They called her ' the cold inside '

di iam_theinsecure
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Always believe only in our love. ***
Capitolo 2: *** Rain. ***
Capitolo 3: *** Light on. ***
Capitolo 4: *** I'll keep strong for you. ***
Capitolo 5: *** But just because it burns it doesn't mean you're gonna die. ***
Capitolo 6: *** I'm in pieces. ***
Capitolo 7: *** Black walls. ***
Capitolo 8: *** The smell of the spring. ***
Capitolo 9: *** Kiss me because I don't have the courage. ***



Capitolo 1
*** Always believe only in our love. ***


 



- Always believe only in our love -


<< Ti ho detto che non mi va di parlare, mamma! >>
 
Non sapevo nemmeno come mai l’avessi chiamata mamma…
 
Forse perché chiamarla “ brutta stronza senza cuore ” non sarebbe stato educato e io seguivo sempre le regole d’educazione che avevo imparato guardando tutta quella televisione.
 
<< Ringrazia Dio che non sono lì con te, altrimenti ti sarebbe finita la faccia contro il muro, sappilo >>
 
Ecco.
Ci risiamo.
 
Possibile che dovesse sfogare la propria rabbia con me?
Quelle minacce mi facevano soffrire e lei non se ne rendeva nemmeno conto.
 
Rimasi in silenzio.
Non risposi più nonostante lei continuasse ad urlare e a chiedere se fossi ancora al telefono.
 
Aspettavo che buttasse giù lei, magari concludendo con un “ vaffanculo ” come era suo solito fare alla fine di ognuna  delle nostre chiamate “ madre e figlia ”, se così si possono chiamare.
 
Non riesco nemmeno a capire perché si ostini a chiamarmi, a fingere che le interessi che fine ho fatto quando ricordavamo tutte e due benissimo quali erano state le ultime parole che mi disse, prima che io, l’ultima volta che la vidi, chiudessi la porta di casa mia tanto violentemente da farle urlare cose orribili anche dopo che me ne ero andata, a differenza mia, che piansi per una notte intera, per la strada.
 
<< Con chi stai parlando, mamma? >>
 
Mio fratello Kay.
 
Sentire la sua voce dopo tanto tempo fu come ricevere una pugnalata dritta allo stomaco.
 
Aveva solamente dieci anni: a dieci fottutissimi anni come si può essere tanto forti e al contempo sereni?
 
Mi sentivo in colpa: io me ne ero andata, ma avevo lasciato lui con quei due che nemmeno sanno cosa voglia dire fare i genitori.
 
Quella donna non aveva mai nemmeno provato ad abbracciarmi dopo quello che mi era successo, le dava persino fastidio vedermi piangere.
 
Avrei dovuto salvare anche lui…
 
<< E’ Violet vero? >>
 
Non fiatai.
Non cercai di farmi sentire da Kay per provare che sua madre gli mentiva ogni volta che gli diceva che non ero io.
 
Come faceva quella donna a continuare a vivere con la costante presenza dei sensi di colpa?
 
L’unica cosa di cui ero assolutamente sicura era che non passasse giorno in cui non pensassi costantemente a come la mia vita mi era stata strappata da un uomo tanto crudele da strapparmi anche la dignità oltre al sorriso.
 
Adesso che ci penso bene, mi ha portato via tutto, compresa la mia anima.
 
<< No, tesoro. Quante volte ti devo ripetere che tua sorella non vuole sentirmi? Non vuole sapere niente di me… né di te >>
 
Che cazzo di pensieri perversi stava ficcando nella testa di mio fratello?
Che razza di persona scaglierebbe i propri figli l’uno contro l’altro?
 
Di certo non una madre.
 
<< Non ti credo. Lei vuole sentirmi tanto quanto lo voglio io… non ti credo >>
Riattaccai e cominciai a singhiozzare.
 
Bravo il mio ometto… non credere a lei.
 
Credi sempre e solo nel nostro amore.

-

* spazio dell'autrice * (?)

Ciao a tutti, mi scuso subito se in questo primo capitolo non si sia ancora capito tanto della storia che sto tentando di raccontarvi e mi scuso anche se ancora non si è capito che ciosba (?) c'entrano i the wanted con la nostra protagonista... date spazio alla vostra fantasia, in fondo è questo lo scopo del primo capitolo: farvi fantasticare su cosa potrà succedere in futuro e far nascere in voi la giusta curiosità per proseguire nella lettura e scoprire se le vostre aspettative verranno esaudite o, spero di no, deluse.

By the way... mi presento: mi chiamo Annalisa, ho 15 anni ( ne compio 16 questo mese, il 21 dicembre per la precisione - si, la data della fine del mondo lol - ) e sono fan dei the wanted da davvero pochissimo: da settembre.
Spero davvero con tutto il cuore di riuscire ad appassionare qualcuno e a farlo anche emozionare, perché no.

Cercherò di caricare due capitoli a settimana ( essendo anche io una lettrice di fanfiction so quanto sia estenuante l'attesa per i capitoli ) e se qualcuno di voi ha voglia di farmi domande, critiche, di espormi i propri pensieri potete benissimo commentare il capitolo o contattarmi su twitter, per chi ce l'ha: sono @jnvisible.

Un salutone.

- Annalisa.

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Capitolo 2
*** Rain. ***





- Rain -



Sopravvivere.
 
Non ero buona a fare nemmeno quello ormai.
 
Posai la lametta sul bordo della vasca.
 
Mi tremavano le mani.
 
La paura. L’unica emozione che conoscevo, l’unica emozione che riuscivo a provare.
 
Paura della morte, paura di lasciare questo mondo senza nemmeno aver dato a qualcuno un motivo valido per ricordarmi con un sorriso.
 
Nessuno si sarebbe mai ricordato di me. Nessuno avrebbe pianto per me.
 
<< Mi dispiace… >> sussurrai.
 
A chi cazzo sto chiedendo scusa?
 
Violet, è inutile che continui a fissare il soffitto: non c’è nessuno lassù pronto a perdonarti.
 
Gli occhi cominciarono ad appannarsi, come se nel bagno fosse spuntata una nebbia fitta che presto oscurò i miei occhi.
 
Pesanti, essi si chiusero e mi addormentai nella vasca da bagno, in quell’acqua calda che dava di lavanda e che sapeva di sangue, il mio sangue.
 
-
 
<< Ehi Violet… io lo dico per il tuo bene, se esci un po’ non ti fa male… anche se vai in giro da sola, fatti un giro: vai al parco, al porto… ti piace tanto il mare >>
 
Geneeve era una di quelle tante persone a questo mondo a cui non importava nulla di ciò che mi era successo: lei pensava al presente, alla Violet che sono ora, alla Violet che non le piace per niente.
 
Lei non mi conosce, non sa la mia storia e forse è proprio questo il motivo per cui, quel giorno di ormai un anno fa, dopo che me andai definitivamente di casa, chiesi proprio a lei di ospitarmi per un tempo indeterminato a casa sua.
 
Mi disse di fare di quell’appartamento casa mia e mi promise che se ero una tipa che aveva bisogno costantemente di starsene per conto proprio, come aveva intuito potessi essere sin dalla prima impressione, lei non mi avrebbe affatto infastidita, anzi, sarebbe andata a stare dal suo fidanzato, dall’altra parte della città, lasciandomi l’appartamento tutto per me.
 
Quella ragazza mi aveva completamente letto nel pensiero.
 
<< Forse hai ragione… un giretto al porto non mi farà male, grazie del consiglio >>
 
<< Non c’è di ché… tieni, mettiti questo >>
 
Un vestito.
 
Non mi sarebbe nemmeno arrivato alle ginocchia.
 
Avrei portato scoperte le gambe.
 
Al solo pensiero che gli occhi di qualcuno potessero posarsi sulle mie gambe nude, il mio cuore cominciò a galoppare e le mani a sudare.
 
<< Ti ringrazio, ma fuori fa freschino e non vorrei raffreddarmi… meglio un paio di jeans, magari anche neri >>
 
Le sorrisi e mi andai a cambiare.
 
Senza nemmeno salutare, sentii la porta dell’appartamento chiudersi e calare il silenzio.
 
Stronza, salutare sarebbe stato chiedere troppo?
 
-
 
Una ragazza dai capelli neri, dall’altra parte dello specchio d’acqua, trascinò sul proprio viso un sorriso sforzato.
 
Se si fosse coperta dal naso in giù con la mano, si sarebbe accorta benissimo che i suoi occhi non sorridevano come il resto del viso cercava di fare.
 
Quegli occhi erano tristi.
 
Spenti.
 
Una goccia di pioggia fece svanire quell’immagine ai miei occhi quasi orrenda.
 
Stava per mettersi a piovere e io ero a più di 20 minuti a piedi da casa, tratto di strada che avrei fatto completamente sotto la pioggia perché non avevo con me un ombrello.
 
Mi alzai dalla panchina e cominciai pazientemente a camminare, stretta nelle spalle per non prendere troppo freddo.
 
In fondo mi piaceva la pioggia.
 
Quegli strani brividi che ti percorrono la schiena quando ti senti che i tuoi vestiti sono tanto bagnati da non riuscire più a farti sentire coperta, come fossi nuda, bagnata, davanti a tutti.
 
