, mi pare- rivelò Tom, sempre piuttosto riluttante.

Il gemello, intanto, cercava di capire il perché. Il perché di tanto silenzio, il perché di quegli incontri. Che cosa aveva il suo splendido (rompiscatole sì, ma in fondo sempre suo fratello) gemello in comune con quella tossica?

A parte la capigliatura di dubbio gusto, che cosa avete in comune?

-Bill, senti, se devi continuare a sfoggiare quell’espressione da rincoglionito cronico puoi anche andartene- ringhiò il chitarrista.

Il ragazzo chiamato in questione abbassò lo sguardo, colpevole.

-Sì, scusa, forse hai ragione- Bill scosse il capo sconsolato. Che cosa doveva fare a quel punto?
 


Christian, rientrando in casa, aveva avuto il brutto presentimento che fosse successo qualcosa, visto che la voce bassa di Nesta non l’aveva accolto con l’usuale saluto. Anzi, c’era fin troppo silenzio all’interno dell’appartamento. Fece mente locale: le due gemelline erano andate a casa di un amichetta a dormire, perciò non doveva preoccuparsi. Jacqueline era decisamente abbastanza grande per non doversi preoccupare, ma la sua adorata Marley dove era andata a cacciarsi? Corse in camera della ragazza, con un pensiero sempre più cupe che andava a formarsi nella sua mente. Sua sorella avrebbe dovuto smontare il turno una ventina di minuti prima, e poi sarebbe dovuta rincasare perché avevano deciso di passare la serata insieme a guardarsi un film, mangiare schifezze e fumare. Eppure, Nesta non c’era. Imprecò silenziosamente, mentre componeva il numero della ragazza al cellulare.

-Il numero selezionato è momentaneamente irraggiungibile, la preghiamo di…- si premurò di informarlo l’insopportabile voce metallica e piatta della segreteria telefonica, a cui nemmeno lasciò il tempo di finire la frase.

Cosa stai combinando, Marley?
 
Nesta aveva sentito il cellulare squillare nella borsa in modo ovattato, e si era ben guardata dal rispondere. Effettivamente, aveva immaginato che fosse suo fratello, e le dispiaceva un po’ anche il fatto di aver mandato all’aria la loro serata. Però non avrebbe retto qualche giorno di più, poco ma sicuro. Ogni giorno sentiva che quella prigione invisibile le si stringeva sempre più addosso, impedendole di respirare. Il luogo dove poi aveva iniziato a lavorare non era certo l’ideale in quel momento, dato che pullulava di persone la cui massima aspirazione era renderle la giornata un inferno. Si era ritrovata, perciò, a imboccare una delle tante strade della periferia per dirigersi lontano, sempre più distante da casa sua. Tutto quello che le occorreva l’aveva con sé, ora necessitava solo di un posto dove poter comprare una bottiglia di un qualsiasi cosa di alcolico abbastanza per stordirla. Frugò nella borsa alla ricerca del suo fidato pacchetto di sigarette, l’unico mezzo che al momento aveva a disposizione per scaricare l’ansia e la frustrazione. Tirò una profonda boccata di fumo, inebriandosi del profumo acre della nicotina che le bruciava la gola e i polmoni.

-Dovresti piantarla di fumare come una ciminiera-

Sorrise, al ricordo di una delle tante chiacchierate notturne con il suo Rastaman. Stavano seduti su una panchina piena di scritte di dubbio senso, e lei aveva portato le labbra all’ennesima sigaretta della serata.

-Anche tu fumi come una ciminiera, e pure tuo fratello scommetto che non è da meno- aveva ribattuto secca.

In effetti, era la verità, tanto che Tom aveva taciuto.

-Bill è peggio- aveva sbottato lui, come per discolparsi.

-E chissene, tanto i  tuoi polmoni vanno a farsi fottere comunque, non importa se fumi tanto o poco. Quello che ti distrugge è il fumo in sé-

Se la ricordava la faccia di Tom, come se non si aspettasse tanta consapevolezza e schiettezza da lei. E dire che ormai si conoscevano da un pezzo!

-Ma più uno fuma e più si rovina, cara la mia saputella! Dovresti saperlo bene, tu- adesso il tono del ragazzo era molto simile a quello di un bambino capriccioso che tenta in tutti i modi di avere ragione.

-Rastaman, chiudi quella bocca e piantala di frignare come un moccioso-

Un po’ le mancavano i loro battibecchi, quei loro discorsi assurdi che con nessun altra persona avrebbe intavolato. Tom, superato l’iniziale odio reciproco e la diffidenza, si era dimostrato un grande ascoltatore. Il ragazzo stesso era rimasto sorpreso delle sue doti: di solito con le ragazze lui non parlava molto, preferiva passare ai fatti. Non poteva farci nulla, ma molto spesso finiva per distrarsi e non riusciva a mantenere in piedi una conversazione seria. Con Nesta, invece, era diverso, e probabilmente la ragazza stessa se ne rendeva conto. Nonostante non rispecchiasse il suo modello ideale di ragazza, aveva dovuto ammettere, almeno a sé stesso, che lei era riuscita dove in molte avevano fallito. E questo neanche la ragazza poteva saperlo. Con una nota di rammarico si ritrovò a pensare quanto fossero lontani. Eppure, era stata proprio lei a volersi allontanare, a voler cercare quella libertà che con tanta disperazione agognava. Il chitarrista probabilmente le avrebbe detto che era una sciocca se pensava che sarebbe bastato allontanarsi qualche kilometro per arrivare dove lei sperava. Ma lei, adesso, era comunque lontana.

Jacqueline, quando aveva saputo da Christian che Nesta non era a casa aveva avuto il brutto presentimento che non se ne fosse andata per una delle sue tante “gite” notturne. Il ragazzo si era adoperato in tutti i modi per rintracciarla, nella speranza che si fosse rintanata a casa di uno dei tanti tossici che frequentava per avere la sua dose. Eppure, nessuno dei ragazzi che frequentava aveva saputo dirgli nulla, un paio nemmeno gli avevano risposto, mandandolo a quel paese non tanto elegantemente. Era stato dopo l’ennesimo buco nell’acqua, all’una di notte ormai, che fratello e sorella avevano avuto un’idea, tanto balzana quanto geniale. C’era un’ultima persona che poteva avere notizie di Nesta.
Tom, andando ad aprire la porta tra un insulto e l’altro, certo non poteva immaginarsi di chi si sarebbe trovato davanti.

-Sei tu l’amico di Nesta?- domandò una ragazza che, ad occhio e croce, doveva avere poco meno di trent’anni.

Nesta non aveva mai parlato a Tom della sua famiglia, ma anche senza che l’avesse fatto il ragazzo seppe di per certo che quei due giovani adulti che lo fronteggiavano dovevano avere un qualche legame di parentela con lei.

-Allora, sei tu sì o no?- incalzò il ragazzo. Il chitarrista spostò lo sguardo su di lui, rimanendo impressionato da quanto somigliasse a Nesta: non c’erano dubbi, doveva per forza essere suo fratello.

-Sì, sì sono io. È successo qualcosa?- chiese a sua volta, la voce ancora impastata dal sonno.

-Nesta è scappata per la milionesima volta. Volevamo semplicemente domandarti se ti aveva avvertito di una sua eventuale bravata- domandò la ragazza bruna, con aria quasi rassegnata.

-Non ne so assolutamente nulla, mi dispiace- disse sincero il ragazzo, cercando di ostentare calma e disinteresse.

Cercò di non indugiare troppo sul velo di tristezza mal celata che annebbiava gli occhi di entrambi i due.

-Volete entrare?- domandò semplicemente allora, notando con la coda dell’occhio la chioma scura del fratello fare capolino dall’ingresso. Sia il ragazzo che la ragazza annuirono, mettendo piede nell’abitazione con una strana espressione di misto disprezzo e impassibilità.









My Space:

Eccomi! :)

Come promesso, ho aggiornato. Sul capitolo penso che non ci siano molte domande, se non: dove è diretta Nesta? Come hanno fatto i suoi fratelli a trovare la casa dei gemelli? (Eh sì, anche Tom e Bill se lo chiedono al momento!)

Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Per dubbi, chiarimenti e/o consigli io ci sono: chiedete pure.
^_^

Grazie mille a tutti i  lettori e le lettrici.

Alla prossima!



 

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Capitolo 9
*** Trust Me. ***


Capitolo 9: Trust Me.

§


Bill aveva osservato tutta la scena, e in quel momento detestò essere così indissolubilmente legato a suo fratello. Odiò capire così bene ciò che provava, si nauseò per la sua incapacità di potere fare qualcosa nonostante capisse, provasse le stesse emozioni che il fratello provava. Era stato un susseguirsi di smorfie ed espressioni che mutavano ad ogni parola di quei due sconosciuti. Aveva visto Tom assonnato che faceva accomodare quegli inusuali ospiti sul loro divano, lo aveva visto sprofondare tra i cuscini a sua volta, mentre gli invitava a parlare con un timore così poco accennato – ma presente – da risultare invisibile agli occhi di chiunque. Se non hai suoi, lo sguardo color caramello a cui niente sfuggiva. Poi, Bill avrebbe voluto solamente correre tra le braccia del fratello, stringerlo al suo petto ossuto e dirgli che sarebbe andato tutto bene, che avrebbero trovato un rimedio a tutto. Insieme, sarebbero venuti fuori anche da quella storia. Invece, si era imposto contegno: era rimasto pietrificato al suo posto, difronte al divano, mentre lottava con tutto sé stesso per mantenere le membra ferme. Tom, invece, aveva combattuto inutilmente quella battaglia già persa in partenza. Però Bill lo ammirò ugualmente, nonostante vide i suoi lineamenti indurirsi, rendendo il suo viso una maschera grottesca, mentre gli occhi trattenevano le lacrime che lui sapeva bruciargli la pelle.
Solo i due ospiti sembravano non rendersi conto di quel piccolo caos di emozioni celato dai due gemelli, momentaneamente scossi da una tempesta interiore che condividevano appieno. Perciò avevano continuato a parlare sommessamente, senza tradire nessuna emozione.

-Non è la prima volta che succede. Speravamo solamente che questa volta fosse venuta a cercare riparo qui- stava dicendo la ragazza mora, che si era presentata loro come Jacqueline.

-Scusa se interrompo, ma come avete fatto a trovare casa nostra?- domandò Bill, che certo non desiderava che altre mandrie di ragazzi, o più probabilmente ragazze e fans, venissero a disturbarli.

-Ci abbiamo messo un po’, ma Nesta ci aveva accennato del suo “ricovero” da parte di un gruppo di ragazzi gentili, che abitavano vicino al parco. So che posti frequenta mia sorella, e quello era una delle sue mete preferite- rispose Chris.

-Sentite, ma io, noi, non possiamo fare nulla. Ci dispiace, davvero, ma non abbiamo i mezzi necessari per trovare vostra sorella- fece spiccio Bill, odiandosi nel vedere quell’ombra di preoccupazione e tristezza segnare il volto del gemello.

Tom, ti prego, guarda in faccia la realtà: non possiamo fare nulla.


La macchina bianca di Tom sfrecciava veloce sull’asfalto nero solo un quarto d’ora dopo. Erano state inutili le proteste di Bill, il suo continuo “Noi non possiamo fare niente per lei”. Dopo che avevano congedato con un sorriso forzato i due fratelli, si era messo le chiavi della macchina in tasca e il cappellino in testa. Il ragazzo volse leggermente il capo verso la sua destra: la chioma di suo fratello era sparpagliata sul cuscino, e Bill sonnecchiava tranquillamente. Tom non poté fare a meno di sentirsi felice, in fondo. Suo fratello, dopotutto, l’aveva seguito in quella follia anche quella volta.
Il ragazzo non aveva un’idea precisa dove incominciare a cercare Nesta, ma era certo che prima o poi avrebbe ritrovato la ragazza: non importava quanto ci avrebbe messo.

- Ompf… Umm…- una serie di mugolii comunicarono al ragazzo che il fratello aveva appena abbandonato il mondo dei sogni.

Merda.

-Haw, Tomi, ma da quanto siamo in macchina? Che ore sono?-

Appunto.

-Sono quasi le due e mezza di mattina, e siamo in macchina da una quindicina di minuti- rispose paziente il ragazzo, senza distogliere gli occhi dalla strada. Aveva bisogno di un indizio, qualsiasi qualcosa…

-Fermiamoci un attimo, devo assolutamente sgranchirmi le gambe!- fece Bill stiracchiando le lunghe braccia.

Grandioso.

Il primo bar che decisero poteva fare al caso loro era piuttosto piccolo e dismesso. L’insegna luminosa era per metà spenta, e il tendone color crema doveva aver visto giorni migliori. All’interno non c’era quasi nessuno, se non una giovane ragazza dietro il bancone e un paio di uomini di mezza età dal volto pallido e lo sguardo spento. Tom alzò istintivamente il cappuccio della felpa sul capo, stringendosi nelle spalle.

-Ne approfitto e chiedo se per caso è passata di qui una ragazza che possa anche solo lontanamente somigliare a Nesta- bisbigliò Tom all’orecchio del gemello.

