Dew

di imnotalive
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Pazza, strana Notte ***
Capitolo 3: *** Strambe Coincidenze ***
Capitolo 4: *** Tra sogno e Realtà ***
Capitolo 5: *** Lontana dalla Prigione ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO.

Perchè voglio morire?

Perché qualcuno dovrebbe desiderare di morire?

Se questa domanda me la fossi posta dieci anni fa, molto probabilmente avrei riposto: “Perché non ha niente di meglio da fare.”

Risposta superficiale. Ovvia.

Quando ti capita di riformulare la stessa domanda, usando la prima persona invece che la terza, la questione diventa differente.

 

Perché non voglio più vivere.

Semplice e naturale come la morte stessa.

E invece non è così semplice.

Un giorno ti svegli e… semplicemente speri che tutto finisca.

Giorni in cui pensi che vivere sia così pesante che se succedesse non ti dispiacerebbe.

Giorni invece in cui cerchi un secondo per restare solo e farlo; lo desideri.

Ci sono quei momenti in cui stai così male..

Quei momenti in cui ti basta così poco per farlo davvero.

Si tratta solo, beh… di farlo.

Ma poi ti manca il coraggio. O forse semplicemente la volontà.

La cosa che fa più male di tutto è restare in bilico tra il farlo..

e contemplare te stesso mentre decidi della tua vita.

Decidere cosa sarebbe meglio per te, e cosa per gli altri.

Gli altri.

 

Desiderare di morire,

commettere un suicidio,

o farsi ammazzare,

morire.

 

Il risultato non cambia.

 

Ma forse desiderarlo non basta.

 

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Capitolo 2
*** Pazza, strana Notte ***


PAZZA, STRANA NOTTE.

 

Il morbido cuscino sul quale pesante sprofondava la mia testa, mi stava cullando, trattenendomi da quel risveglio troppo violento.

La notte era sempre così bella da non poter fare a meno di viverla minuto per minuto, incurante delle lancette d’orologio che avanzavano inesorabili.

La maggior parte delle volte succedeva che arrivate ormai le cinque del mattino mi sforzavo di chiudere gli occhi e dormire. In realtà non ci impiegavo molto a prendere sonno, ma raramente succedeva prima di quell’ora.

Addormentarmi con il buio era per me qualcosa di anormale. Uno spreco. A volte pensavo di essere davvero una creatura della notte, figlia della luna. I miei scherzavano per lo più quando mi dicevano di somigliare a un vampiro, per via della carnagione chiara e il mio continuo protestare contro le luci quando era mattina, e già la luce naturale risultava fastidiosa.

Impongo loro di spegnere appena entro in qualsiasi stanza, perché gli occhi mi fanno male quando le luci sono troppo forti. Le prime volte, ricordo le loro risate, e gli sguardi; inizialmente mi fissavano attoniti, e forse solo ora hanno capito che non ho mai scherzato su questo, e che davvero la luce m’infastidisce.

Quella mattina però, era già eccessivamente tardi per lamentarmi della luce troppo forte. Quando allungai la mano per controllare l’ora sul cellulare mi accorsi che erano le due del pomeriggio: avevo dormito poco comunque. Quella notte ero stata davanti al computer e non ero riuscita a staccarmene, e se infine l’avevo fatto era solo perché arrivate ormai le sei del mattino, non volevo sentire le proteste di mio padre sulle mie pessime abitudini.

Con gli occhi semi chiusi mi accorsi, toccandomi le estremità del lobo, che un filo mi arrivava lungo sotto la pancia, partendo dall’orecchio; il mio lettore mp3 era schiacciato sotto di me. Poveretto. Solitamente ascoltare musica era il modo migliore per prendere sonno, ed Einaudi poi era un tocca sana. Adoro il modo in cui suona il pianoforte e per di più la malinconia che mi lascia quando ascolto i suoi pezzi: la stessa con cui mi metto a letto controvoglia mentre ripenso a tutto quello che vorrei fare e al mondo fantastico che ogni giorno si rannicchia nella parte più remota della mia testa e mi fa sognare ad occhi aperti.

Mi voltai a pancia in su, percependo piano tutti i soliti dolori quotidiani: le caviglie che scricchiolavano, le ginocchia sofferenti, la schiena indolenzita, le braccia addormentate e la testa… Che mal di testa!

Forse mio padre aveva ragione: quel continuo cambio di orari, dormire quando mi andava, mi stava danneggiando la salute. L’autodistruzione infondo era la cosa che mi riusciva meglio. Solitamente ci mettevo dieci minuti buoni per alzarmi, reggermi in piedi e capire il da farsi, e stranamente sembravano i dieci minuti più calmi che ricordassi. Ma quella mattina il telefono squillò pronto a ricordarmi che non si è mai bravi a tenere la bocca chiusa.

Mugugnai qualcosa prima di notare sul display il numero di cellulare di mia madre.

“Sei sveglia?”

“Adesso si.”

“Che vuol dire? Sono le due. Vedi di alzarti.”

A mia madre non piaceva vedermi poltrire, dormire anche se poi in realtà non era affatto così. Avevo giornate piene, tranne rare volte, come quella, in cui avevo il turno di pomeriggio e la mattina ero stranamente libera da impegni.

Chiusi il telefono mentre mia madre parlava ancora da sola, e ritornai a sprofondare nel cuscino. Era in quei momenti che speravo il tempo si bloccasse e venendo poi catapultata in uno dei miei mondi fantastici, si, forse un po’ macabri, ma infondo lo ero anche io.

Con forza mi alzai dal letto accorgendomi che era trascorsa una buona mezz’ora da quando avevo controllato l’ultima volta. Mi lavai e sgattaiolai fuori di casa pronta a svolgere il mio dovere. La giornata proseguì senza novità, ma d’altronde con il mio lavoro non c’era di che stupirsi. Era mezzanotte quando, stufa, uscì finalmente fuori salendo la solita rampa che porta al parcheggio, raggiungendo la mia auto. Ad un tratto un senso di inquietudine mi colpì.

 

Vi capita mai di guardare qualcosa e sentirvi terribilmente tristi, sopraffatti da un sentimento che non riuscite a decifrare?

A me succede spesso, soprattutto quando finisco di lavorare. Quando la notte e l’oscurità inghiottisce il mondo intorno a me, provo un vuoto allo stomaco: una sensazione di malinconia incolmabile. In quel momento mi sentivo esattamente così. Sollevai il capo e osservai la luna guardarmi, come se la sua luce tiepida mi abbracciasse e fosse in grado di levare via quella tristezza.

Non appena notai il mio riflesso sul finestrino con un sospiro soffocato abbassai il capo ed aprì la portiera, sedendomi come se sapessi di non poter scacciare quella sensazione. Misi in moto facendo scaldare di poco la macchina e sollevai il cappuccio sulla testa, dando un occhiata veloce all’ora e poi allo specchietto retrovisore.

Sobbalzai di colpo. Un ombra fugace aveva attraversato la parte posteriore della mia macchina. Spalancai gli occhi. In quel momento avevo poche idee chiare in testa. Con tutti i film horror che avevo visto cominciai a pensare a tutto quello che sarebbe potuto succedere. Forse un po’ melodrammatica, ma avevo paura a richiudere gli occhi e difatti non lo feci. Mi voltai verso ogni lato scrutando nel buio. Poi uscii perché solitamente non sono il tipo di persona che fugge, soprattutto perché questo genere di cose mi attira per natura. Il parcheggio era sempre quasi buio a quell’ora e capitava spesso di vedere cose che in realtà erano altro; volevo solo la conferma di ciò che pensavo.

Percorsi a piedi tutt’intorno alla mia macchina voltandomi di tanto in tanto: niente. Chissà perché avevo sperato davvero di trovare qualcosa. Quella sensazione però non andava via. Era come sentirsi alitati addosso, come se qualcuno mi stesse così vicino da percepirne la presenza, ma non vederne la consistenza.

Cominciavo ad aver paura: ero sola, e quel bosco che dista a pochi metri dal parcheggio non mi ha mai fatto gran simpatia. Fissai la fitta coltre di alberi e cespugli per qualche secondo come se ne fossi attratta. Cominciai a fare qualche passo verso il cancello guidata da quel richiamo di cui non capivo la natura, poi la caduta di un sasso dietro di me mi fece sobbalzare di nuovo, ma questa volta rischiai il collasso.

Mi voltai di scatto mantenendo il respiro e mi avvicinai al punto da dove avevo sentito provenire quel rumore. Sgranai gli occhi: la portiera della macchina era aperta e la mia borsa a terra. Il battito del mio cuore accelerava senza che potessi controllarlo e quel tum tum sembrava riecheggiasse in tutto il parcheggio.

