Blood Legacy: L'Eredità del Sangue

di Isa0ic
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
Prologo

Al mondo vi sono solo due tipi di persone capaci di sopravvivere all’incontro con un vampiro: i Licantropi, quegli esseri assurdamente pelosi a cui ho sempre desiderato strofinare le orecchie al chiaro di luna, e i Cacciatori, quel gruppo di persone sfuso per il Paese che porta giustizia alle porte di chi la richiede…
I Cacciatori sono un po’ come gli “sceriffi” del nuovo mondo, sempre pieni di risorse ed entusiasti rappresentati.
Persino Anna Mend è una di loro… Ah, e tanto per la cronaca, Anna Mend sono io.
 
«Esci e non farti più rivedere, stupida ragazzina!».
Le dolci parole della Signora Manny mentre mi trascinava fuori dalla locanda, la Trash&Furious, riecheggiarono per tutto il vicinato. Un gatto corse a nascondersi sotto quel che rimaneva di un vecchio furgone, mentre gli abitanti rimasti in Furious Road sbarrarono le tapparelle, senza dubbio per paura che il buio e le urla attirassero attenzioni… poco gradevoli. O magari semplicemente per paura delle furia della locandiera che minacciava di staccarmi un braccio.
«Manny, la prego, stavo solo scherzando, non può lasciarmi qui fuori». Non poteva. Non poteva. Soprattutto non nel bel mezzo della notte, senza nemmeno un coltellino svizzero da agitare in aria.
La Signora M alzò un sopracciglio e mi fissò con fare inflessibile. «Mi dispiace Anna, hai perso la tua ultima occasione quando hai deciso che versare l’ultimo boccale di birra sui pantaloni del cliente fosse un’ottima idea».
L’idiota aveva cercato di toccarmi il sedere. Al momento era sembrata davvero un’idea grandiosa.
«Non era mia intenzione. Il boccale è scivolato e sono comunque disposta a fare gli straordinari per ripagarla, glielo giuro». Avevo bisogno di un posto dove stare. Non poteva liquidarmi così. Non potevo tornare indietro.
Manny mi lasciò andare con un’ultima spinta e si ritirò velocemente verso la porta sul retro da cui eravamo uscite. Feci qualche passo avanti con un’espressione di supplica sul viso, ma la Signora M si fermò con una mano sulla maniglia e l’altra sollevata di fronte a sé… stava facendo sul serio? «Non ci pensare nemmeno, Anna. Torna dai tuoi amici e non mettere più piede qui dentro. Le cose vanno già abbastanza male senza che tu e quelli come te continuiate a mettermi i bastoni tra le ruote». Chiuse la porta e mi lasciò lì a fissarla mentre la disperazione montava. Lo aveva fatto davvero. Mi aveva lasciata nel bel mezzo della notte alla mercé di qualunque strano essere avesse avuto voglia di uno spuntino, il tutto senza un minimo di compassione. Senza un minimo di maternità, dannata donna.
Ma io non potevo tornare indietro.
Disperata, alzai gli occhi al cielo. Neanche una nuvola oscurava la luna piena e minacciosa che incombeva su quel che rimaneva delle case della Nuova Capitale. Con le mani tra i capelli respirai aria fresca dopo non so quante ore passate a servire alcolici nel Trash. Scossi la testa e mi decisi: non potevo rimanere nel bel mezzo del vicolo. Era troppo pericoloso. Ma dove andare? A quest’ora della notte i posti erano abbastanza limitati. E anche se fossi riuscita a trovare un buco in cui infilarmi, cosa mi avrebbe assicurato che ne sarei uscita illesa? Ormai i vampiri erano ovunque e conquistavano quartiere dopo quartiere. Questo, il diciannove, sarebbe stato uno dei prossimi e…
Un gemito strozzato si fece strada tra i vecchi cassonetti abbandonati, riempiendo la notte o, più precisamente, riempiendomi i timpani con quello che doveva essere uno degli ennesimi suoni a cui, volente o nolente, mi toccava prestare attenzione. Uno dei ricordini lasciatimi tempo fa, anni fa, dai Cacciatori della Nuova Capitale – nota anche come il Bastione per gli amici – era l’udito. Tutti i Cacciatori, infatti, arrivati alla fine dell’allenamento a cui venivano sottoposti imparavano a gestire i cinque sensi in un modo che veniva considerato tutt’altro che umano. L’udito, purtroppo, era tra quelli.
E il gocciolio che seguì il gemito non fece che confermare le mie convinzioni: dannati i Cacciatori e tutto quello a cui avevano condotto.
Dannata me per non essermene andata prima.


***

Note: Dopo tanto tempo passato a domandarmi se farlo o meno, alla fine ho deciso di pubblicare il prologo di questa storia, L'Eredità del Sangue, per poterla finalmente "liberare" e darle l'opportunità di esprimersi a dovere. Spero che chiunque ne abbia voglia darà una chance ad Anna e ai suoi amici, che faranno presto capolino, e mi seguirà in questa nuova, nuovissima avventura.
Kisses, Isa

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Capitolo I
Capitolo I

~Anna~


Otto anni fa
 
La pioggia batteva forte e io ero ferma.
Ero ferma da non ricordo quanto.
Passavano i secondi, i minuti, le ore, i giorni. Io rimanevo rannicchiata contro la corteccia dell’albero su cui avevo giocato così tante volte negli ultimi anni.
Dopo non so quanto tempo, arrivò qualcuno.
Era un uomo alto, probabilmente intorno alla trentina. Folti capelli castani incorniciavano un volto segnato e triste, mentre una benda nera fasciava il suo occhio destro e una lunga cicatrice dello stesso colore attraversava la guancia immediatamente sotto. La sua ombra incombette su di me, ma ero troppo stanca per scappare. Alzai lo sguardo fino a incontrare il suo, illuminato da…
Illuminato dalle sue mani.
L’uomo si accovacciò di fronte a me e mi scostò una ciocca di capelli, costringendomi a chiudere gli occhi per la luce improvvisa.
«Anna?». Disse con una voce incredibilmente gentile per una figura tanto imponente. In qualche modo sapeva il mio nome, ma non potevo rispondere. Non sapevo cosa dire.
«Sei Anna, giusto?». Questa volta aprii lentamente gli occhi e lo guardai. Lui continuò a fissarmi, aspettandosi probabilmente una risposta.
Annuii.                           
La sua espressione si addolcì. Io sentii qualcosa smuoversi dentro di me. «Io e queste persone dobbiamo finire di perlustrare la zona. Dopo andremo a casa, in un posto sicuro». Silenzio, e poi, «Vorrei portarti con me, Anna».
Mi accorsi solo in quel momento di tutte le figure che si trovavano dietro l’uomo. Mantenevano una certa distanza, emanando una strana luce dai palmi delle mani. Ritornai a osservare il signore che mi trovavo di fronte, la mente completamente vuota.
Non sapevo cosa dire.
Annuii di nuovo.
Questa volta l’uomo accennò un sorriso. «Michelangelo», disse, e un ragazzino dai capelli folti e scuri che doveva avere all’incirca la mia età si fece avanti, fissandomi con curiosità. «Rimani con lei mentre noi diamo un’ultima occhiata qui in giro. Non devono essere molto lontani».
Michelangelo si raddrizzò tutto d’un colpo, avvicinandosi e sedendosi a gambe incrociate accanto a me. Tirò fuori un coltello un po’ troppo grande per lui e, con aria decisa e un po’ goffa, assunse un’espressione corrucciata sul viso finché anche i suoi palmi non si illuminarono.
Volevo imparare a farlo.
«El ti terrà d’occhio per qualche minuto. Aspettami qui».
Guardai attentamente l’uomo ancora una volta. Non sapevo chi fosse, ma non credevo avesse cattive intenzioni, altrimenti avrebbe già agito. Inoltre il modo in cui si rivolgeva a me, il modo in cui mi stava guardando…
Il male non aveva il suo sguardo. Il male aveva gli occhi della notte.
Passò ancora qualche secondo durante il quale l'uomo continuò a studiarmi. Poi, con una nuova decisione negli occhi, si alzò e a passi lenti e decisi si allontanò, tutte le altre figure al suo seguito.
A quel punto sentii il ragazzino accanto a me (Michelangelo?) tirarmi una ciocca di capelli finché non mi voltai verso di lui.
Lo fissai.
Mi guardava con la stessa curiosità di prima, unita questa volta a un sorriso incerto che gli increspava le labbra. «Io sono Michelangelo Arael, piacere». Bisbigliò, aggiungendo subito dopo, «e quello di prima era Brant».
Continuai a fissarlo.
«Pensavo volessi saperlo». Disse, ritornando tutto a un tratto serio e scrutando il buio di fronte a noi. «Puoi stare tranquilla, nessuno oserà avvicinarsi».
Io non risposi, ma rimasi a fissarlo ancora per un po’. Aveva occhi di un azzurro chiarissimo. Non avevo mai visto nulla di simile.
Lui aggrottò le sopracciglia e mi lanciò un’occhiata veloce prima di tornare nella stessa posizione di prima. «Mi metti ansia, non fissarmi così».
Questa volta non riuscii a trattenere una piccola risata, la prima dopo tanti giorni. Lui tirò fuori un sorriso a ventiquattro denti e, guardandomi di sottecchi con le sopracciglia alzate, disse con tono di scherno, «Cos’era quello, un grugnito?».
Immediatamente lo fulminai con lo sguardo, girando la testa dall’altra parte e stringendomi ancora di più le ginocchia al petto. Sentii un leggero movimento accanto a me e poi il suo respiro sui capelli. «Scherzavo, dai. Almeno mi diresti il tuo nome?».
Non gli risposi e, anzi, mi raggomitolai ancora di più su me stessa. Lui si allontanò, probabilmente rimettendosi in posizione, e rimanemmo fermi così per quel che sembrò un’eternità.
«Anna Mend». Bisbigliai alla fine, sicura che non mi avesse sentita. Iniziai a sentire le palpebre pesanti e chiusi gli occhi.
«Piacere, Anna». Disse lui, prima che il sonno mi separasse dalla realtà.
 
