Another chance.

di LoveJulie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno. ***
Capitolo 2: *** Capitolo due. ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno. ***


Capitolo uno.
 
Quando anche quella dura giornata di lavoro finì, mi stiracchiai e tirai un respiro di sollievo. Quella giornata mi sembrò essere durata più del solito. Forse era perché, dalla mia scrivania, intravedevo i fiocchi di neve che scendevano dolcemente dal cielo grigio per poi posarsi sull’asfalto. Le fredde giornate di neve, mi mettevano solitamente di buon umore, poiché amavo la neve candida, e ancora di più mi piaceva pensare di tornare a casa, farmi una cioccolata calda e rimanere tutta la sera seduta sul divano a guardare i miei programmi preferiti in televisione.
Quel giorno però era tutto diverso. Avendo avuto una giornata piena d’impegni, il tempo sembrava essere rallentato. Il traffico londinese di solito molto intenso, era più lento e attenuato, e ovunque si respirava calma e tranquillità. Ovunque tranne che in ufficio. C’era sempre qualcuno che passava davanti al mio cubicolo, mi lasciava lavoro da portare a termine, articoli da scrivere e da rivedere.
Alle sei di sera, finalmente mi lasciarono tornare a casa. Sistemai velocemente la mia borsa,e presi dei documenti per lavorarci a casa. Mi alzai, sistemandomi la gonna che si era leggermente alzata, e dirigendomi velocemente verso l’ascensore. Attraversai a passo spedito il lungo corridoio dello studio, e raggiungo l’ascensore proprio quando le porte stavano per chiudersi. Come al solito era gremito di gente che non vedeva l’ora di tornare a casa, chi per un motivo, chi per l’altro.
Non appena attraversai le grandi porte a vetro dell’edificio, mi diressi verso la metropolitana, pronta a tornare a casa, a crogiolarmi nella mia solitudine. Vivevo da sola in un piccolo appartamento in centro.
Dopo venti minuti di metro, schiacciata tra un cinquantenne che puzzava come un capra e due ragazze adolescenti che non facevano altro che parlare di ragazzi e ridacchiare, arrivai finalmente a destinazione. Qualche metro e avrei finalmente rimesso piede in casa. Quando riaprii la porta d’ingresso, erano quasi le sette. Appoggiai la borsa sul piccolo mobiletto d’ingresso e iniziai a togliermi il cappotto. Come al solito, l’appartamento era silenzioso, se non per le macchine che sfrecciavano all’esterno. Tirai un sospiro, e arricciai il naso in uno smorfia mentre mi guardavo attorno.
Nonostante abbia da sempre voluto andare a vivere da sola, inizialmente avevo immaginato la mia vita un tantino diversa. Abitavo in questo appartamento da quasi cinque anni, cioè da quando, a ventitré anni, avevo finito l’università e avevo trovato lavoro in un importante quotidiano locale.
Non sono mai stata una ragazza che soffriva di solitudine, essendo cresciuta in una casa sempre silenziosa, con i genitori che lavoravano spesso; ma si arriva sempre ad un età in cui una ragazza desidera avere un uomo accanto, mettere su famiglia e vivere il proprio lieto fine.
 
«Io e te, Cathy, andremo a vivere insieme, un giorno.» Disse il ragazzo, carezzandole dolcemente la schiena, e schioccandole un bacio in fronte.
I due si trovavano in una piccola distesa d’erba, seduti sul prato a guardare le stelle, che stranamente quel giorno erano visibili.
«Non è quello che vuoi veramente, Brody.» Ribatté lei, ridacchiando. «Dite sempre così voi ragazzi, poi alla prima occasione scappate.»
«Be’, non so con quanti ragazzi tu sia stata, ma io sono diverso. Quante volte ti ho detto che ti amo, e che voglio passare tutta la mia vita con te?» La ragazza sorrise, in ricordo a tutti quei baci rubati, le dichiarazioni d’amore, e tutto il resto.
«Almeno un milione di volte.»
«Esatto. E non te l’ho detto così per dire, ma perché lo voglio davvero, chiaro?»
«Chiarissimo. Scusa per aver dubitato di te. E comunque, ti amo anche io, e voglio andare a vivere con te. In qualunque parte del mondo tu scelga. Che sia l’Africa Nera, la Thailandia o la foresta Amazzonica.»
 