Ero rimasta immobile a fissare la mia borsa per terra e la portiera del passeggero ancora aperta. Mi voltai nuovamente quando riuscì a muovere un muscolo ma non vedevo nulla, niente di niente. A parte me, non c’era nessuno in quel parcheggio. Feci qualche passo titubante verso la mia auto, raccogliendo la borsa e richiudendo la portiera. Tornai al mio posto sedendomi in fretta ed inserendo la retromarcia. Adesso i miei occhi erano ovunque: dallo specchietto, ai finestrini. Sul davanti, sul di dietro. Ero terrorizzata. Attesi che il cancello si aprisse, ed inserendo gli abbaglianti uscì alla velocità della luce da quel parcheggio; la sensazione che avevo provato prima però, non voleva andarsene.

Perché avevo l’impressione che qualunque cosa mi avesse fatta spaventare nel parcheggio, adesso fosse in macchina con me?

 

Non feci nemmeno cento metri, fermai la macchina ed usci di corsa. Lasciai la portiera aperta e corsi verso la prima cosa che somigliava ad una panchina: stavo uscendo fuori di testa. Respirai a fondo portandomi una mano sulla fronte mentre continuavo ad osservare quello scenario. L’aria era intrisa di umidità e c’era freddo, tanto da congelarmi le mani.

“Ma che sto facendo” mi dissi scuotendo il capo, ma una parte di me era ancora timorosa di risalire in macchina. Ad un tratto avvertì un rumore di passi, chiaro alle mie spalle; una sagoma nascosta nel buio avanzava verso di me. Deglutì. “Avanti, non puoi comportarti da codarda, questo genere di cose le attendi da una vita” parlavo da sola nella mia testa, mentre quella figura si avvicinava sempre di più, venendo piano alla luce. “Eh?” dissi vedendo un ragazzo abbastanza alto, bruno e vestito in modo strano, fermo in mezzo al piazzale, a pochi metri da me.

“Scusa non volevo spaventarti” mi disse con voce dolce.

Ritrassi la testa sconvolta; ero furiosa perché avevo sperato in qualcos’altro, ma dall’altra parte ero sollevata che insieme a me ci fosse una altra persona. Qualcuno di umano, reale. Scossi il capo.

“Lascia stare, non sei tu” dissi immaginando che adesso avrebbe pensato fossi pazza. Mi voltai subito, decisa a tornare alla mia macchina. Guardai l’ora: mezzanotte. “Era mezzanotte anche prima” pensai. Casa mia era vicinissima ma avevo perso tempo; in un modo o nell’altro sarebbe passato del tempo. Crucciai la fronte, inserendo la prima e facendo manovra.

 

Basta.

“Adesso vado a casa, mi faccio una bella doccia e questa giornata sarà dimenticata” mi dissi, mentre illuminando con i fari il piazzale vidi che nel punto in cui ero seduta prima, non c’era più quello strano ragazzo. “Però, che velocità” pensai, e senza far caso ad altro proseguii aprendo l’ennesimo cancello automatico. Tutte quelle soste mi snervavano. Finalmente riuscii ad arrivare a casa senza ulteriori pit-stop, scesi dalla macchina ancora incredula. Mentre mi avviavo alla porta cominciai a ridere come una scema; forse ero solo stanca, o magari dovevo smetterla di vedere tutti quei film dell’orrore. Mia madre me lo diceva sempre. Inserii la chiave ed entrai, accendendo istintivamente la prima luce e poi man mano che avanzavo, anche le altre: mai come quella sera adoravo l’elettricità.

Mi sentii al sicuro quando osservai il mio gatto venirmi incontro tranquillo. Sono della convinzione che se c’è qualcosa che non va i gatti sono i primi a capirlo, e lui a quanto pare non aveva visto nulla che non andasse. Ero sollevata.

Quella sera non avrei preso sonno facilmente, lo sapevo, così dopo una doccia calda e rilassante, decisi di sistemarmi sul divano come spesso capitava e di guardare la tv finché non mi sarei addormentata. Tutti i miei telefilm preferiti erano terminati. Erano le tre passate e sentii le palpebre pesanti così mi abbandonai a quello che forse si era deciso ad arrivare; il sonno tanto atteso.

 

Mi risvegliai notando le prime luci dell’alba attraversare la finestra. Il televisore era ancora acceso.

“Ahi” il mio collo. Dimenticavo sempre di mettermi in una posizione più comoda quando decidevo di passare la notte sul divano. Visto che di alzarmi non avevo voglia restai qualche secondo con gli occhi chiusi. Lo facevo spesso tentando di ricordare se durante la notte appena trascorsa aveva per caso fatto sogni interessanti. L’unica cosa che ricordavo però, era il freddo che avevo avvertito quella notte, e di nuovo quelle immagini mi tornarono alla mente. Per fortuna la luce che entrava in casa mi rassicurò subito. Era la prima volta che avevo avuto paura dell’oscurità. Sentii i passi di mia madre scendere le scale. Quando mi vide sul divano mi rimproverò come al solito, senza curarsi se fossi già sveglia o no.

“Ma non ti piace il tuo letto?” mi domandò riferendosi al fatto che erano più le volte che dormivo sul divano, che in camera mia.

“Si che mi piace. Dalle cinque in poi” risposi ricordandole che in quel momento avrei fatto il secondo round.

“Dove credi di andare?”

“Eh?” mi fermò per un braccio.

“Oggi non hai il turno di mattina?”

“Mattina?” ero frastornata.

No. Non era possibile.

“Si mattina” mi ribadì lei.

“Scusa che giorno è oggi?”

“Mi prendi in giro?” disse sbuffando.

“No, affatto. E’ sabato, vero?”

“Si, sabato. Ti piacerebbe” scosse il capo. “E’ lunedì.”

“Che cosa?” spalancai gli occhi a stento, perché ancora appiccicati. Ero convintissima che fosse sabato. Il venerdì solitamente facevo il turno di pomeriggio e per questo il sabato potevo dormire fino a tardi. Ero sicura.

Avevo avuto altri momenti simili, ma mi capitava per lo più quando dovevo andare a scuola e confondevo i giorni. Con l’orario di quel periodo non era possibile confondersi, e io non ricordavo di aver fatto quello che faccio solitamente il sabato o la domenica. Se davvero era lunedì dovevo ricordarmene.

In più se quel giorno avevo il turno di mattina, sarebbe stata dura andare a lavoro con due ore di sonno. Restai impalata al centro della stanza ancora interdetta. Mi ripresi solo sentendo mio padre sopraggiungermi alle spalle; lo sentii ridacchiare. “Mi state prendendo in giro, vero?”

Vidi mia madre scoppiare a ridere: me l’avevano fatta.

Ci mancava anche che avessi perso la cognizione del tempo, dopo quello che avevo passato la sera prima: strane visioni, perdita della memoria… Si ci voleva proprio. Andai in contro a mia madre dandole qualche colpetto sulla spalla per colpevolizzarla di farmi sempre venire paure assurde.

“Ho già avuto il mio piccolo infarto ieri sera” mi lasciai sfuggire, forse anche perché non sarei riuscita a tenere quel segreto a lungo, realtà o immaginazione che fosse.

“Che infarto?” domandò lei curiosa.

“Mentre tornavo a casa, ho visto cose” ero vaga. Sapevo che a mia madre quel genere si storielle non piacevano. Spesso quando trovava i miei libri di magia bianca nella borsa restava zitta finché non me ne uscivo con storie assurde e lei era pronta a dirmi che mi costruivo fantasie a causa di quei libri. Era anche per questo che i santini appesi sul muro della mia camera aumentavano di giorno in giorno.

“Cose, come?”

Notai mio padre scuotere il capo. Lui era tutto tranne che credulone.

“Ero in macchina e ho visto un ombra tutto qua.”

Mia madre aveva finito di preparare la colazione, così spinta anche dal buco che avevo nello stomaco, mi sedetti al tavolo per una tazza di latte e caffè.

“Tipo di un albero che si muove per via del vento?” ipotizzò lei.

“No. Tipo quella di una persona che ti passa davanti.” Mio padre alzò di scatto la testa fissandomi cupo. “Solo che è passato dietro. L’ho intravisto dallo specchietto” abbassai lo sguardo versando il latte nella tazza. Non ero più terrorizzata, anzi, ero affascinata.

“Sono cose che si vedono, la sera quando le ombre ci ingannano.”

Osservai mia madre per un istante, compiaciuta per quello che aveva detto. Ma io ero pronta a darle la mazzata finale.

“Sono uscita, per vedere cos’era” continuai tranquilla, versando il caffé e notando l’espressione poco sorpresa di lei. “E mentre mi guardavo intorno ho sentito un rumore.”

Entrambi si voltarono verso di me di scatto, io avevo ancora la testa bassa. Il ricordo di quella scena in quel momento mi stava pietrificando.

“Un gatto?” ipotizzò mio padre.

“No” dissi secca.