***
 
Mi affacciai allo sbocco del vicolo, con discrezione, fissando il buio di fronte a me. Una delle note positive dell’aver sviluppato i propri sensi di Cacciatore era data dall’avere una vista cristallina della notte, aiuto fondamentale quando, arrivato il momento di perlustrare la zona, si presentavano situazioni simili.
Peccato però che i miei, di sensi, non fossero così sviluppati.
Il gocciolio proveniente dal buio era ormai un suono ritmico, incessante, diversamente dai gemiti oramai spenti. Avevo assistito a una scena simile solo altre due volte nella mia vita: la prima era stata a poche ore dall’alba, in uno dei distretti abbandonati della città – seguita da un’esaltante decapitazione nei giorni più floridi per i Cacciatori.
La seconda era stata in una notte di due anni prima che volevo solo dimenticare.
«Aiuto…».
La voce non fu altro che un sussurro leggero come una piuma, che si perse nel vento. Pensai di averla immaginata, ma un passo in avanti mi confermò quel che pensavo: qualcuno stava mormorando una vecchia preghiera, rivolgendola al cielo. L’avevo sentita altre volte prima di allora, ma mai con così tanto fervore, con così tanto desiderio.
La persona, chiunque essa fosse, stava chiedendo perdono.
Mi decisi ed entrai nel vicolo infrangendo tutte le promesse mentali fatte a me stessa ormai da tempo, decidendo che se davvero qualcuno fosse stato in pericolo, magari avrei potuto fare qualcosa. Mi unì alla preghiera dell’uomo – perché dal tono di voce doveva trattarsi di un maschio – e chiesi al Signore, se esisteva, di risparmiarmi l’incontro con un succhiasangue dopo la nottata appena trascorsa: non sapevo come avrei reagito alla vista di uno di quei mostri e certamente non ne volevo incontrare uno affamato.
Dopo pochi secondi decisi che, a quanto pareva, Dio esisteva e io dovevo pregare più spesso perché davanti a me si presentò una scena che, per quanto macabra e altamente sconsigliata alla visione dei minori, non era un faccia a faccia diretto con uno dei peggiori incubi di questo quartiere.
Un uomo dai capelli grigi come la cenere giaceva supino sulla nuda terra, gli occhi di un nero spettrale rivolti al cielo, la preghiera morente sulle labbra pallide che si muovevano senza sosta anche se il suo dio lo aveva ormai abbandonato. A quella distanza riuscivo a studiare i lineamenti vecchi e stanchi dell’uomo, li vedevo stendersi e agitarsi sotto una pelle diafana ricoperta da cicatrici, pelle che lentamente ma inesorabilmente stava assumendo colori cinerei che ricordavano tanto le macerie dei palazzi di un tempo andati ormai distrutti, palazzi che appartenevano a epoche passate, anni in cui al mondo era difficile assistere a scene simili.
L’uomo spalancò ancora di più gli occhi stanchi, inarcando la schiena e gettando un urlo che mise ben in mostra quel che avevo sperato di non dover più rivedere.
Canini.
Le preghiere, come pensavo, non avevano funzionato neppure stavolta.
Il vampiro gridò per diversi minuti prima di sbattere violentemente a terra, gettando il capo più volte all’indietro, colpendo il terreno con la nuca fino a sanguinare in una chiara dimostrazione di follia. Io mi avvicinai ancora, fermandomi a pochi passi da lui e vedendolo irrigidirsi, gli occhi ancora fissi sul cielo ma ora concentrati sui propri sensi, il naso che inspirava a fondo, la mascella che si serrava e liberava ritmicamente.
I due piccoli fori sul suo collo erano adesso in evidenza, e con riluttanza rimisi insieme i pezzi di ciò che doveva essere accaduto.
Era stato attaccato.
Avevo sentito storie su quel che succedeva quando un vampiro ne mordeva un altro. Alcuni parlavano di paralisi temporanea, altri di morte istantanea: chiaramente nella prima ipotesi vi era realmente un fondo di verità, perché l’uomo – il vampiro – non aveva ancora mosso un muscolo verso di me, rimanendo invece supino e subendo il dolore che il suo volto cercava di nascondere.
Sapevo che i vampiri fossero esseri spietati… ma trattare così uno dei loro? Per quale motivo?
«Hai finito di fissarmi, mocciosa?». Sibilò l’uomo a denti stretti, gli occhi neri e cechi fissi sulla volta notturna.
Mi avvicinai ancora e tirando fuori tutta la mia temerarietà gli misi un piede sul petto. Lui ringhiò e io inarcai le sopracciglia. «No», dissi con calma e un pizzico di ironia. «Non ancora».
L’uomo rise – una risata amara e, fosse stato in un altro contesto, terrificante. Le vene che gli attraversavano la gola pulsavano rapidamente in modo malato e sotto il mio piede il cuore batteva il ritmo lento e mortale della sua gente. «Sei fortunata che non possa alzarmi e spezzarti il collo. Lo farei volentieri e poi ti prosciugherei, godendo nel dolce suono delle tue urla».
«Macabro». Osservai.
«E dopo… dopo ti farei a pezzi per mostrarti ai tuoi cari. Un occhio, magari. Di che colore sono i tuoi occhi, mocciosa?».
Aggrottai le sopracciglia. Non ero più abituata alle frasi sadiche e scontrose dei vampiri, soprattutto considerando come non tutti loro amassero giocare con le parole. Evidentemente questo era un tipo particolare.
«Il colore del tuo sangue», risposi, facendo pressione sulla sua cassa toracica, vedendolo digrignare i denti. Sorrisi. «Sai, è un rosso acceso. Ti dona».
Il vampiro serrò i pugni, rimanendo però immobile. «Ti ucciderò».
«Morirai prima». Gli feci notare.
Lui si irrigidì se possibile ancora di più, sputando maledizioni in una lingua che non compresi. Per un momento pensai di farglielo notare, ma dopo pochi secondi ritornò a parlare nella lingua Nazionale.
«Vigliacchi. Vigliacchi tutti. Non esistono più le pretese di un tempo, questo mondo è andato a puttane. Meglio morire ora che continuare a viverlo».
Incuriosita dalle sue parole mi accovacciai accanto a lui, piegando la testa di lato e osservando le forme oblique delle cicatrici che gli incorniciavano il viso, i buchi sulla gola. «Chi ti ha ridotto così?».
Il vampiro si zittì, rilassando i muscoli e continuando a fissare il cielo. Stranamente, sembrò calmarsi.
Sembrò diventare più fanatico di quanto pensassi.
«La fine arriverà anche per loro, donna. Arriverà per tutti voi. Non si prendono in giro gli dei».
«Cosa intendi dire?».
«Sono la rovina della nostra specie. La rovina, la condanna».
La loro specie era già abbastanza condannata, ma evitai di farglielo notare. L’uomo aveva ricominciato a pregare, ora più velocemente, gli occhi chiusi e le labbra sottili che si muovevano nella stessa lingua sconosciuta di poco prima.
Qualcosa mi turbava in questa situazione. Oltre all’aver trovato un vampiro che aveva inveito pesantemente e di fronte ai miei occhi sulla sua stessa razza, ora non stava facendo più nulla per allontanarmi, per mordermi, per…
Non sembrava un vampiro.
«Hey, tu», lo puntellai con un dito, e lui aprì gli occhi che, improvvisamente, sembrarono più chiari di prima.
Impossibile… I vampiri avevano gli occhi del colore della pece.
Lui inclinò la testa, fissandomi ma non vedendomi come erano soliti fare molti succhiasangue. Non si rendevano neppure conto di quanto fosse realmente inquietante quando ti guardavano con quel loro sguardo assente, costringendoti a domandarti cosa diavolo stessero pensando.
Il vampiro richiuse gli occhi, la guancia ispida premuta contro la dura terra. «Cosa vuoi, umana?». La sua voce fu quella di un uomo stanco, così stranamente normale che mi sentii intimidita, come se non avessi realmente il permesso di rispondere.
Lo feci comunque.
«Chi è stato a farti questo?».
«Non sono affari che ti riguardano».
«Perché glielo hai permesso?». Dissi, irritata dalle sue risposte e oppressa dal resto della nottata.
Perché un succhiasangue avrebbe dovuto permettere a un suo simile di ridurlo in quello stato?
Dannazione.
Il vampiro riaprì gli occhi, ora di una sfumatura ancora più chiara di quella di prima. La pece che di solito rispondeva allo sguardo stava ora ritirandosi al centro, a formare lentamente l’iride.
Qualcosa che un vampiro non dovrebbe avere.
All’improvviso, il suo volto inizialmente inespressivo assunse un’espressione confusa. Mi guardò come se potesse davvero vedermi, senza rispondere alla mia domanda ma aprendo la bocca come nel tentativo di dire qualcosa. Rimase tuttavia in silenzio, fissandomi, e io fui sul punto di riporre la domanda quando, finalmente, parlò.
«Germar Bohm». Mormorò, prendendo un lungo respiro che causò la ferita alla gola di sanguinare ancora più copiosamente.
Era strano da vedere. Non avresti mai detto che una ferita così piccola potesse essere così letale.
«E hai gli occhi castani, ragazza».