Ripensando a quel periodo della gioventù, mi venne un groppo alla gola, quasi insostenibile. Era stupido rivangare il passato, ma mi capitava sempre. Brody. Era da un sacco di tempo che non lo vedevo. Ci eravamo persi di vista, da quando mi aveva mentito, e lasciato.
Era ridicolo ripensare a persone che nella vita ti avevano fatto del male, e invece dimenticarsi le persone che ti erano state più vicino, nella tua vita. Gli amici, per esempio. La famiglia che si sceglie di avere. Non sono mai stata una persona molto socievole ai tempi del liceo, ma, grazie all’amicizia con una ragazza gentile, avevo incontrato quello che per anni fu il mio migliore amico. Era lui che mi consolava ogni volta che l’ennesimo ragazzo mi spezzava il cuore, o prendevo un brutto voto, o ancora litigavo con i miei genitori.
Se potessi tornare indietro, sarebbe una delle cose a cui non avrei mai rinunciato. Poi c’era Justine, detta Jas. Era stata lei a farmi conoscere Zayn. Era una ragazza fuori di testa, per quando ricordavo. Ripensare a lei mi vece inevitabilmente sorridere.
Passò tutto il liceo a dire che sarebbe diventata una chiromante,e che avrebbe inventato una formula per tornare indietro nel tempo ad aggiustare gli errori commessi, per rendere il futuro - o in questo caso il presente - migliore.
Ripensare al passato mi fece venire voglia di rintracciare Jas, e magari prenderci un caffè assieme, ricordando per l’appunto il passato.
Quindi, dopo cena, presi il computer portatile, e seduta nella poltrona in pelle del soggiorno, entrai su Google e digitai sulla tastiera il suo nome, pregando di riuscire a trovarla. Ovviamente mi uscirono migliaia di risultati, e altrettante foto. Trovai una Justine che viveva in Texas e faceva il torero (in realtà me la immaginavo proprio la mia amica, fare un lavoro del genere), ma guardando la foto vidi che non assomigliava alla Jas che avevo conosciuto durante la mia adolescenza.
Dopo una mezz’oretta di ricerca, finalmente la trovai. Stando ai risultati, lavorava in un’agenzia di incontri, con sede in Evershot Street. Ero sicura che nona avrebbe mai fatto qualcosa di scontato, la mia amica.
Così la chiamai, e dopo un primo momento di confusione, mi riconobbe e  assieme decidemmo che la settimana successiva ci saremmo incontrate.
 
