Metallica

di Flaqui
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1 - Esplosione ***
Capitolo 3: *** 2 - Ricorda il nome ***
Capitolo 4: *** 3 - Finestra sull'ignoto ***
Capitolo 5: *** 4 - Chi ride per ultimo ***
Capitolo 6: *** 5 - Quello che sta in alto ***
Capitolo 7: *** 6- Le cose che ho perso nelle fiamme ***
Capitolo 8: *** 7 - Venticinque giri di corsa ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


ANGOLO AUTRICE.
Ok, questa è in assoluto la mia prima Originale, quindi credo possiate immaginare quanto io sia nervosa.
Per le note e informazioni varie ci rivediamo sotto (se ci arrivate, sotto) ma, prima del capitolo, dovete sopportami solo un altro po'.

Questa storia è dedicata interamente e completamente a Bess, perchè senza di lei non sarebbe nemmeno uscita dal computer,  perchè mi sporna sempre e  delle volte un bel calcio nel sedere fa bene a tutti. So che non ti piace il nome, ma spero di aver azzeccato almeno il carattere.
Ringraziamento speciale va a anche a Federica, Giulia, Chiara, Marti e Silvia che mi hanno sopportato per le tre settimane precedenti alla pubblicazione.

 

Prologo

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31 Maggio 2199, Cupola Ovest.
Asa 13, SottoCupola di Danderrion, (Messico).
 
Asa 13, la più occidentale fra le SottoCupole dell’Ovest, era un labirinto caotico e disordinato di stradine e passaggi contorti. I marciapiedi erano bianchi, in origine, ma chiazze di sporco nerastre e spazzatura di ogni genere si affollavano agli angoli delle strade.
Le zone limitrofe al Centro e al palazzo di giustizia erano abbastanza pulite e raffinate, con grandi negozi e parcheggi per le Machines di lusso, ma dopo appena qualche isolato, si iniziava a percepire un’aria diversa.
Melanie si fece largo a spintoni fra la folla, urlando insulti affinché la lasciassero passare. Nessuna delle manifestazioni che avevano organizzato nelle altre SottoCupole aveva ricevuto tanta attenzione e radunato tanta gente come quella che era ora in atto ad Asa 13.
Melanie, mentre dava gomitate in giro per avvicinarsi al palco di fortuna che avevano costruito, non poté trattenersi dal paragonare mentalmente la povera Asa 13 alla tranquilla e benestante Peete, dove era nata e cresciuta.
Jared era in piedi sul piccolo palchetto e stava urlando al microfono.
La folla radunata tutto intorno a lui ruggiva la sua approvazione, gridando il proprio assenso e agitando i pugni e i corpi in un movimento unisono e scoordinato allo stesso tempo.
Melanie si ritrovò spintonata nuovamente indietro, ma, ormai più vicina alla sua meta non si arrese, riprendendo a tirare gomitate per avvicinarsi.
Uno dei fratelli Kensington -così su due piedi non era in grado di identificare quale- la vide agitarsi in mezzo al disordine e si fece largo a spintoni, dandole le mano e aiutandola ad uscire dall’agglomerato di corpi in fermento. Una volta raggiunto il retro del palchetto Melanie lasciò ricadere la mano e il braccio lungo il fianco, sorridendo alla volta del gemello.
Lui si limitò ad annuire, facendo uno sbrigativo cenno del capo, e questo convinse Melanie che si trattasse di Kevin, molto più taciturno e gentile dell’impulsivo Bryce.
Lucy le venne incontro, il solito cipiglio arrabbiato in viso e i capelli corti che le scivolavano davanti agli occhi. Imbracciava un grosso Fucile Incendiario vecchio modello, una riadattazione Deluxe che probabilmente aveva rubato in giro, e scese i gradini del palchetto a due a due, lanciando una occhiata di intesa a Kevin.
«Dove eri?»le chiese, prima ancora di salutarla.
«Sopralluogo» rispose segnaleticamente Melanie, scrollandosi di dosso la grande sacca strapiena di oggetti per la Ricognizione.
Lucy corrugò appena lo sguardo.
«Non iniziare, ora! Mi ha mandato Jared. Dice che ho la faccia giusta per farlo»intervenne Melanie prima che potesse anche solo dirle qualcosa.
«Jared dice sempre un sacco di cazzate. Non è mica detto che siano tutte vere» 
«Basta Lucy» Kevin fece un cenno impercettibile con la testa e Lucy si zittì.
Kevin non era il capo e passava la maggior parte del suo tempo in silenzio, ma questo non significava che non fosse rispettato.
Melanie era con loro da più o meno un anno e mezzo, e aveva quasi l’impressione che il vero leader, lì dentro, non fosse Jared con la sua parlantina, il fuoco nelle vene e la incauta audacia; ma Kevin con le sue poche parole, le sue labbra sottili e la terribile pacatezza.
Lei non aveva un vero e proprio compito, nel loro gruppo -Lucy si divertiva a ricordarglielo spesso- perché non era abbastanza allenata per uscire in missione e neanche abbastanza anonima per fare propaganda o infiltrarsi. Anzi, il fatto che i suoi la stessero ancora cercando, non faceva che mettere ancora più in bilico il già fragile equilibrio che la loro Organizzazione aveva con la legge di Metallica –anche questo Lucy lo ripeteva sempre-. Se l’avessero trovata che gironzolava con loro, i suoi genitori non sarebbero stati clementi con nessuno.
Perciò si limitava a rimanere al Campo Base e a fare brevi giri di Diffusione, sempre accompagnata da qualcuno e solo se non c’era in giro molta gente. Si sentiva inutile, ma la maggior parte delle volte Jared le affidava i Sopralluoghi e quindi non era poi tanto male.
Lucy si allontanò con una espressione vagamente corrucciata ma Melanie, ormai concentrata sulla voce chiara di Jared, non le prestò attenzione.
«Da quando Esatther è piombata su di noi e le Cupole hanno preso il potere, ogni altra verità è stata eleminata. Distrutta e rasa al suolo come le nostre case, i nostri averi e le nostre speranze!» Jared aveva la voce accalorata e ardente e Melanie, anche se da lì poteva vedere solo la linea decisa e tesa delle sue spalle, si immaginò i suoi occhi scuri che si muovevano e soppesavano la piazza stracolma «Ma non tutto è perduto! Io, noi, siamo qui per lottare! Per le nostre case, per i nostri averi, per le nostre speranze e per la nostra verità!» 
«Verità! Verità! Verità!»la folla sembrava impazzita e Melanie non poté trattenere che un brivido d'eccitazione le facesse venire la pelle d'oca.
Jared sapeva prenderle, le persone. Diceva sempre la cosa giusta al momento giusto.
Ma non era solo quello, ottime capacità oratorie e buona dose di testardaggine, era tutto il resto. Iniziava a parlare –o, delle volte, non parlava a fatto- e tu volevi farti prendere da lui –alla sprovvista, di sorpresa, con la guardia abbassata, in tutti i modi in cui una persona può prendere un’altra-.
Come ti guardava, quando parlava, doveva essere quello: l’espressione che aveva quando pronunciava quei suoi discorsi rivoluzionari.
«Da quasi centocinquanta anni a questa parte ci siamo solo noi: poveri, abietti e inascoltati. Comandati a bacchetta da uomini senza scrupoli e senza onore. La Cupola Sud ha una repubblica! Quella Est una Classe Generale con rappresentanti del popolo. La Cupola Nord crede di poterci uccidere tutti –e Dio solo sa se non possa davvero!-. E poi, cara gente uguale-a-me, ci siamo noi. Confinati nell’angolo più lontano del pianeta, isolati da ciò che resta del mondo, che dobbiamo sopportare le angherie di un solo uomo, che diamo i nostri figli e amici al Governo e li mandiamo a morire con i Guerrieri!» Jared fece una pausa ad effetto, come a godersi la reazione dei cittadini di Asa 13, che arrivò immediatamente: urla, battiti di mani, grida e incitazioni.
Melanie sentiva il cuore battere sempre più forte, mentre si avvicinava alla scaletta che portava sul palco. Salì due gradini e, anche senza avere una visuale completa, si meravigliò dell’innumerevole quantità di pugni alzati e corpi ammassati che riusciva a scorgere. Bryce, il fratello gemello di Kevin, era sul palco a qualche passo di distanza da Jared, insieme a Rochi e a Joffrey. Kevin aveva i pugni serrati lungo il fucile a canna e si guardava intorno con fare sospettoso ma anche i suoi occhi bruciavano del fuoco della ribellione.
«Dicono che apriranno nuove Cupole, che vogliono allargare i nostri orizzonti. Ci hanno chiesto di votare per il nome da dare alla prossima SottoCupola. Non vi sentite così tremendamente onorati per essere stati presi in considerazione in una decisione tanto importante? Non vi sentite partecipi alla vita politica?» 
Una voce si alzò ancora più alta fra il rumoreggiare della folla.
«A fanculo! Chiamiamola così la nuova Cupola! E poi ci mandiamo i Governanti!» 
Nuovi applausi e nuove risate si sparsero nell’aria tesa. Melanie vide Jared sorridere di sbieco, ma le sue spalle erano ancora contratte e i pugni grandi stretti. Melanie le fissò ancora e ricordò la sensazione di quelle stesse mani calde sul suo corpo che la accarezzavano senza dolcezza, veloci e esigenti. Chiuse li occhi per un secondo, e lo immaginò voltarsi verso di lei, venirle incontro e portarla via da occhi indiscreti, immaginò i suoi occhi infuocati nei propri e le sue mani grandi e…
«Come possono anche solo pensare di aprire una nuova Cupola se non sono in grado di governare bene nemmeno questa?» 
Jared concluse la sua arringa soffocato da applausi e fece velocemente un cenno con le braccia, cercando di calmare la folla in fermento. Joffrey, affianco a lui, spostava nervosamente il peso del suo corpo da un piede all’altro, e Melanie lo vide guardarsi intorno freneticamente. In un primo momento non se ne era nemmeno accorta, ma adesso, facendoci caso, anche Rochi era in posizione difensiva e con le mani serrate sulla pistola.
Improvvisamente si chiese se, in quella città così favorevole alla ribellione e ad un colpo di stato, ci fosse più pericolo di quanto ne avesse immaginato.
«Ora, gente, prestatemi attenzione. Intendo ora dirvi una cosa che dovrebbe rimanere segreta, quasi quanto li sporchi traffici che i nostri amati Governanti attuano contro la nostra società. Quindi promettete di tenervela per voi, questa informazione»Jared guardò in basso verso la gente e Melanie, dai loro vestiti, riconobbe soprattutto Produttori e qualche Senza-Nome. Kevin le passò accanto e lei nemmeno se ne rese conto, presa come era nel cercare di fare una stima della gente lì riunita.
«Questa…»Jared si lanciò delle occhiate sospettose intorno «Questa è una RIVOLUZIONE!» 
La folla, che fino a quel momento aveva limitato il suo vociare, esplose nuovamente e Melanie seppe che, da quel momento in poi, non si sarebbe più potuti tornare indietro.
Il mondo, così come era, accettava solo due fazioni. Bianco e nero, acqua e fuoco.
Amico o nemico.
Jared e il loro gruppo erano a lungo vissuti nel grigio, opponendosi alle decisioni della Cupola senza però mai prendere una posizione precisa. Kevin, che era l’unico Governante del loro gruppo e apparteneva al Partito Popolare, aveva sempre cercato di mediare con il Governo di Metallica, almeno fino a che non fossero stati abbastanza forti da sfidarla.
Melanie non seppe se lo fossero diventati improvvisamente o se, semplicemente, Jared avesse fatto di testa sua, lasciandosi trasportare dall’eccitazione del momento.
Kevin era salito sul palco, adesso se ne rese conto, e stava dicendo qualcosa a Bryce, sottovoce. Lucy le era accanto, a qualche gradino di distanze e il resto del gruppo era sul retro del Hovercraft e sparso fra la folla, ad incitare li animi.
Joffrey prese la parola cercando di calmare il tumulto con secchi cenni delle mani. I capelli biondi gli scivolavano davanti al viso e dovette spostarseli con la mano non impegnata a reggere l’Amplificatore Vocale. Jared, di solito, era l’unico con la voce abbastanza chiara e forte da non dovere usarlo ma quella mattina aveva dovuto ricorrerci anche lui, visto la grandezza della piazza e la quantità di gente.
«Bene, come il mio amico Jared ha appena concluso di dire, noi non siamo qui per mentirvi. La situazione della nostra Cupola non è delle più rosee e a nessuno sembra importare. Il nostro obbiettivo è appunto questo: dare maggiore attenzione ai bisogni reali del popolo, alle necessità dei Produttori, dei Guerrieri e anche dei Senza-Nome!» la voce di Joffrey era più pacata e tranquilla, e a Melanie non sfuggì il modo in cui avesse evitato di ripetere la parola “rivoluzione”. Joff era anche lui nato in una famiglia di Governanti e si era unito al loro gruppo quando aveva solo sedici anni. Ora ne aveva quasi diciannove, ma non aveva perso la capacità di mediare e ragionare tipica della sua Classe Sociale.
«Noi non vogliamo stragi, morti e esplosioni»Melanie vide Jared alzare li occhi al cielo, a questo punto, ma non interruppe l’amico «Noi vogliamo un Governo fondato sulla sull’uguaglianza, in cui tutte le Classi possano avere a che fare con la politica, in cui il mondo non è retto solo dai Governanti. È un'utopia, direte voi? È giustizia, dico io» 
Jared prese velocemente in mano il microfono e Joffrey retrocesse di qualche passo, scambiandosi una occhiata preoccupata con Rochi. Kevin poggiò una mano sul braccio di Jared e dal modo in cui strinse l’altra sul fucile, Melanie capì che c’era qualcosa che non andava e che l’intervento di Joff era stato un –inutile- tentativo di calmare li animi.
Ma, che Jared lo avesse capito o meno, nulla gli impedì di ergersi in piedi sul palchetto in tutta la sua altezza e di urlare «Non siamo noi, a dover avere paura del Governo. È il Governo a dover avere paura di noi!1» 
Per un attimo la folla rimase in silenzio prima di esplodere in un boato così assordante che Melanie quasi perse l’equilibrio. Si guardò intorno e vide, fra la gente lì riunita, battiti di mani, cori, urla e festeggiamenti, volti accesi e occhi infuocati come lo erano quelli di Jared, ma il clima ardente che si respirava sotto il palco sembrava essere così distante da quello che pervadeva il loro gruppo.
Melanie fissò le labbra serrate di Kevin e ne ebbe paura.
E poi, come se lo avesse sospettato, il rumore di uno sparo risuonò nell’aria, perdendosi fra le varie urla –di gioia, di paura, di terrore-.
«Sono qui! I Guerrieri!» 
«I Guerrieri! I Guerrieri!» 
«Via! Via! Andate via!» 
«Correte!» 
La folla prese a correre, caoticamente e Melanie non fu trascinata via solo grazie alla prontezza di riflessi che l’aveva spinta a salire qualche altro gradino, fino al palchetto. Lì sopra i ragazzi del gruppo avevano imboccato i loro fucili,  e stavano preparando un piano di fuga, ma nessuno aveva ancora osato sparare, per non colpire innocenti passanti.
«Cazzo Jared, ma tu non la sai tenere la bocca chiusa!» Bryce stava inserendo le munizioni nel suo fucile con una velocità tale che le sue mani le apparivano sfocate «Io dico, stavamo in una piazza, con davanti quaranta trilioni di persone, nella città con più guerrieri di Metallica e tu inizi a sparare merda su di loro come se ci fossimo solo noi del gruppo e nessun altro potesse sentirti
Jared, che aveva già afferrato la sua pistola e stava scendendo velocemente i gradini del palchetto, si controllò il coltellino appeso alla cintura.
«Questo gruppo, Bryce, è nato apposta per sparare merda su di loro, se non te lo ricordi. Bisogna pure che qualcuno le dica, queste cose! Se sono l’unico che ha le palle per farlo, ben venga! Altrimenti rimaniamo pure chiusi nel nostro Campo Base, sono sicuro che così cambieranno davvero le cose!» 
Rochi si mise in mezzo prima che la situazione degenerasse «Basta voi due, adesso! Bryce: è una rivoluzione, bisognava pur ammetterlo prima o poi; Jared: avresti potuto avvisarci, senza fare tutto di testa tua come sempre. Ora, usciamo di qui e troviamo li altri» 
Nessuno mise in discussione le parole della donna che, in quanto compagna di Kevin, veniva rispettata quasi quanto il marito stesso. L’aria si era fatta irrespirabile: i Guerrieri avevano lanciato Bombe di Fumo contro la folla, e stavano cercando di farsi largo nella confusione.
Melanie fu grata del fatto che, in mezzo a tutta quella gente, non potessero alzare le loro costose armi e fare fuoco a tabula rasa, per non colpire i civili.
Fu solo quando scesero dalla pericolosa posizione sopraelevata del palchetto che si rese conto di quanto quello valesse anche per loro. In breve si ritrovarono a correre a perdifiato fra la calca, cercando di distinguere qualcosa nella confusione, ma l’unico risultato che ottennero fu quello di divedersi ulteriormente.
Melanie li perse di vista tutti, ad un certo punto, e il panico prese possesso di lei, costringendola a spintonare da ogni parte e a girare quasi intorno a se stessa. Ad un certo punto uno dei Guerrieri di Metallica le passo affianco e lei sentì il profilo del suo fucile sul fianco, mentre gli scivolava accanto, pregando che non si accorgesse di lei.
Fu grata di avere ancora indosso i vestiti per il Sopralluogo, un semplice abitino da Produttore, e non la divisa del loro gruppo: il nero dei Guerrieri in addestramento. Se fosse stato altrimenti avrebbe destato parecchi sospetti visto che non c’erano molte donne fra i Guerrieri.
Alla fine le parve di intravedere la sagoma veloce di Lucy fra la folla e accelerò la corsa.
Quando finalmente la raggiunse la calca si era ridotta ed erano in una stradina minore di poco lontana dalla piazza. Nell’aria risuonavano degli spari e, in un moto di istintivo terrore, Melanie si chiese se non avessero preso qualcuno dei loro.
Lucy non le disse nulla e continuarono a camminare per un pezzo. Melanie vide che sanguinava un po’ dalla spalla, ma non doveva essere una ferita grave, visto che riusciva ancora a reggersi in piedi. Melanie sapeva che l’altra era troppo orgogliosa per chiederlo, perciò si avvicinò di sua iniziativa e la prese sottobraccio, camminando con i piedi che bruciavano e le facevano male.
Alla fine si ritrovarono alla Vecchia Stazione di Asa 13, dove si erano dati appuntamento con li altri, in caso di emergenza e si sedettero su una delle panchine polverose e in disuso ormai da tanto. Lucy aveva preso a controllare la sua ferita che, per quanto brutta al vedersi, non sembrava profonda e lei aveva distolto lo sguardo perché la vista del sangue la infastidiva.
Si ritrovò a pensare a quello che le aspettava. Sin dalla prima volta che si entrava a far parte del Gruppo si veniva messi a conoscenza di una regola: se rimanevi indietro, rimanevi indietro.
Se fossero rimaste solo loro? Se i Guerrieri di Metallica avessero preso tutti li altri?
Cosa sarebbe successo a lei e a Lucy? Come avrebbero fatto se li altri “fossero rimasti indietro”? Era già successo che qualcuno del loro gruppo non arrivasse a fine missione, ma quasi sempre riuscivano a ricongiungersi, a distanza di qualche giorno.
Melanie si guardò intorno e, anche se era passato tanto tempo da quando un treno era passato da lì l’ultima volta, poté immaginare la confusione che regnava sovrana, la gente che scaricava i bagagli dai vagoni e il fischio acuto dell’Espresso che si fermava stridendo sulle rotaie. Fu solo quando aprì li occhi che si accorse del fatto che il fischio nella sua mente era reale e proveniva dalle labbra sottili di Joffrey.
Melanie balzò in piedi senza pensarci sopra e corse verso di loro, gettandosi fra le braccia di Rochi. Anche Rochi aveva un graffio poco profondo sulla guancia e Joff barcollava un po’ e si teneva la testa fra le mani, ma sembravano indenni.
Il suo sguardo corse a Jared, che camminava più indietro con Kevin. Il sollievo di vederli lì, sani e salvi, le esplose nel petto e solo quando fece un passo verso di loro e fece per sfiorarli con la mano, comprese quanto fosse stata preoccupata per loro.
Kevin le sorrise ma si diresse velocemente verso Lucy, a controllare la sua ferita.
Una volta che si fu allontanato Melanie si guardò intorno «Dove sono tutti?» 
«Il gruppo di Tori non era vicino alla sparatoria, sono riusciti a prendere l’hovercraft, arriveranno fra poco» Melanie annuì, sollevata. Quando quella mattina si erano divisi in tre gruppi non avevano minimamente pensato che la giornata si sarebbe conclusa tanto male. Il gruppo di Kevin e Jared era andato alla manifestazione, il gruppo di Tori era rimasto a presidiare il confine della città e il terzo gruppo, quello di Albert, era rimasto al Campo Base.
«Grazie al Cielo!» Melanie sorrise, sollevata.
Fra poco sarebbe scappata da quel posto orribile e dalle false promesse che aveva offerto loro.
Improvvisamente la consapevolezza che Rochi e Lucy stessero sanguinando a pochi passi da lei si fece presente nella sua mente e Melanie, nonostante la naturale avversione che provava per il sangue, si avvicinò alla prima, per controllarle il graffio.
Le afferrò il viso e lo tirò in su, in modo da poter ben vedere la sua fronte. Quando però i suoi occhi incontrarono quelli di Rochi, li trovarono pieni di lacrime.
Boccheggiò appena, perplessa e con un pizzico di timore dentro.
«Cosa… cosa è successo?» 
Nessuno le rispose. Né Joffrey con la sua parlantina pacata, né Rochi con i suoi sorrisi gentili. Nemmeno Lucy e Kevin, che si erano girati verso di loro e si erano zittiti all’improvviso. Nemmeno… dove era Bryce?
«Dove è Bryce?» chiese, ed ebbe paura di conoscere la risposta.
Rochi singhiozzò appena ma le sue labbra rimasero chiuse. Alla fine fu Kevin a risponderle.
«E’ rimasto indietro» 


1- Da "V per Vendetta"




Angolo Autrice.
Ok, sto per avere un collasso nervoso.
I
nsomma è la prima volta che pubblico qualcosa di completamente mio, non ispirato ad opere/film/serie tv già esistenti e devo ammettere che non ho mai avuto tanta paura in tutta la mia vita.
Questa storia è nata quasi per caso, frutto delle serate passate a leggere libri con società distopiche come Hunger Games e Divergent e di una insana passione per i Guerrieri in divise attillate.
So che la situazione politica/sociale delle Cupole (che poi, non so, avete capito che sono 'ste cupole?) non è molto chiara, ma è appena il primo capitolo, scoprirete meglio il tutto in seguito.
Spero davvero che vi sia piaciuto, è un progetto a cui tengo molto.
Per il prossimo aggiornamento direi che per la prossima settimana, massimo dieci giorni, dovremmo esserci.
Per favore fatemi sapere cosa ne pensate, ne ho davvero bisogno!
Un bacione
Fra
 

P.S. I love Ivana <3  

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Capitolo 2
*** 1 - Esplosione ***


Angolo Autrice.

Oh, non posso crede di averlo fatto (di nuovo).
Insomma, quando ho pubblicato il Prologo non mi aspettavo certamente tutto questo successo!
Sette recensioni già al primo capitolo mi hanno fatto toccare il cielo con un dito!
Io non posso fare altro che ringraziarvi enormemente e... beh, insomma, smetterla di blaterare e lasciarvi al capitolo.
Due avvertimenti, uno abbastanza importante e uno un po' di meno.
1) Il primo è che, la storia è in "media res" una tattica stilistica che io sinceramente adoro e che permette al lettore di venire catapultato nel bel mezzo della storia nel prologo.
Insomma, per farla breve: li eventi narrati nel prologo sono ambientati in un determinato periodo della storia. Il primo capitolo parte da circa sette mesi prima, e, piano piano, con l'evolversi della storia, giunge alla Ribellione di Asa 13 in cui abbiamo conosciuto i nostri personaggi.
Quindi, diciamo che questo primo capitolo, così come l'intera storia, ha inizio ben sette mesi prima degli eventi del prologo.
2) Mi sono accorta di aver commesso un piccolo errore nel prologo: ho detto che Melanie era con i Ribelli da circa un anno e mezzo mentre, a conti fatti, è con loro da circa quattro mesi. Non sparatemi, vado a correggere prima di fare altri danni!
Dunque, spero davvero che il capitolo vi piaccia, perchè, essendo il primo serve più che altro come introduzione e, sopratutto la parte iniziale, non è movimentata come il prologo.
Ma il finale è abbastanza a sorpresa, quindi spero che possa comunque piacervi!
Fatemi sapere che ne pensate, voi lettori fantasmi e voi spelndide persone che mi avete già commentato!
Un bacione a tutti, 
Fra

 A Bess,  a  March (autrice del MERAVIGLIOSO banner che ho postato qui sotto), a  Nipotina, a Rosie, a Marti, ad Aniva e a Zia Palla, grazie per il supporto.
E a Fede, sappi che ti voglio taaanto bene.


Parte Prima - Risveglio

Capitolo 1
Esplosione 

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30 Settembre 2198, Cupola Ovest
Peete; SottoCupola Mormont, (Messico)
Recinzione Ovest, Livello Cittadella, Ore 17.46
 
Un pallido anello di sole bruciava fra le nuvole come l’estremità di una sigaretta accesa. Melanie non ne aveva mai fumata una –suo padre glielo aveva severamente proibito- ma Ray se ne stava facendo una in quel momento, e lei si limitò ad inspirare con forza l’odore rilassante della nicotina.
Era appollaiata sulla Recinzione metallica con le gambe penzoloni e il vestitino leggero che si agitava appena per il vento. Era un Vestitino da Produttori, molto semplice e poco decorato, che la mamma di Melanie le aveva regalato qualche settimana prima, in onore del suo diciottesimo compleanno.
A Melanie era apparso sin dall’inizio fin troppo spento –il grigio le moriva addosso e le conferiva una aria spettrale che non le si addiceva- ma l’aveva messo lo stesso, perché aveva diciotto anni ormai: era tempo di crescere e i pantaloni lei non li poteva mettere.
Sophia aveva provato a chiederlo, una volta, perché le donne non potevano indossare i pantaloni come li uomini, ma suo padre aveva liquidato in fretta la domanda con un “E’ la regola: li uomini portano i pantaloni, le donne le gonne. Non c’è bisogno di perdere tempo su queste sciocchezze”. Melanie non la riteneva una sciocchezza –i pantaloni erano così comodi e carini!- ma era stata in silenzio anche lei.
«Vaffanculo, io non ci torno lì dentro!»borbottò ad un certo punto la voce bassa e roca del suo amico, dopo una aspirata particolarmente lunga e profonda.
Ray era un alternativo.
Indossava sempre magliette troppo larghe che, sul suo fisico magro e secco, sembravano ancora più enormi; ascoltava dal suo Kool Portatile musica dal ritmo cantilenante e ossessivo, una nenia senza fine che Melanie non riusciva a sopportare per più di qualche minuto; fumava sigarette che si faceva da solo, con uno strano tabacco delle Cupole del Sud che comprava sottobanco in uno squallido locale fuori Peete; faceva discorsi filosofici, disprezzava le feste che a Melanie tanto piacevano –quelle in cui dovevi semplicemente ballare, lasciarti andare e spegnere il cervello per un po’- e assolutamente, non smetteva mai, nemmeno per un secondo, di pensare.
Melanie non capiva nemmeno la metà dei discorsi che faceva, di solito, ma Ray aveva una bella voce ed era piacevole starlo a sentire, se ti abituavi a concentrarti solo sulla voce e lasciare perdere le sue rivoluzionarie teorie.
A lei non piacevano i suoi discorsi, in effetti. La spaventavano.
Ray parlava sempre del Mondo Di Prima e suo padre le aveva anche proibito anche solo di pensarci a quelle cose. Melanie si ricordava ancora quando, ai tempi in cui i suoi anni potevano essere contati sulle dita delle mani, sua madre la sera si stendeva sul letto accanto a lei e, per farla addormentare, le raccontava storie di un mondo fantastico: favoloso e eccitante da una parte, disgustoso e terribile dall’altro.
Le storie di sua madre erano quanto di più incredibile avesse mai sentito e raccontavano di un mondo in cui non le sarebbe dispiaciuto vivere. Donne al governo, in carriera, che indossavano i pantaloni per vanità e per moda –non solo per questioni pratiche, come i Guerrieri-. Persone dello stesso sesso che si amavano senza remore. Frutta dal sapore gustoso, cereali e tuberi che nascevano direttamente dalla terra, senza aiuto di alcuna macchina o stabilimento. Libri, strani oggetti fatti di carta e inchiostro -che la gente del Mondo Di Prima usava per leggere al posto dei loro comodi O.L.O.- che le persone potevano toccare realmente, portare in giro, infilare in una borsa, sfogliare con le proprie mani e che non si limitavano alle mere lezioni scolastiche o alle Relazioni, ma a storie inventate, create con l’unico scopo di divertire la gente. Un qualcosa chiamato “arte”, un qualcosa che aveva fatto sospirare sua madre e che a Melanie aveva fatto drizzare i peli delle braccia, perché non poteva davvero essere esistito.
E poi tante altre meraviglie su cui Melanie aveva fantasticato ad occhi aperti per intere notti.
Melanie aveva creduto che, tutte quelle cose, sua madre se le inventasse sul momento: erano davvero troppo assurde e inconcepibili, così distanti dalla realtà di tutti i giorni che le lasciavano sempre una strana sensazione alla bocca dello stomaco, come se qualcuno avesse deciso di stritolarlo in un pugno e non lasciarlo più andare.
Poi, una sera, quando le dita delle mani non bastavano più per i suoi anni, aveva sentito i suoi genitori litigare animatamente. Suo padre aveva urlato a sua madre che, continuando così, l’avrebbe resa irrecuperabile: una ragazzina persa in fantasie più grandi di lei. Sophie, di due anni più piccola di lei, si era rannicchiata nel letto accanto al suo e Melanie aveva cercato di ignorare le lacrime che premevano per fuoriuscire.
La sera dopo, fu suo padre a raccontarle una storia. Si era seduto accanto al suo letto –non sdraiato, se ne era rimasto rigido sulla sedia in ferro, con la schiena dritta e le mani chiuse a pugno- e le aveva detto “Vuoi sapere cosa succedeva davvero, nel Mondo Di Prima?”.
E allora le aveva raccontato quello che era davvero successo nel Mondo Di Prima. Le aveva raccontato della confusione, del caos, delle guerre, degli assassini. Delle morti continue, delle sofferenze, della povertà che dilagava, dell’insensibilità dei più ricchi nei confronti dei bisognosi. Del Governo frammentario e corrotto che regolava i numerosi stati del Mondo Di Prima, delle bugie e dei sotterfugi. Della assenza delle Classi Sociali a dare un destino e a regolare la vita –e qui Melanie si era sentita davvero spaventata, un po’ per il tono di voce che suo padre aveva usato, un po’ perché le Classi erano la vita di tutti loro- e delle menzogne, delle cattiverie e dell’ignavia degli abitanti del Mondo Di Prima.
Melanie ne aveva avuto paura, all’improvviso, di quel mondo tanto diverso dal loro ed era stata grata quando suo padre aveva concluso il discorso narrando della venuta di Esatther -“Flagello di Dio”, “La Grande Bomba”, “Creatrice delle Cupole”- la bomba responsabile della fine del Mondo Di Sopra: aveva permesso all’ordine di tornare sulla Terra, aveva ristabilito l’equilibrio e di questo tutti dovevano esserne grati.
Non ne avevano più riparlato.
Delle volte, però, quando Ray iniziava con quei suoi discorsi che iniziavano sempre allo stesso modo ma non avevano mai la stessa conclusione –non ne avevano proprio una conclusione-, Melanie ripensava all’arte, ai libri e alle persone libere che erano vissute su quella stessa Terra prima di lei e si sentiva rabbrividire. Erano forse le uniche parti fra i discorsi di Ray a cui prestava –involontariamente, davvero- attenzione e che la facevano riflettere.
«Mi stai ascoltando?»Ray aveva le braccia incrociate e la sigaretta di traverso nella bocca. Si era tagliato da solo i capelli, ora troppo corti e troppo simili al pelo ispido di qualche animale, e indossava la maglietta nera dei Guerrieri in Allenamento. Stava appoggiato anche lui alla Recinzione che segnava il confine di Peete con la Cittadella e  aveva il suo solito sguardo obliquo. Non sapevi mai, con Ray, se ti stesse guardando o meno.
La Cittadella, dall’altra parte del filo elettrico, era tranquilla come sempre tanto che, se Melanie non avesse saputo cosa succedeva lì dentro, l’avrebbe creduta un quartiere residenziale praticamente abbandonato.
«Ti ho sentito»Melanie fissò la punta della sigaretta bruciare e la cenere cadere piano, dispargendosi nell’aria leggera e finendo sul terreno bruciato e incolto.
Erano passati centoventicinque anni, dopo Esatther, ma il mondo non sembrava volersi riprendere. La zona dove si trovava Peete, prima, si chiamava Città del Messico e un tempo era fertile e bellissima. Glielo aveva detto sua madre, che conservava persino un vecchio pezzo di carta risalente ai Vecchi Tempi, giù in cantina. Era una cartina geografica che teneva nascosta a suo padre e, una volta, a dodici anni, Melanie era andata di nascosto ad osservarla. Il Mondo Di Prima le era apparso immensamente grande, al confronto con il loro.
«Lo dici ogni anno, non importa poi tanto cosa vuoi tu»
Ray il giorno dopo sarebbe ripartito per Metallica. Era il suo secondo anno da Gamma e Melanie aveva paura di trovarlo cambiato, al rientro. Aveva sempre paura che qualcosa cambiasse, in effetti e Ray era un qualcosa di estremamente importante.
Aveva avuto una cotta per lui per circa un anno e mezzo, quando lei aveva sedici anni e lui diciannove. Si conoscevano da tanto e lui era uno dei pochi che le dava retta. Non era bellissimo, con quel suo fisico troppo magro, i capelli o troppo corti o troppo lunghi, il naso aquilino e le labbra troppo sottili; ma le piaceva il modo in cui la trattava: come se non fosse solo una ragazzina troppo stupida, piccola e superficiale per intraprendere un qualunque tipo di conversazione.
Una volta, prima che partisse di nuovo, glielo aveva detto: “Ehi, Ray. Mi piaci, lo sai?”.
Lui si era stretto nelle spalle e l’aveva fissata negli occhi.
«Sono cose che capitano»aveva detto e Melanie non aveva nemmeno avuto il tempo di restarci male prima che aggiungesse «Io non sono giusto per te, e tu non sei giusta per me. Mi sa che sai anche questo»
Melanie lo sapeva, ma aveva voluto provarci, perché sua madre le diceva sempre che, quando tieni a qualcosa, per quanto assurda e impossibile possa essere, devi almeno fare un tentativo.
La loro amicizia era continuata, senza imbarazzi inutili e parole non dette e Melanie, adesso che erano passati tanti anni, era giunta alla sua stessa conclusione.
Erano davvero troppo diversi per poter funzionare insieme. Opposti che non  si attraggano, esseri umani e non calamite. Perciò si era messa l’anima in pace e aveva tranquillizzato suo padre sul fatto che, “no, non sarebbe scappata con quel Guerriero indisponente e irritante”.
«Dico sul serio»ripeté Ray «Questo anno non parto. Non mi importa di quello che dicono li altri o di quello che potrebbe succedere»
Melanie sapeva che, volendo, sarebbe stato in grado di farlo.
Di rifiutarsi di salire su quel treno nero e di passare un altro anno ad allenarsi in cose a cui non era minimamente interessato. Una volta Ray le aveva detto che, se fossero vissuti nel Mondo Di Prima, sarebbe diventato un artista. Melanie gli aveva chiesto che genere di artista e si era domandata che cosa significasse per lui quella parola.
Lui si era stretto nelle spalle e aveva detto «Uno libero»
Non le aveva chiesto che genere di artista sarebbe stata lei, nel Mondo Di Prima, e Melanie ne era stata segretamente grata. Non sapeva che risposta avrebbe potuto dargli.
 
Ray la salutò con un cenno del capo e una pacca sulla spalla.
Melanie fissò il suo profilo secco allontanarsi piano, concentrandosi sulla sua camminata ondeggiante e sperando di rivederlo di nuovo.
Sapeva che era stupido fare di questi pensieri: per quanto orribile e dura potesse essere, Metallica era pur sempre una scuola e non un centro di tortura; ma non riusciva proprio a ricacciare indietro quella brutta sensazione che la invadeva ad ogni partenza di Ray.
Ogni anno, poi, era sempre peggio.
Di quanto era cambiato, Ray, dal primo anno? Quanti sorrisi in meno, quante occhiaie in più sul suo volto, quanti discorsi sempre più freddi, carichi di rabbia e risentimento, quanti vagheggiamenti sussurrati a fil di voce quando nessun’altro a parte lei poteva sentirli?
«Dove sei stata?» la voce di suo padre la fece trasalire mentre, dopo aver lasciato il soprabito grigio all’ingresso, faceva per andarsene in camera «Sono le sette e mezza, manchi da più di tre ore»
Melanie scorse con la coda dell’occhio la figura di sua madre, appoggiata allo stipite della porta, con una espressione stranamente preoccupata in viso.
«Sono andata a salutare Ray. Domani parte per Metallica»
«Quindi se ne va?» suo padre reggeva in mano il Kool argentato e, dopo averle fatto un cenno della mano per trattenerla, finì di comporre con le dita un messaggio. Poi rialzò il capo e la fissò appena «Meglio per noi. Ringrazio il Cielo che quello scapestrato abbia scelto una Classe così astrusa e lontana da casa: almeno non dobbiamo sorbircelo ogni giorno»
A Melanie non piaceva come suo padre apostrofava Ray ma aveva un reverenziale timore a contraddirlo, così si limitò a starsene zitta e a raggiungere camera sua.
Di Sophie non c’era traccia e suppose che fosse a casa di Katerina, la sua migliore amica dai capelli biondi e l’insana passione per la tecnologia primitiva. Sophie le aveva raccontato che i genitori di Kitty erano molto diversi dai loro: le avevano persino fatto provare dei pantaloni, una volta, e la ragazza li teneva conservati come una reliquia nell’armadio.
Mentre attraversava il corridoio che portava alla sua camera sentì dietro di lei l’eco dei passi del padre e, per un attimo, ne fu vagamente sorpresa. Se non per rimproverarle o per ricordare loro le regole del ben comportarsi, suo padre non dava mai molta retta a lei e a Sophie, e quando capitava loro di intrattenere una conversazione,  non erano mai lunghe.
Quando entrò in camera sua, in un primo momento, non lo notò. Poi, quando fece per sdraiarsi sul comodo letto, si accorse del vestito bianco da Governante che era stato accuratamente disteso sulle coperte azzurre.
Il fatto che fosse un vestito da Governante, invece che un comunissimo vestitino da Produttore, saltava all’occhio da ogni dettaglio, anche da quelli meno evidenti.
Le donne, nella Cupola Ovest, disponevano di una gamma di vestiario piuttosto ridotta. Ogni Classe Sociale, di per sé, aveva una uniforme o un qualcosa di distintivo: abiti comuni e poco appariscenti per i Produttori; abiti comodi per i Guerrieri, che garantissero loro una ampia varietà di movimenti e abiti di un certo livello per i Governanti, che puntavano molto sulle apparenze, per svolgere il loro compito.
Ma per il sesso femminile, la scelta si riduceva a semplici vestitini da Produttori –dalla fattura semplice e adatti per il lavoro- alle molto meno diffuse divise per i Guerrieri –che, essendo uguali sia per li uomini che per le donne, prevedevano dei pantaloni-. Ma, le donne che sceglievano di frequentare Metallica erano ben poche, perciò l’opportunità di incontrarne qualcuna per strada era molto ridotta, soprattutto visto che, quando non erano in allenamento o in missione, erano tenute a rimettere i loro vestiti.
Ma quello era un abito da Governante, quello che le ragazze indossavano quando convolavano a nozze con un appartenente a quella Classe Sociale o frequentavano una festa di gran classe, e lei non ne aveva mai provato uno.
«Non rimanere lì impalata: mettilo»la voce di suo padre, dura e decisa, le arrivò da dietro le spalle e la fece sussultare appena. Improvvisamente si chiese se dietro quella scollatura e quelle piccole perle bianche che  intarsiavano i bordi della gonna non ci fosse un altro significato.
«Perché?» Melanie lasciò cadere la mano che stava accarezzando il vestito sul fianco e lo guardò con una punta di sospetto e una brutta sensazione «Hai sempre detto che non avremmo speso soldi per sciocchezze come un vestito»
«Trovarti un buon marito non mi sembra una sciocchezza»
 
L’appuntamento che suo padre aveva organizzato, a sua insaputa, con un Governante, le era stato fatto presente e rivelato solo poche ore prima che il giovane suonasse alla sua porta. Melanie aveva urlato, protestato, dimostrato la propria indignazione. Suo padre le aveva detto di finirla un po’, che gli faceva venire il malditesta, e sua madre aveva cercato di calmarla pettinandole con cura i lunghi capelli biondi.
Melanie non aveva pianto, perché era orgogliosa e aveva accettato il braccio dello sconosciuto alla sua porta –più grande di lei! Di almeno una decina di anni!- senza nemmeno soffermarsi troppo sulla sua figura. Aveva invece lanciato una occhiata di rammarico e indignazione a suo padre ed era avanzata lungo il giardino curato della loro villetta a schiera –uguale a tutte le altre villette di Peete, con giardino e piscina sul retro, posto per almeno quattro Machines e una buona dose di finto perbenismo che trasudava dalle vetrate lucide-.
Mentre si allontanavano lungo il viale alberato Melanie aveva scorto sua madre osservarli dalla finestra, una espressione preoccupata e soddisfatta allo stesso tempo in viso.
Colin, il Governante con cui stava per trascorrere la serata, sembrava in grado di mandare avanti la conversazione praticamente da solo, perciò Melanie aveva semplicemente abbandonato il capo contro il poggiatesta della Machine, lasciandosi cullare dal rumore continuo del motore e dal vento leggero che le scompigliava i capelli, attraverso il finestrino lasciato socchiuso.
Quando Colin le chiese se le dava fastidio –le scompigliava i capelli? Si sarebbe potuta raffreddare, con tutti quegli sbalzi di temperatura!- non gli rispose nemmeno, chiudendo gli occhi e concentrandosi sul basso ronzio della trasmissione radio.
Avevano cenato in un ristorante carino, appena fuori Peete, e avevano conversato –o meglio, Colin aveva conversato, e lei si era limitata a osservare cautamente in giro- dei grandi temi, importanti e adatti ad un primo appuntamento.
«Quindi ho ottenuto la Licenza come Avvocato dei Governanti due mesi fa, all’incirca. La cosa difficile è stata prendere le distanze da tutto quello a cui ero…»
Colin parlava, parlava, parlava. Melanie si sentiva abbastanza in colpa perché lui ci stava provando, ad essere gentile, a mostrare interesse, a cavarle qualche risposta dalla bocca. Ma Melanie riusciva solo a pensare che era così… adulto, vecchio. Troppo grande, per lei.
Troppo serio, buono, benintenzionato. Gli anni che si passavano non erano poi tantissimi, ma la facevano sentire inadeguata.
Ricordò le parole che suo padre le aveva rivolto prima di salutarla, quella sera. Aveva parlato di sistemarsi, di pensare al futuro. Melanie aveva diciotto anni, non voleva pensare al futuro, non voleva sistemarsi, non voleva morire e spegnersi in un casa dalle pareti gialle e dalle vetrate luminose come sua madre.
Colin si era rassegnato al dolce, limitandosi a pagare il conto e ad offrirle educatamente il braccio per scortarla fuori dal locale. Melanie non se la sentì di rifiutare anche quella attenzione così semplice e innocente, perciò lo prese sottobraccio e lo segui camminando stancamente sui suoi tacchi alti fino alla macchina.
Questa volta rimasero entrambi in silenzio e Melanie si concentrò sul lampeggiare convulso e indistinto dei lampioni che scorrevano veloci, lo sguardo fisso sulle linee che costeggiavano il ciglio della strada. Fu quando arrivarono nei pressi del Gran Viale, a qualche isolato da casa di Melanie, che Colin fermò la macchina e parlò di nuovo.
«So che non è stata una serata particolarmente divertente»asserì, e quella non sembrava affatto una domanda, più una constatazione.
Melanie si sentì stranamente in colpa per il modo terribile in cui si era comportata con lui. D’accordo, non le piaceva, era molto più grande di lei e il tutto era stato organizzato a sua insaputa da suo padre, ma questo non toglieva che Colin si fosse dimostrato gentilissimo con lei. Era stato cortese, educato, aveva cercato di fare conversazione e di interessarsi a lei, ricevendo in cambio solo uno ostinato silenzio.
Improvvisamente si chiese come doveva apparirgli. Una bambina piccola, stupida e viziata, testarda come non pochi ed estremamente maleducata, al punto da rifiutarsi persino di ringraziarlo per la cena –che era stata abbastanza costosa, ora se ne rendeva conto-.
«So anche di non essere propriamente il tuo tipo, troppo grande e troppo barboso, forse. E mi dispiace di averti infastidito con questo invito» le mani grandi di Colin erano chiuse attorno al volante della Machine e Melanie si concentrò sulle invisibile piegoline sulle giuntura delle dita «Probabilmente, quando tuo padre ti ha proposto questa uscita ti aspettavi qualcuno di più… diverso, ecco»
Quando Melanie alzò gli occhi su di lui, scoprì che lui la stava già guardando. Non poté impedirsi di arrossire leggermente, mentre si agitava impercettibilmente sul sedile in pelle.
«Sono io a dovermi scusare per il mio comportamento»aggiunse poi, e il viso di Colin si tinse di una espressione così sorpresa che Melanie ne fu stupita lei stessa, la voce fioca udibile appena in quel silenzio denso «Mio padre non aveva fatto parola di questo appuntamento, almeno non fino a qualche ora fa. Immagino di essermela presa anche troppo»
Colin non disse nulla, Melanie lo vide fissare assorto fuori dal finestrino, e lei si sentì incoraggiata a continuare.
«Scusami, se mi sono mostrata scortese nei tuoi confronti. Non era mia intenzione. Ok, forse all’inizio un po’ si, ma era maggiormente per la situazione, non per te» Melanie lanciò anche lei uno sguardo fuori dal finestrino, ma, a parte qualche Generatore di Luce non trovò nulla degno di attenzione «Magari potremmo essere amici»
Colin staccò gli occhi dal marciapiede e li riportò su di lei «Io e te, essere amici?-
«Ti va?»chiese Melanie, con una strana sensazione, come un qualcosa bloccato in gola.
Colin rimase per un attimo in silenzio, soppesando la risposta, prima di dirle con una semplicità disarmante «No, in realtà non mi va affatto»
Melanie boccheggiò, in uno stato confusionario, gli occhi spalancati e le mani che si intrecciavano in un movimento continuo. Non osò alzare il capo, dicendosi che, in effetti se lo meritava. Colin era stato gentilissimo per tutta la durata del loro appuntamento, lei a mala pena ricordava il suo cognome. La vergogna e la sorpresa presero il sopravvento e, anche con le guance in fiamme, lanciò una occhiatina di sbieco al suo accompagnatore.
Lo trovò che stava ridendo, trattenendo a stento un sorriso «Stavo scherzando, andiamo! Non credevi che ne fossi in grado? Ho ventotto anni, non quaranta!»
«I Governanti di solito non scherzano- tentò di giustificarsi lei, ma stava ridacchiando.
«Sappi che questo tuo pregiudizio mi offende oltremodo, cara amica» Colin aveva sorriso, rassicurante «Mi dispiace, Melanie. Per la faccenda dell’appuntamento, del sistemarsi. Perciò ti propongo una cosa, d’accordo? Tuo padre mi ha chiesto di sposarti»
Melanie si sentì il cuore in gola e gli occhi lucidi, così, all’improvviso.
«Lo so che questa è una brutta storia ma… Insomma… Io.. Mi credi, se ti dico che non ti costringerò a fare nulla che non vuoi?»Colin prese un gran respiro, prima di continuare «Io vorrei avere al mio fianco una donna che, se proprio non riesce ad amarmi, perlomeno non mi disprezzasse»
Si girò a guardarla e per la prima volta in tutta la sera Melanie si accorse che aveva li occhi azzurri, come quelli di Ray.
«Quindi… possiamo mirare a questo, per il momento. A non disprezzarci»
 

***

 
31 Settembre 2198, Cupola Ovest
Asa 13; SottoCupola di Danderrion, (Messico)
Vecchia Stazione, Ore 15:27, Espresso per Metallica atteso al Binario 2.
 