“Un cane allora?” esordì mia madre.

“No” risposi ancora lasciando che la loro curiosità li portasse a chiedermi altro.

“Allora?”

“La portiera della macchina, quella del passeggero però…” esitai qualche istante. “Era spalancata e per terra c’era la mia borsa.”

Avevo detto quella frase con tanta naturalezza da destare sospetti in loro. Sicuramente non mi credevano e i loro sorrisi ne furono la conferma.

“E’ vero!” protestai io cominciando a bere il latte bollente. “Non me lo sto inventando.”

“Non è che l’hai sognato?” Ecco mia madre. Nonostante lei credesse a questo genere di stranezze, quando si trattava di me diventava improvvisamente “scientifica”.

“Non l’ho sognato. Almeno non credo” mi stavano facendo venire i dubbi. No. Ne ero certa.

Presi la borsa portando sotto gli occhi di lei il mio ombretto. La scatola in plastica era piena di polverina.

“Guarda. Si è rotto cadendo” dissi rimettendolo in borsa.

La sera prima mi ero accorta che l’ombretto si era frantumato ma non ci avevo dato peso, per quanto mi dispiacesse. Volevo solo fuggire da quel posto. Me ne ricordai ancora.

“Sarà” mormorò mio padre.

Non mi avrebbero mai creduto, tanto valeva finirla là.

“Oggi mi serve la macchina, per favore puoi lasciarmela?” chiesi cambiando intenzionalmente argomento. Avevo finito la mia tazza di latte.

“A me non serve” disse lei scuotendo il capo.

“Ok. Io vado. Il secondo round ricordi?” mi trascinai alle scale salendole come se non avessi più la facoltà di camminare.

 

In quell’istante mi domandai se avrei avuto modo di riprendere sonno. Probabilmente la caffeina in circolo non mi avrebbe aiutata.

Mentre mi sistemavo a letto continuavo a pensare a quella strana vicenda. Avevo per tanti anni sperato che qualcosa del genere mi capitasse. Ero affascinata, e le cose strane erano il mio pane quotidiano. Sorrisi perché forse era stato davvero un sogno, o magari la mia immaginazione. Forse mi era caduta la borsa dalla macchina e avevo solo sognato quell’episodio. La mente fa brutti scherzi a volte. Mi ritrovai ad essere più razionale di quanto credessi di essere. Chiusi gli occhi coprendomi il viso con le coperte. In quel momento non mi interessava. Volevo solo abbandonarmi al mondo dei sogni.

Il mio mondo preferito.

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Capitolo 3
*** Strambe Coincidenze ***


Era passata già una settimana da quando avevo avuto quella strana esperienza, e io non facevo che pensarci. Ovviamente ogni qual volta uscendo da lavoro mi ritrovavo sola nel parcheggio, i miei occhi erano dappertutto. Le mie orecchie sempre all’erta ad ogni minimo rumore, reale o inventato che fosse.

Non ero più tranquilla mentre salivo la solita rampa, e non lo ero quando evitavo di guardare lo specchietto, almeno finché potevo farlo.

Ma i giorni erano passati veloci ed io non avevo più visto nulla nonostante l’avessi sperato. Mi ero spaventata a morte quella volta..è vero, ma l’idea che finalmente ero a un passo da quello che avevo sempre cercato, mi eccitava. Dentro di me quel contrasto di emozioni mi faceva sentire viva, e allo stesso tempo mi spaventava.

Nella settimana successiva mi svegliavo ogni mattina con la speranza che arrivasse subito sera, per poter notare qualche piccolo segnale, avviso. Qualsiasi cosa.

Ma la delusione di non aver più visto né sentito niente mi trascinò di nuovo in quel lembo i cui muri grigi mi stavano nuovamente schiacciando senza darmi una via d’uscita. Mi ero illusa ancora una volta.

Una sera tornavo a casa accompagnata da una mia amica. Era da tanto che non uscivo e mi non svagavo un po’.

Solitamente preferivo fare altro piuttosto che girare in macchina a ridere come ebeti, o discutere di quanto la vita fosse noiosa e via dicendo. Se ero uscita quella volta, era stato dopo che la mia amica Ellis, quasi mi aveva pregato di farlo, ma soprattutto perché non avrei sopportato di sentirmi paranoie anche da lei.

 

Non ho mai capito perché la gente ti reputi una suora solo perché per un determinato periodo della tua vita decidi di rinchiuderti in casa, incurante di tutto e tutti: del telefono che squilla, delle amicizie che si perdono.

E così strano restare a casa a fissare il muro, o a fare quelle piccole cose che ti rendono quasi “felice”?

Eppure lei, nonostante mi conoscesse da molti anni, era una di quelle che appena non mi sentiva per un po’ di tempo, pensava subito che stessi vivendo un periodo negativo.

La verità era che la mia vita era sempre fatta di periodi negativi, ma c’erano giornate, o settimane, in cui non riuscivo a “fingere” e quando questo succedeva erano tutti pronti a farsi i fatti miei. Ma lei questa verità, non poteva saperla, e mai mi aveva sfiorato l’idea di dirgliela.



Quella sera, lo ricordo bene, fissavo sempre l’orologio sperando che prima o poi lei mi dicesse “Ti accompagno.”

Non so per quale motivo desiderassi ciò, non era strettamente collegato alla sua presenza, ma il continuo vagare mi aveva annoiato, come qualsiasi altra cosa avevamo fatto quella sera. Vedendo che lei non accennava a dirmi nulla decisi di farlo io, trovando una scusa più o meno plausibile. In seguito alla mia richiesta, aveva capito che volevo tornare a casa perché stanca, e non mi aveva chiesto nulla, guidando fino al cancello automatico, vicino al quale fermò l’auto e mi salutò.

Ero scesa dalla macchina poggiando distrattamente il piede per terra, avvertendo subito uno scricchiolio sotto di esso. Mi abbassai per vedere meglio cosa avessi calpestato e mi sorpresi di notare che non fosse un oggetto a me nuovo.

“Ecco dove era finita”

“Cosa?”

“Questa” dissi mostrando l’oggetto metallico. Era una mia collanina che avevo perso molto tempo prima.

“L’hai persa adesso?”

“No, no. Non la trovavo più, pensavo di averla smarrita e infatti eccola qua. Ma è stato davvero tanto tempo fa.”

“Be, sei fortunata.”

La mia amica mi sorrise, ma io restai immobile mentre cominciavo a notare che quell’oggetto tra le mie mani era praticamente nuovo.

“Sai è strano…”

“Che cosa?”

“Vedi..” mi poggiai nuovamente sul sedile dell’auto ancora accesa, portandole la collanina sotto i suoi occhi. “E’ nuova, non si è danneggiata”

“Già è vero. Da quanto è che l’hai persa?”

“Credo molti mesi fa..”

La piastrina di Jack, a cui era inserito il filo di acciaio non era nemmeno graffiata.

“Magari è stata fortunata e nessuno l’ha calpestata.” mi disse facendo spallucce.

Gliela la detti buona ma mentre osservavo e scrutavo il mio oggetto smarrito i dubbi non accennavano a svanire. Dopo qualche istante me la infilai al collo dopo averla pulita alla meglio, e non ci pensai più. L’avevo ritrovata, ero stata fortunata ed ero felice. In che condizioni, non importava.

 

Uscii di nuovo dalla macchina tranquilla intenta solo a proseguire a piedi l’ultimo pezzo di strada che portava a casa mia; sentii il rumore del motore dell’auto farsi sempre più lontano e ormai l’unico suono che raggiungeva le mie orecchie, proveniva dai miei passi. Faceva freddo di nuovo, eppure quel giorno era stato particolarmente caldo; ma solitamente dalle mie parti la sera, con l’umidità, le temperature si abbassavano di molto.

Mi strinsi nel mio piumino e sollevai il cappuccio.

“O dio!”

Sobbalzai quando vidi una figura nascosta nell’ombra immobile davanti a me. Non ne ero certa, ma avevo l’impressione fosse lo stesso ragazzo incontrato una settimana prima, in quella strana notte.

Quando facendo un passo in avanti la luce di un lampione lo illuminò ne ebbi la certezza. Era lui.

Non potei fare a meno di notare i suoi occhi nerissimi, e i capelli dello stesso colore, che confusi gli cadevano sulla fronte. Restai in silenzio di fronte a lui, a qualche metro di distanza. Aveva il viso pallido, ma non era magro. Normale, notai.

 

Avrei voluto continuare a camminare, senza fare caso a lui, ma ero assorta nei miei pensieri; lo esaminavo e pensavo che ci fosse qualcosa di strano nella sua figura, qualcosa di “sinistro”, quando ad un tratto lo intravidi sorridere.

Sgranai gli occhi. “Oddio che vuole?” cominciai a preoccuparmi.

