Tra un minuto vado via.

di Martolinsss
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Buonasera!! Eccomi qui con la mia prima fan fiction. Inizio subito dicendo che questa non è la storia tra Harry e Louis che volevo scrivere e di cui avevo accennato già nelle altre one shot. Al momento infatti mi è impossibile scriverla perchè tra poco avrò la maturità e trovare del tempo libero è davvero difficile. Senza scrivere però non sto stare e quindi ho voluto mettere quest'altra storia che non sarà comunque più di cinque o sei capitoli. Ho deciso così sia per ringraziare tutti coloro che hanno letto le mie storie sui Larry anche se non credono in loro e perchè mi mancava scrivere dal punto di vista una ragazza.
Ci tengo però a farvi capire che questo non significa che io non creda più in loro due, anzi sono già molto affezionata alla storia che ho in mente per loro e voglio essere sicura di scriverla nel modo migliore possibile, quindi non di certo ora che la scuola mi uccide e ho pochissimo tempo libero.Tra l'altro, sarà una relazione abbastanza platonica tra Louis e la protagonista, un viaggio più interiore che fisico quindi non c'è da preoccuparsi.. Harry e Louis con me sono al sicuro!
Spero che vi piaccia e che avrete la pazienza di aspettare in caso dovessi aggiornare con un po' di ritardo!! :)
Aspetto i vostri commenti e per favore non abbiate paura di "ferirmi" se c'è qualcosa che pensate io non stia scrivendo in modo adeguato, sono qui per imparare!
Buona lettura e un bacio a tutti!
Marta


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PROLOGO


Che cosa spinge una persona a cancellare, con un colpo di spugna, diciotto anni della sua vita e a ricominciare da zero? Dove trova la forza di strappare le proprie radici e piantare i suoi semi in una terra straniera sperando un giorno, grazie a un sole e a una pioggia completamente nuovi, di vederli germogliare di nuovo? Come si fa a guardarsi intorno e ad accettare che tra quello che vedi non c’è più niente che valga la pena di essere vissuto? Sophie non lo sapeva.
Una mattina si era svegliata e si era sentita strana, di troppo, perfino nel suo letto. Come se le stesse lenzuola in cui era avvolta fossero stanche di quel contatto forzato, che loro non avevano scelto, e quindi la stringevano, quasi fino a soffocarla, a schiacciarla sotto il loro gracile peso, giusto perché così lei si stancasse di quel tepore e se le scrollasse di dosso, liberandole finalmente da lei. E la sveglia che sul comodino suonava più stridula del solito, così che lei si decidesse ad alzarsi e ad andarsene da quella stanza il prima possibile.
Una straniera in casa sua.

Lo disse, ad alta voce, un mercoledì di metà settembre. C’era il sole quel giorno. Va detto perché quasi tutti pensano che quando una persona comunichi la sua decisione di partire, il cielo si ribelli e cascate di acqua gelida si riversino sull’asfalto grigio delle strade.
Ma non quella volta, non con Sophie. Il suo era un addio, è vero, ma neanche minimamente sofferto. Partire per lei significava soltanto libertà e fiducia in se stessa, una nuova occasione per sentirsi ancora viva dentro.
Molti ovviamente avevano provato a fermarla, a dissuaderla. Le avevano detto che stava scappando, che non avrebbe risolto niente, che non serviva andare lontano se i suoi demoni erano al sicuro dentro di lei. Forse un po’ le volevano davvero bene o forse era solo invidia perché lei stava effettivamente facendo quello che nessuno di loro aveva trovato il coraggio di fare. Ma a Sophie non importava.
Tutti quei giudizi, quelle parole vuote, erano come bolle di sapone che i suoi occhi non più da bambina si erano ormai stufati di guardare.

Lei era stanca di farsi piacere una vita che non faceva il minimo sforzo per venirle incontro o ricambiare i suoi timidi sorrisi. Una vita che non la capiva, che le stava troppo stretta e sapeva che era arrivato il momento di cominciare a fare di testa sua. Quello che pensavano gli altri non le interessava più. Come mai tutti improvvisamente si interessavano a lei? Perché di punto in bianco volevano tanto che restasse? Perché ci era voluta la certezza di un addio per fare capire loro che anche lei valeva qualcosa, che anche lei aveva il diritto di essere ascoltata, capita, amata come tutte le alte persone? Aveva capito che il fatto che lei non si piacesse non poteva più essere per gli altri una scusa o una giustificazione per trattarla con così poco riguardo.
Aveva sempre pensato che fosse stupido dire “meglio tardi che mai”, perché a volte, come in quel caso, quando è tardi è tardi, e c’è solo bisogno di silenzio e di distacco per non farsi più male a vicenda.

Sophie era pronta, non era mai stata così pronta in vita sua. Aveva passato gli ultimi anni della sua misera esistenza a tentare di portare a termine tutto quello che il resto del mondo si aspettava da lei. Aveva studiato ogni pagina di ogni capitolo di ogni libro di scuola.
Era stata onesta, giusta, educata, ma in qualche modo non era stato mai abbastanza. E lei ne soffriva. Perché non si sentiva mai a casa, nemmeno in camera sua. Non si sentiva mai al sicuro, mai al suo posto. Vedeva un aereo nel cielo e le prendeva uno strano senso di nostalgia e un nodo le si formava in gola. Vedeva un treno partire e pensava soltanto che lei, da lì, doveva andarsene al più presto.

Per un po’ quell’idea era stata solo un sogno, un bellissimo e rincuorante sogno al quale abbandonarsi ogni volta che non riusciva a scrollarsi lo schifo della vita quotidiana di dosso, un rifugio dove nascondersi quando le cose andavano troppo male. Poi, poco alla volta, era nato in lei il pensiero che, forse, quello non era il modo in cui la sua vita avrebbe dovuto andare, che quello non era il modo in cui le persone normali vivevano, che soffrire così da parte sua non era solo inutile, ma anche e soprattutto ingiusto.
Sophie iniziò a rendersi conto che forse aveva sbagliato ad avere sempre voluto essere perfetta in tutto ciò che c’era da fare, sempre puntuale e in ordine. Aveva capito che non sono cose come quelle a salvare la gente, perché l’unico modo per tenersi a galla sono i desideri che uno ha, così intimi e nascosti dentro di noi che dirli ad alta voce ci fa quasi paura.
Aveva capito che, se voleva salvarsi, finché ne era ancora in tempo, doveva stare dalla parte dei desideri perché loro l’avrebbero tirata fuori da quella spirale senza fine, perché sono l’unica cosa che conta e che ci fa sorridere alla fine della giornata. Perché, dopotutto, i desideri sono l’unica cosa vera che una persona ha.

Dopo aver superato gli esami più grandi della sua vita, la tanto temuta maturità, e ottenuto un diploma di cui
non le importava nulla, si chiuse nella sua camera, ma piano, senza sbattere la porta, e iniziò a mettere via tutto.
In quanti scatoloni stava la sua vita?
I suoi libri, i suoi vecchi diari pieni di citazioni che parlavano per lei, i suoi cd. Staccò le foto dalle pareti e tolse le lenzuola dal letto, lasciandolo bianco, indifeso e nudo. Aveva coperto e riposto tutto con cura, perché quando si era sentita sola, quelle cose erano state quello che di più simile ad un amico lei avesse mai avuto. Fece tutto questo con calma ed attenzione perché quelle cose, le sue, non si meritavano di essere sommerse di nostalgia e di polvere una volta che lei non sarebbe stata più lì ad avere bisogno di loro. Per un attimo fu anche tentata di portarle via con lei, ma se voleva partire, se voleva cambiare, doveva trovare il coraggio di lasciarsi indietro tutto, senza possibilità di voltarsi, senza contatti, senza ponti di salvataggio.

Sua madre, forse la sola persona che l’avesse mai amata per quello che era, l’aveva lasciata andare. Con gli occhi lucidi e la morte nel cuore l’aveva accompagnata all’aeroporto, l’aveva aiutata a mettersi lo zaino sulle spalle e l’aveva guardata andare via, capendo che, anche se faceva male, quello era l’unico modo in cui sua figlia avrebbe potuto trovare se stessa e rischiare di essere felice. Ora si sentivano un paio di volte al mese, ma sua madre, ogni volta che la chiamava, la lasciava parlare e mentre l’ascoltava copriva con la mano la cornetta per non farle sentire i suoi singhiozzi, perché forse lei era l’unica ad aver capito che sua figlia, almeno per ora, non sarebbe tornata.

Sono trascorsi mesi da quella separazione e le cose per Sophie non avrebbero potuto andare meglio. O forse sì, ma rispetto a tutta la sfortuna che aveva avuto fino a quel momento, il semplice fatto di avere un posto sicuro dove stare e da chiamare casa, dove non c’era un silenzio assordante  durante la cena, rotto soltanto dalla voce squillante della giornalista alla tv, la faceva sentire  meglio di qualsiasi altra cosa.
La città dei suoi sogni, Oxford, finalmente era diventato il suo posto nel mondo, la sua casa.
All’inizio non era stato del tutto facile ambientarsi, perché aveva dovuto lottare per farsi spazio tra quel groviglio di strade e quegli edifici universitari così antichi, silenziosi ma allo stesso tempo imponenti. Ricordava il senso di smarrimento le prime notti, quando il rumore della pioggia battente la svegliava all’improvviso e lei si ritrovava, da sola, in un letto che ancora non riusciva a chiamare suo.

Per quanto le fosse sempre piaciuta l’Inghilterra, vivere lì da cittadina e non come semplice turista, era stata dura anche per lei. Lei che non si era mai sentita completamente italiana e non si vergognava a dire che, secondo il suo parere, era nata nel paese sbagliato. Non andava matta per le giornate di sole che il suo paese avrebbe potuto offrirle per la maggior parte dell’anno. Non le interessava studiare di quanto fossero stati potenti e fieri i Romani, non le piaceva nemmeno poi così tanto la pasta al pomodoro.
Sophie si ricordava ancora l’angoscia e la tristezza che l’assalivano ogni volta che tornava a casa dopo qualche settimana trascorsa all’estero. Quei giorni lontani erano come una boccata d’ossigeno rigenerante per i suoi polmoni ormai stanchi di respirare solo ipocrisia e giudizi affrettati sul suo conto. Con un po’ di fortuna, ora non avrebbe più dovuto sentirsi così.
Forse, fuggire una volta le era servito a non doverlo fare mai più.
Dopo tanti anni passati a sentirsi sempre fuori posto, tra parentesi, dopo le mille giornate in cui aveva sentito sulle sue labbra il sapore amaro della vita, aveva trovato un mare nel quale nuotare non le faceva paura, una corda che non minacciava più di soffocarla, ma che la teneva ancorata al suo nuovo porto sicuro, impedendole di affondare ancora.

Sophie, ora che stava bene, non aveva più nostalgia o rancore per quella che era stata la sua vita prima della grande svolta.
Non ce l’aveva più con i suoi genitori per averla fatta crescere in una casa senza amore, con i muri impregnati di silenzio e di rimorsi. Non c’era affetto, aiuto reciproco o conforto a tenere insieme quei mattoni. Nessun legame, nessuna compassione, tanto che lei spesso si era chiesta come facesse quella casa a stare ancora in piedi, a non essere già crollata sotto il peso delle cose non dette, degli abbracci non dati.
Non dava più la colpa ai suoi amici per non averla saputa ascoltare, per averla lasciata da sola quando lei chiedeva, in silenzio, di essere saltava. Dio solo sa quante volte lei aveva avuto bisogno di silenzio, di camminare da sola.
E soprattutto Sophie aveva chiesto scusa a se stessa, aveva saputo perdonarsi per essersi fatta così tanto male, per avere cercato così a lungo di adattarsi ad un mondo che chiaramente non era fatto per lei. Aveva capito che non era stata colpa di nessuno, che era semplicemente andata così e che doveva essere grata a tutte quelle piccole cose, anche le più buie e le più dolorose, che le avevano fatto prendere la rincorsa e dato la spinta di cui aveva bisogno per andare via.
Si era venuta incontro, e a metà strada aveva ritrovato se stessa. Aveva finalmente imparato a camminare al centro della strada, senza più oscillare in equilibrio lungo il bordo, con la paura di sbandare e di precipitare giù da un momento all’altro.
Aveva capito chi voleva diventare e non avrebbe mai più permesso, a nessuno, di mettere un’altra volta in discussione tutto il piccolo mondo che lei si portava dentro, con così tanta delicatezza e fragilità.

O almeno, questo era quello che Sophie pensava prima di incontrare quegli occhi.
Prima che una sfumatura di blu la facesse sentire nuda come il giorno in cui si era accorta di non avere più niente per cui vivere.
Prima che, nella sua vita, arrivasse l’uragano Louis.

Un uragano che tutto distrugge e nulla risparmia, trascinando con sé, nel suo vortice,pezzi rotti e consumati di una vita che ormai non aveva più nulla da dire.
Un uragano che non si fermò nemmeno di fronte a un cuore in via di guarigione, che ancora da solo non sapeva respirare; un cuore non ancora del tutto intero, che se andavi a sfregare le vecchie ferite sanguinava ancora un po’.
Un uragano che sapeva che non si può davvero cominciare a ricostruire qualcosa senza prima averla liberata da quello che in essa non stava più in piedi, che non funzionava più.

Un uragano che fu in grado di ripulire Sophie da tutto ciò che ancora le faceva male, da tutto ciò che la frenava e soprattutto dalla persona solitaria e malinconica che lei, ormai, non si meritava più di essere.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


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CAPITOLO 1

 
Quando quella domenica la sveglia iniziò a suonare maledii me stessa per aver dimenticato di spegnerla la sera prima. Sapevo, infatti, che una volta svegliata non sarei più riuscita a riaddormentarmi. Mi ero bruciata per l’ennesima volta la possibilità di passare una domenica mattina a dormire, invece che stare sveglia a fissare il soffitto azzurro di quella che era, da poco di più di cinque mesi, la mia nuova camera. Quella stanza mi era piaciuta fin dal primo giorno, quando la famiglia presso la quale avrei lavorato per il prossimo anno me l’aveva mostrata.
Mi piaceva perché occupava tutta la parte sinistra del secondo piano, quasi come una specie di soffitta e c’era pure un piccolo bagno tutto per me. Le camere dei bambini di cui dovevo prendermi cura si trovavano invece al primo piano, accanto a quella dei genitori. La mia stanza rappresentava una specie di rifugio all’interno di quella stessa casa, dove potevo andare a leggere o semplicemente stare un po’ da sola, quando capitava che ne avessi ancora bisogno.
Stavo per ricacciare la testa sotto il piumone, sperando che il tepore di quella gelida mattina di dicembre vincesse contro la mancanza di sonno, quando un piccolo fulmine, con già l’impermeabile e gli stivaletti per la pioggia addosso, si precipitò su di me, impedendomi quasi di respirare per la botta e lo spavento.
 
“Sophie! Sophie! Svegliati è ora!” mi gridò Elizabeth nell’orecchio, cercando di togliermi le coperte di dosso e colpendomi col cuscino di piuma per farmi aprire gli occhi. All’improvviso mi ricordai che giorno era e capii che non avevo dimenticato di spegnere la sveglia, ma che l’avevo puntata apposta per non rischiare di fare tardi. Era domenica, ma quel giorno dovevo accompagnare Elizabeth e Katherine in quella che loro definivano la loro missione segreta, peccato che l’avessero già svelata a tutte le loro compagne di classe, parenti e vicini di casa.
 
“Sono sveglia! Sono sveglia! Lasciami alzare!” le dissi nel migliore accento inglese ch riuscissi mettere piedi dopo essere stata svegliata così di soprassalto. Già, l’inglese. Una delle cose che adoravo di più dell’essere in Inghilterra era proprio la possibilità, anzi il dover parlare quella lingua ogni minuto di ogni giorno. Poteva sembrare scontato, ma non per una persona come me che ogni volta che sentiva qualcuno parlare inglese in Italia, in un negozio, per strada, o in un’intervista alla televisione, rimaneva imbambolata ad ascoltare, desiderando con tutte le sue forze di riuscire a capire tutto e chiedendosi se un giorno sarebbe riuscita anche lei ad avere quell’accento.
 
“Dai che Katherine ti sta già preparando la colazione!” Quelle furono le parole che mi convinsero definitivamente ad alzarmi, inorridita al pensiero di quella ragazzina di nove anni da sola alle prese con i fornelli. Mi vestii rapidamente, senza prestare molta attenzione agli abiti che mi gettai addosso e legando i capelli in una comodissima coda alta. Non m'importava nulla di dove saremmo andate quel giorno, quindi perché sprecare tempo a cercare di migliorare il mio aspetto?
Scesi in cucina e le trovai tutte e due già vestite e pettinate, impazienti di andare. A volte, quando si vestivano uguali, facevo ancora un po’ fatica a distinguerle. Da perfette gemelle, erano uguali in ogni singolo dettaglio, ma appena aprivano bocca non avevo più dubbi su quale delle due stesse parlando. Mi avevano preparato una tazza di cereali, un bicchiere di succo di arancia rossa e mi avevano addirittura tostato due fette di pane integrale, il mio preferito. Forse volevano ringraziarmi per aver accettato di accompagnarle o forse volevano solo uscire di casa il prima possibile. Vedendole scalpitare in quel modo, rinunciai alla mia lenta colazione della domenica mattina, m'infilai il cappotto e la sciarpa di lana, quella rossa, perché fuori la pioggia non accennava a smettere.
In quel momento Adam apparse sulle scale, con ancora il pigiama a quadretti blu addosso. Tredici ani di curiosità, fumetti e videogiochi, tenuti insieme in 150 cm di altezza. Era ancora basso per la sua età, ma in compenso era il ragazzino più intelligente che io avessi mai conosciuto, come un piccolo Seth Cohen. Trattenendo uno sbadiglio scese le scale e guardò la scena nell’ingresso con aria divertita.
 
“Condizioni meteorologiche perfette per una gita domenicale.”
Commentò ed io risi alla sua battuta, desiderando con tutto il cuore di non dover uscire sotto quell’acqua che prometteva di essere gelida.
 
“Tu piuttosto sei sicuro di non voler venire con noi?” chiesi speranzosa.
 
“Sicurissimo, andate e divertitevi, non preoccupatevi per me.” Questa volta lo guardai senza più preoccuparmi di nascondere la mia invidia.
Da quando poi quel ragazzino era diventato spiritoso? I primi giorni successivi al mio arrivo, Adam era stato un fantasma. Dopo aver mormorato un timido “Benvenuta” aveva fatto tutto il possibile per evitarmi e quelle poche volte che non ci riusciva, come quando ci incrociavamo sulle scale, arrossiva violentemente per poi scappare via.
Tutto era cambiato un pomeriggio di inizio ottobre, quando a casa c’eravamo soltanto io e lui. I suoi genitori, Marie e Clark erano ancora entrambi al lavoro, mentre le due gemelline erano a lezione di danza. Rispettando la sua timidezza, lo avevo lasciato tranquillo in salotto a giocare ai videogiochi, mentre io leggevo in cucina. Il cielo non prometteva niente di buono, si era alzato un forte vento e da qualche minuto aveva anche cominciato a piovere. Pioveva, ma lievemente e il tuono che risuonò nell’aria qualche istante dopo, facendo vibrare le pareti della stanza, ci colse entrambi di sorpresa. Improvvisamente andò via luce, lasciandoci nell’oscurità più totale. Erano solo le cinque di pomeriggio, ma in ottobre in Inghilterra faceva buio molto presto.
 
“Sophie, Sophie dove sei..” sentii Adam piagnucolare nella stanza vicina. Facendomi luce con lo schermo del cellulare lo raggiunsi e lo trovai accucciato sul divano, come un cucciolo ferito e spaventato. Istintivamente lo presi in braccio, tenendolo stretto a me per tranquillizzarlo.
 
“Non preoccuparti, è stato solo un tuono, tra poco tornerà la luce” gli dissi, ma lui non mi ascoltava, continuava a mormorare parole troppo piano perché io potessi capire.
 
“Adam, calmati, ti prego, non capisco che cosa stai dicendo!” lo supplicai, iniziando a spaventarmi.
“Non voglio, non voglio che tornino Sophie!" Chiudi la porta, così che non entrino, stanno per arrivare... ”
 
“Chi, Adam? Chi deve arrivare?” gli chiesi, la mia voce più acuta del solito.
 
“I poliziotti! Non.. Non voglio che vengano ancora! Non voglio vedere la mamma piangere un’altra volta! Mandali via, ti prego, mandali via Sophie! Lui.. Non potrà più tornare lo stesso!” Rimasi ad ascoltarlo senza capire, senza riuscire a dare un senso alle sue suppliche, senza sapere cosa fare. Dopo qualche minuto la luce tornò, gli asciugai le lacrime e mi offrii di giocare un po’ insieme. Quella sera, dopo che tutti e tre i bambini furono andati a dormire, mi trattenni in cucina con i loro genitori e riferii l’accaduto.
 
“Me lo ricordo come se fosse ieri” iniziò a raccontare Marie, senza riuscire a guardarmi negli occhi, mentre Clark ripose il giornale che sapeva non sarebbe più stato in grado di leggere. “Era una giornata come questa, fredda, grigia, ma nessuno si sarebbe mai aspettato una tempesta simile. Nessuno, non Micheal e nemmeno io, quando acconsentii che uscisse.” Micheal, il loro primo figlio, sapevo pochissimo su di lui. Avevo visto qualche sua fotografia sulla mensola sopra il camino e avevo chiesto di lui, immaginando che studiasse in qualche università lontana. Mi fu invece detto che era rimasto ucciso in un incidente stradale, ma fino a quella sera non mi era stato fornito nessun dettaglio e io, naturalmente, non avevo fatto altre domande.

“All’improvviso cominciò a piovere” Marie continuò “Forte, sempre più forte. Le ore passavano e di Micheal nessuna traccia. Mi dicevo che aveva vent’anni, che non era più un bambino e che se la sarebbe cavata. Mi ripetevo la frase che mi aveva detto poco prima di uscire, quando gli avevo chiesto che cosa stesse facendo ancora davanti allo specchio ‘Tra un minuto vado via’ mi aveva risposto, e io l’avevo lasciato andare, sorridendo tra me e me, non sapendo che quelle erano le ultime parole che gli avrei sentito dire.
Due colpi, secchi e asciutti, sulla porta di casa verso le undici demolirono la mia vita. Erano due poliziotti, con la divisa blu fradicia, ma i loro sguardi erano ancora asciutti, distaccati, spenti. Mi dissero, senza troppi giri di parole, che Micheal aveva avuto un incidente. La sua moto era scivolata a causa della pioggia e lui era caduto battendo la testa. Morto sul colpo. Nessun bisogno di correre all’ospedale, nessuna speranza a cui aggrapparsi. Micheal, mio figlio, il mio primo figlio, non si sarebbe più rialzato da quell’asfalto bagnato, non avrebbe più guidato quella moto, non si sarebbe più infilato il casco per farmi stare tranquilla, dicendomi che avrebbe guidato piano.” A quel punto Marie scoppiò a piangere e non riuscì a dirmi nient’altro, ma non ce ne fu nemmeno bisogno. Ecco perché il temporale aveva avuto così effetto su Adam quella sera: gli aveva ricordato la morte del fratello maggiore, la sofferenza e l’orrore di quella notte.

Ricordo che tornai nella mia stanza, mi sedetti sul letto e restai per un po’ ferma così, a fissare il vuoto davanti a me. Mi sentivo così stupida, così piccola di fronte a tutto quel dolore. La mia vita, in confronto a ciò che quella famiglia aveva dovuto passare, era un niente. Forse era per quello che mi avevano assunta in primo luogo, per fare in modo che gli altri loro figli non rischiassero di trovarsi più da soli in situazioni come quelle. Non mi accorsi neanche di aver cominciato a piangere, le lacrime scendevano veloci sulle guance, scivolando poi nell’incavo del mio collo, facendomi rabbrividire. Da quel giorno il rapporto con Adam cambiò completamente, come se ci fosse un nastro invisibile a tenerci legati. Iniziò a fidarsi di me, a lasciare che mi prendessi cura di lui e divenne il fratellino minore che non avevo mai avuto. Avevo imparato a volergli bene, a rispettare la sua riservatezza, i suoi spazi, ecco perché quella mattina fui così sorpresa di sentirgli fare delle battute. Era chiaro tanto a me quanto a lui che lo invidiavo per potersene stare a casa in pigiama, sdraiato sul divano, mentre io dovevo uscire con Elizabeth e Katherine.
 
“Cerca di non dare fuoco alla casa, ok?” gli dissi, prendendolo in giro.
 
“Ma con chi pensi di avere a che fare? Sono un uomo io!” mi disse fingendosi offeso.
 
“Sì sì, come no! Saremo di ritorno per le 16 credo, spero” e ci fiondammo sotto la pioggia gelata. Aspettammo per qualche minuto l’autobus sul ciglio della strada e una volta salite, mentre le due chiacchieravamo eccitate, facendo progetti e supposizioni, io controllavo e ricontrollavo la cartina, sperando di arrivare nel posto giusto. Dopo venti minuti di viaggio, scendemmo e guardandomi intorno mi accorsi di essere parecchio lontana dal centro di Oxford.
 
“Siete sicure che l’albergo sia da queste parti?” chiesi con voce incerta e strizzando gli occhi, cercando di leggere il nome della via attraverso le gocce di pioggia.
 
“Sì sì, deve essere per forza qui” mi rispose Katherine e prendendomi per mano iniziammo ad incamminarci in quella che speravo fosse la direzione giusta. Girammo a vuoto per circa una mezzoretta e ormai, nonostante l’ombrello, avevo il cappotto umido e i capelli appiccicati alle guance.
 
“Non capisco il bisogno di alloggiare in un albergo così in periferia” mi lamentai qualche minuto dopo.
 
“Te l’ho già spiegato” mi rispose Elizabeth che, nonostante il freddo, non aveva perso il suo buon umore.
 
“Se stessero nel solito albergo in centro, le fan lo prenderebbero d’assalto e sarebbe rischioso per la loro sicurezza.” Sbuffai sonoramente a quelle parole.
Cinque ragazzini montati e presuntuosi, che invece che essere gentili e disponibili con le loro fan, facevano di tutto per evitarle, dando la colpa alla loro sicurezza. Cinque ragazzini che credevano di avercela fatta, di avere sfondato e che si sentivano quindi in diritto di trattare con sufficienza qualsiasi altro essere umano sulla faccia del pianeta che non fosse la loro famiglia, band e amici più stretti. Cinque ragazzini che non si interessavano minimamente a quello che le loro fan sarebbero state disposte a fare per vederli anche solo un istante, di sfuggita, mentre uscivano dall’ albergo per salire sul pullman.
E tra quelle migliaia di fan c’erano anche Elizabeth e Katherine. I poster di quei cinque ragazzini, gli One Direction, erano stati la prima cosa che avevo visto quando ero andata in camera loro, per rifare i letti, il giorno dopo al mio arrivo. In particolare gli occhi di uno di dei cinque mi guardavano da ogni angolo della stanza. Gli occhi di quello che si chiamava, in base a quanto mi spiegarono poi, Louis. Era il loro preferito in assoluto e io non capivo che cosa avesse in più rispetto agli altri per aver colpito così la loro attenzione. A essere sincera, non capivo che cosa ci trovassero di speciale in ognuno di loro. Avevano tutti più o meno la mia età, ma non avremmo potuto essere più diversi. Senza considerare il fatto che loro fossero praticamente ovunque, in Inghilterra ancora più che in Italia. Ogni giornale che compravo aveva al suo interno almeno una loro foto e non c’era programma televisivo che non avrebbe fatto carte false per averli come ospiti. Ero stufa di questi One Direction e delle loro canzoncine commerciali che risuonavano in qualunque negozio io entrassi.
A volte il sabato pomeriggio, quando i tre bambini non avevano bisogno di me, andavo a lavorare in una piccola libreria in centro, più per la simpatia che provavo per la signora anziana che ci lavorava piuttosto che per i soldi che effettivamente mi dava. Un giorno, mentre ero di turno, entrarono due ragazzine che, dopo aver vagato per minuto tra gli scaffali, mi chiesero dove potevano trovare il nuovo libro degli One Direction.
 
“Perché adesso si sono messi pure a scrivere?” chiesi inorridita e il mio commento fu sufficiente per farle uscire infuriate dal negozio. Ecco perché ero stata così reclutante ad accettare di accompagnarle quella mattina, oltre ovviamente al fatto che fosse domenica. Marie e Clark però erano fuori città per lavoro e quindi l’ingrato compito era toccato a me.
 
“Gliel’avevo promesso tempo fa per il loro compleanno” mi disse Clark con occhi supplicanti “Non avrei mai immaginato che sarebbero effettivamente venuti a Oxford e se non permettessi loro di andarci non me lo perdonerebbero mai.” E io, mio malgrado, avevo dovuto accettare.
Dopo aver chiesto informazioni a qualche passante di fortuna riuscimmo a trovare l’albergo, ma la scena che si presentò ai nostri occhi quando arrivammo fu ben diversa da quella che ci aspettavamo.
 
“Per fortuna che eravate le uniche a sapere il nome dell’albergo” dissi non riuscendo a trattenere un sorrisetto compiaciuto. Decine e decine di ragazze, se non centinaia, erano già appostate davanti all’uscita, aspettando loro, gli One Direction. Avrei dovuto provare fastidio, perché quello significava dover attendere ore e ore anche per cercare di avere soltanto un autografo, invece ero contenta che in così tante fan avessero scoperto dove si nascondevano, vanificando il loro misero tentativo di evitarle. Ci mettemmo in mezzo alle altre ragazze, formando una specie di tettoia con i nostri ombrelli colorati, e iniziammo ad aspettare. Arrivava sempre più gente, tanto che nel giro di due ore furono necessarie delle transenne. Erano tute così prese dalle canzoni che stavano cantando che quando il primo dei cinque uscì quasi nessuno se ne accorse.
 
