A drop in the ocean di Fiorels (/viewuser.php?uid=78393)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Adrenaline ***
Capitolo 2: *** Unexpected ***
Capitolo 3: *** Sad eyes never lie ***
Capitolo 4: *** Any place is better ***
Capitolo 5: *** Sense of guilt ***
Capitolo 6: *** I need to know ***
Capitolo 7: *** Redemption ***
Capitolo 8: *** Out and about ***
Capitolo 9: *** Sorry... ***
Capitolo 1 *** Adrenaline ***
Oooookay, salve
gente :) Sono una frana con le introduzioni quidi abbiate pazienza.
Visto che 'Broken
Road' è ormai alla fine vi propongo questa nuova,
piccola storia con davvero
poche
pretese. Stavolta mi sono buttata su qualcosa di più
"leggero" (tra virgolette) cercando di sfruttare generi di situazioni
che mi piacciono. Okay, lo so che non state capendo niente e in effetti
non c'è bisogno che capiate al primo capitolo XD
L'inizio della storia è ancora un pò lento anche
perchè l'ho iniziata mesi fa e nel frattempo il mio stile
è cambiato. E' strano ma rileggendo mi sono resa conto di
come avrei scritto determinate cose in modo diverso se l'avessi
iniziata ora, ma quel che è fatto è fatto e
comunque ho davvero pochissimi capitoli pronti di questa storia quindi
non è un dramma se i primi faranno più schifo del
seguito XD lol
Coooooomunque, proprio per questo motivo inizio a dire già
da subito che non avrò un giorno fisso per postarla visto
che sono davvero incasinata con l'università, ma volevo
comunque lasciarvi qualcosa prima di terminare ufficialmente l'altra,
giusto per farvi sapere che non morirò XD Ahahaha
Intanto mi impegno a cercare di portarmi avanti il più
possibile :)
Okay, basta. Magari vi lascio al capitolo per ora e ci sentiamo in
fondo per qualche altra nota.
Buona lettura! *-*
Capitolo 1
Adrenaline
“Mi
raccomando, fatti sentire. Non sparire..”
Alzai
gli occhi al cielo. “Sì,
papà” lo tranquillizzai come facevo sempre e la
sua
smorfia fece intendere che non credeva al mio tentativo di tenerlo
buono.
“E
vieni a trovarmi quando vuoi, il biglietto te lo pago io. Magari a
Natale...”
“Dai
papà, poi vediamo. Mancano cinque mesi a Natale!”
“Lo
so, è che… ancora non mi sono abituato a non
averti a casa, anche se sono
passati cinque anni. Vorrei vederti girare per casa e prepararmi
qualcosa di
commestibile.”
Risi
prendendo le sue mani tra le mie, un gesto che non spesso mi concedevo
dati i
nostri caratteri restii a sdolcinate dimostrazioni d'affetto, ma in
quel caso
potevo anche decidere di sciogliermi un po' per fargli capire quanto
fosse
importante per me che lui fosse felice.
Quando
un mese fa gli avevo proposto di passare il mese d'Agosto insieme la
sua
emozione aveva attraversato persino la cornetta che da cinque anni
separava
Forks da Los Angeles. E ora, ora gli stavo dicendo che mi era stato
offerto uno
stage, anche retribuito (sebbene di poco), per i mesi di Agosto e
Settembre
così da prepararmi al praticantato che avrei dovuto iniziare
ad Ottobre.
Onestamente,
finito il college e neo-laureata, avrei davvero preferito passare un
mese di
relax senza fare altro che leggere, passeggiare o anche solo dormire.
Completo
e totale relax era una prospettiva decisamente migliore all'essere
intrappolata
nell'assolata e afosa Los Angeles per tutta l'estate; ma era pur sempre
un'occasione, qualcosa che avrebbe arricchito il mio curriculum e che
di certo
non poteva recar danno.
Sì,
restare era la decisione giusta.
“Verrò
a Natale, papà. Promesso! Magari anche prima...”
sorrisi scrollando le spalle.
Lui ricambiò mostrando un timido sorriso sotto i baffi per
poi attirarmi a sé e
stringermi in un nostro tipico abbraccio. Sentito ma non da film
melodrammatico.
“In
bocca al lupo, Bells. Sono… sono orgoglioso di
te… e so che te l'ho già detto
ma... Ti voglio bene.”
Sapevo
quanto fosse difficile per lui esternare i sentimenti in questo modo
perciò non
potei fare altro che stringerlo forte un'ultima volta.
“Anche
io papà” ricambiai per poi lasciarlo andare. Gli
aprii la portiera della
macchina o sapevo che non sarebbe mai andato via.
“Chiama!”
ordinò ancora mentre saliva in auto.
“Siiiii...”
mi lamentai con cadenza noiosa e gli sorrisi.
Un
ultimo saluto con la mano e infine partì.
Osservai
la macchina finché non girò l'angolo sparendo
dalla mia visuale, e potei
finalmente prendere un enorme sospiro.
Di
sollievo, di paura, di malinconia. Non lo sapevo.
Sembrava
passato solo un giorno dal diploma al liceo di Forks, dove mi ero
trasferita
sette anni prima quando mamma si era risposata, e ora avevo tra le mani
la
laurea.
Bè,
non l'avevo tra le mani letteralmente, ma era così. Ero
laureata, precisamente
da trentaquattro ore, e non potevo sentirmi più orgogliosa
di me stessa.
Presi
a camminare lentamente mentre la brezza di fine Luglio rinfrescava
debolmente
il mio viso. Mi guardai intorno cercando di imprimere ogni piccolo
dettaglio di
quel posto; mi sarebbe dispiaciuto lasciare l'UCLA,
l'Università della
California, l'Università di Los Angeles; mi sarebbe davvero
mancata.
Mi
sarebbe mancato l'albero alla cui ombra mi rannicchiavo a leggere nelle
giornate di sole, mi sarebbe mancato uscire la mattina a fare jogging
tra i
vialetti in mezzo al verde, mi sarebbero mancate la partite di basket e
forse
anche le cheer-leader; bè, forse mi sarebbe mancato
più il prendere in giro le
cheer-leader.
Nel
bene o nel male, mi sarebbe mancato tutto di quel posto dove avevo
trascorso
gli ultimi cinque anni della mia vita nella speranza di costruire il
futuro che
volevo e che, in effetti, non era tanto chiaro nemmeno a me.
Non
avevo un obiettivo preciso nella vita e quando la mia insicurezza mi
mandava in
depressione c'era Rose a consolarmi dicendo che l'avrei trovato strada
facendo
e che il mio
percorso mi avrebbe
condotta esattamente a quello che volevo diventare. Era facile per lei
dirlo.
Voleva essere un medico e lo aveva sempre saputo, fin da quando, a
cinque anni,
faceva diagnosi con le bambole affibbiando loro e inventando ogni
genere di
malattia possibile; in un modo o nell'altro però riusciva
sempre a guarirle e
quando, qualche anno fa, la sua unica nonna era morta in seguito a un
ictus
capì quello che voleva essere: un neurologo.
Lei
voleva essere un medico. Lei voleva essere un neurologo. Lei voleva
essere
qualcuno di preciso.
Io
sapevo solo che amavo l'arte in ogni sua forma e volevo seguirla.
Architettura,
disegno, musica, teatro, anche video-editing; tuttavia ero
più ferrata sulla
pittura e sulla fotografia.
Non
a caso non uscivo mai di casa senza la mia macchina fotografica,
sebbene fosse
una comune Canon da 8 Megapixel, e agognavo il momento in cui avrei
risparmiato
abbastanza soldi da poterne comprare una professionale come quelle che
usavamo
ai corsi…
Ma
per ora non era ancora il momento e chinandomi su un fiore dovetti
accontentarmi
di intrappolarlo nella sua semplicità.
Continuai
a perdermi nei miei pensieri fotografando ogni angolo che avesse
significato
qualcosa per me e quando vidi il chiosco del caffè - non
vivevo se non ne
prendevo almeno tre al giorno - non potei fare a meno di fermarmi.
“Macchiato,
con schiuma e tanto zucchero!” Steve mi anticipò
appena mi vide fermarmi
davanti il carrello.
“Mi
conosci bene” risi.
“Oh,
dopo cinque anni la tua dipendenza dal caffè diventa
nota.”
Annuii
sorridendo mentre lui preparava il caffè.
“Mi
fai anche un cappuccino?”
“Agli
ordini!”
Steve
era un uomo sulla quarantina che, da quanto ne sapevo, aveva sempre
lavorato
all'università. Ogni tanto ci eravamo trovati a parlare e mi
aveva raccontato
della sua famiglia, delle sue due bambine di tre e cinque anni e di
come non
potesse vivere senza di loro.
A
volte, nell'ascoltarlo, generava quasi un piccolo desiderio di avere un
figlio
ma abbandonavo presto lo strano pensiero.
Non
solo perché riportava a galla il ricordo del pezzo di merda
che mi aveva
tradita quindi non ci sarebbe stata materia prima per procreare, ma
anche
perché era troppo presto e la mia vita era un vero casino.
Avevo
sempre sognato di poter creare una famiglia dopo la laurea, sistemarmi,
trovare
un lavoro che mi appagasse, avere un compagno che mi amasse; immagino
che i
sogni siano spesso difficili da realizzare. Anzi, i più
semplici sono proprio i
più difficili perché lasciano l’amaro
in bocca e la delusione di aver fallito. I
sogni impossibili, invece, sono i migliori, quelli meno dolorosi e
più
consapevoli. Tutto ciò che creano è una dolce
malinconia sapendo che si
avvererebbero solo grazie a un miracolo.
Ma
quando un sogno semplice non si avvera perdi anche la speranza di
vederlo
realizzarsi.
Se
non si avverano i sogni semplici come possono avverarsi quelli che
sembrano
impossibili?
Mi
resi conto di stare decisamente divagando nei miei pensieri visto che
avere una
famiglia con Jacob non poteva certo dirsi il sogno della mia vita.. Ma
la paura
di arrivare a trenta anni senza una vita personale cominciava a farsi
sentire;
soprattutto dopo una relazione durata sette anni.
Avevo
conosciuto Jacob la primavera in cui mi ero trasferita a Forks.
Diventare amici
era stato facile e ancora più semplice era stato diventare
qualcosa di più.
Credevo…
ero convinta che ci appartenessimo e che l'esperienza universitaria
insieme non
avrebbe fatto altro che rafforzare il nostro rapporto.
Questo
fino a un mese fa quando aveva detto di non amarmi più e di
aver bisogno di
tempo per riflettere; una settimana dopo l'avevo trovato a letto con
un'altra,
a consolarsi per bene, e non facevo altro che torturami giorno e notte
chiedendomi in cosa avessi sbagliato e per quanto tempo era riuscito a
prendermi in giro così.
Rose
diceva che non era colpa mia, che lui era un figlio di puttana - e
aveva
ragione - ma faceva male. Faceva male comunque.
“Sarà
strano non vederti più qui.”
Steve
interruppe, grazie a Dio, i miei pensieri passandomi il cappuccino e il
caffè e
aiutando la mia malinconia a raggiungere il top.
Altro
che caffè, avrei avuto bisogno di un bel concentrato di
cioccolato e nutella di
questo passo.
“Magari
verrò ogni tanto per un caffè. I tuoi sono
imbattibili!” ed era la verità. O
forse era solo la verità che avevo imparato a conoscere
vivendo in quel posto
abbastanza a lungo da farne la mia vita.
“Ci
conto allora” sorrise ancora e uccise il mio tentativo di
pagarlo.
“Offro
io” mi fece un occhiolino e tutto quello che riuscii a dire
fu un debole ma
sincero grazie.
Con
l'umore ancora a metà tra a terra e al
settimo cielo mi
incamminai verso il dormitorio mentre, distrattamente, posavo i soldi
nella
borsa.
E
quello fu, probabilmente, il gesto che cambiò la mia vita
per sempre.
Girai
l'angolo e in quel millesimo di secondo in cui chinai il viso sentii
qualcosa
venirmi addosso, o meglio, sentii di andare addosso a qualcosa.
Il
caffè mi si rovesciò sulla maglietta facendomi
scottare e gridare dal dolore.
“Cazzo!”
imprecai a denti stretti lasciando cadere i caffè e
allontanando la maglietta
dal mio petto prima di restare ustionata davvero.
Alzai
il viso e vidi quello della montagna che mi era venuto addosso.
Ok,
non era una montagna in effetti ma…
“Potevi
fare più attenzione!” gli gridai contro d'istinto.
La
sua bocca si aprì in una o
di stupore
e mi fissò incredulo.
“Io?
Non stavi nemmeno guardando dove andavi! Mi sei venuta addosso! E
ringrazia che
sia stata tu a sporcarti e non io o mi avresti pagato il conto della
lavanderia!”
Stavolta
fui io a fissarlo incredula. “Spero che tu stia
scherzando!”
“Riguardo
a cosa, scusa?”
“Pretendo
delle scuse!”
“Scuse
per cosa? Non è colpa mia se non guardi dove cammini. Impara
a tenere alta la
testa bambolina…”
Bambolina?
Mi aveva appena chiamata bambolina?
“E
tu impara a farti i cazzi tuoi!” ringhiai puntando i piedi.
“Me
li stavo facendo, infatti, prima che mi piombassi addosso” mi
fece un veloce
occhiolino prima di girarmi attorno e prendere la direzione opposta
alla mia.
“Idiota!”
fu l'insulto più forte
che riuscii a
gridarli dietro mentre lo vedevo allontanarsi sempre più.
Non
si scomodò nemmeno a rispondere; alzò una mano
per snobbarmi e, ancheggiando
come un modello di serie b, continuò a camminare.
Restai
per qualche secondo a pensare come risolvere il pasticcio sulla mia
maglietta
ma, quando capii che se non tornavo in camera avrei risolto ben poco,
mi
incamminai di nuovo, senza mancare qualche eventuale imprecazione e
maledizione
qua e là.
“Ah
Bella! Dammi una mano con questi!”
Non
feci nemmeno in tempo ad entrare che dovetti accorrere in aiuto a Rose
che
stava sprofondando dietro una pila di quei mattoni comunemente chiamati
libri.
“Rose,
ma devi portarli tutti?”
“Scherzi?
Sono i libri. I miei libri!
Quelli su cui ho buttato il sangue
per cinque anni! Certo che me li porto! Sono
sempre utili e sono costati una fortuna e… che cavolo hai
fatto alla tua
maglietta?”
“Oh...”
sbuffai sistemando i libri in una scatola sul letto. “Avevo
preso un caffè, e
un cappuccino per te, ma un idiota mi è venuto
addosso.”
“Un
idiota carino?”
“Rose!”
“Bella!
E' ora di iniziare a mostrare interesse per l'altro sesso.”
“E
considerando com'è andata l'ultima volta è
decisamente la scelta migliore!”
ironizzai.
“Uno: ultima e unica
volta. Non puoi generalizzare il genere maschile basandoti
sull'unico ragazzo con cui sei stata e che si è rivelato
essere poi un pezzo di
merda, anzi un verme che striscia in un pezzo di merda in
putrefazione...”
“Rose,
che schifo...”
“Due: non sto parlando di storia seria.
Sai, c'è una cosa chiamata divertimento, mi sorprenderei se
tu la conoscessi.
Baci, lingue, petting...”
“ROSE!”
“Tre: ho solo chiesto se era carino non
se te lo saresti fatto lì sul pavimento.”
Assunsi
l'espressione più sdegnata che potessi avere.
“Hai
finito?”
“Allora,
era carino?”
Inutile,
cercare di combattere verbalmente con lei era una battaglia persa in
partenza
probabilmente perché delle due lei era sempre stata la
più loquace e io la più
pratica, purché non si trattasse di ragazzi
almeno…
Sospirai
cercando di fare mente locale e darle una risposta. Al momento non mi
ero
minimamente soffermata sull'aspetto fisico ma ripensandoci e riportando
a mente
il suo viso e il suo corpo, nell'insieme...
“Sì,
era carino...” sentenziai infine scrollando le spalle mentre
lei batteva le
mani eccitata; io, personalmente,
ne
ignoravo il motivo.
“E
comunque da quando sei diventata così schietta e
scurrile?” Domanda retorica.
Rose era sempre stata così ma ultimamente me lo faceva
notare un po' troppo.
“Da
quando sembra essere l'unico modo per avere una tua reazione! Ti prego,
non
dirmi che stai ancora male per il verme
del pezzo di merda?”
Non
potei fare a meno di sorridere per qualche secondo ma tutto
svanì al ricordo di
Jacob a letto con un'altra; appena una settimana dopo che...
Sospirai
e mi buttai a peso morto sul letto, fissando il soffitto.
“E'
ancora troppo presto, Rose...”
“Stronzate!”
disse la mia amica abbandonando quello che stava facendo e venendo a
sedersi
sul letto accanto a me. “Per lui non è stato
troppo presto, non si è fatto
nemmeno un terzo dei problemi che ti stai facendo tu. Mi dispiace dirti
queste
cose Bella, ma devi renderti conto che non ne vale la pena. Che la tua
vita è
altro e che puoi riprenderla in mano quando vuoi, anche solo per
divertirti!”
Mi
massaggiai le tempie desiderando per un secondo di aver chiesto una
camera
singola; ma il pensiero mi lasciò presto perché
senza Rose non sarei riuscita a
superare quei cinque anni senza impazzire. Eravamo state assegnate alla
stessa
camera dal primo giorno e all'inizio era stato drammatico. Sembrava che
la
convivenza non fosse scritta nei nostri oroscopi. Poi, non ricordo
nemmeno
come, a furia di incomprensioni abbiamo legato così tanto da
diventare l'una la
forza dell'altra.
“Magari
nei prossimi giorni...” restai sul vago sperando che si
accontentasse ma l’adattamento
non era esattamente una delle sue qualità più
sviluppate.
“Perché
non stasera?”
“Rose,
come fai ad essere sempre così ottimista? Ti sei resa conto
che tra due giorni
dobbiamo lasciare questo posto e ancora non abbiamo trovato un
appartamento?”
“Purtroppo
sì, ma mi rendo anche conto che non lo troveremo alle sette
di domenica sera.
Stare chiusa qui non ti aiuterà a risolvere i problemi,
Bella. E poi tuo padre
ci ha lasciato il numero di quel suo amico...”
“Non
lo so.. dovrei iniziare a mettere via la roba…”
“Uuuuuh lo farai domani! Su! Domani
è un
altro giorno! Metterai le tue cose nello scatolone, andremo a vedere
l'appartamento e potrai deprimerti quanto vuoi ma stasera…
stasera c'è la festa
di fine corsi e noi dobbiamo andarci!”
Oh
no… oh, ti prego, no...
“Non
se ne parla, Rose!” quasi urlai mettendomi di nuovo in piedi.
“Perché
no?”
“Sai
che non sono cose che fanno per me...”
“E'
solo una festa, Bella.”
“No.”
“Ti
prego!”
“No-ooo.”
“Ti
preeeeego...”
“Ho
detto di no, e sarà sempre no!”
Evidentemente
il mio no si scriveva esse-i
perché
due ore dopo ero lì, a quella dannata festa, trascinata da
Rose con la scusa
che avrebbe dovuto incontrare Emmett, il ragazzo della confraternita
che
l'aveva invitata esortandola a portare chiunque volesse.
Perché
le avevo detto di sì? Se l'avessi saputo avrei avuto un
ottimo motivo per
restare a casa visto che lei sarebbe stata ugualmente in compagnia.
“Sola soletta?” sussultai quando
sentii
quella voce già così familiare e irritante alle
mie spalle.
Mi
voltai per fulminarlo negli occhi ma non potevo aspettarmi che fissarlo
così
intensamente potesse scombussolare me. Avevo dovuto perdere quel
particolare
durante il nostro piccolo scontro ore prima ma aveva gli occhi
più belli che
avessi mai visto. Di un colore indefinito tra il verde e
l’azzurro chiaro con
qualche sprazzo di grigio.
“Ehi,
attenta che stai sbavando un po’…”
“Ehi,
attento che il tuo ego si sta gonfiando un po’ troppo.
Potrebbe ucciderti e
impossessarsi del tuo corpo!”
“Acida
già di prima mattina, eh?”
“Sono le nove di
sera” gli feci notare
perdendomi evidentemente il suo scherzo.
“Era
un modo di dire, il punto non cambia” ridacchiò.
“Senti,
perché non mi lasci in pace?”
“Come
vuoi” alzò le mani in segno di resa. “Ti
avevo solo vista qui tutta sola e
pensavo ti facesse piacere fare due chiacchiere con qualcuno e sembrare
meno
patetica di quanto appari…” sorrise come se mi
avesse appena fatto un
complimento e, scendendo il gradino, si allontanò da me.
“Ah,
bella gonna!” disse girandosi un secondo prima di perdersi
tra la folla.Mi
guardai dai piedi per ricordarmi cosa Rosalie mi aveva costretto a
indossare e
quando rammentai della gonna alta troppi centimetri sopra il ginocchio
mi fu
chiaro il suo commento.
“Chi
era quello?” Rose era magicamente apparsa alle mie spalle con
un bicchiere di
vodka al melone che finì presto
nelle
mie di mani.
“Ma
è puro?” chiesi sgranando gli occhi.
“Ti
farà bene. Mi dici chi era il tizio?” chiese di
nuovo continuando a scrutare il
ragazzo tra la folla.
“L'idiota
di oggi, quello del caffè.”
“Cazzo!
Avevi detto che era carino ma non che aveva quel corpo... Oh mio
Dio!!!”
esclamò quando lui si voltò e fu possibile per
lei vederlo in viso.
“Ma
quello è Edward Cullen!”
“Chi?”
“Lo
sai Bella, Edward Cullen! Ne hai sentito sicuramente parlare!
Madonna!”
In
effetti ora che Rosalie nominava il suo nome dovevo ammettere che aveva
un
qualcosa di familiare; sicuramente l'avevo sentito in giro ma non da
interessarmene né tanto meno ero accanita dipendente da
Facebook da essere in
grado di associare un viso a un nome o da andare a farmi i fatti degli
altri.
“Non
ci posso credere!!! Non ci posso credere!!! Awwwww”
“Rosalie,
vuoi calmarti?!”
Si
sarebbe sentita male.
“Non
capisci, Bella! Mio Dio... lui è così...
così...”
“Sbruffone?
Sì, lo so! È insopportabile!”
Rosalie
si immobilizzò e... ah, se gli sguardi potessero
uccidere.
“E'
uno dei ragazzi più sexy dell'università, Bella!
Un casino di ragazze gli vanno
dietro e lui stava parlando con te! Con te! Cioè, ti rendi
conto?! Con te!!!”
“Grazie
della stima, mi commuove.”
“Non
intendevo questo” scosse il capo. “Cazzo, Bella! Ti
devi buttare! Dicono che a
letto sia un dio!”
“E
chi lo dice.. ? Ah. No no no. Non lo voglio sapere” mi
bloccai prima che
immagini oscene occupassero la mia mente.
“Senti!
Non me ne fotte un cazzo delle tue teorie sul sesso senza amore... Ora
ti scoli
questo, vai e ti butti, capito?”
“Rose!”
“VAAAAI!”
Prima
che potessi aggrapparmi a lei mi aveva dato una piccola spinta e mi ero
trovata
tra una moltitudine di persone che si muoveva al ritmo di musica
sballottandomi
qua e là.
Fu
allora che li vidi.
Jacob
e Jessica. Avvinghiati l'uno all'altra in un piccolo angolo della sala.
Mi
ci vollero dieci minuti per
staccare
gli occhi da quella scena e dieci secondi
per scolarmi due bicchieri di vodka uno dietro l’altro e
prenderne un terzo,
insieme a tutta la bottiglia.
Mi
ritrovai in giardino, ubriaca fradicia, a denigrare la mia perfettissima
vita, il mio perfettissimo amore, quel verme
del pezzo di merda
che ora se la spassava con una quella puttana
a dieci metri da me.
La
gente mi fissava e rideva, mi fissava e distoglieva lo sguardo ma
nessuno
pensava minimamente a darmi una mano.
Non
ne avevo bisogno infatti. Tutto ciò che desideravo era un
letto ma, sebbene non
fossi del tutto lucida, sapevo che non potevo andare via senza
avvertire Rose o
le avrei fatto venire un infarto.
Mi
aggrappai alla staccionata che segnava i confini della casa della
confraternita
e mi tirai su. Barcollando, ma non troppo, arrivai all'entrata
sforzandomi di
tenere gli occhi aperti ma era difficile con i giochi di luce nella
stanza.
Chiamai
Rose rendendomi conto, dopo dieci minuti, che non mi avrebbe sentito
nemmeno
con un megafono.
Mi
trovai di nuovo tra la folla di ragazzi che ballavano sulla musica
house ma
stavolta tutto era amplificato e la testa sembrava ballare per me.
“Scusa…”
biascicai quando inciampai nei piedi di qualcuno, qualcuno che si
rivelò essere
Jacob tra le braccia di Jessica.
“Bella...”
mi sembrò di leggere il labiale.
“Oh,
perfetto...” parlai a me stessa mentre mi sentivo
improvvisamente più viva e
attiva, come se quell'imprevisto avesse risvegliato la mia rabbia e
quest'ultima stesse assorbendo l'alcool.
Era
solo un'impressione ovviamente perché appena mi mossi tutto
cominciò a girare
di nuovo ma ciò che avvertivo dentro era solo una gran
voglia di vendetta e
nient'altro.
“TI
VA DI BALLAREEEEEE?!” urlai al primo ragazzo che mi
capitò sotto mano e che si
adattò subito al mio corpo.
Solo
quando lo riconobbi sentii la testa girarmi ancora di
più…
Non
poteva essere vero, ancora lui.
Per
un secondo fui tentata di allontanarmi ma lui era lì, il
ragazzo più sexy
dell'intera università stava ballando con me,
aveva le mani sui miei
fianchi e quando si spostarono sulle mie natiche per stringerle e
avvicinare i
nostri corpi capii che dopotutto mi trovava anche in qualche modo
attraente e
poi, Jacob era a due passi e aveva sicuramente visto la scena quindi,
perché
non approfittarne?
Senza
pudore iniziai a strusciarmi sul suo corpo come una cagna in calore,
senza
nemmeno chiedermi cosa stessi facendo perché è
questa la prerogativa degli
ubriachi, no?
Ci
muovevamo insieme al ritmo di musica mentre le mie mani carezzavano il
suo collo,
il suo viso, il suo petto. Le sue vagavano sul mio corpo, avide, e
quando
raggiunsero la schiena sotto la maglietta sentii una specie di scossa
che mi
spinse a fare quello che feci.
Mi
alzai sulle punte e stringendo le braccia attorno al suo collo mi
avvinghiai a
lui e lo baciai, senza chiedere il permesso e senza aspettarmi che non
usasse
la lingua.
Non
avevo mai sentito nulla del genere, mai sentita così viva
come in quel
momento di assoluta sconsideratezza ma anche di adrenalina.
Era una cosa stupida, forse, eppure mi sentivo carica e
soddisfatta mentre le nostre lingue e i nostri corpi si muovevano
insieme.
Lanciai
un'occhiata a Jacob e lui non se la lasciò sfuggire.
“E'
il tuo ragazzo?” urlò Edward al mio orecchio.
“ERA!”
“E
stai facendo questo solo per farlo ingelosire?”
Mi
strusciai su di lui con quanta più sensualità
possibile.
“E'
un problema?”
“Affatto!”
disse praticamente già nella mia bocca e senza che me ne
potessi davvero
accorgere mi stava trascinando da qualche parte.
Tenevo
gli occhi chiusi visto che lui mi teneva vicina per farmi strada.
“Le
scale!” mi avvertì ma era troppo tardi ed ero
già inciampata.
Lo
sentii, forse, ridere e abbassarsi
per recuperarmi.
Tra
un gradino e l'altro continuava a toccarmi, baciarmi e io mi sentivo beatamente vuota. In
paradiso.
Mi
sbatté contro il muro intrappolando il mio corpo e
spingendoci il suo contro,
facendomi eccitare. L’alcool aveva sempre avuto questo
effetto su di me e lo
sapevo bene, come sapevo che non sarei riuscita a reprimerlo nemmeno
volendo.
Le
sue labbra riempirono il mio collo succhiando avidamente nello stesso
istante
in cui il muro crollò dietro di me per lasciare il posto a
qualcosa di
decisamente più morbido; un letto, sicuramente.
A
quel punto avrei potuto fermarmi ma ormai ero troppo avida di
adrenalina e
anche troppo eccitata per farlo…
Divertimento.
Dio
del sesso.
Come
avrei potuto andare via arrivati a quel punto?
Tra
l'altro non ne avrei avuto nemmeno la forza quindi tanto valeva
arrendersi fin
da subito... o forse..
Ogni
mio dubbio e preoccupazione sparì quando le sue mani si
insinuarono sotto la
mia maglietta e iniziarono a giocare con i miei seni, privi di
reggiseno.
Ansimai
già spudoratamente e non potei fare a meno di alzarmi per
liberarmi di
quell'indumento e liberare anche lui.
Lo
vidi alzarsi e sfilarsi i pantaloni mentre io mi stendevo meglio sul
letto;
torno ad aderire al mio corpo perfino meglio di prima, continuando la
sua opera
con le labbra e con la lingua.
Mi
sentivo morire e non potevo immaginare che, nelle mie condizioni,
potessi
sentire altro… E invece quando alzò la gonna mi
bagnai all'istante al solo
pensiero della sua mano sulla mia intimità.
Come
se leggesse i miei pensieri portò le dita sul mio punto
più sensibile
amplificando e unendo tutto il mio piacere.
Gemevo
e ansimavo senza sosta, muovendo il mio bacino contro la sua mano
quando spostò
le mutandine e con due dita mi penetrò facendomi arrivare
all'orgasmo.
D'un
tratto però abbandonò il tutto, lasciandomi
desiderosa di altro, e tutta la mia
attenzione fu improvvisamente concentrata sulla dura erezione che
premeva
contro la mia pancia.
“Ce…
ce l'hai un.. un preservativo..?” riuscii a dire e ringraziai
quel mezzo
neurone ancora funzionante.
“Sì,
sì, tranquilla!” si allungò al comodino
afferrando qualcosa che sfilò subito.
Un
secondo dopo lo sentii in me, grande, forte, possente.
“Ah!”
urlai quando affondò in profondità tra gemiti e
strani grugniti di piacere.
Spingeva
sempre più forte, alzando le mie gambe e dandosi appoggio
afferrando le mie
natiche.
“Ah…
ah.. si... cazzo..”
Furono
le ultime parole che ascoltai prima di rilassare i muscoli e sentirlo
crollare
su di me.
Aprii
gli occhi quando un raggio di sole mi prese in pieno viso facendomi
girare la
testa e salire il vomito.
Riuscii
a trattenere a stento lo stimolo e mi misi a sedere sul letto,
osservando la
scena attorno a me.
Edward
-
era quello il suo nome, vero?
Bè,
lui era steso sul letto accanto a me e dormiva nudo,
ovviamente.
Sebbene
fossi stata ubriaca le sensazioni di quella notte erano così
chiare ed
amplificate che non avrei potuto negarle o non ricordarle almeno in
parte.
Era
stato davvero… divino - considerando il
mio unico termine di paragone -
ma ora dovevo solo andarmene da lì prima che si svegliasse.
Mi
mossi leggermente recuperando i miei vestiti da terra.
Evitai
di andare in bagno per non far scricchiolare la porta e mi vestii
velocemente,
così come mi ero svegliata.
Stavo
per sgattaiolare via quando inciampai nel piede del letto cadendo a
terra.
Tipico
di me.
“Cazzo!”
mi lamentai sperando di non averlo svegliato ma quando mi alzai lui era
al
centro del letto, nudo e con il suo pene in bella
vista, che mi
guardava.
“Vai
già via?”
“Sì,
spiacente.”
“Pensavo
che potevi restare... divertirci ancora un po'.”
“Senti,
Edward...” azzardai. “Senza offesa per te o per le
ragazze che di solito ti
porti a letto, ma io non sono così. Ero ubriaca,
è capitato, è stato bello.
Fine della storia, okay?”
Rispose
con una smorfia discordante e scrollò le spalle.
“Quindi,
fine fine?”
“Fine.”
“Peccato...
pensavo che ti fosse piaciuto...”
“No!
Cioè sì, mi è piaciuto. Davvero. Ma
sinceramente, tu non sai nemmeno il mio
nome e credimi, non ce l'ho con te per questo. Non condivido il tuo
stile di
vita ma non voglio criticare, per me va benissimo così,
davvero. Nessuna
implicazione.”
Sembrò
rilassarsi, chissà perché. Si alzò, sempre
nudo, andò alla scrivania e
scrisse qualcosa su un foglietto.
Si
avvicinò a me, ancora nudo, e me lo
porse.
“Bè,
se cambi idea, questo è il mio numero.”
ammiccò con un occhiolino a cui risposi
semplicemente con un'alzata di sopracciglia.
“Dubito...
ma… grazie..” borbottai mentre, goffamente, uscivo
dalla stanza senza nemmeno
salutarlo come si deve.
Ma
in fondo che importanza aveva?
Tanto
non avrei rivisto quel ragazzo mai più né tanto
meno mi sarebbe servito il suo
numero, era quello che pensavo scendendo le scale, inconsapevole di
quanto
fossi lontana dalla verità.
Bè, ve lo avevo
detto che non era nulla di che quindi eravate avvertiti XD
Sono
abbastanza sicura di raccontare quasi tutta la storia dal punto di
vista di Bella e voglio tentare questa via perchè trovo
affascinante,
in un certo senso, che si conoscano i veri sentimenti di un solo
personaggio e si lasci all'oscuro l'altro. Quindi se mai ci saranno Pov
Edward lo scriverò prima del capitolo :)
Mmm, che altro dire...?
Penso nient'altro in effetti .___. Oddio, ho un vuoto di memoria e
sicuramente dopo aver postato mi torneranno in mente le atre 124.000
cose che volevo dire ma vabbè, male che vada le
dirò al prossimo
capitolo XD
Okay, allora mi ritiro e, boh, spero vi abbia incuriosito anche solo un
pochino *-*
*incrocialedita*
Alla prossima!
Fio x
|
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Capitolo 2 *** Unexpected ***
adito - cap 1
Vabbè,
diciamolo davvero onestamente che io non so proprio cosa dire.
Cioè... l'entusiasmo che avete dimostrato per quel primo
capitolo, le recensioni, i seguiti, i preferiti... Immagino che stiate andando
a fiducia XD E, vabbè, spero che ne valga la pena per voi
che
leggete e per me che scrivo *-* Non so che dire... davvero.
Questo capitolo è una bella noia ahahaha ma serviva per
descrivere un pò la vita di Bella prima di arrivare a quello
che
sarà il vero tema della storia. Non so se avete notato che
non
sto linkando canzoni, ed è proprio perché questi
capitoli
sono stati scritti mesi fa e non ricordo per nulla quali canzoni mi
ispirarono e non mi viene naturale mettervi delle canzoni solo
perchè ci stanno bene XD Comunque, appena posterò
capitoli nuovi di zecca, riprenderò con i suggerimenti
musicali.
Okay, detto questo... Vi lascio alla lettura, sperando che arriviate
alla fine senza addormentarvi LOL
Ci sentiamo sotto! xx
Capitolo 2
Unexpected
- “Bella!
Bella...?”
- “Mmmm…”
mi lamentai ancorata al sonno.
- “Bella,
farai tardi.”
- “Lasciami
dormireeee...” biascicai mentre sentivo già il
lenzuolo mancarmi da sopra al
corpo.
- “Su,
svegliati!”
- “Mmm…
Rose!” esclamai infine alzandomi solo per riprendere possesso
del lenzuolo e
rituffarmi sul letto.
- Sentii
la mia amica sospirare e poi sbuffare.
- “Si
può sapere che hai?”
- Feci
finta di dormire ma conoscendola era troppo intelligente per credere
che avessi
ripreso sonno dopo nemmeno due minuti.
- “Bella!”
- “Non
voglio andarci, Rose, non mi va! Quella mi odia, non la sopporto
più!”
- “Ma
chi? Siria?”
- “Sì!”
confermai uscendo dalla copertura e mettendomi seduta “Lei mi
odia ed è
perfettamente normale visto che io odio lei ma non capisco
perché ce l'abbia
tanto con me. E' un mostro. Dal primo giorno di stage mi manda sempre a
prenderle il caffè e se le porto un cappuccino dice di aver
cambiato idea e di
volere il macchiato; se le porto il macchiato vuole il
cappuccino...”
- “Tu
fatti furba e portaglieli entrambi!”
- Facile
come bere un bicchiere d'acqua in effetti; non ci avevo pensato.
- “Non
è solo questo il punto. Lei è troppo dura,
capisci? Dovrebbe essere un corso di
apprendimento e invece lei lo utilizza come programma sfruttiamo-gli-stagisti.
L'altro giorno ha fatto piangere una
ragazza! Ha detto che l'arte non può nemmeno guardarla
perché non ha gli occhi
adatti. Ti rendi conto?! Che cazzo vuol dire ‘non
hai gli occhi adatti’? Quella poverina... le ha
distrutto i
sogni in due secondi. E tutti gli altri. E' sempre lì a dare
consigli o
criticare, ma anche quando deve dire una buona parola non lo fa mai
dandoti la
soddisfazione di ricevere un complimento” mi resi conto di
non aver sputato
mezzo secondo quindi fui costretta a prendere fiato.
- Rose
mi carezzò i capelli.
- “Tesoro…”
disse quasi con compassione. “E dei tuoi lavori che
dice?”
- “Magari
dicesse qualcosa... Lei sta lì e fissa. A volte per due
secondi, altre per
venti minuti interi! Mi dà il nervoso! Mi ricorda quando
facevo le prime
manovre con la macchina e mio padre era lì a fissare!
Normale che poi prendevo
la staccionata!”
- Ero
estremamente agitata quella mattina; meglio non avvicinarmisi.
- “Okay
tesoro, ora rilassati e prendi un bel respiro”
- Seguii
il consiglio della mia amica e chiusi gli occhi cercando di rilassarmi.
- Funzionò,
almeno quel poco che bastava per non farmi urlare come un pazza
esaurita appena
alle nove di mattina.
- “Non
voglio andarci, Rose. E poi non mi sento nemmeno tanto bene, mi viene
da
vomitare. Ecco l'effetto che mi fa quella!”
- “Tu,
invece, ora ti alzi e ci vai. Non solo perché se non finisci
lo stage non ti
pagano un centesimo, ma anche
perché
e l'ultimo giorno e devi resistere e far vedere che sei più
forte di lei.
Mollare ora sarebbe davvero da stupidi.”
- Sapevo
che aveva ragione e che mi sarei comunque alzata da quel letto,
però...
- “Ma
perché deve mandare sempre me a
prendere
il caffè!?” sbottai di nuovo, ignorando i
tentativi di Rose che si massaggiò le
tempie ad occhi chiusi. “Ci sono altri trenta stagisti oltre
me... Bè, ventidue
dopo la sfuriata di ieri... E' pazza, Rose! Prima dice di non usare le
tempere
e poi si lamenta del bianco-nero!
E' pazza!”
- “Come
ogni artista d'altronde” un sorriso ironico indirizzato
esclusivamente a me.
- “Che
vorresti dire?” chiesi già sulle mie.
- “Bè...”
la sua risposta consistette in una sguardo dall'alto a basso.
- “D'accordo,
è chiaro. Sono esaurita...
Ma non
posso farci niente. Quella donna, anzi quella vipera,
mi fa davvero salire il sangue al cervello! Perché non mi
caccia
via se non mi sopporta?”
- Strinsi
il cuscino e lo lanciai contro l'armadio mentre cacciavo un piccolo
urlo
liberatorio.
- Respirai
a fondo ed espirai.
- “Okay,
mi sono calmata. Scusa Rose, so che hai sentito questa storia duemila
volte, è
che davvero… non pensavo fosse così. Non vedo
l'ora che finisca.”
- “Tesoro,
mi dispiace molto che sia andata così. Dai, magari la
prossima volta andrà
meglio..”
- Già,
ma quale prossima volta? Contavo sullo stage come un mezzo trampolino
per farmi
conoscere da qualcuno e trovare un lavoretto in qualche mostra, anche
come
tirocinante. Qualsiasi cosa. Non pretendevo un salario alto,
semplicemente fare
quello che mi piaceva fare: arte.
- Rose
era tutt'altra storia. Lei stava già facendo praticantato al
reparto neurologia
dell'ospedale e presto avrebbe iniziato a fare i turni. Lei
sì che stava
realizzando quello che voleva. La sua carriera era in avvio, sapeva
quello che
voleva e quando lo voleva, aveva anche iniziato una mezza relazione con
quel
tipo che l’aveva invitata alla festa. Non l’avevo
ancora conosciuto, nonostante
si vedessero da due mesi, perché le piaceva dire che non
c’era niente di
concreto ancora e non voleva fasciarsi la testa prima ancora di
romperla, ma
sapevo che sarebbe stata questione di poco prima che le cose
diventassero
ufficiali. Allora me lo avrebbe presentato e magari avrei saputo di lui
qualcosa più del semplice nome, se Emmett può
dirsi un nome, e delle sue
prestazioni fisiche a letto. Certo, non potevo esattamente permettermi
di
giudicare. Almeno lei l’aveva, una vita sessuale e pseudo
sentimentale. Il mio
ultimo rapporto risaliva a quella disastrosa, e solo per certi versi piacevole, sera di due mesi prima. Ci
pensai con amarezza mentre guardavo la mia migliore amica e per un
millesimo di
secondo la invidiai ma in realtà ero davvero felice per lei.
- “Dai,
alzati, lavati, mettiti qualcosa di fresco, truccati un po' e vieni a
fare
colazione! Ti ho fatto le frittelle con la cioccolata, in previsione
del boom
finale!” rise e mi baciò i capelli prima di uscire
dalla stanza.
- “Muovitiiii!”
urlò dalla cucina e non potei non starla a sentire.
- Grazie
a Dio avevo Rose.
