Like I'm made of glass

di Autumnsong
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** And you must keep your soul like a secret in your throat. ***
Capitolo 2: *** These are the stories of our lives as fictional as they may seem. ***
Capitolo 3: *** And the hardest part of living is just taking breaths to stay. ***
Capitolo 4: *** Because these words were never easier for me to say. ***
Capitolo 5: *** But you were lost in the beating of the storm. ***
Capitolo 6: *** Let the leaves fall off in summer. ***
Capitolo 7: *** Days when I can still feel alive. ***
Capitolo 8: *** we burn 'cause we are all afraid. ***
Capitolo 9: *** I will die by your hand. ***
Capitolo 10: *** If we forget the things we know, would we have somewhere to go? ***
Capitolo 11: *** We're not broken, just bent and we can learn to love again. ***



Capitolo 1
*** And you must keep your soul like a secret in your throat. ***


 

Like I’m made of glass

 

                                                                                                                                                                                                                      

«Fragile!» mi urla Bob scendendo dal grosso furgone rosso fuoco parcheggiato fuori dal magazzino.
Annuisco in sua direzione e mi infilo un paio di guanti, poi spalanco i portelloni del mezzo e salgo nel rimorchio.
Lavoro qui da un bel po’ ormai, e mi piace abbastanza: essendo addetto agli scarichi e non alle cazzate burocratiche mi diverto a frugare nei cartoni di merce che arrivano – ok, non dovrei ma altrimenti mi annoio! – e chiacchiero con i clienti, sempre omoni grossi e puzzolenti che non hanno voglia e tempo di scaricarsi la roba da sé.
Ci sono pochi scatoloni rispetto al solito, ben accatastati in un angolo e legati alla parete con del nastro.
Aspetto che Bob sia appena sotto al rimorchio e sollevo il primo cartone, pesa molto e sento un rumore di vetri dall’interno. 
«E’ cristallo, attento!» ripete accigliato. Serro le labbra per non mandarlo a farsi fottere; lo so che è fragile, diamine.
Lo so meglio di lui come si maneggia un fragile.
Gli passo tutti i cartoni uno ad uno, con attenzione, poi scendo dal furgone e mi siedo su una cassa vuota lì di fronte.
Sono le sei di sera, ho voglia di andare a casa ma devo ancora sistemare un paio di cose, e devo restare se voglio uno straccio di stipendio per pagarmi appartamento, macchina eccetera. In verità questo è un lavoretto secondario, io suono, ho bisogno di suonare ed è la cosa che so fare meglio. 
Ho bisogno dei soldi per la chitarra però. E gli amplificatori. E le corde. E tutto quello che mi serve. Insomma, lavoro qui per poter suonare ma quando torno a casa sono tanto stanco da non aver nemmeno voglia di prendere in mano la chitarra, mi butto sul letto senza cena e vestito di tutto punto e dormo. O studio.
Bob si avvicina con una sigaretta tra le labbra, estrae un accendino e la accende, ma sto già tossendo. «Vai a fumare da un’altra parte, per favore» farfuglio con una mano sul petto.
Non ha ancora capito?!
Lui se ne va scocciato ed inizia a prendere a calci una lattina che schizza birra ovunque.
Sbuffo, e lancio un’occhiata ai cartoni di bicchieri appena scaricati:
Beh, se c’è qualcosa più fragile persino del cristallo, quello sono io.

Ogni cosa può farmi male.
Ogni soffio di vento può farmi perdere l’equilibrio, farmi cadere come un castello di carte.
Ogni granello di polvere ed ogni respiro, devo stare attento a come mi muovo, cosa faccio, cosa tocco.
Dicono che ciò che ci uccide fortifica, classica frase da finto saggio.
Cazzate.
Tutte cazzate.
Forse all’inizio ti senti più forte, potente, sei convinto di poterti piegare ma mai spezzare, ma ogni colpo è un punto in meno sulla scala della resistenza, sparisce e ci vuole una vita per recuperarlo.
Cadi, ti rialzi e lasci indietro un pezzetto di te, lì a terra.
Qualcosa accade, sì.
Qualcosa si stacca.
È vero, io sono ancora qui e ne sono orgoglioso, un pochino.
Sono ancora qui in piedi, sempre più forte e sempre più debole.
Io sono Frank, ho diciott'anni e sono fatto di vetro.













Ciao!
L'idea per questa storia mi è venuta leggendo una rivista.
Spero vi piaccia e che possa trasmettervi qualcosa.
La tag è stata fatta da dryvenom, e "foolshaded" è il mio vecchio nickname.

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Capitolo 2
*** These are the stories of our lives as fictional as they may seem. ***


These are the stories of our lives as fictional as they may seem-



Mi sveglio sudatissimo come ogni mattina.
Sono le sei e un quarto, tiro un pugno alla sveglia per zittirla e mi alzo a sedere sul divano a gambe incrociate, stiracchiandomi.
È lunedì, e di lunedì si va a scuola, purtroppo. Per quanto io possa detestare il lavoro che faccio, è sempre meglio di quel manicomio travestito da prigione chiamato scuola. Per non parlare del fatto che non devo studiare per scaricare quattro scatoloni dai camion che arrivano al magazzino, mentre se voglio andare avanti devo scervellarmi sui libri ogni giorno, concentrarmi, cose di cui non vado certo matto.
Anche se una certa soddisfazione la trovo, lo ammetto.
Comunque ho una buona media.
Mi butto giù dal divano e mi trascino verso il frigorifero, da dove prendo un succo di frutta, e lo scolo mentre con l’altra mano apro l’ennesima confezione di pillole.
Quando finisco il succo, metto in bocca le pillole, inghiottisco, e prendo un respiro profondo.
Sento vibrare il cellulare sul tavolino del soggiorno.

Devo parlarti, oggi alle 15.

Sbuffo. Ormai incontro quella donna quasi ogni giorno e non passa un’ora che non mi arrivi un suo sms o una sua chiamata, dove mi chiede come sto, cosa faccio, se sono vivo o morto.
Lo so, lo fa perché tiene a me. Ma così mi ricorda continuamente che non posso stare bene.
E non ho certo bisogno che qualcuno me lo ricordi.
Prendo lo zaino e ci infilo una mela, un block notes, due penne e le caramelle per la gola e mi avvio fuori dall’appartamento con le cuffie nelle orecchie.
Il tragitto verso la scuola non mi piace per niente: fa sempre freddo, quindi esco coperto dalla testa ai piedi, poi però se sono in ritardo corro e sudo, e quando arrivo all’ingresso ho ancora più freddo.
Non aiuta il fatto che non ci siano autobus che si sprecano a passare davanti al mio appartamento, quindi la corsetta alla mattina la faccio sempre.

Entro in classe proprio mentre la campanella annuncia l’inizio delle lezioni, e mi siedo prima di essere sommerso dall’orda di ragazzi che si riversano nell’aula per prendersi i posti migliori; io riesco ad arrivare prima e mi accaparro l’angolo in fondo a destra, accanto al muro.
E al termosifone.
Sono un tipo abbastanza freddoloso.
La prima lezione è biologia; stiamo facendo per il quarto anno di fila educazione sessuale con un professore che dà l’impressione di essere la persona meno adatta per questo tipo di cose: basso, grasso, calvo, denti gialli e alito che puzza di formaggio.
Spesso mi chiedo se abbia mai sperimentato di prima persona ciò che ci insegna, ma nessuno ha le palle di alzare la mano e di chiederglielo direttamente.
Inizia a parlare di malattie sessualmente trasmissibili, argomento che so a memoria.
Appoggio la testa sul braccio ed estraggo il block notes per iniziare il saggio sulle influenze del punk negli anni ottanta, compito di preparazione per la simulazione dell’esame di musica.
Scrivo, scrivo e scrivo come non ho mai fatto, raramente ci danno temi su questi argomenti e decido di approfittarne per risollevare il voto di italiano. La voce del professore è una fredda cantilena sempre sulla stessa nota, e quando alzo lo sguardo ed osservo la classe noto che la maggior parte dei ragazzi guarda il muro dietro all’insegnante con sguardo vacuo.
Qualcuno alza la mano e nel frattempo mi tira una cartaccia: 
«Quindi se uno fa sesso con tutte se lo prende l’HIV?» urla, poi inizia a sghignazzare seguito da metà classe, quella che ancora si rende conto di essere seduta ad un banco e non a letto a russare. Non ascolto la risposta del professore, non lo guardo. Mi limito a prendere le cuffiette dallo zaino, attaccarle all’i-pod ed infilarle nelle orecchie, ben nascoste sotto i capelli; non sento la campanella che suona, l’ora di biologia è finita.
Tutti si alzano, tranne me.
Mi arriva un'altra cartaccia.

L’intervallo arriva dopo quella che mi sembra un’eternità, e quando esco dall’aula con la mia mela torno nel disagio che provo ogni fottuta volta che sto in mezzo alla gente che mi conosce.
Bene, diciamo che i miei compagni si comportano con me in due modi diversi: una parte di ragazzi mi sta alla larga come se avessi la peste e potessi contagiarli. Mi salutano, mi fanno cenni educati, ma se mi avvicino trovano subito qualcosa da fare lontano da me.
L’altra parte invece mi sfotte, e mi sfotte di brutto. Cartacce, cicche tirate nei capelli, biglietti sull’armadietto, sguardi che mi colpiscono come pugni nello stomaco, più delle parole sussurrate alle spalle o delle provocazioni. “Puttaniere”, “Sverginatore”, “femminuccia”, potrei stilare un elenco chilometrico.
Mi ritengo un tipo tranquillo, non ho mai preso a cazzotti nessuno per questo, anche se a volte sputerei volentieri in faccia a tutta quella gente; se sapessero. Se potessero capire non direbbero quelle cose.

Cammino a passo svelto senza guardare dove vado, e mi fermo soltanto arrivato al mio armadietto; inserisco la combinazione e ci infilo i libri.
Mi appoggio all’anta per mangiarmi la mela e mi guardo attorno: oggi è il grande giorno, la squadra della scuola giocherà la prima partita della stagione, sotto la pioggia, i giocatori sono molto eccitati e le cheerleader saltellano per i corridoi accennando passi della coreografia o confabulando sul come vestirsi per il festino che segue ogni partita. Infondo al corridoio, due ragazze stanno facendo a botte.
Dall’altro lato un punk sta sbattendo la testa al muro, mormorando cose incomprensibili; nessuno gli presta attenzione.
Poi sbaglio a chiamare la scuola manicomio?
Un ragazzo mi passa davanti camminando svelto e a testa bassa, e si ferma a circa venti passi da me per riporre la borsa nell’armadietto: mi giro verso di lui, e lo osservo da lontano.

Gerard Way è l’esatto contrario di ciò che sono io.
Alto, sicuro, forte.
E sporco.
Oh, Gerard è così sporco.
Fuori, di vernice ed inchiostro.
Dentro, di rabbia.
E rimpianti.
E rimorsi.
La verità è che Gerard Way vive nella più profonda e crudele solitudine, e tutto ciò lo rende strano e diverso almeno quanto la mia situazione rende diverso me, dagli altri.
È l’emarginato.
Gerard Way non ha nessuno.
E nessuno può avere Gerard Way, perché lui sa badare soltanto a sé stesso, le piante appassiscono in casa sua, i pesci muoiono.
Le persone scappano.

Io sono fatto di vetro.
Gerard Way è roccia.












Boh, ciao. 


