Hall of fame

di LunaNevermind
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hall of fame ***
Capitolo 2: *** Stand by me ***
Capitolo 3: *** I'll take you home ***
Capitolo 4: *** Warmness on the soul ***



Capitolo 1
*** Hall of fame ***


Quel giorno il sole splendeva alto nel cielo e una leggera brezza sferzava il mio viso, scompigliandomi i capelli. Ero appena uscita di casa, cuffie nelle orecchie, zaino sulle spalle; così mi ero preparata per andare alla mia prima lezione di pianoforte. La mia camicetta aperta continuava a svolazzare mentre percorrevo il viale alberato che conduceva all'accademia. "Accademia", pensai, " che nome importante."
Chiusi gli occhi e respirai a pieni polmoni: assaporai l'aria che sapeva ancora d'estate, presi coraggio ed aprii la porta.
Davanti a me un corridoio anonimo, bianco. Una miriade di porte si affacciavano su quello spazio troppo piccolo: sentivo già mancarmi l'aria. Ero sola e mi sedetti su una sedia, aspettando che qualcuno notasse la mia presenza. Canticchiavo, nel frattempo, sottovoce le parole della canzone che stavo ascoltando, giusto per calmarmi un po'.
"Standing in the hall of fame and the world's gonna know your name"
Senza che me ne accorgessi il piccolo corridoio si era popolato. Cercai di rendermi invisibile agli sguardi curiosi che mi circondavano, ma un ragazzo alto (s)fortunatamente, sembrava aver notato la mia presenza. Era in piedi, poco lontano da me e sentivo il suo sguardo attraversarmi da una parte all'altra.
Feci finta di niente e poco dopo, un uomo, probabilmente sulla trentina, mi venne incontro e mi indicò una porta. Mi alzai, dandomi una sistemata e con mano tremante afferrai la maniglia.

Aprii la porta e, tenendo gli occhi bassi, la richiusi dietro di me. Ero entrata in una stanza chiara, più accogliente del corridoio in cui mi trovavo prima. Pochi mobili, o meglio strumenti, la arredavano: una tastiera, una batteria, un quadro e qualche sedia qua e là.

Poco più in là, indaffarato a sistemare, un uomo.

Si voltò verso di me e subito apparve sul suo viso un sorriso rassicurante; con un gesto della mano mi invitò a sedere, chiedendomi di suonare.

"suonare". Questa parola aveva sempre avuto un pessimo effetto su di me, specialmente se a suonare dovevo essere io e per di più davanti a qualcuno.

In un attimo il mio cuore aumentò i battiti, a tal punto che potevo sentirli risuonare nelle mie orecchie; la mia gola si seccò e le mani iniziarono a tremare visibilmente. Presi un respiro profondo, in fondo non era la prima volta che avevo una reazione di questo tipo.

Pensai all'ultimo pezzo che avevo studiato e le mie mani automaticamente, si mossero sicure sulla tastiera. Non appena i miei polpastrelli sfiorarono la superficie liscia dei tasti, mi sentii a casa. Le note che piano piano si perdevano nell'aria disegnavano intorno a me un mondo pieno di colori di cui mi beavo segretamente; poi fui interrotta, forse troppo presto.

Vicino, troppo vicino al mio viso ora c'era lui, il mio insegnante.

Ancora non mi ero soffermata ad osservarlo e solo in quel momento mi resi conto della bellezza dei suoi lineamenti.

Gli occhi, di un verde chiarissimo, risaltavano su un volto dalla pelle diafana. Le sue labbra sottili, circondate da una barbetta rossiccia, erano appena dischiuse. Il mento era lievemente pronunciato, gli zigomi definiti a tal punto da sembrare scolpiti nel marmo.
Morbidi ricci cadevano poi sulla sua fronte e gli incorniciavano il viso.
Quando incrociai il suo sguardo, sentii le guance avvampare di calore. I suoi occhi, così profondi, erano accesi di un sincero interesse che mi imbarazzava.
Il nostro silenzioso scambio di occhiate durò ancora qualche minuto, prima di essere interrotto  dallo stesso uomo che mi aveva invitata ad entrare l'ora prima. Mi riscossi e mi allontanai dalla stanza, scombussolata per quanto era appena accaduto e, voltandomi, vidi la bocca del mio insegnante curvarsi in un sorriso.
"A presto" mi sussurrò, talmente piano che solo io potevo sentirlo.
Arrossendo mi affrettai ad uscire, mentre nel mio animo qualcosa cominciava a muoversi.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Stand by me ***