“Zayn!” urlò una ragazzina dai capelli rossi vicinissima alla transenna, indicando una figura incappucciata contro le gocce di pioggia e lo sguardo delle sue fan, che si affrettò ad attraversare la strada e a salire sul pullman senza voltarsi nemmeno una volta. Grida di sorpresa e di delusione divagarono tra la folla.
Lo seguirono pochi istanti dopo Liam, Harry e Niall, sorridendo a mo’ di scusa per non potersi trattenere più di qualche istante, giusto il tempo di scambiare qualche abbraccio con le più fortunate in prima fila. Io ero semplicemente senza parole, sapevo che erano ragazzini snob e senza rispetto, ma non avrei mai immaginato fino a questo punto. Martina e Ludovica continuavano a spingersi in avanti, sempre più schiacciate contro la transenna, sperando di vedere meglio.
 
“Ora esce Louis e vedrai che si ferma. Ci vedrà e ci saluterà. Vedrai. Dobbiamo solo aspettare, Sophie. Adesso Louis arriva.” Continuavano a ripetere. Potevo vedere che ci credevano davvero e dentro di me iniziai a sentirmi male al pensiero di quello che invece sarebbe molto probabilmente successo. Quattro si erano comportati in quel modo, perché il quanto avrebbe dovuto essere tanto diverso?

Dopo qualche istante uscì anche lui.
Il mio primo pensiero quando lo vidi fu che era la cosa più luminosa che io avessi mai visto. Il cielo era plumbeo, ma in qualche modo i suoi capelli scintillavano, lucenti. Il bianco brillante dei suoi denti, la carnagione chiara e luminosa. Per non parlare poi della scintilla nei suoi occhi, come se stessero brillando di luce propria.
Aveva uno sguardo attento, lucido, sveglio e si rese subito conto della quantità spropositata di persone che lo stava aspettando, gridando il suo nome, come se fosse un Dio. E un Dio era esattamente ciò che lui si sentiva, ce l’aveva scritto in faccia quanto tutto quello gli piacesse. Ebbe solo un attimo di esitazione, nel quale il suo sguardo si perse tra la folla, senza guardare nessuno in particolare. Poi la sua mano corse veloce tra i capelli, per ravvivare il ciuffo e Louis iniziò a muoversi in avanti, in direzione del pullman.
Aveva una grazia innata, si spostava con tale leggerezza che pareva si stesse librando nell’aria, senza che i suoi piedi avessero quasi bisogno di poggiare sul terreno. Continuò la sua avanzata e, velocemente come era arrivato, altrettanto velocemente rischiava di sparire, trasportato via nella sua bolla di sapone, perfetto e irraggiungibile. Non tenne lo sguardo basso, non aveva un’espressione corrucciata e scontrosa come quella di Zayn, ma non avrebbe potuto essere più distaccato e indifferente. La folla tratteneva il respiro, e io con lei, in attesa di un suo cenno, di un suo sorriso, che però non arrivò.
La strana ipnosi in cui ero caduta si ruppe, come un elastico tirato al massimo della sua resistenza, quando mi accorsi che era ormai giusto davanti alla nostra transenna. In quell’istante fu come se qualcuno avesse tolto il stato muto dalla televisione e tutti i rumori che avevo inspiegabilmente smesso di sentire, occupata com’ero a guardare quegli occhi, mi si riversano addosso, come l’acqua gelata che stava cadendo dal cielo, in caduta libera.
Il rumore più acuto e disperato di tutti erano le voci di Elizabeth e Katherine, che erano passate dalla felicità e dall’eccitazione alla paura e all’incredibilità in meno di un secondo, il tempo che c’era voluto a Louis per passare loro davanti e andare oltre, fiero e incurante del loro bisogno di lui. Il cuore mi rimbalzava nel petto, selvaggio, senza controllo, senza che io riuscissi a fermarne il battito accelerato e senza che io riuscissi a calmare le due bambine. Il loro sconvolgimento era così evidente e angosciante che perfino le altre ragazze vicino a noi avevano smesso di urlare per capire cosa stesso succedendo, perché stessero così male.
Era solo un cantante dopotutto, no? Non era il primo ragazzino che si era montato la testa e di certo neanche l’ultimo. Ma a sentire la disperazione nelle loro voci sembra che ci fosse molto di più. E infatti era così.

“Micheal! Micheal! Torna indietro, ti prego!” Gridò Katherine, con le braccia ancora rivolte verso Louis, il quale si stava allontanando velocemente, come se avesse dei pattini al posto delle scarpe da ginnastica.
“Micheal, Micheal!” l’aiutò Elizabeth, tra i singhiozzi. Tutti si guardavano intorno, cercando di capire chi le due stessero chiamando con così tanta enfasi. Io ero paralizzata, incapace di comprendere che cosa stesse succedendo.
Fu un attimo. La mia mente divenne bianca, accecata da un solo ricordo, la foto di Micheal, il loro fratello maggiore, sulla mensola in salotto, quella sopra al camino.
Lo stesso taglio di capelli. Lo stesso colore degli occhi. Lo stesso sorriso.
Micheal, Louis, quasi due gocce d’acqua. Quasi. Il naso del ragazzo ormai morto era più schiacciato, la mascella più pronunciata. Ai miei occhi la differenza era evidente, ma non a quelli di due bambine, non a quelli di Elizabeth e di Katherine.
Tutto mi fu chiaro. I poster di Louis in camera, l’ossessione per la band in cui lui cantava e il disperato bisogno di riuscire a vederlo oggi. Volevano poter intravedere un’ombra di Micheal in lui, riassaporare per un istante il suo ricordo, prima di dovergli dire addio un'altra volta e accettare, ancora, la sua scomparsa. Louis per loro era Micheal, in tutto e per tutto, non importava quanto irrazionale e impossibile quel pensiero fosse.
I loro singhiozzi fuori controllo mi riportarono alla realtà. Mi tornò in mente quanto aveva pianto sua madre raccontandomi dell’incidente, la paura di Adam del temporale e fu semplicemente troppo.
Una strana furia si impossessò di me e mi feci largo tra la folla, spingendo tutti di lato, senza nemmeno chiedere scusa. In pochi secondi fui davanti al pullman, sul quale Louis stava per salire, attardandosi per farsi ammirare un’ultima volta. Quasi posseduta, passai sotto il braccio teso del bodyguard e improvvisamente non più di mezzo metro mi separavano da lui. Il mio respiro affannato lo fece voltare, un sorrisetto beffardo dipinto sul suo volto, aspettandosi l’ennesima fan in lacrime.
Sorrisetto che subito però si spense, morendogli sulle labbra, quando vide le fiamme nei miei occhi e le mani che mi tremavano, per la rabbia e la tensione.
 
“Ma chi diavolo ti credi di essere?” sibilai a bassa voce, sicura tuttavia che lui mi avesse sentita.
Rimase impassibile, come se tutta quella scena non lo riguardasse. Non pareva nemmeno infastidito, solo quasi annoiato e quello fu tutto ciò che mi servì per scattare in avanti, annullare l’abisso tra di noi e tirargli uno schiaffo sulla guancia sinistra. La folla trattenne il respiro e lo schiocchio risuonò nell’aria.
Fu l’unico suono che io sentii, che Louis sentì, prima che centinaia di altre voci scoppiarono intorno a noi. Due paia di braccia sconosciute, forti e prepotenti, mi strinsero, tirandomi via da lì.

L’ultima cosa che vidi furono il blu e il rosso. Il blu dei suoi occhi e il rosso sulle sue guance.
La sinistra lo era per il mio schiaffo, ma una seconda macchia di colore si stava velocemente espandendo sull’altra guancia.

Louis e la sua vergogna furono l’ultima cosa che fui in grado di vedere. Poi tutto diventò nero e io non seppi più nulla.



Spazio personale (perchè scrittrice proprio non lo sono):

Buonasera a tutti :) eccovi qui il primo capitolo. Dopo avervi raccontato la storia di Sophie finalmente iniziano a succedere le prime cose. All'inizio sembra tutto distaccato, i pezzi sembrano non coincidere, ma piano piano tutto torna e si capisce che sono parti della stessa storia. Mi scuso che non sia proprio il massimo come capitolo, ma oggi per me, come per molte altre ragazze, è una giornata un po' del cavolo e l'umore non è dei migliori. Auguri comunque a tutti coloro che andranno oggi o domani al concerto!! Spero in tante recensioni e se avete suggerimenti o consigli come sempre non esitate a scrivermi!
Se volete mi trovate anche su twitter! Seguitemi se vi va che mi fa tanto piacere!! 
https://twitter.com/Martolinsss
Buona lettura a tutti e a settimana prossima con il secondo capitolo! Un bacio!
Marta

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***



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CAPITOLO DUE


Avvenne tutto molto velocemente.
Prima che me ne potessi rendere conto, il pullman con sopra Louis era partito e io mi ritrovai sul bordo della strada, con le braccia forti e robuste del bodyguard ancora strette intorno a me.
Voleva tenermi ferma, ma non capiva che non ce n’era nessun bisogno, perché anche se avessi voluto non sarei stata in grado di muovere un muscolo. Avevo dato uno schiaffo a Louis, la star, il cantante degli One Direction, eppure il mio cuore batteva ancora, io continuavo a sbattere le palpebre e tutto ciò mi sembrava impossibile, surreale, come se quello che era appena successo non fosse dipeso da me.
Vedevo la scena replicarsi all’infinito davanti ai miei occhi e mi sembrava il gesto, la follia di un’altra persona, solo che quella persona ero io. Non ero però l’unica a essere scioccata, infatti un milione di occhi mi stavano guardando, per capire cosa fosse successo. C’era chi era incredulo, chi rideva e chi semplicemente pensava che io fossi matta, ma che ne sapevano loro di me? Del motivo per cui l’avevo fatto?

“Ora lei viene con noi, signorina” mi disse all’improvviso il bodyguard, interrompendo il flusso di pensieri nella mia mente e scuotendomi un poco per farmi camminare. Ma le mie gambe si rifiutavano di muoversi e allora quasi mi spinse dentro la hall dell’albergo, dalla quale appena pochi minuti prima gli One Direction erano usciti, da cui Louis era uscito. Mi portarono in una saletta al primo piano e dopo qualche istante di silenzio iniziarono ad arrivare alcune persone. L’ultima chiuse la porta dietro di sé e tutti iniziarono a parlare nello stesso momento. Guardie del corpo, managers, erano tutti molto agitati e sembravano quasi non accorgersi di me che stavo immobile, appoggiata allo schienale freddo della sedia.
Fu in quel momento che mi accorsi di essere completamente fradicia e che fuori stava ancora piovendo. Dopo qualche minuto di trambusto generale, sembrarono ricordarsi improvvisamente di me e si voltarono nella mia direzione.

“Signorina” mi disse uno di loro con un tono di voce talmente pieno di disprezzo che mi fece venire i brividi “Alla luce dei recenti avvenimenti, la devo pregare di riempire questo modulo con le sue generalità e la invito a farlo prestando la massima attenzione alla correttezza dei dati inseriti.” Lo disse guardandomi negli occhi, dietro un paio di occhiali da vista con la montatura metallizzata, come se fossi la peggior specie di criminale con cui avesse mai avuto a che fare.

“A cosa serve questo modulo?” sentii la mia voce chiedere. Ero davvero io quella che aveva parlato? Mi pareva impossibile.

“Giusto un modo per essere sicuri di poterla rintracciare nel caso molto probabile che il signor Tomlinson decida di sporgere denuncia” e detto ciò non riuscì proprio a controllare il ghigno che gli si allargò sul viso e che forse, dopotutto, non stava nemmeno provando a nascondere.

“Che cosa pensava? Di prendere a schiaffi il primo milionario che le capitasse a tiro e di passarla liscia? Siamo dei professionisti e, a differenza sua, abbiamo una giornata piena di impegni e lei ci sta facendo perdere tempo. Quindi compili questo benedetto modulo e poi se ne vada” disse senza nemmeno più disturbarsi a fingersi educato.
Qualcuno spinse tra le mie dita una penna, di metallo, fredda, e io iniziai a scrivere i miei dati, sperando così che mi lasciassero andare non appena avessi finito. Mi sembrava di stare firmando la mia condanna a morte, perché non appena Louis si era ripreso dalla vergogna di ciò che era successo, dai suoi occhi avevo capito che non avrebbe lasciato correre, che non avrebbe accettato la pubblica umiliazione senza vendicarsi.
Quando finalmente mi lasciarono uscire, gran parte della gente se n’era già andata ma Katherine ed Elizabeth, grazie a Dio, erano ancora lì che mi aspettavano, strette nei loro impermeabili colorati. Mi bastò guardarle un istante per capire che erano furiose.

“L’hai fatto andare via” mi dissero con gli occhi appannati da ingenue ma sincere lacrime di rabbia. “Se n’è andato per colpa tua e ora non vorrà più vederci.” Non sapevo se stessero parlando di Louis o di Micheal, non capivo che significato loro avessero attribuito al mio schiaffo, ma di certo non avevano compreso che l’avevo fatto per loro.
Il viaggio di ritorno fu la cosa peggiore. L’autobus era semivuoto, la pioggia continuava a battere sui finestrini e loro non aprirono bocca nemmeno una volta. Una volta arrivate a casa si tolsero gli abiti umidi senza lasciare che io le aiutassi e si rifugiarono nella loro stanza, chiudendomi fuori dal loro dolore.
Di fronte a quella porta chiusa per la prima volta mi sentii di troppo, una straniera in quella casa e per un istante pensai perfino di fare le valigie e di partire di nascosto, senza dire niente a nessuno. Ero brava a farlo, avevo passato una vita intera a fuggire da quello che mi faceva paura, da quello che non mi piaceva e da quello che anche solo rischiava di farmi male.

“Che stai facendo impalata lì? Sentii Adam esclamare dietro di me. Quasi urlai per lo spavento, non ricordo nemmeno quanto tempo ero stata lì in piedi davanti alla porta chiusa prima che lui arrivasse. Fingendo meglio di quanto avessi mai pensato, scesi con lui in cucina e gli domandai che cosa volesse per cena.

“Allora com’è andata la giornata? Quelle due pazze sono riuscite a farli innamorare di loro?” chiese.

“Ci hanno dato il nome dell’albergo sbagliato, non li abbiamo visti” mentii e lui sembrò crederci, infatti non parve neanche particolarmente sorpreso di non vedere Katherine ed Elizabeth sedute al tavolo con noi. Quella sera c’era un importante partita alla tv, quindi si spostò in salotto appena finito di cenare, risparmiandomi la fatica di inventarmi altre bugie.
Mentre lavavo piatti, assaporando la sensazione del sapone e dell’acqua bollente sulle mie mani, ero stranamente calma. Sapevo che tutti i pensieri della giornata erano lì, in agguato nella mia testa, e che sarebbe bastato un niente per scivolare. Dovevo stare attenta, un solo errore, una piccola distrazione e la gravità dei fatti mi si sarebbe rovesciata addosso.
Quando non riuscii a trovare più niente da pulire in cucina mi andai a sedere sul divano accanto ad Adam. Guardammo la partita insieme e io cercai di interessarmi a quello che stava succedendo su quel campo da calcio, attenta a non pensare a Louis, a non affogare di nuovo in quella furia blu che erano stati i suoi occhi quel pomeriggio.

Un’ora più tardi Adam mi augurò la buona notte e se ne andò a dormire, contento che la sua squadra del cuore avesse vinto. Io rimasi lì, con le ginocchia tirate su verso il petto, nel tentativo di convincermi che sarebbe andato tutto bene, che quello schiaffo non avrebbe mandato a monte tutto quello che avevo costruito in quei cinque mesi lì a Oxford. L’idea di andare al college, di trovarmi un lavoro più gratificante, come sembrava tutto stupido e impossibile ora.
Non riuscivo nemmeno ad immaginare quale sarebbe stata la reazione di Marie e Clark. Mi avrebbero ancora permesso di stare vicino ai loro figli? Forse si sarebbero arrabbiati per aver distrutto il sogno delle loro bambine, forse mi avrebbero buttato fuori di casa. Forse neanche loro avrebbero capito il perché del mio gesto.
Stavo cercando di raccogliere le forze per scostare la coperta e andare di sopra, quando udii il rumore della ghiaia che scricchiolava nel vialetto, sotto le ruote della loro macchina. Erano arrivati e io mi feci piccola piccola, desiderando di poter sprofondare in quei cuscini che mai prima di allora mi erano sembrati così soffocanti. Aprirono piano la porta e li sentii ridere nell’ingresso quando uno dei due andò a sbattere contro il portaombrelli, temendo di svegliare la casa che credevano ormai già addormentata.

“Oh ciao Sophie” esclamarono quando si accorsero che ero ancora lì. Si tenevano per mano e il fatto che avessero passato una così bella giornata insieme, lontani dai mille problemi della vita di tutti i giorni, mi fece sentire un’egoista. Non volevo doverli riportare alla normalità così presto, strappare via quella loro piccola felicità, ma aspettare avrebbe soltanto aggravato la mia già critica situazione.

“Pensavo foste già tutti addormentati” disse Marie sedendosi accanto a me e sfilandosi le scarpe col tacco. Senza nemmeno ben capire il perché, spensi la televisione e rimanemmo avvolte nel buio più totale. Iniziai a parlare e la mia voce era poco più che un sussurro.
Raccontai di quanto mi sentivo stupida per non avere mai capito perché le due gemelline ci tenevano tanto a vedere gli One Direction. Le descrissi la rabbia e l’indignazione che avevo provato nell’accorgermi che il fatto che Louis non si era fermato sarebbe stato per loro come dire addio a Micheal una seconda volta.
Le spiegai di quanto mi ero sentita impotente di fronte a tutto quello, di come mi ero poi accorta che non avrei dovuto immischiarmi, perché dopotutto non ero parte di quella famiglia e che lo capivo se non volevano che stessi più accanto ai loro figli. Marie allora mi posò una mano sul braccio, per farmi girare verso di lei e quando finalmente mi arresi al contatto mi abbracciò.
Fu bello sentire il calore di quelle braccia intorno a me, calore di braccia che non potevo ancora chiamare materne, ma che mi volevano davvero bene, che mi avevano capita. Ci staccammo dall’abbraccio quando sentimmo Clark lasciarsi sfuggire un singhiozzo. Era in piedi, appoggiato contro lo stipite della porta della cucina, con tre tazze di tè bollente ancora in mano.

“Non siamo mai a casa, passiamo pochissimo tempo con loro” disse più a se stesso che a noi “Se non lavorassimo così tanto, se fossimo più presenti, ci saremmo accorti del perché volevano andare oggi a quel benedetto albergo e almeno avrei fatto in modo di portarle io, mi dispiace che tu abbia dovuto gestire tutto questo da sola, Sophie.”

“Non devi scusarti Clark, sono stata io ad essere troppo impulsiva, ho quasi vent’anni e reagisco ancora come una ragazzina” gli risposi, scuotendo la testa sconsolata.

“Non dire così” e si inginocchiò davanti al divano per guardarmi negli occhi “Anzi grazie per aver cercato di proteggerle e aver ridato loro un po’ di rispetto per se stesse che dal giorno dell’incidente non avevano più.”

Una volta salita in camera sapevo che non potevo più trattenerli, che dovevo lasciare liberi i pensieri almeno per qualche minuto o sarei impazzita del tutto. Allentai l’elastico che li teneva fermi e la marea mi sommerse.
Rivedevo quegli occhi, la vergogna che in un lampo si era trasformata in furia e nascosi la testa sotto il cuscino, tentando di difendermi dal pensiero che, da qualche parte la fuori, c’era un Louis Tomlinson umiliato e che non si sarebbe dato pace finché non l’avessi pagata cara.

Risvegliarsi la mattina dopo fu la cosa peggiore. Appena aprii gli occhi ci fu infatti un attimo di vuoto assoluto, come se quello avesse potuto essere un qualsiasi sabato mattina di ottobre, grigio, freddo, ma allo stesso tempo tranquillo, rassicurante, con la pioggia che faceva da scudo contro il mio corpo troppo solo, troppo debole per sopportare la luce del sole. Poi però i ricordi mi colpirono in pieno petto e desiderai con tutte le mie forze di potermi liberare da me stessa, lasciare lì il mio corpo, a dormire nel letto, e uscire fuori come uno spirito, un’anima libera e leggera perché senza nulla di cui rimproverarsi.

Elizabeth e Katherine non mi parlarono durante la colazione ed ero sicura che anche il tragitto verso la scuola non sarebbe stato molto diverso. Adam era troppo assonnato per accorgersene, ma un secondo prima di uscire Marie mi sfiorò la guancia con la mano e, guardandomi con occhi materni e comprensivi, mi disse che avrebbe parlato lei con loro e gli avrebbe spiegato che non era stata colpa mia. Fingendo un sollievo che non riuscivo a provare, la ringraziai ed uscii.
Camminai con lo sguardo basso, con loro due qualche passo dietro di me e pensai a quanto fosse strano il silenzio. Quando stai soffrendo o sei arrabbiato vorresti che tutto il mondo si zittisse e ti lasciasse in pace, quando invece è qualcun’altro ad avercela con te i minuti ti sembrano interminabili, la tensione diventa tangibile nell’aria e vorresti urlare per rompere quel silenzio, perché non ce la fai più e ti chiedi invece come facciano gli altri a sopportarlo. È una di quelle cose che ho rinunciato a capire ma che non per questo faceva meno male.

 

♦♦♦♦♦

 
Era stato un concerto sensazionale, forse il migliore di tutto il tour fino a quel momento.
Nessuno di noi si sarebbe immaginato così tanta energia da una cittadina come Oxford, eppure era successo e mentre tornavo nella mia stanza d’albergo, nonostante un velo di stanchezza, sentivo ancora l’adrenalina scorrermi nelle vene come il primo istante in cui avevo messo piede sul palco.
Le grida delle fan, le loro espressioni in adorazione ogni volta che prendevo il microfono in mano, ogni volta che facevo l’occhiolino, ogni volta che muovevo i fianchi in maniera un po’ più sensuale del solito, beh erano una droga per me. Sentirmi così acclamato, richiesto, desiderato mi faceva impazzire, il cervello non ragionava più e io tornavo ad essere soltanto una massa di ormoni e istinti irrazionali, che non potevo, e non volevo, controllare.

Troppo occupato a compiacermi del mio successo, mi ero quasi dimenticato dell’episodio spiacevole di quello stesso pomeriggio. Di quella ragazzina che aveva pensato di potermi tirare uno schiaffo davanti a tutti, davanti al mio pubblico, e che io non reagissi. Sarà stato il recente bagno di folla, o l’alcool che avevo bevuto subito dopo nel backstage, ma andai a letto sentendomi invincibile, un re.
Un paio di occhi marroni però, resi ancora più scuri da uno strano miscuglio di rabbia e di dignità che non potevo capire, erano ancora lì quando finalmente riuscii ad addormentarmi ed agitarono i miei sogni più di quanto fossi disposto ad ammettere.

Il mattino seguente mi alzai stranamente tranquillo. Di solito mi ci volevano venti minuti buoni per accettare il fatto che un nuovo giorno fosse iniziato e che non potevo semplicemente starmene a letto fino a mezzogiorno. Quella mattina no, forse perché aveva smesso di piovere, forse perché c’era nella stanza uno strano odore che mi ricordava il profumo dei pancake che mi preparava mia madre quando tornavo a casa per le vacanze, ma era ovvio che quella tranquillità non era destinata a durare.
Stavo per buttarmi sotto la doccia, non desiderando altro che la sensazione dell’acqua bollente sulla mia pelle appena sveglia, quando il mio cellulare iniziò a vibrare prepotentemente sul comodino. Andai a rispondere contrariato e non ci fu verso di spiegare che fossero le nove del mattino, che non mi ero ancora lavato, che non avevo neppure fatto colazione, mezzora dopo ero in sala riunioni con il mio manager e due sue superiori che non avevo neanche mai visto.
Dopo qualche bisbiglio concitato e un continuo svolazzare di fogli sulla scrivania color noce, finalmente uno di loro si alzò e iniziò a parlare del perché eravamo lì, con me che lo mettevo a fuoco a fatica da dietro le lenti degli occhiali, che mi ero messo non tanto per vederci meglio ma per coprire le occhiaie di cui avevo sempre avuto un po’ vergogna.

“Sono sicuro che lei si renda benissimo conto della gravità dei fatti, signor Tomlinson, e come suo legale” ah ecco mistero svelato, era il mio avvocato, tanto piacere “Ho il dovere di informala delle ripercussioni che un tale atto di violenza pubblica potrebbe avere sulla sua immagine.”

Lo ascoltai senza capire, iniziando a preoccuparmi che l’assenza di cibo nel mio stomaco mi stesse tirando qualche brutto scherzo. Fu soltanto quando mi mostrarono delle foto sulla prima pagina di un qualche tabloid che me ne ricordai.
La pioggia. Lo schiaffo. Quella ragazza dagli occhi marroni.
Le sensazioni della sera prima tornarono in superficie, ma fui sorpreso di scoprire che non me ne importava più nulla. Il ricordo della folla stava già svanendo, non ero più nella fase ‘sono un mostro da palcoscenico e chiunque non si inchini al mio passaggio deve essere punito con la pena di morte’che caratterizzava i miei deliri di onnipotenza dovuti all’adrenalina dei concerti.
Ora ero semplicemente il Louis stanco di essere lontano da casa, di essere in giro come una trottola da ormai quasi un anno, con sempre qualcuno pronto a dirmi come mi dovevo vestire o cosa rispondere nelle interviste. Il Louis che voleva solamente tornarsene nella sua stanza dall’albergo, farsi una doccia e ordinare la colazione, per poter mangiare almeno una volta senza qualcuno che mi scattasse una fotografia al secondo o interessato a portarsi a casa anche solo il tovagliolo con cui mi ero pulito le labbra sporche della schiuma del cappuccino.

“No sentite, davvero non è importante. Non conosco la ragazza, ma sono sicuro che non intendeva minare la mia immagine pubblica o qualsiasi altra cosa di cui ora avete timore. È stato un incidente e non avrebbe potuto in ogni caso farmi del male o rappresentare un rischio per la mia sicurezza. Davvero, chiudiamo qui la faccenda e non se ne parli più, domani i giornali troveranno qualcos’altro di più interessante di cui parlare e questa storia sarà dimenticata.” dissi ridando loro le foto e facendo per alzarmi.
Ma la mano del mio manager mi spinse sulla sedia e io fui costretto a rimanere seduto. Non era stato un gesto violento, solo secco e autoritario e ne rimasi particolarmente amareggiato. Quando tutto quel loro potere su di me sarebbe finito?

“Non è questione di averle potuto fare del male o meno, signor Tomlinson. Era circondato da guardie del corpo e la ragazza non peserà più di 60 kg, come avrebbe potuto? Qui si tratta di trasmettere un messaggio alla stampa e a tutte le persone che la seguono. Non possiamo lasciare loro pensare che sia così facile arrivare a lei, quindi lei ora, signor Tomlinson, prende questo modulo e si prepari come meglio crede a sporgere denuncia.”

Lo odiavo, odiavo lui e il suo modo di parlarmi come se fossi un ragazzino un po’ ottuso e incapace di comprendere la serietà della situazione. Odiavo la sua camicia troppo bianca, la sua giacca senza nemmeno una piega, e la stupida fantasia della sua cravatta.
E soprattutto odiavo come fingesse che fosse una questione del mio onore e della mia reputazione, quando sapevo benissimo che erano loro quelli non volevano rischiare di perderci la faccia.
E l’espressione dei miei manager che annuivano seri dietro di lui, come a dirmi ‘Come Louis proprio non ci arrivi?’ ne fu la conferma. Mi stava venendo la nausea. Capii che il modo più veloce per andarmene sarebbe stato cedere alle loro richieste e così afferrai il modulo, come un tacito consenso, una promessa silenziosa, e uscii di lì, senza una parola di più.

Ci avevo riflettuto tutta la mattina, distruggendomi il cervello tentando di capire quale fosse la cosa giusta da fare, ed ero arrivato alla conclusione che parlare direttamente con le sarebbe stata la soluzione migliore. Non avevo davvero voglia di andare in giro a denunciare le persone solo perché qualcun altro me lo aveva ordinato, qualcun’altro a cui importava solo il suo conto in banca, direttamente proporzionale al mio.
Per quanto lasciar correre avrebbe significato un calo della mia, come la chiamava lui, credibilità, io ero più preoccupato di quello che la mia famiglia e le mie vere fan avrebbero pensato della mia denuncia a una ragazza che forse non era neanche maggiorenne.
Non sapevo chi fosse, che cosa facesse nella vita, ma sapevo bene come piccoli incidenti del genere potessero rivelarsi grosse seccature nel cercare un lavoro o entrare in un’università. Forse se fossi riuscito ad ottenere delle scuse o una spiegazione valida, il mio avvocato se ne sarebbe accontentato e avrebbe lasciato stare la denuncia.
Per fare ciò c’era bisogno della collaborazione di lei, ma quella era una variabile di cui quel sabato pomeriggio, uscendo dall’albergo, non avevo tenuto conto.

Ero già alquanto nervoso, perché quello era il mio giorno libero, accidenti, e avrei dovuto passarlo sdraiato sul divano, in attesa del concerto della domenica seguente, non a rincorrere qualche ragazzina di Oxford un po’ troppo impulsiva. Avevo provato a chiamare il numero che risultava dal modulo che il mio avvocato mi aveva fornito, ma nessuno aveva risposto. Probabilmente aveva scritto un numero falso per non essere trovata.
Non solo impulsiva la ragazza quindi, anche furba.
Così scelsi di andare direttamente a casa sua, sperando che almeno l’indirizzo fosse corretto.

Presi un taxi perché non ero pratico di quella cittadina e perché, nonostante fosse una bella giornata, non avevo molta voglia di camminare, di essere riconosciuto per strada, sorridere e scattare fotografie. La solita storia insomma. Il solito bisogno di stare da solo e la solita sensazione di scivolare sempre più giù ogni volta che qualcuno mi stringeva a sé per un abbraccio. Esitai un secondo quando mi trovai di fronte alla porta di quella che speravo fosse davvero casa sua. Il nome sulla buca delle lettere non corrispondeva a quello sul modulo e, trattenendo una parolaccia, suonai il campanello. Un ragazzino con addosso uno strano pigiama colorato mi venne ad aprire.

“Sei il ragazzo della consegne? Che strano papà non mi aveva detto di aver comprato niente di nuovo di recente..” mi chiese osservando la busta che stringevo in mano.

“Oh no, veramente io sono..” tentai di rispondergli, imbarazzato fino alla punta dei capelli.