Autumnsong EFP

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Capitolo 3
*** And the hardest part of living is just taking breaths to stay. ***


 

I said 'where have you been?', he said 'ask anything'-
 

Arrivo in ospedale verso le cinque, dopo aver passato il pomeriggio a studiare.
Odio gli ospedali, decisamente, odio vedere i malati e gli infermieri, i dottori, le medicine, li odio, pur essendoci quasi abituato.
Mi infilo la mascherina ed entro nell’atrio, dove delle persone aspettano il loro turno per essere visitate.
Passo a salutare Hilda, la segretaria cicciona che sta lì da una vita e non cambia mai, e scendo le scale che portano agli uffici, nei sotterranei.
Mi sono sempre stupito del fatto che questi uffici si trovassero in un ambiente tanto diverso da quello dei vari reparti, pur essendo nello stesso edificio: niente odore di disinfettante, niente occhi vitrei e tuniche bianche, nessun beep dei macchinari.
Sembra davvero di essere in un altro luogo.
“Non ci piacciono i malati” mi disse una volta un uomo che lavorava ad uno sportello lì sotto.
Ci rimasi veramente male, e ci penso ancora oggi quando passo per questi corridoi; alla fine, anche loro lavorano in un ospedale e hanno a che fare con i malati, anche se indirettamente.
Cercai ancora quell’uomo, ma non lo incontrai mai più.
Arrivo all’ultima porta a destra, l’unica verde, quasi volesse differenziarsi  dalle altre, dal banale color legno.
Busso tre volte ed entro senza aspettare l’invito.
«Oh Frank, sei tu!» una donna magrissima si alza dalla scrivania e mi sorride venendomi incontro, ed infilandosi un paio di quanti.
Le stringo la mano plastificata e sorrido di rimando.
«Tutto bene?» mi fa, invitandomi a sedermi sulla poltroncina di fronte alla sua.
«Lei è il medico, me lo dica lei» rispondo pacato, e mi siedo allungando le gambe.
La donna prende il blocco note rosso, il solito, con il mio nome scritto in minuscolo all’angolo della copertina, si infila gli occhiali e prende una penna dal barattolo accanto al computer.
«A scuola come va? Riesci a stare al passo con i compiti?» inizia con tono disinteressato, quasi fosse un robot.
Nella testa ho ben impressa la lista delle domande che ogni volta mi fa, e anche l’ordine, che da un paio di settimane rimane lo stesso ad ogni seduta. Annuisco «Bene, mi tirano ancora le cartacce ma ci sono abituato..»
Lei scrive. «Il lavoro? Ti stanca?» annuisco ancora, e le do la stessa risposta delle altre volte. «Sì mi stanca, ma i soldi dove li trovo altrimenti?» lei alza un sopracciglio, e continua a scrivere.
«Ci sono degli assistent-» la interrompo alzando una mano, e scuoto la testa.
«Non mi servono, tra un paio di mesi compio diciott’anni e comunque se dovessi avere bisogno di qualcosa ho i miei genitori.
In verità non capisco nemmeno il perché di questi incontri con lei, insomma, non ha altro da fare?» le sorrido per farle capire che non sono completamente serio, anche se non vedo davvero il motivo di queste sedute.
Mi lancia un’occhiata divertita «C’è posto anche per te, credimi. Le terapie?» continua.
«Sempre le solite» rispondo sbuffando, e lei scrive. «Ok Frank...» sospira poi, chiudendo il quaderno e poggiandolo sulla scrivania.
Chissà perché non usa il computer per scrivere, probabilmente ha la mentalità antica. «Hai qualcosa da raccontare? Pensieri strani, sogni...? Ti senti sempre a disagio a stare con gli altri? E le ragazze, hai qualche cotta?»
Ridacchio scuotendo la testa: «Ok, stavolta si è sprecata!» esclamo «No, no, non ricordo mai i sogni, sì mi sento a disagio, niente ragazze. Nulla di nuovo, davvero.»
Non commenta, ma parte in quarta con la prossima domanda. «Esci con gli amici? Dove andate? La sera?» mi scruta, e la guardo di rimando. «Quali amici?!» faccio, e mi risponde alzando gli occhi al cielo. «Non dirmi che stai sempre da solo, coraggio, non sei sempre in giro come i tuoi coetanei?» stavolta scoppio a ridere, di una risata amara. «Ok, cosa?! Hahah. Scusi, non possono nemmeno toccarmi, chi vorrebbe uscire con me? E comunque “i miei coetanei” fumano tutti, e il fumo passivo mi fa stare male, no?» Di nuovo mi risparmia commenti o risposte sconcertate, anche se mi guarda con un misto di compassione e perplessità.
Credo che un giorno porterò la macchina fotografica ad una seduta, e fotograferò ogni espressione della sua faccia, verrebbe un collage da regalarle al compleanno! Sorrido malizioso pensando che se sapesse cosa mi passa per la testa rimarrebbe esterrefatta.
Mi porge un foglio. «E’ il calendario delle terapie di gruppo e sostegno...» mi spiega. «So che non verrai, ma prova a pensarci almeno!» resta con la mano tesa verso di me finchè non prendo il foglio.
«Certo, arrivederci» rispondo alzandomi, la saluto e me ne vado, esco, scappo.
Al primo cestino butto il calendario.

Nel tragitto verso casa penso a ciò che mi ha detto la dottoressa, come faccio di solito.
A dire la verità, una volta uscivo, tipo due anni fa.
Non spessissimo, e comunque stavo lontano dalla gente che fumava, dall’alcool, dalle droghe, e tornavo presto a casa perché tutte le medicine che prendevo mi stancavano.
Ma uscivo.
Poi però qualcuno ha avuto la brillante idea di intromettersi nei miei affari, e renderli pubblici. E all'improvviso i cari amici sono spariti tutti, come la neve al primo sole.
Comunque odiavo girare per la città con la mascherina, almeno a casa la posso togliere.

«Pronto, parlo con Frank Iero del liceo biologico?» dice la voce dalla cornetta del telefono.
Riconosco la segretaria della scuola, e rispondo sbuffando. «Sì sono io. Che succede?» alzo un sopracciglio: sarà uno dei soliti stupidi avvisi.
«Un alunno della sua classe di letteratura è affetto dall’influenza, prenda le dovute precauzioni.» Come non detto.
«Certo, certo, arrivederci.» faccio annoiato, e butto il cellulare sul divano.
Beh, amen. Non ho certo intenzione di perdermi sei ore di lezione, altrimenti rimango troppo indietro.
Tanto è un’influenza, che sarà mai?
 
«Non girovagare per i corridoi. Torna in classe per l’ora successiva. Non fare cavolate.»
«Sì preside, arrivederci preside..» recito, come una poesia.
Alla fine ho deciso di saltare l’ora di letteratura, tanto per non cercarmi i problemi.
Faccio due passi nell’atrio pensando a dove potrei andare, poi mi avvio verso la vecchia palestra, sicuramente sarà vuota. Amo quel luogo. Quando mi capita di dover pensare, o quando voglio stare da solo, mi rifugio lì e mi sento meglio.
L’unico rischio è che c’è molta polvere, ma è abbastanza arieggiata, con due grandi finestre sul soffitto.
E’ un’ampia sala con il muro scrostato ed il pavimento pieno di buche, ma è bella, fresca e silenziosa.
Vado verso il mio angolino, tra i materassi e il muro, e mi blocco: Gerard Way è seduto per terra completamente vestito di nero, e sta dipingendo dandomi le spalle.
Deve avermi sentito, perché si gira di scatto; prende la borsa e fa per alzarsi, ma lo fermo.
«No no, non te ne andare! Non sapevo che anche tu conoscessi questo posto.. Me ne vado io, se disturbo..» esclamo agitando le mani.
«No» sputa fuori.
Credo sia la prima volta che sento la sua voce.
«No...?» mi avvicino curioso.
«Puoi... Resta se vuoi, stavo solo disegnando. C’è posto per tutti e due, comunque.»
Annuisco, e mi siedo di fronte a lui appoggiandomi al muro. Sta dipingendo usando della vernice nera, l’odore mi penetra nelle narici e mi fa tossire. Lui mi lancia un’occhiata, e copre subito il barattolo. «Scusa...» borbotta, abbassando lo sguardo.
Scuoto la testa e mi metto più comodo. «Vieni anche tu qui quando vuoi stare in pace?» mi chiede guardandomi di nuovo, di sfuggita. Quasi avesse paura di guardarmi... Solita storia. «Si» faccio osservando le sue mani muoversi velocemente sulla tela. «Nessuno mi guarda storto, quaggiù!»
Finalmente alza lo sguardo e mi scruta intensamente. Ha gli occhi verdi, limpidi e puri. «Sì capisco. E’ brutto essere al centro dell’attenzione» concorda, poi socchiude gli occhi pensieroso.
«Mh, però è brutto anche non esserlo per nulla, sai? Uhm, capisci che intendo...?» Mi guarda grattandosi la testa.
Sì, capisco. Lui potrebbe mettersi ad urlare in centro all’atrio della scuola, e a nessuno importerebbe.
Pensandoci, è triste. «Già..m» faccio annuendo.
Vorrei fargli tante domande, essere per una volta io a chiedere le cose e gli altri a rispondere, ma la campanella ci interrompe puntualissima.
Ci alziamo nello stesso istante, e lo guardo riporre i pennelli e la vernice nella borsa; poi prende la tela sottobraccio e ripone il cavalletto tra un materasso e l’altro, per non portarselo appresso per tutta la giornata. Si volta verso di me e mi porge la mano.
La guardo: è sporca di nero, e ci sono dei taglietti sul palmo.
Scuoto la testa sorridendo, e gli do una veloce pacca sulla spalla.
«Non posso» faccio, mi guarda con aria interrogativa.
Scrollo le spalle «Ci vediamo Gerard» mi dileguo lasciandolo con il braccio teso.








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Capitolo 4
*** Because these words were never easier for me to say. ***


I will never let them hurt you-




Il soffitto di casa mia è proprio un bel soffitto.
Ogni mattina resto a fissarlo sdraiato sul letto, respirando profondamente, cercando di svegliarmi e di trovare la forza per alzarmi, abbandonare il calduccio delle coperte e gettarmi in una nuova giornata.
Diciamo che stamattina non l’ho ammirato molto, il soffitto.
Più che altro mi sono buttato giù dal letto per dare un’ amichevole testata al pavimento, mi sono scaraventato in cucina, ho dimenticato di prendere le pastiglie e senza colazione, senza giacca e senza nemmeno un po’ di voglia di vivere sono uscito al freddo e mi sono fiondato a scuola, anticipando il suono della campanella di circa dieci secondi.
Passo davanti al tabellone degli orari prima di dirigermi verso l’armadietto, e sbuffo sonoramente: educazione fisica, cioè guai in vista.
Devo dire che lo sport non mi dispiace, fino ad un paio di anni fa andavo ad arrampicare, ma il magnesio mi provocava degli sfoghi sulle mani e comunque ero impegnato tra scuola e psicologa eccetera, quindi mollai.
A volte vado a correre, mi fa sentire libero.
Per il resto però, odio la palestra; è quella nuova, non quella dove amo andare per stare tranquillo, questa è troppo grande e troppo luminosa, gli spogliatoi puzzano di sudore, di fumo e di qualunque cosa che non si possa classificare come ‘’profumo’’.
D’altronde questa è l’unica palestra attiva e gratuita della città, e la maggior parte dei corsi di pallacanestro, calcio e quant’altro vengono svolti qui, senza che la stanza venga mai pulita. Che schifo.
Ok, forse sono io che sono maniaco della pulizia, d’altronde non potrei fare altrimenti, ma avere la più vasta collezione di germi della città, tutti in uno spogliatoio solo, beh, mi fa abbastanza vomitare.

«Hey” una voce mi fa voltare e mi ritrovo Gerard Way davanti, con un blocco da disegno in mano e dei pennelli che spuntano dalla tasca.
E’ completamente vestito di nero, di nuovo, e i jeans aderenti gli stanno bene...
Sospiro pensando a quante sensazioni mi provoca quel ragazzo.
Odio ammetterlo, ma mi piacciono i ragazzi.
No, mi correggo: mi piace lui.
Vabbè. 

