Inganni

di serenestelle3
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cambio di programma ***
Capitolo 2: *** Il tesoro perduto di Gelone ***
Capitolo 3: *** Le camurrìe sono come le ciliegie ***
Capitolo 4: *** Il passato che riaffiora ***
Capitolo 5: *** Comitato di benvenuto ***



Capitolo 1
*** Cambio di programma ***


I – Cambio di programma.

 

“Devo parlare con il signor Barone, è urgente.”

“Mi dispiace, signor Landucci”, rispose una voce femminile al capo opposto del telefono. “Il signor Barone in questo momento è occupato sull’altra linea. La metto in attesa?”

“Sì… sarà meglio. Grazie”, borbottò l’uomo, asciugandosi la fronte con un fazzolettino. Sulla scrivania davanti a lui c’erano alcuni documenti che l’uomo continuava a sfogliare nervosamente.

Ci mancava solo quello, pensò con un sospiro sconsolato.

Fece scorrere lo sguardo sull’elenco di nomi che aveva di fronte, muovendo le labbra in silenzio. Secondo la loro rete di informatori, c’erano discrete possibilità che almeno quattro delle persone indicate cambiassero nome una volta atterrati a Parigi, e poi una seconda volta allo scalo di Fiumicino.

Prevedibile, rifletté accigliato Landucci. Persino ingenuo… se non avesse saputo con chi aveva a che fare.

Gli informatori avevano raccolto ogni genere di informazioni sul loro conto, e gliele avevano trasmesse insieme ai documenti che trasformavano una serie di coincidenze in qualcosa di molto più sinistro. A  quanto pareva, quel mix di improvvisazione e prevedibilità era una specie di marchio di fabbrica. Un buon motivo in più per stare all’erta. Per il quinto uomo invece non ci sarebbero stati problemi… sebbene Landucci avesse imparato da tempo che non si poteva mai dire, con quelli fra i piedi.

Si passò una mano fra i radi capelli d’argento e imprecò sommessamente. Aveva una pessima sensazione riguardo a tutta quella faccenda. C’erano già abbastanza cose che sarebbero potute andare storte, e ora, come se non bastasse…

Lo squillo del telefono interruppe bruscamente i suoi pensieri.

“Sì?”

“Il signor Barone la vuole nel suo ufficio, signore”, lo informò la stessa segretaria che aveva risposto pochi istanti prima.

“Cosa? Le ha spiegato il motivo?”

“Davvero non saprei, signore. Ha detto solo che vuole vederla.”

Innervosito, Landucci si strinse il nodo della cravatta; un gesto che faceva sempre quando aveva i nervi a fior di pelle. “Io… d’accordo, gli dica che sarò subito da lui.”

 



All’ultimo piano di un’elegante palazzina di ultima generazione, un uomo alto e sottile era in piedi davanti a una vetrata che si affacciava sul centro di Montelusa. Aveva il telefono all’orecchio, e ogni tanto assentiva sommessamente, mentre il suo sguardo vagava con aria indifferente sui tetti illuminati dal sole.

Doveva essere più vicino ai sessanta che ai cinquanta, ma se li portava bene, con qualche ruga sottile a rendere interessante un volto dai lineamenti regolari e affilati. Aveva i capelli bianchi lisciati all’indietro e occhi grigi e freddi come un cielo invernale. Indossava un elegante completo color avorio che sembrava uscito da una sartoria di lusso; e di lusso erano il fermacravatta cromato, la scrivania di metallo alle sue spalle e l’ufficio arredato sobriamente, ma non senza eleganza.

Riccardo Barone era un uomo abituato a prendersi il meglio che la vita gli offriva, indipendentemente dal prezzo.

“Ricapitolando, avvocato… in pratica da me lei vorrebbe un lasciapassare, giusto?”, chiese, interrompendo il flusso continuo di parole dall’altra parte del telefono.

“Esattamente, illustrissimo.”

“E mi garantisce che non ci saranno imprevisti di nessun genere?”

“Ma quali imprevisti! Gliel’ho detto, si tratta soltanto di una sciocchezzuola… una faccenda di poco conto…”

Sul volto di Barone balenò un sorriso crudele.

“Allora va bene, mettiamo pure fine a questa faccenda di poco conto. Tranquillizzi i suoi assistiti che da parte mia non ci saranno problemi.”

“Ero certo che sarebbe stato d’accordo, signor Barone. E’ sempre un piacere discutere di affari con un gentiluomo come lei.”

“Sì, è lo stesso anche per me. Senta, avvocato, so che è questo è il suo orario d'ufficio, quindi non la trattengo.”

“In effetti ho delle altre pratiche da sbrigare…”

“Allora siamo in due. A risentirla, avvocato”, concluse Barone, riattaccando il telefono.

Fino a quel momento era riuscito a restare serio, ma adesso non riuscì a trattenere una risata beffarda. Aspettava quella telefonata da una settimana; evidentemente gli assistiti dell’avvocatosi erano a lungo interpellati sul da farsi prima di decidere che la cosa migliore era uscire allo scoperto. Nel sottobosco malavitoso la cosca di Barone guadagnava sempre più terreno, e adesso che i clan vigatesi si erano fatti vivi, be’… era arrivato il momento di elaborare una nuova strategia finanziaria.

Sorridendo, alzò di nuovo la cornetta del telefono.

“Angela, dì a Landucci che lo voglio nel mio ufficio tra cinque minuti.”

“Sì, signor Barone.”

Poco dopo, il suo braccio destro era di fronte a lui. Dal modo come evitava il suo sguardo e dal tic all’angolo dell’occhio sinistro, Barone capì che era preoccupato da qualcosa.

“Che c’è, Lorenzo? Era la notizia che ci aspettavamo, no?”

“Sì… immagino di sì.”

“E allora perché sei così nervoso?” Conoscendolo, si sarebbe aspettato che facesse i salti di gioia.

“Veramente… si tratta di questo.” E senza tanti complimenti, Landucci schiaffò la pila di documenti sul piano della sua scrivania, come se bruciasse. Barone guardò incuriosito i fogli che il suo vice gli porgeva.

“Che roba è?”

“Lo legga”, lo incitò l’altro. “E’ dai nostri corrispondenti a Tokyo. Una grana.”

Il boss prese i fogli e cominciò a scorrerli con lo sguardo. A un certo punto inarcò le sopracciglia scure, ma rimase in silenzio, mentre leggeva i dati che gli informatori avevano raccolto e le conclusioni a cui erano giunti. Esaminò i fascicoli a uno a uno; Landucci riusciva quasi a sentire le rotelle muoversi nel suo cervello.

“Sono affiliati con qualcuno, al momento?”, mormorò distrattamente.

“Sembrerebbe di no.”

“Sicuro? Quelli della mafia di Chicago? La Yakuza?”

“Per quanto ne so, niente di attuale”, rispose Landucci.

“Il Milieu, allora?”

“Solo qualche conoscenza occasionale.”

“E la donna? Vedo che non si è fatta mancare nulla.”

“Sì, ma è un cane sciolto anche lei. Nessuna lealtà… tranne che a sé stessa.”

“Nessuna lealtà…”, ripeté Barone, continuando a leggere. Le sue labbra si tesero in un ghigno. “E quindi… non c’è nessuno che potrebbe aversela a male se durante il viaggio, diciamo, capitasse un incidente.”

Sollevò la cornetta del telefono e premette un pulsante, dopo aver fatto cenno a Landucci di tacere.

“Avvocato? Mi scusi, sono ancora io. C’è stato un piccolo… cambio di programma.”

“Sarebbe a dire?” La voce dell’uomo dall’altro capo sembrava sinceramente stupita.

“Ha presente la persona di cui abbiamo parlato poc’anzi? Ecco, vorremmo che sbrigasse una certa faccenda per noi, approfittando del suo soggiorno a Montelusa.”

Dall’altra parte della linea ci fu un momento di silenzio.

“Capisco”, mormorò alla fine l’avvocato.

“Allora, se per i suoi assistiti non c’è problema, manderemo un nostro incaricato a prelevarlo all’aeroporto di Trapani.”

“Signor Barone, lei capisce che devo attenermi…”

“Ma certo”, replicò Barone, incoraggiante. “Parli con i suoi assistiti e spieghi loro che sono sopraggiunte delle difficoltà facilmente appianabili. Sono certo che vorranno accettare la mia piccola condizione.”

“Posso sapere almeno di che si tratta?”

“Temo che questi siano affari riservati, avvocato. Lei conosce certamente il termine segreto aziendale”, concluse il boss, ridendo. “Non si preoccupi a mettersi in contatto con me. La richiamo io fra…”, lanciò un’occhiata all’orologio, “un’ora e mezza?”

“Vedrò di fare il possibile”, sospirò l’avvocato. “Però non posso garantirle…”

“Certo che può, avvocato. Non mi deluda. I suoi assistiti non la ringrazierebbero, se io dovessi… ritrattare l’offerta del lasciapassare per il vostro uomo. Arrivederci.”

Landucci era impallidito sempre più, man mano che la conversazione continuava. Appena Barone mise giù la cornetta, trovò la forza di chiedere;

“Signore… è davvero sicuro che sia una buona idea tirare dentro i vigatesi?”

“Ci sono già dentro, se vogliono mettersi in affari con me”, tagliò corto Barone seccamente. “Forse ci costerà un po’ più del previsto, ma possiamo permettercelo. Ti farò sapere la tariffa non appena avrò la conferma da Guttadauro.”

“E se quelli non volessero collaborare, signore?”

“Collaboreranno, Lorenzo. C’è molto più di questa stupida faccenda, in ballo”, lo rassicurò Barone, sprofondando nella sua poltrona e voltandosi a contemplare il paesaggio.

“Capisco”, rispose Landucci, poco convinto. “Allora vado a sistemare i conteggi.”

Stava già per uscire, quando la voce di Barone lo richiamò imperiosamente.

“Ah, Lorenzo?”

“Sì, signore?”

Barone ruotò la sedia e alzò lo sguardo su  di lui. Sorrideva divertito, ma l’espressione nei suoi occhi era così gelida che Landucci sentì le gambe diventargli di ricotta.

“C’è ancora quella faccenda in sospeso di tua figlia da chiarire. Chiudi la porta, Lorenzo.”

Con l’aria di un condannato a morte, il suo vice obbedì. “Sì… signore.”
 

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Capitolo 2
*** Il tesoro perduto di Gelone ***


II – Il tesoro perduto di Gelone.