“Louis Tomlinson!” disse lui completando la mia frase, ma lo disse con il tono di voce più rilassato di questo mondo, come quello di una persona che si è appena accorta di aver versato un bicchiere di succo alla pesca piuttosto che all’arancia.

“Cercavi qualcuno in particolare?” chiese poi, e non so perché ma quel ragazzino già mi stava simpatico. Mi faceva bene trovare ogni tanto qualcuno che mi trattasse come una qualsiasi altra persona, ecco perché mi piacevano così tanto i bambini. A loro non importa sapere quanti dischi hai venduto questo mese e vengono a giocare con te lo stesso, anche se l’altra sera sul palco hai stonato.

“Sì, in effetti cercavo Sophie.. è in casa?” chiesi con voce incerta, arrossendo senza motivo, come se fossi passato a prenderla per il nostro primo appuntamento. Che pensiero ridicolo.

“Oh Sophie.. Ora capisco!” esclamò, e cosa avesse capito era davvero un mistero per me “Mi dispiace ma ora non c’è, il sabato pomeriggio va sempre a fare un altro lavoro e non rientra di solito prima delle sei” Guardai l’orologio e non erano nemmeno le tre. Sbuffai. Non potevo e non volevo stare in giro e aspettarla per tutte quelle ore.

“Mi puoi dire dove lavora, per favore?” chiesi senza neanche rifletterci troppo. Forse era invasione di privacy la mia, ma lei mi aveva schiaffeggiato davanti a tutti, quindi pensai che in quel caso avrei potuto mettere a tacere il mio senso civico.
Segnai velocemente il nome della libreria che il ragazzino mi disse e mi incamminai, cercando di non perdermi. Avrei potuto fermare un passante e chiedere, ma voler sempre fare tutto da solo era soltanto uno dei tanti aspetti del mio carattere che non sopportavo.
Così ci misi più di mezzora, ma alla fine la trovai. “Shakespeare & Company” che nome ridicolo, pensai, e tirai la maniglia della porta per entrare.
Era un posto strano, abbastanza piccolo, ma ordinato e accogliente. Delicato sarebbe stata la parola migliore per descriverlo, ma io non ero lì per fare complimenti, quindi quando arrivai al bancone e lo trovai vuoto, mi schiarii la voce per fare udire la mia presenza.

“Arrivo, arrivo!” sentii una voce esclamare alla mia sinistra. Mi girai ma non vidi nessuno e soltanto il tonfo di un paio di libri caduti a terra mi fece capire da dove quella voce effettivamente provenisse. Sophie era in bilico su una scala che aveva l’aria di appartenere al diciannovesimo secolo e istintivamente mi feci in avanti per tenere la scala ferma ed evitare che lei cadesse.

“Non si preoccupi, ora scendo!” disse e sentii il rumore di un sorriso nel suo tono di voce imbarazzato.
Fu solamente quando appoggiò i piedi sul pavimento, sana e salva, e sollevò lo sguardo che si accorse chi fosse il nuovo cliente. Mille emozioni le attraversarono gli occhi. Sorpresa, curiosità, orgoglio e, forse, anche un soffio di irritazione.
Mio malgrado le sorrisi. Sapevo che quello non era il modo in cui le cose avrebbero dovuto cominciare o tantomeno come avevo pensato di inaugurare il nostro secondo incontro, ma ormai avevo rinunciato a fare programmi che poi non ero mai in grado di rispettare.
Se c’era infatti una cosa che centinaia di concerti mi avevano insegnato era l’arte dell’improvvisazione, rinunciare al pensiero rassicurante della scaletta, e dare tutto me stesso, senza riserve. Quello però non era un palco, non c’era nessuno pronto a applaudirmi, ma solo un paio di occhi, a quanto potevo capire non particolarmente felici di rivedermi. Era una scortesia bella e buona quella, e pensai subito di restituirle il favore.

“Non c’è bisogno di essere così ostili lo sai? Sono felice di rivederti tanto quanto lo sei tu.” Non era del tutto vero, anche se non capivo ancora bene del tutto perché, ma in ogni caso non c’era nessunissimo bisogno che lei lo venisse a sapere.

“Se ti scoccia essere qui allora perché ci sei venuto? A parte il fatto che io sto lavorando e quindi mi stai portando via del tempo..” tentò di attaccarmi. Attaccare per non doversi difendere. Quello che facevo io la maggior parte del tempo. Possibile che non fossimo, dopotutto, così tanto diversi?

“Certo perché come vedo hai una fila di clienti che non finisce più..” la presi in giro, indicando il negozio praticamente vuoto, fatta eccezione per noi due. Lei arrossii e io mi trovai a sorridere compiaciuto, più per quella spruzzata di colore sulle sue guance che per il mio commento sarcastico.
Lei ruppe il contatto visivo e si diresse dietro il bancone, bisognosa di mettere più spazio tra di noi. La stavo rendendo nervosa, era evidente, e la cosa mi divertiva, mi faceva sentire vivo in un modo che non ritenevo più possibile. Ero ormai così tanto abituato all’amore incondizionato delle mie fan che avevo quasi dimenticato quanto fosse eccitante cercare di conquistare l’attenzione di una persona comune che non ti considera un Dio sceso in terra.

“Dato che mi sembra inutile aspettare delle scuse che non hanno nessuna intenzione di arrivare, perché non dai un’occhiata a questi?” e gettai sul balcone la busta contente il modulo che lei stessa aveva riempito e la richiesta di denuncia, già completamente pronta, eccetto per quello spazio in basso a destra dove avrei dovuto riporre, con dell’inchiostro fresco, la mia firma.
Sophie guardò i documenti con calma, capendo subito di che cosa si trattasse. Si mise a ridere, ma in quella risata c’era tutto fuorché allegria.

“Mi sembra che tu abbia già abbastanza le idee chiare, quindi non capisco perché tu ti sia scomodato a venire fin qui. Cos’è avevi finito le penne per firmare?” e lo disse in un tono talmente insolente che non mi sarebbe dispiaciuto spingerla contro lo scaffale alle sue spalle e farle capire quanto quel suo modo di parlare mi stava dando alla testa.
Sarà stata la luce soffusa del negozio, l’atmosfera un po’ magica data da pile e pile di libri che avevano probabilmente il triplo dei nostri anni, ma stavo lentamente dimenticando il motivo per cui ero venuto lì. Ovviamente non si poteva dire lo stesso di lei, che non riusciva a staccare gli occhi da quei fogli.

“Quello che stavo cercando di dire, se solo la smettessi di comportarti da stronza e mi ascoltassi” e non potei fare a meno di notare divertito la sua furia nel sentirsi chiamare in quel modo “è che personalmente io non ho nessun interesse a denunciarti. Non ti conosco e non mi interessa crearti problemi, anche se devo dirti la verità, mi piacerebbe che ci fosse qui qualcun altro a vedere quanto sei in imbarazzo, ancora di più di quanto lo ero io dopo il tuo schiaffo.” Lei aprì la bocca per ribattere, ma ricordandosi quello che le avevo appena detto la richiuse, probabilmente mandando giù un’altra risposta particolarmente pungente.

“Brava, vedi che se ti impegni ce la fai a controllarti?” dissi continuando a prenderla in giro, ma ormai nella mia voce non c’era più sarcasmo, e neanche ironia, solo puro divertimento e forse anche un po’ di tenerezza, ma lei non poteva saperlo e di certo non sarei stato io a farglielo notare. “I miei manager vogliano che io sporga denuncia per non recare danno alla mia immagine, ma ti assicuro che quella è l’ultima cosa di cui loro si preoccupano, quindi penso che se ricevessi delle scuse da parte tua e una dichiarazione sul motivo di quello schiaffo la questione potrebbe essere risolta in modo molto più veloce.”

“Scusami, ma se pensi davvero che io sia anche disposta a dirti il perché, te ne puoi benissimo andare anche subito, senza perdere altro tempo, perché non ne ho alcuna intenzione.” Rimise con cura i documenti nella busta, anche se le mani le tremavano, e fece per ritornare al lavoro.
Questa volta fui io quello a rimanere senza parole. Non era solo il fatto che lei fosse così apertamente ostinata a non volermelo dire a tenermi bloccato lì, ma il sincero desiderio di scoprirlo. Quella mattina non me ne era importato niente.
Che si trattasse di rabbia, impulsività o Dio sa cosa, non me ne fregava nulla, ora invece avrei fatto di tutto per scoprirlo, per capire perché, appena avevo gliel’avevo chiesto, lei si era arrabbiata ancora di più. Possibile che ci fosse qualcosa di più grande sotto, qualcosa di più serio che io non avevo neanche lontanamente intravisto in lei? Qualcosa per cui era disposta a subire la denuncia piuttosto che rivelarmelo?

“Lo sai vero che con una denuncia del genere sulla tua fedina, nessun college serio o impresa rispettabile ti prenderà mai in considerazione? Vedi, Sophie, è così che ti chiami, giusto? A me non interessa che tu me lo dica, davvero” stavo mentendo, ma ancora, non c’era nessun bisogno che lei lo sapesse “Ma i miei manager non sono così incuranti di questa faccenda come lo sono io e un semplice messaggio di scuse non li soddisferebbe. Non buttare via tutto così, per uno stupido ragazzino e cantante mediocre che non sopporti” e in quel momento fui davvero sorpreso che lei non mi colpisse un'altra volta in faccia.

“Non è questione di rovinare tutto o meno, è una faccenda privata e non ho intenzione di dirla ai tuoi manager e tantomeno a te” E il suo tono ostile non riuscì a spazzare via il sincero divertimento che ormai stavo provando nel mettere a dura prova il suo autocontrollo.

“È proprio un peccato, ma riconosco una sconfitta quando la vedo. Riceverai allora notizie dal mio avvocato e divertiti a servire tutta questa fila di clienti, mi raccomando” e mi diressi velocemente verso la porta, soprattutto per nascondere la risata che se mi fosse scappata avrebbe rovinato la mia uscita drammatica.
Un’idea però in quel momento mi piombò in testa con tale intensità da farmi bloccare per qualche istante nell’ingresso, con la mano appoggiata sul pomello freddo della porta.

“C’è scritto spingere, non tirare, non mi sembra difficile.” Commentò lei dietro di me, in modo ancora alquanto seccato.
Ma a me non importava più che mi fosse ostile, che non provasse altro che disprezzo per me, l’avevo in pugno e sapevo che a quello che stavo per dire non avrebbe potuto dire di no.

“Forse un’altra soluzione c’è Sophie, oggi è davvero il tuo giorno fortunato” o il mio, pensai dentro di me. Non potei a fare a meno di non notare compiaciuto il barlume di speranza che le si accese sul volto a quelle parole.
Forse davvero voleva fare domanda per un college, e in quel momento, vedendola così esposta e fragile, seppi che nel caso remoto in cui lei si fosse ancora una volta rifiutata di arrivare a un compromesso, avrei lottato con tutto me stesso per fare in modo che quella denuncia non diventasse realtà.

“Cosa vuoi che faccia, Louis?” era la prima volta che le sentivo pronunciare il mio nome e in lei non c’era più niente della persona volutamente scortese e sarcastica di poco prima.

Sorrisi, e piantai i miei occhi nei suoi, senza un briciolo di imbarazzo.

“Vieni fuori a cena con me” le dissi, e incrociai le braccia sul petto, aspettando, compiaciuto, la sua reazione.


 



Spazio autrice:
Eccomi qui con il secondo capitolo, scusate per il lieve ritardo, ma la maturità non perdona!! Innanzitutto ringrazio tutti coloro che hanno recensito e messo la storia nelle seguite e preferite, ma grazie anche a tutti quelli che leggono silenziosamente, I see you!! :)
Dunque, venendo al capitolo, mi è piaciuto molto scriverlo per il fatto di avere inserito, per la prima volta, anche il punto di vista di Louis. Come ormai anche i muri sanno, ho un debole per lui, e quindi mi sono divertita provare a entrare nella sua testa e ragionare come lui, anche se qui ovviamente, ai fini della storia, molti suoi tratti ,come l’ironia un po’ troppo pungente, sono enfatizzati! Ok, non sto qui a dirvi altro, perché penso che dopo esattamente 5648 parole di capitolo ne abbiate abbastanza di me per qualche giorno!

Aspetto le vostre recensioni e per ogni cosa (critiche, consigli, scleri collettivi) mi trovate qui https://twitter.com/Martolinsss
A presto (spero) con il capitolo tre! Baci a tutti!
Marta.


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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***



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CAPITOLO lll


Avevo passato l’ultima mezzora davanti allo specchio del bagno, cercando invano di raccogliere i capelli in uno chignon. Mi tremavano le mani e non riuscivo a intrecciare le ciocche come avrei voluto. Di colpo mi fermai, con le mani ancora a mezz’aria, e osservai l’immagine di me stessa che mi fissava dall’altro lato dello specchio. Se qualcuno fosse entrato in quel momento e mi avesse vista così agitata, avrebbe pensato che mi stessi preparando per l’appuntamento più importante della mia vita. A quel pensiero persi definitivamente la calma e strappai con forza le forcine, tanto che qualche capello ne rimase incastrato. Non provai dolore però, solo fastidio e rabbia verso me stessa per quello che stavo facendo, per aver cercato di rendermi carina per quella sera, per aver voluto che lui mi vedesse al mio meglio.
Era passata esattamente una settimana da quando Louis era venuto a cercarmi in libreria. Sette giorni da quando avevo visto la mia vita tremare sotto il peso di una potenziale denuncia. Centosessantotto ore da quando avevo accettato il suo invito, o per meglio dire, il suo ricatto. Avevo ancora la scena davanti agli occhi, indelebile. Le braccia incrociate sul petto, lo sguardo divertito e il sorrisetto compiaciuto, perché sapeva che non avrei potuto dire di no. L’alternativa era dirgli la verità su Elizabeth e Katherine, ma dato che le avevo già ferite abbastanza con il mio carattere impulsivo, era giunto il momento che pagassi per quello che avevo fatto, senza coinvolgerle di nuovo.
Dovevo solo resistere qualche ora in compagnia di Louis, trovare da qualche parte dentro di me l’autocontrollo necessario per non urlargli addosso quanto lo disprezzassi. Stare seduta di fronte a lui, cenare con lui, fare educatamente conversazione con lui, non significava arrivare a raccontargli la verità e quella era l’unica cosa che contava. Improvvisamente mi sembrò stupido tutto quello di cui mi ero preoccupata fino a qualche istante prima: il trucco, i capelli, il vestito, come se avessi perso di vista l’obiettivo centrale della serata, cioè accontentare Louis, il suo ennesimo capriccio e poi tornare alla mia vita di sempre. Prendermi cura dei bambini, sistemare i libri impolverati sugli scaffali in libreria, preparare la pizza per tutta la famiglia il sabato sera invece che andarla a comprare. Louis non sapeva niente di me, non conosceva tutte quelle piccole cose e non si rendeva conto di quanto fosse andato vicino a strapparmele dalle dita. Mi guardai allo specchio un’ultima volta, senza nemmeno finire di mettermi il mascara e promisi a me stessa che non avrei ascoltato le sue battutine, che non mi sarei fatta ammaliare da tutto quel blu e che sarei tornata a casa quella notte consapevole che quel capitolo era stato chiuso una volta per tutte.

“Sei proprio sicura che non vuoi che ti accompagni in macchina?” mi chiese Clark. Si era offerto di portarmi lui a Londra, ma io avevo declinato l’invito perché non sarei stata in grado di spiegargli come fossi così agitata, non lo sapevo nemmeno io. Anche Louis aveva suggerito, quel giorno in libreria, che mi passasse a prendere, ma io mi ero rifiutata categoricamente: non volevo che fosse carino con me e, soprattutto, non volevo passare più tempo con lui di quanto fosse strettamente necessario.

Mi sedetti al mio posto sul treno, con gli auricolari nelle orecchie e tenendo stretta tra le mani la pochette.
La campagna inglese scorreva veloce fuori dal finestrino e tutto quel verde fu un sollievo perché aiutò a calmare la mia mente imbrattata di blu.
Arrivai alla stazione Vittoria un’ora dopo e non potei fare a meno di sorridere al pensiero di quando ci ero arrivata la prima volta molti anni fa, durante il mio primo viaggio in Inghilterra. Ormai era diventato buio e si era alzato anche un vento leggero. Rabbrividii nel cappotto mentre aspettavo un taxi.
Quando arrivai a destinazione chiesi al taxista se fosse sicuro di non aver sbagliato indirizzo. Lui mi confermò che era quello giusto e io sprofondai un po’ più giù nel sedile. L’uomo allora scese e mi aprii la portiera, per controllare se stessi bene. Afferrai la sua mano e mi alzai, anche se un po’ traballante, e ringraziai il cielo di aver deciso di indossare delle ballerine invece che un paio di tacchi.
Mentre risalivo il vialetto maledii Louis con tutti gli insulti che fui in grado di ricordare in quel momento. Quello non era un ristorante, era una reggia! Forse lui era abituato a cenare in posti del genere, ma io no di certo. Se non fosse stato per quella sera, io quella villa l’avrei vista solo da fuori o al massimo ci avrei potuto lavorare una volta o due come cameriera.
Comunicai il mio nome al cameriere all’ingresso e lui ne chiamò subito un altro, molto più giovane, il quale mi prese il cappotto, se lo appoggiò sul braccio con grazia, e mi accompagnò al tavolo. Era nel centro della sala e io abbassai lo sguardo mentre camminavo per raggiungerlo. Mi sentivo gli occhi di tutti i presenti addosso, perché io non ero elegante come loro: non avevo lo stesso abito di tessuto lucido, gli stessi gioielli luminosi, la stessa acconciatura elaborata.

“Si accomodi signorina, il signor Tomlinson arriva subito” mi disse il cameriere, tirando indietro la sedia per me. Aveva un accento lievemente straniero e quando mi sorrise brevemente, immaginai che lui si sentisse a disagio quanto me in quella sala, ma forse era stata solo una mia impressione, perché un istante dopo se n’era già andato, senza una parola di più.

“Sei in anticipo” disse una voce vellutata alla mie spalle. Louis spinse la mia sedia in avanti, appoggiando volutamente una mano sulla mia schiena scoperta, e poi si sedette anche lui, dal lato apposto del tavolo. Rimasi senza fiato, un po’ per quel suo tocco improvviso, un po’ perché non mi aspettavo che arrivasse anche lui così presto. Pensavo che sarebbe arrivato in ritardo e sotto sotto speravo che, dopo una settimana di attesa, la sua eccitazione per quell’appuntamento fosse sparita e che facesse di tutto per fare in modo che la serata si concludesse presto, o che non venisse addirittura, senza preoccuparsi di avvisarmi. Invece eccolo lì seduto davanti a me, mentre si sistemava con abilità il tovagliolo sulle gambe, in un completo nero lucido, i capelli perfettamente in ordine e il solito sorrisetto malizioso al suo posto.

“Lo so che sono in anticipo, non è che c’è un treno ogni ora per fare comodo a me” risposi con un po’ troppa enfasi e subito me ne pentii. Non volevo già iniziare la conversazione con il piede sbagliato, ma lui inspiegabilmente sorrise e sollevò il bicchiere vuoto, per osservarne il riflesso alla luce del lampadario.

“Non posso crederci che sei venuta fin qui col treno. È sabato sera e c’è un sacco di gente pericolosa in giro. E se ti fosse successo qualcosa mentre venivi qui?” mi disse senza smettere di guardarmi negli occhi. Non capivo se stesse parlando sul serio o se fosse la sua ennesima presa in giro.

“Louis ho quasi vent’anni e vorrei farti notare che sono sopravvissuta tutto questo tempo in giro da sola senza di te” risposi senza sapere se sorridere o meno.

“Cosa c’entra questo, le altre volte non eri mica in giro per venire a cena fuori con me” rispose e, davvero, eravamo seduti al tavolo da neanche cinque minuti e io già sentivo la testa girare. In qualche modo riuscii a staccare gli occhi dai suoi e per distrarmi mi guardai un po’ intorno.
Decine e decine di coppie come noi, sedute a tavoli uguali al nostro, con le stesse tovaglie bianche immacolate e le candele blu chiaro, le posate d’argento e i calici di cristallo. Perché allora mi sembrava di avere la luce di un riflettore puntata sopra alla testa, pronta ad illuminarmi ogni volta che avessi fatto un passo falso? Quale forchetta dovevo usare per l’antipasto? Ce n’erano tre e mi sembravano tutte uguali! Louis mi guardò divertito mentre il cameriere appoggiò i piatti di fronte a noi, poi si chinò verso di me per non farsi sentire e mi sussurrò:

“La forchetta è quella a sinistra, ma usa pure quella che vuoi, nessuno verrà qui a indagare in ogni caso.”

“Tu dici?” risposi stizzita “A me invece sembra che da quando ho messo piede qua dentro tutti non hanno fatto altro che fissarmi” ed esprimere quel pensiero ad alta voce non fece altro che rendere la realtà più evidente e così infilzai la tartina che avevo nel piatto con forza, forse con un po’ troppa forza, perché l’oliva si staccò e rotolò fuori dal piatto. Louis, ovviamente, si mise a ridere, e io non sapevo se lasciarla lì, a stonare sulla tovaglia bianca, o se raccoglierla velocemente prima che il cameriere tornasse con la seconda portata.

“A proposito grazie per aver scelto un posto così accogliente” gli dissi scettica.

“È il ristorante migliore di tutta Londra, che ha che non va?” mi chiese sorpreso, se facesse finta o fosse realmente stupito restava un mistero.

“Non ha niente che non va. Sono io quella che stona, che è fuori posto qui. Non so distinguere il calice da vino da quello per l’acqua. Non so mangiare senza appoggiare i gomiti sul tavolo e non sono nemmeno sicura di aver capito quello che ho effettivamente ordinato, non avevo mai sentito nominare almeno la metà dei piatti scritti sul menù.” Dissi tutto d’un fiato, prima che lui potesse interrompermi.

“Guarda che non c’è niente che non va in te stasera. Sei molto carina, se posso permettermi. Non ti passa mai per la testa che forse la gente ti fissa solo perché vorrebbe essere come te?” mi chiese.

“Sì certo, è una possibilità da prendere in considerazione quando si ha un aspetto come il tuo, ma non di certo quando ti chiami Sophie e non sai camminare per duecento metri senza inciampare almeno un paio di volte o andare inevitabilmente addosso a qualcuno.” Passavo ripetutamente il dito lungo il bordo del bicchiere, così da non doverlo guardare in faccia, ma sentivo invece i suoi occhi su di me, che non volevano lasciarmi andare, che non volevano perdere il contatto, così alla fine mi arresi e tornai a guardarlo.”

“Raccontami di te” disse improvvisamente, cambiando discorso.

“Che cosa vuoi sapere?” chiesi sospettosa. Perché gli interessava conoscermi meglio se tanto dopo quella sera non mi avrebbe più rivista?

“Non lo so, da dove vieni? Ti chiami Sophie, è un nome francese giusto?”

“Ho davvero l’aspetto di una francese? No no, sono italiana. Il mio vero nome è Sofia, a dirtela tutta, ma quando mi sono trasferita qui ho iniziato a farmi chiamare Sophie, suonava meglio.”

“Sofia eh?” e andò avanti a ripeterselo a mezza voce per almeno due minuti buoni. “Mi piace, ancora di più di Sophie. Penso proprio che d’ora in poi ti chiamerò così” mi disse con l’aria di chi aveva appena preso una decisione di stato.

“No, adesso mi chiamo Sophie e poi non ci tengo particolarmente ad avere un nome italiano, anche se mi basta aprire bocca per distruggere ogni parvenza di essere inglese.”

“Perché dici così? Hai un bellissimo accento. Non è ancora del tutto British” e quando lo disse indicò se stesso con un’espressione buffissima sul viso “Hai solo bisogno di imparare qualche parola dello slang londinese e nessuno mai più ti scambierà per un’italiana, o una francese” aggiunse ridendo.

“Grazie, anche se la mia pronuncia deve ancora migliorare. A volte poi mi mancano le parole per esprimere quello che voglio dire, ma ne vale la pena. Almeno sono qui, nel paese che preferisco al mondo, e ogni giorno imparo qualcosa di nuovo che in Italia non avrei mai potuto scoprire.”

“Non vuoi avere un nome italiano, non hai ordinato un piatto italiano, non vuoi che la gente si accorga che vieni dall’Italia, insomma chi sei veramente?” e il suo tono nel dirlo fu talmente melodrammatico che non potei, mio malgrado, mettermi a ridere di gusto con lui.

“Non è che io non voglia essere italiana. È un bel paese, fa quasi sempre caldo e si mangia bene, è che sono tutte cose che non fanno per me, ma questo non significa che siano brutte, semplicemente non mi piacciono.”

“Quindi, fammi capire bene. Non ti piace l’Italia, non ti piace questo posto, non ti piace essere al centro dell’attenzione. Che cosa ti piace allora, Sophie?” mi chiese, sembrando davvero interessato a ciò che avevo da dire. Ci pensai un attimo prima di rispondergli, volevo dargli un pezzetto di me, quello più vero, che forse non ero neanche più tanto sicura di avere.

“Mi piace essere la prima a svegliarmi la domenica mattina, alzare un po’ la tapparella mentre fuori è ancora buio e aspettare piano che il sole sorga e invada di luce la mia stanza, mentre io sono ancora stesa a letto, sotto le coperte calde. Mi piace quando un cliente passa a trovarmi in libreria e mi dice che il libro che gli ho consigliato è bellissimo. Mi piace andare a fare la spesa e poi mettere tutte le cose in ordine nella dispensa una volta tornata a casa. Ma soprattutto mi piace sdraiarmi in giardino su una coperta e mettermi a leggere, con qualche raggio di sole che ogni tanto viene ad illuminare le parole stampate sulla pagina.”

“Wow” Louis rispose “Profumi di libertà quando parli così, lo sai?” mi disse con un sorriso, ma non potei fare a meno di notare il velo che gli si era calato sugli occhi. “Non so quanto tempo è passato dall’ultima volta che io abbia potuto fare una di quelle cose. Essere una celebrità non è sempre tutto rosa e fiori, spero che tu te ne renda conto.” Come faceva a saperlo? Come faceva a sapere quello che pensavo di lui e del fatto di essere famoso? Era davvero così evidente?
“Non ho mai detto che essere una celebrità sia tutto fantastico..” tentai di difendermi.

“No, non l’hai mai detto, ma te lo si legge in faccia. Sin dal primo momento quando ti sei fatta largo tra la folla per raggiungermi prima che salissi sul pullman, o stasera quando sono arrivato. Sophie si capisce benissimo che tu mi disprezzi, che giudichi ridicolo me e il mondo in cui sono incastrato.” Io non sapevo cosa dire, ero a metà tra il sentirmi mortificata e infastidita.

“Ok, senti. Mentirei se ti dicessi che non ti disprezzo, Louis. Ma questo non ha niente a che fare con il successo che stai avendo o la fatica che sicuramente hai fatto per arrivare dove sei adesso. Io parlo piuttosto del tuo atteggiamento, del modo in cui voi tutti trattate le fan. C’è davvero così tanto bisogno di sicurezza? Di apparire come degli eroi irraggiungibili? Se continuate a evitarle così, prima o poi finiranno per stancarsi di voi e si troveranno qualcun’altro che darà loro le attenzioni che vogliono.” Gli dissi in tutta sincerità.

“Forse sarebbe la cosa migliore per tutti” rispose con occhi assenti, più a se stesso che a me.

Dopo qualche secondo si riprese, sorrise come se non fosse successo nulla e mi chiese se avessi già voglia di ordinare il dolce. Andò avanti a chiacchierare per il resto della serata e io, nonostante i suoi commenti a volte fossero un po’ pungenti, fui grata che fosse una persona così socievole. Non c’erano stati infatti silenzi imbarazzanti e il tempo passò più in fretta di quanto avessi mai ritenuto possibile. Non parlò quasi mai di lui, di come era la sua vita prima di diventare famoso. Invece sembrava interessato a scoprire quante più cose possibile sul mio conto.
Volle sapere di che colore erano le pareti della mia stanza in Italia, se preferivo dormire con o senza il cuscino. Mi chiese come mangiavo i cereali alla mattina, se lavavo i piatti con i guanti e se la sera quando andavo a letto riuscivo a prendere subito sonno. Io risposi sinceramente a tutte quelle domande, mi rendevo conto che avrei potuto semplicemente mentire, eppure non riuscivo a convincermi che tutto quell’interesse fosse solo un educato tentativo di fare conversazione.
Molte delle coppie intorno a noi se n’erano già andate da un pezzo, e la candela sul tavolo si era quasi consumata del tutto. Mi stava raccontando del suo trucco segreto per non perdersi sulla metropolitana di Londra, quando mi lasciai sfuggire uno sbadiglio e lui ovviamente se ne accorse.

“Hai sonno, Sophie? Sono solo le undici e comunque non pensavo di essere così noioso.” Scherzava, ma c’era una goccia di insicurezza in quelle parole che non passò inosservata.

“No, scusami. È che domani mattina devo andare al lavoro presto e so già che alzarsi sarà un suicidio.”

“Davvero c’è gente che va in libreria il lunedì mattina?” mi chiese ironico. All’inizio non capii, poi collegai il fatto che lui pensava che la libreria fosse il mio unico lavoro, in base a quello che Adam gli aveva detto quando era passato a casa a cercarmi.

“Certo che c’è gente che lo fa. Comunque no, domani mattina devo svegliarmi presto per preparare la colazione e accompagnare i bambini a scuola” risposi, ancora una volta, sincera.

“Oh parli di Adam? È una forza della natura quel ragazzino, salutamelo poi!” Mi irrigidii sulla sedia, improvvisamente consapevole di quanto vicina fossi stata a lasciarmi scivolare dalle labbra la verità. Louis non doveva sapere, nel modo più assoluto, di Elizabeth e Katherine ed era quindi meglio allontanarsi da quel territorio pericoloso. Vedendo che non aggiungevo altro, Louis si alzò per andare a pagare il conto.