«Ciao!» sorrido, almeno qualcuno mi saluta, punto in più per me. 
«Come stai?» mi chiede accennando un sorriso, ha sorriso! Sto decisamente meglio. «Bene, uhm...” mi interrompe con una mano, tanto non avevo nulla di interessante da dire. 
«Volevo ringraziarti per l’altro giorno, per avermi tenuto compagnia. Non lo fa mai nessuno» alza le spalle e se ne va.
Oh, Gerard. Quanto sei fottutamente strano?
E quanto vorrei aver preso l’indirizzo di psicologia soltanto per sapere cosa diamine ti passa per quella testa da sognatore?
Chiudo l’armadietto e mi avvio alla lezione, con una strana sensazione di felicità addosso.
Mi cambio la maglietta velocemente in un angolo dello stanzino e poi mi siedo sulla prima panchina che trovo, aspettando che prof e compagni siano pronti.
Un fischio mi avvisa che l’insegnante è attiva ed iniziamo a correre in cerchio, il tempo non passa più.
Chiudo gli occhi e corro, ma eccola: la nausea mi sta salendo, è tornata a trovarmi.
Appuntamento fisso delle ore di educazione fisica.
Continuo a correre, comunque è ancora leggera e se mi fermo la prof mi trincia, e sarebbe un altro pretesto per scherni vari, no grazie.
Dopo venti minuti ininterrotti di tortura sottoforma di corsa però, sono costretto a fermarmi. 

«Tutto bene Iero?» fa la prof avvicinandosi.
NO non va tutto bene. 

«Si, si, potrei andare in bagno?» rispondo respirando piano, e ad un suo cenno mi avvio fuori dalla palestra, quasi sorridendo al pensiero di quanto mi staranno sputtanando i miei “amici” rimasti a correre.

La mia scuola è davvero, davvero grande.
Come ho già detto la odio, ma ci sono dei luoghi che mi piacciono qui; uno di questi è la palestra vecchia, un altro è il piccolo bagno che c’è nella mansarda, proprio accanto all’aula di biologia, dove tengono la serra con le piante.
E’ il più piccolo bagno della scuola, ed è frequentato solo occasionalmente dagli studenti che fanno biologia e da quelli che ci passano casualmente davanti proprio quando hanno bisogno di farla.
E da me. Io lo adoro.
E’ arieggiato, luminoso, soprattutto è pulito, mi piace.
Quindi salgo le infinite scale ed arrivo dritto nel bagno, non chiudo la porta, tanto non c’è nessuno.
Mi siedo ed appoggio la testa al lavandino, mi stringo le ginocchia al petto e le circondo con le braccia, poi poggio la testa e chiudo gli occhi. Silenzio, finalmente.
Aria.
Silenzio e aria sono le cose di cui ho principalmente bisogno, e il bagno me li sa dare, quindi amo questo bagno.
La testa mi scoppia, vorrei ficcarla in un freezer e farla raffreddare, mi sembra di avere un falò acceso nel cervello.
E nello stomaco.
Respiro profondamente e rimango lì, immobile.


«Frank?” sento dei passi avvicinarsi, la porta si chiude e la voce di Gerard mi penetra nei timpani.
Si inginocchia di fronte a me, mentre continuo a premermi le dita sulle meningi, quasi a cercare di tenere insieme i pezzi di testa che potrebbero scoppiare da un momento all’altro.
Serro le labbra e trattengo il respiro; voglio vomitare.

«Frank stai male?» come cazzo ha fatto a trovarmi?
Forse è un’altra cosa che abbiamo in comune, quella di amare questo posto?
Lo sento muoversi e guardo il suo braccio alzarsi . 
«No...» faccio ritraendomi, alzo piano la testa. «Non toccarmi, Gerard.» 
Non toccarmi, che hai dei tagli sulla mano.
Potrei avere dei taglietti sul braccio, o qualcosa sulla pelle.
Non toccarmi, Gerard.
Ferma le dita ad un centimetro dalla mia pelle.
Si sposta un poco. 
«Perché?» chiede sussurrando.
Oh, Gerard. Stringo i pugni deglutendo, e sorridendo debolmente.
Possibile che tu sia così solo da non sapere nemmeno questo? Nessuno te ne ha mai parlato, ridendo con faccia da strafottente? Non hai passato anche tu le lezioni ad inventarti nuovi soprannomi da affibbiarmi all’intervallo?
Alzo lo sguardo, i suoi occhi fissi sui miei.

«Ho l’AIDS» soffio, lo dico piano, quella sigla mi fa male, dirlo mi fa male.
Spalanca gli occhi, cade indietro fino a poggiare la schiena sulle fredde piastrelle della parete.
Mi guarda e non dice nulla, e a me sembra che il tutto si svolga al rallentatore.
Rimaniamo così per diversi secondi, forse minuti.
Ora sfotterai anche tu, vero?
Hai finalmente un pretesto per cercare di sembrare come tutti gli altri, adesso.
Dimmi cosa pensi.
Si alza e si volta verso il lavandino, ed apre il rubinetto; mette le mani sotto l’acqua corrente, prende il sapone, inizia a sfregarsi le mani fino a farle diventare rosse. Sfrega, e la vernice scivola e si mescola con l’acqua, fa contrasto con il marmo bianco del lavandino.
Non capisco perchè si stia lavando le mani, non mi ha nemmeno toccato.
Sospiro: sono abituato a chi fa il gesto di pulirsi le mani se mi tocca o cose del genere, ma speravo che almeno lui... Eh, amen.
Resta lì e continua a sfregare, risciacquare e sfregare ancora.
Poi prende delle salviette e si asciuga le mani, ed i polsi, e torna a sedersi senza toccare nulla.
Alza un braccio e mi sfiora la spalla; non mi ritraggo, stavolta. Sorrido. Mi sbagliavo. Si è lavato le mani per potermi toccare.
Mi prende la mano mordicchiandosi un labbro, apre la bocca e la richiude senza far uscire nulla. 
«Gerard» faccio, ma mi interrompe ancora.
«Non... Non lo sapevo, davvero. Ora capisco però. La gente è cattiva, Frank. Non capisce. Non voglio farti del male, non anch’io» sussurra guardandomi negli occhi. Mi si stringe il cuore, mentre combatto con me stesso: posso fidarmi?
Devo fidarmi. Voglio fidarmi. 
«Grazie» dico soltanto, e gli prendo la mano; lui si alza e mi tira su, mi afferra le spalle ed attende che io recuperi l’equilibrio.
Mi guarda mentre mi lavo il viso con l’acqua fredda, mentre mi soffio il naso e rassegnato mi calo la mascherina su naso e bocca.
Gerard. Ora mi hai visto anche tu, e soprattutto mi stai vedendo in uno di quei momenti in cui sono fragile come il vetro.
E mi hai risollevato.
Oh, Gerard. Neanch’io ti farò del male, lo prometto.







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Capitolo 5
*** But you were lost in the beating of the storm. ***


But you were lost in the beating of the storm-

Quando ero piccolo, mamma teneva un grande calendario bianco appeso all’anta del frigorifero.
Ogni mese strappava una pagina e alla fine dell’anno prendeva tutte le pagine dei mesi precedenti, le metteva in una teca e la riponeva sotto la panca della cucina.
Di solito undici fogli li strappava lei, mentre il foglio con il mese di dicembre lo lasciava strappare a me.
Adoravo farlo: mi rendevo conto che stava per arrivare il Natale, e ogni mattina cerchiavo con un pennarello i giorni che passavano.
Il 25 Dicembre era cerchiato di rosso, ed era per me il giorno migliore dell’anno.
Non ho mai ricevuto tanti regali: mamma non aveva molti soldi e papà lo vedevo poco, ma ero comunque entusiasta del Natale.
Amavo le luci, i colori.
Amavo tutto di quella festa, seppure non fossi mai stato educato a venerare Dio, o ad essere in qualche modo religioso.
C’era ansia di non riuscire a comprare tutti i regali, sentivo i discorsi della gente, ma cosa poteva importare ad un bambino?
Io vivevo per addobbare l’albero in giardino, o per cantare le canzoni di Natale con mamma.

Il mio sedicesimo Natale fu un disastro.
Lo passai in ospedale, con una fottuta mascherina sulla bocca e mamma al mio fianco, tesa come una corda di violino.
Da quel giorno cambiarono tante cose: andai a vivere da solo, prima di tutto.
Non vidi più mio padre, né ricevetti sue notizie, se non dei cenni da mia madre.
Cambiai modo di vedere le cose, e rimasi solo.
Piuttosto ‘sereno’, almeno relativamente, ma solo.
Il diciassettesimo fu più o meno una replica del Natale precedente.

E adesso dondolandomi sul tavolo della cucina penso che al mio frigo starebbe bene un grande calendario bianco.

Mi sono alzato stamattina e ho realizzato che tra due giorni è Natale.
Gli ultimi tre giorni ho avuto l’influenza e sono stato segregato in casa, ed ora sono ufficialmente in vacanza da scuola.
L’unica voce che ho sentito è stata quella di Gerard, quando mi ha portato i compiti di biologia, senza preavviso.
Mi ha fatto piacere.
Oggi ho deciso di uscire, perciò mi vesto di tutto punto, prendo le pillole ed esco all’aria aperta, il vento freddissimo che mi schiaffeggia le guance.
La gente cammina veloce con in mano mille borse, affannata come quando ero piccolo, stesse facce, stessi discorsi. “I regali, i regali!” sorrido tra me pensando che non ho di questi problemi. Mi dirigo verso la scuola passando per il negozio di dischi, ma so già che non comprerò nulla. Tanto il mio stereo è andato, pace all’anima sua, devo adattarmi con il vecchio i-pod.
Effettivamente ne vorrei uno nuovo; scriverò a Babbo Natale.
La scuola è in fondo ad un viale lunghissimo, come fosse una villa. Il giardino è trascurato, ma il fascino rimane, e fa sembrare l’edificio una sorta di casa stregata, quasi confermando la mia teoria che quel posto non è una scuola, bensì una specie di manicomio/prigione.
Ci mancano i fantasmi.
Ieri sera mi sono accorto con amaro stupore di aver lasciato i libri di chimica nell’armadietto, cosa che mi capita più o meno ogni volta che iniziano le vacanze, e i compiti di chimica sono d’obbligo per un ritorno sereno dopo le feste.
Ok, diciamocelo: li faccio perché non ho altro da fare, e perché conto su un buon risultato di maturità – almeno quello.
Arrivo nell’atrio e mi guardo intorno: come al solito, il primo giorno di vacanza nessun bidello si degna di pulire, lo fanno dopo Natale, perciò la scuola è deserta e puzza di fumo, di sudore e di studenti.
Il mio armadietto è al piano superiore, il diciottesimo della prima fila a destra. 1-18, centodiciotto, che coincidenze.
Tiro un pugno all’anta di metallo che da tre anni a questa parte fatica ad aprirsi, ed estraggo i libri mettendoli nella borsa, il grembiule che usiamo in laboratorio – meglio lavarlo, un paio di cd di gruppi sconosciuti e dimenticati anche da me, due plettri.
Approfitto per riordinarlo un po’, poi lo chiudo e mi dirigo verso il mio bagno, in mansarda.
Tanto per salutarlo, penso tra me ridacchiando.
Mi risciacquo la faccia e apro la finestrella che dà sul cortiletto dietro la scuola, che dall’esterno dell’edificio è nascosto dalle siepi che circondano tutto lo spiazzo.