Quest’ultimo scrollò le spalle, senza mostrare grande interesse. Infilò le mani in tasca, sbirciando dalla vetrata del locale l’oscurità che andava lentamente incontro alla luce, nella vastità del cielo punteggiato di stelle luminose. Sorrise, nonostante tutto anche lui sperava che prima o poi suo fratello ritrovasse quella ragazza così strana e decisamente imprevedibile. Lo distolse dai suoi pensieri la mano del fratello che si posava leggera sulla sua spalla ossuta, facendogli cenno di uscire fuori. L’espressione del ragazzo valeva più di mille parole, e il sorriso speranzoso sulle labbra del cantante sfumò via, veloce come era comparso.

Da quella notte erano passati tre giorni, e a nulla erano valsi i vari tentativi di soccorso in  cui i due gemelli si erano cimentati. Ne avevano parlato con Georg e Gustav, ma nemmeno loro avevano potuto fare molto. Il fratello e la sorella di Nesta non erano più tornati a fare loro visita, e a tutti cominciava a stare stretta quella situazione di tensione.
Quando il campanello aveva suonato, fastidioso come mai, Bill era andato ad aprire svogliato, pensando al fratello che aveva dimenticato le chiavi in casa, o a Georg e Gustav che erano andati a trovarlo e non avevano avuto il tempo di avvisare in tempo. Pensava ad una visita normale da parte di un conoscente normale. Si sbagliava.

Era forse il primo giorno di pioggia violenta da quando era iniziata l’estate. Non le usuali goccioline delicate che cadono verso l’inizio di luglio, no, era un vero e proprio acquazzone estivo, di quelli che lasciano nell’aria la tanto agognata frescura. Lei sembrava sempre più uno strano pulcino inzuppato fino alle ossa, con quei rasta incollati al volto come tanti serpentelli e gli occhi grandi sgranati. Sorrideva stentatamente, e Bill poté chiaramente distinguere, sotto quel sorriso timido, una smorfia di dolore. Aveva abbozzato un saluto, poi gli era praticamente crollata tra le braccia a peso morto. Fortunatamente, era difficile stabilire chi tra i due fosse più mingherlino. La pelle di Nesta era fredda e calda al tempo stesso: ogni volta che le sfiorava le mani o le braccia nude sentiva uno strano calore avvolgerlo, che contrastava con la freddezza che il suo corpo emanava. Ed era profumata: vento, pioggia, nicotina.
Il ragazzo l’aveva sorretta e condotta in salotto, dove l’aveva fatta sedere con delicatezza, lasciando che si accoccolasse tra i cuscini. Lei socchiuse gli occhi, esalando un sospiro lieve.

-Grazie- bisbigliò, prima di cadere addormentata.

Tom quando aveva rimesso piede in casa quasi non aveva creduto ai suoi occhi. Batté le palpebre un paio di volte, sgranando gli occhi, come per volersi accertare che lei fosse veramente lì. Scalza, sdraiata sul suo divano. Salva. Sentì il braccio di Bill circondargli le spalle, mentre gli sorrideva sereno e ammiccante.

-Vi lascio soli. Penso abbiate parecchio da dirvi- fece, con nonchalance. Tom, per una volta, ringraziò l’intuito del gemello.

Si sedette sul pavimento, vicino al divano, in modo da avere il volto all’altezza di quello di Nesta. Infatti, la prima cosa che lei vide quando si risvegliò furono proprio le iridi calde di Tom. Non se li ricordava così belli i suoi occhi, anzi, per un certo lasso di tempo nemmeno gli rammentava. Vedeva solo nero, dappertutto, poi i colori comparivano a macchie sfocate e le inondavano la mente, e questa riportava alla luce ricordi passati. La sua testa diveniva teatrino di una storia dove passato, presente e futuro non c’erano. Erano tutt’uno, e lei viveva l’attimo.

-Come stai?- domandò il ragazzo. Appena le parole lasciarono le sue labbra, però, si pentì di quella domanda così inutile.

-Bene Rastaman, sto bene adesso- rispose lei, mentre un altro sorrisino le increspava le labbra.

Sei bella quando sorridi.

Tom glielo avrebbe voluto dire, avrebbe desiderato ripeterglielo fino allo sfinimento. Eppure, non poteva. Se fosse stata una delle tante ragazza glielo avrebbe confessato senza problemi, ma lei… lei era Nesta. E non poteva permettersi passi falsi proprio adesso, ora che era così vicino a lei, e non solo fisicamente.

-Dai, Rastaman, chiedi quello che vuoi- biascicò, allungando una mano per scostargli dal viso un ciuffo di capelli sfuggito all’elastico. Tom si beò della carezza della sua mano fresca, esitando un istante prima di porle quella domanda che tanto gli premeva sul cuore.

-Perché?- soffiò il ragazzo ad un nonnulla dalle labbra della ragazza.

-Perché no? Dopotutto, non ho più niente da perdere- sibilò lei.

-Ti sbagli- ribatté Tom, anche se ormai faceva fatica a formulare frasi di senso compiuto, poiché la sua mente riusciva a focalizzare solo lei, con i suoi occhi smeraldini, le labbra piene e screpolate, la pelle profumata di aria e la voce arrochita dal tempo passato sotto la pioggia fredda.

-Hai tua sorella- continuò, sfiorandole la guancia con le nocche della mano.

-E tuo fratello- aggiunse, continuando quella lieve carezza.

Come fai a saperlo?

Nemmeno riuscì a pronunciare quell’insulsa domanda, perché ciò che affermò in seguito il ragazzo la lasciò totalmente spiazzata.

-Hai me-

Tom cercò gli occhi della ragazza, per scovarvi la benché minima reazione alle sue parole. E scorse un bagliore si sorpresa, stupore e gioia nei suoi occhi. Che fosse vera e propria felicità non ne era proprio sicuro, ma volle convincersi che sì, lei era contenta che lui le avesse detto quelle due semplici parole.

-E con ciò? Che cosa ti dice che me ne importi qualcosa di averti con me?- sbottò, sdraiandosi sulla pancia e incrociando le braccia sotto il seno, per poi sporgersi leggermente verso di lui. Il ragazzo sorrise: era una sfida ogni volta, con quella maledetta rompiscatole.

-Fidati- sussurrò direttamente sulle sue labbra, prima di sfiorarle leggermente con le proprie.

Pesca. Velluto.

Ecco come erano le labbra di Nesta: morbide come il velluto e dolci, proprio come il frutto estivo. E il suo respiro caldo sulla pelle era una delle cose più belle del mondo, faceva sentire protetti e al sicuro.

Droga. Musica. Metallo.


Sorrise quando la pelle calda delle sue labbra venne a contatto con il metallo freddo del piercing del ragazzo.

Non si sentiva così bene dall’ultima volta che aveva appoggiato la siringa. Baciare Tom era un po’ la stessa cosa: stava così dannatamente bene che, se avesse potuto, non avrebbe mai smesso. Era una droga e avrebbe creato dipendenza, ne era certa. Baciare Tom la faceva sentire libera, ad ogni lieve carezza sentiva il cuore più leggero e la mente libera da ogni pensiero. E il suo, di cuore, che sentiva battere veloce sotto la propria mano poggiata sul petto del ragazzo – come era finita lì la sua mano? Perché non se ne era accorta? – era come musica. Potente, vigorosa. Soprattutto, era una melodia che avrebbe anche potuto ascoltare per sempre







My Space:

Eccomi!

Scusate il ritardo, ma trovarsi un ritaglio di tempo è sempre più difficile. Ad ogni modo, non perdo tempo in chiacchiere.

Allora, diciamocelo... FINALMENTE! ;)

Che dite, era ora che i nostri due protagonisti si lasciassero un po' andare, sì o no?  Come avete notato Nesta mantiene sempre, nonostante tutto, il suo atteggiamento di costante sfida, poichè le è difficile fidarsi. Sarà riuscito Tom, con le sue parole, ha fare breccia nel suo cuore? Nel prossimo capitolo si farà chirezza anche su questo. 
Tranquilli, non temete che arriveranno anche tutte le spiegazioni necessarie per la "fuga" di Nesta.

Ne approfitto per ringraziare ancora mille volte everlastingbeing per le meravigliose recensioni! <3

Grazie a tutti per il sostegno, siete importantissimi.

Alla prossima!




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Capitolo 10
*** Broken. ***


Capitolo 10: Broken.

§
 

Sospiri.

La stanza se ne era colmata ben presto. Erano un suono meraviglioso, almeno alle orecchie dei due ragazzi.

Mani.

Nesta aveva le mani dalle dita lunghe e affusolate, e al pollice della sinistra portava un semplice anello d’argento, che ad essere sincero non aveva mai notato prima. Aveva le mani fredde che si erano scaldate nell’arco di brevissimi secondi.

Capelli.

A Tom in genere piacevano i capelli delle ragazze, di tutti i tipi: biondi o bruni, lunghi o scalati. Gli bastava poterci immergere le mani, gli bastava poterci giocare. I capelli di Nesta, invece, così conciati non gliene davano la possibilità. Stranamente, non gli interessava più di tanto.

Occhi.

Eccoli lì, quegli specchi limpidi velati da chissà quale sentimento. Più li guardava e più si incantava: quanto sfumature celavano? Quelle pagliuzze dorate vicino alla pupilla da dove provenivano? Non le aveva mai riscontrate in nessun’altra ragazza, e in lei erano ben visibili, soprattutto standole così vicino.

Barriera.

E quel muro con cui lei fino a quel momento si era protetta, adesso dov’era? Sempre lì, invalicabile e inattaccabile da qualsiasi sentimento, oppure lui era riuscito a farvi breccia? Tom avrebbe tanto voluto saperlo, ma preferiva non toccare l’argomento per un po’. 
Dopotutto, l’unico vero muro che al momento aveva davanti era quello bianco della salotto, dove spiccavano alcune foto dei Tokio Hotel al gran completo. Perché preoccuparsi?

Nesta si era fatta di nebbia all’alba, lasciando Tom solo, rannicchiato alla meno peggio sul divano. Probabilmente non lo avrebbe mai ammesso, ma aveva provato uno strano senso di vuoto quando, svegliandosi, si era accorto dell’assenza della ragazza.

Scappi?

Se lo era chiesto molteplici volte, ma in quell’occasione la domanda che tanto gli premeva sul cuore necessitava di una risposta, al più presto. Non poteva più rimandare, e anche Nesta se ne era resa conto presumibilmente. Si stava ancora arrovellando su quei dubbi, quando suo fratello aveva fatto il suo silenzioso ingresso nel salotto. Gli aveva lanciato uno sguardo bieco, occhieggiando la maglietta spiegazzata che Tom indossava e un paio di cuscini caduti miseramente sul parquet.

-Che fai, mi racconti tutto spontaneamente o devo scucirti le informazioni a forza?- domandò Bill, facendogli cenno di seguirlo in cucina. Tom mugugnò, rimanendo sdraiato sul divano e stiracchiando braccia e gambe.

Temo dovrai sfoderare le tue doti persuasive una volta ancora, gemellino…

Mentre i due fratelli si apprestavano a intrattenere una lunga chiacchierata mattutina, Nesta cercava la via di casa. E, nel frattempo, racimolava anche il coraggio per ripresentarsi davanti alla sua famiglia. Sapeva di non meritarsi comprensione dai suoi fratelli, perché era la prima a negarla agli altri, ma sperava anche di non essere cacciata con eccessiva durezza. In fondo al cuore, confidava che i suoi fratelli provassero ancora un briciolo di amore nei suoi confronti. Era leggermente angosciata, nonostante sapesse che, più in basso di così, non poteva cadere. Forse.

Il portone del palazzo era socchiuso; lo aprì con una lieve spinta della spalla. Socchiuse gli occhi – era ancora stanca, nonostante il soggiorno dai ragazzi – e prese un profondo respiro. Avrebbe affrontato anche quello, l’ennesima conseguenza delle sue scelte avventate.
Aveva aperto Denise, con il suo sorrisino ingenuo e tenero. Le aveva gettato le braccia intorno alla vita appena Nesta aveva messo piede in casa, e l’aveva stretta a sé. Presto anche Daphne le aveva raggiunte, abbarbicandosi alla gamba della sorella. Ben presto la sorella maggiore si era ritrovata avvolta da quel meraviglioso calore che era l’affetto delle due sorelline.

-Le mie stelline- ripeté più volte Nesta, con il volto immerso nelle chiome delle due bambine.

-Bambine, chi c’è che…- la voce di Jacqueline era arrivata come una pugnalata al petto di Nesta, una doccia fredda che sembrò svegliarla dal suo torpore.

Nonostante questo, rimase con il volto nascosto. Aveva sentito un rumore ben distinto, come qualcosa di fragile che si frantuma al suolo, accompagnarsi alla domanda di J-Line. Alzò il viso: suo sorella le stava di fronte, con gli occhi sgranati e le mani ancora atteggiate come per reggere il vaso che adesso giaceva al suolo in mille cocci colorati.

Schegge.