- Trenta
minuti dopo ero pronta, con un vestitino leggero che mi fasciava il
corpo
lasciando penetrare anche qualche alito di vento - che non faceva mai
male data
la perenna afa dell'aria di fine Settembre tipica di Los Angeles - i
capelli
sciolti sulle spalle e un leggero tocco di fard sulle guance. Niente di
più
semplice, mi piaceva così.
- Con
un sorriso sulle labbra che prima non c'era mi preparai ad affrontare
la
mattinata e in fondo ero felice, non solo per le ottime frittelle di
Rose ma
anche perché sarebbero state le ultime quattro ore di quella
tortura.
- Lavorare
al bar era quasi più gratificante. Almeno lì
c'era Eric che non mancava di
farmi sorridere ogni tanto, sebbene le sue avance fossero troppo
sfrontate e
continuavano ad esserlo nonostante i miei continui rifiuti.
- Non
che fossi ancora depressa per Jacob, semplicemente non sentivo il
bisogno di
avere un ragazzo, soprattutto non uno per cui non provavo la minima
attrazione
fisica. Eric era un amico, un buon amico, e mi serviva un buon amico
ogni
tanto.
- Rose
uscì prima di me, augurandomi buona fortuna e dandomi
appuntamento per un
cinese davanti la TV alle otto, quando lei tornava da lavoro e io dal
bar.
- Bè,
le nostre vite erano parecchio impegnate in effetti ma era l'unico modo
per
avere un minimo di indipendenza e continuare a pagare l'affitto di quel
piccolo
appartamento che ci eravamo regalate.
- Forse
era un po' troppo di lusso per due neo-laureate ancora in procinto di
ingranare
con le proprie vite ma appena l'avevamo visto era bastato uno scambio
di
sguardi per capire che sembrava fatto apposta per noi.
- Era
colorato, ma non con colori sgargianti e accesi da far male agli occhi.
- C'era
un piccolo salottino con un divano letto di fronte un televisore,
scaffali già
pieni di libri, una cucina ad angolo, in legno con un piccolo ma
grazioso
tavolo al centro, ovviamente il bagno e due camere da letto. Ogni
camera aveva
almeno due finestre e la casa aveva due piccoli terrazzini. Ce n'era
anche uno
in una delle camere da letto che, dopo una sfida all'ultimo sangue a sasso-carta-forbice, era toccato a me.
- Insomma,
forse era un po' troppo per noi ma con qualche sforzo ce l'avremmo
fatta e ce
la stavamo facendo.
- Joey,
la dolcissima proprietaria dello stabile che avevo scoperto essere una
donna
solo il giorno in cui eravamo andate a vedere l'appartamento, era stata
davvero
gentile da abbassarci l'affitto. Solo dopo una telefonata a
papà, in cui gli
chiedevo come mai non avesse specificato che il suo amico
fosse in realtà un'amica,
ero venuta a sapere, con conseguente trauma e stato di shock per due
giorni,
che era in realtà una sua vecchia fiamma.
- Assurdo.
Ero sempre stata convinta che mio padre fosse stato innamorato solo di
mia
madre in vita sua e scoprire che anche lui era stato giovane e aveva
avuto
altre ragazze - con cui, per giunta, era rimasto in contatto - era
stata una
sorpresa, giustificata unicamente dal fatto che non ci avessi mai
pensato
prima.
- Tuttavia
la cosa non creava problemi a nessuno. Papà mi aveva
raccontato anche di un
paio di favori che le aveva fatto riguardo a qualche eccesso di
velocità sulla
statale. Erano rimasti in buoni rapporti insomma, ma Joey era
felicemente
sposata con due bambini, un maschio e una femmina, che avevo visto ogni
tanto
ed erano adorabili come lei. Mi piaceva lei, davvero. Per qualche
istante ero
anche arrivata a pensare che forse mio padre sarebbe stato felice
più con lei
che con mia madre, poi mi colpivo la testa da sola perché in
quel caso non
sarei stata lì a pensarci visto che non sarei esistita.
- Quando
finii le frittelle mi sentii terribilmente in colpa perché
ne avevo mangiate
tre abbuffandomi come un porco e
ora
ovviamente mi sentivo assurdamente pesante.
- Bene,
prendere tram e metropolitane così sarebbe stata una vera
passeggiata, pensai
mentre uscivo dal nostro piccolo paradiso sentendomi nauseata, fisicamente, all'idea di quello che mi
aspettava.
-
- “SWAN!
CAFFE'!”
- Perfetto,
nemmeno mi aveva visto entrare che già dava ordini.
- È l'ultimo giorno, Bella. È l'ultimo
giorno, ripetei
come un mantra nella mia testa ma la rabbia non mi impedì di
farmi furba e,
come mi aveva consigliato Rose, andai al bar di fronte -
perché ‘quello delle
macchinette sa di acqua arrugginita
e calcare’ - e ordinai un caffè
macchiato e un cappuccino da portare via;
nel frattempo ne bevvi uno anche io.
- Non
potevo affrontare la giornata senza un misero, minuscolo ma necessario
caffè.
- Quando
rientrai, le andai incontro e quasi saltai sul posto quando si
voltò di scatto
verso di me.
- Senza
dire nulla le passai il macchiato.
- “Non
avevo detto che volevo un cappuccino?”
- No,
non l'hai detto brutta stronza sessualmente frustrata.
- Non
era il caso che lo dicessi ad alta voce però così
mi limitai a passarle il
secondo, il suo cappuccino.
- “Ecco!”
esclamai con una punta di superiorità pensando che almeno
l'ultimo giorno
potevo permettermelo.
- Mi
scrutò con sguardo indagatore. I suoi occhi color ghiaccio,
i capelli biondo
quasi platino, perfettamente lisci, stesso colore rifatto delle
sopracciglia,
un tailleur che fasciava perfettamente il busto e le gambe magre.
- Aveva
un bel corpo per avere l'età che aveva.
- Mi
resi conto di non sapere la sua vera età ma comunque non
meno dei quarant'anni.
- Siria
James era una delle più illustri attiviste nel campo
dell'arte e della moda
degli ultimi dieci anni, a Los Angeles e anche all'estero.
- Si
era creata quel suo piccolo impero da sola e a volte non potevo che
chiedermi
se fosse sempre stata così acida, se fosse stato quello il
segreto del suo
successo e se ne fosse davvero valsa la pena se poi finiva per entrare
in una
casa completamente sola.
- L'unica
cosa che aveva era la sua arte. I suoi dipinti, i suoi progetti
d'interni, la
linea di vestiti che stava per lanciare sul mercato.
- Più
volte mi trovavo a controllare il suo anulare, quasi nella speranza,
per lei,
che qualcuno si fosse fatto avanti, ma niente.
- Mi
guardò gelida e abbozzò un sorriso indecifrabile.
- “Seguimi,
Swan.”
- E
vorrei che non avesse mai detto quelle parole perché furono
la rovina della mia
mattina. Avrei voluto passare l'ultimo giorno a terminare una mia
modesta tela
e invece lo passai a fare scanner, mandare fax, fotocopiare e
archiviare ogni
articolo che era stato scritto su di lei.
- Una
fiera dell'egocentrismo in pratica.
- A
fine lavoro fummo riuniti tutti nella grande sala delle conferenze e le
lanciai
qualche occhiata per capire il motivo; il motivo per cui mi odiava
così e per
cui si era divertita a rendermi ancora più pesante
quell'ultima giornata.
- Fu
una delle sue assistenti a parlare per lei, ovviamente non sprecava
nemmeno il
fiato o almeno era quello che credevo finché non fece un
passo avanti e prese
parola.
- “L'arte
è il motivo per cui siamo qui. Molti pensano di conoscerla e
negano la realtà
quando gli si fa notare che non è così. Molti non
hanno avuto la forza di
andare avanti ed è stata la dimostrazione di quanto magro
fosse quello che loro
chiamavano amore. Voi siete qui per seguire l'arte ma io non posso
aiutarvi,
perché nessuno ha aiutato me e infatti questi sono i
risultati.”
- Com'era?
Ah sì, fiera dell'egocentrismo.
- “Posso
limitarvi ad augurarvi il meglio e a fermarvi subito qui se pensate che
questi
due mesi siano stati un inferno. Se questo pensiero vi passa per la
testa allora
non siete tagliati per l'arte.”
- Ed
eccolo, un pugno allo stomaco, una campanella che avvertiva che ero
stata presa
in causa. Ma andiamo, lei non poteva sapere della mia insofferenza,
senza
contare che non era insofferenza per l'arte che continuavo ad amare
più
dell'aria; era insofferenza per lei e per l'odio che aveva,
inspiegabilmente,
nei miei confronti.
- Seguirono
una serie di parole di rito a cui non prestai molta attenzione
finché non fummo
congedati con una delle sue citazioni preferite. Era proprio sua,
l'avevo
cercata su Google e mi aveva collegato a una biografia sulla sua vita.
- “L'arte
non è per tutti e non è per molti; è
per pochi eletti che sanno guardarla ad
occhi chiusi e ascoltarla col cuore.”
- Interrogandomi
su quelle parole e su quanto potessero essere vere salutai i miei
compagni di corso
e insieme a loro raccolsi le cose per uscire da quello che lei stessa
aveva
definito inferno.
- Dio,
ma ero io o faceva caldo in quella stanza?
- Forse
ero io perché gli altri mi sembravano perfettamente a loro
agio eppure stavo
iniziando a sudare, così tanto che mi sarei volentieri
buttata nella fontana lì
in piazza.
- Pensavo
infatti di stare immaginando quando sentii la sua
voce chiamarmi, ancora una volta, per la centesima volta nel
giro di quattro ore.
- “Swan!”
ripeté la voce arcigna e acida.
- Avrei
voluto prendere la mia tracolla e fargliela volare in faccia a
mo’ di boomerang
ma decisi di comportarmi da persona adulta e mi voltai.
- “Sì?”
- “L'aspetto
Lunedì prossimo” disse senza nemmeno guardarmi
negli occhi e controllando, o
facendo finta di controllare, qualcosa tra una pila di fogli che aveva
in mano.
- “Mi
scusi?”
- “La
voglio nel mio stuff di design e arredamento di interni ed
esterni.”
- Ok,
dovevo davvero stare male per immaginare quelle parole che uscivano
dalla sua
bocca.
- Non
stava dicendo sul serio.
- “Non…
non credo di capire…”
- “Glielo
devo scrivere?”
- Strinsi
i pugni per sentire le unghie affondare nella pelle e rendermi conto
che non
stavo sognando.
- “Perché?”
fu l'unica domanda che mi venne spontanea.
- “Lei
è brava, ha una bella mente, idee intelligenti e tenacia non
indifferente.
L'aspetto Lunedì. Sempre che non sia impegnata in altri
lavori.”
- Oh cazzo.
- “Io…
io lavoro a un bar nel pomeriggio, tre volte a settimana.”
- “Allora
quelle mattine e i pomeriggi degli altri due giorni sarà da
me. Non si lavora
il Sabato e la Domenica, ma sono particolari di cui parleremo
Lunedì.
Ovviamente è un lavoro che le sarà retribuito ma
anche di questo discuteremo a
tempo debito. Vuol del tempo per pensarci?”
- Dov'erano
finiti la scopa, il naso bitorzoluto e il cappello da strega?
- Sembrava
un'altra persona. Sempre glaciale ma quanto meno con un minimo di modi.
- E
cosa mi aveva appena chiesto? Se avevo bisogno di tempo per pensarci?
- Oddio,
ne avevo bisogno?
- Forse
sì, ma allo stesso tempo sentivo di non poter lasciar
passare un solo secondo.
Una delle più rinomate artiste della città mi
stava offrendo un lavoro nella
sua compagnia; certo la odiavo, ma questo era prima di sapere che forse
il suo
non era odio ma magari solo un briciolo di rispetto per qualcuno che
lavorava
come piaceva a lei.
- Senza
contare che nessuno avrebbe potuto impedirmi di alzare le staffe se le
condizioni fossero state disumane…
- Non
ebbi più dubbi.
- “No,
no. Accetto!” esclamai esaltata e sentii la testa girarmi di
botto. Dovetti
chiudere gli occhi per il capogiro ma lei non se ne accorse nemmeno.
- “Perfetto.
A Lunedì allora. Alle nove, puntuale. Non faccia
ritardo.”
- Rimasi
in bilico su me stessa mentre la vedevo allontanarsi e sparire dietro
una porta
vetrata.
- Mi
ci vollero almeno cinque minuti per fare mente locale e rendermi conto
che
avevo, quasi, un lavoro. Un lavoro
vero! O almeno, una grande opportunità!
- Saltai
dall'entusiasmo mentre uscivo dall'edificio e risultò essere
una pessima mossa
perché mi sentii mancare e fui costretta ad appoggiarmi al
muro per non cadere.
- Successe
tutto in un attimo.
- Un
secondo sentivo il liquido acido salirmi in gola, un secondo dopo lo
stavo
riversando nel bidone dei rifiuti accanto a me.
- Rigettai
ancora un paio di volte fino a sentirmi completamente vuota, nauseata,
e bagnata
di sudore dalle scapole fino al bacino.
- Che
cazzo mi stava succedendo?
- Sapevo
che tre frittelle a prima mattina mi avrebbero fatto male e lo stress
accumulato in quelle ore non doveva aver giovato al mio stomaco
già provato
dalla mattina stessa.
- Mi
asciugai la bocca e bevvi un po' d'acqua che portavo sempre con me,
eppure mi
sentivo ancora infuocata,
così tanto
che non potei fare a meno di dirigermi alla fontana e immergerci la
testa.
- Quando
la rialzai, notai una decina di persone intente a fissarmi curiose,
come se
fossi pazza; una pazza che si era appena fatta uno shampoo in una
fontana
pubblica.
- Ma
in quel momento mi importava poco di quello che pensava la gente. Mi
ero
rinfrescata, mi sentivo meglio e avevo ancora un pomeriggio di lavoro
da
affrontare.
-
- Quando
arrivai al bar alle tre del pomeriggio, dopo un panino al volo in
metropolitana, avevo ancora i capelli umidi e Eric, che notava sempre
ogni
piccola cosa, non mancò di chiedermi cosa avessi fatto.
- Gli
spiegai brevemente e si offrì, ovviamente, di coprire anche
il mio turno ma
sapevo che non avrebbe potuto reggere il lavoro di due, inoltre mi
sentivo
decisamente meglio quindi declinai la sua richiesta e andai nel retro
per
mettermi l'uniforme.
- A
fine giornata, dopo quattro ore e mezza a servire i tavoli ed evitare i
soliti tipi
lascivi che giocavano a biliardo facendo battute di cattivo gusto e
giochi di
parole sul mettere le palle in buca, presi finalmente la via di casa ma
dovetti
sforzarmi con tutta me stessa per non chiudere gli occhi in
metropolitana.
- Forse
era il sonno mancato della sera prima, o lo stress accumulato, o
semplicemente
la stanchezza e l'acidità di stomaco... fatto stava che mi
sentivo una vera
pezza e ringraziai di avere un'altra settimana prima di iniziare di
nuovo a
lavorare di mattina, anche se la sola idea mi eccitava e mi impauriva
allo
stesso tempo.
- Eppure
nemmeno la paura di non essere all'altezza mi distrasse dalla
stanchezza.
- Quando
entrai, chiamai Rose ma non era ancora rincasata.
- Bevvi
altra acqua e ciondolai verso il salotto, per poi essere costretta a
cambiare
direzione e scegliere il bagno, in previsione di una nuova crisi di
vomito.
- Quando
sentii la porta di casa aprirsi e sbattere, ero ancora china sul
gabinetto e
avevo perso il conto del tempo che c'ero stata.
- “Bella!”
Rose mi chiamò un paio di volte ma non ebbi la forza di
rispondere.
- Aspettai
che fosse lei stessa a trovarmi in bagno e quando mi vide si
chinò su di me,
preoccupatissima, reggendomi il viso e chiedendomi cosa fosse successo.
- Mi
ci volle qualche minuto per riprendermi, stendermi sul pavimento fresco
del
bagno e spiegarle brevemente la mia giornata.
- “Oh,
tesoro... mi dispiace. Forse l'impasto delle frittelle non era buono!
Dannazione! Eppure non c'era niente di scaduto.”
- “Ma
no, tranquilla” aprii leggermente gli occhi. “Sono
io che sto fusa ultimamente…”
dissi mentre lei mi carezzava dolcemente i capelli.
- “Com'è
andata con la strega?”
- “Ah,
mi ha offerto un lavoro” ero sicura di averglielo
già detto ma fu evidente
dalla sua reazione che dovevo averlo solo immaginato.
- “COSA?!
STAI SCHERZANDO?! E hai intenzione di accettare?”
- “Ho
già accettato, Rose.”
- “COSAAAAAA?”
le urla invasero il bagno rimbombandomi nelle orecchie e facendomi
lamentare
per l'assordante rumore che creavano nella mia testa.
- “Rose...”
- “Scusa,
scusa” disse quasi sottovoce. “Ma…
credevo che la odiassi e che ti odiasse...”
- “Lo
credevo anche io” riaprii gli occhi. “Ma invece ha
detto che sono brava, che
detto da lei deve essere un bello sforzo...”
- “Quindi…?
Cioè, accetti e cosa farai?”
- “Ah,
ancora non lo so. Inizio la settimana prossima ma, qualunque cosa sia,
è un'occasione
Rose, è un lavoro e lei è così piena
di talento, sento che potrei imparare
ancora tanto.”
- “Che
fina ha fatto l’odio di questi sessanta giorni?”
- “La
odiavo quando credevo che lei odiasse me...” sogghignai e
Rose mi guardò
ironica ma poi si aprì in un sorriso a sessantaquattro denti.
- “Oh,
tesoro! Non puoi capire quanto sia felice per te!” si
buttò sul pavimento per
abbracciarmi e fu impossibile non capire l'affetto sincero che
dimostrava al
momento.
- Restammo
sul pavimento a parlare delle nostre giornate forse per un'altra oretta
quando
Rose si ricordò del cinese che aspettava in cucina.
- “Oh,
ma forse tu non hai molta fame, vero? Come ti senti?”
- “Sai
una cosa invece? Un cinese ora mi andrebbe proprio!” esclamai
esaltata
all'idea.
- “Ah…
okay... sei sicura?”
- “Sì
sì!” confermai mentre con una mano mi appoggiavo
al lavandino per alzarmi.
- Rose
aiutò a reggermi mentre riprendevo possesso della vista in
seguito a qualche
secondo di buio e di giramento di testa, infine andammo in cucina dove
aspettava la spesa da essere sistemata.
- Mi
offrii di dare una mano a metterla in ordine ma lei rifiutò.
- “Tanto
ci metto due secondi, poi mangiamo!”
- Così
restai seduta al tavolo della cucina, con la testa china sulla
superficie
leggermente fredda ad osservare con la coda dell'occhio i movimenti di
Rose e a
sentirla parlare.
- E
fu in quell'istante che lo vidi e ogni cosa perse l'attenzione che gli
stavo
dando… eccetto quel pacco viola, familiare, che era nel mio
raggio visivo.
Dovetti mettere a fuoco per accertarmi di cosa si trattasse e quando ne
fui
sicura un improvviso brivido freddo mi attraverso facendomi venire la
pelle
d'oca, un macigno si posizionò senza preavviso sul mio
stomaco mentre un nodo
stringeva la gola sempre di più.
- Oh
cazzo.
- Quelli
erano assorbenti e io... io non li usavo da più di un mese.
- Oh.cazzo.
Alzi la mano chi l'aveva
immaginato u.u
Quelle che non si sono fatte i fatti loro e sono andate a leggere la censuratissima recensione di Cloe
allo scorso capitolo, non contano u.u
Ahahaha bene, mi dileguo. Spero che vi sia piaciuto anche solo un quarto
di qualsiasi altro capitolo mai scritto da me ahahaha E ci tenevo a
ringraziarvi qui per il riscontro non solo al primo capitolo di questa
storia (sebbene non fosse nulla di particolare), ma soprattutto
all'epilogo di Broken Road.
Ogni vostra parola, anche le virgole, mi ha fatta commuovere in un modo
che... non potete averne idea.
Grazie mille, di cuore! :')
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Capitolo 3 *** Sad eyes never lie ***
adito - cap 1
Wow, se vi
è piaciuto il precedente capitolo, posso avere qualche
speranza che questa storia non vi annoi troppo *-*
Quiiindi, volete farmi capire che non tutte avevano pensato che Bella
potesse essere incinta? :o Devo dire che è stata una
sorpresa
perché, boh, io l'avevo dato per scontato .___. Ahaha,
vabbè, detto da chi scrive la storia è abbastanza
stupido, in effetti, ma davvero pensavo che l'avreste immaginato tutte,
chissà perché poi xD Vabbè,
meglio
così hihi
Alcune di voi si sono chieste come sia possibile visto che, come
precisato nel primo capitolo, dovrebbero aver usato una protezione xD
Avete ragione a chiedervelo e non ho una risposta esatta, se non che,
nella foga del momento, un errore (di qualsiasi tipo) può
capitare... Ed è capitato proprio a questi due LOL
Certo, magari si può dire "Che cavolo, guarda caso...
proprio a loro!"
ma il punto delle storie è proprio questo, no? Raccontare
una
storia, una parte di vita, un pezzo di quello che succede nella vita di
tanta gente; altrimenti, senza storia, cosa potremmo dire? :P
Ragionamento contorto, ma assecondatemi u.u
Un paio di voi hanno anche citato il film 'Molto incinta'
da cui, infatti, è nata l'idea (quando lo vidi qualche mese
fa)
e che non ho citato prima altrimenti si sarebbe capito il tema
già dal primo capitolo xD
Mmm che altro dire...? Ah, ho deciso che ogni capitolo
avrà
un suo bannerino personale *-* Niente di che, giusto una piccola
immagine, come questa sotto, che richiami un particolare del capitolo
:)
In realtà, illo tempore,
feci anche la copertina vera e proprio, che poi non ho postato
perchè non mi piaceva più un granchè;
comunque se
volete vederla, sarebbe questa -
magari la rifarò in futuro ma nel frattempo mi diverto con i
bannerini *-* Ahaha
Okay, ho finito.
Ci sentiamo in fondo ;)
Buona lettura *-*
Capitolo 3
Sad eyes never lie
“Cazzo,
cazzo, cazzo!”
“Bella,
calmati, per favore...”
“Come
cazzo fai a dirmi di calmarmi?!” urlai, a un passo dalle
lacrime. Mi tirai i
capelli per la rabbia e la disperazione.
“Okay,
ora basta, vieni a sederti.” Rose si alzò e mi
venne dietro mettendo fino al
mio vagare nervoso per la stanza, avanti
e dietro.
“Rose,
cazzo!”
“Bella,
calmati. Ti prego. Stai saltando a conclusioni affrettate senza motivo.
Riflettiamo un secondo. Quando hai avuto il ciclo l'ultima
volta?”
“Il
mese scorso ma erano piccolissime perdite... ho pensato fosse normale
per lo
stress…”
“E
ora quanto ritardo hai?”
“Ma
che ne so, non lo porto mai il conto!”
“Come
non porti il conto?”
“Non
ce n'era bisogno, cazzo. E poi sono sempre un po' irregolari ma mai
così tanto!
Cazzo, Rose! Non mi vengono da... almeno dieci giorni, non hanno mai
fatto
tanto ritardo!”
“Okay,
Bella, ma il punto è che non è possibile.
L'ultimo rapporto è stato...”
“Due
mesi fa, lo sai” risposi, riportando a galla l'assurdo
ricordo di quella
serata.
“E
hai detto che avete usato il preservativo, no?”
“Infatti!
Cioè, che ne so... ero così ubriaca che non me lo
ricordo nemmeno... magari era
ubriaco anche lui e non è riuscito a metterselo o si
è sfilato o si è rotto o...”
chinai il viso tra le mani, singhiozzando senza lacrime.
Rose
mi posò una mano sulla spalla.
“Eri
nel tuo periodo fertile?”
“Che
cazzo ne so, Rose!” scoppiai in lacrime avventandomi
verbalmente contro di lei
per sentirmi ancora più uno schifo due secondi dopo.
Per
fortuna bastò un mio sguardo di scuse per far capire alla
mia amica che non ero
in me.
“Sssh...”
disse semplicemente mentre io riprendevo a singhiozzare.
“Senti, così non puoi stare
ed è inutile farsi paranoie inutili.
Se fai un test, sarai più tranquilla?”
Era
una domanda facile ma la risposta era un cruccio che non potevo
sopportare.
Come potevo sapere se sarei stata più tranquilla?
Volevo
sapere ma se avessi avuto una risposta che non volevo?
Non
potevo davvero stare affrontando questo, non nel giro di pochi minuti.
Eppure
dovevo avere una qualche risposta perché il dubbio mi
avrebbe uccisa ancora di
più.
Annuii
con debolezza e lei disse un semplice: “Okay...”
Mi
strinse in una coperta prima di uscire di casa promettendo di tornare
subito,
eppure a me parve un'eternità.
Un'eternità
a fissare il televisore nero davanti a me eliminando ogni domanda e
lasciando
solo il vuoto attorno.
Non
sentii nemmeno la porta quando Rose rientrò, da un secondo
all'altro mi stava scuotendo
le spalle per ridestarmi dal mio stato di trance.
“Allora,
questo ti da direttamente la risposta. Non funziona con le tacche.
Sì o no, e
dice anche di quante settimane, approssimativamente almeno...”
Solo
i discorsi mi davano la nausea e resero ancora più difficile
far scendere quel
tanto di pipì che bastava a darmi una risposta. Il mio corpo
stava già reagendo
male decidendo di non collaborare e mentre aspettavamo i pochi minuti
necessari
non potei fare a meno di pensare che fosse un segno.
“Manca
poco...” sentii Rose sussurrare con voce flebile e mi resi
conto che sembrava
d'un tratto più in ansia e preoccupata di me.
Per
qualche strano motivo mi ero calmata e ora mi sentivo quasi una stupida
ad aver
desiderato di fare il test.
L'ultimo
rapporto che avevo avuto era stato due mesi fa ed era stato protetto.
O
così credi tu...
E
non avevo avuto alcun sintomo.
Fino
a stamattina…
Il
ciclo doveva essermi saltato per lo stress.
O forse
no...
“Non
ce la faccio!” urlai improvvisamente, chiudendo gli occhi e
passando il
bastoncino a Rose. “Ti prego, vedi tu. Io… non ce
la faccio.”
La
guardai con la coda dell'occhio mentre prendeva il bastoncino con
reticenza
come se toccandolo potesse modificarne la forma o qualunque cosa
avrebbe
rivelato.
Strinsi
le labbra tremanti e la guardai mentre girava quel piccolo,
minuscolo, pezzo
di plastica da cui
sarebbe dipeso il mio
futuro.
E
la sua faccia fu più eloquente di qualsiasi sì
o no o di
qualsiasi tacca colorata.
“Non
ci credo…” furono le uniche parole che mi uscirono
di bocca mentre ogni parte
del mio corpo si immergeva in un universo parallelo fatto di negazione:
le
gambe indietreggiavano, la testa si scuoteva da sola, le palpebre
battevano
senza sosta.
No,
non era vero.
“Bella…”
“No…
no, non è vero...”
“Bella…”
“Non
può essere vero.”
La
porta bloccò il mio tentativo di scappare e l'unica via di
fuga che trovai fu
scivolare su me stessa e accasciarmi sul pavimento mentre copiose
lacrime
presero a scendere sulle mie guance e i singhiozzi coprirono ogni
rumore
attorno a me.
Non
sentii più nulla se non le braccia di Rose che mi
circondarono, per tutta la
notte.
Quando
mi svegliai, sperai che tutto fosse stato solo un incubo ma le mani
della mia
amica che dolcemente mi carezzavano i capelli furono la conferma che
non avevo
sognato.
Mi
strinsi a lei, nella buio della notte e, mentre mi cullava, continuai a
piangere fino all'alba.
Quando
aprii di nuovo gli occhi Rose si era addormentata e, sebbene volessi,
non ebbi
la forza di svegliarla cosciente del fatto che aveva passato tutta la
notte
sveglia solo per consolarmi.
Sgusciai
piano dal letto e andai in bagno. Alzare il viso e guardarmi allo
specchio si
rivelò una pessima decisione. Avevo un aspetto orribile e
qualcosa mi diceva
che sarei andata sempre peggiorando nel tempo.
D'un
tratto, ogni cosa aveva perso valore, come se non avessi realizzato
quello che
mi stava succedendo eppure avessi il bisogno di sentirmi
così. Distrutta, abbandonata, vuota
dentro.
Vuota,
non piena.
C'ero
solo io e il mio dolore che non aveva origine. Avevo il diritto di
sentirmi così
senza realizzare il perché. Ne avevo ancora il diritto prima
di capire quanto
la mia vita sarebbe cambiata.
“Hey…”
Con
la coda dell'occhio vidi Rose sulla porta e non potei fare a meno di
voltare lo
sguardo verso di lei.
Stavo
per piangere di nuovo e dovette accorgersene perché
camminò verso di me.
“Vieni
qui…” disse, accogliendo la mia silenziosa
richiesta, e aprì le braccia per
stringermi.
Non
so quanto tempo restammo così, ma d'un tratto la luce
entrava nel bagno sempre
più forte e ci spostammo nella cucina totalmente illuminata.
Lanciai
un'occhiata all'orologio per scoprire che erano le nove del mattino e.
“Rose,
sono le nove.”
“Sì,
lo so.”
“E
non sei a lavoro...”
“Ho
preso una giornata libera” mi informò mentre mi
porgeva la mia solita tazza di
caffè.
Ne
avevo davvero bisogno.
“Rose,
non dovevi…”
“Sì
che dovevo. Non dire stupidaggini. E poi...”
lasciò la frase a metà e sperai
andasse avanti da sola perché di dubbi e cose
a metà ne avevo già abbastanza.
“Poi
pensavo che potrei accompagnarti a fare delle analisi, per essere
sicure... se
tu lo vuoi...”
Per
un secondo solo una nuova prospettiva si aprì davanti a me:
il test aveva
sbagliato, le analisi sarebbero state giuste e, se non lo fossero
state, allora
appartenevano a qualcun altro.
E tutti vissero
felici e contenti.
“Non
voglio darti false speranze, Bella. Purtroppo test come questi
sbagliano poche
volte… ma…”
“Quante
settimane?” chiesi, interrompendo il suo discorso.
“Cosa?”
“Quante…
quante settimane indicava?”
“Sette-otto.”
Perfetto.
Tutto coincideva, proprio come una bella equazione di matematica. Ecco
cos'ero
diventata: un'equazione matematica, fatta di calcoli e scadenze.
Numeri, tanti
numeri e ognuno al proprio posto, ognuno contro e dentro
di me.
Mi
passai una mano tra i capelli e chiusi gli occhi gettando la testa
all'indietro
desiderando ardentemente di riaprirli e trovare un’altra
realtà; ovviamente non
fu così.
“D'accordo...”
acconsentii alla proposta di Rose, rendendomi conto che ormai avevo
già perso
molto e un’ulteriore conferma, seppure mi avrebbe distrutta,
avrebbe aiutato la
mia anima a trovare un po' di pace o forse a perderla per sempre.
“E
ora aspettiamo...”
Rose
cercava di mantenere il controllo ma riuscivo a notare come fosse tesa,
eppure io dovevo esserlo
decisamente più di
lei. Mi prese per mano e, senza dire nulla, mi condusse fuori
dall'ospedale. Ci
sarebbero volute almeno tre ore per avere i risultati e Rose aveva
chiesto alla
sua collega il favore di farle uno squillo sul cellulare quando
sarebbero stati
pronti.
Così
lei, ora, mi teneva per mano e insieme camminavamo per le strade di Los
Angeles
che l'ironia della sorte aveva affollato di una marea di donne incinte
e
bambini, ovviamente. Non riuscivo a
guardare altrove se non a terra.
“Allora?”
“Allora
cosa?”
“Che
hai intenzione di fare?”
Oh, Rose, lo
sapevi che le analisi non
sarebbero servite a nulla.
Lo
sapevi prima e meglio di me.
“Non
lo so…” chinai il capo, rallentando il passo.
“Insomma… quali scelte ho? Cosa
posso fare, Rose?”
“Tu...
hai considerato anche... altre opzioni?”
La
guardai per quei pochi secondi che bastarono a farmi sentire una vera merda e a vergognarmi di me stessa
perché, per qualche minuto durante quella notte, ci avevo
davvero pensato.
Lasciai
la mano della mia amica e mi avviai verso il lungomare.
“Bella,
non devi avere paura del mio giudizio. Io capirei perfettamente se tu
decidessi
di farlo.”
Non
riuscivo a parlare, non riuscivo a risponderle. Troppe conversazioni la
mia
testa stava già facendo con me stessa; reggerne un'altra le
era impossibile.
Giusto,
sbagliato.
Vita,
morte.
Corpo,
anima.
Qual
era la verità? Mi trovai a chiedermi di nuovo, come la notte
precedente, nel
momento di più totale sconforto.
Sospirai
e poggiai un ginocchio al muretto e le mani sulla ringhiera, osservando
l'Oceano
Pacifico che si muoveva.
Un
oceano di acqua.
Una
goccia nell'oceano,
come quella che viveva dentro di me.
Una
piccola goccia di oceano venuta dal nulla, da una notte senza senso, da
una
sbronza cercata per ripicca.
Ma
era sempre vita.
“Sì”
risposi, infine, vergognandomi di me stessa. “L'ho
considerato e non è
un'opzione.”
Alzai
il viso, fiera di me stessa. “Lo tengo.”
Non
credevo possibile di stare davvero pronunciando quelle parole.
Un
giorno prima stavo mentalmente mandando a fanculo il mio capo in tutte
le
lingue del mondo e ora… ora stavo mandando a fanculo me.
Grande, Bella,
sei scesa così in basso
che voglio proprio vedere come risali ora.
“Bella,
mi dispiace tanto…”
Rose,
afflitta e con le lacrime che le rigavano le guance, chinò
il viso, piena di
imbarazzo, come se nascondesse un inconfessabile segreto.
“Rose…
cosa..?”
“È
tutta colpa mia. Io ti ho trascinato a quella festa, io ti ho fatta
bere, io ti
ho lanciato in mezzo alla folla tra le braccia di Edward Cullen,
io...”
“Rose,
Rose! Basta!” la fermai prima che i sensi di colpa la
uccidessero inutilmente.
“Guardami!”
le ordinai con tono perentorio e, dato che quella in crisi dovevo
essere io,
non si permise il lusso di non obbedirmi.
“Non
è stata colpa tua, capito?” iniziai quando fui
sicura di avere la sua
attenzione. “Sì, è vero, mi hai
trascinata alla festa, ma perché l'hai fatto,
Rose? Perché? Lo ricordi come stavo, vero? E secondo te
perché dopo quella
festa mi sono ripresa? Non è stata la notte di sesso che
nemmeno ricordo ad avermi
giovato. Tu mi hai portato a quella festa ma io ho
visto Jacob tra le
braccia di Jessica, io ho deciso che un solo
bicchiere di vodka non era
sufficiente per dimenticare, io sono tornata dentro
e mi sono avvinghiata
a Edward per vendetta. Io avrei potuto fermarmi e
non l'ho fatto. Io
ho capito troppo tardi che per Jacob Black non valeva la pena stare
così male.
E io sono… incinta, quindi ti prego, non
sentirti in colpa per le
conseguenze delle mie azioni, chiaro?”
Non
sembrava convinta. “Ma, Bella, se...”
“Stop! Non voglio più sentire
questi
discorsi. Tu non hai fatto altro che aiutarmi e ci sei riuscita,
capito? Ti
prego, Rose...” la supplicai, sentendo le lacrime
già riempire i miei occhi.
“Smettila di dire queste cose che mi fanno stare male. Ti
prego, promettimi
solo che... che starai con me... perché... perché
da sola non posso farcela...”
ero inevitabilmente e lentamente scoppiata in lacrime di nuovo, debole
come mai
in quel momento in cui avevo realizzato
e piangevo non per me, ma per tutto. Tutto, ogni parte di me.
“Oh,
Bella!”
La
mia amica si aggiunse a me abbracciandomi più forte che
poté. “Non ti lascerò
da sola! Capito? Non ti lascerò mai da sola!”
E
dovetti accontentarmi di quelle promesse per smettere di piangere solo
due ore
dopo quando arrivò lo squillo che aspettavamo.
Rose
mi prese per mano, aiutandomi ad alzarmi e facendomi forza.
Ogni
passo verso l'ospedale sembrava ancora più pesante della
prima andata, forse
perché stavolta ero consapevole che non
ero sola.
Prendemmo
le analisi e tornammo a casa. Ci sedemmo sul divanetto e posai la busta
sul
tavolino davanti a noi. La fissai per lungo tempo mentre il coraggio di
aprirla
oscillava sempre più. Chiedevo a Rose di farlo per me e un
secondo dopo la
bloccavo. Dovevo farlo io e infine mi decisi.
“Coraggio...”
disse Rose mentre aprivo il contenuto e leggevo che...
Leggevo
che non capivo un cazzo di quello che leggevo.
“È
roba per te” lo passai a Rose e le bastò
un'occhiata.
Mi
guardò e annuì.
Bene,
ora era davvero il momento delle domande.
“Rose,
che faccio ora...? Che cazzo faccio
ora? Il lavoro e la casa… e come… come lo pago
un... un bambino…?”
“Tesoro,
non pensare a tutto in questo momento, okay? Abbiamo ancora molti mesi
per
trovare soluzione ad ogni cosa, d'accordo?”
Annuii
rincuorata unicamente dal plurale.
“Ma
c'è una cosa che devi fare... L'unica cosa che devi fare
subito.”
La
guardai con aria interrogativa in cerca di risposte.
“Devi
dirlo ad Edward.”
“Pfft...”
scossi il capo quasi schifata da quella proposta.
“Devi
farlo, Bella.”
“Non
se ne importerà un cazzo visto che non si
ricorderà nemmeno di me. Ti rendi
conto che non sa nemmeno come mi chiamo? Io aspetto un figlio da lui e
lui non
sa nemmeno come mi chiamo.” Sentii la rabbia crescere. Il
rancore, il
risentimento, ma soprattutto rabbia,
perché io ero lì a vivere un incubo e lui
probabilmente non ricordava nemmeno
il mio viso.
“Per
questo devi dirglielo.”
“No!”
“Bella!”
“Rose,
non mi crederebbe nemmeno o direbbe che non è suo!”
“No,
Bella, non avrebbe senso. Perché dovresti fargli credere
qualcosa che non è?”
Continuavo
a scuotere il capo.
“Bella,
lui è il padre e ha il diritto di sapere.”
“Non
lo vorrà…”
La
mia voce tremante mentre stringevo le labbra e fissavo le mie mani
tormentate.
“Non
puoi saperlo.”
“Lo
so, invece...”
“D'accordo
ma non puoi togliergli questo diritto. Un giorno tuo figlio ti
chiederà chi è
suo padre e tu cosa gli dirai? Che hai preferito che non sapesse
nemmeno della
sua esistenza? È questa l'importanza che vuoi
dargli?”
Un'altra
lacrima, l'ennesima nel giro di ventiquattro ore, mi solcò
il viso.
“Rose,
non lo vorrà e io... io non voglio sentirmi dire che
dovrò fare tutto da sola...”
“Tesoro,
ci sono io. E mi dispiace dirti queste cose ma tu devi farlo e io, come
amica,
devo consigliarti il meglio mentre tu non sei capace di decidere; al
momento
non vedi le cose chiaramente. Sei accecata dalla paura e dalla rabbia e
lo so
perché. Perché tu sei qui, incinta, e lui
probabilmente ancora a letto con
qualche zoccola, ma tu devi dirglielo; lui ti crederà
perché
gli occhi tristi non mentono mai e tu lo farai sentire una merda e un
giorno,
quando suo figlio chiederà di lui, potrai dirgli la
verità. Potrai dirgli che
era un gran bastardo perché vi ha abbandonati e, quando lui
stesso ne sarà
consapevole, non potrà tornare indietro ma non
potrà rinfacciarti nulla.”
Rose
aveva così ragione che
fu impossibile
per me inventare una qualsiasi scusa per tirarmi indietro… o
forse una c'era.
“Non
so come rintracciarlo” dissi,
ed era la
verità.
“Ti
diede un foglietto col suo numero, no?”
“Ma,
Rose, è stato due mesi fa... non ricordo dove l'ho messo...
non ricordo nemmeno
se l'ho conservato. Non credevo che mi sarebbe servito,
cazzo…”
“Bene,
allora si cerca!”
Sospirai
mentre lei si alzava e rovistava ovunque mettendo la casa sottosopra.
Io non ne
avevo la forza, né mentale né fisica, e lei
sembrò capirlo perché non chiese il
mio aiuto.
Continuai
a sperare che quel pezzo di carta non uscisse mai fuori e ci stavo
davvero
credendo quando, ovviamente, lo trovò nei libri che ancora
erano nelle scatole
del trasloco.
Non
potevo credere che era andata a controllare anche lì.
“Pronta?”
Avevo
scelta?
Annuii,
sospirando.
Lei
compose il numero e mi passò il telefono. Dopo due squilli,
in cui mi sembrò di
sentire il vuoto sotto di me, partì la segreteria telefonica
e mi resi conto di
non aver nemmeno pensato a cosa dirgli.
-Se non rispondo
è perché
non voglio essere rotto il cazzo. Lasciate un messaggio in segreteria e
se mi
importa di voi vi richiamo. Byeeeeee!-
Venticinque
parole furono capaci di farmi innervosire ancora di più.
“C’è
la segreteria…”
“Lascia
un messaggio.” Rose mi strinse la mano mentre partiva il
segnale acustico.
“Ehm...
ciao… Edward. Sono… Bella... ma giustamente tu
non sai chi sono perché non ci
siamo mai presentati per cui non sai il mio nome...Mmh… Sono
la ragazza della
festa… quella di fine anno, il 31 Luglio. E so che ti sembra
strano e che forse
nemmeno ti ricordi di me... in effetti non so nemmeno se sei ancora a
Los
Angeles, ma...”