 

Quella sera il viaggio verso casa fu più lungo del solito. Le macchine sfrecciavano veloci sull’asfalto, creando innumerevoli giochi di luce sul finestrino dove avevo distrattamente posato lo sguardo. Ripercorrevo mentalmente le sensazioni di quel giorno, cercando di trovare una spiegazione al palpitare frenetico del mio cuore: fui scossa da un brivido quando nella mia mente riaffiorò  il ricordo dei suoi occhi profondi.


Era passata una settimana dal nostro incontro e in sette giorni avevo avuto il tempo di assimilare l’accaduto: ero fermamente convinta che fosse tutto frutto della mia fervida immaginazione. Presi la borsa e uscii frettolosamente da casa, sbattendo con troppa foga la porta alle mie spalle; feci spallucce e proseguii per la mia strada. Mezz’ora dopo mi trovavo nuovamente nel corridoio scarno dell’accademia.
Stavo per sedermi quando sentii una porta aprirsi.  Mi voltai e vidi il mio insegnante venirmi incontro. Non appena mi raggiunse, posò delicatamente le mani sulle mie spalle e in un sussurro disse: “Ciao!”
“Ciao” risposi, stupita da quell’eccessiva vicinanza. Mi allontanai, cercando di nascondere l’imbarazzo che mi aveva provocato quel gesto e mi apprestai a raggiungere la stanza dove eravamo stati la volta precedente. Lui mi seguiva, silenzioso.

 Una volta nella stanza fu nuovamente lui a rompere il silenzio: “Come stai?” mi chiese.
“Bene, grazie” risposi, dandogli le spalle e poi, voltandomi, ripresi: “Tu?”
“Mai stato meglio”.
Ci intrattenemmo in una breve conversazione e nel frattempo si avvicinò alla tastiera. Successivamente mi invitò a prendere posto sullo sgabello accanto a lui. Stranamente rimase in piedi, osservandomi con fare indagatore. Mi chiese di suonare, continuando a perforarmi con lo sguardo e io lo lasciai fare, nonostante ciò mi infastastidisse molto. Mi legai i capelli, respirai profondamente e, senza pensarci su, avvicinai le mani alla tastiera;  ignorai il suo sguardo e il panico che mi stringeva la bocca dello stomaco, quindi posai le dita sui tasti. Tremando, inizia a suonare, ma mi bloccai di colpo. Avevo smesso di respirare e sentivo la testa girare violentemente: un attacco di panico. “Fantastico” pensai. Chiusi gli occhi per riprendere il controllo della situazione e non appena li riaprii, vidi apparire sul volto del mio insegnante un’espressione seriamente preoccupata. Arrossii imbarazzata e cercai di tranquillizzarlo: “mi succede spesso quando sono sotto pressione”, mormorai.
Improvvisamente lo sentii ridere. “Esperimento fallito” esclamò divertito.
Lo guardai scettica: “Esperimento?!”
Soffocò una risata e mi spiegò: “Sabato sera abbiamo organizzato una serata in un pub e io voglio vederti suonare”. Rimasi immobile.
Probabilmente notò l’espressione spaventata sul mio volto, poichè scoppiò in una fragorosa risata. Mi sforzai di rimanere seria e cercai di ascoltarlo mentre mi spiegava esattamente cosa avremmo fatto e a che ora ci saremmo incontrati. Tuttavia la mia lucidità veniva meno ogni volta che sorrideva. Mi feci trasportare dal suo entusiasmo e prima di rendermene conto, ritrovai il mio nome scritto nella scaletta delle esibizioni. Mi salutò dicendomi: “Ci sarò anche io” e mi scoccò un’occhiata che fece impazzire il mio cuore. Storsi la bocca e, facendo qualche rapido calcolo mentale, mi resi conto di qualcosa che non avevo previsto: mancavano tre giorni e sarei dovuta salire su un palco.