Tante, veramente tante. Sottili, spesse, acuminate o levigate. E a Nesta parve che non solo il vaso si fosse frantumato, ma insieme con esso anche il suo cuore, che ora giaceva spezzato nel suo petto mentre mille schegge le ferivano la pelle.

Acqua.

Rivoletti d’acqua bagnavano il pavimento e le ginocchia della ragazza, accucciata su esso insieme alle gemelline. Non seppe dire con sicurezza quando, a quell’acqua fredda, si aggiunsero le sue lacrime calde.

Fiori.

Erano orchidee, quelle che tanto amava Jacqueline. Di un bel porpora intenso, vivido. Sparse scompostamente sul pavimento, sembravano l’opera di un artista confuso, dove la luce giocava uno strano ruolo: non illuminava i fiori, bensì serviva per crearvi sopra strani intrecci di ombre.
Nesta si aspettava che Jacqueline facesse qualcosa, qualsiasi cosa. Invece, si limitò a sedersi anche lei sul pavimento coperto di cocci, incurante di procurarsi eventuali tagli. E pianse silenziosa, ponendo una muta domanda alla ragazzina che le si trovava difronte, ma che stentava a riconoscere come sua sorella.

E adesso?

Jacqueline le aveva chiesto di scegliere. Di decidere, una buona volta, cosa fare: scomparire per sempre dalla loro vita, o magari ricominciare da capo. Insieme. Nesta era rimasta interdetta da quella specie di ultimatum: solitamente lei non sceglieva, no, lei subiva le conseguenze delle decisioni altrui. Era rimasta silenziosa qualche istante, mentre le due gemelline le si stringevano convulsamente contro, implorandola silenziosamente di non abbandonarle. Si era resa conto, però, che se fosse restata non avrebbe cambiato la situazione, anzi. Era una nota stonata in quella famiglia di sopravvissuti, era brava solamente a creare problemi e malintesi. Però… però era la sua famiglia, nonostante tutto. Era l’unica cosa buona che le rimaneva, in mezzo a tutto quel marcio. C’era anche Tom, era vero, ma come avrebbe potuto avere l’ardire di definirlo suo?

-Proviamo a ricominciare, Nesta. Proviamoci- sussurrò Jacqueline, anche se era palese la sua scarsa convinzione.

-Non ha senso. Tanto dopo un po’ ricomincerebbero i problemi, io non sarei in grado di affrontarli e scapperei. Come sempre- aveva sbottato Nesta.

-Se parti così prevenuta, però, non ci aiuti di certo!- sbottò Jacqueline, la cui pazienza non era certo infinita.

-Lo vedi? Vedi? Anche adesso siamo già ai ferri corti io e te. Dobbiamo cercare di… di… Merda, nemmeno io lo so cosa dobbiamo fare per andare avanti!- aveva quasi urlato Nesta, con disperazione. Si sentiva sprofondare sempre più, ed era stanca e sentiva l’avvicinarsi dell’ennesima crisi. Era stanca di quella vita, ma non poteva fare altro che trascinarsi avanti, come una bambola rotta.

Si erano ripromesse di provarci. Avrebbero cercato di salvare il salvabile, di essere tolleranti e, soprattutto, avrebbero cercato assolutamente di proteggere le gemelline da eventuali eccessi d’ira, come era capitato in passato. Christian, tornato a casa, aveva gettato le braccia al collo della sorella, stringendosela al petto e cullandola fraternamente, carezzandole i capelli e cercando di farla sentire al sicuro. Non fece domande, soprattutto a proposito dei mille cocci sparsi in salotto, che brillavano sul pavimento come gemme preziose.

Quella sera, seduta sul parapetto del suo adorato tetto, Nesta non poté fare a meno di dedicare un momento a Tom. In tutta quella tempesta, in tutto quel mare di persone, tra rapporti che andavano in pezzi ed altri che si consolidavano, lui era il suo unico punto fermo. In tutta quella incertezza, in quel dolore sordo che la stordiva ogni giorno di più, lui era lì. Reale, vivo. Felice. Era uno spiraglio di luce, le dava la speranza. Peccato che avesse dovuto arrivare a tanto per capire che, in fondo, lei a Tom voleva bene. Un tipo particolare di affetto – molto profondo e sincero - difficile da trovare, un legame forte che raramente unisce persone così diverse. Avrebbe desiderato che in quel momento fosse lì con lei. Avrebbe voluto stringersi contro il suo petto, ascoltare il rimbombare rassicurante del suo cuore e respirare a pieni polmoni il suo profumo così buono. Avrebbe voluto spiegargli il perché di tutte quelle follie, il suo terrore per l’avvenire, il suo preferire lasciarsi totalmente andare, senza conservare mezze misure. Avrebbe voluto confessargli il perché vedesse il mondo solo bianco o nero, senza riuscire cogliere quelle migliaia di sfumature che vi erano in mezzo.

Rastaman, arriverà il momento…

Socchiuse gli occhi, lasciando che il vento lieve le scompigliasse i capelli. Cercò di rilassarsi, ma il suo corpo si tese l’istante subito dopo, quando un paio di mani le oscurarono gli occhi. Sentì un respiro caldo sul collo, e sorrise a fior di labbra.

Coincidenza, Rastaman?

-Allora, indovina un po’ chi sono- le bisbigliò una voce ben conosciuta all’orecchio.

-Umm, ma chi sarai mai… Non so proprio cosa pensare!- fece, fintamente pensierosa.

-Ragazzo, giù le mani- sbottò poi, come pentitasi di quell’istante di eccessiva giocosità.

-Che palle, ma verrà mai il giorno in cui mi chiamerai per nome?- sbuffò il ragazzo, senza lasciare la presa sul suo viso.

-No, penso di no. Ora mollami-

-Prima dì il mio nome. Non ho mai avuto la fortuna di sentirlo dalle tue belle labbra-

-Sei assillante- berciò lei, stizzita, mentre incrociava le braccia al petto.

-No, hai sbagliato gemello: quello assillante è Bill, io sono quello che rimarca i concetti- rispose Tom con ovvietà, come se stesse spiegando un concetto piuttosto semplice ad un bambino piccolo.

-Ah, tu “rimarchi i concetti”, eh? Beh, lasciameli rimarcare anche a me: sei assillante e pretendi sempre di avere ragione- sbottò Nesta, divertita, sotto sotto, dalla piega che stava prendendo la conversazione.

-Ma è per questo che mi adori, in fondo, no?- sussurrò lui, avvicinando il volto al collo della ragazza.

-No, è per questo che ti prenderei a ceffoni da mattina a sera, ragazzo-

-Stronza- ribatté il ragazzo fintamente offeso.

-Sì, lo so che mi vuoi bene, non c’è bisogno che lo ribadisci tutte le volte-

Esasperante, ecco com’era quella ragazza. Eppure, Tom la trovava decisamente intrigante anche se piena di difetti. Ad ogni modo, non lasciò cadere le mani dai suoi occhi, anzi, serrò ancora più le dita.

-Come la mettiamo, ragazza? Dici il mio nome e ti lascio andare o restiamo qui così?- domandò Tom.

"A me ve benissimo in ogni caso", a
vrebbe voluto aggiungere. Rimase in silenzio, aspettando una decisione da parte della sua“ragazza”.









My Space:

Ebbene sì, vi lascio così, senza svelarvi altro.


Ahaha, sono tornata!

Mi scuso profondamente per non aver aggiornato ieri, ma non ne ho avuto veramente il tempo. Dai, non è un ritardissimo, giusto un giorno...  :)

Due parole sul capitolo e poi mi faccio di nebbia come la nostra protagonista. Proprio da lei incomincio, specificando una cosa: Nesta è umana, ha le sue debolezze e le sue paure. Nesta è umana, e dopo aver lottato a lungo per nascondere questa sua umanità, le sue barriere cominciano a cedere. A rompersi.
Tom, invece, è sempre Tom (per fortuna, direte voi): dolce e scontoso allo stesso tempo.
Basta, non aggiungo altro.

Ci si vede mercoledì e sarò puntuale, promesso! ;)

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Capitolo 11
*** Under The Blue Sky. ***


Capitolo 11: Under The Blue Sky.

§

 

-Allora?- incalzò Tom dopo alcuni istanti di silenzio da parte della ragazza.

-Ragazzo, perché ci tieni tanto?- chiese lei, ignorando totalmente i suoi sbuffi.

Ascoltò il silenzio incerto di Tom, che tacitamente si poneva la stessa domanda.

-Perché sei tu- aveva mormorato, sciogliendo la presa delle mani sul suo volto.

Nesta si era voltata, un’espressione incredula a incorniciarle il viso. Abbozzò un sorriso. Aveva puntato lo sguardo in quello caldo e ammaliante del ragazzo, cercando di non perdersi nulla.

-Sei romantico, Tom- sussurrò, mentre il sorriso di stendeva sulle sue labbra.

Melodico.

Una parola semplice come il suo nome riusciva addirittura a diventare melodico pronunciato da quella voce strana. Tre lettere che divenivano molto di più se strappate alla  voce di quella ragazza, per cui si rendeva conto di provare molto più che semplice affetto.
Il ragazzo ricambiò il sorriso, scrutandola per un istante e decidendo, poi, che avrebbe anche potuto azzardare. Si avvicinò al viso della ragazza, sfiorandole per la seconda volta le labbra rosee.
Nesta non si scostò, approfondendo il contatto con quella bocca calda e morbida.

-Tom, Tom…- bisbigliò contro la sua pelle, con gli occhio socchiusi e il cuore che batteva veloce.

-Ah, Nesta, così mi sorprendi: prima fai tanto la sostenuta e poi non fai che ripetere il mio magnifico nome?- ribatté Tom, scostandosi appena da lei, per poi lambirle nuovamente le labbra con le proprie. Lei sorrise, rimanendo incantata da quel momento così semplicemente perfetto. Lei che la perfezione l'aveva sempre rifuggita.
Qualche minuto dopo stavano seduti uno accanto all’altro sul cornicione, incuranti dell’altezza, del buio che li avvolgeva e di tutto ciò che non fosse loro.

-Guarda, che cos’è?- domandò ad un certo punto Tom, notando una cospicua folla di persone schiamazzare lungo la stradina sottostante.

-Oh, che sbadata! È serata di festa, non te l’avevo mai detto?- fece Nesta, sporgendosi un po’, sotto lo sguardo vigile del ragazzo.

-No, effettivamente no… Che si festeggia?- chiese incuriosito, mentre notava che alcuni bambini reggevano lunghi rotoli di stelle filanti colorate. In lontananza, lo scoppio dei primi petardi li fece sussultare.

-Non l’ho mai capito neanche io di preciso. Però quando ero piccola nostra madre ci portava sempre a questa festa. Si tiene solo nei sobborghi, sai? L’ultima volta che ci sono andata non è stato esattamente piacevole: mi sono ubriacata pesantemente e dopo dieci minuti che tentavo di ballare sono cascata a terra in preda alle convulsioni. Ho rigettato l’anima- confessò lei.

L’espressione di Tom trasudava stupore, rammarico, ma anche curiosità per la sua storia. Sperava vivamente di riuscire a scucirle anche il motivo della sua fuga, anche se non ci contava troppo.

-Avevo sì e no sedici anni- proseguì lei –E d’allora non ci sono più tornata- aggiunse poi.

-Quello stesso anno poi sono nate le gemelle, e nostra madre se ne è andata nemmeno una settimana dopo, soffocata da responsabilità non in grado di prendersi. Le ha cresciute Jacqueline, mia sorella maggiore, quelle due adorabili stelline- rivelò, senza guardare il ragazzo, ma lasciando vagare lo sguardo nell’immensità del cielo che si tappezzava lentamente di stelle luminose.

-Siete state forti- bisbigliò Tom, non totalmente sicuro che fosse la cosa più adatta da dire.

-No, sono stati forti. Chris e J-Line si sono accollati tutte le responsabilità che i nostri genitori hanno rifuggito. Io non ho fatto nulla- sussurrò, con la voce leggermente incrinata.

-Ragazzo, è inutile che mi guardi così: è la realtà. Io la maggior parte dei giorni nemmeno mettevo piede a casa, ed è così tutt’ora. Io scappo, e non ne vado fiera, è che non so fare nient'altro-

Esposta.

Vulnerabile.

Sola.

Ecco come appariva la ragazza agli occhi di Tom. Ed era così umana, così perfettamente fuori da ogni insulso schema, priva di quei mille veli che la rendevano un’immagine sfocata ai suoi occhi.

-Nesta, perché sei scappata l’ultima volta?- domandò il ragazzo, intrecciando le sue dita con quelle affusolate della ragazza. Un gesto innocente, pieno d’affetto, per farle sentire quanto le fosse realmente vicino. Quanto desiderasse che lei gli rivelasse quel segreto che sapeva pesarle sul cuore. Perché qualcosa di importante che l’aveva spinta nuovamente a rifuggire la realtà doveva esserci.

-Non penso capiresti-

-Ti sbagli- bisbigliò lui, scostandole dal volto una ciocca di capelli adornata di perline colorate e tintinnanti.