Mia madre mi aveva avvertita di non girarmene di notte da sola e a piedi; adesso rimpiangevo di non averla ascoltata.

“Bella collana” mi disse mentre fissava in direzione del mio sterno.

 

Quella voce. Mi dette i brividi.

L’osservai mentre faceva qualche passo verso di me, invece io pietrificata non mi ero mossa per niente. Pensai che se fosse stato un ragazzo con cattive intenzioni era meglio non dargli confidenza.

Non so cosa mi spinse a farlo, ma la mia mente cominciò ad escogitare ai vari modi per fuggire di là, mentre continuavo ad osservarlo venirmi incontro. Potevo correre, ma dovevo oltrepassarlo visto che la direzione da prendere era proprio la sua; quindi in questo caso lui mi avrebbe bloccata con facilità. Oppure potevo prima dargli un bel calcio nelle parti basse per distrarlo e poi fuggire. Si forse la seconda ipotesi era la migliore, e poi mi era sempre piaciuta l’idea di picchiare qualcuno alla Jackie Chan.

Ma mentre ipotizzavo lui era già a qualche centimetro da me. Una sensazione di disagio mi attraversò lo stomaco, ma non ne capivo il motivo; sapevo solo di non voler fuggire più.

“Abiti da queste parti?”

La paura che mi potesse fare del male svanì nel momento in cui lo vidi abbozzare un altro sorriso. Era così dolce. Dopo qualche istante annuii continuando a fissare il suo sguardo intenso.

“E tu abiti qua vicino?” la mia bocca si aprì da sola.

“No, veramente non sono di queste parti.”

“Ah.”

Feci una smorfia di delusione.

Restammo fermi senza dire nulla per qualche secondo; lui continuava ad osservarmi e io iniziai a sentire un leggero imbarazzo. Non mi piaceva quando qualcuno mi fissava.

“Scusa”

“Eh?”

“Stavi tornando a casa, vero?”

Ero stordita e ammutolita e non ne capivo il motivo.

Volevo andare via, ma non lo facevo.

“Si, infatti” risposi come se mi avesse risvegliato da un incantesimo.

“Allora sarà meglio che vai, non credi?” continuò infilando le mani in tasca e stringendosi nelle spalle, facendosi poi da parte.

Prima l’avevo visto sorridere, adesso invece l’espressione del suo viso sembrava così triste. Abbozzai un sorriso amaro senza che realmente l’avessi voluto; lo feci e basta.

Nel momento in cui l’oltrepassai sentii d’improvviso il mio braccio bloccato in una morsa di gelo. Staccai la presa all'istante facendo alcuni passi indietro.

Che diamine stai facendo? Avrei voluto dirgli. Invece restai lì in attesa di una qualche spiegazione. E lui non esitò a darmela.

“Ti stavo cercando.”

Sgranai gli occhi. “Cosa?” Notai gli angoli delle sue labbra cambiare posizione. Aveva sorriso? Non potei capirlo visto che aveva il viso rivolto verso il basso.

Era criptico, faceva anche paura, ma nonostante ciò, non facevo un passo per fuggire il più lontano possibile da lui.

“Perché?”

Lui sollevò il capo come se non si aspettasse quella domanda.

Forse in quel momento l’idea di fuggire senza guardarmi indietro dovevo prenderla in considerazione. In realtà più l’osservavo e più cominciavo a notare in lui alcune cose che mi piacevano. Il suo modo di muoversi. Il modo in cui deviava lo sguardo per evitare il mio.

“Volevo..” Si bloccò.

Mossi di poco la testa per incitarlo a finire la frase. Ma lui non disse nient’altro. Si avvicinò piano a me allungando una mano. Io lo seguivo ammaliata con lo sguardo, abbassando il capo mentre lui prendeva la mia collana tra le mani. Mani affusolate e lisce. Non sembravano le mani di un ragazzo.

“Bella collana.” Mi disse di nuovo, mentre io con la testa bassa osservavo le sue dita scivolare via da quella piastrina metallica senza fare nemmeno in tempo a sollevare il capo, per accorgermi che era praticamente svanito.

Non c’era più.

Un attimo prima era davanti a me, un attimo dopo niente.

Mi voltai per cercarlo, mentre sbalordita e con il fiato sospeso sentivo la testa girarmi. Mentre venivo colpita da un forte senso di nausea continuavo a guardarmi intorno senza però risultato: nel raggio di molti metri non c’era nemmeno un un’anima viva; lui non c’era..

In quell’istante non vidi più niente.

Solo buio e un dolore fortissimo alla nuca.

 

*Jack - The Nightmare Before Christmas

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Capitolo 4
*** Tra sogno e Realtà ***


TRA SOGNO E REALTA’

 

Eravamo sdraiati sull’erba tiepida, il sole ci colpiva il viso ma non era accecante. Io avevo chiuso gli occhi per godere a pieno di quel momento. Sentii le sue dita calde sfiorare le mie, fino ad toccarmi il palmo della mano. Con quel gesto mi venne naturale stringere la sua mano nella mia, senza poi muovere un muscolo, restando in silenzio per interminabili ore ad ascoltare il vento. Mi sentivo sospesa ed era come se il tempo non avesse importanza.

Poi sentii il fruscio dell’erba scricchiolare accanto a me, mi voltai aprendo gli occhi lentamente e me lo ritrovai a qualche centimetro dal mio viso.

“Ciao.” Mi disse mentre gli angoli delle sue labbra si allungavano verso l’alto delle guance. Io sorrisi solamente.

Aveva portato una mano sotto la testa sollevandosi e sistemandosi sul fianco. Ero inebetita e non riuscivo a fare altro se non osservarlo mentre mi accarezzava i capelli in silenzio, mentre lui fissava me, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Il sole era ancora alto in cielo e il vento caldo non smetteva di parlarci.

“Sono morta?” chiesi d’improvviso.

Lo vidi ridere come se avessi detto chissà quale stupidaggine.

“No, non sei morta.”

“Peccato.” Risposi amareggiata.

“Vorresti?”

“Se la morte fosse così..”

Lasciai la frase in sospeso di proposito. Lui aveva smesso di accarezzarmi i capelli e mi scrutava in viso. Attendeva che continuassi ma non lo feci. Scossi il capo.

“Niente”

“Sei sempre così enigmatica?”

Ci pensai un secondo, spostando lo sguardo su un fiore che riuscivo a intravedere ai miei piedi. Era rosso. Solo, in mezzo all’erba verde.

“Non sempre.”

“Però sei strana.”

Riportai in un istante lo sguardo su di lui.

“Se è per questo siamo in due” esclamai.

“Tu sei più strana. Anche un po’ pazza.”

“Enigmatica, strana, pazza. Quanti complimenti.”

“E anche permalosa.”

“Si parecchio.”

“E comunque a te non piacciono i complimenti”

“Vero. Però se un complimento è sopportabile posso anche farmelo piacere.”

“I miei non erano sopportabili?”

“I tuoi non erano complimenti.”

“In quale mondo? Perché se parli di quello terreno, probabile. Nel tuo sarebbero complimenti.”

“Dettagli..”

Sbuffai mentre sul suo volto notai un espressione compiaciuta.

La sensazione che provavo nello stare con lui era un misto tra disagio e leggerezza. Come se quella non fosse la prima volta che stessimo così vicini; allo stesso tempo però sembravamo due estranei che si conoscono la prima volta.

 

“Da quanto siamo qui?” chiesi, notando che nonostante fosse passato molto tempo, il sole era sempre fermo allo stesso punto.

“Un po’”

“Non sembra sia tardi però, possiamo restare ancora vero?”

Non ne sapevo il motivo, ma in quell’istante era come se lui avesse tutte le risposte e io non riuscivo a smettere di domandargli tutto quello che mi passava per la testa.

“Il sole non sarà alto per sempre”

Mi voltai verso di lui mentre assorto in chissà quali pensieri aveva ricominciato ad accarezzarmi i capelli.

“E’ triste vero?” riprese senza posare gli occhi su di me.

“Che cosa?” Avevo avuto timore a domandarglielo.

“Il fatto che il sole deve morire ogni giorno” continuò con un tono di voce malinconico.

“Ma lui può anche rinascere ogni giorno”

“Si, per questo è triste. Perché deve morire e rinascere, come un ciclo che non ha mai fine.”

“Se noi potessimo morire ogni giorno..e rinascere quello dopo..” feci una pausa notandolo mentre i suoi occhi si dirigevano sui miei “forse non desidereremmo la morte, quella definitiva intendo.”

“Magari non esisterebbe quella definitiva.”

“Oppure saremmo tutti pazzi. Io non vorrei morire ogni giorno.”

“Una volta basta e avanza?”

“Si.” Dissi con un filo di voce.