“Heilà!”
Oh,
cazzo. Aveva risposto. Oh, cazzo!
“Pronto...?”
“Sì...”
“Hey,
bambolina, certo che mi ricordo di te. Non dimentico mai ragazze
così carine.”
Ma
porca puttana.
“Così
ti chiami Bella, eh? Hai un bel nome.”
Io
non rispondevo. Ero totalmente pietrificata.
Rose
cercava di capire cosa succedeva e tappando la cornetta le dissi che
aveva
risposto.
“Ah...”
fu la sua reazione.
“C'è
nessuno?”
“Sì,
sì...”
“Allora,
il motivo di questa chiamata?”
“Ah,
sì. Senti… Mi chiedevo se potessimo parlare di
una cosa.”
“Certo,
dimmi tutto.” Sorrisi ironicamente a quella
disponibilità sapendo già che non
ne avrei riscontrata altra.
“Ecco…”
arrancai nelle parole. “So che ti sembra strano ma vorrei
parlarne di persona.”
Dovette
completamente fraintendere perché d'un tratto la sua voce
sembrava più
euforica, quasi eccitata.
“Ma
certo, perché no?”
Ma
perché no, cosa?
“Quando
vogliamo vederci?”
“Il
prima possibile... tipo oggi..?”
“Oh,
d'accordo!”
“Alle
sette al… Express Point...?” azzardai, agognando
il momento in cui avrei
attaccato la cornetta.
“Perfetto,
a più tardi allora!” Di nuovo la punta di euforia.
“Sì
ciao!”
Staccai
velocemente la chiamata e sospirai. Spiegai velocemente lo scambio di
battute
senza tralasciare il fatto che potesse aver frainteso, ma Rose sembrava
troppo
ottimista per i miei gusti.
“Magari
non è come credi tu, Bella. Magari... magari potrebbe anche
sorprenderti...”
O
magari no..
Era
solo questione di scoprirlo e dovevo farlo.
“Sicura
che non vuoi che ti accompagni?” chiese Rose per l'ennesima
volta mentre mi
scortava alla porta.
“Sì”
risposi, quasi sicura. In fondo, un pomeriggio intero a cercare di
mettere
ordine nella mia testa prima che nella mia vita, doveva essere servito
a
qualcosa. Non potevo fare piani senza sapere l'esito di quello incontro
e
l'unica cosa che avevo capito era che, nel bene o nel male, dovevo
farlo.
Presi
coraggio e uscii di casa.
“Devo
farlo da sola” sussurrai a me stessa, sperando che non
diventasse il motto
della mia vita.
Arrivai
in perfetto orario ma ovviamente lui non era lì. Il solo
pensiero mi mise
addosso un'ansia incredibile, lui non era lì, non c'era in
quel momento ed ero
abbastanza sicura che non ci sarebbe mai
stato.
Perché
avrebbe dovuto? Perché avevo suo figlio in grembo?
Non
erano problemi suoi, mi avrebbe detto. Non erano problemi... non per
lui.
Non
era la sua vita e il suo corpo che stavano per cambiare e sconvolgersi.
Sapevo
che avrei dovuto cercare di essere più ottimista eppure
esserlo mi era
impossibile e il senso di angoscia e solitudine non mi
abbandonò per la
mezz'ora che passai ad aspettarlo.
Di
lui ancora niente.
Lo
sapevo; non ci sarebbe mai stato. Mi chiesi perché avevo
anche fatto un
tentativo a chiamarlo.
Cacciai
cinque dollari per pagare il mio cappuccino e li lasciai sul tavolo,
intenzionata ad andare via, ma, proprio quando mi alzai, me lo trovai
di
fronte.
“Ciao”
salutò, sorridendomi.
Io
non riuscii a dire niente per qualche secondo persa nei suoi occhi. Non
li
ricordavo così… magnetici.
“Scusami
tanto per il ritardo, c'era un incidente per strada.”
“Non…
non preoccuparti...” riuscii a mormorare quando mi imposi di
riprendermi.
Sorrise
di nuovo dandomi un momentaneo senso di calma che mi tradì
quando mi invitò a
sedermi di nuovo.
Dio,
mi tremavano
tremendamente le mani e sperai solo che non lo notasse.
“Sono
rimasto sorpreso dalla tua chiamata. Se ben ricordo non eri ben
disposta ad altri
incontri.”
“No,
infatti” deglutii, abbassando lo sguardo mentre cercavo
disperatamente il modo
migliore per dargli una notizia del genere.
“Hai
cambiato idea?” era in evidente sconcerto, come giusto che
fosse.
“Non
proprio…”
Un
profondo sospiro.
“D'accordo...
quindi siamo qui… perché…?”
“Sono
incinta” dissi di getto, prima che la botta di coraggio
scivolasse via.
Alzai
lo sguardo e notai il suo, evidentemente sconcertato. Non capiva il
nesso tra
lui e il mio stato, ovviamente.
“Sei
incinta...?”
“Sì”
sospirai ancora.
“Capisco...
e me lo stai dicendo perché...?”
“Perché
è tuo” lo stroncai, improvvisamente irritata dal
suo tono indifferente. Come
poteva non capire? Perché credeva che glielo stessi dicendo
se non era in
qualche modo coinvolto?
Alzò
le sopracciglia e sbarrò gli occhi come se gli avessi appena
rivelato di essere
un alieno.
“Cosa...?”
“Sì”
confermai.
“Ma
stai bene!?”
“Sì
che sto bene!”
“Intendo,
sicura di non avere qualche problema mentale? Non è
possibile! Com'è successo?”
“Vuoi
che ti faccia un disegnino? Perché non lo chiedi al tuo
amico lì sotto com'è successo?
Oppure chiedilo ai tuoi preservativi da quattro soldi, magari anche
bucati!”
“Non
è divertente.”
“Infatti
non sto ridendo” dissi seria.
“Senti.
Non lo so... so solo che non è possibile... Lo abbiamo fatto
solo una volta,
cazzo!”
“Evidentemente
è bastato!”
“Ho
usato il preservativo” ringhiò leggermente,
avvicinandosi e parlando a bassa
voce.
“Eppure
deve essere andato storto qualcosa” risposi, imitando gesti e
tono di voce.
Dio,
quanto mi stavo
irritando. Anzi, quanto ero già altamente irritata!
“Senti,
prima di tutto: sei sicura?”
“Preferirei
mangiarmi le unghie dei piedi piuttosto che stare qui,
quindi...”
“Hai
visto un medico?”
“Ho
fatto il test.”
“Hai
fatto un test?! Quei cosi non sono mai affidabili! Magari si
è sbagliato...”
“Ho
fatto anche le analisi: stesso risultato.” Ormai la mia voce
era dura mentre il
suo sguardo diventava sempre più esasperato. Si
passò le mani tra i capelli in
un gesto oltre il disperato.
“In
ogni caso, non è detto che sia mio.”
“So
con chi sono stata.”
“Avrai
fatto male i calcoli.”
“No!
Cazzo! No! Sono stata solo con te negli ultimi due mesi! Hai bisogno di
un test
del DNA per credermi?!” urlai, attirando più
attenzione di quanta ne volessi.
Lo
vidi scuotere il capo e portarsi una mano alla bocca come se potesse
aiutarlo a
pensare.
“È
un incubo...” sussurrò, e io sprofondai.
“Credi
che a me faccia piacere? Credi che volessi questo? Credi che per me
invece sia
un sogno che si avvera? Non sono solo i tuoi piani ad essere
saltati!”
Ignorò
totalmente il mio sfogo, senza nemmeno avere il fegato di guardarmi
negli
occhi.
“Non
è possibile... una sola volta. Che cazzo!”
ribadì lo stesso concetto più volte
e fui costretta a chinare gli occhi per il mal di testa che tutta la
situazione
mi stava creando.
Abbassai
il viso tra le mani mentre cercavo di cambiare le sue parole in modo
che
suonassero come avrei voluto, in modo che i suoi continui ‘non
è possibile’
si trasformassero magicamente in ‘andrà
tutto bene’.
Ma
a che serviva illudermi così? Cosa mia spettavo? Esattamente
questo.
Ma
viverlo era decisamente diverso da immaginarlo semplicemente. Faceva
male,
faceva davvero male; più
male del
previsto ora che l'ansia, la paura e l'angoscia, che fino ad allora
erano rimaste
solo nella mia testa, erano palpabili e reali, come se potessi
toccarle, come
se creassero un velo tra le mani e il viso.
Mi
resi conto che ero sola.
“Senti…”
improvvisamente il suo tono sembrava calmo e rilassato come se avesse
d'un
tratto trovato la soluzione a tutto, soluzione che, con questi
presupposti, non
esisteva.
Restai
col viso chino, abbandonando le mie illusioni e impegnandomi a non
piangere,
mentre ascoltavo quello che ancora aveva da dirmi.
“Io
non voglio rovinare i miei piani e mi sembra di capire che tu non vuoi
rovinare
i tuoi, perciò non è scritto da nessuna parte che
dobbiamo farlo...”
Fui
costretta, nonostante il senso di nausea, ad alzare il viso. Dovevo
guardarlo
negli occhi mentre gli chiedevo che cosa mi stesse proponendo.
Non
poteva averlo detto davvero.
Continuai
a guardarlo negli occhi e lui ricambiava, attraversato da un filo di
sollievo e
di speranza.
“Che
stai dicendo?” la voce mi tremava per la paura di quella
risposta che già
conoscevo.
“Sai
cosa voglio dire...” abbassò la voce, consapevole
di non stare proponendo qualcosa
di cui andare fieri. “Sei ancora in tempo ed è
senza dubbio la cosa migliore…”
“La
cosa migliore per te!”
“La
cosa migliore per entrambi!”
“Ma
non per lui!”
“Andiamo!
Non c'è nessun lui! Non si vede nemmeno
su un monitor... Non si vede
nemmeno…”
“Ma
si vedrà!”
“Lo
fanno in molte.”
“Io
non sono molte!”
“Cosa
pensi che potremmo offrirgli?! È la cosa migliore anche per
lui, credimi! Ci
ringrazierebbe!”
“Tu
sei pazzo... Io non lo ammazzo il
mio
bambino!”
“Non
ammazzi niente! Non capisci?! A due mesi non c'è ancora
niente!”
“Ma
che cazzo stai
dicendo?”
“Potrei
anche accompagnarti se vuoi. Ti sarei vicino, ti terrei la
mano…”
“Oh
mio Dio…” sillabai, schifata. Dovevo vomitare.
“Non posso credere che me lo
stia chiedendo davvero…”
“Sto
valutando le opzioni.”
“No!
Tu stai valutando solo quella che ti fa comodo! Mi accompagneresti ad
abortire
ma non a fare un'ecografia! Parli dei tuoi piani rovinati ma non ce li
hai
nemmeno, dei piani per il tuo futuro, a meno che questi non includano
cambiare
una ragazza a settimana!” Deglutii forte e rimandai
giù il vomito che mi era
salito.
Ancora
una volta mi ignorò completamente. “Senti, mi
dispiace, ma io non sono pronto.
Te ne rendi conto? La mia soluzione l'ho data.”
“E
non è una soluzione. È solo scappare e uccidere
una vita. Secondo te io sono
pronta? Secondo te volevo questo?”
Non
rispose per un po' e chinai il viso, desiderando solo di sprofondare
nel
baratro che si era aperto sotto di me e sparire dalla faccia della
terra;
tornare bambina, tornare a quella sera di due mesi fa e cambiare tutto.
Se
solo avessi bevuto un bicchiere di meno…
Se
solo non avessi visto Jacob…
Se
solo lui non si fosse trovato a due passi da me in quel
momento…
Se, se, se...
“Mi
dispiace, Bella...” riprese dopo un po', chiamandomi per nome
per la prima
volta. “Io, quello che dovevo fare, l'ho fatto. Non
è colpa mia... non... non
sono problemi miei. Non possono esserlo…”
Ed
eccola! A capolinea giungeva la frase che mi ero aspettata dall'inizio
e che
metteva fine a ogni mia più piccola speranza e dava un'epica
conclusione
a quella discussione inutile e scontata.
Non
so dove presi la forza di alzarmi, sapevo solo che non volevo dargli la
soddisfazione che fosse lui a farlo per andare via e lasciarmi
lì.
“Va
bene, Edward” sottolineai il suo nome.
“Non importa. Ce la caveremo
anche senza di te. Scusa se ti ho rubato venti minuti della tua
preziosissima
vita. Auguri per il tuo futuro.”
Mi
voltai senza nemmeno osservare la sua espressione e, quando girai
l'angolo, la
forza che avevo ostentato mi abbandonò definitivamente e mi
trovai a vomitare
sul marciapiede il cappuccino di poco prima.
La
gente non si fermava, tutti indaffarati nelle proprie cose. Nessuno
aveva tempo
per una povera ragazza sola e incinta.
Quando
mi ripresi, mi pulii con un fazzoletto ed entrai nel primo taxi
disponibile
cercando, per tutto il tragitto, di cacciare in dentro le lacrime.
Chiusi gli
occhi per evitare che fuoriuscissero, li strinsi così forte
da farmi male.
Quando
entrai in casa, Rose era già sulla porta, pronta ad
accogliermi, ma non ebbi il
coraggio di guardarla in faccia.
“Allora,
com'è andata?” La sua voce piena di preoccupazione
mista ad una punta di
eccitazione.
Alzai
il viso e i miei occhi colmi di lacrime chiedevano solo sollievo; li
lasciai
fare. Mi buttai tra le braccia di Rose e scoppiai a piangere, forte, così forte che non
riuscivo ad
avere respiro tra un singhiozzo e un altro.
“Tesoro...”
sentii a stento la voce incrinata di Rose e mi lasciai trascinare sul
divano.
Continuai
a piangere per molto tempo, per ore, senza sosta, lasciandomi cullare
dalla
carezze della mia amica e dalle sue parole che cercavano di darmi
conforto;
quelle parole che avrebbero probabilmente fermato le mie lacrime se a
dirle
fosse stato qualcun altro.
“Andrà
tutto bene, tesoro. Ci sono io con te... Ci sono io...”
Piansi,
piansi, e piansi mentre pensavo…
Quanto
vorrei che fosse abbastanza.
Il
titolo di questo capitolo richiama un canzone di Bruce Springsteen che
non ho linkato all'inizio perchè non ci stava bene col
capitolo,
ma se volete ascoltarla, si chiama 'Sad eyes'.
Nell'intro del primo capitolo avevo detto che, con questa ff, mi sarei
buttata su qualcosa di meno pesante e complicato; ciò non
toglie
che questo sia comunque un argomento molto delicato e
cercherò
di trattarlo al meglio, dandogli il giusto peso.
Io, personalmente, sono contro l'aborto (se non in casi proprio, ma
proprio, estremi - mi riferisco a malattie, malformazioni, ecc. E non
perchè sia dura per un genitore crescere un figlio
così,
ma semplicemente per evitare che restino soli una volta che le persone
care sono andate via); ovvio che poi quelli di
'giusto e sbagliato' sono concetti molto relativi e soggettivi, in
questi casi,
ed è un discorso tanto complicato, di cui non può
discutersi in quattro righe di note di fine capitolo di una ff.
Volevo solo dirvi che ci tengo molto a questo tema, e non voglio
prenderlo alla leggera, perché è una cosa seria.
Okay, chiarito questo, che altro posso dirvi? Solo grazie
con tutto il cuore per l'affetto che state dimostrando per questa
storia già dai primi capitoli, e sono onesta quando dico che
non
me lo sarei m
a i aspettato, davvero.
Quindi sì, grazie *-*
Aaaah, mi sdebito con un linka-ff,
va'.
Anche se, quasi sicuramente, conoscerete già queste storie
LOL
'Beautiful
Mess' di itsrox_ - (una e/b appena nata, ma quella
ragazza è un genio, quindi...)
'La
voce del silenzio.' di Riy Stewart - (altro genio qui, da
leggere assolutamente!)
'-Protect
me from what I want.'
di CarliParalyzed - (vabbé, sfido a trovare qualcuno che non
la
conosca già. E manca solo l'epilogo... *depression mode on*)
+ 'True
love waits.' - (nata da circa 20 minuti xD ahaha)
Ci sentiamo tra un paio di
settimane :) Prima del 10 Marzo, sicuramente :)
Grazie in anticipo per visite ed eventuali commenti *-*
Vi adoro! *-*
Fio xx
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Capitolo 4 *** Any place is better ***
adito - cap 1
Buonasera, girls!
:)
Come va? *-* Prima di tutto, Buona Festa della Donna a tutte xD Dubito
che ci siano maschi qui in giro quindi... viva noi u.u Avete ricevuto
mimose? Bah, io solo da un mio amico che si è presentato
sotto casa con un mazzetto di mimose e... il dvd di Breaking Dawn
.____. Ahahaha povero, non poteva certo sapere che ce l'avevo
già :') Ovviamente ho omesso tale particolare xD ahahaha
Cooomunque, veniamo a noi.
Capitolo che non so come definire. Mi direte voi, spero xD
Vi lascio alla
lettura, ci sentiamo sotto :)
Aaaaaah, io ho
riletto il capitolo con questa
canzone.
Ci sta bene ed è stupendamente triste, quindi... boh,
leggetelo con quella in sottofondo se vi va :)
Capitolo 4
Any place is better
- Erano
passati tre giorni e le sue parole ancora echeggiavano nella mia mente
che
lottava con il cuore per capire cosa fare e trovare la scelta migliore.
- Avevo
stabilito che non lo avrei buttato via come un sacco della spazzatura.
La sola
idea che potesse diventare un mucchio di molecole sul fondo di un
cestino di
una sala d’ospedale mi faceva rabbrividire, ma
c’erano così tante cose sbagliate,
cose che non sapevo come sarebbero andate, cose che non potevo sapere e
avevo
paura di scoprire.
- Guardai
dentro la mia tazza di camomilla e poi l’orologio della
cucina che segnava le
sei del mattino.
- Era
solo il primo giorno, uno dei tanti che sarebbero iniziati
così. Altri sette
lunghi mesi, la possibilità di passare una vita intera a
chiedermi come sarebbe
andata se avessi preso una decisione invece di un’altra.
- Sospirai
e tornai a fissare il liquido ormai freddo, come me.
- Non
sapevo più chi ero, non sapevo cosa fare, non sapevo come fare. L’unica cosa di cui
ero certa era quella vita che
cresceva dentro di me mentre un’altra vita non se ne
accorgeva nemmeno. Doveva
essere cresciuto, anche in quei tre giorni, e lui non lo avrebbe mai
saputo,
non gli sarebbe mai importato, non lo avrebbe mai voluto
perché non era un
problema suo.
- Mi
sentii improvvisamente sola, sola con il mio bambino ignaro del mondo
in cui
sarebbe nato, ignaro di dover crescere senza un padre.
- “Ce
la faremo, piccolino…” sussurrai a me stessa,
tenendomi la pancia. “Ce la
faremo anche senza un papà…”. Non potei
fermare una lacrima che scese rapida e
sonora dentro la tazza, un’altra goccia
che si fondeva col mare, proprio
come
il mio bambino si fondeva con me ogni giorno di più.
- “Bella…”
- Alzai
il viso di scatto alla voce di Rosalie che, in vestaglia, mi guardava
curiosa e
poi preoccupata quando vide che mi asciugavo velocemente le lacrime con
i palmi
delle mani.
- “Hey,
tesoro…” disse, raggiungendomi subito e sedendosi
accanto a me.
- “Va
tutto bene” la rassicurai prima che potesse dire altro e
farmi scoppiare a
piangere definitivamente.
- Forse
ne avrei avuto bisogno, ancora, ma non oggi. Sapevo che se avessi
iniziato non
avrei più smesso e non potevo permettermelo.
- “Che
ci fai già in piedi?” mi chiese, premurosa,
carezzandomi i capelli.
- “Non
riuscivo a dormire” risposi, evitando di sottolineare il
fatto che in realtà
non avevo dormito per niente.
- Non
le occorse molto per capirlo da sola, però, visto che avevo
addosso gli stessi
vestiti della sera prima.
- “Bella,
devi cercare di riposare. Dormire. Tutto questo non fa bene al
bambino…”
- Storsi
la bocca e mi morsi le labbra a quelle parole, come se parlarne fosse
del tutto
normale.
- “Mi
dispiace…” sussurrò la mia amica subito
dopo. “Non, non volevo… Non vorrei
mettere sempre in mezzo l’argomento…”
- “L’argomento
è sempre in mezzo, Rose. Non
preoccuparti…”
- “Già…
e mi sembra di aver capito che tu non voglia che gli accada nulla,
no?”
- Domandò,
alludendo alla ormai passata discussione sulla possibilità
di abortire, che non
avevo nemmeno minimamente considerato, nemmeno per un secondo.
- “Infatti.”
Annuii sicura almeno di quella cosa.
- Bene,
ora avevo due certezze: ero incinta e non volevo che nulla accadesse al
mio
bambino.
- La
parte difficile era il contorno, tutto ciò che circondava
queste due uniche
certezze.
- Come
avrei fatto con il lavoro? Come lo avrei mantenuto con entrate
precarie? Avrei
continuato a vivere lì?
- “Quando
lo dirai ai tuoi?”
- Rosalie
terminò i miei pensieri con un altro grande punto
interrogativo degli ultimi
giorni.
- “Non
lo so…” scossi il capo confusa e già
stanca di tutto. “Non ora.” Decisi, sicura
di un’altra cosa. Facevo progressi.
- Non
potevo chiedere qualche giorno di permesso la prima settimana di lavoro
né
potevo semplicemente chiamarli o mandare loro una email: Ciao, qui tutto bene. Voi? Ah a
proposito, sono incinta. Ciao.
- Di
chi, poi… Non di un ragazzo che lo volesse.
- Immaginavo
già la faccia delusa di mia madre e quella piena di
compassione di mio padre.
No, non avrei potuto sopportare anche quello al momento.
- “Prima
o poi dovrai dirglielo…”
- “Più
poi che prima, Rose. Non posso permettermi una visita, ora.”
- “Ma
prima o poi si inizierà a vedere. Non vorrai tenerglielo
nascosto fino a Natale
quando andrai da loro.”
- “Ecco,
questa sì che è una grande idea.” E non
ero ironica nell’affermarlo.
- Un
problema in meno, almeno per il momento.
- “Bella!”
- “Rose,
se lo sanno ora o tra tre mesi non cambia le cose.”
- In
risposta si limitò a sospirare e ad assecondarmi.
- “D’accordo
allora, posto che i tuoi genitori non sono un problema al
momento… Qual è la
cosa che ti turba di più?”
- Come
potevo rispondere a una domanda del genere se non: tutto?
- “Bè
vediamo. Ho ventiquattro anni, mi sono appena laureata in una
disciplina che,
se non hai culo, ti sbatte in mezzo a una strada. Sono incinta ma il
padre di
mio figlio non lo vuole. Lavoro in un pub per arrotondare qualcosa di
più e,
come se non bastasse, ora devo anche pensare a risparmiare per mandare
mio
figlio al collage. Certo, sempre ammesso che ci arrivi al collage visto
che,
ciliegina sulla torta, non ho la minima idea di come si faccia a
crescere un
bambino. Direi che, al momento, mi turba un po’ tutto,
Rose.” Chinai il capo e
tornai a fissare sempre quel liquido giallo che iniziava a darmi la
nausea.
- “D’accordo,
ora ti dico come la vedo io. Hai ventiquattro anni, ti sei appena
laureata per
fare qualcosa che ami e sei così piena di talento che non
finirai in mezzo a
una strada ma nei titoli di coda di qualche film o su qualche
cartellone
pubblicitario o su qualche rivista famosa. Sei incinta ma il padre di
tuo
figlio potrebbe sempre cambiare idea. Nel frattempo sei incinta solo
per te
stessa e per il tuo bambino che crescerà con una madre forte
e meravigliosa.
Hai una vita dentro di te, Bella. Cerca di pensare al significato di
questa
cosa, cerca di pensare a quante donne vorrebbero provare una cosa
simile e non
possono. E lo so che la tua condizione non è delle migliori
ma hai me, hai i
tuoi genitori, e hai il tuo bambino. Hai sempre qualcuno con te
d’ora in poi e
vedrai che, quando lo prenderai in braccio la prima volta, non ti
importerà di
non sapere cosa fare perché ti basterà vederlo
per capire di essere felice e di
poter affrontare qualsiasi cosa.”
- Rose
mi guardò e sorrise sincera mentre io sentivo di voler
scoppiare di nuovo in lacrime.
Prima che lo facessi, mi buttai tra le sue braccia che mi invogliavano
a
sfogarmi ancora e ancora. Non importava che tra meno di due ore avrei
dovuto
essere pronta, asciutta e forte.
- Ora
volevo piangere e avrei pianto.
- Rosalie
mi stette vicina finché mi calmai del tutto, mi
preparò la colazione e,
insieme, uscimmo di casa.
- Mi
avrebbe dato un passaggio quella mattina e, a detta sua, ogni altra
mattina
perché non le piaceva l'idea che prendessi la metropolitana
così spesso in una
sola giornata.
- Tremai
quasi di terrore quando si fermò davanti lo spiazzo dove
l'imponente
grattacielo recante la scritta Newtons
Design dominava l'aria attorno.
- “Hey,
sei tranquilla vero?”
- “Non
proprio...” ammisi, guardando fuori dal finestrino e
considerando l'idea di tornare
a casa e passare la giornata a vedere film deprimenti sotto le coperte.
- Ma
mai come ora non avrei potuto farlo. Quel lavoro era una manna dal
cielo, una
possibilità che non potevo rifiutare e che non potevo
permettermi di perdere.
- “Bella,
sei una forza della natura. Vai lì e affronta la strega. Vedrai che ne varrà la
pena!”
- “Sì,
bè, non è che ho molta scelta...”
risposi con un sospiro.
- “Andrà
bene, vedrai. E se dovesse essere insostenibile puoi sempre
licenziarti, no?”
- “Devo
avere un lavoro prima di potermi licenziare, Rose.”
- “Bè,
lo avrai tra poco” sorrise, stringendomi una mano.
- “Andrà
bene” ripeté e cercai di crederle.
- “Speriamo...”
- “Okay,
allora... Io ho quel seminario a Sacramento ma per le sette sono al
pub. Hai
detto a Eric che hai bisogno di staccare mezz'ora prima,
vero?”
- “Sì,
gliel'ho detto. Non ci sono problemi.”
- E
avrei quasi preferito che mi avesse detto di no perché da
quella sera tutto
sarebbe diventato ancora più reale. Potevo solo ringraziare
di avere Rosalie
con me.
- “Perfetto.
Allora ci vediamo alle sette. Non vedo l'ora, tesoro.”
- Beata te, Rose.
- “Sì...”
sussurrai semplicemente prima di allungarmi a darle un bacio sulla
guancia. “A
più tardi allora!” dissi, scendendo dalla macchina
e vedendola allontanarsi,
lasciarmi ad affrontare la struttura da sola.
- Entrai
in punta di piedi quasi aspettandomi di trovare i miei compagni di
stage ma
invece quel posto era così diverso ora.
- Era
tutto molto frenetico, sembrava una redazione come di quelle che si
vedono nei
retroscena dei film.
- Avanzai
lentamente reggendo la mia borsa che conteneva solo il mio magro panino
e il
blocco di foto e disegni che portavo sempre con me. Mi guardai attorno
cercando
di vedere qualche faccia nota ma non ne incontrai nessuna. Dov'era
finita tutta
la gente che aveva lavorato allo stage estivo?
- Iniziai
quasi a pensare di aver sbagliato struttura e che esistesse un palazzo
gemello
quando la voce della strega rimbombò per tutto l'atrio.
- “Swan!”
disse semplicemente ma l'eco lo fece arrivare alle mie orecchie quasi
come un
rimprovero. Il primo minuto del primo giorno. “Sei in
anticipo.”
- Siria
iniziò ad avvicinarsi a me e io non sapevo che fare.
- Dovevo
darle la mano? Farle l'inchino?
- No,
okay... quello sarebbe stato troppo.
- Decisi
di non fare niente.
- “Posso...
posso tornare dopo se vuole...”
- Avrei
fatto meglio anche a non dire niente; almeno mi sarei evitata lo sguardo-da-superiore che era sempre
stato il suo punto forte.
- “Dov'è
il mio caffè?” chiese subito dopo.
- Io
rimasi senza parole. “Io... io... non... non sapevo
che...”
- “Riprendi
questa abitudine da domani.”
- Ero
con lei da appena due minuti e già sentivo l'urgenza di
scappare a gambe
levate. Evitai ogni movimento brusco e ogni gesto che potesse farle
notare la
mia irritazione.
- “Seguimi”
disse quando io ebbi annuito ai suoi comandi.
- Passammo
davanti diverse stanze, alcune chiuse altre aperte. La maggior parte
dell'edificio era costruito con vetri che lasciavano libera visuale tra
una
sala e un'altra, questo non valeva, ovviamente, per il suo ufficio.
- Sedette
alla sua poltrona e mi invitò a sedere di fronte a lei.
- “Allora,
Isabella.”
- Wow,
non sapevo che sapesse il mio nome.
- “Vuoi
davvero lavorare qui?”
- Perché
mi stava facendo una domanda del genere?
- “Sì...”
risposi semplicemente.
- “Perché?
Cosa speri di ottenere da questo lavoro?”
- Che cazzo di
domande,
pensai.
- “Non
lo so ancora, per questo sono qui. Apprezzo molto il suo lavoro e penso
e spero
di poter imparare qualcosa. Qualsiasi cosa è sempre qualcosa
in più...”
- Iniziò
a scrutarmi attentamente per diversi secondi prima di passare alla
prossima
domanda.
- “Quale
sarebbe la tua ispirazione? Insomma, cosa vuoi fare?”
- Da
grande? Stavo per chiederla ma poi mi resi conto di avere ventiquattro
anni e
non dieci.
- “Bè...
se devo essere sincera non lo so bene. So che amo l'arte. Qualsiasi
forma
d'arte. Ehm... mi piace disegnare, me la cavo nel video editing ma...
vorrei
diventare fotografa professionista” dissi in tutta
onestà consapevole del fatto
che quel lavoro non mi avrebbe aiutato poi così tanto la mia
ambizione senza un
bel colpo di fortuna. Intanto restavo a contatto con il design e col
mondo
della moda, anche se questo mi interessava decisamente meno. Era pur
sempre
qualcosa.
- “Bene.
Lavorerai dal lunedì al venerdì, dalle nove
all'una e trenta. Se sarà il caso,
e a mia personale discrezione, deciderò se farti entrare nel
team e quindi
lavorare anche il pomeriggio. Il lavoro è retribuito,
ovviamente. La paga è di
quattrocento dollari mensili. Non dovrai firmare nessun contratto fino
a
decisione definitiva, come dicevo prima.” Si fermò
per qualche secondo e mi
osservò mentre nella mia testa andavano avanti solo una
serie di calcoli.
- Quattrocento
dollari sommati ai trecento del pub, erano settecento dollari al mese e
sarebbero stati tanti fino a qualche giorno fa, quando avevo solo me a
cui
pensare.
- “Non
sarà facile, Isabella.”
- Perché
ogni volta che diceva il mio nome suonava tanto come un insulto?
- “Sono
pronta a tutto” risposi, pentendomi subito delle mie parole
ma consapevole
anche di non poter assolutamente rifiutare un'offerta del genere.
- “Perfetto!”
esclamò priva di qualsiasi emozione per poi chiedere alla
sua segretaria di far
salire Stacey.
- Dopo
soli due minuti, la donna, che doveva avere circa una quarantina
d'anni, chiese
il permesso di entrare. Fummo presentate velocemente e subito spedite
fuori dal
regno del maligno.
- “Lei
ti mostrerà tutto” disse Siria, invitandomi ad
alzarmi e ad uscire
dall'ufficio.
- “Ah,
Isabella. Cerca di vestirti in modo decente. Ci teniamo
all'immagine.”
- E
prima ancora che potessi elaborare le sue parole mi aveva
già guardato con aria
schifata e sbattuto la porta in faccia.
- Osservai
il mio look: jeans e maglietta bianca, semplice.
- Osservai
quello di Stacey: un tailleur.
- Non
avrei mai potuto pensare di indossarne uno anche perché non
ne avevo né avevo
in progetto di comprarne uno presto. Mi sarei inventata qualcosa con
l'aiuto di
Rose.
- Stacey
avrebbe dovuto farmi fare un giro veloce dell'edificio e mostrarmi
quello che
avrei dovuto fare. Non parlammo molto. Non vedevo l'ora di scoprire
quale
compito mi sarebbe stato affidato. Magari collaborare a qualche
progetto,
presentare idee e spunti, elaborare bozze.
- Quando
raggiungemmo uno dei piani più bassi e una delle stanze
più incasinate della
struttura, mi sentii quasi morire.
- “Cos'è
questo posto?” chiesi a Stacey mentre camminavamo lentamente
tra la polvere.
- “Questo
è l'archivio e, da oggi, sarà la tua casa per un
po'.”
- “Cioè?
Cosa dovrei fare?”
- Stacey
si limitò a indicarmi lo sgabuzzino da cui potevo benissimo
intravedere mazze
da scopa, palette e un mucchio di pezze.
- “Va
pulito e riordinato. Quando avrai finito dovrai ricalcare le misure di
ogni
progetto o riscriverle se ce ne sarà bisogno. Dietro
l'angolo deve esserci un
tavolo da lavoro bello grande e attrezzato. Dopo di che si dovranno
trasferire
i dati sul computer.”
- Sentii
la forza mancarmi.
- “Ma...
ma ci metterò una vita...”
- “Sarà
meglio che cominci subito, allora.”
- “L'umanità
è un optional in questo posto...”
- Mi
resi conto di averlo detto ad alta voce quando Stacey, che stava per
andare
via, si voltò e mi chiese cosa avessi detto.
- “Niente...”
sussurrai, indifferente.
- “Senti...
Non voglio spaventarti ma qui funziona così. Se questo clima
non ti va bene non
avresti dovuto accettare il lavoro o dovresti lasciarlo.”
- Sfidai
i suoi occhi che, tuttavia, non erano arrabbiati. Solo rassegnati.
- “Non
voglio andare via” dissi, sincera. “Ma sembra che
essere freddi qui sia una
regola.”
- “Lo
è, infatti. Hai visto lei, no? Hai visto dov'è
arrivata. E ha fatto tutto da
sola.”
- Il
ragionamento non mi convinceva totalmente ma lo lasciai cadere quando
Stacey mi
sorrise e mi strinse di nuovo la mano.
- “Scusami
se ti sono sembrata brusca ma qui siamo abituati
così...” disse, scusandosi, e
non potei non ricambiare un sorriso.
- “Non
importa” scrollai le spalle sperando che potesse essere
l'inizio di un rapporto
civile e non freddo.
- “Mi
spiace che ti abbia sbattuto qui.”
- “Fa
nulla” risposi seccata.
- Perché
tutte quelle parole buone per me e quella voglia di avermi nella sua
squadra
per poi relegarmi a ripulire e riordinare un archivio?
- “Io
sono solo a un piano sopra. Se hai bisogno di qualcosa, chiedi
pure.”
- Oh,
wow, un po' di gentilezza. Forse avevo giudicato troppo in fretta ma
non potevo
essere biasimata date le circostanze.
- La
ringraziai e rimasi sola. Tra la polvere e il casino che governavano la
stanza
enorme.
- Mi
ci sarebbe voluto più di un giorno solo per ripulirla. Forse
nel giro di due
settimane sarei riuscita ad ultimare tutto il lavoro.
- Per
qualche secondo mi colse lo sconforto ma ormai c'era qualcosa in me che
mi
ricordava che non potevo più lasciarmi abbattere.
- Mi
carezzai la pancia solo per qualche secondo, sentendomi stupida ma
carica allo
stesso tempo, come se il bambino mi desse energie invece di toglierle.
Come se
fosse la mia forza. Dovevo essere forte per lui.
- Voleva
che pulissi e riordinassi quel posto? Perfetto. L o avrei fatto e lo
avrei
fatto così bene da poterle servire il cibo su ognuno degli
scaffali lì sotto.
- Presi
un profondo respiro, aprii le piccole finestre per lasciare entrare
aria pulita
e mi misi al lavoro cosciente del fatto che se mai avessi iniziato non
avrei
mai finito.
- Restai
così impegnata nel pulire ogni angolo della grande stanza
che dimenticai
persino di guardare l'ora. Alle due ero ancora lì e avrei
dovuto mangiare il
panino in metropolitana per arrivare al pub entro le tre ma almeno
avevo
finito.
- In
cinque ore ero riuscita a rendere quel posto quanto meno vivibile e ora
sembrava già che potesse respirarsi aria pulita. Certo, non
pulita come la
ventata che ebbi quando salii le scale.
- Non
sapevo se dover avvisare quando andavo via. Cercai Stacey o Siria ma
non trovai
nessuna delle due in giro. Pensai che fossero a pranzo e che, in ogni
caso,
sarebbe stato inutile visto che avrei dovuto finire già da
mezz’ora. Se si
fossero chieste che fine avessi fatto sarebbero venute almeno a
controllare.
- Uscii
dall'edificio e corsi alla stazione della metropolitana ma il mio treno
era
appena passato e avrei dovuto aspettare dieci minuti per il prossimo.
Ne
approfittai per mangiare il mio panino al tonno sperando che non mi
causasse
spiacevoli conati di vomito. Forse avrei dovuto scegliere qualcosa di
più
leggero, prosciutto cotto magari.
- Dopo
mezz'ora in metropolitana e due cambi di linea necessari per arrivare
dall'altra parte della città, arrivai al pub con appena
cinque minuti di
anticipo.
- Salutai
Eric che aveva appena attaccato e andai nel retro per cambiare la
maglia.
- “Tutto
bene?” chiese lui quando mi vide un po' sconvolta.
- “Sì,
ho solo fatto le corse... Ho
iniziato
un nuovo lavoro stamattina...” gli spiegai.
- “Sì,
me lo avevi detto. Allora? Ti piace?”
- “Mmm...”
mugugnai dubbiosa. “Preferisco non pronunciarmi al momento.
Credimi. Potrei essere
scurrile.”
- Eric
rise. Dopo miei estenuanti sfoghi di Agosto aveva quasi imparato a
conoscere
ogni lato di Siria e ad odiarla come la odiavo io.
- “Hey,
senti, siamo ancora d'accordo per stasera, no? Per il turno?
Cioè sei sicuro di
potermi coprire l'ultima mezz'ora?”
- “Tranquilla”
annuì lui, sicuro. Ammettevo che forse mi stavo
approfittando della sua
gentilezza dettata, probabilmente, da qualche speranza che nutriva nei
miei
confronti. Mi sentii in colpa per qualche secondo ma poi pensai che
fosse per una
giusta causa.
- “Hai
un appuntamento?” mi chiese lui dopo un po'.
- Perché
non entrava nessuno al pub a salvarmi dalla conversazione? Era strano
che fosse
ancora tutto così lento.
- “Sì,
cioè no. Non... non un appuntamento con qualcuno,
figurati.” Non mi sarei mai
permessa di chiedergli un favore simile. “Ho una
visita” dissi, infine,
restando sul vago e , per fortuna, lui si limitò ad annuire
e non chiedere altro.
- “Spero
nulla di grave...” disse semplicemente e io lo tranquillizzai
con una pacca
sulla spalla.
- “Niente
di grave” confermai. Solo qualcosa di grande,
pensai tra me e me.
- Proprio
in quel momento il locale iniziò a riempirsi dei ragazzi che
uscivano da scuola
e non avemmo un minuto libero fino alle sei quando gli uomini, usciti
dal
lavoro, venivano a bere una birra prima di tornare a casa.
- Il
locale era davvero pieno e mi sentivo quasi in colpa a dover lasciare
Eric e
Nicole da soli ma non potevo fare altrimenti.
- Alle
sette mi cambiai di nuovo e presi il cellulare, intenzionata a chiamare
Rose
per chiederle dove fosse ma Eric mi venne a chiamare per un ultimo
aiuto.
- “Scusa,
Bella. So che devi andare ma è appena entrato un gruppo.
Puoi servire solo
loro?”
- L'aria
frenetica e la consapevolezza che già gli stavo chiedendo un
bel favore non mi
permisero di rifiutare anche se avrei tardato di una decina di minuti.
- “Sì,
certo!”
- Evitai
di rimettere la maglietta, ovviamente, e presi il taccuino.
- “Quel
tavolo lì!” mi disse, indicando un gruppo di
ragazzi che si stavano sedendo e
pensai di stare immaginando quando vidi lui
tra di loro.
- Non
può essere, pensai tra me e me mentre mi rigiravo il
block-notes tra le mani.
- Eppure
era lui, con i suoi amici, con una ragazza, con la sua vita.
- Perfetto.
Pensavo che la giornata non potesse peggiorare e invece si
può cadere sempre
più in basso.
- Presi
un profondo respiro e andai al loro tavolo.
- “Volete
ordinare?” dissi alzando il viso ed evitando, di proposito,
di guardare lui.
Eppure era l'ultimo seduto, quello più vicino a me e potei
sentire i suoi occhi
sorpresi quando si alzarono e si posarono su di me.
- “Mmm...
non lo so... Non so cosa prendere” disse un ragazzo,
studiando ancora il menu.
Di regola avrei dovuto chiedere se volevano altri due minuti per
pensarci ma io
non avevo altri due minuti, soprattutto non per loro.
- “Avete
della torta?” mi chiese un altro.
- “C'è
la torta di pesche. Ma non lo so se è fatta con le
pesche...”
- Non
esattamente quella che si direbbe buona pubblicità per il
locale ma la
vicinanza di Edward mi rendeva automaticamente acida. Ero
lì, a servire a lui e
ai suoi amici mentre suo figlio cresceva dentro di me. Non potevo fare
altro
che pensarci mentre aspettavo, sempre più impaziente, le
loro ordinazioni.
- Prima
che riuscissi a impedirlo, lanciai un'occhiata a Edward sperando che
non se ne
accorgesse. Seppure l'avessi guardato per un solo secondo avevo
percepito lo
sguardo serio e il nervosismo che cercava di sfogare tamburellando le
mani sul
tavolo. Non mi risparmiai nemmeno un'occhiata alla ragazza che era
seduta
accanto a lui. Capelli neri, carnagione scura, occhi chiari. Ovvia.