-Ragazzo, perché sei così curioso? Perché vuoi sapere tutto di me?- domandò lei, portandogli una mano sulla guancia per costringerlo a incrociare i suoi occhi limpidi.

Perché sì, perché sei tu e nessun’altra.

Perché nemmeno io so cosa provo quando ti bacio, quando mi perdo a guardarti.

Il suo cuore urlava quelle parole, ma qualcosa lo spingeva a trattenersi. In più, Nesta non gli pareva certo una ragazza da apprezzare una dichiarazione d’amore così spontanea. E poi, era davvero amore quello che provava per lei? Non si era mai innamorato prima d’ora – se non della musica, ma quella era un’adorazione che andava ben oltre un effimero sentimento-, come avrebbe potuto dirlo con certezza?

-Non lo so ad essere sincero, ma vorrei solo che ti fidassi di me- ammise.


-Ah, abbiamo visto come finisce quando mi chiedi di fidarti di te- sbuffò lei, sogghignando appena.

Tom ricambiò lo sguardo carico di sottointesi, ben ricordando il loro primo bacio.

-A me non è dispiaciuto- ribatté il ragazzo, scrollando le spalle con noncuranza 
-Ma non divagare: ero serio. Vorrei veramente che capissi quanto tengo a te- aggiunse poi con fermezza.

Nesta abbozzò un sorriso tirato, spostando nuovamente lo sguardo sul panorama circostante.

Anche io vorrei che tu lo capissi, anche io ragazzo…

-Avevo paura- bisbigliò, e Tom stentò a credere alle sue orecchie. Non disse nulla, aspettando che lei proseguisse. E la sua curiosità venne accontentata.

-Era l’ennesima giornata, uguale alle precedenti e a quelle che sarebbero venute. Ovunque, intorno a me, i soliti visi tristi e pallidi sotto la pelle baciata dal sole. Pochi sorrisi, continue urla. Il doloroso piacere dell’ago che buca la pelle, il sangue che scende in un rivolo scarlatto e bagna il pavimento. La vista che si appanna e che si oscura, i colori che poi ricompaiono vividi e allucinanti. I rumori ovattati e assordanti che si alternano senza fine, silenzio e rumore che si fondono in un unico suono. Quante volte era già successo? Avevo perso il conto. Quando mi sono ripresa, intontita e stremata, non avevo voglia nemmeno di alzarmi. Perché poi? Cosa mi avrebbe aspettato oltre quel muro? Ma io, oh, io lo volevo vedere il mondo dietro al mio muro, non sai quanto. È esattamente come canta tuo fratello, le emozioni sono così affini e distanti allo stesso tempo che nemmeno sapevo cosa pensare. Ho pensato di andarmene. Lontano. Volevo scappare da tutto e da tutti senza neanche avere la forza di alzarmi da quel freddo pavimento sporco di sangue, sudore e chissà che altro. Capisci? Avrei semplicemente voluto sparire, perdermi per sempre senza tornare indietro. E non avevo le palle per farla finita. Avevo niente e tutto dietro di me, non potevo lasciare così in sospeso ogni cosa. Avevo bisogno di una via di mezzo, di un’alternativa: scappare. Fuggire. Ritornare semplicemente quando e se sarei stata pronta. Era perfetto. E allora me ne sono andata, per tutto il tempo che mi occorreva per riflettere. Per slegarmi da una vita che non volevo vivere. Per essere libera-

Silenzio.

Contrariamente a quanto si era aspettato, Nesta non si era lasciata andare in un pianto liberatorio. Probabilmente aveva già avuto modo di sfogarsi, e davanti a lui non desiderava mostrarsi ancora più debole.

-Soddisfatto?- biascicò lei, rivolgendogli un’occhiata obliqua.

-Mi dispiace- riuscì semplicemente a dire il ragazzo.

-A me no- ribatté lei, alzandosi di colpo.

-Vieni, andiamo giù, sento la musica arrivare fino qui. Ti faccio provare qualcosa di meglio delle festicciole per VIP a cui sei abituato- disse poi, prendendogli la mano e tirandoselo dietro.

Tom era letteralmente sbigottito. Da tutto. Da Nesta, che sembrava una contraddizione vivente, che alternava momenti di euforia a istanti di profonda riflessione; da sé stesso, che non aveva avuto la forza di dirle di no, e adesso si ritrovava in una specie di mondo parallelo.

Caos.

Tantissime persone, tutte uguali e diverse allo stesso tempo.

Colori.

Sgargianti, letteralmente sgargianti. Mille gradazioni che si mescolavano tra loro, in quella piazza ricolma di persone. Il vociare continuo era coperto dalla musica alzata a livelli esorbitanti, che reggeva benissimo il confronto con le migliori discoteche del centro. Se non errava, proveniva dal palco situato poco distante da dove si trovavano loro. I brani erano di tutti i generi, e ai pezzi dance si alternavano brani reggae o rock. Al parere di Tom tutta quella varietà ed eterogenia non era affatto male, anzi. Per certi versi era molto meglio delle solite feste a cui partecipava con i ragazzi.

-Allora, che ne pensi?- domandò Nesta, mentre gli allungava una birra fredda presa chissà dove.

-Avevi ragione: è meraviglioso!- esultò lui.

Si ricordò solo in quel momento di ciò che gli aveva raccontato poco prima la ragazza.

-Sei sicura di volere restare?- domandò, urlando per sovrastare il rumore circostante.

-Ahah, sì, tranquillo ragazzo. Sono passati tanti anni ormai, va tutto bene. Pensa solo a divertirti e a nient’altro!- gli urlò lei in rimando,
alzando le mani verso il cielo blu sopra di loro e cominciando a muoversi.

Sei sempre più bella Nesta, lo sai?

Tom nemmeno si rese conto di essersi soffermato a guardarla così a lungo. Però era innegabile: Nesta era bella, di una bellezza particolare, per nulla ricercata. Semplice, a modo suo, ma estremamente estrosa allo stesso tempo. Le luci psichedeliche, provenienti dai riflettori montati sul palco, la inondavano, creando strani ghirigori sulla sua pelle e illuminandole gli occhi di una scintilla quasi folle. I capelli le ondeggiavano intorno, e le perline attorcigliate in alcune ciocche tintinnavano in maniera impercettibile. Quando si accorse di essere presa sotto esame dallo sguardo del ragazzo, Nesta lasciò cadere la bottiglia vuota al suolo, lasciando che si frantumasse in mille pezzi, per gettare le braccia al collo di Tom. Lui ricambiò la stretta, ricominciando a ballare a ritmo con lei.

Dannatamente divertente.

Ecco come era quel luogo. Un paese delle meraviglie incastonato tra metropoli e desolazione, che racchiudeva in sé una popolazione altrettanto meravigliosa e incurante del mondo esterno. Lì era sufficiente vivere il momento, senza preoccuparsi cosa sarebbe accaduto dopo. Forse era anche per quello che, nel giro di un’ora, la ragazza aveva perso ogni freno, e stava per ricadere nell’ennesima tentazione.








My Space:

Rieccomi! :)

Dopo solo due giorni, nuovo capitolo! Spero vivamente di aver soddisfatto almeno un po' la vostra curiosità. Credo sia il primo capitolo in cui Nesta mostra veramente sè stessa e parte del suo passato.

Piccola avvertenza: non solo rose e fiori nel prossimo capitolo.

Un grazie a tutti quelli che seguono la storia, che preferiscono, ricordano o recensiscono. Come farei senza di voi?! ;)

Alla prossima!


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Capitolo 12
*** If I Fall... Down. ***


Capitolo 12: If I Fall… Down.

§

 

Luce.

Bianca e accecante, quella luce improvvisa l’aveva investita in tutto quel buio che sentiva circondarla. Fredda, surreale. Vivida e intensa, dai contorni sfocati, era apparsa in un bagliore improvviso. Ad accompagnarla, uno stridio lancinante e strascicato, estremamente fastidioso. Un guizzo doloroso, il peso del corpo che cade al suolo in un tonfo sordo. L’asfalto freddo e la pelle bollente. Il fiato che si mozza in gola. Silenzio. Poi, confusione.
Gli occhi di Tom non li ricordava così luminosi. E l’aria poco prima non le appariva così calda e soffocante. Boccheggiava, e non riusciva a mettere a fuoco chiaramente i contorni delle persone accanto a sé. Vedeva solo lo sguardo disperato del ragazzo che le stava accanto.

Perché sei triste, ragazzo?

Non ci stavamo divertendo?

Tom, Tom, perché non mi rispondi?

Parole e frasi sconnesse tra loro si affollavano nella mente della ragazza, mentre uno strano torpore l’avvolgeva. Sentiva uno strano peso gravarle addosso.

Tom, cosa succede?

L’angoscia cominciò a pervaderla quando si rese conto di non riuscire ad articolare una frase udibile al ragazzo, che continuava ad esserle vicino, ma lo vedeva agitarsi e gesticolare affannandosi. Avrebbe voluto urlare, farsi sentire, ma la voce restava imprigionata nella sua gola.
E continuava quel senso di oppressione e quel formicolio.

Tom, ti prego, guardami!

Lacrime silenziose cominciarono a bagnarle le guance, mentre perdeva lentamente il contatto con la realtà.

Tom, non lasciarmi.

-Nesta!- l’urlò del ragazzo squarciò il vociare concitato, sovrastando il cantilenante e  martellante risuonare della sirena dell’ambulanza, ormai vicina.

Agli occhi dei medici e dei soccorritori la scena, purtroppo, non risultò nuova. Cambiavano le fattezze delle persone, ma il nocciolo della faccenda era sempre lo stesso: un ragazzo o una ragazza, come in quel caso, riverso al suolo, attorniato da una folla di curiosi. Medesimi gli sguardi disperati, le abrasioni sul corpo colpito, i discorsi privi di senso. Stesse le domande.

-Potete aiutarla?- chiese un ragazzo che, agli occhi del medico, parve avere un volto familiare. Inizialmente, sempre uguali le risposte.

-Faremo il possibile- rispose l'uomo. Purtroppo… non sempre identici gli esiti.
 


Bill aveva ricevuto la telefonata del fratello alle quattro e mezza di mattina, nel bel mezzo di una profonda dormita.

Peccato che per mio fratello non ci siano orari…

L’aveva sorpreso la voce rotta dallo sconforto e dalla paura. Tra le frasi sconnesse e concitate aveva riconosciute solo alcune parole, e quelle poche che aveva sentito non gli erano piaciute. Affatto.

Festa, alcool, macchina, Nesta, ospedale.

Cinque dannate parole che rimbombavano nella testa del ragazzo in maniera ossessiva, risvegliandolo completamente dal suo torpore.

-Tom, cosa diamine è successo?- ebbe solo la forza di domandare, augurandosi, nonostante le premesse, di sbagliarsi.

Dall’altro capo del filo udì suo fratello prendere un lungo sospiro.

-Hanno investito Nesta- sussurrò.

Cazzo.

Il cantante era sopraggiunto in pochi minuti all’ospedale da dove l’aveva chiamato Tom. Trovò il gemello seduto in una delle tante poltroncine poste nella sala d’aspetto, il capo sorretto dalle mani intrecciate e un bicchiere di plastica ricolmo di caffè abbandonato sul tavolino basso lì vicino.
Posò una mano sulla spalla del gemello, incrociando le sue iridi scure annebbiate da lacrime mai versate e angoscia. Non si sforzò nemmeno di trovare le parole adatte per confortarlo: non sarebbero servite, non con Tom. Si limitò a sedersi accanto al gemello, cercando di trasmettergli tutta la sua comprensione attraverso pochi, semplici gesti.
Era in momenti come quelli che entrambi avrebbero rinunciato volentieri alla fama e alla notorietà, per il semplice capriccio di comportarsi come due fratelli normali, che gioiscono e soffrono insieme. Bill non poteva abbracciare Tom in pubblico, a meno che non volesse rischiare di essere nuovamente scambiato per la “checca di Loitsche”. Ciò lo irritava profondamento, ma anche in momenti delicati come quelli non poteva – non potevano – lasciarsi andare. Ed era snervante, certo, ma una volta a casa, protetti da quattro insulse mura, ritrovavano loro stessi. E il cantante fremeva dal disappunto di non poter far sentire suo fratello protetto, al sicuro.
Si lanciò un’occhiata fugace intorno, cercando di distogliere la mente da funesti pensieri. In quelle decine di sguardi spenti e volti smunti, probabilmente, c’era anche qualcuno che se la passava peggio di loro. Certamente. Solo dopo un quarto d’ora, tuttavia, fecero la loro comparsa un ragazzo ed una ragazza ben noti ai due gemelli. Questi ultimi, però, rimasero piuttosto sorpresi nel notare che la giovane ragazza stringeva tra le mani quelle piccole e paffute di due bambine identiche.

Gemelle.