Il sabato successivo, dopo la mattinata passata al lavoro, a scrivere un articolo di cronaca rosa, presi la metropolitana e mi diressi verso Hyde Park. Nonostante la stagione fredda e nevosa, la metro pullulava di turisti, soprattutto giapponesi, che ridevano e scherzavano, nella loro lingua incomprensibile, e ovviamente con la voce alzata di parecchi noti rispetto al normale. Quando scesi alla mia fermata tirai un sospiro di sollievo e  mi diressi a passi spediti verso la caffetteria, stringendomi ancora di più nel caldo cappotto invernale.
Non appena entrai mi guardai attorno. Per un momento ebbi paura di non riconoscerla, ma quando notai una donna della mia età in un piccolo tavolino accanto alla finestra, capii subito che era lei. Non era cambiata di una virgola, constatai guardandola incuriosita. Aveva ancora i capelli lunghi, riccissimi e rossicci, che teneva ovviamente sciolti. Non appena la raggiunsi, si alzò e mi abbracciò teneramente.
«È da una vita che non ci vediamo, Cat!» Esclamò dopo aver sciolto l’abbraccio. Annuii e mi sedetti davanti a lei.
«Ed era da un sacco di tempo che nessuno mi chiamava in questo modo.» Ammisi, togliendo la sciarpa e appoggiandola sulle gambe. «Mi sembra quasi di tornare al liceo, a quei momenti passati assieme agli amici. Soprattutto tu e Zayn. A proposito, lo hai più sentito?» Le chiesi, con finta indifferenza e in modo casuale.
«Purtroppo no. Dopo il liceo non ho più sentito nessuno dei vecchi amici, e ora sono contenta che tu ti sia fatta sentire, Catherine. Ne abbiamo passati di momenti assieme, noi due. Anzi, noi tre.»
Le sue parole mi riportarono indietro, al tempo della mia adolescenza. Quando l’unica cosa a cui dovevi pensare era studiare e fare i compiti. Dove capitava sempre di litigare con gli amici, prendersi una cotta e fare cose sconsiderate, come ubriacarsi senza ritegno. Inevitabilmente, un sorriso si insinuò sulle mie labbra.
Anche mentre aspettavamo la nostra ordinazione, ripensammo al liceo, raccontando aneddoti divertenti.
«E ti ricordi Jas, quando volevi fare la chiromante? Ti eri messa in testa quella professione, e per un po’ d’anni nessuno era riuscito a farti cambiare idea.» Le dissi, tra un sorso di cappuccino e una risata coinvolgente.
«In realtà, io faccio la chiromante.» Ammise lei tranquilla. Io rimasi senza parole. Fu lei a riaprire bocca. «Diciamo che è un lavoro part-time. E sai un’altra cosa, Cathy? Sono riuscita a perfezionare la mia famosa formula.»
«Intendi quella per viaggiare indietro nel tempo?» Le chiesi curiosa.
«Esattamente. Non l’ho ancora testata, ma sono sicura che funzioni. Ho solamente bisogno di una “cavia”.»
Mi lasciai scappare una risata scettica. «Lo sai vero, che è impossibile viaggiare indietro nel tempo? È fantascienza. Cose del genere si vedono solo nei film.»
«Non è fantascienza, mia cara. È magia.» Ribatté, ostentando sicurezza nella voce. «E se non ci credi, perché non ci proviamo? Avevo bisogno di una persona che desidera tornare indietro e cambiare qualcosa, e credo proprio di averla trovata.» Alle sue parole seguì un mio lungo silenzio. Era ovvio che non ci credevo, ma volevo provarci. «Allora?» Chiese lei, terminando il cornetto che avevo ordinato.
«Be’, si potrebbe provare. Però se non funziona, mi offri una cena in un ristorante di lusso.» Le proposi, pensando al ristorante che aveva da poco aperto a Londra, maledettamente caro ma con una sublime cucina. Lei accettò senza esitazioni e mi strinse la mano, come per rendere il nostro patto ancora più solenne.
Così, la sera del giorno successivo, alle sette, aprii la porta alla mia amica. Indossava un turbante dorato, con un enorme pietra color smeraldo al centro e un paio di voluminosi orecchini a forma di luna. Mi trattenni dal riderle in faccia per non apparire maleducata e la feci accomodare.
«Prima di passare alla magia però, dobbiamo mangiare. È pericoloso fare qualunque cosa se non mi sono prima riempita la pancia.» Dichiarò Jas, sistemando la sua enorme tracolla sul divano.
«Non ti preoccupare, ci avevo già pensato. Ho ordinato indiano. Ti piace?» Le risposi, raggiungendola sul divano.
«Non potevo chiedere di meglio.» Ammise lei, con gli occhi chiari che le brillavano dalla felicità.
Quasi un’ora più tardi, dopo un’abbondante cena e una birra, sgomberammo il tavolino da caffè posto davanti al divano, e Jas vi posizionò una sfera di cristallo. Più passavano i minuti, più ero scettica e sicura che non avrebbe mai funzionato.
«Lo ammetto, la sfera di cristallo l’ho portata per fare scena.» Disse Jas, notando la mia espressione dubbiosa. Io risi, scuotendo la testa. Era rimasta sempre la stessa, ed era proprio questo che mi rese ancora più felice.
Dopo i vari preparativi, ci sedemmo a gambe incrociate davanti alla sfera. Jas mi ordinò anche di spegnere la luce. Immaginai che anche questo dettaglio facesse parte delle scena.
La mia amica passò i primi minuti a muovere freneticamente le mani attorno alla sfera - che nel frattempo si era addirittura illuminata - (ovviamente doveva essere una lampadina) e dicendo parole incomprensibili. Quando tentai di farmi dare una spiegazione, mi impose il silenzio.
«Dimmi, Catherine Brooks, a che età precisa vorresti tornare, e per quale motivo?» Chiede Jas, continuando a guardare la grande sfera di cristallo, e a muovere le mani.
Inizialmente rimasi spiazzata dalle sue domande, e mi ci volle un po’ per pensarci.
«Vorrei tornare ai sedici anni. Perché... vorrei che tra me e Zayn tornasse tutto come una volta. Vorrei di nuovo averlo come amico.» Dopo queste parole, chiusi gli occhi e continuai. «E vorrei non dover passare tutta la mia vita a rimpiangere il mio passato e presente.»
Jas mi guardò per un attimo negli occhi, dopodiché annuì impercettibilmente e tornò a guardare la sua sfera di cristallo. Passarono altri minuti, e se all’inizio per un attimo pensai che sarebbe potuto davvero succedere, dopo quell’attesa mi ricredetti.
Improvvisamente, tutto l’appartamento si illuminò. Ma non era una luce normale, sembrava quasi eterea, surreale. Era una luce accecante. Portai gli occhi a fessura per proteggerli dalla luce abbagliante, ma dopo un attimo iniziai a sentirmi strana. Sentivo che le forze mi abbandonavano lentamente, come se stessi per svenire. Stavo per chiedere a Jas cosa stesse succedendo, ma non ci riuscii.
Sentii la mia amica che esclamava un’ultima incomprensibile parola.
Dopodiché, il buio.  