 

***

Note: Con questo capitolo si aprono ufficialmente le danze. La storia mostrata ai miei adorati beta, tempo fa, era leggermente diversa da quella che apparirà qui, poiché ha subito dei cambiamenti nel tempo - spero in positivo. In queste prime pagine ha fatto capolino la figura del vampiro, che nel mondo di Anna ha la caratteristica della cecità - verrà approfondita in seguito. Alla fine del capitolo, però, qualcosa di strano è avvenuto, e ora le cose si movimenteranno un po' nella vita della nostra protagonista. Spero vivamente che abbiate voglia di seguirci e scoprire come con noi!
P.s. I capitoli che vengono inseriti sono editati in toto da me, per cui se dovesse essermi sfuggito qualche errore chiedo scusa in anticipo! :)
Grazie a tutti, per tutto.
Kisses, Isa.

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Capitolo II
Capitolo II
~Susan~
 
Era notte fonda e la luna piena era alta nel cielo quando la vampira venne portata di fronte a un annoiato Raphael Beaumont, che la osservava da dietro due occhiali da sole che, se si fosse trattato di qualcun altro, chiunque avrebbe additato e deriso. Certamente non aiutava il fatto che la maggior parte dei vampiri nella stanza fosse incapace di vedere, così come la posizione di Raphael all’interno della gerarchia del nostro clan, che scoraggiava ulteriormente chi, invece, aveva ricevuto il dono della vista.
Personalmente preferivo rimanere in silenzio nella mia posizione, la schiena contro il muro, evitando di attirare attenzioni indesiderate.
Quando Nasiri, lunghi capelli biondi che ricordavano così tanto il fieno, fece il suo ingresso seguita dalla donna dagli occhi bendati, Raphael rimase immobile, lo sguardo fisso davanti a sé e i capelli corvini modellati tutti da un lato in un’acconciatura che gli donava un’aria bizzarra ma elegante. Studiava la vampira dai folti capelli rossi, la mascella possente e un corpo longilineo che pompava, almeno in apparenza, vita, con quella che era la sua espressione più disinteressata, emanando al tempo stesso l'autorità di cui era stato investito e un profondo senso di rispetto che penetrava nelle ossa di chi riusciva a vederlo, così come in quelle di chi non poteva.
La vampira Nasiri si fermò a pochi passi dal divano dove Raphael sedeva con un braccio a sollevare la testa da un lato e le lunghe gambe accavallate con nonchalance. Un sorriso meschino si dipinse sulle labbra di lei, che ceca si rivolse a tutti noi quando annunciò, «Abbiamo visite».
Desiderai poter alzare gli occhi al cielo, ignorando quella frase tanto scontata quanto inevitabile. Nasiri aveva sempre avuto snervanti manie di protagonismo, e con la sua anzianità e la sua forza era anche una di quelle vampire che non desideravi deludere, quindi chiunque l’aveva sempre assecondata. Sempre.
La sala scoppiò in un boato di approvazione a cui mi unì. Un boato che, quando non accennò ad affievolirsi, fu Raphael a interrompere con una parola in confronto a Nasiri sussurrata, ma letale.
«Silenzio».
E silenzio fu.
Il signore del Clan si alzò, finalmente abbandonando la sua posizione, muovendosi a una velocità lontana anni luce da qualsiasi altro vampiro e ritrovandosi faccia a faccia con la donna che Nasiri aveva condotto lì. A una frase da lui mormorata la bionda si allontanò riunendosi a quelli che erano sempre stati i suoi compagni di caccia, sorridendo malevola nonostante nessuno dei tre potesse vederla. Icaro, il vampiro tutto muscoli e niente capelli che sedeva per terra, la schiena contro la parete, fu l’unico ad accoglierla con un cenno brusco del capo, fissandosi le punte delle vecchie e logore scarpe da ginnastica. Thiago, il cantastorie, ed El, il più taciturno del gruppo, la ignorarono, entrambi concentrati sugli avvenimenti di quella sera o semplicemente troppo impegnati a pensare ai propri affari.
Impegnati a meditare altre uscite clandestine che questa volta Raphael avrebbe scoperto e affatto ignorato.
Ora, però, Beaumont era impegnato a torreggiare sulla nuova prigioniera, a fissarla da dietro le spessi lenti nere e tondeggianti con quella che riconobbi come concentrazione. Quella stessa concentrazione che lo aveva reso il vampiro perfetto per diventare Capoclan: un mix letale di spietatezza, menefreghismo e furbizia.
«Celinè DeLacroix». Scandì a voce alta in modo che tutti i presenti sentissero. Con lentezza e voluta malizia allungò una mano verso il viso di lei e lasciò che le sue dita le percorressero il profilo del collo, soffermandosi per lunghi e pesanti secondi sulla sua giugulare prima di risalire fino alla benda che le copriva gli occhi.
La strappò.
«Spero tu abbia fatto un buon viaggio». Affermò in tono colloquiale, facendo un passo indietro e incrociando le braccia robuste sul petto. Celiné sbatté più volte le palpebre prima di ricambiare lo sguardo del vampiro, studiando rapidamente la stanza e soffermandosi con gli occhi fissi nei miei, le iridi castane piene d'odio e qualcosa di più umano… Confusione.
Ebbi una certezza: Celiné non conosceva il motivo per cui si trovava qui, con noi.
E vedeva. Celiné vedeva. Celiné vedeva con occhi che non potevano appartenerle.
«Giochi con il fuoco, Beaumont», disse la donna, la fronte aggrottata e uno scintillio accusatorio negli occhi. Dalla mia postazione potevo vedere i muscoli degli avambracci guizzare sotto la canottiera bianca che portava, far forza contro le catene insanguinate che le circondavano i polsi. «Se credi che gli altri Clan ti faranno passare anche questo ti sbagli. Ho uomini lì fuori pronti a perdere la vita per me».
«Io non gioco, Celiné». Fece Raphael, tornando al suo divano e ricadendovi sopra con estrema eleganza. Questa volta alzò i piedi su uno dei morbidi cuscini che ricoprivano la vecchia stoffa, e il mio sguardo corse alla vampira, la cui espressione mimava ora alla perfezione quella del nostro Capoclan.
Era impassibile.
«Non sei cambiato affatto, vedo. Stupido come al solito».
Raphael sorrise debolmente. «Anche tu sei come ti ricordavo: bugiarda e manipolatrice come poche puttane sono capaci di essere».
L’aria nella stanza sembrò farsi più tesa e Celiné, la furia nello sguardo, serrò la mascella di fronte alle risa denigratorie che alcuni sciocchi le riservarono. Io desiderai appiattirmi ancora di più contro la parete a cui davo le spalle, sprofondando in me stessa e lontana dagli occhi fin troppo capaci di uccidere della vampira. Raphael, però, mi aveva costretta a esserci per quella notte, sostenendo di aver bisogno del mio aiuto.
Peccato fossi certa se la potesse vedere più che bene anche da solo.
«Ma tranquilla, Celiné. Non sei qui per le tue doti a buon prezzo, per quanto sia certo delle tue capacità», continuò il Capoclan, ignorando gli sguardi carichi di terribili promesse di lei, passandosi una mano tra i capelli, per ravvivarli. «Sei qui per alcune accuse che ti sono state rivolte».
«Accuse?».
«Accuse». Confermò lui, riassumendo un tono estremamente annoiato, come se l’unico motivo per cui si trovasse lì fosse la stupidità della vampira – cosa che sembrò infiammarla ancora di più. Raphael iniziò allora a elencare con voce lenta e strascicata, come un bambino che elenca le sue infinite malefatte ai genitori con un sorriso stampato in volto.
L’unica eccezione era che Beaumont non sorrideva.
«Sei accusata in primo luogo di aver alterato la tua versione dei fatti per quanto concerne l’attacco a uno dei covi dei Cacciatori di questa città».
Mi raddrizzai. Avevo sentito parlare dell’attacco avvenuto in uno dei distretti più interni del Bastione, ma non avevo dato troppo peso alla faccenda. Evidentemente avevo commesso un errore.
Celiné puntò lo sguardo chiaro su Raphael, trattenendo con difficoltà una smorfia che poteva significare solo la presenza dei suoi canini, fuoriusciti dalle gengive in un gesto di ribellione e profonda mancanza di rispetto. Per sua fortuna, però, riuscì a resistere all’impulso di mostrarli al vampiro.
«Per quanto apprezzi il tuo spirito di iniziativa», continuò il Capoclan dopo un breve silenzio, il viso imperturbabile. «Le leggi parlano chiaro, e senza un ordine esplicito saresti dovuta rimane a cuccia. Ciò sarebbe facilmente risolvibile, certo, se non per la presenza di alcuni simboli ritrovati dai nostri Cercatori, due giorni fa, sul luogo del delitto».