Uno strano moto di commozione sembrò colpire entrambi i ragazzi, quando quelle due piccole gocce d’acqua si avvicinarono loro per sedersi in una delle tante poltroncine, stringendosi l’una affianco all’altra per non doversi separare. Avevano i musetti arrossati, e i capelli arruffati che celavano, in parte, due paia di occhioni ricolmi di stanchezza e preoccupazione. E riscovarono gli stessi sentimenti negli sguardi dei due fratelli, che vedendoli non poterono fare a meno di sentirsi sollevati. E meno soli.
Incominciarono a parlare senza nemmeno rendersene conto, a bassa voce, come per non turbare quella quiete malsana che aleggiava intorno a loro. Due mondi opposti che si scontravano fino a incontrarsi, che facevano i conti con le proprie differenze ridotte a zero davanti alle medesime emozioni. E si facevano forza a vicenda, trovandosi uniti da quell’uragano che era Nesta, che bene o male era presente nella vita di tutti loro allo stesso modo, per quanto potesse sembrare assurdo. Nonostante apparisse il contrario, Tom era convinto più che mai che Nesta possedesse una vitalità intrinseca nel suo essere, che le permetteva di affrontare qualsiasi difficoltà, che le permetteva di non mollare nemmeno ad un passo dal cadere precipitosamente. Era quella stessa vitalità che lui amava, e che se avessero superato anche quell’ostacolo non si sarebbe fatto problemi a rivelarle.

-Sei tu il signor Tom?- una vocina flebile aveva posto quella domanda.

Raggio di sole.

Era la prima cosa che gli veniva in mente guardando quella piccola bambina rannicchiata accanto alla propria metà, e che gli domandava in maniera quanto mai buffa ed innocente se era lui Tom.
-Sì, sono io, ma non c’è bisogno che però ti rivolgi a me in maniera così formale- le rispose garbato, cercando di risultare più pacato e rilassato di quanto in realtà non fosse.

-Ah, va bene sign… Tom. Lo sai che mia sorella ci teneva tanto a te?- chiese nuovamente, in maniera quasi retorica.

Ci teneva tanto a te.

Non “Era innamorata di te” o “Ti amava”. No. Un semplice avere a cuore che però a lui, in quel momento, apparve la cosa più meravigliosa del mondo. Percepì chiaramente il suo cuore battere più forte sotto il tessuto bianco della maglietta, sentì la propria mente perdersi per qualche istante, distaccandosi da ciò che lo circondava. Se era quello ciò che si provava quando si era innamorati – accontentarsi di sapere che la persona per cui ti disperi ricambia, anche in minima parte, il tuo sentimento – beh, era fregato: lui era rimasto conquistato da Nesta. Ed era favoloso.
Per primi, ebbero la possibilità di entrare nella camera di Nesta le sue sorelle e suo fratello. I due gemelli non ne rimasero delusi; i famigliari avevano sempre avuto la precedenza, ed era giusto così forse. Tom, nonostante tutto, non poteva fare a meno di fremere, e probabilmente qualche segno di ansia lo lasciava trasparire anche esteriormente, poiché si guadagnò un’occhiata compassionevole da parte del fratello.
Poi, finalmente, videro scendere i fratelli Green dalla scalinata che conduceva alle camere dei pazienti. Si salutarono brevemente, dicendo che il medico aveva lasciato loro la possibilità di vedere la ragazza. Bill e Chris si ritrovarono a lanciarsi un’occhiata di intesa.

-Tom, vai tu. Io ti aspetto fuori, così rilasso i nervi e mi fumo una sigaretta con Christina, ok?-la voce suadente di Bill lanciava al gemello un chiaro segnale, che Tom si premurò di cogliere al volo.

Non ti deluderò.

La camera dell’ospedale assomigliava molto a quella occupata da Bill durante il ricovero, se non che era molto più spoglia e semplice. La sua ragazza, eccola stesa al centro del letto, gli occhi socchiusi e le labbra piegate in una smorfia indolente. Di evidente notò solo un paio di graffi sullo zigomo destro, che probabilmente si sarebbero rimarginati in fretta, senza lasciare alcun segno del proprio passaggio. Sulle braccia, lasciate scoperte dal camicie, spiccavano alcuni lividi e abrasioni, ma nulla che Tom, a prima vista, avrebbe etichettato come grave. Ciò che più lo incupì fu notare, tra i graffi recenti, le cicatrici dei buchi lasciati dalle siringhe. Un indelebile traccia del suo vizio più grande, del suo passato e del suo presente. Che sarebbe diventato futuro se non vi avesse dato una svolta.

-Sono sempre io, Rastaman- sogghignò Nesta, sentendo su di sé lo sguardo curioso del ragazzo. Lui ricambiò il sorrisetto, sedendosi affianco a lei.

-Come stai?- la domanda più insulsa ed importante che la mente del ragazzo potesse formulare in quel momento.

-Beh, sto bene adesso- sussurrò, mentre lui le carezzava delicatamente uno zigomo. Tutta la grinta di cui sembrava essere in possesso si sciolse come neve al solo sotto il dolce profumo di Tom, così vicino a lei. Deglutì rumorosamente, come se dovesse farsi forza per dire qualcosa di estremamente importante.

-Sto bene adesso che ci sei tu- bisbigliò, così flebilmente che il ragazzo credette di aver sognato. Ma era vero. Era reale lei, così bella e fragile, era reale la camera dell’ospedale inondata dalla luce dell’alba ed erano reali quelle melodiose parole pronunciate con tanto timore dalle labbra che adorava. Si chinò per sfiorarle la bocca in un bacio delicato, pieno di dolcezza e amore.

Ti amo. Ti amo. Ti amo.

La mente di Tom non riusciva a formulare altre parole.

-Tom…- lo chiamò lei, distogliendolo da quei pensieri gioiosi.

-Io… io mi rendo conto solo adesso, solo dopo che il tempo sembrava volesse sfuggirmi di mano in maniera irreparabile, che tra noi non sono mai servite parole, che ci siamo sempre capiti con un’occhiata io e te. E adesso che sei accanto a me non ho più paura, perché so che se anche cado verso il basso, ci sei tu ad aiutarmi a rialzarmi. Ci sei tu. E tutto il resto perde significato- mormorò, senza smettere di perdersi nelle sue iridi calde e ammalianti, lucide di gioia.
Per Tom, invece, c’era solo lei, con la sua dichiarazione inaspettata ed una sincerità disarmante. E quelle parole che lui non aveva mai pronunciato in vita sua premevano sul cuore in maniera quasi dolorosa, ora che era una necessità esprimerle e dar loro un suono reale.

-Nesta, ti amo-










My Space:

SORPRESA!

Ok, ammettetelo, non ve lo aspettavate, eh?

Promesso che dopo questo romanticissimo capitolo, spiegherò con accuratezza come si sono svolte le cose, come e perchè è avvenuto l'incidente. In questo capitolo volevo dare spazio all'introspezione dei personaggi, a cosa provano; era meno rilevante l'azione fine a sè stessa.
Mi rifarò nel prossimo capitolo!

Sperando di non aver deluso le vostre aspettative, ci rivediamo mercoledì.

Alla prossima! :)

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Capitolo 13
*** We Aren't A Lie. ***


Capitolo 13: We Aren’t A Lie.
§

 

Le persiane socchiuse della finestra lasciavano filtrare una luce calda e tiepida, che tingeva di un tenue color crema le pareti candide della stanza. C’era un buon profumo in quella stanza, che riusciva a contrastare il penetrante odore tipico degli ospedali. Era un buon aroma di fiori, fresco e intenso, che si amalgamava con quello intenso del caffè appena preparato, proveniente da una tazza ancora mezza piena poggiata sul piccolo comodino. In tutta quella armonia, l’unico suono era quello di due respiri regolari che si accompagnavano al ticchettare di un monitor posato vicino al letto dell’inferma.

Tom stiracchiò le membra indolenzite, gettando una veloce occhiata all’orologio appeso alla parete. Aveva passato tutta la notte – o era la mattina? – vegliando con sguardo vigile la ragazza, ascoltandone il respiro, deliziosamente accelerato dalle sue parole inaspettate, farsi via via più lento e regolare. Ne aveva osservato la pelle ambrata graffiata e arrossata in più punti, mentre involontariamente richiamava alla mente i ricordi della serata appena conclusa.

Avevano bevuto un po’, ma non erano ubriachi fradici. Non lui almeno, e nemmeno Nesta sembrava poi tanto brilla. Giusto un pochino. Si era scatenato per un tempo che gli era parso infinito, stordito dall’alcol, la musica, il caldo e la vicinanza della ragazza. E avevano anche riassaggiato piacevolmente le proprie labbra, ridendo come due bambini spensierati. Tanto erano lì, insieme. Stavano bene. Perché preoccuparsi?
Eppure, Nesta voleva assolutamente allontanarsi dalla calca. E Tom non aveva trovato nulla da obbiettare, anche perché cominciava a sentirsi soffocare. E voleva un po’ di intimità con lei. Non gli pareva di domandare molto, no? Volerla qualche istante tutta per sé. Lei, poi, non sembrava chiedere altro da come lo abbracciava stretto. Si erano diretti verso la macchina di Tom, parcheggiata non molto distante dal palazzo sul cui tetto l’aveva raggiunta prima. Un paio di stradine buie e poi sarebbero arrivato. E invece…
Tom l’aveva vista correre avanti ridendo, proponendogli una gara e dicendogli che sarebbe arrivata prima, che lo avrebbe aspettato vicino all’auto. L’aveva vista sorridere nel buio, e aveva visto quel sorriso tramutarsi in una smorfia di spavento quando la luce bianca di un paio di fari l’aveva investita, illuminandola e rigettandola nell’oscurità in pochi istanti. Non aveva avuto il tempo di scansarsi, complice la velocità del veicolo e l’inaspettata sorpresa. E Tom aveva sgranato gli occhi, come allucinato. Pietrificato. Ecco come si era sentito. Paralizzato a pochi metri da lei, riversa al suolo in maniera innaturalmente ferma. Non aveva riconosciuto la sua voce quando, urlando, aveva attirato l’attenzione di alcuni passanti.

Quello che era successo dopo lo ricordava come un susseguirsi di gesti scoordinati e frenetici.

Trovare il cellulare e chiamare l’ambulanza, parlare con voce rotta con l’infermiere, stringere convulsamente le mani fredde di Nesta.

Tutti quei frammenti di ricordi si susseguivano senza ordine preciso nella sua mente, e mentre guardava Nesta riposare indisturbata non poteva fare a meno di ritenersi fortunato. Di ritenerla fortunata. E sentirsi orgoglioso, come se fosse anche merito suo se quella ragazza che sfidava continuamente la morte non si fosse ancora arresa. E, probabilmente, non aveva tutti i torti.

-Ehi, ragazzo…- un flebile mormorio lo riscosse dai suoi pensieri.

Certe abitudini sono dure a morire, eh?
 



Bill era decisamente curioso. E anche sollevato, però. Aveva fatto una lunga chiacchierata con Chris, che si era dimostrato ben presto un ragazzo pieno di energia e vitalità, nonostante fosse visibilmente preoccupato per la sorella. Avevano parlato di tutto: di Nesta, di Tom, dell’incidente.

-Sai, può ritenersi fortunata quella scapestrata: tanto rumore per nulla, infine. Un paio di ossa rotte e tanti graffietti come ricordo temporaneo di quella testa bacata che si ritrova- aveva sbottato Chris, stritolando tra le dita magre l’ennesima sigaretta della mattinata.

Bill aveva apprezzato lo sforzo – decisamente riuscito – di sdrammatizzare la situazione. Più ascoltava il ragazzo parlare e più si rendeva conto che i dubbi che l’avevano assalito erano i suoi medesimi. A cosa avrebbe portato quel inusuale e a tratti malsano rapporto? Due persone così incapaci di provare sentimenti profondi come l’amore, dove sarebbero arrivate?

E invece, guarda: non l’ha lasciata sola nemmeno un istante…

Effettivamente, si erano rivelati entrambi una piacevole sorpresa per i rispettivi fratelli. Bill, però, adesso agognava i dettagli del caso, e non vedeva l’ora di veder riemergere Tom dalla stanza della ragazza, che pareva averlo risucchiato al suo interno. In più, la poltroncina della sala d’attesa cominciava ad essere scomoda e non aveva nessuno con cui fare due chiacchiere, visto che i Green erano andati a fare colazione nel bar difronte all’ospedale, per cercare di recuperare le forze. Al moro non sarebbero dispiaciute nemmeno le domande strampalate delle due piccoline, a cui si era divertito a raccontare che la loro sorellona in realtà stava benissimo, e aveva messo su tutto quello scompiglio solo per attirare l’attenzione di Tom. All’inizio non parevano troppo convinte, ma quando aveva farcito di “prove schiaccianti” il suo racconto non avevano più dubitato delle sue parole. Anzi, lo avevano raggiunto sulle gradinate esterne dove era andato a fumare con l’altro ragazzo, e l’avevano strappato dalla sua chiacchierata con Chris per farsi narrare altre favole. E allora Bill si era permesso di tornare bambino, riuscendo addirittura a strappare un sorriso a Jacqueline, che era evidentemente la più provata da tutta quella situazione. Per il cantante, lei era la figura più misteriosa di tutta la famiglia. Non riusciva a capire se, oltre che preoccupata, fosse anche contenta per la sorella, che dopotutto aveva appena scoperto qualcosa di estraneo e fragile come l’amore. Insomma, lui dopotutto era orgoglioso e felice che il gemello avesse trovato una ragazza in grado di ricambiare tutte le sue attenzioni malcelate. Certe volte, però, non poteva fare a meno di provare una punta di gelosia, sia nei confronti di Tom che di Nesta. Era geloso del fratello, perché aveva trovato ciò che lui aveva sempre cercato di elargire con estrema naturalezza, ma senza venire mai dovutamente ricambiato. Era geloso di Nesta, che gli portava via la propria metà biologica, senza che lui potesse fare niente, perché dopotutto adorava quella donna. Provava sentimenti così controversi che nemmeno lui stesso sapeva come comportarsi, in certe situazioni.