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** I'll take you home ***


Sabato era arrivato troppo in fretta.

 

 “Ci siamo”. Mi rigirai nel letto, ancora intorpidita dal sonno pomeridiano e il mio sguardo cadde sull’orologio poggiato sul comodino, la lancetta fissa sulle sei.

Una smorfia comparve sul mio volto e controvoglia scesi dal letto, trascinandomi dietro le lenzuola. Mi liberai dal loro groviglio e mi diressi in bagno. Mi diedi una fugace occhiata allo specchio e corsi rapida sotto la doccia, dove il getto dell’acqua calda cominciò a rilassare lentamente i miei muscoli tesi.
Stavo di cercando di lavare via tutta l’ansia che mi invadeva.
Uscii dalla doccia avvolta in un asciugamano e aprii l’armadio con determinazione, intenzionata ad afferrare la prima cosa che avessi avuto davanti. La mia determinazione scemò quando mi resi conto che tutto ciò di cui disponevo non era adatto alla serata. In preda all’indecisione, alla fine optai per un abbigliamento modesto, che non mi facesse sentire a disagio: jeans attillati, leggermente sbiaditi sulle ginocchia e la mia maglietta degli Iron Maiden. Ravvivai i capelli, cercando di sistemarli come meglio potevo e applicai un leggero strato di mascara sugli occhi: non volevo esagerare. Guardai il cielo grigio, minacciato da nuvole cariche di pioggia e con gesti automatici infilai un giacchetto di pelle nera e gli anfibi per poi prendere l’ombrello e uscire di casa.
Mi ci volle un po’ per raggiungere il luogo prestabilito e sperai di non essere in ritardo, tuttavia non trovai nessuno ad aspettarmi. Mi accesi una sigaretta e appoggiai la schiena contro il muro umido dell’edeficio. Chiusi gli occhi e cercai di fare mentalmente il punto della situazione: stavo per affrontare una delle mie più grandi paure, suonare in pubblico. Accidenti, ero davvero sicura di volerlo fare? Ero ancora in tempo per cambiare idea e stavo per farlo quando un rumore di passi interruppe i miei piensieri; buttai la sigaretta e mi intrufolai nel locale: una ripida rampa di scale scendeva giù, aprendosi su uno spazio più ampio, dove un bancone ben fornito di alcolici e una miriade di tavolini rendevano l’ambiente stranamente confortevole. Verso destra poi, si apriva una seconda sala dominata da un palco leggermente appariscente per i miei gusti. Alla vista degli strumenti il mio cuore ebbe un sussulto. Deglutii a fatica e mi rifugiai in un angolo, riparandomi dagli sguardi delle persone che iniziavano a riempire la sala. Cercavo speranzosa il suo volto tra la gente e man mano che le persone arrivavano ero sempre più delusa. Iniziai a mordermi il labbro inferiore mentre la musica di altri musicisti cominciò a riempire la stanza. Ero ancora intenta a cercare il mio insegnante, quanto mi sentii chiamare. Girandomi mi accorsi che tutti gli sguardi dei presenti erano puntanti su di me e mi ci volle poco per capire quello che stava succedendo. Era il mio turno, il fatidico momento era arrivato. Ma lui dov’era? Aveva promesso che sarebbe venuto. Mi sentii svuotata, umiliata. Che ingenua ero stata a fare tanto affidamento sulle