 

Una settimana prima

 

“Ma quanto ci mette Jigen a tornare?”, sbuffò Lupin.

Nell’ultimo quarto d’ora, il ladro gentiluomo non aveva smesso un attimo di aggirarsi come un’anima in pena intorno a un tavolo ricoperto di scartoffie. Goemon, seduto a gambe incrociate poco più in là, per contrasto sembrava persino più immobile del solito.

Lo fa apposta, per farmi innervosire!, ripeteva sempre Lupin, che al contrario non riusciva mai a stare fermo. Soprattutto quando c’era da organizzare un furto… figuriamoci poi un furto di quella portata, che avrebbe consegnato per sempre i loro nomi all’immortalità e alla gloria.

“Se sapevi che avrebbero potuto esserci delle difficoltà, perché hai insistito tanto per un aereo di linea?”, chiese finalmente il samurai.

“Perché è più sicuro, Goemon. Ci saranno un mucchio di controlli su tutti i voli; in fondo stiamo parlando di un evento di risonanza internazionale! Credimi, meno attiriamo l’attenzione e meglio è.”

“Allora ci sarà da ridere”, osservò una voce beffarda alle spalle di Lupin. Il ladro si voltò e vide Jigen, appoggiato a braccia conserte allo stipite della porta. Come al solito, aveva l’aria indifferente e rilassata di chi si trovi a passare per caso.

“Jigen, finalmente! Cominciavo a preoccuparmi! Hai preso le nostre prenotazioni?”

“Eccole”, grugnì Jigen, estraendo tre biglietti aereo e porgendoli all’amico. “E non cambiare discorso, Lupin. Stavolta ci vorrà un miracolo per passare inosservati.”

“Ma dai, Jigen, chi sospetterebbe di una filantropa miliardaria settantenne che viaggia in compagnia delle sue guardie del corpo?”, ribatté Lupin.

“E’ proprio quello il punto. Le miliardarie attirano l’attenzione.”

“Anche se sono vecchie e in carrozzella?”

Soprattutto se sono vecchie e in carrozzella.”

“Perfetto!”, saltò su Lupin, entusiasta. “Allora è proprio il travestimento che ci occorre!”

Jigen rimase letteralmente di sasso; persino Goemon si voltò verso Lupin con l’aria di non credere alle sue orecchie.

“Sei impazzito?”

“Ma se hai appena finito di dire…”, sbottò Jigen.

“Tranquilli, ragazzi, adesso vi spiego”, fece Lupin, agitando le mani per zittirli. “Conoscete il celebre trucco del gioco delle tre carte? Si dirige l’attenzione dello spettatore sulla carta sbagliata, facendogli credere che sia quella giusta. Noi faremo lo stesso con papino Zenigata e con la polizia."

“Io continuo a non capire”, disse Jigen, grattandosi pensosamente la testa. “Cosa c’entra tutto questo con il travestimento che hai escogitato?”

Per tutta risposta, Lupin indicò uno dei giornali spalancati sul tavolo. La prima pagina era interamente dedicata alla notizia che negli ultimi giorni era sulla bocca di tutti; a pochi chilometri dalla Valle dei Templi, in Sicilia, un gruppo di archeologi aveva portato alla luce una catacomba piena di armi, gioielli e oggetti preziosi risalenti al periodo ellenico, che si diceva fossero appartenuti al Tiranno di Siracusa. La scoperta, ribattezzata dai mass-media “il tesoro perduto di Gelone”, aveva rapidamente fatto il giro del mondo. Si diceva che fosse il più grande ritrovamento archeologico dai tempi della tomba di Tutankhamon, e da tutto il mondo stava arrivando a Montelusa gente curiosa di fotografare gli scavi e i preziosi reperti, alcuni dei quali avrebbero avuto un posto d’onore nel museo locale, mentre altri sarebbero stati trasportati a Gela e a Siracusa.

Non appena Lupin aveva letto del ritrovamento, le rotelle nel suo cervello si erano messe in moto, alla ricerca di un modo per intercettare il tesoro prima che lasciasse Montelusa. Sarebbe stato un colpo da maestro, considerata la straordinaria portata del bottino e soprattutto il brevissimo preavviso con cui i tre ladri si erano dovuti muovere.

“Jigen, questa storia del tesoro di Gelone è una faccenda enorme. Zazzà si aspetta senz’altro che cerchiamo di raggiungere l’Italia, e probabilmente crede che il modo più sicuro per fargliela sotto il naso sia spacciarci per dei semplici turisti. Ecco perché ho scelto un travestimento un po’ vistoso, una vedova che viaggia con il suo entourage ed è abbastanza ricca da infischiarsene di quello che succede in Italia.”

Jigen non disse nulla, limitandosi a fargli cenno col capo di continuare.

“Una volta a Parigi facciamo ritrovare da qualche parte la carrozzella, simulando un’aggressione a scopo di furto. A quel punto la polizia avrà un mistero per le mani, e noi tre ce ne andremo in Italia vestiti da tranquilli uomini d’affari”, concluse Lupin.

“D’accordo”, annuì brevemente Jigen. “Perché proprio uomini d’affari?”

“Be’, amico, questa scoperta archeologica ha puntato i riflettori di tutto il mondo su Montelusa. Niente di più facile che dei finanziatori vogliano investire sulle imprese di quella zona, no?”

“Già, certo. Fujiko dove si è cacciata?”

“Fujiko? Oh, è all’estero per lavoro!”, rispose Lupin, nascondendosi dietro al giornale per sembrare disinvolto. Si aspettava quella domanda, naturalmente; il fatto è che non aveva ancora pensato a un modo per dire la verità a Jigen e a Goemon senza doversi sorbire le loro solite filippiche.

“Be’, pensavo peggio. Almeno stavolta non ce la ritroveremo fra i piedi”, fece Jigen, un po’ più tranquillo. Ma Goemon, insospettito dalla velocità con cui Lupin aveva risposto e ancor di più dal suo tono innocente, socchiuse le palpebre e lo scrutò con severità.

“Quando dici che è all’estero”, gli fece eco freddamente, “vuoi dire…”

Eccoci, pensò Lupin, sentendosi perso. Ma dovevo proprio scegliermi due soci perspicaci? Anche Jigen infatti lo stava squadrando con una punta di sospetto.

“Ecco… veramente al momento si trova a – ehm – Roma.”

“Cosa?!”, ruggì Jigen.

“… Ragazzi, prima di trarre conclusioni avventate, lasciatemi spiegare un attimino…”

“C’era da aspettarselo”, commentò Goemon, scuotendo il capo con fare paternalistico.

Jigen strappò bruscamente di mano il giornale a Lupin. “Quando pensavi di dircelo, prima o dopo che la tua donna se ne fosse scappata con il tesoro?!”

“Ma come sei cinico!” lo rimbeccò l’altro. “Guarda che stavolta Fujiko ha promesso di aiutarci, e che divideremo il tesoro in parti uguali!”

“… seh”, sbuffò Jigen. “Come se non l’avessi già sentita, questa!”

“Ho paura di scoprire quale sia, il suo concetto di parti uguali!”, rincarò la dose Goemon.

“Voi due siete proprio delle suocere, lasciatevelo dire!”, borbottò disgustato Lupin, riprendendosi il giornale.

“E naturalmente hai pensato bene di mandarla in avanscoperta! Ogni tanto dovresti provare a ragionare con il cervello, Lupin!”

“Non farla tanto lunga! Fujiko ci sta soltanto preparando il campo, ha avuto istruzioni di non fare nient’altro finché non la raggiungiamo!”

“Potevi mandare me o Goemon! Non puoi continuare a fidarti di quella donna! Quante volte ci ha messo nel sacco, da che ti ricordi?”

“Ehm… nelle ultime ventiquattr’ore?”, cercò di cavarsela Lupin. In effetti però Jigen non aveva tutti i torti. Se in quel momento si trovavano a Tokyo, era stato proprio per sfuggire ad alcune infuriatissime spie russe con cui Fujiko aveva immancabilmente fatto il doppio gioco. Dopo innumerevoli peripezie, quelli che avrebbero dovuto essere i loro soci li avevano piantati in asso, squagliandosela con la refurtiva; un dettaglio che Jigen e Goemon non mancavano mai di ricordargli, almeno sessanta volte al giorno.

“Scommetto che quell'intrigante si è già messa in contatto con il Barone”, borbottò Jigen.

Lupin gli rivolse un’occhiata interrogativa.

“Il Barone?”, ripeté. “Chi sarebbe questo Barone, scusa? Credevo che in Italia avessero abolito i titoli nobiliari da un pezzo…”

Jigen esitò un istante, poi sospirò e rispose;

“Riccardo Barone è uno dei nuovi esponenti della criminalità organizzata locale. Fino a un decennio fa erano pesci piccoli, ma il Barone è diverso, è uno che vuole arrivare lontano. Credo che si voglia spartire quella zona con le due famiglie mafiose principali, quella dei Cuffaro e quella dei Sinagra.”

“Come fai a sapere tutte queste cose sulla malavita italiana?”, domandò Lupin, incuriosito.

“Ho imparato a sparare da un ladro italiano, ricordi?”

“No, però credevo che non fossi in contatto con nessuno di quelle parti.”

“Infatti non lo sono. E comunque i Cuffaro e i Sinagra hanno diversi loro uomini anche in America.”

“In parole povere…?”

“In parole povere, mi sono informato sulla gente a cui andremo a pestare i piedi”, rispose Jigen, asciutto. “Perché ti garantisco che quelli avranno già messo gli occhi sul tesoro di Gelone. E adesso che Fujiko è laggiù…”

“Per il momento Fujiko è a Roma, grazie mille!”, lo rimbeccò Lupin.

“Come fai ad esserne sicuro?”, intervenne il samurai, che fino a quel momento era rimasto silenzioso.

“Goemon ha ragione. Non puoi sorvegliare i suoi spostamenti, finché non la raggiungiamo. E per allora lei avrà già avuto tutto il tempo di mettere in moto le pedine giuste. Comunque quella gente ha uomini sparsi un po’ ovunque, nello stivale”, aggiunse Jigen, prima che Lupin potesse protestare. “Non lo so, Lupin. Forse sarebbe meglio lasciar perdere.”

Goemon assentì solennemente. “Ci sono troppe incognite da considerare."