“Non scappare via mentre non ci sono, intesi?” mi sussurrò nell’orecchio sinistro, quando era ormai già fuori dal mio campo visivo. Arrossii più di quanto avessi fatto in tutta quella serata e, incapace di alzarmi, aspettai il suo ritorno. Quando arrivò aveva già in mano i nostri cappotti e mi aiutò a infilare il mio. Mormorai un “grazie” a mezza voce, mentre lui mi teneva sollevati i capelli per non farli ingarbugliare nel cappuccio.
E io che glielo lasciai pure fare.
Dove erano finiti tutti i miei buoni propositi di non lasciarmi ammaliare da lui? Dove erano finiti i commenti sarcastici e le battutine che avrebbero dovuto aiutare a proteggermi dal suo sguardo troppo attento? E soprattutto perché gli avevo raccontato tutte quelle cose di me, visto che da domani saremmo tornati ad essere due perfetti sconosciuti? Era possibile che ci fosse qualcos’altro sotto?
Ad esempio che il suo manager l’avesse incaricato di raccogliere quante più informazioni possibili sul mio conto per poi sbattere la notizia in prima pagina? Ad ogni modo, sapevo che quella non era la realtà, che lui probabilmente si stava solo divertendo a mettere in piedi la scenetta dell’appuntamento romantico per farmi credere di avere una speranza con lui e poi ridere di me e piantarmi in asso, una volta che gli avessi chiesto di vederci ancora. E lì sì che avrebbe avuto la sua vendetta, che mi avrebbe ripagato per lo schiaffo ricevuto.
Il punto è che io perdevo la testa per le cose fatte bene, quelle un po’ formali ma anche così eleganti e dall’atmosfera un po’ da sogno. Per tutta la vita avevo voluto che qualcuno si prendesse cura di me, pianificando la nostra uscita nei minimi particolari e riempiendomi di piccole attenzioni. Mi piaceva che qualcuno spingesse in avanti la mia sedia una volta seduta al tavolo, che qualcuno guardasse me tutto il tempo e non le altre mille ragazze molto più carine nella sala, che qualcuno mi aiutasse a infilarmi il cappotto.
Qualcuno come Louis quella sera.
Poteva davvero essere così furbo e meschino? Forse sì. O forse ero solo io che non riuscivo ad accettare l’idea che un ragazzo avesse voluto cenare insieme a me senza pretendere nulla in cambio. Mi vantavo tanto di essere cambiata da quando mi ero trasferita in Inghilterra, ma le vecchie paure erano ancora lì, pronte a farmi compagnia quando il resto del mondo taceva.

“Che stai facendo?” gli chiesi una volta fuori dalla villa, quando vidi che lui tirò fuori il cellulare e si mise a parlare con qualcuno, volutamente troppo veloce perché io potessi seguire la conversazione.

“Sto chiamando il mio autista per riportarti a casa” disse lui con noncuranza.

“No, Louis. Metti giù quel telefono, io non ho intenzione di venire da nessuna parte con te” dissi sconvolta, incapace di muovermi.
Un paio di ore insieme e già credeva di poter decidere per me. Un’altra persona pronta a parlare al posto mio, che credeva di poter fare di me quello che voleva e che io non avessi fatto niente per oppormi. Proprio come mio padre, soltanto che questa volta non avrei lasciato che accadesse.

“Sofia. È quasi mezzanotte e se ho imparato qualcosa in ventun’anni di vita sotto un cielo inglese, tra poco si metterà a piovere e tu non hai l’ombrello” nonostante avesse usato il mio vero nome per prendermi in giro, il suo tono di voce era serio e io non resistetti più. Sentivo già le lacrime pungermi gli occhi e così mi voltai, togliendomi dalla sua visuale.
Inizialmente volevo soltanto che lui non si rendesse conto che fossi sul punto di piangere, ma quando mossi qualche passo per mettere più distanza tra noi, lui dovette pensare che me ne stessi andando, perché inizio a chiamarmi a voce più alta, facendo anche voltare alcuni passanti, e con due falcate era di nuovo al mio fianco.

“Mi spieghi dove diavolo stai andando?” mi chiese, afferrandomi il polso.

“In stazione a prendere il treno. Se una volta tanto mi lasciassi parlare, invece di fare sempre tutto di testa tua, sapresti che avevo già preso il biglietto per il ritorno e non intendo sprecarlo” risposi stizzita.

“Te lo ripago io, non c’è problema per quello. Torniamo di là che tra poco l’autista arriva.”

“Ma possibile che per te sia sempre tutto solo una questione di soldi? Non voglio venire a casa con te. Non volevo venire qui questa sera e non voglio che tu mi paghi questo cavolo di biglietto, è così difficile da capire? Se vuoi saperla tutta mi ero portata i soldi per pagare la mia metà della cena, peccato che tu abbia scelto un ristorante dove anche solo per sederti devi sborsare cinquanta sterline! Ora lasciami andare, se non vuoi che io rientri a casa alle tre del mattino.”
Finalmente le mie parole avevano fatto effetto. Louis era rimasto impietrito e lasciò andare il mio polso. Non sapevo se quella sul suo viso fosse indecisione, incredulità o se semplicemente pensava che fossi impazzita. In ogni modo riprese in mano il telefono e senza smettere di guardarmi un secondo nel tentativo di capire perché tutta la situazione gli stesse sfuggendo dalle dita così clamorosamente, richiamò il suo autista e gli disse di non venire più.

“Sei la persona più testarda che io abbia mai visto. Spero solo che non ti succeda niente di male stanotte” mi disse e sapevo che in quel momento tra di noi non c’erano più bugie o convenevoli.

“Perché ti interessa?” chiesi, ancora sulla difensiva.

“Non lo so, davvero non lo so” mormorò, così piano che non ero neanche del tutto certa di non essermelo immaginato. Grazie a Dio in quel momento passò un taxi, che si accorse di me e accostò lungo il marciapiede, pronto a portarmi via da quell’incubo. E pensare che fino a qualche minuto fa stava andando tutto così bene, molto di più di quanto avessi mai sperato.
Ma forse un taglio netto, uno strappo forte e deciso era proprio quello che ci voleva per mettere la parola fine a quella storia così malsana per entrambi. Salutarsi con una stretta di mano, o addirittura un abbraccio, non avrebbe fatto altro che complicare le cose. Louis aveva ottenuto ciò che voleva, ero andata a cena fuori con lui. Avevo rispettato la mia parte dell’accordo, il mio compito ormai lì era finito. Salii sul taxi e lui si avvicinò piano, tenendomi aperta la porta. Ancora quei modi premurosi. Ancora quell’espressione gentile. Perché non se ne andava e non mi lasciava in pace?

“Allora ciao, Sophie” sussurrò e io mi limitai a fare un cenno in risposta con la mano, scappando via da tutto quel blu in cui sapevo che, una volta a casa, sarei tornata ad annegare.



Spazio autrice: Ciao a tutti! Scusate per il lieve ritardo! In teoria questo capitolo avrebbe dovuto comprendere sia il punto di vista di Sophie che quello di Louis, relativo alla stssa serata! L'ho finito oggi in classe ed è venuta fuori una roba come dieci pagine quindi, avendo avuto pietà di voi, ho deciso di tagliarlo a metà e dato che la seconda parte è già scritta, la posterò presto, dopo di che inizierò la maturità, aiuto!!! La storia procede, lentamente ma procede, perchè come vi avevo già detto, più che gli eventi esterni mi piaceva l'idea di concentrarmi sulla psicologia dei personaggi, il loro modo di reagire e di entrare in contatto gli uni con gli altri. Allora vi piacciono come stanno andando le cose? Chi cederà per primo??
Per ogni cosa (critiche, dubbi, complimenti) mi trovate qui:  https://twitter.com/Martolinsss
Grazie come sempre a tutti voi che recensite ma anche a coloro che leggono in silenzio e hanno messo la storia nelle preferite, seguite e ricordate!!!
Un bacio a tutti e al prossimo capitolo! Per chi ha finito la scuola, buone vacanze!!!!
Marta


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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


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CAPITOLO IV


Osservai il taxi portarla via mentre io me ne stavo lì, immobile, senza che potessi fare nulla per fermarlo. Ecco qual era il mio problema. Non importava il contesto o la circostanza, ero sempre quello che amava di più, che ci teneva di più, e finiva di conseguenza per rovinare tutto.
La serata era iniziata bene, l’avevo fatta ridere, e in alcuni momenti mi era sembrata davvero felice di essere lì con me. Che cosa ci voleva a dirle “Sophie, ti andrebbe se ti accompagno io a casa? È tardi e non mi piacerebbe saperti là fuori da sola” invece no, avevo dovuto fare di testa mia, avevo dovuto mostrarmi per la persona gelosa e possessiva che ero, quella che vuole sempre avere tutto sotto controllo. Non importava quanto le mie intenzioni fossero state buone, a lei quel gesto aveva dato fastidio ed era normale che se ne fosse andata via così.
Che cosa mi aspettavo, dopotutto? Lei era lì perché l’avevo praticamente costretta, non perché lo volesse davvero.
Ecco la vita di Louis Tomlinson: milioni di ragazzine che si taglierebbero un braccio per passare una serata con lui, ma quella che lui vuole, o che almeno pensava di volere, lo ritiene un pallone gonfiato e lo lascia lì in mezzo alla strada senza troppi complimenti.
Non era neanche passato un minuto da quando il taxi se l’era portata via e già stavo iniziando a piangermi addosso.

“Che diavolo fai lì impalato, figliolo?” mi voltai di scatto, per vedere chi avesse parlato. Era un signore anziano, appoggiato ad un bastone e che aveva tanto l’aria di non avere un posto dove andare. “Io non avrò un soldo, ma ogni tanto giuro che i milioni a voi vi fanno perdere il cervello! Corrile dietro no??”

Aveva ragione, ed è incredibile quanto silenziosa sia la verità quando, di colpo, esplode dentro di te e finalmente non sei più cieco, vedi quello che devi fare, la strada giusta tracciata davanti a te e sai che seguendola non potrai più sbagliarti. Infilai la mano nella tasca della giacca e tirai fuori tutte le banconote che riuscii a trovarci, ringraziando e dandole velocemente all’uomo anziano al bordo della strada prima che si rendesse conto di quello che stavo facendo e riuscisse a respingerle.
Presi un taxi a mia volta e pregai l’autista di correre il più possibile alla stazione Vittoria, la più vicina in zona, sperando che fosse quella a cui anche Sophie fosse diretta. Appena arrivai mi catapultai fuori dal taxi e entrai nella stazione, cercando di aguzzare la vista per leggere gli orari sul tabellone delle partenze. Il prossimo treno per Oxford partiva tra tre minuti, potevo ancora farcela.
Corsi bruciando tutto il fiato che mi era rimasto nei polmoni e raggiunsi il binario cinque appena in tempo. Salii sul primo vagone che trovai ancora aperto e quando la portiera si richiuse alle mie spalle mi fermai un attimo per riprendere fiato, con la vista che mi si era annebbiata per lo sforzo e i polpacci che protestavano offesi.
Ce l’avevo fatta, ero sul suo stesso treno, ora dovevo solamente trovarla e chiederle scusa. Passai di vagone in vagone, spiando dentro ad ogni scompartimento per vedere se lei fosse lì e ricevendo parecchie occhiatacce dagli altri passeggeri che volevano soltanto, visto l’ora, dormire in santa pace. Sophie sembrava non essere da nessuna parte. Stavo iniziando a perdere la speranza, magari nella fretta avevo confuso il numero del binario o forse aveva preso il treno prima. Mi sentivo un completo idiota, su un treno diretto chissà dove e non sapevo nemmeno tra quanto ci sarebbe stata la prima fermata .

Fu in quel momento che la vidi, accovacciata sul sedile nello scompartimento di fronte al mio. Aveva gli occhi chiusi e la fronte appoggiata al finestrino e sembrava trarre sollievo dalla sensazione del vetro freddo contro la sua pelle. Stava ascoltando la musica e pareva fosse in un mondo tutto suo.
Un mondo piccolo, protetto, ricamato, come se quello fosse il posto dove lei doveva stare, dove non le sarebbe mai potuto mancare niente, e a confronto del quale ogni altro luogo sarebbe stato per lei stretto, sbagliato, infelice. Un mondo dove Louis Tomlinson non esisteva e non poteva farle, ancora una volta, del male.
Vederla così stroncò tutti i castelli che mi ero costruito con tanta cura e dedizione mentre ero nel taxi. Mi ero ripromesso che sarei arrivato lì e le avrei espresso i miei sentimenti, di cui da così poco ero divenuto consapevole. Le avrei preso la mano e guardandola negli occhi le avrei chiesto scusa per il mio comportamento iperprotettivo e anche un po’ infantile di poco prima. Forse ci avrebbe messo un po’, ma alla fine sapevo che avrebbe capito, che mi avrebbe perdonato.
Vederla invece così serena, intera senza di me, mi lasciò impietrito e quasi mi convinsi a lasciarle vivere la sua vita in pace e ad andarmene. In quel momento i suoi occhi però, per uno strano scherzo del destino, si spalancarono e lei si accorse di me.
I nostri sguardi si incrociarono, marrone nel blu, terra nel mare, ma fu solo un istante, perché Sophie si rigirò subito e tornò a guardare fuori dal finestrino, rincorrendo qualche pensiero che io non avrei mai potuto comprendere. Ricordando a me stesso perché ero arrivato fin lì, mi feci coraggio e andai a sedermi nel posto libero di fronte a lei, aspettando un suo cenno, uno sguardo, una qualsiasi cosa che mi facesse capire come comportarmi. Avevo già rovinato tutto e non sapevo più che cosa fosse giusto fare per lei, per noi.

“Che canzone stai ascoltando?” le chiesi quando vidi che non aveva nessuna intenzione di rivolgermi la parola per prima. “Sai se questo è un treno diretto o se fa tutte le fermate?”, “Quanto ci vuole ancora?”,“Scusa non è che avresti un po’ d’acqua?” Continuai a insistere fino a quando lei, esasperata, si strappò via le cuffiette dalle orecchie e mi disse incredula:

“Louis sei veramente la persona più fastidiosa sulla faccia della terra!”

“Detto da te, lo prendo come un complimento” risposi sfacciato, sperando di riuscire a strapparle un sorriso. Qualcosa nei suoi occhi era cambiato, ma il ghiaccio era ancora là, tutto intero, e non accennava a sciogliersi.

“Il treno è semivuoto, non capisco perché tu debba stare seduto proprio qui” rispose stizzita. L’avevo proprio fatta arrabbiare, era come un gattino furioso, innocuo ma delizioso da osservare. Vederla così ostile avrebbe dovuto scoraggiarmi, farmi desistere, invece mandò una scossa elettrica lungo tutto il mio corpo.
In quel momento, guardandola mentre si sforzava con tutte le sue forze di ignorarmi e fare come se io non fossi lì, giurai a me stesso che non mi sarei fermato finché non mi avesse ascoltato e finché anche lei non avesse ammesso i suoi sentimenti per me. Perché di sicuro provava qualcosa, lo potevo sentire nell’aria, nel vapore che si stava condensando contro il finestrino, nella nebbia che si stava sollevando nei prati lungo i bordi delle rotaie.

Lei tenne lo sguardo basso per il resto del viaggio. Non sapevo se lo facesse perché non voleva incontrare il mio o perché era semplicemente era troppo persa nei suoi pensieri per accorgersi che non me ne ero andato come lei mi aveva chiesto. Forse voleva che la lasciassi sola sul serio, forse aveva già iniziato a dimenticarsi di me e stava già sciacquando via le mie parole, le mie idee che quella sera le avevo lasciato, pensando che le sarebbe piaciuto prendersene cura. Forse stava già staccando tutte quelle piccole cose di me che con mani tramanti e pezzetti di scotch le avevo attaccato dentro, sperando che fosse abbastanza per tenerla incollata a me. Non importava, però, perché non gliel’avrei permesso.
Non avrei lasciato che si arrendesse alla vista dei miei occhi freddi occhi blu. Volevo che ci entrasse in quell’acqua, per farle capire che non era gelida come lei pensava. Dovevo solo convincerla a fare il primo passo, a bagnarci dentro i piedi, così che poi si sarebbe resa conto da sola di quanto calore invece ci avrebbe potuto trovato, se solo lei l’avesse voluto. Niente alghe o pietre appuntite a farle male. C’era anche un po’ di sale in me, è vero, che avrebbe potuto farle bruciare gli occhi, ma con pazienza e cura avremmo imparato, insieme, a proteggerci anche da quello.

Se Sophie avesse potuto sentire questi miei pensieri si sarebbe ulteriormente convinta della persona arrogante e presuntuosa che pensava io fossi. La mia sicurezza, la mia volontà a non arrendermi, li avrebbe sicuramente scambiati per orgoglio e ciò non avrebbe fatto altro che incrementare i suoi pregiudizi nei miei confronti. Non importava quanto disponibile e gentile io mi dimostrassi, ai suoi occhi ero sempre il ragazzino famoso e snob che si era montato la testa.
Ero stato anche quello a volte, dovevo ammetterlo. Appena dopo il successo del primo album c’erano stati dei momenti in cui adoravo l’idea di piacere a tutti senza che dovessi fare qualcosa di particolare per meritarmelo. Vedendo la reazione che provocavo nelle persone mi comportavo come se tutto mi fosse dovuto e non mi interessava prendermi cura dei sentimenti degli altri o fare del mio meglio per meritare il loro affetto. Volevo soltanto che tutti mi ammirassero, che volessero essere come me e che fossero sempre lì ad aiutarmi, per soddisfare ogni mio capriccio.
Un po’ presuntuoso da parte mia, lo so, ma nessuno mi aveva spiegato come fare ad abituarsi, da un giorno all’altro, all’essere diventato una star, a vedere la mia faccia su tutti i giornali e a leggere, e soprattutto accettare come mie, parole che io non avevo mai pronunciato.
Forse, ora che ci pensavo bene, mi comportavo così perché già allora cercavo negli altri l’affetto e l’ammirazione che sapevo non sarei mai riuscito a provare per me stesso.

Con Sophie invece era diverso, di questo ne ero sicuro. Volevo che lei capisse chi ero davvero, la persona che ero diventato dopo aver metabolizzato l’idea di essere una celebrità. Volevo che lei scoprisse chi ero quando le telecamere erano spente e che imparasse a volermi bene per quello, al di là di tutte le chiacchiere e gli stereotipi.
Non mi interessava conquistarla per aggiungere il suo nome alla lista delle persone che stravedevano per me, ma perché avevo visto del buono in lei, qualcosa di vero, di puro, che io avevo perso da tempo. Avevo bisogno di lei e di quel suo qualcosa per tornare a stare bene, per imparare di nuovo a sentirmi vivo, senza un mar di persone che gridavano il mio nome sotto il palco, ma semplicemente svegliandomi ogni giorno accanto a lei. Io e lei, sdraiati fianco a fianco in un letto, con le lenzuola bianche, delicate, che profumano di pulito, di promesse e della voglia di mantenerle. Sophie era bellissima, ma io ancora non riuscivo a vederla in quel modo e anche se l’avessi fatto, sapevo che lei non era neanche lontanamente pronta.
C’erano ferite su tutto il suo corpo, benché non fosse disposta a lasciarmele vedere. Tagli e graffi che il tempo, le delusioni, la solitudine e le attenzioni non ricambiate avevano lasciato su di lei. Io volevo prendere del cotone e disinfettare quelle ferite, una per una, e poi soffiarci sopra per accelerarne la guarigione. Sapevo che lei all’inizio si sarebbe tirata indietro, per paura del bruciore, ma poi avrebbe capito che era necessario e avrebbe lasciato che mi prendessi cura di lei.
Non ci si innamora del dottore che ti cura le ferite, ma speravo almeno che iniziasse ad avere fiducia in me, a credere che non volessi farle male e che tornasse da me ogni volta che il mondo fuori le sembrasse non avere nessuna pietà per il suo cuore così stanco, così pieno di garze e cerotti che da soli non ce la facevano più a tenerlo insieme.

Mentre pensavo a tutto questo non smisi per un istante di guardarla e forse fu proprio vederla così vulnerabile a farmi capire che a quel punto non avrei più potuto, anche se l’avessi voluto, lasciarla andare. Lei che si guardava dentro, io che guardavo lei, ma il tempo non era disposto a fermarsi per noi, anzi sembrava scorrere, volare più veloce del solito.
Quasi per caso guardai fuori dal finestrino e vidi il cartello con la scritta “Oxford”, forte e prepotente, farsi sempre più pericolosamente vicino.

“Sophie, siamo arrivati, sbrigati! Dobbiamo scendere!” gridai ma lei non mi diede retta, pensando che stessi solo cercando di infastidirla di nuovo. Perché doveva essere sempre così testarda? Avrei voluto quasi scendere e lasciarla lì, per guardala poi arrivare a piedi dalla stazione successiva e dirle “Te l’avevo detto che dovevi scendere” ma, a parte un senso di soddisfazione momentanea, che cosa ci avrei guadagnato? Lei era ancora sul treno e quindi quello era il posto dove anche io dovevo stare, non importava quante fermate dopo saremmo scesi. Avremmo percorso la distanza a piedi e se lei si fosse sentita improvvisamente stanca, l’avrei stretta a me, indicandole le buche nel terreno così che non inciampasse.
Non senza temere un altro schiaffo, le tolsi una cuffietta e le dissi che quella là fuori era Oxford ma che se voleva stare ancora lì le avrei volentieri tenuto compagnia per quella sera, o anche per tutta la vita, ma questo naturalmente non c’era nessun bisogno che glielo dicessi.
Una volta capito che eravamo arrivati sul serio, il panico si impossessò di lei. Si alzò di scatto, cercando di recuperare tutte le sue cose nel minor tempo possibile. Io ero già davanti alla porta e le urlavo di sbrigarsi, non senza un po’ di divertimento, perché tra poco il treno sarebbe ripartito e lei sembrava lontana anni luce dallo sportello.

C’eravamo solo io e lei e sembrava tutto così assurdo, surreale, che se l’avessimo raccontato nessuno ci avrebbe creduto, ma forse quando due persone sono così diverse, così in qualche modo irraggiungibili, serve una situazione estrema per farle incontrare, per farle avvicinare e imparare a fidarsi l’uno dell’altra.
Sophie c’era quasi, ma all’ultimo secondo il filo delle sue tanto amate cuffiette si impigliò nel sedile e lei dovette fermarsi per slegarlo. Il treno stava già iniziando a prendere velocità e io dalla banchina le urlai di saltare, che non doveva preoccuparsi, perché l’avrei presa e lei ce l’avrebbe fatta.
Non capirò mai perché, ma lei per una volta tanto si fidò di me e saltò, mettendo in un angolo, a riposare, tutte le sue paure. Io scattai in avanti per attutirle la caduta e ne approfittai per tenerla qualche istante stretta tra le braccia, prima che lei si divincolasse dalla mia presa

“Non c’è bisogno di agitarsi tanto. Volevo solo prenderti affinché non cadessi.” Le mie parole però svanirono nell’aria fredda, perché un gemito le era sfuggito dalle labbra. Labbra fatte per sorridere, per fare il broncio quando non ottenevano tutto quello che lei si meritava, per pronunciare parole d’amore e essere baciate, ogni minuto di ogni giorno, e non di certo per lamentarsi di dolore.

“Che cos’hai, Sophie?” le chiesi e nella mia voce potevo sentire solo panico e preoccupazione per lei. Ero davvero riuscito in una sola serata a farle del male anche fisicamente?

“La caviglia..” rispose con una smorfia di dolore “devo essermi presa una storta quando ho saltato.”

“Forza andiamo a casa” le dissi sorreggendo il suo peso con il mio corpo “hai bisogno di metterci sopra del ghiaccio.”

“No no, ce la faccio da sola!” disse togliendo il braccio che le avevo avvolto intorno alle spalle. Fece qualche passo in avanti e fu di nuovo sul punto di cadere.

“La vuoi smettere di voler fare sempre l’eroina della situazione? Hai bisogno di essere aiutata e se non ti è troppo difficile tieni la bocca chiusa mentre lo faccio”
Non so perché le risposi così male, forse era la paura che lei si potesse essere fatta davvero male per colpa mia o il pensiero che preferiva zoppicare fino a casa sua piuttosto che lasciarsi aiutare da me. In ogni caso il mio tono severo sembrò funzionare, perché quando la strinsi di nuovo a me per aiutarla a camminare, non si ritrasse più.
Senza che nessuno dei due proferisse parola, uscimmo dalla stazione e la feci sedere su una panchina lì vicino, mentre io mi allontanavo per chiamare un taxi.
Avevo bisogno di mettere un po’ di spazio tra me e lei, perché esserle stato così vicino, aver sentito la stretta delicata della sua mano mentre si aggrappava al mio collo per non cadere, mi aveva emozionato al punto tale che mi si era appannata la vista.
Mi stavo innamorando di lei, ormai mi era chiaro, mi conoscevo troppo bene per non accorgermene, e se avessi potuto non avrei chiesto altro che passare la notte con lei, su quella panchina, fino a che il sole non fosse sorto. Le avrei dato la mia giacca se avesse sentito freddo e avrei tenuto al caldo le sue mani nelle mie per tutto il tempo che avesse voluto.
Dopo aver chiamato il taxi tornai da lei, incapace di starle lontano, e l’aiutai a rimettersi in piedi. Sophie ancora non mi parlava, ma non ero preoccupato, perché così tante cose erano cambiate tra noi quella sera e dovevo lasciarle tempo per abituarcisi. Quando dissi il suo indirizzo al tassista lei però mi guardò con occhi increduli e mi chiese, sospettosa, come facessi a saperlo.

“Ti sei messo anche a seguirmi, adesso?”

“Guarda che me lo ricordo da quando ero venuto a cercarti a casa per la storia della denuncia” e osservai le sue guance tingersi di rosso al ricordo. “Stai tranquilla che il mio mondo non gira intorno a te”o almeno non ancora pensai, ma non c’era nessun bisogno che lei, almeno per adesso, lo sapesse.
Si rifiutò di parlarmi per tutta la durata del viaggio, che a mio grande dispiacere, si rivelò molto breve. Continuò a guardare fuori dal finestrino, senza nemmeno preoccuparsi di spostare la sua mano quando, d’istinto, la coprii con la mia. Sapevo che probabilmente per lei non era nulla, o che lo stesse probabilmente vivendo come un mio tentativo di alleviarle il dolore alla caviglia, ma dentro di me non potevo che esserne felice e mettere a tacere la speranza che forse anche per lei significavo qualcosa. Quando il taxi si fermò davanti a casa sua, notai che una luce, probabilmente quella della cucina o del salotto, era ancora accesa. “

“C’è qualcuno ancora sveglio ad aspettarti?” le chiesi mentre l’aiutavo a risalire, a piccoli passi, il vialetto.

“Si è probabile che Clark sia ancora sveglio. Faresti meglio ad andare se non vuoi che pensi che sia stato tu a ridurmi così” e indicò la sua caviglia dolorante.

“Hai ragione Sophie, meglio non rischiare, me ne vado immediatamente” dissi e le tolsi il braccio da dietro la schiena. Lei perse subito l’equilibrio e nei suoi occhi vidi il panico quando si rese conto che stava per cadere, ancora. Non fece però nemmeno in tempo ad urlare che l’avevo ripresa tra le braccia, dove sapevo che sarebbe stata per sempre, o almeno fino a quando lei l’avesse voluto, al sicuro. “Stavi dicendo, scusa?” le chiesi con finta noncuranza.

“Sei uno stronzo, Louis” ma la sentii ridere e fui contento di vedere che non se la fosse presa per lo scherzo. Da un momento all’altro però lei si sarebbe schiarita la gola, facendomi capire che doveva rientrare, e io me ne sarei tornato nel taxi, perdendola per la seconda volta.

“Mi dispiace per essermi qualche volta comportata un po’ male con te stasera” mi disse all’improvviso giocherellando con l’orlo della sua giacca. “Di solito non sono così” aggiunse e nella sua voce c’era solo tristezza e dolore che non avevano niente a che fare con la caviglia slogata.

“Non preoccuparti, per quello che vale neanche io posso dire di essere stato un perfetto gentiluomo stasera. Ma dimmi una cosa, perché fai così? Voglio dire, perché sei sempre sulla difensiva? Magari sono solo io che ti sto antipatico e con gli altri sei la ragazza più scherzosa di questo mondo..” le chiesi sperando di non offenderla. Provai a dire a me stesso che era solo curiosità, ma in fondo sapevo che avevo un bisogno quasi fisico di quella risposta, e che se lei non fosse stata sincera, sarei stato sveglio tutta la notte a ripensarci.

“Perché pensavo che se mi fossi comportata così sarebbe stato più facile.. Intendo più facile per te non interessarti a me” aggiunse quando notò la mia espressione confusa. “Volevo essere sicura che pensassi che fossi la persona più antipatica con cui ti fossi mai trovato a cenare, così che non ti sarebbe mai passato per la mente di chiedermi di vederci ancora. Non so neanche perché pensavo che tu avessi mai potuto voler uscire ancora con me ma, come sempre, ho messo le mani avanti.” Non alzò mai gli occhi mentre mi disse quelle parole, forse spaventata di quello che ci avrebbe visto. Non sapevo cosa dire, ero talmente travolto da quella verità che non seppi fare altro che rimanere in silenzio e lei lo prese come un incoraggiamento a continuare.

“Ti giuro che quando ero seduta sul treno ero quasi felice perché dicevo a me stessa che aveva funzionato, che ero stata abbastanza convincente. Ti immaginavo perfino mentre rientravi a casa, mentre appoggiavi stanco le chiavi sul mobiletto nell’ingresso e mentre ti toglievi le scarpe, sospirando di sollievo e ripensando all’abbaglio colossale che avevi preso, ma allo stesso tempo felice che fosse finita. Poi all’improvviso sei spuntato nello scompartimento in cui ero seduta e in quel momento, anche se sapevo che era sbagliato, non riuscii a non esserne in qualche modo felice. Possibile che finalmente qualcuno avesse saputo andare oltre il mio sarcasmo? Che qualcuno avesse capito che se faccio così è perché ho solo paura che gli altri mi vedano per quella che sono davvero e che ne ridano? Non lo so se avevi capito, non so se esiste una persona che potrebbe mai farlo e se quella persona sei tu, Louis, e non so nemmeno perché ti sto dicendo tutto questo..”
E in mezzo a tutte quelle parole sorrise. Sophie, semplicemente, sorrise ricordandosi di quelle cose, tenute dentro di lei per così tanto tempo e così a fondo, che forse non si ricordava neanche più di averle. Ma sono i chiodi dimenticati, quelli su cui poi la corteccia cresce fino a ricoprirli, quelli che fanno più male. Non basta nasconderli perché non spingano, perché non brucino più e non graffino la superficie. E lei era graffiata, punta, scorticata. Era così ovvio ai miei occhi, perché gli altri non se ne accorgevano?