Appena l’aria entra nel bagno, mi arrivano all’orecchio delle voci fioche.
Allungo lo sguardo e vedo tre ragazzi con i cappucci calati in testa, seduti sul muretto accanto ad una delle siepi.
Stanno trafficando con qualcosa di bianco, ma non vedo molto: la testa di uno dei tre mi impedisce di capire cos’hanno in mano.
Rimango in attesa, chiedendomi cosa possano farci tre ragazzi il 23 dicembre dietro la scuola.
La risposta mi arriva presto: uno di loro si sposta e, voltando le spalle agli altri due, vomita l’anima sull’erba.
Rimango a bocca aperta mentre un altro ridacchia.

Il terzo si toglie il cappuccio, e viene da vomitare anche a me.
Gerard Way si rimbocca le maniche e toglie il tappo che copre l’ago della siringa bianca, che stringe nella mano destra.
Chiudo gli occhi un momento, ma non è uno dei miei stupidi incubi che faccio la notte.. e quando li riapro mi si presenta davanti la stessa scena; con una smorfia schifata mi alzo in punta di piedi per vedere meglio, anche se una parte di me vorrebbe andarsene.
Gerard si inietta il liquido nel braccio, con un sorrisetto amaro, mentre con lo sguardo passa dal ragazzo che si tiene la pancia a quello che ancora ride. Ci sono altre siringhe per terra, una borsa e altri oggetti sparsi per il prato coperto di neve.
Chiudo la finestra sbattendola, prendo la borsa e mi dirigo a passo svelto fuori dalla scuola, via da lì: ho visto abbastanza.
Ho visto abbastanza per chiedermi ancora una volta perché le persone sono così propense a compiere azioni che rovinano la vita.
E soprattutto, perché proprio Gerard?
Perché non qualcun altro?
Da due anni a questa parte combatto perché quelle fottute iniezioni mi hanno rovinato la vita, deve farlo anche lui?

Siamo diventati amici, in queste ultime due settimane.
Insomma, se per amici si intende trovarsi ogni giorno nella vecchia palestra e rimanere in silenzio a guardarsi, oppure scambiare qualche parola come persone normali.
Nessuno sfottimento per me, nessun rifiuto per lui.
Quasi una bolla d’aria quella in cui viviamo nel tempo che passiamo nella palestra, tanto che quando usciamo e la gente ricomincia a sfottere me e rifiutare lui, beh, ci sembra sempre peggio.

Amici sì, ma non sapevo si drogasse.
Non l’avrei immaginato, a dire il vero..
O lo nasconde bene, o lo fa quando sa che avrà abbastanza tempo per rimettersi in sesto prima di farsi vedere in giro.
Vorrei parlare con lui e capire.
Non per fare lo psicologo, o vantarmi - sarebbe un passato davvero amaro di cui vantarsi - ma se si parla di droga ne so quanto basta per intrattenere una conversazione con qualcun altro. Ne so anche troppo, a dire la verità.
Però... Ecco, forse per lui sento quella cosa che ti fa volere a tutti i costi ‘salvare’ un’altra persona, quando sai che non puoi salvare te stesso.
Quella cosa che ti apre in due il cuore quando vedi un’altra persona stare male.
Quando stavo in ospedale due anni fa, mi ero quasi abituato ad avere sofferenza attorno a me: più rimanevo lì e più mi rendevo conto di quanto sia importante avere qualcuno accanto, che ti tenga la mano, quando soffri.
È che quando sei solo parli con te stesso, ti sfoghi con te stesso e i tuoi problemi ti si rivoltano contro.
Nessuno può risolverteli, ma qualcuno ti può ascoltare.
Ecco, vorrei ascoltare Gerard..
Forse ho la presunzione di credere che non abbia nessuno al suo fianco, forse dovrei farmi i cazzi miei e pensare ai miei problemi.
Ma no.
Il mio cuore si è aperto in due quando l’ho visto iniettarsi La Rovina.

È amore, quello che provo per lui, o forse solo un estremo ed esagerato bisogno di stare accanto a qualcuno per avere qualcuno accanto a me?
Non ne ho idea.
E ho il presentimento che, stavolta, su google non troverò la risposta.












Rieccomi, dopo una vita!
E' corto, ma spero vi piaccia. Recensite e ditemi che ne pensate, vi prego! Ho bisogno di opinioni ;)

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Capitolo 6
*** Let the leaves fall off in summer. ***


The best of us can find happiness in misery-
(but I don't care)



«Eddai Gerard muoviti, che non ho tempo da perdere!»
Matt sbuffa agitandosi e mi scuote, rischiando di farmi cadere e facendomi alquanto innervosire.
Gli lancio un’occhiataccia; «Taci e tieni bene il cucchiaio sopra alla fiamma dell’accendino, invece di lamentarti!»
Spruzzo del succo di limone nella piccola quantità d’acqua e mescolo con l’ago di una delle siringhe usate il giorno precedente.
«Le hai lavate vero?» chiede ancora Matt alzando un sopracciglio. «Certo» sbuffo infastidito, chiedendomi che cazzo ci sto a fare qui con lui.
Potrei arrangiarmi e sarebbe la stessa cosa. Ma è lui che paga mi ripeto. Paga lui perché io non potrei.
In realtà le ho sciacquate con dell’acqua, ma nessuno di noi ha una qualche stupida malattia quindi vado tranquillo.
Finisco di mescolare e verso il tutto nella siringa, mentre Matt posa il cucchiaio e l’accendino e prende la sua siringa già pronta.

Assieme, come un brindisi a giorni migliori.
Tre, due, uno e ci siamo.


Ci infiliamo la siringa nel braccio nello stesso istante, stringo i denti e tiro piano lo stantuffo della siringa finchè non vedo una goccia di sangue sommarsi alla droga. Stringo i denti: il sangue non mi è mai piaciuto. E men che meno mi piacciono gli aghi, ma piuttosto che sniffare...
Lancio un’occhiata a Matt che mi precede spingendo lo stantuffo ed iniettandosi il composto, e faccio lo stesso.
Poi poso la siringa e mi sdraio in lungo, guardando il cielo.

Immediatamente una sensazione di calore mi pervade, misto a piacere.
Sorrido euforico e guardo di nuovo Matt, che però è girato dall’altra, non riesco a vederlo in viso.
Il flash si quieta dopo pochi, intensi minuti che mi sembrano secondi, lasciandomi un senso di vuoto.
Ma sono fiducioso, perché so a memoria tutto il procedimento: ora andrò in confusione, non capirò più nulla, avrò caldo e freddo e mal di stomaco.
E poi sarò triste, depresso, ma è la mia forza: arriverò al piacere, all’euforia.
Tra poco sarò nel mio paradiso terrestre, quello vero, non quello che ti sbattono in faccia i sacerdoti e le Bibbie da quattro soldi.
Mi stiracchio e mi guardo attorno: dal tetto della scuola, edificio alto e imponente, riesco a vedere fino al grande parco all’estremità nord della città.
Vedo tante piccole formichine che si godono la vita, e penso che me la sto godendo di più io: sono migliore di loro, e più furbo.
Io sto domando il piacere, l’ho racchiuso in una boccetta e lo utilizzo come più mi piace e quando voglio.  

Passiamo il tempo a ciondolare tra il tetto e la terrazza sottostante, ed ogni volta che guardo l’orologio sembra che le lancette vogliano giocare: non è possibile che viaggino così velocemente.
Apro le braccia e mi sento libero, potrei volare.
Potrei, ma tra poco devo andare a scuola per un corso di recupero, non ricordo di che materia.
Entrerò da una della finestre e mi nasconderò in palestra, a disegnare i mostri che mi viaggiano nelle vene e che rendono la mia vita migliore. O forse passerò il resto della giornata a camminare per la città e a guardare la gente che pensa di poter trovare la felicità in un gelato o in un pomeriggio di shopping.

Matt se n’è andato da un pezzo, ma non me ne sono accorto, ero troppo impegnato a godermi le due ore di piacere.
Probabilmente nemmeno si è accorto di essersene andato, ma mi ha lasciato la sua borsa con dentro siringhe e bustine vuote e cucchiaio e accendino; si è preso le sigarette, però.
Sbuffo e ripulisco il tutto con dei fazzoletti di carta, che poi guardo bruciare davanti a me, soffiandoci per alimentare la fiamma e farla diventare più grande, imponente, forte.

Mi alzo e me ne vado trascinandomi la borsa e il peso di ciò che sto facendo... quale peso mi dico scuotendo la testa, i capelli che frusciano al vento; io sono libero.

 

-
     
                                      
Da quando mi hanno diagnosticato l'AIDS, la psicologa mi obbliga a tenere un diario.
La prima volta che ci siamo incontrati, due anni fa, ero piccolo e terrorizzato: avevo sempre visto la figura della psicologa come una figura "cattiva", necessaria soltanto in casi di malattia mentale, e mi chiedevo se, oltre al sistema immunitario decisamente scarso che mi ritrovavo, avessi anche un problema psicologico. Quindi quando entrai nello studio e mi sedetti per la prima volta sulla poltroncina davanti alla scrivania, mi chiesi cosa avessi fatto di male per meritarmi quel corpo – e quel cervello.
L'idea di essere sulla buona strada per un ricovero in psichiatria mi passò subito, per fortuna.
La psicologa era una tipa simpatica, leggermente fastidiosa ma nulla di troppo importante.

Mi propose il diario verso la fine della primissima seduta, con uno sguardo implorante.
"Scrivici quello che vuoi" diceva "solo per te stesso, io non lo leggerò, promesso." Ci salutammo con un cenno e mi raccomandò di tornare la settimana successiva.
Quando uscii dall'ospedale andai diretto in cartoleria, lo ricordo come fosse ieri: non c'era nessuno, era freddissimo e il commesso mi scrutava in attesa, impaziente di vendere qualcosa e di poter dire che anche per quella giornata almeno la minima parte del suo compito l'aveva svolta.
Feci un giro rapido tra le file di agende e quaderni delle più varie misure e colori e scelsi un'agendina piccola e nera; comperai anche una penna, la infilai nel mio nuovo "diario" e me ne tornai a casa.

Non scrissi mai su quel diario.
Mai una parola.
D'altronde, non avevo nulla da scriverci, e nemmeno ora che la sto osservando, rigirandomela tra le mani dopo averla ritrovata tra le cianfrusaglie del mio piccolo appartamento, mi viene in mente qualcosa da scriverci.
"Hai usato il diario?" chiede ogni tanto la psicologa. Le rispondo che sì, lo uso a volte, e che no, non glielo farò leggere.
"Cose private" rispondo, e lei sorride, felice. Orgogliosa di sé e del lavoro che sta svolgendo.
Vorrei riderle in faccia a volte, ma poi mi rendo conto di quanto io già la prenda in giro osservandola e sparlando di lei nella mia testa.
Dopotutto è una brava donna, e sta cercando di aiutarmi.
Non capisco però di che tipo di aiuto avrei bisogno… Se potesse darmi un corpo nuovo, un fisico migliore, delle cellule che funzionino decentemente, allora forse le sarei grato.
Fino a quel momento, posso solo sorriderle e pensare che, almeno, ho qualcuno con cui parlare.

Ho deciso di tenere il diario, e di non buttarlo, comunque.
Magari, che ne so, lo userò un giorno che mi succederà qualcosa di davvero importante.
Lancio un'occhiata al calendario – 25 dicembre oggi. "E' natale" potrei scrivere sul diario "auguri a me!" - Troppo triste.


Il campanello suona mentre sto appollaiato sulla moltitudine di libri di scuola degli anni scorsi, pronti per essere portati da qualche parte – ancora non so dove – ed archiviati come un incubo che vuol'essere dimenticato in fretta.
Mi alzo svogliato, sperando non sia qualche venditore ambulante, non so mai che dire e in casa non ho niente da mangiare.
Spalanco la porta e mi ritrovo a fissare un Gerard Way completamente vestito di nero, e di apatia.
Un Gerard Way nero e apatico che si presenta alla mia porta il giorno di natale, guardandomi dritto negli occhi con quegli smeraldi che si ritrova.
Fa un passo, e sento il suo odore. Scruto il suo viso. È stanco.