Rebecca Anderson non aveva mai baciato un ragazzo.
Aveva sedici anni e se ne vergognava enormemente. Si riteneva una ragazza carina –sua madre glielo diceva sempre, che era un po’ vanitosetta- ma con i ragazzi non ci sapeva proprio fare. Magari riusciva a catturare il loro interesse, all’inizio, ma poi era come se, più le importasse di loro, più fosse incapace di concludere e sfociare in una vera relazione.
A dire il vero c’era stato quell’episodio con Jeremy Johnson, a tredici anni, ma quel casto sfioramento di labbra –durato appena qualche secondo e che venne ricordato da entrambi per i successivi tre anni come un mero incidente di percorso- le appariva un qualcosa di sfocato e privo di importanza, soprattutto se confrontato con i duraturi fidanzamenti e le appassionanti storielle che intrattenevano tutte le sue amiche.
Perciò, quando quella mattina dal cielo plumbeo e nel mezzo della confusione della Vecchia Stazione di Asa 13, Podrick Payne poggiò le labbra sulle sue, rimase impietrita al suo posto.
Fu un contatto viscido e non troppo approfondito che le lasciò una strana sensazione nella bocca e nelle gambe, che le diventarono molli e tremanti in un attimo. Non durò nemmeno molto -anzi a Rebecca non sembrarono essere passati nemmeno dieci secondi prima che lui si ritirasse- e quando finalmente riaprì li occhi il viso di Podrick era così rosso da fare concorrenza al colore del suo maglioncino nuovo.
I capelli neri gli scivolavano sulla fronte ma lui non se li spinse indietro nel solito gesto che sapeva di normalità, di giornate passate al mare e di quella spensierata amicizia che non sarebbe più potuta rimanere tale.
Podrick forse si aspettava che lei dicesse qualcosa ma, per la prima volta da che si conoscevano, Rebecca non trovò nemmeno il coraggio di guardarlo negli occhi. Lui, probabilmente, lo intese come un silenzioso rifiuto e le sue labbra piene –troppo piene e morbide per appartenere ad un ragazzo- si rovesciarono verso il basso, mentre si stringeva nelle spalle e cercava di darsi un tono.
Rebecca lo conosceva da quasi due anni, da quando lui si era trasferito con la sua famiglia di Governanti dalla Cupola Est, ma non si erano mai frequentati molto, se non nell’ultimo anno. Questo non toglieva che non si fosse mai sentito tanto a disagio e fuori posto con lui come in quel momento, nemmeno quando lei e Cathy –che invece lo conosceva da molto più tempo- erano entrate in camera sua senza bussare, una volta, e lo avevano trovato in procinto di farsi una doccia.
Rimasero in silenzio, Rebecca spostando il peso del corpo da un piede all’altro e lui a fissare l’insegna del Caffè dove si erano incontrati qualche minuto prima, fino a che il fischio acuto del treno non si disperse nell’aria colma di voci e odori della Stazione.
Il suono fece risvegliare Rebecca dalla trance temporanea in cui era caduta e cercò di trovare qualcosa da dire. Podrick era stato suo amico per un sacco di tempo e, nonostante il loro impacciato primo bacio e tutto ciò che ne era conseguito, meritava di essere salutato per bene.
«Io…» provò e con sorpresa scoprì che la sua voce traballava appena, rotta da un qualcosa che nemmeno lei sapeva cosa fosse «Io ti scriverò. Si, ti scriverò. E ci vedremo via kool, anche ogni settimana»
Era una bugia: Rebecca lo sapeva e sospettava che anche Podrick ne fosse a conoscenza. Podrick non le piaceva –non in quel senso, almeno- e anche se le fosse piaciuto non avrebbe mai passato tanto tempo via kool con lui, soprattutto con la certezza di non poterlo più rivedere. Però le dispiaceva lasciarlo, questo si. Era stato un buon amico. E le aveva dato il suo primo bacio: questo non se lo sarebbe scordato mai.
Lui sembrava sul punto di vomitare dal nervoso e Rebecca decise che sarebbe stato meglio lasciarlo andare, prima che rimettesse sulle scarpe nuove.
Si lanciò una occhiata veloce alle spalle, dove, a qualche metro di distanza, la attendevano i suoi genitori. Erano arrivati alla Stazione due ore buone prima della partenza: Rebecca aveva sentito che non sarebbe riuscita a rimanere a casa, perciò si era caricato sulla spalla lo zaino azzurro e aveva fatto trascinare a suo padre le due grandi valigie lungo il selciato: alla Machine e poi alla Vecchia Stazione di Asa 13.
Si erano fermati ad un bar e, mentre bevevano del caffè caldo dalle tazzine AutoRiempienti, Podrick era arrivato rosso in volto come non mai e le aveva chiesto di parlare, perché c’era una cosa che doveva dirle -assolutamente, per favore, ti prego.
Ora sua madre era uscita dal bar e la fissava preoccupata; suo padre, invece, si stava accertando che le sue valige fossero smistate con cura sull’Espresso per Metallica, ma, ogni tanto, le rivolgeva una occhiata veloce e ansiosa.
«Allora… beh, ci vediamo, Pod»gli mise una mano sulla spalla e, dal modo in cui il ragazzo sussultò sorpreso al suo tocco, comprese di non essere stata l’unica a risentire dell’inaspettata dichiarazione. Il suo colorito era verdognolo e li occhi bassi, ma Rebecca poteva ancora ricostruire nella sua mente l’immagine del ragazzino esuberante e pieno di allegria che era stato, sempre così gentile con lei e pronto a confortarla, dimostrandole il suo affetto.
Il ricordo di tutti i momenti passati insieme, i pochi in cui erano rimasti da soli e i molti in cui apparivano anche Cathy e i ragazzi della loro compagnia, le fecero venire un groppo alla gola e salire su una gran bella voglia di piangere.
«Si, ci vediamo»ripeté di nuovo, questa volta cercando di metterci maggiore convinzione.
Si sporse ad abbracciarlo velocemente e, per un attimo, mentre affondava il viso nel suo maglioncino rosso, avrebbe quasi voluto poterlo ricambiare: giusto per non farlo sentire ancora peggio riguardo alla sua partenza. Inspirò appena contro il colletto della camicia che portava sotto il maglione e un forte odore di bucato –di sole, pulito, estate, risate, essere amici e tenersi per mano, di quindici anni passati con i piedi immersi nell’acqua del mare a pochi passi da casa, della musica a tutto volume, del rock n’roll che ascoltava Cathy- le entrò nelle narici.
«Ci vediamo davvero, forse»lo ripeté una terza volta e contò mentalmente fino a cinque, prima di staccarsi da lui con un grosso respiro.
Podrick la stava ancora fissando, muto. Era come se, baciandola, avesse preso ogni facoltà di comunicazione. Rebecca lo guardò un’ultima volta prima di girarsi e andare incontro ai suoi genitori. Non si voltò indietro, mentre camminava lungo la banchina affollata, e di Podrick Payne rimase solo un sapore amarognolo e estraneo –non spiacevole, solo diverso- contro le sue labbra sottili.
 
Poco prima di partire una donna dai lineamenti asiatici e dai lunghi capelli corvini si era fatta largo fra la strepitante folla di sedicenni diretti per la prima volta a Metallica, e, dopo essere balzata su una delle vecchie panchine in legno –ignorando il piccolo palchetto di metallo che dei giovani in divisa le stavano sistemando a pochi metri di distanza- si era schiarita la voce.
«Sono Erica Summer»si era presentata con una voce sicura e squillante, premendo con le dita lunghe l’Amplificatore Vocale sulla sua gola «E sarò la vostra responsabile fino a quando non sarete tutti arrivati a Metallica»
Rebecca, che aveva appena salutato i suoi genitori e aveva una gran voglia di piangere, si limitò a guardare all’insù, ignorando il brusio che i ragazzi intorno a lei avevano iniziato di colpo a produrre. La donna non era eccessivamente alta o magra, ma i muscoli delle sue braccia apparivano evidenti sotto la canotta nera che indossava. Non aveva la Divisa Ufficiale, ma un pantalone di uno strano tessuto che Rebecca non seppe riconoscere, sempre nero.
«Ora, prima di salire su questo treno, fatevi dire una cosa. Metallica non è uno scherzo. Ci saranno delle volte in cui tutto vi apparirà così difficile, ingiusto, doloroso e vorreste potervi tirare indietro. Siete davvero pronti a lasciarvi tutto alle spalle e iniziare questa vita?»Erica passò in rassegna i volti dei ragazzi presenti con una espressione dura e piuttosto ostile –Rebecca sentì chiaramente una ragazzina squittire spaventata a qualche metro da lei-, e nessuno sembrò essere in grado di sostenere a lungo il suo sguardo. «Il mestiere del Guerriero, qualunque sia la tua specializzazione, non è facile. Non lo è mai, e se credete di non essere in grado di affrontarlo, allora questo è il momento di prendere le vostre valigie ed andarvene. Perché, una volta saliti su quel treno, non potrete più farlo»
Rebecca nemmeno ci pensò sopra e nessun altro fece cenno di volersene andare.
Erica li fissò appena, un sorrisetto sghembo in viso e le braccia incrociate all’altezza del petto.
«Vedremo quanto resisterete, allora»commentò.
Poi fece loro segno di salire sul treno e Rebecca venne trascinata fra una fiumana di gente, senza nemmeno riuscire a lanciare un’ultima occhiata ai suoi genitori.
Quello sguardo mancato le mise lo stomaco in subbuglio e, nemmeno quando si accomodò nello scompartimento con Anya, una ragazza che abitava a qualche isolato da casa sua e frequentava la sua stessa scuola, riuscì a mettere a tacere le urla e le proteste della sua mente.
 
Rebecca aveva pianto un po’, durante la traversata in treno, con il capo sulla spalla ossuta di Anya e le mani abbandonate in grembo, a stringere il maglione azzurro che sua madre le aveva dato alla stazione. Aveva anche cercato di dormire, ma il continuo sibilare del vento oltre i vetri semiaperti del finestrino e lo sferragliare delle rotaie non le avevano fatto chiudere occhio.
C’erano altri due ragazzi nello scompartimento oltre lei e Anya. Aveva passato con loro ben otto ore ma, non appena uscita dallo scompartimento, non ricordava più i loro volti.
Ora stavano camminando nel lungo corridoio del treno che dava su tutti li scompartimenti e, mano a mano che superavano i vagoni, sempre più ragazzi si univano alla loro processione silenziosa. Rebecca avrebbe voluto rimanere nel loro scompartimento ma Anya e quel ragazzo con i capelli biondi –Mick? Rick?-avevano insistito per andare a comprare qualcosa da mangiare alla carrozza 4 e non aveva voluto rimanere da sola. Quando avevano raggiunto la carrozza 3 si era avvicinato loro un ragazzo dai capelli scuri e un pronunciato naso aquilino che aveva fatto un discreto cenno con il capo nella loro direzione e si era accodato al lor gruppetto.
Più avanti Rebecca era riuscita a distinguere altri piccoli campanelli di ragazzi che camminavano nella loro stessa direzione. A Rebecca sembravano tutti uguali, chi camminava a testa alta e chi con gli occhi in basso, tutti senza volto e senza nome.
Si chiese se anche loro la vedessero e considerassero allo stesso modo.
Quando avevano raggiunto la loro meta finale, la carrozza per i pasti che era stata debitamente provvista di piccoli tavolini, Rebecca cercò di fare una stima di tutta la gente diretta a Metallica. Almeno una cinquantina gironzolavano nel Vagone 4, attardandosi vicino agli stand colmi di cibo, più quelli che non erano ancora arrivati e quelli che erano rimasti nei loro scompartimenti.
Ci rimasero poco: Anya aveva preso una Choclat calda e stringeva la tazza fumante fra le dita sottili mentre il ragazzo biondo –Nicko? Si, si chiama così, forse- aveva le tasche piene delle Caramelle al Gusto Pranzo. Rebecca quelle le odiava, la facevano sentire piena senza aver mai davvero mangiato qualcosa e le gonfiavano lo stomaco, ma l’apaticità in cui era caduta le impedì di confessarlo al compagno.
La strada del ritorno le sembrò più lunga. Anya e Nicko avevano preso a parlare e a ridacchiare appena, e il ragazzo dal naso aquilino aveva deciso di unirsi a loro nello scompartimento.
Quando si chiusero la porta del vagone alle spalle passarono appena dieci minuti prima che Anya mostrasse nuovamente segni di insofferenza. Rebecca non la conosceva molto bene, anche se avevano parlato molte volte, e la ricordava  come una ragazzina piena di vita, mai capace di starsene al suo posto per più di qualche secondo.
«Andiamo a farci un giro!»la voce lamentosa di Anya le arrivò all’orecchio «Sul serio, questo viaggio sembra non finire mai! Non ce la faccio a stare ancora seduta!-
Nicko si disse d’accordo con lei e, dopo aver gentilmente chiesto a Naso Aquilino e a Rebecca se avessero voluto unirsi a loro nella allegra scampagnata, se la filarono sbattendo appena la porta scorrevole.
Rebecca, rimasta sola con il ragazzo dai capelli neri, si limitò a fissare il paesaggio scorrere veloce fuori dal finestrino. La campagna brulla e dai colori spenti si confondeva all’orizzonte con un tetro cielo e, dopo un po’, le parve quasi che l’intero mondo avesse abbandonato ogni colore in favore di quel grigio morto.
«Hem, hem»Naso Aquilino si schiarì la voce e Rebecca, con il capo appoggiato al vetro e li occhi che stavano quasi per chiudersi, sussultò appena.
Lo guardò con un misto di sorpresa mentre si agitava sul sedile imbottito del treno.
«Sono Sean, piacere»disse, allungando la mano verso di lei.
Aveva una mano lunga e dalle unghie ben curate e Rebecca fece passare qualche attimo prima di stringerla con la sua. Si sentiva così intontita e stanca all’improvviso.
«Piacere» disse alla fine, sorridendo appena «Io sono Rebec…»
BOOOOM.
Rebecca sentì il fischio acuto del vento, una sferzata di terrore e adrenalina, mentre una forza invisibile la trascinava per terra e la carrozza, semplicemente,esplodeva. Si accucciò per terra, riparandosi sotto il traballante tavolino che avevano usato per pranzare e ci mise una decina di secondi, lì sotto, per capire che doveva scappare fuori dal vagone.
L’aria era piena di urla, la polvere vorticava freneticamente e l’odore di fumo si faceva prepotentemente largo nelle sue narici. Li occhi presero a lacrimarle –non sapeva se per lo spavento o per altro- e cercò di trascinarsi carponi lungo la parete inclinata e pericolante dello scompartimento. L’intero vagone era a soqquadro. Le poltroncine in pelle erano come saltate in aria e, fra sedili completamente rivoltati, l’imbottitura era fuoriuscita e si era accumulata ai piedi del corpo accasciato di uno dei ragazzi –quello con il naso aquilino e i capelli neri-.
Non aveva gran forza nelle gambe che sentiva molli e tremanti, perciò si limitò a scivolare verso l’uscita. Provò ad urlare, ma il suo grido si disperse fra le altre esclamazioni e richieste di aiuto che sentiva provenire fuori dalla carrozza.
La seconda esplosione fu più forte, più vicina e Rebecca, che aveva afferrato il cardine della porta, fu nuovamente sbalzata all’indietro dal colpo. Rinculò con forza e batté il capo contro l’angolo appuntito del tavolino, cadendo a terra supina.
Questa volta fu più brutto. Non riusciva nemmeno a muovere le braccia, come se le avesse distaccate dal busto e ebbe la sensazione che qualsiasi cosa ci fosse dentro il suo corpo –sangue, acqua, sudore- l’avesse abbandonata, lasciandola completamente vuota e inerme.
Per un attimo non sentì nemmeno dolore e provò a rilassare i muscoli contratti.
Poi, come se si fosse improvvisamente acceso un interruttore, il dolore tornò -tornò tutto- e la lasciò senza fiato. La gamba era come accartocciata su sé stessa e pulsava di dolore. Sentiva qualcosa scorrere lungo le sue guance ma non fu in grado di comprendere se fosse sudore, lacrime o sangue. E la testa girava e pulsava, come se un cerchio di ferro le si fosse serrato attorno alle tempie e le stringesse forte. Nell’aria, questa volta, non c’era solo la polvere a roteare ma detriti, fumo, residui dell’imbottitura dei sedili e urla, pianti e grida di aiuto.
Rebecca non le sentiva bene, le arrivavano indistintamente, come se la sua testa fosse sommersa nell’acqua e udisse da lontano voci in superficie. Anche la sua vista era indistinta, come se una patina trasparente e torbida allo stesso tempo le fosse scesa sugli occhi.
Un attacco di tosse la scosse interamente mentre cercava di rialzarsi. La carrozza era buia - nella sera tarda che faceva da sfondo alla loro tragedia e senza la luce corrente che era scomparsa a seguito della seconda esplosione- ma procedendo a tentoni e grazie ad evanescenti tracce di luce che venivano da oltre la soglia della carrozza, riuscì a strisciare oltre il solco dove prima era la porta.
Il fumo era denso, una cortina indissolubile.
La prima volta era stato terrorizzante, la seconda volta doloroso.
La terza volta, Rebecca nemmeno ebbe il tempo di definirla, sentì solo un colpo secco alla nuca, il corpo che non rispondeva più ai comandi e si accasciava sul parquet del treno, e il buio scese su di lei.

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Capitolo 3
*** 2 - Ricorda il nome ***


Ringraziamento speciale a Bess, Nipotina, Rosie e a Freak the Freak che hanno recensito lo scorso capitolo! Un ringraziamento più che sentito va alla meravigliosa March Hare che mi ha regalato il banner postato qui sotto!

 
Capitolo II
Ricorda il nome

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1 Ottobre 2198, Cupola Ovest
Metallica; SottoCupola Tunner, (Messico)
Infermeria, Vicinanza Alloggi Beta, Ore 19:54
 
Improvvisamente la realtà prese a bruciare di colori accesi e di suoni squillanti. Il freddo sulla pelle, il dolore urticante agli arti, il sapore in bocca intenso e metallico.
Rebecca, distesa su una superficie liscia e gelida, sentì il cuore rimbalzarle nel petto e la paura stringerla in una morsa, spronando i suoi arti goffi e impacciati a muoversi e, allo stesso tempo immobilizzandoli lì.
Fuggire, correre –devo, devo andare, io devo- la sensazione che un qualcosa di terribile fosse sul punto di abbattersi su di lei non le diede pace. Provò a sollevarsi e si accorse di avere li occhi sbarrati. Allora provò ad aprirli e si accorse di non riuscirci.
Era come se le avessero incollato le palpebre: se anche solo provava a schiuderle, sentiva un formicolio spiacevole lungo la spina dorsale e un dolore terribile all’altezza dello sterno.
Si agirò irrequieta e le sue mani, nonostante l’intorpidimento iniziale, incontrarono un qualcosa di freddo e liscio, proprio alla sua destra. Cercò di afferrarlo, qualsiasi cosa fosse, ma le sue dita non rispondevano ai comandi e un verso di frustrazione le uscì dalle labbra.
Non appena si rese conto di poter emettere dei suoni –le sembrava che un enorme peso le fosse stato depositato sul petto e le impedisse di respirare- cercò di modulare la poca voce rimastale per chiedere aiuto. Ma, per quanto si sforzasse, non riusciva che a produrre borbottii indistinti e mugolii che non sarebbero stati uditi da nessuno.
Se avesse potuto tirare un pugno a qualcosa lo avrebbe fatto. La sconfitta e l’impotenza le bruciarono dentro e il cuore prese a battere sempre più forte.
Riusciva quasi a sentirne il rumore, vagamente metallico e ritmico, come il suono di una macchina che… C’era qualcosa altro.
Rebecca lo realizzò all’improvviso, senza nemmeno fare un ragionamento logico, semplicemente ci arrivò. Il suono del suo cuore era accompagnato e scandito dal continuo intercedere di una macchina e, per quanto patetico quel pensiero potesse essere, ne fu tranquillizzata: se fosse stata morta non ci sarebbero state macchine o rumori metallici.
Questa scoperta la rese ancora più determinata a sfuggire all’immobilità e, con uno sforzo in grado di toglierle il respiro, riuscì a distendere completamente la mano destra. L’oggetto freddo che aveva sfiorato poco prima era una sbarra: liscia e tondeggiante. Proseguì con le dita oltre il bordo e ci trovò il vuoto, quasi fosse sospesa nel vuoto.
«Mhmm»il suono che le era uscito dalla bocca, questa volta, fu più chiaro e forte e Rebecca si congratulò con sé stessa. Si ripropose di ritentare di nuovo, di sforzarsi ancora, di rendere nota la sua presenza a qualcuno e stava appunto per riprovarci quando dei suoni –non metallici, non ritmici- le giunsero indistintamente alle orecchie.
A differenza del suono del suo cuore e della macchina, questi le arrivavano più indistinti, vaghi e confusi. Rebecca ebbe appena il tempo di ipotizzare la loro natura umana che una mano calda –e lei aveva tanto freddo, tanto, tanto- le si poggiò sul braccio.
All’inizio fu solo uno sfioramento leggero, e lei lottò per aprire li occhi, ma  poi la presa si intensificò e Rebecca sentì un qualcosa colpirla leggermente, una volta, due volte, tre volte.
La quarta volta il colpo fu abbastanza forte da far formicolare le dita delle mani.
Poi, la quinta volta, la mano –aveva deciso che quella era una mano, anche se la sua temperatura era andata a salire con il passare dei secondi- si staccò di colpo e, insieme con lei, un qualcosa di indefinito che era attaccato alla sua pelle.
Fu abbastanza doloroso e Rebecca sentì i peli delle braccia rizzarsi tutti, ma, non appena quel qualcosa si fu staccata dal suo corpo, si sentì incredibilmente meglio.
Improvvisamente fu in grado di muovere liberamente le mani, le dita, i piedi e il peso all’altezza del petto sparì. Dopo pochi secondi spalancò li occhi.
 
Era completamente nuda, sotto il lenzuolo bianco.
Una parte infinitesimale del suo cervello si chiese come fosse successo, cosa fosse accaduto; ma era una parte infinitesimale, appunto, perché il resto della sua mente era concentrato su… sututto il resto.
Riusciva a vedere tutto. Tutto, ogni singola cosa, ogni singolo particolare.
Le chiazze di colore più intense sulle pareti -lì dove il pennello dell’intonaco era passato più volte- le saltavano all’occhio come se fossero stati evidenziati. Piccole particelle di polvere si agitavano nell’aria e Rebecca riusciva a distinguerle una ad una, come se fossero state grandi come palloni. Riusciva a scorgere con una chiarezza disumana le invisibili ali degli insetti, a calcolare la loro velocità, a intuire da che parte si sarebbero mosse, dove avrebbero girato.
«È come avere mille occhi, mille orecchie e mille mani in più. Bello, eh?»
La testa di Rebecca scattò nella direzione della voce che le si era appena rivolta, ad una velocità disumana e troppo elevata. Se fosse stata… -normale, ecco- probabilmente avrebbe avuto un giramento o, per lo meno, le immagini le sarebbero arrivate sfocate nel movimento.
Eppure le parve, in quel piccolo scatto, di poter percepire ancora più chiaramente tutto quello che la circondava: riuscì persino ad individuare la piccola crepa che attraversava il lucernario.
La voce apparteneva ad un ragazzo dai capelli rasati e una espressione seria in volto.
Rebecca distinse con una facilità innata le invisibili rughe ai lati degli occhi, una piccola cicatrice biancastra all’altezza del mento e ogni singola lentiggine, neo o macchia sulla sua pelle abbronzata.
Era assurdo come, dettagli che non avrebbe mai nemmeno notato, le saltassero all’occhio involontariamente. Una mera casualità e una conoscenza spicciola che le diedero la sensazione di poter riconoscere quel viso fra una folla immensa, dopo averlo visto per appena cinque secondi.
«Cosa… cosa è questa roba?»
La voce le uscì vagamente soffocata e Rebecca si prese un attimo per recuperarla del tutto, prima di parlare nuovamente. Nel mentre i suoi occhi, che non riuscivano a rimanere fermi per più di pochi secondi e continuavano a spostarsi per la stanza, coglievano ogni volta sempre più particolari e li elaboravano in modo continuo.
«E’ veleno. Sei stata ferita troppo gravemente perché potessimo fare niente»li occhi del ragazzo erano rivolti verso il basso e Rebecca non poté nemmeno carpirne il colore «L’unica nostra speranza per salvarti era usare il Rivitalizzatore, nonostante sia una delle cose più dolorose esistenti. Forse non funzionerà nemmeno, è molto rischiosa, come sostanza. Mi dispiace davvero…»
Rebecca sentì il suo cuore sprofondare, affondare nel petto, finirle nello stomaco. Improvvisamente si sentì vuota e persa, come disfatta in un vento invisibile, pronta per essere spazzata via. Serrò i pugni delle mani, come in attesa di un colpo invisibile che la sbalzasse all’indietro come era successo sul treno.
La veloce spiegazione del ragazzo era chiara: avrebbe sentito molto dolore e forse non sarebbe nemmeno sopravvissuta. Ma lei non si era mai sentita meglio in tutta la sua vita e questo, oltre alla enorme varietà di colori, particolari e dettagli che le saltavano all’occhio tutti insieme, la distraevano alquanto.
Se le mie condizioni sono davvero così gravi… perché mi sento così bene?
Fu un attimo. Il sorrisetto del ragazzo davanti a lei comparve per appena un secondo ma Rebecca fu in grado di percepirlo. Era in grado di percepire qualsiasi cosa e questo la speventava –la elettrizzava- ancora di più.
«Stai mentendo. Io mi sento benissimo, se fossi tanto grave sarei…»
Il letto della sua camera, le pareti gialle che si distinguono appena nella penombra, la fronte che scotta contro il cuscino. La strada che porta alla sua scuola, quello stupido di Effrod che la spintona e il ginocchio rosso e poi viola e poi di nuovo rosso e il dolore pulsante. E le unghie conficcate nei palmi delle mani, nell’attesa dei risultati per il Test. E la tosse roca di suo padre, e il Misuram che indicava la temperatura corporea troppo alta, il Tubo che li porta al Centro dei Produttori con Attestazione Medica e…
Mille e mille ricordi le si affollarono davanti agli occhi, tutti collegati fra di loro: quelli in cui era stata malata o in cui aveva visto qualcuno malato, sprazzi di conversazioni e quel poco che sapeva sulla Medycina, tutto le venne riproposto in quell’attimo, porzione infinitesimale di tempo.
Era come se le porte della sua memoria si fossero aperte e tutto le apparisse più definito e nitido. Come se nel suo cervello ci fosse molto più spazio a disposizione, molti più pensieri da sviluppare, più ragionamenti da mandare avanti. Rebecca cercò di concentrarsi su un unico problema ma la sua mente continuava a divagare sugli argomenti più vari e inconsueti.
Ebbe diversi flash completamente estranei alla situazione –un paio di scarpe slacciate, il rock and roll, i raggi del sole, sua madre che le diceva “Sei forte”, sono forte, la polvere che rotea, confusione, stecchita, sei morta, sarai morta fra poco- e il ragazzo di fronte a lei sorrise appena, una smorfia di sufficienza che gli sollevò le guance rasate.
«E’ difficile concentrarsi, vero?»si chinò in avanti avvicinando i loro volti, tanto che Rebecca, dopo essersi stretta con maggiore forza il lenzuolo addosso, indietreggiò appena «Dovresti preoccuparti: la distrazione è il primo segno che il veleno sta facendo effetto. Fra poco non sari in grado nemmeno di…»
«Pyke, smettila di spaventarla»la voce arrivò a Rebecca da un imprecisato punto alle sue spalle ma, per quanto potesse apparire assurdo, lei aveva percepito quel qualcuno muoversi ancora prima che quello effettivamente si muovesse.
Il “qualcuno” era una donna sulla quarantina, dai capelli rossicci e una espressione gentile sul volto segnato dalle rughe. A Rebecca quel sorriso ricordò quello di sua madre e, anche se impercettibilmente, rilassò le spalle contratte.
Pyke sbuffò appena, allontanandosi con studiata lentezza e fissando le spalle nude di Rebecca con una insistenza tale che lei si sentì arrossire «Non stavo facendo nulla, su! Se non ci fossi stato io a toglierle il Connettitore sarebbe ancora ad agitarsi e a mugolare. Sei stata tua dirmi di occuparmi di lei!»
Rebecca spostò lo sguardo sulla donna, in attesa di sentirne la risposta e, prima ancora che potesse pronunciare alcunchè, fu in grado di prevedere che movimenti avrebbero compiuto le sue labbra. Quella, come se avesse capito cosa le stesse passando fra le testa, le lanciò un sorriso incoraggiante.
«Ben svegliata, cara. Sono felice che tu ti sia rimessa senza problemi. Mi dispiace di non essere stata qui, al tuo risveglio, ma con tutto la confusione che si è scatenata l’Infermeria è stracolma. Confido che Pyke ti abbia trattato con garbo e che ti abbia spiegato come funziona» esordì la donna, prendendo posto sul suo lettino dalla parte opposta rispetto al fastidioso ragazzo «Sono Malina Yorinch, Guerriero di Livello Beta con Specializzazione Medica»
La mano di Rebecca scattò in alto qualche secondo prima del previsto e l’Infermiera sorrise appena, alzando anche la sua e restituendole una stretta salda e rassicurante.
«E’ veleno, quello che ho in circolo?»chiese poi, soltanto per avere conferma delle sue supposizioni e chiarimenti sul suo stato.
La fronte di Malina Yorinch si corrugò appena e delle rughe di espressioni si formarono sulla fronte, mentre inclinava appena la testa «Cosa? Certo che no! Come ti è venuto in mente?»
Rebecca lanciò uno sguardo fugace a Pyke e lo trovò a ridacchiare sommessamente. Si soffermò qualche secondo sulla piccola e invisibile cicatrice che segnava il suo collo e spariva oltre il bordo della maglietta nera, prima di tornare a rivolgersi all’Infermiera.
«E allora cosa è successo? Perché mi sento così… così…»Rebecca non continuò la frase non perché non riuscisse a trovare un termine adatto per completarla ma, anzi, perché la sua mente era scattata in avanti e aveva raccolto ogni parola esistente che potesse adattarsi alla situazione. In un riflesso involontario, le sue mani andarono a stringerle il capo, come ad impedire che scoppiasse per il sovraccarico di informazioni.
«Oh, povera cara. Lo so che è fastidioso. Il Rivitalizzante, la sostanza che ti abbiamo iniettato grazie al Connettitore»e qui Malina fece cenno allo strano oggetto adesivo che Pyke le aveva staccato dal braccio al suo risveglio «fa effetto su un’area del nostro cervello non coinvolta completamente dal nostro organismo che amplia la nostra percezione e la nostra sensibilità. Ci permette di superare i traumi e le commozioni celebrali stimolando, al posto delle cellule danneggiate, altre solitamente inutilizzate. Non ci sono effetti permanenti e non provoca alcun danno, ma potresti sentirti abbastanza confusa e subire dei leggeri giramenti»
Rebecca annuì. Probabilmente, senza il Rivitalizzante, quella spiegazione non sarebbe stata sufficiente a darle tutte le risposte, ma, il modo in cui il suo cervello aveva reagito alle parole dell’Infermiera, facendo una serie di complicati collegamenti, le faceva apparire tutto chiaro.
«Quanto durerà l’effetto?»chiese, rilassandosi appena contro la testata del letto e facendo attenzione che il lenzuolo non le scivolasse addosso. Pyke, a quanto le era parso di capire, era l’assistente dell’infermeria ma, in ogni caso, non aveva la minima intenzione di scoprirsi maggiormente.
«Dipende dall’intensità del trauma»questa volta fu proprio Pyke a risponderle -Rebecca non fu abbastanza veloce da percepirlo e girarsi verso di lui- e lo fece in modo svogliato, come se ne fregasse altamente «Nel tuo caso credo che basteranno una decina di minuti, all’incirca»
Malina annuì e Rebecca la vide sorridere prima che si girasse a guardarla nuovamente.
«Esattamente. Mentre aspettiamo che le tue facoltà ritornino alla normalità, permettimi di farti qualche domande. E’ solo qualche formalità, nulla di importante: quesiti generici e di routine, nulla di cui preoccuparti»prese un piccolo O.L.O. portatile da un ripiano in metallo e, dopo aver picchiettato con le dita sulle palpebre per attivare le Lenti Della Vista, prese a leggerne il contenuto «Dunque, ricordi il tuo nome, cara?»
«Rebecca»rispose lei senza la minima esitazione «Rebecca Anderson»
«Bene, Rebecca. Sai dove ti trovi?»
«Ehmm» Rebecca sapeva la risposta, la sapeva davvero, ma appena provò a pronunciarla, questa le sfuggì. Tentò di inseguirla e riuscì ad afferrarla per il rotto della cuffia. Ma era in qualche modo incompleta: come se non fosse davvero tutto quello che sapeva «In una Infermeria?»
«Mhm-mhm»asserì Malina «E sai anche in quale Infermeria siamo?»
Questa volta la risposta era così ovvia che Rebecca non ebbe alcun dubbio. Eppure, come prima, anche questa le sfuggì, correndo a nascondersi in una zona del suo cervello a cui non riusciva ad avere accesso. Questo la fece innervosire enormemente: era così facile.
Lo sapeva! La sapeva quella risposta, dannazione!
«Non lo so»ammise alla fine, continuando a sbattere i pugni contro il muro nero nella sua mente: una porta chiusa che limitava i suoi pensieri.
Pyke sghignazzò appena e Rebecca fu ancora più infastidita: perché non riusciva a prevederlo? Era come essere stata dotata di un incredibile superpotere e privatane subito dopo.
Malina non rise e non la prese in giro: il suo fu un sorriso calmo e rilassato.
«Siamo a Metallica, Rebecca. Capisco che ti senti confusa, immagino che l’effetto del Rivitalizzatore stia svanendo. Ti chiedo solo un ultimo sforzo e un’ultima domanda, d’accordo?»
Rebecca annuì, incrociando le braccia all’altezza del seno e stringendo forte le lenzuola.
«Ricordi come mai sei finita qui? Cosa ti è successo prima?»
Rebecca si concentrò, ma i ricordi adesso scorrevano più lenti e lei ci mise interi secondi prima di comprendere appieno la domanda e iniziare a cercare. Si sentiva lucida –molto meno di prima, certamente- mentre la sua mente si affannava alla ricerca di risposte che voleva ma non trovava.  Provò con un altro percorso mentale, nella speranza di avere una visione più chiara. Cosa era successo, ieri? Cosa aveva fatto –ho preso un treno- ecco, il treno e poi… poi avrebbe dovuto –arrivare a Metallica-, certo ovvio. Ma dopo cosa era successo –sono caduta, sono caduta e non riuscivo ad alzarmi- e poi lei aveva…
Sbattè contro il muro nero, di nuovo, senza riuscire a cavarne nient’altro.
Evidentemente, il fallimento e l’irritazione le si leggevano in faccia, perché Malina sorrise di nuovo e la confortò con una gentile pacca sul braccio –Lo so, lo so. E’ assolutamente normale, sia lo sfasamento che il non ricordarsi niente. Ieri sera c’è stato un incidente: a quanto pare uno degli ingranaggi del treno ha fatto reazione e una della carrozze è saltata in aria, non so dirti precisamente. Per fortuna eravate molto vicini a Metallica, così non ci sono stati feriti troppo gravi. Tu stessa hai subito una piccola commozione celebrale, anche se il problema è ormai risolto –o per lo meno lo sarà entro questa sera-. In ogni caso è perfettamente normale sentirsi confusi o non ricordare bene qualcosa, non c’è nulla di preoccupante-
Una esplosione. Rebecca cercò nuovamente, senza riuscirci.
Era un vuoto, un nulla e non riuscì ad aggirarlo in alcun modo –non ci sono nemmeno i confini, in questo muro nero della mia memoria, non so dove inizia, non so dove finisce, non so neppure se sono ancora io- e Rebecca si sentì invadere da una rabbia ardente e selvaggia.
Fu una reazione inaspettata che le fece  pulsare il sangue nel collo, rimbombare le orecchie e stringere i pugni. Il monitor –il rumore metallico in sintonia con quello del suo cuore- registrò l’accelerazione del battito cardiaco. Rebecca lo fissò e, per la prima volta, lo sguardo le scivolò sulla zona destra del corpo, a livello della clavicola.
C’era un numero tatuato con un inchiostro nero e brillante: 306.
Sembrava quasi fatto con lo stampino, soprattutto per la precisione e le identiche dimensioni dei numeri. Rebecca lo guardò e, per la prima volta da quando si era svegliata, il suo viso si tinse di genuina sorpresa.
Ci fu un piccolo fruscio e, anche se l’effetto del Rivitalizzatore era svanito oramai completamente, percepì il corpo caldo di Pyke a qualche metro da lei. Alzò lo sguardo e lui la stava fissando, sorridendo appena.
«Benvenuta a Metallica, Rebecca»
 