Simboli?
«Non so di cosa tu stia parlando, Beaumont». Fece Celiné, fissandolo con occhi vuoti. I polsi stretti nella morsa della catena insanguinata adesso tremavano appena, ma non riuscii a capire se per lo sforzo di resistere al dolore o quello di far silenzio su ciò che sapeva. «Non sono stati i miei vampiri ad attaccare il covo, anche se mi congratulerei volentieri con i fautori di tale gesto».
«Seconda accusa», la voce di Raphael era ora dura, velenosa, affatto inespressiva. «Sei bollata di alto tradimento quindi, nel bene o nel male, non uscirai viva da questo edificio».
Il silenzio nella stanza venne spezzato. Decine e decine di mormorii si unirono in coro, sussurrando frasi e parole che variavano da tristi “alto tradimento” a divertiti “spacciata”. Gli occhi di Celiné dardeggiavano con rabbia contenuta a stento e rivolta a tutti i vampiri presenti di fronte alla sua vergogna. Potevo leggere nei suoi occhi il desiderio di fare qualcosa, il senso di ingiustizia che sentiva e qualcosa di più intimo, qualcosa che si avvicinava assurdamente ad accettazione. Accettazione di ciò a cui stava andando incontro: un’accettazione infuocata che le avrebbe tolto la vita, o quel che ne restava, lasciandola alla memoria dei Clan come una bugiarda e una traditrice, per il resto dell’eternità.
Perché i vampiri non dimenticavano tanto facilmente.
«Richiedo le prove», disse con voce ferma, sotto cui però si celava un leggero tremito. «Richiedo le prove per un’accusa simile».
Raphael si alzò dal divano, scrollandosi di dosso la lunga giacca nera e rimanendo con indosso un’attillata t-shirt rosso sangue che gli metteva in evidenza il fisico slanciato sopra i jeans scuri. Lasciò la giacca dietro di sé prima di avanzare, lentamente, le mani in tasca e gli occhiali da sole al loro posto, che stonavano alquanto con il resto dell’abbigliamento e della serata.
Poi, visto che la mia forza di volontà non era bastata a farmi sparire oltre il muro, il Capoclan puntò un braccio verso dove mi trovavo e piegò un dito, indicando di avvicinarmi.
Gli occhi di Celiné si fissarono nei miei.
«Susan Blasar», disse Beaumont, piegando la testa verso di me nel momento stesso in cui iniziai ad avanzare. «È con noi da qualche anno, ormai, e ha un talento fuori dal comune».
Si avvicinò a Celiné, che lo guardava fisso negli occhi con freddezza. Qualcosa in lei sembrava sul punto di attaccare per difendere la propria sopravvivenza, nonostante non lo avrebbe fatto.
Sembrava un predatore messo all’angolo da un mostro inatteso e più spietato di lui.
Raphael le mise una mano tra i capelli e tirò all’indietro, senza troppi convenevoli. La vampira gridò, mostrando i canini in un gesto istintivo e meritandosi un secco “tsk, tsk, tsk” da parte del Capoclan. Quest’ultimo mi lanciò un’occhiata da dietro la spalla, facendomi segno di avvicinarmi ed esponendo il collo di Celiné, spostandole con garbo i capelli dietro le spalle. Lei ringhiò, agitandosi debolmente nella stretta del vampiro e delle catene di sangue, ma Raphael fece ancora più pressione sulla sua nuca, sibilando, «Se mi costringi a sporcarmi le mani e gli occhiali, giuro che ti ucciderò ora e subito e cercherò un motivo qualunque per giustificarlo ai superiori».
La donna si immobilizzò, gli occhi castani fissi sul soffitto della stanza.
«Susan», continuò il vampiro in tono colloquiale, senza guardarmi. «Vede cose che gli altri non vedono. E non è una battuta», precisò. «Perché io stesso non ci riesco. Sono però sicuro la nostra ragazza saprà dirmi se dalle tue labbra sono uscite le solite frasi pompose o la pura e semplice verità».
«Non troverà nulla», disse Celiné, la mascella rigida. «E farò rapporto per questo. Non hai il diritto di farlo. Non hai il diritto di tenermi qui».
Con una rapidità fuori dal comune Raphael le afferrò il mento, costringendola a guardarlo negli occhi e sorridendo appena, i canini ben in evidenza. «Guardami mentre ti uccido».
«La pagherai». Sussurrò lei, e Beaumont spostò lo sguardo verso di me – o almeno, voltò il viso, fronteggiandomi con gli occhiali da sole in maniera abbastanza eloquente da farmi venire i brividi.
«Cosa devo cercare?». Domandai con voce che sperai essere ferma e decisa, all’altezza della situazione.
Raphael sollevò un angolo della bocca. Per un momento sembrò che un’espressione amara gli attraversasse il viso, ma subito dopo tornò a essere il solito, inespressivo e sprezzante Beaumont. «Un croce, greca credo, e una scritta che le sia vicino. Veritas lux mea».
Lo sguardo di Celiné si fece tagliente, fisso sul Capoclan, e un sorriso meschino le si disegno sul viso. Non parlò, tuttavia, e io sfruttai il momento per studiarle la linea del collo, fino alla mandibola, non trovando nulla di strano. Fissai intensamente la pelle di seta, cercando di vedere qualcosa, e trascorsero parecchi minuti prima che un’immagine, per quanto sfocata, iniziasse a mostrarsi.
Una croce dalle quattro braccia della stessa lunghezza era apparsa sotto la mandibola, a lato della possente mascella. Bianca, bordata di un nero che, in contrasto con la pelle pallida della vampira, risaltava così tanto da far sembrare assurdo il fatto che solo pochi secondi prima non fossi riuscita a vedere nulla. Ora la croce era evidente, in bella vista, e una scritta in una lingua sconosciuta la attraversava, scritta che non coincideva però con le parole di Raphael.
«C’è, ma la frase è diversa, dice qualcosa come quam…».
«Quamdiu in mundo sum lux sum mundi». Mi anticipò lui, gli occhiali da sole abbastanza bassi sul naso da mostrare i suoi occhi neri come la pece, brillanti di intelligenza e astuzia, spietati come solo la notte gelida può esserlo.
Una strana sensazione crepitò dalle sue parole; un brivido lungo la schiena che in qualche modo voleva avvertirmi di ciò che stava accadendo.
Peccato non riuscii a comprenderlo fino in fondo.
Celiné DeLacroix, a quel punto, sorrise per la prima volta da quando era entrata nella stanza. Un sorriso vero, ampio, sincero. Folle. «Le conosci», mormorò, la voce piena di venerazione e stupore. «Sai. Tu sai e hai taciuto».
Le rispose il silenzio. Silenzio di Raphael, silenzio mio, silenzio di tutti i presenti.
«Sai». Insistette lei, agitandosi con più forza. Io feci un passo indietro, lasciandole il collo, mentre Beaumont continuava a stringerle la nuca, i capelli. Continuava a fissarla negli occhi senza risponderle.
«Parla», sussurrò Celiné, gli occhi febbrili e carichi di una fede nuova, in principio nascosta. «PARLA».
Senza dire una parola, il Capoclan piantò un braccio nudo nel petto della vampira, che immediatamente sbarrò gli occhi. Del sangue le sgorgò dalle labbra dischiuse, scivolandole lentamente lungo il mento fino a unirsi al rosso che copioso fuoriusciva dal punto in cui l’avambraccio di Raphael incontrava il suo corpo.
«Parla…». Mormorò ancora una volta, prima che un ultimo sussulto la colpisse, senza dubbio in seguito a una stretta interna da parte di Beaumont. Io indietreggiai ancora, sentendo le voci che con disgusto commentavano l’esecuzione appena avvenuta, voci di chi poteva vedere la scena che si stava svolgendo e voci di chi aveva con il tempo acuito altri sensi, e la stava adesso sentendo.
Raphael si staccò all’improvviso, e il corpo della vampira cadde a terra, immobile. Lui si fissò la mano insanguinata, leccandosi piano la punta dell’indice ma facendo subito dopo una smorfia e lasciando perdere. Si tolse gli occhiali da sole con la mano bagnata, passandosi quella pulita tra i capelli corvini e irrigidendosi visibilmente dopo aver realizzato quel che aveva appena fatto.
Il silenzio scese nella stanza e Raphael gridò, facendo retrocedere la maggior parte dei vampiri che si era avvicinata a Celiné, fissandosi le mani con un ringhio sommesso, uno sguardo disgustato.
«Ho sporcato gli occhiali».
Strinse la mano a pugno, spezzando l’oggetto con occhi infuocati. Con un’ultima esclamazione frustrata, poi, uscì dalla stanza sbattendosi la porta alle spalle.
 