Lo faccio entrare senza una parola, e con un cenno della mano lo faccio sedere sul divano, dove sprofonda a testa bassa.
Mi siedo anch'io, rimaniamo lì un po' senza parlare, sento il suo respiro che rompe il silenzio. «Ciao» dice ad un tratto, "Ciao» rispondo tirando la faccia in un sorriso. Almeno si rende conto di dov'è. «Vuoi qualcosa?» chiedo, ma scuote la testa, si alza, fa un giro guardandosi attorno e si risiede.
«Stai bene? Come mai sei qui?» chiedo aggrottando le sopracciglia.
«Passo il natale da solo da un sacco di anni, sei solo anche tu, pensavo che potessimo passarlo insieme.» Mi guarda di nuovo, quegli occhi.
Dio, quegli occhi.
Rossi, gonfi. Verdissimi.
Mi avvicino ed iniziamo a parlare, senza un preciso scopo, rimaniamo lì, tutto il pomeriggio.

Usciamo, parliamo, ci sediamo al parco e parliamo, osserviamo le anatre che galleggiano annoiate sull'acqua sporca del piccolo ed inutile laghetto, parliamo, ci guardiamo e parliamo.

«Perché ti droghi, Gerard?» mi viene spontaneo chiederglielo, dopotutto ho tenuto dentro questa domanda da quando l'ho visto dietro la scuola con La Rovina in mano e il suo futuro in ballo.
Perché lo fa?
Ho cercato di rispondermi da solo, forse lo fa per lo stesso motivo per cui lo facevo io, cioè per "compensare", e perché dopo che ti ci abitui non riesci più a smettere.
Rimango ad osservarlo, si guarda attorno, socchiude gli occhi, magari sta pensando a cosa rispondere.
Lo lascio fare: io non so mai cosa rispondere alle domande così, come quelle che mi fa la psicologa per esempio.
Ci penso tanto, e decido la risposta che più mi conviene dare.
 

 
Non ha risposto, però.
Si è alzato e se n'è andato senza salutare, l'ho guardato andare via, una sagoma nera come il vuoto che mi è rimasto, ed è da tutta la sera che ci sto pensando: stavolta non mi ha toccato, e il suo tocco mi è mancato da morire.
 


















Eccomi, finalmente!
Avevo il primo pezzo del capitolo scritto da una vita, mi mancava l'ispirazione per la parte di Frank.
Non so, lascio a voi i commenti e ringrazio tutti quelli che seguono questa ff, grazie (:


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Capitolo 7
*** Days when I can still feel alive. ***


Tomorrow holds such better days.


Non vedo Gerard da quasi tre giorni, non ho il suo numero di cellulare e non ho la più pallida idea di dove abiti.
Praticamente, sono nella merda.
L'unica cosa che so è che mi manca davvero, che ho bisogno di vederlo e che non posso certo aspettare due settimane, quando ricomincerà la scuola. Ieri sono andato al lavoro, e tra due chiacchiere con Bob e un bel po' di scatoloni scaricati, non ho pensato più di tanto a quegli smeraldi che Gerard ha al posto degli occhi, però appena la mia mente si libera lui si intrufola nei miei pensieri e ci rimane, facendomelo desiderare ardentemente.

A proposito di ardente, fa un freddo cane.
Davvero, esci e rischi di rimanere congelato seduta stante, e dato che la mia salute non è delle migliori devo anche restare chiuso in casa se non voglio prendermi un raffreddore o qualcosa del genere. Belle vacanze.
Faccio una smorfia e metto un cd sullo stereo – ah già, per Natale ho ricevuto un fottuto stereo dalla psicologa! – e alzo il volume quanto basta per distrarmi. Sto di nuovo sistemando l'appartamento, dato che l'ultima volta sono stato interrotto, e continuo a lanciare occhiatacce all'orologio, aspettando che mi dica quando dovrò imbacuccarmi per bene ed uscire, per andare in ospedale a passare altre due ore in silenzio; l'unica cosa positiva di tutto ciò è che ho una scusa per prendere un po' d'aria, e che la psicologa ha smesso di mandarmi sms perché sono riuscito a dimostrarle che vado da lei anche se non me lo chiede.
Più che altro lo faccio per lei, perché alla fine mi vuole bene ed io ne voglio a lei, e perché dopotutto mi ricorda mia madre – che mi manca, a volte. Comunque, mi avvolgo nella chilometrica sciarpa di lana ed esco, affrettando il passo per scaldarmi.
Passando vicino al parco mi torna in mente Gerard, per l'ennesima volta, e mi sale la nausea.
Mi manca. L'ho già detto?


L'ospedale oggi odora troppo di ospedale, ed il tempo non aiuta a rallegrare il tutto; faccio un cenno alla segretaria, che mi invita ad avvicinarmi agitando la mano. «Ehi Hilda» esclamo sorridendole «come va?»
«bene, bene» risponde piuttosto frettolosamente, poi mi porge delle carte e me le sventola sotto al naso finchè non le prendo.
Do un'occhiata: esami. «Ancora esami?» sospiro storcendo il viso in una smorfia, Hilda annuisce «chiedi a Sanders» torna a guardare le sue scartoffie e capisco che non ha altro da dire.
Saluto e scendo nei sotterranei, e busso alla porta della psicologa.
Mi invita ad entrare con un grugnito, e sorrido: è nervosa oggi.
Sprofondo nella poltroncina - amo queste poltroncine – e rimango ad osservarla finchè non smette di fare quello che stava facendo e mi fissa negli occhi.
«Buongiorno» dice sorridendo.
Annuisco «devo fare degli esami?» chiedo subito, non ho voglia di farmi infilare aghi e cose del genere nel braccio, mi ricorda troppo il periodo nero, no. Sorride ancora, maledetta. «Sì, Frank, ma sono semplici esami del sangue, niente di che ok? Starai un giorno in Day Hospital, e poi non ne avrai più per un mesetto. Hanno detto che possiamo farteli tutti assieme, dato che ultimamente stai abbastanza bene» lo dice come se dovessi rallegrarmene.
Ok, certo che sono felice di stare bene, ma non mi metterò certo a saltare perché posso farmi prelevare venti provette di sangue invece di quindici.
Le sorrido comunque, annuendo.
"Ricordati che ti ha regalato uno stereo e che è la tua unica confidente" mi dico.
«Sei... Sei andato alla terapia di gruppo questa settimana?» eccola, aspettavo questo momento.
Ridacchio. «Ma lo fanno anche a Natale?» faccio ironico, alzando un sopracciglio; «Sì-» risponde «le persone che ne hanno bisogno, ne hanno bisogno sempre, non solo quando capita» annuisco ancora, facendomi serio.
Riflettendoci, ha ragione, e mi pento di averci fatto dell'ironia: forse ne trarrei qualcosa di buono anch'io, se ci andassi.
Sanders mi guarda perplessa, aspettando che io rompa il mio silenzio.
La guardo pensieroso «si può portare qualcuno?» chiedo.
Aggrotta le sopracciglia e ridacchio ancora: si stupisce che io possa avere qualcuno?
Bello, rendersi conto di quanto si è soli, mi dico scuotendo la testa. «Direi di no, Frank... Gli incontri sono per le persone sieropositive, insomma, capisci...» la vedo piuttosto imbarazzata e le sorrido per farla rilassare; «non si preoccupi, non importa.
Magari, dico, magari potrei venire un giorno o l'altro» mentre dico questo mi alzo e riavvicino la poltroncina alla scrivania, passo ai saluti e me ne vado, dirigendomi di nuovo verso la segretaria, impegnata in una – a quanto pare lunga – conversazione con una qualche persona al di là della linea.
Prendo una penna dal cassetto aperto al suo fianco e metto un paio di firme sui moduli per gli esami, senza nemmeno leggerli.
Mi segno la data sul calendario nel cellulare, rimetto la penna al posto e lancio un'occhiata a Hilda, che mi guarda blaterando qualcosa sulle nuove scarpe da calcio di suo fratello, oh com'è bravo, diventerà un campione, sabato ha la gara, ma quant'è bello.
Le faccio un cenno, a quanto pare la tirerà per le lunghe; mi rimetto la sciarpona ed esco dall'ospedale.  

Appena chiusa la porta di casa, mi torna in mente per l'ennesima volta Gerard, e mi stupisco di me stesso per essere così dannatamente fissato con quel ragazzo, mi sembro una ragazzina eccitata davanti alla sua boy-band preferita.
Ma devo vederlo, assolutamente. Torno quindi nelle grinfie dell'aria invernale e mi dirigo nuovamente verso il parco, pensando di dare un'occhiata lì e nelle vicinanze.
Non c'è troppa gente in giro, e le persone che hanno avuto il coraggio o la necessità di avventurarsi in questo rigidissimo clima hanno addosso almeno un paio di chili di maglioni, berretti, sciarpe, guanti e quant'altro.
Mi guardo attorno cercando la figura slanciata di Gerard, ma non vedo nessuno che gli possa nemmeno lontanamente somigliare.

Me ne vado dopo un po', sconsolato, e decido di passare per la scuola, sperando di non trovarlo nel giardino sul retro a farsi di eroina, o quella dannata cosa di cui si fa.
Avvicinandomi alla siepe, sento delle voci e riconosco subito la sua, roca e familiare.
Sospiro e mi fermo, preferisco non guardare; mi siedo per terra, sul marciapiede, circondo le ginocchia con le braccia e ci poggio la fronte, decido di aspettare che Gerard finisca per poi... Per poi cosa, esattamente? Dovrei seguirlo a casa sua? Portarlo a casa mia?
Facendo due calcoli, dovranno passare almeno due ore prima che possa tornare pressoché normale.
Mentre penso questo, dalla siepe sbuca proprio Gerard, con un sorrisone stampato in faccia e gli smeraldi puntati nei miei occhi.
«Ehi» faccio, salutandolo con la mano e scrutando lui e i due ragazzi che lo seguono oltre il marciapiede.
Li conosco soltanto di vista.
Gerard si siede accanto a me e si mette pressoché nella mia stessa posizione, in silenzio.
Lo guardo, ma non parla, e non parlo nemmeno io.
Parlano i suoi occhi, però, e ci vedo l'universo. Sì, è la solita frase fatta, di quelle romantiche che trovi scritte sui muri delle case abbandonate, ma io ci vedo davvero tutto in quegli occhi.
Ci vedo rabbia, prima di tutto. Ci vedo rancore, e contemporaneamente tristezza e timidezza, e solitudine.
Passo una mano tra i capelli neri di Gerard, perché ho bisogno di toccarlo. Sorride, è completamente fatto.
Penso di essere innamorato, mi dico, ed annuisco tra me e me.

 
Gerard abita al quinto piano di uno dei condomini più distrutti della cittadina.
Passate quasi due ore e mezza, si è sistemato quanto bastava per rendersi conto di ciò che aveva appena fatto, e mi ha portato a casa sua; mi siedo sul divano minuscolo attaccato alla parete e lo osservo.
E' pallido, e faccio il conto alla rovescia per quando andrà in bagno e vomiterà l'anima: a occhio, tra un paio di minuti al massimo.
Mi chiede se voglio bere qualcosa, ma scuoto la testa.
Ovviamente non lo vede, perché corre in bagno e si inginocchia davanti al water scosso dai conati; mi infilo i guanti di lattice e gli sorreggo la testa con una mano, e mi vengono i brividi ripensando a quando vomitavo io così, e le persone che mi stavano accanto erano compagni di cazzate occasionali che nemmeno conoscevo bene.
Giurerei che almeno uno dei due ragazzi che erano nel giardino con Gerard era uno di questi.
Era uno scambio, io ti do una canna e tu mi sorreggi la testa quando vomito l'anima, io ti offro un giro di vodka e tu mi passi la roba.
Erano dei tristi momenti di amicizia, e stavo quasi bene.