Pyke si offrì di accompagnarla fuori dall’Infermeria senza che nemmeno Malina glielo chiedesse e Rebecca aspettò che fosse uscito della piccola stanza, prima di sollevare il lenzuolo e indossare i comodi abiti poggiati sulla sedia.
Non era la prima volta che indossava i pantaloni, per abituarsi e farsi una idea di come le sarebbero stati addosso ne aveva provati un paio di nascosto, ma mettere quelli della Divisa di Metallica fu diverso.
Nella stanza non c’era uno specchio dove controllarsi e Rebecca si limitò ad aggiustarseli con impacciati tocchi delle dita, in modo che le scendessero bene sulle gambe.
La canotta nera, invece, era a bretelle larghe e non molto scollata e, aggiustandosi bene la spallina, riuscì quasi del tutto a nascondere il tatuaggio del numero sulla clavicola. Non le bruciava, né le faceva male ma, passandoci le dita sopra, sentiva i segni leggermente in rilievo rispetto alla pelle e questo la turbava un po’. Per sicurezza si spostò anche i capelli sulla destra e prese un grosso respiro.
Pyke la stava aspettando fuori dalla stanza e, quando lo ebbe affiancato, nemmeno alzò lo sguardo dall’O.L.O che stava consultando. Rebecca ne approfittò per dare una occhiata intorno a lei e contare le stanze di cui l’infermeria era provvista.
Ce ne erano sette uguali alla sua, sulla parte destra del lungo corridoio in cui stavano camminando, mentre, sul lato destro il muro bianco continuava senza interruzioni.
Le prime tre erano chiuse ma, nelle altre quattro, Rebecca scorse delle sagome stese su dei lettini e si chiese chi, oltre a lei, fosse rimasto ferito nell’incidente.
I suoi pensieri corsero subito ad Anya. Lei si era allontanata con quel ragazzo biondo, prima dell’esplosione, e si era allontanata dalla carrozza. Rebecca sperò che si fosse allontanata anche dall’incidente. Poi si ricordò del ragazzo dal naso aquilino e i capelli neri con cui stava parlando e si augurò che anche lui stesse bene.
Avrebbe voluto chiedere a Pyke se li avesse visti ma, oltre al nome e al cognome di Anya e a delle descrizioni fisiche piuttosto approssimate degli altri ragazzi, sapeva di non avere abbastanza dettagli per informarsi con l’assistente dell’Infermeria.
Quando finalmente girarono a sinistra arrivarono in una stanza leggermente più grande con molti lettini, meno imponenti e meno larghi rispetto a quello in cui aveva riposato lei, con davvero poco spazio a separarli li uni dagli altri.
C’era una ragazza dai capelli rossicci che riposava a qualche metro di distanza. Era in una posizione piuttosto particolare e Rebecca non era sicura che stesse dormendo, ma i suoi occhi rimasero chiusi anche quando le passarono vicino.
«Qui ci vengono li studenti con ferite superficiali. Malina li riceve e li visita velocemente, quindi non c’è nemmeno bisogno di macchinari»disse Pyke, a suo beneficio «Nelle camere che abbiamo passato, invece, ci vanno quelli con ferite un po’ più gravi. Fortunatamente adesso la maggior parte delle vittime dell’incidente sono già state dimesse: tu sei una delle ultime»
Rebecca annuì e pensò alla sua commozione celebrale. Era una cosa grave? Era completamente guarita? Lei non sentiva dolore da nessuna parte ma non poteva esserne sicura. In ogni modo continuò a seguire Pyke e insieme oltrepassarono una grande scrivania di metallo scuro, dove lui lasciò l’O.L.O., e, dopo essere arrivati alla porta, fece scorrere un tesserino  al livello della serratura.
La porta si spalancò e Pyke aspettò che anche Rebecca fosse uscita, prima di parlare.
«Ti sei presa paura, prima, eh?»ridacchiò, non appena la porta si fu chiusa alle loro spalle. Prese a camminare ad una andatura più veloce, vagamente molleggiata, e affossò le grandi mani nelle tasche dei pantaloni neri «Eri tutta un: “Oddio, sto per morire! Non ricordo nemmeno come mi chiamo!”»
«Non ho avuto affatto paura»chiarì Rebecca, mentre continuava a guardarsi intorno «E Malina ha detto che sarò perfettamente in grado di ricordare tutto, grazie»
Pyke sghignazzò nuovamente e si volto appena verso di lei «Certo, certo. Vedi di non svenire in mezzo al corridoio, mentre ci provi»
Rebecca lo ignorò e i suoi occhi si fermarono sulla grande porta che riusciva a scorgere in fondo al corridoio. Questa, a differenza di quella dell’Infermeria, sembrava essere dotata di una semplice maniglia, e Rebecca si chiese cosa ci fosse dietro.
«Perché ho un tatuaggio?»chiese alla fine, quando stavano per raggiungerla.
«Ce l’abbiamo tutti»Pyke si strinse nelle spalle «Ti tatuano tre cifre il primo anno, quando inzii l’allenamento da Alpha. Mano a mano che passi di livello se ne aggiungono altre. Il mio istruttore ne ha dieci, di quei numeretti. Dicono agli altri quanto sei bravo»
«E se io non lo volessi?»
«Non puoi non volerlo, se sei un vero Guerriero. Siamo un popolo di narcisisti, ambiziosi e alla ricerca di gloria e fortuna»Pyke sfilò la mano sinistra dalla tasca dei pantaloni e se la portò al collo, spostando appena la maglietta. Rebecca ebbe una visione fugace della cicatrice che aveva notato qualche minuto prima, con la super vista da Rivitalizzatore, e che ora era quasi completamente invisibile ai suoi occhi, prima di concentrarsi sulla sequenza di numeri –sei- tatuati lungo l’osso della clavicola.
«Teoricamente, il primo anno, c’è una specie di rituale -io ricordo di averlo fatto, quando ero un Alpha- ma con questa storia dell’incidente in treno li Allenatori hanno deciso che non era proprio il caso di festeggiamenti e ve li hanno fatti direttamente, appena arrivati»
Rebecca si chiese quante cifre avrebbe collezionato sulla sua scapola e sperò vivamente che, una volta tornata a casa, sua madre non si sarebbe scandalizzata troppo.
In ogni modo, ora che Pyke aveva fatto riferimento ad una Cerimonia, a Rebecca erano tornati alla mente i racconti di suo nonno, anche lui un Guerriero. La Cerimonia di Iniziazione non era una vera e propria tradizione ufficiale.
Suo nonno le aveva raccontato di come, non appena il treno con a bordo i novellini del livello Alpha si fermava alla stazione di Metallica, tutti li studenti più grandi si riunissero a dare loro il benvenuto, vestiti con la Divisa Ufficiale. Poi i novellini venivano portati all’interno della struttura e, a turno, veniva dato loro un segno di riconoscimento che sarebbe, a Metallica, valso anche più del loro proprio nome.
Se tu scegli Metallica, le aveva detto suo nonno, poi deve essere Metallica a scegliere te.
Era il loro slogan, forse, o un qualcosa del genere.
Rebecca avrebbe voluto avere un Rivitalizzatore, in quel momento, per poter ricordare meglio.
Fuori dalla grande porta si apriva un immenso cortile. L’aria fresca di Ottobre le scompigliava appena i capelli, ma Rebecca era troppo presa a guardarsi intorno.
Non era una struttura molto allegra, in effetti. Enormi palazzine dai colori tetri si susseguivano una dopo l’altra. Quando Pyke le spiegò che erano li alloggi dei Guerrieri di Livello Gamma, Rebecca si chiese come facessero a riconoscere quale fosse la loro.
C’erano poche persone in giro, ma tutti portavano sulla giacca nera il simbolo dei Gamma o dei Beta. Pyke salutò alcuni di loro con un breve cenno del capo o qualche gesto affrettato.
Arrivarono in un grande spiazzo centrale, una sorta di incrocio che dava in tre differenti direzioni, oltre a quella da cui erano venuti.
«Di là c’è la palestra, che è aperta a tutti. Vicino alla palestra ci sono li alloggi degli Omega. Sono solo dieci, quindi hanno solo una palazzina. Quella grigia lì in fondo, vedi?» Pyke gliela indicò con il braccio e Rebecca, che apprezzava il suo sforzo di essere gentile, evitò di fargli notare che tutte le palazzine erano grigie.
Pyke, quasi le avesse letto nel pensiero, o forse avendo letto la sua espressione vagamente confusa, sbuffò appena. Fece un mezzo giro su sé stesso e le indicò la seconda stradina «Mentre di qui ci sono i miei alloggi, quelli dei Beta. Sono quei tre palazzi lì. Più in fondo, scendendo per questa direzione, c’è l’Area Natura in cui facciamo le Esercitazioni o le Simulazioni all’aperto. Come Beta più grande e responsabile dovrei avvisarti della pericolosità di quel posto, ma immagino che sia inutile. O sei una fifona e non ti ci avvicinerai nemmeno per scherzo, o sei una con le palle, e ci andrai comunque. Tu fai conto che io te l’abbia detto»
A Rebecca vennero in mente le parole di sua madre, poco prima di salutarla: “Sii forte pensa a te, sii forte pensa agli altri”. Sua madre aveva sempre avuto un debole, per queste frasi ad effetto che sembravano dire tutto e alla fine non dicevano nulla.
Cosa sono io? Sono abbastanza forte?
«Sono forte»gli disse, non sapendo nemmeno lei per quale assurdo motivo. Pyke la guardò con una strana espressione, curiosa e un po’ sorpresa, in viso. Poi si strinse appena nelle spalle e sorrise.
«L’avrei immaginato, sai?»
Rimasero in silenzio e Pyke, senza spiegarle cosa ci fosse nella terza strada, la condusse attraverso essa. Superarono quattro palazzine grigie in riverenziale silenzio e, solo quando arrivarono alla più lontana dall’incrocio, Pyke si fermò.
«Questi sono li alloggi degli Alpha. Dovrebbe esserci un tesserino nella tasca della tua giacca, puoi accedere con quella; ti consiglio di non perderla se non vuoi dormire nell’Area Natura fino a quando non  te ne procureranno una nuova. Fidati, per esperienza personale posso confermarti che non è affatto piacevole»
Rebecca stava già armeggiando con la chiusura della sua giacca e, nel prendere il tesserino dalla tasca interna, i suoi occhi incontrarono il nuovo tatuaggio, simbolo della sua appartenenza a Metallica e suo nuovo “nome”.
Rebecca, per un  singolo attimo, ebbe paura di dimenticarsi di quello vecchio, di nome.
«Se vuoi andare a cenare, direi che è anche ora, la mensa è proprio lì» Pyke fece un cenno con il capo ad una struttura bassa e lunga che capeggiava alla fine della stradina, formando un vicolo cieco «Probabilmente tutti i tuoi compagni saranno già lì»
Rebecca trascinò il tesserino davanti alla serratura della porta e, dopo aver digitato sull’ologramma apparso in rilievo il codice che Pyke le dettava mano a mano, questa si aprì di scatto, permettendole di dare una prima occhiata all’interno.
«Il nostro giro turistico si conclude qui, signori e signore. Sono gradite mance e pagamenti in contanti per i servigi propostavi dalla vostra guida di fiducia»Pyke ridacchiò appena, allargando le braccia e indietreggiando lungo la stradina «E mi raccomando, egoista e coraggiosa ragazzina, se hai bisogno di qualcosa non cercare proprio me!»
Rebecca ghignò appena e lo guardò correre via, risalendo la strada e prendendo la via che, se la memoria non la ingannava, portava agli alloggi dei Beta.
Aveva fame ma, prima di tutto, aveva bisogno di lavarsi un po’ e di togliersi di dosso quella sensazione di pesantezza che le aveva intorpidito tutti i sensi.
Prese un Tubo e si fermò ad ognuno dei cinque piani della palazzina, alla ricerca del suo Dormitorio. C’era un Ologramma, all’ingresso, che faceva da piantina e indicava li alloggi agli studenti. Il numero 306, quello che aveva tatuato sulla clavicola, era stato sistemato nel Dormitorio 9 e quest’ultimo risultò essere posizionato al quinto piano.
Fece scorrere la sua tessera per aprire anche quella porta e entrò per la prima volta in quella che sarebbe stata la sua Casa per un bel po’. La sua stanza era contrassegnata con il suo numero–nome, è un po’ anche il tuo nome quel numero, adesso- e quando l’aprì la trovò semplice e ordinata. I pochi vestiti che si era portata da casa erano sistemati nel piccolo armadio e, nei cassetti, erano ripiegate sei Divise da Allenamento, uguali a quella che indossava in quel momento.
Si sedette sul letto, con l’intenzione di riprendere un po’ di fiato prima di andare in bagno e poi a cenare, ma non appena il suo capo si poggiò sul materasso morbido, li occhi le si chiusero praticamente da soli.
Rebecca si era svegliata solo da qualche ora, a quanto le aveva spiegato Malina era rimasta in stato di incoscienza dall’incidente, eppure si sentiva così dannatamente stanca.
-No-si disse –Devo alzarmi, lavarmi, fare un sacco di cose e poi devo… devo…-
306 sprofondò in un sonno agitato dal quale non si svegliò che la mattina successiva.
 

***

 
3 Ottobre 2198, Cupola Ovest
Peete; SottoCupola Mormont, (Messico)
Organon Street, Zona Residenziale, Ore 11:54
 
Colin non era tanto male.
Melanie ci aveva passato un bel po’ di tempo insieme, sotto imposizione del padre e richieste supplichevoli di sua madre e, per quanto fosse più che sicura di non provare nulla per lui –e di non poterlo provare nemmeno in futuro- aveva come la sensazione che, se davvero si sarebbero dovuti sposare, le sarebbe potuto capitare di molto peggio.
Innanzitutto era sempre molto gentile ed educato. Certe volte usava del sarcasmo o faceva battute da Governante, di quelle che, anche se le capivi, non potevi ridere. Suo padre le aveva sempre detto che, con i Governanti, meno si parlava e ci si mostrava allegri, meglio era.
Il che, detto da lui che apparteneva proprio a quella Classe Sociale, risultava essere piuttosto veritiero. Era un segno di estrema maleducazione, ridere di –o con- un Governante e Melanie questo lo sapeva da tanto tempo.
In ogni modo, Colin una volta glielo aveva chiesto.
«Perché non ridi mai, alle mie battute?»aveva sorriso appena con quella strana espressione che Melanie aveva iniziato a riconoscere «Potresti almeno fare finta di trovarle divertenti, sai? Io ci metto un certo impegno!»
Melanie aveva abbassato il capo e si era mordicchiata il labbro, trattenendo un sorrisino, il massimo che si permetteva quando era con lui «Oh, mi dispiace. Non credo di essere in grado di capirle, le tue battute»
«Io credo che tu le capisca, invece. Semplicemente non hai voglia di ridere»era rimasto a guardarla per un po’, poi aveva sbattuto le palpebre velocemente, come se avesse appena compreso un qualcosa di estremamente complicato -Lo sai che puoi ridere, vero? Non ti mangio mica, se lo fai!»
Colin era gentile, si. E poi aveva uno dei Vecchi Nomi –l’unica cosa che era rimasto intatto del Mondo Di Prima- proprio come lei e una volta avevano fatto una interessante discussione. O, perlomeno, lui aveva parlato un bel po’ -aveva un bel tono di voce, Colin- e aveva cercato di includerla nel discorso.
Ma Melanie continuava a sentire la voce di suo padre nella testa -stai zitta, rimani al tuo posto, non sembrare più intelligente di quanto dovresti, profilo basso, devi sposarlo, non importa, zitta, zitta, non ridere, non chiedere, zitta, non importa- e quindi si era limitata ad annuire.
Alla fine, dopo tre quarti d’ora di monologo, nel mentre del quale la loro passeggiata si era conclusa e lei era arrivata sul portico di casa, lui le aveva afferrato la mano e se l’era portata alle labbra. Non aveva toccato la sua pelle, come prevedeva la regola, ma l’aveva fissata dal basso e a Melanie era venuto da ridere–non ridere, non ridere, non ridere, con i Governanti non devi ridere, loro sono sempre così seri e penserebbero che sei stupida e allora Colin non ti sposerebbe più! E se non ti spossasse, papà organizzerebbe nuovi appuntamenti e allora…-. Lui aveva sorriso e aveva detto «Un giorno riuscirò a farti ridere, Melanie Wood»
Le loro erano passeggiate tranquille: camminavano a piedi, percorrevano qualche chilometro con la Machines rossa di lui, si fermavano a chiacchierare con i colleghi di lui e qualche volta con le amiche di lei. Andavano d’accordo e, per due che si conoscevano da appena una settimana e si sarebbero dovuti sposare era già tanto. Non era spiacevole passare del tempo insieme ma delle volte Melanie si sentiva quasi soffocare.
Era come star vivendo la vita di qualcun altro, come un sogno particolarmente strano in cui la sua anima si era separata dal corpo e lo vedeva compiere azioni come un automa.
Kitty, la migliore amica di sua sorella, aveva ipotizzato un disturbo della personalità e Sophie aveva ridacchiato –ridacchiava sempre e troppo, quando era con Kitty e Melanie pensava che lei non poteva farlo, e non avrebbe potuto farlo mai più, perché Colin diceva di volerla far ridere, ma era un Governante e i Governanti erano sempre così seri-.
Una sera, mentre camminavano, lui aveva provato a indicarle una stella nel cielo, in uno dei suoi attacchi di erudito sapere ed era miseramente inciampato. Melanie non ce l’aveva fatta, a non sorridere e, anzi, gli era proprio scoppiata a ridere in faccia, incurante delle convenienze.
Colin aveva sorriso e le aveva porto il braccio.
Melanie, intimidita e spaventata dalle conseguenze del momento di ilarità a cui si era abbandonata, era stata parecchio titubante all’inizio. Poi però l’aveva preso sottobraccio e lui le aveva detto che, finalmente, iniziava a somigliare ad una persona vera e non ad un automa.
Melanie aveva riso di nuovo, aveva riso tutta la sera, per ogni minima stupidaggine e Colin faceva battute idiote per farla continuare. Quando era tornata a casa e si era chiusa la porta della sua camera alle spalle, quella notte, si era sentita il cuore più leggero.
Colin non le piaceva, in quel senso. Ma, se proprio era costretta, non le sarebbe dispiaciuto più di tanto rimanere con lui.
-Non dovrò smettere di ridere-aveva pensato –Anche se è un Governante. Non si è offeso, quando ho riso di lui. Ho riso tutto il tempo, non dovrò rinunciare a ridere mai più. Papà si sbagliava-
Si era gettata sul letto sfatto e aveva riso un altro po’, da sola e al buio.
Il pomeriggio dopo, però, Colin non si presentò al loro solito appuntamento delle cinque.
E nemmeno il giorno dopo e quello dopo ancora.
Suo padre non le rivolgeva nemmeno la parola, se non per urlarle addosso, e Melanie smise di ridere per ben due settimane.
Non riderò mai più. Mai, mai, mai più.
Poi, una settimana dopo, Colin si era ripresentato alla sua porta, come se non fossero passati giorni intere dalla sua ultima visita e l’aveva presa sottobraccio senza dirle niente.
Melanie aveva percepito il suo corpo muoversi più rigidamente e l’espressione indurirsi ogni secondo che passava. Ad un certo punto, quando erano ormai lontani da casa sua, si fermarono di colpo e lei quasi fu sbalzata in avanti.
Colin sciolse con delicatezza la presa sul suo braccio e le si portò difronte. Non sembrava arrabbiato ma non sorrideva nemmeno.
«Dobbiamo parlare, Melanie»

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Capitolo 4
*** 3 - Finestra sull'ignoto ***


Dedicato a le 6 meravigliose ragazze che hanno recensito il capitolo precedente e tutti coloro che hanno inserito Metallica fra le preferite/seguite/ricordate. Un ringraziamento speciale a Bess, per il sostegno e a Ivana per la pazienza.
Un "in bocca al lupo" a tutte/i coloro che sono in periodo di esami e un "Grazie al Cielo" da condividere con quelle che hanno iniziato le vacanze, come me. La scuola mi ha tenuta prigioniera per un bel po', ecco perchè il capitolo arriva così in ritardo.
Ma, ora che finalmente l'estate è arrivata (Summer is coming, yah), credo di poter garantire maggiore puntualità.
Il capitolo è Rebecca Centric, mentre quello che lo seguirà sarà incentrato solo su Melanie.
Spero che vi piaccia! Io, personalmente, mi sono divertita molto a scriverlo!
Un bacione a tutte voi!


Capitolo III
Finestra sull'ignoto

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5 Ottobre 2198, Cupola Ovest
Metallica; SottoCupola Tunner, (Messico)
Mensa, Terza Strada – Alloggi Alpha, Ore 14.21
 
Il primo giorno dopo l’esplosione i ragazzi Alpha dovettero prestarsi ad una revisione totale dal punto di vista fisico e estetico: a tutti i maschi che portavano i capelli eccessivamente lunghi fu imposto un radicale taglio da cadetto. Anche le ragazze con i capelli che superavano le scapole dovettero accorciarli e Rebecca fu grata di esserseli tagliati corti sulle spalle prima dell’estate.
Il pomeriggio dello stesso giorno fecero anche un breve giro per l’immensa struttura di Metallica. Rebecca si sentì stranamente potente a conoscere già la collocazione degli alloggi grazie alle istruzione datale precedentemente da Pyke e seguì la loro guida, la Responsabile Erika Summer, con un sorrisetto soddisfatto. Percorsero il perimetro dell’Area Natura, una fitta boscaglia e nessun sentiero;  fecero una tappa in Sala Mensa, che apparve loro estremamente grande senza tutti li studenti dentro; e ancora nella Zona Riservata agli Allenatori, nell’Infermeria di Malina, davanti ai grandi cancelli che delimitavano il perimetro della struttura e, per ultima, era stata mostrata la grande Palestra.
Una volta lì dentro, tutti ammassati sull’ingresso senza il coraggio di entrare, Rebecca rimase senza fiato per le varie attrezzature di cui era dotata.
Erika li superò passando attraverso il loro folto gruppetto –li avevano divisi in due unità, all’inizio della giornata, e la sua contava almeno una trentina di componenti-, e i ragazzi si aprirono completamente, creandole uno stretto corridoio e ritirandosi al suo passaggio come se il solo starle vicino potesse garantire la loro morte.
La Responsabile raggiunse quello che aveva tutta l’aria di essere un ring da combattimento e si appoggiò con la schiena alle resistenti funi che ne delimitavano il perimetro.
«Dunque, il nostro amabile primo giro si conclude qui. Spero che Metallica vi sia piaciuta. Nel caso non fosse così… beh, ormai è troppo tardi per tornare a casa quindi mi sa che dovrete arrangiarvi»Erika incrociò le braccia all’altezza del petto e Rebecca intravide le innumerevoli cifre del suo tatuaggio, in piccolo, lungo l’osso della clavicola «Ora, come nuovi arrivati, oltre al ben noto discorso inaugurale, che fortunatamente non farò io, vi saranno garantiti almeno tre giorni di assestamento, in modo che possiate abituarvi ai nuovi ritmi. Dopo di che, immagino che dobbiate iniziare a darvi da fare»
Rebecca non la trovava troppo simpatica, quella Erika. Era fin troppo propensa a dare per scontato la loro scelta e il loro trovarsi lì: come se non fossero in alcun modo pronti o degni di sfiorare il sacro terreno di Metallica. Lei non poteva essere assolutamente certa che la scelta che aveva compiuto, e tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate, fosse quella migliore, ma, come aveva detto Erika, ormai era lì.
Sono forte. Sono forte, ce la faccio. Posso fare tutto.
«Andiamo, Erika. Dai a questi giovani un po’ di respiro!»Rebecca sussultò nel sentire una nuova voce provenire proprio da dietro di lei. Si era attardata, quando si erano avvicinati ai cancelli di Metallica, e quindi si era ritrovata in fondo vicino alla porta della Palestra.
Non l’ho proprio sentito arrivare.
L’uomo aveva i capelli abbastanza lunghi, per essere un Allenatore, gli arrivavano quasi alla base del collo e Rebecca vide Nicko, il ragazzo dai capelli biondi che si era allontanato con Anya il giorno dell’esplosione, fissarli con un misto di rimpianto e desiderio. Ma, nonostante la maglietta a maniche corte e l’abbigliamento informale, portava il piccolo stemma che ne specificava ruolo e posizione.
«Sono Cain Lloyd, piacere di conoscervi ragazzi»raggiunse a grandi falcate Erica e sorrise amichevolmente. A Rebecca fece una migliore impressione rispetto a quella della sua collega e ne seguì i movimenti con curiosità.
«Come vi stava già accennando Erika, come novellini vi toccherà stare a sentire il mio solito discorso di benvenuto. Ovviamente sapete tutti come funziona, qui, no?  I primi quattro anni, ovvero i due livelli Alpha e i due livelli Beta, sono obbligatori e garantiscono una preparazione generale che ogni rappresentante della nostra Classe Sociale deve avere»Cain fece un veloce cenno con la mano e Erika, accanto a lui, sollevò appena li occhi al cielo.
«Quelli che completano il Primo Ciclo, possono scegliere varie specializzazioni: quella Medyca, che da la possibilità di soccorrere in prima linea i feriti; oppure quella Diplomatica, con Rappresentanti della Classe Sociale che mediano con il Governo Generale e così via…»
Rebecca, che non aveva minimamente pensato alle altre possibili opzioni che il frequentare Metallica offriva, ne fu piuttosto interessata ma, con suo disappunto, Cain non si soffermò ulteriormente sulle specializzazioni e continuò il suo discorso.
«Il Secondo Ciclo, invece, prevede due livelli Gamma e un unico livello Omega, facoltativi.
Il primo livello Gamma viene intrapreso solo da chi sognava un ruolo in prima linea nella difesa e nella salvaguardia della Cupola. Quelli del secondo livello Gamma sono invece spediti Oltre-Cupola, a fare esplorazioni fra le macerie di quello che resta del Mondo Di Prima, o a sedare le rivolte sanguinose in atto nella Cupola Est.»
Rebecca vide Sean, il ragazzo dal naso aquilino che si era seduto accanto a lei in treno e che portava ancora i segni delle esplosione sul viso –un bel taglio ormai quasi del tutto rimarginato-, dare di gomito a Teks, un altro Alpha che era stato messo nel loro stesso gruppo, e i due scambiarsi una occhiata di intesa.
«Il livello Omega che è aperto solo ad una decina di studenti, i migliori di una classifica stilata nei precedenti sei anni e che continua anche nel settimo, garantisce invece, dopo un intenso percorso di 365 giorni, un posto fisso ai primi tre nei Servizi Segreti della Cupola»
Erika rise appena, malignamente «Magari fra un paio di anni uno di voi pappamolle sarà nella Divisione Speciale!»
Cain le lanciò uno sguardo di avvertimento, prima di tornare a guardare loro. Rebecca e i suoi compagni del Gruppo B si erano, se possibili, immobilizzati ancora di più, sotto il suo cipiglio severo.
«Ma Metallica non è solo questo, ragazzi. Non è solo numeri, classifiche, mosse di combattimento e disciplina. Metallica, da oggi in poi, è la vostra casa, la vostra patria, il vostro mondo. Metallica è il coraggio che vi ha spinto a compiere questa scelta, è la volontà di opporsi alle ingiustizie e avere le conoscenze e la possibilità per farlo. Metallica non significa non avere paura, imbracciare armi e sparare al primo che vi sta antipatico. Metallica è controllare le vostre paure, -non credete di non averne! Un uomo per essere coraggioso deve avere paura!- significa sfruttare con attenzione quello che avete, significa far parte di una comunità.»
Cain fece una pausa colma di aspettativa che si protrasse per alcuni secondi, in un silenzio religioso scalfito appena dal battito di trenta cuori degli studenti del Gruppo B.
«Se siete qui, vuol dire che avete coraggio, e, se non siete stupidi, significa anche avere paura. Metallica vi accoglie e da oggi è la vostra casa. Benvenuti!»
Rebecca si era sentita il cuore ricolmo di felicità e, per un attimo, il pensiero dei duri anni che sarebbero seguiti sparì dalla sua mente.
Il terzo giorno dopo l’incidente, quello dopo il giro di perlustrazione e il discorso di benvenuto, li portarono –entrambi il Gruppo A e il Gruppo B- in una palazzina grigia nella Prima Strada, proprio accanto agli Alloggi degli Omega e alla Palestra- e, dopo averli fatti accomodare su delle scomode sedioline in una Stanza quasi completamente priva di mobilio, li iniziarono a chiamare uno alla volta, a seconda del numero che portavano tatuato.
Rebecca vide Anya, Nicko, Teks, Sean e tanti altri ragazzi di cui conosceva solo il viso e non il nome entrare prima di lei. Alla fine rimasero solo lei e una manciata di ragazzini, fra cui Cyvonne, una ragazza che aveva conosciuto da poco, che era proprio l’ultima con il suo 311.
Quando venne il suo turno fu fatta accomodare in un ufficio dai tetri muri grigie e una parete a vetrata dalla quale entravano piacevoli raggi di sole. Seduti ad una ampia scrivania metallica, grigia anche questa, c’erano due giovani. Rebecca considerò che la loro età fosse compresa fra i venticinque e i trenta.
La ragazza aveva la pelle olivastra e i capelli liscissimi che le scendevano ben oltre la schiena. Li occhi erano leggermente allungati e le mani garbatamente intrecciate. Lui, invece, aveva scompigliati capelli rossi e un sorriso incoraggiante che la fece rilassare impercettibilmente.
«Siediti, ti prego» fu lui a parlare e, una volta che Rebecca si fu accomodata si fece avanti con il busto, stringendole la mano «Piacere di conoscerti. Come ti chiami?»
«Rebecca Anderson»rispose lei, cercando di apparire sicura nel presentarsi.
La ragazza sbuffò e incrociò le braccia al petto «Il tuo numero, ragazzina. Non ce ne facciamo nulla del tuo nome»
Rebecca si morse il labbro, infastidita e intimidita allo stesso tempo. Il ragazzo le sorrise di nuovo e lei cercò di trattenersi dall’esplodere.
Mi sono dimenticata. Per le autorità Rebecca Anderson non esiste più. Io sono 306.
«306»
La ragazza annuì e, mentre digitava qualcosa sul suo O.L.O. si scostò i lisci capelli dal viso, spostandoli dietro la schiena. Indossava una camicetta bianca e Rebecca, osservandole la scapola, comprese che non era un Guerriero.
Non che ne avesse avuto dubbi, certamente. I Guerrieri erano diretti, scortesi e rozzi, forse, ma non si davano tante arie.
«E voi chi siete?»chiese, incapace di trattenersi.
«Non sono affar-»
«Su, Nina, dai. Non ci ha chiesto nulla di terribile!»il giovane fece un cenno nella sua direzione «Lasciala stare, ha avuto una brutta giornata. Sono Kallum Reyes, Governante di Terzo Ordine e la mia amica qui è Nina Nguyen, Produttore con Specializzazione Democratica»
«Bene, a meno che la ragazzina qui non abbia altra domande inappropriate e  tu non abbia voglia di perdere ancora tempo rispondendole, direi di cominciare»
Kallum annuì e, dopo aver fatto un breve cenno con il capo nella sua direzione, iniziò a fare le sue domande. Rebecca era stata in minima parte preparata da Erika e Cain, che li avevano accompagnati, quindi si aspettava che le chiedessero cose personali.
Da quanto aveva capito era una sorta di intervista psicologica: il fine era quello di comprendere meglio la loro personalità, le loro debolezze, i motivi che li avevano spinti a scegliere Metallica e cose del genere. Di certo non si aspettava domande sulla sua famiglia e sulla sua vita privata e, in certi casi, neppure il sorriso incoraggiante di Kallum riuscì a convincerla a rispondere.
«Hai paura di qualcosa in particolare? L’acqua, l’altezza? Il sangue?»le chiese Nina, alla fine e, dopo aver ricevuto un secco di diniego –con lei si era scucita il meno possibile, la trovava estremamente antipatica- la ragazza chiuse la finestra del suo O.L.O. e si schiarì la voce «Bene, allora. Qui abbiamo finito 306. Dobbiamo fare solo un ultimo controllo e poi potrai andare»
Nina roteò li occhi al cielo e si alzò in piedi. Raggiunse il centro della stanza, i suoi tacchi a spillo che ticchettavano ritmicamente sul pavimento e la gonna nera lunga fino al ginocchio che si sollevava appena. Rebecca scorse Kallum fissarle spudoratamente il didietro e sorridere appena ma, per una volta, non commentò.
Nina raggiunse il piccolo mobiletto, grigio e metallico come la scrivania e le sedie, e da un piccolo cassetto tirare fuori uno strano aggeggio. Era rettangolare e piuttosto lungo. Terminava con una sottile striscia argentata, forse ferro o acciaio, -anche se, considerando il valore di quei metalli, Rebecca credeva fossethean- e Nina lo maneggiò con grande attenzione, mentre tornava verso di loro.
«Sposta la spallina»le disse, quando fu di fronte a lei.
«Cosa?»chiese Rebecca, perplessa e affascinata dal modo in cui la poca luce della finestra si rinfrangeva sulla sottile lama dell’oggetto.
«Devo vedere il tuo tatuaggio, 306. Dobbiamo controllare che sia tutto in regola»Nina allungò la sua mano sottile e dalla pelle olivastra verso la sua spalla e, senza chiederle il permesso, scostò la bretellina della canotta della sua divisa, scoprendo il tatuaggio sulla clavicola.
Rebecca si ritirò a quel tocco freddo e invadente, facendo quasi un salto all’indietro. Sarebbe scappata via se non ci fosse stato Kallum, silenzioso e sorridente, davanti alla porta, ad impedirle l’uscita. «Cosa è quella cosa? Cosa volete farmi?»
«Oh, insomma! Ma perché, io dico, non li peparono minimamente? Questa è già la quinta che cerca di aggredirci!»Nina sbuffò e, se non avesse avuto in mano lo strano oggetto, probabilmente avrebbe alzato le braccia al cielo «E’ solo un dannatissimo controllo! Non morirai, non sverrai, non ti cadranno i capelli. Devi solo startene ferma e buona e lasciarmi fare il mio lavoro!»
«Nina»Kallum la blandì e Rebecca lo sentì avvicinarsi «Scusala, ragazzina. Come ha detto non sei la prima che fa storie e noi stiamo solo facendo il nostro lavoro. Ora: non ti succederà nulla, davvero. È l’ultima parte del nostro controllo. Quell’aggeggino lì che vedi, beh… quello si chiama Conozco, e ci da maggiori informazioni sul tuo organismo: se è in salute, se soffre di qualche disturbo, se ci sono problemi…»
«Muoviti ora, voglio andare a casa»Nina la fece sedere di nuovo e le abbassò la spallina quanto bastava per far fuoriuscire completamente il tatuaggio. Per un attimo Rebecca si vergognò del suo petto in parte scoperto ma, dopo aver appurato che Kallum sembrava più interessato alla scollatura di Nina, piegata verso di lei, che alla sua, si rilassò.
Quando il Conozco si avvicinò alla sua pelle Rebecca sentì tutti i peli sul suo braccio rizzarsi e una strana ansia corroderle lo stomaco, come se una mano invisibile la stesse strangolando. Infine lo strano aggeggio toccò il suo tatuaggio e Rebecca provò una scossa di dolore lungo tutto il braccio. La lama del Conozco non sembrava troppo appuntita ma, non appena aveva sfiorato i numeri tatuati, aveva provato la terribile sensazione di un migliaia aghi appuntiti che le perforavano la pelle e le tiravano il sangue.
Durò poco e Nina fu veloce nel toglierlo dalla sua pelle, con un movimento secco che le evitò ulteriore dolore. Rebecca le fu stranamente grata per quello e, quando riabbassò lo sguardo sulla scapola, i numeri le apparvero molto più neri e dai contorni più definiti.
«Ti fa male?»la voce di Nina era stranamente gentile e Rebecca rimase un attimo in silenzio, affinché la voce non tremasse nel risponderle.
«Non troppo»
Nina rimase in silenzio per qualche secondo, prima di muoversi nuovamente. Questa volta prese a frugare nella sua borsa e, quando ebbe finito, ne tirò fuori un piccolo contenitore azzurro. Una volta che lo ebbe svitato nella stanza si sparse un  buon odore che a Rebecca ricordò il profumo di sua madre. Nina raccolse un po’ di quella che sembrava essere pomata dal barattolo e la spalmò con le dita fredde e stranamente gentili sulla pelle arrossata.
A primo impatto anche quella bruciò –e Rebecca la mandò a quel paese con tutte le sue forze-, ma subito dopo una strana sensazione di frescura e di sollievo la invase tutta.
Quando Nina si rialzò per rimettere a posto il contenitore nella borsa, Kallum si sporse verso di lei e le sussurrò in tono cospiratorio «Non è tanto male se si impegna, vero?»
Rebecca annuì e, poi, 306 uscì da quella porta senza dire nulla.
Il quarto giorno Erika Summer e Cain Lloyd li portarono nuovamente in Palestra.
Questa volta c’erano entrambi i Gruppi e Rebecca aveva salutato con un sorriso felice Nicko e Anya, che non vedeva dalla colazione del giorno precedente. Il Gruppo A abitava nella palazzina di fronte alla propria, quindi Rebecca li incontrava solo a Mensa o quando avevano attività insieme. C’era il ring di combattimento che aveva già visto in precedenza e tutti li Alpha di Primo Livello erano addossati alla parete grigia della Palestra.
Un gruppo di Omega –cinque ragazzi e una ragazza- si stavano allenando in un angolo. Rebecca non ne fu troppo sorpresa: li Omega si allenavano costantemente, ogni giorno, per almeno sei o sette ore di fila. Rebecca li compativa un po’ –tutto quel tempo a combattere, nemmeno un attimo di respiro- ed era più che convinta che lei non sarebbe riuscita ad affrontare uno stress del genere, eppure non riusciva a distogliere lo sguardo da loro.
Si muovevano veloci, sicuri, con una sorprendente grazia e fluidità e la loro lotta apparve a Rebecca quasi come uno schema fisso, in cui nessuno riusciva a prevalere sull’altro.
Proprio al loro arrivo due fra i ragazzi si stavano sfidando in uno dei tanti ring da combattimento e li altri erano tutti intorno a loro, a osservare la loro lotta e a lanciare indicazioni e suggerimenti. Solo la ragazza e un altro Omega erano lontani dal ring e si stavano allenando con delle sacche imbottite. A turno, uno dei due reggeva la sacca e l’altra la colpiva e poi di nuovo, al contrario.
Cain si schiarì la voce, riportando l’attenzione su di lui.
«Non è difficile, novellini: per oggi si tratta solo di vedere la formazione base. Per esempio: lo sapevate che la maggior parte di voi non sa tirare correttamente un pugno?»Cain li guardò un po’, come ad osservare la loro reazione, un po’ spaesata e insicura; poi si girò verso il gruppo di Omega «Theo, per favore, vieni qui un attimo?»
Uno dei ragazzi che non stavano combattendo, sulla ventina, dai capelli corti e la mascella appena sporgente si fece avanti.
«Si, Allenatore Lloyd»disse, incrociando le braccia al petto e fissando nella loro direzione con uno sguardo abbastanza curioso.
«Vorrei che aiutassi Erika a dimostrare come posizionare correttamente il peso, i piedi e i pugni. I nostri novellini hanno bisogno delle basi»
Theo annuì energicamente e, preso posto vicino all’Allenatore, iniziò a parlare con una voce bassa e vagamente roca. Erika, accanto a lui, annuiva ogni tanto e aggiungeva qualche particolare o dava altri suggerimenti.
I ragazzi Alpha si  disposero lungo il diametro della Palestra e presero a imitare i loro istruttori.
Cain, intanto, si era allontanato e aveva raggiunto il gruppo di Omega. Lo scontro sul ring si era concluso e ne era iniziato un secondo. Questo si concluse piuttosto velocemente, però. Il ragazzo dai capelli scuri che stava precedentemente colpendo la sacca imbottita ci mise appena qualche minuto per ribaltare il suo avversario e scese dal ring con un saltello ben calibrato, grazie allo slancio datogli dalle corde.
Rebecca vide l’Allenatore battergli una pacca sulla schiena e rivolgersi alla ragazza, che sembrava intenzionata a salire anche lei sul ring. Stava scuotendo appena la testa, facendo cenno con il capo alla spalla della ragazza, e agitando appena il braccio muscoloso.
«È Jamie Lloyd. La nipote dell’Allenatore Lloyd»la informò Nicko, che aveva notato la direzione del suo sguardo e stava indossando i guanti protettivi «Una specie di macchina assassina. Non che sia strano, che lo sia: immagino che si alleni anche d’estate, con uno zio del genere. Mio fratello ha avuto una cotta per lei per circa due anni, prima di mettersi con Alicia»
«Tuo fratello è fra li Omega?»Rebecca ne fu abbastanza sorpresa. Le era parso di capire che la famiglia di Nicko lavorasse fra i Guerrieri da generazioni e lui stesso aveva accennato all’esistenza di un fratello maggiore, ma non si aspettava di ritrovarselo lì a Metallica.
«Si, è qui in giro: lo sto evitando. Meno tempo passiamo insieme, meno tempo passerà a prendermi in giro. Sopportarlo a casa è già abbastanza»
Nicko si strinse nelle spalle, poi si voltò a guardare le mosse di Theo e Erika che stavano nuovamente ripetendo la dimostrazione dell’esercizio. Rebecca lo vide corrugare appena la fronte ma, quando si girò verso di lei, il suo viso era tranquillo e sereno come sempre.
«Stai in coppia con me?»chiese, prendendo a saltellare sul posto e agitare i pugni, in una ridicola imitazione di combattimento «Ci vado piano, promesso»
Rebecca sorrise, indossando anche lei i suoi Guanti di Protezione. Erano sottilissimi, di una sostanza –non era stoffa, ma un materiale sintetico che veniva usato per rivestire anche li strumenti da laboratorio piuttosto delicati- trasparente ma piuttosto ruvida al tatto. Le calzarono addosso come una seconda pelle ma Rebecca dovette comunque piegare due o tre volta le dita, per renderli abbastanza flessibili.
«Perché no?»chiese, cercando di ricordarsi la sequenza di gesti che aveva appena visionato.
Nicko sorrise, prima di far partire il pugno. Mirò alla sua spalla e Rebecca non fu abbastanza veloce da intercettarlo, così cercò di spostarsi. Non ci riuscì completamente e lui la colpì di striscio, ma non era stato un attacco forte, quindi non le fece troppo male.
Quando ci provò lei, però, Nicko fece scattare il suo braccio a parare il suo con un gesto secco e, anche se non riuscì a trattenerlo, fu comunque abbastanza abile da deviarlo lontano dal petto, dove era diretto. Rebecca lo guardò sorpresa e abbassò il pugno lungo il fianco.
«Ehi, ho detto che ci sarei andato piano, non che non mi sarei difeso»rise lui, riprendendo a saltellare e ritentando di nuovo a colpirla.
Questa volta andò meglio e Rebecca riuscì ad intercettarlo e ad evitare l’offensiva.
Theo e Erika mostrarono loro diverse altre posizioni dei piedi e delle braccia e Rebecca apprese da Nicko, che bene o male conosceva tutti grazie al fratello, che il giovane Omega sognava una carriera come Allenatore, dopo Metallica.
«E se viene preso nella Divisione Speciale?»chiese Rebecca, mentre cercava di mantenere l’equilibrio spostando il peso sulla punta dei piedi.
«Non lo prenderanno»asserì Nicko, scuotendo la testa «Certo, non è assolutamente certo… ma la Selezione per la Divisione Speciale la fanno a Dicembre, quindi già da Settembre è possibile capire chi prenderanno dalla classifica»
«E chi prenderanno? Tuo fratello?»
«Gabe? Oh, no, no! Anche se lo prendessero non credo che accetterebbe. Chi fa parte della Divisione Speciale non può sposarsi  e Alicia preferirebbe castrarlo piuttosto che rinunciare al suo prezioso anello»Nicko scosse il capo, divertito dalla situazione «No, prenderanno John Shaw, Jamie Lloyd e Daley O’Connor. Gabe è solo quinto!»
Rebecca  scrollò le spalle e Nicko fece cadere l’argomento. Ma lei rimase a guardare Jamie Lloyd che si muoveva sul ring per un tempo che le apparve infinito.
Quando il ragazzo dai capelli biondi e l’aria familiare –il fratello di Nicko, collegò solo in seguito- fece per colpirla, scherzosamente a giudicare dalla smorfia divertita, schivò il suo pugno con una mossa fluida.
Afferrò il braccio ancora teso dell’avversario e poi si mosse così velocemente che a Rebecca apparve come una macchia sfocata. Non comprese bene come avesse fatto ma, un minuto prima il ragazzo biondo era in piedi accanto a lei, il minuto dopo era steso di schiena sul tappeto grigio della palestra, con il braccio storto sopra il capo e le gambe strette in un intricato groviglio con quelle di lei.
Il ragazzo rise e le diede una manata sul capo -neanche troppo leggera, in effetti- e Jamie Lloyd sorrise appena. Era un sorriso spento e che non le donava affatto.
Rebecca pensò che apparisse molto più carina quando era seria o imbronciata. Il viso troppo spigoloso si tirava troppo, quando rideva, e il sorriso appariva quasi fuori posto su quelle labbra sottili. In ogni modo, non durò troppo.
Tornò subito alla sua smorfia insofferente e, una volta che il fratello di Nicko fu di nuovo in piedi, riprese l’allenamento con la sua sacca grigia appesa al soffitto.
 