Lasciò scivolare il suo braccio sotto la testa, sdraiandosi completamente sul fianco. Voltai il capo verso di lui, accorgendomi subito, di quanto fosse vicino; il mio naso a sfiorare il suo, le sue pupille aiutate dall’ombra, erano diventate nere, e grandi.

“Quindi…” ripresi continuando a fissarlo mentre il suo respiro entrava leggero nelle mie narici. “Non sono morta.”

I suoi occhi cambiarono improvvisamente espressione. Lo vidi scostare lo sguardo oltre il mio corpo sdraiato accanto al suo.

“Tu non puoi morire” Mi bisbigliò mentre osservavo il movimento delle sue labbra rallentare.

Ad un tratto cominciai ad avvertire una forza sotto di me che mi abbracciava e mi trascinava, come se stessi venendo risucchiata verso il basso.

Percepii un dolore fortissimo che partendo dal collo arrivò a colpirmi le tempie. Sentivo la testa battere sempre più forte, mentre il mio corpo perdeva quella leggerezza di prima e diventava sempre più pesante, come piombo. Un rumore assordante mi perforò i timpani, poi cominciai a sentire chiara una voce lontana pronunciare il mio nome più volte.

“Halie..Halie”

Il buio mi percorse violento, attraverso gli occhi che aprii con forza. Vidi un’ombra sbiadita che mi sorreggeva mentre sentivo un fastidio sulle guance. Qualcuno mi stava schiaffeggiando, immaginai.

Portai le braccia vicino al mio corpo tentando di sorreggermi finché piano non iniziai a mettere a fuoco quello che avevo intorno.

Mi sollevai percependo le gambe molli; ma mi sentivo sorretta e non avevo ancora capito da chi. Poi la vidi. La mia amica, era bianca. Riuscii solo a notare quanto fosse pallida. Mi aggrappai a lei accorgendomi di non riuscire a stare in piedi.

“Grazie al cielo.” La sentii dire mentre le sue braccia mi stringevano forte la vita.

“Dove sono?”

“Ce la fai a camminare?” mi domandò ignorando quello che le avevo chiesto.

“Si.” Le risposi facendo un passo verso dietro, allontanandomi da lei.

“Dove sono?” chiesi ancora guardandomi intorno, e notando che la forma di ogni cosa, edificio o lampione che fosse, era ammorbidita e sfuocata.

Sentivo la nuca bruciare. Portai una mano sui capelli umidi e quando la riportai sotto gli occhi era sporca di sangue.

“Hai preso una bella botta.” Esclamò sempre più preoccupata.

Io non risposi.

“Andiamo, tuo padre ti porterà al pronto soccorso.”

“Sto bene.” Le dissi come se quelle macchie di sangue non mi toccassero minimamente. “Che è successo?”

“Non lo so. Sono tornata indietro perché avevi dimenticato la borsa in macchina” mi disse con tono agitato. “E ti ho trovata stesa per terra”

Scossi il capo. Mi voltai notando la strada deserta. Ero disorientata.

“Dov’è lui?”

“Lui chi?”

Mi bloccai subito, mentre riaffioravano nella mia mente immagini sconnesse. Ti stavo cercando. Bella collana.

“Non c’era nessuno quando mi hai vista per terra?”

“Halie, eri al buio ma non c’era nessuno. Mi è preso un colpo quando ho visto il tuo corpo steso sull’asfalto. Doveva esserci qualcuno?”

“Non lo so. Non ricordo niente.”

Mentivo. Ricordavo lui, ma qualcosa mi diceva che era meglio se rimanesse un segreto.

La fitta alla testa stava piano piano scemando e noi eravamo arrivate a casa. Immaginavo già la faccia di mia madre. Che cosa avrei dovuto dirle? Non sapevo nemmeno io quello che era successo.

“Vai pure Ellis..e grazie.” la rassicurai prima di attraversare l’uscio.

“Sta attenta a non svenire di nuovo”.

Richiusi la porta e mi voltai notando che era tutto buio. Guardai l’ora sull’orologio appeso al muro. Erano le due. I miei erano a letto da un po’.

Pensai di non svegliarli; a quell’ora della notte avrei solo creato scompiglio e la testa mi doleva ancora per sopportare urla e agitazione.

Andai subito in bagno. Ero così confusa che se non avessi visto con i miei occhi la ferita sulla testa non avrei creduto a quello che mi era capitato.

Mi lavai le mani e presi del ghiaccio premendolo piano sulla nuca. Faceva male, ma sapevo di avere la testa dura. Da piccola ne avevo prese di botte in testa. Dopo qualche minuto il sangue non usciva più, me ne accorsi quando levando  via il giaccio notai chiaramente, attraverso lo specchio, un piccolo buco sul lato sinistro della testa. Ancora non riuscivo a capacitarmi del motivo per cui non ricordavo assolutamente niente di quello che mi era successo. Non capivo cosa voleva quel ragazzo, chi fosse, e perché la sensazione di conoscerlo non mi aveva abbandonata per tutto il tempo.

Il dolore tornò improvvisamente così decisi di andare a letto sperando che dormendoci su forse sarebbe svanito.

Quando mi infilai sotto le coperte, al buio, avvertii subito una sensazione di relax. Stetti qualche istante ferma, a pancia in su, mentre già il mio cervello stava elaborando immagini confuse.

Quel volto a me familiare, quegli occhi neri.

Mi girai sul fianco cosciente di dovermi mettere l’anima in pace; chissà quando avrei preso sonno. Ero troppo agitata. Deglutii mentre affiorava in me una strana sensazione che benché sapessi cosa fosse, non riuscivo a capacitarmene. Capivo solo che quel ragazzo era il colpevole di tutto.

Cominciavo a ragionare su quello strano ragazzo, notando piano alcune stranezze che non potevano non saltarmi all’occhio.

L’avevo visto la stessa sera di una settimana prima, quando ebbi quelle “visioni”, ed era solo appostato nel buio. Non l’avevo notato prima.

Avevo poi ritrovato magicamente la mia collanina, e dopo pochi minuti sempre magicamente era ricomparso lui. Mi dice che mi stava cercando, e io svengo. Era tutto troppo strano. E per strano intendevo “misterioso”.

Non sapevo se quello che mi era successo nell’ultim’ora era tutto un sogno oppure ci fosse qualcosa di vero. Ero di nuovo piombata in quello stato di confusione che avevo dimenticato da giorni ormai. Perché quel ragazzo mi cercava. E chi era? Passai un’ora abbondante a girarmi e rigirarmi pensierosa, facendomi mille domande, prima di avvertire gli occhi pesanti e di addormentarmi del tutto.

 

Un urlo assordante mi fece sobbalzare dal materasso.

“Mio dio che è successo?”

“Ma che stai urlando?” esclamai infuriata vedendo mia madre ai piedi del letto con una faccia sconvolta.

“E’ sporco di sangue! Il cuscino!” si avvicinò a me timorosa.

“Si lo so.” Avrei dovuto mettere un asciugamano.

“Lo sai?” Si bloccò interdetta.

“Si. Ma che ora è? Mi sono addormentata da poco.”

“Che cosa è successo? Halie rispondimi.”

“Ieri sera sono caduta.”

Richiusi gli occhi incurante di mia madre, del sangue sul cuscino e del sole che era entrato prepotente nella stanza.

Ad un tratto la sentii urlare il nome di mio padre.

“Sto bene” Dissi sperando che la smettesse di dimenarsi in quel modo.

“Bene?” sentii la testa sollevarsi.

“Mi dici come se niente fosse che sei caduta, i tuoi capelli sono sporchi di sangue e mi dici che stai bene?”

“Si.”

Non so da dove mi fosse uscita tutta quella tranquillità ma volevo solo restare a dormire altre quattro o cinque ore. Ma qualcosa mi diceva che non sarebbe stato così quando vidi mio padre sopraggiungere in camera. Addio letargo.

“Si può sapere che succ- Halie, che cosè?”

“Dice di essere caduta. Lo vedi è sangue! Quando volevi dircelo?”

“Ieri sera non sembrava così grave.”

“Ieri sera?” chiese mio padre mentre si avvicinava a sollevarmi piano la testa. Mi feci leva sui gomiti lasciando che lui, prendendomi il capo tra le mani, ne faceva quello che voleva.

Mio padre era un infermiere e quando qualcuno di noi si faceva male solitamente era lui che ci medicava, se poteva farlo ovviamente. Avevo visto l’ospedale solo perché ci giocavo quando d’estate, non andando a scuola, passavo del tempo a bazzicare nei corridoi mentre mio padre entrava qua e là, parlando con la gente, facendo esami e via dicendo.

“E’ un bel buco. Ma come è successo?”

“Credo di essere svenuta. Ho battuto la testa.”

“Svenuta?”

“Si.”
“Non sei mai svenuta. E’ strano.”

“Forse ero stanca.” Dissi cercando di coprire qualcosa che non sapevo nemmeno io. “Comunque ho messo del ghiaccio ieri sera.”