Bagnata sotto la pioggia per me era come essere nuda.
 
Possibile che questa strana e pervertita sensazione mi piacesse tanto?
 
Nessun ragazzo mi ha più toccata da quella volta.
 
Adesso che ci penso, non ho più permesso a nessun essere vivente, umano, uomo, donna, animale, cane, gatto, bambino, di provare anche solo a sfiorarmi.
 
Il solo pensiero di altre superfici viventi e pulsanti di vita a contatto con la mia pelle fredda mi faceva rabbrividire di schifo.
 
<< Bisogno di un ombrello? >>
 
Saltai, come se mi avessero appena urlato alle spalle.
 
Come al solito ero immersa completamente nei miei pensieri, tanto da non accorgermi della gente che mi passava accanto, dei rumori dei loro passi, del mondo intorno a me, di quel ragazzo che mi stava gentilmente offrendo il posto accanto a sé, sotto quell’ombrello blu notte.
 
Una marea di ricci biondo cenere schiacciati sotto un cappello di lana color granata nascondevano due occhi azzurri come il cielo che quel giorno si erano velati di una strana sfumatura di grigio.
 
Quello sguardo intenso mi ricordò quello di mio fratello Kay: quella stessa luce…
 
Due guance rosee e un paio labbra carnose che sbiancavano sotto la pressione di quei denti che non volevano proprio lasciarle stare.
 
<< Perché ti sei fermato? In fondo sono solo un’estranea sotto la pioggia… cosa ti importa se ho bisogno di un ombrello? >>
 
Risposi male, ma il modo in cui avrebbe risposto a quelle mie domande sarebbe stato per lui come superare o no una specie di prima prova.
 
Stordito da quella mia risposta, rimase serio, a riflettere, come se le risposte a quelle mie domande ce le avesse scritte da qualche parte, in fondo alla testa, o forse in fondo al cuore.
 
<< Non lo so >> rispose.
 
Prova superata.
 
Adesso vediamo se supera anche la seconda.
 
<< A che stai pensando? >>
 
Se mi avesse mandata a quel paese avrebbe toppato, alla grande direi.
 
<< A quanto tu sia… strana! Potevi semplicemente accettare o rifiutare e mandarmi a quel paese. Perché mi fai tutte queste domande? >>
 
Seconda prova superata.
 
Aveva risposto alle mie domande con una domanda.
 
<< Piacere, mi chiamo Violet >> avventata gli porsi la mia mano.
 
Avevo paura la stringesse.
 
Avevo paura di quel tocco.
 
Avrebbe potuto stringermi la mano, voltarmi il braccio tanto forte da rompermelo.
 
Avrebbe potuto farmi ruotare fino a mantenermi voltata, con le spalle verso di lui e il viso rivolto alla parte opposta, mentre avrebbe potuto fare di me ciò che voleva, con la forza.
 
Avrebbe potuto farmi del male.
 
<< Piacere mio… sono, emh… James-Jay. Chiamami Jay >>
 
Mi strinse la mano con delicatezza, quasi sfiorandola.
 
Il mio cuore cominciò a battere, ma quella che sentivo non era la solita e famigliare paura.
 
Era qualcosa che non avevo mai provato prima…

-

* spazio dell'autrice * ( ho talmente tanta poca fantasia in fatto di titoli che non so come chiamare questo spazio dedicato alle mie farfuglerie lol )

Eccoci qui, finalmente :D
Prima di tutto vorrei ringraziare di cuore xLallix che è stata la prima ragazza a recensire questa storia ( rimarrai nella mia collezione di record, sappilo Laura ;D ) e in secondo luogo, come al solito, spero che qualcuno legga anche questo secondo capitolo: significa davvero tanto per me, soprattutto è appagante leggere anche poche parole come recensione alla mia storia, sia che siano buone parole sia che siano critiche ( non frenatevi dall'impulso di scrivermi anche giudizi negativi! Invece di chiudere il capitolo appena vedete che non vi piace, scrivetemelo, a me fa piacere anche questo! ).

Ok. La pianto di divagare.

I prossimi due capitoli arriveranno la prossima settimana se riesco a scrivere qualcosa mentre sarò in vacanza ( adesso che ci penso, è già un miracolo se riuscirò a portare il mio computer con me çwç ).

Ciancio alle bande (?) spero di ricevere tanti commenti... ( si, certo, aspetta e spera ).

Un abbraccio.

- Annalisa.

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Capitolo 3
*** Light on. ***





- Light on -



Con lui il mondo sembrava un posto migliore, un posto dove valeva la pena vivere.
 
Avrei vissuto per quel sorriso…
 
Avrei almeno tentato di cercare la felicità per quel sorriso.
 
 
Faceva male.
 
Incrociare il suo sguardo voleva dire dare il via ad un esplosione di emozioni tanto forti da fare male: il cuore sembrava sbattere contro la cassa toracica tanto forte da riuscire quasi ad esplodere, la bocca dello stomaco cominciò a stringersi, manco qualcuno mi avesse dato un pugno proprio in quel punto e le mani… ah, quelle mani maledette non la smettevano di sudare, dannazione.
 
 
Mi accompagnò fin sotto casa.
 
‘ Nessuno lo aveva voluto mai fare per me, lo sai? ’ avrei voluto dirgli, ma, dannazione, quelle parole mi sparirono in un sospiro che sembrò a Jay come di sollievo.
 
<< Si… adesso me ne vado, non ti preoccupare >> e mi baciò, sulla guancia.
 
Fu in quella frazione di secondo che la mia mente vagò, a milioni di anni luce dalla soglia di casa mia.
 
Viaggiò fino ad arrivare in uno dei tanti universi paralleli al nostro, in un universo dove le labbra di quel bellissimo ragazzo dai capelli ricci non si erano posate sulla mia guancia destra, ma a centimetri da quel punto, dritto sulle mie labbra.
 
I miei occhi si chiusero, le labbra erano sul punto di aprirsi, pronte.
 
Un sogno ad occhi aperti.
 
Non ne avevo mai fatti di sogni come quello. 
 
Gli occhi sembrarono non riuscire a mettere a fuoco.
 
<< Beh… buonanotte allora. È’ stato davvero un piacere conoscerti, Violet >> e se ne andò… senza nemmeno aspettare che lo salutassi.
 
<< Buonanotte.. >>
 
 
-
 
 
Avevo conosciuto un ragazzo meraviglioso, dall’aria buona e gentile…
 
Allora perché non mi sentivo affatto bene?
 
Mi sentivo spaesata, come se l’appartamento in cui ero tornata dopo quell’uscita non mi appartenesse più.
 
‘ Questa casa è vuota ’ pensai e fu allora che ritornò a galla un misero flash che mi destabilizzò, come ti destabilizza un colpo improvviso alla testa.
 
 
Un paio di mani, bollenti e sudate, che mi stringevano i polsi, in alto, contro quell’armadio freddo e ruvido.
“ Sta zitta, sfigata ” continuava a sussurrare.
Era talmente tanta la rabbia che riuscivo chiaramente a sentire le mie tempie pulsare, le mascelle stringere e i denti grattare tra di loro con violenza.
 
Non riuscivo nemmeno a chiedere che si fermasse.
Non riuscivo a pensare.
 
Piangevo.
 
 
Accesi la luce della mia camera e me ne andai a letto vestita.
 
Dormii con la luce accesa, quella notte.


-


* spazio dell'autrice *

Lo so, lo so, ci ho messo un sacco a pubblicare questo capitolo che sicuramente non ha sottisfatto per niente le vostre aspettative.
Lo so, mi dispiace, ma sono stata poco bene ultimamente e poi con tutte queste vacanze, mi ci vorrebbe proprio una vancanza dalla vacanza.

Ringrazio come sempre tutti quelli che leggeranno il capitolo e che mi diranno la loro ( RIPETO: accetto qualsiasi tipo di commento ).

P.S Buon anno a tutti. Love you all (?)

- Annalisa.

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Capitolo 4
*** I'll keep strong for you. ***





- I'll keep strong for you -



Non ho fatto altro che piangere per tutta la notte.

“ Piangevi sempre quando eri piccola, non riuscivi a fare altro che spaccarci i timpani con le tue urla… non accontentavamo mai i tuoi capricci. Capivi benissimo da sola quando era ora di smetterla ”

Quelle parole non potevano essere quelle di una madre che racconta con felicità i ricordi che la figlia non può più avere, perché era troppo piccola allora.

No… quella che ho avuto io non era una madre.

Ci fu un attimo, però, in cui la mia mente era rimasta sospesa tra il mondo reale e quello dei sogni: continuavo a percepire il freddo del cuscino bagnato dalle lacrime, il naso umido e irritato, le labbra secche, il petto che si muoveva a fatica, i singhiozzi che mi scuotevano… sentivo tutto.

Ma nel frattempo il mio corpo era da tutt’altra parte.

Il mio corpo era appoggiato su un altro materasso, su altre lenzuola, la mia testa era appoggiata su un altro cuscino.

I singhiozzi erano sempre quelli, il petto si muoveva ancora a fatica, ma questa volta un paio di calde braccia mi stringevano ad un corpo rassicurante.


La mia roccia…


Le sue braccia erano le lunghe catene che tenevano l’ancora attanagliata agli scogli e la barca al sicuro dalla tempesta.