sue parole. Fremendo per l’irritazione, con le lacrime che mi pungevano gli occhi, mi diressi verso il palco e, disorientata, presi posto alla tastiera, indugiando davanti ai tasti. Alzai un’ultima volta lo sguardo verso la folla e finalmente, incrociai il suo sguardo. Il verde profondo dei suoi occhi mi ipnotizzava, negandomi la possibilità di guardare altrove; ma io non volevo distogliere lo sguardo, volevo restare immersa in quel verde e continuare a perdermi. Fece un impercettibile segno con la testa e sul suo viso comparve un’espressione incoraggiante: il mio cuore cominciò una corsa frenetica. Sorridendo compiaciuta feci mente locale, preparandomi a suonare. Le mie dita cominciarono a muoversi avide sui tasti, creando melodie piacevoli e delicate che inebriavano la mie mente, fino a farmi dimenticare tutto il resto, il pubblico, la mia ansia, tutto... Lentamente le ultime note della canzone aleggiarono nella stanza e il pubblico scoppiò in un applauso fragoroso. Imbarazzata, scesi dal palco, e quasi caddi nella fretta di sottrarmi a quelle attenzioni. Avevo bisogno di prendere una boccata d’aria, rinfrescarmi le idee e analizzare lucidamente le sensazioni che mi stavano sconvolgendo. Tirai un respiro profondo e chiusi gli occhi, cercando di far riprendere al mio cuore un ritmo regolare. Quando li riaprii, davanti a me trovai il mio insegnante: di nuovo il mio cuore accelerò i battiti. Lessi sul suo volto un’espressione compiaciuta, quasi soddisfatta e gli rivolsi un sorriso sincero. “Complimenti” mi disse, con la sua voce seducente. Io, di rimando, arrossii e mi affrettai a mormorare un “grazie” abbassando lo sguardo: era incredibile come i complimenti mi mettessero in imbarazzo. Rimasi così per un po’, giocherellando con il bordo della mia maglietta.
Poco dopo lo vidi armeggiare con un mazzo di chiavi e stupita posai lo sguardo su di lui. “E’ ora di andare a casa” mi disse. Sul mio volto si dipinse un’aria interrogativa. “Ti porto a casa”, mi sorrise spensierato. Il potere del suo sguardo mi travolse, impedendomi di replicare e lo seguii contrariata fino alla sua macchina. Aprii la portiera e mi rifugiai nell’abitacolo. Nel frattempo, anche lui aveva preso posto in macchina ed era pronto a partire. L’auto era invasa da un profumo particolare: l’odore forte dei sedili di pelle si mischiava all’odore dolce di un dopobarba maschile. Lui era sereno e guidava sicuro, mentre io ero molto tesa e dovevo sforzarmi per mantenere la lucidità. Sentivo le mie guance diventare sempre più calde e subito fui grata del fatto che fosse buio: così sarebbe stato più facile nascondere il mio imbarazzo. Sfrecciavamo veloci sulla strada, in silenzio. Finsi di prestare attenzione al paesaggio che ci lasciavamo dietro per evitare il suo sguardo, ma poi, mio malgrado, lui ruppe il silenzio: “Non è stato male alla fine” affermò. “Mh” annuii poco convinta. Probabilmente se ne accorse e una smorfia di disappunto si disegnò sul suo viso perfetto. “Dovremmo farlo più spesso” riprese. “Ci penserò” risposi. Non ero sicura di voler affrontare un’altra esperienza simile.