- Alla
fine ordinarono pezzi di torta e birra. Non proprio un'accoppiata
felice ma... contenti loro.
- “Per
me un'acqua Tau” disse lei,
portandomi ad alzare lo sguardo confusa.
- “Scusami?”
- “Un'acqua
Tau” ripeté con aria accigliata e superficiale.
- “Scusa,
qui abbiamo solo l'acqua normale” la fulminai con lo sguardo
cercando di
ricordare che il cliente ha sempre ragione, ma con lei era difficile.
La odiavo
senza nemmeno conoscerla.
- “Oh,
allora una soda.”
- Storsi
la bocca a presi un respiro mentre mi voltavo verso di lui.
- “Tu?”
fui costretta a chiedere.
- “Cosa?”
disse, preso alla sprovvista, e i nostri sguardi si incontrarono.
- Dio,
se i miei occhi avessero sputato fuoco sarebbe stato incenerito, non
potevo
farne a meno.
- “Cosa
vuoi?”
- Il
solo pensiero che avevo baciato quel ragazzo, che ci avevo fatto sesso,
mi
diede la nausea.
- “Niente,
grazie...”
- Non
ricambiai nemmeno il suo sguardo.
- “Torno
subito” dissi prima di raccogliere velocemente i menu e
tornare dietro il
bancone.
- Riempii
i bicchieri di birra e, quando mi girai, non potei fare a meno di
vedere che
Edward si era alzato e stava venendo verso di me.
- Lo
ignorai e disposi le birre sul vassoio.
- “Come
stai?” mi chiese portandosi, dall'altro lato del bancone, di
fronte a me.
- Gli
lanciai un'occhiataccia. “Non fingere che ti
interessi” non riuscii a mordermi
la lingua.
- “Sì”
disse semplicemente e mi fissò mentre io prendevo le torte e
le disponevo sui
piattini.
- “Non
rischi a stare qui? Potrebbero vedere che parli con me...”
- “Sei
ancora incinta?”
- Mi
bloccai, pietrificandomi e non credendo possibile che potesse esistere
qualcuno
con così poca sensibilità.
- “Certo
che sono ancora incinta!” replicai con sdegno.
- “Pensavo
che avessi considerato la mia proposta.”
- Oh
mio dio. Pregai che qualcuno mi chiamasse e mi salvasse da
quell'inferno.
- “E
io ti avevo già detto che non era da prendere in
considerazione” risposi con
rabbia.
- Perché
stavamo avendo quella conversazione? Perché aveva avuto il
coraggio di tirarla
in mezzo lì, in un luogo pubblico?
- Senza
aggiungere altro, afferrai il vassoio e lo portai al tavolo sperando di
non
trovarlo più in piedi al bancone. Speranze al vento.
- “Senti,
Bella...” iniziò a parlare ma io non avevo
nessunissima intenzione di ascoltare
un'altra sola parola che uscisse dalla sua bocca.
- “Edward.
Ti prego. Non parlare. Non parlarmi più. Non voglio
più sentirti parlare.”
- Non
capisci che mi fa male?
- “Hai
preso la tua decisione, io ho preso la mia. Non capisco
perché ti sei
avvicinato, onestamente, e non voglio nemmeno saperlo. Torna al tuo
tavolo e
alla tua vita. Io ne ho due a cui pensare. Non ho tempo da perdere con
te.”
- Lanciai
un'occhiata all'orologio. Erano le sette e cinque e pensai che Rosalie
dovesse
essere già fuori ad aspettarmi quando arrivò una
sua telefonata.
- “Rose,
sto uscendo. Scusami.”
- “Bella,
non so proprio come scusarmi. C'è un cazzo di incidente per
strada e si è fatta
una fila assurda.”
- “Oh...”
fu la mia reazione mentre sentivo lo sguardo di Edward ancora addosso.
- “Bella,
mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace. Non so cosa dire, non so come
fare.
Porca puttana!”
- “Non
preoccuparti, Rose. Non è colpa tua.”
- Anche
un sordo avrebbe avvertito la tristezza nella mia voce.
- “Sono
una pessima amica. Avrei dovuto avviarmi prima, non sarei dovuto andare
per
nulla.”
- “Rose!”
cercai di farle arrivare una mia risata per tranquillizzarla.
“Tranquilla,
davvero. Non è colpa tua.”
- “Come
fai ora?”
- Lanciai
un'occhiata a Edward.
- “Prendo
un taxi o la metro...”
- “Prendi
un taxi. Non voglio che vai in metro da sola. Ti prego.”
- Un
taxi, grande. Mi sarebbe costato almeno venti dollari fino all'ospedale.
- “D'accordo”
dissi in ogni caso, valutando l'opzione di prendere la metropolitana.
- “Dovrei
essere lì...”
- “Lo
so...” non potei fare a meno di rispondere. “Non
preoccuparti, okay?”
- “Mi
dispiace davvero.”
- Okay,
non ce l'avrei fatta a sentirglielo dire un'altra volta.
- “Non
fa nullaaaa” cantilenai. “Ora devo andare o
farò tardi.”
- “Appena
mi libero da questo cazzo di traffico ti raggiungo, dovunque sei.
Mandami un
messaggio appena hai finito. Vengo a prenderti lì.”
- “D'accordo...”
sorrisi forzatamente e la salutai prima che continuasse con la sua
serie di
scuse.
- “Che
succede?” era Edward che, sfortunatamente, aveva assistito a
tutta la
telefonata.
- “Niente
che ti riguardi...”, solo la prima
ecografia di tuo figlio.
- “Posso
accompagnarti io.”
- “No.”
- “Dove
devi andare?”
- “Al
White Memorial” risposi infine senza peli sulla lingua, forse
perché speravo
che arrivassimo al punto in cui avrebbe capito cosa dovevo fare e
avrebbe
iniziato a sentire il senso di colpa.
- “Stai
male?”
- “No”
affrontai il suo sguardo già pregustando l'espressione
mentre gli dicevo: “Devo
fare l'ecografia.”
- Rimasi
a fissare per qualche secondo la sua espressione da cane bastonato.
- Lui.
- “Oh...
capisco...”
- Già,
capisci. Non capisci un cazzo ed ecco perché d'un tratto non
hai nessuna
intenzione di accompagnarmi.
- Lo
avrebbe fatto, mi avrebbe tenuto la mano solo per abortire.
- Mi
salì un conato di vomito. Non potevo restare lì
un secondo di più. Afferrai la
borsa e più velocemente possibile uscii dal locale e mi misi
alla disperata
ricerca di un taxi.
- Possibile
che in una città come quella non ce ne fosse uno libero?
Cazzo!
- Vidi
la fermata della metropolitana proprio di fronte a me e realizzai che
era
l'ultima opzione anche se ci avrei messo il doppio del tempo ad
arrivare. Non
avevo scelta, pensai proprio quando, mentre stavo per attraversare, una
macchina nera si fermò davanti a me costringendomi a
bloccarmi.
- Il
finestrino si abbassò e rivelò il suo viso.
- “Sali.”
- “No.”
- “Bella,
dai, sali. Ti accompagno. Mi è di strada...”
- Mi
è di strada. Altro conato
di vomito.
- “Farai
tardi se prendi la metro.” Non sapeva nemmeno l'orario della
visita ma aveva
colto nel segno e, da quella mattina, mi ero ripromessa di fare il
possibile
per far stare bene il bambino.
- Mi
morsi le labbra valutando le possibilità che erano davvero
poche.
- Infine
aprii la portiera e salii approfittando del suo senso di colpa e
pensando che,
dopo tutto quello che avevo passato, non sarebbe stato un passaggio a
uccidermi
o buttarmi giù ulteriormente.
- O
almeno era quello che speravo mentre lui metteva in moto e io pensai
che avrei
voluto essere ovunque tranne che lì; ogni altro posto
sarebbe stato migliore.
Sì,
vabbè .___. come dicevo sopra, non ho nulla da dire su
questo capitolo, se non che deve essere stato di una noia mortale xD
Mmm, alcune mi hanno chiesto quanti anni hanno Edward e
Bella. Bè, Bella ne ha 24 e qui si capisce, Edward
ne ha 26. Essendo una storia prevalentemente da un solo POV, scopriremo
qualcosa di più su di lui solo col tempo xD Niente
genitori morti davanti agli occhi stavolta, tranki u.u ahaha
Ho fatto un piccolo schema dei turni di lavoro di Bella ahaha
cioè magari a voi non ve ne importa un fico secco ma io se
non mi faccio gli schemi poi vado al manicomio quindi lo condivido con
voi u.u
Sì,
insomma, la ragazza ha ancora del tempo libero... per ora xD ahaha
Madò, scusate, sto fusa stasera .___. Deve essere l'effetto post-valigia.
Anywaaaaay, a questo punto vi informo che non so quando
posterò il prossimo capitolo perchè dopodomani
parto xD Vado nella (a detta delle previsioni -.-) fredda, piovosa,
ventosa, umida, glaciale, nevosa Vancouver. Sì, il tempo
è 'na merda praticamente ma chi se ne frega *-*
Andrò nella città sacra di Twilight, quella che
ha visto nascere taaaanto
amore di Robert e Kristen, quella dove è ambientata Turning
Page aksjfkasgfkjasdgkfj sono un tantino emozionata *-* ahaha
Vabbè, tutto questo per dire che... se riesco a scrivere in
aereo, avrete il capitolo quando torno, se no ciao u.u
Detto molto semplicemente xD ahaha
Okay, basta, devo andare a mangiare prima di continuare a sparare
cazzate in quete note finali .____.
Grazie mille come sempre per il supporto e i commenti e i preferiti e
le recensioni e tutto
ç___ç
VI AMO!
Alla prossima!
Fio xx
|
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Capitolo 5 *** Sense of guilt ***
adito - cap 1
*entra in punta di piedi*
Vabbè, siamo onesti, inutile stare qui a cacciare scuse. Ho
avuto un casino di cose da fare - ancora ne ho! - e
semplicemente
non ho mai un minuto di tempo per me stessa o per la scrittura;
aggiungiamoci che queste cose mi mettono un pò di ansia
addosso
e non riesco a concentrarmi come si deve, uniamo il tutto a un calo di
ispirazione per la storia, ed ottenete più di un mese di
ritardo. Mi dispiace davvero e non dico che non accadrà
più perchè non voglio prendervi in giro. Posso
solo
sperare che questo periodo un
pò troppo pieno passi presto, che torni a galla
l'ispirazione e che voi non vi stanchiate di aspettare.
Pretendo un pò troppo, lo so xD Ma vabbè, ci
provo :3
Allooooora, eravamo rimasti a Edward che da un passaggio a Bella per
andare a fare l'ecografia.
E niente, ecco il seguito lol
Buona lettura! x
ps: la canzone è ashdgfkasdf
quindi ascoltatela, okay? :)
Music: Get up -
Barcelona
Capitolo 5
Sense of guilt
Mai
come in quel
momento avrei desiderato essere dotata del dono del teletrasporto o
della
capacità di velocizzare il tempo. Magari un semplice forward come nei telecomandi,
qualsiasi cosa pur di risparmiarmi la
tortura che era stare seduta nella sua macchina, con lui, senza essere
capace
di dire una parola, con la gola secca, le mani fredde e il cuore
fragile. Come
potevo essere forte e pensare di farcela senza un aiuto, senza un suo
aiuto,
quando ne stavo già accettando uno? Non avrei dovuto farlo
per principio, a
costo di andare a piedi. Avrei dovuto sostenere il suo sguardo, alzare
le
spalle e dire ‘No, Edward. Non ho bisogno di te.’
Ma non
l’avevo fatto
e sapevo anche perché; sapevo che ancora ci speravo. La mia
non era speranza
riposta in lui, solo speranza di qualcosa di migliore di…
questo.
Qualcosa che mi
facesse sentire bene, qualcosa che non fosse aspettare un bambino da
uno
sconosciuto e stare in macchina con lui senza riuscire a trovare
qualcosa di
cui parlare, una parola da dire, niente in comune. Niente per lui,
almeno.
C’era
così tanto
di cui parlare, eppure restavamo in silenzio. Anche il rumore del
traffico
fuori era attutito dai finestrini chiusi. Tutto ciò che
riempiva l’abitacolo
era la radio e gocce di pioggia che iniziavano a battere sul vetro di
fronte a
noi. Il cielo si era scurito improvvisamente, da un minuto
all’altro, come se
le nuvole si fossero messe d’accordo per accompagnare il mio
umore dal momento
in cui ero salita su quella macchina.
Erano le sette e
un quarto; erano passati appena tre minuti da quando si era fermata per
farmi
salire e mi era sembrata un’eternità.
Tre minuti, non
una parola.
Centottanta
secondi, non uno sguardo.
Un’infinitesima
parte della mia vita − probabilmente l’unica
− che avrei passato con lui e non
riuscivo a dire niente.
Ma, in fondo,
perché
avrei dovuto sforzarmi? Perché ancora speravo che le cosa
potessero essere
diverse?
Svegliati, Bella.
Svegliati, cazzo!
Questa non
è una
svolta, non è una confessione né una mano tesa
verso di te. È solo un fottuto
passaggio, quindi smettila.
Convinta dalla
disillusa voce della mia mente, la sola che avrebbe potuto farmi uscire
indenne
da quella situazione, voltai il viso verso il finestrino e rinunciai
definitivamente ad ogni possibile tentativo di conversazione, almeno
finché non
sentii lo scatto dell’accendino e, voltandomi, ebbi la
conferma di ciò che
temevo.
Stava fumando.
Quel grande stronzo, bastardo, menefreghista di merda si era appena
acceso una
sigaretta, senza nemmeno curarsi di abbassare il finestrino.
“Scusa…”
sussurrai quasi indignata e lo sguardo totalmente vuoto che mi
riservò non fece
che farmi sentire peggio. Avrei voluto avere un conato di vomito
proprio in
quel momento per potergli sporcare la sua preziosa tappezzeria.
Alzò un
sopracciglio come a chiedere quale fosse il problema.
“Potresti
evitare
di fumare con me qui?”
“Non
fumi?”
“No.”
“Ti dai
fastidio?”
“Anche ma,
sai
com’è, vorrei che non avesse i polmoni neri ancora
prima di nascere.”
Lo vidi,
chiaramente, lanciare una rapida occhiata al mio stomaco, quasi si
aspettasse
di vedere un bambino tra le mie braccia. Era ovvio che per lui era come
se non
fosse successo niente.
Niente pancia,
non è vero.
Niente test, non
è detto che sia mio.
Niente evidenza,
non è ancora niente.
Probabilmente non
si sarebbe convinto della realtà dei fatti nemmeno se avessi
avuto davvero un
bambino tra le braccia; non che la cosa avesse davvero un senso visto
che non saremmo
mai arrivati a quel punto in ogni caso.
Spostò lo
sguardo
dal mio stomaco alla strada, di nuovo a me. Non aveva ancora buttato la
sigaretta, anzi, fece un altro tiro e io desiderai scendere
immediatamente da
quella macchina ma, per qualche motivo, non lo feci.
Forse io stessa
volevo farmi del male fino in fondo e vedere fin dove sarebbe arrivato,
quale
evidenza avrebbe voluto per credermi e accettare le cose.
“Perché
tu hai
quello, allora? Non fa mica bene.”
Seguii il suo
cenno del capo e mi trovai a fissare il bicchiere di caffè
che avevo preso
velocemente prima di uscire dal bar e avevo ancora in mano.
“Non
è la stessa
cosa.”
“Ma tu sei
una
ragazza di sani principi, no?”
Come potevo
provare tanto disprezzo e attrazione per qualcuno?
Lo disprezzavo per
il modo in cui riusciva a dire qualsiasi cosa e appesantirla di dieci
tonnellate e non potevo negare di essere attratta da lui, o almeno lo
sarei
stata se il disprezzo non avesse surclassato quella lontana
possibilità che, in
circostanze normali, mi avrebbe portato ad essere tremendamente
preziosa da
fargli perdere la testa.
In circostante normali, ripetei a me stessa mentre
alzavo il viso
verso di lui.
Lo affrontai con
lo sguardo, serrai la mascella, abbassai il finestrino e riversai fuori
tutto
il caffè contenuto nel grande bicchiere di cartone.
Portai la mano
dentro, alzai il finestrino e strinsi il cartone tra le mani. Tutto
senza
distogliere lo sguardo da lui un solo secondo.
Sei un coglione, Edward.
Un vero coglione.
Lui sorrise, come
se stesse flirtando. Come se quella fosse una sfida e non un modo per
evitare
quelle piccole cose che potevano far male a… suo figlio.
Dio, lui non se
ne rendeva nemmeno conto.
Fece un altro
tiro di sigaretta prima di abbassare il finestrino di un paio di
centimetri appena
e farla schizzare fuori.
“Contenta?”,
sorrise ancora e provai un immenso schifo.
Per me che ero
andata a letto con lui.
Per lui che era
consapevole del suo modo d’essere e ne andava fiero.
Schifo per noi,
pena per il bambino che non aveva idea del mondo in cui sarebbe venuto.
Non facevo che
guardare l’orologio al polso, chissà, forse
sperando che il tempo passasse più
velocemente. Povera ingenua: non è questione di tempo, di
quello ne avrai ma
sembrerà di non averne mai abbastanza, e quando vorrai che
scorra più
velocemente si fermerà proprio nell’attimo meno
opportuno, nel momento più nero
della tua vita. No, non è il tempo. Non è lui,
non è il bambino. Sei tu; tu che
sei sempre così ottimista, tu che credi nelle favole e speri
sempre in un lieto
fine, anche di quelli all’ultimo secondo.
Devi smetterla, Bella. Smetterla di aspettare
inutilmente, smetterla
di sognare, smetterla di illuderti e vivere semplicemente quello che
hai
davanti.
Sembravo
così
convinta del mio discorso, eppure il ticchettio della lancetta dei
secondi era
più forte di qualsiasi altro rumore.
Chinai lo sguardo
e lo vidi ancora. L’orologio, il tempo che passava, lento.
Secondo dopo
secondo, sempre più lento.
Ventitré,
ventiquattro, venticinque…
Arrivare a
sessanta secondi era estenuante, arrivare a due minuti era fonte di
ansia.
Stavo impazzendo,
dovevo smetterla di fissare quell’aggeggio e contare i
secondi.
“Hai
così tanta
voglia di uscire da questa macchina?”
Non guardarlo era
impossibile.
“Cosa?”
“Ti assicuro
che
i secondi in un minuto sono sempre sessanta, non
c’è bisogno che li conti
tutti.”
Rilasciai il
respiro che avevo tenuto mentre lo sentivo parlare. Spenta, mi aveva
spenta e
non ero nemmeno in grado di trovare una risposta. Non era per nulla da
me non
avere una risposta pronta o comunque non avere nulla da dire. Io me la
cavavo,
me la cavavo sempre. Eppure lui riusciva ad annullarmi completamente.
Non
doveva essere così, non era stato così
finché avevo avuto la forza, ma questo
passaggio in macchina stava portando cambiamenti che non esistevano e
che solo
la mia testa vedeva.
Perché diamine
ho accettato?
Mi chiesi per l’ennesima volta.
E non risposi.
“Sei
calma.” Non
era una domanda ma una constatazione, sbagliata per giunta.
No, Edward. Non
sono calma e sono molto lontana dall’esserlo. Sto solo
reprimendo le urla,
stringendo il mio cuore tra mani con unghie affilate, mordendomi la
lingua,
stringendo la mascella e i pugni. Sto solo rispettando il muro che deve
dividerci altrimenti sarò io a crollare.
Ma non sono
calma.
“Non sei
agitata?”
Dio, ma come fai
a non vederlo? Perché hai il bisogno di chiedermelo. Come
cazzo puoi pensare
che non sia agitata, diamine!
“No”
risposi con
tono secco, cercando di porre fine alle nostre
piccole conversazioni mentali. Non portavano a nulla, non mi serviva
parlargli
tra me e me.
Tutto ciò
di cui
avrei avuto bisogno era comprensione, consapevolezza, aiuto. Le cose si fanno in due, è quello che la
gente dice sempre in questi casi, e avrei voluto che qualcuno che non
fossi io
lo ricordasse a lui. Avrei voluto che lui lo capisse davvero, che lo
realizzasse da solo, che si rendesse conto una volta per tutte di
quello che
stava realmente accadendo.
Mi trovai a
chiedermi se avesse almeno capito dove mi stava portando e in cosa
consistesse
un’ecografia.
Lo stava facendo
solo per alleviare il suo senso di colpa? Probabilmente –
sicuramente − sì; e
io non potevo cadere nella flebile speranza che poteva nascere dal suo
senso di
colpa. Non funziona così, al mondo.
O ti prendi le
tue responsabilità, o non lo fai.
Con questo unico
pensiero ad albergare nella mia testa, distolsi totalmente lo sguardo
da lui e
non lo degnai di un’occhiata, nemmeno quando si
fermò al parcheggio
dell’ospedale.
“Grazie”
mormorai
velocemente, scendendo dall’auto ancora in moto.
Presi a camminare
fino all’entrata dell’ospedale ma avevo sentito il
motore spegnersi e lo
sportello della macchina chiudersi per cui non mi ci volle molto a
capire che
mi stava seguendo.
Perché?
Perché
cazzo lo stava facendo?
Mi imposi di non
guardare indietro mentre passavo la porta principale e chiedevo della
dottoressa Page, ma passato il primo corridoio, con il costante rumore
dei suoi
passi dietro i miei, non riuscii più a fare finta di nulla.
“Che cosa
stai
facendo?” gli urlai contro, moderando il tono quanto
più possibile.
“Niente”
rispose,
scrollando le spalle.
“Mi stai
seguendo. Perché?”
“Non ti sto
seguendo.”
“Sei nel
reparto
ginecologia perché hai fatto un trapianto di apparato
allora?”
Alzò gli
occhi al
cielo e fu un altro campanello d’allarme per me: allontanarsi il prima possibile.
Svoltai a destra
e continuai a camminare fino alle fine del corridoio ma lui era ancora
dietro
di me. Senza chiamarmi, senza dire una sola parola, senza scusarsi,
senza
chiedere di aspettare o di lasciarlo andare per sempre e liberarlo dal
suo
senso di colpa. Niente di tutto ciò, seguiva solo i miei
passi, forse in cerca
di un congedo ufficiale.
Mi fermai davanti
la porta chiusa dello studio della dottoressa e mi voltai, di scatto
per prenderlo
alla sprovvista, e con sguardo truce.
“Che vuoi?
Che
intenzioni hai?”
“Nessuna
intenzione. Volevo solo accompagnarti, tutto qui.”
“Tutto qui?
Tutto
qui!? Non è tutto qui, Edward. Non è
così che funziona, okay?”
“Che ho
fatto di
male?”
“Niente,
tutto.
Non fai niente di male semplicemente
perché non te ne importa un cazzo, in realtà. Fai
tutto di male perché non
ci rifletti nemmeno, non ti fermi a
pensarci. Non capisci quello che vuol dire!” urlai, portando
automaticamente
una mano alla mia pancia. “E non ti rendi conto che fa male?
Fa dannatamente
male: stare qui, di fronte a te che mi dai un passaggio, mi parli, mi
guardi…
come se cercassi perdono, una ricompensa per i tuoi sforzi. Vuoi che ti
dica
che siamo pari o roba del genere? Perché se è
questo che cerchi da me, non
sprecare nemmeno il tuo tempo, okay? Non è così!
Non l’ho fatto solo io, questo, ma se tu non lo vedi allora
lasciami abituare ad esserci dentro da sola, va bene? Te ne devi
andare,
Edward. Mi fai male. Mi fai male e devi solo andare via
perché quando sei
vicino mi sento più morta che viva, più insicura,
più fragile, più vuota, e non
posso stare così per te o per quello che fai o non fai, fa
lo stesso. Non mi
importa, basta che mi lasci stare. Se non te ne fotte un cazzo davvero,
comportati
di conseguenza e prendi una cazzo di decisione come io ho preso la mia,
ma
lascia fuori me mentre fai pace con la tua testa perché se
aspetti che sia io
ad annullare il tuo senso di colpa, puoi anche crepare in questo
momento e non
lo farei nemmeno se fosse il tuo ultimo desiderio e me lo chiedessi in
ginocchio!”
Sputai
quell’acidità che covavo nei suoi confronti da
giorni, con tutto lo sdegno di
cui ero capace e, con la stessa tenacia con cui avevo evitato di
guardarlo
negli occhi prima, ora affrontavo il suo sguardo aspettando solo il
momento in
cui avrebbe chinato il viso e ammesso che avevo ragione, ragione su
tutto, e
che lui non poteva essere altro che uno stronzo. Non mi importava di
altro se
non che lui ne avesse consapevolezza, ma non abbassò lo
sguardo nemmeno per un
secondo.
Continuò a
guardarmi, scrutando i miei occhi come se potessero confessargli molto
altro,
ma io stessa non sapevo cosa potesse esservi, nei miei occhi, in quel
momento.
Non sapevo quanto
tempo fosse passato, probabilmente solo pochi secondi, quando sentii la
porta
aprirsi e intravidi, con la coda dell’occhio, una figura in
camice bianco sulla
soglia, a poca distanza da me.
Fui costretta a
scostare lo sguardo e, ancora una volta, avevo perso una piccola
battaglia
contro di lui. Come potevo pensare di vincere la guerra quando non ero
mai
stata una guerriera?
“Bella!
Ciao!”
Salutai la
dottoressa con una stretta di mano e risposi cordialmente. Non sapevo
esattamente come comportarmi, non avevo mai avuto una ginecologa e Rose
aveva
avuto la gentile idea di prestarmi la sua. La ricordavo, infatti, dalle
diverse
volte in cui avevo accompagnato la mia amica per visite di controllo
generale.
Spostai una
ciocca di capelli dietro l’orecchio mentre osservavo,
timorosa, l’interno della
stanza dallo spiraglio creato dalla porta aperta.
“Non
preoccuparti, non è così tremendo come
sembra” mi rassicurò quando dovette
notare il mio sguardo terrorizzato alla vista di strani macchinari, ma
era
chiaro dalla sua voce che aveva capito che qualcosa non andava.
Lanciò uno
sguardo ad Edward e, per qualche motivo, capì che era lui.
“Può
entrare
anche il padre, se vuole.”
Mi scossi
velocemente. “Oh, no. Lui non… non è
il… Cioè… sì, lo
è… Ma...”. Chiusi le mani
tremanti in due pugni, presi un profondo respiro e fissai il pavimento
prima di
annuire e sussurrare: “Entro solo io.”
“Sicura?”
chiese,
facendomi strada nella stanza. Non guardai Edward nel momento in cui
annuii e
la dottoressa chiuse la porta davanti il suo viso.
“Puoi
chiamarmi
Suzenne, basta che non mi chiami Suzie, okay?” riprese con
tono allegro, per
smorzare l’aria pesante calata attorno a noi.
Sorrisi e
iniziammo a parlare in generale, di Rose, di come stesse, del motivo
per cui
non era potuta venire, di argomenti comuni fino ad arrivare
all’unico vero
motivo che mi aveva portato lì.
“Allora, di
quanto sei?”
“Otto
settimane.”
Mi sorpresi della velocità della mia risposta.
“D’accordo,
allora ho bisogno che ti spogli dalla vita in giù. Puoi
mettere il camice se
vuoi.”
“Co…
cosa? Devo
spogliarmi? Perché?”
“Devo fare
un’ecografia dall’interno.”
“Pe…
perché? Di
solito non mettete solo quel liquido freddo e passate
l’aggeggio sullo stomaco?
Non funziona così?”
Suzenne
ridacchiò
qualche secondo prima di spiegarmi che, probabilmente,
all’ottava settimana
un’ecografia esterna avrebbe mostrato poco o niente e sarebbe
stata inutile se
avessi voluto vedere il bambino.
“Sempre che
tu
voglia vederlo, ovviamente.”
E come una doccia
fredda, mi trovai a chiedermi se lo volessi davvero. Sapevo di volere
che
stesse bene e che non ci fossero problemi, ma volevo davvero vederlo?
Ero
pronta?
“Per quanto
possa
valere la mia opinione” iniziò la dottoressa,
prendendomi una mano, “non c’è
emozione più bella. E non deve essere per gli altri, ma per
te. Solo per te,
perché è dentro di te che cresce, sei tu che lo
senti dentro, lo capisci?”
“Io…
io credo di
sì…”
Non lo credevo
solo, ma era il massimo che potevo concedermi di dire ad alta voce al
momento.
“Sì, voglio vederlo” dissi, infine,
abbastanza sicura.
La dottoressa
sorrise e mi porse un camice quando fui spogliata. Mi sistemai
sull’apposita
sedia e alzai le gambe, pregando di non iniziare a tremare. Speranza
che
andarono a farsi benedire quando vidi lo strano, lungo, oggetto che
prese in
mano e che avvicinava sempre di più alla mia entrata.
Dovette sentire
il mio disagio perché mi carezzò velocemente un
ginocchio e mi rassicurò che
non avrebbe fatto male; infatti non provai assolutamente dolore, solo
uno
strano piccolo fastidio e un freddo assurdo.
Chiusi gli occhi
e li riaprii solo quando iniziai a sentire un rumore, impossibile da
confondere
con ogni altro. Era un cuore, un cuore che batteva, fortissimo.
Accelerato,
così tanto da portarmi a chiedere se fosse normale.
“È…
è…”
“È
il suo cuore,
sì.” Sorrise.
“Ed
è… normale
che sia così veloce…?”
“Normalissimo.
Sono 160 battiti al minuto ma ti assicuro che è
perfettamente nella norma.”
Sospirai di
sollievo e per diversi minuti restai stesa, sul lettino, con gli occhi
chiusi,
beandomi solo di quel suono. Per qualche motivo e contrariamente alle
possibili
previsioni, aveva un effetto più che rilassante su di me.
Sul mio corpo, sulla
mia testa. Sulla mia anima. Mi trovai ad accarezzarmi la pancia
dolcemente,
come non avevo mai davvero fatto finora.
“Apri gli
occhi,
Bella.”
Feci come
ordinatomi e, prima che potessi accorgermene, fissavo il monitor al mio
lato. E
vedevo. Tutto, ogni cosa, nitidamente. Vedevo il corpo, individuai la
testa e
mi sembrò di riuscire a distinguere anche le mani. E in quel
momento il mio
bambino divenne reale, come non lo era mai stato. In quel momento capii
che per
nulla al mondo avrei fatto qualcosa che potesse ferirlo o fargli del
male. Mi
sarei impegnata, mi sarei fatta forza e l’avrei accolto senza
paura di
dovermene pentire, senza temere di averlo in un mondo non
all’altezza di lui.
Sarei stata una
madre per lui; l’avrei protetto, nutrito, messo al mondo.
L’avrei cresciuta,
quella parte di me.
Poco importava se
saremmo stati solo io e lui. Ci saremmo salvati a vicenda.
In quel momento,
in quel secondo, tutto il resto sparì: la paura, la
solitudine, Edward, la
rabbia, la tristezza, il terrore. Tutto fu spiazzato via da una sola
lacrima
che scese, e piansi. Per mio figlio solo e per niente altro. Piansi
come può
piangere una qualsiasi madre, non importa quali siano le sue
condizioni. Una
africana del terzo mondo, una principessa, una nomade, una zingara, una
liceale. Non importa lo status o il ruolo sociale; quando diventiamo
mamme,
siamo tutte uguali.
“Tutto
bene?”
Sentii appena la
voce della dottoressa e non riuscii a rispondere prima che lo ripetesse
un paio
di volte.
“Te
l’avevo detto
che non te ne saresti pentita” disse, sedendosi alla
scrivania, mentre io
abbottonavo il pantalone. Non potei fare altro che annuire e sedermi di
fronte
a lei.
Fissammo una
seconda ecografia a un mese di tempo e mi porse la cartellina con un
paio di
foto che, sicuramente, sarebbero state causa della mia morte se fossero
rimaste
lì e Rose non le avesse viste.
Usai la scusa
della mia amica per prenderle dalle mani della dottoressa ma in cuor
mio sapevo
che le volevo, quelle foto.
Feci per
salutarla ma lei prese la mia mano e bloccò le parole che mi
morirono in gola.
“Bella, so
che
non sono affari miei e non ho idea di come siano andate le cose,
ma…”, fece una
pausa e io mi fermai a vedere la sua mano sulla mia, sicura come quella
di una
madre. “Ma se posso permettermi di darti un consiglio, cerca
di far funzionare
le cose quanto più possibile.”
Era facile per
lei dirlo. Facile per lei che non conosceva la situazione, indolore per
lei che
non doveva avere a che fare con Edward e la sua indifferenza.
Senza nemmeno
accorgermene, scossi leggermente il capo, come a darmi per sconfitta
senza
nemmeno provarci.
“Nel limite
del
possibile, Bella. Nel migliore dei modi, per il tuo bambino.
Okay?”
E qual era il
limite del possibile, o meglio, del sopportabile? In fondo poteva
andarmi
peggio, pensai colta da un leggero moto di altruismo misto ad ottimismo.
Potevo essere
violentata da un barbone, Edward poteva essere un ubriacone o un
drogato,
poteva ignorarmi deliberatamente e pretendere che non esistessi,
invece… Invece
si era almeno preoccupato di darmi un passaggio perché non
prendessi la
metropolitana. Magari avrei potuto essere meno restia e accettare quel
passo
come piccolo inizio, eppure c’era quella vocina dentro di me
che non faceva
altro che ripetermi che la domanda giusta era un’altra:
perché, perché diamine
lo aveva fatto? Perché dire una cosa e farne
un’altra? Senso
di colpa era
l’unica risposta. E anche se fosse stato solo
per quello, potevo accettarlo? Potevo fregarmene dei valori, del
bisogno di un
ragazzo che mi desse sicurezza, delle mie speranze infrante, e far leva
solo
sul suo senso di colpa per il bene del bambino? Avrebbe davvero portato
a
qualcosa o avrebbe peggiorato le cose? Se avessimo continuato su quella
strada,
a cosa saremmo arrivati? Delusione, intolleranza, civile sopportazione,
odio,
distacco definitivo?
Dal momento in
cui non riuscivo proprio a pensare a nulla di definitivo, mi destai dai
miei
lugubri pensieri e ringraziai la dottoressa con un sorriso che non
prometteva
nulla, vuoto, di circostanza.
Mi spiace, ma ora proprio
non posso.
Uscii dallo
studio con l’intenzione di ignorare Edward e con un piccolo
discorsetto pronto
nel caso in cui lui non avesse desistito, ma ogni proposito cadde
quando vidi
che lui non c’era, non c’era nessuno.
Ebbi appena il
tempo di restarci male due secondi prima che arrivasse la salvatrice
telefonata
di Rose che mi avvertiva che era a due minuti dall’ospedale.
“Sei
già lì,
vero?”
“Sì,
ho appena
finito.”
“Oddio!
Già?
Com’è andata? Tutto bene?”
“Sì,
tutto bene,
Rose. Sta bene.”
“Grande! Hai
preso le foto?”
“Sì,
le ho
prese!” la rassicurai prima di chiudere velocemente la
conversazione con un:
“Ci vediamo fuori tra poco.” Non aveva senso
continuare per telefono dal
momento in cui mi avrebbe rifatto le stesse identiche domande anche a
voce.
Uscii
dall’ospedale e mi fermai ad aspettare Rose sotto il portico
dal momento in cui
aveva iniziato a piovere di nuovo, anche se molto leggermente. Avrei
quasi
camminato fino a casa così, sotto la pioggia, se non avessi
avuto paura di
prendermi qualcosa e non potevo permettermelo.
Quante cose non
potevo più fare, quante piccole cose devi reprimere per il
bene di qualcun
altro. Ma se è per il bene di qualcuno che amiamo non
dovremmo provare rabbia o
rancore per quella costrizione, giusto? È così
che funziona l’amore, no?
Compromessi, sacrifici, fatti con il cuore. E allora perché
io non riuscivo a
sentirlo? Perché non riuscivo a reprimere quel senso di
rabbia che continuavo a
provare? La parte peggiore era che non sapevo se ce l’avessi
con Edward per
avermi messo e lasciata sola in questa situazione o con il mio bambino.
Perché
era lui che era lì, a ricordarmi di non bere troppo
caffè, di non camminare
sotto la pioggia, di non ammalarmi, di non stancarmi troppo, di non
prendere
una metropolitana, di fare il possibile perché le cose
funzionassero con una
persona con la quale non volevo avere nulla a che fare, di non fare
questo e
quello. Non sapevo se avrei resistito altri sette mesi con un peso del
genere
che prometteva di diventare solo più pesante e non
alleggerirsi mai.
Una goccia cadde
da un piccolo cumulo raggruppato in un punto del soffitto, sopra la mia
testa,
e mi colpì la guancia in pieno; probabilmente un segno di
una qualche divinità
per ridestarmi da quei pensieri di merda.
Che cazzo stavo
pensando? Avevo una vita dentro di me e la mia paura era quella che mi
privasse
delle libertà più banali? Poteva essere vero,
quasi sicuramente lo era, ma non
sarebbe mai stato un motivo valido per dubitare delle mie scelte. Mai.
“Allora?”
Una sola parola
ma capii chi fosse anche prima di voltarmi. Edward era lì,
accanto a me, al
riparo, con una sigaretta in mano. La gettò appena vide il
mio sguardo
piombarci addosso.
È
già qualcosa.
“Che ci fai
ancora qui? Pensavo fossi andato via.”
“Ci mettevi
una
vita, sono uscito a fumare.”
Non potei fare a
meno di notare che la sigaretta appena gettata era appena
all’inizio e inevitabilmente
mi chiesi quante ne avesse fumate e se significasse qualcosa. Non
potevo
conoscerlo abbastanza da sapere se fumava tanto quando era nervoso o se
era il
tipo che, a prescindere da ogni cosa, finiva un pacchetto al giorno; e
non
potevo chiederglielo.
Non risposi e
tornai a guardare il parcheggio in attesa di vedere comparire Rose
nella sua
macchinina rossa.
Lo sentii schiarirsi
la gola un paio di volte prima di capire che non avrei preso iniziativa
nemmeno
morta.
“Allora?”
disse,
infine, fingendo indifferenza. O almeno credevo che fingesse. Ma per
quale
motivo avrebbe dovuto fingere se davvero non gliene importava? Ah
sì, il senso
di colpa. Sempre quello.
“Allora cosa?”
“Allora
com’è
andata?”
“È
andata, che ti
interessa di come?”
Alzò gli
occhi al
cielo e serrò la mascella iniziando ad annuire in modo
deciso; chissà, magari
aveva capito che ci voleva più di quello per dimostrarmi che
ci teneva, almeno
minimamente.
“Perché
non vuoi
dirmelo?”
“Perché
vuoi
saperlo?”
Si bloccò e
capii
che non l’avrebbe mai detto.
Perché sono il
padre, perché è mio figlio.
Perché è anche mio.
Non lo avrebbe
mai detto.
Lo sapevo.
Aspettai. Non lo disse.
“Posso
almeno
sapere se va tutto bene?”
Avrei voluto
continuare a fare la sostenuta perché se iniziavo a crollare
sulle domande,
presto sarei crollata sulle richieste e avrei finito per accettare
tutto
passivamente, ma non riuscii a non rispondergli.
Un passo alla
volta, magari. Nel limite del possibile, mi ripetei, ripensando alle
parole
della dottoressa.
“Sì,
va tutto
bene.”
Mi sembrò
di
vederlo tirare un impercettibile sospiro di sollievo ma non lo diede a
vedere.
“Quelle sono
le
foto?”
Annuii prima di
rispondere un sì convinto e sicuro di sé, e potei
sentirla. La domanda che
nasceva sulle sue labbra – posso vederle?
– e che magari avrebbe fatto se la voce di Rose non fosse
arrivata forte e
chiara da dietro di me. “Che ci fa lui qui?”
Mi voltai e
incontrai il suo sguardo confuso.
“Niente, mi
ha
dato un passaggio all’andata.”
“Ah, e
perché?”
“Perché
sì”
rispose Edward.
“Che cazzo
di
risposta è, idiota?”
“Bella,
posso
parlarti?”
Avevamo avuto
tempo per parlare. Tempo in macchina, tempo ora. Non mi ci volle molto
a capire
che in realtà non avrebbe nemmeno avuto nulla da dirmi ma
cercava solo di strapparmi
via a Rose.
“No! Bella
non ha
bisogno di parlarti. Sai di cosa ha bisogno? Che tu sparisca dalla sua
vita o
che ti prenda le tue cazzo di responsabilità come ogni
persona con un minimo di
cuore e coscienza farebbe!”
Non avrei
accettato, anche se non fosse stata Rose a rispondere per me. Non che
non mi
facesse piacere il senso di protezione che dimostrava nei miei
confronti e
quello di odio puro nei confronti di Edward ma, magari poteva capire
che
riuscivo a cavarmela da sola e che, soprattutto data la mia nuova
condizione,
avrei dovuto imparare ad uscirmene dalle situazioni da sola.
“Rose,
è tutto
okay.”
Edward non le
rispose e io potei tornare a fissare il mio sguardo su uno solo dei due.
Lo vidi, quasi
stranamente in pena, che aspettava una mia risposta alla sua mancata
domanda.
“Posso
vederle?”
disse sottovoce, indicando la cartellina con le foto.
E per un secondo,
lo immaginai. Immaginai che gli rispondessi di sì, che
vedesse le foto, che si
commuovesse, che le sfiorasse appena per paura di rovinarle, che mi
prendesse
in braccio, mi accarezzasse la pancia e mi dicesse che sarebbe andato
tutto
bene e che ero bellissima.
Immaginai quello
che più mi faceva male, così da poter prenderne
le distanze ed impedire che mi
buttasse giù davvero.
Scossi
semplicemente il capo. “No, Edward. Mi dispiace, non
puoi.”