<< Sarò forte io per te >> mi sussurrava.


Il suo fiato caldo mi faceva venire i brividi.

Potevo sentire il suo naso posarsi sulla mia schiena, la sua fronte coperta dai ricci aderire con il mio collo.

E poi le sue lacrime scesero fino a bagnarmi la maglietta sottile che non ricordavo di avere indossato.



Aprii gli occhi…

Jay era come la luce che vedi in fondo al tunnel, quando sai di star per uscire di nuovo alla candida e calda luce del sole.



Non ero con lui.
Ero nel mio fottutissimo letto freddo, da sola.

Ero sola e follemente innamorata di lui...


-


* spazio dell'autrice *

Oh, guarda! Annalisa ha pubblicato un capitolo che nessuno aspettava... già.
Il fatto è che mi sto ascoltando " The Harold Song " di Ke$ha e intanto stavo parlando con la mia amica margherita ( ciao tesoro :D ) di Jay e mi è pigliata un po' di malinconia e visto che avevamo lasciato Violet in lacrime nel proprio letto, volevo che il quarto capitolo fosse uno di quei capitoli diversi e cortissimi in cui le emozioni arrivano prima della storia in sè per sè.

Ci sono tante emozioni mie nei pensieri di Violet.

Spero di essere riuscita a farle provare anche a voi.


- Annalisa.

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Capitolo 5
*** But just because it burns it doesn't mean you're gonna die. ***





- But just because it burns it doesn't mean you're gonna die -



Sophie.

 
Non immagini nemmeno quanto mi manchi…
 
 
Ogni tanto quel nome spuntava nitido e chiaro in mezzo alla nebbia in cui erano immersi e confusi i miei pensieri.
 
Non era un nome qualsiasi, quello.
 
 
Era la mia migliore amica…
 
Appunto. Era.
 
 
Violet, ora basta pensare a queste cazzatte…
 
Ma mi manca…
 
Non importa. L’hai persa ormai, anzi. È lei che ti ha abbandonata quando tu avevi bisogno di qualcuno che cercasse di capirti…
 
 
La malinconia si tramutò in rabbia.
 
Ero come davanti a quella porta che avevo chiuso completamente tempo prima, quando avevo deciso di voltare pagina e mollare la mia vecchia vita: la porta sbatteva, come se qualcuno dall’altra parte stesse cercando di aprirla senza riuscirci.
 
Vedevo la maniglia muoversi freneticamente e gli stipiti tremare.
 
L’avevo chiusa a chiave quella porta.
 
Sarei tornata indietro solo e quando lo avrei deciso io, unica proprietaria della chiave.
 
E no. Non volevo tornare indietro…
 
Non avrei ripercorso i miei stessi passi.
 
 
Voltai le spalle a quella porta e cercai di guardare davanti a me, anche se c’era il nulla.
 
 
Ma solo perché brucia non vuol dire che morirai…
Devi rialzarti e provare.
 
 
Quelle parole non sarebbero mai più uscite dalla mia testa; me le sarei anche tatuate sulla pelle se non fossi riuscita a ricordarle per sempre, ma lo avrei fatto.
 
Avrei fatto di esse il mio motto e la mia forza.
 
Dovevo aggrapparmi a qualcosa e quella decisiva forza era l’unico appiglio che riuscivo a trovare, rannicchiata ad occhi chiusi sulla poltrona, nel salotto, completamente al buio.
 
 
-
 
 
Il campanello…
 
Chi diamine poteva essere che rompeva alle tre del pomeriggio di un giorno qualunque della settimana?
 
Martedì? No. Mercoledì, Violet. Oggi dovrebbe essere mercoledì.
 
Presi il mio cellulare dal tavolo in cucina e controllai in fretta lo schermo che indicava la data del giorno e l’ora.
 
 
15:34 – Mercoledì 22 Novembre
 
Già… Mercoledì, ho sparato e ci ho preso.
 
Lanciai il cellulare sul divano, attenta a tirarlo dall’angolazione giusta per non farlo rimbalzare e cadere a terra.
 
Il campanello suonò di nuovo, ma non con lo squillo insistente di qualcuno che ha fretta di entrare a tutti i costi: suonò per cinque secondi, veloce e rapido.
 
Non era Geneeve.
 
Lei aveva le chiavi…
 
Oppure, se le avesse dimenticate a casa del suo ragazzo, sicuramente si sarebbe attaccata insistentemente al tasto del campanello e, senza darmi nemmeno il tempo di capire se era lei, avrebbe cominciato a sbattere i pugni contro la porta urlandomi di aprire.
 
Sapeva che molto spesso passavo interi pomeriggi con le cuffie alle orecchie e la musica sparata al massimo.
 
 
Non volli guardare nemmeno dallo spioncino della porta.
 
Adoravo le sorprese, anche se dubitavo fortemente che avrei trovato qualcuno di interessante dall’altra parte del portone, sulla soglia di casa mia.
 
 
Aspettai che suonasse una terza volta.
 
Se era qualcosa di importante avrebbero suonato sicuramente ancora.
 
 
Più mi avvicinavo alla porta più il cuore accelerava il proprio battito: mi piaceva l’idea che chiunque fosse fuori non sapeva che mi trovavo dall’altra parte della porta, attenta ad ascoltare qualsiasi rumore avrebbe fatto.
 
 
Poi sentii il suono ovattato di una testa che si appoggia contro una superficie liscia.
 
Si stava arrendendo.
 
Non avrebbe suonato una terza volta.
 
 
Poi il campanello squillò ancora, proprio quando mi sarei aspettata di sentire quel qualcuno lasciare il viale davanti a casa mia e andarsene.
 
Prova superata.
 
Sorrisi e soddisfatta aprii la porta.
 
 
Quella marea di capelli ricci… avrei potuto riconoscerla in mezzo ad una folla di un migliaio di estranei.
 
Ricordavo male il suo sguardo o ero io che ero annegata in un altro, irriconoscibile?
 
 
Suonerà anche banale, ma vedevo il cielo e le profondità del mare in quegli occhi.
 
 
Jay…
 
 
Una strana reazione fece bruciare i miei occhi, che cominciarono a riempirsi di lacrime che non volevo far scendere.
 
Che cazzo mi sta prendendo?
 
Possibile che fossi così tanto debole davanti alla quasi incontrollabile voglia che avevo avuto per una settimana di mettermi a piangere se non l’avessi mai più rivisto?
 
 
Mi voltai un secondo per cercare di riprendermi.
 
 
<< Che ci fai qui? >> dissi sorridente , ancora voltata.
 
<< Non merito nemmeno di essere salutato come si deve? Si fa così con i ragazzi gentili che ti offrono un passaggio sotto il proprio ombrello? Ingrata… >>
 
 
Non avevo detto nemmeno ciao, appena lo avevo visto, non aveva tutti i torti, ma non poteva pretendere che cominciassi a fargli le feste manco fossi un cagnolino ammaestrato.
 
 
<< Scusa, hai ragione. È stato maleducato da parte mia… è che mi hai colta un po’ alla sprovvista… >>
 
<< Non ti aspettavi di trovarmi davanti casa tua, hai ragione… è solo che non avevo nemmeno il tuo numero di telefono e quello di questa casa non è nemmeno sull’elenco telefonico, così… >>
 
<< Già… questa casa non ha un telefono fisso >>
 
<< Cioè. Non è che mi fossi messo a cercare intenzionalmente il tuo numero di telefono… cioè… io… non sono quel tipo di ragazzo che… >>
 
<< Uno stalker? >> chiesi schietta, interrompendo quel leggero attacco di panico che stava avendo.
 
<< Si… esattamente >>
 
Fece un lungo respiro e, paonazzo, affondò una mano tra i suoi capelli, imbarazzato.
 
<< In un certo senso è stata un po’ anche colpa mia… avrei dovuto darti il mio numero di telefono quella sera >>
 
<< Ma evidentemente non volevi… >>
 
<< No no… non pensarci nemmeno. Non sono molto brava a fare la cosa giusta nel momento giusto. È colpa mia… >>
 
<< Come stai? >>
 
<< Prego siediti… è ora che faccia gli onori di casa, no? Meglio tardi che mai >> non risposi alla sua domanda.
 
Abbassai le maniche fino a tenerle con le dita, fino alla punta del pollice, sapendo di star coprendo i tagli vecchi e anche quelli nuovi, ancora freschi.
 
Mi sfuggì un occhiolino
 
 
Io. Che faccio un occhiolino. Che mi prende?
 
Io non sono capace di fare occhiolini in modo sexy alla gente. Sarò sembrata una deficiente con un attacco di congiuntivite acuta, diamine.
 
<< Ti va una tazza di thé? >> continuai, cercando di distrarlo.
 
 
Si voltò, verso il tavolo della cucina, scioccato, rendendosi conto di quante tazze di thé fossero sparse in giro per la cucina e il salotto.
 
 
<< Thé dipendente? >>
 
<< No… emh… a me in realtà non piace nemmeno… mi piace solo prepararlo… >>
 
 
Altra figura di merda.
 
Ma, cazzo, Violet, non potevi semplicemente dirgli che si, ami alla follia il thé e che tutto quello che hai preparato è per te? No eh!?
 
 
Ma era quella la verità.
 