***
Note: Secondo capitolo in cui viene introdotto un nuovo punto di vista, quello di Susan. D'ora in poi inizierò ad approfondire le tematiche interne alla società vampira, qualcosa che mi diverte davvero molto e spero possa piacere anche a voi! Tra le note, sottolineo le due citazioni latine Veritas lux mea, la verità è la mia luce, Quamdiu in mundo sum lux sum mundi, tratta dal Vangelo di Giovanni (9;5) e traducibile come "Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo".
Baci, Isa.

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Capitolo III
Capitolo III
~Anna~
 
Otto anni fa.
 
Passo dopo passo avanzavo lungo corridoi che sembravano non finire mai. Passo dopo passo, decine di porte si succedevano, e io non entravo in nessuna, seguendo non so esattamente cosa, seguendo… niente.
Forse volevo solo continuare a camminare.
Ero silenziosa. Non volevo che qualcuno potesse sentirmi e fermarmi, riportarmi indietro nella stanza dalle pareti divelte in cui ero rimasta rannicchiata in posizione fetale negli ultimi giorni. Non volevo tornarci, rimanere di nuovo sola, non sopportavo il buio, non sopportavo la sensazione di essere costantemente osservata.
Non sopportavo di sentirmi così... sfinita.
Scesi una, due rampe di scale fino ad arrivare in una stanza più grande delle altre, luminosa grazie a una finestra ampia, all’angolo a sinistra, attraverso cui distinguevo gli alberi di un bosco e la luce brillante del mattino. Nella camera si trovava un semplice tavolo, sotto la finestra, e un divanetto dal colore smorto addossato alla parete opposta, alla mia destra. Una poltroncina era stata trascinata accanto alla sedia del tavolo su cui erano sparsi documenti di ogni dimensioni, e la luce ne illuminava il tessuto affine a quello del divano mostrando i granelli di polvere che gli volavano intorno, persi nell’aria.
Mi avvicinai al divanetto, lasciandomi cadere su uno dei soffici cuscini bianchi addossati ai suoi lati, sfiorandone i disegni grigi con le dita e una delicatezza che non mi apparteneva, ma che aveva preso possesso di me. Nel silenzio della stanza mi tornarono in mente le urla, le suppliche e le preghiere che, incessanti, avevano continuato a riempire quella che un tempo era stata la mia casa.
Un tempo.
Cosa ci facevo lì, in quel vecchio edificio pullulante di uomini e donne dall’aspetto pericoloso? Ripensandoci ora, non sapevo se seguire quel Brant e i suoi amici fosse stata l’idea migliore che avessi mai avuto. Ne dubitavo. Mi ero fatta cullare dalle parole di uno sconosciuto che mi aveva promesso sicurezza, ma quello era stato lo stesso errore dei miei genitori.
Ed ecco com’era finita.
Mi alzai all’improvviso, gli occhi fissi sul pavimento di legno così simile a quello della mia vecchia stanza. Mia madre aveva l’abitudine di maledirlo spesso per la velocità con cui riusciva a sporcarsi, e quando lo faceva, per descriverlo, usava la parola “parquet”, un termine che più volte avevo trovato divertente da ripetere, che con una cadenza simile a quella dei miei genitori cercavo di imitare, ripetendolo la notte quando non riuscivo a dormire. Decisi di doverla smettere, smettere di pensare. Stare ferma riportava in mente immagini e suoni che volevo dimenticare, e l’unico modo per farlo era quello di continuare a camminare. Camminare tra i corridoi, camminare sull’erba, non su un “parquet”, e farlo in fretta, al più presto, farlo fino a trovare qualcosa capace di distrarmi definitivamente dalla mia ossessione.
Uscii dalla camera vuota, richiudendomi la porta cigolante alle spalle.
 «Hey», disse una voce, prendendomi alla sprovvista. Sobbalzai, voltandomi di scatto e trovandomi davanti una ragazzina dalle mani spalancate di fronte a sé come a volermi bloccare, gli occhi del colore dell’erba fissi su di me, una sfumatura confusa tra i colori brillanti dell’iride e la fronte aggrottata.
Quando parlò di nuovo, lo fece come rivolgendosi a un animale ferito. «Ferma».
Una mano si poggiò sul mio avambraccio e mi paralizzai anche più di prima. Era più forte di me, non riuscivo a sopportare l’idea di essere toccata, ora, non quando mi sentivo sporca come in questo momento, macchiata dai pensieri di qualche notte fa – marchiata da un bruciore al petto che non mi lasciava respirare. Mi scrollai di dosso le dita della bambina che, a guardarla bene, non doveva avere più di dieci anni, con lunghi capelli ramati che le scendevano lungo la schiena in eleganti onde all’apparenza morbide.
Feci un passo indietro per recuperare la calma, respirando a fondo. Il Cacciatore – Brant, mi aveva detto di respirare a fondo ogni volta che avessi avuto un attacco di panico, o sentito qualsiasi dolore che non fosse stata una ferita sanguinante. Respirai, quindi. Respirai, respirai.
Respirai.
La bambina mi continuava a fissare in modo strano, guardandomi dritta negli occhi con quei colori brillanti e un certo carattere, che avvertii dalla sua postura. Qualcosa nel modo in cui portava le spalle indietro, il collo alto nonostante la bassa statura e il passo che si rifiutava a fare, indietro, per uscire dal mio spazio personale, per evitare di soffocarmi, mi costrinse a stringere i denti, incrociando le braccia sul petto e abbassando lo sguardo. Fu allora che notai la sua mano alzata ancora a mezz’aria, all’altezza del bacino, puntata verso di me come se fosse stata indecisa se abbassarla completamente o lasciarla lì, in attesa di un qualche segnale per potersi muovere verso di me per poter completare un arco nell’aria e sfiorarmi la spalla come erano soliti fare gli adulti. Dovevo averle però fornito la risposta, in qualche modo, perché la bambina indietreggiò di poco, mettendosi entrambe le mani dietro la schiena e piegando la testa di lato, nascondendo l’improvviso bagliore che le sue dita emisero, facendomi trattenere il fiato.
Volevo imparare a farlo. Ancora, lo volevo.
«Chi sei?», domandò la ragazzina, scandendo a voce alta le parole come incerta che io potessi capirla, una buffa espressione decisa e curiosa sul viso di pesca.
«Anna», sussurrai, aspettando che lei si presentasse a sua volta.
La bambina soffiò una ciocca di rame dalla fronte, grattandosi il naso pieno di macchiette rosse e minute – lentiggini. «Cosa ci fai qui?», chiese, facendo una piccola smorfia. «Non ti ho mai vista prima. Sei nuova?».
Non risposi subito.
«Non lo so», dissi, dando voce con fronte corrugata a un pensiero che mi tormentava.
Non sapevo cosa ci facevo qui, se fossi rimasta.
«Sei entrata di nascosto?». Ora la bambina sembrava allarmata, le dita che si intrecciavano tra di loro e si separavano, torcendosi delicate ma rapide. Io scossi la testa, stringendomi le braccia ancora più forte contro il petto e riabbassando lo sguardo per terra, indecisa sul da farsi o su cosa dire.
Senza una parola la ragazzina corse via, i passi veloci che riecheggiavano nel corridoio vuoto e i polpastrelli così luminosi da mandare strani bagliori sulle pareti cupe. La osservai allontanarsi, il profilo che svoltava a destra e scompariva giù per una rampa di scale. Sentii la sua voce rimbalzare tra le pareti, ma non capii cosa stesse dicendo, con chi stesse parlando… se stesse parlando con qualcuno.
Rimasi lì, in piedi, gli occhi persi nel punto in cui lei era sparita e un senso d’angoscia che intesseva pungenti fili metallici nel mio stomaco.
Era andata. Era andata e non mi aveva detto il suo nome.
 