Indietreggiai
verso Rose, continuando a guardare il suo viso privo di emozioni
– o pieno di
sentimenti incomprensibili −, prima di voltarmi e camminare
via, lontano da
lui, senza sapere nulla.
Cosa ne sarebbe
stato di quel poco di noi che c’era, quando lo avrei rivisto,
se mi stava
guardando in quel momento.
Sapevo solo che
l’avevo
lasciato solo, come me.
Siria Newton di
qua.
Siria Newton di
là.
Siria sopra,
Newton sotto.
A destra, a
sinistra, in basso, in alto, in un angolo invisibile, in un riquadro
minuscolo.
Dovunque fosse il
suo nome, ne avevo praticamente la nausea ed erano passate solo due
ore. Finita
la mia mansione da Cenerentola, mi ero recata da lei, curiosa di sapere
cosa
avrebbe pensato di farmi fare ora che il lavoro sporco – in
tutti i sensi – era
finalmente finito.
L’avevo
guardata
con aria compiaciuta e le avevo detto: “Ho fatto.”,
voglio
proprio vedere cosa hai in serbo per me ora.
Non l’avessi
mai
pensato. Quella grande figlia di buona donna era riuscita ad
incastrarmi ancora
una volta in uno dei suoi propositi di mandarmi al manicomio
– o, forse, di
mandarmi semplicemente fuori di lì e fare in modo che ne
avessi le palle piene
– ed aveva architettato uno dei modi peggiori per farlo:
falsa modestia ed
egocentrismo a non finire.
Il compito del
giorno consisteva, in pratica, nel rileggere le centinaia di riviste
presenti
in magazzino e catalogarle al computer, specificando magazine,
articolo, pagina
e rigo in cui compariva il suo nome. Sarebbe stato questione di poco
tempo, se
non avesse preteso che mi occupassi non solo delle interviste mirate ma
di ogni
piccola, minuscola e insignificante menzione che era stata fatta del
suo nome
in più di venti anni di lavoro.
Pensai che per
quanto potesse essere una persona odiosa e priva di umanità,
era anche grazie a
quelle che io definivo insignificanti
menzioni che
era arrivata dov’era; eppure non riuscivo a togliermi dalla
testa l’idea che avrei preferito vivere diversamente, magari
anche con meno agi
e minor fama, piuttosto che diventare come lei.
Alle 11:15
lasciai il lavoro, nemmeno a metà, per uscire
dall’edificio, entrare nello
Starbucks proprio di fronte e comprarle il solito caffè che
pretendeva a metà
mattinata.
“Due
mocaccini”,
guardai le monete nella mia mano e, sospirando, mi chiesi se sarei mai
stata
rimborsata di quelle uscite ingiuste.
“Uno anche a
me.”
Mi immobilizzai
quando riconobbi all’istante la voce alle mie spalle; fui
tentata di girarmi
appositamente per appurare il fatto che non poteva essere. Non potevo
trovarmelo dietro, in uno degli innumerevoli Starbucks di Los Angeles,
ad
ordinare la mia stessa cosa.
Non poteva essere, mi ripetei nello stesso
momento in cui
dovetti ricredermi, trovandomelo di faccia.
“Bella…”
sussurrò, strabuzzando gli occhi.
“Edward.”
Semplice e diretta. Pagai e mi spostai verso il ripiano laterale, in
attesa dei
miei caffè.
Ovviamente le
speranze che fossero pronti prima che mi raggiungesse erano
pressoché inesistenti,
difatti lo vidi avvicinarsi pochi secondi dopo. Presi a tamburellare
con le
dita sul ripiano di legno, facendo finta di nulla, in un disperato
tentativo di
evitarlo e ammazzare il tempo nel frattempo.
“Come
stai?”
Scrollai le
spalle, indifferente. “Bene, normale. Come ieri sera. Sai, in
quindici ore non
succede poi molto.”
Infatti erano
bastati meno di quindici minuti a cambiarmi la vita ma,
vabbè, dettagli.
“Bene. Per
il
resto?”
E a
quell’affermazione non potei fare a meno di squadrarlo
accigliata.
“Quale resto? C’è un resto di cui parlare? Di che resto
vorresti sapere se non sai nemmeno delle basi?”
Dire che lo avevo
eliminato come un giocatore nel baseball sarebbe stato riduttivo, non a
caso
restammo in un silenzio imbarazzante finché non furono
pronti i nostri caffè.
“Le vecchie
abitudini sono dure a morire, vedo” affermò,
facendo riferimento alla mia
dipendenza dalla caffeina.
“Non solo le
mie,
vedo” ribattei, indicando con un cenno del capo la sigaretta
ancora spenta tra
le sue dita.
“È
un po’
diverso, non trovi?”
Sì, Edward.
È completamente diverso. E per quanto avrei voluto
dirgli che non
sapevo di cosa parlasse pur di cavare dalla sua bocca qualche parola
che gli
facesse prendere coscienza della situazione, per quanto avessi voluto
che lui
mi dicesse ‘è
diverso perché tu sei
incinta’,
non avevo né il tempo né la forza, non in quel
momento almeno.
“Senti,
starei
volentieri a parlare con te ma non posso. Non so per quale motivo ti
trovi qui,
se mi segui o mi stalkeri per parlarmi e chiedermi come sto giusto per
alleviare il tuo senso di colpa, ma si dia il caso che io lavoro e se
non torno
in tempo mi spaccano il culo.”
Parlai senza
fermarmi, attraversando i piccoli giardinetti che separavano la strada
dall’edificio che era il mio inferno. Era ancora accanto a me
e teneva il mio
passo senza difficoltà, ovviamente.
“Tu lavori
qui?”
“Come se non
lo
sapessi…” bofonchiai tra me e me, sempre
più convinta della mia teoria.
“Giuro che
non lo
sapevo. Di cosa ti occupi?”
“Edward, sai
cos’è peggio di avere una conversazione con
te?”
“Cosa?”
“Avere una
conversazione con te quando non è il momento
adatto.”
Lui accennò
una
risata; ovviamente non aveva colto per nulla la severità
della mia
affermazione. Non si trattava solo del mio essere di fretta, di pessimo
umore,
stanca, delusa. Non ci sarebbe mai stato un momento adatto con lui. E
mi faceva
ancora stare male.
Non avevo idea di
come avesse fatto a scoprire dove lavoravo ma ero sicura che
l’avesse fatto di
proposito e, pensandoci bene, non sarebbe stato per nulla inaspettato
da una
persona superficiale come lui: continuare a chiedere, interessarsi,
quel poco
che bastava per avere la coscienza pulita, almeno secondo i suoi schemi
mentali.
Ne ebbi la
conferma quando, un secondo prima che entrassi dalle grandi porte
scorrevoli,
mi chiese il mio numero di telefono.
Ebbi solo la
forza di incenerirlo con gli occhi prima di voltargli le spalle
definitivamente, eppure mi parve di sentire qualcosa simile a un ‘Allora
aspetterò qui…’, ma non potevo
metterci la mano sul fuoco, soprattutto considerando il soggetto.
Posai il
caffè
sulla scrivania di Siria – troppo impegnata per degnarmi di
uno sguardo o di un
grazie, come al solito – e
tornai al
mio lavoro, se così poteva
definirsi.
Non potevo negare
che lo trovavo umiliante: avere una laurea con ottimi voti e passare
mattinate
intere a pulire sgabuzzini, riordinare progetti e catalogare citazioni.
Per
quanto fosse retribuito, sentivo di non fare nulla di ciò
che avrei voluto
fare, nulla che una donna delle pulizie non avrebbe potuto fare. E per
quanto
mi convincessi che era normale partire dall’ultimo gradino
della scala prima di
iniziare a salire, per quanto mi aggrappassi all’esigenza che
avevo della
retribuzione di quel misero lavoro, mi sentivo umiliata in ogni caso.
Forse era
questo il segreto dietro la fredda genialità di Siria. Il
suo peggior difetto
doveva anche essere la sua arma migliore e la mancanza di
umanità aveva
sicuramente facilitato la scalata verso il successo.
Ad ogni modo, ero
decisa a non mollare e non perché non volessi effettivamente
farlo e nemmeno
perché avevo economicamente bisogno di soldi, ma
perché sapevo che era la cosa
che lei avrebbe voluto di più al mondo; sapevo che stava
facendo di tutto per
portarmici, all’esasperazione, e non avevo nessuna intenzione
di darle tale
soddisfazione.
A ora di pranzo,
quando sarei dovuta andare via e approfittare del mio unico e intero
pomeriggio
libero nella settimana, non avevo ancora finito e decisi che non sarei
andata
via senza aver terminato. Tuttavia, comprai un panino e mi concessi una
mezz’ora di pausa per mangiare qualcosa, seduta a una
panchina del giardinetto,
di fronte la fontana che era stata testimone del mio shampoo pubblico
un paio
di settimane prima.
Non feci in tempo
a scartare il panino al prosciutto che mi trovai un cane, un Border
Collie
bianco e nero, appostato di fronte a me, con lo sguardo implorante e
una zampa
che faceva su e giù, come a chiedermi un po’ di
pietà.
“Che
c’è,
cucciolo? Il tuo padrone non ti fa mangiare?”, notai che non
aveva collare né
targhetta e condivisi con lui il culo
del mio panino, finché non si voltò, attento al
richiamo del suo nome.
“Sammie!”
gridò
qualcuno e il mio sorriso svanì.
Non.poteva.essere.
Dannazione!
“Tu.”
“Oh, ciao!
Ancora
qui?”
“Ci lavoro,
te
l’ho detto.”
“Non
avendomi
detto di cosa ti occupi potevo anche supporre che tu fossi andata via o
che non
avessi pausa pranzo. In fondo, non so nulla di te, no?”
Ma cos’era
quello? Uno strano tentativo di rigirare la frittata?
“Tu cosa ci
fai
qui?”
“Te
l’ho detto
che avrei aspettato.”
Allora non lo
avevo immaginato. Non sapendo cosa rispondere, optai per la tecnica
della
confusione.
“E
quindi?”
Mi guardò
stralunato.
“Quindi cosa?”
“Ah, non lo
so.”
“Eh?”
“No,
niente.”
Tornai a fissare
il mio panino ma d’improvviso non avevo più molta
fame.
“Ti ha
infastidito per caso?”
“Chi?”,
alzai il
viso verso di lui che indicò il cane. “Ah. No. Gli
ho dato un po’ di pane.”
“Le. È
femmina.”
“È
tua?” chiesi,
colta alla sprovvista.
Annuì.
“Perché
così sorpresa?”
“Non ti
facevo
tipo da animali, tutto qui.”
“Considerando
che
mi sono appena laureato in veterinaria, direi che anche tu non conosci
il mio resto.”
Probabilmente, se
avesse potuto, la mia mascella sarebbe caduta fino al suolo e oltre.
Veterinaria? Mi
prendeva per il culo o cosa?
“Che hai
ora?”
Scossi il capo.
“N.. niente…” risposi vaga mentre,
invece, la mia mente sentiva che qualcosa
non tornava; era tutto troppo strano.
Eppure per i
dieci minuti successivi non potei fare a meno di osservarlo giocare con
il suo
cane, parlargli, accarezzarlo e l’unica cosa che riuscivo a
chiedermi era come
fosse possibile che fossero la stessa persona.
L’amante
degli
animali e il ragazzo senza scrupoli che mi aveva proposto
l’aborto, senza
prendersi alcuna responsabilità.
Come poteva,
qualcuno che amava gli animali, non amare anche gli umani?
Sapevo che avrei
perso ore su quel ragionamento, probabilmente non ci avrei dormito la
notte
finché non me ne sarei fatta una ragione.
Quando Sammie si
acquietò sullo strato d’erba più
vicino, Edward venne a sedersi accanto a me.
Istantaneamente presi a torturarmi le mani e sentii il bisogno di un
altro
caffè. Quasi come se mi leggesse nel pensiero, lo vidi
sfilare il pacchetto di
sigarette dalla tasca e rimetterlo a posto un secondo dopo. Non lo
dissi ma
apprezzai davvero quel minimo sforzo.
“Dicevo
davvero
prima, riguardo il numero di telefono.”
“Perché?”,
mi
venne spontaneo chiederlo.
“Perché…
vorrei
sapere come stai, ogni tanto. Se hai bisogno di
soldi…”
Per un millesimo
di secondo avevo creduto e sperato che potesse fermarsi alla parola bisogno, bisogno di qualcosa.
Sì, ho
bisogno di tutto, tranne che di soldi. Oddio, forse, sicuramente, anche
di quelli
ma… no.
“No,
Edward.”
La mia voce era
ormai una linea sottile che avevo l’impressione di essere la
sola a vedere o
sentire.
“No… cosa?”
“No, non ho
bisogno di soldi” mentii. “No, non voglio
sentirti”, mezza verità. “No, non ti
do il mio numero.” Verità.
E con quella
verità sbattutagli in faccia, mi alzai senza aspettare una
sua risposta e mi
allontanai da lui. Gettai il resto del panino nel primo cestino,
repressi le
lacrime, mi nascosi dietro un albero e mi lasciai scivolare lentamente,
fino a
piegarmi su me stessa e stringermi la pancia.
Non so per quanti
minuti restai lì, a piangere silenziosamente. Quando mi
alzai, avevo le gambe
intorpidite e, senza nemmeno accorgermene, chiesi un flebile scusa, carezzandomi la pancia.
Bastò
quel lapsus freudiano a farmi sorridere di nuovo, anche se brevemente.
Un
piccolo flash nel buio dell’incertezza che era la mia vita.
Non potevo non
pensare a ciò che ne sarebbe stato di me e del mio futuro.
Sarei stata una
madre, okay, ma che altro? Cosa altro sarei diventata? Quale sarebbe
stato
l’aggettivo accanto al sostantivo? Fallita? Deludente?
Promettente?
E cosa avrei
fatto quando Siria avrebbe scoperto della gravidanza? Mi avrebbe
buttata via a
calci in culo? Allora mi sarei trovata di nuovo senza lavoro. Non
l’avevo detto
nemmeno ai miei genitori ma prima o poi si sarebbe iniziato a vedere e
sarebbe
stato peggio.
Tanti punti
interrogativi aleggiavano sulla mia testa e non mi abbandonarono per le
ore
successive, rallentando di molto il mio lavoro. Impiegai altre quattro
ore per
qualcosa che poteva essere fatto in due ore scarse e, quando uscii, mi
ero già
rassegnata ad aver detto praticamente addio al mio pomeriggio libero.
Erano già
le sei di sera e mi restavano due ore per continuare a deprimermi o
cercare di
prendere in mano la mia vita.
Scelta alquanto
facile se sei brava in una delle due cose e non sai da dove iniziare
nell’altra.
Decisi, quanto
meno, di non tornare a casa e passeggiare un po’. E mentre
vedevo bambini
tenere per mano le loro madri, negozi per neonati e passeggini ovunque,
non
riuscii a calmarmi minimamente e dovetti letteralmente spostare lo
sguardo a
sinistra per evitare le vetrine dei negozi.
Contai i barboni
che passavo. Uno, quattro, nove; ai piedi della strada, contro un palo,
su una
coperta, appoggiati a una cassetta delle lettere, abbracciati a un
cane, e mi
chiesi quale dovesse essere la loro storia. Come si arriva a quel punto
nella
vita? Cos’è che va così male da farti
finire in mezzo a una strada, senza un
tetto, senza una famiglia, senza nessuno che si prenda cura di te, che
ti
chieda come stai.
Come ci si sente
quando non hai nemmeno la possibilità di avere un futuro
migliore, quando
guardi avanti e tutto quello che vedi è un marciapiede
grigio, un gamba
amputata, un barattolino di latta con pochi spiccioli dentro. Cielo
nero.
Come si combatte
il freddo quando non hai calore? Come passa il tempo quando sei solo?
Come si
vince la morte quando non vale la pena di vivere?
Improvvisamente
anche quel minimo interesse di Edward nei miei confronti
iniziò a sembrare già
tanto e per qualche secondo mi pentii di non avergli dato il mio numero.
D’un tratto
non
provai più oppressione, disagio, smarrimento. Sapevo che, in
un modo o
nell’altro, ne sarei uscita. E se lo avessi fatto da sola,
sarebbe stato solo
per scelta.
Come deve sentirsi
chi non ha nemmeno quella?
Spinta da non so
quale istinto, entrai nel primo negozio di abbigliamento per neonati e
comprai
un paio di calzini. Verdi, così da essere neutrali e darmi
quel minimo di
speranza di cui avevo bisogno per non crollare.
Rientrai in casa
alle otto passate, credendo di trovare Rose che, invece, non era in
casa. Mi
soffermai ad osservare il mio unico acquisto per qualche secondo prima
di
sentire la porta di casa aprirsi e chiudersi. Ancora con il giubbino
addosso,
uscii dalla cucina e incontrai Rose.
“Scusa, ho
fatto
tardi. Ma ho portato il pollo fritto. Ti va?”
Annuii decisa e,
per un motivo ancora sconosciuto, misi velocemente da parte i minuscoli
calzini
verdi.
Iniziai a
raccontare a Rose la mia giornata, compreso Edward.
“Non puoi
capire.
Uno stronzo davvero. Come se avessi solo bisogno di soldi. Ma come
cazzo fa a
prendere sonno la notte? Ha avuto anche il coraggio di chiedermi il mio
numero
di cellulare, come se non lo sapessi che sarebbe solo per sentirsi meno
in
colpa. Stronzo!”
Addentai
un’altra
coscia di pollo prima di vedere Rose rigida, di fronte a me.
“Che
succede?”
Si schiarì
la
voce. “Devo dirti una cosa” proseguì
calma.
“Dimmi.”
“Ecco,
sì, tu
conosci Emmett, no?”
“Non
personalmente, visto che qualcuno ancora non si decide a rendere
ufficiali le
cose, ma sì.”
“Già,
e ti avevo
detto che vive con un amico che però non ho mai conosciuto
perché lui fa sempre
in modo da lasciarci l’appartamento libero.”
“Non oso
immaginare perché ma sì, mi avevi detto anche
questo.”
“Okay. Oggi
ho
conosciuto l’amico.”
“Oh,
davvero? E
com’è?”
Mi bastò
distogliere l’attenzione dal mio pollo un secondo per
guardare Rose e capire.
“No, mi
prendi
per il culo!”
Scosse il capo,
stringendo le sopracciglia.
“Dio mio,
è una
persecuzione quel ragazzo! Non gli basta mettermi incinta; deve anche
prendere
il mio stesso caffè nello stesso posto in cui lo prendo io,
portare il cane nel
parco dove mangio e abitare con il ragazzo della mia migliore amica.
Altro?
Magari vuole andare a vivere dai miei? Se scopro che è mio
fratello adottivo, posso
anche buttarmi dal balcone!”
Mi sfogai,
inevitabilmente.
“C’è
di peggio.”
“Peggio? Oh,
scusa un secondo”, mi pulii le mani quando sentii il
cellulare squillare per un
messaggio. Doveva essere uno dei soliti sms da controllo generale di
mio padre,
proprio tipico di un poliziotto.
Mi preparai a
sorbirmi un quarto grado telefonico e invece.
Scusa,
non
accettavo un no come risposta.
Non mi ci volle
molto per fare due più due.
“Non ci
credo,
non posso crederci! Come ha fatto! Chi cazzo gli ha dato il mio numero?
Chi…?”,
smisi di sbraitare quando la risposta si spianò sotto i miei
occhi o, per
meglio dire, dietro lo sguardo colpevole della mia amica.
“Dimmi che
non
l’hai fatto, Rose. Dimmi che non l’hai
fatto.”
“Non
l’ho fatto.
Non ho preso la tua macchina fotografica, so quanto ci tieni!”
“Rose, gli
hai
dato il mio numero?”
“Co…
cosa?”
“Hai dato il
mio
numero a Edward Cullen?”
“Ah, quello?
Penso di… sì…?”
“Puoi essere
più
sicura!?”
Sospirò.
“Sì.
Okay. Sì, gliel’ho dato! E allora?”
“E allora?
Ma come
e allora? Che fine ha fatto il tuo ‘Bella ha bisogno
che tu sparisca dalla sua
vita e bla bla bla’?”
“Si
può sempre
cambiare idea, no?”
“No!”
“E invece
sì,
Bella. Credimi, non l’avrei detto nemmeno io. Quando
è entrato, ho iniziato a
sbraitare in tutte le lingue del mondo. Ho dovuto spiegare la
situazione ad
Emmett che non aveva idea che l’Isabella di Edward fosse la
stessa Bella mia.
Ha dovuto calmarmi e abbiamo dovuto parlare onde evitare di spaccare in
testa
ad Edward ogni oggetto contundente presente in casa.”
“E
quindi?”
“E quindi
niente.
Abbiamo parlato un po’ e, non lo so, mi è sembrato
sincero quando diceva di
rispettare la tua scelta e voler controllare ogni tanto e…
Oh, non ho saputo
dire di no, okay? È sempre il padre di tuo figlio, Bella, e
che tu lo voglia o
no, ti conviene prendere in considerazione questi minimi passi avanti
per il
suo bene, d’accordo? Lui si sta sforzando, magari non con le
migliori delle
intenzioni ma è sempre uno sforzo. Accetta questo per ora. E
magari il resto
verrà da sé.”
Ed eccolo che
tornava, il solito resto di cui nessuno sapeva nulla.
Sospirai
pesantemente riflettendo sulle parole della mia amica.
“Sono ancora
viva?” disse sommessamente.
“Sì,
sei ancora
viva”, alzai gli occhi al cielo prima di sentire il cellulare
vibrare e
squillare di nuovo tra le mie mani.
Immaginavo
non
avresti risposto, ci vediamo domani.
“Rose”
iniziai
piano. “Che succede domani?”
“Che vuoi
dire?”
rispose lei, evasiva.
“Perché
Edward mi
scrive che ci vediamo domani?”
“Ah,
quello…”
“Sì,
quello. Che
succede domani?”
“Beh, io
potrei,
forse, averli…invitati a cena.”
Strabuzzai gli
occhi, incredula, mentre lei continuava a mangiare indisturbata, come
se nulla
fosse.
Strinsi i pugni
sul tavolo e mi concessi un profondo respiro prima di rispondere.
“Oh, e sai
questo
che vuol dire?”
“Che…
laverò i
piatti per la prossima settimana?”
“Quello, e che da
oggi inizi a scavarti la tomba!” furono le ultime parole
prima che le mie urla
prendessero a rimbombare per tutta la casa.
Un enorme grazie a
chi legge ancora e aspetta pazientemente i miei lunghi tempi.
Chiedo ancora scusa ç_ç
Alla prossima!
Fio xx
|
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Capitolo 6 *** I need to know ***
*previously on A drop in the ocean*
Bella
ha 24 anni, si è appena laureata all'università
della California con indirizzo artistico e non sa cosa fare della sua
vita. Vive con Rose che, una sera, la trascina alla festa dell'ultimo
anno dove Bellina vede Jacob, ex-ragazzo stronzo e puttaniere, con
una delle sue troiette. Spinta dall'alcol e dal desiderio di vendetta
si butta tra le braccia di Edward, con cui aveva avuto uno scontro
davanti la 'caffetteria' del campus. I due, ubriachi, passano la notte
insieme ma Bella chiarisce subito, la mattina dopo, che lei non
è quel tipo di ragazza e che con lui non vuole avere niente
a che fare. Le cose sembrano mettersi meglio quando le viene offerto un
lavoro alla Siria Newton design. Il capo è una specie di
Crudelia Demon ma meglio di niente. Eppure qualcosa incombe dietro
l'angolo, e la nostra Bella lo scoprirà con un *rullo di
tamburi* test di gravidanza. Ebbene sì. E' incinta di Edward
ed è praticamente fottuta. Soprattutto perchè
lui, senza molti giri di parole, le dice chiaramente che non ne vuole
sapere. Bella decide di tenere il bambino anche senza il suo aiuto,
eppure Edward sembra un tipo un pò contorto (e lo
sarà sempre visto che quasi tutta la storia sarà
dal punto di vista di Bella muhauhauha). Non ne vuole sapere nulla
eppure continua a cercarla, probabilmente per alleviare il suo senso di
colpa generato dall'estremo menefreghismo. Dopo un paio di scambi non
troppo allegri, la incontra al parco e le chiede il numero di telefono
che, tuttavia, lei gli nega. Caso volle che Edward è anche il
migliore amico di Emmett, ragazzo di Rose che, però, Bella
non ha ancora conosciuto. Spinta da un moto di compassione e sperando
di poter aiutare l'amica, Rose conosce Edward un pomeriggio a casa di
Emmett e costui ottiene non solo il numero della gravida infelice, ma
anche un bell'invito a cena. Cosa succederà?
Ecco, insomma.
Pensavo che un mini-riassunto dovesse essere d'obbligo .___.
Mi dileguo, che è meglio...
Music: I need to know - Kris Allen
Capitolo 6
I need to know
- Era passata
già un’ora da quando avevo preso quella dannata
aspirina, ma doveva accidentalmente essersi dimenticata di fare
effetto, la
bastarda. Il mal di testa che mi tediava dal pomeriggio non aveva fatto
che
aumentare e l’idea della serata che mi aspettava non aiutava
per nulla. Come se
non bastasse, da mezz’ora fissavo i vestiti sul mio letto,
incapace di prendere
una decisione.
- È
solo un vestito, Bella, mi ripetei per l’ennesima volta
eppure
c’era una parte di me che non poteva fare a meno di pensare
che anche un
semplice vestito potesse incidere su quello che Edward avrebbe pensato.
Perché
ancora mi importasse, restava un mistero anche per me. Avrei dovuto
semplicemente lasciare andare, no? Prima l’avrei fatto e
meglio sarebbe stato,
per tutti. O forse no. D’un tratto non ne ero più
tanto convinta, e
il fatto che ancora non avessi deciso cosa
mettere ne era la conferma.
- “Bella,
sei pronta?”
- Sentii la porta
aprirsi e Rose bloccò il passo immediatamente
quando mi vide col capo chino sulla mia fonte di eterna indecisione.
- “Che
diavolo ci fai ancora così!?”, esclamo puntando il
mio
intimo. “Guarda che saranno qui a momenti!”
- “Non
so cosa mettere…”, ammisi, afflitta, e con una
voce che
sembrava implorare morte.
- Non la vidi, ma
sapevo che Rose aveva alzato gli occhi al cielo
prima di affiancarmi. “Che abbiamo qui?”
- Iniziò
ad ispezionare le diverse possibilità, ben disposte sul
letto. Dovevo dire, e dovette dire, che ogni opzione era buona, ognuna
metteva in
risalto le mie gambe e, scioccamente, la mia pancia.
- C’era
un vestitino che stringeva in vita per poi scendere,
leggermente più largo, fin sopra le ginocchia. Un paio di
shorts di jeans con
una semplice maglietta aderente, una gonnellina nera abbinata a un top
bianco,
e una salopette che non avevo idea di possedere.
- Non sapevo
nemmeno perché avessi scelto quel tipo di abbigliamento
dato che la mia pancia era ancora totalmente inesistente. Cosa credevo
di
ottenere? Che lui si svegliasse da un secondo all’altro e
realizzasse che
quello strato di pelle non sarebbe stato sempre così piatto?
Speravo che lo
immaginasse rotondo e ben tirato e che aprisse gli occhi?
Sì, forse lo speravo.
Speravo l’impossibile, perché lui gli occhi li
teneva aperti eccome; e con quegli
stessi occhi aveva guardato i miei e aveva detto di non volerne sapere.
- E allora
perché questa cazzo di cena?, continuavo a chiedermi.
Perché rendere tutto ancora più difficile? Rose
aveva detto di dargli una
possibilità, di dare una possibilità a me stessa
e al bambino, ma lei non lo
conosceva come lo avevo conosciuto io. Lei vedeva solo quello che
avrebbe
voluto che lui fosse per me. Lei vedeva una luce in fondo a un tunnel
che, per
me, era vicolo cieco. Chiuso. Buio. Impossibile da scavalcare.
- Okay, forse ero
leggermente pessimista ma preferivo di gran lunga
fasciarmi la testa prima di rompermela, contrariamente a come si suol
dire.
- “Bella!
Bella! Mi senti? Oh!”
- “Sì,
scusami. Che… che dicevi?”, scossi un
po’ il capo.
- “Dicevo…
che vanno tutti
bene, qual è il problema?”
- “Non
lo so”, sospirai reggendomi la testa tra le mani.
- “Hey…
tutto bene? Ti senti male? È successo qualcosa?”
- “No,
no”, risposi subito. “Sono solo un po’
stanca, tutto qui.”
- “Oh…”,
sillabò. “Mi dispiace, Bella. Forse…
forse non avrei
dovuto…”
- “Cosa?
No, ma che dici!”, esclamai sotto suggerimento
dell’angelo
sulla mia spalla e cercando di ignorare il diavolo che invece premeva
per
urlarle contro che infatti avrebbe
fatto meglio a stare zitta e farsi i fatti suoi. Riuscii a calmarmi e
serrai la
mascella qualche secondo per sfogare il nervosismo.
- “Io
volevo solo…”
- “Lo so
che volevi, Rose. Tranquilla”, la rassicurai, stavolta
sincera. Non avevo motivo di prendermela con lei. Era la mia migliore
amica e
non avevo dubbi che qualsiasi cosa facesse fosse dettata solo in
considerazione
del mio bene, soprattutto ora. Certo, avrebbe potuto parlarmene,
avrebbe potuto
chiedere la mia opinione prima di organizzare tutto a mia insaputa, ma
sapevo
anche che sarebbe stata così testarda da non accettare un no
come risposta. Avrei
dovuto essere categorica ed era impossibile esserlo con lei, almeno per
me. Da
un lato, in fondo, era meglio così. Se aveva bisogno di
questa sceneggiata per
capire come Edward fosse davvero, l’avrebbe avuta.
- “Beh,
comunque…”, iniziò con tono rammaricato
per poi cambiare
repentinamente. “Che ci fa il pigiama qui in
mezzo!?” continuò, interdetta.
- “Ah!”
lo afferrai in due secondi fingendo di indossarlo. “Era tra
le opzioni, la più quotata in realtà.”
- Mi beccai
un’alzata di sopracciglia. “E quella?”,
disse ancora, indicando
la chiave della camera che era in mezzo al letto.
- “Quella
va con questo. E’ un completo in effetti. Io metto il
pigiama, prendo la chiave, la giro nella serratura e mi chiudo dentro.
Ancora
non so se poi buttarla giù o meno. Se dovesse venirmi un
attacco di sete o di
fame improvvisa potrei non resistere e uscire. Oh! Magari potrei
portarmi un
po’ di schifezze e una bottiglia d’acqua di qua. Ti
spiace se prendo il lettore
dvd dal salotto?”, cercai di sdrammatizzare, eppure,
nonostante fosse ovvio che
scherzassi, Rose mi riservò un’occhiataccia
preoccupata e la tranquillizzai
subito, onde evitare che si sentisse in colpa più di quanto
non facesse già.
L’avevo assolta da ogni eventuale colpa, aveva detto che era
tutto okay, ma
sapevo che dentro di sé ancora pensava che se lei non mi
avesse trascinata a
quella festa non mi sarei trovata in questa situazione.
- Ma doveva capire
anche lei che i suoi sensi di colpa non
alleggerivano il mio stato d’animo. E in vita mia non avevo
mai creduto ai se. La gente li
butta in mezzo solo
quando le cose non vanno come ci si aspetta e si ha bisogno di qualcuno
a cui
dare la colpa.
- Se questo, se
quello. Se non avessi, se non fosse stato. Se solo
io, se solo tu, se solo lui.
- Tanti se, e
nessuno che si prenda mai la responsabilità delle
proprie azioni. La verità è che se davvero si
volesse dare la colpa ai se, non
se ne uscirebbe più.
- Se solo non
fossi andata alla festa, se solo Rose non avesse
insistito, se solo mio padre avesse deciso di andare via un giorno
dopo, se
solo non avessi visto Jacob, se solo non avessi bevuto, se solo non
avessi
incontrato Edward, se solo qualcuno lo avesse distratto proprio nel
momento in
cui mi avvinghiavo a lui, se solo non avessi sbattuto contro di lui
quel
pomeriggio, se solo non avessi deciso di prendere il caffè,
se solo mi fossero
caduti i soldi dalla tasca… avrei ritardato anche quel
decimo di secondo che
avrebbe evitato lo scontro con Edward, il che avrebbe evitato che mi
gettassi
sulla prima faccia conosciuta quando avevo visto Jacob.
- Tanti, tanti se.
Ma il punto è che la vita va così.
- A me era andata
così e non avevo intenzione di incolpare nessuno.
Certo, non era quello che avevo immaginato per me, nemmeno
lontanamente.
Sicuramente non avevo idea di quello che avrei fatto, di cosa sarei
diventata
nella mia vita; mi ero immaginata a lavorare in qualche bar se non
avessi
trovato un buon lavoro, avevo fantasticato sul trovare il ragazzo che
fosse mio
e fare un viaggio con lui, condividere le cose più stupide;
avevo anche
valutato l’ipotesi di restare sola e zitella per tutta la
vita – ad alcune
capita −, ma mai avrei pensato che col nuovo anno sarei stata
una mamma.
- E, nonostante
tutto, quella restava l’unica cosa certa che avevo
su me e sul futuro.
- Non sapevo come
sarebbe stato, se roseo o buio, calmo o in
tempesta, pieno o vuoto. Sapevo che avevo lui, dentro di me, e doveva
bastarmi
per ora. In fondo stavo solo per diventare madre e non potevo sputare
in faccia
alla vita consapevole di quanta morte ci fosse al mondo, attorno a me.
- “Scherzavo,
Rose. Va tutto bene”, dissi convinta, finito il mio
velocissimo monologo interiore. Le sorrisi sinceramente e lei
ricambiò,
finalmente.
- “Metti
il vestito. Mette in risalto le gambe e fascia bene la
pancia. Lo fai crepare”, fece un occhiolino prima di tornare
in cucina,
lasciandomi in stanza, sola con i miei vestiti, la chiave in mano e le
foto
dell’ecografia nella busta sulla cassettiera.
- Non le avevo
ancora guardate dalla sera prima; avevo lasciato che
Rose lo facesse da sola con la scusa di averle già osservate
per bene, ma non
l’avevo fatto. Presi un respiro e fui tentata di chinarmi e
prenderle, ma il
suono del campanello bloccò i miei propositi salvandomi
dalla mia stessa ansia
e creandone una nuova.
- Erano arrivati e
io ero ancora in mutande e reggiseno, chiusa in
camera, con una stupida chiave e un pigiama in mano, a fissare un busta
di
stupide foto che non avevo il coraggio di guardare.
- Chiamasi: ottimi
presupposti per affrontare le stronzate e
diventare madre.
- Scossi la testa
e posai nuovamente la busta con le foto che non mi
ero nemmeno accorta di aver preso in mano. Potei sentire Rose fare gli
onori di
casa e dare il benvenuto ai nostri ospiti e, per un secondo, sentendo
solo una
voce sconosciuta che doveva essere di Emmett, mi trovai con la speranza e la delusione
che Edward non fosse venuto; e non sapevo quale dei due
sentimenti avesse la meglio. Non ebbi il tempo di ragionarci dal
momento in cui
Rose lo salutò un momento dopo, proprio prima che lui
chiedesse se era sola in
casa.
- Ottimo
sotterfugio per non chiedere direttamente dove fossi io.
- “Bella
si sta vestendo, ora viene.”
- D’un
tratto l’idea di chiudermi in camera iniziò a
diventare
sempre più allettante, ma sapevo bene che non potevo farlo.
Rilassai la testa
contro la porta qualche secondo, al fresco, prima di stringere i denti
e
entrare velocemente in quel vestito. Mi guardai allo specchio, sciolsi
i
capelli e passai altri tre minuti a decidere se mettere del trucco o
no. Alla fine
optai per un po’ di matita che mettesse in risalto gli occhi
verdi.
- “Bene,
Bella. Niente scuse. Inizia a diventare grande e inizia
adesso.”
- Sembrai quasi
davvero convinta dal mini discorsetto e annuii a me
stessa allo specchio prima di uscire dalla stanza e perdere ogni
sicurezza
quando varcai la soglia della cucina e lo trovai lì,
poggiato al frigo, con un
paio di jeans leggermente larghi, una maglia a maniche corte che
aderiva bene
al suo petto e i capelli perfettamente
in disordine. Per qualche secondo, senza volerlo, ricordai alcuni dei
momenti
di quella notte, ricordai alcune delle sue parole che avevo rimosso,
ricordai i
suoi sussurri.
- Sei
bellissima…
- Hai degli occhi
stupendi.
- Oh Dio, credo di
amarti.
- Sorrisi
amaramente, non solo perché quei ricordi erano venuti a
galla ora, nel momento meno opportuno, ma soprattutto perché
ricordavo come il
giorno dopo avevo chiuso tutto subito mentre ora avrei pagato oro per
sentirgli
dire quelle cose.
- Non ero
così stupida da credere che le intendesse davvero, ero ben
consapevole che erano state dettate dal momento e dall’alcol,
ma avrei voluto
sentirle comunque. Masochisticamente, avrei voluto sentirle da lui.
- “Ciao!”
entrai in cucina cercando di apparire disinvolta.
- “Uh,
Bella! Eccoti!” Rose si voltò di scatto per
venirmi incontro,
saltellando. Mi prese la mano e, come in una tipica, perfetta scena da
romanzo,
mi condusse davanti ad Emmett.
- “Bella,
lui è…”
- “Emmett!
Ovviamente”, dissi cordiale allungando una mano.
“È un
piacere conoscerti, finalmente.”
- “Anche
per me, Bella. Rose mi ha parlato molto di te.”
- “Idem
per te, ma iniziavo a credere che fossi un frutto della sua
immaginazione.”
- Rose si
intromise per farmi una linguaccia e ridemmo tutti e tre.
Feci ben attenzione a non guardare ancora Edward, aspettando che fosse
lui ad
intromettersi, prima o poi, finché Emmett non chiese:
“Allora, come stai?”, e
sapevo bene a cosa si riferisse.
- “Co…
cosa?” boccheggiai qualche secondo senza dare una risposta,
semplicemente perché volevo che fosse Edward a chiedermelo.
Non poteva avere
tutto così facile, non poteva avere anche il migliore amico
a fare il lavoro
sporco al posto suo. Certo, ovviamente se chiedermi come stessi poteva
considerarsi lavoro sporco.
- Rose interruppe
quell’imbarazzante mio momento da
pesce distraendo Emmett prima che potessi rispondere
qualcosa.
- “Hey,
amore! Credo che abbiamo finito l’acqua. Mi accompagni a
prenderla in garage? Non ce la faccio a portare le cassette da sola,
sono
flaccida.”
- Chinai il capo
mentre Emmett acconsentiva senza problemi.
- “Torniamo
subito” disse Rose, giusto prima di sparire dietro la
porta, lasciando me ed Edward soli, nel nostro imbarazzantissimo
silenzio assordante.
- Alzai il capo
quando mi resi conto di non essere io quella a
dovermi vergognare di qualcosa. Ero in casa mia e non potevo sentirmi
fuori
posto e a disagio, non con lui che aveva architettato tutto senza
nemmeno darmi
una spiegazione.
- Incontrai i suoi
occhi subito e mi resi conto che doveva stare
aspettando che alzassi il viso già da un po’.
Chissà da quanto stava aspettando
che lo facessi. Ingoiai un nodo di saliva e mi trovai ad alzare le
spalle, come
se fosse un incentivo per farlo parlare.
- “Bella
casa…” disse a un certo punto, lasciandomi senza
parole.
- “È
piccola ma va bene.”
- “Sì,
è graziosa.”
- “Non
è male.”
- “Accogliente.
Mi piacciono i colori…”
- “Anche
a noi.”
- “Chi
li ha scelti?”
- “Comune
accordo.”
- “Avete
buon gusto. Da quanto ci vivete?”
- “Dobbiamo
andare avanti per molto?”
- “Cosa…?”
- “Questo
teatrino, dico. Dobbiamo mandarlo avanti ancora per molto?
Altrimenti me ne torno in camera…”
- “Non
capisco cosa…”
- “Oh,
seriamente, Edward? Insomma, vieni a cercarmi a lavoro, ti
nego il numero e la sera scopro che sei comunque riuscito ad averlo e a
farti
invitare a cena da me e tutto quello di cui vuoi parlare è
il colore delle
pareti? Davvero?”
- “Beh?
Sono davvero un bel colore…”
- “Edward,
smettila.”
- “Ma
smettila di fare cosa?”
- “Così! Smettila di fare
così! Mi mandi al manicomio!”
- “Non
sto facendo nulla, mi pare.”
- “Infatti!
Non stai facendo nulla, nulla di concreto! E io voglio
sapere!”
- “Sapere
cosa? Cosa vuoi sapere?”
- “Voglio
sapere perché. Perché sei venuto qui.”
- “Mmm,
una cena gratis?”
- Non mi ero resa
conto di essere così distante da lui, altrimenti
la mia mano sarebbe volata direttamente sulla sua guancia, e certo non
per una
carezza.
- “Tu…
sei impossibile. Non so come ho fatto a venire a letto con
te” mormorai, voltandomi di poco.
- “Eri
ubriaca…”
- “Sì,
lo so che ero ubriaca!” urlai, girandomi ancora per
incenerirlo con gli occhi e, stranamente, sembrò funzionare.
Continuai a
guardarlo fino a fargli distogliere lo sguardo almeno una volta.
“Per quanto
possa sembrarti assurdo, tutto questo non era quello che volevo. Non
era quello
che avevo programmato, soprattutto con uno come te. Non mi aspettavo
che la mia
vita prendesse questa piega, ma è successo e lo sto
accettando, e tu, invece,
non lo capisci.” Bloccai una lacrima; non potevo piangere per
nulla al mondo.
“Non solo non capisci quello che vuol dire per te, non ti
sforzi nemmeno di
capire quello che vuol dire per me. Il tuo comportamento mi fa
impazzire. E non
hai quindici anni, Edward. Non sei un ragazzino. Per cui o ti prendi le
tue
responsabilità o mi lasci stare una volta per
tutte.”