“Ma ragazzi, ormai Fujiko è già partita, ci sta aspettando…”

“Credi che senta la tua mancanza?”, replicò Jigen, beffardo. “Vedrai che lei troverà comunque un modo per guadagnarci, da tutta questa storia.”

“Jigen, non posso lasciarla là tutta sola! E se magari qualcuno si mette a farle la corte? Lo sai che gli italiani sono tutti latin lover!”

“Bah! Uno più, uno meno…”, tagliò corto il pistolero, scrollando le spalle.

A Lupin non restava che giocare il suo asso nella manica.

“Allora preferisci che il tesoro vada tutto a lei e a quel tizio, come si chiama… quel Barone?”, domandò in tono indifferente. “Voglio dire, per me va bene, se a voi ragazzi non interessano le antichità…”

Per qualche istante, alle sue parole seguì un silenzio di gelo. Poi Jigen tirò una lunga boccata dalla sua sigaretta.

“Hai ragione”, annuì seccamente. “Ormai è troppo tardi per tirarci indietro.”

“Andiamo a prenderci la nostra parte”, convenne Goemon, con un luccichio deciso nello sguardo.

Lupin si trattenne a stento dal ghignare. Sapeva che sarebbe riuscito a convincerli a seguirlo in quell’ennesima avventura, a dispetto persino della presenza di Fujiko. Era sempre così; Jigen si lamentava e Goemon si dava delle gran aria di sufficienza, ma poi erano pronti a seguirlo fino in capo al mondo.

Se c'era una cosa su cui Arsenio Lupin III poteva scommettere, era che i suoi amici non lo avrebbero mai lasciato solo.

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Capitolo 3
*** Le camurrìe sono come le ciliegie ***


III – Le camurrìe sono come le ciliegie.
 

Nota dell'autrice; i personaggi di questo capitolo si esprimono nello stile dei romanzi di Camilleri, quindi in italiano contaminato da espressioni dialettali siciliane. Se non siete abituati ai romanzi o non capite qualcosa vi suggerisco la sezione "Il Camilleri-linguaggio" sul sito del Camilleri Fan Club, www.vigata.org
 


Quella mattina, mentre andava in ufficio, Montalbano notò che il traffico era notevolmente aumentato negli ultimi giorni.

In seguito al ritrovamento del fantomatico tesoro perduto di Gelone, sembrava che gli affittacamere e gli albergatori di Montelusa avessero fatto il tutto esaurito. Ai turisti e ai curiosi provenienti da ogni angolo del globo non era rimasta altra scelta che accamparsi nei comuni più vicini, come Vigata e Calascibetta.

Tutto quel trambusto avrebbe normalmente ridotto il commissario fuori dalla grazia di Dio; e invece ottenne l’effetto contrario. Se andavano tutti verso gli scavi archeologiche, significava che la spiaggia sotto casa sua, a Marinella, sarebbe stata relativamente tranquilla per tutto il giorno. La sera, poi, quelle orde di invasori sarebbero state troppo stanche dopo una lunga giornata per gozzovigliare in riva al mare, mentre lui avrebbe potuto godersi la frescura della sera e il rumore della risacca senza tante rotture di cabasisi. Il cielo sgombro di nuvole, unito al mare cristallino e a un venticello leggero che rinfrescava l’aria, avevano il potere di rallegrare il cuore al Commissario.

Scambiò qualche amichevole gestaccio con gli altri automobilisti imbottigliati nel traffico, ma con poca convinzione e un sorrisetto di scuse, come a dire che lo faceva più che altro per abitudine. Nell’ultimo metro di strada si mise persino a canticchiare a bocca chiusa. Smise solo una volta che fu all’altezza del commissariato; non voleva che i suoi colleghi lo credessero impazzito.

Appena mise piede nell’ingresso, vide Catarella correre trafelato verso di lui.

“Ciao, Cataré, che hai?”

“Ah, dottori dottori! Ci sta Fazio di là, chiede di parlare pirsonalmente di pirsona con vossia!”

“A quest’ora?”, chiese sorpreso Montalbano, sentendo svanire di colpo il buonumore che l’aveva accompagnato fin lì. “E che fu? Che successe?”

Catarella allargò le braccia, sconsolato.

“Nun lu sacciu, dottori. Fazio dice che la cercò alla casa sua di lei, ma che siccome lei non si trovava in casa…”

“Hai gana di babbiare, Cataré? Certo che ero in casa!”

Ma poi si ricordò che la sera prima aveva staccato il telefono e si era dimenticato di riattaccarlo. Del resto, aveva un ottimo motivo per isolarsi dal mondo; Adelina gli aveva fatto trovare in frigo i suoi paradisiaci arancini, quei capolavori inenarrabili che la fedele cameriera preparava solo di tanto in tanto secondo una pregiatissima ricetta di famiglia.

“Vabbé”, sospirò il Commissario, rassegnato. “Vado a vedere che vuole Fazio. Senti, Cataré, se mi cercano al telefono, io non ci sono per nessuno, capito?”

“Sissi, dottori”, rispose Catarella, saltando prontamente sull’attenti.

Fazio era seduto dietro la scrivania del suo ufficio, occupato con alcune carte dall’aspetto ufficiale. Al solo vederle, Montalbano si sentì assalire da una violenta orticaria; se c’era una cosa al mondo che odiava, e che probabilmente aveva odiato anche nelle sue vite precedenti – ammesso che ne avesse avute – era proprio dover firmare scartoffie.

“Fazio, ti ci metti anche tu a scassarmi i cabasisi di primo mattino?”, lo apostrofò sgarbatamente, indispettito al pensiero della tortura che lo attendeva se davvero quelle carte erano riservate a lui.

“Mi scusasse, dottore. Ma ho pensato che era meglio se lo sapeva. Aieri a sira mi telefonò un amico della Polizia di Frontiera per contarmi una facenna stramma…”

“E tu contala pure a mia”, fece Montalbano, incrociando le braccia sul petto.

Fazio, che conosceva il carattere del suo superiore, rispose con una domanda.

“Dottore, l’ha sentito che il tesoro del Tiranno…?”

“Sì, andrà in parte al Museo di Montelusa”, ribatté Montalbano, sempre più irritato.

“Fra una simanata e mezzo si terrà l’inaugurazione ufficiale.”

“Lo so. E tu mi telefoni a casa per venirmi a dire queste minchiate?”

“Dottore, aspetti a giudicare. All’inaugurazione capace che sarà presente anche la Sovrintendenza dei Beni Culturali…”

“Capace di sì, Fazio, hanno organizzato loro gli scavi!”

Fazio gli lanciò un’occhiata quasi compassionevole.

“Dottore, davvero non se lo ricorda? Alla Sovrintendenza ci lavora a Nicolò Cuffaro, che è vigatese, figlio di Cuffaro Gerlando, che è uno dei nipoti di…”

“Di Don Sìsìno Cuffaro”, concluse per lui Montalbano. “Fazio, lo so. La cosa non piace neppure a mia, ma che ti posso dire? Finché Nicolò Cuffaro non fa qualche cazzata, noialtri teniamo le mani legate.”

“Dottore, stavolta la cazzata, con rispetto parlando, l’ha fatta accettando di presenziare all’inaugurazione.”

“Non è un crimine, Fazio. Rientra nei suoi doveri di sovrintendente e nei suoi diritti di libero cittadino.”

“Dottore, come le stavo contando, l’amico mio che sta alla Frontiera mi fece avere via fax il passaporto di uno che due giorni fa arrivò all’aereporto di Trapani.”

“Embè?”

“Sempre l’amico mio disse che il nome sul passaporto gli pareva di averlo già sentito. Così mi feci pirsuaso a svolgere qualche ricerca. E la sa una cosa?”

“No”, rispose il Commissario, che a quel punto era sinceramente confuso. Fazio sorrise, come un prestigiatore sul punto di eseguire il più formidabile dei trucchi

“Il passaporto appartiene a un tale Calogero Di Mauro.”

“E chi è?”

“Ho fatto qualche ricerca. Nato a San Paolo, in Brasile…”

“Aspetta. E’ figlio di emigrati?”

“Sissi, dottore. Questo Calogero Di Mauro è un quarantino, non maritato. Ufficiosamente, travaglia come ricercatore universitario in una facoltà di Storia.”

“E ufficialmente?”

“Ufficialmente, è figlio del fu Diego e della fu Antonietta Sinagra”, rispose Fazio, con gli occhi scintillanti.

Montalbano rimase senza fiato. Prima che potesse dire qualcosa, però, Fazio proseguì;

“E c’è di più. Diego Di Mauro, il padre, scappò in Brasile poco dopo che ci fu un’ammazzatina qua da noi, in cui perse la vita la cugina di Don Lillino Cuffaro, il figlio di Don Sisìno.”

“Non me lo ricordo.”

“E certo, dottore, lei ancora a Mascalippa stava”, fece il sottoposto, ridendo di cuore. “Comunque prove non ne trovammo, fatto sta che Diego Di Mauro mollò capra e cavoli e si portò la famiglia al sicuro, lontano dall’Italia e dalla mano di Don Sisìno. Sennonché diversi anni doppo, quando il figlio è decino, Diego Di Mauro muore sparato. Un colpo solo in mezzo agli occhi. Sul catafero ci sono i documenti, i soldi, nulla che faccia pensare a una rapina.”

“Mentre tutto fa pensare a una vendetta organizzata dai Cuffaro,” rifletté Montalbano.

Fazio annuì.

“Quindi questo Calogero cresce, aspetta l’occasione buona per vendicare il padre, e quando sente che  Nicolò Cuffaro lavora alla sovrintendenza di Montelusa, decide di approfittarne. Ha il porto d’armi?”

“Sissi, dottore. Lo prese qualche anno fa, doppo che un pazzo per poco non lo sparò. Quistioni di fimmine.”

“Ti sei informato bene”, si congratulò Montalbano. “Sei riuscito a sapere dove alloggia Di Mauro?”

“A Montelusa, con un vecchio professore amico so’.”

“Fazio, se sta a Montelusa, noi purtroppo in questa faccenna non possiamo entrarci. Anzi, dovremmo passare tutti gli atti alla procura.”

Fazio fece una faccia scura, da due di Novembre.

“Ma io non credo che Calogero agirà all’inaugurazione”, proseguì Montalbano, che ora seguiva il filo dei suoi pensieri. “Secondo me l’ammazzatina a Cuffaro si terrà qua da noi.”

“Babbia?”, domandò incredulo Fazio.