Quando finisce, si butta nella doccia e ne esce dopo quasi mezz'ora, infilandosi una tuta e sedendosi con me sul divanetto.
E' piccolo, e siamo vicinissimi. Mi accarezza. «Frankie mi sei mancato» dice sorridendo un poco, e mi abbraccia dolcemente.
Ho voglia di baciarlo, cazzo. Cazzo.
Appoggio la fronte nell'incavo tra la clavicola e il collo di Gerard e inspiro in suo profumo a pieni polmoni.
Mi lascio andare, fin troppo, ed alzo il viso, fino a che le sue labbra sfiorano il mio naso naso ed un brivido mi percorre la schiena. "No" mi dico, torno alla realtà con uno scatto ed allontano Gerard mettendogli una mano sul petto e spingendolo indietro, sento il cuore che gli batte forte, come il mio dopotutto.
Sospiro. «Potresti avere dei tagli sulle labbra»
Gerard sbatte le palpebre «cosa?» chiede confuso. Non voglio spiegargli in realtà, non ne voglio parlare. Ma glielo devo, no?
Lo afferro per una spalla e lo faccio alzare, spingendolo fin troppo bruscamente verso la finestra, dove la luce illumina il suo viso; mi avvicino e osservo le labbra sottili, sulle quali è scritta una domanda che vorrebbe essere pronunciata, ma Gerard sta zitto ed aspetta che sia io a parlare. «Vedi» dico poggiandogli un dito guantato sul labbro inferiore «hai le labbra screpolate e c'è del sangue» poi indico la mia bocca e lo guardo. Ricambia lo sguardo passandosi la lingua sui tagli, poi annuisce e mi prende la mano, togliendomi il guanto, e ci sediamo di nuovo.
La sua pelle è così calda.
«Posso chiederti una cosa?» annuisco. «Sei... Sei soltanto sieropositivo o…?» sorrido, piuttosto amaramente «Sì, solo sieropositivo», per ora. Gerard fa una smorfia quasi buffa e mi abbraccia ancora, accarezzandomi.
L'ho già detto che vorrei baciarlo?
Vorrei farlo davvero.
Spero che usi il fottuto burro cacao, altrimenti gliene regalo uno scatolone per natale.

«Film?» chiede con un tono così naturale e dolce da farmi sciogliere di nuovo – ok, ma tutta questa dolcezza me l'ha portata l'inverno? – e prende il primo dvd che gli capita, spingendolo con distrazione nel lettore, poi si ributta sul divano con me e mi poggia la testa sulla pancia.
Lo accarezzo, mi sento tanto, tanto bene. 













 
Well, l'ho scritto ascoltando Adam's Song, capitemi.
Non so, sarei felice di avere una vostra opinione (:
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Capitolo 8
*** we burn 'cause we are all afraid. ***


These are their hearts, but they don't beat like ours: they burn, 'cause they are all afraid.

                                                                                                                                                                                       

I miei primi esami del sangue, circa due anni fa, furono uno dei momenti della mia vita che non dimenticherò mai.
Non avevo mai pensato all’eventualità di contrarre qualche malattia, drogandomi. Certo, a parte gli effetti delle sostanze a lungo andare, ma a quello ero pronto – o meglio, dicevo a me stesso che sarei stato pronto quando ce ne sarebbe stato bisogno. Un uomo mi aveva raccontato che, dopo 15 anni di dipendenza dalle droghe, aveva distrutto tutte le vene, ed aveva iniziato ad iniettarsi l’eroina nei muscoli.
Avevo ancora dodici anni di tempo per trattare bene il mio corpo: a giorni alterni mi bucavo o sniffavo, o ingerivo pillole, ero ben organizzato e quasi maniaco sull’ordine.
Stavo programmando piuttosto bene la mia distruzione.
A malattie legate all’uso inconsapevole degli aghi, però, non ci avevo mai veramente pensato.

Stavo malissimo.
Nel giro di una settimana, la febbre che credevo fosse una semplice influenza invernale era salita fino a farmi delirare; non riuscivo a deglutire per il mal di gola, e come se non bastasse avevo delle macchie sulla pelle, degli sfoghi, che in seguito mi dissero chiamarsi ‘rash cutanei’. Roba che non avevo mai sentito.
Mia madre aveva deciso di farmi fare degli esami del sangue, e ci andai da solo, per paura che vedesse i segni dei buchi sulle braccia.
Li vide l’infermiera, ovviamente, ma sul momento non disse nulla.

Subito dopo, seppi di essere stato contagiato dal virus dell’HIV.

Ricordo di essere rimasto fermo immobile a guardare nel vuoto per non so quanto tempo.
Mi sembrava che tutto attorno a me avesse iniziato a vorticare velocemente e che mi fosse poi caduto addosso.
Mi toccavo il cerotto che mi avevano messo nel punto in cui l’ago era penetrato nella pelle, dopo che l’infermiera aveva faticato per trovare un tubicino non ancora completamente distrutto nel mio braccio.
Mi chiedevo perché avevo fatto tutto questo, arrivando a dover firmare la mia condanna.
Mi sentivo uno schifo.
Mi dissero che sarei stato bene, se fossi stato attento.
Dovevo solo prendere le medicine, evitare qualsiasi raffreddore, influenza, ferita, ma soprattutto, non dovevo vendicarmi di tutto questo sugli altri.
Non dovevo contagiare nessuno, dovevo tenermi il mio sangue per me e toccare le persone il meno possibile.
Praticamente, ero diventato una statua di vetro, e dovevo scappare da qualsiasi cosa avrebbe potuto graffiarmi, da qualsiasi persona che avrei potuto graffiare.
E diventai freddo come il vetro, e duro e tagliente e fragile come il vetro.
Me ne andai di casa.
Mi costruii la mia vita, e certe volte immagino ancora che possa essere tutto un incubo e di risvegliarmi con il sorriso negli occhi e la felicità sulla bocca, e le sensazioni di un quindicenne ancora con le vene tutte intere, la vita tutta intera.
 
Gerard è venuto con me in ospedale oggi, ed è stato al mio fianco.
Ha visto il mio sangue, mi ha stretto la mano, mi ha scaldato la pelle. Sono in questo stupido posto da tutta la mattina, e credo ne uscirò soltanto stasera.
Gerard ha bruciato scuola per venire qui. Io sono qui perché ho bruciato la mia vita.
Adesso mi brucia la pelle del braccio, dopo che l’ago è dentro da un quarto d’ora e la flebo nell’altra vena sta iniziando a darmi fastidio.
Venti provette di sangue per sapere quanto tempo ho ancora per vivere la mia vita bruciata.




Quand’ero piccolo, la mia massima aspirazione erano i saggi di fine anno a scuola.
Mi piaceva cantare, riuscivo a nascondermi dietro la mia voce, seppure non fosse nulla di così bello, ma sembrava piacere alle maestre, che mi davano sempre qualche parte nello spettacolo.
Un anno, il mio ultimo anno alle elementari, mi diedero la parte principale. La maestra mi aveva chiamato fuori dalla classe per dirmi “Gerard, sarai il protagonista!”.
Ero felice, mi sentivo bene e orgoglioso di me stesso e andavo alle prove ansioso di migliorarmi e impaziente di potermi esibire.
I miei compagni, che avevano avuto le altre parti nello spettacolo, mi volevano bene, e io ne volevo a loro. Stavamo bene assieme.

Di solito, l’atmosfera ad un saggio scolastico era sempre la stessa.
C’era eccitazione e tutti i bambini erano concentrati a ripassare per l’ultima volta le loro battute, i genitori entravano e cercavano con lo sguardo i loro figli, battevano le mani e ridevano orgogliosi.
Il mio ultimo saggio fu diverso però. Non avevo mai avuto la parte principale, e mi sembrava di avere il mondo tra le mani.
Non avevo mai amato essere al centro dell’attenzione, ma quella sera sapevo che avrei fatto una bella figura.

Ricordo ogni secondo di quell’esibizione.
Ricordo il momento in cui toccava a me cantare la canzone che avevo amato e provato per tutto l’anno, chiuso nella mia stanza, chiuso nel mio mondo, nascosto dal mondo degli altri.
Ricordo quanto, nel mezzo di quel momento, mio padre si alzò sbuffando e uscì dal teatro.
Il teatro gigantesco dove si tenevano tutti gli spettacoli, quel teatro così grande, dove tutto il resto aveva smesso di esistere quando avevo visto quell’uomo alzarsi ed andare via.
L’avevo visto, anche se il teatro era immenso. Se n’era andato perché era stanco di starmi a sentire, e non gliene fregava assolutamente nulla.

Io non ero stupido.
Mia madre mi aveva detto che papà era stato male, ma io non ero stupido. Ingenuo, inutile, insignificante forse, ma non certo stupido.
Da quel giorno, avevo diffidato di chiunque mi dicesse ‘di te mi importa’.
E avevo diffidato di ogni persona che avesse dimostrato il desiderio di essere importante per me.

Ma con Frank era diverso, e qualcosa era finalmente diventato importante.

Quando mi ha visto stamattina, mi ha chiesto cosa ci facevo lì, mi sono ricordato delle parole che aveva detto la settimana scorsa, che stava bruciando la sua vita.
Gli ho risposto che avevo semplicemente deciso di bruciare con lui.



















Ta-daaaan!
Guardate chi è tornato?
Sto passando un periodaccio e "you only hear the music when your heart begins to break" ci sta, come frase, anche se in questo caso sento l'ispirazione quando sto male.
Quindi ecco. Non è un gran capitolo, è di passaggio, di riflessione più che altro.
Spero che qualcuno si ricordi ancora di questa storia lol
ciau
Piesse: lo so che leggere senza recensire è molto più comodo che leggere e recensire, ma pensate a quando vi impegnate in qualcosa e la gente la guarda senza darvi alcuna opinione al riguardo.
Non credo vi piaccia! Quindi anche se non sapete che scrivere, almeno dite se il capitolo è bellobruttoorrendostupendomerdoso e chi più ne ha più ne metta. Ciau.

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Capitolo 9
*** I will die by your hand. ***


-I break down  (as  you'll walk away)


Oggi sono tornato a scuola per la prima volta dopo tre settimane, cioè la durata delle vacanze di Natale.
Okay, le vacanze di Natale duravano due settimane e mezza, ma ovviamente gli ultimi giorni li ho passati chiuso in casa causa influenza virale in città, quindi ho avuto una sorta di bonus natalizio da passare a guardare film e ad ascoltare musica.
E a studiare.
Studiare, studiare, studiare.
Ero preparatissimo per il primo compito dell'anno, ma oggi, quando sono entrato in classe, ogni singolo concetto che mi ero impresso nella mente con tanto impegno è scivolato fuori dalla mia testa ed è andato a posarsi fuori, fuori dalla mia portata, fuori assieme alla candida neve che scende ininterrottamente da ore.
Probabilmente la causa di tutto ciò è stata l'ansia di tornare tra la gente.
L'ansia di dover uscire dal mio guscio dove nulla può farmi del male e dove non posso fare del male a nessuno, e catapultarmi nuovamente nel crudele mondo scolastico.

Quando entri a scuola e la prima cosa che ti senti dire non è un 'buongiorno', sai che la tua vita in quell'ambiente farà decisamente schifo.
Diciamocelo, non ho mai preteso orde di amici e popolarità.
Sono molto più popolare di quanto vorrei, se devo dirla tutta.
Ma un cazzo di buongiorno, non me l'ha ancora dato nessuno.
Me lo sono dato io, allo specchio del mio amato e nascosto bagno, dove sono corso dopo l'ora di educazione fisica per vomitare l'anima.
Folla, persone, voci, parole, frecciatine, nessun 'buongiorno', cartacce lanciate addosso, chewing-gum tra i capelli, 'frocio', 'puttaniere', 'drogato', 'malato'.
Nessun 'buongiorno'.
Preferisco decisamente il mio bagno.