La mia era una specie di dipendenza: sentivo spesso la necessità di trovare in quel gesto la tranquillità che mi serviva.
 
Mi sentivo meglio se preparavo il thé.
 
Kay beveva sempre il thé che preparavo.
 
Le prime volte, perplesso, credeva fosse per qualche ospite…
 
La prima volta che mi beccò ne avevo preparate solo cinque di tazze.
 
Mi chiese: “ Qualche tua amica è venuta a trovarti? ”
 
Dall’incidente nessuno veniva più a trovarmi per sapere come stavo, nemmeno mia zia Kate e mio zio Mitchell: loro prima venivano di continuo.
 
Erano come genitori per me.
 
Ma nessuno sopportava l’idea di guardarmi e di pensare allo schifo che mi era successo.
 
In fondo li capisco: nemmeno io riesco a guardarmi allo specchio senza pensare a come era pieno di lividi e graffi, a com’era distrutto.
 
A Kay risposi che era tutto per lui quel thé e felice accettò tutte e cinque le tazze, a patto che potesse mangiare anche i biscotti.
 
 
<< Scusa… non avrei dovuto dirti quelle cose così… private. Mi dispiace >>
 
<< Non fai altro che scusarti… sbagli. Non ti scusare se ti stai aprendo con me… in fondo io non ho fatto altro che parlare delle mie di stramberie quando ti ho riportata a casa, quel giorno… ora è il tuo turno, a me fa solo piacere. E si… mi piacerebbe molto bere del thé ed aiutarti a finirlo >>
 
<< Vuoi un po’ di biscotti? >>
 
Nella dispensa avevo sempre un pacco dei biscotti preferiti di Kay: ogni tanto aprivo la busta, annusando con calma il contenuto, ripensando a lui. Ne prendevo uno e, senza necessariamente averne voglia, lo mangiavo con calma.
 
 
<< Stavo proprio per chiederteli… >> e mi sorrise.
 
 
 
-
 
 
* spazio dell’autrice *
 
Eccoci. Eccoci èwé
 
È passato tanto, vè?
 
Scusate tanto se i capitoli usciranno prossimamente un po’ senza una scadenza ben precisa, ma la scuola ultimamente mi sta impegnando anche troppo e in fondo penso anche che la metà delle persone che avrà letto i miei capitoli abbia avuto poco tempo, ultimamente, per farlo.
 
Ringrazio come sempre tutte le persone che recensiscono… in parte scrivo anche per tutte quelle persone che si complimentano con me. È davvero un piacere scrivere quando senti tanta partecipazione da parte della gente.
 
By the way… spero che vi sia piaciuto anche questo capitolo, ah… e Nicole, ho seguito il tuo consiglio e allungato un po’, ma non troppo. Hai ragione… quando le cose sono corte finisce che leggendole tutte d’un fiato, arrivi alla fine deluso… capitava anche a me.
 
Un bacione prisoners…
 
 
- Annalisa.

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Capitolo 6
*** I'm in pieces. ***





- I'm in pieces -



-  Violet!  -

 
-  Cosa?  -
 
 
Due piccole vocine andavano a sovrapporsi alle altre centinaia che scorrevano nella mia testa, mentre nel mio salotto vigilava il silenzio, interrotto ogni tanto dallo sgranocchiare di Jay.
 
 
-  Violet!  -
 
 
Ancora quell’amara ed insistente vocina che non la piantava di infastidire le altre, che puntualmente si fermavano qualche secondo dopo quel breve avviso, prestandole un’attenzione che durò poco più di cinque secondi.
 
Puntualmente le centinaia di piccolissime me ricominciarono ognuna a partire per una direzione diversa, senza però una meta precisa, confondendosi.
 
 
-  Violet! Piantala di fissarlo!  -
 
 
Questa volta, dopo essersi fermate, le piccole Violet nella mia testa si diressero ognuna, ordinatamente, verso delle piccole porte, dietro le quali si trovava una stanza dedicata ad ognuna: la Violet insicura e tremante sparì dietro una porta viola, quella arrabbiata dietro una rossa, quella sognante dietro una azzurra e quella da sempre rimasta bambina dietro una rosa confetto.
 
 
Una me sconosciuta restò immobile, in mezzo a quell’enorme atrio bianco che era la mia mente: il suo posto non era tra quelle porte.
 
 
Sperduta, non sapeva ancora quale posto le sarebbe spettato, non sapeva ancora che la propria stanza non era lì, nella mia testa.
 
 
Più in basso, in un posto dove veglia instancabile un ritmare profondo e continuo: laggiù, tra le pareti spesse che si muovono incessantemente per dare vita al corpo.
 
Lei spettava al mio cuore.
 
 
-  Ok. La smetto  - rispose coraggiosa, quest’ultima, scomparendo e tornando al suo posto.
 
 
Sbuffai, facendomi scappare una leggera risata.
 
Lo stavo fissando e lui non se ne era nemmeno accorto: oppure lo aveva fatto senza dire alcuna parola.
 
 
<< Perché ridi? >> mi chiese, sorridendo, per niente irritato.
 
<< Scusa… è che… fai delle strane smorfie mentre mangi, sai? >>
 
 
Risi. E lui lo fece con me.
 
 
<< Si. Lo so… una volta, ad un ristorante, cominciai a fissare la mia immagine riflessa nello specchio davanti al mio tavolo mentre masticavo: so benissimo della mia boccuccia da papera >>
 
 
Le labbra non si staccavano mai: si stendevano per poi stringersi in quella posizione, come se stessero baciando l’aria.
 
 
<< Che ragazzo pieno di sé… mamma mia >> dissi in tono snob, tentando di infastidirlo.
 
<< AUH! >> urlò, come se lo avessi ferito.
 
<< Okey… ora basta ingozzarsi di thé, signorino. O finisce che ingrassi >>
 
<< …in vena di complimenti oggi, insomma >>
 
<< Se comincio, probabilmente vedrebbero la tua coda da pavona anche dall’altra parte del mondo >>
 
 
Gli tolsi i biscotti e rovesciai tutto il thé, ormai freddo, nel lavandino.
 
 
<< Perché me li hai tolti? Non avevo finito? >>
 
<< Usciamo, su! >>
 
 
Battei le mani e gli feci segno di alzarsi ed una volta in piedi, dopo aver preso il mio giubbotto, lo spinsi fuori tenendogli le mani sui fianchi.
 
 
Io che prendevo l’iniziativa e spingevo gli altri ad uscire.
 
Sicuri che questo è ancora il pianeta terra?
 
Sicuri che non sono capitata in un universo parallelo dove questa non è la vera Violet?
 
 
Chiusi il portone di casa con due giri di chiave e, senza nemmeno sapere dove saremmo andati, guidai Jay fuori dal cortile.
 
 
-
 
 
Pessima idea portarlo a fare un giro in centro: qui conosce tutti e l’uscita è diventata un continuo “ uh, fermati, devo salutare coso, resta in imbarazzo a fare il palo per minuti interminabili, non ti presento nemmeno, finito, possiamo andare ”.
 
Jack, mi pare si chiamasse uno dei tanti conoscenti di Jay che lo avevano fermato mentre camminavamo.
 
Il quinto? No, forse il sesto.
 
Ormai avevo perso il conto.
 
 
<< È stato un piacere Jay… fatti sentire, mi raccomando >> e dopo essersi stretti la mano, quell’uomo dai capelli corti e scuri mi fece un cenno con la testa, in segno di saluto.
 
C’era imbarazzo in quel gesto: sicuramente prima si era sicuramente ripetutamente chiesto se era il caso di salutarmi a dovere o meno.
 
E aveva deciso di farlo nel peggiore dei modi: con un semplice e, a mio parere, maleducato cenno del capo.
 
Li ho sempre odiati, i cenni, si vede, no?
 
Non salutai per niente. Io non rispondo ai cenni.
 
 
Jay mi porse il suo braccio sinistro.
 
Leggermente inarcato e chiaramente rivolto a me, quel braccio stava aspettando che lo stringessi e il suo sguardo stava tentando di convincermi ad avvicinarmi e ad accontentarlo.
 
 
‘ Come si può dire di no ad uno sguardo del genere? ’
 
 
Avevo lasciato che quel pensiero mi sfuggisse e scivolasse nella mente, facendomi arrossire.
 
Non avevo mai pensato cose del genere in vita mia… per nessuno che non fosse stato frutto della mia immaginazione.
 
 
La mia mano che, sudata, passò dalla tasca del mio cappotto al freddo polare che faceva condensare il mio respiro caldo in nuvolette di minuscole particelle di vapore acqueo, per poi permettere al mio braccio di avvolgere il suo.
 
 
Ero scontenta.
 
Quel tocco era distante.
 
Era come abbracciare un cappotto senza sentire se chi c’è sotto è qualcuno fatto di carne ed ossa o semplicemente di plastica o di pietra.
 
Quanto avrei dato per riuscire a poter toccare il caldo braccio racchiuso sotto quegli strati di tessuto: erano come muri insormontabili che non avrei mai scavalcato e le mie dita, tremanti, si erano ormai rassegnate.
 
 
Toccarlo…
 
 
Questa parola mi balenò nella testa.
 
Sorrisi.
 