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Capitolo 2
*** Capitolo due. ***


Capitolo due.
 
Quando riaprii gli occhi lentamente, riconobbi immediatamente il divano del mio salotto, regalatomi dai miei genitori il giorno del trasloco. Era di pelle color mogano, incredibilmente morbido e spazioso. Sembrava fosse appartenuto alla mia famiglia da generazioni ormai, e per non spezzare questa sorta di tradizione, era passato anche a me.
Prima di guardarmi attorno, aspirai l’odore di pelle del divano, che stranamente mi faceva tranquillizzare, fin da quando ero piccola.
Qualche secondo più tardi, fui trapassata dal ricordo della sera prima. Ricollegai il mal di testa e il vuoto di memoria alla birra che avevo bevuto assieme alla mia amica, anche se non mi sembrava di averne bevuta così tanta.
Era strano, perché non rammentavo assolutamente nulla della serata. I miei ricordi erano rimasti bloccati alla cena assieme a Jas. Poi, nient’altro.
Sospirai profondamente. Perché diavolo ci tenevo così tanto a tornare indietro alla mia adolescenza? La risposta mi venne spontanea.
Ciò che mi mancava di quel periodo era Zayn. E Brody, credevo.
Chiusi gli occhi un’altra volta, ed iniziai a massaggiarmi le tempie con gesti circolari, sperando di farmi passare il dolore alla testa, dopodiché mi misi lentamente seduta sul divano, senza concentrarmi su ciò che mi stava intorno.
Non appena prestai attenzione a ciò che mi circondava rimasi di sasso. Non ero in casa mia. Mi guardai attorno con gli occhi sbarrati, e la prima cosa che pensai fu che avevo davvero esagerato con l’alcool, così tanto da essere finita in casa di uno sconosciuto.
Mi alzai lentamente, continuando a osservare ciò che mi circondava. Ero finita nella casa di qualcuno che dovevo ammettere, aveva davvero un gusto orrendo in fatto di tende. Nonostante fosse tutto avvolto nella penombra, intravedevo un tavolino color legno che aveva al centro un vaso di rose gialle; ai lati di un camino rustico, vi erano due piccole librerie, contenenti moltissimi libri rilegati e qualche piatto d’epoca.
Ma ciò che davvero stonava col tutto, e che purtroppo era molto visibile, erano le tende, di una strana gradazione di cioccolato e impreziosite da ricami color oro, che parevano appena uscite da un palazzo dell’Ottocento. Mi avvicinai a esse, guardandole stranita. Mi sembravano molto familiari, ma non riuscivo a ricordare esattamente dove le avessi viste prima. Nella mente mi balenò l’idea di essere finita nella casa di qualche mio ex ragazzo, ma scacciai immediatamente quel pensiero dalla testa, più per paura che fosse la verità che per altro.
Mi ributtai sul divano, e dopo un’attenta riflessione, decisi che sarei scappata da questa casa, senza dire niente a nessuno, per evitare figuracce e situazioni imbarazzanti. Mi alzai e camminando in punta di piedi mi diressi verso la porta della stanza, passando davanti al camino. Su un piccolo ripiano posto sopra di esso, notai uno specchio riccamente intarsiato, e lanciai un veloce sguardo al mio riflesso, per poi continuare a dirigermi verso la porta. Per un attimo vidi il riflesso di una ragazzina. Mi fermai e corrucciai la fronte, poi tornai indietro ad osservarmi di nuovo.
Allo specchio rividi una ragazzina di non più di sedici anni, con lunghi capelli castani, occhi scuri e le tipiche lentiggini che mi avevano accompagnato per tutta l’infanzia e buona parte dell’adolescenza, e che ogni tanto - soprattutto durante l’estate - ricomparivano.
Quella allo specchio ero io, a sedici anni.