-Ehi, fratellino, cos’è quello sguardo pensieroso?- la voce di Tom lo distolse dai suoi pensieri.

Bill sorrise.

A cosa stavo pensando, già? Ah, sì: gelosia.

Poteva benissimo andare elegantemente a quel paese. Si diede mentalmente dello stupido: lui, geloso di suo fratello o della sua ragazza? Perché? Perché, se alla fine il suo Tomi tornava sempre da lui? Perché, se quel sorriso così felice e sognante era merito di una persona che lo rendeva felice?

Egoista.

Sì, Bill Kaulitz era egoista. Ma, per una volta, riusciva a superare anche quel sentimento immotivato.

-Ah, dovresti vedere la tua di faccia!- ribatté, alzandosi e sbadigliando in una maniera che lo faceva rassomigliare ad un cucciolo appena svegliatosi da un lungo letargo.

-Dai, vieni che ci prendiamo un caffè così rimediamo alla tua espressione da rincoglionito- fece Tom, mentre il moro lo seguiva, docile.

Cosa mi nascondi, dietro a tutta questa gentilezza?

Il bar era piccolo e grazioso, profumato di brioches appena sfornate, agrumi e vaniglia. Si accomodarono in un tavolino vicino all’entrata, proprio sotto una grande vetrata da cui era visibile la strada attigua.

-Allora, non pensi di  dovermi raccontare qualcosa?- domandò Bill, mescolando un abbondante cucchiaino di zucchero nel suo caffè, servitogli da una sorridente cameriera, che aveva avuto la decenza di non chieder loro l’autografo alle nove e mezza di mattina.
Tom gli rivolse un’occhiata di uno che la sa lunga, sogghignando a mezze labbra. Bill, per quanto conoscesse bene il gemello e sapesse che era restio a confidarsi se obbligato, non perdeva mai la voglia di provare a scucirgli informazioni. Regolarmente, gli toccava aspettare che Tom fosse di buon umore e venisse spontaneamente a raccontargli ogni cosa. Fortunatamente, però, quello sembrava veramente un giorno da annoverare come “straordinario”, perché Tom, dopo l’iniziale momento di titubanza, si dimostrò assai loquace.

-Ho detto a Nesta che la amo- fece dopo aver risposto a qualche domanda di circostanza sulla salute della ragazza.

Bill strabuzzò gli occhi, rischiando di strangolarsi con la brioches che, ignaro della rivelazione del fratello, aveva addentato.

-Scusa, temo di aver frainteso, ripeti- biascicò, deglutendo rumorosamente.

-Idiota! Ho detto a Nesta che la amo, ok?- ripeté Tom, roteando gli occhi spazientito.


-E lei prima mi ha anche dichiarato il forte sentimento che prova per me- aggiunse, orgoglioso e soddisfatto come poche volte in vita sua.

Ecco, adesso le ho sentite davvero tutte!

Bill non sapeva più cosa pensare, visto che entrambi i suoi modelli di alterigia e impassibilità erano caduti miseramente. Eppure, non si sentiva sconfortato, o deluso. Solo… sorpreso. Meravigliosamente sorpreso da tutte quel susseguirsi si improbabili eventi. Ed era felice, felice che infondo anche quei due fossero umani. Che avessero smesso di fingere, di nascondersi dietro le apparenze, di fare finta che nulla fosse cambiato. Perché sarebbe equivalso a mentire. Loro erano cambiati, e il fatto che anche lui, l’eterno bambino che gioca a fare la rockstar, se ne fosse accorto, dimostrava quanto semplici emozioni e sentimenti potessero cambiare una persona.

-Sono felice per voi, Tom. Sono felice- glielo disse, sincero.

Lo so Billi, lo so.

-Ti… ecco, ti volevo ringraziare- borbottò Tom dopo un po’, cercando di sembrare distaccato come suo solito.

-Ma di che?- domandò confuso il moro; un’espressione di puro stupore dipinta in volto.

-Beh, tu ci sei sempre stato, e nemmeno ti ho mai ringraziato per questo- spiegò il chitarrista, nascondendo il volto nella tazza.

Il sorriso del moro si allargò ancora di più, incontrollatamente.

-Sei un imbranato, ma ti voglio bene per questo- sentenziò il moro, ridacchiando, celando dietro la risata cristallina la sua emotività pronta a saltar fuori.

Grazie… Siamo in due a dirlo.
 


Tornato nella stanza dove la ragazza era ancora costretta a soggiornare, Tom era visibilmente più rilassato. Nonostante avesse cercato di sembrare il più naturale possibile, temeva la reazione del gemello, che si era dimostrata positiva oltre ogni aspettativa del chitarrista.

-Sei un libro aperto- fece Nesta, sogghignando mentre lui le si accoccolava vicino, un’aria sorniona dipinta in volto.

-E perché, di grazia?- ribatté lui, divertito.

-Si vede che volevi un parere da parte di Bill- spiegò calma lei, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

-È così lampante?-

-Sì, ragazzo mio- rispose serafica lei, carezzandogli i rasta liberi dalla solita fascia e dal cappellino.

-Avevo paura che pensasse che fosse tutta una farsa… L’ennesima ragazza sfuggente della mi vita. Tu non sei così, capisci? Tu sei presente, reale, sei una presenza costante nelle mie giornate, ormai. Noi non siamo una bugia- sussurrò.








My Space:

Ed ecco l'immancabile capitolo di passaggio: dai, non poteva mancare! ;)

Ok, svelati alcuni tasselli mancanti nella vicenda. Direi che c'è poco da dire: finalmente anche i gemelli riescono a mandare giù l'orgoglio e ad ammettere quanto si siano sostenuti a vicenda negli ultimi mesi. Spero di non essere caduta rovinosamente nel diabetico, ma Bill almeno un po' tenero deve esserlo, insomma!

Ultima nota: siamo a meno due capitoli prima della fine, e devo ammettere che se ne vedranno ancora delle belle, soprattutto nel prossimo capitolo che penso sarà piuttosto lunghetto. Ah, cercate di tenere a mente l'ultima frase di Tom (nonchè titolo del capitolo). Capirete in seguito perchè...

Ovviamente, grazie a tutti quelli che, nonostante il caldo, proseguono con la lettura! Me lo lasciate un commentino per farmi sapere che cosa ne pensate? :)

Alla prossima!

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Capitolo 14
*** Don't Leave Me Alone. ***


Capitolo 14: Don’t Leave Me Alone.

§

 

Nesta aveva ricominciato a respirare veramente il dolceamaro profumo della vita quando finalmente era stata dimessa. Non aveva fatto altro che brontolare per giorni su quanto quella prigionia forzata la rendesse nervosa. Tom, tanto per non scordarle mai quanto riuscisse ad essere bastardo, si piazzava sulla strada ben visibile dalla finestra della sua camera e fumava, senza smettere finché non la vedeva sbraitare contro l’infermiera di turno perché le abbassassero la persiana. Allora se la rideva come un matto, ciccando a terra e constatando quanto fosse facile essere felice in quei momenti di banale normalità. Una volta però lei l’aveva presa male sul serio, e lui aveva riprovato la frustrazione di vederla in balia di un’astinenza durata fin troppo. Notava come si graffiava le braccia proprio sopra i precedenti fori degli aghi, cercando di lenire un’insoddisfazione che non avrebbe mai trovato fine, se non con l’ennesima dose di veleni sconosciuti. Eppure, lui confidava che adesso, adesso che c’era lui, le cose sarebbero in qualche modo migliorate, per entrambi. Dal canto suo, forse avrebbe potuto provare l’ebrezza di una relazione più o meno stabile, mentre Nesta magari sarebbe riuscita a superare tutti quei vizi deleteri. O almeno così sperava.

E poi, dopo un’estate che pareva infinita, era arrivato agosto. Appena rinfrescato da un dolce vento, pieno di tinte calde e ammalianti, sembrava il mese perfetto. Eppure, si era dimostrato presto per ciò che era davvero: l’inizio di una fine imminente. Era successo tutto così velocemente e lentamente allo stesso tempo che ai due ragazzi era parso di vivere quei giorni come a rallentatore. In realtà, Nesta aveva sentito Tom distaccato da sé già verso gli ultimi giorni di luglio. Non vi aveva dato peso, interpretando la discontinuità con cui si vedevano come causa del lavoro pressante del chitarrista. Ed effettivamente, era così. Quello che non si era aspettata, però, glielo aveva rivelato lui stesso una notte. Si trovavano a casa di Tom, mollemente stesi sul suo letto, con una piacevole oscurità ad avvolgerli. Lei, rannicchiata contro il suo fianco, stava in silenzio. Aveva chiaramente avvertito il ragazzo che prendeva un profondo respiro, facendola leggermente allarmare. Come suo solito, era rimasta impassibile, continuando a tracciare invisibili ghirigori sul petto nudo del chitarrista. Poi, lui le aveva rivelato il motivo di quegli impegni così frequenti, liberandosi del macigno che gli pesava sul cuore.

-Nesta, ti devo dire una cosa- esordì Tom, mentre la ragazza si irrigidiva e alzava il capo verso di lui, in modo da poterlo vedere chiaramente.

Nesta rimase in silenzio, aspettando che proseguisse. Tom avvertiva i fremiti che la percorrevano, poteva leggere nelle sue iridi verdi speranza un certo smarrimento. Si odiò per quello che stava per dirle, ma non poteva fare a meno di rivelarle ogni cosa: aveva rimandato fin troppo, dopotutto.

-Io e i ragazzi abbiamo deciso di tornare in America con alcune date del tour. Non ho idea di quanto staremo via, probabilmente almeno due mesi. Se non di più- sussurrò Tom, cercando di evitare il suo sguardo, che via via si era fatto sempre più sgomento.

Nesta deglutì, umettandosi le labbra fattesi stranamente secche. Nella sua testa risuonava la voce rassegnate del ragazzo che le annunciava l’imminente partenza. Si sentì strana, come mai le era capitato in vita sua. Si sentiva tradita, arrabbiata e frustrata. Paradossalmente, dopo il primo attimo di sconcerto – in cui Tom era certo di aver visto il lampo di forti emozioni scuoterla – era come se il suo cuore, di colpo, si fosse atrofizzato. Nuovamente.

Era seduta su una delle tante panchine del parco, la brezza gentile che le scompigliava i rasta incolti, e il riverbero del sole che tramontava l’obbligava a socchiudere gli occhi per non rimanerne abbagliata. Ripensava alla nottata passata con Tom, a tutte le cose che si erano detti e a quelle che avevano lasciato in sospeso.

-Ah- biascicò, incolore. Aveva la forza solo per quella misera, insulsa sillaba, che però in sé racchiudeva tutte le parole che non riusciva a esprimere.

Lui le rivolse un’occhiata stupita e incredula.

-Come sarebbe a dire “Ah”?- sbottò, visibilmente contrito. Si aspettava qualcosa di più di un semplice borbottio, appena vagamente simile ad una vera e propria risposta.

-Che vuoi che dica? Dovrei forse fare i salti di gioia?- ribatté acidamente lei, trafiggendolo con un’occhiata di fuoco.

-No, ma magari dimostrare che un minimo ti dispiace sarebbe carino nei miei confronti, visto tutto quello che abbiamo passato!-

Si era innervosito, e lei lo aveva capito. Ed era stata anche furibonda con sé stessa, perché avrebbe voluto veramente dimostrargli quanto l’idea di lasciarlo le facesse male. Eppure, qualcosa la bloccava. Non era dalle delusioni che si era protetta tutta la vita? Non era la paura dell’abbandono – evidente residuo della spiacevole esperienza infantile – che aveva tentato di rifuggire in tutti quegli anni? Evitare legami, evitare di invischiarsi in qualcosa che prevedesse un’altra testa pensante, dotata di volontà capace di farla soffrire? Invece, con Tom si era divertita a costruire una aggrovigliata matassa, i cui fili erano pensieri, emozioni e sentimenti. Fili sottili, pronti a spezzarsi  se tesi con troppa foga; entrambi stavano tirando troppo la corda. Lasciò vagare lo sguardo sul panorama urbano circostante. Nella sua mente, contava i giorni che li separavano da un brusco e definitivo addio. Mancava una settimana, tra sì e no. Sette miseri giorni per esprimere le mille parole non dette, i desideri inconfessati e le emozioni dirompenti. Cercare di rimediare alle incomprensioni venute a galla quella sera.