Esco all'ora di pranzo e mi dirigo a passo svelto verso la mensa, lasciando scorrere lo sguardo tra i tavoli, cercando Gerard, anche se probabilmente sarà rinchiuso da qualche parte a disegnare.
Sospiro e mi siedo al tavolo accanto alla finestra, il più lontano dalla porta d'entrata.
Nel giro di trenta secondi, quattro ragazzi si lasciano cadere di fronte a me con sguardo minaccioso.
«Ciao puttanella» sputa il più grosso dei quattro, che potrebbe benissimo essere mio padre; mi chiedo da quanti anni sia in questa scuola.
Gli altri sogghignano e io rimango impassibile.
Ovviamente, il coglione si innervosisce alla mia assenza di reazioni.
«Allora, vediamo, te lo sei fatto mettere nel culo di nuovo in queste vacanze?» continua il tizio imperterrito.
«O magari in bocca, dato che non parla!» interviene un secondo, con il tono da io-sono-la-persona-più-simpatica-del-mondo.
E di nuovo, ovviamente, tutti ridono.
L'indifferenza fa così male.
Ma a volte fa più male il coltello continuamente rigirato nella ferita, sempre aperta, sempre più profonda, mai cicatrizzata.

Mi alzo per andarmene, e allungando la mano per prendere il cellulare dal tavolo, sfioro il braccio- la felpa – di uno di quei quattro ragazzi.
Lui si scosta con un gesto teatrale, lancia un gridolino, si alza a sua volta e voltatosi verso tutta la gente nella mensa, si toglie la maglia e la butta nel cestino, mi sputa ai piedi e se ne va.

Un pugno nello stomaco.
Gli applaudono.
Guardano la felpa che giace nel bidone dell'immondizia e applaudono.
Un fortissimo pugno allo stomaco.
Folla, persone, voci, parole, frecciatine, nessun 'buongiorno', cartacce lanciate addosso, chewing-gum tra i capelli, 'frocio', 'puttaniere', 'drogato', 'malato'.
E applaudono.

Lascio uscire le lacrime che spingono così forte soltanto una volta chiusa a chiave la porta del bagno.
Piango, singhiozzo e sento ancora quel rumore in testa.
Quel bisogno.
Tremo, mi alzo, apro l'acqua del lavandino, ci ficco sotto il braccio nudo e cerco il taglierino che ho usato nell'ora di scienze stamattina.

Guardare il mio sangue mi piace molto, da quando ho scoperto quanto sia sporco.
Mi piace guardarlo e mi piace pensare che, se volessi, con quel liquido rosso potrei fare del male a così tante persone.
Cerco il lato positivo in tutto questo.
Penso che quei quattro ragazzi potrebbero diventare come me, se lo volessi.
Ovviamente, non lo farei mai.
Mi ucciderei, piuttosto che condannare qualcuno a provare tutto questo. Chiunque esso sia.
Ma mi piace sognare. Mi piace pensare che, nella mia fragilità, ho un'arma fortissima.
Rossa. Dolce. Velenosa.
Dopo l'estasi, arriva il dolore.
Mi ricorda – quasi – la sensazione della droga. Prima ti senti benissimo, e poi inizi a farti veramente schifo.
Mi guardo allo specchio e vedo soltanto vetro. Trasparente, inutile, fragile, e sporco.

Sono immobile, con la fronte poggiata al muro freddo, quando il cellulare inizia a vibrare nella tasca dei jeans.
Lo prendo in mano ed i miei occhi si riempiono di luce: è Gerard.
E' Gerard e mi salverà.
«Gee.»
«Hey» dice. Un altro pugno allo stomaco.
Ma è il pugno più piacevole del mondo.
«Dimmi» dico, e sorrido alla parete.
Lui parla, ma è strano e qualcosa cancella il mio sorriso.
«Arrivo.»

Mi piace l'idea di poter essere utile per qualcuno.
Non mi piace l'idea che Gerard avesse una voce più tetra del buio.
Lo raggiungo fuori dalla scuola, esattamente nel giardinetto nel quale l'ho beccato a distruggersi la vita.
Lo abbraccio da dietro, lo volto, gli stampo un bacio sul naso ed inspiro il suo profumo. Mi mancava da morire.

«E' morto» dice con voce priva di qualsiasi emozione «E' morto cazzo.»
«Chi.... Chi è morto, Gerard?» chiedo spalancando gli occhi.
Lui sospira e gli si riempiono gli occhi del mare. Deglutisce.
«James» gli trema la voce «James è morto. James. Morto.»
Non ho idea di chi sia James.
O forse sì, ho un viso sfocato in mente, ma non sono sicuro.
E' tutto così sfocato, tutto di quel periodo.

Gerard vede che sto cercando di ricordare chi sia, deglutisce ancora.
«James con i dread, James con gli occhi azzurri, James quello alto e robusto che passava la droga a tutti, James con-»
«La cicatrice vicino all'occhio.» Concludo la frase a stento, mentre l'ennesimo pugno nello stomaco mi arriva dritto e doloroso.
Più doloroso. E' un pugno nell'anima.
«Di cosa è morto?» sputo fissando lo sguardo negli occhi di Gerard.
«Di polmonite.»
Attendo, attendo in silenzio, ma le parole si materializzano nere come il petrolio sulle labbra di Gerard e posso leggerle prima che vengano pronunciate.

Pugno dritto al cuore.

E poi i ricordi.
Il buio, il falò, James, Matt, Gerard, altri ragazzi, un paio di ragazze e poi io.
Le sigarette, le canne, le siringhe, la coca, l'eroina.
Gerard si infila la siringa nel braccio, sospira, sorride e la passa a James.
James si infila la siringa nel braccio, sospira, sorride e la lascia cadere accanto a sé.
Il fuoco, la musica, i canti, le parole urlate al vento, la libertà.
E poi Gerard che raccoglie quella stessa siringa e la passa a me sorridendo, ed era gentile, era bellissimo, era stupendo ed era vivo, mi faceva sentire vivo e mi passava l'elisir di felicità.
Mi infilo la siringa nel braccio, sospiro, sorrido e urlo al mondo che sto fottutamente bene.
Fottutamente bene.
 

«James aveva l'AIDS.»
Mi sento morire.
«Di cosa hai paura, Gerard?» gli chiedo, tremo, tremo di scossoni, tremo di solitudine, tremo di consapevolezza che qualcos'altro dentro di me si sta spezzando come il vetro.
«E' morto di AIDS. Non lo sapevo.»
Pugno allo stomaco.

«Frank, morirai anche tu.»

Stavo così fottutamente bene, mentre ora nessun 'buongiorno', e mi sento morire.













No non è allegro, sì, serviva una svolta.
Spero di aver descritto al meglio queste scene, credo che questo sia uno dei capitoli più difficili che io abbia mai scritto, lascio a voi giudicare!
Autumnsong

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Capitolo 10
*** If we forget the things we know, would we have somewhere to go? ***


You talk about life, and talk about death,
and everything in between like it's nothing,
and the words are easy-


Ciao.
Dio, già mi sento una ragazzina a scrivere su un diario, figuriamoci se inizio con "caro diario" o cose simili.
Ma hey, mi hanno dato questo coso per un motivo, e ho comunque bisogno di parlare con qualcuno, e bene, la psicologa va in ferie proprio quando mi serve.
Non che non abbia un numero di cellulare per poterla contattare, ma come io vorrei da morire prendermi una vacanza dalla mia malattia, è giusto che lei stacchi un po' dal lavoro.
Non so bene come iniziare, ad essere sincero, anche se non dovrei farmi tanti problemi: probabilmente brucerò tutto questo dopo aver finito di scrivere.
Per ora, mi brucia il cuore da giorni.
Da quel giorno, una settimana fa.
Bene, ho avuto un flashback.
Un flashback che è stato un pugno allo stomaco, ma che è stato il mio primo vero ricordo di quanto succedeva prima della malattia.
Insomma, sapevo di aver già visto Gerard in giro, quando ci ho veramente parlato per la prima volta, nella vecchia palestra; d'altronde andiamo a scuola assieme, quindi non ero rimasto a rimuginare troppo su come e quando l'avessi già incontrato.
Ma di James mi ricordo bene, ora. James era uno di quelli che era più nel giro della droga.
Era il classico tipo che organizzava i falò e che passava la roba a tutti.
James era forte e robusto, e lo ammiravo, perché io ero basso e sono sempre stato magro – ora lo sono di più, ma non sono mai stato robusto, ne muscoloso, ne niente. Niente.
Avevo iniziato a drogarmi perché avevo bisogno di staccare, e perché, sostanzialmente, a stare con quei ragazzi sconosciuti mi divertivo.
Perché appunto, erano sconosciuti.
Non dovevo spiegare niente a nessuno, solo stare lì, drogarmi con loro e poi parlare di cose inutili fino al momento di vomitare l'anima, giù tutti assieme. Soltanto ora mi rendo conto di quanto quelle persone facessero schifo, e di quanto facessi schifo io.
Tutto faceva schifo, e alla fine ne stavo pagando le conseguenze.
Fatto stava che, la sera che ho rivisto nel flashback, è stata esattamente l'ultima volta che la droga ha circolato nel mio corpo. A dire la verità avrei continuato, se solo una settimana dopo non fossi finito in ospedale in fin di vita.
E adesso sapevo anche perché. Non avrei mai immaginato che fosse andata così.
Non ricordavo nulla, dopotutto.
Ma adesso sì, adesso ricordo, ricordo da morire.
Gerard mi ha passato la siringa di James, la siringa infettata di James, l'ha data a me.
La siringa che mi ha bruciato la vita, è stato il primo gesto gentile che inconsciamente Gerard ha fatto per me.
Quando, una settimana fa, Gerard mi ha detto che James aveva l'AIDS, sono morto dentro.
Di nuovo. Non.... Insomma, avevo appena scoperto la causa della mia vita bruciata.
E poi quella frase, tanto priva di tatto quanto priva di bugie, intrinseca della verità più dolorosa e reale.
"Morirai anche tu" aveva detto Gerard, e questo è proprio il punto.
Morirò anche io, prima o poi, a causa di una stupida siringa, uno stupido ragazzo con l'AIDS e un altro stupido ragazzo che voleva essere gentile. Tecnicamente, morirò per mano di Gerard.

If it makes you less sad, I will die by your hand.

Ovviamente, avrei dato qualsiasi cosa per poter fermare le mie gambe quando hanno deciso di portarmi via da lì, da Gerard.
Me ne sono andato senza una parola, l'ho rivisto al funerale di James ma lui non ha visto me, e poi nulla, per una settimana.
E mi manca, di nuovo, come mi manca l'aria.


Finisco di scrivere e lancio il diario per terra, da qualche parte, mentre pianto le unghie della mano destra sul braccio sinistro, all'interno, appena prima del polso, e graffio più forte che posso, incidendo profonde linee rosate sulla pelle bianca.

Per la prima volta da un bel po', calde lacrime iniziano a scorrermi sulle guance.