O. Mio. Dio. Fu la prima cosa che pensai, indietreggiai, inciampando rovinosamente sul tavolino di legno posto in mezzo alla stanza, poi urlai a pieni polmoni; un po’ per lo spavento e un po’ per il dolore che mi ero procurata al sedere nella caduta. Fui presto raggiunta da una donna di circa quarant’anni, che entrò nella stanza e mi guardò stupita. La riconobbi all’istante. Era mia madre. Assieme a lei c’era un’altra donna, che identificai subito come Camille, la sua amica francese. Stringeva una sigaretta tra l’indice e il pollice con la solita eleganza e armonia, e nel frattempo guardava la scena divertita.
Lei e mia madre erano amiche fin dalla mia nascita. Tutti i miei ricordi d’infanzia riguardanti Camille erano collegati al fumo di sigaretta al sapore di liquirizia, alle riviste di moda e soprattutto al suo marcato accento francese.
«Che cosa è successo, Catherine? Perché hai urlato?» Chiese in tono apprensivo e preoccupato mia madre.
Inizialmente non le risposi. Avevo gli occhi spalancati e continuavo a guardare davanti a me, a ricordo della mia immagine riflessa.
Poi ricordai ciò che Jas mi aveva detto la sera prima, quando ero ancora una quasi trentenne, e cioè che avrei dovuto mostrarmi il più normale possibile.
Mi girai verso mia madre, che nel frattempo si era avvicinata. «Sto benissimo, sono solamente caduta, mamma.» Le dissi in tono incerto.
«Quante volte ti ho detto che non devi chiamarmi in quel modo? E poi ti ho sempre ripetuto di stare attenta a dove metti i piedi.» Ribatté lei aiutandomi ad alzarmi e portandomi sul divano di pelle.
Lo avevo completamente rimosso, il fatto che mia madre non ha mai voluto che le dessi quell’appellativo. Diceva che andava contro ogni suo principio. Sinceramente, non capii mia di cosa stesse parlando.
«Sì scusami, è che ho battuto la testa.» Mentii, massaggiandomela per rendere il tutto più verosimile. Nel frattempo mi guardavo attorno. Era esattamente tutto come me lo ricordavo. Ecco perché le tende mi erano sembrate così familiari.
Dio, era così strano rivedere - ma soprattutto rivivere - tutto questo.
«Vuoi che ti prepari una tazza di tè caldo, oppure una tisana alle erbe?» Mi chiese mia madre, distraendomi dal corso dei miei pensieri.
Era proprio come la ricordavo, apprensiva e sempre disponibile.
«No grazie, preferisco un caffè. Ricordati di non mettere lo zucchero.»
«Ma cosa stai dicendo tesoro? Tu hai sempre odiato il caffè, non ricordi?» Esclamò la donna, guardandomi quasi inorridita.
Aveva ragione. Avevo iniziato a bere caffè solamente al college.
«Mmm, giusto.»
«È probabile che la botta alla testa le abbia causato un grave danno al cervello, Diane. Forse è meglio se la porti a fare una controllata dal medico di famiglia.» Provò a dire  Camille, mentre osservava attentamente i miei movimenti.
Mia madre la guardò preoccupata. «Sei sicura che basti andare dal medico? Non dovrei portarla al pronto soccorso?» Le chiese, lanciandomi una veloce occhiata. Ci mancava solamente questa.
Ero tornata sedicenne solamente da poco più di venti minuti e già non vedevo l’ora di andare a vivere da sola.
Mi alzai velocemente prima che mia madre potesse aggiungere altro. «Come vedete sto benissimo. Ho solamente confuso il caffè con... la cioccolata.» Le dissi, con il tono di voce più alto del normale.  
«Be’, non sono sicura che la cioccolata ti possa far sentire meglio, ma se proprio la ne hai voglia, te la preparo. Nel frattempo forse è meglio che ti sdrai un attimo.» Annuii senza andare oltre, mentre mia madre e Camille tornavano in cucina.