“Dove vado?” mi chiese. “Sempre dritto e poi a destra” replicai. Poi di nuovo calò il silenzio. Ed eccomi finalmente davanti al portone di casa mia, illuminato dalla luce fioca di un lampione. “Allora, ci vediamo a lezione” esordì. “Certamente” fu la mia risposta e impaziente, mi volsi verso la portiera. Lui allungo una mano verso il mio braccio, trattenendomi sul sedile. “Lascia che ti saluti” disse con voce gentile, mentre si avvicinava al mio viso. Se possibile arrossii ancora di più quando le sue labbra si posarono delicate sulla mia guancia, accanto alla bocca. Sussultai e frastrornata scesi dalla macchina dirigendomi verso casa. Poi sentii la sua macchina allontanarsi.

 

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Capitolo 4
*** Warmness on the soul ***


Scesi dall’auto sforzandomi di non cadere, ignorando il suo sguardo. Giunta davanti al portone armeggiai per qualche minuto con le chiavi e finalmente entrai nel palazzo, chiudendomi la porta alle spalle. Poi, quella sera, mi addormentai velocemente, vittima dalle emozioni che mi avevano travolto.

 

La mattina seguente facevo fatica a credere che fosse tutto vero e, almeno per quel momento, decisi di non pensarci più.
Scesi giù a fare colazione e, dopo essermi assicurata di essere sola in casa, mi sedetti davanti al mio pianoforte e cominciai a suonare. Le mie dita  scorrevano veloci sui tasti creando melodie piacevoli che si intrecciavano tra di loro e ad ogni tocco il mio corpo era invaso da brividi di piacere.
Suonavo, perdendomi nei ricordi della sera prima, ripensando al suo sguardo, carico di emozioni e al suo profumo fresco che mi sentivo ancora addosso. Poi qualcuno aprì la porta e io mi fermai di scatto. Era mia madre che, indaffarata con le buste della spesa, tornava a casa. La aiutai velocemente e corsi di nuovo in camera mia. Mi affacciai alla finestra e rimasi lì per un po’ ad ammirare i raggi del sole che risplendevano nelle pozze d’acqua portate dal temporale del giorno prima. Poi, finalmente, decisi di uscire. Era una bella giornata, dopotutto. Percorsi il vialetto di casa con una strana frenesia in corpo, dovuta probabilmente ai ricordi della sera prima e, con un’espressione raggiante, mi diressi verso il centro. Giravo per negozi, cercando qualcosa che attirasse la mia attenzione quando mi ritrovai davanti a un negozio di musica. “Fantastico” pensai e compiaciuta mi affrettai ad entrare. Era un posto davvero carino e confortevole: una musica di sottofondo si disperdeva nell’ambiente e un vecchio signore da dietro il bancone, dava il benvenuto ai suoi clienti.

“Buongiorno” mi disse.
“Buongiorno” risposi, “le dispiace se do un’occhiata?”
“Faccia pure” fu la sua risposta e un sorriso contagioso comparve sul suo volto stanco.

E iniziai a vagare per il negozio. Con mia grande sorpresa mi accorsi che era veramente grande e ben fornito. C’era di tutto: CD, spartiti, strumenti... Mi diressi nel reparto CD e iniziai a esaminare i diversi artisti con curiosità: alla fine optai per un album  degli Avenged Sevenfold, Sounding the seventh Trumpet, che faticavo a trovare da molto tempo. Presi le cuffie appese alla parete, feci scorrere il codice del disco davanti alla macchinetta del negozio e subito il suono delle chitarre mi riempì le orecchie. Passai in rassegna le tracce e optai per la traccia n 7, Warmness on the soul, una delle mie canzoni preferite. “Your hazel green tint eyes watching every move I make... You’re the one and in you I confide”


Mi ero lasciata trasportare un po’ troppo e senza accorgermene avevo iniziato a cantare a voce alta. All’improvviso sentii una mano posarsi sulla mia spalla e fui riportata bruscamente alla realtà. Mi voltai imbarazzata con la testa bassa, ma una mano mi afferrò delicatamente per il mento , costringendomi ad alzare lo sguardo. Il cuore mi saltò in gola. Difronte a me c’era proprio lui, il mio insegnante: Nick.
Il battito frenetico del mio cuore mi tormentava e i suoi occhi così vicini ardevano nei miei.
Fu lui a parlare per primo: “Mi sorprendi ogni giorno di più” disse e un sorriso gli illuminò il viso. Deglutii a fatica e lui allentò la presa su di me.
“Ehm, ciao!” sussurrai, svincolandomi dalla sua stretta.
“Che hai lì?” mi chiese.
“Nulla di importante” risposi e posai il CD dove l’avevo trovato, con aria rassegnata.
Soffocò una risata e mi sistemò gentilmente una ciocca di capelli dietro l’orecchio, sfiorandomi il viso. Trattenni il respiro per un attimo, frastornata dalla sua vicinanza. Mi sforzai di restare lucida e finalmente riuscii a dire “Devo proprio andare, ci vediamo a lezione” e gli rivolsi un mezzo sorriso.
Mi sorrise a sua volta e rispose: “Ti aspetto” e il mio cuore accelerò ancora di più. Mi diressi verso l’uscita e non appena fui lontanza abbastanza, mi fermai a prendere fiato. Aspettai che il mio cuore riprendesse un ritmo regolare e poi mi incamminai verso casa, ancora su di giri.


 

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