“Beh, qualsiasi cosa avevi in mente per fregarmi stasera, sappi che non ci sei riuscita, signorina. E ti dirò di più, non è stato male per una volta avere qualcuno che mi tenesse testa anche se, ovviamente, rimango io il maestro!” le risposi ridendo, sperando di coprire con quella risata l’agitazione della mia voce. Sapevo che lei era speciale, me ne ero accorto fin dal primo istante, ma rendermi conto fino a che punto lei fosse fragile, quanto avesse bisogno di qualcuno che la proteggesse e le facesse capire quanto meravigliosa fosse, mi scosse dentro in un modo che non credevo fosse più possibile. Sophie con quelle parole, mi aveva fatto risentire il ragazzino di diciannove anni che ero stato, quello che si commuoveva quando doveva dire a una persona cara che le voleva bene o quello che rimaneva sveglio tutta la notte per consolare la sua sorellina dopo che il fidanzatino di turno l’aveva lasciata per la sua migliore amica, quella più simpatica, quella più carina.

“Beh ma posso sempre imparare no? Dammi un po’ di tempo e vedrai che diventerò brava come te..” mi rispose, ma si vedeva che stava scherzando.

“No, no vai già bene così..” risposi con impeto. Okay, io ero più bravo, ma non c’era nessun bisogno che lei mi osservasse per diventare come me.
Dopotutto, cosa avrei mai potuto insegnarle io? Come essere scorbutico la mattina senza nessun motivo? Come essere silenzioso quando c’è qualcosa che non va e aspettare che il mondo, in qualche modo, se ne accorga? O come insistere di avere sempre ragione ed essere la persona più orgogliosa sulla faccia della terra?
Lei non ne aveva assolutamente bisogno e, se fossi stato corretto nei suoi confronti, me ne sarei andato in quello stesso istante, senza voltarmi indietro un’altra volta, perché starmi vicino non avrebbe avuto che risvolti negativi per lei.
Se fossi stato forte, avrei capito che era giusto così e me ne sarei tornato nella mia gabbia d’oro, a cinguettare quando mi veniva detto, facendolo con la voce migliore che riuscivo a tirare fuori, ma standomene appollaiato per tutto il resto del tempo, con le ali chiuse, serrate lungo i fianchi. Ma non lo ero, lo sapevo, l’avevo sempre saputo e da quella sera decisi che non me ne importava più niente.

“Sarà meglio che rientri Sophie..” le dissi quando notai una breve smorfia di dolore sul suo volto. Eravamo ormai davanti alla porta da diversi minuti e nessuno dei due accennava a muoversi. Io sapevo perché non me ne volevo andare, ma lei? Possibile che forse anche lei non volesse salutarmi? Che anche lei non volesse rientrare in casa e accettare che quella serata, per quanto disordinata, caotica e assurda, fosse finita?

“Sì, hai ragione. Devo metterci del ghiaccio o domani non riuscirò neanche ad alzarmi dal letto” e non appena sentii quelle parole nella mia mente sbocciarono mille immagini di me che la passavo a prendere in macchina la mattina seguente così che non dovesse camminare per andare al lavoro, con lei che sorrideva imbarazzata mentre l’aiutavo ad alzarsi dal sedile, tenendole la borsa in un mano e l’ombrello nell’altra nel caso piovesse. Così che non si bagnasse, così che non si stancasse. Mi obbligai a tagliare fuori quei pensieri e tornai a guardarla. Come dovevo comportarmi adesso? Fare l’ennesima battuta o dirle qualcosa di intelligente? Darle un bacio sulla guancia e scappare via, girandomi poi a guardarla per vedere se stesse sorridendo? Invece non feci niente di tutto quello, perché mi ritrovai a chiederle:

“Mi dai il tuo telefono?” e una piccola ombra le oscurò gli occhi per un istante, come se stesse decidendo se poteva fidarsi di me o meno. Dopo qualche istante, la guardai in shock mentre iniziò a dirmi le prime cifre di quello che doveva essere effettivamente il suo numero di cellulare. Si fidava, dunque? Ero riuscito in qualche modo a farle capire che non ero il cantante snob che lei pensava?

“No, no..” la fermai. “Non voglio il tuo telefono nel senso del tuo numero” e vidi qualcosa indurirsi nel suo sguardo, per poi spaccarsi in mille pezzi. Piccoli pezzi di diamante sparsi ovunque intorno a noi. Rotti, disintegrati, ma che non avevano perso la loro lucentezza. “Intendevo dire il tuo cellulare” e come uno stupido mi ritrovai a mostrarle il mio iPhone, così da essere sicuro che non fraintendesse ancora.

“Oh..” si limitò a rispondere mentre cercava il suo telefono nella borsetta. Me lo diede qualche secondo dopo, non senza un sopracciglio alzato e uno sguardo attento, pronto a cogliere la fregatura, qualunque lei potesse pensare che fosse. Ma stavolta non c’era più nessun imbroglio, nessun trucco. Solo il desiderio di salutarla col cuore leggero, sapendo che quella non sarebbe stata l’ultima volta che la vedevo. Digitai velocemente il mio numero, lo salvai nella rubrica e poi glielo riconsegnai, con un sorrisetto soddisfatto.

“Bello sfondo, comunque” dissi riferendomi alla foto del suo gatto addormentato nel lavandino. Sophie arrossì e io quasi me ne pentii, perché ero con lei da troppo tempo ormai e non sapevo per quanto ancora sarei riuscito ad andare avanti a fingermi incurante del suo corpo così vicino al mio.

“Grazie..” rispose e la sua voce era poco più che un sussurro. “Perché mi hai dato il tuo numero e non hai voluto il mio?” mi chiese dopo qualche istante di silenzio. Sentivo che in lei c’era curiosità, ma anche una nota di amarezza, di inquietudine. “Un mio compagno di classe diceva sempre che se un ragazzo è interessato ti chiede il tuo numero e che quando non lo è finisce per darti il suo, per non ferirti troppo, ma sperando di non ricevere mai una tua telefonata.” Ora mi era tutto molto più chiaro. Pensava che il mio fosse solo un modo carino per dirle che mi ero divertito, ma che in fondo per me finiva lì e che, se lei non mi avesse richiamato, non me ne sarebbe importato granché. Un pensiero stupido, ma che non fece altro che far lievitare i sentimenti che sapevo stavano crescendo dentro di me per lei.

“Beh, il tuo amico ha ragione. Di solito è così, ma si è dimenticato di dirti una parte, la più importante. Questa è una regola, e come tutte le regole migliori, ha la sua eccezione” e mentre lo dissi, con la voce più sensuale che mi riuscisse in quel momento, la osservai trattenere il respiro e forse era stupido da parte mia pensarlo, ma ero sicuro che se in quel momento avessi provato a baciarla, lei non si sarebbe tirata indietro. “Ti ho dato il mio numero invece che darti il mio perché, se l’avessi fatto, sapevo che una volta tornato a casa avrei cominciato a scriverti un milione di cose stupide per essere sicuro che stasera avesse avuto almeno un briciolo dell’importanza che ha avuto per me.”

“Louis.. Io non so cosa dire..” rispose lei, e sapevo che non stava mentendo. Era la seconda volta che la lasciavo senza parole, e visto il suo carattere, non poteva che essere un buon segno.

“Questo però non vuol dire che appena entri, scorri la rubrica e lo cancelli, okay?” e provai a suonare minaccioso, ma invece scoppiammo tutte e due a ridere, e Dio, c’era forse suono più bello? “E non vuole neanche dire che mi devi scrivere stasera prima di addormentarti, o domani mattina quando ti svegli. Non che mi darebbe fastidio, si intende, ma voglio che tu mi scriva dopo che hai ripensato a questa sera, a noi, e al significato che ha avuto per te. Quando starai facendo qualcosa di ordinario, come asciugare i piatti, o versando un po’di cereali nella tazza alla mattina, e improvvisamente ti verrà in mente qualcosa che ti ho detto stasera, e soprattutto il modo in cui le mie parole ti hanno fatta sentire, ecco lì saprai che è arrivato il momento di scrivermi.”
Davvero le avevo dette io quelle parole? E davvero lei non era ancora corsa via a gambe levate, perché Dio santo come potevo essere diventato così sdolcinato?

“Va bene..” sussurrò lei e i suoi occhi erano concentrati, decisi, il che mi tranquillizzò, perché aveva preso sul serio le mie parole. “Buonanotte allora!” e mi rivolse il più tenero dei sorrisi, prima di voltarsi per aprire la porta, ma non senza che inciampasse nel tappetino dalla scritta “Welcome”.

“Attenta!” ed ero di nuovo a soltanto una manciata di centimetri dal suo viso.

“Grazie..” mi rispose cercando di coprire con i capelli le sue guance ancora una volta incandescenti per l’imbarazzo. Era goffa, non c’era altro modo per definirla, ma lo era in un modo tutto suo, che la faceva sembrare ancora più bella.
Rimasi a guardarla mentre varcava la soglia, mentre mi salutava un’ultima volta con la mano, prima di richiudersi la porta alle spalle. Poco dopo al piano di sopra si accese un’altra luce, e supposi che fosse arrivata nella sua stanza.
Per un attimo mi passò per la testa l’idea di stare lì finché non si fosse spenta, così da essere sicuro che si fosse addormentata. Poi però mi resi conto di quanto stupido fosse anche solo pensare a una cosa del genere e, davvero, avrei voluto che qualcuno in quel momento passasse per la strada deserta per chiedergli di tirarmi un pugno in piena faccia.

Con un sospiro gettai un’ultima occhiata alla casa e poi me ne andai a piedi verso la stazione. Era tardi e avrei probabilmente dovuto prendere un taxi.
Quasi si congelava, ma nessuna quantità di freddo sarebbe bastata a calmare ciò che mi sentivo dentro.
Così, quando il vento soffiò silenzioso intorno a me, continuai a camminare, allentai il colletto del cappotto e salutai l’aria gelida sul viso come una vecchia amica.




Spazio autrice: Buonasera a tutti!! Eccomi qui con il proseguimento della cena raccontato però dal punto di vista di Louis. Le cose iniziano a cambiare, i due stanno cominciando a capire i propri sentimenti per l'altro. Non che siano ancora pronti a dirselo, o a mettere in discussione tutto quello che avevano creduto fino a quel momento, ma forse, uno dei due in particolare, sta cominciando a chiedersi che senso ha andare avanti a mentire, a fingere di non essere interessato. Basta se no vi anticipo troppo!!
Mercoledì iniziano gli esami di maturità (help!!) e dato che ancora non so quando avrò l'orale non agitatevi se vedete che per un paio di settimane non posterò il nuovo capitolo. Mi dispiace ma scrivere sotto stress non è il mio forte, e piuttosto che fare un capitoletto striminzito e scritto male, preferisco farvi aspettare di più ma darvi qualcosa di leggere di serio, quindi spero che abbiate pazienza e mi aspettiate! :)
Grazie come sempre a tutti quelli che leggono in silenzio, che recensiscono (è bellissimo quando qualcuno che non aveva mai commentato lo fa per la prima volta, mi sento realizzata e come se questa storia alla fine abbia un po' di senso) e che hanno messo la storia nelle seguite, preferite eccetera!
Un ringraziamento speciale va a Miriana, senza cui ormai le mie serate non sarebbero più le stesse e a cui rompo di continuo chiedendole un'opinione su di pezzi in anteprima per accertarmi che abbiano senso. Facciamole tutti un ringraziamento in coro perchè senza di lei davvero non ci sarebbe nessun capitolo. Grazie davvero <3
Per ogni cosa mi trovate su twitter @martolinsss
Un bacio a tutti, a presto (spero) e ancora buone vacanze!!
Marta



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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


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CAPITOLO V


Arrivarono le sette del mattino senza che me ne fossi davvero resa conto.
Non riuscivo a ricordare per quanto fossi stata lì sdraiata nel mio letto, completamente sveglia e con tutti i sensi all’erta, o il momento esatto in cui i miei occhi finalmente si erano chiusi, sconfitti dalla stanchezza. Forse mi sentivo così confusa, senza un briciolo di ricordo cosciente a cui potermi aggrappare, perché non mi ero neanche addormentata del tutto.
Era più probabile infatti che avessi continuato a scivolare dentro e fuori da un sonno leggero, sottile, soffice quanto le nuvole, continuando a rigirarmi sotto il peso delicato ma confortante del piumone, chiedendomi se tutto quello era successo davvero o se si trattava soltanto di uno scherzo della mia mente, un po’ più reale e ingannevole del solito. Doveva però esserci stato qualcosa che mi aveva fatta svegliare del tutto: un suono, un profumo che mi aveva strappata dal mio stato di semi incoscienza. Quando mi tirai su, appoggiando i gomiti sul cuscino, lo notai che sbirciava per vedere se fossi ancora addormentata. Probabilmente la porta aveva cigolato quando lui l’aveva aperta ed ecco che cosa mi aveva fatta accorgere della sua presenza. Aveva ancora addosso il suo pigiama a quadretti blu, i capelli tutti arruffati e gli occhiali in bilico sul naso.

“Buongiorno Adam!” gli dissi, facendogli così capire che ero già sveglia.

“Buongiorno!” rispose lui con voce squillante. Si venne subito a sedere sul bordo del mio letto, rimase in silenzio per qualche secondo e poi mi guardò con aria maliziosa.

“Abbiamo fatto le ore piccole stanotte, non è vero?” mi chiese divertito.

“Si notano così tanto le occhiaie?” risposi stropicciandomi gli occhi.

“L’avevo capito dal sorriso, non dalle occhiaie. Poi ieri sera ho sentito una macchina arrivare verso la una e dato che noi altri eravamo tutti in casa, non ci ho messo molto a capire che eri tu” mi spiegò, come se fosse la cosa più logica di questo mondo.

“A volte mi dimentico che hai solo tredici anni, lo sai?” gli dissi in tutta sincerità.

“Lo so, lo so, li porto benissimo!” e questa risposta sarcastica gli fece guadagnare una cuscinata in testa.

“Ehi, ehi, piano! Comunque mi ha mandato mia mamma a controllare come sta la tua caviglia, anche se non ha voluto dirmi che cosa ti sei fatta..” e detto ciò, il suo sguardo si rabbuiò all’improvviso.

“Sono inciampata e ho messo male il piede, penso di essermi presa una storta ma sto bene!” e per tutto il tempo continuò a guardarmi negli occhi, per assicurarsi che non stessi mentendo.

“Non è che il ragazzo con cui sei uscita ti ha fatto del male vero?” mi chiese con un filo di voce, e ancora una volta dovetti ricordare a me stessa che era solo un ragazzino e provai una tristezza infinita perché certe ombre e dubbi non dovrebbero mai venire a disturbare la mente di un bambino.

“No no, non ti preoccupare! Vieni qui!” aggiunsi poi quando vidi che non era convinto. “Ti ricordi Louis? L’hai incontrato qualche settimana fa quando è venuto qui a casa. Pensi che potrebbe mai farmi del male?”

“Sei uscita con Louis? Forte! Mi sta simpatico, è un bel tipo! Però hai ragione, non penso che ti avrebbe mai trattata male!” mi rispose ma io ormai non lo ascoltavo quasi più, perché l’aver pronunciato ad alta voce il suo nome aveva riportato in vita i ricordi della sera prima, che per così tante ore si erano agitati nei miei sogni, cercando una via d’uscita. E ora che l’avevano trovata, essi bruciavano dentro di me, ardenti e decisi a farsi ascoltare. Per poco mi mancò il respiro e finsi di controllare l’ora guardando la sveglia sul comodino per fare in modo che Adam non se ne accorgesse.

“Sarà meglio che scendiamo a fare colazione o stamattina arriverete tutti tardi a scuola!” gli dissi e la mia voce risuonò metallica nella stanza, poco più di un sussurro, e mi fece sobbalzare per la sua estraneità.

“Va bene!” mi rispose allegramente, poi si chinò per arruffarmi i capelli, cosa che di solito facevo io quando andavo a svegliarlo, e uscì dalla mia stanza, chiudendosi la porta alle spalle.

Sospirai di sollievo e portai le ginocchia verso il petto. Vi appoggiai sopra il mento e chiusi gli occhi, strizzandoli fino a non vedere nient’altro che una miriade di puntini colorati, permettendo ai ricordi blu, quelli che portavano scritto il suo nome, di invadere tutto lo spazio dentro di me che sarei stata in grado loro di offrire.
Poi lentamente mi alzai, inciampando nelle ciabatte ai piedi del letto, e mi appoggiai un po’ alla parete per non cadere, perché nonostante tutto, la caviglia mi faceva ancora un po’ male. Aprii l’armadio e tirai fuori i primi vestiti che mi capitarono sotto mano. Per tutto il tempo diedi le spalle allo specchio, ma quando mi girai per pettinarmi i capelli, la spazzola mi cadde di mano per la sorpresa e atterrò con un tonfo sordo sulla moquette.
L’immagine della ragazza nello specchio mi aveva lasciato senza parole e mi avvicinai un po’ di più, per assicurarmi che fossi davvero io. Le labbra erano gonfie, arrossate e gli occhi lucidi, più grandi del solito e pieni di una luce che ero sicura la sera prima non ci fosse, e che sapevo anche a che cosa era dovuta.
Sollevai una mano e lentamente la posai sulla mia guancia, ripetendo il gesto di Louis della sera prima, un secondo prima di voltarsi e di sparire nell’oscurità della notte. Il contatto mi fece sussultare e poi, sempre senza smettere di guardarmi negli occhi, per controllare ogni mia minima reazione, feci scorrere la mano più in basso, inseguendo e ripercorrendo tutti quei punti di me che lui aveva toccato, stretto, sfiorato appena qualche ora fa, non sapendo che stava curando in me ben altro dolore che quello alla caviglia.
Feci scivolare le mie dita lungo la spalla, passando per l’incavo del collo e fino a giungere alle curve dei fianchi, dove per così tanto tempo avevo avvertito la presenza di Louis che ora dovetti controllare che non fosse rimasta nessuna traccia delle sue mani a reclamarne la proprietà. Senza di lui il mio stesso corpo mi appariva estraneo, come se la mia pelle, le mie ossa fossero state modellata per essere abbracciate e comprese da lui e, ora che non c’era più, mi sentivo come un ammasso di mattoncini lego o di pezzi di puzzle sparsi su un tappeto, in attesa di qualcuno che, con pazienza, li venga a raccogliere.
Mentre mi muovevo per la stanza per finire di vestirmi, qualunque cosa facessi e dovunque mi rigirassi, ero consapevole della presenza del mio cellulare sul comodino e del nuovo arrivato nella rubrica. Era come se emanasse una specie di calore soffocante o una strana luce che mi spingeva a tornare a guardarlo ogni due secondi.

“È inutile che fai così, non ho intenzione di scrivergli!” esclamai a un certo punto, e subito dopo mi portai le mani alla bocca, incredula che avessi appena finito di parlare con un telefono. Scuotendo la testa uscii dalla mia stanza e scesi le scale per raggiungere il resto della famiglia in cucina. Clark era già uscito ma Marie era ancora seduta al tavolo con Adam e le due gemelline, una tazza di caffè fumante tra le mani e davanti a lei un quotidiano aperto sulla pagina dell’oroscopo.

“Sophie, tesoro, come ti senti questa mattina?” mi chiese rivolgendomi un sorriso complice. La notte prima quando ero rientrata avevo trovato sveglio ad aspettarmi sul divano soltanto Clark, ma ero sicura che suo marito le avesse raccontato tutto.

“Sto bene, direi che sono felice oggi!” risposi con enfasi, sorprendendo anche me stessa, perché per la prima volta da parecchio tempo non avevo avuto paura di dire ad alta voce quanto felice mi sentissi. Di solito lo tenevo per me, sicura che non appena avessi chiuso bocca la sensazione si sarebbe rovinata o che sarebbe arrivato qualcosa a scuotermi dal mio inaspettato buon umore. Questa volta invece lasciai che venisse fuori e nemmeno un’occhiataccia di Elizabeth fu in grado di rabbuiarmi.

“Questo lo vedo cara, hai un sorriso che si vede da in cima alle scale. Io parlavo della caviglia, riesci a camminare o ti fa male?” quando mi disse così, fu come se il mio idilliaco momento si ruppe e tornai alla realtà, ricordandomi del dolore che mi pizzicava dal ginocchio in giù e che mi impediva di contare quante dita avesse effettivamente il mio piede sinistro.

“Mi dà ancora un po’ fastidio ma ce la faccio, non ti preoccupare!” risposi con un sorriso incoraggiante. Non c’era nulla da fare, non riuscivo proprio a smettere di sorridere e non sapevo come, non sapevo perché, ma ero sicura che avrei potuto abituarmi a sentirmi sempre così senza troppi problemi.

“Non se ne parla proprio! Oggi accompagno io i ragazzi a scuola e chiederò poi a Clark di uscire prima dal lavoro per andarli a riprendere. Non voglio che tu ti prenda un’altra storta e poi sono sicura che tu abbia molto a cui riflettere e un paio di ore di solitudine non ti faranno male!”

A questo punto il suo viso era talmente luminoso, riflettendo la gioia e la spensieratezza del mio, tanto che sembravamo due ragazzine di tredici anni, dopo aver letto insieme un giornalino pieno di foto e scoop sui loro attori preferiti.
Dopo che le due gemelline furono andate di sopra a finire di prepararsi, Marie mi chiese della sera precedente e io le dissi tutto. So che la conoscevo soltanto da cinque mesi, che tra di noi c’erano almeno vent’anni di differenza, ma in quel momento non era importante. Avevo bisogno di qualcuno con cui parlarne, che mi ascoltasse e che potesse essere felice, senza nessuna invidia, per me.
Le raccontai di come Louis non mi aveva fatta sentire un pesce fuori d’acqua in quel ristorante di lusso, della sua espressione incredula quando l’avevo lasciato in mezzo alla strada e di come me l’ero ritrovato sul treno neanche venti minuti dopo. Le dissi anche di come il suo continuo sguardo su di me all’inizio mi aveva messa in imbarazzo ma poi più il tempo passava più avevo avuto voglia che lui mi continuasse a guardare, fino quasi a creare un buco dentro di me così che riuscisse a vedere tutto quello che non avevo il coraggio di dirgli a parole.
Conclusi raccontandole di come mi aveva dato il suo numero senza volere il mio, lasciando a me la scelta del come e quando ci saremmo risentiti. Quando finii di parlare Marie era il ritratto della gioia e mi ci volle uno sforzo per ricordarmi che lei non era davvero mia madre, perché ero convinta che un amore come il suo per me potesse essere provato solo nei confronti di un figlio. Ma dopotutto, che ne sapevo io dell’amore? Le mie relazioni erano sempre state a senso unico, con me che davo tutto ciò che avevo, fino a ridurmi a qualche briciola che nessuno poi si curava di raccogliere. Possibile che Louis fosse il mio punto di svolta, il salto nel vuoto necessario per trovare il coraggio di abbracciare me stessa e la persona che volevo imparare a diventare al suo fianco?

“Sono davvero contenta per te, lo sai?” mi disse mentre mi sistemava una ciocca di capelli fuori posto. “Quando parlammo su Skype la prima volta per stabilire se eri la persona adatta per questo lavoro, non ebbi nessun dubbio. Come hai aperto bocca ho pensato che non avrei potuto trovare persona più seria e responsabile a cui affidare i miei figli. E anche quando sei arrivata qui il primo giorno, ho capito di avere fatto la scelta giusta. Notavo però in te un’immensa tristezza, anche se facevi di tutto per tenerla legata, in fondo a te stessa, di modo che gli sguardi superficiali delle persone intorno a te non se ne sarebbero mai potuti accorgere. Non ti ho mai detto nulla perché non volevo metterti in imbarazzo, o farti ricordare cose dalle quali avevi voluto fuggire. Ora invece ti vedo felice e finalmente posso dirti che hai portato tra queste mura una gioia che non c’era da quando Micheal ci ha lasciati” gli occhi le si inumidirono e qualche lacrima minacciò di scorrere lungo il suo viso maturo. “Adesso però voglio che tu pensi bene a che fare con questo ragazzo. Per me non è altro che un cantante dal viso carino, con gli occhi che assomigliano un po’ troppo a quelli di mio figlio che non c’è più. E l’ultima volta che avevamo parlato di lui mi avevi detto che dopo l’appuntamento/ricatto non avresti più voluto niente a che fare con lui. Da quelle due stelle che ti ritrovi invece ora al posto degli occhi deduco che tu lo voglia rivedere, o sbaglio?”

“Credo di sì, anche se non so quanto ieri sera abbia significato per lui. Voglio dire, uscirà con una ragazza diversa ogni settimana e magari questa mattina non si ricorderà metà delle cose che mi ha detto ieri.”

“Su questo purtroppo non posso aiutarti. Non lo so io, come non lo sai neanche tu. L’unica cosa che ora puoi fare è prenderti del tempo per capire che cosa vuoi da lui e da questo rapporto. So che non c’è bisogno di dirtelo, ma devi ricordarti che è una star, che ha il mondo ai suoi piedi. Magari è il ragazzo più umile di questo mondo, non posso saperlo, ma è un elemento che devi tenere in considerazione e che di certo non faciliterà le cose tra di voi.”

“Lo so, Marie, e ti giurò che sono le stesse cose che mi ripetevo io ieri sera sul treno, prima che lui si venisse a sedere davanti a me. E le penso ancora adesso, perché scommetto che non c’è ragazzina che non conosca il suo nome, e se ci penso è assurdo che ora il suo numero sia su di sopra, nel mio telefono, pronto per essere chiamato! Io non sono niente a confronto di tutte quelle che potrebbe avere.."

“Tesoro, ferma ferma.. Non partire con tutti questi pensieri negativi. Non hai nulla da invidiare alle altre ragazze e sono sicura che lui non è così ingenuo da dare il suo numero alla prima che passa, solo perché l’ha trovata carina. Quello che ci tengo a dirti prima di andare, altrimenti Adam impazzirà se arriverà in ritardo per colpa mia, è di pensare a quanto seri sono i tuoi sentimenti per lui e, soprattutto, a quanto presto avrai intenzione di dirgli la verità su quel giorno all’albergo.”

A quelle parole tutta la mia felicità svanì, i miei occhi si spensero e mi persi nella luminosità dei suoi, chiedendomi come avessi fatto a non pensarci prima.

“Lo sai che non puoi pensare di vederlo ancora senza essere stata prima sincera con lui. Pensa a come perderebbe tutta la fiducia che ha in te se lo venisse poi a sapere da solo, mentre si chiede perché non gliel’hai voluto dire. Oppure come faresti a nascondere il tutto agli occhi di Elizabeth e Katherine. Non sarebbe male risolvere la situazione neanche con loro vero? Sono due settimane che vanno avanti a tenerti il broncio e sono sicura che non deve farti piacere. Pensaci ok? È tutto ciò che ti chiedo!” e con un ultima carezza si alzò e raggiunse i suoi figli nell’ingresso.
La seguii poco dopo, fermandomi sullo stipite della porta e augurando a tutti una buona giornata. Adam mi sorrise e mi disse di riposarmi, mentre le due gemelline a malapena mi fecero un cenno di saluto.

Marie aveva ragione. Dovevo prendere una decisione, e dovevo farlo in fretta.

♦♦♦♦♦


I giorni successivi al mio appuntamento con Sophie furono un incubo. Non soltanto per me, ma anche per le persone che mi avevano intorno e che non potevano evitarmi, perché ero certo che quelle che potevano lo avevano fatto senza troppi complimenti.
Harry e Zayn dopo che avevo raccontato loro la storia per le terza volta di seguito si erano rifiutati di stare nella stessa stanza con me per anche solo un minuto ed erano andati ad allenarsi. Liam era stato un po’ più paziente ma alla fine si era stancato anche lui e appena provavo ad avvicinarmi trovava sempre una scusa per andarsene. Niall, come sempre, sembrava trovare l’intera situazione dannatamente divertente. Non sapevo se mi dava retta perché gli interessava davvero o perché i miei dubbi lo facevano morire dal ridere, ma almeno avevo qualcuno con cui parlarne, e se non ci fosse stato lui sarei impazzito nel giro di quarant’otto ore.

“Sono passati quattro giorni e ancora non mi ha chiamato. Che cosa dovrei fare?” chiesi all’autista che mi era venuto a prendere quella mattina per portarmi agli studi di registrazione a Londra. Avevamo un giorno libero, ma ovviamente era stato deciso che dovesse essere usato per qualcosa di proficuo per la nostra carriera, o per meglio dire, più proficuo per il portafoglio dei responsabili della nostra casa discografica.

“Non lo so, signore. Perché non prova a chiamarla lei invece che aspettare?” mi chiese basito, e mi resi conto che aveva tutti i motivi per esserlo, perché quella era forse la prima volta che gli rivolgevo la parola nonostante lavorasse per me da ormai un paio di anni. Quanto si può essere ciechi prima che una persona arrivi e ti faccia luce con la sua pila, svelandoti tutti i sassi e le corde che hai disseminato lungo il tuo cammino e in cui, prima o poi, tu stesso rischi di inciampare?

“Perché non ho il suo numero” risposi più a me stesso che a lui e in quel momento mi resi conto che, dopotutto, il mio piano era più così tanto brillante come pensavo e iniziai ad avere paura che Sophie avesse creduto che le cose che le avevo detto sulla porta di casa sua fossero solo una marea di cavolate. Forse aveva già deciso che non voleva più rivedermi, ma era stata troppo gentile per dirmelo sul momento.