***
 
«Un succhiasangue ti ha guardato negli occhi, eh».
Sospirai. Erano passate ormai ore da quando avevo lasciato il vicolo dietro la locanda, lasciato il corpo-adesso-seriamente-senza-vita del vampiro dagli occhi cristallini a chiunque lo avesse ritrovato dopo di me.
Dopo lo sfortunato incontro mi ero precipitata a trovare riparo per la notte in uno degli unici posti in cui nessuno avrebbe fatto domande: il vecchio parco giochi della città, divenuto ora un vero e proprio villaggio popolato da quel tipo di persone che vietereste di frequentare ai vostri figli. Da ladri a semplici venditori di merce usata – vivande in buona parte offerte da chi ne aveva l’opportunità, nel Parco non si vedevano bambini, così come raramente si vedevano aggirarsi donne indifese, che non sapessero picchiare duro. A quell’ora di notte, poi, c’era sempre il mascalzone pronto a cercare di divertirsi un po’, così come il disperato che gridava la sua follia al chiaro di luna.
Gridava, ululava…
Personalmente volevo mantenere un basso profilo, soprattutto considerato il modo in cui i Cacciatori della città stessero inviando sempre più spesso pattuglie, tra i vari distretti, con l’obiettivo di recuperare quanti più possibili novelli talenti da allenare tra le loro schiere. Ovviamente nel ghetto se ne parlava tanto; dicerie di ogni tipo trovavano labbra desiderose di discuterne, labbra che parlavano non di talenti, ma di vere e proprie reclute che la Certa, il gruppo di Cacciatori della Nuova Capitale, stava cercando di raggruppare nella speranza di muovere finalmente guerra ai Clan vampiri che infestavano parte del Bastione.
Io stentavo a crederci.
Sì, i Cacciatori non erano mai stati noti per il loro amore verso i succhiasangue, anzi, il loro compito era proprio quello di tenerli lontani dalle zone abitate da civili e, con apposito permesso da parte dell’ACN – Associazione Cacciatori Nazionali, di invadere quei distretti in cui la legge vampira non riusciva a contenere la violenza della propria specie. Non potevano, però, dichiarare apertamente guerra al mondo della Notte, che aveva sigillato patti con il sangue decenni prima, dopo la fine dell’Ultima Guerra, limitando il raggio d’azione dei vampiri e degli umani insieme.
Le altre creature, invece, avevano deciso di non partecipare al conflitto per la loro natura essenzialmente pacifica.
«Pensi stia bluffando?», domandai, fissando l’uomo che, seduto con le spalle contro un vecchio scivolo, fissava davanti a sé, la sigaretta tra le labbra e le guance striate di barba grigia. Gli occhi chiari e socchiusi osservavano un anziano signore in mutande gridare storie apocalittiche contro gli impauriti passanti, e le dita tamburellavano leggere su un ginocchio piegato.
«No, ragazzina. Credo tu abbia preso una bella botta», rispose Cain Davis, espirando una nuvoletta di fumo e chiudendo gli occhi, un’espressione beata sul viso. «Avrai bevuto qualche drink di troppo a lavoro».
Lo fissai, incerta sul da farsi. Ero sicura che fosse lui quello ad aver bevuto qualche drink di troppo, ma non lo dissi ad alta voce, ben consapevole della sua reazione ad accuse del genere.
Piuttosto, cercai di spiegare ciò che era accaduto.
«Mi ha fissato, Cain. Ne sono certa. Mi ha proprio guardata».
«Capita. Non significa che ti abbia davvero vista».
«Ha detto che ho gli occhi castani!».
Lui aprì uno dei suoi, di occhi, e mi guardò scettico, inspirando la sigaretta. «I tuoi occhi non sono verdi?».
Era completamente andato.
Uno tintinnio attirò la mia attenzione quando Cain si mise una mano in tasca per tirare fuori la sua boccetta portatile di liquore, costantemente e misteriosamente piena. Mi sporsi per afferrarla e gettarla via, ma lui alzò il braccio allontanandola dalla mia portata.
«Dammela, sei già abbastanza sbronzo», borbottai, guardandolo storto. Lui per tutta risposta alzò le sopracciglia, le iridi annebbiate, e mi studiò con aria di sufficienza.
«Cosa, perché non credo alla tua stupida storiella?» sbottò, la voce che mi derideva. «Dammi le prove, Anna, perché anche i muri sanno che i succhiasangue sono cechi. Chi mi dice che tra noi due quella sbronza non sia tu?».
Da come parlava senza strascicare le parole non avrei mai detto che fosse completamente ubriaco, ma lo conoscevo abbastanza da sapere che in passato Cain aveva ricevuto un’educazione esemplare ed era difficile che, anche dopo una non proprio sana dose di alcool, l’uomo desse a vedere il proprio stato brillo.
Mi tirai indietro, stringendo i denti e distogliendo lo sguardo quando, con gli occhi chiari fissi nei miei, Cain portò la boccetta alle labbra. Sorseggiò diversi secondi prima di rivolgersi nuovamente a me.
«Ti ha detto il suo nome?».
Lo guardai, irritata. «Cosa importa?».
Lui sorrise debolmente, rigirandosi la sigaretta spenta tra le dita di una mano. Sembrò perdersi un momento nei suoi ricordi, le braccia piegate sulle ginocchia e i capelli chiari e sporchi che gli ricadevano in onde sparse sugli occhi. Il peso degli anni, nonostante non avesse ancora superato la cinquantina, gli gravava sulle spalle e gli dava un’aria triste. Le cicatrici sulle braccia esposte dalla canotta scura lo rendevano invece uno dei soggetti più temuti del Parco.
«I nomi sono importanti quando vivi in un mondo come questo», mormorò, il viso adombrato dal chiaro di luna mentre fissava la sigaretta, le dita, la terra. «Un nome può esserti utile. Lo puoi vendere, lo puoi scambiare, lo puoi usare. Sono vere e proprie merci che non dovresti sottovalutare».
Le sue parole rimasero sospese nell’aria, finché non alzò gli occhi su di me e mi perforò con lo sguardo limpido. «Se non lo sai, mettiti l’anima in pace e dimentica qualsiasi fantasia ti abbia annebbiato la mente».
Aggrottai le sopracciglia. «Non ho la mente annebbiata».
Lui ridacchiò. «Come io non sono ubriaco?».
Scossi la testa, alzandomi in piedi e dandomi leggeri colpetti sui jeans sporchi di terra e polvere, scotolandoli. Lui seguì i miei movimenti con sguardo divertito e brillo, la boccetta di liquore che scintillava appena alla luce della luna. Non disse niente quando mi allontanai, anche se sapevo avrebbe continuato ad assicurarsi che fossi alla sua portata in caso di pericolo. Nonostante non lo desse mai a vedere, Cain era abbastanza protettivo con le persone che gli stavano intorno, anche quelle che non conosceva. L’apparenza rude, lo sguardo duro potevano ingannare a un primo approccio, ma erano ormai anni che lo seguivo nei suoi spostamenti in giro per la città, da quando avevo lasciato i Cacciatori, e per quanto spesso usasse scherzare sulla mia mancanza di autonomia era sempre disponibile a riprendermi con sé quando i miei tentativi di trovare un posto fisso fallivano.