 
All’improvviso sentii le mani scivolare lungo la manica del cappotto di Jay, in caduta libera.
 
Aveva disteso il braccio e uscito la mano dalla tasca del cappotto.
 
 
La superficie fredda e liscia del giubbotto venne sostituita da una presa calda.
 
 
Le sue dita lunghissime intrecciate a quelle della mia mano, minuscola, sudata ed appiccicaticcia: gli sarà certamente sembrato di star tenendo per mano una bambina invece di una ragazza.
 
 
Toccarlo…
 
 
Possibile che fosse bastato pensare intensamente a quanto avrei voluto poterlo toccare per far realizzare tutto ciò?
 
Era stato un caso…
 
Ma che caso e caso, Violet.
 
Il caso non esiste, lo sai benissimo.
 
 
<< Era da tutta la sera, da quando mi hai praticamente spinto ad uscire, che ci penso… >>
 
Mentre parlava non faceva che sfregare il proprio pollice contro il mio.
 
 
È così dolce…
 
 
<< Se ti dicessi che io non ci ho pensato per niente mentirei… >>
 
 
All’improvviso una piccola me uscì correndo dalla propria porta di colore nero: affannata cercava di urlare qualcosa, al centro della mia mente, piena di nebbia.
 
 
-  Perché lo stai toccando? Come ci riesci? Non hai paura che possa farti del male? Lui è come tutti gli altri… chi ti dice che non ti farà lo stesso che ti ha fatto Michael?  -
 
 
Michael.
 
Non dovevo ricordare quel nome.
Non dovevo rovinare il momento più bello della mia vita.
 
Non potevo lasciare che rovinasse definitivamente il mio futuro: lo aveva fatto in parte, ma Jay ne era rimasto fuori per tutto il tempo, fino ad ora…
 
 
- Un giorno ti chiederà dei tagli. Ti chiederà come mai non vuoi farti toccare da lui. Un giorno ti chiederà spiegazioni… Tu che gli dirai? Stuprata una volta stuprata tutta la vita? Perché in fondo è questa la frase che ti sei ripetuta per un mese intero dopo l’incidente ed è ad essa che pensi ogni volta che ti fermi a pensare a qualche ragazzo attraente.  –
 
 
-  Ma non c’è stato nessuno prima di Jay… non c’è stato nessuno come lui. Mai.  – risposi, malinconica.
 
 
-  Cos’ha di tanto speciale rispetto a tutti gli altri? Non ha niente che Michael non avesse: stessa aria spensierata, stessa dolcezza… solo che poi lui si è rivelato uno stupratore. Cos’ha Jay di diverso? Potrebbe esserlo anche lui…  -
 
 
Farsi paranoie assurde su persone innocenti.
 
È questo il prezzo da pagare per quella che, a parer mio, è la mia malattia.
 
Vedo pericoli ovunque e poi quella che si produce del male fisico sono io stessa.
 
Ero arrivata ad un punto in cui non riuscivo più nemmeno a capire me stessa.
 
 
Sono in pezzi.
 
Nel momento più felice della mia vita, in cui mi sembra di riuscire a toccare il cielo con un dito, sono in pezzi.
 
Ed ognuno di quei pezzi cerca di prevalere sugli altri, prendendo il controllo di tutti gli altri, prendendo il controllo di tutto.
 
Sono in pezzi.
 
Nessuno è in grado di aggiustarmi.
 
I componenti del mio puzzle sono pezzi completamente uguali, nessuno combacia alla perfezione con l’altro: anche se qualcuno, prima o poi, fosse riuscito a tenerli insieme, anche se non combacianti, tutto, prima o poi, sarebbe crollato di nuovo.
 
Sono in pezzi.
 
Sembra come se la pace sia l’unica cosa che non conoscerò mai.



-



* spazio dell'autrice *

Ciao a tutti, splendori miei c:
Devo ammettere che mi sta dispiacendo un sacco vedere che sempre meno persone leggono ciò che scrivo: in parte è colpa mia. Se avessi mantenuto l'accordo e avessi continuato a pubblicare in maniera costante, nessuno si sarebbe annoiato ad aspettare, ma, davvero, ho avuto pochissimo tempo çwç ( sempre la solita scusa, penserete ).

Spero vi piaccia il capitolo.


- Annalisa.

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Capitolo 7
*** Black walls. ***





- Black walls -



Un messaggio. Di Jay.
 
 
 
Non ero abituata ad avere numeri sul cellulare e non ricordavo affatto con quale freddezza mi fosse venuto in mente di memorizzare il suo numero con una semplice lettera “ J ”.
 
Che cosa senza senso.
 
 
Innervosita presi il cellulare, frettolosamente finii sulla rubrica e cambiai quella J maiuscola con un “ Jay ” ed esitai…
 
 
Wow.
 
Io che ho il numero di telefono di un ragazzo su un cellulare…
 
Impensabile, ma vero.
 
 
Salvai la modifica e poi posai il cellulare sul comodino, scordandomi completamente di dover rispondere.
 
Avevo una voglia matta di farmi una doccia e non riuscii a resistervi.
 
Scesi il piccolo condizionatore per bagno da sopra il mobile dello specchio, rimanendo sommersa in una montagna di polvere fastidiosa che mi si infilò in posti impensabili, sotto il pigiama.
 
Era da troppo tempo che non pulivo in questo appartamento: i pochi millimetri di polvere erano diventati spessi e pesanti tappeti grigio-bianchi.
 
Ma lasciai perdere quella piccola ‘ me Biancaneve ’ che mi gridava insistentemente “ pulisci, pulisci ” ed aprii il rubinetto della vasca, aspettai che ne uscisse acqua bollente e poi lasciai che la vasca si riempisse, tappandole il buco.
 
 
Uno squillo di telefono.
 
Jay che si aspettava una risposta e che aveva deciso di chiamare per sapere se ero ancora viva?
In effetti erano ormai passati due giorni dall’ultima volta che ci eravamo visti.
 
 
È proprio vero che devi riuscire a toccare il fondo per poter trovare la forza sovrumana che serve per tornare in superficie.
 
E io purtroppo ci ero rimasta, su quel fondo, e pure per troppo tempo.
 
 
Il fondo… l’unico posto di cui mi sentivo all’altezza…
 
 
Come mio solito, stavo lasciando che la marea di pensieri mi investisse completamente, dimenticandomi anche dello squillare insistente del mio cellulare.
 
 
Lo alzai controvoglia aspettandomi il nome di chiunque a lettere cubitali.
 
E invece era mia madre…
 
 
Feci un lungo sospiro, lasciando che la fragranza alla vaniglia del bagnoschiuma che avevo versato nell’acqua bollente mi riempisse le narici, arrivando fino alla gola e scatenando lo straripare della saliva che mi riempì la bocca fino a costringermi a deglutire.
 
 
<< Pronto? >>
 
<< Violet… sono io… >>
 
Parole strascicate venivano fuori da una bocca impastata e continuamente secca…
 
Ecco, era ubriaca, di nuovo.
 
<< Mam… hai bevuto… sei ubriaca… >> dissi, dispiaciuta.
 
Lo ero ogni volta che la trovavo con il busto completamente steso sul tavolo di marmo della cucina, aggrappata con il braccio destro ad una delle tante bottiglie che nascondeva da qualche parte, chissà dove, in casa nostra.
 
<< Tuo padre se n’è andato, hai capito? Nemmeno lui mi vuole più… sono un mostro e merito di essere sola >>
 
E c’era voluto l’alcol per capirlo?
 
Ma certo… da ubriachi la verità fa meno male, ma è quando si torna lucidi che si torna ignoranti, che si torna a rinnegarla.
 
<< Kay dov’è? Non gli avrai fatto del male… >>
 
Il mio cuore batteva all’impazzata.
 
Avevo una terribile paura della risposta a quella domanda, ma dovevo saperlo comunque.
 
<< È proprio di Kay che voglio parlarti… devi venirlo a prendere, Violet. Non sta più bene con me… >>
 
<< Ne parli come se fosse un semplice animale domestico, che puoi benissimo scaricare ad un’altra famiglia quando vedi che tu non sei più capace di prendertene cura… Ha bisogno di sua madre e io non lo sono… no, giusto. Io sono meglio… >>
 
Quelle parole l’avrebbero ferita più di qualsiasi altro insulto, ma era giusto che si rendesse conto di ciò che era.
 
Non mi interessa avere compassione e pena per qualcuno che non ne ha avuta per niente con me.
 
<< Vienilo a prendere… >> e poi sentii il suono di qualcosa di liquido che veniva versato e lo schiocco della bocca di una bottiglia che si staccava da un paio di labbra.
 
 
Riattaccai.
 
Al diavolo la doccia calda.
 
Tiravi via il tappo della vasca, lasciando che tutta quell’acqua bollente mista a bagnoschiuma sprecato venisse aspirata dallo scarico.
 
Mi spogliai in fretta, sudando.
 
 
Fa davvero caldo…pensai.
 
 
Tirai dal filo la presa del condizionatore vedendo una piccola scintilla accendersi vicino alla spina.
 
Mi infilai comunque nella vasca, aprendo il rubinetto per farmi la doccia.
 
Resistetti sotto l’acqua bollente, troppo svogliata e pigra per regolarla ad una temperatura accettabile.
 