“Non è grave, ma bisogna medicarti, te lo chiuderò con la colla.”

Mio padre è una persona molto pacata, non si fa prendere la mano; o forse semplicemente a certe cose ci era abituato. Ne aveva visti di cadaveri. Però se c’era mia madre a dargli l’incentivo con alle sue paranoie, spesso capitava che lui cambiasse completamente, solo per farle da portavoce. Per accontentarla insomma.

“Tu mangi poco, non ti nutri come tutti gli esseri umani, per forza svieni. E poi fai troppe cose.”  Sentivo mia madre lamentarsi mentre io camminavo davanti e mio padre mi seguiva subito dopo.

“Ti stressi. E svieni.”

Sentivo la sua voce affannata.

“Hai degli orari assurdi. Ti ritiri tardi, non dormi nel tuo letto..”

“Mamma.” Mi lamentai per farla tacere. “Ho già mal di testa non ti ci mettere anche tu.”

Era sempre così quando stavo male doveva uscirsene con tutto quello che di negativo c’era in me per sbattermelo senza problemi. E se non c’è n’era abbastanza, ingigantiva anche quel poco di positivo che avevo.

 

Quando mio padre finì di mettermi la colla mi accorsi di avere i capelli appiccicosi e attaccati gli uni con gli altri. Feci un espressione indescrivibile perché l’osservai ridere di me, ovvio. Sapeva quanto odiavo i capelli sporchi.

“Non puoi lavarli”

“Ma come?”

“Eh aspetta almeno un giorno, finché la colla ti chiuda la ferita.”

Ancora imbronciata e sotto gli occhi minacciosi di mio padre, cercai un asciugamano, lo bagnai e tentai di pulirmi almeno quello che c’era attorno alla ferita ben attenta a non riaprirla. Il risultato non era stato il massimo ma dovevo accontentarmi.

Osservai il mio riflesso nello specchio e mentre facevo ciò mi parve di notare un ombra nell’angolo tra la doccia e la porta. Mi voltai di scatto sentendo subito un dolore alla tempia, dimenticandomi che la testa era ancora “suscettibile” ai movimenti affrettati.

“Ahi” mi fuoriuscii senza rendermene conto.

“Che c’è? Ti fa male?”

“Ma che fai mi spii?”

Era mia madre, sull’uscio della porta del bagno.

“Mi assicuro che non svieni di nuovo.”

Roteai gli occhi. Era opprimente certe volte. Va bene preoccuparsi ma lei esagerava. Notai mio padre tirarla per un braccio contro la sua volontà.

“Senti.”

“Si?”

Con lui avevo sempre avuto un bel rapporto. Poche parole, ma buone. Difficilmente avevo litigato. No. Pensandoci sopra, non era mai successo.

“Il fatto che sia uscito del sangue è buono.” Parlava a bassa voce, anche lui conosceva l’ansia di mia madre. “Ma forse un controllo dovremmo farlo. Se si fossero formati degli ematomi interni, non lo potremmo sapere, tranne che con dei raggi.”

Io annui. Aveva ragione. Infondo la botta l’avevo presa, e poi non volevo morire prima di aver scoperto chi c’era nel bagno con me. Appena vidi mio padre voltarsi, chiusi la porta restando immobile con le spalle contro di essa.

Non volevo essere paranoica. Si avevo preso un colpo in testa ma in quella stanza c’era qualcuno, e a differenza di quello che immaginavo, non ne ero spaventata.

Ormai non facevo più caso alle stranezze che mi capitavano. Feci titubante qualche passo in avanti cominciando a scrutare ogni angolo di quella stanza. Mi abbassai persino cercando sotto un mobile, perché a quel punto poteva essere di tutto. Quando mi sollevai mi prese un colpo vedendolo attraverso lo specchio. Era dietro di me.

“Che..che” mi voltai balbettando qualcosa. Non poteva essere vero. Un brivido freddo mi aveva bloccata e non riuscivo a muovermi.

“Ciao” mi disse, con la stessa voce calda e tranquilla che avevo notato la sera prima.

“Mi spiace per la testa.”

Avevo gli occhi spalancati mentre l’osservavo avvicinarsi a me.

“Sei proprio qui? In bagno.. Come sei entrato?”

“E’ ora che tu veda una cosa”

Vidi il suo braccio sottile allungarsi verso di me e non so per quale ragione e spinta da cosa, ma ricordo solo di aver afferrato la sua mano, sentendo subito un gelo improvviso attraversarmi le ossa. Ero così attratta da lui, da quello che mi ispirava la sua voce da non accorgermi di stare facendo dei passi attraverso il suo corpo; o qualsiasi cosa fosse, accorgendomi poi di essere stata inghiottita di nuovo.

Era buio pesto. Non vedevo nulla, ma riuscivo a sentire ancora la mia mano stretta nella sua.

In quell’istante pensai solo se non stessi ancora in bilico tra sogno e realtà.

 

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Capitolo 5
*** Lontana dalla Prigione ***


LONTANA DALLA PRIGIONE

 

Due anni prima.

 

Certe volte mi è capitato di domandarmi a che scopo viviamo.

Per fare soldi?

Viviamo per trovare l’anima gemella, sposarci e avere figli?

 

Non ha senso. Mi sembra tutto così inutile.

Vedi la tua vita scorrere come un film in cassetta, e quando il nastro arriva poi alla fine, si riavvolge da solo e riparte dall’inizio.

Non so quante volte il mio nastro si sia riavvolto, so soltanto che sono stufa di vedere sempre la stessa cassetta.

A volte penso di essere debole a tal punto da non avere la forza di sopportarlo; e a volte mi ritengo più forte di quello che avrei immaginato.

E’ sempre tutto uno sforzo: alzarsi la mattina, dover fingere che tutto vada bene, e quando arriva la sera, levar via la maschera con quel briciolo di volontà che ti è rimasta. E io potrei anche restare per tutto questo schifo di vita sdraiata per terra a fissare il cielo, senza dover fare nulla.

In questi giorni ho pensato di farla finita molte volte.

Non ho fame. Non ho sete. Vorrei solo dormire..Per sempre.

Ma Cristo è infame. Oh..si, se lo è. Ti dà quelle fottute speranze, quelle piccole gioie per cui tu NON PUOI ammazzarti. E lui ride, mentre ti osserva che combatti tra la vita e la morte. Mentre cerchi di trovare delle ragioni per cui non farla finita.

A volte le trovi. Ed è una sensazione così sgradevole, perché tu ce la metti tutta per dimenticarti di avere quelle motivazioni per continuare a respirare. Essere importante per coloro che probabilmente non ce la farebbero senza di te; eccone una.

 

 

Sono stanca.

Non voglio ammazzarmi, ma se mi addormentassi e non mi risvegliassi mai più, sarebbe tutto più facile.

 

 

La diminuzione della velocità di quel ferro vecchio, mi avvertiva di essere arrivata finalmente a destinazione. Era stato un lungo viaggio ma sapevo che almeno quello che avrei ottenuto in cambio sarebbe stata un ottima ricompensa per molti aspetti.

Richiusi il quaderno lasciando che il mio ultimo sguardo si rivolgesse proprio su quell’ultima frase che avevo scritto. Scossi il capo, perché come tutte le volte mi ritrovavo a non sapere niente di niente; sia quando lo scrivevo, sia quando lo rileggevo.

Mi alzai mentre il treno si apprestava a fermarsi, attenta a non cadere mentre prendevo la borsa che avevo nello scompartimento sopra la mia testa.

Allungando lo sguardo verso il finestrino, notai che all’esterno alcune persone avevano aperto l’ombrello. “Bene, piove” mi dissi scocciata, mentre infilavo il cappuccio della giacca.

Arrivata in albergo mi sistemai nella stanza che avevo prenotato, infilandomi nel bagno ancor prima di posare il borsone. I treni solitamente mi facevano abbastanza schifo, e passare tante ore a contatto con oggetti e stoffe intrise di odori non miei, e sporcizia di altra gente, mi faceva sempre viaggiare in uno stato di nervosismo. Quel momento lo attendevo da un giorno intero; quando uscii, pulita e profumata, mi sentivo già meglio.

Non ero mai stata in quella città, ma vista la stanchezza rimandai il giro turistico al giorno dopo. Inoltre era già abbastanza tardi, e infilarmi nel letto per fare una bella dormita non mi dispiaceva. In più, mi aspettava una giornata pesante e il corso di web design che avevo deciso di seguire in un posto molto distante da casa, era un’esperienza a me nuova. Potevo anche restarne sconvolta a vita: meglio essere preparate.

Quando il mattino dopo mi svegliai, erano solamente le 6.00. Era forse la prima volta che succedeva di svegliarmi così presto; ma forse è vero quello che si dice a proposito di dormire in un letto diverso dal tuo. Non pensavo però che questo sarebbe valso anche per una dormigliona come me.