«E’ assolutamente rivoltante»
Anya arricciò il naso e allontanò il piatto, facendolo scontrare contro il bicchiere di vetro mentre fissava risentita l’affollata Sala Mensa attorno a lei.
Rebecca rimase in silenzio ma, quando si portò alle labbra la sua porzione di stufato, anche lei storse un po’ la bocca. Il cibo, lì a Metallica, non era per niente buono.
Nicko aveva detto che lo Stabilimento di Produzione che riforniva Metallica non era dei migliori: usava ancora i vecchi macchinari di Esportazione e non trattava i prodotti prima di spedirli.
A Rebecca, mangiare un pezzo di carne, non era mai costato così tanto.
«Vedrete, dopo un po’ non ci farete più nemmeno caso»aveva detto un ragazzo dai capelli scuri che frequentava il primo anno da Beta e che si sedeva sempre all’angolo del loro tavolo.
Si chiama Joss e non sembrava avere molti amici, perciò si accomodava sempre fra loro novellini e cercava di atteggiarsi ad esperto di Metallica.
Rebecca e quelli che sarebbero stati i suoi compagni per i successivi quattro anni –alcuni anche per più tempo- erano arrivati a Metallica da cinque giorni e, a parte un primo giro dell’istituto e una prima serie di allenamenti volti a testare il loro livello generale, non si potevano ancora dire veri membri della scuola.
Tutti quanti avevano il tatuaggio con il numero sulla clavicola. Rebecca sorprendeva alcuni di loro, qualche volta, a fissarselo stupiti: come a chiedersi cosa ci facesse lì.
Lei, stranamente, si era già abituata. La mattina, quando si toglieva la vestaglia da notte e indossava la divisa da Guerriero, non ci faceva nemmeno più caso.
Cyvonne, la ragazzina con il numero 311, dai capelli castani e il fisico prosperoso che divideva il dormitorio con lei, invece, faceva una faccia sorpresa ogni volta che se lo ritrovava davanti.
«E’ tutto troppo strano»l’aveva sentita dire a Sànde, un’altra ragazza che dormiva nel Dormitorio 9 «Mi sono svegliata la mattina dopo l’incidente e ce l’avevo di già! Non mi hanno nemmeno chiesto il permesso!»
Sembrava scandalizzata e si era aggiustata una ciocca di capelli scuri dietro le orecchie. Sànde, che da quanto a Rebecca era parso di capire, era piuttosto taciturna, si era limitata a stringersi nelle spalle. Le altre ragazze del loro Dormitorio si chiamavano Meese e Torrey e, in una intera settimana di convivenza, non era riuscita a parlare seriamente con loro nemmeno una volta.
«Non è tanto male, dai» Nicko rispose alla protesta di Anya con una stretta di spalle. Si portò una mano alla fronte come a scostarsi il ciuffo biondo -un gesto abituale che Rebecca gli aveva visto fare a ripetizione per i primi tre giorni- prima di ricordarsi che, al momento, i pochi centimetri di capelli che gli rimanevano non gli sarebbero certamente caduti davanti agli occhi.
«E’ rivoltante, ti dico» Anya assunse una smorfia infastidita e vagamente disgustata «Non intendo toccare cibo fino a che non ci sarà servito qualcosa di decente-
«Allora credo che morirai di fame, cocca»le rispose Cyvonne che Rebecca aveva incontrato in Dormitorio qualche minuto prima e si era unita a loro in attesa di Sànde e delle altre.
Cyvonne non sembrava avere problemi a mangiare o, per lo meno, se li aveva non diede ad Anya la soddisfazione di renderlo palese e, anzi, si cacciò in bocca un boccone bello grande.
Rebecca seguì il suo esempio e, intervallando i morsi con lunghi sorsi di acqua –anche quella le sembrava più sgradevole al gusto, ma forse si stava lasciando condizionare-, finì il suo pasticcio senza troppi problemi. Stava giusto per alzarsi da tavola quando la voce di Anya risuonò nuovamente nell’aria.
«Oh, guarda Rebecca! C’è il tuo amico!»
Rebecca lanciò una occhiata veloce a Pyke e al gruppetto di Beta che erano con lui, appena messisi in coda per essere serviti. Lui le rivolse un saluto altrettanto veloce, preso come era a discutere con un suo amico, e Rebecca vide Anya seguirlo con lo sguardo lungo la fila.
Delle volte incontrava Pyke, nella piazzetta delle Quattro Direzioni, come tutti la soprannominavano; in fila alla mensa o qualche tavolo di distanza da lei per pranzo; in Palestra, quelle poche volte in cui Rebecca ci andava al di fuori del suo orario di allenamento.
Lui la salutava con un gesto veloce del capo, le dava una veloce pacca sulla spalla o le rivolgeva qualche battutina, sempre ridacchiando. A Rebecca non dava fastidio perché, la prima volta che si erano visti dopo la faccenda dell’Infermeria e lui l’aveva salutata allegramente, tutte le ragazze del suo Dormitorio e Anya si erano interessate a lei.
Era patetico, Rebecca lo sapeva, ma essere al centro dell’attenzione, anche per una cosa così stupida, le risultava estremamente piacevole. Anche perché, a dirla tutta, non ne aveva altri motivi per essere famosa, in quella scuola.
Anya, anche se erano arrivate da pochi giorni, conosceva già tutti i ragazzi del primo anno Alpha e alcuni del secondo, se non altro di nome. Se loro conoscessero il suo, poi, Rebecca non lo sapeva, ma era comunque un passo più avanti di lei, che faticava quasi a riconoscere i visi delle sue compagne di Dormitorio.
Quindi, si, si era abbastanza adagiata sugli allori con le altre ragazze e quando Pyke era in giro cercava sempre di farsi salutare, giusto perché le altre la invidiassero un pochino.
Pyke, che rideva ogni volta che incontrava il suo sguardo e sembrava aver capito l’andazzo, aveva preso l’abitudine di arruffarle i capelli e allora le ragazze erano tutte un “Come fai a conoscere un Beta? Ma come si chiama? Perché lo conosci? Ti piace?”.
Ma erano piccoli momenti di vanesia e tranquilla routine che mal si incastravano con tutto ciò che Metallica rappresentava. Delle volte, a mensa, Rebecca si sorprendeva a fissare li studenti degli anni più grandi, quelli come i Gamma o li Omega, che avevano votato la loro vita al servizio della Cupola. Pensando alle loro fatiche, ai loro doveri, al futuro arduo che si prospettava loro davanti si sentiva estremamente sciocca a preoccuparsi se Pyke rispondesse o meno al suo saluto o se Anya ne fosse gelosa o meno.
In mensa, poi, non c’erano nemmeno bisogno di ricorrere a sotterfugi per ottenere attenzione. Tutti li sguardi dei ragazzi più grandi erano fissi su di loro, eccetto quelli di qualche Gamma o di alcuni Omega, e Rebecca stranamente non lo trovava altrettanto piacevole.
Loro, i ragazzi Alpha, erano novellini e lo sarebbero rimasti fino all’anno successivo quando sarebbero diventati di Secondo Livello Alpha e ci sarebbero stati nuovi arrivati da prendere in giro o scrutare con curiosità.
Al tavolo degli Omega il fratello di Nicko, il ragazzo gentile che le aveva sorriso in palestra il giorno precedente, stava ridendo con un altro compagno. Questo ultimo aveva una strana espressione in viso, vagamente offesa, ma sorrideva in risposta alle parole dell’amico.
A qualche metro di distanza c’era anche la ragazza, Jamie, l’unica di cui ricordava il nome fra li Omega, che infilzava svogliatamente un qualcosa nel suo piatto. Non partecipava alla conversazione e, anzi, aveva la fronte aggrottata e lo sguardo puntato sul quarto ragazzo seduto al tavolo, quello dai capelli scuri con cui l’aveva vista allenarsi il giorno prima.
Rebecca continuò a fissarla, notandone i capelli scuri legati troppo stretti alla nuca, in una coda di cavallo che sembrava tirarle indietro l’intero viso, il corpo troppo secco e quasi scoordinato, mentre si aggiustava i lacci degli anfibi e il suo tatuaggio –riusciva a scorgerne solo cinque cifre, ma, essendo un Omega immaginava ne avesse di più- oltre la canotta scura.
Continuò a fissarla non per il suo aspetto o per il modo in cui l’aveva vista muoversi l’altra sera, ma per cosa rappresentava e perché nessun altro sembrava farlo.
Al tavolo, infatti, tutti la ignoravano bellamente e, per quanto lei non sembrasse in alcun modo infastidita o a disagio, Rebecca si chiese da quanto non parlasse –parlasse davvero- con qualcuno. Sapeva che li Omega non hanno tempo da perdere, ovviamente, troppo occupati ad allenarsi e a cercare di salire in classifica, e, per quanto li ammirasse, Rebecca ne ebbe pena.
Perciò la guardò ancora, immaginandosi al suo posto, fra qualche anno, con molte cifre tatuate in più e molti parole in meno, proprio seduta a quel tavolo; e continuò ancora, finché anche la sua testa non scattò su e Jamie Lloyd le lanciò una occhiata infastidita e astiosa.
Rebecca abbassò velocemente li occhi e cercò di concentrarsi su quello che i ragazzi, al suo tavolo, stavano dicendo.
«Cosa abbiamo in programma, per oggi?»Sean si guardò intorno, cercando fra le facce dei presenti qualcuno che sapesse rispondere alla sua domanda.
Nicko si strinse nelle spalle, Cyvonne diede un altro morso al suo pasticcio di carne e Anya si limitò a distogliere lo sguardo, vagamente disgustata. Anche Sànde, che era sopraggiunta in quel momento e si era accomodata al loro tavolo, sembrava esserne all’oscuro.
«Magari faremo di nuovo Preparazione»
«Può darsi»Anya si strinse nella spalle e, nel farlo, assunse una strana espressione dolorante. Rebecca ebbe un rapido flash del loro primo scontro, avvenuto nella Palestra giusto qualche ora prima. Sperò che non fosse stata causata dal maldestro pugno che le aveva tirato.
«Magari oggi ci daranno una giornata libera. Siamo qui da neanche una sett- ehm, cinque giorni, e non abbiamo avuto un attimo di tregua»Sean si grattò un punto imprecisato dietro il collo e loro tutti fecero finta di non aver colto il suo tentennamento nel fare rifermento alle settimane. Nella Cupola Ovest il tempo era scandito dalle unità di misura tramandate dal Mondo Di Prima: settimane, giorni e ore. Ma, da quando erano entrati a Metallica, il tempo scorreva in giorni. Erica, la loro Responsabile che era venuta a prenderli alla stazione, lo aveva spiegato il primo pomeriggio, durante il giro del campus.
Ovviamente non era proibito, sarebbe stato un qualcosa di ridicolo e assurdo, ma lì a Metallica e più generalmente i Guerrieri, si prendevano in considerazione solo i giorni trascorsi.
«Il sole sale e poi scende. Quella è la durata di un giorno: l’unica unità di tempo che vi serve, quando siete Guerrieri. Non credo che, se foste abbandonati in un luogo di morte e miseria, senza viveri e aiuto alcuno, avrete la necessità di catalogare il tempo che vi rimane. Il sole sale e poi scende: è così che si vive e si va avanti»
Rebecca sapeva che i Guerrieri avevano delle loro tradizioni, anche i Produttori, la Classe Sociale in cui lavoravano i suoi genitori le avevano, ma questa proprio non riusciva a comprenderla. Nicko, che aveva il padre che lavorava come Rappresentatane dei Guerrieri al Governo, le aveva detto che loro non avevano tempo da perdere e nemmeno troppo da vivere.
«Se ti abitui fin da subito a convivere con il fatto che potresti morire fra giorni –non settimane, mesi, anni: giorni, e riesci ad accettarlo, sei diventato un Guerriero»
Rebecca non riusciva, ancora. Le capitava spesso di tenere ancora conto del tempo trascorso con le unità di misura tradizionali e, la confusione nella sua testa, le faceva pensare che non sarebbe stato tanto facile, un volta che i giorni trascorsi a Metallica fossero stati più dei cinque in cui c’era stata lei.
«Non scommetterei troppo sulla giornata di vacanza, guarda»Cyvonne aveva finito di mangiare e stava aggiustandosi i riccioli in una coda disordinata. La sua, a differenza di quella di Jamie Lloyd, era più morbida e ciocche di capelli le sfuggivano disordinatamente sugli occhi e sul viso rotondo «Soprattutto visto la faccia di culo di Erica»
Tutti i ragazzi del tavolo girarono la testa, seguendo la direzione indicata da Cyvonne con un cenno del capo, e scorsero la loro Responsabile in piedi davanti alla Porta della Sala Mensa, mentre parlava sommessamente con l’Allenatore degli Omega, Cain.
Nonostante la distanza che le separava, Rebecca colse con gran dovizia di particolari l’espressione stranamente soddisfatta di Erica e il modo in cui i suoi occhi allungati si soffermassero troppo spesso nella sezione di Sala riservata a loro Alpha.
«Tutti li Alpha di Primo Livello con me, avanti!»
La voce di Erica risuonò fra i tavoli della mensa, oltrepassando il chiacchiericcio fitto degli studenti e le risate sentite di un gruppo di Beta. Rebecca guardò i suoi compagni, aspettando che si muovessero e raggiungessero la porta. Sean prese l’iniziativa e si alzò dalla panca, facendole cenno di seguirlo con il capo e, insieme a Cyvonne, Teks e a Nicko, Rebecca prese a camminare verso l’ingresso. 
Anya si riprese subito dalla sorpresa e la seguì con passo baldanzoso, insieme a tutti li altri, muovendosi molto più in fretta di Rebecca e arrivando alla porta prima di lei.
Cain prese con se i ragazzi del Gruppo A, Erika radunò quelli del Gruppo B -fra cui la stessa Rebecca, Sean e Cyvonne-. Proseguirono insieme, risalendo la Terza Strada fino alla Piazzetta delle Quattro Direzioni e, qui girarono nella Prima Strada, quella della Palestra.
Rebecca pensò che fosse quella la loro destinazione, ma, quando continuarono ad avanzare si sorprese nel vedere i loro Responsabili fermarsi davanti ad una imponente palazzina grigia, affianco agli Alloggi Omega. Rebecca la riconobbe come la stessa nella quale, il secondo giorno, avevano fatto i test psicologici.
I primi ad entrare furono quelli del Gruppo A: attraversarono la porta di metallo e girarono a destra, salendo una rampa di scale. Il gruppo B aspettò qualche minuto poi, guidato dalla Responsabile Erika, anche loro si mossero –verso sinistra, però- e marciarono lungo le scale.
Rebecca arrancò dietro di loro e, mentre attraversava i corridoi grigiastri ebbe quasi la sensazione che questi si stessero restringendo sempre più, soffocandola.
Il luogo non era lo stesso –il giorno delle interviste erano rimasti al piano terra ed erano andati dritti lungo il corridoio- ma la procedura fu la stessa. I ragazzi vennero fatti accomodare in una sala dalle medie dimensioni e, di nuovo, furono chiamati in base al loro numero. Rebecca era una delle ultime, come aveva scoperto la volta precedente, perciò si mise comoda e reclinò appena la testa contro il muro.
Si sentiva stanca oltre ogni limite, come se il compiere quei pochi passi dalla Mensa alla Palazzina Grigia l’avesse stremata oltre ogni limite.
«303!»Rebecca chiuse li occhi, consapevole dei movimenti di Sean, che, arrivato il suo turno, si alzava dalla sedia accanto alla sua e raggiungeva la porta.
Non pensò assolutamente a nulla, mentre i tre numeri precedenti al suo entravano nella misteriosa saletta. Era come se il suo cervello fosse nuovamente sotto effetto del Rivitalizzatore e fosse incapace di soffermarsi su un qualcosa per più di pochi secondi.
«306!»
Rebecca si alzò e, anche se sentiva le gambe molli e la testa girarle appena, la sua camminata fu sicura e decisa. Lanciò un breve sguardo a Cyvonne –numero 311- che stava ancora aspettando e cercò di sorriderle un  po’.
Lei le restituì un cenno con il capo e incrociò le braccia sotto al petto prosperoso.
Rebecca, nei pochi attimi passati prima di serrare la propria mano sulla maniglia e abbassarla, si vide passare davanti tanti possibili scenari e situazioni che avrebbero potuto celarsi in quella Sala. Non diede troppo peso a quei pensieri, ma fu comunque piuttosto sorpresa di trovare una semplicissima stanza, completamente vuota.
Era priva di mobilio: tutti i muri erano di un colore grigiastro, appena più chiaro di quelle del corridoio e anche queste senza alcun tipo di decorazione, eccezion fatta per una finestra di medie dimensioni che si apriva sulla parete difronte alla porta.
Rebecca mosse qualche passo verso di essa, fermandosi nel bel mezzo della stanza. Si guardò nuovamente intorno, vagamente ansiosa.
«C’è nessuno?»
La sua voce tremava appena e Rebecca se ne stupì. Era soltanto una stanza vuota, eppure il suo corpo sembrava sul punto di collassare dal nervoso.
«Ehi! Ehi, andiamo! Non è divertente!»
Faceva freddo, lì dentro: Rebecca si abbracciò il busto, sfregandosi le mani sulle braccia. Si chiese se la finestra fosse aperta e se, l’improvviso calo della temperatura, fosse dovuto ad una folata di vento proveniente dall’esterno. Si avvicinò ad essa per controllare ma, ad ogni passo che faceva, le sembrava che il freddo aumentasse sempre di più e che la finestra fosse sempre più grande e lontana.
Ma cosa…?
Rebecca accelerò il passo, arrivando quasi a correre, ma le pareti le diedero l’orribile sensazione di essere sul punto di restringersi e chiudersi su di lei. Le sue mani, sempre a stringere il busto alla ricerca di calore, sfiorarono per un secondo il suo tatuaggio con il numero. Era bollente.
Inchiodò sul posto e lo toccò di nuovo. Non poté farci troppa pressione perché, anche quel semplice sfioramento le diede una scarica di dolore e di adrenalina lungo tutto il corpo, e i tre piccoli numeretti sulla scapola presero a pulsare a ritmo con il suo cuore.
«Ehi! Ehi, basta! Mi sentite?»Rebecca cercò di tornare indietro ma, quando si voltò, la porta era scomparsa e tutto intorno a lei c’era il buio più completo. L’unica luce veniva dalla finestra, una sottile lama di chiarore che le feriva appena li occhi ma che la fece continuare a correre.
Non seppe dire quanto ci mise, ad arrivare lì. Sapeva solo che ad ogni passo la finestra si allargava sempre di più: come quando, dopo aver scorto qualcosa da lontano, ti ci avvicini e la vedi più grande e chiaramente. E quando finalmente Rebecca fu arrivata, li stipiti della finestra erano troppo in alto per essere raggiunti e davanti a lei c’era solo il vuoto.
La sua ipotesi era corretta: il vento freddo veniva da lì e prese a soffiare con così tanta forza da spingerla nuovamente indietro di qualche passo. La sensazione di malessere che sentiva dentro non si era in alcun modo acuita, ma Rebecca si costrinse a trattenere le lacrime.
Il freddo le pungeva la pelle e, oltre la finestra, c’erano metri e metri di vuoto e aria e nulla. Guardare giù, per quello che poté senza perdere l’equilibrio le diede  le vertigini e si ritrovò a tremare convulsamente, con i denti che battevano e le braccia nude che si aggrappavano al busto, sfiorando di proposito il tatuaggio, perché il dolore che esso provocava la sbloccassero da tale orribile situazione.
Bum.
Rebecca si girò su se stessa, facendo appena in tempo a scorgere un viso conosciuto scorrerle davanti, prima che una nuova folata la spingesse verso il baratro.

 

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Capitolo 5
*** 4 - Chi ride per ultimo ***


 


Questo capitolo va a Nipotina, Rosie_96 e freak the freak che hanno recensito lo scorso capitolo, a shade of green che ha commentato il secondo e, più in generale, a tutti quelli che seguono/leggono/preferiscono questa storia!
Grazie mille, ci vediamo in basso <3

Capitolo IV
Chi ride per ultimo


(Dal precedente capitolo)
L’unica luce veniva dalla finestra, una sottile lama di chiarore che le feriva appena li occhi ma che la fece continuare a correre.
Non seppe dire quanto ci mise, ad arrivare lì. Sapeva solo che ad ogni passo la finestra si allargava sempre di più: come quando, dopo aver scorto qualcosa da lontano, ti ci avvicini e la vedi più grande e chiaramente. E quando finalmente Rebecca fu arrivata, li stipiti della finestra erano troppo in alto per essere raggiunti e davanti a lei c’era solo il vuoto.
La sua ipotesi era corretta: il vento freddo veniva da lì e prese a soffiare con così tanta forza da spingerla nuovamente indietro di qualche passo. La sensazione di malessere che sentiva dentro non si era in alcun modo acuita, ma Rebecca si costrinse a trattenere le lacrime.
Il freddo le pungeva la pelle e, oltre la finestra, c’erano metri e metri di vuoto e aria e nulla. Guardare giù, per quello che poté senza perdere l’equilibrio le diede  le vertigini e si ritrovò a tremare convulsamente, con i denti che battevano e le braccia nude che si aggrappavano al busto, sfiorando di proposito il tatuaggio, perché il dolore che esso provocava la sbloccassero da tale orribile situazione.
Bum.
Rebecca si girò su se stessa, facendo appena in tempo a scorgere un viso conosciuto scorrerle davanti, prima che una nuova folata la spingesse verso il baratro.

 
Anya stava urlando, proprio davanti a lei.
La voragine si apriva sotto i loro piedi e Rebecca non aveva la minima idea di cosa l’amica ci facesse lì. D’altra parte, mettersi a ragionare su quello, era la cosa più stupida e irrazionale da fare, al momento, vista la situazione.
Tentò di liberarsi dall’opprimente panico che la stava attanagliando e, controllando i battiti del cuore, fece un grosso respiro. Conscia di essere letteralmente in bilico fra la vita e la morte, cercò di indietreggiare e di allontanarsi dal varco.
Aveva gli occhi chiusi e, sul primo momento, nemmeno si era accorta di esserci riuscita.
Non si aspettava che sarebbe stato così facile. E non si aspettava nemmeno che lo stesso vento che qualche attimo prima la stava spingendo verso lo strapiombo si placasse all’improvviso. Ora, era come se tutto fosse finito.
Rebecca, nel breve attimo che impiegò a valutare la situazione, si rese conto che, dietro di lei la porta era riapparsa e che il vento non sembrava intenzionato a darle più fastidio. La stessa finestra che, fino a qualche attimo prima si era ingrandita fino all’inverosimile, lasciando solo vuoto e bilico davanti a lei, stava tornando alle sue normali dimensioni. Sarebbe potuta correre via e andarsene.
Rebecca stava appunto per farlo quando, le urla disperate di Anya, non la fecero nuovamente voltare. La finestra si stava restringendo e le luci si erano riaccese, tanto che ora Rebecca vedeva tutto in ogni minimo particolare –come se avesse preso nuovamente del Rivitalizzatore-, ma il vento aveva cessato di tormentare solo lei e continuava a trascinare via Anya, che invano si aggrappava allo stipite della finestra.
«Rebecca! Rebecca, aiutami!»
I bei capelli neri di Anya le turbinavano attorno, incorando il suo viso come una corona di spine e di ombre e la bocca rossa era distorta dalle urla. Era, ormai, completamente fuori dalla finestra e cercava di puntellarsi con le braccia e le gambe.
Rebecca rimase per un altro momento immobile, guardandola contorcersi e invocare aiuto, prima di riscuotersi da quello strano e orribile incubo e correre verso di lei.
«Ti tiro fuori, tranquilla»la rassicurò, gettandosi in avanti. Le afferrò le mani e cominciò a tirare ma il vento spingeva sempre di più anche lei e perse più volte la presa. Riuscì a riacchiapparla tutte le volte, ma Anya urlava sempre più forte e una voce sconosciuta nella sua testa iniziava a suggerirle di lasciarla andare e mettersi in salvo.
“Anya non ti piace, in fondo. Ti danno fastidio quasi tutti i suoi comportamenti, perché dovresti rischiare la tua vita per la sua?”
Rebecca la ignorò stoicamente e, dopo inutili, vani e innumerevoli tentativi, finalmente riuscì a issarla sul pavimento. Anya si rannicchiò sulle mattonelle e si abbracciò le ginocchia, piangendo forte per la paura e lo shock. Rebecca la guardò con sollievo e le mise una mano sulla spalla, cercando di tranquillizzarla.
Il vento era scomparso di nuovo e Rebecca, dopo essersi accertata che la porta fosse ancora dietro di lei, si concesse un sospiro di sollievo.
«Ce l’abbiamo fatta»disse, stringendole la mano «Ce l’abbiamo fatta, Anya!»
Dopo essersi alzata, aiutò Anya a fare lo stesso e si girò verso l’uscita.
Fu un attimo, un ultimo colpo di vento, inaspettato e un urlo di Anya. Quando Rebecca si girò lei era di nuovo fuori e questa volta si teneva alla finestra con una sola mano.
«Basta!»Rebecca urlò la sua indignazione e si avvicinò all’apertura una seconda volta «Basta, non è divertente, smettetela!»
Combattendo nuovamente contro il vento si appoggiò con una mano allo stipite della porta e con l’altra afferrò Anya. Era nuovamente riuscita a trascinarla dentro quando un’ultima, immensa e inaspettata spinta di vento non la fece barcollare in avanti.
Rebecca lasciò la presa per assicurarsi con maggior forza allo stipite della finestra e non cadere, ma Anya era già precipitata giù.
 
***
 
Un TU.bo. riservato ai trasporti speciali stava attraversando la recinzione che circondava il perimetro della Cittadella. Il Riconoscitore posto all’ingresso si illuminò per qualche secondo di blu, quando il veicolo si avvicinò all’entrata, e i cancelli in metallo thean si spalancarono, permettendone l’avanzata.
In ogni modo il viaggio del TU.bo. si concluse nel giro di pochi metri. A nessuno, se non al personale addetto e a membri importanti del Governo Generale, era permesso inoltrarsi fra le palazzine grigie della Cittadella. Il padre di Melanie diceva sempre che, le persone che lavoravano lì dentro, erano dei veri e propri eroi: davano speranza per un futuro migliore.
Melanie non sapeva esattamente cosa facessero lì dentro.
Ray, che aveva origliato una conversazione dei suoi genitori, diceva che facevano degli esperimenti, che curavano i malati. Come, curassero i malati… beh, di quello Ray non era molto convinto; ma centravano qualcosa quegli strani macchinari che avevano brevettato l’anno scorso e di cui Melanie era conoscenza solo perché il signor Torchwood ne aveva discusso con suo padre.
Il TU.bo., comunque, si fermò a qualche metro dall’ingresso e spalancò le pareti dei vetro degli scomparti. Melanie non riusciva bene a distinguere chi ci fosse lì dentro -persone, ovviamente, i TU.bo non erano adatti per trasportare oggetti, visto che il tutto era regolato dal flusso del sangue nelle vene-  e intravide solo tre responsabili della Cittadella, con le loro tuniche grigie e le loro Lenti Della Vista Speciali, che conducevano una decina di passeggeri verso l’interno.
Il TU.bo aspettò qualche altro minuto, poi se ne andò anche lui velocemente.
Melanie se l’era chiesta molte volte, cosa ci fosse là dentro. Indubbiamente le conversazioni che lei e Ray avevano origliato e i dettagli che avevano messo insieme con il ragionamento dovevano essere vere, eppure… perché curare i malati in un posto tanto riservato? Perché avere uno staff che non usciva quasi mai dalla struttura e impedire l’ingresso a chiunque?
Per qualche tempo aveva pensato che fosse un posto adibito alla cura solo dei malati più ricchi, ma, dopo l’incidente di Soraya Rock –che aveva mangiato del cibo non trattato in uno Stabilimento e aveva preso un virus orribile- le cose avevano preso una piega differente.
Soraya abitava nel quartiere più povero di Peete e studiava anche lei per una carriera da Produttore –con l’unica differenza che lei sarebbe finita a lavorare in un qualche Stabilimento, mentre Melanie sarebbe finita a dirigerlo, quello Stabilimento-. Era abbastanza carina, con i capelli rossi e le lentiggini sulle guance, e se non fosse stata così povera probabilmente avrebbe riscosso successo fra gli amici di Melanie.
Lei la conosceva perché Katerina, -la migliore amica con cui sua sorella Sophie viveva praticamente in una simbiosi morbosa e indissolubile- l’aveva invitata ad una riunione a casa sua, una volta. Soraya si era sentita estremamente a disagio, ovviamente.
Melanie ne aveva avuto pena ma suo padre le aveva proibito di dare confidenza alle classi inferiori e, anche se entrambe sarebbero diventate Produttori –di diverso livello, ovviamente- Melanie era comunque più in alto rispetto a lei.
In ogni modo, Soraya aveva mangiato una mela da un albero di poco fuori dalla città. Il che, di per sé, era probabilmente la cosa più stupida che si potesse fare. Lo sapevano tutti che la terra non produceva nulla di commestibile e che, per mangiare qualcosa, prima bisognava sterilizzarlo in uno Stabilimento e inserirci delle particolari proteine.
Probabilmente l’aveva fatto per una scommessa con i suoi amichetti del quartiere Lys, ma, quello che all’inizio doveva essere una semplice indigestione e un lavoretto da poco per i Produttori con Specializzazione Medica, si era trasformato in un vero incubo.
Melanie non sapeva tutti i dettagli, ma Katerina aveva detto a Sophie che la ragazza aveva iniziato a delirare. “Vomita tutto quello che le danno, anche il cibo dello Stabilimento. E urla e vede cose… mio zio lavora nella clinica in cui l’hanno ricoverata e dice che ha degli scatti d’ira… pensano che sia per colpa del veleno naturale presente nel cibo.”
Avevano portato Soraya Rock nella Cittadella e lei e Ray si erano arrampicati vicino alla recinzione, per poter spiare cosa sarebbe successo.
Non erano riusciti a scoprire nulla, ma la madre di Soraya aveva preso a girare per la città con il viso pallido e gli occhi spalancati sul nulla. A volte, quando Melanie se ne andava in giro dalle parti di Lys per raggiungere il suo negozio preferito, la vedeva, con le mani protese e la voce rotta per il pianto. Una volta l’aveva afferrata per il braccio e Melanie si era spaventata oltre ogni limite. Le aveva puntato gli occhi spenti addosso e le aveva detto, senza davvero guardarla: “Le faranno del male. La mia bambina, la cambieranno… avete visto la mia bambina?”
«Melanie, mi stai ascoltando?»
In realtà Melanie stava facendo tutto il possibile per non ascoltare.
Il pensare a Soraya Rock e alla Cittadella era stato solo un inutile diversivo per non doversi concentrare sulla realtà dei fatti.
Era ironico, in un certo senso.
Si era opposta così fermamente a quel matrimonio con Colin. Aveva protestato, urlato, si era rifiutata a lungo. Alla fine aveva ceduto, più per stanchezza e per paura della reazione di suo padre che per vera convinzione; e aveva scoperto che, in fondo, Colin non era poi tanto terribile. Non era innamorata di lui e mai lo sarebbe stata, ma stare con Colin la spingeva in una nuova direzione, a domandarsi il perché di tante cose che fino a quel momento aveva dato per scontato e le permetteva di ridere, una libertà che fino a quel momento non si era mai permessa con nessuno se non con i suoi famigliari e i suoi amici più intimi.
E quando, finalmente, era giunta alla conclusione che le sarebbe potuto capitare di peggio… ecco che la situazione precipitava nuovamente e quel poco che aveva guadagnato, che aveva conquistato dopo notti passate immobili a fissare il soffitto della sua stanza, le veniva strappato via.
Colin l’aveva portata lì, su quella collina vicino alla recinzione della Cittadella, probabilmente ignaro di quanto quel posto potesse significare per lei -che ci aveva passato quasi tutta la sua adolescenza; a guardare Ray di nascosto e distogliere lo sguardo imbarazzata quando lui la beccava-. L’aveva portata lì, si era preso qualche momento per fissare i TU.bo che arrivavano ai cancelli della struttura e poi le aveva detto che sarebbe partito.
Melanie, per un attimo, era rimasta sospesa in aria.
Annullerà il matrimonio. Mio padre mi ucciderà. Dio, mio padre mi ucciderà.
Era stata l’unica cosa a cui era riuscita a pensare e, l’attimo dopo, si era sentita vagamente in colpa per non aver rivolto nemmeno un pensiero alla separazione con quell’uomo che era stato tanto gentile con lei.
«Io… lo so che è assurdo, Melanie. Avevo fatto richiesta per quel posto mesi fa, ancora prima di trasferirmi qui e non mi avevano mai contattato o fatto sapere niente. E ora, una settimana fa, mi hanno richiamato e chiesto di raggiungerli sul posto…»Colin continuava a cercare di guardarla negli occhi, ma Melanie non si sentiva ancora abbastanza pronta per il momento in cui avrebbe dovuto fronteggiare la realtà «Devo andare, mi capisci? È il lavoro più importante che mi abbiano mai offerto, una possibilità irripetibile che potrebbe cambiare…»
Melanie lo capiva, certo.
Lui aveva preso a spiegarle come quell’occasione fosse irripetibile. Il Governo Generale della Cupola Sud mandava alcuni rappresentati per mediare con quelli della Cupola Ovest e discutere della difficile situazione che si stava andando a creare –Ray, prima di partire, le aveva accennato brevemente di alcuni tumulti nella Cupola Est- e Colin, in quanto proveniente dal Sud ma residente nell’Ovest da una decina d’anni, era stato scelto, vista anche la sua posizione e bravura, per fare d’ambasciatore in tale incontro.
I rappresentanti sarebbero arrivati nel giro di una settimana e sarebbero rimasti per tre mesi.
«…e dopo, quando mi sarò fatto un nome, magari mi offriranno un impiego fisso e, quando ci saremo sposati allora…»
«Cosa?»la testa di Melanie scattò in alto, interrompendolo.
Colin la guardò interrogativamente, sorpreso da tanta veemenza.
«Hai detto che saresti partito» chiarì lei.
«E non avevi capito che sarei anche tornato?»
Melanie non seppe, sinceramente, cosa stesse succedendo nella sua mente. Era come se questa si fosse staccata dal suo corpo e migliaia di voci le stessero sussurrando nelle orecchie diverse versioni di una stessa storia.
«Pensavo che te ne saresti andato e basta»
«Ho fatto una promessa con tuo padre e, anche se non credo ti farà così tanto piacere, ho intenzione di mantenerla. Non sono uno che non mantiene le promesse, Melanie. E credo di averne fatta una anche a te»
Melanie distolse lo sguardo, perché iniziava a sentirsi piuttosto coinvolta dalla situazione e voleva evitare che i suoi sentimenti apparissero tanto ovvi. Era come essere sospesa in aria, come sul ponto di librarsi in aria ma, allo stesso tempo, avere paura a decollare, con il timore di cadere. Colin non protestò, ma le mise una mano sul braccio, all’altezza del gomito.
«Lo so che non sei felice, Melanie»aveva la voce bassa e gentile, come sempre, ma Melanie percepì anche una punta di rammarico «Ma, se ancora mi vorrai, tornerò per te. Andrò lì, perché, nonostante tutto non posso deludere le aspettative che tutti ripongono su di me e poi tornerò da te e saremo felici, Melanie. O almeno proveremo ad esserlo… devi solo dirmelo. Se mi dirai che mi vuoi ancora, in futuro… vuoi che io torni?»
Melanie rimase in silenzio.
Colin incassò il colpo con un profondo respiro e, per qualche istante, chiuse gli occhi. Quando li riaprì non la guardava più e sembrava concentrato sui cancelli della Cittadella, come lo era stata lei qualche minuto prima.
«D’accordo. D’altra parte non mi aspettavo certamente che rimanessi qui ad aspettarmi»Colin prese un grande respiro, e sollevò appena il viso -Melanie ne osservò il profilo di sottecchi, cercando di imprimerselo in testa, in attesa di comprendere se volesse dimenticarlo o ricordarlo per sempre- «Vieni, allora, ti accompagno a casa»
 
Colin, dopo averla accompagnata a casa, le diede un bacio sulla fronte.
Le sue labbra sottili erano fredde e diverse da tutte quelle che avevano mai sfiorato la sua pelle prima di quel momento. Anche quelle di Ray, che una volta le aveva dato un bacio sulla guancia quando erano ancora troppo giovani per preoccuparsi della vita e dei suoi misteri, le avevano dato una sensazione diversa.
Melanie lo guardò andare via e si sentì stranamente vuota.
Colin aveva riempito le sue giornate e si era dimostrato, se non un ottimo, perlomeno un passabile sostituto di Ray nella noia di quelle settimane.
Dopo aver lanciato un’ultima occhiata al vialetto, ormai vuoto, e si chiuse la porta di casa alle spalle. Sua madre non c’era, a giudicare dall’assenza della sua mantellina e del suo cappello sul apposito mobile dove li lasciava ogni volta che era a casa, pronti per essere presi al volo quando doveva uscire a fare qualche commissione.
La porta dello studio di suo padre, invece, era semi aperta e, quando Melanie ci passò accanto vide che la luce era accesa. Cercò di fare il meno possibile rumore, ricordandosi del O.L.O. che Colin aveva lasciato a suo padre prima di andarsene, per spiegare la situazione.
Stava per salire le scale quando la voce del genitore la raggiunse, facendola immobilizzare al suo posto. «Melanie, vieni qui un attimo»
Quando entrò notò che c’era molta più confusione del solito.
La scrivania in legno –avevano speso una fortuna, per procurarsene una in vero legno e non in quella schifezza sintetica che si trovava a buon mercato- era ingombra di O.L.O. e di Kool di ultima generazione. Con un pizzico di preoccupazione Melanie si accorse che, proprio sull’orlo della scrivania, c’erano tre bottiglie di liquore stappate e vuote. Quando fece un passo verso il centro della stanza, accostando la porta allo stipite senza davvero chiuderla, notò anche un bicchiere frantumato che riversava il suo contenuto sul tappeto prezioso.
Suo padre ne teneva in mano un altro e, prima di rivolgersi a lei, prosciugò le ultime gocce con un breve sorso. Non appena ebbe finito lo ripose con delicatezza sul piano in legno.
«Vorresti spiegarmi questo, Melanie?»disse, agitando in aria un O.L.O. temporaneo, di quelli che si disattivavano non appena l’interessato non leggeva ciò che c’era scritto sopra «“Egregio Signor Wood, è con rammarico che sto per informarla”, bla, bla, bla… dove era, aspetta? Ah, ecco, ecco “che, come sua figlia mi ha fatto non troppo velatamente comprendere, l’unione con me non sarebbe stata di suo completo gusto”… è bravo, con le parole, questo ragazzo, non trovi? E senti qui, poi “sua figlia è una creatura deliziosa e fragile e spero vivamente che possiate non addossarle la colpa di quanto appena comunicato. Melanie non ha alcun tipo di colpa, se non di essere ancora troppo giovane per pensare seriamente ad un matrimonio…” e giù a difenderti. Non ne sei orgogliosa?»
«Ha detto che tornerà»disse lei, senza riuscire a trattenersi.
«Certo che l’ha detto. E vedo con piacere che, come avevo sospettato, tu ci hai creduto. Ci hai creduto e non hai la minima idea di cosa questo significhi per noi»
Melanie, in realtà, lo sapeva. Sapeva che, per la sua famiglia, era importante che lei si sposasse con Colin. Prima di tutto, perché c’era quella tassa sul matrimonio che prevedeva il pagamento di una rata esorbitante per ogni sei mesi che un cittadino della Cupola oltre i diciotto anni passava da nubile o scapolo. Il Presidente Quency, il secondo ad aver retto il Governo Generale della Cupola Ovest dopo Esatther-la-Grande-Bomba, aveva promulgato quella regola promettendo un appoggio finanziario per tutte le coppie giovani e con bambini –e tassando quelli che vivevano da soli- per incrementare la popolazione, al tempo decimata dalle malattie e dalle radiazioni.
In seguito, quella tassa, era rimasta in vigore e, la famiglia di Melanie, che godeva di buon nome ma non di finanze troppo elevate, non sarebbe riuscita a permettersi il peso di due tasse di nubilato. Melanie doveva sposarsi, quello era stato già premeditato.
«Sai cosa sono questi, Melanie?»chiese ancora suo padre, facendo un ampio cenno con il braccio ad indicare la grande serie di scartoffie che sommergevano la sua schiena. Erano tutti O.L.O temporanei, ognuno dalla capienza di migliaia di DDW e, a giudicare dai segni tracciati trattavano di numeri e cifre.
«Questi, figlia mia, sono i conti e le spese di questo mese»li fissò per qualche secondo, osservandoli come a soppesarli e a decidere quale prendere per prima «Tutti i conti che, in previsione della tassa sul matrimonio, non riusciremo a pagare»
«Non ho fatto niente»disse e si diede della stupida perché, ogni parola che usciva dalla sua bocca, era un misto fra una supplica e una giustificazione.
La testa di suo padre scattò in alto e i suoi occhi scuri erano infuocati dalla rabbia e da un qualcosa che fece rabbrividire e indietreggiare Melanie.
Lo vide alzarsi dalla scrivania e la sedia strisciare sul pavimento della stanza con uno scricchiolio fastidioso. Era l’unico suono che si riusciva a percepire in tutta la casa, quel leggero stridio e i passi di suo padre che si avvicinavano a lei, e la mano di Melanie che non era esposta allo sguardo severo del genitore prese a tremare appena.
Abbassò velocemente lo sguardo e cercò di controllarne il tremito. Quando rialzò gli occhi il viso di suo padre era a pochi centimetri dal suo.
«Non ho fatto niente, papà»sussurrò di nuovo e la voce era tremante come le sue mani.
Suo padre sorrise, un sorriso freddo che non contagiò gli occhi, e inclinò appena lo sguardo «Oh, Melanie, credimi, ne sono più che sicuro. Tu non fai mai niente.»
Melanie rimase impietrita al suo posto mentre suo padre si allontanava di qualche passo e prendeva a camminare per la stanza.
«Avrei dovuto rinunciarci ormai da tanto tempo, con te. Ma sono uno sciocco sognatore e credevo che, dopo anni e anni passati a essere presa in giro, a essere considerata da tutti uno zimbello e isolata, sfruttata per il suo carattere debole e il suo essere assolutamente inutile, mia figlia avrebbe imparato la lezione»rise appena, scrollando la testa e dandole le spalle «Dimmelo, avanti. Dimmelo che sono uno sciocco senza speranza. Dimmelo, che sei solo una ragazzina stupida e inetta con la testa piena di fantasie e idiozie come il Mondo di Prima. Dimmelo, che sei così inutile e ingenua da credere ad ogni sciocchezza che le viene propinata da un bel faccino, che sei una ragazzina che si innamora troppo e comprende troppo poco. Dimmelo, che sei così, Melanie»
Melanie rimase in silenzio.
«Vuoi fingere che non sia così? Vuoi fingere di non aver mandato tutto all’aria come al solito? Di non essere assolutamente inaffidabile e indegna di fiducia, incapace di fare anche un qualcosa di così semplice? Di esserti fatta sfuggire l’unica occasione che eravamo riusciti a rimediare per salvare non solo te, ma anche la nostra famiglia?»
Rise ancora e questa volta, nel farlo, la guardò negli occhi.
Il suo alito odorava di alcool e Melanie ne ebbe ancora più paura, ricordando le tre bottiglie dal collo allungato che aveva intravisto quando era entrata nello studio. Avrebbe voluto attribuire quello sfogo e quella violenza allo stato confusionale e distorto dettato dall’aver bevuto e dalla disperazione di vedere la sua famiglia sull’orlo del fallimento; ma in cuor suo sapeva quei gesti erano troppo duri e pieni di significato per poterli giustificare in alcun modo.
Pensa davvero queste cose di me. È ubriaco, forse.
Ma sono davvero inutile e inetta per lui. Sono un peso che si porta sulle spalle e di cui non vede l’ora di liberarsi.
«Perché -te ne rendi conto, vero?- non hai danneggiato solo te stessa. Hai condannato tutti noi alle ristrettezze economiche e alla vergogna pubblica. La figlia del Governante Wood che viene lasciata in asso dal marito che suo padre si era tanto affannato a trovarle… la famiglia Wood, messa alla gogna da tutti, è in pieno fallimento e tutti puntano il dito contro di loro e la loro improvvisa rovina. Un’altra tassa da pagare, altre risate che ci seguiranno e che noi faremo stoicamente finta di non vedere…»
Melanie avrebbe voluto protestare. Dire che non era colpa sua, che Colin aveva promesso di tornare e che lei si era comportata bene. Ma le parole di suo padre avevano avuto lo stesso effetto di una miriade di coltelli conficcati nel suo cuore e la gola era secca e le impediva l’emissione di un qualsiasi tipo di suono.
«Insomma è così… è così patetico. Che l’unica cosa in cui tu sia riuscita in tutta la tua vita sia stata mandare all’aria tutto… cosa gli hai detto? Cosa hai fatto?»la raggiunse in un balzo così repentino che Melanie sobbalzò violentemente e andò a sbattere contro lo stipite della porta ancora semiaperta «Come sei riuscita ad allontanarlo da te? Ti sei semplicemente rivelata come la terribile delusione che sei? Dimmelo. Sono tanto interessato…»
Melanie rimase zitta, di nuovo e questo sembrò far perdere completamente il controllo a suo padre. La afferrò per il braccio e Melanie si sentì sul punto di crollare a terra.
«Cosa hai fatto? Cosa gli hai detto? Dimmelo, Melanie, dimmelo. Condividi con me la tua bravura nel rovinare le cose»
«Niente, niente!»anche Melanie stava urlando e intanto sentiva il braccio che il padre le aveva afferrato diventare sempre più insensibile e le lacrime scivolarle sul viso, senza riuscire a fermarle «Non gli ho fatto niente!»
«Dimmelo, Melanie!»
«Basta, basta, basta»era una nenia senza fine che le usciva dalla bocca e che Melanie non riusciva più a controllare «Non ho fatto nulla, non gli ho fatto nulla, basta, basta»
La porta, dietro di lei, si aprì di scatto e, se suo padre non l’avesse tirata in avanti con un movimento veloce, l’avrebbe presa in pieno alla tempia. Sua madre era sulla soglia, ancora con il soprabito estivo, le scarpe con il tacco e l’elegante cappellino.
Rimase in silenzio e immobile per appena un istante, quasi ad assimilare la situazione.
I suoi occhi vagarono per la stanza incontrando prima le bottiglie vuote di alcool e il bicchiere di vetro frantumato ai piedi della scrivania, poi il volto troppo rosso e l’espressione del marito, chiaramente ubriaco, e poi il viso di sua figlia, le lacrime che le scendevano copiose lungo le guance. Infine, con un gesto secco, afferrò Melanie per un braccio e la trasse a sé.
Melanie si accoccolò contro il suo petto e pianse ancora, ma fu un pianto breve e privo di lacrimoni, solo singhiozzi e rimasugli di paura e terrore. Suo padre rimase in piedi dove lo era prima e, dal modo in cui si stava guardando le mani, sembrava essere in punto di riprendere conoscenza di se stesso e di quello che aveva fatto.
«Kara…»sussurrò alla fine, quando i singhiozzi di Melanie si erano fatti meno forti e le mani della moglie si erano serrata attorno ai capelli biondi della figlia.
Kara Wood allontanò con delicatezza la figlia e le disse di salire nella sua camera e di rimanerci per un po’. Melanie si affrettò ad eseguire gli ordini e si lanciò lungo le scale.
 