E visto come fallissero sempre, era più che abituato ad avermi tra i piedi.
Decisi di dirigermi verso l’entrata del Parco, dove si fermavano di solito gli Spazzini, quelle persone che si procuravano da vivere scambiando tra di loro i beni ritrovati negli edifici abbandonati nelle periferie della città. Erano pochi gli umani coraggiosi abbastanza da fare questo “lavoro” – solitamente si trattava di persone con abilità innate che erano cresciute sin da piccole a stretto contatto con i pericoli dei distretti più esterni del Bastione e delle strade che portavano a cittadine lontane, raggiungibili nel giro di pochi giorni e tante difficoltà. Erano anche quelle persone che i Cacciatori preferivano reclutare, quando era possibile, motivo per cui gli Spazzini si fermavano sempre a pochi passi dai cancelli del Parco, da dove potevano facilmente proteggere la loro mercanzia e guardarsi bene da interessi poco graditi.
Ben presto raggiunsi i primi banchi di scambio, lunghe assi di legno che ricoprivano l’erba incolta e su cui erano disposti oggetti di vario tipo, cibi stagionati, in scatola o marci. La gente si soffermava a guardare, contrattare e comprare grazie merci di più valore: spesso si trattava di baratti discussi per ore o minuti, altre volte erano scambi equi di informazioni, cibi, verdure dei contadini che riuscivano ad arrivare fino in città.
Io non mi fermai, ma mi diressi verso i banchi sopraelevati, quelli che erano stati sistemati sui pochi tavoli da pic-nic rimasti nel Parco e su cui trovavano posto i venditori più burberi e prepotenti, ma anche più semplici da convincere o, nel mio caso, da aggirare. Erano state tante le volte in cui avevo arraffato qualcosa da mangiare per me o Cain, e nonostante gli Spazzini stessero diventando sempre più accorti nei confronti della loro merce, anche io cercavo di ingegnarmi in modo sempre diverso, per poter eludere la loro sorveglianza.
Quella notte, i tavoli del Parco erano affollati.
Mi tirai sulla testa il cappuccio della felpa grigia che indossavo, mettendomi le mani in tasca e aggirandomi tra la folla. Intravidi alcuni venditori occupati in contrattazioni agitate, le mani che si muovevano nervosamente per aria e indicavano gli oggetti e il cibo che, certamente, cercavano di far apprezzare più del dovuto ai poveri acquirenti che li guardavano smarriti. Alcuni di questi avevano uno scintillio negli occhi, lo stesso proprio di chi sa come fare affari a quell’ora di notte, mentre altri apparivano affamati, smagriti dalla fame o in preda al delirio; disposti a qualsiasi cosa pur di ottenere un tozzo di pane.
Presi posto a pochi passi da un ragazzo alto, dai capelli mossi e scuri che discuteva animatamente con uno Spazzino, contrattando una lunga scatola dall’aspetto pregiato, aperta a mostrare una spada vecchia ma in buone condizioni, dalla lama arrugginita e, nonostante tutto, dall’aspetto affilato. Il venditore scuoteva lentamente la testa, lo sguardo fisso sul ragazzo, la sua completa attenzione su quell’affare che, ne ero certa, gli sarebbe potuto valere molto considerato come trovare un’arma, di quei tempi, fosse molto difficile. Io, di contro, mi appostai accanto al tavolo nel punto esatto in cui lo Spazzino aveva deposto del cibo in scatola, forse scaduto, forse no – sicuramente a caro prezzo.
Allungai rapidamente la mano, facendo cadere una dozzina di scatole e pacchetti per terra.
«Ragazzina, levati di lì!». Gridò il venditore, fissando lo sguardo su di me e attirando l’attenzione di alcuni passanti, che ripresero però immediatamente a camminare. Il ragazzo con cui fino a pochi secondi prima aveva contrattato osservò la scena incuriosito, e io assunsi la mia migliore espressione costernata.
Mi accovacciai velocemente a raccogliere alcune scatole prima che lo Spazzino mi raggiungesse, e premetti una mano contro quattro pacchetti tra i più piccoli, utilizzando un vecchio trucco insegnatomi anni prima e facendoli sprofondare nella terra. Quando l’uomo fu abbastanza vicino, lo aiutai a rimettere a posto il resto della mercanzia, mormorando: «Mi dispiace».
«Sì, certo. Vi dispiace sempre», borbottò lui, fulminandomi con lo sguardo e mettendo in fila le scatole cadute, contandole velocemente e aggrottando le sopracciglia. Mi lanciò un’occhiata strana, studiando la mia felpa alcuni secondi prima di scuotere la testa e farmi volgarmente segno di allontanarmi, restituendo l’attenzione al ragazzo moro dallo sguardo ora vagamente divertito. Potei giurare che quel tizio avesse visto tutto, che sapesse, ma non aprì bocca e, anzi, tornò a studiare la spada oggetto delle sue attenzioni, incontrando gli occhi del venditore e sorridendo amabilmente.
Senza aspettare oltre mi allontanai, lo sguardo fisso per terra e la mano destra a penzoloni, calda, le dita che formavano un pattern regolare che seguii io stessa fino a ritrovarmi alle spalle del venditore, abbastanza lontana dal suo banco e in ombra da concludere quel che avevo iniziato. Mi piegai sulle ginocchia e posai la mano sull’erba, che in pochi secondi si diradò, la terra che si spaccava silenziosamente per far risalire quelli che erano quattro piccoli pacchetti sporchi, ma perfettamente intatti.
Li misi in tasca con discrezione e mi alzai, guardandomi intorno per assicurarmi che nessuno mi avesse vista e incrociando lo sguardo del ragazzo oltre la spalla dello Spazzino.
Gli occhi scuri di quel tizio mi studiarono per alcuni secondi mentre annuiva alle parole del venditore, le sopracciglia leggermente aggrottate e un’espressione impassibile in volto. Le sue iridi erano così scure da ricordare vagamente le pozze nere dei vampiri, ma la sua pelle abbronzata tradiva l’appartenenza a una specie diversa, gli occhi dalla forma leggermente a mandorla che divoravano tutto ciò su cui si posavano.
Ricambiai il suo sguardo, facendo un passo indietro e preparandomi a dileguarmi nuovamente tra la folla, bloccandomi solo quando accanto a lui si fermò una persona che riconobbi immediatamente – che avrei riconosciuto ovunque e che avevo pregato per mesi interi di non dover incontrare mai più.
Robin Autumn si spostò una ciocca di capelli color rame dietro un orecchio, gli occhi del colore dell’erba che si soffermarono in ordine sulla spada del venditore, sul ragazzo alla sua destra e, infine, su di me.
E nonostante fossi certa che il suo udito sviluppato mi avrebbe sentita, non riuscii a fermare l’esclamazione sussurrata che rimbombante tra le pareti della mia mente sfuggì anche dalle mie labbra, cancellando qualsiasi altro pensiero: «Oh, merda».
 