 
Muoviti. Muoviti.
 
 
-
 
 
Grazie a Dio erano passati a malapena quaranta minuti dalla chiamata quando finalmente arrivai davanti a quella che una volta era casa mia.
 
Quando Geneeve mi chiedeva se mi mancasse casa mia le avevo risposto sempre con un “ ma certo che mi manca… ci sono cresciuta in quel posto ”.
 
Ma non era vero…
 
Non era tanto quell’edificio a mancarmi, quanto quello che ero stata tra quelle quattro mura.
 
 
Ero stata una piccola e minuscola neonata pestifera, che non faceva che piangere e gridare ad ogni suo bisogno.
 
Ero stata un’altrettanta piccola e maldestra bambina, che tornata dall’asilo preferiva restare a casa accoccolata al proprio cane, Rufus, ad imbottirsi di cartoni animati piuttosto che uscire in giardino a giocare, come il resto dei marmocchi della sua età.
 
Ero stata una cicciotella ed insicura ragazzina delle medie, sempre pronta ad imbottirsi di merendine e ancora e ancora di televisione.
 
Ero stata un’introversa ragazzina delle superiori, con i propri problemi di disordine alimentare e autolesionismo, che preferiva restare tutti i pomeriggi attaccata alla tv piuttosto che andare, come i suoi zii le avevano consigliato, da uno psicologo che puntualmente ogni pomeriggio chiamava i suoi genitori per informarli della sua assenza.
 
 
Inventavano sempre qualche scusa stupida con lo psicologo.
 

“ La scusi, ma ha avuto parecchio da fare con la scuola. ”

“ La scusi, ma non sta molto bene ultimamente. ”

“ La scusi, ma è stata invitata da un’amica per un gruppo di studio. ”
 

Erano tutte menzogne, ma quello era l’unico loro compito: cercare scuse per me.
 
Sapevano fare solo quello, mentre la loro unica figlia femmina cresceva da sola.
 
 
Scesi dall’auto ed entrai in giardino, percorrendo la passerella di pietra.
 
La cuccia di Rufus, vuota e impolverata dal passare del tempo.
 
Rufus era morto quando me n’ero andata io.
 
Soffrì troppo per la mia mancanza, mi disse mia madre, ma non era quello il motivo.
 
Senza di me non c’era più nessuno che se ne prendesse cura come facevo io, non c’era più nessuno ad amarlo e l’amore incostante di Kay non poteva bastare ad un cane che ormai era diventato vecchio e stanco.
 
 
Suonai il campanello…
 
Fuori faceva talmente tanto freddo che le mie mani intorpidite mi duolevano ad ogni movimento.
 
 
<< È aperto! >> mi urlò mia madre, meno ubriaca, ma non ancora del tutto sobria.
 
Girai la maniglia e con un cigolio entrai, finalmente…
 
 
<< Tu adesso salirai di sopra, prenderai Kay e tutte le sue cose e lo porterai via. Io sarò nascosta da qualche parte. Devi dirgli che sei venuta per portarlo in un posto sicuro e che andrà tutto bene… devi farlo sentire al sicuro, chiaro? >>
 
Parlava da madre responsabile che ha a cuore, più della propria, la felicità di suo figlio.
 
 
Finge davvero bene… le stavo quasi per credere.
 
 
Salii le scale ed esitai davanti alla porta della camera di mio fratello, guardandomi un attimo intorno ed accorgendomi che nulla era cambiato dall’ultima volta.
 
Voltai le spalle a quella porta a cui mi appoggiai e come se avessi corso per ore, il respiro accelerò alla vista della porta rosa della mia di stanza.
 
 
Fuori era rosa, ma dentro era nera, come le pareti.
 
Ricordo ancora il giorno in cui dipinsi l’intera stanza di nero, con una vernice che comprai con i soldi delle paghette ricevute in tre mesi.
 
 
Avevo quindici anni…
 
Un sabato, arrabbiatissima senza un motivo apparente, cominciai a fantasticare, fissando le pareti rosa antico della mia stanza.
 
Odiavo quel colore con tutta me stessa, ma prima di quel giorno non ero mai stata tanto coraggiosa da ridipingerle di mia iniziativa con un colore che a me piacesse.
 
Poi le immaginai nere e buie come la notte e l’idea mi piacque talmente tanto che presi tutti i soldi che avevo messo da parte, andai alla ferramenta, a due isolati da casa mia, e finalmente la comprai.
 
Un’intera. Latta. Di. Vernice. Nera.
 
La nascosi nello zaino, anche se sapevo benissimo che in casa non ci sarebbe stato nessuno fino all’ora di cena, e, salendo le scale facendo attenzione a non fare rumore, mi chiusi a chiave in camera mia, alzai la musica al massimo e mi misi a dipingere per intero tutta la mia stanza, compreso il soffitto, arrampicandomi sui mobili.
 
Per qualche giorno i miei non se ne accorsero nemmeno: non erano soliti entrare in camera mia, ma quando lo scoprirono andarono su tutte le furie.
 
Ricordo la soddisfazione nel vederli urlarsi contro per colpa mia: da un lato mio padre che continuava a dire che io con le mie cose potevo farci quello che volevo, sicuro che tra qualche settimana li avrei implorati di ridipingere la mia stanza al suo colore precedente, dall’altro mia madre completamente fuori di sé che gli rimproverava di essere sempre stato troppo permissivo con me e Kay.
 
Era solo un pretesto per rinfacciarsi torti che avevano tenuto nascosti per troppo tempo.
 
Alla fine i litigi finirono per diventare silenzi profondi e carichi di tensione, muri insormontabili che nessuno nemmeno tentata di scavalcare.
 
E io, soddisfatta, ottenni ciò che volevo.
 
 
 
Chissà se le pareti sono ancora nere…

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Capitolo 8
*** The smell of the spring. ***





- The smell of the spring -


Ed erano davvero ancora lì, quando aprii la porta.
 
Le pareti, toccate solo dalla polvere, erano ancora di quell’impenetrabile nero che dipinsi tanto tempo prima.
 
All’appartamento di Geneeve ci avevo pensato spesso.
 
A volte ero talmente tanto attirata dall’idea di tornare finalmente a vivere in quella stanza che, chiudendo gli occhi, riuscivo ad immaginarmi camminare per strada verso casa mia, aprire magicamente il portone, salire le scale, trovarmi di nuovo di fronte alla porta rosa e tornare nel buio della mia stanza, affondando i piedi nudi nel morbido tappeto blu scuro di fianco al mio letto.
 
 
<< Violet… sei davvero tu? >>
 
 
<< Kay… >>
 
 
Con movimenti veloci si stava strofinando l’occhio sinistro: lo faceva sempre, ogni volta che la mattina, dopo essersi appena svegliato, scendeva in cucina per fare colazione.
 
Non ci avevo mai veramente fatto caso, prima, quando ancora vivevo fra quelle stesse quattro mura.
 
Poi, però, quando la mattina mi svegliavo nell’appartamento di Geneeve, stesa in quel letto che non riuscivo a sentire veramente mio, chiudevo gli occhi, fingendo di stare ancora dormendo, e ripercorrevo con l’immaginazione tutte quelle abitudini che avevamo io e mio fratello.
 
Rivivevo giornate che sapevo essere ormai lontane dalla realtà presente.
 
Rivivevo giornate mie, ma che in fondo non erano più mie già da un po’.
 
 
Lo abbracciai, affondando il naso nei suoi capelli biondi.
 
Aveva preso quel colore biondo cenere dalla madre di nostra madre: ne ero sempre stata così invidiosa.
 
 
<< Mi sei mancata così tanto >>
 
 
Quelle parole mi riempirono di così tanta tristezza mista a felicità che non riuscii a non scoppiare a piangere.
 
Sono venuta per salvare anche te- pensai finalmente.
 
 
<< La mamma se n’è andata e papà anche, Kay… mi hanno chiesto di venirti a prendere: verrai a vivere con me. Ti va, sì? >> gli chiesi, prendendogli il viso fra le mani.
 
 
I suoi occhi si rattristarono nel sapere quell’ennesima brutta notizia, anche se in fondo sapevamo entrambi che prima o poi, inevitabilmente, sarebbe accaduto tutto questo.
 
<< Ehi Kay… andrà tutto bene, te lo prometto, ma ora devi farmi vedere cosa ti va di portare delle tue cose, il resto lo verrò a prendere nei prossimi giorni… >>
 
E prendendomi per mano mi accompagnò al suo comodino, aprì il secondo tiretto e prese l’apparecchio per l’asma e tutto il resto delle sue medicine.
 
Ricordavo ancora che le teneva lì, ma lui non poteva immaginarlo.
 
 
-
 
 
<< Ehi Violet… c-che succede? >> balbettò.
 
<< Niente… come mai sei così allarmato? >>
 
<< Non lo so… cattivo presentimento. È che sono meteoropatico e le giornate brutte mi fanno questo effetto >>
 
 
È meteoropatico… che cosa dannatamente carina- pensai, sorridendo all’aria come una cretina, mentre mio fratello guardava la tv in salotto, bevendo thé e mangiando biscotti.
 