Quando Melanie raggiunse il corridoio che dava sulle stanze da notte quello che era appena successo era stato completamente rimosso. Era un qualcosa di troppo doloroso per poterci fare i conti, alla luce del sole. Chiuse l’accaduto in un cassetto nella sua mente e si ripromise di riaprirlo e preoccuparsene quando sarebbe stato pronta ad affrontarlo.
La porta della sua camera si chiuse rumorosamente alle sue spalle e Melanie rimase per un attimo immobile e in silenzio, come ad aspettare che qualcuno la spalancasse nuovamente e le assicurasse che sarebbe andato tutto bene.
Lanciò un’occhiata alla finestra spalancata che dava su una piccola traversa di Main Street e si chiese se Colin avesse già raggiunto la sua casa, fatto i bagagli e preparato la partenza.
La strada era deserta -faceva troppo caldo perché la gente se ne andasse in giro ed era anche la settimana di Manutenzione Generale dei TU.bo. pubblici- e i raggi obliqui del sole le inondavano il viso. Melanie trascinò la sedia in metallo thean accanto alla finestra e ci si rannicchiò sopra, attirando le gambe al petto e stringendosele fra le braccia.
Poggiò il mento e rimase in quella posizione cercando di ignorare che, a poche stanze da lei, si stava decidendo il suo futuro. Riusciva a sentire la voce di suo padre, alta e infuriata, che urlava contro quella più calma di sua madre e, dalla finestra della stanza, intravedeva sua sorella Sophie e Katerina, la sua migliore amica, che attraversavano il cortile e si avvicinavano all’ingresso, ignare di quel piccolo dramma.
Le fissò per un po’. Katerina aveva i riccioli scuri che le ricadevano sul volto dalla pelle abbronzata e quella espressione strafottente che a Melanie delle volte dava piuttosto fastidio. Sembrava sapere sempre tutto, quella ragazzina, era curiosa e intelligente: questi erano solo alcuni dei tanti motivi per cui suo padre non la vedeva di buon occhio. Melanie sapeva che il genitore aveva provato molte volte a farle separare, magari proponendo nuove amicizie a Sophie, ma Katerina era furba –forse quasi quanto loro padre- e la sua era una famiglia di Governanti molto ricchi, che il signor Wood non si sarebbe mai inimicato.
Melanie cercò di piangere, si sforzò di far uscire delle lacrime dai suoi occhi, perché sua madre le diceva sempre che, dopo un bel pianto e un po’ di sfogo, le cose possono apparire solo più chiare. “Se ti togli quelle lacrime che ti offuscano la vista, dopo le cose le vedi meglio.”
Ma i suoi occhi rimasero asciutti e Melanie cercò disperatamente un qualcosa che le togliesse la patina invisibile e, allo stesso tempo, nubolosa che le era scesa sugli occhi.
Katerina e Sophie erano ormai giunte al limitare del vialetto e Melanie si chiese cosa avrebbero pensato di lei, di quello che le era successo e di quello che le sarebbe accaduto in futuro. Sophie avrebbe pianto, sicuramente. Sophie piangeva per ogni cosa: per un gattino bloccato su un albero, per un nuovo vestito, per una bella giornata di sole, per essere ancora viva in un mondo tanto strano. Katerina avrebbe fatto una smorfia, invece.
Avrebbe fatto una smorfia e avrebbe detto a sua sorella di smettere di singhiozzare: “Si piange solo per i morti. Sei per caso morta, tu? È morto qualcuno che conosci o a cui volevi bene?”
Forse Katerina non la sapeva, la faccenda delle lacrime che offuscano la vista.
Melanie si rese conto di stare piangendo solo quando, mentre le osservava salutarsi, vide Katerina chinarsi su sua sorella –troppo vicina, troppo- e lasciarle un bacio vicino alla bocca- troppo vicino, troppo-.
Si disse che, in fondo, lo aveva sempre saputo.
E pensò che fosse tremendamente sbagliato, che dovevano smetterla subito. Sophie e le sue lacrime e Katerina con i suoi ammalianti occhi neri. Dovevano smetterla, perché se fossero andate incontro a quello, se avessero persistito in quella situazione e avessero continuato in quella strada di perdizione, sarebbe successo qualcosa di molto brutto.
Melanie continuò a guardarle con gli occhi sbarrati per la paura e il timore, sperando in cuor suo che non fosse davvero come sembrava, e accertandosi che nessun altro le avesse viste.
“Non siamo soli. Non lo siamo mai. E non è sempre una cosa positiva”Ray le diceva sempre quelle cose, d’estate, quando si sedevano sulla recinzione che delimitava i confini di Peete e circondava la Cittadella in tutto il suo perimetro; ma, beh, lei non lo stava tanto a sentire.
Ma il terrore profondo che qualcuno le avesse viste, che avesse potuto equivocare che…
Sophie stava sorridendo. A pochi passi da Katerina, le stava sorridendo, le stava toccando i capelli e le stava dicendo qualcosa. Rideva, per una volta, Sophie.
Sophie che piangeva sempre e comunque;  Sophie che era debole, innocente, così bianca e pura… era Katerina, il problema.
Katerina con le sue idee rivoluzionarie e i suoi comportamenti che le avrebbero fatte finire tutte in uno scomparto della prigione dei matti, che le avrebbero uccise, che le avrebbero costrette in un gioco senza regole dal quale solo lei sarebbe uscita viva.
«Dio, Sophie! Perché ti sei fatta prendere in giro così da lei? Perché stai facendo qualcosa di così sbagliato e mostruoso?»
La mente di Melanie era in fermento, le voci dentro di lei non la smettevano di discutere e la sua stessa anima sembrava incapace di prendere pace.
Sentì la porta di casa aprirsi, quasi si sorprese, di quanto quel rumore le risuonasse chiaramente nelle orecchie e lei se ne rimase ferma sulla sua sedia, a guardare Katerina allontanarsi con la sua camminata vagamente ondeggiante.
I suoi genitori stavano discutendo ancora e Melanie sentì un “Vai in camera tua, Sophie, non è il momento” e dei passi leggeri che si incamminavano per il corridoio.
Sua sorella si fermò davanti alla sua porta e Melanie la sentì respirare affondo, prima di dire ad alta voce «Melanie, stai bene?»
Non rispose.
«Melanie, lo so che ci hai viste. Katerina dice che eri davanti alla finestra»
Melanie soffocò un gemito contro la sua mano.
«Melanie, ti prego. Ti prego, ti prego»
Sophie stava singhiozzando appena, la voce vagamente rotta e Melanie si chiese quanto ci avrebbe messo prima di crollare e scoppiare a piangere.
«Sei mia sorella… ti prego, Melanie. Aprimi. Ti prego»
Le urla dei suoi genitori erano troppo alte, le lacrime di Sophie –o forse erano le sue?- troppo udibili anche a quella distanze e i ricordi, le voci e del sordo terrore la catturarono dal profondo. In mezzo a tutta quella confusione, a quelle urla e a quei pensieri che si affollavano nella sua testa, a quelle voci che non le davano mai –mai, mai, mai- tregua, che non la smettevano di dirle cosa fare e come comportarsi, cosa era giusto e cosa era sbagliato; Melanie pensò a Ray.
“Non sia mai che tu prenda una decisione in piena autonomia, vero Melanie? Mi sorprende che tu ti prenda la libertà di respirare senza un permesso scritto delle autorità!” le aveva in una accesa discussione, prima di partire. Melanie, per la prima volta da quando lo aveva incontrato e aveva imparato a conoscere lui e i suoi discorsi rivoluzionari, si chiese se non avesse avuto ragione.

 

Note dell'Autrice

Dunque, prima di tutto la scelta del titolo.
C'è da premettere che, per me, la scelta del titolo è la cosa più difficile in assoluto. Questa volta ho deciso di optare per "Chi ride per ultimo" perchè mi sembrava, in un certo senso, azzeccato con gli avventimenti del capitolo. Per Rebecca perchè, quando crede che le cose stiano andando per il verso giusto e di essere stata lei ad avere l'ultima risata e di avercela fatta... beh, la situazione si ribalta completamente. Per Melanie perchè il tempo di ridere sembra essersi concluso da un bel pezzo.
Detto ciò posso affermare che sono davvero molto preoccupata, riguardo a questo capitolo.
La parte di Rebecca è volutamente tronca, un po' per la mia bastardaggine, un po' perchè le cose hanno un loro schema ed è mia intenzione creare una sorta di parallelismo fra le due protagoniste, cosa che prevede un ordine abbastanza complesso. (Si, si, mi scocciava scrivere il continuo, lo ammetto! XD). Quella di Melanie è... confusionaria, credo.
Quello che le ha detto il padre non è... non è una bugia. Melanie è così. E' una ragazzina che non ha capo nè coda, vigliacca e anche un po' troppo lamentosa e spero di riuscire a descrivere la vera e propria trasformazione che subirà di capitolo in capitolo. Tenete d'occhio la Cittadella, comunque, e anche Soraya Rock e quelle due figliole di Katerina e Sophie.
Vi lascio fare le vostre deduzioni!
Spero davvero che possiate farmi sapere le vostre opinioni!
Nel frattempo, vi saluto ;)
Fra


 

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Capitolo 6
*** 5 - Quello che sta in alto ***


N/A
In mia difesa posso dire che il capitolo era già pronto da una settimana ma che, la partenza a sorpresa organizzata dal mio dolce paparino mi ha impedito di postare.
Ma è un capitolo bello lungo e ricco di avvenimenti, quindi potreste perdonarmi. Per lo meno fino a quando non leggerete il finale.
Dunque, visto che è passato un po' di tempo, ecco cosa è successo nelle scorse puntate.
Nelle scorse puntate:
Rebecca, dopo essere arrivata a Metallica da circa una settimana e aver iniziato a conoscere qualcuno (la sua amica -Anya-, i ragazzi che hanno diviso il treno all'andata con lei - Nicko e Sean-, le sue compagne di dormitorio -Sandè e Cyvonne-, e l'assistente dell'Infermeria -Pyke-), affronta una serie di prove fisiche e psicologiche. L'ultima e più complicata prevede salvare la sua amica Anya da un terribile pericolo, missione che Rebecca non riesce a portare a termine (infatti lascia cadere Anya e crolla a terra come una cretinetta). Melanie, invece, ha dovuto salutare il suo migliore amico Ray, anche lui a Metallica, e anche il Governante Colin (che suo padre voleva spossasse per fronteggiare le spese famigliari e la tassa sul nubilato) che è dovuto partire per partecipare ad un Congresso come ambasciatore. I suoi problemi sono aumentanti quando ha spiato dalla finestra di casa sua sorella Sophie e la sua amica Katerina in atteggiamenti compromettenti.



Capitolo V
Quello che sta in alto




Rebecca si svegliò in infermeria, di nuovo.
Una infinitesimale parte della sua mente prese a scalpitare e a protestare, perché quella di svenire in seguito a esplosioni o strani eventi e ritrovarsi in Infermeria con il ghigno compiaciuto di Pyke davanti stava diventando una brutta abitudine, ma tutto il suo essere era teso all’inverosimile. Non appena fu in grado di muoversi e di parlare liberamente scattò a sedere, tremando convulsamente e urlando in faccia a Pyke.
Lui non fece una piega e le diede una sonora botta sulla spalla, costringendola a sdraiarsi di nuovo. Ridacchiava, come sempre, ma Rebecca continuava a sentire il freddo gelido del vento sulla pelle e le urla di Anya nelle orecchie.
«Ti sei ripresa, finalmente»disse, tenendola ferma con le braccia «Chi ti ha dato il bacio del risveglio, ragazzina?»
Rebecca si agitò di nuovo, ma si sentiva stranamente fiacca e debole: non riusciva nemmeno ad alzarsi completamente senza che la testa le girasse.
«Nessuno. Ho fatto tutto da sola»
Pyke rise di nuovo e le porse una tazza in metallo thean ripiena di un liquido giallognolo e fumante. Rebecca lo annusò circospetta  e ne bevve giusto qualche sorso. Aveva un sapore strano, dolciastro e un terribile retrogusto che le lasciò la gola secca.
«Bleah!»si lamentò, allontanandola e spingendola verso l’Assistente dell’Infermeria «Che schifo è ‘sta roba?»
«Risveglia le sinapsi» disse Pyke stringendosi nelle spalle e alzandosi dal suo letto. Rebecca non si era nemmeno accorta che fossero stati così vicini, fino a quel momento: era come se nel suo cervello ci fosse una confusione pazzesca.
«Cosa è successo?»chiese, passandosi le dita sulla fronte e trovandola sudata e appiccicosa «Era una simulazione vero? Anya sta bene?»
Rebecca non era stupida. Si era svegliata più volte, per brevi periodi, in una stanza buia e silenziosa, in preda al panico. Le prime volte era stato tremendo.
Non sapeva dove si trovava, ricordava indistintamente quello che era successo nella stanza buia e quello che aveva fatto ad Anya –l’aveva lasciata cadere! Era caduta, era morta, per colpa sua!- e, soprattutto, non riusciva a rimanere cosciente se non per pochi minuti, prima di ricadere in un sonno profondo e agitato. Dopo il terzo risveglio aveva capito di essere in Infermeria, riconoscendo la confusione sulla scrivania di Malina e le spranghe di ferro –il ferro era raro, aveva una consistenza diversa rispetto al thean e Rebecca l’aveva riconosciuto subito- del letto su cui era stesa.
Il respiro le mancava, aveva la fronte sudata e le tremavano le mani, eppure la sua mente era vigile e pronta ad analizzare la situazione.
Per quanto Metallica fosse una scuola piuttosto dura, non era ancora giunta ad uccidere i suoi studenti. Questo era stato il primo pensiero che le era balenato in mente. Poi l’intera faccenda, che le era apparsa, risveglio dopo risveglio, sempre più chiara e nitida, era completamente assurda. Una finestra che si allargava, vento che non arrivava da nessuna parte, porte che sparivano e persone che apparivano all’improvviso e senza nessuna logica.
Tutto questo, sommato ai confusi ricordi di Joss -il ragazzo dei Beta che si sedeva con loro a mensa e si improvvisava guida e conoscitore di Metallica- che raccontava delle terribili esercitazioni e simulazioni a cui gli studenti erano sottoposti, avevano portato Rebecca ad aggrapparsi a due possibilità. O era completamente pazza e quello che credeva di aver vissuto era stato solo un brutto sogno, o quella era stata la prima di una lunga serie di simulazioni.
«La tua amica? Quella che urla sempre?»la voce di Pyke la riportò indietro, scacciando le sue elucubrazioni «Sta benissimo, ovviamente. E, per la cronaca, lei non ti ha lasciato morire!»
Rebecca corrugò la fronte «Cosa? Che significa?»
Pyke la guardò con il suo solito sorrisetto enigmatico «Ah, lascia perdere, sei ancora rimbambita! Bevine un altro po’!»continuò, porgendole di nuovo la tazza.
Rebecca lo gettò giù senza lamentarsi, più per stanchezza che per altro, e si sentì subito meglio. Non era come quando le avevano dato il Rivitalizzatore. Questa volta, pur percependo chiaramente la realtà intorno a lei, sentiva una patina nebulosa che le oscurava la vista agli angoli. Riusciva a mettere a fuoco qualcosa solo guardandola direttamente.
«Perché non posso prendere di nuovo il Rivitalizzatore?»piagnucolò, scalciando le lenzuola che le si erano attorcigliate all’altezza delle caviglie.
«Perché quello si usa per ferite gravi e traumi. Tu ti sei solo presa paura durante una simulazione e hai sbattuto la capoccia sul pavimento»
Rebecca lo fulminò con lo sguardo.
Gli occhi percorsero oziosamente la stanza mentre sorseggiava nuovamente dalla sua tazza, distorcendo un po’ la bocca per il sapore. Sentiva la lingua scottare al contatto -anche se la bevanda era freddissima- e Rebecca pensò che, da quando era arrivata a Metallica, il cibo e i liquidi sembravano tutti aver cambiato sapore.
«Dove è Malina?»chiese quando ebbe finito e Pyke si fu allontanato dal suo letto e avvicinato alla scrivania ingombra di O.L.O. temporanei.
«E’ in città a fare rifornimento di Rivitalizzatore e di altri farmaci. Sai come è: da quando ci sei tu le nostre scorte sono state decimate»Pyke si strinse nelle spalle e controllò l’ora sulla sua Meridiana Portatile. Rebecca non riuscì a scorgere con esattezza il cifrario ma, dal simbolo del sole che brillava sullo schermo, dedusse fosse mattina.
«Che ore sono?»chiese, tirandosi a sedere di nuovo piena di energia «Perché sono rimasta qui, questa notte? Hai detto che sono solo caduta e che ho sbattuto la testa»
«Infatti. Ma Malina ha detto che, essendo già la seconda volta che ti fai male, avrebbe preferito tenerti in osservazione per la notte. Sai, due commozioni cerebrali vanno anche bene, ma una terza complica un po’ le cose… e poi oggi è Domenica, non avresti comunque avuto Allenamenti»Pyke agitò il braccio e Rebecca scorse, sotto il camice grigio, la sua solita tenuta da Guerriero Semplice, canotta e pantaloni larghi «Ma immagino che tu possa andare, ora»
Rebecca annuì e gettò le gambe oltre il bordo del letto, cercando a tentoni i suoi anfibi neri. Il pavimento era freddo e toccarlo con la pelle nuda le diede un orribile sensazione, un po’ come quella che aveva provato durante la simulazione, con quel vento gelido che le soffiava contro.
«Pyke?»chiese di nuovo, legandosi i lacci delle scarpe e tenendo lo sguardo basso «Che simulazione era, quella di ieri?»
«La fanno tutti, quella. Serve per vedere come reagisci al pericolo: se perdi il controllo o cose varie. Ieri, quando hanno finito di esaminare tutti, Cain e Erika lo hanno spiegato. Ti sei persa un ora e mezza di sproloquio, io al posto tuo sarei contento»
«E la parte con Anya?»Rebecca non poté trattenersi dal chiedere «Anya, la mia amica, lei… lei era in pericolo e io cercavo di salvarla… è normale anche questo?»
Pyke era scorbutico e la prendeva sempre in giro, tanto che Rebecca non sapeva mai se stesse parlando seriamente o meno, ma era anche l’unico lì a Metallica disposto a darle delle risposte e a comprendere il suo spaesamento di fronte a tutte quelle novità.
«La parte con il compagno, certo»l’Assistente dell’Infermeria si strinse nelle spalle «In pratica ti piazzano nella simulazione l’ologramma di uno dei tuoi compagni di dormitorio, o uno che conoscevi già da prima… un amico, diciamo. E lo mettono in pericolo»
La scrivania di Malina era davvero disordinata, notò Rebecca mentre fissava il ragazzo riordinarla con gesti veloci «Tu sei libero di andartene, ovviamente. Oppure puoi scegliere di salvarlo. Sai, questo passaggio lo inseriscono per vedere quale sarebbe il tuo comportamento nel caso dovessi lavorare in gruppo: se te la fileresti, se cedessi per la paura o cose del genere…»
«E poi?»
«Beh, poi dipende da come ti comporti, ecco. Erika e Cain gestiscono la simulazione in modo da comprendere il tuo modo di fare, quindi… beh, credo che se alla fine riesci a salvare il tuo compagno la missione può dirsi riuscita»
Rebecca ricordò le urla di Anya che precipitava giù. Aveva tentato di salvarla, di tirarla fuori dalla voragine, e ci era riuscita una volta. La seconda, però, aveva dovuto scegliere fra la sua vita e quella di Anya; e aveva scelto la sua. Era stata una scelta impulsiva, quella di salvarsi la pelle e, anche se a scapito di Anya, in quel momento le era sembrata la migliore.
Eppure ora, in quell’infermeria asettica e vuota, tutto le appariva in una prospettiva diversa.
L’ho lasciata cadere. Ho preferito rimanermene al sicuro e l’ho uccisa.
Rebecca non riusciva nemmeno a pensarci: la delusione l’aveva avvolta e la stava soffocando. L’umiliazione di non aver capito subito di essere nel bel mezzo di una simulazione, la prontezza con cui aveva lasciato la mano di Anya per assicurarsi alla finestra e evitare di cadere nel vuoto, il modo in cui aveva perso il controllo.
«Se non mi fossi salvata io, avrei fallito completamente. Ho dovuto farlo»continuava a ripetersi, eppure non si sentiva per niente meglio.
«Tu ci sei riuscito?»domandò a Pyke, cercando di non pensare alla simulazione «A salvare il tuo amico, dico»
Pyke non rispose subito, anzi, rimase in silenzio per un bel po’. Rebecca alzò gli occhi su di lui, come a imboccargli la risposta. Lui ricambiò il suo sguardo, poi si strinse nelle spalle e scivolò fuori dal suo camice «Vieni, facciamo un giro»
Rebecca lo soppesò, confusa, mentre lo guardava andare verso l’uscita dell’Infermeria e tenerle la porta aperta con una espressione stanca «Ma come, te ne vai così? E se qualcuno ha bisogno di aiuto? Chiudi l’Infermeria?»
«Fidati, non verrà nessuno»le fece un cenno con il braccio, intimandole di sbrigarsi. Rebecca si affrettò a indossare l’altro anfibio e, anche se si sentiva strana con la Divisa del giorno prima ancora addosso –probabilmente Malina aveva temuto di svegliarla, se gliela avesse sfilata-, si aggiustò i capelli sulla spalla destra e lo raggiunse alla porta.
Camminarono in silenzio lungo il corridoio dalle pareti grigie e uscirono fuori in cortile, così come avevano fatto qualche giorno prima. Questa volta, però, la Seconda Strada era piena di ragazzi e la piazzetta delle Quattro Direzioni era in fermento. Mentre si avviavano per la Terza, Rebecca osservò con curiosità i ragazzi di Metallica, che camminavano e parlottavano come normali adolescenti, e il tutto le fece uno strano effetto.
«E’ sempre così, la domenica?»chiese, girandosi verso Pyke e sorridendo allegra.
«Più o meno»Pyke si concesse quasi un sorriso, alzando di poco il viso come a godersi i raggi del sole e l’aria fresca «Oggi c’è più casino del solito per il fatto del Congresso»
«Il Congresso?»
«Dio, ragazzina, ma dove vivi? Il Congresso che stanno organizzando a Ran, quello con gli ambasciatori della Cupola Sud! Metallica manda in sua rappresentanza i Gamma di Primo e Secondo Livello: partono fra qualche ora»il ragazzo accennò ad un gruppetto particolarmente esteso di ragazzi in Divisa Ufficiale e Rebecca scorse, fra di loro, alcuni volti conosciuti o che aveva intravisto in Sala Mensa o in Palestra.
«E perché non hanno mandato gli Omega? Sono di meno e, credo, meglio allenati»
«Gli Omega non hanno tempo per queste stupidaggini: quelli si allenano tutto il tempo. E poi la tradizione vuole che gli Omega lascino Metallica solo quando il loro addestramento è completato»Rebecca fece per parlare, ma Pyke la precedette, aggiungendo «E poi i Gamma sono più che adatti. Teoricamente vanno lì per offrire supporto in caso di problemi, violenze o cose varie; ma in pratica è solo per far fare alla scuola bella figura, sai, come a dire “noi di Metallica ci preoccupiamo seriamente del destino della nostra Cupola” e bla, bla, bla…»
Nel frattempo erano arrivati vicino al muretto che delimitava l’Area Natura, in fondo alla Terza Strada e, Rebecca, ormai completamente dimentica della domanda lasciata in sospeso riguardo alla simulazione, si guardava intorno con curiosità.
Lei, Nicko e Anya erano andati in giro, quando nei giorni precedenti era stato loro concesso del tempo libero, e si erano avventurati per le quattro stradine, alla ricerca di qualcosa di interessante con cui passare il tempo. Ma non si erano avvicinati molto all’Area Natura, un po’ per paura dei rimproveri di Erika, un po’ perché quel fitto ammasso di Alberi Sintetici dava ansia ad Anya.
«Cosa facciamo qui?»
«Ma tu non stai mai zitta?»chiese Pyke, frugando nelle tasche del pantalone e avvicinandosi al muretto. Quando estrasse fuori una sigaretta, Rebecca strabuzzò gli occhi.
«Cosa st…»
«Basta» Pyke la interruppe con un gesto secco della mano «Senti, sei davvero molto carina, ma se non la smetti di parlare credo proprio che ti ucciderò»
*
Rebecca arrossì per la rabbia e per l’imbarazzo, ma si cucì la bocca.
Ha detto che sono carina. Ha detto che sono… Mi stava prendendo in giro?
Nel mentre, Pyke aveva acceso la sua sigaretta e stava costeggiando ad una velocità sostenuta il muretto, fino a che questo non si interruppe, sfociando in un piccolo spiazzo.
Era davvero ristretto, ci sarebbero state al massimo cinque o sei persone, ed era quasi scavato nelle pietre, nell’angolo in cui il Muro dell’Area Natura e quello Esterno di Metallica si incontravano. C’era una sorta di tubo di metallo thean tagliato a metà, che andava a formare una panchina dalla forma inconsueta e, seduta comodamente su essa con le gambe semi-distese, stava una ragazza dai capelli rossi, anche lei con sigaretta e aria scocciata in viso.
«Electra»la salutò Pyke e la ragazza, che aveva gli occhi chiusi e la testa abbandonata contro il Muro Esterno, sussultò violentemente.
Al suono della voce del ragazzo fece come per buttare la sigaretta dietro di sé ma, quando si accorse di chi le stava davanti, si limitò a mostrare il dito medio.
«Pyke, che tu possa andartene a fanculo, mi hai spaventata!»sorrise e i suoi denti erano così dritti e aguzzi che a Rebecca diedero l’impressione di essere sul punto di saltarle fuori dalla bocca. Si aggiustò i lisci capelli rossicci e si appiattì la frangetta «Credevo fosse mazza-in-culo»
Rebecca avrebbe voluto chiedere chi fosse il poveretto così soprannominato ma Pyke la precedette, facendo cenno nella sua direzione con il braccio «Questa è Rebecca: è nuova»
Electra la squadrò dalla testa ai piedi, un esame silenzioso che la mise vagamente in soggezione, ma si costrinse a mantenere fermo lo sguardo e a non sembrare completamente fuori luogo. Vide lo sguardo dell’altra indugiare sui vestiti spiegazzati e sui capelli raccolti in una coda –se li era legati appena lei e Pyke erano usciti, fuori faceva davvero troppo caldo- e incrociò le braccia sotto il seno, in posizione quasi difensiva.
«Uh, carina»disse lei alla fine, scivolando sul tubo di thean e avvicinandosi. Le porse la mano non impegnata a reggere la sigaretta e strinse la sua con abbastanza forza da frantumarle qualche falange «Sono Electra, dei Gamma»
«Rebecca, degli Alpha»rispose lei.
Pyke scoppiò a ridere, soffiando una nuvoletta di fumo addosso alle due ragazze «Ma che cazzo di modo di presentarsi è?»
 
L’odore del fumo che fuoriusciva dalle sigarette di Pyke e Electra era buono.
Rebecca non aveva mai provato a fumare -e non aveva intenzione di farlo- ma era piacevole starsene lì, con la testa poggiata sul muretto e le gambe leggermente a penzoloni.
I due ragazzi più grandi parlavano, fra un tiro e l’altro, discutendo di persone che Rebecca non conosceva e di situazioni che non capiva, ma la testa aveva finalmente smesso di girarle e tutto le sembrava migliore.
La luce del sole filtrava fra le foglie degli alberi nell’Aria Natura e creava strane ombre sul terriccio. Rebecca, mentre osservava il tappeto di foglie ai piedi del tubo che faceva loro da panchina, pensò che avrebbe dovuto parlare con Anya, una volta ritornati a Metallica.
Non sapeva esattamente cosa fosse opportuno dirle.
Ehi, Anya, come stai? No, sai, te lo chiedo perché nella mia simulazione ti ho lasciato cadere e sei morta.
D’altra parte, pensò, non è che dovevano per forza parlare di quello.
C’erano tante cose di cui discutere. Magari ci sarebbe stato Nicko, o Sean, o una delle ragazze e la conversazione sarebbe stata rimandata ad un altro momento.
Cercò di non pensarci più e di concentrarsi su qualcos’altro.
«…fra un ora. Infatti dopo questa sigaretta me ne devo proprio andare»Electra interruppe la frase per aspirare profondamente, gettando il fumo in fuori con la testa lievemente inclinata «Devo ancora radunare la squadra e sicuramente Lem e Fiona si saranno imboscati da qualche parte. E devo ancora nascondere il fumo nella sacca, sperando che non sia di nuovo Lloyd a fare i controlli pre-partenza, ‘sta volta!»
«Che capo squadra irreprensibile»commentò Pyke ridendo e sistemandosi meglio.
Electra Ross, quello era il nome completo della ragazza, era il Capo-Squadra dei Gamma di Secondo Livello. Il Capo-Squadra, come Electra aveva con epiteti coloriti spiegato a Rebecca, era un ruolo di coordinazione e di rappresentanza.
«Una stronzata assurda. Odio davvero farlo, se fosse per me avrei già dato il mio posto a qualcun altro. Ma l’Allenatore Lloyd poi chi lo sente?»si era stretta nelle spalle.
Erano rimasti per una buona mezzora lì, Pyke e Electra a fumare sigarette, Rebecca a fissarli e a chiedersi se non dovesse andarsene.
Pyke, Electra e la Squadra Gamma di cui lei era capo avevano iniziato Metallica insieme, cinque anni prima. Alla conclusione del loro Secondo Livello Beta, però, i primi avevano proseguito il loro percorso di studio mentre Pyke aveva deciso di specializzarsi in Medycina.
Questo suo desiderio gli era valso il ruolo di Assistente di Malina, l’Infermiera della scuola, che si occupava della sua istruzione e, al contempo, lo rendeva partecipe delle sue attività quotidiane. Pyke non sapeva esattamente quanto sarebbe durato il suo percorso di studio, sarebbe toccato a Malina stabilirlo, ma non dubitava di poter concludere nel giro di qualche anno. Rebecca, che pur avendolo visto in azione e avendolo conosciuto in quanto studente di Medycina, aveva difficoltà ad immaginarselo senza Divisa da Guerriero sotto, rimase perplessa.
«Perché hai scelto di specializzarti?»
«Beh, ho sempre voluto studiare Medycina. Ma mio padre insisteva che frequentassi Metallica, conosceva il Coordinatore della Classe Sociale, così alla fine ho ceduto»
«E cosa ha detto tuo padre, quando ti sei specializzato in Medycina?»
«Beh, niente. Anche se faccio il medico sarò comunque appartenente alla Classe dei Guerrieri, quindi non cambia molto per lui»
Rebecca, questa cosa, non l’aveva mai capita molto bene.
Quando ti veniva chiesto di scegliere un percorso di studi –ai maschi la scelta veniva imposta prima, in quanto era per loro possibile anche prendere in considerazione la Classe dei Governanti, che iniziavano la loro istruzione a quattordici anni- il tutto appariva così definitivo e immutabile. Era il lavoro che dovevi fare, la Classe e il reddito che avresti ottenuto per tutta la tua vita ed era una scelta estremamente importante.
Eppure, quando sceglievi la direzione da seguire, improvvisamente ti si aprivano altre strade. Come la specializzazione di Pyke: anche se studiava Medycina era comunque facente parte della Classe dei Guerrieri e i suoi servigi erano destinati solo agli stessi.
Rebecca si chiedeva, dunque: a cosa servivano le Classi? A sistemare, mettere in ordine, dare una parvenza di sistematicità, ovviamente. Ma era davvero necessario fare tante distinzioni?
Cosa cambiava, per uno studente di Medycina, appartenere ai Produttori –coloro che eseguivano le libere arti- o ai Guerrieri? I medici dei Produttori erano destinati a dare assistenza a chiunque li richiedesse, mentre i medici dei Guerrieri si occupavano di seguire i loro compagni combattenti nelle zone di guerriglia e fare da pronto soccorso.
Ma quale era il punto? Quale era la differenza?
«Merda, c’è mazza-in-culo»sussurrò all’improvviso Electra, interrompendo i suoi pensieri, gettando la cicca dietro di lei e appiattendosi la frangetta sulla fronte.
Mazza-in-culoera un ragazzo alto e dalla camminata marziale che si stava avvicinando alla loro panchina improvvisata con un cipiglio serio e carico di rimprovero.
Rebecca fece appena in tempo a distinguere il simbolo degli Omega sulla sua Divisa prima che Electra, nel tentativo di liberarsi del fumo e delle cicche svogliatamente abbandonate per terra, gettasse le gambe in giù, cercando di ripulire e nascondere il tutto.
Pyke, d’altro canto si irrigidì tutto e si avviò nella sua direzione, le spalle contratte e le mani strette a pugno. Rebecca lo conosceva abbastanza da capire che l’espressione che aveva in viso non avrebbe portato a nulla di buono.
Il nuovo venuto si fermò davanti a loro, con tanto di sbattere di tacchi, e Rebecca poté permettersi di osservarlo meglio. Era più alto di Pyke di una buona spanna ma, a differenza del suo amico, non era altrettanto ben piazzato. Aveva le spalle larghe, certo, ma era sprovvisto di quella massa muscolare bene evidenziata che si sarebbe aspettata da un Guerriero di livello Omega. I capelli, seppure corti, si arricciavano appena sulle punte e il naso dritto conferiva al suo viso una sfumatura impassibile.
«Che succede qui?»chiese, con voce dura e bassa, senza schiodarsi dal suo posto «Questa area è proibita agli studenti»
«E allora tu che ci fai qui?»Pyke incrociò le braccia, con una smorfia spazientita.
Mazza-in-culonon fece un piega di fronte alla provocazione appena rivoltagli. Sembrava, invece che infastidito, stranamente annoiato e rassegnato, come se quella che gli si stava presentando fosse una scenetta già vista più volte.
«Mi hanno mandato a cercare la signorina Ross, che, a quanto pare, ha dimenticato di dover partire fra non più di cinque minuti»fece correre il suo sguardo su Electra, che aveva fatto sparire la sua sigaretta e la sua aria spavalda, e poi ritornò a fissare Pyke «Non dovresti lasciare incustodita l’Infermeria»
«Tu invece dovresti preoccuparti delle tue faccende»gli rispose l’Assistente, sbuffando forte, e Rebecca lo guardò un po’ preoccupata.
«Non è la prima volta che vi becco. Fumare è contro il regolamento di Metallica. Anche venire qui è contro il regolamento di Metallica»
Il ragazzo che stava loro davanti non sembrava intenzionato al passare alle mani, aveva sempre quella espressione quasi vuota in viso, estremamente annoiata, ma era comunque un Guerriero e Rebecca, per esperienza personale, sapeva che era una Classe Sociale, la loro, particolarmente soggetta a sbalzi d’umore.
Inoltre, mentre l’Omega si era rivolto a Pyke con educazione, l’amico risultava davvero infastidito e anche piuttosto scortese. Rebecca tese appena un braccio verso di lui, come a volergli ricordare, contemporaneamente, la sua presenza e la necessità di rimanersene tranquillo.
Stava per sfiorarlo con le punta delle dita quando Electra, recuperata la sua faccia tosta, si scrollò di nuovo i capelli dalle spalle e fece un passo avanti «Si, si, Shaw. Adesso vengo, non arrabbiarti, che poi succedono brutte cose!»
Ridacchiò a suo agio, come se non fosse stata appena beccata a fumare di nascosto ignorando gli ordini dei suoi superiori, e, con una mezza piroetta si avviò verso il sentiero che l’avrebbe ricondotta a Metallica.
«Ci becchiamo quando torno, bello»disse rivolta a Pyke, facendo un cenno con il pugno «Ciao novellina!»aggiunse alla fine, guardando verso di lei, infine sparì dietro la curva.
Pyke sembrava più tranquillo e Shaw, così le era parso che Electra chiamasse il ragazzo, rimase con lo sguardo fisso sulla boscaglia per un altro po’, come ad assicurarsi che non stesse per tornare indietro. Quando apparve chiaro a tutti che Electra aveva davvero lasciato il loro piccolo nascondiglio, Shaw si girò verso di loro.
L’espressione vacua era sempre la stessa ma, per la prima volta da quando era arrivato, i suoi occhi si poggiarono sulla figura di Rebecca, seminascosta da quella più imponente di Pyke. Fu un attimo, il tempo di classificarla come una Alpha spaurita, e poi tornò a concentrarsi sull’Assistente dell’Infermeria.
«Dovreste andare anche voi»disse, con la voce piatta e vagamente disinteressata «Oppure dovrò fare rapporto all’Allenatore Lloyd e alla signora Yorinch»
Rebecca annuì e fece qualche passo in avanti, verso il sentiero e il muretto che lo costeggiava. Quando sentì risuonare solo l’eco dei suoi passi sulle foglie secche si bloccò e, girandosi indietro, colse Pyke e Shaw che si scambiavano qualche parola. Non riusciva a sentire cosa stessero dicendo ma, a giudicare dall’espressione poco amichevole di Pyke, non sembrava una discussione piacevole.
Come se avesse sentito il suo sguardo addosso l’amico alzò gli occhi verso di lei e le fece un cenno con la mano «Vai, Rebecca, arrivo subito»
C’era qualcosa nel suo tono di voce che la spinse ad obbedire e a lasciarsi quella strana scena alle spalle. Il sentiero che aveva percorso in precedenza era facilmente visibile anche con tutte quelle foglie cadute e le erbacce che ne coprivano i contorni ma, un po’ persa nelle riflessioni e nei pensieri ingarbugliati che le volteggiavano nella testa, inciampò nel terriccio umido.
Quando finalmente raggiunse il cortile pavimentato di Metallica e imboccò la Terza strada, il gruppo di Gamma che stavano per partire verso il Congresso era prossimo a salire sul TU.bo. di servizio. Electra stava in mezzo a loro con un borsone in spalla e controllava che tutti i membri della sua Squadra entrassero nelle cabine di vetro del mezzo di trasporto e attivassero il sistema di sicurezza.
Rebecca era sempre stata affascinata dai Tu.bo., sin dall’infanzia.
Le piaceva osservare il modo in cui, una volta che il passeggero entrava nella cabina in vetro e attivava la misura di sicurezza –una sorta di paralisi temporanea che preveniva eventuali sballottamenti o incidenti, come sbattere contro il vetro, o romperlo, o schizzare via-, queste venivano risucchiate verso l’alto, attaccate alla rete di fili di Thean rinforzato che ricopriva e univa l’intera Cupola Ovest. Sembravano quelle leggendarie creature di cui aveva tanto a lungo sentito parlare da suo nonno, reduce della Grande Bomba, gli “uccelli”.
Electra, in quel momento, stava sbraitando contro un gruppo di ragazzi dalla sua stessa divisa, e agitava freneticamente la chioma rossa.
«Cosa vuol dire che non ci sono?»urlò all’indirizzo di un tipo dai capelli chiari e la mascella fin troppo pronunciata «Avete avuto un ora per farvi i vostri porci comodi! Trova Lem e Fiona e porta i loro culi qui!»
Il ragazzo dai capelli biondi scosse la testa «Te lo scordi, io non ci vado di nuovo! L’altra volta si stavano sbaciucchiando ed erano mezzi nudi!»
«E tu muoviti prima che finiscano di spogliarsi del tutto!»
Il ragazzo dai capelli neri sfrecciò via e, mentre le passava accanto, Rebecca lo sentì borbottare affranto e scocciato -“dannata despota”, “perché devo cercarli sempre io!”, “possono sbaciucchiarsi quando arriviamo!”-.
«Rebecca!»
Sean, Cyvonne, Sandé e Teks erano proprio davanti a lei e la guardavano vagamente sorpresi.
Sandé si sporse ad abbracciarla, i capelli umidi e un forte odore di pulito addosso, evidentemente appena uscita dalla doccia. Cyvonne e Teks le fecero un cenno veloce con la mano, continuando la loro discussione e Sean le sorrise velocemente.
«Credevo saresti rimasta in Infermeria fino a pranzo!»disse Sandé, staccandosi da lei e prendendo a camminarle affianco «Anya aveva detto così!»
«Mi hanno fatta uscire prima»Rebecca glissò sul fatto che Malina non le avesse davvero concesso un permesso e si strinse nelle spalle.
«Che casino, eh?»chiese Sean, infossando le mani nelle tasche dei pantaloni «Ma poi dove è che stanno andando?»
«Al Congresso, te l’ho già detto!»Sandé fissava con gli occhi spalancati le grandi cabine in vetro che si sollevavano verso il cielo «Ho sempre voluto prenderne una!-
«Cosa?»Sean era esterrefatto «Non hai mai preso un TU.bo.?»
Ma Rebecca non li ascoltava più. La sua espressione si era accigliata e i suoi occhi avevano incontrato la figura dritta e sicura di Shaw mazza-in-culo che camminava velocemente in mezzo a tutta quella confusione. Lo vide girare nella Prima Strada e scambiare due parole con una ragazza dalla coda di cavallo che riconobbe solo in seguito come la nipote dell’Allenatore Lloyd, Jamie –quella che aveva osservato combattere e che aveva spiato in Sala Mensa-.
Era troppo presa a cercare Pyke fra la folla, e poi ritornare con lo sguardo ai due Omega, e poi di nuovo alla piazza e ancora e ancora, per ascoltare attentamente le urla di Electra, Responsabile del Secondo Livello Gamma che cercava di radunare gli ultimi membri della sua Squadra. Probabilmente fu per quello che non la sentì chiedere:
«E dove diavolo si è cacciato Ray Sutton? Qualcuno l’ha visto?»
«E’ già partito»disse una ragazza di Secondo Livello che stava entrando nella sua cabina «Ci siamo tutti, Electra, rilassati!»
«Rilassati un corno! Odio essere il Capo-Squadra!»
 