Dovunque andassi e qualsiasi cosa stessi facendo, non passavano cinque minuti senza che io non sentissi il bisogno di tirare fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni e controllare che non ci fosse un segno che per lei il nostro appuntamento non era stato una perdita di tempo, un segno che a lei qualcosa di me importasse, un segno che non avevo, ancora una volta, rovinato tutto.
Forse il mio problema era che sapevo fingere, e anche bene, solo con le persone e le situazioni di cui non mi importava fino in fondo.
Non mi risultava difficile fingermi rilassato e allegro nelle interviste, quando tutto quello che volevo era gridare quanto mi mancava la mia famiglia e che lo stress mi stava uccidendo.
Sapevo mentire perfino a mia madre per telefono, quando le dicevo di non preoccuparsi, che ce la facevo e che sì, anche lei mi mancava da morire. Poi chiudevo subito la conversazione, e dovevo asciugare lo schermo del telefono sulla manica della felpa, ma non c’era nessun bisogno che lei questo lo venisse a sapere.
Dei cinque, ero io quello che davanti alle telecamere sopportava meglio la tensione, ed era per questo che spettava a me il compito di alimentare, di tenere viva la nostra immagine di gruppo felice e spensierato. Forse mi andava davvero bene così, in fondo mi ci ero abituato, ma tutta quella pratica ora non mi rendeva l’attesa più semplice o meno snervante.
L’avevo capito subito che lei mi interessava. La sua determinazione, il suo non avere paura della mia fama, dei miei soldi. La sua timidezza, la sua insicurezza che venivano fuori appena lei abbassava un po’ la guardia. La sua dolcezza, il suo non essere consapevole della sua originalità e bellezza, ma soprattutto il suo trattarmi come un normalissimo ragazzo di ventuno anni, senza trovare scuse e giustificazioni per il mio carattere spesso troppo arrogante o possessivo.
Forse lo stava facendo apposta per farmi capire che se volevo stare con lei dovevo imparare a controllarmi, forse era confusa e non sapeva quando e cosa scrivermi, o forse per lei io ero già un capitolo chiuso, riposto distrattamente in cima ad uno scaffale impolverato, mentre io ero ancora perso a contemplare la bellezza della copertina.

Fu dopo l’ennesima giornata passata tra pullman e taxi che finalmente il suo nome apparve sul display del mio cellulare.
Quando partì la suoneria rimasi qualche minuto a fissare quelle sei lettere nere sullo schermo, lettere familiari, che avevo letto così tante altre volte, in situazioni diverse, ma che ora rappresentavano la mia ancora di salvezza, la speranza alla quale aggrapparmi per uscire da quel buco nero nel quale, senza volerlo, lei mi aveva fatto precipitare. Malattia e cura. Pioggia e fuoco. Ecco che cos’era lei per me, se soltanto avessi avuto il coraggio di dirglielo.

“Allora rispondi o no?” mi chiese Niall, schioccando due dita per farmi ritornare alla realtà “Se vuoi ci parlo io” aggiunse poi e sapevo che, se glielo avessi davvero lasciato fare, sarebbe andato avanti a prendermi in giro fino alla fine dei giorni di questa band, e chissà forse anche dopo.
Così mi feci coraggio, premetti il tasto ‘rispondi’ e mi regalai due secondi di buio, chiudendo gli occhi, per prepararmi a risentire il suono della sua voce. A pensarci bene, quella era la prima volta che ci parlavamo per telefono, ma la distanza che ci separava non fu abbastanza a fermare la rivoluzione nel mio stomaco o la sudorazione della mani e della fronte.
Quando risposi mi resi conto che la mia voce tremava e fui felice di sentire che anche lei era quasi senza fiato, come se non riuscisse a trovare dentro di sé un modo per dire ciò che doveva in modo abbastanza veloce per non rimanere senza respiro. Pensai che quindi non le potevo essere del tutto indifferente, che il pensiero di parlare con me, anche solo attraverso un telefono, la rendeva nervosa, e mi persi ad immaginare le sue guance sicuramente tinte di rosso o le sue dita mentre giocherellava nervosamente con i braccialetti vicino al polso.
Non durò che una manciata di minuti, ma tutto dopo quella chiamata era non dico già cambiato, ma sicuramente destinato a farlo. Non era stata di certo la telefonata che mi aspettavo, perché Sophie non aveva quasi minimamente accennato alla nostra uscita insieme del sabato precedente, che significato aveva avuto per lei e soprattutto se questi giorni di separazione e attesa erano stati per lei difficili tanto quanto lo erano stati per me.
Si limitò a chiedermi come stavo, come procedeva il tour e se fossi riuscito a trovare una giornata libera per le due ragazzine che curava, perché erano mie grandi fan ma non erano riuscite a trovare i biglietti per il concerto di Oxford. Io le dissi immediatamente di sì, anche se sapevo che avrei dovuto fare i salti mortali per trovare un momento libero. Non le chiesi nemmeno perché non mi avesse detto che nella famiglia presso cui lavorava c’erano anche due bambine, infatti ero convinto che ci fosse solo Adam, il ragazzino che mi aveva aperto la porta quando ero andato a casa sua qualche settimana fa. In ogni caso le dissi che le avrei fatto sapere io nei prossimi giorni e quando lei chiuse la telefonata, avrei giurato di sentire il suono di un sorriso sospeso nell’aria, in bilico su una linea telefonica, tra mille emozioni e parole non dette.

“Paul ti ammazzerà lo sai, vero?” mi disse Liam, il viso sconcertato e la voce incredula.

“Il compito di Paul è assicurarsi che io arrivi sul palco nel massimo delle mie condizioni. Cosa faccio prima e dopo non è affar suo e, se questo è tutto l’incoraggiamento che sei disposto a darmi, nemmeno tuo.”

Appena le parole lasciarono la mia bocca me ne pentii, ma non mi scusai perché lui più di tutti avrebbe dovuto essere felice per me, dopo tutti questi mesi passati da solo, eppure eccolo lì, in prima fila, a dirmi quello che dovevo e non dovevo fare. Harry rimase in silenzio tutto il tempo, ma un cenno di Zayn mi convinse che stavo facendo la cosa giusta. Niall mi diede una pacca sulla spalla e mormorò che in un modo o nell’altro avrei trovato una serata libera per lei.
Dopo un esame approfondito della mia agenda e un giro di telefonate mi resi conto di avere fatto una cavolata e che forse Liam aveva ragione, non avrei dovuto fare promesse a Sophie che sapevo non sarei stato in grado di mantenere. Le prossime date del tour erano tutte nel nord dell’Inghilterra e anche se avessi voluto, non avrei avuto il tempo materiale per tornare indietro fino a Londra, figuriamoci Oxford. Ormai mi era chiaro che l’unica cosa da fare era chiamarla e dirle che avremmo dovuto rimandare di un paio di settimane, forse addirittura tre, fino a che il tour in Gran Bretagna non fosse giunto al termine.
Continuavo a prendere in mano il telefono e a rimetterlo sul comodino, sperando in un’ondata di coraggio che non arrivò mai. Non volevo deluderla, non volevo che quel briciolo di fiducia che si era creato in lei e che l’aveva spinta a telefonarmi, fosse distrutto da una promessa mancata. Non volevo che pensasse che ciò che le avevo detto al telefono fossero parole vuote, perché questo l’avrebbe portata a mettere in discussione tutte le altre cose che le avevo confidato, prima fra tutte il mio interesse per lei.

Il rumore di qualcuno che bussava alla porta della mia camera mi fece sussultare. Appoggiai il telefono sul cuscino ed andai ad aprire. Mi trovai davanti un Liam dallo sguardo preoccupato e l’aria leggermente colpevole.
L’affetto incondizionato che mi legava a lui e agli altri ragazzi mi portò istintivamente a mettergli una mano sulla spalla e a chiedergli che cosa fosse successo, inconsapevole che a ridurlo così fosse stata la nostra discussione di qualche giorno prima. Lo capii subito dopo e ancora una volta maledii me stesso per non saper tenere a freno la lingua e per la mia capacità di ferire ogni volta, senza mai fallire, le persone che avevano dimostrato di tenere a me più di quanto facessi io con me stesso.

“Ho parlato con Paul” mi disse senza risponde alla mia domanda “anche se discusso e urlato sarebbe più appropriato, e siamo giunti ad un accordo. Sabato prossimo, prima del concerto di Birmingham, sei libero. Se non è un problema per lei, puoi chiederle di raggiungerti li, sono poco più di due ore di treno, e potete stare insieme mentre io e gli altri abbiamo qualche intervista, in cui inventeremo qualche scusa per la tua assenza. Deve esserci anche una specie di fiera quel giorno, così magari potresti portare le bambine alle giostre..” stava parlando ormai alla velocità di duecento parole al minuto per l’imbarazzo, ma io non lo lasciai finire perché lo strinsi in un abbraccio che conteneva tutto ciò che sapevo non sarei mai riuscito a dirgli, ma che lui sapeva senza che ci fosse bisogno che aprissi bocca.

“Grazie Liam!” e una pacca sulla spalla un po’ più forte del solito mi fece capire che, nonostante fossi un deficiente ingrato e irresponsabile, tra di noi andava tutto ancora bene.

Chiusi la porta alle mie spalle e mi buttai sul letto, cercando disperatamente il telefono tra le lenzuola, perché non volevo farla aspettare un secondo di più. Cliccai sull’icona della rubrica e cercai velocemente il suo nome tra i contatti.
Mi concessi solo per un attimo di ammirare il suo nome sullo schermo e di assaporare la dolce consapevolezza che, sì, avevo il suo numero e la stavo chiamando sul serio. Quando Sophie mi salutò dall’altro lato del telefono, per un attimo non mi sentii più le ginocchia. La sua voce era squillante e mi rallegrai pensando che, forse, parte di quella gioia era dovuta al fatto che io l’avessi richiamata, che fosse felice di sentire la mia voce tanto quanto lo ero io di sentire la sua.
Dopo averle chiesto della sua caviglia e qualche battuta di convenienza, giusto il tempo di permettere al mio respiro di sembrare normale, venni al vero motivo per cui l’avevo chiamata.

“A proposito di sabato”, quando Adam a quanto pare avrebbe ricevuto la medaglia d’oro per essere arrivato primo in una progetto di scienze della sua scuola, “Che progetti hai per il pomeriggio?” le chiesi.

“Penso che starò in biblioteca fino a che la signora Walker avrà bisogno di me e poi tornerò a casa..”

“E c’è qualche possibilità che questa signora Walker ti dia il pomeriggio libero?” le chiesi, cercando di trattenere il tono divertito della mia voce.

“Penso di sì, se ci fosse un motivo valido e, soprattutto, convincente..” disse e raccolsi tra le sue parole un velo di malizia.

“Un'uscita con me ti sembra abbastanza sufficiente come motivazione?”

“Molto convincente!” rispose stando al gioco “e non dimenticarti delle bambine!” mi ricordò, schiarendosi la voce.

“Certo che me lo ricordo, figurati!” le dissi, e mi domandai per quanto ancora saremmo andati avanti a fingere che loro due erano l’unico motivo per cui ci stavamo incontrando di nuovo.

“Va bene allora..”

“Non preoccuparti!” aggiunsi poi senza rifletterci troppo.

“Preoccuparmi di cosa?” mi chiese sorpresa.

Non preoccuparti perché mi prenderò cura di te e delle bambine e non vi succederà niente mentre siete lontane da casa con me. Non preoccuparti perché si divertiranno tantissimo e non smetteranno di parlarne con tutte le loro compagne di classe per almeno una settimana. Non preoccuparti perché, nonostante la loro presenza, non ti perderò di vista un attimo, e ti farò capire quanto io tenga a te senza essere geloso o iperprotettivo. Non preoccuparti delle mille differenze tra di noi, perché quando siamo insieme, il mondo improvvisamente sembra iniziare a girare per il verso giusto.

“Non preoccuparti che non vi perderete. Vi aspetto fuori dalla stazione, e questa volta per favore vedi di scendere alla fermata giusta!”

“Vai a quel paese, Louis!” rispose stizzita, ma ormai la conoscevo troppo bene per pensare che se la fosse presa sul serio e una risata qualche istante dopo ne fu la conferma.

“Ti voglio bene anch’io!” le risposi scherzosamente ma Dio solo sapeva quanta verità era stretta e nascosta dentro quella semplice manciata di parole.



Spazio autore:

Buon pomeriggio a tutti!! Ebbene sì, sono ancora viva e posso dire di essere sopravvissuta agli esami di maturità!! Non chiedetemi come, ma sono uscita con 100 e spero che questo valga come scusante per non aver aggiornato per tre lunghe settimane!! Finalmente sono arrivate le vacanze anche per me e ho già mille idee per la testa per altre storie e in particolare delle one shot su Harry e Louis, perchè mi mancano troppo! Per quanto riguarda questa storia penso che entro un paio di capitoli sarà conclusa!
Passando al capitolo di oggi invece, troviamo una Sophie molto felice e in pace col mondo. Le sue mille insicurezze non riescono a scalfire l'allegria che l'uragano Louis ha portato nella sua vita, anche se non posso garantire che durerà per molto. Ha infatti davanti a sè una decisione molto importante: fidarsi di Louis e dirgli la verità su Micheal, riconoscendogli così una parte importante nella sua vita, o rimanere in silenzio, sperando che non ne venga a sapere nulla? Dall'altro lato Louis è superattivo, si fa mille domande, stressando tutte le persone intorno a lui e rendendosi conto di quanto a volte le tratti male senza accorgersene.
Spero vi sia piaciuto e che soprattutto non vi siate dimenticate di me! Come sempre grazie a tutti quelli che leggono (particolarmente a quelle anime buone che recensiscono) e hanno messo la storia tra le seguite, preferite e ricordate! Mi trovate su twitter per ogni cosa! @martolinsss
Ci sentiamo la settimana prossima col il sesto capitolo!
Ancora buone vacanze a tutti, un bacio!
Marta

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


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CAPITOLO VI



Quanto può durare un incubo? Un grumolo di secondi, una manciata di minuti, prima che ci svegliamo con le guance rigate di lacrime.
Quanto può durare un sogno? Può andare avanti tutta la  notte, se si ha il sonno pesante.
Ma un’illusione? Quella quanto dura? Quanto può trascinarsi avanti? Talvolta, anche tutta una vita.

Sophie non sapeva se quello che stava vivendo fosse un incubo, un sogno o un illusione, sapeva solo che il pensiero di rivedere Louis, la certezza di rivederlo, il fatto che potesse associare una data al suo volto, alla profondità abissale dei suoi occhi blu, alla spontaneità del suo sorriso, le toglieva il fiato in un modo che non era ancora riuscita a stabilire se fosse del tutto salutare per lei.
Quella data, con tanto di cerchio rosso fuoco sul calendario, si faceva sempre più vicina e lei aveva bisogno di più tempo per dialogare con se stessa, fare pace con quella parte di lei che avrebbe voluto chiudere il capitolo “Consigli per un appuntamento di successo con una popstar internazionale” settimane e settimane prima, ma che era stata zittita da alcune parole un po’ troppo vere per essere ignorate dalle orecchie troppo sensibili di Sophie.

Il punto era che lei e Louis si erano parlati poco, ma quanto bastava per scegliersi, ma ora che aveva deciso che voleva che lui facesse parte della sua vita, Sophie si trovò improvvisamente a chiedersi cosa avrebbe dovuto togliere, dove avrebbe trovato lo spazio per accoglierlo in lei. Si domandava come fare in modo che non se ne andasse subito dopo che avesse scoperto che lei non sapeva come ci si stringe ad un altro corpo nel proprio letto o come si accettano delle carezze volte a far sentire belle delle gambe, una pancia, dei fianchi che nemmeno lei sapeva rispettare, figuriamoci amare, in primo luogo.
Questi e mille altre pensieri le attanagliavano la mente e quando il mondo intorno a lei diventava quieto, quando tutto si assopiva e non c’era più nulla di concreto a cui attaccarsi, nulla dietro cui più nascondersi, Sophie sentiva tutta l’aria abbandonare il suo petto e cercava di farsi piccola piccola sotto il peso di scelte e responsabilità che si pentiva di avere accettato.
Louis era diventato parte di lei, poco alla volta, non c’era un momento preciso in cui Sophie lo aveva capito, ma sapeva che ormai era così. Forse era stato il tono di voce dolce che si era sorpresa ad usare ogni volta che lui le aveva telefonato quella settimana, anche quando non aveva avuto nulla di particolare da dirle, o forse i suoi messaggi che si era ritrovata a leggere fino a quando non riusciva più a distinguere la luce del display da quella che sbirciava attraverso le tende blu della sua stanza.

Sophie non sapeva dare un nome a tutto quello, riusciva a trovare una definizione per il suo rapporto con lui, a quello che lui significava per lei, ma sapeva anche che, le cose, quando ci metti sopra un’etichetta, iniziano a perdere di valore e Louis brillava troppo per rinchiuderlo, e di conseguenza perderlo, così.

♦♦♦♦♦
 

Il treno iniziò a perdere velocità, le sue ruote scivolavano sempre più piano sopra le sottili rotaie, fino a quando si fermò del tutto. Mentre rimettevo il libro che avevo letto fino a quel momento nella borsa, guardai le due bambine di fronte a me e cercai di capire quanto fossero agitate. Mi sembravano stranamente calme, e nonostante avessero ricominciato a parlarmi con regolarità da quando avevo spiegato loro dell’uscita con Louis, era come se non volessero illudersi troppo, sperare in qualcosa che sapevano fosse troppo bello perché potesse succedere davvero. Come se pensavano che stessi loro mentendo, ancora.
Ne avevo parlato con Marie fino a tarda notte e lei non si era stupita per niente quando le avevo confidato di non volere rinunciare a Louis, che volevo provarci, rischiare e vedere come sarebbe andata a finire.

“Lo sapevo che avresti detto così e so quanta paura questa decisione ti faccia, ma lascia che ti dica che sono orgogliosa di te e farò di tutto per sostenerti e guidarti dove i tuoi occhi non vedono.” Le sue parole mi coccolavano ancora quando ci ripensavo e mi davano più coraggio di quanto avessi ritenuto possibile.
Non avevamo avuto però tempo di indugiare su pensieri troppo felici, perché il tempo stringeva e dovevamo trovare un modo per spiegare la situazione a Katherine ed Elizabeth. Dovevo dare loro qualche giorno di tempo per abituarsi all’idea o quando si sarebbero trovate di fronte Louis, gli avrebbero spiattellato tutto riguardo a quel giorno all’albergo senza pensarci due volte.
Non volevo che lui sapesse di Micheal, o almeno non ancora. Non ero nemmeno sicura del perché, ma sapevo che parlargli di una storia talmente delicata avrebbe significato iniziare la nostra relazione nel modo sbagliato, sempre che di relazione si potesse parlare.
Per questo, appena prima di scendere dal treno, guardai un’ultima volta le due gemelline e rivolsi loro le raccomandazioni che non avevo fatto altro che ripetere dalla sera prima.

“Non dite che siamo andata all’albergo, se vi chiede perché non c’eravamo al concerto di Oxford rispondete che i biglietti erano finiti, non accennate in modo più assoluto a Micheal e se vi chiede come sta vostro fratello dovete solo rispondere parlandogli di Adam!” ripeterono in coro, con un tono di voce ansioso e responsabile che volevano far assomigliare al mio.

“Va bene, okay..” dissi a mezza voce, ordinando a me stessa di darmi una calmata. Sarebbe andato tutto bene: se nessuno lo avesse nominato, Louis non avrebbe mai scoperto dell’esistenza di Micheal e non sarebbe mai venuto a sapere del perché di quello schiaffo.
Presi la borsa e mossi qualche passo per uscire dallo scompartimento e sorrisi tra me e me quando entrambe allungarono le loro braccia per prendermi per mano. Era incredibile con quanta facilità le cose fossero tornate alla normalità tra di noi ed ero sicura che quel mese di silenzio avesse fatto loro male, tanto quanto a me era mancato il profumo delicato del loro sciampo alla pesca e le chiacchiere sul letto la sera, quando avrebbero dovuto essere addormentate già da un paio d’ore.
Louis mi aveva scritto quella mattina, per assicurarsi che prendessi il treno giusto, ma mi piaceva pensare che avesse solo cercato una scusa per farsi sentire e che, in qualche modo, fosse ansioso di rivedermi come lo ero io di rivedere lui. Le lancette del grande orologio avevano appena scoccato le due, quando noi tre scendemmo dal vagone e ci guardammo intorno, facendo correre il nostro sguardo tra la gente, in cerca di un paio di occhi blu, due labbra sottili distese in un sorriso senza fine e un ciuffo disordinato sulla testa.

Quando lo vidi, appoggiato ad una colonna e con un giornale in mano che aveva l’aria di non essere neanche stato sfogliato, soffocai a stento una risata. Indossava un paio di occhiali da sole e aveva il cappuccio della giacca tirato su fino quasi a coprirgli gli orecchie per non farsi riconoscere dai mille pendolari che tornavano al lavoro dopo la pausa pranzo, ma non per me, perché avrei riconosciuto quel profilo, e quegli zigomi, ad occhi chiusi. In quelle settimane di distacco tra di noi, la sua presenza si era fatta sentire più che mai.
Dovunque andavo, non potevo fare a meno di cercarlo nelle mille persone intorno a me, nonostante sapessi che fosse lontano centinaia di chilometri. Lo ritrovavo nel nome del bambino che la madre richiamava a gran voce affinché non attraversasse la strada senza di lei, o nel ragazzo seduto di fronte a me sull’autobus che indossava un giubbotto simile al suo, anche se meno costoso. Non potevo fare a meno di osservare, di guardare, anche se sapevo che non c’era bisogno di sottoporre ai miei occhi a una così grande ricerca perché l’avrei riconosciuto subito in una folla intera, alla prima occhiata, anche solo per il suo modo di camminare.

“Ciao!” gli dissi quando gli arrivai davanti, il mio tono di voce era serio, ma i miei occhi dicevano tutt’altro. Morivo dalla voglia di mettermi a ridere, ma non volevo metterlo in imbarazzo davanti a tutti.

“Ciao, lo trovi tanto divertente eh? La prossima volta mando il mio autista a prendervi così non c’è rischio di essere visto, o peggio ancora, deriso..” mi rispose, ma anche lui stava ridendo e non fece in tempo a finire di parlare che aveva già abbassato il cappuccio, rivelando un cappellino di lana bordeaux, dal quale qualche ciuffo color cioccolato era riuscito a scappare fuori, ricadendo libero sulla sua fronte liscia. Fu in quel momento che mi resi conto di essere grata per il travestimento, perché se l’avessi visto subito in quello stato, senza cappuccio e occhiali, con sorriso e occhi in bella vista, sarei rimasta senza fiato e non ci sarebbe stato modo di nascondergli la mia eloquente reazione. In questo modo ebbi invece qualche secondo in più per riabituarmi a lui e al suo essere così semplicemente perfetto in ogni suo minimo tratto. Lo guardavo di nascosto, mentre lui metteva via gli occhiali da sole, ed era semplicemente troppo. Troppo per abituarcisi. Troppo per smettere di fissarlo. Era così perfetto che guardarlo quasi mi faceva venire da ridere.

“Ma dove sono le due principesse?” mi chiese con un tono di voce un po’ più alto del necessario, per fingere di non essersi accorto della presenza di Katherine e Elizabeth dietro di me. “Non sono venute?” e un adorabile broncio si dipinse sul suo viso e fu talmente bravo e credibile nel sembrare dispiaciuto,che avrei voluto avvicinarmi e pulire con le mie dita quell’espressione, spingendo gli angoli della sua bocca verso l’alto, per ricreare un sorriso assente soltanto da un paio di secondi, ma di cui già avvertivo la mancanza.

“Oddio Louis, non vorrei che siano tornate a casa! Ti giuro che erano qui con me qualche secondo fa..” risposi fingendomi spaventata e stando al suo gioco. In effetti, la reazione delle due gemelline mi aveva colta di sorpresa. Anche se ben educate e rispettose, erano parecchio sfacciate, come tutte le bambine della loro età, quando si trattava di qualcosa che volevano. Proprio per questo avevo pensato che si sarebbero buttate tra le braccia di Louis non appena se lo fossero trovate davanti.

“Aspetta.. Forse vedo qualcosa dietro di te.. Ehi!” e la scena che vidi quando mi girai per guardare meglio mi lascio del tutto senza parole e mi aggrappai all’ultima goccia di dignità che mi rimaneva per non mettermi a piangere lì davanti a tutti. Louis si mosse dietro di me, dove le due bambine si stavano nascondendo, e si mise in ginocchio per parlare con loro guardandole negli occhi.
Le salutò col tono di voce più dolce che gli avessi mai sentito usare e non si tirò indietro quando le due, superata la vergogna iniziale, lo guardarono e spalancarono le loro piccole braccia verso di lui. Louis si mise a ridere vedendo i loro occhi lucidi e le abbracciò forte, come se fossero in un parco giochi, come se essere lì con loro, stretti in quell’abbraccio, fosse l’unica ragione per cui si era alzato quella mattina. Lui naturalmente ignorava il significato che loro attribuivano a quel gesto, chi pensavano di stare abbracciando.
Qualche minuto dopo, quando tutti si furono rialzati dal pavimento e le due bambine erano troppo impegnate a esultare senza fare rumore, Louis mi si avvicinò e per una frazione di secondo appoggiò le labbra sulla mia guancia destra. Fu solo un istante, ma fu come se lasciarono un marchio incandescente sulla mia pelle, tanto che mi venne spontaneo toccare il punto dove la sua bocca si era posata su di me, per controllare che niente stesse andando a fuoco.

“A che cosa devo l’onore?” chiesi coprendo, come sempre, l’imbarazzo con una risata.

“Ero così preso da loro che non ho salutato te come si deve..” mi rispose a bassa voce per non farsi sentire. Avrei voluto rispondere con qualcosa di sensato, anche se ero sicura che lo sguardo in cui nuotavano i miei occhi dovesse valere più di mille parole, quando Katherine e Elizabeth tornarono a reclamare la sua attenzione. Louis le prese tutte e due per mano e mentre camminavamo fuori dalla stazione, ero sicura che i sorrisi delle due bambine avrebbero potuto vedersi a metri e metri di distanza.
Nonostante fosse ancora inverno, il cielo era estremamente limpido e sereno, quasi come se fosse scritto da qualche parte lassù, nelle stelle che ora riposavano, che tutto quel giorno sarebbe andato per il meglio.

Una volta fuori dalla stazione Louis si guardò intorno alla ricerca di un taxi e quando fummo tutti sistemati nel sedile posteriore della vettura e la stazione radio che il tassista stava ascoltando iniziò a trasmettere una delle loro canzoni, “One Thing” se non ricordavo male, Katherine e Elizabeth si misero a strillare per l’emozione. Louis, più bimbo di loro due messe insieme, si mise a cantare con loro, lasciando a loro perfino il suo assolo. Io mi trovai a cantare mio malgrado il ritornello e vidi il tassista scuotere la testa incredulo mentre si immergeva nel traffico del primo pomeriggio.

“Non sopporto questa canzone, la passano almeno una volta ogni due ore!” si lamentò tra sé e sé, ma Louis lo sentì e, divertendosi da morire, incitò le due gemelline a cantare ancora più forte con lui! Io non sapevo se ridere più per le smorfie del tassista o per le espressioni buffe che Louis faceva, come se fosse davvero su un palco davanti a decine di migliaia di persone. Le due bambine, dal canto loro, sembravano essersi convinte di essere la reincarnazione di Beyonce, scuotendo i capelli e muovendo le braccia a ritmo di musica.
Anche però mentre si dava da fare per farle divertire, Louis non mi perdeva di vista un attimo. Quando meno me lo aspettavo, girava il viso nella mia direzione e mi sorrideva, o mi guardava con la coda dell’occhio per controllare che mi stessi divertendo con loro. Io non riuscivo a staccare gli occhi da lui, non riuscivo a distogliere lo sguardo dal suo viso felice, da quelle rughette ormai familiari che si formavano ai lati dei suoi occhi o da quella fossetta che era apparsa sotto al mento.
Con grande sollievo del tassista, il tragitto si rivelò breve e Louis lo ripagò per averli lasciati cantare, o per meglio dire urlare, nella sua vettura con una banconota di valore decisamente superiore al costo della tratta percorsa.

Camminammo per qualche minuto e le due gemelline continuavano a guardarsi intorno, per capire dove fossimo diretti. Quando si iniziarono a intravedere alcuni tendoni e una ruota panoramica in lontananza, a malapena io e Louis riuscimmo a contenere il loro entusiasmo.

“Oddio Louis, ci stai portando alle giostre!!” urlarono all’unisono e lui semplicemente rise vedendo il loro entusiasmo, gettando la testa all’indietro. Io stavo a guardarlo e mi chiesi come fosse possibile che bastasse così poco, due bambine e la prospettiva di una giornata in fiera, per fare ridere così una superstar internazionale, che non dovrebbe avere, secondo il repertorio, altri interessi all’infuori di ragazze diverse ogni sera, numeri di vendite di cd da capogiro e feste con fiumi di ogni tipo di alcolici.
Una volta varcati i cancelli della fiera, fummo travolti da una fiumana di gente che si godeva il sabato pomeriggio con la propria famiglia. Istintivamente presi Katherine per mano e Louis fece lo stesso con Elizabeth affinché non si perdessero. Quello che non mi aspettavo fu che un secondo dopo lui prese anche me per mano e si fece largo tra la folla per tutte noi, chiedendo permesso e abbassando gli occhi quando qualcuno sembrava averlo riconosciuto.

Il tempo sembra scivolare via dalle nostre mani, come le bolle di sapone che ogni tanto qualche bambino soffiava felice e che il vento faceva volare nella nostra direzione, prima di infrangersi sul terreno. Louis e le gemelline si trascinavano da una giostra all’altra mentre io li guardavo dal basso, a causa delle mia paura per le altezze.
Mentre tenevo in una mano i due peluche, uno rosa e l’altro azzurro, che Louis prima aveva vinto per loro, con l’altra li salutavo, scattando qua e là qualche foto, per cristallizzare nella memoria quei momenti di assoluta serenità e beatitudine. Salii anche io su un paio di giostre, ma le più pericolose le lasciai a loro, mentre io mi limitavo a guardarli da lontano, anche se per un istante il pensiero di Louis che mi stringeva a sé sugli autoscontri, fu quasi abbastanza a convincermi a salire con loro. Quasi.