“Assolutamente no. Fazio, a Montelusa ci sta il Barone, ti ricordi?”

Riccardo Barone, un ricco imprenditore del posto, era stato al centro di alcune indagini su un caso di riciclaggio e contrabbando di armi da taglio. Anche se gli inquirenti non erano riusciti a trovare nessuna prova decisiva a suo carico, Montalbano si era persuaso che il Barone avesse agganci con la mafia. E una conferma in tal senso era arrivata più tardi per bocca dell’onorevole Vannicò, storicamente legato alla famiglia dei Sinagra. Se si doveva stare a sentire Vannicò, il Barone non solo era un mafioso lui stesso, ma comandava un clan particolarmente agguerrito, che nel giro di un ventennio aveva triplicato il suo giro d’affari ed esteso il suo raggio d’azione ben oltre i confini della Sicilia.

Montalbano vide che Fazio si illuminava in viso.

“Quindi, dottore, vossia si è fatto persuaso…”

“Bada bene che è solo una mia idea. Se Calogero Di Mauro ammazza Nicolò Cuffaro a Montelusa, o il Barone è stato avvertito prima e ha dato il permesso, oppure per i Sinagra e i Cuffaro sono cazzi amari. Secondo me, Di Mauro chiederà a Nicolò di incontrarlo qua a Vigata.”

“Perché proprio a Vigata, scusi?”

“Perché è territorio delle due famiglie, Fazio”, rispose Montalbano, scoccandogli un’occhiata infastidita. “In questo modo, una volta vendicato a Diego di Mauro, possono far passare la cosa per una vendetta ordita dai Sinagra, mentre l’esecutore materiale è libero di tornarsene in Brasile. E a quel punto, ti saluto e sono. Bih! Che grandissima camurrìa!”

In quel mentre entrò il vice di Montalbano, Mimì Augello. Come al solito era in forma impeccabile, senza un capello fuori posto e con l’aria rilassata di chi ha trascorso la notte sollazzandosi in compagnia femminile. Montalbano gli era sinceramente affezionato, lo considerava allo stregua di un fratello; ma quand’era di cattivo umore – e le scoperte di Fazio avevano cancellato in un lampo la spensieratezza di quel mattino, così come ogni residuo della mangiata di arancini – Mimì aveva il potere di dargli sui nervi come nessun altro, in commissariato.

“Allora, che novità ci sono?”, chiese sorridendo Augello.

“Te lo conta Fazio”, ribatté Montalbano, sgarbato. “Io vado nel mio ufficio.” E uscì senza neppure degnare di un saluto né il suo vice, né Fazio.

“Ma che ho detto di male?”, fece Augello.

Per tutta risposta, Fazio allargò le braccia, come a dire è fatto così.

 



“Domando pirdonanza, dottori.”

“Dimmi, Cataré”, sospirò Montalbano, che era seduto da mezz’ora alla sua scrivania a rimuginare sulla faccenda di Calogero Di Mauro.

“Tilefonarono adesso per lei di pirsona personalmente. E io, come vossia mi disse di fare, gli arrisposi che lei personalmente di persona non c’era.”

“Sei stato bravo, Catarè. Congratulazioni.” Nel pronunciare quelle parole, il Commissario si sforzò di usare un tono il meno sarcastico possibile, il che non era affatto facile.

“Grazii, dottori.”

Catarella sembrava stranamente restio a tornarsene al centralino. La sua esitazione fece squillare un campanello d’allarme nel cervello di Montalbano; magari al telefono c’era Livia,  oppure il Questore Bonetti-Alderighi, con cui Montalbano si era trovato ai ferri corti fin dal primo giorno.

“Ti hanno detto chi erano?”, domandò cautamente.

“Dottori, io mi dubitavo se contarglielo o no”, rispose sollevato Catarella. “Siccome che vossia mi aveva espressamente comandato di dire che in ufficio non …”

“Catarè, posso sapere chi era al telefono o no?!”

“Al tilefono ci stavano i signori Cocchi e Renata che chiedevano di parlari con lei di lei.”

“I signori chi?!”, allibì Montalbano.

“I signori Cocchi e Renata, dottori. Quelli della tilevisioni.”

Montalbano rimase letteralmente di sasso. Vuoi vedere che i pochi neuroni superstiti nel cervello di Catarella avevano deciso di dare forfeit?

“Catarè, ma sei sicuro che hanno detto di chiamarsi proprio così?”

“Cocchi e Renata dissero, dottori! Lo giuro!”

“E che vogliono questi signori?”

“Ci vogliono parlari dei lupi, dottori.”

“Quali lupi?”, chiese il Commissario, sempre più stupito.

“Nun lu sacciu, dottori. Qualichicosa che c’entra il Giappone.”

“Senti, Cataré, vedi se riesci a richiamarli e poi passameli.”

“Ma dottori, vossia mi disse allora allora…”

Subito!”, sbraitò Montalbano, esasperato. Catarella fece un salto di un metro sentendo il suo superiore alzare la voce; fece un inchino ridicolo e si precipitò fuori dall’ufficio, blaterando una profusione di scuse e sproloqui.

Dopo neppure dieci minuti, il telefono sulla scrivania del Commissario si mise a squillare.

“Pronto? Montalbano sono.”

“Buongiorno, Commissario”, rispose una voce maschile e impostata dall’altro capo del telefono. Aveva un marcato accento giapponese, il che poteva spiegare almeno una parte del delirio di Catarella. “Spero di non disturbarla”, proseguì l’uomo, scandendo lentamente le parole come chi non è abituato a esprimersi in una lingua straniera. “Sono l’Ispettore Koichi Zenigata, dell’Interpol.”

L’Interpol? E che vogliono da me?, si chiese stupito Montalbano.

“Mi dica, Ispettore. Posso fare qualcosa per lei?”

“Forse sì. Mi dica, lei ha mai sentito parlare di un ladro chiamato Lupin?”

“Quello dei romanzi di Leblanc?”, azzardò il Commissario, a cui ormai pareva di trovarsi in un film demenziale di quelli dove ti riprendono a tua insaputa.

“No, un suo discendente. Per l’esattezza, si tratta del nipote. Lupin III.”

“Ah, sì, ne ho sentito parlare”, disse Montalbano, accigliato. “Mi pare che abbiano girato persino un paio di film su di lui…”

“Già”, rispose Zenigata in tono tetro. “E hanno fatto collezionare al mio personaggio una serie di figuracce.”

“Ispettore, la capisco, ma che ci vuol fare? Anche su di me hanno girato una serie tv con un attore che neppure mi somiglia…”

Montalbano cercava disperatamente di mostrarsi calmo, ma se quella conversazione surreale non fosse finita subito, sentiva che si sarebbe messo a urlare. Un Ispettore dell’Interpol che gli telefonava in ufficio per parlare di trasposizioni filmiche? Ma quando mai?

“Ad ogni modo”, proseguì Zenigata, dopo qualche istante di silenzio, “la chiamo per un motivo ben specifico. Abbiamo ragione di credere che Lupin abbia lasciato l’ultima sua base accertata, a Tokyo, per raggiungere la provincia di Montelusa e rubare quel tesoro archeologico di cui parlano i giornali. Il tesoro perduto…”

“… di Gelone, sì. Però, mi scusi, perché lo viene a dire a me? Io a Vigata sto, a sei chilometri dalla provincia.” Invano cercò di ricordare se in Giappone si usasse un’altra unità di misura; per fortuna, Zenigata lo trasse d’impaccio.

“Lo so, commissario. Ma uno dei Sovrintendenti alle Antichità che hanno organizzato gli scavi ci risulta appartenere a una famiglia malavitosa che opera principalmente nella sua città. Un certo Nicolò Cuffaro”, disse, pronunciando con evidente difficoltà il nome italiano.

A quelle parole, il povero Montalbano rimase impalato di fronte al telefono come un baccalà.

“Commissario?”, domandò sorpreso Zenigata. “E’ ancora lì?”

“Sì, Ispettore, ci sono. Mi dice una cosa? Ma lei come fa a sapere di Nicolò Cuffaro?”

Dall’altra parte del telefono giunse una risata. “Sappiamo fare il nostro lavoro qui all’Interpol, Commissario.”

“Lo vedo”, ammise Montalbano a denti stretti. In neanche mezz’ora di telefonata, l’Ispettore Zenigata era già riuscito a stargli solennemente sui cabasisi.

“Sospettiamo che Lupin voglia mettersi d’accordo con questo Cuffaro per trafugare il tesoro. Vista la posizione privilegiata di quest’ultimo, far sparire la refurtiva appoggiandosi ai suoi complici di Vigata non sarà difficile.”

“Quindi, lei mi sta chiedendo di tenere d’occhio i movimenti della famiglia Cuffaro?”

“Essenzialmente sì.” Zenigata esitò per un attimo. “Commissario, sarò onesto con lei. Ho dedicato tutta la mia vita a correre dietro a Lupin da un angolo all’altro del globo.”

Cosa dovrei rispondere? Complimenti?, si chiese Montalbano.

“Molto ammirevole da parte sua, Ispettore.”

“Grazie. Sento che questa è la volta buona per arrestarlo, finalmente. Ci tengo molto. Per questo mi sono permesso di chiedere il suo aiuto; lei è piuttosto famoso, qui all’Interpol.”

Ancora una volta, Montalbano restò senza parole. Non era abituato alla popolarità e alla fama; sotto i riflettori Mimì Augello gli dava decisamente dei punti.

“Commissario?”

“Sì, mi dica”, fece lui, riscuotendosi dallo sbalordimento.

“Posso contare sulla sua collaborazione per questa indagine?”

“D’accordo, Ispettore. Faremo tutto il possibile. Mi tolga una curiosità; lei in questo momento da dove sta chiamando?”

“Sono atterrato proprio oggi a Palermo. Mi fermerò in Italia fino all’inaugurazione del tesoro; conoscendo Lupin, cercherà di approfittare della situazione per dare il massimo risalto al colpo.”

“E noi terremo gli occhi aperti. Ispettore, la saluto e la ringrazio per averci voluti informare”, concluse Montalbano. Non appena ebbe riattaccato il telefono, sbraitò; “Fazio! Augello! Subito nel mio ufficio!”

Fazio e Augello entrarono a precipizio.

“Oddio, che fu?”, chiese Mimì, con l’aria di chi aspetta di sentire che è scoppiata una guerra.