***

 
«Delle volte è come se… se ti costruissi un muro attorno, mi capisci?»
No, Melanie quelle cose strane che Ray le diceva delle volte proprio non le capiva.
Ma Ray era uno dei pochi che le parlava -che le parlava veramente- e Melanie non lo contraddiceva quasi mai. Così, quella volta, si era limitata a guardarlo con una espressione che credeva potesse essere considerata non troppo confusa e aveva aspettato che continuasse.
Che dovesse continuare era ovvio. Avevano iniziato a frequentarsi da solo qualche mese –da quando l’aveva incontrato ad una delle noiose cene di suo padre e se l’era ritrovato sotto casa il giorno successivo- eppure Melanie si sentiva in grado di leggere facilmente le sue espressioni e i suoi movimenti. Quella smorfia che aveva in viso, di concentrazione pura -come se stesse rincorrendo un pensiero estremamente importante- indicava che stava per formulare una nuova frase, non necessariamente sullo stesso argomento trattato in precedenza.
Alla fine si era riscosso e si era mosso appena, cercando una posizione comoda sulla staccionata al confine con la Cittadella, il luogo in cui si ritrovavano quasi quotidianamente.
«Anzi, credo sia proprio così: hai costruito un muro così alto che, alla fine, è diventato anche la tua prigione»
Melanie, questa volta, non aveva nemmeno fatto in tempo a fingere di aver capito, perché Ray aveva girato il capo e l’aveva squadrata con i suoi occhi scuri. Se non fosse stata troppo intenta a non arrossire avrebbe pensato che quel ragazzo era davvero strano. Con quei suoi assurdi discorsi che avrebbero fatto arrabbiare suo padre e stringere le labbra a sua madre, con la sua strana musica e quell’espressione tormentata che Sophie imitava quando erano sole e la accusava di essersi presa una cotta.
Ma cercare di non arrossire quando Ray ti guardava in faccia –che poi, era davvero difficile che lui ti guardasse davvero in faccia e non si limitasse ai suoi sguardi obliqui- era davvero complicato e Melanie nemmeno sentì quello che le disse lui dopo.
«Ma è così alto, quel muro, che dovrà cadere. Tutto quello che sta in alto, prima o poi cade.»
 
Melanie si rigirò nel suo letto, non sapendo nemmeno lei perché stesse ripensando a quel momento vissuto con Ray tanti anni prima –quanti? Cinque? Sei? Si erano incontrati quando lei aveva quattordici anni e lui diciassette, all’incirca-. Forse perché, per come le cose si stavano mettendo in casa sua, si sentiva davvero dietro un muro.
A Melanie piaceva davvero tanto parlare.
Se ne avesse avuto la possibilità e se la buona educazione non lo avesse vietato, sarebbe stata a parlare tutto il tempo. Di cose futili, di cose importanti, di pettegolezzi e di argomenti seri.
Ma, vuoi per questione di tempo, vuoi perché era solo una ragazzina ingenua e un po’ troppo sciocca, vuoi perché la sua non era certamente la migliore compagnia che si potesse desiderare; nessuno parlava mai con lei.
A Melanie sarebbe bastato che qualcuno si mettesse accanto a lei e che l’ascoltasse davvero. Che non si limitasse ad annuire o a svincolare, che non la zittisse con uno sguardo o un cenno della mano. Si sarebbe persino accontentata di intervenire qualche volta nella conversazione, purché il suo intervento fosse davvero preso in considerazione.
Forse era per quello che lei e Ray erano amici.
Una motivazione più futile e stupida non poteva esserci ma, anche se la maggior parte delle volte a portare avanti i suoi sproloqui era solo lui, se Melanie aveva qualcosa da aggiungere, da mettere in chiaro, da dubitare, persino da fraintendere o sbagliare, Ray si interrompeva e la ascoltava: la lasciava parlare.
Quella settimana, però, Ray era a Metallica –erano passate solo due settimane da quando se ne era andato?- e anche Colin –l’unico, oltre al suo amico, che era sembrato davvero interessato a quello che Melanie aveva da dire- era partito da quasi tre giorni, al Congresso dove avrebbe fatto da ambasciatore e mediatore fra i Governi delle due Cupole in questione; perciò Melanie non aveva parlato –parlato davvero- con nessuno.
La cosa assurda, poi, era che per la prima volta nemmeno lei aveva tanta voglia di parlare.
Dopo la terribile discussione con suo padre, qualche giorno prima, il signor Wood aveva provato più e più volte a riaprire l’argomento –Melanie sapeva che voleva in un certo senso aggiustare la situazione, ma il fatto che volesse farlo procurandole un nuovo marito fra i figli dei suoi amici non era stata certo un’idea brillante- e lei aveva reagito impedendogli ogni tipo di contatto. Anche sua madre aveva tentato di comunicare, ma la risposta era stata categorica allo stesso modo e Melanie si era chiusa in camera sua.
Persino sua sorella aveva cercato di parlarle ma, con lei, era stato anche peggio.
 
Quella mattina, tre giorni dopo il grande casino, Melanie era finalmente sola a casa.
Suo padre era con dei colleghi, a discutere del grande Congresso che si sarebbe tenuto a distanza di qualche ora, sua madre era andata a trovare la signora Nguyen e Sophie era in giro –ovviamente- con Katerina.
Lei si era rannicchiata sul divano, in salotto, e fissava il soffitto.
Se Ray o Colin fossero stati lì… se Sophie non le avesse nascosto un segreto tanto grave…
Se, se, se… Melanie aveva voglia di correre via, scappare da quella casa grande e triste, ma si limitò ad afferrare svogliatamente i suoi Visualizzatori e portare la barra orizzontale in Materiale Ambarico all’altezza degli occhi, facendo corrispondere la fessura sul bordo al solco del suo naso. Ticchettò sui comandi sul lato della barra e impostò il Comando Mentale Diretto.
Scartò con il pensiero le varie promozioni –Acquista il nuovo modello di O.L.O. 5347! Memoria di 1927366 GT garantita e impostazioni mentali percettive modificate!- e richiamò nella sua mente l’evento che avrebbe voluto visionare.
A Melanie non piacevano troppo i Visualizzatori perché, per quanto fosse coinvolta nello spettacolo che stava guardando, si sentiva completamente isolata. Perciò teneva sempre il volume della trasmissione molto basso, per poter comunque percepire eventuali rumori esterni. Lo show in telo-video che mandava in diretta gli eventi del Congresso non era ancora iniziato –le apparve davanti l’enorme Sala del Congresso, al Palazzo del Governo Generale di Run- e lei, dopo aver messo il segnale notifica, si concesse di mettere in pausa l’evento e di visionare meglio i suoi partecipanti.
Comandò al Visualizzatore di concentrarsi sullo strano uomo davanti alla finestra. L’aggeggio fece il suo lavoro e Melanie poté girare intorno all’eccentrico individuo, guardandolo da tutte le angolazioni e osservando il suo strano abbigliamento.
Portava una casacca colorata –arancione, verde e rossa- e degli strani pantaloni di un tessuto leggero e impalpabile. I capelli erano di un biondo così chiaro che, alla radice, sembravano quasi bianchi. Doveva essersi modificato qualche tratto del volto e variato alcuni geni della pelle, perché nonostante Melanie presumesse fosse abbastanza in là con gli anni, non ne dimostrava più di una trentina.
Quando si accorse della presenza dei soldati di Metallica, Melanie ordinò velocemente al Visualizzatore di concederle una nuova visuale e cercò con lo sguardo i tratti decisi di Ray. Lo scorse vicino alla porta e non poté trattenersi dal sorridere.
Un Bip del Visualizzatore nel suo orecchio le fece capire che, se voleva seguire la trasmissione in diretta, doveva far ripartire l’evento. Comandò mentalmente l’annullamento del fermo pausa e lo show incominciò con la presentazione dei vari Governanti in sala all’Ambasciatore della Cupola Sud, il signor Walker –lo strano tipo colorato che aveva osservato prima-.
Quando i Governanti ebbero tutti porto i loro omaggi, i due Rappresentanti di Metallica si separarono dai loro gruppi e si posizionarono davanti agli ambasciatori della Cupola Sud e sbatterono appena i tacchi dei loro anfibi. Il silenzio più che religioso che si era andato a creare nella stanza permise a Melanie di concentrarsi completamente sull’immagine, mentre si aggiustava i Visualizzatori sul naso e osservava i loro fluido inchino.
L’inchino dei Guerrieri era un qualcosa che a Melanie piaceva estremamente. Quando Ray era tornato dopo il suo primo anno lo aveva praticamente pregato di mostrarglielo ogni cinque minuti. Prevedeva che il braccio sinistro andasse a piegarsi dietro la schiena, mentre il destro, ripiegato sul petto in modo da toccare la spalla opposta, veniva tenuto dritto e fermo –quasi si stesse parando un colpo-. Infine il busto si contraeva appena, mentre la testa rimaneva ben dritta e gli occhi alzati verso coloro a cui si stava riservando il gesto.
Ray le aveva spiegato che, in un certo senso, era contradditorio. Se si inchinavano stavano mettendo a disposizione i loro servizi e riconoscendo un superiore; eppure, il fatto che la testa rimanesse sollevata e che gli occhi fossero liberi di vagare, era quasi un modo per dire: “Sei una persona importante e meriti il mio rispetto. Ma ti guardo negli occhi, perché sei un mio pari e perché non potrai mai disporre di me completamente”.
A Melanie questo ragionamento piaceva, lei che doveva sempre chinare il capo e rimanersene in piedi, e un po’ invidiava la concezione di vita che caratterizzava la Classe Sociale di Ray.
In ogni modo, non appena i due Rappresentanti si furono presentati –Unità 28764055, Sky Jones, Capo-Squadra Primo Livello Gamma e Unità 4256789, Electra Ross, Capo-Squadra Secondo Livello Gamma- e ebbero nuovamente ripetuto il loro inchino, il Congresso ebbe ufficialmente inizio.
Il signor Walker si fece avanti con i suoi assurdi vestiti colorati e i capelli platinati che ricadevano sulla schiena in una lunga treccia. Iniziò a parlare piuttosto velocemente con voce sicura e, ogni tanto, accennando con la testa al signor Torchwood. Melanie, che si era scordato di inserire l’opzione Traduttore nei suoi Visualizzatori, dovette trafficare per qualche attimo prima di poter capire le sue parole e quindi si perse la parte iniziale del discorso.
«Ed è per questo che siamo qui. Da troppo tempo le nostre Cupole sono in conflitto, da troppo tempo abbiamo costruito un muro fra due culture che non sono poi così differenti. Il momento di ricongiungerci ai nostri simili è giunto, è giunto il momento di far cadere il muro!»
Un rumore come di qualcuno che cadeva distrasse Melanie che, scostando appena i Visualizzatori, vide sua sorella imprecare contro il mobile dell’ingresso. C’era Katerina con lei e Melanie si irrigidì di botto. Cercò di non darlo a vedere e di concentrarsi sulle parole dell’ambasciatore.
Katerina e Sophie stavano sussurrando, come se non volessero disturbare la sua visione, e Melanie sperò che salissero le scale, facessero quello che dovevano e si togliessero dalla sua vista. Ma non fu così e, nel giro di qualche istante, fecero il loro ingresso nel piccolo salottino.
«Melanie»commentò Katerina, con la sua voce bassa «Come stai?»
Sophie, accanto a lei, non riusciva a rimanere ferma e si agitava sul posto, guardandosi intorno senza davvero guardare niente. Katerina le posò una mano sul braccio, come a chiederle di tranquillizzarsi, e, anche se era un gesto innocente e amichevole, Melanie si sentì contorcere le budella. Come se una mano invisibile le si fosse serrata attorno allo stomaco.
Fece un cenno con la testa e si portò una mano ai Visualizzatori, abbassandoli di nuovo sugli occhi e sperando che quelle due recepissero il messaggio.
Il signor Torchwood si era avvicinato all’ambasciatore e stavano discutendo amabilmente con la finestra del Palazzo del Governo Generale che faceva loro da sfondo e, in lontananza, lasciava intravedere un scorcio dell’immensa piazza di Run, dove si teneva in Congresso.
Katerina, però, era una che non si arrendeva facilmente e si sedette sul divano di fronte a lei, trascinandosi dietro Sophie e osservandola fissamente.
Melanie cercava di concentrarsi su quello che stava succedendo davanti ai suoi occhi, ma tutti gli altri suoi sensi erano tesi e pronti, come se stessero aspettando qualcosa di terribile. Le sue orecchie recepirono qualche vano tentativo di Sophie di chiamarla, ma alla fine fu la voce di Katerina quella che la fece vacillare.
«Melanie, dobbiamo parlare, non credi?»
«No»Melanie non riuscì a trattenersi e si diede della stupida un attimo dopo, mordendosi a sangue la lingua.
«Melanie, ti prego»la voce di sua sorella era supplichevole «Ti prego, tu devi ascoltarci. Tu… tu hai frainteso e…»
«No»questa volta fu Katerina a parlare e Melanie fece violenza su sé stessa per non girarsi a guardarla «No, non ha frainteso, lo sappiamo tutte in questa stanza»
Il presidente Torchwood stava ridendo insieme all’Ambasciatore della Cupola Sud e Melanie continuava a fissarli, cercando di non pensare a quello che stava succedendo a pochi passi da lei. Come potevano farlo? Come facevano a non rendersi conto di quanto sbagliato fosse? E di quanto pericoloso, se qualcun altro fosse venuto a saperlo?
Due ragazze insieme in quel modo era… era… Melanie non trovava nemmeno le parole.
Sbagliato. Sbagliato. Sbagliato. Sbagliato, sbagliato, sbagliato, sbagliato… punibile dalla legge.
Regolò i Visualizzatori in modo da poter avere una visione più ampia e, davanti ai suoi occhi, l’intera Camera del Congresso le apparve lucida e splendente. Fissò le delegazioni dei ragazzi di Metallica –almeno una quarantina- e i vari Governanti –fra cui scorse Colin, nell’angolo vicino alla porta- e si chiese quanto grande fosse quella stanza.
Sicuramente più grande di quel salotto in cui era rinchiusa lei. Sicuramente più ampia e che permetteva più respiro, più pulita e giusta, con discorsi appropriati e nessuna effrazione al codice morale e giuridico. Non come…
«Melanie, ti prego- sua sorella era prossima alle lacrime «Sei mia sorella e devi capire che…»
«Io e Sophie stiamo insieme, Melanie»era stata di nuovo Katerina a parlare ma Melanie non voleva ascoltarle, proprio non voleva. Se non ascoltava, poteva far finto che non avessero detto nulla, poteva far finta che ci fosse un muro altissimo intorno a lei.
Un muro fatto di bugie e rimpianti, di silenzi, di paure e di cose non dette.
Ma è così alto, quel muro, che dovrà cadere. Tutto quello che sta in alto, prima o poi cade.
Chissà cosa avrebbe pensato Ray, di quella terribile situazione. Melanie ne sentì la mancanza con una violenza tale che regolò i Visualizzatori per cercarlo. Qualche minuto prima lo aveva intravisto, dietro la ragazza con i capelli rossi sua Capo-Squadra, ma adesso proprio non riusciva a trovarlo. La sua ricerca fu interrotta dalla mano di Katerina che le afferrava il braccio.
Che fosse la mano di Katerina le apparve subito chiaro. Sophie era troppo timida, spaventata e dolce per stringerla a quel modo che quasi faceva male e per mancare così tanto di tatto.
«Quando ti deciderai a prendere una posizione, Melanie? Sei contraria? Diccelo. Non lo dirai a nessuno? Diccelo. Vuoi denunciarci? Diccelo. Ascoltaci… guardaci, Melanie»
Melanie non si tolse l’apparecchio visivo e tolse lo zoom, riconcentrandosi sulle due figure dei Governanti Torchwood e Walker che stavano stringendosi la mano.
«Ora tu spegni questi Visualizzatori e ci ascolti, Melanie»
«E’ sbagliato. Non potete farlo»buttò fuori in un fiato «Se qualcuno vi scoprisse… beh, non sarebbe piacevole. Nessuno di quelli che fanno queste cose torna mai indietro…»
Biiiiiiiiiiiiiiiiiiiip.
Un sibilo acuto le perforò l’orecchio, costringendola a buttare il Visualizzatore a terra e ad afferrarsi il capo. Il rumore era stato gracchiante e terribile, come unghie che graffiavano su una parete solida e liscia, e le aveva lasciato il corpo tremante per la sorpresa e lo spavento.
«Ma cosa?»urlò, mentre Katerina si chinava per terra e recuperava il Visualizzatore.
«E’ partito»disse, dopo esserselo avvicinato agli occhi «La connessione è saltata, non so perché»
Melanie fece cenno di restituirle l’apparecchio e, con suo sommo stupore, si accorse che aveva ragione «Che cosa sta succedendo? I Visualizzatori sono collegati direttamente alla Sala del Congresso! Che ci sia stato un guasto con i Connettitori?»
Provava una strana sensazione in petto, come se il suo cuore avesse preso a battere più velocemente, e si lasciò ricadere sul divano con un tonfo. Era in silenzio e debole, Katerina e Sophie avrebbero potuto dire quello che volevano, eppure non parlarono e si limitarono a rimanersene sedute di fronte a lei.
Si tenevano la mano, però e Melanie sentiva una strana forma di malessere pervaderla.
Non avrebbe detto nulla, ovviamente. Sophie era sua sorella e non avrebbe mai permesso che venisse spedita in una di quelle Cliniche di Correzione; eppure sentiva che le cose erano tremendamente sbagliate. Tutta quella situazione era al limite del sopportabile e lei era sul punto di scoppiare.
 
Quando sua madre tornò a casa si precipitò verso le scale, chiamandole a gran voce.
«Ragazze? Ragazze siete qui?»urlò, la voce densa di preoccupazione.
Melanie sentì i suoi passi veloci che si affrettavano lungo il corridoio e, in qualche attimo, fu in salotto anche lei, un’espressione sollevata nel vederle tutte lì.
«Oh, grazie al cielo. Grazie, grazie, grazie»si avvicinò a Sophie, che nel frattempo aveva lasciato la mano di Katerina e si era alzata, e la abbracciò forte.
«State bene, state tutte bene»sussurrò nei capelli della figlia.
«Cosa è successo?»chiese Katerina, drizzandosi in pieno.
«C’è stata una esplosione. Nella Sala del Congresso e per le strade. Hanno buttato delle bombe praticamente in contemporanea anche qui a Peete e per tutta la SottoCupola Tunner»la signora Wood era sul punto di scoppiare a piangere e si lasciò scivolare sul divano, sventolandosi il viso paonazzo con le mani sottili «C’è stata una esplosione vicino a casa dei Yarez, ad un isolato da qui, ed ero così preoccupata! Ero dalla signora Nguyen e sono subita corsa a cercarvi e poi…»
«Mamma, mamma, calmati!- Sophie le mise le mani sulle spalle, come a farle un massaggio e Katerina le si accomodò accanto, stringendole il braccio. Voleva molto bene alla signora Wood e la signora teneva a lei quasi allo stesso modo, così che si aggrappò al braccio di entrambe le ragazze, quasi a trarne forza «Dicci con calma cosa è successo!»
«Hanno gettato una bomba! In pieno congresso, con tutti quei Governanti, e gli ambasciatori e i Guerrieri a difenderli! C’è stata una esplosione che si è sentita anche a centinaia di metri di distanza! La signora Nguyen ha chiamato suo marito, che era lì per lavoro, e lui ha detto che era lontano –grazie al cielo, stava scortando una delle delegazioni al Palazzo! Era con Colin, Melanie! Sta bene anche lui!- che era scoppiato un incendio… i primi Medyci che sono riusciti ad entrare hanno dovuto indossare delle maschere protettive –a quanto pare la bomba conteneva un gas velenoso che ha stroncato tutti-. E poi…»
Melanie emise un rantolo a metà fra un urlo e un gemito e sua madre smise di colpo di parlare.
Katerina e la signora rimasero interdette, sospese in un attimo infinito, perplesse e stupefatte. E per quanto Sophie non fosse certamente la ragazza più sveglia esistente e al momento fosse abbastanza contrariata con la sorella, le bastò incrociare il suo sguardo per capire cosa l’aveva improvvisamente colta.
«Melanie…»sfiatò, facendo un passo in avanti con il braccio teso, quasi a volerla sfiorare.
Ma Melanie corse via, sbattendosi la porta del salotto e poi quella di casa alle spalle. Corse per il sentiero di ghiaia che attraversava il loro giardino, corse per il piccolo vicolo che la separava dalla strada principale, corse per la città e passò accanto ai resti fumanti che le bombe avevano lasciato sparsi in giro. Il cielo era nuvoloso e alcune gocce di pioggia avevano già preso a cadere, rimbalzandole addosso e appiccicandole la stoffa del vestito addosso come una seconda pelle. Ma neanche il vento freddo che imperversava e l’acqua che la bagnava le impedirono di arrestarsi fino a che un fu giunta al recinto vicino alla Cittadella.
«Delle volte è come se… se ti costruissi un muro attorno, mi capisci?»
Melanie non l’aveva capito, Ray, fino a quel momento.
Perché il muro stava cadendo, sotto il peso delle bugie, delle falsità e del dolore.
Cadeva in un silenzio tale che Melanie ne fu assordata, e lei precipitava giù con esso in una voragine buia e profonda che lei stessa si era costruita. Cadeva lentamente e Melanie non riusciva a focalizzarsi su niente, se non su quel peso che le era sceso sul cuore impedendole di respirare. Ma c’erano sprazzi di conversazioni, immagini confuse che le roteavano e il cuore che singhiozzava e c’era Ray, c’era Ray ovunque.
Ray che le sorrideva, che la invitava a ballare a quella festa del loro primo incontro, Ray che la fissava dritta negli occhi e la faceva arrossire, Ray che parlava, Ray che voleva essere un artista, Ray che si chinava verso di lei e le sue labbra sulla fronte, Ray che ascoltava musica strana e fumava sotto la pioggia, Ray che era sempre stato lì a parlare con lei, Ray che era stato l’unico ad ascoltarla per davvero…
Ray che era in quella stanza, al Congresso, e che adesso non l’avrebbe più guardata con quegli occhi neri –non avrebbe più guardato nessuno- e che non l’avrebbe più abbracciato, che non le avrebbe più detto che doveva prendere posizione.
Il muro sta crollando, Ray, come avevi detto tu. E cado anche io, se non ci sei tu a sostenermi. Eppure, mentre cado giù dal muro che mi sono costruita da sola,  e vedo che tutto cade insieme a me, sento quasi il sollievo profondo della liberazione.
 
 

*1 - Senti, sei davvero molto carina, ma se non la smetti di parlare credo proprio che ti ucciderò. -Ovviamente è un omaggio al "Caroline, you're beautiful but if you don't stop talking I'll kill you" di Klaus (TVD - 4x06)

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Capitolo 7
*** 6- Le cose che ho perso nelle fiamme ***



N/A.
Le patetiche scuse dell'autrice in ritardo sono sicura che nemmeno le vorrete sentire. Mi dispiace, tengo davvero moltissimo a questa storia e non ho la minima intenzione di abbandonarla, ma putrroppo i tempi sono sempre piuttosto... sfasati e instabili. Non posso garantire una regolarità, non sempre almeno, ma posso garantire il mio impegno e la mia buona volontà nel continuare, nel cercare di migliorarmi e nel continuare a insistere.
Grazie mille alle 6 meravigliose ragazze che hanno recensito lo scorso capitolo! Mi sto afrettando a rispondere a tutte voi, per il momento beccatevi il piccolo riassuntino delle puntate precedenti: sono sicura che, dopo tutto questo tempo, non vi ricordate più niente:

Rebecca, dopo essere arrivata a Metallica da circa una settimana e aver iniziato a conoscere qualcuno (la sua amica -Anya-, i ragazzi che hanno diviso il treno all'andata con lei - Nicko e Sean-, le sue compagne di dormitorio -Sandè e Cyvonne-, e l'assistente dell'Infermeria -Pyke-), affronta una serie di prove fisiche e psicologiche. L'ultima e più complicata prevede salvare la sua amica Anya da un terribile pericolo, missione che Rebecca non riesce a portare a termine. Mentre se ne va a spasso con Pyke conosce Electra, una grande amica del ragazzo, Capo Squadra scotenta della sua posizione, in partenza per il grande Congresso nel quale verrano stipulati gli accordi di pace fra la Cupola Ovest -quella dove vive Rebecca- e la Cupola Sud. Fa la sua apparizione anche il misterioso "Shaw", che nè Pyke ne Electra sembrano trovare molto simpatico. Intanto Melanie, dopo la scoperta della relazione fra sua sorella e la sua amica Katerina, assiste in diretta al Congresso dove, non solo sono presenti Ray e Electra (e una ventina di altri studenti di Metallica) ma anche il Governante Colin (che suo padre voleva spossasse per fronteggiare le spese famigliari e la tassa sul nubilato). Le cose si complicano quando una Bomba dai fumi tossici viene lanciata nella sala del Congresso e la maggior parte della gente presente nella stanza muore o viene infettata.
 
Capitolo VI
Le cose che abbiamo perso nelle fiamme
 
 
I was the match and you were the rock
Maybe we started this fire
We sat apart and watched
All we had burned on the pyre
Bastille - Things we lost in the fire

(http://www.youtube.com/watch?v=MGR4U7W1dZU)
 
 
 
«Perché vuoi intraprendere questa specializzazione, Pyke?» aveva chiesto Malina quando lui le aveva proposto di prenderlo come suo assistente «La strada per diventare medyco è dura e non tutti riescono a percorrerla»
«Perché voglio farlo, l’ho sempre voluto. L’ho detto a mio padre, quando dovevo scegliere a quale Classe Sociale appartenere, ma lui non ha voluto…»
Malina aveva fatto un gesto secco con la mano, interrompendolo. A Pyke, quel suo atteggiamento inconsuetamente serio, metteva un po’ di soggezione e il fatto che non avesse sorriso nemmeno una volta da che era iniziato il loro colloquio non lo tranquillizzava affatto.
«Chiariamo subito una cosa, Pyke Jordan. Se hai intenzione di prendere questa specializzazione come una sorta di ripicca contro tuo padre, ti mostro già la porta»
«Non è per quello, assolutamente!» Pyke si era affrettato a giustificarsi e, sotto il suo sguardo severo, era arrossito leggermente «D’accordo, ammetto che l’idea di farlo innervosire non mi dispiace, ecco… ma voglio davvero fare il medyco. Dico sul serio, signora Yorinch!»
Malina aveva sospirato pesantemente e aveva afferrato l’O.L.O. con la sua scheda e la sua documentazione. L’aveva letta in silenzio e Pyke aveva trovato difficile respirare. Alla fine aveva sospirato di nuovo e, dopo aver lasciato la relazione sulla scrivania disordinata, si era portata le dita sottili alle tempie, massaggiandole appena.
«Va bene, allora. Rispondi ad un’ultima domanda, però, Pyke» aveva gli occhi chiusi mentre le dita continuavano a muoversi ai lati della sua fronte, in ampi e regolari cerchi «Cosa credi che faccia un medyco? Quale è il suo dovere?»
Pyke non si era soffermato un attimo a pensarci, prima di rispondere: dopotutto era il motivo per cui era lì, in quella stanzetta dalle pareti grigie e le finestre che davano sul nulla.
«I medyci salvano le persone, signora Yorinch. Fanno cessare i dolori, ridanno la vita»
Malina aveva spalancato gli occhi di colpo, lasciando ricadere le mani sul tavolo così velocemente che a Pyke erano sembrate macchie di colore confuse e indistinte «No, Pyke. Il compito e il dovere di un medyco è fare tutto quello che può. Noi non diamo la vita: non siamo Dio. Ci saranno volte in cui ti sentirai cedere davanti agli orrori della vita; volte in cui, nonostante tutti i tuoi sforzi, non riuscirai a salvare il tuo paziente e ci saranno volte in cui dovrai metterti da parte e lasciare correre. Credi di essere abbastanza forte da sopportarlo?»
Pyke aveva detto di sì e non ci aveva pensato più.
Poi c’era stata Henrietta Olland, che, durante una escursione nell’Area Natura, era caduta dalla Postazione sull’Albero e, priva di misure di sicurezza come era, aveva battuto la testa e il corpo al suolo. Il colpo le aveva spezzato alcune vertebre e incrinato la gabbia toracica. Una delle costole le aveva bucato un polmone. Era stata una morta lunga e dolorosa e Pyke aveva pianto come un bambino quando tutto era finito. Sentiva ancora la pressione delle dita della ragazza strette contro il suo braccio, sempre meno forti con il passare dei minuti, e il silenzio intorno gli era pesato addosso come un macigno.
Quella notte Malina era andata accanto a lui e l’aveva abbracciato. Non sembrava, visto la sua gentilezza e disponibilità, ma Malina era una persona molto riservata e allergica al contatto fisico, perciò Pyke ci aveva messo un po’ prima di abbandonarsi contro la sua spalla e singhiozzare contro la manica del suo vestito.
«Mi dispiace che sia andata così, Pyke. Abbiamo fatto del nostro meglio, tutto il possibile; ma ci sono alcuni dolori che anche i medyci non possono far cessare»
Tre anni dopo, quando Wanda O’Shea, una delle poche sopravvissute alla Strage del Congresso, si fu finalmente addormentata, Pyke si concesse di respirare di nuovo.
Fece un veloce cenno con il capo a Tommy, il ragazzo dei Beta che da quell’anno aveva intrapreso anche lui la specializzazione in Medycina e lo aiutava in Infermeria, e si ritrovò all’aria aperta senza nemmeno sapere come ci era arrivato.
C’erano delle persone per la Terza Strada, tutte si muovevano verso la Quarta, e a Pyke sembravano gusci vuoti e senza identità, confusi ammassi di molecole e atomi, esistenze senza importanza che facevano da contorno alla sua presa di coscienza.
Aveva lavorato come un pazzo per quasi trentasei ore di seguito e, ora che finalmente si era concesso un attimo di tregua, il suo corpo andava a riscuotere il prezzo.
I funerali di Electra, Sky, Lemmy, Fiona, Rick e tutti quegli che avevano fatto parte della sua adolescenza si tenevano nel grande cortile pavimentato all’entrata di Metallica. I cancelli in ferro erano aperti e a Pyke sembrarono immensamente alti.
Qualcuno aveva lasciato un mazzo di gigli bianchi accanto ad una delle colonne: senza nastro, solo i fiori e uno spago per legarli insieme. Pyke si era dovuto fermare e inghiottire a vuoto, a quella vista, e non era bastato: cinque minuti dopo era semi-nascosto dietro la piccola rimessa delle armi, curvo, a svuotarsi lo stomaco sui muri grigiastri, mentre qualcuno gli teneva una mano sulla fronte. In un primo momento nemmeno se ne era accorto, aveva pensato confusamente che si sarebbe sporcato i pantaloni e nessuno si sarebbe avvicinato a lui per il cattivo odore, e poi delle mani fredde si erano poggiate sulle sue spalle, reclinandogli appena il capo e lui si era sentito… vuoto.
Cosa importava dei suoi pantaloni, della gente e del cattivo odore? Qualcuno aveva lasciato dei fiori bianchi, non quelli sintetici e senza odore, ma veri fiori con profumo nauseante annesso. E i fiori veri si lasciavano solo quando moriva qualcuno. Era morto qualcuno –tante, tante persone- e il mostro rigonfio nel suo intestino continuava a contorcersi.
«Non ho la Divisa» gettò fuori, quando i conati gli diedero un attimo di tregua, e la sua voce gli apparve tremante, spezzata e impastata da tutto quello che aveva perso.
Gli occhi di Malina erano gonfi, rossi e pieni di tristezza e compassione «Non importa»
Pyke si sforzò di alzare lo sguardo verso di lei ma l’unica cosa di cui fu capace fu mettersi dritto contro il muro della rimessa e cercare di ignorare la fitta alla testa.
«Riesci a muoverti? Te la senti di andare a sentire le esequie?»
Pyke non scosse nemmeno la testa, tutto girava attorno a lui e l’unica cosa su cui riusciva a soffermarsi erano i volti dei suoi amici, su quello che si erano detti un tempo e su quello che non avrebbero mai più potuto dirsi.
Ci sono alcuni dolori che anche i medyci non possono far cessare.
Si sentiva come se i suoi piedi si fossero ancorati al terreno, come se si fossero tramutati in massicci, come se nulla al mondo avrebbe potuto schiodarlo da lì.
«Allora rimango qui con te»
Malina si appoggiò al muro e a Pyke, in quell’attimo, sembrò ancora più vecchia di quanto non fosse. Dalla rimessa dove erano appoggiati non si intravedeva niente. Stavano dando le spalle alle bare, alla funzione e a tutte le persone radunate per l’ultimo addio. Pyke cercò di immaginarsi la scena: una schiera di ragazzi in Divisa Ufficiale, gli Allenatori con i Paramenti Celebrativi, Governanti pieni di spocchia e indifferenza e poi i genitori delle vittime. Persone che aveva conosciuto, di cui conosceva la storia, che apprezzava e che, forse, l’avrebbero invano cercato fra la folla.
C’era un sacco di gente. La maggior parte della quale probabilmente non sapeva che Electra e gli alti avevano costantemente parlato male di loro alle spalle.
Pyke si immaginò Electra che ridacchiava di loro anche adesso, dovunque fosse.
Te la spassi, vero? Forse è meglio che tu non ci sia: non avresti sopportato tutto questo silenzio.
«Ieri sera la tua amica Rebecca è passata in Infermeria. Credo volesse parlare con te, ma poi è andata via subito» disse Malina, piano «Magari potresti cercarla, dopo»
Pyke non stava ascoltando.
Se provo a chiudere gli occhi e faccio finta di stare bene… Non è abbastanza. Perché il mio eco è l’unica voce che ritorna e la mia ombra è l’unica amica che ho.
 