- Affrontai il suo
viso e potei chiaramente vederlo aggrottare la
fronte e stringere le labbra. “Io… io non so cosa
fare…”
- “Beh,
allora devi capirlo lontano da me.”
- “Ma
perché?”
- “Perché
fa male, Edward! Non lo capisci? Te l’ho detto una volta e
non è bastato? Fa male! Starti vicino senza sapere cosa vuoi
fare! Tu stai
decidendo ma io l’ho già fatto e non posso
accollarmi anche le tue insicurezze!
Non posso essere io a dirti quello che devi fare altrimenti
andrà sempre tutto
male. Devi volerlo tu, e lo devi volere davvero altrimenti lascia
stare, okay?
Non farti problemi per me, non mandarmi soldi, non chiedere niente. Se
non lo
vuoi davvero, lascia stare e basta. Ma io ho bisogno di sapere, non
posso
vivere nell’oceano delle tue incertezze in eterno.”
- “Ho
solo bisogno di…”
- “Non
mi hai nemmeno chiesto come sto”, l’interruppi
prima che
potesse dire quella parola.
- Si
bloccò di botto e mi guardò.
- “Non
farlo, Edward. Non dirmi che hai bisogno di tempo. Non
parlare di tempo con me”, continuai. “Hai la minima
idea di quello che sto
provando in questo momento? E non intendo in questo esatto momento,
intendo
nella mia vita. Hai la minima idea di cosa voglia dire guardarsi allo
specchio
e avere paura di quello che vedrai tra sette mesi? Avere paura che
qualcosa
possa anche andare male. Non sapere cosa succederà, chi ti
starà accanto, su
chi potrai contare. Cosa diventerai da grande. Non ero… Non
sono pronta a
diventare madre, eppure ogni giorno io mi alzo, mi guardo allo
specchio, e vivo
un altro giorno, aspettando che il tempo mi dia le sue risposte. E ho
paura
perché… passa così velocemente e non
so se riuscirò ad affrontare tutto da sola
quando verrà il momento. Io lo sento, sento il tempo
scivolarmi dalle dita ogni
giorno di più, vivo il tempo che mi passa sotto agli occhi e
tu… tu hai tempo
per il tuo cane, per i tuoi amici, per le amichette che ti porti a
letto, ma
quando si tratta di me non hai nemmeno due secondi del tuo tempo per chiedermi come sto.”
- Nonostante
tutto, nonostante non ci fosse nulla che potesse dire
per farmi cambiare idea, non abbassò lo sguardo.
- “Bella…”
sussurrò molto flebilmente e io restai in attesa.
- Di una scusa, di
una spiegazione, di una qualsiasi parola, ma
nient’altro uscì dalla sua bocca.
- Altro silenzio.
- “Okay…”
fu tutto quello che riuscii a dire prima di lasciare la
stanza, o almeno quella era l’intenzione se non mi fossi
trovata Rose ed Emmett
di faccia.
- “Hey,
dove vai? Tra due minuti è pronto!”
- Avrei potuto
dire che non mi sentivo bene – e non sarebbe stata nemmeno
una bugia – e chiudermi in bagno per il resto della serata, o
della mia vita,
ma ormai non avrebbe nemmeno avuto senso.
- Avevo stabilito
di iniziare a crescere da quella sera, per cui
potevo benissimo farlo stando seduta allo stesso tavolo di Edward.
- Rose mi
trascinò nuovamente dentro la cucina e mi
posizionò a
sedere proprio di fronte ad Edward. Nessuno dei due parlò
mentre Rose portava
in tavola quello che aveva preparato.
- Tortellini con
panna e funghi, i miei preferiti. Si era molto
adoperata per quella cena. Aveva preparato gli antipasti, che aveva
dimenticato
di servire prima del primo per cui furono mangiati dopo, un secondo di
carne, e
persino un dolce. Nonostante non me la cavassi troppo male in cucina,
il mio
compito si era limitato a mettere coca-cola e ghiaccio in una brocca.
- Dire che la cena
fu un mortorio sarebbe stato un eufemismo. Io ed
Edward sembravamo due zombie viventi; non riuscii nemmeno a finire i
tortellini
e la cosa sorprese Rose non poco. Mi lanciò qualche occhiata
preoccupata ma non
disse niente, probabilmente per non mettermi in imbarazzo e peggiorare
le cose;
almeno era quello che credevo prima che mi afferrasse per un braccio e
congedò
entrambe con un veloce: “Torniamo subito.”
- Fui costretta a
seguirla in bagno senza protestare. “Rose? Sei
impazzita?”
- “Posso
sapere che diavolo succede? Che vi siete detti mentre
eravamo via? Sembrate due lastre di ghiaccio, più di quanto
non foste già!”
- “Niente,
Rose. Non è successo proprio niente. Lui è il
solito…
menefreghista di merda! E io non riesco a capire perché
cazzo si è invitato a
questa cena! Perché ha detto di sì per poi venire
qui e fare come se nulla
fosse? Non lo capisco e mi fa saltare i nervi! Dice che non sa cosa
vuole e non
sa cosa fare, ma io mi sono rotta il cazzo della sua indecisione! Non
posso
vivere così! Se ha bisogno di tempo, che se lo prendesse
senza rompere l’anima
a me!”, mi sfogai con la mia migliore amica che non fece
altro che sorridere
dolcemente e abbracciarmi un secondo dopo.
- “Li
mando via.”
- “Ma
no, Rose. Non importa. Emmett è simpatico, siete davvero
carini
insieme.” E non lo dicevo tanto per dire. Non fosse stato per
il loro umore, la
serata sarebbe stato un completo disastro. Insomma, per me lo era stato
ugualmente ma erano mesi che aspettavo di conoscere il ragazzo di Rose
e non ci
avevo scambiato più di due parole. “Va tutto bene,
davvero.”
- “Sicura?”
- “Sicura!”
annuii. “Dai, torniamo di là!”
- E questa volta
feci di tutto per sembrare quanto più viva e
cordiale possibile, almeno con Emmett. Non avevo nemmeno fatto caso al
suo
aspetto prima, troppo presa dai miei mille pensieri, ma dovevo
ammettere che
era davvero un bel ragazzo. Capelli corti, leggermente ricci, muscoloso
ma non
troppo, spalle forse leggermente troppo grandi per i miei gusti ma
niente di
spropositato. Ed era simpatico e sembrava affidabile e, da come
guardava Rose,
potevo ben dire che ci teneva a lei, e io non potevo desiderare di
meglio,
anche se non potevo negare di aver provato un leggero brivido di
invidia per i
due secondi più insopportabili della sua vita: non aveva
fatto nulla di che, le
si era solo avvicinato per scostarle i capelli dietro
l’orecchio ed evitare che
cadessero nel piatto, e l’aveva guardata… in quel
modo che… quel modo che non
si può spiegare, quel modo che ha solo chi ama qualcuno.
- Ci perdemmo nei
nostri discorsi mentre Edward, come potevo vedere
dai veloci sguardi che gli lanciavo con la coda dell’occhio,
non faceva che
pasticciare con la forchetta e il gateau di patate.
- Raccontai ad
Emmett diversi aneddoti su Rose, parlammo del più e
del meno finché non ebbi la pessima idea di introdurre il
discorso università,
che portò inevitabilmente al discorso ‘di
cosa vorresti occuparti?’.
- Per loro,
studenti di medicina, nonostante la difficoltà della
materia, era piuttosto facile sapere quale sarebbe stato il loro
futuro. Per
me, completamente allo sbaraglio, invece…
- “Ancora
non lo so, mi affiderò alla buona sorte, sperando che non
passi per le mani di Edward”, continuai, facendo un
po’ di ironia e tutti fissammo
quella che ormai era diventata una poltiglia gialla nel suo piatto. Mi
guardò
per qualche secondo, probabilmente chiedendosi cosa stessi pensando per
la
prima volta in vita sua, poi Emmett portò nuovamente la mia
attenzione al
discorso.
- “Beh,
però Rose mi ha detto che stai lavorando per Siria Newton!
Wo! Non è roba da niente. Dicono che sia un
mastino!”
- “Oh,
lo è. È una donna impossibile! Però ha
un grandissimo talento
e ha fatto tutto da sola. Si è spaccata il culo per arrivare
dov’è.”
- “È
sposata?”
- “No.”
- “Ha
figli?”
- “Non…
non che io sappia…”
- “Chissà…”
- “Chissà
cosa?”
- Emmett
alzò la testa dal dolce e mi rispose con tutta la
nonchalance del mondo. “Non so, la vedo una cosa un
po’ triste.”
- “Essere
arrivata dov’è?”
- “No,
esserci arrivata da sola. Aver raggiunto quella vetta ma poi
tornare a casa e trovarla vuota.”
- E non avrei mai
pensato che quella semplice frase potesse colpirmi
tanto. Non potei fare a meno di scambiare uno sguardo con Edward e lo
vidi… strano. Quasi
complice, in un certo
senso. Per qualche motivo fui portata ad accennare un sorriso; non
sapevo
nemmeno perché lo avevo fatto, né
perché lui l’aveva ricambiato, ma non aveva
importanza visto che tutto fu rovinato da una chiamata a cui doveva
rispondere
assolutamente.
- Ovvio, tutto era
più importante di stare qui per lui. E ancora mi
chiedevo perché si fosse messo in questa situazione, e con
le sue stesse mani
per giunta.
- Finii di
mangiare il dolce ma era impossibile ignorare l’euforia
di Edward mentre parlava al telefono.
- “Cosa?
Davvero? No, no! Certo che sono ancora interessato! Cazzo,
scherzi!?” rise soddisfatto. “Senti, amico, passo
da te tra un paio di giorni e
ci mettiamo d’accordo per i dettagli, okay? Sì.
Sì, perfetto. Allora ci
sentiamo presto, e grazie mille, sei un amico. Ti devo un favore!
Sì… ciao,
ciao!”
- Attaccò
la telefonata e tornò a sedersi a tavola sotto lo sguardo
curioso di tutti, anche se io feci in modo di mostrarmi indifferente,
almeno
finché Emmett non chiese a cosa fosse dovuto tutto
quell’entusiasmo.
- “Oh,
era Jason, per quell’Aaston
Martin, te lo dissi no?” rispose
all’amico e io non potei fare a meno di
trattenere la mia stupida lingua.
- “Aaston
Martin?” chiesi tra stupore e incredulità.
- “È
una macchina.”
- “Lo
so, ma non hai già un’auto?”
- “Sì,
ma ormai è passata di moda e la vendo. Ho già un
compratore e
questo mio amico mi ha trovato questa cabrio, due posti, decapottabile,
ad un
prezzo assurdo! È un cazzo di affare!”
- E
continuò a parlare per altri secondi ma il mio cervello
aveva
afferrato una cosa sola.
- “Due
posti…” mormorai ma tutti mi sentirono ugualmente
e si
voltarono a guardarmi.
- “Bella…”
sussurrò Rose carezzandomi una spalla, e in quel momento
avrei voluto davvero piangere.
- “C’è
qualche problema? Ti senti bene?”
- E ancora una
volta le sue parole suonarono come le più false del
mondo.
- “Sì,
sì c’è un problema e sei tu!
Tu… tu sei un gran figlio di
puttana. Tu non hai bisogno di tempo, né che io ti dia
fiducia, né di sapere
cosa fare. Tu hai già deciso e noi non rientriamo nei tuoi
piani, nemmeno
lontanamente! Perciò, grazie. Ancora una volta ho capito
che, dopotutto, avevo
ragione io. Tu non sei qui per me, o per lui…”
toccai la mia pancia. “Tu sei
qui per te stesso, sei qui perché è etico
venire qui e fare finta che ti interessi ma non ci sei dentro, Edward.
Non ci
sarai mai!”
- Mi alzai di
scatto e Rose cercò di bloccarmi e parlarmi ma la
strattonai in malo modo e mi liberai dalla presa.
- “Ti
prego, Rose!”
- E semplicemente
lasciai la stanza e mi rintanai sul piccolo
dondolo fuori al terrazzino del salotto.
- Mi misi
lì, rannicchiata su me stessa e lasciai che qualche
lacrima cadesse al buio prima di chiudere gli occhi per lasciarmi
andare a un
agrodolce dormiveglia. Fatto di mezza realtà e mezza
fantasia.
- Quando riaprii
gli occhi sembrava passata un’eternità, ma
guardando l’orologio appurai che erano appena le undici e
mezza. Avevo
dormicchiato mezz’ora massimo, eppure qualcuno, sicuramente
Rose, aveva avuto
l’accortezza di coprirmi con un lenzuolo. Mi alzai dal
dondolo, scoprendomi, e
rientrai in casa. Nel salotto non c’era nessuno ma la luce
della cucina
filtrava dalla porta socchiusa e, avvicinandomi, riuscii a sentire le
voci di
Emmett e Rosalie.
- “Forse
dovrei parlare ad Edward…” disse Emmett.
- “Non
lo so, Em. Non lo so… Pensavo che… ieri quando
avevo parlato
con Edward mi era apparso motivato, mi sembrava che volesse provarci ma
lui non
pensa nemmeno a quello che le sue azioni comportano. Bella ha ragione.
Non c’è
dentro… e io ho sbagliato. Non avrei dovuto
invitarlo.”
- Ah, Rose. Sempre
a sentirsi in colpa per le azione fatte in buona
fede, ma con cattivo esito.
- “Per
questo dico che potrei parlargli. Edward non è un cattivo
ragazzo… ha solo una testa di merda. Magari
posso… non lo so…farlo ragionare
con la testa e non con l’uccello.”
- Sentii Rose
ridacchiare. “Se ritieni che possa servire, okay. Ma
deve stare lontano da Bella, chiaro?”
- “Chiarissimo.”
- E quando il
suono di vari sbaciucchiamenti iniziò a farsi chiaro
anche oltre la porta, decisi di andare in camera. Era più
che ovvio che Edward
doveva essersene andato, per cui non avevo motivo di stare in piedi. Il
mal di
testa iniziava a risalire e tutto ciò che volevo era la mia
camera e il letto.
Quello che, in fondo, era sempre stato il mio piano
dall’inizio. Se solo lo
avessi seguito…
- Entrai in camera
e chiusi la porta. Mi tolsi quello stupido
vestitino restando solo in intimo. Mi voltai per prendere la maglia del
pigiama
sotto il cuscino e quasi morii di paura quando mi trovai Edward,
davanti il mio
armadio, impegnato a farmi una radiografia da testa a piedi.
- “Cristo!
Che cazzo ci fai tu qui!?” urlai, reprimendo grida di
terrore, prima di rendermi conto che ero mezza nuda davanti a lui.
- “Calmati,
bambolina.
Stavo solo cercando una cosa.” E con tutta la calma del mondo
continuò a
scavare nel mio armadio.
- “Esci
subito dalla mia stanza! Ora!”
- Di tutta
risposta mi lanciò una maglia che dovette trovarsi sotto
mano e ne approfittai per infilarla.
- “Posso
sapere che cazzo ci fai ancora qui!? Non eri andato via?
Beh, se non lo eri, è evidente che non lo sei, puoi anche
andare via adesso.
Subito!”
- Tolse il viso
dall’armadio ed estrasse quello che stava cercando.
Si avvicinò con estrema calma e, dopo aver aperto una
coperta, mi ci avvolse
dentro.
- “Tremavi
di freddo là fuori…”
sussurrò, sfregando le mani sulle
mie braccia e io restai interdetta. Una completa idiota che non aveva
idea di
cosa fare, fin troppo spiazzata dal suo comportamento.
- “Hai
pianto.” Non era una domanda, quella, mentre passava il dito
sul mio viso ruvido dalle lacrime ormai secche sulle guance.
- “Cosa
vuoi, Edward?”
- Le mie parole
sembrarono non toccarlo minimamente. “Hai gli occhi
lucidi… Sono stupendi…”
- Dovetti
ricordarmi con chi avevo a che fare per non sciogliermi
nella sua presa e non cadere nella trappola delle sue parole.
Perché erano solo
quello. Solo parole.
- “Cosa
vuoi?” ripetei con voce ancora più flebile.
- “Mi
dispiace, Bella. Per tutto questo… casino. Io non so che
fare…
ma potremmo provarci, no?”
- Ebbi la
tentazione di chiedergli se avesse battuto la testa o se
fosse uno scherzo di cattivo gusto, ma non ne ebbi la forza.
Perché in quel
momento, vero o no, sincero o ipocrita, stavo sentendo quello che
volevo
sentire. Poco importava quanto di reale ci fosse. Come una scema mi
lasciai
abbindolare da quelle parole e dalla speranza che creavano in me.
- “Vuoi
provarci? Con me, Bella?”
- E i suoi occhi
così magnetici non riuscirono ad avere una risposta
che non fosse un debole sì.
- Prima che
potessi accorgermene ero stretta in un suo abbraccio,
avvolta da una coperta, con le sue mani calde che mi carezzavano la
schiena,
facendomi rabbrividire allo stesso tempo. Una delle sensazioni migliori
del
mondo.
- Era uno degli
abbracci più imbarazzanti in cui mi fossi mai
trovata; era quello che volevo e, allo stesso tempo, lo vedevo
sbagliato.
Probabilmente era quella cosa che
c’era tra noi. Una specie di carica sessuale o roba del
genere. Eravamo come la
paglia e il fuoco; troppo a contatto rischiavamo di bruciare entrambi.
Quando
sentii il sue mani infuocate allungarsi per toccare le mie gambe,
provai un
brivido irriconoscibile. Paura, desiderio, sollievo, delusione, calore,
dolore.
E capii che tra i due, io ero la paglia e stavo per andare a fuoco.
- Lui avanzava e
io non riuscivo a spostarmi di un centimetro. Lui
mi avrebbe mangiata e io glielo avrei permesso. Lui sarebbe
sopravvissuto e io
sarei morta, incenerita dal suo tocco.
- Eppure non
riuscivo a fare un solo passo indietro.
- La coperta cadde
e io chiusi istintivamente gli occhi quando una
sua mano salì alla mia nuca e avvicinò le mie
labbra alle sue. Le riconobbi
subito, più presto del lecito, in modo troppo preciso per
esserci stata una
sola volta da ubriaca. Ma, inspiegabilmente, sembrava che quelle labbra
fossero
state fatte per baciarmi, o forse per baciare e basta. Erano
così calde e
morbide e buone che resistere era impossibile. Lasciai salire le mie
mani alla
sua nuca e le strinsi attorno al collo mentre lui stringeva le sue
sulla mia
vita. Mi sollevò leggermente, portandomi a cadere dolcemente
sul letto dietro
di me. Mi fu sopra in un secondo, così dolce,
così… strano. Riprese a baciarmi
il collo mentre una sua mano palpava il mio seno da sopra la maglia.
Sussultai
per un secondo , pensando di lasciarmi andare totalmente, ma tutto
tornò chiaro
quando la sua mano iniziò a muoversi sempre più
velocemente e, con forza,
penetrò sotto la maglietta e strinse la mia pancia.
- “No,
no, Edward, no” mugugnai tra un suo bacio e un altro sulle
mie labbra.
- “Che
c’è?”
- Scostai il suo
viso dal mio ed era tutto sparito. Quel barlume di
dolcezza che avevo letto nei suoi occhi pochi minuti prima, la speranza
di un
suo interesse. Sparito anche quello. Tutto andato.
- “Devi
andartene, Edward. Lasciami in pace.”
- “Ma
cosa…? Cosa ho fatto ora? Ti ho detto che voglio provarci!
Non
va bene?”
- “Ma
come fai ad essere così ipocrita!? Non puoi cercare di
essere
un po’ onesto almeno con te stesso o devo essere sempre io a
mandarti a cacare?
È troppo dura guardarti allo specchio e scoprire, da solo,
che sei un pezzo di
merda, eh? Perché fin quando te lo dice qualcun altro,
può sempre sbagliarsi,
può sempre essere quella sola opinione. Ma se lo pensi tu
stesso, allora sei
fottuto!”
- “Bella,
che cazzo!”
- “Tu
non vuoi provarci! Vuoi provarci con me, forse. Ma non vuoi
provarci per me, non vuoi provarci per lui. Vuoi provarci solo per te
stesso,
Edward. E così non va. Non so ancora nulla
dell’essere un genitore, ma un
figlio viene al primo posto. E noi al primo posto non ci saremo mai.
Lui non
c’è per te. Non ci sarà mai per te.
Prima accetti che sei così, prima mi lasci
in pace. Se hai problemi con quello che sei, risolveteli o viviteli da
solo. Ma
non sfogare mai più su di me.”
- Lo vidi scostare
lo sguardo da me al pavimento. Restò a fissarlo
per diversi secondi, senza muovere un muscolo.
- “Te ne
devi andare.”
- Niente. Non un
piccolo movimento.
- Fui io ad
alzarmi e ad andare alla porta come per sottolineare il
fatto che lo stessi cacciando via.
- “Edward,
ti prego”, e mi costò doverlo pregare di lasciarmi
in
pace. Mi costò non chiedergli di cambiare. Ma non potevo
farlo io, non potevo
chiedere tanto a una persona che ha vissuto in un determinato modo per
venticinque anni, perché se lo avesse fatto davvero me lo
avrebbe rinfacciato
per il resto della sua vita. Mi poggiai al lato dell’armadio,
aspettando che si
alzasse per lasciarmi finalmente sola.
- Si
alzò dopo diversi secondi, che erano parsi minuti, e con
passo
pensante ed estremamente lento, venne verso di me, non prima di aver
trascinato
con sé qualcosa che cadde sul pavimento.
- Ad occhi chiusi,
sentii solo il rumore di fogli che cadevano. Solo
quando mi chinai accanto a lui per raccogliere, mi resi conto di
ciò che era
caduto.
- Erano per terra,
le foto dell’ecografia. Non tutte ma molte, e lui
le stava toccando, una ad una. Allungai una mano per prenderne una e
sfiorai la
sua. Ci fermammo entrambi, senza alzare lo sguardo e guardarci negli
occhi. La
sua mano sulla mia, la mia sulla foto dell’ecografia, e i
nostri occhi puntati
su quell’intreccio. E non potei fare a meno di pensare che,
in fondo, era un
po’ come averlo avuto all’ecografia con me il
giorno prima. Almeno in quel
momento, stavamo entrambi guardando qualcosa di nuovo, di nostro, per
la prima
volta insieme.
- Preferii non
lasciarmi trasportare dal pensiero e lasciai
scivolare la mano da sotto la sua, permettendogli di prendere la foto e
osservarla per qualche secondo.
- Raccolsi il
resto e le riposi velocemente nella busta, mentre lui,
alzandosi lentamente, continuava a fissare quel quadrato di carta
stampata.
- “Posso
tenerla?” disse, infine, prendendomi totalmente alla
sprovvista.
- E, per quanto
avrei potuto farlo, non ebbi il coraggio di digli di
no. Ero semplicemente stanca, così stanca da non voler
discutere, stanca da
voler solo restare sola, stanca da volerlo mandare via ed eliminare
dalla mia
vita il prima possibile.
- “Tienila”
fu la mia atona risposta.
- Annuì
leggermente. “Stai bene, Bella.” Ed uscì
dalla porta che io
non esitai a chiudergli alle spalle.
- Dovetti prendere
un forte respiro ed evitare di pensare.
- Non pensare, non
pensare, non pensare.
- Non pensare o
non
ne esci più. Non pensare o non vivi più.
- Pensa solo al
tuo
bambino. Ci siete solo voi.
- Tu e il tuo
bambino.
- Ripresi la busta
ed estrassi le foto per guardarle, stavolta
tranquilla e senza paura; mi accorsi che erano numerate e, mentre le
guardavo
sorridendo, una sola domanda mi accompagnò:
chissà che fine avrebbe fatto quella
mancante.
-
-
- Uscii dal pub
quasi distrutta. Era venerdì, e avevo dovuto rinunciare
al mio pomeriggio libero per sostituire Eric che aveva avuto un
problema in
famiglia, a quanto avevo capito. Non potevo certo negargli il favore
sapendo
che lui lo avrebbe fatto sicuramente per me. Quasi sicuramente non me
lo
avrebbe nemmeno chiesto se avesse saputo del mio stato, ma io non
l’avevo
ancora detto a nessuno. Erano passati tre giorni dalla cena, tre giorni
che non
vedevo né sentivo Edward e stavo iniziando a metabolizzare
la cosa. Non potevo
concentrarmi su altro. Dirlo a lavoro, dirlo ai miei, dirlo a Siria.
- Dio, continuavo
a non affrontare la cosa e sapevo che, se lo
avesse scoperto col tempo, mi avrebbe cacciata.
- “Una
cosa alla volta…” mi dissi sottovoce, ma un
ragazzo sulla
metro mi guardò e si lasciò scappare una piccola
risata prima di voltare il
viso e fare finta di nulla.
- Perfetto, ci
mancava solo di iniziare a parlare da sola.
- Sospirai e misi
le cuffie nelle orecchie, aspettando la mia fermata.
Ascoltare la musica in metro e per strada mi rilassava; per qualche
momento
riuscivo a scacciare tutti i miei problemi ed entrare nelle parole
delle
canzoni. Chi non ha mai pensato quale sia la storia di una canzone, in
fondo.
- Chi
l’ha scritta, chi l’ha arrangiata, chi
l’ha ispirata.
- Le persone che
ispirano la musica possono essere milioni, ma il
sentimento è unico. Non a caso è il tema
più presente e gettonato. Ma cosa c’è
dietro? Che fine hanno fatto quei poeti? Quei cantanti che scrivono col
cuore e
non ne hanno paura? Esistono davvero o sono solo una facciata?
- Una volta lessi
su qualche muro che nella vita si incontrano tante
maschere e pochi volti; penso fosse una frase di Pirandello e mai come
in quel
momento capii cosa volesse dire e quanto avesse ragione.
- Arrivai a casa
che ancora avevo la musica nelle orecchie e il capo
chino a fissare i piedi che andavano avanti, sempre un passo prima di
me. Quando
presi le chiavi di casa e alzai lo sguardo, restai a bocca aperta nel
vedere
Edward seduto proprio lì, sul marciapiede di fronte casa e,
ora che mi aveva
visto, era immobile anche lui.
- Mi tolsi
lentamente le cuffie dalle orecchie e mi scostai i
capelli dalla fronte prima di prendere a camminare, con disinvoltura,
quei
pochi passi che mi separavano dalla porta di casa.
- Lo superai,
senza avere alcuna intenzione di fare una sola mossa,
ma lui si alzò di scatto e mi chiamò.
- “Bella!”
- Mi bloccai e mi
voltai lentamente per guardarlo.
- “Come
stai?” chiese dopo qualche secondo e, per la prima volta in
assoluto, sentii la sincerità nella sua voce. Sentii che me
lo stava chiedendo
davvero.
- “Me la
cavo” risposi indifferente.
- Lui
annuì e si grattò la fronte per qualche secondo,
probabilmente
per raggruppare le idee. Ma non parlò.
- “Sei
venuto qui solo per questo?”
- Annuì
ancora e io iniziai a sentire la rabbia montare, come
sempre.
- “Mi
sembrava di averti detto di non farti vedere, Edward. O
sbaglio? Senza contare che hai il mio numero di telefono se proprio
volevi
fottertene di quello che ti avevo chiesto.”
- “Sì,
lo so… è che… Cioè, no. Non
sono venuto solo per questo.
Volevo parlarti.”
- “Di?”
- “Lo
sai.”
- “No,
non lo so. Non so mai cosa cazzo ti passa per la testa
perché
sei un pezzo di merda, quindi dimmi pure. Di cosa vuoi
parlarmi?”
- Strinsi i pugni
nelle tasche della maglia e aspettai quasi trepidante.
Curiosa di sapere se fosse riuscito a dirlo.
- Lui chinò il viso
un secondo solo prima di alzarlo e parlare. “Del
bambino” disse infine. “Voglio parlarti del
bambino.”
Inutile proprio chiedere scusa.
Mi metto nelle mani della misericordia di chi ha gli esami e capisce
cosa vuol dire 'sessione estiva'. ç___ç
Detto questo....
Alla prossima!
E grazie a chiunque (quattro gatti? xD) leggerà e/o
recensirà *-*
Fio xx
|
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Capitolo 7 *** Redemption ***
adito - cap 7
AHAHAHAHAHAHA *risata isterica*
Okay, non mi ero resa
conto di stare postando questa storia di 3 mesi in 3 mesi... :')
AHAHAHA Mi dispiace davvero tanto, posso solo dire che stavolta davvero
cercherò di essere migliore negli aggiornamenti. A mia
discolpa posso dire che, beh, luglio è stato quello che
è stato e stavammo tutti un pò uccisi... u.u ho
passato agosto a studiare diritto privato, settembre a fare un trasloco
e ottobre lo passerò a fare una tesi totalmente da sola
visto che quella grandissima figlia di buona donna della mia
professoressa non risponde alle mail- Che bellina, eh? :') Per chi si
fosse appena connesso, c'è un riassunto di ciò
che è successo fino ad ora nell'intro al precedente
capitolo, aggiungiamo Edward che si sente in colpa come, non so, le
fette biscottate senza nutella, e ottenete il punto in cui siamo
arrivati u.u Non ha senso, ma abbiate pietà di me. Ad ogni
modo, ripartiamo da quella sera stessa, quando Edward rivela a Bella di
voler 'parlare' del bambino :)
Buona lettura! xx
Music: Redemption
- The strange familiar
Capitolo
7
Redemption
- Restai a
fissarlo per quelli che mi parvero secondi interminabili,
cercando di convincermi che non avevo immaginato nulla. Lo aveva detto
davvero,
quei suoni erano usciti dalla sua bocca e avevano un senso, un
significato
particolare e più profondo di una qualsiasi altra parola di
tre sillabe.
- Che significasse
che aveva capito? Che lo accettava? Che voleva
cambiare? Non ne ero sicura, non potevo saperlo se lui continuava a
ricambiare
il mio sguardo indagatore, come se dovessi essere io a dire qualcosa,
come se
lui si aspettasse che fossi io a fare la prossima mossa.
- E
infatti…
- “Forse
vorresti dire qualcosa… a questo punto?”
- Sbarrai gli
occhi così che potesse notarlo bene, nonostante la
scarsa illuminazione.
- “Io
non ho nulla dai dire. Sei tu che vuoi parlare” risposi,
mettendomi poi in attesa della sua mossa.
- Restò
diversi secondi a torturarsi le mani all’interno dei jeans
prima di parlare. “Io… io non so da dove
iniziare… Non so che dire. Non mi sono
mai trovato in una situazione del genere prima, né in una
simile. Non so come
ci si comporta, non so cosa si fa, non so nemmeno quello che si
prova.”
- Presi un respiro
per me e, probabilmente, anche per lui. Mi morsi
un labbro diverse volte prima che parlasse di nuovo.
- “So
solo che negli ultimi giorni non ho fatto altro che fissare
questa foto…” continuò, estraendo dalla
tasca una foto spiegazzata che
riconobbi subito essere una foto dell’ecografia; ingoiai un
nodo di saliva
creatosi dall’ansia di sapere quale fosse il punto di tutta
la situazione.
- “E non
so nemmeno perché, insomma la guardavo e non mi sembrava
vero. E poi un secondo dopo la toccavo e sentivo tutto…
consistente. Lo toccavo
davvero, capisci?”
- Annuii
debolmente. Sì che capisco, Edward. È quello che
provo ogni
volta che mi sfioro la pancia. Se solo tu lo sapessi, quello che provo.
Se solo
tu ti sforzassi di camminare nei miei panni per un giorno, di sapere
che ti
andranno stretti prima di quanto immagini. Se solo aprissi gli occhi e
mi vedessi
davvero, noteresti quel minimo, piccolissimo, cambiamento nel mio corpo.
- Non sapevo se
fosse solo la mia immaginazione o la suggestione, ma
mi ero messa davanti lo specchio quella mattina, avevo alzato la maglia
e
l’avevo notato. Un gonfiore leggerissimo, davvero poco
evidente,
impercettibile, ma io lo vedevo. Avevo anche creduto di essermi
impressionata.
Non si può avere la pancia già a due mesi, mi ero
detta, e avevo fatto la cosa
più stupida che si possa fare in queste situazioni: ricerche
su internet.
- Se non altro,
però, avevo riscontrato altre esperienze di donne a
cinque settimane con pancia, o forse convinte di averla, come me. Forse
eravamo
tutte illuse, desiderose di avere quanto prima quel cambiamento e fare
un altro
passo avanti. Mi sentivo così indietro che tutto sembrava
passarmi avanti senza
accorgersi di me. Volevo solo prendere il ritmo e sentire tutto dentro.
Fino
all’ultimo spostamento.
- Ad ogni modo,
pancia o no, sapevo bene cosa intendesse Edward,
sapevo che aveva preso coscienza di un qualcosa, proprio come avevo
fatto io
già un paio di settimane prima. Non sapevo cosa fosse eppure
mi ci era voluto
un giorno per accettarlo e fare la mia scelta; probabilmente
è così che
funziona, riflettei. Le donne lo avvertono semplicemente prima.
È il loro corpo
che cambia, dopotutto. Sono loro che sentono davvero, almeno
all’inizio. Per
quanto un uomo possa essere empaticamente vicino a una donna incinta,
non potrà
mai sapere cosa vuol dire davvero.
- Forse
è per questo che ora avevo un ragazzo fuori la porta di casa
mia, con una foto di un’ecografia in una mano. Ma
nell’altra? Cosa c’era
nell’altra?
- “Qual
è il punto, Edward? Dove vuoi arrivare?”
- Lo vidi
arricciare le labbra e le sopracciglia in un’espressione
corrucciata, in cerca di parole, forse.
- “Non…
non lo so. Penso di volerci provare, davvero.”
- “Davvero,
Edward? Davvero?”
- “Io…
non lo so. Non ne sono sicuro.”
- “Non
ne sei sicuro? Ma mi prendi per il culo?!”
- “No,
non lo faccio! Dio… Bella. È difficile, okay?
Mettiti un
secondo nei miei panni!”
- E non potei
trattenere un sorriso amaro. “Sai, stavo per dirti
esattamente la stessa cosa…”
- Lui
sospirò, annaspando alla ricerca di parole.
“Senti, mi
dispiace, okay? Per tutto questo…” e si
bloccò prima di dire casino
o una qualsiasi parola che mi
avrebbe fatta incazzare a morte.
“Per
tutto quello che è successo.”
- “Anche
a me, Edward, sai? Con la differenza che a me dispiace come
è successo. Mi dispiace che sia successo ad una festa, in
una camera di
qualcuno che non conosco, su un letto che non è il mio, con
mezzo litro di
vodka in corpo e con uno come te! Ma ormai è successo, va
bene? Quindi fattene
una ragione. Queste scuse, il tuo dispiacere… Non servono
più. Smettila e
andiamo oltre, altrimenti stiamo fermi sempre allo stesso
punto!”
- “Hai
ragione” disse senza pensarci troppo. “Hai
ragione” ripeté e
potei quasi sentire l’odore di altre sue scuse
nell’aria. Era tutto ciò che
quel ragazzo sapeva fare. Chiedere scusa piuttosto che affrontare le
cose; come
se davvero solo le scuse potessero risolvere la situazione.
- “Non
funziona così, Edward. Ci stiamo incasinando troppo. Io lo
so
che non volevi che accadesse, lo so che ti senti anche in colpa, che
vorresti
magari essere diverso, vorresti sapere cosa fare, come comportarti,
cosa dirmi.
Cosa è giusto e cose è sbagliato. So che vorresti
sapere dove sarai da qui a
cinque anni, lo capisco. Ma tu capisci che mentre tu ti prendi altro
tempo, io
vado avanti, e non aspetto nessuno. Non voglio metterti fretta o farti
fare
qualcosa che non vuoi davvero, ma non posso permettermi di rallentare,
perché
se mi fermo… mi rendo conto che sono sola e non so se ce la
farei.”
- A questo punto,
in ogni film o romanzo che si rispetti, lui
dovrebbe avvicinarsi a lei e dirle che non è sola, che lui
ci sarà sempre,
anche per una stronzata.
- Ma noi non
eravamo in un film né in un libro. Edward si
limitò a
chinare il capo e sussurrare un flebilissimo:
“Bella…”
- Troppo, troppo
flebile perché potesse trattenermi in qualche modo.
- “Sono
molto stanca, Edward. Buona serata.”
- Mi voltai e
presi le chiavi di casa. Salii gli scalini senza
guardarmi più indietro, senza sentire la sua presenza dietro
di me, senza
sentirlo muoversi o respirare.
- Era andato via,
pensai, quando sentii due mani calde poggiarsi
lentamente sulla mia vita e, per mia rovina, le riconobbi subito. Mi
ghiacciai,
una mano ferma sulla chiave nella toppa, l’altra immobile sul
portoncino, e il
respiro mozzato dal sentirlo così vicino a me.
Avvicinò la bocca al mio
orecchio. “Domani, a pranzo. Ti prego”
sussurrò. “Ti prego…”
ripeté, scongiurando,
e, bloccata dalla porta e dal suo corpo, in quella stretta
così calda e sicura,
non trovai nessun valido motivo per dirgli di no.
- Annuii e sentii
subito il suo sorriso contro la mia pelle.
“Grazie, piccola…”
- E
così come si era avvicinato senza far rumore,
andò via,
lasciandomi ad affrontare il brusco distacco dal caldo al freddo.
-
- “Non
avrei dovuto accettare, lo sapevo.”
- “Mi
sembra di aver capito che non avessi molta scelta”
sogghignò
Rose, la quale aveva voluto sapere ogni dettaglio del modo in cui mi
ero
lasciata incastrare da Edward. Per
qualche motivo a me ancora ignoto, lei lo appoggiava, parlando di
seconde
possibilità e di redenzione.
Non che
io l’ascoltassi davvero, stavo mettendo in borsa le ultime
cose, prima di
controllare l’orologio e rendermi conto che era quasi in ritardo. Presi il cellulare
dalla borsa.
- “Bella,
ha detto alle 12. Hai controllato già tre volte. Dai a
quel povero cristo il tempo di
arrivare.”
- “È
un segno Rose. Lo sapevo. Che ore sono?”
- “Le
12:10”
- Andai in cucina
e presi un bicchiere d’acqua che bevvi tutto d’un
sorso.
- “Bella…”
- “E ora
che ore sono?”
- “Le
12:11…” e anche un sordo avrebbe percepito la noia
e il
disappunto nella sua voce. “E non è nessun segno.
La smetti di analizzare
tutto?”
- “Io
non analizzo tutto.”
- “Ah,
no? Quindi quella che ho visto un secondo fa nella tua borsa
non era la lista dei pro e di contro, vero?”
- Avvampai per un
secondo, colta in fallo, convintissima di essere
riuscita a nasconderle quella mezza follia. Sapevo che lo era, eppure
mi dava
un senso di sicurezza. Molto stupido, me ne rendevo conto.
- “Ti
conosco da anni, Bella. Fai una lista dei pro e dei contro
anche per scegliere quale bagno usare in autogrill.”
- “Rose!
Dai, non esageriamo ora!” mi difesi, indignata da
quell’esagerazione. “La faccio solo per le cose
importanti.”
- “Quindi
ammetti che questa è una cosa importante.”
- “Beh,
sì. Voglio dire, stiamo comunque parlando del padre di mio
figlio, mica cazzi.”
- “E
meno male. Direi che di quelli ne hai avuto abbastanza per un
po’…”
- La fulminai con
lo sguardo e lei soffocò una mezza risata mentre
riprendeva a parlare. “E allora?”
- “Cosa?”
- “Allora,
questa lista? Resoconto? Statistiche? Verdetto?”
- “Decisamente
negativo. Altro segno che questa uscita sarà un buco
nell’acqua.”
- “Fa
vedere.”
- Mi prese alla
sprovvista, allungando una mano verso di me. “C…
cosa?”
- “La
lista. Fa vedere.”
- Con ansia, quasi
astio, tirai la lista fuori dalla borsa e lei me
la strappò letteralmente dalle mani.
- Prese a
leggerla, e io la osservavo, intimorita dalla ruga che
diveniva sempre più profonda man mano che avanzava.
- Non feci nemmeno
in tempo a chiedere cosa ne pensasse che la fece
in almeno sedici pezzettini proprio sotto i miei occhi e sotto la mia
bocca
aperta.
- “ROSE!”
- “Ah,
non farmi ‘Rose!’
ora.”
- “Ma
perché diamine l’hai fatto?”
- “La
tavoletta del bagno alzata, Bella? Seriamente?”
- “Beh?
Guarda che il 90% degli uomini la lascia alzata.”
- “Okay,
e questo è abbastanza per farlo diventare un contro in
un’assurda lista pro/contro pranzo e
nell’eventualità che andiate un giorno
futuro a vivere insieme?”
- Okay, forse
avevo un po’ esagerato.
- “Bisogna
considerare tutte le possibilità” difesi la mia
teoria.
- “Oh,
davvero? E allora perché non c’era nessun punto
che vi vedeva
felici ad aprire regali sotto l’albero di Natale? O a fare
pupazzi di neve? O
preparare biscotti? O andare in spiaggia o semplicemente fare un bagno
rilassante insieme o…”
- “Oh,
Rose! Frena! È solo un pranzo…”
- “Infatti!”
contestò lei e capii dove voleva arrivare.
- “…un
pranzo da cui non posso ricavare quello che accadrà da qui a
qualche
anno. Chiaro. Ricevuto.”
- “Ecco.
E ora smettila di fissarti allo specchio del forno. Stai
bene, Bella.”
- “Sicura?”
chiesi, osservando per la millesima volta i miei vestiti
– una gonna di jeans, una semplice maglietta molto alla marinara, e un paio di ballerine della
Tommy Hilfiger, di stoffa,
bianche e con i lacci blu, molto semplici.
- “Sicura.
Sei bellissima. Sai, non so come interpretare questa tua
ansia da primo appuntamento. Non sarà che questo ragazzo
inizi a piacerti un
po’ troppo?”
- Alzai gli occhi
al cielo. “Rose, per piacermi un po’ troppo,
dovrebbe quanto meno piacermi minimamente. E ti assicuro che non
è il mio caso.