 
<< Potresti venire a casa mia? Devo presentarti una persona che vivrà con me per ancora parecchio tempo >>
 
<< Chi? >>
 
<< È una sorpresa, naturalmente… >>
 
<< Okey… dieci minuti e sono a casa tua. Ah, usciamo fuori a cena? Tutti e tre intendo >>
 
 
Perché c’era qualcosa che mi diceva che Jay sapeva si trattasse di Kay?
 
 
<< Ma certo… ma ti avviso… ha già mangiato parecchio. Per tutto il pomeriggio >>
 
 
Stavo per aggiungere “ con thé e biscotti ” a quel “ ha mangiato parecchio ” e se lo avessi fatto avrebbe sicuramente capito che parlavo di Kay.
 
Scampata per un soffio.
 
 
 
-
 
 
Quindici minuti di orologio e il campanello suonò.
 
Dallo spioncino del portone intravidi uno spettinato e sgualcito Jay, che sembrava aver fatto tutta la strada a piedi, piuttosto che in macchina.
 
 
<< Presto, Kay… vatti a nascondere di là in camera per favore… ti vengo a chiamare io. Ah! Mi raccomando, educato e gentile come sempre >>
 
 
Gli stampai un bacio sulla fronte e lo spinsi con piccoli colpetti al sedere, per fargli segno di muoversi.
 
Mi guardai intorno, controllando che non ci fossero segni di Kay in giro per il salotto, mi aggiustai la maglietta, tirai su i jeans che puntualmente scivolavano sempre più in basso, anche con l’assistenza della cintura e mi decisi ad aprire.
 
 
<< Ciao, Jay… wao! Ma sei appena tornato dalla maratona di New York o fuori fa davvero tanto caldo per essere febbraio? >>
 
 
Lo aggredii con quella miriade di parole.
 
Questa volta me ne resi conto, ma le altre? Lo facevo davvero così spesso?
 
Dovevo essere veramente petulante, dannazione.
 
 
<< C-ciao. Emh… no è che ero dall’altra parte della città con degli amici e non avendo la macchina ho dovuto prendere autobus su autobus >>
 
 
Che carino…
 
 
<< Scemo, potevi benissimo dirmi che non riuscivi a venire subito, non ci sarebbe stato alcun problema… >>
 
 
Era allarmato e continuava a sudare.
 
Sembrava come essere appena entrato in una gabbia insieme ad un leone: nei suoi occhi si leggeva paura e tensione.
 
Continuava ad agitare le mani sul viso per farsi aria, ma la situazione sembrava non poter migliorare.
 
 
<< Jay, siediti. Sei paonazzo, accidenti. Togliti la maglietta e stenditi sul divano. Io cerco qualcosa di fresco da darti da bere >>
 
 
Si diresse verso il divano mentre io, nascosta dietro lo sportello del frigorifero, tentavo in tutti i modi di non sbirciare.
 
Presi una lattina di aranciata fresca, convinta di averlo sentito dire, almeno una volta, che era una delle sue bevande preferite e richiusi lo sportello del frigo.
 
 
Dannazione al mio tempismo.
 
 
Proprio nel momento in cui richiusi lo sportello lo vidi di schiena sollevarsi la maglietta e rimanere a torso nudo.
 
Rimasi immobile cercando di non fare rumore: agitato com’era sicuramente non si sarebbe accorto mai che lo stavo fissando in piedi in cucina da ormai più di trenta secondi.
 
 
Appoggiata la maglietta al divano, si rese conto di essersi tolto anche la canottiera ormai tutta sudata.
 
Stava quasi per rimetterla addosso quando lo interruppi bruscamente.
 
 
<< Non vorrai rimetterti una canottiera tutta sudata, spero… >>
 
 
Che diamine, Violet!
 
Sei proprio antisgamo. Si capisce poco che stai facendo di tutto per farlo restare a torso nudo.
 
 
Non era affatto come la piccola arrogante vocina nella mia testa stava dicendo.
 
La zittii e gli porsi la lattina di aranciata, osservando con minuziosa attenzione ogni movimento che il suo corpo faceva per sedersi sul mio divano.
 
 
<< Aranciata… la mia bevanda preferita, grazie >>
 
 
Non era una frase sarcastica, stava davvero ringraziando di cuore.
 
 
<< Prego… Jay, c’è qualcosa che non va? Mi sei sembrato teso e impaurito poco fa’… >>
 
<< Impaurito? E da cosa? Hai sicuramente capito male… >>
 
 
Quelle ultime parole mi ferirono.
 
Non che io sia una persona permalosa, ma una cosa era certa: nessuno ha una crisi del genere senza essere seriamente preoccupato per qualcosa.
 
 
Non credevo alle sue parole.
 
Sarà anche venuto cambiando decine di tram e autobus, ma era impossibile avere una reazione del genere quando fuori c’erano a mala pena dieci gradi.
 
 
C’era qualcosa che non andava.
 
Qualcosa che Jay mi stava nascondendo.
 
O ero io che facevo davvero la paranoica…
 
 
<< Grazie, Violet. Adesso sto molto meglio. Beh… chi mi devi presentare? >>
 
<< Ah, si! Giusto… torno subito. Anzi… >>
 
 
Presi velocemente uno strofinaccio pulito dal cassetto della cucina e glielo legai intorno alla testa, all’altezza degli occhi.
 
 
<< Ci vedi? >> chiesi.
 
<< Ovvio che no, Violet. Hai stretto da morire! >> si lamentò cercando inutilmente di far passare le sue dita sotto lo strofinaccio, per allentarne la presa.
 
<< Meglio così… non TO-GLIER-TE-LA, chiaro? >>
 
<< Si, signor capitan… capitana? >>
 
<< Sssh… >>
 
 
Gli feci segno di stare immobile, anche se sapevo benissimo che non poteva vedermi.
 
Per sicurezza cominciai a fare balletti strani, a pochi metri di differenza dal suo viso.
 
Se riusciva a vedermi come minimo sarebbe scoppiato a ridere, ma no.
 
Immobile, cercava di stare attento ad ogni rumore.
 
 
<< Violet… ti stai muovendo per caso? Sento l’aria muoversi >>
 
<< No… niente. Stavo vedendo se non ci vedevi davvero >> risi imbarazzatissima.
 
 
Una volta arrivata in camera mia, trovai Kay seduto sul letto, preoccupato e un po’ spaventato.
 
 
<< Ehy, Kay… tesoro, che è quella faccia? Non devi preoccuparti di chi c’è di là… è un mio caro amico, okey? È l’unico amico che ho, in realtà. L’unico che mi ha davvero aiutata a stare bene anche senza di te, mamma e papà >>
 
<< Okey… ma… mi vergogno >>
 
<< Cucciolo… >> e gli spettinai i capelli con la mano destra.
 
 
Mi prese per mano e la strinse, cercando protezione.
 
Mi mancava quel gesto. Mi mancava tenerlo per mano.
 
 
Presi Kay per le spalle e lo posizionai esattamente di fronte a Jay che, bendato, voltava la testa a destra e sinistra pronto a qualsiasi rumore.
 
Io mi posizionai dietro le spalle di Jay facendo segno a Kay di non muoversi.
 
 
<< Boo! >> e gli diedi una piccola spintarella all’altezza dei fianchi.
 
 
Lo spaventai.
 
 
<< Violet! Mio Dio! Vuoi farmi prendere un infarto? >>
 
 
Scoppiai a ridere e istintivamente lo abbracciai, baciandogli la testa.
 
 
<< Pronto? >> dissi, mettendo le dita sul nodo che gli avevo fatto dietro la testa.
 
Aspettai un suo cenno e poi sciolsi il nodo, tirando a me da un lembo lo strofinaccio.
 
 
 
<< Soooorpreesa!! >>
 
 
Solo la mia voce a rompere un silenzio imbarazzante.
 
Jay e Kay non fecero altro che fissarsi per sessanta miseri secondi, che a me sembrarono durare un’eternità.
 
 
<< Beh? Dite qualcosa, diamine. Kay…? >>
 
 
Aspettavo ansiosa una qualsiasi espressione di sorpresa sul volto di Jay.
 
Stavo per dare di matto quando mio fratello si decise a porgere la propria mano destra, come è buona educazione fare quando due persone si conoscono per la prima volta.
 
 
Meno male…- pensai sollevata.
 
 
<< Io mi chiamo Kay… Kay Stonem e tu? >> disse innocentemente mio fratello, lasciando il braccio teso e la mano sospesa per aria, a pochi centimetri dal viso di Jay.
 
<< Piacere di conoscerti Kay. Io mi chiamo Jay e sono un caro amico di tua sorella >>
 
 
Finalmente si decise a stringergli la mano.
 
 
Non posso credere che davvero tutto questo stia succedendo a me.
 
Per due anni non ho saputo cosa farmene della mia vita ed ora eccomi qui, pronta ad ottenere la custodia legale di mio fratello e ad aprirmi.
 
 
Sapevo benissimo che era ancora febbraio, ma per me, nell’aria, c’era già profumo di primavera.


-


* spazio dell'autrice *

Periodaccio. Ho passato e sto passando un periodaccio, ma non voglio scaricare sempre la colpa sugli altri: è colpa mia, potrei pubblicare più spesso se non fossi così noiosa e pigra.
Perdonatemi.