 
***
Note: Stavolta non ho molto da dire – siamo tornati al POV di Anna, che si alternerà a quello di Susan. L’introduzione fa sempre di più spazio alla vera e propria storia. Ringrazio tutti quelli che mi stanno seguendo e ci rivedremo presto con il quarto capitolo! J
Baci, Isa.

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV

Capitolo IV

~Susan~

 

Il Bastione era una delle città più grandi di quello che un tempo era stato un Paese chiamato Italia, ora conosciuto come Tarsia. Lo sapevo perché le biblioteche che alle volte visitavamo, la notte, erano piene di vecchie cartine geografiche e riassunti storici in una lingua che non tutti comprendevano; solo pochi vampiri dall’età estremamente avanzata riuscivano a farlo, e molti di loro erano ormai debilitati per via della perdita del bene più prezioso per qualsiasi essere della notte – la vista.
Ora, nelle ampie stanze del nostro capoclan, io mi soffermavo in piedi di fronte a una vecchia mappa, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo fisso sulla forma allungata del nostro Paese. Cercavo di immaginare dove potesse trovarsi la nostra città, i suoi vicoli stretti e la foresta che, negli anni, aveva divorato gran parte delle zone esterne. L’unica cosa che tutti sapevano per certo, era che la città era stata divisa da alcuni rivoltosi durante l’Ultima Guerra, in una trentina di distretti che si distinguevano tra loro per risorse, tecnologie e popolazione. La parte più interna, comprendente i primi quindici distretti, era stata chiusa agli Esterni per bloccare le razzie che alcuni clan vampiri conducevano nei confronti degli umani. Clan di vampiri capitanati da poveri sciocchi, certamente, perché stentavo a immaginare un Raphael Beaumont alle prese con manie di conquista più grandi di lui. E se non più grandi, sicuramente poco adatte al tipo di divertimento che Beaumont preferiva.
“Non è come sembra.” Il tono tranquillo di Thiago contrastava prepotentemente con la situazione in cui si trovava, i riccioli neri e indomabili che gli scendevano fino alle spalle e lo sguardo di pece puntato verso il nulla.
Mi voltai, dando le spalle alla cartina e osservando un Raphael impegnato a ripulirsi le mani ancora sporche del sangue della donna uccisa qualche ora prima. Non aveva voluto usare l’acqua, ma solo un panno in principio candido come la neve, ben consapevole dell’effetto che qualsiasi liquido tanto puro come l’acqua corrente avrebbe potuto avere a contatto con il sangue della nostra specie.
Tutto è puro per i puri.
Scossi la testa a una delle tante frasi che mi tornavano alla mente, ogni tanto. Quelle frasi che non mi avevano mai davvero lasciata dal Prima, ricordo di una vita passata che avevo ormai dimenticato, nonostante a volte mi chiedessi che tipo di realtà fosse stata.
Nonostante a volte bramassi di sapere se ne fosse mai valsa la pena, di viverla per poi finire… qui.
Raphael teneva gli occhi fissi su un Thiago che, di rimando e non potendo vedere, gettava invece la testa indietro sbuffando, grattandosi una spalla con nonchalance. Insieme con lui c’era il suo inseparabile compagno, El, vampiro unitosi al Clan pochi anni prima e che sostava ora alle spalle della sedia di Thiago, il fianco contro il vecchio legno. Aveva gli occhi chiusi, i capelli scuri che in piccole onde gli ricadevano sulla fronte e una postura all’apparenza rilassata, anche se sapevo come i suoi istinti fossero pronti a scattare in qualsiasi momento.
Per i vampiri privi di vista non esisteva la pace, dicevano.
“Non ho ancora parlato, Thiago. Come fai a sapere cosa voglia da te?” Domandò Beaumont con calma, rigirandosi il panno sporco tra le dita.
“Sono previdente,” fece il vampiro cieco, piegando la testa di lato, verso di me. La sua attenzione sembrò spostarsi sulla mia figura ma non mi apostrofò, preferendo invece accennare un sorriso.
Un sorriso è il mezzo scelto per ogni ambiguità.
Sorrisi a quella citazione di…
Non ricordavo di chi, ma ero sicura di averla già sentita.
Raphael puntò lo sguardo su di me, facendo segno verso un catino pieno d’acqua che si trovava a lato della stanza, vicino alla porta d’ingresso. Mi affrettai a recuperarlo, poggiandolo con delicatezza al centro della scrivania del capoclan e facendo un passo indietro quando quest’ultimo vi gettò dentro il panno. Immediatamente l’acqua iniziò a ribollire, assumendo una sfumatura violacea che ricordava tanto il cielo della città durante i temporali, solo più scura e malata, nera a contatto con la parte metallica del catino e rosea verso il centro.
Un leggero schizzo finì per terra, emanando un bagliore sinistro che studiai con timore.
Thiago fissò gli occhi non vedenti sul liquido bollente proprio quando quello iniziò a fumare, evaporando nell’aria e purificando il panno da quello che era stato il sangue malato di Celiné.
“Tornando a noi,” fece Beaumont, sedendosi sulla scrivania e fissando l’acqua evaporare. “Mi dicono che abbiate una particolare predisposizione per le scappatine notturne.”
El aprì gli occhi, fissandoli verso di noi con espressione impassibile. Il suo amico, invece, alzò gli stivali sul bordo della scrivania, lo sguardo incuriosito che vagava per la stanza e le labbra unite in un broncio infantile. “Se intendi nei boschetti circostanti, sì. Li trovo confortevoli.” Ammise, aggrottando poi le sopracciglia. “La città, invece… posto sgradevole.”
“Sgradevole,” fece eco il capoclan, scettico.
“Sgradevole.” Fu la voce profonda e roca di El a rispondere con tono inespressivo, gli occhi pece fissi su Raphael.
Lo guardai. Ogni volta che gli concedevo un’occhiata una strana sensazione si faceva spazio tra i miei pensieri, confondendomi. Era come se qualcosa cercasse di uscire, spingere tra i recessi della mia mente e mostrarsi alla luce di quel sole che non avrei mai più potuto rivedere.
Inutile a dirsi, sparì prima che potessi indagare.
“Sgradevole come può esserlo il collo di una donna?” Chiese Raphael, muovendo ritmicamente la gamba destra come spesso faceva quando doveva rimanere seduto. Era un vizio rimastogli dal Prima, a quanto aveva più volte dichiarato, un vizio che non mancava di agitarmi e mettermi una certa ansia ogni volta che lo vedevo – davanti ai vampiri che conservavano il Dono tendeva a nasconderlo, ma non appena ne aveva l’occasione riprendeva immancabilmente a muoversi, come se non riuscisse a rimanere immobile, come fosse perennemente sovrappensiero e stranamente umano. “Sgradevole come l’odore del sangue fresco, magari. O ancora vorresti dirmi sgradevole come il canino che potrei spezzarti per le menzogne che non manchi di inventare?”
Thiago sorrise in modo amabile, grattandosi la punta del naso. “Per quanto il collo di una donna possa attirarmi, Ralph, temo di dover andare per il canino.”
Il suo compagno trattenne una risata, mentre Beaumont aggrottava le sopracciglia, “Ralph?”
“Era Philipe?” Domandò Thiago in tono incuriosito.
Raphael distese le gambe di fronte a sé, piegando la testa di lato, “Non troverai nomi che non mi appartengono. Almeno uno, un giorno o l’altro, una donna lo ha gridato pensando a me.”
Mi schiarii la gola nella speranza di richiamare l’attenzione dei presenti. Se fossimo rimasti ad aspettare che le questioni tra maschi alfa fossero finite per vie convenzionali, non saremmo mai giunti al punto della situazione.
Per fortuna, Raphael comprese il messaggio e decise di coglierlo, “Tuttavia, temo la prossima donna dovrà attendere. Vi ho convocati qui per un motivo ben preciso e mi aspetto che entrambi sappiate soddisfarmi come la situazione richiederà.”
Per tutta risposta, El richiuse gli occhi mentre Thiago si alzò in piedi, stiracchiandosi. Aveva un fisico sinuoso nonostante l’altezza moderata, e i capelli scuri sembravano ancora più lunghi e ribelli quando tirava la testa all’indietro.
Si piegò in avanti e poggiò entrambe le mani sulla scrivania, sporgendosi verso Beaumont, “Di solito mi limito a soddisfare le donne, ma per te potrei fare un’eccezione, Rob.”
“Proponi i tuoi servigi a qualcun altro e in un altro momento, Theodore, perché la prossima volta che ci rivedremo potrebbe essere molto lontana.”
Per la prima volta dall’inizio della conversazione, Thiago sembrò turbato. “Non mi chiamo Theodore,” mormorò, mentre Raphael si sporgeva verso di lui, mimando la posizione del vampiro ceco, nonostante quest’ultimo non potesse vederlo. “In mia presenza, Theo, l’unico nome che avrai sarà quello che io ti darò. E se non ti starà bene, non sarà solo un canino che ti strapperò, ma anche qualcosa che potresti trovare molto più prezioso.”
Distolsi lo sguardo nel momento in cui Thiago perse completamente il sorriso, passando a un’espressione impassibile che non vestiva spesso. Le maschere che quel vampiro portava, più e più volte, con più e più persone erano sempre varie, e per questo erano in pochi quelli che si fidavano di lui… e di cui lui si fidava. Io ero una di quelle che cercava di stargli alla larga, visto come la sua sola presenza sapesse mettermi a disagio.
“Sono a conoscenza delle vostre gite notturne, è inutile continuare a negarlo” fece Raphael, ignorando il cambio di comportamento di Thiago. Non era tipo da farsi intimidire dall’improvviso astio di qualcuno a lui ritenuto inferiore: piuttosto tendeva a imporre la sua autorità su tutti quelli che gli dovevano fedeltà, volenti o nolenti. “E non si ripeteranno. Almeno, non senza il mio consenso. Per questo sarete voi a condurre la spedizione fuori dalla città, nell’Area 18,” fece un cenno verso di me, nonostante gli altri non potessero vederlo, “insieme con Susan, che sarà la vostra guida. Lei conosce quelle zone e, ancora più importante, sa come non farsi notare lì dove voi non cercate neppure di nascondervi.”
“E cosa dovremmo fare?” Fu la voce di El a intervenire, stavolta, mentre Thiago si perdeva nei suoi pensieri, lo sguardo che vagava per la stanza. “L’Area 18 è disabitata. Cosa dovremmo andare a cercare?”
Raphael si allontanò dalla scrivania, avvicinandosi a uno degli scaffali straripanti di libri impolverati che si trovavano alle sue spalle. Tirò fuori un tomo dalla copertina lurida e stropicciata, dall’aspetto antico come lo poteva essere qualsiasi altro pezzo di carta – avevo letto in vecchie pergamene scritte nella lingua comune storie di libri un tempo eleganti, da cui le persone attingevano sentimenti, nozioni e storie di tutti i giorni. Mi pareva assurdo che qualcosa di così piccolo e insulso potesse davvero significare così tanto per così tante persone, nonostante la mia mente continuasse a tradirmi, di quando in quando, con frasi rubate a qualcosa che avevo vissuto ma che non riuscivo a ricordare.
Con un gesto rapido, Beaumont lanciò il libro in aria, verso di me, e io lo presi al volo rischiando di cadere in avanti per il peso delle pagine e rovesciando per terra diversi fogli che sfuggirono al tomo, evidentemente infilati tra vecchi capitoli, appunti di un tempo, magari di uno studioso o di uno scolaro, o ancora di qualche vecchio appassionato d’arte tanto immerso nella propria lettura da prenderne appunti scritti. Mi chinai a raccogliere i fogli mentre il capoclan continuava a parlare, spiegando ai miei due futuri compagni come avrebbero dovuto seguirmi e rispettare le mie regole, ignorando le risatine sommesse di Thiago, il quale sembrava aver ritrovato il buon umore, e iniziando a descrivere la persona che avremmo dovuto cercare.
Mi sentii ogni secondo più stanca al pensiero di dovere averlo accanto per giorni interi.
“Non tornate senza avere Bohm,” disse Raphael, mentre recuperavo l’ultima pagina. “E Susan, consegnagli il libro e la lettera al suo interno. Se dovesse sparire, avrò tre nuove lingue da appendere al muro e un paio di occhi in meno; sono stato chiaro?”
“Cristallino.” Fece El, mentre Thiago sorrideva e io posavo gli occhi sulla frase scritta nella lingua comune, a lettere schiacciate ma ancora ben visibili: questo per esperienza è provato, che chi non si fida mai sarà ingannato.

 

***

Note: quarto capitolo, POV di Susan! Grazie a tutti quelli che mi seguono o anche solo rimangono incuriositi abbastanza da arrivare fin qui ^^ dopo la pausa estiva ho ripreso la storia in mano e la continuerò, con calma e spero sempre con passione :)
Citazioni nel capitolo:

Tutto è puro per i puri – Sant’Agostino.

Un sorriso è il mezzo scelto per ogni ambiguità – Herman Melville.

Questo per isperienza è provato, che chi non si fida mai sarà ingannato – Leonardo da Vinci

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