“Assittatevi tutti e due, che vi devo contare una cosa”, ordinò Montalbano. “Fazio, hai informato il dottor Augello di Calogero Di Mauro?”

“Sì, me l’ha detto”, fece Augello.  “E allora?”

“E allora non c’è solo Di Mauro a interessarsi di Nicolò Cuffaro. Mi ha telefonato un Ispettore dell’Interpol dicendo che lo cercano da Tokyo, in Giappone.”

A quelle parole, tanto Fazio quanto Augello fecero un salto sulla sedia.

“Minchia!”, esclamò Mimì.

“Con la Yakuza s’è sciarriato?”, chiese Fazio con un filo di voce.

“La Yakuza non c’entra. Adesso vi spiego”, fece Montalbano. Rapidamente, riferì la conversazione che aveva avuto con Zenigata e i suoi sospetti che il fantomatico Lupin III potesse mettersi in affari con i Sinagra. Alla fine, Mimì corrugò la fronte.

“Non mi piace”, disse.

“Eh”, convenne Montalbano. “Se è per quello, nemmeno a mia. Adesso le camurrìe attorno al tesoro sono due.”

Fazio ridacchiava fra sé.

“Dottore, questa è troppo bella! Io, le pillicole su quel Lupin, tutte me le vidi.”

“E bene facesti, Fazio”, osservò Montalbano, votandosi verso di lui. “Allora puoi darci un’idea di come lavora.”

“Ma le pillicole non contano”, ribatté piccato Augello. “Sono roba di finzione, di fantasia.”

“Mimì, finché non abbiamo modo di incontrare quest’Ispettore dell’Interpol, dobbiamo arrangiarci con i mezzi che abbiamo. Fazio, che sai di questo Lupin?”

“Dunque, dottore. In primisi, Lupin è un mago degli ammucciamenti. Cambia faccia ogni volta che gli gira. In secundisi, i colpi generalmente non li fa da solo, ma in compagnia di due complici. Uno di questi è un cecchino miricano, non mi ricordo se di Nuovaiorca o qualche altro posto. L’altro è giapponese, tiene una specie di spada che taglia pure l’acciaio.”

Mimì Augello fece un verso sarcastico, tipo ‘tsk’.

“Quindi sono da considerarsi armati e pericolosi?”, chiese Montalbano, inarcando le sopracciglia.

“Armati sì, dottore. Pericolosi, dipende. Quando può, Lupin cerca di arrubare e basta, senza spargimenti di sangue.”

“Vuoi dire una specie di ladro gentiluomo, come Luthring?”

“Sissi, dottore. Ah, dimenticavo, putacaso che con loro c’è anche una fimmina.”

“Una fimmina?”, chiese subito Mimì Augello, sempre il primo a rizzare le antenne quando si parlava di donne. “E chi sarebbe?”

“Una picciotta, latra pure lei, molto avvenente, con due minne granni come…”

“A Fazio, ma che ti metti a fare la comparsa di Mimì?”, protestò Montalbano. Prevedibilmente, il suo vice adesso sembrava molto più interessato a quelle che fino a poco prima aveva definito sprezzantemente ‘pillicole di fantasia’. Sai che novità!, pensò sarcastico il Commissario.

“Mi scusasse, dottore”, rispose Fazio, mortificato.

“Senti, Fazio, adesso tu stai lavorando a qualche caso?”

“Io? No, perché?”

“Allora prendi l’auto, vai a Montelusa e mettiti alle costole di Niccolò Cuffaro. Bada che non ti devi far accorgere. Voglio sapere se è tranquillo, se ti sembra scantato da qualcosa, dove va, con chi s’incontra…”

“Posso andarci io,” suggerì prontamente Mimì.

“No, Mimì, tu non ci puoi andare”, lo zittì Montalbano. “Siccome che le pillicole ti sdignano, tu ti metti in contatto con l’Interpol e cerchi di scoprire tutto quello che puoi su questo Lupin e la sua banda.”

“Va bene”, annuì Fazio.

“Se proprio insisti…”, borbottò Augello. Si vedeva lontano un metro che era scocciato; forse sperava che pedinando Cuffaro avrebbe potuto vedere se la complice di Lupin corrispondeva alla descrizione fornita da Fazio. Per interesse puramente professionale, eh!, si disse Montalbano con una punta di malignità.

“Benissimo. Allora per prima cosa…”

Non finì la frase che Catarella entrò trafelato nell’ufficio, sbattendo la porta e facendo saltare per aria i tre poveri poliziotti.

“Ah, dottori dottori! Tilefonò proprio adesso la signorina Livia da Bonchidassa, io le dissi, come mi aveva raccomandato vossia, che lei di lei non era…”

“Uscite”, borbottò Montalbano, rivolto ai suoi colleghi. “Devo telefonare.”

Fazio si affrettò a ubbidire; Mimì, invece, se la prese comoda, attardandosi sulla porta e lanciando un sorrisetto di scherno al Commissario. Montalbano capì che era il suo modo di prendersi la rivincita per la faccenda della ladra con le “belle minne”.

“Mimì, alzi il culo da te o ti devo pigliare a calci?”

“Va bene, va bene, me ne vado!”, fece Mimì, sempre con quel sorrisino di superiorità. Montalbano si trattenne a stento dal scaraventargli dietro un portadocumenti, e pochi minuti dopo era al telefono con la sua fidanzata, Livia.

“Pronto, amore? Salvo sono.”

“Ah, ma allora ci sei!”, rispose lei, gelida. “Ho chiamato qualche istante fa; il tuo collega Catarella mi ha detto che non eri in ufficio e non sapeva neppure quando saresti tornato!”

“Livia, ti prego, fammi spiegare…”

Mentre incominciava l’ennesima azzuffatina con Livia, Montalbano pensò sconsolato che al mondo esisteva un’unica incontrovertibile verità, e cioè che le camurrìe sono come le ciliegie; una tira l'altra.

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Capitolo 4
*** Il passato che riaffiora ***


IV – Il passato che riaffiora

 
La piazza su cui si affacciava il bar era così gremita che Zenigata dovette aspettare quasi dieci minuti, prima che si liberasse un tavolo. Nel frattempo ne approfittò per studiare le persone che facevano ressa attorno a lui.

Per la stragrande maggioranza si trattava di turisti, ma c’era anche qualche casalinga con le borse della spesa, in cerca di po’ di tregua dai raggi estivi del sole. Zenigata guardò distrattamente l’orologio; segnava le dieci e mezza. Quindi ci sarebbero volute almeno due ore prima che schiere di impiegati in giacca e cravatta si riversassero all’aperto, dopo essere rimasti chiusi nei loro uffici per tutta la mattina. Qua e là scorse alcune persone più giovani, ragazzi e ragazze, probabilmente studenti in libera uscita o che comunque avevano le loro buone ragioni per saltare un giorno di studio.

Come Toshiko

Sua figlia avrebbe potuto tranquillamente essere una di quei giovani; Zenigata calcolò che l’età dovesse essere più o meno la stessa. Chissà com’era diventata adesso, Tosh? Ormai non la vedeva da cinque anni, anche se continuavano a sentirsi per gli auguri. Però una mezz’ora al telefono non era la stessa cosa come vivere insieme.

Non era la stessa cosa come avere una famiglia.

Negli ultimi tempi gli capitava sempre più spesso di pensare a lei. Certe volte non riusciva neppure a ricordarsi di che colore avesse gli occh; scuri come i suoi o verdi, come quelli di Martha? Allora si metteva a frugare nel portafoglio finché non ripescava una vecchia foto sbiadita con lei da bambina, a una festa di compleanno. Una delle poche feste di compleanno che Tosh aveva potuto festeggiare insieme al suo indaffaratissimo papà.

All’epoca in cui era stata scattata la fotografia, lei aveva quattro o cinque anni. Martha era radiosa come sempre, ma con quel velo di tristezza nello sguardo che Zenigata aveva imparato a conoscere tanto bene. E poi c’era lui, che armeggiava con il suo cercapersone mentre con la mano libera si strappava dalla testa un ridicolo cappellino triangolare.

Se lo ricordava bene, quel compleanno. Un istante prima che Tosh soffiasse sulle candeline, era arrivata una chiamata urgente dal suo ufficio della Metropolitan Police di Tokyo. Un’altra volta Lupin. Un’altra giornata sprecata a dargli la caccia.

Ricordava gli occhi sgranati di Tosh quando si era alzato per andarsene, senza neppure assaggiare una fetta di torta. Il sorriso tirato di Martha mentre gli porgeva l’impermeabile e le manette, il suo bacio freddo sulla guancia quando gli aveva sussurrato; “Buona fortuna.”

E la voce di Tosh, i suoi singhiozzi disperati;

“Ma papà, avevi promesso…”

Maledetto Lupin, pensò con rabbia. Gliel’avrebbe pagata anche per quello. A causa sua aveva rovinato il compleanno di Tosh. Aveva fatto piangere la sua bambina.

Adesso, quando le parlava al telefono, persino la voce della figlia gli sembrava diversa. Era un’estranea che ad ogni loro conversazione, ad ogni ricorrenza, si allontanava sempre più da lui e da tutto ciò che un tempo aveva rappresentato. Tristemente, Zenigata considerò che Toshiko aveva smesso da tempo di far parte della sua vita.

Aveva perso sua figlia e sua moglie ben prima di rendersene conto. Ormai non gli rimaneva che il suo lavoro; l’unica cosa che ancora desse un senso alla sua esistenza.

Questa volta non mi sfuggirai, Lupin.

Un cameriere vestito di bianco gli fece strada verso un tavolino che si era appena liberato. Mentre lo seguiva, Zenigata si ritrovò istintivamente a sorvegliare con la coda dell’occhio i gruppi di almeno tre o quattro persone, soprattutto se in mezzo c’era anche qualche donna (Fujiko, o lo stesso Lupin abilmente camuffato?)

Quando aveva ordinato ai suoi colleghi di tenere sotto controllo tutte le partenze di gruppo per la Sicilia, alcuni di loro lo avevano guardato con l’aria di chiedersi se fosse impazzito. Zenigata, però, era certissimo di non sbagliarsi. Il tesoro perduto di Gelone rappresentava un’occasione troppo ghiotta per quel maledetto ladro, che avrebbe immancabilmente trovato il modo di raggiungere Montelusa. Il pensiero che in quel momento Lupin potesse trovarsi lì, magari poco lontano da lui, lo faceva letteralmente andare in bestia.