Rimasi qualche secondo a fissare il punto dove un attimo prima vi erano le due donne, poi seguii il consiglio di mia madre e mi misi comoda sul divano di pelle, rimuginando a ciò che stava accadendo.
Aveva funzionato, ero tornata di nuovo un’adolescente. Più ci pensavo e più mi sembrava folle. Iniziai a guardarmi le mani, meravigliata. Poi mi tirai un pizzicotto, giusto per capire se stavo sognando. Magari era colpa della birra della sera precedente. L’unica cosa che percepii però fu un leggero dolore.
Qualche minuto più tardi, mentre mi stavo ancora guardando attorno stranita da tutta quella familiarità, sentii delle voci. Alzai lo sguardo e vidi di nuovo le due donne. Mia madre si avvicinò e mi tese la tazza di cioccolata calda. Mi misi seduta sul divano e la presi tra le mani, iniziando a sorseggiarla lentamente.
Nel frattempo mia madre e Camille chiacchieravano tranquillamente, lanciandomi un’occhiata preoccupata ogni tanto. Io facevo finta di nulla.
Dopo aver finito la cioccolata, lasciai il bicchiere sul tavolino e mi alzai. Mia madre mi seguì con lo sguardo.
«Credo che andrò a farmi una doccia.» Le dissi, e senza aspettare alcuna risposta salii le scale.
Erano passati tanti anni da quando avevo messo piede in casa dei miei genitori. In questa casa.
Mi guardai attorno, alla ricerca del bagno. Ovviamente sbagliai due volte. Quando finalmente lo trovai, vi entrai chiudendo la porta a chiave e iniziai lentamente a spogliarmi. A contatto con l’acqua calda della doccia, i miei muscoli si distesero quasi per magia, e per qualche minuto non pensai a nulla.
Fu solamente quando uscii dalla doccia e indossai un morbido accappatoio, e mi diressi in camera mia, che mi ricordai tutto. Ero rinchiusa nel corpo di una sedicenne, e non sapevo nemmeno fino a quando sarei rimasta in questo stato.
Improvvisamente la mia mente si riempì di domande allarmanti. E se per caso non fossi più potuta tornare quasi trentenne? E se fossi rimasta nel corpo quasi estraneo di una me più giovane, e avessi dovuto affrontare di nuovo tutta la mia adolescenza?
In preda al panico mi sedetti sul primo scalino delle lunghe scale e chiusi un attimo gli occhi, respirando profondamente. Non dovevo andare in panico, non era il momento. Avrei dovuto fare tutte le domande a Jas, prima che mi riportasse indietro nel tempo.
Ma il motivo per cui non lo avevo fatto era perché non credevo affatto a questa storia. Peccato che mi fossi sbagliata.
Presi a massaggiarmi le tempie nervosamente.
«Tesoro, cosa ti succede?»
Mi chiese Diane, apprensiva.
«È che... non mi è ancora passato il mal di testa.» Mentii. L’unica cosa che in quel momento pensavo era che dovevo trovare il modo di parlare con Jas. Con la Jas del futuro. Forse sarei dovuta andare dalla Jas sedicenne, magari lei sapeva qualcosa, magari le due Jas avevano trovato una maniera per comunicare. In qualche modo. Presi a mangiucchiarmi le unghie e mi alzai di scatto.
«Devo andare da Jas, Diane.» Affermai dirigendomi verso camera mia. Mia madre mi seguii.
«Mi dispiace ma non vai da nessuna parte. Hai appena preso una botta che sembra averti mandato il cervello in tilt. Non ti permetterò di girare per le strade di Londra, da sola. E domani non andrai a scuola, chiaro?»
«Ma... ho bisogno di parlarle di una cosa molto urgente.»
«Be’, potresti chiamarla.» Propose lei.
«Troppo difficile da spiegare al telefono. Devo assolutamente vederla.»
«E invece te lo proibisco.»
Dovevo immaginare che mia madre sarebbe stata tanto restia a mandarmi per le strade della città, dopo quella finta botta alla testa. Dovevo escogitare un piano per arrivare da Jas, senza dover per forza dirlo a mia madre.
 