E comunque non è un appuntamento.”
- “Giusto,
quindi ci sei andata a letto per il suo carattere strafottente,
menefreghista, altezzoso e
immaturo” continuò lei, citando le mie
stesse parole di qualche tempo fa.
“E sì, è un appuntamento.”
- Le risposi con
una smorfia più che visibile. “Non sto certo
dicendo che non sia attraente. E no, non lo è.”
- “Attraente?
Edward Cullen? Quando mai! Scherzi? È un cesso!
Uno scherzo della natura. E sì,
lo è. Altrimenti come lo definisci?”
- “Beh,
è una specie di pranzo di lavoro. O pranzo di futuro, ecco.
Siamo due potenziali investitori in una stessa compagnia che pranzano
insieme
per valutare eventuali rischi, perdite, guadagni e decidere se la cosa
è
fattibile o meno.”
- “Wow,
complimenti per la metafora. Non avrei saputo elaborarne una
più fredda per descrivere due potenziali genitori che
decidono della vita del
loro bambino.”
- Rabbrividii al
suono di diverse parole in quella frase e al rumore
che creavano insieme. Potenziali, genitori,
bambino.
Sovraccarico di informazioni, aiuto!
- “Senti,
ma tu non hai un ragazzo tuo a cui pensare?”
- “Sì,
ce l’ho. E mi piace davvero, e lo ammetto anche. Prendi
esempio. E non credere che non abbia notato il tuo volontario sviamento
dell’argomento.”
- Scossi il capo,
incapace di nascondere un sorriso nato dalla sua
assurdità, e spostai l’argomento su di lei, ma
cadde nel vuoto.
- “Che
ore sono?”
- “Le
12:19”
- “Bene,
venti minuti di ritardo sono più che abbastanza. Se non
viene entro sessanta secondi, giuro che…” non
finii la frase che il cellulare
mi vibrò tra le mani.
- Sono fuori.
- “Giuri
che…?” mi schernì Rose, con un sorriso
soddisfatto in viso.
- “…che
mi sarei sforzata di essere una persona migliore e avrei
aspettato altri dieci minuti” terminai la frase, totalmente
diversa dalle
intenzioni iniziali e lo sapevamo entrambe.
- “Vai,
scema. E non essere troppo dura. E stai tranquilla, okay?
Tranquilla e rilassata.”
- “Certo,
sicuro. Tanto ho la bella copia della lista con me, quella
era la brutta.”
- “BELLA!”
- “Ciao,
Rose!”
- Presi un respiro
e uscii di casa.
- Lui era
lì, di fronte a me, nei suoi jeans e camicia,
tranquillamente appoggiato alla macchina. Gli feci un cenno da lontano
e si mise
dritto quando mi avvicinai a lui, per trovarmi nella situazione
più
imbarazzante di sempre. Sarebbe bastato un semplice ciao, e invece mi
ero
trovata a due centimetri da lui, senza sapere se dargli due baci sulla
guancia
o una pacca sulla spalla.
- Andammo a destra
e sinistra in sincrono per almeno quattro volte finché
lui non afferrò con fermezza il mio fianco, attirandomi a
lui, per darmi un
solido bacio sulla guancia. Durò non più di tre
secondi ma bastò a farmi
avvampare e lui lo notò.
- “Non
puoi arrossire per così poco” sorrise, spezzandomi
quel
briciolo di fiato che mi era rimasto. “Però sei
troppo bellina” mi sussurrò
all’orecchio prima di farsi indietro e aprirmi la portiera,
da vero gentiluomo.
- Okay. Dove ero
finita? Che brutta fine aveva fatto quel ragazzo
arrogante e strafottente che avevo conosciuto fino a qualche giorno
prima?
- “Che
fine hai fatto fare ad Edward Cullen?
Devo controllare il bagagliaio? L’hai
ammazzato e scuoiato vivo? Hai un fratello gemello?”
- “Ma
che farfugli?”, mise in moto.
- “A
cosa devo tutta questa gentilezza. Non sei tu.”
- “Io
sono gentile invece. Non sarà che forse non mi
conosci?” alzò
un sopracciglio, accompagnato da un sorriso eloquente.
- “Forse.
Intanto so che sei ritardatario.”
- “C’è
un incidente a due isolati da qui.”
- Fui tentata di
non credergli ma dovetti mentalmente redimermi
quando prese la parallela e vidi che c’era un agglomerato di
macchine e un paio
di volanti della polizia. Forse
aveva
ragione Rose, dopotutto. Forse ero partita io col piede sbagliato con
lui, forse
ero io ad essere stata troppo dura. Decisi di rilassarmi un
po’ e mi presi il
permesso di accendere la radio e fermarla a una canzone dei Green Day.
- “No
ma, fai pure come se fossi in macchina tua, eh.” Capii dalla
sua voce che scherzava e risposi con una smorfia e un’alzata
di spalle.
- “Non
so stare senza musica, spiacente. Abituati.” Lo dissi senza
nemmeno pensarci e mi resi conto solo subito dopo di cosa implicasse
quell’ultima, innocente parola, carica di significato. Cercai
una sua reazione
con la coda dell’occhio.
- “Non
sarà un problema. Nemmeno io so stare senza
musica.”
- Sorrisi e
guardai fuori dal finestrino le strade della città che
passavano sotto gli occhi, senza chiedere dove stessimo andando. Beccai
un paio
di volte Edward fissarsi sulle mie gambe esposte ma non mi diede
fastidio. In
fondo era un ragazzo e, fino ad ora, era stato educato. Non potevo
certo
biasimarlo se si trovava a guardarmi le gambe. Sorridevo tra me e me
piuttosto.
- Ci fermammo dopo
non molto, in una strada non troppo affollata e
in cui, a mio ricordo, non ero mai stata. Scendemmo dalla macchina e mi
posò
una mano sulla schiena, come per indicarmi la strada. Capii dove
eravamo
diretti e iniziai a camminare più sicura, finché
non ci sedemmo a uno dei
tavolini rotondi, di vimini, del piccolo ristorante italiano in cui mi
aveva
portata. Le sedie erano comode, di vimini anche esse ma con morbidi
cuscini
bianchi dietro la schiena. I tavoli erano tutti uguali, ma molto
graziosi.
Decorati con semplicità: tovaglia color panna, una candela e
un piccolo vaso
con dei fiori al centro.
- “È
grazioso qui”, azzardai l’inizio di una
conversazione sulla
cosa più frivola di cui potessimo parlare.
- “Sì,
e si mangia davvero bene. Prendi quello che vuoi!”
asserì,
gentile, quando un cameriere ci portò i menu, per poi
ordinare anche per me
quando il cameriere tornò cinque minuti dopo.
- “Due
farfalle al pesto, con panna e burro.”
- E meno male che
potevo prendere quello che volevo.
- “Devi
assaggiarlo! È delizioso!” disse poi Edward,
rivolto
ovviamente a me.
- Il ragazzo
iniziò a segnare l’ordinazione ma richiamai subito
la
sua attenzione.
- “Scusa,
ci sono le noci nel pesto?”
- “Un
po’ nella salsa, sì.”
- “Prenderò
le pappardelle ai funghi porcini, grazie.”
- “Come
vuole. Per il secondo?”
- “Ordineremo
il secondo dopo il primo” risposi d’istinto, senza
curarmi della volontà di Edward e, soprattutto, prima di lui
e prima che
potesse decidere anche per me.
- Già
non andavamo bene.
- Il ragazzo si
congedò, aprendoci una bottiglia di vino e una di
acqua.
- Edward mi
guardò con sguardo curioso.
- “Sono
allergica alle noci”, rivelai, infine.
- “Oh,
scusa. Non lo sapevo.” Assunse uno sguardo quasi da cane
bastonato e mi sorprese.
- “Non
importa, non potevi saperlo. Ma la prossima volta evita di
decidere per me senza chiedere la mia opinione, okay?”
- Okay, di solito
non ero così dura e probabilmente non avrei fatto
storie se non fossi stata allergica alle noci ma meglio prendere
precauzioni ed
evitare che il signorino si prendesse non solo il dito ma tutto il
braccio.
- “Okay,
scusami.”
- Sentire Edward
chiedere scusa era quasi un’esperienza, una specie
di avventura in cui non sapevi cosa avresti incontrato: se un faccino
triste,
un sorriso riparatore o una scrollata di spalle.
- In quel caso se
la cavò con un sorriso e sfruttò
l’argomento.
“Quindi sei allergica anche alle nocciole?”
- “Mm
mh.”
- “Quindi
gelato, frappè, cioccolata… nutella!? Niente di
tutto
questo?”
- “Già”
risi. “Beh, quando sono in fase depressiva non riesco a
resistere alla Nutella… e il giorno dopo mi trovo la faccia
piena di bolle.”
- “Fase
depressiva?”
- “Sì,
sai. Quando tutto quello che vuoi fare è fissare la
televisione e ingozzarti di zuccheri fino a stare male, dopo aver
trovato il
tuo ragazzo che si scopa un’altra.”
- “O
dopo aver scoperto di essere rimasta incinta di uno stronzo a
una festa a cui non avresti dovuto essere.”
- Ripensai alla
mia serata passata sul divano a trangugiare gelato a
più non posso, solo poco tempo prima.
- Annuii, incerta
ma lieta che finalmente lui riuscisse a mettere in
mezzo l’argomento senza troppe difficoltà.
- “Sì,
anche in quella occasione, in effetti”, ammisi, cercando di
non appesantire la conversazione.
- “Mi
dispiace” sussurrò, mentre prendeva una mia mano
sul tavolo. E
percepii la totale sincerità sia nelle parole che nel gesto.
“E comunque, ci ha
perso lui.”
- “Eh?”
- “Il
tuo ex-ragazzo. Quello della festa. Ci ha perso lui.”
- Sorrisi
amaramente. “Non è il punto di vista
più condiviso.
Insomma, si è consolato subito e io sono qui…
Sola e incinta, e…”
- “Non
sei sola.”
- “Lo
so, non era quello il senso…”
- “In
che senso allora?”
- Mi guardai in
giro, cercando di prendere tempo e di spiegare nel
miglior modo possibile le mie paure. “Un figlio ti cambia la
vita, Edward.
Occupa il tuo tempo, diventa il centro del tuo universo, vivi per
offrirgli le
migliori possibilità. Tutto l’amore che potresti
mai provare… lo proietti su di
lui, sperando che resti la vera sicurezza della tua vita. Non avrei
creduto di
trovarmi in questa situazione così presto. Avrei
voluto… innamorarmi.
Innamorarmi davvero. Avrei voluto proiettare quell’amore
sulla persona che
sarebbe stato il padre di mio figlio, avrei voluto solo che tutto
andasse
normalmente. Avrei incontrato qualcuno, ci saremmo innamorati, sposati,
casa,
figli. Mi sembra di vivere al contrario invece. È come
quando becchi un film
alla fine e poi lo ridanno sul canale +1 e vedi l’inizio.
C’è qualcosa di
sbagliato, come se non avesse senso andare avanti perché poi
sai già come
finisce e invece dovrebbe essere il contrario, no? Dovresti guardarlo
con
l’ansia e l’eccitazione di voler conoscere quella
dannata fine. E, non so,
magari ad alcuni piace avere già tutto in tasca e sapere
come andranno le cose
ma io… io volevo arrivarci a quella fine senza saperla, non
volevo partire da
lì.”
- Si
assicurò che ebbi finito prima di commentare:
“Finita la
lagna?”
- Alzai il viso e
incontrai il suo… scocciato?
- “Come?”
- “Sei
un po’ una lagna, Bella, se posso dirtelo. Stai qui a
lamentarti della tua vita che va al contrario quando non sai un cazzo.
Cristo,
ma ti sei sentita? Parli come se avessi ottantacinque anni! E invece
quanti ne
hai? Venticinque? Ventisei?”
- “Ventiquattro.”
- “Ventiquattro!
Ventiquattro anni e stai qui con la faccia
addolorata a convincerti del fatto che la tua vita è finita!
Cosa mi stai
dicendo esattamente? Che hai paura di non trovare un ragazzo? Di
restare sola
in quel senso? Di non avere una casa e un marito tuo per… questo?”
- Abbassai lo
sguardo.
- “Beh,
sono una marea di cazzate, perché un figlio ti cambia la
vita, sì, ma non te la ferma, né la blocca,
né la uccide. Non posso dirti che
domani incontrerai l’uomo della tua vita che
accetterà che tu abbia un figlio
da un altro uomo e ti chieda di sposarlo ma, cazzo, se parti
così ti uccidi
ancora prima di provarci! Ancora prima di saperlo! Perciò
smettila di fare la
bambina e renditi conto che la tua vita inizia ora, non importa in che
modo,
okay? E in un modo o nell’altro, avrai comunque me
perché, beh, ormai siamo
legati, in un certo senso. E risolveremo i problemi che verranno senza
bisogno
di aver voglia di spararci una lametta nelle vene o una torta
all’arsenico,
chiari?”
- Privata di
qualsiasi forza di volontà, colpita e atterrata da
quelle parole, mi ritrovai ad annuire.
- “Bene.
Non voglio più sentire discorsi del genere.”
- E in quel momento mi
resi conto che, volente o nolente, Edward Cullen era entrato nella mia
vita: lo
avrei visto per giorni interi, per sempre. Avrebbe potuto consigliarmi,
urlarmi
contro, darmi la sua opinione, dirmi quando qualcosa non gli andava
giù. Gli
sorrisi e mimai un silenziosissimo grazie
con le labbra. Probabilmente non
lo sentì nemmeno lui ma ricambiò il sorriso.
- “Ad
ogni modo, tornando a noi, tu sei davvero sicuro di voler fare
questa cosa? Cioè, davvero?”
- Sembrò
quasi annoiato o ferito dalla mia domanda, come se volesse
dirmi: “Basta mettermi in dubbio, ti ho detto di
sì!” e infatti ottenni una
risposta pressoché simile, prima che lasciasse andare la mia
mano e si
accendesse una sigaretta.
- “Perché?”
- Lui non si
tirò indietro dal rispondere alla domanda. “Vuoi
proprio
sapere come ho fatto a cambiare idea e atteggiamento da un giorno
all’altro,
vero?”
- Annuii. Era
piuttosto ovvio in fondo.
- “Okay,
hai mai letto Joyce?”
- Annuii ancora,
avendo qualche vago ricordo delle letture di Gente
di Dublino al liceo.
- “Ecco.
Hai presente quando Eveline ricorda il suonatore di
organetto italiano che suona con aria malinconica? Vedi, lei da una
parte pensa
ai sacrifici che ha fatto e a una vita fatta di
responsabilità, dall’altra vede
la possibilità di un cambiamento, capisce il senso della sua
vita e che non è
mai troppo tardi per essere quello che avresti potuto essere.
Capisci?”
- Pur non
ricordando quel momento particolare nei racconti, avevo
capito a cosa si riferisse.
- “Epifania…”
sussurrai.
- “Esatto.
Una cosa molto banale ti apre gli occhi ed è come se
capissi tutto per la prima volta, come se tutto fosse chiaro e ti senti
meglio
con te stesso perché sai di stare facendo la cosa giusta. E
non giusta
moralmente, ma giusta perché ti fa stare bene dentro. Poi,
sai, a volte le
persone capiscono i loro errori troppo tardi e passano la loro vita a
cercare
di espiarli. Preferisco redimermi quando sono ancora in
tempo.”
- Era
più che evidente che Edward fosse serio. Non sarebbe
esistito
santo che, sceso in terra, mi avrebbe portato a dubitare di una
spiegazione
così… sentita. Era sentita, sì.
- “D’accordo.
Hai passato l’esame.”
- “Addirittura?
E ottengo un premio?”
- “No,
solo un piccolo angolino buio nelle mie grazie.”
- “Perfida.”
- Risi.
“Scusa, so che posso sembrare pesante ma… avevo
bisogno di
sapere. Non si torna indietro, e non è facile convivere con
me.”
- “Sei
già alla convivenza? Io pensavo di sposarti prima,
no?” mi
prese in giro.
- “Hai
capito il senso, idiota.”
- “Insulti
affettuosi, buon segno.” Rise da solo.
- “La
smetti?” lo ripresi, sentendomi una scema.
- Sorrise
sommesso. “Sono pronto, Bella. E non torno indietro, davvero.
Facciamolo.” Riempì il suo bicchiere di vino e ne
mise un goccio anche a me.
Per questa volta, ci stava.
- Ricambiai il
sorriso. Facciamolo. Facemmo tintinnare i bicchieri e
bevemmo.
- “Bene,
in tal caso ho abbozzato qualche regola che penso dovremmo
seguire per far sì che tutto funzioni nel modo possibile.
Tanto per cominciare,
spegni quella cosa.” Puntai la sigaretta.
- “Mi
stai prendendo in giro?”
- “Per
niente.”
- Lui
sembrò totalmente divertito; forse non gli era chiaro che
invece io ero serissima.
- “Dico
davvero, Edward. Non sopporto il fumo. Non ne sopporto il
sapore e tanto meno l’odore. Ti prego di non fumare quando
sei vicino a me.”
- Alzò
le sopracciglia, evidentemente annoiato da quella prima
clausola, ma vinsi io.
- Trattenne uno
sbuffo e spense la sigaretta silenziosamente, anche
se mi sembrava di poter sentire le urla e i lamenti che battevano pugni
nella
sua testa per cercare di uscire.
- “Contenta?”
- “Non
è solo questo.”
- “Sentiamo.”
- “Okay,
tanto è poca roba, tranquillo. Dovresti ricordare tutto. Al
limite ti faccio una copia.”
- “Sentiamo,
Bella” ripeté.
- Mi schiarii la
voce e presi a leggere. “Okay, tanto per cominciare
niente vezzeggiativi o nomignoli strani, Niente tesoro,
zuccherino o
qualsivoglia epiteto da diabete a tremila. Niente regali, niente
viaggi, niente
scenate di gelosia. Niente costrizioni o restrizioni. Niente
coprifuoco. Niente
diritto di veto su eventuali appuntamenti con altra gente: usciamo con
chi
vogliamo, quando vogliamo. Niente matrimonio o convivenza. Niente fumo
quando
siamo vicini. Ovviamente niente baci di nessun tipo o roba simile. Non
compreremo nulla insieme, che si tratti di una cena o una casa. Per
nessun
motivo al mondo verrò mai più a letto con te, e
non ti innamorerai di me. Tutto
qui.”
- “Finito?”
- “Sì.”
- “Quindi…
sei seria?”
- “Ebbene.”
- “Wow,
sei… molto schematica. Non ti sembra un po’
troppo?”
- “No.
Va benissimo così.”
- “Oh,
andiamo! Va bene per il fumo ma… niente regali? E non posso
nemmeno pagarti una cena, se voglio?”
- “È
meglio così, Edward. Credimi.”
- “No,
mi rifiuto. D’accordo sul fumo, ma questo no. Non voglio fare
a metà se ti invito fuori a cena. E non voglio discutere su
questa cosa. O
tratti o infrangerò ogni singolo punto di questa cazzata.”
- Sbuffai.
“D’accordo. Pagami pure le cena, capirai! Se ci
tieni
tanto.”
- “E se
io non fumo davanti a te, tu smetti di bere caffè.”
- Okay, ora
stavamo esagerando.
- “Lo so
che ne sei dipendente, ma non ti fa bene nel tuo stato.
Devi ridurlo, assolutamente.”
- Avrei voluto
ribattere ma sapevo bene che non avevo uno straccio
di argomento per farlo così lasciai che le parole mi
morissero in gola,
soprattutto dal momento in cui era una cosa che non riguardava solo me
ma anche
il bambino. “D’accordo…”
concordai, infine.
- “Ma
non la concepisco proprio questa cosa. È una stronzata. E
quando dovremo comprare cose tipo culla e passeggini e fasciatoi, come
faremo?
Perché nella tua assurda lista di regole mi sembra che tu
non abbia tenuto
conto di tutti i dettagli…”
- “Ma
perché questa è solo un abbozzo, una specie di
prova per
vedere come vanno le cose tenendo in mente questi punti. Ovviamente
può essere
modificata più avanti, all’occorrenza, e resa
più corposa” sentenziai,
soddisfatta.
- “Sei
una folle, Bella. Una pazza, squilibrata e maniaca del
controllo. Non abbiamo bisogno di questa roba, dai!”
- “Credimi,
ne abbiamo bisogno. Un giorno mi ringrazierai.”
- “Certo,
ti ringrazierò per avermi fatto internare per attacchi
violenti generati da costrizioni comportamentali imposte e sdoppiamento
della
personalità.”
- “Stai
facendo il melodrammatico.”
- “Quindi,
fammi capire, se ti do un bacio sulla guancia, ho automaticamente
infranto una regola?”
- “Esatto,
vedo che apprendi subito!”
- “E che
succede se infrango una regola?”
- “Penseremo
a una punizione adeguata.” Aggiustai il tovagliolo
sulle gambe per evitare di guardarlo in faccia, ma non riuscii a
contenermi per
molto; e quando sentii chiaramente una sua risatina pacata e carica di
sottointesi, alzai il viso per vedere cosa quel ghigno nascondesse.
- “Sai,
Bella, ci sono tante cose che non sai di me… Una di queste
è
che ero un bambino molto ribelle e sono cresciuto infrangendo le regole
impostemi per avere la mia libertà e ottenere quello che
volevo, e ci sono
sempre riuscito.”
- Un groppo di
saliva si annidò al centro della gola e non volle
proprio saperne di scendere.
- “Mi
piacciono le sfide, mi sono sempre piaciute. Sono ostinato e
amo rischiare.”
- Cosa stava
cercando di dirmi esattamente?
- “E non
hai idea di quanto darei per sapere quale punizione avrei
se infrangessi l’ultima regola.”
- Deglutii, mentre
quegli occhi che avevano tenuti incatenati i miei
per secondi interminabili, lasciavano la presa nel momento in cui il
cameriere
si presentò con le nostre portate e la mia testa, in totale
blackout, riuscì ad
elaborare una sola informazione, un solo pensiero. L’ultima
regola.
- Non ti
innamorerai di me.
-
- “Sei
silenziosa”
notò Edward quando, un paio d’ore dopo,
passeggiavamo per le vie calme di un
parco. “Ho detto o fatto qualcosa di sbagliato?”
- Dovevo ancora
abituarmi a quel suo nuovo atteggiamento e quasi mi venne difficile
rispondergli,
anche perché non conoscevo il vero motivo per cui mi ero
ammutolita. Come
sempre, forse, pensavo semplicemente troppo.
- “No,
niente. Ho
solo un po’ di nausea” la buttai lì, e
non era nemmeno una vera bugia. Il dolce
doveva avermi appesantita troppo e ora avevo un leggero fastidio allo
stomaco.
- “Vuoi
che ti
riaccompagni a casa?”
- “No,
no!” risposi
fulminea. “Non è insopportabile”, e
infatti non lo era. Non avrei mai pensato
di dirlo, ma preferivo stare con lui, magari cercare di capirlo un
po’ di più
ad ogni passo.
- “Allora,
Isabella. Raccontami un po’ di te, dai.”
- Mi prese alla
sprovvista. “Ehm, cosa vuoi sapere?”
- Passammo un paio
d’ore seguenti, seduti su una panchina del parco, a parlare
normalmente e con
molta semplicità. Edward volle sapere di me e della mia
famiglia, e io
altrettanto. Scoprii che aveva una sorella maggiore, sposata e con due
figli.
Così come i genitori, viveva in Inghilterra, mentre lui
aveva asserito che quel
posto gli era stretto e aveva
semplicemente voluto cambiare aria e andare, giustamente,
all’altra parte del
mondo.
- “E non
ti manca
la tua famiglia?”
- “Ovvio.
E a te
non manca la tua?”
- “I
miei genitori
hanno divorziato molto tempo fa. Mamma si è risposata e vive
in Florida. Papà,
ahimè, è rimasto scapolo e vive a
Forks.”
- “E
quindi non ti
mancano?”
- “No,
certo che mi
mancano. Insomma, sto bene sola. Loro sono un po’ incasinati,
o almeno lo erano
all’inizio, ma sono okay. Sì, mi mancano a volte,
ma almeno sono nel mio stesso
continente.”
- Edward
passò a
parlarmi della sua decisione di laurearsi in veterinaria.
“Fin da piccolo ho
sviluppato una particolare empatia verso gli animali. Mi fido di loro
molto più
che delle persone”, confessò parlandomi della
clinica in cui aveva iniziato a
lavorare dopo l’università. Ripensai a Edward, il
giorno in cui l’avevo visto
al parco con il suo cane e a quanto sembrasse un’altra
persona con gli animali.
- “Io
adoro gli
animali”, commentai semplicemente.
- “Cani
o gatti?”
- “Cani!
Cani per
sempre! I gatti sono troppo strafottenti. Mi hanno sempre dato
l’impressione di
dipendere da te solo per il mangiare e poi ti guardano con una faccia
che ti
manda a fanculo.”
- Edward rise.
“Sono d’accordo. I gatti sono solo per
sociopatici.”
- Non potemmo non
toccare l’argomento aspettative per il futuro; detto
più semplicemente e con
toni da quinta elementare: cosa vuoi fare
da grande?
- “È
difficile
spiegare a qualcuno quello che vorresti essere quando non lo sai
nemmeno tu.”
Iniziai. “Io non lo so bene… E lo so che
è assurdo e che a quest’ora dovrei
saperlo da un pezzo… ma davvero non lo so.”
- “Ma ci
deve
essere qualcosa che ti interessa.”
- “Beh,
sì ovvio.”
- “Ecco,
se dovessi
vederti in qualche veste, quale sarebbe? Lascia stare i limiti e le
possibilità. Cosa vorresti essere?”
- “Fotografa”
risposi di getto, guidata dalle sue parole, senza nemmeno pensarci.
“Mi
piacerebbe essere una fotografa, magari avere una galleria
d’arte, roba del
genere. Non lo so, immagino che si vedrà. Non si campa di
foto, soprattutto non
ci cresci un bambino.”
- “Hey,
i soldi a
casa li porto io!” scherzò, probabilmente tentando
di tirarmi su il morale.
- “Ma
manco morta!
Per quanto ci scherzi sopra, non farei mai la mantenuta! Piuttosto mi
chiuderei
in un ufficio a rispondere a un telefono, se è quello che
serve.”
- E sarebbe stato
un grande tappo per le mie ali da spirito libero e artistico, ma
l’avrei fatto
davvero se, a lungo andare, si fosse rivelato necessario.
- Lui
continuò a
scherzare a iniziò un’arringa sull’ego
maschile e su come il ruolo della donna
dovesse essere quello di badare alla casa e alla famiglia. Sperai
vivamente che
stesse scherzando e dal tono dava quell’impressione, ma poco
dopo fui
totalmente distratta e smisi di ascoltare quello che stava dicendo.
- Pochi metri
più
in là, un bambino rapì la mia attenzione.
Sembrava avere circa sei o sette
anni, correva avanti e dietro per poi fare capolinea alla panchina su
cui era
seduta quella che doveva essere la madre. Non mi ci volle molto per
capire che
non era totalmente normale.
Bastò
un’occhiata verso di me, uno sguardo più attento
ai suoi movimenti scoordinati,
un grido acuto fuori dal comune, uno scatto delle braccia e delle mani.
Non
seppi definire quello che vidi, non era sindrome di Down e non seppi
darvi un
nome, ma riuscì, in pochi secondi, a crearmi un nodo in gola
non indifferente.
Pensai a cosa poteva essere andato storto, cosa poteva essere successo.
Pensai
a quella madre, al suo peso sul cuore, alle lacrime che, probabilmente,
versava
ogni notte nel letto, in silenzio.
- Sarebbe tornata
indietro, se avesse saputo? Avrebbe fermato il tempo, se lo avesse
immaginato?
Sarebbe andata avanti ugualmente? Avrebbe capito qual era la sua
migliore
possibilità? Sicuramente sarebbe stata con lei, ma dopo?
Quale sarebbe stata la
sua migliore possibilità quando lei lo avrebbe lasciato?
- Sentii gli occhi
inumidirsi e, d’istinto, portai le mani in grembo,
proteggendolo e mi
irrigidii. Pregando, egoisticamente. Ti
prego, fa che non succeda a me. Ti prego, fa che vada tutto bene.
- Passarono pochi
secondi prima che sentissi un braccio attorno alle mie spalle,
trascinarmi sul
petto di Edward.
- “Andrà
tutto
bene, Bella. Tranquilla.”
- Doveva aver
notato dove il mio sguardo era fisso e captato i pensieri che mi
stavano
affliggendo, eppure quelle poche parole non fecero altro che farmi
piangere più
forte.
- Di rimando, lui
prese a carezzarmi la schiena.
- “Hey,
guardami”,
con un dito alzò il mio mento così che potessi
vederlo negli occhi. “Andrà
tutto bene. Te lo prometto.”
- Annuii e
abbozzai
un sorriso, tornando a farmi stringere da lui, e mi domandai se da
qualche
parte, nel mondo, qualcuno stesse vivendo la nostra stessa situazione e
sperai
che una ragazza fortunata stesse sorridendo, come me, sentendo
finalmente
quelle parole provenire dalla persona giusta.
-
- Quando Edward mi
riaccompagnò a casa, il cielo era ormai scuro.
- “Grazie
per oggi”
gli dissi, sugli scalini di casa.
- “È
stato un
piacere, Bella. Davvero. Non sei così male come
pensavo.”
- “Hey!”
- “Regole
e mania
del controllo a parte…”
- Gli diedi un
piccolo colpetto.
- “Ah,
attenta! Mi
hai toccato! Ora dovrei elaborare una punizione…”
- “Spiritoso!”
salii un altro gradino iniziando a mettere distanza tra di noi,
decidendo in un
millesimo di secondo se azzardare o no.
- Decisi per il
sì.
“Senti, vuoi entrare?” Mi resi conto di essermi
mangiata almeno una decina di
vocali. Lui mi guardò, stranito. “Io e Rose
vedremo un film, ma possiamo
chiamare Emmett così puoi non fingere di sentirti a disagio
con due ragazze.”
Piccola frecciatina, ma anche molto amichevole.
- Lui mi
riservò
un’occhiataccia prima di ridere e rifiutare
l’invito perché aveva un impegno.
Non specificò che tipo di impegno e non potei fare a meno di
pensare che si
trattasse di un appuntamento. In fondo io stessa avevo appena stabilito
precise
regole a riguardo e a lui di certo non mancavano ragazze che gli
ronzavano attorno,
eppure il solo pensiero mi diede leggermente fastidio. Non
l’avrei mai ammesso
a lui, ma sapevo che era così.
- “Oh..
Okay”
scrollai le spalle, con aria indifferente, guardandolo
dall’alto del mio
gradino, anche se lui era così vicino, un gradino
più giù, da rendere davvero
minimo lo spazio che ci divideva. “Allora ci
vediamo!” lo salutai.
- “Domani
lavori,
vero?”
- “Sì.”
- “D’accordo.
Magari ci vediamo in serata, se vuoi, non so… Ti
chiamo!”
- “D…
d’accordo.”
- E prima che
potessi rendermi conto di ciò che stava per fare, con un
movimento veloce salì
il gradino che ci separava e, raggiungendo la mia altezza,
posò le labbra sulle
mie.
- Un bacio a
stampo, appena accennato, a fior di labbra; ma pur sempre un bacio.
- E io avevo
chiuso
gli occhi. Pessima, pessima cosa.
- “Buonanotte,
piccola…”
sorrise, quando si staccò da
me, lasciandomi totalmente interdetta, sui gradini di casa, a guardarlo
mentre
entrava nella sua Aston Martin e sfrecciava via.
- Mi portai un
mano
sulle labbra, tracciandone il profilo e credendo quasi di sentire
ancora la
forma delle sue labbra incavate nelle mie.
- Era solo
un’illusione ovviamente ma non potei fare a meno di chiedermi
perché diamine
l’avesse fatto, soprattutto tenendo conto di tutto
ciò che avevamo detto quel
pomeriggio. Nel giro di poche ora aveva già infranto almeno
tre regole, ma con
quello aveva passato il segno.
- Avevo vietato
persino i baci sulla guancia e lui se ne usciva con uno sulle labbra. E
per di
più mi aveva chiamata piccola.
- Figlio di
puttana!
- Ah, ma mi
avrebbe
sentito! Eccome se mi avrebbe sentito! Altro che redenzione!
- Cercai di
calmarmi e fare mente locale per prepararmi alle milioni di domande
che,
sicuramente, Rose aveva in serbo per me.
- Eppure, mentre
giravo la chiave nella porta, tutto ciò a cui riuscivo a
pensare erano le
parole di Edward.
- Mi piacciono le
sfide…
- Sono
ostinato…
- Amo rischiare.
- …se
infrangessi
l’ultima regola.
- Peggio per lui se lo facesse
davvero, pensai mentre entravo in
casa, ma quando, istintivamente, mi leccai le labbra, già
non ne ero più
sicura.
_____________
Spero
di non fare più ritardi di mesi. Chiedo ancora scusa. Grazie
mille a chi legge ancora e aspetta pazientemente i miei tempi
ç__ç
Vi adoro!
Fio
xx
PS:
CONSIGLI DI LETTURA.
-
"The
man who can't be moved" - FF nuova di zecca appena iniziata
da Cloe! Mi raccomando, passateci. E' stupenda! Io già
piango ç_ç
-
"Remember
me"
- Potrebbe anche sembrare che l'argomento ormai sia stato usato e
riusato ma io sono sempre dell'opinione che la qualità sia
meglio della
quantità, e come è narrata questa storia, in
questo modo, non l'ho mai
letto da nessuna parte. Leggetela se non l'avete fatto,
perchè davvero
ne vale la pena. E, se siete (ancora)
fan di Rob e Kristen, vi apre gli occhi su molte cose. :)
|
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Capitolo 8 *** Out and about ***
adito - cap 7
Hola
gente :) Dai, non potete lamentarvi u.u Sono passate due settimane u.u
Il bello è che questo capitolo era tipo quasi finito due
giorni
dopo aver postato l'ultimo ma poi ho avuto 3000 cose da fare e mai un
secondo per scrivere. Come ho detto su facebook, ormai il tempo che ho
a disposizione per scrivere è solo di sera/notte e solo
alcune a
settimana, quindi, non molto xD Mh, non ho molto da dire su questo
capitolo. Magari dico due parole alla fine e, strano ma vero, non ho
canzone di accompagnamento da consigliarvi haha Tra poco cade il mondo
.___. ahaha
Buona lettura! xx
ps: quanto è agsdgfkagsdkfja la foto qui sotto?
ç___ç
(ho appena scoperto che sono Liam e Miley ma è proprio un
hug
alla Robert/Kristen e, infatti, l'abbiamo visto... :') quanto sono
belli ç___ç khakshdfkjas)
Capitolo
8
Out and about
Passai
lo straccio per la centesima volta,
lucidando lo stesso punto come mai prima.
“Bella,
tutto bene?” la voce di Eric giunse
lontana, sebbene fosse proprio accanto a me.
Avrei
voluto dirgli che no, non andava
tutto bene. Mi girava la testa, avevo nausea – che sembrava
prendermi
praticamente a tutte le ore possibili e immaginabili −, ero
stanca, ero delusa,
ero incazzata nera con quel pezzo di merda.
“Sì,
Eric. Perché?”
“Diciamo
che se quel lavello potesse
parlare, probabilmente ti starebbe maledicendo da un’ora
buona. Sembri un po’
stanca… Vuoi andare a casa? Posso sostituirti, tanto il
Mercoledì è morto.”
Scossi
la testa senza nemmeno pensarci.
Stare a casa voleva dire avere tempo libero, e io non potevo averne. Mi
innervosivo quando non avevo nulla da fare perché sapevo,
dentro di me, che
invece avrei dovuto fare migliaia di cose, solo che non avevo idea da
dove
iniziare. Di lì, il nervosismo. Se aggiungiamo che,
probabilmente, sarei stata
ad aspettare una chiamata con più impazienza di quanta non
ne avessi avuta
negli ultimi tre giorni, ottenevo un ottimo biglietto con destinazione:
pazzia.
No,
no. Decisamente non volevo andare a
casa. Scossi di nuovo la testa, con più vigore, e mi
girò più forte di prima,
ma restai ferma e in piedi. “Sto bene, Eric. Tranquillo.
Tanto, l’hai detto tu.
Non c’è molto da fare. Non
c’è problema.”
“Come
vuoi” sorrise per poi andare a pulire
le briciole che i clienti avevano lasciato sui tavoli da biliardo.
Dannazione,
l’avrei fatto io se avessi
saputo un minuto prima chi stava per entrare dalla porta.
Dio
mio, ma perché non mi hai graziata col dono della
chiaroveggenza?
Edward
e tutta l’allegra combriccola dei
suoi amici aveva appena fatto capolino dalla porta, giusto in tempo
perché i
miei occhi si incrociassero con i suoi e vedessero anche la ragazza
accanto a
lui, una che mi sembrava di aver già visto una volta.
Probabilmente una delle
tante galline del suo pollaio.
Lo
vidi fare cenno agli altri di prendere
posto. “Vengo subito.”
Istantaneamente
chinai il capo e tornai ad
accanirmi sul povero lavello sotto le mie mani, fingendo totale
indifferenza.
Con
la nonchalance più sfacciata, vidi la
sua sagoma sedersi sullo sgabello di fronte a me.
“Ciao.”
Stronzo.
Strinsi
i denti, redendomi per la prima
volta conto di quanto davvero mi avesse infastidito quello che aveva
fatto o,
per meglio dire, che non aveva fatto.
“Bella?”
Tentò
ancora ma io continua a preferire il
lavello.
“Oh!”
“Che
vuoi!?” scoppiai, alzando il viso e donandogli
il mio sguardo e tono più acido.
Indietreggiò
col viso, preso alla
sprovvista. “Wo, nervosette oggi? Ti va di parlarne? Che
è successo?”
Non
potei proprio trattenere una mezza
risata isterica. Non potevo credere che me lo stesse davvero chiedendo,
proprio
lui.
“Non
vuoi saperlo. Davvero, meglio che tu
non lo sappia. Va bene così.”
Cambiò
espressione. “Oh, quindi è per colpa
mia?” sembrò stupito.
“Mi
prendi in giro?”
“No.
Non so cosa abbia fatto.”
Lo
guardai per qualche istante, cercando di
capire se mi stesse prendendo per il culo, ma lui era serio. Non se
n’era
nemmeno reso conto e non seppi giudicare se era peggio o meglio.
“Lascia
stare…” sussurrai, infine,
prendendo taccuino e penna e uscendo dal guscio che era diventato il
bancone.
Mi bloccò per un braccio, prima che potessi superarlo.
“Lasciami!
Devo lavorare!”
“Ora
aspetti due minuti e mi dici cosa ho
fatto.”
“Cosa
hai fatto? Niente, Edward! Non hai
fatto proprio niente, è questo il punto!”
Assottigliò
le sopracciglia e capii che
davvero non ne aveva idea. Mi chiesi come fosse possibile che lui non
si
rendesse conto di un minimo particolare che invece a me aveva creato
– e ancora
stava creando – problemi. Forse ero io fatta male.
“Non
capisco…”
“Sai,
quando una persona dice a un’altra
persona che la chiama, ci si aspetta che lo faccia davvero. Magari nel
giro di
tre giorni.”
Allentò
la presa di poco. “È per questo che
sei arrabbiata? Perché non ho chiamato?”
Scrollai
le spalle, cercando di liberarmi
ma lui continuò a trattenermi. “Smettila
di dimenarti. Tanto non ti lascio finché non risolviamo
questa cosa.”
“Allora
moriremo qui.”
“Senti,
mi dispiace, okay?”
“La
smetti con queste cazzo di scuse tutte
le volte?” cercare di avere quella conversazione senza urlare
era estenuante.
Avrei voluto picchiarlo e urlargli contro e magari dargli uno schiaffo
così
forte da lasciargli l’impronta della mia mano, ma non potevo
farlo.
“Mi
dispiace, ho avuto da fare.”
“Oh,
lo vedo bene che hai avuto da fare. Lo
vedo bene come e con chi hai avuto da fare!”
Lanciai
un’occhiataccia alla ragazza che
era entrata con lui e che, proprio in quel momento, aveva girato lo
sguardo
verso di noi, costringendomi a voltare il mio.
“Cos’è?
Una scenata di gelosia? Vai contro
le tue stesse regole? Brava.”
Poteva
sembrare una scenata gelosa ma non
lo era e lui, come al solito, non aveva capito nulla.
“Non
hai capito un cazzo, ovviamente. Non
mi da fastidio se tu non chiami, okay? Ma mi da fastidio se dici che lo
fai
accennando a qualcosa da fare insieme il giorno dopo, e invece non lo
fai.
Perché non ho fatto piani pensando che… Mi hai
lasciata lì, ad aspettare una
telefonata, come una perfetta idiota.”
“Facciamo
qualcosa stasera, mmh?”
“Ma
che credi? Di darmi un contentino? Non
funziona così e ho già un impegno
stasera.”
“Cosa
hai da fare?” e lo disse con quel
tono che lasciava intendere che una ragazza come me non sapesse come
divertirsi; e forse era anche la verità, ma odiavo sentirla
da lui, soprattutto
visto che non aveva alcun diritto di parlare.
“Non
sono affari tuoi!” sputai acida a
livelli estremi.
“Dai,
Bella…”
“No.
Niente ‘dai, Bella’.
Sei un idiota! Anzi, no. Sai che ti dico? L’idiota
sono io. In fondo cosa mi aspettavo. Probabilmente tu dici ‘ti chiamo’
così tante volte per poi non farlo da aver perso il
conto. Probabilmente nemmeno ti rendi conto di dirlo quando lo fai.
Chissà
quante ragazze hai appeso senza nemmeno darci peso. Ma va bene, okay?
Sono
stata scema io.”
“Non
fare la melodrammatica ora.”
“No,
Edward! Non farlo! Non ti azzardare a
darmi della melodrammatica! Non puoi uscirtene con queste cose quando
pare a
te. È vero, a volte sono pesante e schematica e maniaca del
controllo, tutto
quello che vuoi. Ma su questo, no. Hai sbagliato e basta. Non sono io a
non
aver rispetto degli altri, quindi non tentare nemmeno di dare la colpa
a me.