Ordinò una tazza di caffè doppio formato gigante, perché era stanco morto dopo le lunghe ore di volo, i continui cambi e il viaggio in macchina da Palermo a Montelusa. Il cambio di fuso orario, naturalmente, faceva la sua parte, ma l’Ispettore non avrebbe permesso a niente e a nessuno di mettersi fra lui e la sua preda, a costo di imbottirsi di caffeina direttamente per endovena. Fosse stata l’ultima cosa che faceva, non avrebbe permesso a Lupin di lasciare l’Italia da uomo libero.

Il cameriere era appena sparito con la sua ordinazione, quando una mano calò senza preavviso sulla spalla di Zenigata.

“Ma che mi pigli un colpo… Koichi, sei davvero tu?”, esclamò una voce maschile, in un giapponese un po’ arrugginito.

Sbalordito, l’Ispettore alzò lo sguardo sull’uomo basso e tarchiato che era comparso accanto a lui. I suoi capelli grigi cominciavano a mostrare qualche filo bianco, ma gli occhi erano rimasti verdi e luminosi come un tempo.

“… Nino?”, balbettò Zenigata, balzando in piedi.

“E certo, no?!”, rispose l’altro con una risata. Neppure quella era cambiata. “Sei l’ultima persona che mi aspettavo di incontrare! Che ci fai da queste parti?”

“Sono qui per lavoro."

Non riusciva a credere ai suoi occhi. Che buffo… solo pochi istanti prima aveva pensato a Tosh e a Martha, e adesso… Nino. Erano anni che non lo vedeva, dal giorno del funerale. Gli sembrò leggermente più basso, ma forse era l’effetto dei vestiti; infatti indossava una comunissima camicia con le maniche ripiegate e dei jeans. Portava anche un bastone da passeggio.

“Sei sempre alla Metropolitan?”

“No, adesso lavoro per l’Interpol. E tu che ci fai qui? Non stavi in quella città... Caltanissetta?”

Nino gli sorrise tristemente.

“Sei rimasto indietro, Kò. Mi hanno trasferito cinque anni fa, dopo che c’è stato l’incidente.”

“Quale incidente?”, saltò su Zenigata, sempre più confuso.

“Una sparatoria… qui da noi le chiamiamo ammazzatine. Io ero con la squadra e un proiettile mi ha raggiunto alla gamba sinistra. Ho perso non so più quanti litri di sangue, ma sono riusciti a salvarmela.”

Zenigata era rimasto ad ascoltarlo in un silenzio attonito. Finalmente scosse la testa, soffocando un’imprecazione.

“Perché non mi hai fatto cercare? Avrei potuto…”

“No, che ti cercavo a fare? Tu stai tanto impegnato, Kò, hai i tuoi problemi a cui badare.”

“Tu sei sempre tanto impegnato”, gli aveva detto Martha, quel giorno di tanti anni fa. Si era sforzata di sorridere, allo stesso modo del fratello. “Non ti accorgerai nemmeno della differenza, Koichi. E ti passerà.”

“Sì, ma… se avessi saputo una cosa del genere, sarei venuto giù molto prima.”

“Ti saresti preoccupato per niente” ribatté Nino, stringendosi nelle spalle. “Tu sei un poliziotto come me, non un medico. Che potevi farci? Comunque mi hanno  ricucito, e adesso posso camminare di nuovo, anche se mi devo appoggiare al bastone. I colleghi di qui dicono che mi dona”, aggiunse ridacchiando.

“E tua moglie cosa ne pensa?”

“Mia moglie?”

Nino smise di colpo di ridere e lo guardò sconcertato.

“Sì… com’è che si chiama? Giada?”

“Oh, sì, Giada! Non stiamo più insieme. Abbiamo divorziato tre anni fa.”

Fu un altro schiaffo in faccia. La conferma che non si era perso solo gran parte della vita di sua figlia, ma di tutte le persone che aveva conosciuto e a cui voleva bene. In un lampo, il volto della moglie tornò a sovrapporsi a quello del cognato; gli stava urlando contro, una delle poche occasioni in cui avevano litigato.

“Non ci sei mai, tutte le volte che ho bisogno di te!”

“D’accordo, ma non lo faccio apposta! E’ il mio lavoro…”

“No, Koichi, per te è qualcosa di più. E’ la tua ragione di vita! Non riesci a smettere i panni del poliziotto neppure quando sei fuori servizio, devi sempre dimostrare che tu sei l’infaticabile Ispettore Zenigata…”

Scacciò quei ricordi nel dimenticatoio da dov’erano venuti e disse con voce rotta;

“Santo Cielo, Nino, mi dispiace…”

“A me no”, rispose l’altro, scrollando le spalle con indifferenza. “Ormai non andavamo più d’accordo. E poi avevamo tutti e due qualcun altro, da molto tempo. Hai una sigaretta?”

“Sì.” Zenigata rovistò nelle tasche finché non trovò il pacchetto. Poi spostò una sedia per lui. “Siediti, dai, non stare lì in piedi."

“Grazie. A proposito, Tosh come sta?”

L’Ispettore tentò di mascherare il disagio a quella domanda.

“Bene… l’ultima volta che l’ho sentita, mi ha detto che è andata a vivere con il suo ragazzo. Uno studente come lei, all'ultimo anno di medicina. Lui e Toshiko sono molto affiatati.”

“Che bello. E la vedi spesso?”

“Veramente… non quanto vorrei”, rispose Zenigata, schiarendosi nervosamente la gola. In quel mentre arrivò il cameriere con il caffè, e lui colse al volo l’occasione di cambiare discorso.  “Prendi qualcosa? Non fare complimenti.”

“Mangerei volentieri un gelato alla cassata, se c’è”, disse Nino. “E un bicchiere d’acqua frizzante.”

“Va bene. Per me un altro caffè doppio.”

“Ma non hai ancora neppure iniziato il primo”, gli fece notare il cognato, sorpreso.

“Credimi, ne ho bisogno, se voglio restare sveglio. Ho viaggiato per più di ventiquattrore di fila”, sbadigliò Zenigata. “Sono alle prese con un caso che mi sta logorando il fegato, ma penso di essere vicino a un arresto.”

“Qui a Montelusa?” Improvvisamente, Nino aggrottò la fronte. “Non dirmi che riguarda il tesoro di Gelone.”

“Bingo. Ti ricordi di Lupin, quel delinquente a cui davo la caccia?  So per certo che cercherà di trafugare il tesoro. E voglio essere qui ad acciuffarlo, quando lo farà.”

“Hmm,” annuì pensosamente il cognato. “Parlamene un po’…”

“In realtà, al momento non ho ancora nessun indizio. Comunque ho fatto mettere sotto controllo tutti i voli. Per il resto, posso solo tenere gli occhi aperti.”

“Lo sapevi che alla Sovrintendenza dei Beni Culturali di Montelusa…”

“Sì, c’è un tizio che viene da una famiglia di pregiudicati. Ci avevo già pensato, Nino. Secondo me Lupin o la sua donna cercheranno di contattarlo per mettersi d’accordo con lui. Tu che ne pensi?”

“Mah”, fu la risposta. “Io lo conosco poco, questo Nicolò Cuffaro. Mi sembra un giovanotto senza grilli per la testa. Però se le radici sono marce, quasi sicuramente è marcio anche tutto l’albero”, concluse, in tono inaspettatamente freddo. “Sai, Koichi, non mi stupirei sei tu avessi ragione. Anche se Nicolò Cuffaro non volesse rischiare personalmente di perdere la poltrona, può darsi che possa fornire qualche tipo di agevolazione a Lupin e ai suoi.”

“E’ quello che credo anch’io. Ho parlato con il commissariato di Vigata, dove abita la famiglia di questo tipo.”

“Ah, sì, il paese del nostro celeberrimo Commissario Montalbano”, rispose Nino, con un vago sorriso. “Sei riuscito a parlare con lui in persona?”

“Sì. Lo conosci?”

“Soltanto di vista. E’ un bravo poliziotto, uno che se volesse potrebbe fare carriera. Anche se dicono che i suoi metodi a volte siano… poco ortodossi. E’ disposto a collaborare?”

“Ha detto che terrà sotto sorveglianza la famiglia di questo tipo”, annuì Zenigata.

“Bene. Senti, Koichi, so che tecnicamente la faccenda non mi riguarda. Però vorrei ugualmente darti una mano ad acciuffare questo Lupin. Se per te va bene, voglio dire”, si affrettò ad aggiungere.

“Nino, non c’è assolutamente bisogno. So cavarmela da solo.”

“Lo so. Dico solo che mi piacerebbe. Se ci pensi, è ironico; due cognati poliziotti che però vivono agli estremi opposti del mondo e non hanno mai avuto modo di lavorare insieme. Quando ci ricapita un’occasione così, Kò? Dai. In memoria dei vecchi tempi!”

“ No, non me la sento di coinvolgerti. Scusami, ma dopo quello che ti è successo…”

“La pensione di invalidità non me la passano ancora, grazie mille!”, lo rimbeccò offeso il cognato, raddrizzando le spalle.

“Non capisci. Uno dei compari di Lupin è il pistolero più maledettamente bravo che conosca. Se ci trovassimo in uno scontro a fuoco…”

“Non dire stronzate, Kò”, ribatté Nino con veemenza. “Non mi hanno colpito perché ho sbagliato a sparare, ma perché sono stato lento ad abbassarmi. Poteva succedere a chiunque! E poi…” Esitò, prima di aggiungere; “Lo faccio anche per mia sorella. Sai, lei… nelle nostre ultime telefonate, mi diceva spesso che era in pena per te.”

L’Ispettore rimase sorpreso da quelle parole. Aveva sempre creduto che Martha nutrisse del risentimento nei suoi confronti.

“In pena per me?”

“Sì… mi parlava sempre dei rischi che correvi, a inseguire quel maledetto ladro francese su e giù per il globo. Quindi mi sento in dovere di aiutarti ad arrestarlo, non fosse altro per tutto il male che ha fatto a lei.”

Già… a Martha, una donna che Lupin non conosceva e che non aveva neppure mai visto in vita sua. Per un attimo, a Zenigata sembrò che fosse un’assurdità colossale. Odiava Lupin, ma di quello, se non altro, non poteva incolparlo…

Subito dopo, però, il risentimento soffocò la voce razionale nella sua testa. Era vero, Lupin non conosceva Martha, ma era comunque colpa sua se il loro matrimonio era stato un tale disastro, e se la donna non aveva potuto trascorrere gli ultimi anni di vita accanto a suo marito.