Scesi per fare colazione che erano ancora le 7.00 così decisi di prendermela comoda. Presi tra le mani gli opuscoli consegnatomi dal consulente alla quale mi ero rivolta per sapere di più sul corso, scrutando qua e là e notando che tra gli alberghi menzionati, il mio era uno dei più vicini. Almeno avrei camminato poco, pensai.

Quando salii in camera per lavarmi i denti e prendere tutto il necessario mi accorsi, sbirciando dalla finestra, che alcuni ragazzi, erano fermi all’entrata dell’hotel ed avevano sulle spalle degli zaini con degli strani tubi in plastica.

“Probabilmente faranno anche loro il corso” ipotizzai sperando che non fosse così, perché io non avevo niente di quel genere di materiale.

Anche se restia all’idea di raggiungerli e quindi dovermi presentare, decisi che almeno mi avrebbero aiutata a capire dove andare. Una volta scesa, mi avvicinai lentamente senza dire nulla, fermandomi alle loro spalle per raccogliere le idee e trovare una qualche frase che non risultasse banale. Ad un tratto, la voce squillante di una ragazza che mi chiedeva se anche io ero là per il corso, mi fece voltare. Era bionda, capelli ricci e carnagione chiara. Mi sorrise in attesa di una risposta.

“Che corso?” domandai come se non sapessi nulla.

“Il corso di arredamento per interni”

“Ah” dissi sentendomi improvvisamente imbarazzata. “C’è un corso di arredamento?”

“Si, io sono Isabel”

“Halie, ma non sono qua per quel corso”

“Ah, allora cosa ci fai qui?” mi disse ritraendo la mano.

“Veramente me lo sto chiedendo anch’io, pensavo foste del corso di web-design”

“Ahhh” disse eccitata, con una voce tanto acuta che mi perforò i timpani.

“Allora è lo stesso. L’istituto è lo stesso.” Puntualizzò annuendo.

“Ah, okay.”

“Vieni il pick-up è arrivato”

“Ma non è qua vicino?”

“Cosa?”

“Ho letto sull’opuscolo che sarebbe stato vicino a quest’albergo..”

“Si, il punto di incontro dove il pick-up ci viene a prendere..” continuò lei sorridendomi divertita, mentre io assumevo chissà quale espressione interdetta.

Perché non ne sapevo niente? Che razza di consulente mi ero ritrovata.

“Dai vieni, o restiamo a piedi”

Entrando nel furgoncino nero mi ritrovai osservata da tutti quelli che erano già seduti e che probabilmente attendevano che io e Isabel ci muovessimo a fare lo stesso. Notai un posto libero accanto ad una ragazza con le treccine; mentre Isabel si era seduta accanto ad un ragazzo poggiato a braccia conserte dal lato del finestrino. Notai il suo disappunto quando aveva dovuto spostare lo zaino per farla sedere. I nostri occhi si incrociarono per un attimo, finché io non distolsi lo sguardo su quella ragazza silenziosa che era seduta accanto a me, sorridendole appena e salutandola con la testa.

Quando arrivammo a destinazione, dopo dieci minuti di viaggio, restai sbalordita dalla maestosità di quell’edificio. Perché dove abito io non c’era niente del genere? L’entrata era di oltre quattrocento metri, e si chiudeva con un cancello automatico in ferro scuro. Il mezzo si fermò davanti a quel cancello e quando scendemmo una signorina molto giovane si avvicinò a noi con una cartella tra le mani. Cominciò a fare un elenco di nomi, spuntandoli man mano che i diretti interessati alzavano le mani.

Finito l’appello ci divise in due gruppi, e ci chiese di seguirla, indicandoci velocemente le due aule dove saremmo dovuti andare. Notai Isabel salutarmi con la mano e poi svanire dietro una grande porta rossa.

Quando entrammo in classe, mi accorsi che nel mio gruppo eravamo davvero in pochi. Era un aspetto positivo infondo; non mi è mai piaciuta la confusione.

Feci qualche passo in avanti aprendomi la giacca; l’ambiente era ben riscaldato e c’erano tante scrivanie ad ognuna delle quali, un computer nuovissimo, il cui schermo piatto era a malapena visibile. La sala però era fin troppo grande per noi, così quando qualche supervisore entrò e notò a quanta distanza ci eravamo sistemati l’uno dall’altro, ci chiese gentilmente di avvicinarci occupando i posti davanti.

Io non mi mossi, visto che ero già davanti, e mentre mi voltai per osservare quel trasloco sentii lo stridio della sedia alla mia sinistra. Notai che il ragazzo che si stava sedendo alla scrivania accanto alla mia, era lo stesso che avevo visto prima nel pulmino, seduto vicino ad Isabel.

Nonostante i capelli neri che gli cadevano davanti agli occhi coprivano metà del suo viso, riuscii a vedere in lui qualcosa che mi colpì subito: aveva un’aria distrutta; sembrava non dormisse da ore. Si voltò verso di me con l’intenzione di mandarmi a fare in culo - o almeno era quello che il suo sguardo mi stava dicendo - invece non disse nulla. Spostò lo sguardo da me alla scrivania davanti a lui, ed io mi voltai subito dopo.

Era carino, ammisi mentre sorridevo di sottecchi.

 

Restammo per mezza giornata incollati a quelle sedie, mentre entravano ed uscivano varie persone: il coordinatore generale, la ragazza che prima ci aveva mostrato le aule, e gli insegnanti che avrebbero tenuto il corso. Quando alla fine tutti fecero le presentazioni, ci svelarono che quel giorno non avremmo fatto nulla e che quindi potevamo andare via o fare un giro di tutto l’edificio.

“Ma che razza di imbecilli” sentii dire con una voce scocciata che proveniva dalla mia sinistra. Sorrisi di nuovo.

Che tipo” pensai.

L’osservai poi sollevarsi irritato dalla sedia, mentre si sistemava la felpa bianca sui jeans blu scuro che gli cadevano morbidi sulle gambe, e cominciai incantata a seguirlo con lo sguardo mentre usciva dall’aula, e spariva in qualche istante.

Quando mi alzai anche io per andare via, mi ritrovai Isabel a qualche centimetro dal viso con una strana espressione: sembrava posseduta.

“Hai visto?”

“Eh?”

“Quello! Quel ragazzo!”

Urlava e non ne capivo il motivo. E poi chi le aveva accordato così tanta confidenza..? Inarcai un sopracciglio e voltandomi mi assicurai che non ci fosse nessuno intorno. Non mi piaceva dare spettacolo.

“Allora?” le domandai abbastanza scocciata.

“Era seduto accanto a te! Fammelo conoscere no?”

“Che cosa? Io non lo conosco.”

Mi stava irritando. Cominciai a camminare incurante che questa strana tipa si fosse meravigliata o meno della mia scortesia.

“Ah. Peccato..” Mi disse seguendomi.

Era delusa, ma non me ne fregava niente; e poi anche volendo, quel ragazzo, per il poco che mi era sembrato di capire, non l’avrebbe notata nemmeno di striscio una esaltata come lei.

“Pensavo che essendo nello stesso corso l’avessi conosciuto. E poi vi ho visti seduti insieme..”

“Non eravamo seduti insieme.”

“Si okay, vicini”

“Eh c’è una differenza, mi pare.”

Attraversammo il corridoio a lentezza di lumaca, visto che Isabel di tanto in tanto, si parava davanti a me con i suoi occhi luccicanti.

“Ma hai comunque più confidenza di me”

“Scusami…” la frenai subito prima che continuasse con quelle idiozie, “ma questo genere di cose non fa per me.” Conclusi secca, mentre osservavo il suo volto farsi serio.

Mi aveva innervosita, e poi nemmeno la conoscevo, non le dovevo niente, tanto meno per quello a cui lei era interessata.

Notai Isabel farsi da parte e camminare silenziosa accanto a me. Roteai gli occhi: se credeva di impietosirmi, era solo un’illusa.

Proseguimmo in silenzio fino a raggiungere il cancello nero, dove il pick-up ci aspettava per portarci di nuovo tutti in centro. Io salii per prima e lei mi seguì senza dire nulla, sedendosi accanto nella prima fila. Mi sorpresi di vederla scodinzolarmi intorno nonostante il modo in cui l’avevo trattata. “Probabilmente è sola.” Pensai. Non sapevo perché ma quella situazione non mi piaceva. Ero a disagio, e non mi andava giù il fatto di sentirmi così.

Ero a chilometri di distanza da casa mia, finalmente libera di poter fare quello che volevo, come volevo, anche se solo per poco tempo..Volevo starmene tranquilla, infischiarmene di tutto e tutti, e invece mi si era appiccicata questa, che ovviamente era molto diversa da me; non avrei mai potuto legare con lei, se mai avessi voluto. Al solo pensiero rabbrividii.