Non è giusto, cazzo! Fai sempre così e la devi
smettere. Perché se tu non hai
rispetto per me, non è colpa mia! E se ti azzardi a baciarmi
un’altra volta, ti
ammazzo. Ma davvero, Edward!” strattonai il braccio e lo
liberai con facilità.
“E ora, scusami, ma devo andare a servire i tuoi amici.”
Quando
approdai al loro tavolo, sentii
qualche paia di occhi puntati su di me, ma non osai alzare lo sguardo e
affrontarli. Non ce la facevo.
“Cosa
vi porto, ragazzi?”
Ordinarono
un paio di birre mentre Edward
tornava, come un cane bastonato e con la coda tra le gambe, a sedersi
accanto
alla sua ragazza. O almeno credetti
che fosse sua dal modo in cui lei
strinse il suo abbraccio e gli diede un bacio sul collo. Mi venne da
vomitare.
“Che
altro?”
“Che
ne dici del tuo numero?”
Alzai
lo sguardo per incontrare quello da
cui era provenuta la voce. Era seduto nell’angolo, capelli
castani, leggermente
scuro di pelle, occhi scuri, ma un bel sorriso e denti bianchissimi.
Non
esattamente il mio tipo.
“Come?”
“Hai
da fare stasera?”
Solo
tipi del genere potevano essere amici
di Edward. La stessa sfacciataggine, la stessa aria da ‘non
mi dirai di no’ e probabilmente l’avrei
fatto se non fosse
stato per una mia vendetta personale.
“Tyler!”
la voce di Edward interruppe le
mie congetture. “Dobbiamo fare quella cosa stasera, ricordi?
La schedina per la
partita.”
“Potete
farla anche senza di me la
formazione, non rompere. Dicevamo?”
Sorrisi,
divertita e soddisfatta allo
stesso tempo. Avrei voluto lanciare uno sguardo ad Edward solo per
avere
l’ulteriore soddisfazione di vederlo stringere la mandibola
fino a farsela
entrare nel cervello. Gli sarebbe stato bene!
“Che
non ho impegni, o comunque posso
disdire. Finisco alle sette. Hai in mente qualcosa?”
Mi
resi conto di quanto potessi apparire
sfacciata anche io; la verità era che non me ne fregava un
cazzo, ecco perché
mi riusciva così bene la parte della ragazza facile.
Sì, probabilmente sembravo
una ragazza facile che da il numero al primo che glielo chiede e la da
al primo
appuntamento, ma al momento non me ne importava. In fondo il loro
mondo, in
primis, era fatto di apparenze. Perché non potevo sembrare
io quella che non
ero, almeno una volta, e per uno sfizio personale?
“Non
ancora, ma posso trovare una soluzione
se mi dici di sì.”
“Certo.”
Segnai velocemente il mio numero
su un foglio del taccuino e glielo allungai. “Io sono
Bella.”
“T…Tyler.”
“Chiamami,
Tyler. Ci conto.”
E
con quella chiara frecciatina, non
guardare Edward sarebbe stato impossibile. Lo fulminai con lo sguardo.
“Vi
porto subito le birre”, e andai via, a
riempire due boccali di birra al malto.
Come
mi aspettavo, non finii nemmeno di
riempire il primo che vidi Edward alzarsi e avvicinarsi.
“Le
tue visite al bancone iniziano a diventare
troppo frequenti e indesiderate, nonché sospette. Stai
attento o ti scappa la
ragazza.”
“Si
può sapere che cazzo ti passa per la
testa!?”
“Che
vuoi dire?” se ci fosse stato un Oscar
in ‘Interpretazione della finta tonta’,
l’avrei sicuramente vinto.
“Voglio
dire che hai appena lasciato il tuo
numero a un ragazzo appena conosciuto!”
“E
allora? Se è per questo sono anche
andata a letto con un ragazzo appena conosciuto. L’errore
più grande della mia
vita.” Frecciatina numero due: colpito e affondato.
“Smettila,
Bella!”
“Smetterla
di fare cosa, di preciso?”
“Ti
stai comportando da immatura!”
“Ah,
io mi sto comportando da immatura? Io?
E per quale motivo, di grazia?”
“Perché
hai appena-”
“Lasciato
il numero a un ragazzo appena
conosciuto! L’hai già detto! E allora? Che
c’è di male?”
“C’è
tanto di male. Non sei tu e inoltre
l’hai fatto solo per farmi incazzare, ammettilo!”
“Scusa,
Edward, ma il mondo non gira
attorno a te. E poi non vedo perché tu dovresti
incazzarti.”
Batté
un pugno sul bancone e mi fece
saltare.
“Calmati”
lo riammonii.
“Non
lo conosci nemmeno. Vuole solo
portarti a letto.”
“Oh,
grazie, Edward, davvero. Grazie mille
per avere così tanta stima di me da credere che a un ragazzo
possa interessare
solo per un motivo. In fondo, chi meglio di te può saperlo,
no?”
“Cristo
santo, piantala! Non è per te! È
per lui! Per come è fatto! Io lo conosco, tu no! Vuole
sempre e solo una cosa!”
Sorrisi
amara. “E cosa c’è di diverso da
quello che vuoi tu?”
Si
prese una pausa prima di rispondere. “Io
voglio solo passare del tempo con te, stasera.”
Mi
trovai a scuotere il capo, chinarlo. “Se
avessi voluto passare del tempo con me, te lo saresti ricordato prima
di
appendermi per tre giorni; prima che un ragazzo mi chiedesse di
uscire.”
Strinse
i bugni sulla lastra di marmo che
copriva il banco. “Ma non avevi impegni quando te
l’ho chiesto.”
Niente,
lui proprio non ci arrivava.
Stavo
per rispondergli quando il telefono
mi vibrò nella tasca del grembiule rosso.
Era
un messaggio da un numero sconosciuto
ma capii dal testo di chi si trattasse, dal momento in cui mi dava
appuntamento
fuori al pub alle nove di quella sera. Alzai il viso per incontrare
quello di
Tyler, gli sorrisi e feci un okay con il pollice in su, in segno di
conferma.
Lasciai
che il sorriso morisse quando
tornai a guardare Edward. “E ora ce
l’ho.” Semplice e fredda, mentre prendevo i
due boccali di birra sul vassoio. “Mi dispiace”
terminai, ma entrambi sapevamo
quanto false fossero quelle scuse.
Non
mi dispiaceva proprio per nulla, se non
per il fatto che, proprio quando credevo che le cose potessero
aggiustarsi e
andare dritte, avevano preso tutt’altra via. La vecchia via.
Fu così che, qualche ora dopo, ero in macchina
di Rose, diretta al pub per una serata totalmente non programmata.
Inutile dire
che il mio livello di euforia rasentava lo zero. Avevo lagnato
già abbastanza
con Rose che se n’era uscita con un: “Te la sei
cercata, ben ti sta!”
Sapevo
che aveva ragione, me l’ero davvero
cercata, ma solo perché c’era Edward e avevo un
disperato bisogno di rifarmi
dall’umiliazione di aver passato anche solo più di
due ore ad aspettare una sua
chiamate che non era mai arrivata.
Dannata
me e la fiducia che ripongo nelle
persone, mi maledetti mentalmente.
“Senti,
giusto perché tu lo sappia, non
approvo totalmente questa cosa. Non sei tu.”
“L’ha
detto anche Edward, la finite?”
“Edward
ti ha già capita fin troppo.”
“Non
direi proprio” risposi, quasi acida.
Iniziavo a diventare intollerante verso tutta la benevolenza di Rose
nei
confronti di quel ragazzo. Cosa doveva averle fatto per accecarle gli
occhi in
quel modo? Eppure avrebbe dovuto stare dalla mia parte!
“Comunque,
è stata una bella mossa. Non me
l’aspettavo da te, ma è stata una bella
mossa.”
Ci
scambiammo un veloce sorriso, complici.
Si
fermò al primo posto libero più vicino
al luogo dell’incontro. Vidi, da lontano, che Tyler era
già lì.
“È
quello?”
“Già.”
“Non
sembra male. Forse un po’ bassino…
vabbè. Ad ogni modo, io non dovrei fare troppo tardi. Puoi
aspettarmi in piedi,
se non sei stanca, così mi racconti. E non fare entrare
nessun ragazzo
sconosciuto in casa nostra per nessun motivo al mondo, okay?”
E
dire che avevo omesso di raccontarle la
piccola discussione con Edward e il suo continuo constatare che Tyler
fosse
interessato solo a quello.
“Tranquilla.
Non accetterò passaggi o
caramelle dagli sconosciuti, non farò l’autostop,
non prenderò la metro, e non
farò entrare nessuno in casa. Va bene, mamma?”
“Questa
sì che è mia figlia! Dammi un
bacio!”
Risi
mentre mi sporgevo per darle un bacio
sulla guancia.
“Sta’
attenta!”
“Sempre!”
chiusi la porta e percorsi i
pochi metri che mi separavano da Tyler. Gli ticchettai la spalla da
dietro e
lui si voltò di scatto, scontrandosi con la tazza di
caffè e facendolo
riversare sui miei pantaloni neri.
“Oh,
cazzo! Cazzo! Bella!”
“Merda…”
“Cazzo,
scusami! Mi dispiace! Mi sei
arrivata di spalle all’improvviso e… Scusa, sono
un disastro!”
Mi
prese il fazzoletto che avevo in mano e
si chinò per asciugarmi il punto proprio sopra il ginocchio.
“Lascia
stare, davvero. Non importa…”
sbuffai, già stanca di quella serata iniziata decisamente
col piede sbagliato.
L’ultima volta che un ragazzo mi aveva rovesciato il
caffè, c’ero finita a
letto ed ero rimasta incinta. Già da lì avrei
dovuto capire che sarei dovuta
tornare a casa seduta stante, ma quando sentii una voce familiare
provenire
dalle mie spalle, capii che da casa non avrei mai dovuto esserci uscita.
“Che
succede?”
Non
avevo bisogno di voltarmi per associare
quella voce a un volto. Ormai la conoscevo troppo bene per sbagliare.
Mi gelai,
mentre Tyler alzava il busto e salutava Edward.
“Mi
sono scontrato con Bella e le ho
rovesciato il caffè sui pantaloni”
spiegò Tyler. “Mi dispiace tanto, Bella.
Davvero.”
Continuavo
a dare le spalle ad Edward, ma
non potevo fare a meno di chiedermi cosa cazzo ci facesse lì.
“Non
fa nulla, Tyler. Tanto sono neri, non
si vede.”
“Ah,
Bella. Loro sono Edward e Lauren.
Edward ha insistito per unirsi a noi, spero che non ti dispiaccia. Non
sono
riuscito a dissuaderlo.
A
quel punto fui costretta a voltarmi,
vedere Edward e la sua gallina in faccia, stringergli la mano,
presentarmi, e
fingere di non conoscerlo.
Che
gran figlio di puttana.
“No,
non fa nulla” scrollai le spalle,
cercando di assumere un’aria disinvolta davanti alla felice
coppia che aveva
allietato ancora di più quella serata. Finalmente davo un
nome alla ragazza di
Edward, anche se, dovevo ammetterlo, tutto sembrava fuorché
che stessero
insieme. Erano distanti, staccati, lontani, freddi.
“Il
caffè alle nove di sera?” osservò
Edward, e leggere tra le righe fu abbastanza automatico.
“Sì,
ci sono giorni in cui arrivo a fine
giornata solo grazie a questo.”
Evitai
di guardare Lauren, ma vedevo che
lei mi squadrava da capo a piedi. Non seppi dare un carattere a quella
ragazza,
come spesso facevo a un primo impatto con le persone. Non che le
giudicassi,
onde poi scoprire di essermi totalmente sbagliata. Semplicemente non
riuscivo a
inquadrarla nemmeno da come era vestita. Aveva una minigonna nera e una
magliettina color oro, molto semplice ma comunque attraente.
Probabilmente
mi sarei vestita più su
quello stile anche io se avessi saputo che Edward avrebbe fatto la sua
comparsa. In fondo, se volevo avere una piccola soddisfazione, tanto
valeva
averla con stile. Ma ormai era andata così.
“Allora
che facciamo?”
“Edward
aveva proposto un cinema, ma io
preferirei più una cena.”
“Sei
pieno di spirito di iniziativa, eh,
Edward?”
“Ho
dei biglietti omaggio che scadono tra
poco.”
Era
incredibile la nonchalance con cui
teneva una conversazione con me, come se nulla fosse. Avrei voluto
essere
capace quanto lui di far finta che tutta quella situazione non mi
infastidisse
o che almeno non mi creasse disagio.
“A
me va il cinema” Lauren disse la sua, e
la vidi guardare Edward in modo così languido che mi fu
impossibile non
immaginarli a limonare nel buio della sala e credere che fosse quello
il motivo
per cui volesse andare al cinema.
Dal
canto mio, adoravo andare al cinema e
sarebbe stato un ottimo modo per far sì che quella serata
finisse il prima
possibile. Potevo sempre chiedere a Tyler di accompagnarmi e lasciare
Edward
nel dubbio eterno: l’avrà fatto entrare in casa o
no?
Dall’esterno
potevo sembrare una ragazzina
gelosa, ma davvero, non era quello il punto e il movente dei miei
comportamenti. Volevo semplicemente dimostrare ad Edward come ci si
sentisse ad
essere presi in giro.
“Per
me va bene” dissi infine, dando il
verdetto finale a quella che sarebbe stata la nostra serata.
“Allora
ci vediamo al cinema”, Tyler.
“Andiamo
con una macchina sola, no? È più
comodo. Dopo torneremo a prendere l’altra. Ho la mia proprio
qui.”
A
Tyler sembrò non fare differenza per cui
non ebbi molta voce in capitolo o probabilmente avrei destato troppi
sospetti.
Edward tentò anche di far sedere lui al posto davanti ma
stavolta sia Lauren
che Tyler stesso si imposero.
“Che
cazzo stai cercando di fare?” ringhiai
tra i denti quando, per qualche secondo mentre Tyler saliva in
macchina, mi
trovai a due centimetri da Edward.
“Solo
il tuo stesso gioco. Vediamo chi
vince.”
E,
ancora una volta, le sue parole mi
avevano ferita più del dovuto. Così mi trovai
seduta con un ragazzo sconosciuto
nella macchina del padre di mio figlio, con annessa ragazza, per il
quale tutto
era solo un gioco. Bella situazione di merda in cui mi ero cacciata. Al
diavolo
la vendetta e la soddisfazione. Aveva ragione Rose: me l’ero
cercata e mai come
in quel momento avrei voluto essere sul mio divano a leggere un libro o
guardare la TV, o fare anche una calza. Ovunque piuttosto che
lì.
Parlammo
di rado in macchina, scoprii che
Tyler non era particolarmente interessante come ragazzo. Il suo
interesse più
coltivato era Assassin’s Creed e non parlava
d’altro.
Presto
smisi di fingermi interessata, fare
domande o ascoltare quello che dicesse. Mi limitai ad annuire ogni
tanto,
fingendo di capire di che diavolo stesse parlando. Edward mise su della
buona
musica e mi concentrai solo su quella, ma la mente vagò
all’ultima volta in cui
ero stata in quella macchina: sedile diverso, conversazioni che
potevano essere
chiamate tali e, soprattutto, ragazzo diverso.
Dio,
quella situazione sembrava tanto più
surreale quanto più ci pensavo.
Grazie
a Dio, arrivammo al cinema
relativamente presto e, vuoi il giorno infrasettimanale, vuoi i
biglietti
omaggio di Edward che, a mia sorpresa, esistevano davvero, ci trovammo
seduti
in poco tempo.
Inutile
dire che grazie a marchingegni
assurdi di quella mente malata, fece in modo di farmi trovare tra lui e
Tyler,
mentre Lauren era alla sua sinistra. Cercai di non pensarci e diedi
confidenza
a Tyler, tentando di iniziare una conversazione su qualcosa di
relativamente
interessante, ma il tentativo cadde nel vuoto, fortunatamente in
contemporanea
alle luci che si abbassavano.
Pausa,
pensai, rilassandomi di poco,
pochissimo. Fu un mera illusione.
Guardare
verso Edward e Lauren mi veniva
così spontaneo che nemmeno ci facevo caso. Non voltavo la
faccia, ovvio, ma
controllavo con la coda dell’occhio quello che stessero
facendo, che
corrispondeva al… niente.
Vidi
la mano di Lauren allungarsi sul
braccio di Edward ma lui rimase impassibile, per poi allontanarla
quando tentò
di scendere più in basso. Si voltò lentamente,
trovandomi totalmente
impreparata al suo sguardo e cogliendomi proprio sul fatto. Distolsi lo
sguardo
e cercai di concentrarmi sul film che, se avevo capito bene, parlava di
una
qualche epidemia dovuta al polline di alcuni fiori: una cosa
inconcepibile e
impossibile da seguire sperando che ti distraesse.
La
mia tregua durò davvero poco visto che,
nemmeno dieci minuti dopo, fui io a sentire una mano sulla mia gamba.
Abbassai
gli occhi, irrigidita, e vidi la mano di Tyler che carezzava lentamente
la mia
coscia. Ringraziai il cielo di aver messo i pantaloni o non avrei
risposto di
me stessa. Lui continuava imperterrito, incurante della mia espressione
per
nulla convinta, e con un sorriso sulle labbra. Proprio quando si
avvicinò
all’interno coscia e stavo per allontanare la sua mano,
Edward si alzò in piedi.
“Vado
a prendere dei pop-corn. Bella,
accompagnami.”
Un
vero e proprio obbligo a cui, nonostante
tutto, fui lieta di obbedire; ma di certo non glielo avrei detto.
Edward
mi prese per un braccio,
costringendomi ad alzarmi e a passare praticamente sopra Tyler. Mi
sembrò di
vederlo muovere le labbra, ma non ebbi nemmeno il tempo di sentire
quello che
aveva detto che Edward mi aveva già trascinato per il
corridoio debolmente
illuminato e fuori dalla sala.
Mi
lasciò, con un piccolo strattone.
“Ma
sei scema o cosa!?”
“Che
cazzo ti prende!?”
Parlammo
insieme ma non avevo alcuna
intenzione di rispondere a una domanda retorica e, per giunta,
offensiva.
“Che
cazzo prende a me?! A te, semmai! Ma
ti sei vista! Ti stavi facendo toccare come se nulla fosse!”
“Primo,
non è vero; avrei allontanato
quella cazzo di mano io stessa se tu non avessi fatto questa uscita
assurda.
Secondo, se pure fosse, non ci sarebbe niente di male. Terzo, non vedo
come
questo debba interessarti. Ho messo delle regole di proposito, Edward.
E questi
non sono affari tuoi!”
“Lo
sono quando conosco la persona con cui
esci!”
“Ah
sì? Non mi ritieni all’altezza di
frequentare il tuo gruppetto di amici?”
“Non
è questo, cazzo! È lui! è sbagliato!
Non è per te!”
“Davvero?
E chi è per me, Edward? Se lo
sai, dimmelo, no? Visto che sembra che tu sia onnisciente e ora anche
onnipresente, illuminami la giornata e risolvimi il problema, almeno
questo.”
Si
zittì per qualche secondo, calmandosi.
“So che non è lui. Smettila di fare la
bambina.”
“Io
non faccio la bambina. Non sono io che
sta giocando qui.”
Scosse
il capo, quasi schifato. “Ti prego,
dimmi che scherzi. Perché se fai sul serio allora non so chi
ho conosciuto.”
Mi
venne da ridere, amaramente. “Ma proprio
nessuno, Edward. Tu non hai conosciuto proprio nessuno, né
stai conoscendo, ne
vuoi conoscere.”
“Vuoi
dirmi che sei sempre così? Che ti
comporti sempre così? Col primo che capita? O magari con
ogni ragazzo che ti
rovescia il caffè? Cos’è, una specie di
rito? Gli hai detto che sei incinta?”
“Certo
che no! Se al primo appuntamento
dico a un ragazzo che sono incinta, scapperebbe a gambe levate! Che
cazzo
credi? Nessuno si prende un impegno così grande, nessuno mi
chiederebbe nemmeno
di uscire se lo sapesse.”
“E
hai tanto rispetto per quel bambino da
pensare prima a te stessa che a lui?”
“Tu
l’hai detto a lei?” Giocai la sua
stessa carta. Se davvero voleva fare il moralista, gli conveniva non
farlo se
non aveva le carte in regola.
“È
diverso.”
“No,
non lo è. Io lo porto in grembo ma
l’abbiamo fatto in due. Hai presente?”
“È
diverso, Bella. Lo sai anche tu.”
“Sei
ingiusto.”
“Sarò
anche ingiusto, ma almeno non sto
prendendo in giro nessuno.”
A
quel punto scoppiai, interdetta.
“Nessuno!? Se non stai prendendo in giro nessuno, allora io
sono l’esatto
opposto di nessuno, perché, credimi, mi sento presa in
giro.”
“Bella…”
“Ti
chiamo, non vuoi saperne di me o del
bambino, non vuoi prenderti le tue responsabilità. Ti faccio
una merda nella
mia testa perché è quello che meriti, e proprio
quando inizio ad abituarmi a
fare tutto da sola, compari al pub con tutta la tua combriccola, mi
porti
all’ospedale, ti freghi una foto dell’ecografia, e
parli di epifania… E
d’un tratto vuoi fare l’uomo
della situazione, quello responsabile e maturo. Mi porti fuori a
pranzo, mi baci, mi dici che mi
chiami e non lo
fai. Mi dici che ci sarai per me ma sarei anche potuta morire in questi
tre
giorni e tu non l’avresti saputo. E poi hai il coraggio di
dirmi che non prendi
in giro nessuno? Hai due facce, Edward, e io ho bisogno di un volto
solo. Non posso
vivere con l’ansia di non sapere con quale Edward avere a che
fare. La vita non
va così, non è tutto un gioco e io non sono una
stupida pedina nelle tue mosse,
da utilizzare a tuo piacimento. Sono una persona, hai presente la
differenza?
Sono una ragazza e sono incinta. E tu sei il padre e devi portarmi
rispetto!”
urlai quelle parole con quanta più indignazione possibile.
“E, cazzo, cacatela
un po’ quella povera ragazza. Non farti il problema della mia
presenza, tanto
peggio di così non può andare. Oppure lasciala se
non vuoi starci. Non hai
quindici anni, cristo santo! Ma soprattutto, Edward, fatti una bella
vagonata
di cazzi tuoi.”
Senza
aggiungere altro, tornai in sala.
Il resto del film lo vidi tenendo le
braccia incrociate al petto, gesto da cui Tyler dovette capire che ogni
invito,
implicito od esplicito, ad andare oltre, non sarebbe stato accettato,
dal
momento in cui non tentò di prendermi la mano più
di due volte.
“Che
si fa? Ormai è tardi per sedersi a
mangiare…” dissi io, quando uscimmo dal cinema,
con la speranza che gli altri
proponessero di tornare a casa, ma niente.
Lauren
propose di sederci a un bar lì
vicino, e così fu.
Quella
serata sembrava non avere più fine e
il mio livello di tolleranza nei confronti di tutti aveva
già superato di molto
l’immaginaria linea rossa che mi ero figurata in mente.
La
conversazione era costantemente a un
punto morto, la situazione era imbarazzante, strana e pesante e io non
avevo
alcuna intenzione di alleggerirla. Su una cosa Edward aveva ragione:
non avrei
dovuto uscirci con Tyler.
Orgoglio,
1 – Bella, 0.
Arrivò
il cameriere chiedendo le nostre
ordinazioni. Edward glissò, Lauren prese un drink e Tyler
ordinò un coppa di
gelato alla nocciola per entrambi.
“Bella
è allergica alle noci e odia che si
ordini anche per lei.”
Edward
parlò come se nulla fosse ma non si
rese conto di aver appena rivelato qualcosa di molto personale, di cui
non
avrebbe dovuto essere a conoscenza. Mi girai per fulminarlo e lui
sorrise;
capii che lo aveva fatto di proposito. A che gioco stava giocando?
Non
lo sapevo e non volevo saperlo. Ero
stanca dei suoi giochetti mentali e non.
“E
tu come lo sai?”, Lauren e Tyler
parlarono quasi all’unisono.
“L’ha
detto prima. Vero?”
Non
risposi e per smorzare la tensione, mi
voltai al cameriere per ordinare un frappè alla fragola,
sperando che
l’argomento cadesse. Fortunatamente fu così, ma
Edward non demordeva e, ogni
parola, frase o movimento, era una buona occasione per mettere in atto
qualunque cosa avesse in mente.
Quando
Tyler si accese una sigaretta, lui
non perse occasione per fargli notare che probabilmente a me poteva
dare
fastidio.
“Ti
da fastidio, Bella?” chiese Tyler, per
assicurarsene. E avrei detto di no pur di non dare quella soddisfazione
ad
Edward ma lasciai perdere.
Annuii
leggermente con il capo mentre lui
spegneva la sigaretta, sbuffando, e Edward sorrideva vittorioso.
Dovevo
evitare di cadere nella sua
trappola. Dovevo semplicemente ignorarlo e tutto sarebbe finito presto.
Ma
come potevo farlo quando, di punto in
bianco, se ne uscì con: “Tyler, cosa ne pensi
dell’aborto?”
Non
sapevo se avesse battuto la testa
pesantemente o se stesse semplicemente cercando qualche modo per farmi
del male
silenziosamente, ma era indiscreto e per nulla adatto alla situazione.
“Ma
che cazzo di domanda è?”
“Rispondi
e basta.”
Sentii
il fumo uscirmi dalle orecchie e
lanciai un’occhiata a Lauren per cercare di capire cosa
pensasse lei di tutto
ciò, delle stranezze del suo pseudo-ragazzo. Ma lei si
limitava a fissarsi le
unghie, aspettando la risposta di Tyler per vedere che presa avrebbe
preso la
conversazione.
“Ma
che cazzo ne so! Boh, alla fine uno fa
quello che vuole.”
“E
se dovessi trovarti a diventare padre
ora?”
“Ma
mi prendi per il culo? Ma manco morto!
Ci mancherebbe solo quello. Ma sei uscito dal Vangelo secondo Edward
stasera?”
Capii,
allora, cosa stava cercando di fare
Edward, ma lo stava facendo nel peggiore dei modi. Cercai di non
lasciarmi
coinvolgere dalla conversazione e di restare impassibile ma,
sicuramente, la
mia reazione tradì le mie intenzioni, tanto da far sentire
Tyler in obbligo di
precisare che ora non sarebbe stato pronto ma che un giorno lo avrebbe
voluto.
“Certo,
è comprensibile” sussurrai in
risposta, ma avevo solo un gran bisogno di vomitare.
“Vado
al bagno, scusate.”
Mi
alzai di scatto ed entrai nel bar. Avevo
appena adocchiato la toilette quando sentii una mano prendermi il
braccio,
costringendomi a voltarmi.
“Bella,
tutto bene?”
“Lasciami…”
“Bella...”
“Lasciami,
Edward!”
“Che
hai?”
“Devo
vomitare.”
“Vuoi
che ti accompagni?”
“No,
voglio che tu sparisca dalla mia vita,
okay?”
Lui
chiuse gli occhi un secondo e allentò
la presa. “Bella, mi dispiace, okay? Volevo solo farti capire
che razza di
idiota è.”
“E
lo stai facendo nel peggiore dei modi,
Edward! Pensi di farmi bene? Pensi di farmi un piacere e di farmi
capire così? Così mi fai solo del male. Tu
continui a farmi solo del male e te
ne devi andare. E io devo vomitare davvero.”
Strattonai
quel poco di braccio che ancora
era rimasto ancorato alla sua presa, entrai in bagno e mi gettai sul
primo
water libero, rigettando il toast che avevo mangiato prima di uscire.
Mi
ci vollero diversi minuti per
riprendermi e stare lì, seduta accanto a un water,
convincendo me stessa ad
essere forte e non piangere.
“Bella?”
Uscii
proprio mentre Lauren entrava.
“Cosa…
fai qui?” sussurrai, un po’
stremata. Mi passai una mano sulla fronte.
“Edward
mi ha mandato a vedere se stessi
bene.”
Non
risposi e mi concentrai solo sull’acqua
fresca che scorreva sulle mie mani. Mi bagnai la fronte e le labbra
cercando di
riprendermi del tutto.
“Ti
ha turbata la conversazione, vero? Ti
capisco, sai. Anche io l’ho fatto.”
Non
ero sicura di stare capendo. “C… cosa?”
“L’ho
fatto anche io. L’anno scorso, ho
abortito.”
Oh,
cazzo.
“Cosa?
Io… io non…”
“Non
fa nulla. È acqua passata. Non era
proprio previsto e non sarebbe andata per niente.”
Cazzo.
Mille domande presero a vagare nella mia testa. Se avessi dovuto
sentirmi
dispiaciuta per lei o dirle che io non ci ero passata, come credeva. Se
avessi
dovuto chiederle come stava, cosa era successo e, soprattutto, con chi.
Ma lei
non mi diede il tempo di farle nessuna di quelle domande e sembrava
totalmente
a suo agio.
“Voi
avete avuto una storia, vero?”
“Eh…
Chi?”
“Tu
ed Edward.”
“No,
no. Niente storia.”
“Ah,
meglio così. Andiamo allora.”
Strana;
una delle conversazioni più strane
che avessi mai avuto. Era chiaro che sapesse qualcosa ma non aveva
voluto
andare oltre. Immaginai che fosse una di quelle ragazze che scappano
dalla
verità perché fa troppa paura, ed è
quello che feci anche io quando tornai al
tavolo.
“Tyler,
non mi sento molto bene. Potresti
accompagnarmi a casa?”
Avevo
visto la mia immagine bianca
cadaverica allo specchio quindi di certo non passò come una
bugia.
“Che
succede?”
Edward
si alzò immediatamente e mi fu accanto
in due secondi.
“Ho
freddo e mi gira la testa…” sussurrai,
tremando.
Prima
ancora che finissi la frase, Edward
si era tolto la giacca e l’aveva poggiata sulle mie spalle,
lasciandomi
totalmente stupita.
“Vado
a prendere la macchina. Aspettate
qui.”
E
così facemmo. Edward tornò due minuti
dopo con la macchina e mi avrebbe accompagnata a casa se non avessi
insistito
che fosse Tyler a farlo.
Quella
soddisfazione non gliel’avrei data,
per nulla al mondo.
“Non
andare con lui…” mi sussurrò
all’orecchio, quando scesi dalla macchina, ma mi limitai solo
a lanciargli una
pessima occhiata.
“Hai
voluto giocare e hai perso, mi
dispiace” fu tutto quello che riuscii a dire mentre gli
ridavo la giacca ed
entravo in macchina di Tyler.
Incrociai
di nuovo le braccia al petto e
non distolsi lo sguardo dal suo nemmeno per un secondo, mentre gli
passavamo
davanti.
Indicai
a Tyler la strada per arrivare a
casa mia. Le luci erano spente, segno che Rose non era ancora tornata
e, vuoi
la voglia di non stare sola, vuoi la malinconia e una leggera paura,
senza
nemmeno pensarci, annuii quando Tyler mi chiese se potesse entrare in
casa.
Nemmeno mezz’ora dopo, proprio mentre mi
accomodavo finalmente sul divano per godere di una serata a modo mio,
sentii
bussare la porta e pensai che fosse Rose che doveva aver dimenticato le
chiavi
di casa, ma mi sbagliavo.
“Che
ci fai qui?”
Con
una rabbia negli occhi che non gli
avevo ancora mai visto, Edward squadrò il mio abbigliamento,
o meglio,
non-abbigliamento: una semplice camicia a quadri che copriva fin poco
sotto
l’inguine.
“Lui
dov’è?”, entrò in casa, senza
nemmeno
chiedere il permesso e iniziò a ispezionare cucina e
salotto, le prima due
stanze accessibili.
“Ma
prego, entra pure. Fa’ come se fossi a
casa tua” dissi, ironica, mentre mi rassegnavo e chiudevo la
porta.
“Bella,
dove cazzo è?”
“Oh,
è nel bagno. Si sta aggiustando
e controllando che, sai, sia
tutto apposto.”
Lo
vidi mordersi le labbra e spalancare la
porta del bagno un secondo dopo, per trovarlo totalmente buio e vuoto.
“Non
è successo niente…”, non era una
domanda, mentre mi affrontava di nuovo.
“Vuoi
dire dopo avermi messo una mano nelle
mutande nemmeno due minuti dopo essere entrati in casa?” lo
affrontai a mia
volta. “No, non è successo niente. Non sarebbe mai
successo niente, Edward.”
Lo
sapevo, sapevo che aveva ragione e
sapevo anche il motivo per cui non gli avevo dato retta.
“E
apri a tutti così?”
“Pensavo
fosse Rose.”
“Come
ti senti?”
“Ora
peggio di tre minuti fa, quindi se
saresti così gentile da tornartene fuori e lasciarmi in
pace…”
“Hai
vomitato? Come stai ora? Il bambino?”
Ignorai
ogni domanda, intenzionata almeno a
sapere qualcosa che interessasse me.
“Da
quanto tempo stai con Lauren?”
Si
passò una mano tra i capelli, esasperato.
“Non ci sto insieme, lo sai.”
“Da
quanto tempo andate a letto insieme?”
“Un
po’, Bella. Ma che cazzo…?”
“Quantifica!”
“Ma
che ne so, qualche mese! Non porto il
conto! Ma che cazzo è successo?”
“Ha
avuto un aborto l’anno scorso” lo
freddai in un secondo.
Sgranò
gli occhi e scosse il capo,
incredulo. “Io… io non ne sapevo niente. Te lo
giuro…” E, nonostante non lo
conoscessi così bene, ormai avevo tanta
familiarità con la sua arroganza da
capire, dalla sua espressione, che non stava mentendo.
“Beh,
ora lo sai.”
“Non
so niente comunque. Ho conosciuto
Lauren alla fine dello scorso anno, quindi potrebbe benissimo non
essere stato
mio. Anzi, al 90% sicuramente è così.”
Sospirai,
mentre sentivo montare il mal di
testa.
Si
avvicinò di qualche passo ma io
indietreggiai, troppo confusa dal sovraccarico di informazioni e
emozioni
contrastanti.
“Bella,
ti prego. Non allontanarmi. Se
anche fosse stato mio, lei non mi ha mai detto nulla e non puoi darmi
la colpa
anche delle decisioni degli altri.”
Aveva
ragione, stavolta. “Puoi… puoi
chiarire questa cosa con lei in ogni caso?” Non sapevo
perché volessi saperlo,
ma volevo saperlo.
“Lo
farò, se lo vuoi. Ma qualunque cosa
sarà, non cambia il fatto che ora
sono qui, con te. Lascia stare lei e pensa a noi.”
Non
riuscii a rispondere tanto il male era sentire
quella parola così priva di significato in quel momento.
Così piena di dubbi e
di se e di ma e di forse.
“Ora
puoi dirmi perché l’hai fatto?”
Sospirai,
cercando di assecondare i suoi
tentativi di andare oltre. Almeno per quella sera, una cosa alla volta.
“Per
vendetta. Volevo… non lo so. Volevo vendicarmi
di… Non lo so di cosa. Non lo
so… Volevo che provassi lo stesso fastidio che avevo provato
io. Non lo stesso,
magari diverso, ma comunque un fastidio.”
“E
come facevi a sapere che avrebbe
funzionato?”
“Perché
tu adori infrangere le regole. Cosa
c’era di meglio se non scatenare una tua scenata di
gelosia?”
“Pensi
che fosse una scenata solo per
infrangere una delle tue stupide regole?”
“Ah,
non lo so. Dimmelo tu.”
E
non rispose, ovviamente. Strinse i
denti e mi fissò.
“Senti,
non lo so cosa fosse. Non mi sarei
comportato così se non avessi conosciuto il soggetto. Voglio
solo che… Mi
dispiacerebbe se dovessi avere a che fare con più di uno
stronzo alla volta.
Non te lo meriti.”
“E
questo lo apprezzo, davvero. Ma non si
fa così, Edward. Non è così che mi
dimostri che un po’ ti interessi a me. Avevi
ragione, okay? Lo sapevi tu, lo sapevo io. Siamo stati due scemi ed
orgogliosi
e io non ho problemi a dirti, ora, che avevi ragione, che non ho
bisogno di un
ragazzo in questo momento, soprattutto di un ragazzo così,
ma… Non ho bisogno
nemmeno di questo. Non posso vivere con i tuoi giochetti, le tue
scommesse, le
scenate di gelosia e i baci a tradimento. Non va così. Non
è quello di cui ho
bisogno ora.”
Edward
aggrottò le sopracciglia e strinse
le labbra. “D’accordo. Allora, dimmi di cosa hai
bisogno.”
Ci
pensai qualche secondo prima di
rispondere, sperando di non fare un altro buco nell’acqua.
“Ho
bisogno di un amico. Qualcuno su cui
poter contare, qualcuno che ci sia quando ne ho bisogno e anche quando
non
chiedo aiuto. Qualcuno che possa consigliarmi senza avere doppi fini,
qualcuno
che metta da parte l’orgoglio e mi aiuti a mettere da parte
il mio. Qualcuno
che voglia starmi vicino senza sentirsi in obbligo, qualcuno che mi
ascolti,
che mi dica di piangere e mi asciughi le lacrime quando lo faccio, che
mi copra
quando ho freddo e mi prepari una tazza di cioccolata calda quando ne
ho
voglia. Qualcuno che mi abbracci quando tremo, che mi tenga la mano
quando ho
paura di non farcela, qualcuno che mi dica che andrà tutto
bene e che sarò una
brava madre e…” una lacrima mi solcò le
guance e, prima che potessi
accorgermene, ero tra le sue braccia.
Un
braccio attorno alle mie spalle, una
mano che mi carezzava dolcemente i capelli, mentre io mi rannicchiavo
in lui e
piangevo ancora di più.
“Sssh…
Piangi, piccola. Piangi. Tranquilla,
sono qui. Andrà tutto bene… e tu sarai
un’ottima madre…”
E
le sue parole, il modo in cui le disse,
non fecero che peggiorare la mia lagna e, senza nemmeno accorgermene,
mi
strinsi a lui ancora di più, aggrappandomi alla sua
maglietta.
“Ce
la caveremo, vedrai. Insieme. Lasciami
essere tuo amico, Bella. Lasciami provare, ti prego. Dammi una
possibilità.”
E
sapevo che, probabilmente, me ne sarei
pentita eppure assecondai quella debole forza del mio cuore contraria
alle
mille del mio cervello che mi avrebbero spinto a dire di no.
Così annuii e
godetti della sua dolce voce sul mio collo.
“Grazie…”
Fu
un solo soffio e rabbrividii.
“Stupidi
ormoni…” singhiozzai contro il suo
petto e lo sentii sorridere mentre asciugava una mia lacrima e lasciava
un
dolce bacio tra i miei capelli.
-
_____________
Ci
tenevo a ringraziare tutte voi che leggete e recensite! Come molte mi
hanno detto (e mi ha fatto molte piacere!) la storia non è
chissà cosa a livello di trama, non ci sono grandi drammi o
tragedia (ed era il mio intendo principale dopo Broken Road,
cioè scrivere qualcosa di più leggero) e mi fa
piacere
che possiate apprezzarla ugualmente e innamorarvi di questi due idioti.
Alla fine quello che a me piace raccontare di più, come
magari
qualcuno sa, è proprio l'inizio di un amore. Penso, e
nessuno mi
farà mai cambiare idea, che è la parte
più bella
di una storia intera, l'inizio di tutto, a cui puoi voltarti e guardare
con un sorriso. Non so... Ho questo pallino per cui, sì, le
mie
storie probabilmente non partirebbero mai con un amore già
raccontato, a meno che non ci sia altro da raccontare.
Vabbè, la
smetto con questo ragionamento contorto, tanto mi sa che mi sto capendo
solo io.
E grazie SC (lol), che mi fai sempre commuovere con le tue
recensioni... ç_ç Aaaaanyway, se avete avuto il
capitolo,
ringraziate Fabiana, perchè è il suo compleanno e
volevo
farle un pensierino; per cui mi sono alzata stamattina e l'ho finito.
Tra l'altro immagino sappiate che EFP ha avuto problemi oggi
pomeriggio, MA, sono ancora le 23:00 quindi sono ancora in tempo *-*
Fa',
anche se probabilmente non lo leggerai nemmeno oggi che magari sei
impegnata (frase che, a questo punto, non c'entra più un
cazzo visto che sono le undici di sera u.u), buon compleanno!
Anche se sei una pazza che mangia deodoranti (huahuha), sei una delle
persone più dolci del mondo...
Ti voglio bene! <3
That said.
Alla prossima! xx
|
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Capitolo 9 *** Sorry... ***
Chiedo scusa per chi ha aperto questo link sperando invanamente di trovare un nuovo capitolo :')
Purtroppo no, non è così e, al momento, penso che non sarà mai così. Avrei potuto eliminare già la storia a questo punto anche perchè tenerla non ha praticamente senso. Però, boh. Ancora non ci riesco. Nella vita "mai dire mai"; quindi, visto che non voglio fare come quelle autrici che lasciano senza nemmeno farsi più sentire, ecco almeno questa nota. Anzi, chiedo scusa per averci messo tanto a scriverla, ma ormai EFP non è nemmeno più nella lista dei miei pensieri. E' semplicemente stato un periodo della mia vita che resterà tale: un periodo. Un periodo che ormai è passato, poche chiacchiere.
Non voglio scrivere un poema elencando tutto quello che mi frulla nella testa, quindi solo questo.
Scrivere mi piace, e forse lo farò ancora in futuro quando avrò gli stimoli e l'ispirazione giusta per farlo. Ma al momento (e penso ancora per molto...) proprio no. Quindi, niente... Scusate davvero ma a un certo punto ho dovuto essere onesta con voi...(come se non si fosse capito già poi... xD lol) Anyway, grazie mille a chi mi ha seguito in questo periodo. :) Siete stati preziosi, davvero! Un bacio a tutti. Fio. |
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