Vedendolo combattuto, Nino sorrise furbescamente.

“E c’è un’altra cosa. Se davvero Lupin vuole rubare il tesoro qui a Montelusa, allora la faccenda è di competenza della Questura. Perciò, come vedi, rientra nelle mie mansioni offrirti tutta la collaborazione e l’aiuto possibile.”

“Ma tu non hai altre indagini da seguire?”

“Ora come ora, niente di importante. Kò, per me sarà un onore aiutarti a mettere le manette a quel fituso, quando l’avrai catturato.” E gli tese una mano con fare incoraggiante.

Dopo un attimo di esitazione, Zenigata la strinse.

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Capitolo 5
*** Comitato di benvenuto ***


V – Comitato di benvenuto

 

Nicolò Cuffaro si presentava bene; sui trentacinque anni, distinto, con folti capelli prematuramente spruzzati di grigio e una faccia che ricordava un po’ il giovane Marlon Brando. Un tipo rispettabile. Non era difficile capire perché la famiglia avesse incoraggiato così fortemente la sua ascesa alla Sovrintendenza dei Beni Culturali.

Si era tolto la giacca e la faceva roteare a mezz’aria, mentre con l’altra mano teneva all’orecchio il cellulare. Ogni tanto il vento trasportava qualche brandello di conversazione attraverso il piazzale, dove stava appostato Fazio; gli sembrò che all’altro capo del telefono dovesse esserci una donna, perché sentì pronunciare il nome “Azzurra”. Anche i modi sembravano quelli di uno che vuol far colpo sull’altro sesso. Dopo averlo osservato per un quarto d’ora, decise che Nicolò Cuffaro stava indubitabilmente facendo la ruota a esclusivo beneficio della sua interlocutrice telefonica.

Da quando Montalbano gliel’aveva messo alle costole, erano passati tre giorni. Galluzzo e Torretta erano venuti a dargli il cambio, ma nessuno di loro aveva notato alcun movimento sospetto né da parte né intorno al giovane Sovrintendente. Cuffaro si era incontrato con molta gente, soprattutto uomini, ma nessuno che corrispondesse all’idea che Fazio si era fatto di Lupin e dei suoi complici. Quasi tutti erano personaggi di grosso calibro; assessori, periti, e una volta persino il capo di gabinetto, il dottor Lattes (fortuna che Galluzzo aveva prontamente spalancato un quotidiano e ci si era nascosto dietro, evitando così di farsi riconoscere). Le uniche donne che frequentava erano le sue colleghe alla Sovrintendenza. Oddio, a voler essere sinceri un’altra donna c’era stata, ma si trattava di una prostituta che Cuffaro aveva caricato in macchina e con la quale si era appartato “per fare le più vastase cose” (come riferì un imbarazzatissimo Torretta). Non aveva l’età né il fisico giusto per essere la ladra che cercavano; a quel grandissimo porco di Nicolò Cuffaro (come lo definì Montalbano dopo aver ascoltato Torretta) le donne piacevano giovanissime, poco più che adolescenti.

E adesso saltava fuori quel nome, Azzurra. Fazio ebbe un pensiero improvviso; prese il telefonino e, sempre senza perdere d’occhio Cuffaro, chiamò il commissariato di Vigata.

“Dottore? Fazio sono.”

“Dimmi. Ci sono novità?”

“Capace di sì, dottore. Cuffaro sta al telefono da un quarto d’ora con una fimmina di nome Azzurra.”

“Potrebbe essere la donna che cerchiamo?”

“Lo pensai macari io. Dottore, alla Sovrintendenza non ci sta nessuna Azzurra. Lo so perché i nomi delle colleghe di Cuffaro me li scrissi stamani su un pizzino.”

Sentiva, senza bisogno di vederlo, il commissario fare un salto sulla sedia al pensiero di doversi sorbire quello che lui definiva “il complesso dell’anagrafe” di Fazio.

“Il cognome di questa picciotta lo sai?”

“Nonsi. Azzurra e basta.”

“Faccio controllare a Galluzzo se Cuffaro tiene qualche Azzurra nella cerchia delle sue conoscenze femminili.”

“Ah, dottore, un’altra cosa. Il telefono di Cuffaro è sorvegliato?”

“Fazio, ma tu mi prendi proprio per fissa?”

“Dottore, non mi permetterei”, rispose Fazio, ridendo. “Ce lo diede il mandato il piemme Tommaseo?”

“Per forza.”

“E che gli contò?”

“Che gli dovevo contare, Fazio? Che stiamo indagando su un presunto traffico di prostituzione minorile.”

Il giudice Tommaseo aveva un debole per i crimini di natura sessuale; tanto più scabrosi erano, tanto meglio era. Montalbano, che ben conosceva questa debolezza del piemme, ne aveva abilmente approfittato per manovrarlo come un pupo.

“Dottore, mi permette con tutto il rispetto? Lei quasi più furbo di Lupin è.”

“Speriamo. Ascolta, Fazio…”

In quella, Nicolò Cuffaro alzò gli occhi verso di lui. Fazio distolse subito lo sguardo, fingendo di cercare qualcosa nel vano portaoggetti. Ma inaspettatamente un’ombra passò rapida accanto al finestrino, aggirando la sua macchina e puntando dritto sul Sovrintendente. Era un uomo sulla quarantina, alto e scuro di pelle, con folti capelli neri. Non appena fu all’altezza di Cuffaro, Fazio lo vide per la prima volta in faccia.

“Dottore, c’è Calogero Di Mauro!”, sibilò, chiudendo istintivamente i finestrini.

“Ma che dici?!”

“Le giuro che è accussì, dottore. Preciso ‘ntifico come sul passaporto!”

“Fazio, non ti cataminare da lì, qualisiasi cosa che vedi. Capito? Io arrivo subito.”

Ma Fazio non lo stava più a sentire. Sotto il suo sguardo sbalordito, Calogero Di Mauro raggiunse Cuffaro, scambiò qualche breve parola con lui e gli strinse la mano, sorridendo affabilmente.

 



Tutte le persone che si trovavano alla fermata di via Nazionale, in quell’afoso pomeriggio agostano, videro la donna scendere dall’autobus.

Sarebbe stato impossibile non notarla; era una splendida bruna, con una leggera abbronzatura artificiale e un variopinto cappello di paglia calato sul viso. Ma la cosa che più di ogni altra si scolpì nella memoria di tutti gli uomini presenti fu il suo fisico; fino a quel momento, la stragrande maggioranza di loro aveva sempre pensato che il termine “maggiorata” potesse riferirsi solo alle modelle di Playboy. Immediatamente, la stessa stragrande maggioranza capì che nei loro sogni in futuro non ci sarebbe stata che lei; le modelle di Playboy erano già diventate un lontano ricordo. Qualcuno dei più giovani levò un timido fischio di ammirazione, a cui la sconosciuta rispose con un sorriso.

Il vestito estivo che indossava sarebbe potuto andare bene a una donna con tre taglie in meno. Lei, però, non sembrava farci caso; esibiva il suo corpo come un culturista avrebbe fatto con i muscoli. E il suo sguardo… il suo sguardo aveva qualcosa di pericoloso. Nel momento in cui passò in rassegna gli uomini che la fissavano, loro si resero conto che quella non era una donna qualsiasi, ma una predatrice in caccia. Inconsciamente, tirarono un sospiro di sollievo quando la videro allontanarsi, dopo essersi sistemata meglio il cappello sul viso.

Fu come se alla fermata dell’autobus fosse improvvisamente tornato l’ossigeno. Diverse donne anziane borbottarono che era uno scandalo; le mogli fulminarono con gli occhi i loro mariti, e ci fu anche qualcuno che ricevette un sonoro calcio negli stinchi, per buona misura.

Ora che non potevano più vederla, Fujiko si lasciò andare a una lunga risata di cuore.

Cielo, che branco di idioti sono gli uomini!

Avrebbe voluto poterli fotografare, nel momento in cui era scesa dall’autobus. A qualcuno era letteralmente cascata la mascella, qualcun altro si era messo a sbavare addosso alle persone che gli sedevano accanto. E le facce delle donne, poi… tutte un programma!

Stava ancora ridendo, quando una vecchietta le finì sparata addosso. Era rinsecchita, gobba, con due sacchi della spesa che a occhio davano l’impressione di pesare almeno il doppio di lei. Fujiko le rivolse un’occhiata interrogativa, a cui la vecchia rispose con un largo e sdentato sorriso. Poi le disse qualcosa di incomprensibile.

“Come… scusi?”, chiese Fujiko, in un italiano abbastanza stentato che faceva parte della sua copertura.

La vecchia ripeté quella frase sibillina. Vedendo che lei continuava a non capire, indicò il marciapiede opposto, poi sé stessa e i sacchi della spesa, infine Fujiko.

Vuole che l’aiuti ad attraversare!

Per poco non si mise di nuovo a ridere. Che buffo! Una vecchia decrepita chiedeva a lei, a una ladra, di aiutarla a portare la spesa a casa!

Fu tentata di scacciarla via, ma la strada era abbastanza trafficata e lei non aveva voglia di grane. Voleva andare alla spa e farsi un bel bagno rilassante. Perciò sorrise, annuì e prese senza fatica le due grosse borse di plastica dalle mani dell’anziana. Poi aspettò accanto a lei che il semaforo diventasse verde.

L’anziana non la finiva più di blaterare, in un siciliano così stretto che Fujiko non riuscì a capire neppure un’acca. Ma non importava. La accompagnò sul marciapiede opposto, depose i due sacchi e le diede un buffetto amichevole su una spalla, osservando mentalmente che lo scialle nero che portava era semplicemente orrendo. Quindi le fece un cenno di saluto e si allontanò, senza più degnarla d’uno sguardo.

 



Non appena l’eco dei passi di Fujiko si fu spento in fondo al viale, l’anziana tirò fuori un costoso cellulare ultimo modello da una tasca del vestito. Le sue dita nodose volarono con precisione sui tasti.

“Iddra è”, sibilò all’apparecchio.

La voce dall’altro capo era maschile, sofisticata.

“Sei sicura?”

“E certu che ‘u sugnu. Mancu i capiddi cangiò. Paro paro comu nella fotu.”

“Non ci siamo spiegati. Voglio dire, sei sicura che sia la persona giusta?”