-Che cosa vorresti insinuare? Che forse non mi stai a cuore?- ringhiò lei, alzandosi bruscamente e piantandosi le mani nei fianchi.

-Oh, io faccio molto più che insinuare. Io te lo chiedo molto schiettamente: ti sto a cuore?- ribatté lui,  così prontamente da lasciarla spiazzata.

Non riusciva a esprimere tutto quello che avrebbe voluto dirgli. Sentiva tutto il corpo dolerle e farsi incredibilmente pesante, come se fosse una statua. Ed era così che Tom, in quel momento la vedeva: una statua di granitica staticità e freddezza. Senza cuore.

-Ecco, appunto. Nemmeno tu lo sai cosa provi per me- continuò il ragazzo, sempre più nervoso e furibondo.

A quel punto, però, Nesta scoppiò.

-Vaffanculo ragazzo! Lo sai quanto sia difficile per me! Non eri tu quello che diceva che noi non eravamo una bugia?- sbottò, trafiggendolo con il suo sguardo smeraldino.

-Hai sempre mentito- mugolò –Sono sempre stata la tua bugia più grande-

Se ne era andata così, con quelle taglienti parole a dividerli. Con amarezza sentì gli occhi inumidirsi prepotentemente, ma con la solita freddezza ricacciò indietro le lacrime che le ferivano gli occhi.

Hai sempre mentito.

Noi non siamo una bugia.

Dimmi la verità, ragazzo.
 



I Tokio Hotel si erano riuniti a casa dei due gemelli per mettere a punto gli ultimi dettagli del tour, assieme al loro manager David Jost. Quando, però, era venuto fuori il discorso “America”, tutti avevano notato con chiarezza il repentino cambio di umore di Tom. Perché l’America era lontana. Lontana da lei, il suo scapestrato tormento. Solo Bill era a conoscenza del litigio avvenuto pochi giorni prima tra i due, e non certo perché il fratello aveva deciso di sfogarsi con lui. Era semplicemente rientrato tardi da una festa a cui il chitarrista non aveva voluto partecipare, e aveva sentito i toni dei due farsi via via più alterati. Quando, poi, Nesta era uscita sbattendosi l’uscio alle spalle, senza degnarlo di uno sguardo, non aveva avuto più dubbi. Avrebbe voluto sapere di più, come suo solito, ma aveva mantenuto un compunto silenzio.

-Le tappe saranno in Canada, Stati Uniti e probabilmente anche America Meridionale, perciò…- ricapitolò David, ma la mente del suo chitarrista si era già estraniata da un pezzo dal discorso.

Lui e Nesta si erano urlati contro come non era mai successo prima. O forse sì, ma lei era troppo fatta o troppo in crisi per ragionare veramente. Quella sera, invece, era lucida. Estremamente lucida, e conscia di quello diceva. Era stato come ricevere una pugnalata al cuore sentire tutta quell’indifferenza. Cercava di convincersi che no, lei in realtà a lui teneva. Gli voleva bene, solo non riusciva a dimostrarlo in ogni circostanza. Eppure, più cercava di persuadersi e più si convinceva del contrario: aveva ragione lei. Erano stati un inganno sin dall’inizio. Troppo diversi per stare insieme, troppo diversi per capirsi, per sostenersi. Amarsi. E allora perché, nonostante tutto, lui le voleva bene? Perché non riusciva ad odiarla? Gli era impossibile, proprio come gli sembrava irreale l’imminente partenza. Si rese conto di non poter andarsene così, di trovare insopportabile anche solo l’idea di abbandonarla per un capriccio.
Dal giorno della riunione Tom aveva cercato di rintracciare Nesta, senza però ottenere risultati significativi. Era certo che non se ne fosse andata un’altra volta, piuttosto si divertiva a prendersi gioco di lui. Nonostante tutto, il ragazzo aveva dimostrato di possedere più pazienza e autocontrollo di quanto la stessa Nesta si aspettasse. E, il giorno prima della partenza, era finalmente riuscito a scovarla, con il sospetto che la ragazza stessa volesse essere trovata. L’aveva vista sul loro tetto, affiancata da alcune piante in fiore dai colori estremamente vivaci. Non lo sorprendeva più di tanto averla scovata lì, anzi, ebbe come l’impressione che lei non avesse mai lasciato quel luogo da quanto aveva iniziato a cercarla.

Gli dava le spalle, e teneva gli occhi puntati sull’orizzonte, come sua abitudine. Nonostante questo, era visibilmente tesa, pronta a cogliere ogni parola del ragazzo alle sue spalle.

-Nesta- esordì, rendendosi però conto di non sapere come proseguire.

Avanti, parla: dì qualcosa.

-Ragazzo, come mai da queste parti?-

Come se non lo sapessi, insopportabile ragazzina che non sei altro!

-Domani parto- rispose con fermezza, notando la schiena di lei essere attraversata da un fremito.

Avanti, parla: fammi vedere quanto sai essere indelicata e insensibile.

-Bene- ribatté lei asciutta.

Te la sei cercata.

-Come sarebbe a dire bene? E voltati a guardarmi quado ti parlo, porca miseria!- sbottò Tom, incrociando al petto, ma lasciandole cadere lungo i fianchi subito dopo, stupito, quando lei finalmente gli mostrò i suoi occhi.

Lucidi, notevolmente. E lei che faceva di tutto per non cedere ad un pianto liberatorio, per non sentirsi debole. Lei, che aveva preferito fingere di non provare nemmeno il più piccolo dei sentimenti per proteggersi.

-Mi dispiace- riuscì solo ad articolare lei, la voce rotta.

Tom trasse un lungo sospiro, passandosi una mano sul volto stanco. Mosse un passo verso di lei, prendendola delicatamente per un polso e attraendola a sé.

Calore.

Tra le braccia di Tom provava un piacevole calore, che sembrava proteggerla dalle intemperie del mondo circostante. Stava bene, e non era affatto pronta a privarsene.

-Avrei dovuto essere più comprensivo- sussurrò lui, mentre la cullava dolcemente.

Lei restò in silenzio, con il volto nascosto nell’incavo della sua spalla. Rimasero così per un tempo che apparve infinito ad entrambi, quando finalmente Nesta mugolò ciò che tanto le pesava sul cuore.

-Non andartene. Non abbandonarmi- sussurrò.









My Space:

Salve gente! :)

Allora, vi devo subito comunicare una cosa: per motivi di "trama" aggiungerò un'altro capitolo. Il vero e proprio "ultimo capitolo" sarà molto particolare, sia per come sarà scritto e sia perchè ci sarà una piccola sorpresa. Spero siate contenti!

Due parole sul capitolo prima di scomparire:
- i Tokio Hotel, nell'agosto del 2008, sono veramente andati in America con il tour. Immagino che lo sapevate già, ma magari qualcuno poteva avere dubbi;
-Nesta finalmente riesce a far capire a Tom quanto lo ama, con quella supplica disperata di non essere abbandonata.

Non aggiungo altro. Spero, come sempre, che il capitolo sia stato di vostro gradimento. Ringrazio tutti le lettrici e i lettori, siete speciali! ;)

Alla prossima!

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Capitolo 15
*** America. ***


Capitolo 15: America.

§
 

Gli Stati Uniti erano un vasto agglomerato urbano freddo e luminoso al tempo stesso, almeno visto dal finestrino dell’aereo su cui volavano i quattro Tokio Hotel. Sterminate città che avevano poco e nulla in comune con la loro patria. La prima cosa che li aveva colpiti, una volta scesi all’aeroporto di New York, era stato l’esagerato numero di persone che si era riunito per accoglierli, per non contare gli altri passeggeri che andavano e venivano senza interessarsi più di tanto a loro. L’unico palesemente a suo agio era Bill, il cui sorriso smagliante faceva la gioia dei numerosi fotografi lì riuniti. Si sentiva stranamente a casa in quel luogo, così luminoso, così caotico, così urbano e costoso. Tom scosse impercettibilmente la testa nel vedere il gemello che, senza freni, dispensava parole ai giornalisti, autografi svolazzanti ai fans e sguardi ammiccanti agli obbiettivi. Faceva la felicità dei media senza nemmeno rendersene conto.

Noia.

Il chitarrista era dannatamente annoiato, e anche stanco per giunta. Il lungo volo l’aveva provato in maniera terribile, e adesso avrebbe solo voluto buttarsi sul  suo letto d’albergo, che prevedeva essere morbido e profumato di bucato. Invece, il suo sconsiderato gemello aveva appena concordato una deliziosa cena con importanti produttori. Si diede dell’idiota per non aver nemmeno seguito il discorso, almeno avrebbe potuto tentare di fermarlo. Scambiò un’occhiata tra l’afflitto e l’incazzato con Georg, che si limitò a sorridere innocentemente, come per sottolineare il fatto che lui non aveva colpa. Tom sbuffò contrariato, dissimulando il disappunto dietro un mezzo sorrisetto tirato.

-Tom, cos’è quella faccia, non sei contento?- domandò ingenuamente Bill al fratello, mentre raggiungevano l’hotel.

-Bill, ti prego, risparmiami- sbottò l’interpellato, facendo sorridere bassista e batterista.

Era ormai tarda sera, e dopo una lunga sessione di strette di mano con sconosciuti incravattati erano riusciti a ridursi in albergo. Finalmente, Gustav e Georg e Tom si erano potuti lasciare andare a sbadigli degni di nota, levandosi dal volto quell’espressione di falso interesse. Non che i tre non si preoccupassero per il futuro della band, ma trovavano controproducente tenere colloqui di lavoro dopo quasi quattordici ore di viaggio. L’unico che ancora dimostrava di possedere una certa lucidità era Bill, che scettico osservava i compagni che beatamente si ritiravano nelle loro stanze.

Tom, nel buio della propria camera, osservava il panorama dalla grande finestra che dava su una strada trafficata, nonostante l’orario. La luna era oscurata da grossi nuvoloni scuri, e le poche stelle che facevano capolino dalla coltre scura si intravedevano appena, soffocate dalle luci della città.

A te non piacerebbe un cielo come questo, non è vero?

Ci aveva provato a non pensare a lei durante la giornata, e ci sarebbe quasi riuscito se non fosse stato per quel dannato cielo così poco naturale.

Troppe luci che non sono stelle.

Sì, ecco come diceva sempre lei. Allora chiudeva gli occhi – ricordava bene come faceva, l’aveva sempre trovata così strana e ammaliante al tempo stesso – e a mezza voce sussurrava le parole di una canzone che lui non aveva mai sentito. Aveva una bella voce: lo pensava sempre, ma non glielo diceva mai. Si sfiorò il mento con fare pensoso, mentre cercava di ricordare le parole che lei sibilava sempre in quella nenia melodiosa.

I look up to the sky
and try to find your eyes

Lo stava facendo: alzava gli occhi al cielo e cercava di trovare i suoi occhi.

Too many lights that are not stars

Quelle tante luci che non erano stelle, e che tanto l’avrebbero turbata.

I do not know what I saw
but I know you're there, I know

Tom non lo sapeva di preciso dove fosse Nesta in quel momento, ma in qualche modo era come se fosse lì, con lui, a osservare quel cielo che brillava di scintille artificiali, come tutta la metropoli.

A twinkle away
that I will reach one day

Era lei quel luccichio lontano che un giorno avrebbe raggiunto. Un giorno sarebbe tornata da lei, come le aveva promesso. Senza bisogno di parole, glielo aveva dimostrato.

And you are with me
with me

Sì, lei era lì, con lui. Nuovamente insieme, senza confini a separarli.

I do not know what I saw
but I know you're there, I know

Continuava a domandarselo. Non sapeva bene cosa avesse visto in quel manto scuro trapunto di incombenti nubi e flebili lumini, ma sapeva che anche lei era lì. Sapeva che stava guardando la stessa volta, con lo stesso rammarico.

Between words and dreams,
we are bound together by thin seams

Tra parole e sogni, loro sopravvivevano, legati insieme da sottili cuciture sulla pelle. Tenuti stretti tra loro, tenuti stretti alla realtà che non permetteva distrazioni.

I'm not afraid to face the world alone.

Glielo aveva fatto capire chiaramente: in passato non aveva avuto paura di affrontare il mondo da sola, e certo non avrebbe cominciato ad averne adesso.

Ed io?

Tom non poteva fare a meno di chiederselo: lui, adesso, avrebbe avuto paura di muoversi senza di lei? Di andare avanti senza quello sguardo smeraldino a consigliarlo, a guidarlo, ad amarlo? Senza di lei, che era diventata parte del suo cuore?
 