I funerali per le vittime del Congresso si svolsero due giorni dopo l’esplosione per permettere anche a coloro che erano stati feriti di presenziare, anche solo per la durata della messa.
Le esequie per le vittime dei Guerrieri erano diverse dai tradizionali funerali dei Produttori a cui Rebecca si era abituata con il tempo e che non erano altro che residui di antichi culti del Mondo Di Prima. Non c’erano canti o preghiere, solo un silenzio teso e continuo. La vita dei Guerrieri era sempre così, in punta di piedi: così come combattevano silenziosamente, ardendo al massimo del loro splendore, altrettanto silenziosamente se ne andavano.
Rebecca sentiva gli occhi pruderle e le mani tremarle, mentre si avvicinava alle casse dei caduti. Erano nel cortile pavimentato che dava sull’ingresso di Metallica e i membri del personale e gli allenatori erano disposti in una sorta di semicerchio intorno alle bare in legno.
Erano in legno sintetico, quello estremamente liscio e privo di schegge o imperfezioni, ed avevano la solita forma triangolare. Rebecca non riusciva a distogliere lo sguardo da quelli che erano stati tredici dei suoi commilitoni.
Erano sconosciuti, persone che non aveva mai visto e con cui non aveva mai parlato, eppure la consapevolezza che non li avrebbe mai visti e non ci avrebbe mai parlato le stringeva il cuore. Si sentiva le mani sudate e avrebbe voluto asciugarsi i palmi sui pantaloni stretti della Divisa Ufficiale eppure, allo stesso tempo, si sentiva quasi immobilizzata al suo posto.
Per i funerali erano intervenuti anche alcune fra le personalità più importanti della Classe dei Guerrieri: i rappresentanti della Classe con il Governo, ex-allievi particolarmente meritevoli, le famiglie delle vittime e, poi, loro studenti, fermi nelle loro posizioni di guardia.
Il signor Silas Heap, il padre di Nicko e responsabile della mediazione con il governo di Metallica, stava facendo un breve discorso e, per quanto avesse una voce piacevole all’udito –morbida, bassa e calda, come quella del figlio- Rebecca non lo stava ascoltando.
Aveva cercato disperatamente fra la folla il profilo di Pyke senza incontrarlo da nessuna parte. Electra era morta sul colpo, all’esplosione, e Rebecca aveva pianto così tanto, per quella ragazza con cui aveva scambiato solo due parole in croce, che le sembrava di non avere più liquidi in corpo. La sera prima era sgattaiolata fuori dal suo Dormitorio e si era diretta in Infermeria. Non sapeva se fosse opportuno o meno parlare con Pyke di quello che era successo, non sapeva nemmeno se lui fosse disposto a vederla, ma quando era arrivata davanti alla porta dell’ufficio di Malina le era mancato il coraggio.
Lo aveva scorto di sfuggita, che camminava velocemente fra i letti tutti occupati dell’Infermeria, pronto a dare soccorso ai diciassette sopravvissuti e, anche se non l’aveva scorto in viso, aveva osservato le sue mani tremare mentre porgeva una tazza fumante ad una paziente. Alla fine si era appoggiata al muro e si era nascosta il viso nelle mani.
Aveva pianto di nuovo e silenziosamente e davvero non sapeva perché stesse piangendo. Sentiva solo che nulla, da quel momento, sarebbe più stato come prima e che quell’avvenimento che in vero non la riguardava in prima persona l’aveva cambiata dentro.
Quando aveva deciso di entrare a Metallica l’aveva fatto principalmente perché anche suo nonno ci era stato e perché… beh, perché la vita da Produttore era così noiosa e ripetitiva e lei cercava e aspirava a qualcosa di meglio che lavorare in uno Stabilimento di Depurazione o cose del genere per tutta la vita. Ma poi era salita su quel trano ed era stata sbalzata in un vortice confuso che le aveva dolorosamente aperto gli occhi.
Si moriva. A fare il Guerriero si moriva.
Nei funerali dei Produttori molto spesso i familiari o gli amici del defunto si avvicinavano alla loro tomba e pronunciavano qualche parola sul loro conto. Non dei discorsi, semplici parole, aggettivi che lo distinguevano e lo caratterizzavano.
Suo nonna era stata “gentile”, “pura”, “amica”, “coraggiosa”, “capace” e “forte”. Poi venivano calate le bare nel terriccio umido e pieno di erbacce dei Luoghi di Sepoltura Comuni e si gettavano manciate di terra sul coperchio, fino a ricoprirlo tutto e a riempire la buca.
Rebecca ricordava vividamente la consistenza della stoffa del vestito di sua madre contro il suo viso e il sapore delle lacrime. Singhiozzava forte eppure continuava a sentire le palate di terra sulla bara, a spezzare tutti i legami che sua nonna aveva avuto.
«Si ritorna alla terra» aveva detto suo padre, recitando la formula di Addio dei Produttori.
E Rebecca si era coperta le orecchie con le mani per non sentire l’eco dell’addio.
Il funerale di Electra e dei suoi commilitoni non prevedevano parole gentili o palate di terra, ma quando le bare vennero issate le une sopra le altre per essere bruciate –lascia andare, o Guerriero- Rebecca sentì ugualmente i legami di quei tredici ragazzi –ragazzi come lei, uguali a lei, simili a lei- spezzarsi bruscamente.
Sia Cain Lloyd che un altro allenatore avevano tenuto un breve discorso, esaltando ed elogiando il coraggio di quelle povere vittime, ma nessuno stava davvero ascoltando. Rebecca seguì il fumo del piccolo falò funebre che si disfaceva nell’aria e si chiese quanto tempo ci volesse perché l’anima dei Guerrieri raggiungesse il cielo.
Quando la funzione finì, nemmeno se ne rese conto. Ritornò alla vita –che brutto paragone, pensò tristemente- solo quando Sean le mise una mano sulla spalla e le fece cenno con il capo verso la Piazza. La cerimonia si era tenuta al limitare della Quarta, la stessa via dove c’erano i loro alloggi, quindi non dovettero camminare molto per raggiungere i loro Dormitori.
Avevano già cenato, quindi tutti si diressero verso le loro stanze. Rebecca si guardò nuovamente intorno, alla ricerca di Pyke, ma l’unica cosa che le riuscì fu quella di incontrare lo sguardo di Anya. Abbassò velocemente la testa, memore della discussione che avevano avuto qualche giorno prima –quando ancora l’esplosione non era avvenuta- e che le aveva portate a sperimentare un silenzio offeso.
Rebecca sapeva che aveva sbagliato, tutta la faccenda della simulazione e del lasciare cadere Anya era stata una cosa terribile e le urla dell’amica delle volte popolavano ancora i suoi sogni, ma sapeva anche che la reazione di Anya era stata davvero esagerata. Così come il metterle il muso per l’intero pomeriggio e per il giorno successivo.
Sospirando pesantemente si diresse verso la palazzina B, senza nemmeno salutare Anya e Nicko, diretti in quella A e, dopo essersi chiusa la porta della sua camera alle spalle, si sentì incredibilmente… vuota. Si preparò per dormire, ma ogni volta che faceva per guardarsi allo specchio del bagno, il suo viso le sembrava così dannatamente pallido e non poteva fare a meno di pensare ai tredici ragazzi nelle bare, al fuoco che li aveva bruciati e alle palate di terra sulla bara di sua nonna. Persino lo spray igienizzante nella sua bocca aveva un sapore diverso, acre e metallico, e nemmeno bere un bel bicchierone caldo di latte –selezionato sul piccolo Kool comune dell’appartamento- riuscì a toglierle quella brutta sensazione.
Si sentiva pesante e leggera allo stesso tempo e continuava a immaginare le espressioni dei corpi nelle bare. Era macabro, morboso e assolutamente disgustoso, ma Rebecca non poteva fare a meno di chiedersi cosa si provasse a morire.
Faceva male?
I Produttori avevano una credenza molto antica, quasi quanto quella dei funerali, che dopo la morte li aspettasse un posto migliore e un creatore divino e benevolo. I Governanti dicevano che dopo la morte il corpo si decomponeva ma l’anima rimaneva immutabile e presente, non subendo danneggiamenti dalle ferite o dal decesso fisico. La loro formula di addio era più ricercata di quella delle altre due classi: “Eppure qualcosa rimane”. I Guerrieri, che erano quelli che la morte l’affrontavano ogni giorno, credevano in una Morte loro pari, che li accompagnava all’inferno con un sorriso dolce e le sembianze di una fanciulla bellissima.
Rebecca credeva solo che tutto, alla fine dei conti, si riducesse in polvere e in ombra.
Siamo polvere e ombra. Siamo solo questo.
Lo diceva sempre suo nonno e Rebecca, come ogni cosa che le aveva detto suo nonno, l’aveva preso come oro colato. Siamo polvere ed ombra, si ritorna alla terra, lascia andare o Guerriero, eppure qualcosa rimane… Rebecca sapeva solo che non avrebbe più rivisto o parlato con nessuno che se ne era andato.
Chiuse di scatto la porta della sua camera e sbirciò la sua Meridiana. Erano le undici e ed era appena scattato il coprifuoco, eppure il pensiero di mettersi sotto le coperte non la sfiorò neppure: sentiva solo l’urgenza di uscire da lì. Camminò lungo il corridoio del Dormitorio 9 e sbirciò le porte delle sue compagne, tutte serrate tranne quella di Cyvonne che soffriva di claustrofobia e proprio non sopportava di rimanersene serrata da qualche parte.
Quando ci passò davanti la sentì agitarsi e sporse appena la testa oltre la soglia. Era a metà strada fra il sonno e la veglia e, come se avesse percepito la sua presenza, alzò la testa scura.
«Rebecca?» chiese, la voce impastata dal sonno e gli occhi che tremavano «Stai bene?»
«Si, si. Torna a dormire, su» sussurrò, cercando di imprimere dolcezza al suo tono «Domani dobbiamo alzarci presto»
Cyvonne mugugnò qualcosa e si lasciò ricadere sulle coperte aggrovigliate.
Rebecca le mormorò la buonanotte e rimase ferma davanti alla porta del Dormitorio, indecisa. Era lavata e pronta per andare a letto, doveva solo infilarsi la camicia da notte e sfilarsi gli anfibi, eppure non aveva minimamente sonno.
Così, semplicemente, aprì la porta.


Rebecca non seppe di star camminando verso l’Area Natura fino a quando non ci sbattè praticamente contro. C’era un silenzio teso e i profili degli alberi, al buio erano estremamente spaventosi. Le spalle di Pyke erano una linea dritta e Rebecca le contemplò un bel po’ prima di decidersi ad uscire allo scoperto. Per quanto fosse sicura che lui l’avesse sentita e che i suoi anfibi avessero calpestato fin troppo rumorosamente le foglie secche e i rametti sul terriccio, Pyke non si girò. In effetti sembrava quasi una statua, fermo immobile al suo posto, con solo l’abbassarsi ritmico del suo petto ad indicare che era ancora vivo.
Rebecca gli si avvicinò silenziosamente, impacciata sul da farsi. Durante il tragitto che aveva percorso per arrivare fino al piccolo nascondiglio vicino all’Area Natura si era preparata un bel discorso. Un discorso serio, adulto e maturo, in cui esprimeva le sue condoglianze a Pyke per la perdita di Electra -e di… beh, di tutti i suoi amici-; discorso che, nel migliore dei casi, terminava con un abbraccio travolgente e con Pyke che si abbandonava contro la sua spalla confidandosi e aprendosi con lei.
Ovviamente sapeva che non sarebbe andata così. Conosceva Pyke da così poco tempo –erano davvero passate solo due settimane?- e di lui non sapeva praticamente nulla; eppure, dopo averlo a lungo cercato quel pomeriggio alla funzione, si era resa conto di quanto necessitasse trascorrere del tempo con lui. Non era una cosa molto intelligente da fare, soprattutto perché… beh, perché la loro era una conoscenza così superficiale, non potevano nemmeno considerarsi amici! Ma, ora tutti gli amici che Pyke avesse mai avuto erano morti, e Rebecca era rimasta la sola a preoccuparsi di lui.
Si era così abituata alla sua immobilità che sobbalzò quando la mano del ragazzo salì in alto con un gesto brusco, avvicinando la sigaretta alle labbra. Pyke tirò con violenza e gettò fuori il fumo dopo così tanto tempo che Rebecca aveva quasi iniziato a pensare lo avesse ingoiato.
Il braccio e la punta rossa accesa della sigaretta si riabbassarono e l’immobilità delle sue spalle dritte ritornò, così che Rebecca aspettò un altro po’, prima di fare qualche altro passo in avanti. Lui le dava le spalle e il vento le gettava il fumo della sigaretta sulla faccia, facendole arricciare il naso e scompigliandole anche un po’ i capelli.
L’odore non era male, era diverso da quello delle sigarette elettroniche, e sapeva di vero tabacco, di cenere, di polvere e di casa. Rebecca si chiese se, andandogli ancora più vicino, avrebbe sentito quell’odore anche addosso alla pelle di lui.
«Cosa vuoi, Rebecca?»
Si immobilizzò di colpo, a pochi centimetri di distanza dalla sua schiena.
«Come hai fatto a capire che ero io?»
«Non è rimasto nessun altro che potesse venire a cercarmi»
Rebecca sentì una fitta al fianco, come quando correva troppo e le mancava il fiato, e deglutì.
«Volevo vederti, sapere come stavi» disse, raccogliendo quel poco coraggio che le era rimasto per allungare un braccio verso di lui. Ma non ne ebbe nemmeno il tempo: Pyke si girò, e il braccio ricadde lungo il suo fianco.
Aveva pianto. Questa scoperta diede una strana sensazione a Rebecca. Non aveva mai visto un ragazzo piangere -eccetto suo fratello Michael quando lei era partita, ma lui aveva nove anni ed era in un certo senso giustificato- e vedere gli occhi rossi di Pyke che la fissavano le ricordò delle persone che erano morte. Aveva la bocca serrata e le narici dilatate, quasi si stesse trattenendo dall’urlarle contro –o dal piangere di nuovo- e la mano che non teneva la sigaretta era serrata in un pugno.
«Bene, ora che mi hai visto puoi andartene»
«Pyke…»
Rebecca non sapeva nemmeno lei cosa le stesse passando per la testa in quel momento. Avrebbe voluto dirgli che non importava quanto fosse arrabbiato, triste e deluso, che lei sarebbe rimasta lì, che sarebbe stata sua amica, che avrebbe voluto abbracciarlo; ma poi pensava che lui si sarebbe ritratto, che le avrebbe detto che era solo una ragazzina che conosceva da pochi giorni, che era stupida e ingenua perché credeva di comprendere lui e il suo dolore e che in realtà non sapeva assolutamente nulla. Nella sua mente, in quei pochi istanti, valutò milioni e milioni di conversazioni e interventi; eppure l’unica cosa che le uscì di bocca fu un patetico «Sono passata in Infermeria, ieri sera»
«Me l’ha detto Malina»
«Ti ho cercato anche questo pomeriggio»
«Malina mi ha detto anche questo»
Rebecca avrebbe voluto urlare, prenderlo per le spalle e scuoterlo, ma lei non aveva perso tutte le persone che conosceva tutto d’un colpo e non poteva permettersi di giudicarlo. Perciò incassò il colpo e abbassò lo sguardo sui suoi anfibi. Uno dei due era slacciato e le stringhe penzolavano sui mucchietti di terra smossi.
«Pyke…»
«Sai cosa mi ha raccontato Dolly Anoth?» Rebecca rimase zitta. Dolly Anoth era una dei diciassette sopravvissuti alla Strage del Congresso e Pyke sembrava furioso «Che le Bombe si sono attivate dopo sette secondi esatti. Quindi, se tutti avessero avuto la possibilità di uscire in fretta dalla stanza, si sarebbero salvati.»
Pyke gettò la sigaretta fra le foglie secche e Rebecca si concentrò sulla sua punta rossa e ardente che ancora brillava nel buio, come un piccolo sole pronto ad esplodere.
«E sai cosa altro mi ha detto Dolly Anoth? Che Electra era la più vicina alla porta. Le sarebbe bastato spalancarla e correre via. Fare giusto qualche passo e sarebbe stata ancora viva. Ma era il Capo Squadra e i Capi Squadra hanno il dovere di morire e combattere per il loro gruppo. Lei e Sky Jones, in quanto Capi Squadra, sono riusciti a far uscire tutti i ragazzi Gamma di Primo Livello e due di Secondo Livello, poi sono morti»
Rebecca non sapeva nemmeno più perché si trovasse lì, mentre nella sua mente passavano immagini e flash di capelli rossi e urla in una stanza ampia e elegante.
Electra odiava essere il Capo Squadra. Diceva che non era abbastanza brava per esserlo, che aveva troppe responsabilità e che non lo meritava. E ora è morta.
«Daranno loro una medaglia. Sai, encomio nazionale e un bel pezzo di vera e rara carta alla famiglia, in cambio della vita della figlia. E io ancora non ho capito perché è morta. Perché in questa merda di posto le cose vanno così. Per cosa è morta Electra? Per cosa?»
Non la stava più guardando e Rebecca ebbe voglia di correre via.
Non seppe quanto tempo era passato da che era arrivata lì, sentiva solo un grande freddo che le penetrava nelle ossa, e sapeva che non era solo per colpa del vento. Quando Pyke passò il piede sopra la cicca della sigaretta, schiacciandola con la punta dello scarpone e affondando di qualche centimetro nel fango, Rebecca sussultò. Lui, come se si fosse ricordato della sua presenza solo in quell’istante, le riservò uno sguardo vacuo.
«Vai via, Rebecca. Non c’è bisogno che stai qui»
«Voglio rimanere qui» disse lei, cocciutamente.
«E io voglio che tu te ne vada!» urlò Pyke, così improvvisamente che Rebecca quasi inciampò sulla sua stringa slacciata «Vai via, ho detto!»
Rebecca non disse più niente, si girò e prese a correre.
 
Le lacrime premevano per uscire e, nel silenzio cupo della notte, i profili degli alberi erano così imponenti, una silenziosa minaccia, che le faceva battere forte il cuore.
Sapeva che era stupido spaventarsi per qualcosa del genere, il piccolo spiazzo non era lontanissimo da Metallica e tenendosi accostata al muro divisorio non si sarebbe certamente persa, ma non riusciva davvero a tranquillizzarsi. Non c’era nessuno dietro di lei, ma il vento freddo della sera le sfiorava il collo scoperto e alcuni capelli, sottili e scuri nell’oscurità, si sollevavano appena, e il tutto le dava un senso di oppressione e panico.
Accelerò il passo, spaventata nonostante tutto da quel silenzio pregno di cose non dette che sembra seguirla, e finì per correre a perdifiato.
Non inciampò e non si voltò indietro, anche se il vento, nella velocità sembrava sussurrarle nell’orecchio e gli alberi allungarsi verso l’alto, a coprire il cielo. Le luci di Metallica erano ormai abbastanza visibili da tranquillizzarla, ma il suo corpo era ancora teso. Fissò il suo sguardo sulla Generatore di Luce che capeggiava allo sbocco della Terza Strada.
Sono arrivata. Sono arrivata, posso stare tranquilla.
Alzò nuovamente il passo, impaziente di raggiungere la luce e la salvezza che sembrava promettere, quando una mano apparve dal nulla, afferrandola per il braccio e lei urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
«Shhh. Shhh, zitta, zitta»
La mano le lasciò il braccio all’istante, come scottata e Rebecca ansimò.
Portarsi la mano al cuore era una cosa stupida e inutile, forse -non poteva certamente controllarne il battito- ma Rebecca lo fece allo stesso, anche solo per accertarsi che fosse ancora nel suo petto e non le fosse balzato via.
«Cosa stai facendo qui?»
Rebecca non riconobbe la voce che le stava parlando. Cercò di scorgere il suo proprietario nell’oscurità, sembrava un timbro maschile ma non ne era sicura, e l’unica cosa che riuscì a distinguere fu la Divisa da Guerriero che l’individuo indossava.
Questo, in sé per sé, non le rendeva le cose facili. Poteva essere uno studente uscito di nascosto anche lui, e quindi poteva ritenersi al sicuro, ma poteva anche essere uno dei ragazzi di ronda - il che avrebbe significato grossi guai. Quando, poi, lo stemma bianco degli Omega che gli spiccava sul petto avvalorò la seconda ipotesi, Rebecca si sentì sprofondare.
E poi, semplicemente, scoppiò.
Si portò le mani in viso, coprendosi gli occhi stanchi e gonfi, e singhiozzò con forza. Sentì il naso colarle e le lacrime bagnarle le guance, e la stanchezza le gravò addosso, rendendole quasi impossibile stare lì in piedi. Era come se tutto quello che era successo in quella orribile giornata –la discussione con Anya, l’esplosione al Congresso, il discorso di Cain al funerale, Electra, Pyke- le fosse improvvisamente caduto sulle spalle e la sua mente continuava a riproporle il tutto con una velocità e una nitidezza allarmante.
Il ragazzo, Rebecca aveva deciso che era un ragazzo per la sua altezza –una ragazza così alta l’avrebbe certamente ricordata-, si mosse a disagio ma velocemente. Afferrò il Generatore Portatile di Luce e lo piantò in mezzo a loro.
«Ehi, ehi» disse con una voce bassa e un po’ roca «Cosa è successo? Stai bene?»
Rebecca tirò su con il naso e, quando i suoi occhi si furono abituati, sbirciò verso di lui.
Non lo riconobbe, sulle prime, ma il naso dritto e i lineamenti severi le erano familiari, così che, con uno sforzo quasi doloroso, la sua mente ritornò al pomeriggio passato con Electra e Pyke e lo riconobbe come il ragazzo Omega che li aveva ripresi.
Rebecca si asciugò le lacrime con il dorso delle mani, vagamente consapevole di avere gli occhi rossi e gonfi e il naso colante, e prese un grosso respiro, per calmarsi.
«Sto bene» gettò fuori alla fine, annuendo più volte, come a voler rassicurare anche sé stessa.
Il ragazzo abbassò il braccio che reggeva il Generatore lungo il fianco e si guardò intorno.
«Dove è Jordan?» chiese, senza guardarla.
«Cosa?»
«Pyke Jordan» specificò lui «Sei la ragazza degli Alpha, giusto? Quella dell’altro giorno. Eri con lui?»
Questa volta si girò verso di lei e Rebecca si sorprese di come i suoi occhi, nonostante i continui cambiamenti di luce a cui erano stati sottoposti, riuscissero a distinguerne ora il profilo del volto di lui, grazie al sottile bagliore del Generatore.
Pyke Jordan. Non conosco nemmeno il suo cognome e già piango per lui.
«Pyke non è qui»
Il ragazzo continuò a guardarla, intrecciando le braccia al petto. Il fascio di luce, ora, illuminava una porzione di terriccio e Rebecca si concentrò su quel tratto di foglie e rametti, perché sapeva che, se avesse alzato lo sguardo, non avrebbe mai creduto alle sue bugie.
Shaw, Rebecca si era ricordata il suo nome all’improvviso, sospirò pesantemente.
«Potrebbe finire nei guai, se rimane ancora in giro a fumare »
Rebecca rimase zitta, anche se in parte condivideva il suo pensiero.
«Dai, andiamo al tuo Dormitorio»
Rebecca dovette aver fatto una faccia infastidita perché lui sorrise sardonico «Credevi che ti lasciassi andare ancora in giro da sola? Ringrazia che ti ho beccato io e non Jamie-
Lei non disse nulla e camminarono insieme fino agli alloggi degli Alpha.
«E’ in quel nascondiglio vicino all’Area Natura, vero?» chiese improvvisamente Shaw, mentre lei stava già armeggiando con la chiave magnetica e il codice segreto.
Rebecca, questa volta, abbassò il capo incapace di contraddirlo.
Shaw sospirò pesantemente, come se il peso di tutto il mondo fosse appoggiato sulle sue spalle, e spense il Generatore di Luce.
«Vai dritta nel tuo Dormitorio e ficcati a letto» continuò dopo qualche attimo di silenzio «La prossima volta che ti becco a girare di notte non chiuderò un occhio. Sono stato chiaro?»
La sua voce era seria e priva di ogni traccia di ironia o simpatia. Rebecca annuì rigidamente e si chiuse la porta della palazzina alle spalle, senza nemmeno salutarlo.
Girò l’angolo, sparendo dietro il muretto, e rimase immobile per qualche secondo contro lo stesso. Aspettò per un minuto buono, zitta e ferma al suo posto, prima di sentire l’eco dei passi di Shaw che si allontanavano lungo la Quarta Strada.
Poi, quando fu sicura che fosse abbastanza distante, si riavvicinò alla porta di vetro e la scostò appena. Il vento fresco della sera le scompigliò di nuovo i capelli e la fece leggermente rabbrividire, ma la sua testa scattò verso la Piazzetta delle Quattro Direzioni.
Shaw era quasi arrivato all’incrocio fra la Prima Strada, quella che l’avrebbe condotto ai suoi Dormitori, e la Terza, quella che dava sull’Area Natura e portava da un Pyke ridotto in condizioni schifose, e Rebecca seguì con il cuore in gola i suoi movimenti nella notte.
Quando lo vide fermarsi all’angolo fra le due vie si sentì stranamente in colpa.
E se Shaw avesse preso la Terza e avesse detto a Pyke che era stata lei a mandarlo lì?
Era una idea stupida e inverosimile –la parte che la riguardava, per lo meno- ma Rebecca non poté non preoccuparsene. Il timore si fece sempre più presente quando vide la testa di Shaw girarsi verso la Terza, con la chiara intenzione di imboccarla.
Rebecca si sporse ancora più in avanti con la testa, per vedere meglio e preoccuparsi con maggiore intensità, ma il ragazzo si girò di scatto e lei, spaventata che potesse vederla, si ritrasse velocemente.
Con il cuore in gola corse lungo le scale della Palazzina Alloggi e non si fermò fino a che non fu al sicuro nella sua stanza. Cyvonne, che aveva il sonno leggero, si agitò nel suo letto ma fortunatamente non aprì gli occhi.
Rebecca si avvicinò alla finestra e sbirciò senza riuscire a distinguere nulla.
L’unica vista che quella postazione le offriva era quella della Palazzina Alloggi degli Alpha di Secondo Livello e questo rendeva la sua piccola veglia completamente inutile.
Si gettò sul letto e pianse un altro po’, poi semplicemente, si addormentò.
 
John Shaw si girò di scatto, con la strana sensazione di essere osservato, e il suo sguardo si diresse verso la Quarta Strada.
Per entrare a far parte del Livello Omega bisognava avere una vista praticamente perfetta, anche senza l’utilizzo di Lenti della Vista, quindi per John non fu troppo difficile scorgere la porta degli Appartamenti Alpha che si chiudeva di scatto.
Sospirò pesantemente, riprendendo a fissare le varie direzioni. Il suo sguardo cadde sulla Terza Strada, quella che portava all’Area Natura.
Il vento freddo fece frusciare la giacca della sua divisa, poi lui comandò alle sue gambe di flettersi e ai suoi piedi di muoversi, e imboccò la Prima, verso il suo Dormitorio.
 
***
 
La stanza di Melanie era incredibilmente piccola, in confronto alle altre camere della sua casa. La carta da parati era di un rosa antico e, all’incirca a tre quarti di altezza dal pavimento, era attraversata da una sottile striscia bianca, tutta ghirigori e forme astratte -sua sorella Sophie, quando era più piccola, diceva che sembravano fiocchi di neve attaccati al muro-.
Melanie non ci aveva mai fatto  troppo caso, alle pareti della sua stanza, ma da una settimana a quella parte non aveva fatto altro che fissarle e chiedersi che cosa tutti quelle strane fantasia traforate volessero significare. Avrebbe perso completamente la concezione del tempo se non avesse avuto la sua Meridiana sul comodino che le indicava le condizioni climatiche, la data e l’ora esatta, con le piccole cifre e i simbolini in continuo mutamento.
La prima che era venuta a trovarla, due giorni dopo il fatto, era stata sua madre. Era parsa piuttosto sollevata di non trovarla in lacrime come nelle precedenti incursioni che aveva fatto per portarle da mangiare e si era seduta sul bordo del letto. Aveva allungato il braccio per prenderle la mano, ma Melanie era rimasta immobile, a fissare il soffitto.
«Melanie, tesoro…» aveva detto e poi giù fra singhiozzi e discorsi che lei non aveva ascoltato.
Poi c’era stata sua sorella, con gli occhi gonfi e rossi e un vestito nero da lutto. Le aveva raccontato delle esequie di Ray, di come fossero stati tristi e patetiche, con il vento che sollevava l’acqua del mare e spruzzi invadenti che coprivano le guance della signora Sutton di ulteriori lacrime –teoricamente, come Guerriero, il suo corpo lo avrebbero dovuto bruciare, ma la famiglia di Ray era composta completamente da Governanti molto conservatori, quindi si era pensato alla sepoltura della loro classe-. Melanie era stata sempre zitta e immobile ma aveva provato un briciolo di soddisfazione acuta nel sapere che le esequie non erano andate molto bene senza nessun corpo da gettare in acqua. Il corpo di Ray doveva essere ancora identificato. Quando le Bombe erano state lanciate, dopo sette fatidici secondi, un fumo velenoso si era rigettato fuori da quei piccoli apparecchi e aveva avuto, sulle persone più vicine, un effetto corrosivo. Ray era stato riconosciuto grazie alla targhetta da Guerriero che conteneva il suo chip di localizzazione, a pochi centimetri dal suo corpo sfigurato.
Tu non avresti voluto finire in mare, Ray. Tu avresti voluto che ti bruciassero, che la tua anima e le tue ceneri salissero fino in cielo. Saresti voluto essere un Guerriero anche nella morte.
Dopo le prime quattro notti e gli altri innumerevoli tentativi della madre e della sorella, suo padre aveva fatto ingresso nella sua stanza. Non le aveva preso la mano, non le aveva detto che sarebbe andato tutto bene e non l’aveva abbracciata. Era rimasto zitto, accanto a lei, fino a che Melanie non aveva preso a rigirarsi fra le coperte.
Poi, quando aveva finalmente chiuso gli occhi e li aveva sentiti bruciare, aveva percepito suo padre alzarsi. Voleva aprire gli occhi per spiarlo, per vedere se fosse andato davvero via, ma non aveva nemmeno fatto in tempo a decidersi che aveva sentito la sua mano sul viso.
Le aveva accarezzato la guancia e l’aveva coperta con il lenzuolo ruvido.
Il quinto giorno era salita persino Katerina, con la sua solita camminata ondeggiante e lei e Sophie si erano messe a parlare. Sophie cercava di includerla nei loro discorsi, di far finta che sua sorella non avesse appena perso il suo migliore amico, ma Katerina non era tipa da fare questi sotterfugi e l’aveva guardata negli occhi vuoti.
«Mi dispiace per il tuo amico, Melanie»
Melanie aveva annuito e quello era stato l’unico contatto che aveva intrattenuto con qualcuno per i seguenti cinque giorni. Alla fine, più di una settimana dopo, si era alzata dal letto.
Sua madre cambiava le lenzuola approfittando dei pochi minuti in cui era in bagno, ma le lenzuola odoravano comunque di sudore e di lacrime. Le pareti erano ancora più rosa alla luce leggera del tramonto, ma a Melanie sarebbero quasi piaciute di più se fossero state grigie. Il grigio era un bel colore: non diceva nulla, non ti stancavi di guardarlo, non ti riportava nulla alla mente. E lei non voleva che nulla le ritornasse alla mente.
Per quei nove giorni aveva fatto finta di essere sospesa nel vuoto. Aveva sperato innocentemente di risvegliarsi all’indomani, di scendere le scale di casa sua e di trovare Ray aspettarla all’ingresso con quella solita aria strafottente in viso e suo padre che sbuffava al suo indirizzo e gli diceva di togliersi dai piedi.
Quando si guardò allo specchio del bagno, non si riconobbe.
Chi era quella? Si ricordò delle storie di paura che le raccontava Ray quando erano più piccoli. Quella della bambina che viveva sottoterra e appariva negli specchi era una di quelle che la spaventava di più, e ora si chiese se il riflesso non fosse il suo.
Ritornò in camera sua dopo la doccia più lunga che avesse mai fatta, ancora avvolta da un leggero strato di vapore, e si disse che era stata stupida a pensare che far finta di niente fosse la cosa giusta. Come aveva potuto credere che sarebbe stata in grado di dimenticare quando ogni cosa in quella camera, in quella casa, in quella vita, in lei, le ricordava Ray e la pateticità della propria esistenza?
Si vestì con gesti meccanici e nemmeno pianse più, quando riconobbe il braccialetto di cuoio che Ray le aveva regalato la sera precedente alla sua prima partenza per Metallica. Lo indossò e scese per le scale –forse Ray è giù all’ingresso, forse mi sta aspettando e forse papà sta sbuffando e vuole cacciarlo-, raggiunse la cucina e trovò sua madre che si affannava digitando su un O.L.O. portatile, probabilmente organizzando la cena.
«Mi state ancora cercando un marito?- chiese, facendola sobbalzare.
Sua madre la fissò sorpresa e i suoi occhi scivolarono sulle sue occhiaie, sui vestiti vecchi e grigi, sul braccialetto e sulla sua espressione vuota.
«Oh, Melanie…»
«Mi va bene. Chiunque papà scelga mi va bene. Non ho più intenzione di protestare»
«Voglio solo andarmene da qui» pensò, ma non lo disse ad alta voce «Voglio liberarmi delle cose che ho perso nelle fiamme»
 
 
 

 
 

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Capitolo 8
*** 7 - Venticinque giri di corsa ***


N/A: Non so davvero come giustificare questi mesi di assenza. Perchè è di mesi che si tratta.
Sono imperdonabile, lo so, ma purtroppo, per quanto mi piacerebbe scrivere tutto il tempo, la vita reale chiama.
Lamentatevi con i miei professori, davvero.
Spero comunque che il capitolo, che per lo meno è bello lungo, possa piacervi.
Per lo meno spero che il finale a sorpresa sia di vostro gusto!
Sono cosciente che non ricorderete assolutamente nulla di quello che è successo nei capitoli precedenti perciò...

RIEPILOGO: Rebecca arriva a Metallica per conseguire il suo allenamento e diventare un Guerriero a tutti gli effetti. Mentre inizia a comprendere meglio il funzionamento della scuola (tre livelli, Alpha, Beta e Gamma, di due anni ciascuno; un livello aggiuntivo della durata di cinque mesi, Omega, a cui possono accedere solo i 10 migliori di ogni annata e che prevede , per tre fortunati, l'ingresso ai servizi segreti della Cupola Ovest), Rebecca approfondisce la conoscenza con  Anya, una ragazzina un po' viziata con cui condivid gli anni dell'infanzia; Nicko, alla mano e con un fratello, Gabe, che fa parte dell'esclusivo livello Omega; Sandee e Cyvonne, sue compagne di dormitorio; Sean e Teks, due ragazzi del suo gruppo. Fa amicizia anche con Pyke, assistente dell'infermeria, ma quando in seguito ad una grande esplosione ad un Congresso per la pace fra la Cupola Sud e la Cupola Ovest gran parte degli studenti Gamma (coetani e amici di Pyke) perdono la vita, Rebecca prova a consolarlo, il ragazzo reagisce freddamente. John Shaw, altro membro degli Omega che li sorprende fuori dalle loro stanze oltre il coprifuoco, nonstante il suo essere sempre ligio al dovere, li copre entrambi. Melanie è invece costretta dalle ristrettezze economiche a sposarsi con Colin, Governatore della Cupola Sud, e, se in un primo momento era parsa restia ad accetare questa unione, dopo la morte di Ray (suo migliore amico e Gamma della scuola di Metallica) durante l'esplosione del Congresso, accetta di sposare chiunque suo padre voglia.





A Bess: c'è una frase per te in questo capitolo. Spero che tu capisca quale.
A Chiara, Martina, Federica e Ivana per aver iniziato questo viaggio con me.

Capitolo VII
Venticinque giri di corsa

La lezione di Medycina Base si teneva per tre ore consecutive una volta a settimana, quella di Strategia e Tattica quattro volte alla settimana e Utilizzo Mediatico tutti i giorni. La palestra era aperta per venti ore al giorno. Il Centro di Controllo dove si riunivano gli Allenatori e l’Elector di Metallica, una stanza delimitata da una parete di vetro che dava sulla palestra -da dove era possibile osservare e studiare gli studenti nel pieno dell’allenamento-, era invece attivo ventiquattro ore su ventiquattro. La mensa era accessibile per tre volte durante alla giornata: la mattina dalle sei alle sette, a metà giornata dall’una alle due e alla sera dalle sei alle otto. Il coprifuoco scattava alle dieci precise e, nelle due ore di tempo libero dopo la cena gli studenti potevano accedere a delle Sale MultiMediali o riunirsi in piccoli campanelli passeggiando verso la Piazza Delle Quattro Direzioni. Dopo le dieci una pattuglia di studenti Omega si impegnava a controllare che non ci fossero infrazioni o scorribande notturne e a mezzanotte tutte le luci del campo si spegnevano. Non era possibile entrare o avvicinarsi all’Area Natura senza un permesso scritto, mentre per gli studenti dal livello Beta in su era possibile accederci per esercitazioni o allenamenti speciali, ma solo se scortati da un Responsabile.
Rebecca, che dopo il trambusto delle settimane precedenti aveva trovato particolarmente difficile riabituarsi alla normalità, si sentiva annoiata e infastidita e questo la faceva sentire stranamente in colpa. Non avrebbe dovuto desiderare che succedesse qualcosa, soprattutto perché le cose che succedevano ultimamente erano sempre brutte, ma la vita lì a Metallica non era come se l’era immaginata e trovava difficile ricordare la lunga serie di regole e imposizioni.
Le lezioni erano principalmente teoriche e lo sarebbero state per la maggior parte del primo livello. Quando si allenava o saltellava sul posto sferrando i pugni all’aria, facendo ben attenzione alla posizione dei piedi e al modo corretto in cui stringere le dita, sentiva su di sé lo sguardo degli Allenatori, attraverso la teca di vetro. I pasti non erano diventati più digeribili e a fine giornata era sempre così stanca che la prospettiva di camminare avanti e indietro per le stesse quattro vie con le stesse persone che aveva avuto davanti tutto il giorno e che avrebbe rivisto per tutto quello seguente non l’attirava affatto. Non aveva più avuto motivo di trasgredire agli ordini dell’Elector perché non vede più Pyke di notte o vicino all’Area Natura. In effetti, non vedeva più Pyke in generale. Non sapeva come o perché, ma era come se i rapporti fra loro si fossero raffreddati. E per quanto fosse sicura di non aver fatto nulla di sbagliato e sentisse una sorta di buco nello stomaco, un mostro rigonfio che le graffiava le pareti dell’intestino, non voleva essere lei la prima a  fare un passo avanti.
Sapeva che era indelicato e stupido prendersela con lui per essere ancora così sconvolto: tutti i suoi amici erano morti. Eppure, eppure, eppure. Era un nota di sottofondo stonata su una melodia di per sé già non troppo brillante. Si sentiva inadeguata e stranamente apatica.
Erika, che era la responsabile della loro Preparazione Fisica, li faceva saltellare sul posto e si rifiutava di far indossare loro i Guanti Protettivi durante i primi maldestri corpo a corpo.
Il primo combattimento a cui Rebecca aveva partecipato era stato contro una ragazza del gruppo A, Beya, ed era stato abbastanza disastroso. Nessuna delle due ragazze era riuscita a imporsi sull’altra e il risultato era stato un deludente pareggio e una sequela di imprecazioni di Erika. Rebecca aveva sempre lavorato meglio sotto pressione, sua madre diceva che aveva il brutto vizio di interessarsi a tutto –il che era come dire che non si interessava davvero a niente- e stancarsene subito dopo quindi era una cosa positiva che qualcuno la tenesse sotto torchio, ma le continue urla di Erika che le ricordavano le regole da seguire e le posizioni da assumere l’avevano solo innervosita e fatta sbagliare ancora di più.
Rebecca sapeva che la Responsabile lo faceva per spronarli a combattere meglio e che, in un modo piuttosto contorto, ci teneva che imparassero bene ma le sembrava ridicolo, nel bel mezzo di una lotta, ricordarsi di posizionare il pollice al centro del palmo e non muovere il polso in un certo modo. Il combattimento, il correre, il colpire, il sentire la pelle nuda dell’avversario sotto le proprie nocche… non sarebbe dovuto essere un qualcosa di puramente istintivo? Un bisogno primario, una valvola di sfogo, un qualcosa che avrebbe dovuto farti sentire libero e… vivo?
Durante le sue ore libere passava il tempo in palestra, a spiare John Shaw, Jamie Lloyd, Gabe Heap e gli altri Omega che si allenavano. Il modo in cui si muovevano, in cui non stavano mai fermi… era stupefacente. Ogni volta che salivano sul ring sembrava quasi che stessero mettendo su una danza, non un combattimento.
Aveva imparato tutti i loro nomi e conosceva quasi più loro che i suoi compagni di corso. Ognuno aveva un proprio stile e, come fu piuttosto attenta nel notare, nessuno di loro faceva tanta attenzione a come mettere il pollice. Gabe, il fratello di Nicko, combatteva di petto. Si gettava sull’avversario con forza, senza trucchetti e finte. Daley O’Connor sfruttava molto i gomiti ossuti; Theo, il ragazzo che delle volte aiutava Erika con i loro allenamenti, aveva un approccio più accademico ed era quello che seguiva maggiormente gli schemi base. Jamie Lloyd rimaneva quasi sempre ferma al suo posto e aspettava che fossero gli avversari a venirle incontro, in una tattica molto sottile. E poi c’era John Shaw che combatteva con la stessa facilità con cui respirava e sembrava così dannatamente vivo e pieno e felice e al suo posto, per una volta -lui che non sembrava mai a posto da nessuna parte, mentre faceva la ronda di mezzanotte, mentre rimproverava i primini, mentre mangiava silenziosamente e mentre silenziosamente si allenava con la sacca. E mentre combatteva sembrava stesse gridando, sembrava stesse facendo l’amore e sembrava stesse soffrendo e Rebecca avrebbe voluto essere brava anche solo un decimo di quanto lo era lui.
Non gli aveva più parlato, dopo l’episodio di due settimane prima, quando lui l’aveva sorpresa fuori dopo il coprifuoco e Rebecca si sentiva a disagio anche solo con l’idea di rivolgergli nuovamente la parola. Perciò se ne era rimasta zitta sia il giorno successivo, quando lei e Cyvonne si erano scontrate contro di lui in mensa –avrebbe dovuto salutarlo? Forse, ma lui era più grande e non la stava guardando e Cyvonne avrebbe fatto domande e lei avrebbe dovuto spiegare che era uscita per Pyke e Pyke non si era fatto vivo nemmeno quel giorno e John Shaw si era già allontanato e lei stava fissando la sua schiena- ed era rimasta zitta anche nei giorni successivi. In effetti  ad eccezione di Anya, Nicko, Cyvonne, Sandè e Sean –e qualche incontro occasionale con l’amico di Sean, Teks Feegan- non aveva stretto amicizia con nessuno. Si era sempre ritenuta una persona socievole e aperta, come la maggior parte dei figli dei Produttori  impiegati nelle Comunicazioni, ma provava uno strano senso di apatia.
La quarta settimana di dolorosa routine era appena iniziata quando Erika dovette andare in esterna con un gruppo di Gamma, mandati a fare esperienza sul campo ad Asa 13, la città più vicina a Metallica. I Gamma di secondo livello per la maggior parte stavano vivendo il loro ultimo anno lì al Centro di Addestramento –soltanto in dieci l’anno successivo avrebbero frequentato i cinque mesi aggiuntivi del livello Omega- e la possibilità di avere contatti con l’esterno e con il lavoro che sarebbe toccato loro dopo la Graduazione era un buon inizio per ambientarsi bene. Le possibilità per chi frequentava un Centro di Addestramento, e soprattutto Metallica che era il più esclusivo e famoso dell’Ovest, erano molteplici. Si poteva aspirare ad una carriera di Servizio InterCupola –protezione delle città e dei cittadini, Guerriero personale di un importante Governatore o Produttore, medico di campo addetto ai primi soccorsi, rappresentante della Classe Sociale al Consiglio della Cupola, Guardia dei confini, Allenatori di nuove reclute- o una IntraCupola –Guerriero personale di ambasciatori e diplomatici, rapporto fra Guerrieri di Cupole differenti, esercito della Cupola Ovest nelle zone in guerra delle altre, esploratori alla ricerca di tracce del Mondo Di Prima oltre le barriere protettive in vitrum-.
Suo nonno era stato uno di questi. Un Esploratore.
Rebecca era nata quando lui aveva appena sessant’anni e gliene mancavano altri venti di servizio. L’età mortuaria media sfiorava i centotrenta e tutti i lavoratori in salute erano tenuti a contribuire allo sviluppo della cupola fino al raggiungimento degli ottanta anni, l’età in cui il corpo iniziava a subire un irreversibile declino.
Al nonno piaceva il suo lavoro. Ogni volta che tornava da una missione le portava qualcosa: una foglia, un rametto, un po’ di terriccio che aveva raccolto fuori dalla cupola. Rebecca li custodiva gelosamente in un piccolo Cassetto Combinato, impostato per aprirsi solo al tocco delle sue dita, e ogni tanto li tirava fuori per ammirarli. Non erano come le foglie, i fiori e il terriccio delle varie Aree Natura sparse per la Cupola. Profumavano, davano una sensazione diversa al tatto rispetto a quella sgradevole e scivolosa Rebecca provava quando sfiorava quegli sintetici. Tutto quello che il nonno le portava dalle sue missioni era, ovviamente, sterilizzato: non si poteva mai sapere se, stando tanto a contatto con l’aria nociva fuori-cupola, anche quegli oggetti potessero aver assorbito un qualche morbo o trasmettere infezioni. Suo nonno le aveva detto che, se tutto quello che aveva regalato non fosse stato sterilizzato, tutto le sarebbe apparso ancora più vivido.
I fiori avrebbero avuto colori più intensi, le foglie sarebbero state più ruvide e profumate e il terriccio grumoso sarebbe stato impastato da una sostanza melmosa.
Le aveva promesso che, quando Rebecca sarebbe diventata anche lei un Guerriero, sarebbero andati insieme fuori dalla cupola e allora anche Rebecca avrebbe potuto vedere il Mondo di Prima così come i loro antenati lo avevano lasciato e distrutto.
Era morto per un malfunzionamento delle maschere protettive, prima ancora che Rebecca compisse i sedici anni e potesse comunicargli di aver scelto Metallica come Centro di Addestramento. La sua squadra, partita per una missione, aveva immagazzinato meno aria di quanto avrebbe dovuto e non erano riusciti a tornare alla base prima che l’ossigeno respirabile finisse. Li avevano trovati con gli occhi sbarrati e le mani serrate all’altezza della gola, come se stessero cercando disperatamente di indurre l’aria nociva a entrare nei loro polmoni.
Sua madre, da quel momento in poi, non aveva più voluto sentir parlare di carriere fra gli Esploratori e Rebecca aveva avuto paura a dirle che aveva scelto Metallica proprio per quello.
«E’ assolutamente geniale. Davvero»
Rebecca si riscosse dai suoi pensieri, scuotendo la testa e cercando di riafferrare il filo del discorso. Stavano pranzando e, insieme a lei, Cyvonne e Sean, erano seduti anche Anya e Nicko. Da quando li avevano divisi in due gruppi per facilitare l’andamento delle lezioni e per permettere agli allenatori di seguirli meglio, riusciva a vedere la sua vecchia amica e il giovane Heap solo durante i pasti e nelle poche ore libere settimanali.
Nicko stava raccontando giusto in quel momento della loro lezione con l’allenatore Cain Lloyd, che avrebbe sostituito Erika nei i suoi giorni di assenza.  Avevano appena trascorso tre ore in sua compagnia, mentre Rebecca, Sean e Cyvonne avrebbero avuto lezione con lui solo nel pomeriggio.
«A me è sembrato uno squilibrato» constatò Anya, muovendo con circospezione la sua forchetta nel piatto. Il pasto ero lo stesso per tutti –quel giorno consisteva in una scodella di riso e una fettina di carne magra- ma le porzioni variavano a seconda della persona. Il numero che tutti loro avevano tatuato sulla spalla era anche il loro Identificatore e forniva alla Macchina Pasti tutte le informazioni necessarie sui loro corpi e sulle precise calorie che era necessario assegnare loro per provvedere al fabbisogno giornaliero.
Il tatuaggio, come aveva scoperto Rebecca con il passare delle settimane, era forse solo una vecchia tradizione, ma il numero che rappresentava era qualcosa di molto più importante. Ogni mattina bisognava presentarsi ad un appello mattutino in cui, invece che ai loro nomi, si chiedeva di rispondere al suono dei loro numeri. Se non si digitava il proprio numero sui macchinari della palestra, questi non si accendevano. I loro numeri apparivano anche nella classifica generale che avrebbe deciso, fra molti anni, il loro futuro lì a Metallica.
«A me è sembrato davvero figo, invece» intervenne nuovamente Nicko «Fidatevi, ragazzi. Cain Lloyd è tutta un’altra cosa rispetto a Erika»
Rebecca dovette concentrarsi nuovamente sulla conversazione. Ultimamente era molto più distratta del solito e, se i suoi amici avevano steso un velo pietoso –nonostante Anya non facesse che prenderla in giro e dire che stava così perché lei e Pyke non si parlavano più-, Erika non era tanto compassionevole e non le dava tregua. Fortunatamente, almeno per qualche giorno, Cain Lloyd avrebbe portato una ventata di novità nella sua routine e, magari, i suoi pensieri sarebbero stati meno liberi di vagare.
 