Ero contenta che Louis avesse deciso di portarci alle giostre. Anche se a me non piacevano particolarmente, dato che non ero più una bambina, Katherine e Elizabeth non avrebbero potuto essere più felici e questo era l’importante. Louis poi sapeva proprio farci con le bambine ed ero sicura che non si sarebbero dimenticate di quella giornata molto facilmente.
Sapevo che era giusto così, che io avevo passato così tanto tempo in più con Louis rispetto a loro, eppure averlo così vicino, sempre ad un passo da me, e non potergli parlare, toccarlo, come invece avrei voluto mi stava intristendo più di quanto fossi disposta ad ammettere. Molto egoista da parte mio, ma si sa che si fa presto ad abituarsi alle cose belle, soprattutto quando non le si ha avute per molto tempo, o addirittura mai, e quando sembra che qualcun altro ce le stia portando via, il cuore ricomincia a sanguinare. Non si tratta di ferite recenti, perché non ci sono pericoli nuovi a farci male, solo vecchi graffi che prudono un po’ e che una volta tolta la crosta, incominciano a bruciare e a farci socchiudere gli occhi per il dolore come se fosse la prima volta.

“Sophie! Sophie! Guarda come siamo in alto!” mi chiamò Katherine, scuotendomi da quei pensieri di cui non andavo molto fiera. Sollevai lo sguardo e la vidi in sella ad un pony rosa che si muoveva ondeggiando a tempo di musica, con Louis che la teneva d’occhio seduto su una navicella dietro di lei. Io sorrisi a entrambi e agitai la mano per salutarli.
In quel momento Elizabeth venne da me tutta entusiasta per aver scoperto un tendone lì vicino in cui si tenevano piccoli spettacoli di magia. La reazione di Katherine fu esattamente la stessa e anche a me non dispiaceva andarci, essendo cresciuta a pane e Harry Potter per anni.
Quando però ci recammo a fare i biglietti, scoprimmo che quegli spettacoli sembravano attirare una grande quantità di gente e che molte altre famiglie avevano avuto la nostra stessa idea. Così le due gemelline, dopo averci assicurato che si sarebbero comportate bene, si aggiudicarono gli ultimi due biglietti, mentre io e Louis restammo fuori dal tendone, non molto dispiaciuti di esserci persi lo spettacolo, perché finalmente potevamo avere una mezzoretta tutta per noi.

“Sono distrutto, ho bisogno di sedermi un attimo..” mi disse trascinandomi su una panchina lì vicino.

“È faticoso prendersi cura dei bambini, non è vero? Loro poi sono particolarmente vivaci..”

“Hai ragione, ma dà anche un sacco di soddisfazioni. Giocavo sempre così con le mie sorelline più piccole quando passavo più tempo a casa, oggi ero fuori allenamento!” mi disse sorridendo e nonostante la gioia sincera che sapevo stava provando per essere lì, non potei fare a meno di notare le due ombre violacee sotto ai suoi occhi.

“Mi dispiace di averti chiesto di vederci oggi, sei così stanco! So quanto sei occupato e posso solo immaginare quanto ti sia dovuto costare trovare del tempo per incontrare Katherine e Elizabeth..” gli dissi sinceramente preoccupata per lui e la sua salute.

“Sophie, per quanto tempo ancora continuerai a ripetere a te stessa che l’unico motivo per cui sei qui oggi è per accompagnare loro? Sappiamo benissimo che se tu non avessi voluto vedermi, e se io non avessi voluto vedere te, avresti trovato una scusa o io avrei mandato qualcuno a prenderle a casa così che da non passare altro tempo con te. E comunque non pensare che se non fossi qui, sarei stato in albergo a riposare. C’erano quattro interviste in programma oggi pomeriggio e ti garantisco che preferisco avere a che fare con un paio di bambine vivaci che con donne di mezza età pettegole e sessualmente frustrate. Quindi non tipreoccupare!” rispose e, nonostante la battuta finale, capii che era sincero. Senza che quasi me ne rendessi conto, cominciai a giocherellare con la scimmietta rosa che aveva finto per Katherine qualche ora prima.

“Quanto è buffo quel pupazzo!” esclamò vedendo che aveva rubato tutta la mia attenzione.

“Sì, è anche tenerissimo però! Ce lo avrei visto bene in camera mia..” risposi.

“Volevo prenderlo per te infatti, ma poi quando ho visto gli occhi di Katherine non ho potuto che darlo a lei..” mi disse e mi sembrò dispiaciuto sul serio.

“Ma figurati Louis, stavo scherzando!” aggiunsi divertita, ma allo stesso tempo felice di ciò che mi aveva detto. “Allora, vuoi stare su questa panchina tutto il tempo o ne facciamo qualcosa di questa mezzora?” chiesi, non sapendo dove avessi preso, improvvisamente, tutto quel coraggio.

“Facciamo che mi alzo, ma solo per qualcosa per cui ne valga davvero la pena..” disse pensieroso “Qualcosa come salire sulla ruota panoramica forse?” e a quelle ultime parole, qualcosa di molto simile a un ghigno, anche se benevolo, apparse sul suo viso.

“Lo sai che soffro di vertigini!” risposi, ondeggiando tra lo scandalizzata e l’incredula.

“Ma ti fidi di me no? E sai non lascerei mai che qualcosa di brutto ti succeda mentre sei con me” mi disse, legando i suoi occhi ai miei e il suo sguardo era talmente sincero, profondo, come se pensasse davvero ogni sillaba di ciò che aveva appena detto, che mi ritrovai in piedi quasi senza neanche accorgermene.

“Andiamo allora..” dissi e lui in un attimo era al mio fianco, cingendomi la vita con un braccio e dirigendosi verso la biglietteria.

Una volta seduti nello stesso seggiolino, la ruota iniziò a muoversi, andando sempre più in alto. Io tenni lo sguardo fisso davanti a me per non guardare in basso e non provare il solito senso di vertigine alla vista delle persone diventare dei minuscoli puntini sotto ai miei piedi. Louis sembrava estremamente compiaciuto di se stesso e, nonostante la conversazione banale che stavamo intavolando affinché non venissi presa dal panico, vedevo che continuava a sorridere tra sé e sé, come in attesa di qualcosa.

“Hai visto che non è niente di impossibile? Sei a trenta metri da terra ma non ti è successo niente di male!” mi disse, sporgendosi un po’ per godersi la vista.

“Trenta metri, Louis? C’era proprio bisogno che me lo dicessi?” risposi con voce strozzata. Lui per tutta risposta si mise a ridere e si fece più vicino, tanto che ormai le nostre ginocchia si sfioravano appena. Non me ne accorsi, concentrata com’ero a inspirare dal naso ed espirare dalla bocca, nel tentativo di calmarmi e cercare, mio malgrado, di godermi il poco tempo a disposizione da sola con lui. Ero perfino riuscita a dare un’occhiata intorno senza andare in iperventilazione, quando improvvisamente i ganci sotto il nostro seggiolino stridettero e dopo alcune agghiaccianti oscillazioni, la ruota si fermò del tutto.

“Che diavolo sta succedendo adesso?” urlai spalancando gli occhi. Guardai in basso per capire il motivo di quella sosta improvvisa, ma non appena lo feci capii che fu un terribile errore, perché il senso di vertigine tornò più forte che mai e mi attaccai alla prima cosa che trovai per paura di cadere: la mano di Louis. Presi a stringerla con tutta la forza che avevo e lui, invece che lamentarsi per il dolore, soffocò un’altra risata.

“Lo trovi divertente, Louis? Che cavolo succede?” gli chiesi ancora.

“Ehm, può darsi che io prima di salire abbia accidentalmente tanto dei soldi affinché fermassero la ruota e potessimo stare un po’ di più insieme qui sopra” rispose, e sembrava addirittura fiero di sé per averlo fatto.

“E perché mai avresti dovuto fare una cosa del genere?” e avrei voluto tanto aprire gli occhi per fargli capire quanto incredula, e arrabbiata, fossi.

“Perché volevo parlarti!” rispose semplicemente.

“Certo perché non puoi farlo quando entrambi i miei piedi sono saldamente attaccati al terreno, vero?”

“Ovvio, ma quello che voglio dirti, che ho bisogno di dirti, non è semplice per me, diciamo che mi fa venire le vertigini come le hai tu essendo qui sopra. Ho scelto di parlarti qui, così che.. insomma, siamo pari, e una volta scesi da qui avremo superato entrambi le nostre paure..” mi disse e, se non fosse stato per la situazione estremamente ridicola in cui mi trovavo, ne avrei apprezzato la dolcezza e sincerità.

“Ma quanto siamo diventati poetici adesso..” e dalla mia bocca uscì quella che avrebbe dovuto essere una risata sarcastica, ma che in realtà risultò in un suono strozzato e incomprensibile.

“Senti..” iniziò a parlare, e il suo tono di voce era deciso, sicuro di sé, anche se più basso di quello che usava di solito per parlare con me. “Io non sono uno che parla tanto, e mi fido anche meno, ma di te mi fido e voglio che tra noi funzioni, veramente..” quelle parole giunsero talmente inaspettate che quasi spalancai gli occhi per la sorpresa. La sua mano coprii la mia, attaccata al bracciolo del seggiolino, e staccò piano, una ad una, le mie dita da quella presa di ferro, per poi intrecciarle con le sue.

“Okay..” risposi con voce tremante, un po’ per l’agitazione e un po’ per la sorpresa. “Se un giorno scenderemo da qui ne riparleremo..”

“Potrebbero volerci delle ore!” mi avvisò divertito.

“No ti prego non dire così..” sapevo che molto probabilmente stava scherzando, ma dopo la trappola in cui mi aveva attirata, anche se con le migliori attenzioni, mi risultava difficile credergli del tutto.

“Hai bisogno di qualcosa che ti aiuti a distrarti..” disse all’improvviso con voce pensierosa.

“Siamo a trenta metri da terra, come puoi pretendere che io riesca a distrarmi..” ma le parole mi morirono in bocca perché Louis appoggiò la mano intorno alla mia guancia sinistra , per poi accarezzarla con il pollice, disegnando un sentiero di scintille lungo la mia pelle.
I miei occhi allora si aprirono, ma solo per essere rapiti, un secondo dopo, dai suoi e l’intensità di quello sguardo mi fermò il respiro in gola. Non riuscivo a farmi una ragione di quanto soffici, e gentili, quegli occhi fossero. Louis si fece ancora più vicino e io non stavo più decisamente respirando quando strofinò piano il naso contro la mia guancia.
Le sue labbra erano sospese a qualche centimetro dalle mie, come se volesse testare la mia reazione, come se avesse paura che potessi spingerlo via. Per un momento lo pensai, ma in quello successivo mi stavo già sporgendo in avanti, per avvicinarmi al suo tocco. Louis sorrise, pericolosamente vicino, e fu solo allora che mi resi conto che stavo trattenendo il fiato, come se il minimo movimento avesse potuto rompere quell’istante.

“Respira..” mi ricordò, e vedere le sue labbra muoversi, così vicine alle mie, per formare quelle parole, fu improvvisamente troppo e in un attimo mi mossi in avanti, per cancellare lo spazio rimasto tra di noi. Tutto il giorno eravamo stati vicini, ma allo stesso tempo distanti.
Ora invece c’eravamo solo noi due ed era una sensazione così nuova, ma allo stesso tempo talmente piacevole, che avrei voluto restare su quella stupida ruota panoramica per tutto il resto della giornata, continuare ad essere noi, uniti, e non ritornare più a essere semplicemente Louis e Sophie.
Il contatto fu soffice, esitante. Le sue labbra morbide, gentili, calde. Tutto il resto aveva smesso di esistere intorno a noi. Non avvertivo più il freddo o il senso di vertigine.
Mi sentivo leggera, libera, e pulita, più di quanto fossi stata in tutta la mia vita.
E fu scioccante rendermi conto che per sentirmi così bene c’erano volute le labbra di un altro essere umano sulle mie. Avevo sempre domandato del tempo per stare da sola, e pensavo che essere sola fosse l’unico modo per rialzarmi e ricominciare a vivere. Non avevo mai capito prima d’ora che avrei avuto bisogno di qualcun’ altro che tornasse a farmi sentire intera e che stesse al mio fianco quando mi fosse, eventualmente, venuta voglia di piangere.

Quando Louis si staccò dalle mie labbra non si tirò indietro del tutto, ma riposò per qualche secondo la sua fronte, appoggiandola sulla mia. In quei pochi istanti mi sentii in uno stato di quasi beatitudine, con il sapore delle labbra di Louis che ancora aleggiava sulle mie, il calore della sua mano sulla mia guancia e un ciuffo dei suoi capelli che mi solleticava la tempia. Rimanemmo così ancora, tra le braccia l’uno dell’altra finché, con qualche altro agghiacciante cigolio, la ruota ricominciò a muoversi.
Fece altri tre giri completi, che mi sembrarono ora stranamente brevi. Durante l’ultimo, e con Louis così vicino, mi sentii abbastanza coraggiosa da guardami intorno e ridere di ogni cosa che ora i miei occhi, grazie a lui, riuscivano a vedere.

♦♦♦♦♦


Mentre la tenevo stretta a me e guardavamo il cielo diventare sempre più scuro sopra di noi, non riuscivo a crederci di averlo fatto davvero. Dopo oltre un mese di frasi dette a metà, di messaggi e sguardi ambigui, finalmente le avevo detto nero su bianco ciò che provavo per lei e anche se all’inizio, vedendo il suo nervosismo per l’altezza, mi ero un po’ preoccupato di aver esagerato, era andato tutto per il meglio. La ruota poi si fermò, tolsi la protezione in ferro e mi alzai per scendere. Sophie invece era rimasta seduta e mi girai per guardarla con aria interrogativa.

“Penso che le mie gambe non ce la farebbero a tenermi in piedi..” mi disse sincera.

“Per le vertigini o perché ti ho baciata?” risposi sfacciato, il che mi fece guadagnare un insulto da parte sua, ma ovviamente subito dopo mi avvicinai e le avvolsi un braccio dietro la schiena per sorreggerla. L’avrei fatto ogni volta che ne avrebbe avuto bisogno.

Mentre camminavo verso il tendone degli spettacoli di magia, per andare a riprendere Katherine e Elizabeth, misi la mano libera in tasca per ripararla dal freddo.
Fu solo allora che mi ricordai della fotografia che avevo trovato qualche ora prima per terra e, al ricordo, le mie dita si strinsero protettive intorno ad essa. Ritraeva il volto di un ragazzo giovane, sui venticinque anni, con i capelli castani corti e gli occhi limpidi, azzurri. Il naso era un po’ più massiccio del mio e decisamente meno proporzionato, ma per il resto, era la mia fotocopia. L’avevo trovata vicino alla giostra dalla quale io e le due bambine eravamo appena scesi, e vedendo l’inspiegabile somiglianza, l’avevo messa al riparo nella mia tasca, prima che qualcuno potesse accorgersene e chiedermene spiegazioni che nemmeno io ero sarei stato in grado di dare.

Quando arrivammo al tendone trovammo molta altra gente fuori ad aspettare perché lo spettacolo non era ancora finito. Rimanemmo lì fuori ancora per venti minuti e quando finalmente le due gemelline uscirono, si lanciarono subito in un resoconto affiatato.
Per quanto bello fosse stato, esso aveva però assorbito tutto il nostro tempo a disposizione: erano infatti ormai le sei e io dovevo raggiungere gli altri ragazzi per il sound check, che sarebbe iniziato tra meno di un’ora. Sophie lo capì subito quando mi vide controllare nervosamente l’orologio, ma una sola occhiata al suo viso mi fece capire che non era pronta, tanto meno io, a far finire quella giornata insieme.
La presi un attimo da parte, mentre le due bambine stavano comprando dello zucchero filato da una bancarella lì a fianco.

“Se vi invitassi al concerto di questa sera e promettessi di accompagnarvi a casa io dopo, credi che i loro genitori avrebbero qualcosa in contrario?” le chiesi, incapace di trattenermi, e il sorriso che mi rivolse mi fece capire che voleva restare tanto quanto lo volevo io.

“Credo proprio di no, anche perché se si opponessero, dovrebbero sopportare il broncio di quelle due signorine per almeno tre settimane di fila!” rispose e non si tirò indietro quando mi avvicinai per rubarle di nascosto un bacio.

Le lasciai lì alla fiera, con la promessa di rivederle quella sera all’arena, e anche se si trattava soltanto di un paio di ore, la separazione mi sembrava già insopportabile. Presi un taxi e arrivai fuori dall’edificio alle sette spaccate, un minuto solo di ritardo e Paul mi avrebbe mangiato vivo.
Raggiunsi gli altri in camerino e quando videro il sorriso sul mio volto, non ci fu bisogno di molte altre parole perché capissero che la giornata era andata benissimo.

“Tutto a posto, Lou?” mi chiese Liam, sorridendo.

“È stato perfetto Li, grazie ancora” risposi sincero, perché se non fosse stato per lui e le sue capacità persuasive, non avrei rivisto Sophie prima di un paio di settimane o addirittura un mese.

“Come sono andate le interviste?” chiesi e subito Niall e Zayn si misero a raccontarmi delle scuse più assurde che erano venute loro in mente per giustificare la mia assenza.

Dopo il sound check mi avvicinai al responsabile della sicurezza fuori dall’arena e senza farmi notare dagli altri gli spiegai dell’arrivo di Sophie con due bambine e gli dissi di lasciarle passare anche in mancanza del biglietto. All’inizio non parve molto convinto, e solo quando gli garantii che avrei pensato io a pagare la differenza, mi diede la sua parola e tornò a lavorare. Era in momenti come quelli che mi rendevo conto di quanto sbagliato fosse non tanto l’ambiente, quanto più le persone, in cui c’eravamo cacciati. Ero io una delle cinque persone che si sarebbero esibite sul palco quella sera, eppure non ero padrone di far entrare tre persone al concerto senza il consenso della sicurezza.

Cercando di darmi una calmata tornai in camerino, dove indossai il primo completo per la serata e aspettai gli altri, per il nostro solito rituale porta fortuna. A una manciata di minuti prima dell’inizio, non mi sentivo più le ginocchia per la tensione. Ovviamente era normale sentire l’adrenalina scorrermi nelle vene al pensiero di esibirmi ancora una volta di fronte a decine di migliaia di persone, ma sapevo bene che parte di essa era dovuta all’ansia di non vedere Sophie tra le prime file, come invece avevo raccomandato al bodyguard. Magari all’ultimo minuto non l’avevano fatta entrare, o era dovuta andare via prima e non aveva avuto tempo di avvisarmi. Zayn mi appoggiò una mano sulla spalla e mi tranquillizzò senza usare parole, perché quelle non erano mai state necessarie tra me e lui, e lo seguii fuori dal camerino.

Nemmeno due minuti dopo eravamo sul palco. Non appena le luci esplosero intorno a noi, i miei occhi si mossero in cerca di lei.
La trovai qualche secondo dopo, al lato della terza fila, e fui grato che non dovessi cantare io la strofa iniziale della prima canzone, perché non sarei stato in grado di mantenere il mio respiro stabile alla vista di lei. Aveva raccolto i capelli in un morbido chignon, e mentre le due gemelline quasi saltavano per l’entusiasmo sui loro sedili, lei era seduta tranquillamente, con le gambe accavallate e la schiena appoggiata allo schienale.

Sophie, dopotutto, non era lì per gli One Direction e sapevo che le canzoni in fondo neanche le piacevano. Lei era lì solo per me, per vedere Louis, non Louis Tomlinson, e il sorriso orgoglioso che mi rivolse quando si accorse che l’avevo trovata, valse più di tutte le grida e le urla entusiaste delle altre migliaia di persone che risuonavano nell’arena intorno a noi.

 



Buonasera a tutti!! Mi scuso per i due giorni di ritardo, tra un weekend a Venezia e il pensiero dell'università sono stati giorni un po' particolari.
Venendo subito al capitolo, questa volta ho voluto provare qualcosa di nuovo, infatti inizia con un parte raccontata in terza persona, senza il punto di vista di Sophie o Louis. Secondo me ci voleva per fare un po' il punto della storia e osservare il tutto in modo oggettivo, senza l'influenza dei nostri personaggi.
Le sorelline hanno avuto il loro pomeriggio con il loro cantante preferito, l'uscita è andata bene, Sophie sta acquistando sempre più sicurezza, anche se non si è sentita di dirgli la verità su Micheal. Louis ha preso coraggio e le ha detto ciò che prova, e ci è scappato pure un bacio (per il quale come forse alcuni di voi avranno notato, mi sono ispirata alla famosa scena della ruota panoramica di Ryan e Marissa in OC). Ora li abbiamo lasciati al concerto, ma un confronto, prima o poi, sarà inevitabile. Penso che il prossimo capitolo sarà l'ultimo, a meno che non venga troppo lungo, in tal caso lo dividerò in due parti per alleggerire la lettura.
Ringrazio come sempre tutti coloro che leggono, che hanno messo la storia tra le preferite, seguite e ricordate, e ovviamente quelli che recensiscono (soprattutto quelli che non l'avevano mai fatto prima, mi fa tanto piacere leggere i vostri commenti per la prima volta e mi trovo sempre a chiedermi cosa, del nuovo capitolo, vi abbia spinto a scrivermi per la prima volta).
Come sempre, per ogni cosa mi trovate su twitter! @martolinsss
Un ultimo pensiero in questo piccolo spazio, va a Cory Monteith, la cui perdita è stata un duro colpo per me e di cui sono certa tutti sentiremo la mancanza. Grazie per avermi insegnato che anche le ragazze più bruttine e meno appariscenti possono essere notate dal capitano della squadra di football.
Alla prossima settimana, un bacio a tutti!
Marta

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


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CAPITOLO VII


Il sudore scivolava lento lungo il mio corpo. Me lo sentivo dietro il collo, sui gomiti quando alzavo le braccia per battere le mani a ritmo di musica, e nell’incavo delle ginocchia. Scivolava piano, facendomi rabbrividire, come l’adrenalina che scorreva invece dentro di me, nelle mie vene, fino quasi a divorarne tutto il sangue presente.
Continuavo a saltare da una parte all’altra del palco e per quanto dicessi a me stesso che lo facevo per far divertire il pubblico e perché quando la musica è così alta non si può stare fermi, in realtà lo facevo per attirare la sua attenzione. Lei. Sophie. Terza fila, in fondo a sinistra. Il resto dell’arena avrebbe anche potuto essere vuoto per me, era come se il suo sedile fosse illuminato da un faro che puntava direttamente su di lei, mentre tutto il resto era immerso nel buio più totale.

Mancavano solo un paio di canzoni alla fine e io mi girai verso gli altri per vedere se avessero cambiato idea. Zayn mi fece un cenno di approvazione con il capo, mentre dietro di lui Liam mi sorrise a trentadue denti. A quel punto mi alzai e il pubblico si aspettava da me il solito discorsetto previsto dalla scaletta che avevo ripetuto a memoria non so quante volte a persone di ogni nazionalità.
Siamo felicissimi di essere qui, siete il pubblico più rumoroso di sempre, non ci sono parole per farvi capire quanto vi siamo riconoscenti. Quella volta no, avevo ben altro da dire ed era un’idea che mi era venuta poco prima di salire sul palco e che avevo condiviso solo con gli altri ragazzi, perché se qualcuno della produzione mi avesse sentito di certo non me lo avrebbero lasciato fare. Strinsi più forte il microfono tra le mani e facendo vagare lo sguardo tra la gente, iniziai a parlare.
 
“Questa è una serata molto speciale per me” esordii e notai che la voce mi tremava appena “e non solo perché è l’ultima data del tour nel Regno Unito, ma perché tre bellissime persone sono sedute in mezzo a voi per sentirmi cantare. Per quanto riguarda due di loro, sono sicuro che si sono divertite moltissimo fino adesso, perché le ho viste continuamente saltare sulle loro sedie” e mentre lo dissi guardai Katherine e Elizabeth, che per la sorpresa e il fatto che stessi parlando direttamente a loro, erano quasi in lacrime. La terza persona però non è una patita della nostra musica, ma è venuta lo stesso e quindi vorrei ringraziarla cantando per qualche istante qualcosa di diverso. Questa canzone mi piaceva molto ancora prima di scoprire che è anche la sua preferita, e sono sicuro che piace anche a molti di voi, quindi se sapete le parole, per favore cantatela con me!” E mentre nell’arena era sceso un silenzio di tomba, con Niall che mi accompagnava piano con la sua chitarra, iniziai a cantare la prima stronza di “This”, di Ed Sheeran.
 
This is the start of something beautiful
This is the start of something new
You are the one who'd make me lose it all
You are the start of something new

 
Mi fermai al ritornello, perché sapevo che era già un miracolo che nessuno della produzione fosse intervenuto salendo sul palco per fermarmi, ma quando cercai Sophie tra la gente e vidi l’espressione sul suo viso, seppi che quei pochi versi erano bastati. Ringraziai mentalmente le due gemelline per avermi saputo dire quale era la sua canzone preferita e tornai a cantare con gli altri le ultime due nostre canzoni, un senso di leggerezza nella testa e nel corpo che non aveva niente a che fare con i milioni di flash che immortalarono l’ultimo secondo dell’ultimo concerto del tour inglese.
 
Un’ora dopo eravamo tutti e quattro seduti sui sedili posteriori dell’auto che le avrebbe riportate a Oxford. La prima mezzora di viaggio passò nella confusione più totale, tutti troppo entusiasti dal concerto appena concluso per parlare piano e non infastidire l’autista. Risi così forte a una battuta di Elizabeth sui pantaloni che aveva indossato Niall quella sera che quasi mi rovesciai addosso metà della lattina di coca cola che stavo bevendo. Quando entrammo in autostrada c’era pochissimo traffico e l’auto acquistò sempre più velocità.
Il rumore sordo dell’asfalto che scorreva veloce sotto di noi, il verde dei prati sfumato al giallo dei campi fuori dai finestrini, uniti alla stanchezza della giornata, fecero capitolare le due bambine, che dopo neanche un’ora crollarono addormentate, la testa appoggiata l’una sulla spalla dell’altra. Attento a non svegliarle mi spostai sul sedile per essere più vicino a Sophie. Quando le presi la mano lei chiuse gli occhi e sospirò contenta, appoggiando la testa contro il finestrino. Vederla in quella posizione, con gli occhi chiusi, portò nella mia mente una marea di ricordi.
 
“Questa scena mi ricorda tanto quella volta sul treno, lo sai?” le dissi e un sorriso malinconico le si dipinse sul viso. “È passato così poco tempo, se ci pensi, ma quante cose sono cambiate. Guardaci ora!” e nel dirlo sollevai le nostre mani intrecciate, per baciare il palmo della sua.
 
“È stato divertente vederti arrivare di corsa quella sera, tutto trafelato e senza respiro, ma se devo dirti la verità non ritornerei indietro, e non rinuncerei a questo, per nessuna cosa al mondo” mi rispose poco dopo.
 
“Bene, perché non ti lascerei tornare indietro in ogni caso..” e forse suonò un po’ più minaccioso di quanto intendessi, ma sapevo che Sophie aveva capito. Lei capiva sempre tutto.
 
Avevo sonno e ogni tanto il silenzio nell’auto diventava così confortevole che sapevo che se mi fossi appoggiato a lei, il suo maglione bordeaux sembrava così morbido, mi sarei addormentato all’istante. Non volevo farlo però, non importa quanto stanco fossi. Lei era seduta lì, al mio fianco e ogni secondo con lei meritava di essere vissuto. Avrei avuto tutto il viaggio di ritorno per dormire e, se ero fortunato, sognare di noi due insieme.
 
L’auto accostò davanti a casa loro poco prima della mezzanotte.
 
“A casa sana e salva, puntuale come Cenerentola!” le dissi aprendole la portiera. Lei mi fece la linguaccia, ma ebbi un tuffo al cuore quando notai con quanta leggerezza ormai si appoggiava a me, senza più ritrarsi al mio contatto. Svegliammo piano le due bambine e le aiutammo a entrare in casa, perché erano ancora così stanche e mezze addormentate che da sole non sarebbero mai riuscite a reggersi in piedi. Le salutai ringraziandole per la giornata e poi mi sedetti in cucina, appoggiando i gomiti sul tavolo, mentre Sophie andò su di sopra con loro per metterle a letto.
Era una bella cucina, non tanto grande, ma pulita e ordinata, con le tendine azzurre alla finestra e qualche strofinaccio qua e là. Profumava di casa, di famiglia e mi persi nel ricordo della cucina di mia madre e di quanto mi piaceva fare con calma colazione lì, dove tutto profumava di lei, il sabato mattina, quando non dovevo andare a scuola. Sophie era ormai sparita da quasi un quarto d’ora, immaginavo che svestire e mettere sotto le coperte due bambine addormentate non fosse esattamente facile, quindi mi misi ad aspettarla con pazienza.

Dopo un po’ però iniziai a sentire il sonno prendere il sopravvento su di me e, per evitare che lei mi trovasse addormentato sul tavolo della sua cucina qualche minuto dopo, mi alzai e feci un giro in salotto. Come l’altra stanza, anche questa era molto accogliente. Un divano dall’aria comoda e un tappeto bianco soffice di fronte alla tv, qualche cuscino colorato qua e là e tanti quadri appesi alle pareti. Il camino era ancora leggermente acceso dalla sera prima e al suo interno le braci illuminavano la stanza con qualche bagliore rosso fuoco.
Stavo per spegnere la luce e tornare in cucina dopo il mio piccolo giro panoramico, quando notai una foto sopra la mensola del camino. Essa attirò la mia attenzione perché era l’unica che c’era, in mezzo a una statuetta della Torre Eiffel e a una miniatura della statua della Libertà. Quando fissai dall’altro lato della stanza quei freddi occhi blu, impressi sulla carta per sempre, tutto il sonno sparì all’istante e il battito del cuore accelerò notevolmente. Mossi qualche passo all’indietro, come per allontanarmi da quell’immagine, perché non poteva essere vero. Arretrai sempre di più fino a che i miei polpacci urtarono il divano e mi lasciai cadere a peso morto su di esso, senza preoccuparmi del rumore che avrei potuto causare nella casa silenziosa e addormentata.