Ho scritto questo capitolo mettendoci tutta me stessa, così come ho fatto con gli altri.
Ringrazio di cuore tutti quelli che recensiscono la mia storia, ma sopratutto devo chiedere umilmente scusa a tutti coloro che a fine recensione, giustamente, mi chiedono di leggere qualcosa scritto da loro: sono una stronza, mi dispiace, ma proprio ultimamente non mi va di fare nulla ( sarà che sono a un passo dalla depressione, vabbè ).

Ciao a tutti.

- Annalisa.

 

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Capitolo 9
*** Kiss me because I don't have the courage. ***





- Kiss me bacause I don't have the courage -


<< Grazie per aver testimoniato a favore mio oggi davanti a quell'assistente sociale. È molto importante per me quello che stai facendo, grazie >>
 
<< Non c’è di ché… >>
 
Jay era teso.
 
Oltrepassata la soglia dell’ufficio dell’assissente sociale, aveva improvvisamente cambiato espressione: non aveva più l’espressione tranquilla e spensierata che aveva dimostrato durante il processo per l'affidamento di Kay.
 
Io sono un libro aperto, mentre lui è come un diario chiuso con lucchetto.
 
Mi spaventa avere tra le mani ben poche informazioni di una persona di cui sono ormai irrimediabilmente innamorata.
 
Fa parte della mia vita da ormai più di un mese ed è da due settimane che dorme a casa mia, facendo avanti e indietro.
 
Eppure mi sembra di far entrare in casa mia uno sconosciuto di cui mi fido solo sapendo nome e cognome.
 
È una contraddizione ed è tutto molto confuso ora.
 
Mi gira la testa e le gambe mi cedono…
 
Mi lascio andare su una panchina poco lontana dall’auto, ma comincio a vedere piccoli pallini luminosi e la vista a tratti gioca brutti scherzi, creando strane chiazze nere sovrapposte ad altre estremamente luminose.
 
Sto per svenire.
È da una settimana che non mangio quasi niente.
Non ho fame.
Ho altro a cui pensare.
Ho da pensare a Kay.
 
Devo trovare un lavoro.
Devo garantirgli di poter andare a scuola almeno fino alle superiori.
 
Devo sistemare le cose con Jay.
Devo capire come sistemare le cose con Jay.
 
E mi sento sola.
 
Jay non si è accorto che mi sono accasciata sulla panchina e cerco di chiamarlo, ma il fiato mi manca e non riesco nemmeno a produrre qualche verso.
 
Ecco che si fa tutto buio.
Ecco il fischio nelle orecchie che mi trapana il cervello.
 
Ed ecco il suono secco e ovattato della mia testa che sbatte contro il legno della panchina.
 
 
-
 
 
È notte, ne sono sicura.
 
Riesco ancora a riconoscere l’odore della notte: quell’odore di aria nuova, di aria fresca, di aria che sa di rugiada, di aria che sa di luna, di aria che sa di stelle, di aria che sa… di disinfettante?
 
Aria di ospedale mischiata ad aria di notte: che combinazione disgustosa.
 
Ho la bocca amara: non mi abituerò mai a quel sapore amaro che mi lascia in bocca lo svenimento.
 
Comincio a piangere, a singhiozzare.
 
Dannato corpo, fottiti.
 
Voglio fare tremila cose a modo mio, senza mangiare, che diamine vuoi tu?
 
Perché non fai quello che ti dico? Perché non resisti senza cibo?
 
 
Solo con lo stomaco vuoto si può correre più veloci.
 
 
E tu nemmeno mi lasci fare due passi che ti ribelli.
 
A che servi se non puoi essere manovrato come la mia mente ti comanda?
 
Sei come un giocattolo rotto che non risponde più ai comandi del proprio telecomando.
 
E cosa si fa con i giocattoli rotti? Si buttano…
 
Ma io non posso buttarti, corpo, anche se ti odio con tutta me stessa…
 
 
Comincio a singhiozzare e nemmeno mi accorgo che qualcuno sta dormendo al mio fianco.
 
Nemmeno mi accorgo che qualcuno mi sta stringendo la mano mentre mi sente tremare nel buio.
 
 
<< Non accendere la luce… ti prego >> dissi.
 
 
Lo avevo sentito lasciarmi la mano e avevo sentito la sedie scricchiolarle alla perdita del suo peso su di lei.
 
Si era alzato e io non volevo essere accecata dalle luci bianche da ospedale.
 
Sarebbe stato come ricevere due pugnalate all’altezza degli occhi, dritte al cervello.
 
 
<< Non volevo accedere la luce… >> e mi abbracciò.
 
 
Riconobbi il suo profumo e i suoi capelli morbidi sul mio viso bagnato di lacrime.
 
Cercò di infilare le mani tra la mia schiena e il materasso, mi alzò e rimasi seduta, con le braccia distese lungo il mio busto e i pugni serrati.
 
 
È così pieno di vita…
 
Sotto la sua pelle riesco a sentire sangue scorrere a palate verso un cuore pieno di forza.
 
Il cuore pieno di forza di una persona che non conosce il dolore, che non lo ha mai provato e che se non fosse stato per me non avrebbe conosciuto mai.
 
 
Il suo corpo è pieno di vita tanto da trasmetterne un po’ anche al mio, in quell’abbraccio.
 
 
<< Non farlo… >> sussurrai, seria.
 
<< Non fare cosa? >>
 
<< Torna indietro finché sei in tempo >>
 
<< Tornare indietro? Indietro dove? >> confuso, non voleva lasciarmi andare.
 
<< Alla tua vita, a tutto quello che avevi e che stavi per ottenere prima di conoscere me >>
 
<< E chi ti dice che io avessi qualcosa prima di conoscere te >>
 
<< I tuoi occhi… in loro posso vedere i visi di migliaia di persone che ancora non conosci ma che renderai felici e le centinaia di posti che visiterai e che non dimenticherai mai >>
 
<< Vuoi che me ne vada? >>
 
 
Spezzò l’abbraccio.
 
Se gli avessi risposto di sì, se ne sarebbe sicuramente andato, lo sapevo.
 
E  invece mi diede solamente qualche secondo d’aria prima di prendere il mio viso tra le mani, prima di ripulirlo dalle lacrime ormai evaporate che avevano lasciato sul mio visto una sottile polverina salata.
 
Cominciò a baciarmi dappertutto, mancando apposta le mie labbra.
 
Non potevo vederlo, allora chiusi gli occhi, anche se le palpebre tremavano sotto nuove lacrime pronte a cadere.
 
Prima mi baciò sulla fronte, poi sulle mie palpebre chiuse.
 
Sul naso e poi su entrambe le guance.
 
Passò al mento, sfiorando le mie labbra con la punta del suo naso.
 
Avvicinò la sua fronte alla mia, ma ancora non mi baciò.
 
 
Lasciò tutto in sospeso.
 
 
<< Non voglio costringerti a baciarmi… >> le sue parole mi fecero male.
 
<< Baciami… fallo perché io non ne ho il coraggio >>
 
 
Passò un minuto.
 
Avrei voluto restare in quella posizione una vita intera.
 
Io e lui, uniti in quel bacio, a respirare la stessa aria, nello stesso momento, insieme.
 
Stavamo vivendo… insieme.
 
 
Smisi di tremare e cominciai a sentire dentro di me un senso di tranquillità, di pace.
 
Mi lasciai andare tra le sue braccia mentre lasciava che mi stendessi di nuovo.
 
Appena appoggiai la testa al cuscino però venni inghiottita nuovamente dalla paura, dallo stesso odio che provavo prima.
 
 
Gli occhi spalancati nel buio e lui che non smetteva di accarezzarmi la mano con il proprio pollice.
 
Sapeva che ero sveglia e lui restava sveglio con me.
 
 
<< Jay? >>
 
 
Aveva smesso di accarezzarmi la mano e avevo paura si fosse addormentato.
 
 
<< Perché non dormi? Dovresti essere stanca >>
 
 
No. Era sveglissimo.
 
 
<< Vuoi dormire con me? >>
 
<< Se ti addormentassi magari potrei dormire anche io… >>
 
<< Non in quel senso… qui, con me, in questo letto freddo. Ti va? >>
 
 
E di nuovo sentii la sedia scricchiolare.
 
Gli feci posto, alzandomi e spostando sedere e gambe più vicino al bordo del letto.
 
 
Lo sentii, pesante, stendersi sul fianco destro. Il suo braccio sinistro mi incoraggiò a stendermi e rilassarmi.
 
 
<< Non ho paura se sei con me. Non ho nemmeno più paura di me… >>
 
<< Io invece ne ho >>
 
<< Di chi? Di cosa hai paura >>
 
<< Di te >>
 
 
Scoppiai. Di nuovo.
 
E lui mi abbracciò, tremando.


-


* spazio dell'autrice *

Sono mancata per troppo tempo, lo so... è che ultimamente sto avendo problemi con me stessa, con la mia vita, con la mia personalità, con i miei sentimenti.

Perciò... scusate, scusate, scusate, scusate, scusate, scusate, scusate, scusate.

Davvero. Perdonatemi.

Spero di non aver perso lettori, anche se questa è l'eventualità a cui devo andare incontro se compaio quando mi pare a me senza continuità.
Grazie a tutti quelli che leggeranno.
Significa tantissimo per me.

- Annalisa.

 

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