Cain Lloyd li attendeva in piedi e con le braccia conserte davanti al ring. I ragazzi, che erano stanchi per la lunga giornata, erano entrati alla spicciolata, rumoreggiando e spintonandosi. Una sola occhiata alla figura dell’allenatore e tutti si zittirono, stranamente intimoriti dal suo aspetto minacciosamente calmo. L’allenatore fece protendere il silenzio teso per qualche attimo, poi sciolse l’intreccio delle sue braccia muscolose e li salutò.
«Buon pomeriggio. Prendete pure posizione»
L’ordine era piuttosto vago, diverso dal solito “Sotto con i pugni, pivellini” di Erika. Alcuni rimasero al loro posto, spostando il peso dei loro corpi da un piede all’altro, alcuni sussurrarono al loro vicino e altri ancora si diressero verso i manichini ai lati della palestra, per esercitarsi con le posizioni che Erika aveva spiegato loro la volta precedente.
«No, lasciate stare quei manichini.» li bloccò l’Allenatore Lloyd.
Quindici paia di occhi si erano spostati simultaneamente su di lui, seguendolo mentre si accarezzava il mento con aria pensosa e si accomodava sul bordo del ring di combattimento.
Il silenzio che aveva ottenuto era una cosa ben rara e Rebecca si lanciò una rapida occhiata intorno, cogliendo le espressioni concentrate dei suoi amici prima di ritornare a guardare l’allenatore Lloyd. Questo era ancora zitto e pensieroso, ma i suoi occhi correvano sul loro angolo di palestra e slittavano verso la parete di vetro che dava sul Centro di Controllo.
Rebecca notò che era stranamente vuoto, eccezion fatta per un Responsabile che smanettava forsennatamente sul suo Catalogatore.
«Fate venticinque giri di corsa intorno alla palestra» disse alla fine. Poi, quasi ci avesse ripensato aggiunse «Anzi, continuate a correre fino alla fine della nostra prima ora insieme. E dopo parleremo di strategia»
Si levo un coro di dissenso e Rebecca riconobbe fra tutti il borbottio di protesta di Teks Feegan. Si girò verso di lui giusto in tempo per sentirlo esclamare, nemmeno troppo a bassa voce «E’ ridicolo! Cosa dovremmo farcene con tutto questo correre?»
Cain Lloyd non si scompose e aspettò che i mugugni si quietassero prima di ricominciare a parlare «Come il signor Feegan ci ha fatto non troppo velatamente notare, il correre fino allo stremo non è affatto utile. Cosa centrano, si chiede il nostro giovane amico, i muscoli con il cervello? Perché sprecare tempo con la strategia quando posso semplicemente mandare al tappeto il mio avversario, essere più veloce e forte di lui? È questo che pensa il signor Feegan. Signor Feegan ora venga qui»
«Signore?» Teks era sbiancato.
«Venga qui, signor Feegan e mi risponda» l’Allenatore attese che Teks gli arrivasse accanto prima di riprendere a parlare «Mettiamo il caso che in questo momento faccia irruzione in palestra uno dei Controriformisti dell’Est. O un accolito di Cielo Aperto. O un assassino senza scrupoli. Che cosa fa lei?»
«Gli sparo un colpo in testa, signore»
«Un colpo in testa. Bene. Efficace e veloce, molto diretto. Molto bene. E come potrebbe sparare al nostro nemico un colpo in testa se in questo momento lei non è armato?»
Teks arrossì a tal punto che la sua pelle scura assunse una sfumatura violacea.
«Pensavo fosse una situazione ipotetica, signore»
«Potrebbe esserlo, indubbiamente. O potrebbe non esserlo. Ma le assicuro, signor Feegan, che se uno di Cielo Aperto fosse qui e lei avesse una pistola, non riuscirebbe nemmeno a sollevarla prima di ricevere lei stesso una pallottola in testa. Soprattutto considerando il fatto che lei non ha mai tenuto in mano una pistola e che non ha idea di come relazionarsi con un’arma del genere»
«Non me ne starei comunque con le mani in mano, signore»
«Questo non lo metto in dubbio, signor Feegan. Ma continuiamo con la nostra situazione ipotetica, vuole? Abbiamo scartato l’ipotesi di una pallottola ben piazzata. Cosa altro può fare, dunque? »
«Posso attaccarlo. Se è molto grosso sfrutterei la velocità, in caso contrario utilizzerei attacchi sfuggenti e cercherei di attuare manovre offensive…»
«E mi dica le sue manovre offensive sarebbero quelle delle corrette posizioni di base e delle dita? Il modo in cui si stringono correttamente i pugni? Colpirebbe il nostro rivoluzionario come fa ogni mattino con il suo amico il signor Davis?» ammiccò nella direzione di Sean.
«Signore…» Teks sembrava aver perso tutte le parole e Rebecca vide molti suoi compagni nelle stesse condizioni. Provò a concentrarsi sulla situazione ipotetica presentata da Cain ma nemmeno lei riusciva a immaginare un modo per uscirne senza usare un arma o attaccare.
«Signor Feegan, lei è qui da quattro settimane. Non potrebbe misurarsi con un ribelle di Cielo Aperto nemmeno se questo fosse zoppo e mezzo cieco. E si fidi, Feegan, quelli di Cielo Aperto sono in grado di essere scattanti e prestanti anche in quelle condizioni. Un uomo che lotta per un ideale in cui crede, anche se sbagliato, lotta più audacemente di un ragazzino che lo fa per la gloria e per un paese con non conosce ancora e che non gli ha ancora dato niente.»
«Allora cosa dovrei fare?- sbottò Teks, aggiungendo poi un frettoloso «Signore»
Cain Lloyd parve divertito «Come dice, signor Feegan?-
«Cosa dovrei fare con il ribelle di Cielo Aperto?»
«Cosa dovresti fare, signor Feegan? Corri. Ecco cosa fai. Corri.»
Si batté i palmi delle mani sulle cosce e il suono secco si propagò per tutta la palestra «Questa è la prima lezione che dovete imparare: la vostra vita non vale mai meno di quella delle persone che state proteggendo. Voi non siete meno importanti di loro. Sappiate riconoscere i vostri limiti e non li superate. A questa guerra non servono ragazzini spericolati che si credono degli eroi, ma persone coraggiose –attenzione il coraggio non è per forza buttarsi a capofitto in una situazione di svantaggio e senza uscita!- che sanno cosa fanno» Teks aveva gli occhi illuminati da un luccichio ammirato ma Cain si interruppe bruscamente e distolse lo sguardo dai ragazzi. Batté nuovamente le mani e si alzò di scatto «E ora fatemi questi venticinque giri di corsa intorno alla palestra.»
 
Mentre correvano Rebecca si ritrovò a cercare con lo sguardo la figura di Cain, che si era nuovamente seduto sul bordo del ring. Sembrava molto stanco e non stava guardando verso di loro. I suoi occhi erano rivolti verso la zona riservata agli Omega, fissi sulla figura di sua nipote Jamie che colpiva ritmicamente una sacca dall’aspetto pesante e ingombrante. Era da sola, come sempre. Forse perché era l’unica ragazza ad essere arrivata ad un livello così alto, forse perché non sembrava di indole molto socievole, ma si allenava quasi sempre da sola e, negli esercizi in coppia, si metteva sempre con John Shaw, un altro che non parlava molto.
Qualsiasi cosa fosse successo alla sua spalla, all’inizio dell’anno, ora le era passata perché usava i gomiti con incredibile forza e faceva ampi movimenti circolatori con le braccia.
Eppure, mentre la osservava, Cain sembrava preoccupato. Forse era perché fra poco meno di tre mesi si sarebbe tenuta la prova finale in cui, dopo aver aggiornato la classifica per l’ultima volta, si sarebbe deciso chi sarebbe stato selezionato per la Guardia Speciale InterCupola, una Organizzazione che raccoglieva gli elementi più promettenti di ogni Cupola e li faceva lavorare contro qualsivoglia tipo di minaccia si presentasse.
Jamie aveva buone possibilità di rientrare fra quei pochi prescelti e si stava allenando forsennatamente, anche più dei suoi compagni di corso. Gabe Heap aveva detto a Nicko che probabilmente sarebbero rientrati lei, John e Daley O’Connor.
Accelerò il ritmo fino ad arrivare a qualche metro da Sean, che correva da solo in cima alla loro disordinata fila. Cyvonne, che era molto forte ma per nulla veloce, ansimò al suo indirizzo e rallentò ancora di più la sua andatura, quasi accasciandosi.
Quando Rebecca tornò a guardare verso l’Allenatore Lloyd si accorse che non era più al suo posto. Una breve occhiata valutativa lo individuò nel Centro di Controllo. Dalla parete di vetro riusciva a scorgere lui e il Responsabile di turno che parlavano animatamente e, per quanto non fosse possibile sentire cosa stessero dicendo, Rebecca pensò che stessero litigando.
Non era ancora successo in quasi due mesi che i loro Allenatori discutessero davanti a loro e, a giudicare da come anche Jamie Lloyd aveva rallentato il ritmo dei suoi colpi per guardarli, non doveva essere una cosa abituale.
«I grandi stanno bisticciando» disse Sean con voce sommessa, accennando con il capo alla teca di vetro. Rebecca si voltò verso di lui, vagamente sorpresa. Doveva aver accelerato senza accorgersene e essersi trovata alla sua altezza. Cercò di mantenere il ritmo della corsa ritrovandosi dopo pochi minuti con i polpacci in fiamme –Sean era molto più in forma di lei-.
«Si, e lo stanno facendo proprio davanti ai bambini» disse, gettando in fuori quel poco fiato che le era rimasto in corpo.
La maggior parte dei suoi compagni non si era ancora accorta di niente -tutti presi a correre, sbuffare e spintonarsi indisciplinatamente fra loro- ma già qualche testa si stava alzando e qualche sguardo stava lasciando il pavimento per dirigersi verso i due litiganti.
Jamie Lloyd aveva ormai interrotto completamente il suo allenamento e i suoi occhi saettavano in ogni direzione, con quella sua espressione corrucciata. Per un attimo Rebecca sentì che stava guardando anche lei, ma si impose di non interrompere il ritmico movimento della corsa.
Quando Cain uscì dal Centro di Controllo avevano tutti da tempo concluso i loro venticinque giri di corsa. L’Allenatore Lloyd era livido. A Rebecca la sua espressone ricordava quella della madre quando era arrabbiata con lei ma, per qualche motivo, non poteva sgridarla ad alta voce. Spaventosamente calma: una promessa di resa dei conti e di provvedimenti risolutivi.
I ragazzi lo attendevano tutti sull’attenti, nessuno in vena di scherzare, nemmeno Teks.
«Per il momento basta correre: farete altre cinque giri a fine allenamento. Rivediamo la posizione base di difesa. Signorina Uriah, venga avanti e ce ne dia una dimostrazione» disse lui, facendo un cenno a Cyvonne di avanzare.
 
***
 
Pensare a Ray era naturale, quotidiano, doloroso: come un ronzio di sottofondo, assordante e fastidioso allo stesso tempo, un qualcosa che non poteva ignorare.
«E se… e se il mio futuro marito si dimostrasse… inelegante?» gli aveva chiesto una volta, quando era ancora irrimediabilmente cotta di lui –quando era ancora vivo. Era stato l’anno prima, quando i primi problemi economici si erano presentati alla porta di Casa Wood, così come la necessità di correre presto ai ripari e di trovare una sistemazione per lei e Sophie.
«Se lo farà, io mi dimostrerò ancora più inelegante di lui: gli taglierò la testa e te la servirò per cena» aveva risposto lui e Melanie era andata in un brodo di giuggiole al pensiero. Ingenua come era al tempo, come lo era ancora adesso nonostante la morte e la tristezza la stessero inaspettatamente aiutando a guardarsi intorno con chiarezza, l’aveva presa come la più sentita e romantica delle dichiarazioni. La settimana dopo aveva provato a dichiararsi ricevendo il doloroso due di picche e la conferma che no, Ray era solo un amico.
Colin era, invece e per fortuna, elegante. Nel senso che era tornato due settimane dopo la Grande Esplosione, le aveva gentilmente fatto le sue condoglianze per la sua perdita –e sembrava essere l’unico ad averlo ricordato, che lei aveva perso qualcuno- e non aveva più ripreso il discorso della loro separazione.
Da un certo punto di vista era molto più distaccato. Non le sorrideva più tanto e, in quei pochi giorni in cui si erano frequentati dopo il brutto incidente, non si era espresso con entusiasmo e speranza sul loro futuro. Era rimasto taciturno e chiuso, gentile e raffinato, ma distante e freddo. Nessuno sembrava essersi accorto del suo cambiamento in quanto, un genere di contegno non troppo espansivo e signorile, era quello che tutti si aspettavano.
Come stabiliva la legge sul matrimonio della Cupola Ovest, Melanie e Colin si erano incontrati con le loro famiglie alla Sede Generale per firmare il primo dei tre accordi matrimoniali.
Il primo, l’Attestazione, era solo una richiesta formale di unione e prevedeva che i due futuri sposi firmassero il loro assenso. Era inoltre compresa una clausola sugli aspetti economici e la regolamentazione dei patrimoni, aspetto che maggiormente interessava il signor Wood, e la faccenda andò fra le lunghe fra le varie contrattazioni.
Fu in quella occasione che Melanie conobbe per la prima volta la famiglia di Colin. La gran parte dei suoi parenti risiedeva ancora nella Cupola Sud e si sarebbero presentati solo al terzo accordo, quello dell’Ufficializzazione. Erano presenti solo la madre e la sorella.
La signora Amigdala, la madre di Colin, era una donna sulla cinquantina con i capelli rossi e il viso privo di rughe –Melanie sospettava che entrambi fossero frutto di Modificazioni Genetiche di ottimo livello-. Il padre aveva fatto pervenire solo la sua documentazione, necessaria per siglare la sua parte dell’accordo, e un O.L.O. temporaneo per scusarsi della sua assenza. 
Colin era sembrato molto nervoso: aveva scostato bruscamente sua madre e non le aveva rivolto la parola se non per dei brevi saluti. Melanie aveva firmato ed era rimasta ad ascoltare suo padre che parlava di denaro e privilegi fino a che la Sala Generale non le era parsa un luogo grigio come tanti altri.
Il secondo accordo, la Supervisione, si era tenuto la settimana seguente. Solitamente questa seconda parte prevedeva un semplice controllo fisico e una breve lettura dei diritti e doveri delle coppie dell’Ovest, ma la madre di Colin aveva insistito che la procedura tradizionale venisse rispettata alla lettera, così Melanie era stata visitata completamente e tutti i membri della sua famiglia erano stati chiamati a testimoniare il suo stato di salute e la sua capacità di avere figli.
Gli stessi controlli erano stati fatti anche a Colin e, una volta che si fu testato che non era impotente, si poté procedere con la lettura della legge sui figli –per garantire una popolazione florida le coppie sposate dovevano dare alla luce almeno un figlio nei primi tre anni. Nel caso uno dei due fosse stato contrario o impossibilitato avrebbero dovuto pagare una tassa aggiuntiva- e quella che regolamentava il matrimonio più in generale –con l’aggiunta della postilla 14, varata da qualche mese, che per fronteggiare il calo demografico stabiliva un limite massimo di celibato/nubilato e assegnava alla Sede Generale il compito di tassare i non accasati-.
Quando erano usciti fuori il cielo si era fatto scuro e grossi nuvoloni si stavano allargando all’orizzonte. Prima ancora che potessero raggiungere le loro machines la pioggia aveva iniziato a scendere copiosa e, mentre Colin veniva trattenuto da sua madre a parlare all’ingresso della Sede, Melanie si era dovuta coprire con le braccia magre fino a che qualcuno non le aveva passato un Riparatore Multiplo in fibra di thean. Era la sorella di Colin, Pauli: una donna sulla trentina con un elegante completo da Festa, quelli che le moglie dei Governanti indossavano nelle cerimonie pubbliche, e una espressione seria in viso, estremamente familiare.
Aveva la pelle olivastra e il contrasto fra le loro carnagioni si fece evidente quando lei le si affiancò. «Buonasera, Melanie. Ho sentito che diventeremo parenti»
Melanie non sorrise e afferrò la mano che lei le porgeva senza stringerla davvero.
«Immagino che voi siate Pauli»
Non assomigliava per niente a Colin, nonostante avesse alcuni tratti in comune con la madre.
«Immaginate bene» disse lei, senza guardarla. La scortò fino alla machines, aspettò che lei si fosse accomodata nello scompartimento asciutto, e poi si diresse verso la sua senza aggiungere i dirigersi verso la sua.
 
La sera successiva, come tradizione nelle famiglie più abbienti, la famiglia Wood ospitò la festa di fidanzamento -per celebrare i primi due accordi sanciti e augurare alla coppia di portare a termine il terzo nel migliore dei modi.
Erano stati invitati alcuni fra i più importanti membri del Consiglio e, a sorpresa, era intervenuto persino il signor Richard Manning, figlio del Governatore Generale Manning e, a conti fatti, erede di tutta la Cupola Ovest. Sua sorella Sophie le aveva raccontato di aver scorto persino un Governante del Partito Popolare –un gruppo di giovani scapestrati e sbarellati, come li definiva suo padre, che credevano di poter cambiare il mondo- e la sua guardia del corpo, un Guerriero armato e dall’aria indisponente.
In effetti,  per quanto fosse la sua festa di fidanzamento, Melanie non conosceva praticamente nessuno. Solo Katerina, che Sophie aveva insistito tanto per invitare e che indossava un aderente vestito rosso e portava alcune ciocche di capelli intrecciate a cingerle il capo come una corona, e Nina Nguyen, la figlia di una amica di sua madre, che in ogni caso trovava davvero antipatica. Nina si era portata dietro un ragazzo dai capelli rossi e i tratti amichevoli: quando le aveva stretto la mano e le aveva fatto le congratulazioni, lo aveva fatto con tanto entusiasmo che Melanie non se l’era sentita di smontarlo con una smorfia di circostanza e aveva abbozzato un sorriso.
Colin l’aveva salutata ad inizio serata -ogni volta che si incontravano a Melanie sembrava più arrabbiato e indisponente- ed era scomparso dopo poco, lasciandola sola a fronteggiare quella marea di persone sconosciute. In molti le si erano avvicinati per augurarle ogni bene, con quei sorrisi che non si allargavano mai agli occhi e le mani fredde che invadenti le accarezzavano le guance e le braccia, e per complimentarsi del suo aspetto.
Melanie, che non era mai stata magrissima, aveva pensato che c’era voluta la morte del suo migliore amico per raggiungere il peso ideale universalmente accettato. Poi aveva pensato che avrebbe preferito essere obesa. In ogni caso le guance scavate e gli occhi spenti sembravano abbinarsi perfettamente al vestito in organza azzurro, dal corpetto a cuore e la gonna composta da veli di stoffa dalle diverse tonalità di colore; quel genere di vestito che si era sempre immaginata nelle sue fantasia e per cui Ray, se fosse stata lì, l’avrebbe presa in giro senza tregua.
«Ti vedo molto a tuo agio» commentò Katerina, dopo un’ora che la festa era iniziata e Melanie aveva detto solo “Grazie”, “Sono onorata di conoscervi”, “La ringrazio davvero”, “Sono felice che siate riusciti a venire”.
Melanie aveva abbassato gli occhi sulla figura sottile dell’altra e aveva notato il bracciale in oro che le capeggiava sull’avambraccio, poco sotto l’attaccatura con la spalla. Era circolare e rigido e rappresentava un serpente dalla bocca spalancata ad ingoiare la propria coda. L’occhio dell’animale era rosso e, ad una seconda occhiata, Melanie si accorse che era un piccolo rubino. La famiglia di Katerina era estremamente ricca e, si ritrovò a pensare, se fosse stata un maschio Sophie non avrebbe avuto alcun problema ad ottenere il permesso di sposarla.
Ma erano due ragazzine stupide e ingenue e Melanie sperava solo che capissero quanto quello che stavano facendo fosse stupido, assolutamente folle.
«Lo sono. È come cenare con i miei genitori» rispose lei, cercando Colin con lo sguardo. La sua assenza era stata notata, così come il fatto che non le si fosse avvicinato nemmeno per mezzo secondo in due settimane, e l’umiliazione era profonda. Melanie si sorprese a pensare che, ormai, era troppo stanca anche solo per arrossire.
Il loro salone –l’intera casa- era pieno fino all’inverosimile e, in ogni angolo gruppi di persone conversavano educatamente, senza alzare la voce e con quella patina di indifferenza tipica della loro Classe Sociale. Melanie lasciò il suo bicchiere ancora intatto a Sophie e si diresse verso l’ingresso. La porta di casa era spalancata e nuovi invitati stavano facendo il loro ingresso, salutando allegramente -le donne baciando delicatamente le guance di sua madre e gli uomini già pronti a discutere con suo padre. Melanie distinse alcuni volti familiari, Governatori importanti che aveva visto in Tele-Video, e capì che suo padre, con quel matrimonio, aveva guadagnato molta popolarità e curiosità.
Questo pensiero continuò ad essere una costante nella sua testa e il desiderio di essere lasciata in pace non fece che aumentare mano a mano che la serata passava. Quando poi, al momento del brindisi augurale di mezzanotte, nessuno fece caso alle promesse scambiate fra lei e il futuro sposo –neanche Colin stesso-, tutti troppo presi da una accesa discussione sulla nuova postilla governativa sui Guerrieri, la situazione divenne insopportabile.
Quella serata era un completo disastro: nessuno le aveva rivolto una parola amichevole, il suo promesso sposo l’aveva ignorata tutta la sera e il suo migliore amico era morto. E se Colin si fosse dimostrato inelegante? Se la sua vita da quel momento in poi fosse stata solo una continua festa di fidanzamento in cui lei era solo una comparsa e non la protagonista come avrebbe dovuto? Come avrebbe fatto senza Ray a sostenerla e a scrollarla?
Le veniva da piangere e si rifugiò nel corridoio buio appena fuori dal salotto ghermito. Delle ombre proiettate sulle pareti a vetro dello studio del padre la fecero spaventare e incuriosire e Melanie si avvicinò in silenzio.
«Wood ha fatto il grande colpo, eh?» disse proprio in quel momento una voce maschile da dento lo studio.
Melanie si arrestò di colpo, la mano stretta sulla maniglia della porta e il cuore in gola per lo spavento. Sapeva che sarebbe dovuta rimanere in salone e che origliare una conversazione privata era quanto di più irrispettoso possibile, ma non poteva semplicemente fingere di non aver sentito il nome di suo padre o, peggio ancora, passare da lì come se niente fosse e interromperli. Perciò appoggiò la mano inguantata sul pannello di legno della porta e trattenne il fiato, le orecchie e l’intero corpo teso al massimo.
«Ho sentito che le sue Quotazioni sono aumentate di almeno il 60% dall’attentato di Ran. » commentò una seconda voce. Melanie sentì il tintinnio di un bicchiere di vetro che veniva poggiato sulla credenza e un grugnito insoddisfatto «Vecchio speculatore. Dicono che abbia Quotato sul decesso di Mortimer Bing e che stia premendo per avere il suo posto alla Sede di Controllo. Questa esplosione gli ha fatto comodo per togliere di mezzo un bel po’ di gente indesiderata»
«Sarei tentata a dire che ha organizzato lui stesso l’esplosione!» rise una donna. Melanie cercò di sporgersi più in avanti per identificarli e sfruttando il riflesso della specchiera, distinse il signor Richard Manning e quella giovane donna che le aveva fatto i complimenti per il suo vestito. Il terzo uomo era di spalle, ma non le sembrava nessuno di conosciuto.
«Non mi sorprenderebbe» disse l’uomo a cui Melanie non era riuscita a dare un volto o un nome «Peccato che le figlie non sembrino aver ereditato da lui l’intelligenza. La maggiore sta per sposare lo Scandalo dell’Ovest e nemmeno ne è al corrente.»
Ci fu una breve pausa in cui l’uomo si appoggiò sull’ampia scrivania e sfregò fra di loro le mani grandi «Oppure è tutta una finta e quella ragazza ci sta mettendo tutti nel sacco. D’altra parte, anche se il partito non è dei migliori, il suo futuro sposo ha abbastanza soldi da accontentare il suo insaziabile paparino»
Melanie fremette al suo posto, immobilizzandosi subito dopo.
Cosa significava quello che aveva appena sentito?
«Killian, ti prego» intervenne Richard Manning, passeggiando con lentezza per lo studio e osservando con fredda curiosità la collezione di alcolici del padre di Melanie «Lascia
quella povera ragazza fuori dalle tue macchinazioni. È più che probabile che non sappia di Colin e che non abbia pensato al vero motivo per cui un uomo tanto ricco abbia accettato di sposare proprio lei, di finanze così limitate.»
«Mi fa pena, in un certo senso» esclamò dopo un po’ la donna, abbandonandosi sul divano dello studio in una posa languida e voluttuosa. Si stese su un fianco e resse la testa con una mano ornata da preziosi e fili d’oro «La sua reputazione non potrebbe essere più a rischio e la sua festa di fidanzamento si è appena trasformata in un dibattito politico»
Richard Manning interruppe la sua camminata proprio davanti alla porta. Melanie si appiattì ancora di più contro la parete, timorosa di quello che avrebbe sentito e sconvolta per quello che aveva già appreso. In effetti si, si era chiesto perché la sua famiglia, che godeva di buon nome e lignaggio ma era povera in canna, fosse riuscita a stipulare un contratto matrimoniale con un uomo ricco come Colin.
Che poi, cosa sapeva di Colin? Non l’aveva mai visto prima del loro fidanzamento e persino il suo nome le era estraneo.
«Mio fratello potrebbe…» Richard fece una pausa e un gesto veloce con la mano. Melanie si sporse quasi completamente verso la porta, impaziente di sentire il continuo. Ma Richard Manning sembrava aver rinunciato a finire la frase e si era accomodato accanto alla donna. Quella aveva contratto il busto e aveva preso ad accarezzargli il braccio con le dita sottili e eleganti. Aveva una espressione in viso che Melanie non aveva mai visto prima, un misto di aspettativa e maliziosa consapevolezza, e le sue mani erano salite a massaggiare la schiena di Manning con ampi movimenti circolari.
«Non pensarci ora, mio caro. Lascia quel bastardo e la sua ingenua promessa sposa alle loro miserabili vite, non c’è nulla di cui preoccuparsi…»
Melanie avrebbe voluto entrare prepotentemente nello studio e urlare a Richard Manning di dirle tutto quello che c’era da sapere su Colin, sul perché lo avessero definito lo Scandalo dell’Ovest e su cosa avrebbe dovuto fare.
Il terzo elemento della compagnia, che era rimasto in silenzio nell’ultima parte della loro discussione, aveva selezionato dal kool del padre di Melanie una bottiglia di una qualche indefinita bevanda alcolica e la stava sorseggiando da uno dei bicchieri di vetro della credenza.
Richard Manning e la sua amica si stavano baciando e Melanie non riuscì a scostarsi dall’immagine dei loro corpi uniti e schiacciati l’uno sull’altro. Lei non aveva mai baciato nessuno, se si poteva escludere il terribile tentativo di dichiararsi a Ray, conclusosi con le braccia dell’amico che la allontanavano gentilmente e le lacrime che le scendevano copiose per l’umiliazione, e si ritrovò a fissare le labbra dei due muoversi in sincrono con una curiosità morbosa. Si sentiva strana al pensiero e si strinse le braccia al petto, con uno strano languore che le si dilagava dentro.
Non  avrebbe dovuto essere lì, affatto.
Ma, se poteva giustificare il suo rimanere lì ad ascoltare i discorsi di quei tre con l’interesse di capire qualcosa di più sulla sua situazione familiare e su Colin, ora si trovava a corto di scuse e davvero non  riusciva a comprendere perché quel bacio la sconvolgesse tanto.
Forse perché ne vuoi uno anche tu.
Richard Manning non era affatto bello e a Melanie non piaceva molto esteticamente, troppo scuro di carnagione e di capelli –lei che sognava un uomo dai capelli biondi e gli occhi azzurri-, ma poi lui fece una cosa strana con la bocca. La aprì piana sul collo della donna che stava baciando e Melanie poté scorgere i muscoli di lei tendersi tutti e i respiri di entrambi farsi più affannosi. Melanie si sentì strana, inadatta, sbagliata e estremamente…
«Buonasera»
Melanie sobbalzò e lasciò la presa sulla maniglia della porta.
La voce non veniva dallo studio e l’ombra che le incombeva addosso non era un riflesso dovuto alla luce, ma una vera persona –un uomo- che le stava a pochi passi di distanza, appoggiato al muro con le braccia incrociate e una espressione saputa in viso.
Melanie arrossì per l’imbarazzo: essere sorpresa ad origliare così, in casa sua, durante la sua festa di fidanzamento.
L’uomo si staccò dal muro continuando a sorriderle e, quando le fu ancora più vicino, Melanie si accorse che era davvero alto. Più di lei, che pure superava di mezza spanna il padre e raggiungeva quasi Ray.
«Buonasera signore» balbettò, allontanandosi dalla porta dello studio e dalle figure intrecciate che essa nascondeva. Voleva tornare in salotto e fingere che non fosse successo nulla ma si ritrovava nuovamente bloccata in quel corridoio. Prese a tormentarsi le mani e a giocherellare con uno dei veli del vestito, evitando di incontrare lo sguardo dello sconosciuto.
«Mi dispiace di averla spaventata, signorina. Penserà che sono stato un maleducato a non farvi notare sin da subito la mia presenza, ma sono nuovo a queste riunioni e non sapevo come comportarmi» disse, facendole un cenno con la testa.
Il vestito da Governatore non gli stava affatto bene.
La giacca era stretta sulle spalle e in vita, come se si fosse ristretta, i pantaloni non scendevano dritti come avrebbero dovuto e anche la camicia bianca era piuttosto stropicciata. E le scarpe! Melanie si sorprese che sua madre non lo avesse bloccato all’ingresso con quelle vecchie calzature da Produttore ai piedi. In effetti, non sembrava per niente un Governante.
«Oh, non si preoccupi. Io… io mi ero solo allontanata un po’ dal salone. Tutte quelle discussioni… non fanno per me» Melanie scosse la testa e gli fece un cenno con il braccio, invitandolo a seguirla per il corridoio principale, verso l’ingresso «Mio padre è un grande sostenitore del Governo Manning» aggiunse poi, senza nemmeno sapere perché. Come sempre, quando si trattava di politica, tendeva a restare sul sicuro.
Lui non disse nulla per qualche istante ma Melanie lo scorse serrare la mascella e far scorrere gli occhi sul corridoio buio. Le fece un cenno con la mano, come ad invitarla a precederlo.
Melanie non si sentiva molto a suo agio ma gli fece strada.
«E voi?» chiese all’improvviso lui, mentre stavano girando l’angolo e imboccavano il corridoio principale «Cosa ne pensate voi della Postilla sul Controllo?»
«Oh, non saprei. Non mi intendo molto di politica. E in più ripongo una grande fiducia nei nostri Governanti» disse lei, piegando la testa e recitando la solita risposta che sembrava soddisfacere ogni uomo con cui aveva mai parlato.
«Non dovreste, invece» il viso di lui si era indurito improvvisamente «E’ l’ignoranza e l’indolenza della popolazione che permettono ai nostri amati Governanti di decidere il nostro futuro senza interpellarci»
Continuarono a camminare in silenzio fino all’ingresso e Melanie non riuscì ad eleminare quel senso di inadeguatezza che le era montato su all’improvviso: era indispettito e Melanie non sapeva cosa dire per rimediare. Avrebbe potuto semplicemente fare un piccolo inchino e tornare in salotto, lasciar correre, ma c’era qualcosa che le impediva di ignorare quello che era appena successo. Avrebbe voluto che lui la guardasse di nuovo con quel sorriso gentile che aveva avuto all’inizio.
«Perdonatemi, signore» disse alla fine «Non volevo farvi arrabbiare»
Lo sguardo dello sconosciuto, fisso sulla sua gonna di tulle, si addolcì di colpo. Scosse leggermente la testa, come a liberarsi di un brutto pensiero e sollevò il capo verso di lei.
Ora che erano davanti alla porta di casa e l’illuminazione era maggiore, Melanie poté scorgere i suoi lineamenti con più distinzione. Era più giovane di quanto avesse immaginato ma era comunque abbastanza più grande di lei, sull’età di Colin. Quando sorrideva, però, il suo viso si rilassava a tal punto da fargli perdere qualche anno.
«Oh, perdonatemi voi signorina. Come ho già detto non so bene come comportarmi in queste situazioni. Credo di aver esagerato»
Melanie annuì, combattuta fra il rimanere ancora lì e il tornare subito in salotto.
Se riusciva a concentrarsi sentiva ancora l’eco di voci che discutevano e questo non la invogliava enormemente a seguire la prima opzione. Ma d’altra parte rimanere da sola, appartata, con un uomo che non era il suo fidanzato ad una settimana dal suo matrimonio era decisamente sconveniente. Sospirò profondamente, rompendo il silenzio che si era creato, e lui sembrò accorgersene perché risollevò di nuovo il capo –era tornato a fissare la sua gonna come ipnotizzato e il rumore lo aveva colto di sorpresa-.
«Bene, credo che sia il caso di…» iniziò, nello stesso momento in cui lui apriva di nuovo bocca.
«Non mi avete detto cosa ne pensate, alla fine»
«Le ho detto che mio padre è un forte sostenit... »
«Non mi interessa di suo padre. Le ho chiesto cosa ne pensa lei» la interruppe lui, senza nemmeno farla finire. Dopo aver parlato si grattò la nuca con una strana espressione, quasi in imbarazzo, e rendendosi conto di non essere stato proprio cortese aggiunse «Se non le dispiace, signorina»
«Io… io gliel’ho detto, non me ne intendo di politica, affatto. Ma immagino che questa legge abbia lo stesso valore di quella che obbliga al matrimonio e all’avere figli» la voce le uscì piatta e secca, senza alcuna delle sfumature che avrebbe voluto imprimere.
«Questo è… esattamente quello che penso anche io» lui sorrise, e Melanie non fu più sicura di aver detto la cosa giusta.
«E quale è il vostro pensiero in merito?» chiese, incapace di fermare la conversazione e desiderosa di distogliere l’attenzione dalle sue osservazioni.
Lui la guardò di sottecchi, fermandosi sul pianerottolo e sorridendole indulgente, quasi come un padre affettuoso davanti all’ennesima marachella della adorata figlia.
«Il mio pensiero in merito a questa faccenda, signorina… o, al diavolo, posso chiamarti Melanie?» parlava con tanto ardore che Melanie gli avrebbe risposto di si anche se l’avesse voluta chiamare prostituta «Bene, Melanie. Il mio pensiero in merito a questo è lo stesso pensiero che porto avanti da anni. Conoscere qualcosa è avere del potere sulla stessa. Affidare la conoscenza solo ad un limitato gruppo di persone è sbagliato, così come lo è monitorare dei ragazzini in attesa che facciano qualcosa di sbagliato»
Melanie boccheggiò abbastanza confusa. Se, fino a quel momento, pur avendo avvertito una scarica di adrenalina e di inadeguatezza, il discorso era stato sostenibile per lei… ora era completamente fuori controllo.
Quello era tradimento.
Quell’uomo stava andando contro il Governo, apertamente, e senza preoccuparsi delle conseguenze. Doveva allontanarsi il primo possibile.
«Va di molto contro il pensiero del Governatore Manning- disse, mentre si avvicinava impercettibilmente al corridoio per il soggiorno. Cercò di distrarlo con altre domande mentre guadagnava una veloce via di fuga «Non è spaventato che possa causarle problemi con la Giustizia?»
«Non siamo noi a dover temere il Governo. È il Governo a dover temere noi» si strinse nelle spalle lui, che sembrava aver capito il suo tentativo di allontanarsi e sorrideva.
«Questo ragionamento non le sarà molto utile quando le punteranno un fucile alla tempia per altro tradimento» Melanie si morse la lingua prima ancora di finire la frase.
E da dove le era uscita fuori quella? A furia di frequentare Ray aveva finito per prendere alcune delle sue cattive maniere? Quella serata era stata così terribilmente imbarazzante e stressante, come l’intera storia del matrimonio, da spingerla a fare l’impertinente?
Lui, fortunatamente, sembrò divertito e piacevolmente stupito.
«Oh, di quello non mi preoccupo. So bene come difendermi» il suo sorriso brillò nel buio e Melanie lo vide scostarsi la giacca dal fianco, facendo intravedere il manico di una pistola.
Sobbalzò e indietreggiò spaventata, mentre lui si riaggiustava la falda dello smoking e sistemava i polsini della camicia con aria indifferente.
«Ah, sei qui» disse un’altra voce e, per la seconda volta in quella lunga serata, Melanie si ritrovò a sobbalzare. Questa volta era un viso conosciuto: il Governante del Partito Popolare che aveva aperto la discussione con il signor Lee. Melanie scattò verso il corridoio che portava in salone, lo stesso da dove veniva il nuovo arrivato, appoggiando la mano alla parete della stanza, quasi a cercare sostegno.
«Buonasera» la salutò lui, chinando rispettosamente la testa, prendendole la mano libera e scuotendola. Era un gesto da Produttori –di solito i Governatori si limitavano a sfiorare le dita o, la maggior parte delle volte, a sfiorare la guancia sinistra con le labbra- e Melanie si sentì arrossire per quel contatto inaspettato «Governante Kensington al suo servizio, signorina. Stavo cercando il mio amico, preoccupato che si fosse annoiato, ma immagino che la vostra compagnia sia quanto di migliore questa festa possa offrire»
Melanie fece un cenno educato con il capo, rispondendo al suo sorriso gentile.
Kensington si rivolse poi al suo amico –Melanie collegò solo in quel momento che doveva essere il Guerriero posto a sua sorveglianza a cui aveva accennato sua sorella- e la sua espressione si fece nuovamente tesa «Dobbiamo andare. La machines è pronta?»
«Ci aspetta qui fuori» disse lui, senza alcuna traccia dell’ironia che aveva usato per parlare con lei. Kensington accolse la notizia con le labbra strette e salutò Melanie con modi cortesi.
Aprì la porta e scese i gradini del portico a due a due.
Melanie sapeva che era ora di tornare dai suoi invitati. Era scomparsa per troppo tempo e  suo padre l’avrebbe uccisa, ma si costrinse a distogliere lo sguardo dal giardino illuminato dalla luna. Avrebbe voluto andarsene anche lei, evitare gli occhi di tutti quegli sconosciuti, non vedere più Colin e suo padre.
«Immagino allora di doverla salutare» disse, alla fine.
Fece un inchino a cui lui non rispose e si voltò per raggiungere la festa.
«Venerdì pomeriggio» esclamò lui, però «In piazza Cyhna. Organizziamo un convegno. Sulla Postilla 14, su questo Governo. Sulla legge del matrimonio. Potreste… potresti venire»
Melanie abbassò lo sguardo sulla mano di lui, stretta sul suo polso. Sentiva una piacevole sensazione di calore e sentiva che… che si sarebbe dovuta allontanare prima che qualcuno la vedesse in quelle condizioni. Anche solo pensare, prendere in considerazione, di partecipare ad una simile iniziativa –dubitava persino che fosse legale!- era da irresponsabili. Da pazzi.
«Io… io ci proverò»
Lui le sorrise di nuovo, mentre il rumore di una machines diventava sempre più vicina. In breve potettero distinguere il profilo del mezzo di trasporto nero e della testa del Governante Kensington alla guida. Stava evidentemente aspettando che il suo amico si sbrigasse, ma Melanie aveva bisogno di sapere un’ultima cosa prima che se ne andasse.
Glielo chiese quando lui era ormai sul portico e stava scendendo la piccola scalinata.
«Aspetta! Non so come ti chiami!» urlò, sentendosi patetica e rabbrividendo per il vento freddo che entrava dalla porta spalancata. Si strinse le braccia al petto, infreddolita.
«Novan» gridò lui di rimando, girandosi per sorriderle un’ultima volta «Jared Novan. Ricorda, Venerdì alle 16:oo! Ti aspettiamo!»
Melanie si chiuse la porta alle spalle prima ancora che la macchina abbandonasse il vialetto. Si appoggiò con la schiena contro il pannello di legno, tormentandosi le mani in grembo. Sentiva ancora la stretta di lui sul suo polso e il leggero capogiro che era conseguito ad aver fatto la più grande sciocchezza della sua vita.
Come le era venuto in mente di accettare una proposta del genere? Lei, ad un convegno di sbandati e sbarellati del Partito Popolare? Ma per piacere.
Fece il suo ritorno in salone dove la polemica si era calmata, ormai, ma quasi nessuno sembrava essere intenzionato a perdonare la sua piccola assenza. Sua madre e sua sorella le furono subito intorno, concitate, e suo padre le scoccò uno sguardo di biasimo dall’altra parte della stanza. Katerina, invece, si limitò a sorridere sbilenca.
Jared Novan in piazza Cyhna, venerdì alle 16:00.
Jared. Novan.
Venerdì alle 16:00. Piazza Cyhna.
Jared. Novan.

 

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