I primi giorni si erano susseguiti con lentezza estenuante, almeno per il chitarrista. Gli altri tre sembravano aver trovato la medesima lunghezza d’onda, che gli permetteva di trovarsi d’accordo sulla maggior parte delle cose. Tom, invece, si sentiva estraniato da quel mondo. Proprio lui, che a tutto si adattava, lui, che come il gemello adorava le grandi città, gli alti grattacieli e le scintillanti vetrate. Suo fratello, una volta resosi conto che la situazione non sarebbe migliorata di colpo se non avesse fatto qualcosa, aveva deciso di far tornare Tom quello di sempre: rumoroso, donnaiolo e spensierato. Il cantante, nonostante volesse bene a Nesta, si rendeva conto che la sua relazione con il fratello cominciava ad avere dei risvolti negativi sul ragazzo. Sapeva che forse, sotto sotto, era sbagliato desiderare che Tom fosse nuovamente il ragazzo di sempre, che a stento conosceva cos’era l’amore. Eppure, non resisteva alla vista del fratello che soffriva per lei, anche se faceva di tutto per negarlo. Bill aveva passato un periodo simile a sua volta, e Tom non aveva esitato a farsi avanti per aiutarlo. Certo, aveva utilizzato metodi ben poco convenzionali, ma alla fine, tra una cretinata e un discorso pieno di sentimento, era riuscito a risollevare il morale al gemello. E adesso quest’ultimo si apprestava a ricambiare il favore.

Il chitarrista aveva sorriso beffardo quando il suo gemellino gli si era parato davanti, le mani incrociate sui fianchi ossuti e lo sguardo che non prometteva nulla di buono. In poche, spicce parole gli aveva spiegato la questione: rivoleva dietro suo fratello, non un suo surrogato con evidenti problemi morali. Il ragazzo era rimasto stupito dalla determinazione del cantante, tanto da lasciarlo fare come se nulla fosse. Prima di tutto, a Bill serviva un pretesto per dargli l’opportunità di tornare quello di sempre.

Il party organizzato in una delle tante occasioni mondane newyorkesi si era rivelato perfetto. Musica, alcol e ragazze. Il chitarrista sembrava come svegliatosi di colpo da un lungo sonno, una volta entrati nel locale. Era come se fosse stato catapultato nuovamente nel suo ambiente prediletto. Luci psichedeliche che stordivano a prima vista, musica ridondante alzata a livelli quasi dolorosi per chiunque non vi fosse abituato e l’odore dell’alcol che impregnava l’aria, mischiandosi con un piacevole aroma a loro sconosciuto. Grida sguaiate, sorrisi maliziosi, chiome che si muovevano al ritmo dettato dallo stereo. Essere costretti a sentirsi: vestiti, corpi, profumi, rumori. Un’ingegnosa trappola pensata per portare chiunque a perdere la ragione. Il chitarrista incrociò lo sguardo soddisfatto del fratello. Chi era Tom Kaulitz per tirarsi indietro?

Il mattino era arrivato portandosi con sé una luce decisamente fastidiosa, soprattutto per gli occhi arrossati e gonfi del chitarrista, che esibiva due occhiaie scure da far paura che spiccavano notevolmente sul volto bianco. Era sdraiato su quello che riconobbe essere un letto sfatto, però non era quello della sua camera d’albergo. Provò ad alzarsi, ma si fermò sentendo la testa pulsare così forte da temere che stesse per scoppiare. Sbuffò contrariato, riuscendo a mettersi seduto e cercando di fare il punto della situazione, cercando di ignorare la presenza della ragazza che ancora dormiva al suo fianco. Si era ubriacato, ok, era abbastanza lampante visto come sentiva la bocca impastata e lo stomaco dolorante. Aveva passato la serata con i ragazzi in uno dei privè, fino a che non aveva intercettato lo sguardo languido di una ragazza. Avevano ballato per un po’ insieme, poi, con la mente leggera, libera da ogni pensiero, si era lasciato condurre in quella camera dalla mano calda della ragazza. Al pensiero della notte precedente si sentì colpito da un’irrefrenabile voglia di scomparire immediatamente da quella stanza, dimenticando ogni cosa. Così, oltre all’emicrania sempre più martellante, si aggiunse anche una nuova, fastidiosa sensazione: il senso di colpa, che raramente in vita sua aveva provato.
Riuscì a raccattare i suoi vestiti, sparsi un po’ ovunque, poi gettò una veloce occhiata alla ragazza che ancora riposava indisturbata: era molto bella, con lunghi capelli biondi sparsi sul cuscino e la pelle nivea che spiccava sulle lenzuola color vinaccia. Le rivolse un’occhiata piena di compassione, prima di uscire silenzioso da quella stanza intrisa di soffocante colpa.

-Eccoti, finalmente! Temevamo che non saresti più tornato- la voce di Georg lo accolse una volta arrivato nella hall dell’albergo.

-Allora, non ti senti meglio?- domandò suo fratello, sbucando da una delle tante poltroncine di pelle scura.

Tom lo incenerì con lo sguardo, rendendosi conto solo dopo che, in fondo, suo fratello non aveva colpe. Anzi. Aveva semplicemente cercato di aiutarlo.

-Se si esclude il mal di testa da post-sbronza, gli occhi pesti, il mal di stomaco e il rimorso … Sì, sto decisamente meglio- sbottò acido, lasciando Bill di stucco.

-Ma… ma come? Andava tutto a meraviglia…- domandò esterrefatto, sgranando gli occhi scuri già bistrati di nero.

-Senti Bill, tu non hai fatto nulla di male, ok? Cercavi di aiutarmi e lo apprezzo, va bene? Ora rilassati: un paio d’ore e starò a meraviglia- fece Tom pratico, cercando di sorvolare sulla questione “sensi di colpa lancinanti”.

-Voglio solo sapere una cosa: sei riuscita a dimenticarla, anche solo per una notte?- domandò lievemente Bill all’orecchio del gemello, mentre quest’ultimo faceva per andare nella sua stanza.

Il chitarrista si fermò di colpo, inspirando profondamente.

-No-










My Space:

Avanti, ammettelo che non ve lo aspettavate! ;)

Sono tornata finalmente, dopo aver fatto i salti mortali per riuscire a finire di scrivere il capitolo. 

Vorrei fare un piccolo chiarimento, per evitare incomprensioni: Tom ama Nesta, nonostante tutto. Ecco perchè, anche dopo averla "tradita" con la ragazza della discoteca, non può fare a meno di ammettere con Bill che in realtà non ha mai smesso di pensare a lei. Ho deciso di inserire il tradimento da parte del chitarrista per sottolienare che, in fondo, rimane sempre lui: un ragazzo davvero poco incline ai legami, ma che non riesce a dimenticare la donna. Non è una giustificazione, questo è certo, ma è l'ennesimo, strano modo con cui le dimostra quanto le sia legato.

Non so se ho reso l'idea, ho fatto del mio meglio.

Come sempre ringrazio tutti i miei lettori e le miei lettrici per il grande sostegno. Siamo quasi alla fine! :)

Alla prossima!

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Capitolo 16
*** No Woman No Cry. ***


Capitolo 16: No Woman No Cry.

§

 

Nesta si era raggomitolata sul suo letto sfatto, in un groviglio di braccia, gambe e lenzuola. Aveva preso il lettore musicale e le enormi cuffie che tanto adorava, per andare a rifugiarsi nel suo mondo, fatto di sensazioni provate tempo addietro, ricordi e melodie tanto amate. Aveva socchiuso gli occhi, ondeggiando leggermente il corpo al ritmo cadenzato della canzone che cominciava a diffondersi, prendendo spazio nella sua mente e nel suo cuore.

No, woman, no cry;
No, woman, no cry;
No, woman, no cry;
No, woman, no cry.

 
No, ragazza, non piangere. Davvero, non ne vale la pena: non piangere per me. Ragazza, non piangere.

Avrebbe voluto risentire quelle parole sussurrate da Tom, con tutta la dolcezza che solo lui era capace di esprimerle.
 

'Cause - 'cause - 'cause I remember when a we used to sit
In a government yard in Trenchtown,
Oba - obaserving the 'ypocrites - yeah! -
Mingle with the good people we meet, yeah!
Good friends we have, oh, good friends we have lost
Along the way, yeah!
In this great future, you can't forget your past;
So dry your tears, I seh. Yeah!

 
I primi veri ipocriti che si mescolavano innocentemente alle brave persone erano loro, e lo sapevano. Si divertivano, però, ad additare tutti coloro che, come loro, erano bugiardi che si nascondevano dietro mille altri volti. Avevano buoni amici, e buoni amici avevano perso lungo la strada, per la pura soddisfazione di stare insieme, senza nessun altro a dividerli.
In quel grandioso futuro non potevano dimenticare il loro passato, nonostante tutto. Anche se erano stati insieme, anche se avevano annullato mille differenze l’uno per l’altra, adesso dovevano fare i conti con la realtà. Il loro passato, ciò che erano, era tornato a galla. Lui, chitarrista di fama mondiale. Lui, senza legami e corde a imbrigliare il suo animo indomito. E lei, che non era nessuno ed era esattamente come lui. Libera. Malgrado le differenze, non potevano dimenticare ciò che li rendeva uguali, ciò che li aveva fatti incontrare.
 

No, woman, no cry;
No, woman, no cry. Eh, yeah!
A little darlin', don't shed no tears:
No, woman, no cry. Eh!

 
Lei era forte. Eppure aveva pianto quando lui se ne era andato, sciogliendosi dalla stretta di quell’abbraccio. Aveva pianto, senza rumore, senza eccessive scenate. Composta, silenziosa, distaccata anche quando lasciava tutta la propria disperazione venire fuori, anche mentre guardava l’uomo che amava abbandonarla.
 

Said - said - said I remember when we used to sit
In the government yard in Trenchtown, yeah!
And then Georgie would make the fire lights,
I seh, logwood burnin' through the nights, yeah!
Then we would cook cornmeal porridge, say,
Of which I'll share with you, yeah!
My feet is my only carriage
And so I've got to push on through.

 
Nesta adorava il fuoco. Lo aveva sempre amato, e una volta l’aveva rivelato a Tom. Così lui le aveva sfilato l’accendino che faceva capolino dalla tasca dei jeans logori, e lo aveva fatto scattare con un sibilo appena percettibile. Erano rimasti a guardare quella piccola fiamma che nasceva dal vecchio accendino di Nesta, in silenzio. Un giorno si erano ripromessi di andare in uno dei tanti boschi che nascevano sulle colline, lontano dalla trafficata città. Lì, sotto il cielo stellato, avrebbero acceso un bel fuoco, e la legna avrebbe bruciato nella calda notte estiva, rilasciando quel buon profumo intenso e raro. Avrebbero dormito abbracciati, sotto le stelle, confidandosi mille segreti o semplicemente contemplando il silenzio la fortuna di essersi trovati.
Ma adesso, anche senza di lui, lei doveva andare avanti. Da sola, guidata solo dalla forza del proprio corpo e del proprio animo, avrebbe proseguito lungo la sua strada. Nuovi bivi le si sarebbero aperti davanti, ma lei avrebbe comunque dovuto reimparare ad agire da sola, senza l’ausilio di nessuno.
 

Oh, while I'm gone,
Everything's gonna be all right!
Everything's gonna be all right!
Everything's gonna be all right, yeah!
Everything's gonna be all right!
Everything's gonna be all right-a!
Everything's gonna be all right!
Everything's gonna be all right, yeah!
Everything's gonna be all right!

 
Mentre era via, tutto sarebbe andato bene. Si sarebbe risistemata ogni cosa, e tutto sarebbe tornato alla normalità. Come sempre. E entrambi non facevano che ripeterselo, fino allo sfinimento.
 

So no, woman, no cry;
No, woman, no cry.
I seh, O little - O little darlin', don't shed no tears;
No, woman, no cry, eh.

 
Allora no, non avrebbe più pianto. Non avrebbe più versato lacrime lei, la sua piccola ragazza. Non avrebbe più lasciato che i suoi occhi si inumidissero per lui.


No, woman - no, woman - no, woman, no cry;
No, woman, no cry.
One more time I got to say:
O little - little darlin', please don't shed no tears;
No, woman, no cry.

 
Ricordava di essere rimasta stretta a lui. Ne aveva ascoltato il cuore battere veloce. Aveva sentito il respiro caldo infrangersi sulla sua pelle. Aveva accarezzato la sua pelle morbida, sfiorando con le proprie labbra quelle schiuse del ragazzo. Aveva guardato i suoi occhi caldi resi appena lucidi da qualcosa a cui lui non era concesso cedere. Si inebriata del suo buon profumo. E si erano fatti una tacita promessa: non si sarebbero dimenticati. Mai.

Tom, poi, glielo aveva ripetuto un’ultima volta, prima di andarsene.

No ragazza non piangere.
 





 
 
Cari lettori,

siamo giunti alla fine. Non posso fare a meno di sentirmi felice e triste allo stesso tempo. È forse la prima storia in cui metto così tanto impegno, in cui metto in gioco tutta me stessa, arricchendo con le mie esperienze personali la storia stessa. Ho amato i personaggi di cui ho scritto, e spero di essere riuscita a trasmettere qualcosa a voi, il mio meraviglioso pubblico. Vi ringrazio con tutto il cuore, e come dico sempre, senza di voi questa avventura non sarebbe nemmeno incominciata. Grazie a tutti, a chi ha recensito, preferito, seguito, ricordato. Grazie a chi ha letto, facendo in modo che il mio lavoro non fosse vano. Infine, grazie ai Tokio Hotel e a Bob Marley, mie fonti di ispirazione.

Sperando di rincontrarci,

alla prossima!

                                               Francesca.

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