Con mani tremanti tirai fuori la fotografia, l’altra fotografia, che avevo trovato quel pomeriggio alle giostre. Era lo stesso ragazzo, non c’era dubbio. E se averla trovata vicino alla giostra dalla quale le due bambine erano appena scese aveva potuto essere una coincidenza, la foto nel salotto della loro casa non lo era di sicuro. Quel ragazzo era la mia fotocopia e il fatto che una sua immagine fosse nel salotto di Sophie, indisturbata, come se nulla fosse, e senza che lei avesse mai minimamente accennato a quella somiglianza, mi lasciava uno strano senso di vuoto e incompletezza all’altezza dello stomaco. Sapevo che dovevo parlarne con lei, prima di farmi mille castelli per niente, ma quando lei scese le scale qualche secondo dopo, non riuscii più a guardarla con affetto e tenerezza, come avevo invece fatto fino a mezzora prima.
Un velo di ghiaccio era calato sui miei occhi, allontanandomi dal fuoco vivo dei suoi e quando vidi il suo sorriso stanco ma soddisfatto per aver messo a letto le bambine, non potei fare a meno di corrucciare la fronte e distogliere lo sguardo, confuso e infastidito.

Sophie, quante cose mi stai nascondendo? E qual è il vero motivo per cui sei entrata nella mia vita?


♦♦♦♦♦

 
 Scesi le scale a tre scalini alla volta, impaziente di passare ancora un po’ di tempo con lui prima che dovesse ripartire per Londra. Mi stavo quasi per precipitare tra le sue braccia, ma lo sguardo che vidi sul suo viso, corrucciato, disorientato, quasi arrabbiato, congelò tutte le mie intenzioni e mi fermai a qualche passo dal divano sul quale era seduto, le braccia conserte e le labbra serrate in una linea dritta e severa.
 
“Che cosa succede? Hai una faccia!” gli dissi cercando di mantenere un tono scherzoso, ma la preoccupazione era già tangibile nella mia voce.
 
“Perché non me lo dici tu che cosa succede, Sophie?” e mentre parlava non mi guardava nemmeno in faccia, perché il suo sguardo era puntato verso la mensola del camino e, più precisamente, alla fotografia di Micheal che vi era appoggiata sopra. Io rimasi in silenzio, odiando me stessa per essermi dimenticata di quella foto e non aver pensato a nasconderla in qualche modo prima che arrivassimo.
 
“Se non ti va di parlare di quella foto, perché non mi parli di questa invece, eh?” e mi gettò un’altra foto che stava stringendo fra le mani. Era un’altra immagine di Micheal e la riconobbi all’istante, dalle poche parole che erano state scarabocchiate sul retro con una penna viola. “Per sempre con noi”, nella calligrafia disordinata e ondeggiante di una bambina: Elizabeth. Era la foto che tenevano sempre sulla scrivania nella loro cameretta, ed ero stata così distratta in quei giorni, che non avevo nemmeno notato la sua assenza.
Era normale che avessero voluto portarla con loro quel giorno, per sentirlo più vicino, non potevo farne loro una colpa. Come avevo potuto essere così stupida? E soprattutto come avevo potuto pensare di tenere la verità nascosta a Louis? Non che fosse chissà quale rivelazione per lui, ma questa era stata la mia occasione per mettermi alla prova, per fargli capire che si poteva fidare davvero di me, che non volevo ci fossero più segreti e parole non dette tra noi, invece l’avevo deluso e ora dovevo pagarne le conseguenze.
 
“Va beh, visto che non hai intenzione di darmi neanche uno straccio di spiegazione..” e fece per alzarsi. Quando capii che se ne voleva andare davvero mi gettai in avanti per fermarlo e sentii un dolore quasi fisico, al centro del petto, quando lui si ritrasse, con un’espressione quasi disgustata, dal mio tentativo di poggiargli la mano sul braccio per calmarlo.
 
“No! Non te ne andare ti prego..” dissi con un tono di voce che lui non mi aveva mai sentito, ma che io invece conoscevo così bene, ed ero quasi sorpresa di non aver sentito me stessa usarlo per così tanto tempo. Era il tono di voce che avevo usato ogni singola volta che qualcuno non ne aveva potuto più di me e aveva deciso di andarsene. E ogni volta che qualcuno se ne andava, io incolpavo me stessa, per non aver saputo trattenerli, per non aver saputo essere abbastanza per loro.
Perché un conto è non sforzarsi e accettare che una persona se ne vada, un altro conto è non poter fare altro che osservarli scivolare via dalle nostre dita, consapevoli di aver fatto il proprio meglio, di aver dato il proprio massimo, ma quel massimo non è bastato perché quelle persone che non ci vogliono più hanno trovato di meglio. Avevo sempre saputo che il mio massimo a Louis non sarebbe mai stato sufficiente, che nonostante tutto l’impegno che potessi metterci, lui avrebbe sempre potuto trovare di più, di meglio. Vederlo però andare via così ora, non perché si fosse improvvisamente reso conto che io per lui non ero abbastanza, ma perché non ero stata sincera, andava oltre ogni mia capacità di resistenza.
Non c’era nulla da accettare, niente da metabolizzare e nessun fattore esterno da comprendere. La colpa era mia e come quando ero piccola, e mia mamma mi sorprendeva a fare qualcosa di sbagliato, non avevo intenzione di arrampicarmi sugli specchi e inventarmi mille scuse per salvarmi, per giustificarmi. Ogni volta che qualcuno mi rimproverava, e io sapevo che avevano ragione, stavo lì, con la testa china, a sentirmi dire ancora una volta quanto sbagliata fossi, quanto li avevo delusi e quanto non si sarebbero mai aspettati nulla del genere da me. Louis invece non mi aveva ancora detto niente, in piedi nell’ingresso, e forse quel silenzio era ancora peggio di un rimprovero.
 
“Resta, ti prego..” gli ripetei, facendo un altro passo verso di lui. Volevo toccarlo, afferrarlo per la giacca e tirarlo verso di me. Volevo poter sfiorare quelle guance arrossate per la rabbia e distendergli la ruga che gli si era formata in mezzo alle sopracciglia. Volevo che si sedesse lì per terra con me, davanti alla porta, e che mi stringesse come aveva fatto prima, in macchina, quando nessuno dei due aveva idea di quello che sarebbe successo qualche ora dopo in quella stanza.
Ancora una volta le mura di una casa tornarono a sembrarmi le pareti di una prigione, come lo erano state in passato quelle di casa mia, e come allora il mio primo istinto fu quello di scappare, ma questa volta non potevo, non potevo fare questo a Louis. Louis che si meritava una spiegazione. Louis che mi voleva bene. Louis che l’aveva protetta da se stessa.
 
“Mi vuoi dire chi è quel ragazzo e che cosa c’entra con te?” mi chiese qualche secondo dopo e potevo vedere nel modo in cui chiuse gli occhi quando parlò, quanta fatica gli stava costando mantenere un tono di voce normale e non mettersi ad urlare in mezzo al corridoio deserto. Rimasi a fissargli le labbra che si aprivano per formulare quelle parole, poche, ma così precise e taglienti. Lo guardai come quando da bambina mi mettevoa fissare il sole e gli adulti mi dicevano di smetterla. Io continuavo e loro mi dicevano “Ma lo sai che fa male?". Allora abbassavo lo sguardo e c’era ancora la luce accecante negli occhi, sull’asfalto, sulla punta delle scarpe, sulle targhe delle macchine che provavo a leggere. E mi successe così anche quella volta, con Louis davanti a me che aspettava, che si meritava una spiegazione. Mi mettevo a fissare i ricordi, “Ma lo sai che fa male?" e mi riempivo gli occhi del mio passato e non vedevo più niente del presente.
 
“Lui è Micheal..” dissi in un sussurro “Il fratello maggiore di Katherine, Elizabeth e Adam..” continuai, senza il coraggio di guardarlo negli occhi. Sentii il suo respiro accelerare, ma non sapevo se per la sorpresa, l’agitazione o la rabbia. Ogni spiegazione mi faceva paura, perché non importava quale fosse quella giuista, ognuna avrebbe portato alla parola fine. Nessuna di quelle alternative mi avrebbe ridato indietro Louis.
 
“E perché non me ne hai mai parlato? Quante volte ti ho chiesto della famiglia con cui vivi, per conoscerti meglio, per capire come sei, per imparare cosa ti piace. Ma tu niente, mai neanche un accenno..” mi rispose lui e la sua voce era talmente bassa che la si udiva appena, il rumore del frigorifero in sottofondo.
 
“Lui è morto circa un anno fa, prima che io venissi a vivere con loro. Di solito era lui che si occupava dei bambini quando era a casa e la sua scomparsa fu il motivo principale per cui Clark e Marie cercarono una ragazza che li aiutasse. Tuttavia quando arrivai, non mi dissero molto di lui. Soltanto che era morto in un incidente  e che non si parlava mai di lui perché gli altri bambini ne erano ancora molto scossi. Di più non mi fu detto e io non chiesi mai, e andò tutto bene fino a una sera di circa cinque mesi fa, quando scoppiò un violento temporale che fece andare via la corrente. Ero a casa da sola con Adam quella sera e ancora lui non si fidava molto di me. Era un bambino timido e amava avere i suoi spazi. Quando però cominciarono a sentirsi i primi tuoni, mi pregò di prenderlo in braccio e di mandarli via. Continuava a ripetere di non aprire loro la porta e di dire che ormai era morto, che non potevano più fare niente per lui. Rimasi profondamente turbata da quelle parole e non ti nascondo che mi spaventai molto a vederlo singhiozzare in quel modo. Quella sera poi ne parlai con i suoi genitori e così mi spiegarono che in una notte come quella, un anno prima, Micheal aveva perso la vita, scivolando dalla sua moto a causa dell’asfalto bagnato. Le sue ultime parole prima di uscire per andare da un amico erano state “Non preoccuparti mamma, tra un minuto vado via” e se n’era andato davvero, perché da allora non gli sentì mai più dire altro.”
 
“È sicuramente una storia molto triste e mi dispiace, ma continuo a non capire cosa c’entra tutto questo con me!” chiese spazientito, e sapevo che ormai era arrivato il momento di dirgli la verità.
 
“Ha a che fare con te, perché tu sei come lui, almeno fisicamente intendo. Prima di quel giorno non avevo mai visto una sua fotografia, ma quando me ne mostrarono un paio non potei non notare la somiglianza con te. Già allora ti conoscevo perché passavo gran parte delle mie giornate con le due gemelline e loro non facevano altro che parlare dei One Direction, in particolare di te. Prima pensavo fosse solo una stupida ossessione, tipica della loro età, ma quando poi mi accorsi della somiglianza impressionante tra voi due, tutto mi fu improvvisamente chiaro. Katherine e Elizabeth ti seguivano con così tanta dedizione non per la tua voce, certo le vostre canzoni le piacevano, ma soprattutto perché ricordavi loro il fratello maggiore che avevano perso. Si appoggiavano a te per non dover accettare che Micheal non ci fosse più, come una specie di fantasma, che per quanto irreale le aiutava a mantenersi a galla..” andai avanti a spiegare, sperando, pregando che una piccola parte di Louis si fidasse ancora di me e mi credesse.
 
“Continuo a non capire, cosa c’entra tutta questa storia con noi due?” mi chiese ed ebbi un brivido all’idea che potesse ancora pensare a me e a lui insieme, a un noi. Ma sapevo che non dovevo farmi illusioni.
 
“Lo so che non capisci ancora, ma ci sto arrivando. Le cose cambiarono quando il giorno del vostro concerto a Oxford cominciò ad avvicinarsi. Non erano riuscite a prendere i biglietti, ma avevano scoperto il nome dell’albergo, e siccome i loro genitori lavoravano, Marie chiese a me di accompagnarle. Io non volevo, perché, beh, non ho mai fatto mistero del fatto che non mi piacevate. Ma ora sapevo di Michael, sapevo perché ci tenevano così tanto a vederti e così le portai fuori da quel maledetto albergo. Non so che cosa c’era di strano quel giorno, forse eravate di fretta, forse perché pioveva, ma nessuno di voi quando uscì si fermò. E la cosa peggiore fu che loro continuavano a dire che tu saresti stato diverso, che tu, a differenza degli altri, ti saresti fermato. Invece non fu così e il dolore che vidi sui loro volti quando se ne accorsero fu semplicemente troppo.” Un lampo di comprensione passò negli occhi di Louis.
 
“Quindi è per questo che sei arrivata lì come una furia e mi hai tirato quello schiaffo?” mi chiese serio.
 
“Sì, e la cosa peggiore fu che l’avevo fatto per loro, ma le due bambine se la presero ancora di più con me, dicendo che era colpa mia che te ne eri andato. Le loro parole, unite al bel discorsetto che i tuoi manager mi fecero in ufficio, mi ridussero uno straccio. Poi tu arrivasti di colpo in libreria ed ero ancora così arrabbiata che non avevo voluto cedere e dirti la verità di cui eri in cerca. Dopo tu te ne uscisti con l’idea dell’appuntamento e quella sera a cena fui a un passo dal raccontarti tutta la storia, ma ancora una volta non lo feci, perché ero convinta che quella sarebbe stata l’ultima volta che ti avrei visto. Innamorarmi di te non faceva parte del piano..” ammisi, lasciandomi scappare un singhiozzo, che Louis ignorò completamente. Se ne stava in silenzio, perso in chissà quali pensieri, così continuai a parlare, per allontanare il momento in cui se ne sarebbe andato, senza guardarsi indietro.
 
“Non mi parlarono per tre settimane di fila e con Marie pensammo che l’unico modo per risolvere la situazione sarebbe stato fare in modo che potessero passare qualche ora con te..” Louis non mi lasciò finire, perché si mise a ridere, ma la sua era una risata amara, senza nemmeno una goccia di allegria.
 
“Ma che brava Sophie, quindi è per questo che hai voluto che ci incontrassimo oggi, non è vero? Così che ricominciassero a parlarti e non ti vedessero più come quella cattiva. E io che pensavo che loro fossero solo una scusa per rivederci e ho quasi litigato con Liam per ottenere un pomeriggio libero per stare con te..” e a quel punto dovetti mettermi fisicamente contro la porta, per impedirgli di uscire.
 
“No, non dire così. Lo sai che non è vero! Tutte le telefonate e i messaggi nelle settimane prima di oggi, le pensavo davvero, le penso davvero quelle cose! Non ho scelto io che tu entrassi nella mia vita, ma ho deciso di combattere affinché ci rimanessi. Non lo capisci? Proprio perché sei importante, e non volevo che la nostra storia rimanesse un segreto, ho voluto sistemare le cose con loro!”
 
“Allora perché non mi hai detto di Micheal? Non ti fidi abbastanza? Non hai pensato che avevo il diritto di sapere la verità prima di incontrarle oggi? Non pensi che se lo avessi saputo mi sarei potuto comportare meglio con loro e non rischiare di deluderle ancora? Mi sento un tale idiota!” mi chiese arrabbiato.
 
“Non sei un idiota, Louis! E oggi sei stato splendido con loro, non avresti potuto comportarti meglio! Guardami ti prego!”
 
“Ti sto guardando, ma la persona che vedo non è la Sophie che pensavo di conoscere. Forse quella Sophie neanche esiste. Ho scoperto più di te in mezzora stasera che in quattro settimane!” e nella sua voce c’era solo rabbia per se stesso, per avermi creduto, per essersi fidato, e tanto, tanto disprezzo.
 
“Certo che esiste, Louis! Sono io, e ti prego di credermi. Il fatto che io non ti abbia parlato di Micheal non c’entra niente con noi, non devi mettere in discussione quello che provo per te!”
 
“Scusa se te lo dico, ma non sei proprio nella posizione di dirmi cosa devo o non devo fare!” e quando mi disse queste parole indietreggiai, perché non era più Louis, ma Louis Tomlinson, la popstar internazionale, snob e presuntuosa. “Cazzo Sophie, io ti ho baciata oggi pomeriggio, non so se te lo ricordi! E mi sono messo contro tutta la produzione, per cantarti una canzone che non era nostra al concerto stasera!”
 
“Lo so, ed è stato bellissimo gesto da parte tua, ma io non potevo sapere..” tentai di difendermi.
 
“Che cosa? Non potevi sapere che non sono una marionetta e che non puoi manovrarmi come vuoi? Grazie per il pensiero, ma ho già troppe persone che cercano di controllare ogni minima cosa che faccio, non ho bisogno che lo faccia anche tu!” mi disse risentito. Fu come ricevere una pugnalata. Mi aveva paragonata ai suoi manager, a tutte quelle persone che gli stavano accanto solo per soldi o per avere il loro quarto d’ora di gloria. Mi sentii cadere, in basso, ma nonostante la profondità di quell’abisso, non trovai in esso le parole per rispondere a quelle accuse. Qualche secondo dopo rialzai gli occhi, per cercare i suoi, già rassegnata a trovarci dentro altra rabbia e rancore. Invece c’era solo silenzio. Le pupille erano diventate così scure, per la luce, per la delusione, che il blu quasi non si vedeva più. Il blu che così tante volte mi aveva salvata. Il blu in cui nuotare non mi faceva più paura. Il blu che mi aveva dato da bere e che mi aveva lavata dalle mie paure ogni volta che i suoi occhi si erano posati sui miei. Quello, più che il tono di voce che Louis usò poco dopo, mi convinse che non c’era più nulla da fare. Niente a cui aggrapparsi. Niente che potesse salvarci. Un clacson risuonò dalla strada.
 
“È meglio che io vada..” mi disse con voce assente, distratta, e senza una parola, uno sguardo, una tocco di più, Louis si girò e uscì, non solo da quella porta, ma probabilmente anche dalla mia vita.

EPILOGO

 
Sophie non si sarebbe dimenticata le cose che Louis le aveva detto. Non tanto perché erano state sincere, non tanto perché erano state importanti, ma per il modo in cui quelle cose l’avevano fatta sentire. Erano passati cinque giorni da sabato sera e fondamentalmente lei aveva smesso di farsi domande. Non si chiedeva più come aveva potuto essere tanto orgogliosa e stupida, come aveva potuto lasciar andare Louis, guardando scivolare via la fiducia che lui aveva avuto in lei, come una manciata di sabbia tra le dita.
Il primo giorno no, perché quello fu terribile e buio, senza nessun messaggio o telefonata, ma già dal secondo giorno Sophie iniziò a dirsi che forse era destino che le cose avessero dovuto andare esattamente in quel modo. Anche se quella sera non fosse successo nulla, Louis a breve sarebbe partito e sapevano entrambi quanto debole e acerbo il loro rapporto fosse.

Disse a se stessa che spesso ci ostiniamo a tenere in piedi cose che non hanno avuto il coraggio di sostenersi da sole per sfidare il vento freddo e pungente. Ci mettiamo noi controvento a camminare per loro e a volte funziona, ma questo non è il modo in cui l’amore dovrebbe essere. L’amore, quello vero, quello che dura, è sicuro di sé, non ha bisogno di essere convinto, di essere spinto nella giusta direzione.
Sophie non avrebbe dimenticato Louis, questo no, perché il fatto che una persona non sia più fisicamente con te non significa che non te la porti dentro ovunque vai. E non avrebbe dimenticato neanche ciò che lui le aveva insegnato, incominciando dal riavere fiducia in se stessa e a superare, poco a poco, le sue paure. Sophie si sarebbe sempre ricordata di Louis, non importava quanto ormai lui la odiasse, perché era stato capace di farla sentire come se lei non fosse la cosa più sbagliata del mondo, e quella non era una cosa che Sophie, anche se ci avesse provato, avrebbe potuto dimenticare.
 
Era con quei pensieri in testa, mentre affondava distrattamente la bustina di tè nella tazza piena di acqua bollente, che mercoledì pomeriggio Sophie sentì la porta dell’ingresso aprirsi e richiudersi subito dopo con un scatto. Qualche istante dopo Adam e suo padre entrarono in cucina, i cappotti ricoperti da goccioline di pioggia. Non si era nemmeno accorta che aveva cominciato a piovere. Gironzolarono per un po’ nella stanza, facendosi entrambi una tazza di tè per riscaldarsi, ma era ovvio, perfino agli occhi stanchi e offuscati di Sophie, che le stessero nascondendo qualcosa. Così decise di chiedere e, quando aprì la bocca per parlare, dovette prendersi dei secondi per schiarirsi la gola, perché parlare ad alta voce, dopo così tanti giorni di silenzio, le faceva quasi male.
 
“Com’è andata allo stadio?” chiese sforzandosi di essere cordiale, ricordando vagamente di quando quella mattina l’avevano informata che sarebbero andati a Londra per vedere una partita.
 
“Bene, avevamo dei posti fantastici, per fortuna si è messo a piovere solo quando stavamo già tornando indietro!” rispose Adam cercando di suonare entusiasta, ma il sorriso non gli raggiunse gli occhi.
 
“Perché non mi dite che cos’è successo, così evitiamo di stare qui a prenderci in giro?” sbottò lei quando ne ebbe abbastanza di quelle chiacchiere vuote.
 
“Abbiamo visto Louis, era seduto qualche fila davanti a noi..” rispose cauto Clark. Sophie dovette chiudere gli occhi per non mostrare quanto quelle parole le avessero fatto male. Avrebbe pianto dopo, tra qualche minuto, da sola nella sua stanza, ma non lì, davanti a loro.
 
“Era solo? Voglio dire.. Era con qualche ragazza?” si sforzò di chiedere.
 
“No, era con un paio di suoi amici che non avevo mai visto. È venuto subito quando mi ha visto e mi ha chiesto come stavo..” Tipico di Louis. Sempre così fottutamente gentile. Sempre a preoccuparsi per gli altri.
 
“Poi mi ha detto che gli dispiaceva che non ci fosse stato Niall, perché era sicuro che ci saremmo trovati bene insieme, visto il panino enorme che stavo mangiando..” continuò Adam, sorridendo al ricordo.
 
“Come mai gli altri ragazzi non erano con lui?” Sophie chiese cercando di suonare disinteressata.
 
“Perché sono partiti domenica per l’America, sai per il tour. Ha detto che lui aveva prenotato un volo questa settimana e non era partito subito come invece avevano fatto loro.. Per stare con te.”
 
“Davvero ha detto così?”
 
“Certo che no, ma si capiva! Ho tredici anni, non sono più un bambino!” rispose Adam in tono fiero, ma lei ormai non lo sentiva già più. Louis non era partito con gli altri. Louis aveva programmato di restare ancora in Inghilterra per passare del tempo con lei, solo loro due. Louis si trovava a Londra da solo, mentre i suoi amici erano già oltreoceano. Sophie allora capì che meritava di saperlo. Meritava di sapere che lo aveva saputo e che, anche se probabilmente non gli importava più, lei gliene era grata.
 
“Clark prendo la tua macchina, okay? Non ci metterò molto, promesso!” esclamò all’improvviso, alzandosi dal tavolo e afferrando il mazzo di chiavi nell’ingresso.
 
“No, dammi le chiavi!” le rispose lui.
 
“Per favore, ho bisogno di parlargli..” Sophie lo supplicò.
 
“Dammi le chiavi. Guido io!” e le sorrise brevemente, prima di uscire con lei sotto la pioggia battente.
 
Quarantacinque minuti dopo Clark accostò nel parcheggio dell’aeroporto e Sophie schizzò fuori dalla macchina, in preda a mille pensieri. Magari l’aereo è già decollato. Magari ho sbagliato terminal. Magari farà finta di non vedermi. Si precipitò davanti allo schermo delle partenze e il suo cuore perse un battito quando vide che c’era un aereo diretto a New York tra meno di venti minuti. Lesse il numero del gate e cominciò a correre, ogni fibra del suo corpo che sperava non fosse troppo tardi. Arrivò all’imbarco e vi trovò una marea di gente. Uomini in giacca e cravatta, turisti, ma di Louis neanche l’ombra. Mancavano ancora dieci minuti, ma forse lui era già stato imbarcato, probabilmente avendo avuto un biglietto in prima classe.
 
“Merda, merda, merda!” sentì qualcuno sibilare dietro di lei e non ebbe bisogno di voltarsi per capire a chi apparteneva quella voce. Perdendo la sensibilità alle ginocchia vide un Louis disperato correre lungo il corridoio per raggiungere il gate prima che chiudesse. Per un attimo Sophie temette che nella fretta non l’avesse vista, ma poi lui si fermò, per sistemarsi il cappellino di lana che gli stava cadendo sopra gli occhi, offuscandogli la vista, e la vide.
 
“Che cosa ci fai qui?” esclamò, entrambi ancora ansimanti e con le guance arrossate per la corsa. Sophie avrebbe voluto solamente buttare la sua borsa per terra e gettarglisi addosso, facendogli cadere il biglietto e il passaporto di mano. E forse un tempo, lui glielo avrebbe lasciato fare e si sarebbe stretto più forte a lei. Ma non quel giorno, non dopo la litigata dell’altra sera, e Sophie lo sapeva bene. Se voleva impedire che Louis salisse su quell’aereo, sapeva che doveva parlare, e che doveva farlo sinceramente, mettendo da parte tutta la sua vergogna, il suo orgoglio, e le sue insicurezze.
 
“Ho bisogno di parlarti! Poi potrai salire su quell’aereo e dimenticarti di avermi mai incontrata, ma ora per favore, ascoltami!” lo supplicò.
 
“Voglio solo sapere perché sei qui..” insistette lui.
 
“Perché non posso sopportare l’dea di perderti per sempre!” rispose lei, sull’orlo delle lacrime.
 
“E perché me lo stai dicendo qui adesso, dopo cinque giorni di completo silenzio?”
 
“Perché con te non riesco a mentire, come non stavo mentendo sabato sera quando ti ho detto che non avevo programmato di innamorarmi di te! E io so mentire Louis, ci ho vissuto grazie a questo e, anche se è brutto dirlo, non sai quanta sofferenza mi sono risparmiata! Ma con te non ci riesco, e questo mi terrorizza! Per anni sono stata quella che era talmente stanca e delusa dalla vita che riusciva ad abituarsi a tutto. Non importa quanto già difficili le mie condizioni fossero, un’altra cosa andata per il verso sbagliato non era che un’ulteriore mattone sulle mie spalle, che ormai non mi curavo neanche più di inarcare, per alleggerirmi il peso. Ero vuota Louis, vuota. Non sentivo niente, non c’era niente dentro di me e mi andava bene così. Perché quando sei vuota non importa quanto male ti fanno le persone che incontri, non hai niente da dargli e  non c’è niente quindi che ti possano portare via. Invece in queste settimane io ti ho offerto tutto di me su un piatto d’argento, pronto per essere preso e gettato via, una volta che ti fossi stancato del giocattolo nuovo, che non brillava più, o dopo che ti fossi resi conto che non aveva mai veramente brillato come avevi creduto. Tu, standomi vicino, mi hai fatto venire voglia di non essere più quella ragazza vuota e, a poco a poco, ho lasciato che i colori rientrassero nella mia vita. Li tenevo nel cassetto, non ero ancora pronta ad usarli, ma erano lì e sapevo che, qualora avessi voluto, avrei potuto tirarli fuori e imbrattare le tele bianche dentro di me. Quando te ne sei andato, sono tornata a sentirmi trasparente, come se tu non fossi mai entrato nella mia vita. Andandotene mi hai svuotata e ho pensato che io senza di te, quei colori, non li volevo più. Ti ho urlato, supplicato, con tutta la voce che avevo di riprenderteli, di lasciarmi solo il nero, perché è così che sentivo. Nera, vuota, perché essere capace di sentire qualcosa fa paura, sentire questo per te fa paura. Ma quando Adam è tornato a casa oggi e mi ha detto che ti ha incontrato da solo allo stadio, mentre gli altri erano già partiti, ho capito che non potevo lasciarti partire senza dirti quanto hai fatto per me, e che tu hai tutto il diritto di dimenticarmi, ma che voglio che tu sappia che io non farò lo stesso, non ci proverò nemmeno. Il sole non smette di essere giallo perché qualcuno è costretto in casa e non può uscire a guardarlo, Louis. Tu ci sarai sempre, e continuerai a splendere, anche se io non potrò più essere là fuori con te a guardarti!”
Non era esattamente quello che Sophie aveva programmato di dirgli, la parole avevano cominciato a uscire dalla sua bocca senza controllo. Aveva abbandonato la sua razionalità e già se ne stava pentendo, perché era sicura di aver confuso ancora di più le cose tra di loro. Per questo motivo il sorriso di Louis, quando lei smise di parlare, le risultò completamente fuori luogo.
 
“Perché non ci beviamo qualcosa di caldo prima del prossimo aereo?” le chiese, indicando i loro cappotti umidi.
 
“Ma se il tuo aereo è già qui e sta per partire..” le disse lei, con voce confusa.
 
“Biglietto rimborsabile!” si limitò a risponderle Louis, piegando le sue labbra in un sorriso divertito.
 
“Allora perché non te lo sei fatto cambiare subito e non sei partito con gli altri?”
 
“Perché non ho mai smesso di sperare che saresti venuta a fermarmi. Non te l’avrei mai perdonato, se non fossi corsa qui oggi, lo sai?”

E forse non tutto fra di loro era stato risolto, forse non ogni cosa era stata chiarita, ma Louis lasciò cadere a terra il suo zaino per aprire le braccia. Sophie ci si fiondò dentro, senza un secondo di esitazione, con tanto impeto da farlo quasi cadere all’indietro, e nascose la sua testa nell’incavo tra il collo e la spalla.

Un tuono risuonò in lontananza, ma quando Louis rise sorpreso, accarezzandole piano i capelli e tornando a respirarne il profumo, sospirando di sollievo, Sophie seppe che il temporale là fuori non aveva niente a che fare con loro.




Buonasera a tutti! Non riesco a crederci che questo sia davvero l'ultimo capitolo!!
Penso che ormai non ci siano più tanti commenti da fare sulla storia, mi era passato per la mente di farlo finire quando Louis ne andava, lasciando Sophie lì sola nell'ingresso, ma poi mi sono sentita in colpa e allora ho aggiunto un epilogo in terza persona, che ha allungato il capitolo, ma che penso sia stato utile come conclusione imparziale della storia!!
Spero davvero che il finale sia stato all'altezza delle vostre aspettative e visto che siamo agli sgoccioli, ci tengo a ringraziare tutte le persone che hanno sempre recensito! Sono grata ovviamente anche a coloro che l'hanno messa nelle preferite e tutto, però davvero ci tengo a dire grazie a quelle persone che ogni settimana si precipitavano qui per commentare, sapendo quanto mi avrebbe resa felice! Grazie per aver letto questa storia, per averla seguita e per averla trovata interessante e non la classica storiella irreale e zuccherosa!!
Per chi vorrà, ci sentiamo presto con delle storie Larry (i miei piccoli) *-*
Per ogni cosa mi trovate su twitter! @martolinsss Grazie ancora, buone vacanze a tutti!
Marta


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