-- Schifo, schifo, schifo.
Sono una persona schifosa.
Mi sento come uno spaventapasseri.
Costruito prendendo pezzetti a caso, brandelli di stoffa, paglia, un paio di bottoni per gli occhi, un bastone per corpo e un altro per le braccia.
E poi piazzato lì, con l'unico scopo di far fuggire tutti, con l'unico fine di rimanere da solo, per sempre.
Se potessi, in questo preciso momento mi prenderei a pugni da solo, per quanto sono stato stupido.
Ho lasciato andare Frank.
Gli ho detto che morirà, morirà ed è colpa mia, e l'ho lasciato andare.
Perché gli ho passato quella maledetta siringa?
Sarebbe stato meglio se l'avessi usata io, a questo punto.
Non capisco perché una bella persona come lui deve vivere così per colpa di uno spaventapasseri drogato e depresso.
Inoltre, ovviamente, ho mostrato tutto il mio tatto dicendo a Frank quella frase.
Ma non ho potuto fare a meno.
Quando ho realizzato che James era veramente morto di AIDS e ho pensato a Frank, mi è davvero caduto l'universo addosso.
Sapevo benissimo che dall'AIDS non si guarisce, ma vedere James mi ha aperto gli occhi e mi ha gettato addosso tutta la consapevolezza di cosa significasse davvero quella malattia.
Sono terrorizzato.
Sono terrorizzato dal pensiero di poter perdere Frank. In un attimo mi sale l'ansia dallo stomaco dritto alla gola: devo andare, devo andare da lui e controllare se sta bene.
Mi gira la testa, mi avevano raccontato di come sono gli attacchi di panico, ma non pensavo che fossero veramente così brutti.
Inizio a tremare come uno schifo, e nemmeno capisco se è solo ansia o se è anche astinenza da quella merda che chiamo elisir di felicità.
Che ha ucciso Frank – quasi.
Finalmente riesco ad alzarmi, prendo la giacca e sbatto la porta.
Suono il campanello ripetutamente, poggiando la testa sulla fredda porta dell'appartamento di Frank e chiudendo gli occhi, cercando di farmi passare la nausea.
Quando apre, gli cado praticamente addosso, e lo abbraccio come non ho mai abbracciato nessuno.
Lo stringo, lo accarezzo ed iniziano a bruciarmi gli occhi, ma non posso piangere, non ora, non sono io che sto male.
Lui mi abbraccia, poi mi poggia le mani sulle spalle per staccarsi da me, e mi guarda dritto negli occhi.
Qualcosa dentro di me si spezza con un crack secco.
Come cazzo ho fatto a rimanere una settimana intera senza quegli occhi?
Come ho fatto a rimanere una vita intera senza quei magnifici occhi?
Sorride.
Okay.
Gli ho detto che morirà e mi sorride.
«Frank, io....» inizio, prendendo un profondo respiro «non volevo dirti quelle cose. Non.... Non volevo dirti che morirai» impreco dentro di me, di nuovo il mio tatto è andato a farsi fottere. Scuoto la testa e torno serio.
«Io ti amo. Ti amo. E quando ho realizzato cosa aveva James e cos'ho fatto quella sera passandoti quella siringa, e cosa fa veramente la tua malattia, mi è crollata addosso la paura di perderti.» soffio, e distolgo lo sguardo.
Mi prende la mano. Mi sta ancora guardando, ma non guarda più i miei occhi, guarda le mie labbra. Esamina le mie labbra. Dopo quello che mi sembra un secolo, sorride e mi bacia per la prima volta, mentre dentro di me si sta infuocando l'universo, le mie labbra toccano le sue e non so veramente come muovermi, ho paura che si scosti come fa sempre un secondo prima di sfiorare la mia bocca. Non lo fa, questa volta, e ci baciamo senza alcuna maliziosità, ma solo infinita dolcezza.
A quanto pare, non c'è nessun taglio sulle mie labbra.







Ho aggiornato in freeeetta, vero? (:
Ultimamente sono molto ispirata e questo capitolo l'ho scritto la sera dopo aver aggiornato con il capitolo precedente.
E ora sto scrivendo già il prossimo.
Spero vi piaccia.
Vi ricordo il mio profilo twitter e la mia pagina facebook, fateci un salto ;)

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Capitolo 11
*** We're not broken, just bent and we can learn to love again. ***


I let you see the parts of me
that weren't all that pretty
and with every touch you fixed them-


La psicologa ieri è tornata dalle ferie e tempo trenta minuti mi ha telefonato per chiedermi come sto, cosa faccio, se sono ancora vivo.
Mi ha detto di andare da lei appena posso, perché è da tanto che parliamo e mi vuole vedere.
Ho voglia di vederla anche io, ad essere sincero.
Anche se non so bene cosa dirle; dovrei parlarle di cosa è successo con Gerard?
Del flashback?
Okay, dovrei dirle che credo di avere un fidanzato?
Penso di sì.
D'altronde, mi chiede sempre se ho amici o persone attorno e fino a poco tempo fa le mie risposte sono sempre state vaghe e malinconiche. Credo che le farebbe piacere sapere che qualcuno sta con me, adesso.
Ma come posso spiegarle tutto?
Fisso il vuoto mentre aspetto altri dieci minuti per uscire di casa, non voglio arrivare troppo presto.
Mi manca Gerard, di nuovo.
E non l'ho visto per circa due giorni.
E' incredibile, non mi sono mai sentito così, neanche prima.
E' una sensazione strana, ma così bella; per una volta sono dipendente da qualcos'altro oltre che dalle pillole e da tutte le terapie e quelle cazzate che dovrebbero farmi vivere meglio.
Ho la terapia Gerard adesso, ed è la migliore che io abbia mai provato.
Ah, cazzo. Certo.
Ecco cosa posso fare.
Come posso spiegare.

Mi alzo e mi catapulto fuori di casa, camminando velocemente verso casa di Gerard.
Suono il campanello e incrocio le dita, spero davvero che non stia ancora dormendo.
Ma a quanto pare no, perché mi apre e gli si illuminano gli occhi quando mi vede; sorride.
Gli stampo un bacio sulla guancia mentre mi chiede «Che ci fai qui?».
Ridacchio. «Non posso venire a trovarti?» ma mi mordo un labbro e so bene che si accorgerà subito che...
«Certo che puoi, ma c'è qualcos'altro, lo vedo nei tuoi occhi!» fa con sguardo interrogativo.
Annuisco facendo una smorfia, ho paura di farlo arrabbiare o metterlo a disagio.
Magari non vuole venire, ha altro da fare, non gli interessa. «Mmh... Beh, io... Cioè, okay, stamattina – adesso – devo andare dalla psicologa perché è tornata dalle ferie, e mi chiedevo se volessi venire con me.»
Ho fissato lo zerbino sotto ai miei piedi per tutto il tempo.
Lo sento ridacchiare e alzo lo sguardo, mentre lui annuisce con foga. «Sì, certo che vengo. E anzi, volevo parlarti di una cosa.»
Mi fa segno di aspettare mentre prende il giubbotto e le chiavi.
Poi esce, mi prende per mano e ci avviamo verso l'ospedale.
Sono tentato di chiedergli di cosa vuole parlarmi, ma ho imparato una cosa di lui: ha bisogno di tempo prima di parlare, bisogna lasciarglielo.
Infatti dopo cinque minuti di silenzio, sospira e parla. «Frank... Mi sento ancora uno schifo per l'altro giorno.» apro la bocca per interromperlo, ma scuote la mano per zittirmi. «Io credo... Voglio smettere. Voglio smettere davvero.»
Rimaniamo in silenzio, ma non riesco a trattenermi.
Gli salto praticamente addosso stringendolo fortissimo, e sento di nuovo quelle maledette lacrime scorrermi sulle guance.
Grazie, cazzo, grazie. Mi stringe anche lui, trema un po', rimaniamo così per tantissimo tempo.
Poi mi guarda e ha gli occhi lucidi anche lui e mi sembra di nuotarci dentro da quanto sono belli.
«Ti amo» mi esce con tanta naturalezza e sorrido come un bambino.
Poi mi prende per mano e continuiamo il tragitto verso l'ospedale.

«Frank, entra» dice la psicologa quando mi vede sulla porta.
Mi abbraccia – non l'aveva mai fatto.
Le sorrido ed esito. «Ehm... Ci sarebbe una persona, a dire la verità. Posso farla entrare?»
Lei spalanca gli occhi e poi annuisce, mentre faccio cenno a Gerard di seguirmi e chiudo la porta dietro di lui.
Ci sediamo entrambi e restiamo in silenzio.
«Ciao, tu chi sei?» Gerard alza lo sguardo e tende la mano verso la psicologa. «Gerard, piacere.»
Lei lo osserva e poi sposta lo sguardo su di me in attesa che io parli.
«Lui è... Un mio amico. Cioè, oddio, forse qualcosa di più, insomma, ehm...» entrambi ridacchiano mentre io divento rosso come un peperone, Gerard mi stringe la mano.
Iniziamo a parlare e per la prima volta parlo di cose allegre in quella stanza.
Per la prima volta la frase 'no, non c'è nessuno nella mia vita' non la dico più, la soffoco, la distruggo.
Gerard spiega tutto alla psicologa, la droga e il voler smettere una volta per tutte.
Sto bene.
 
 
 
Chiudo gli occhi e prendo un profondo respiro.
Ultimamente devo farlo spesso, perché mi sento soffocare.
Ho una paura fottuta di tutto, ecco cos'è.
Ho paura per Frank.
Ho paura per me stesso, perché so cos'è l'astinenza dalla droga.
So cosa significa, ma so anche a cosa vado in contro se continuo così.
So tutto, ma vorrei non sapere nulla.
E ho paura.
E Frank è così magnifico ed è così strano avere nella mia miserabile vita un sole del genere ad illuminare tutto.
E mentre lo guardo dal vetro della stanza dove sta facendo gli ennesimi esami del sangue per ennesimi controlli penso, per l'ennesima volta, che è la prima persona che amo davvero.
Ci mette un po', poi torna tenendosi il braccio, ha un'espressione corrucciata.
Mi prende la mano ed usciamo dall'ospedale, va verso il parco e io lo seguo. Ci sediamo.

«Frank che succede?» gli chiedo dopo un po'. Non ha detto una singola parola da quando siamo usciti.
Sospira. «C'è stato un caso di un uomo malato di AIDS e leucemia, in un  ospedale non lontanissimo da qui. E' finito sui giornali di tutto il mondo. Per curare la leucemia è stato sottoposto a trapianto di midollo osseo e... ed è guarito anche dall'AIDS».
Spalanco gli occhi, ma lui rimane impassibile. «Non posso Gerard».
Scatto in piedi? «Cosa?! Come 'non posso'? Hai... Hai una possibilità, diamine! Che significa che non puoi?»
Frank si è innervosito, lo vedo dai suoi occhi. Mi trascina giù tirandomi la manica della giacca.
Mi risiedo e aspetto la sua spiegazione.
«C'è una possibilità su mille che funzioni, e poi ci sono tantissimi rischi. Nell'operazione, ma anche dopo. Con quello schifo di sistema immunitario che mi ritrovo, qualsiasi batterio che se ne va in giro per l'ospedale probabilmente verrebbe a trovarmi e ci resterei secco. Preferisco continuare con le medicine e stare così, finché posso. Posso vivere ancora tanti anni, se sto attento e se chi c'è lassù evita di mandarmi stupide infezioni.» Annuisco, e un pensiero egoista si fa strada nella mia mente.
Anche io voglio che rimanga tutto così.
Vorrei fermare il tempo, fermare il mondo, l'aria, l'acqua, il sangue, la sua malattia, la droga.

E, l'ho già detto?
Ho una paura fottuta di tutto. 


















Okay, vi scongiuro non uccidetemi.
Era una vita che non aggiornavo, lo so.
E questo capitolo fa anche abbastanza schifo.
Ma giuro - giuro - che queste ff le finirò, è che non ho trovato il tempo necessario e non so, dopo questa storia della rottura non ho letto/scritto su di loro per un bel po'.
Peeeerò adesso sono qui e spero tanto che non vi siate dimenticati di me e di questa storia.
Recensite, vi preeego, almeno per farmi sapere che la seguite ancora. Intanto, qui ci sono la mia pagina facebook e il mio twitter.
Un bacio grandissimo.
Vale

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