“Signuri, iu sittant’e pass’anni ci campai cu le mè bottane!”, sbottò la vecchia. “Iu lo saccio quannu a fimmina svrigugnata tiene il carbone vagnato! Sentisse ccà, iddra fa a farsa, fa triatro, ma dintra è latra e pure vastasa!”

“Non volevo mancarti di rispetto”, disse l’uomo al telefono.

“E immeci vossia m’offise”, borbottò lei, raddrizzando le spalle.

L’uomo dall’altra parte rise sgradevolmente.

“Fattela passare, Assuntì. Il tuo conto in banca lo conosciamo; domani troverai l’accredito, come promesso.”

“Grazi”, ribatté l’anziana in tono sostenuto. Riattaccò il telefono e gettò indietro lo scialle con aria bellicosa.

Come si permettevano di insinuare che lei, Assuntina Belfiore, non se ne capisse di quelle faccende? Lei  che era stata la tenutaria del più importante bordello di tutta la provincia, lei che era stata la prima donna di don Balduccio Sinagra? Come osavano mettere in dubbio le sue parole? Ripensando al tono di superiorità nella voce dell’uomo, Assuntina strinse le labbra in una smorfia di rabbia.

Avrebbe potuto dir loro che la donna stava in guardia. Che non sarebbe stato facile coglierla di sorpresa, e che non era automaticamente una stupida solo perché sbandierava la sua sesta di seno e il suo vestito corto. Ma tanto quelli non le avrebbero dato retta; per loro una donna rappresentava soltanto una pedina sicura in una partita a scacchi.

Mentre cominciava a salire le scale del suo appartamento, Assuntina Belfiore sorrise beffarda.

Gli uomini come il Barone e i suoi tirapiedi avevano il brutto vizio di sottovalutare l’altro sesso. Così, quando le donne li manovravano come dei pupi, loro neppure se ne accorgevano, accecati com’erano dal loro ego smisurato.

Ci avrebbe pensato quella donna, quella straniera dagli occhi furbi come quelli di una volpe, a lasciarli tutti quanti in mutande. E il giorno in cui fosse successo, lei sperava di esserci, e di ridere in faccia al Barone con tutto il suo sussiego... sempre che il Signuruzzu l’avesse lasciata in vita fino ad allora.

Non provava neppure un briciolo di pietà per la sconosciuta, pur sapendo di averla venduta al Barone e ai suoi sgherri. Era più incline a provare pietà per lui.

Donne come quella sapevano sempre come tirarsi fuori dai guai.

 



La riunione volgeva al termine. Appoggiato allo schienale della sedia, Riccardo Barone stava ascoltando i resoconti dei suoi collaboratori più stretti.

Alzarono tutti lo sguardo quando Landucci piombò come una furia nella sala conferenze; la stragrande maggioranza dei presenti non l’aveva mai visto ridotto così. Sembrava un invasato, con i capelli in disordine, gli occhi spiritati e il volto pallido e sudaticcio.

“Lorenzo, ti abbiamo aspettato per quasi mezz’ora”, fece Barone, in tono di rimprovero.

“Mi scusi, signore. Ci sono stati degli sviluppi per quella certa faccenda.”

Barone gli lanciò un’occhiata, poi si rivolse nuovamente verso i suoi sottoposti.

“Vogliate scusarmi un attimo, signori. Questioni burocratiche”, disse con un sorriso affilato, da politico. Afferrò Landucci per un braccio e lo pilotò con decisione fuori dalla sala conferenze. “Spero per te che sia una cosa importante”, sibilò. “Che vuoi?”

Landucci deglutì nervosamente. “Si tratta della donna, signore. E’ arrivata oggi a Montelusa.”

“Sicuro?”

“Ho parlato adesso con Assuntina. Secondo lei non ci sono dubbi.”

“Allora va bene. Fai avvertire Di Mauro, digli che sarà per stasera.”

“E’ sicuro, signore? Non potrebbero arrivare nei prossimi giorni?”

“Ne dubito, e comunque non importa. Quello che conta è che ricevano il mio messaggio”, ribatté Barone, con un sorriso malefico. Lanciò un’occhiata al massiccio Rolex che teneva al polso. “Sono quasi le sei. L’ultimo volo da Fiumicino arriva alle nove meno un quarto. Voglio che Di Mauro se ne venga via da lì non più tardi delle otto e mezza, altrimenti salta tutto. Digli di lasciare la macchina davanti a casa del suo amico professore. Lo passa a prendere uno dei nostri.

“Sì, signore.”

“E fai preparare il comitato di benvenuto. In fondo stiamo parlando di una celebrità. Voglio che sia accolto nella mia città… nel modo che si merita.”

“Sì, signore.”

“E… Lorenzo? Vedi di non deludermi anche stavolta.”

Il volto di Landucci diventò grigio come quello di un morto.


“Non la deluderò, signor Barone”, rispose con un filo di voce. “Glielo giuro.”
 



“Non ci sto a capire chiù nenti”, fece Mimì Augello, seduto accanto a Montalbano.

Il Commissario teneva gli occhi puntati sulla strada. Da quando erano partiti non aveva detto neppure una parola, salvo qualche sporadica domanda telefonica a Fazio. Però Mimì riusciva quasi sentire il suo cervello che si arrovellava alla disperata ricerca di una spiegazione logica.

“Capace che i Cuffaro e i Sinagra stanno a cercare un appattamento, Salvo”, suggerì in tono poco convinto.

“Mimì, non mi quatra. Se volevano un appattamento con i Cuffaro non andavano di certo a scomodare Calogero Di Mauro, che s’è visto sparare il patre da decino e probabilmente a Nicolò Cuffaro lo odia a morte.”

“E allura me lo spieghi tu perché Di Mauro ci andò a parlare strata strata, anziché spararlo?”

Montalbano aggrottò la fronte. “Questo è il busillisi, Mimì. Capace che il Barone non vuole casini.”

“Riccardo Barone? E che gliene fotte, a lui?”

“Mimì, ragiona. Se il Barone lascia che Calogero Di Mauro spari a Nicolò Cuffaro, viene a dire che ha gana di attaccare turilla macari lui. E a mia non mi sembra il tipo.”

“Perché?”

“Perché il Barone non è uno che abbruscia le carte bone a core leggio, Mimì.”

“Boh”, fece Augello.

“Ma Calogero Di Mauro commette una sulenne minchiata”, proseguì Montalbano, accigliato. “Incontra Nicolò Cuffaro strata strata anziché dargli appuntamento per telefono. Il busillisi è, perché si espone accussì?”

Prima che Augello avesse modo di rispondere, il cellulare di Montalbano squillò con urgenza.

“Pronto, Fazio?”

“Dottore, Calogero Di Mauro ricevette una telefonata in questo priciso istante.”

“Riesci a sentire quello che dice?”

“Nonsi. Vedo solo che fa ‘nziga di sì con la testa.”

“Va bene. Siamo quasi arrivati”, disse Montalbano, svoltando a sinistra. Improvvisamente, la voce di Fazio suonò allarmata.

“Dottore, quello sta a salutare Cuffaro. Capace che se ne va e noi restiamo pigliati dai turchi.”

“Fazio, ascoltami bene. Tu vai appresso a Calogero Di Mauro, quateloso e senza farti arriconoscere.”

“Ma dottore, e Cuffaro?”

“A Cuffaro ci penso io”, lo rassicurò il Commissario. Riattaccò, estrasse un foglio di carta stropicciato da una tasca e compose il numero che c’era scritto sopra, mentre Augello lo osservava senza fiatare..

“Pronto, professor Cuffaro? Il Commissario Montalbano sono.”

La voce dall’altro capo tradiva tutta la sorpresa dell’uomo.

“Commissario, la conosco di fama.”

“Immagino. Senta, sto venendo su a Montelusa, ci possiamo vedere?”

“Certo. Ma perché?”

“Glielo spiego quando arrivo.”

Augello gli lanciò un’occhiata in tralice.

“Salvo, si può sapere che hai intenzione di contargli?”

“Una farfànteria qualunque, Mimì. La prima che mi passa per il ciriveddro.”
 



Calogero Di Mauro aveva lasciato la macchina in una traversa di piazzale De Gasperi. Prima di salire, si accese una sigaretta e fece un paio di tiri, poi guardò l’orologio e si mise al volante; a Fazio sembrò che lo facesse con un sospiro rassegnato, come qualcuno che ha altri progetti per il tempo libero e si vede costretto ad accantonarli.

Guidava deciso lungo le strade della provincia, non troppo veloce ma senza prendersela comoda. Fazio riusciva tranquillamente a non perderlo d’occhio, pur tenendosi a distanza di sicurezza dalla sua macchina.

A un tratto l’uomo si portò il telefono all’orecchio. Ascoltò per qualche istante, poi gettò indietro la testa e rise.

Nello stesso istante, una Ford piuttosto scassata che era proprio nella corsia accanto a quella a Fazio accelerò di colpo, tagliandogli la strada. Il poliziotto fu costretto a una frenata d’emergenza per evitare un tamponamento.

Dai finestrini della Ford si affacciarono due giovinastri che avevano tutta l’aria dei balordi. Quello che guidava gli fece il gesto dell’ombrello, mentre l’altro si mise a insultarlo.

“Ma guarda dove guidi, stronzo!”

Dalle spalle di Fazio si levavano i clacson infuriati degli altri automobilisti; i due balordi avevano messo la macchina di traverso, bloccando il traffico.

E in tutta quella confusione, la macchina di Calogero Di Mauro si allontanava sempre più, finché non fece una curva a destra e sparì oltre l’angolo della strada.

Furibondo, Fazio sferrò un pugno al volante, imprecando. Adesso non l’avrebbe riacciuffato più; tutta colpa di quei due deficienti che avevano pensato bene di mettersi a fare voci anche con gli altri automobilisti. Uno di loro teneva in mano una bottiglia mezza vuota e la brandiva come se fosse stata una clava. Ubriachi marci, li classicò Fazio, disgustato, smontando dalla macchina.
 



“Sono Di Mauro.”

“Ti hanno sganciato di dosso lo sbirro?”

“Sì, non lo vedo più. Dev’essere rimasto indietro.”

“Perfetto. Allora ci vediamo davanti alla casa del tuo amico professore. E ricordati che tieni le ore contate, Di Mauro.”

"Sarò lì fra cinque minuti",  promise l'uomo.

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