Qualche ora più tardi, mentre ero rinchiusa in camera mia a escogitare un modo per andare da Jas, sentii la porta d’ingresso aprirsi e chiudersi subito dopo. Subito pensai a mio padre, e mi salii un groppo alla gola. Nel presente - o dovrei dire futuro - mio padre se n’era andato. Si era trasferito in Scozia con la sua nuova moglie, e anche se mia madre aveva cercato di nascondere tutto il dolore, questa storia l’aveva distrutta. Non tanto perché amava mio padre; l’amore l’aveva abbandonata da tempo. Era il fatto di non avere un uomo accanto a lei che l’aveva lasciata senza fiato. Non poter contare su qualcuno nel momento del bisogno. Qualcuno che le dicesse che era donna più bella del mondo. Non aveva qualcuno a cui donare il suo amore.
Mio padre aveva lasciato un vuoto in lei. Fortunatamente Camille - da femminista convinta -  aveva aiutato mia madre a riprendersi, attraverso viaggi, soprattutto a Parigi, sigarette e anche appuntamenti al buio. “Solo per usare gli uomini”, ripeteva Camille. Ecco perché non aveva mai avuto figli.
Non vedevo mio padre da qualche tempo, e sarebbe stato strano dover fare finta di niente. La crisi tra i miei genitori era scoppiata quando io avevo poco più di vent’anni, quindi avrei dovuto fare finta di nulla. Non prendermela con mio padre come avevo fatto, ma soprattutto non accennare a nulla. Respirai profondamente e mi alzai dal letto. A piedi nudi scesi lentamente le scale, poi superai l’ingresso e mi affacciai al salotto.
Lo vidi. Era di spalle e stava abbracciando mia madre, dolcemente. Quasi senza accorgermene mi salirono le lacrime agli occhi, così decisi di tornare in camera mia. Non ero pronta per rivederlo.












Spazio autrice:

Due mesi di ritardo. Non so davvero cosa dire, è imperdonabile. Forse la cosa peggiore è che il capitolo ce l'avevo già pronto, ma per un motivo o per l'altro non l'ho mai pubblicato.
Comunque, adesso sono qua. Sono di fretta perché è tardi, e domani devo alzarmi presto per andare ad uno stupidissimo stage. Voglio le vacanze come tutti voi! Non è giusto.
Dopo una luuunga riflessione ho deciso che questa sarà una mini-long. Ci saranno dieci massimo quinidici capitoli. Non voglio allungarla all'inverosimile, anche perché per me è già difficile gestirne due assieme. Vabbè, spero che il capitolo vi sia piaciuto, e non esistate a lasciarmi i vostri pareri, a presto! :)

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