Il mio umore era cambiato da quella mattina, e davo la colpa ad Isabel se era successo; in più, il vocio che proveniva dai sedili dietro di me, stava aumentando.

Finalmente intravidi l’angolo della strada sulla quale si affacciava il mio hotel. Respirai sollevata. Attesi che tutti furono scesi compresa lei, e poi mi alzai veloce, sentendo però un colpo al mio braccio aggrappato alla spalliera del sedile. Mi voltai e lo vidi.

Era lui. Fece un gesto con la mano, come per scusarsi, non mi fu chiaro, e indietreggiò mentre attendeva che facessi quei pochi passi che mancavano per scendere definitivamente. Sollevai le spalle senza badarci troppo e proseguii. Mi diressi con foga verso l’entrata dell’albergo, attraversando la strada, aprendo la porta a vetro, ritirando la chiave e premendo sull’ascensore il numero tre.

Le porte si chiusero subito - quasi - qualcuno le fermò con le braccia, infilandosi dentro. Non potevo crederci. Era nel mio stesso albergo..lui. L’osservai premere il tasto quattro, incurante di quale piano avessi scelto prima io; ad un tratto ripensai ad Isabel e a quello che mi aveva detto prima. Non mi capacitavo del fatto che quel ragazzo, fosse la causa del mio nervosismo; anche se indirettamente. Inoltre il suo atteggiamento non stava migliorando la situazione; anche se non potevo fare a meno di scrutarlo. Notai subito le sue converse nere ormai distrutte, sulle quali cadevano i jeans scuri e leggermente larghi, tutti stropicciati; la borsa a tracolla la cui cinta stringeva tra le mani e indossava una giacca nera dalla quale fuoriusciva un cappuccio bianco sistemato perfettamente.

Il mio sguardo si muoveva dalle sue spalle minute ai numeri che veloci avevano superato il piano al quale sarei dovuta scendere io; sbuffai innervosita e per non perdere altro tempo, decisi di uscire al suo stesso piano e fare le scale a piedi. L’osservai svoltare a destra, mentre io, un po’ disorientata cercavo di trovare il punto dal quale sarei potuta scendere per le scale.

Quando finalmente le trovai, scesi veloce accorgendomi che la porta della mia stanza era praticamente di fronte ad esse. Feci quei pochi passi che mi mancavano per raggiungerla, l’aprii con foga, lanciai tutto sulla scrivania, sfilandomi le scarpe e gettandomi poi sul letto.

Il silenzio improvviso della stanza mi riempii la testa, e i pensieri veloci sfrecciarono dentro di essa, urtandosi ripetutamente. Mi voltai finendo a pancia in giù contro il materasso eccessivamente morbido.

Ero stufa. Stufa di sentirmi di nuovo in quel modo: svuotata.

Sapevo che alla fine di tutto non c’entrava nulla Isabel; davo la colpa solo al mio carattere insopportabile, e questo mi portava a nutrire persino pena per lei che infondo voleva solo stringere un’amicizia. Pena, perché aveva scelto la persona sbagliata.  Ero stufa di trovarmi per l’ennesima volta a compatire qualcuno, ed odiare me stessa. Chiusi gli occhi cercando di riposarmi un po’, fingendo che al mio risveglio avrei dimenticato tutto, ma la suoneria del cellulare mi fece ricredere all’istante. Poteva essere solo una persona.

“Nessuno mi ha aggredita, tranquilla”

Esordii io, notando che era comparso il nome di mia madre sul display.

“Mancano sempre sei giorni”

Mi rispose lei ironica.

“Infatti, stavo pensando a un modo per attirare l’attenzione di qualche barbone..”

“Non fare la stupida…”

“Comunque tutto okay, non è che devi chiamarmi ogni cinque minuti..”

“Questa è la prima volta..”

“Si, parlavo per i prossimi giorni, non tamponarmi di telefonate come al tuo solito, mamma.”

“E tu come al tuo solito, sei sempre scontrosa..”

Roteai gli occhi. Avrei dovuto lasciarlo squillare, pensai.

“Sono stanca, stamattina mi sono svegliata presto, e le dieci ore di viaggio…sai, non lo faccio tutti i giorni.”

“Va bene. Comunque chiama anche tu qualche volta, adesso devo andare”

“D’accordo. Ciao.”

“Ciao..e stai attenta..”

“Si, mi chiudo in albergo, così non corro rischi, certo a meno che non prende fuoco..”

“Tu tieniti fuori dai guai, e vedrai che non corri rischi..”

Era un chiaro avvertimento di non stringere nessun tipo di amicizia maschile.

“Siii d’accordo. Chiudo, perché mi sto snervando.”

Chiusi il telefono, notando che grazie a mia madre il mio umore era nettamente peggiorato. Se avessi tenuto una percentuale di scocciature quel giorno, sarei arrivata vicino al cento per cento.

“Devo uscire a fare due passi” pensai infilandomi le scarpe e la giacca.

“Non si può fumare in camera signore.”

Sentii passando davanti al banco del ricevimento, per lasciare la chiave. La giovane signora mi fece un cenno con la testa prendendola mentre continuava a parlare al telefono con un cliente. Io proseguii arrivando vicino la porta, sbirciando attraverso i vetri: volevo accertarmi che non ci fosse la mia nuova amica ad aspettarmi fuori. Forse esageravo, ma davvero non volevo altre scocciature. Alcuni ragazzi erano fermi dall’altra parte della strada. Non ne ero certa ma mi sembrava di averli visti anche prima nel pulmino.

“Devi uscire?”

Mi voltai di scatto.

“Ah sei tu..”

“Scusa?”

Era strano sentire la sua voce, era la prima volta in effetti.

Non so come, e perché mi venne di dire una cosa del genere, ma quando lo vidi di fronte a me, con quell’aria seccata avrei voluto spingerlo fuori e picchiarlo. E non era un atteggiamento che solitamente assumevo. Sarà stato perché ero alquanto nervosa quel giorno, sarà stato perché in parte era anche colpa sua, ma non riuscii a trattenermi dal prendermela con lui.

 “Tanto per capirci, mi stai sulle palle”

Fece una faccia indescrivibile che non riuscii a decifrare.

“Ma guarda questa.” Mi disse infilandosi la sigaretta in bocca e fermandola tra le labbra. Mi spinse da un lato per poter aprire la porta e io lo seguii ignorando il suo tentativo di tenermi alla larga.

“Eri tu che volevi fumare in camera?”

“Non sono affari tuoi.”

“Ma tu tratti tutti così?” continuai quando ormai gli ero vicino.

“Senti chi parla..”

Sgranai gli occhi, ma restai in silenzio. Il fumo della sua sigaretta mi entrò violento nelle narici.

“Ti ho sentita prima, con quell’esaltata…tu si che sai essere gentile con la gente..”

“Prima quando..?”

“Senti, non me ne frega niente, mi lasci fumare in pace?” esclamò poggiandosi al muro.

Incredibile. L’osservai qualche istante in silenzio: avevo uno strano presentimento. 

Senza dire nulla scesi gli scalini. Uno come lui non poteva certo permettersi di criticare il modo in cui io trattavo la gente - e se l’aveva fatto ero stata proprio un mostro con Isabel.

 

Caffè. Era l’ultima spiaggia.

Feci qualche centinaia di metri, ritrovandomi nel primo bar che avevo intravisto all’angolo della strada. Entrai e ordinai una tazza di caffè doppio.

Non mi avrebbe fatto passare il nervosismo, ma visto che la caffeina per me era come una droga, almeno mi avrebbe fatto dimenticare quella giornata stressante e sperare che quelle successive non sarebbero state uguali.

Chissà perché invece avevo il presentimento che il mio desiderio non sarebbe stato esaudito. Sorseggiai quasi freneticamente il mio caffè e poi cominciai a tamburellare nervosa sulla superficie in plastica del tavolino. Nemmeno il caffè aveva fatto effetto: solitamente l’effetto, era abbastanza rapido.

Trascinai a me la borsa e la poggiai sulle gambe. Estrassi dal suo interno il mio quaderno: scrivere. Forse era l’unica cosa che mi avrebbe calmata.

 

Ho creduto di sentirmi meglio allontanandomi dal luogo in cui mi sento soffocare; dal luogo in cui sono fuggita.

Invece non è cambiato assolutamente nulla.

Sono convinta che si può viaggiare per chilometri, cambiare abitudini, vedere altra gente: quello stato di soffocamento non ti abbandona. E’ come un’ombra, ti segue ad ogni passo.

La libertà non la trovi lontano dalla prigione.

Sono ancora consapevole che l’unico modo di liberarsi è quello che io tanto desidero, ma che non riesco mai a portare a termine.

 

Posso continuare in questo modo?

 

 

 

 

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