Synchrony

di Crimson Keen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PRELUDIO DI MEZZA ESTATE ***
Capitolo 2: *** BUIO ***
Capitolo 3: *** STASI ***
Capitolo 4: *** COME LA NEVE ***
Capitolo 5: *** RISVEGLIO ***



Capitolo 1
*** PRELUDIO DI MEZZA ESTATE ***


Pioggia e solo pioggia…
L’odore che permea sull’asfalto è così fastidioso.
Odio il cattivo tempo…Odio i temporali estivi!
Piove da giorni, e, Dio, quelle nuvole tenebrose all’orizzonte non promettono nulla di buono: lampi che irrompono nella sera e brividi di freddo che ti percorrono sulla pelle.
Non era questa la magnifica vacanza che immaginavo di trascorrere…
Mi sono diplomata da poco e, dopo tanti sacrifici e mille fatiche, che rabbia! Due settimane di fulmini e saette, e ora più che mai sono costretta, immobile, in una Mustang del ‘65! Questa macchina fa solo chiasso e puzza di benzina.
Vorrei…maledizione! Vorrei gridare!
Ho bisogno di una doccia, di tornare a casa, ho la camicia e i jeans ancora inzuppati!
Stupida autostrada, stupido traffico!
Sono arrabbiata e abbattuta…
La mia unica fortuna è avere James al mio fianco.
Sono cinque ore che non ci fermiamo per una pausa, sento il bisogno di sgranchirmi, ma anche provando a persuaderlo, non toglie la presa dal volante.
Per arrivare nella nostra città natale, a Redwood, ci vorranno si e no altre 6 ore di tragitto. Non so quanto resisterò e non so nemmeno quanto lui resisterà! James è un ragazzo così premuroso che…beh, non mi consentirebbe mai di guidare al suo posto.
Testardo lui e questa sua fissazione del perbenismo! Alla fine, sarà graffiato da qualche donna ipocrita e opportunista. Se in cielo ci fosse il sole cocente al posto di quei nuvoloni, piuttosto che farmi guidare, sarebbe disposto a bruciarsi le mani, e lo farebbe senza lamentarsi…senza chiedere aiuto. Ho tentato più volte di rivolgergli la parola, ma anche se gli parlo, lui non mi risponde.
Sembra farlo apposta…
Ogni volta che lo osservo, è così concentrato che la sua unica distrazione sono i ritornelli rovinati di un vecchio cd dei Nirvana. I capelli spettinati dal vento, lunghi e neri, gli cadono sulle spalle in disordine, con quel profilo delicato e quella sua carnagione scura, mi sembra un giovane nativo americano. Mi viene da sorridere, una spensieratezza acre, non è nemmeno il mio fidanzato, ma si fa sempre in quattro per tutti gli amici che ha. Questa sua gentilezza a volte mi lascia confusa e mi stupisco sempre di più quando mi rendo conto che sia ancora single. Sin dai tempi del liceo non ha mai cercato una ragazza, probabilmente non si sente pronto o forse è troppo preso dai suoi sogni, ciò nonostante ha sempre avuto una bella schiera di corteggiatrici al seguito. James è il classico ragazzo semplice e carino, con dei lati molto effeminati, ma con il piccolo e grande difetto di mettere in primo piano il suo futuro e non l’amore. O chissà, il suo pensare prima a se stessi magari è la cosa più saggia da fare…non saprei dirlo. Credo che sia anche per questo che andiamo così d’accordo; a differenza di tanti altri suoi coetanei, è diretto, ed io sono facilmente suscettibile alle promesse dei ragazzi che frequento. James è il mio migliore amico, è come un fratello che non ho mai avuto…è il mio mentore personale…
Nutro una grande fiducia in lui.
Eppure quel suo sguardo straziato, cupo e fermo, mi preoccupa.
Ha bisogno di riposarsi…
Dobbiamo fermarci in un’area di servizio, così finalmente potrei dargli il cambio…Ma figuriamoci, che vado a considerare? È impossibile!
Lasciamolo fare ancora per un po’.
Non gli è permessa la noncuranza e non voglio essere di peso, non voglio apparire come la classica rompiscatole pronta a stargli addosso, se poi perde l’attimo di riflessione, potrebbe succedere di tutto in mezzo a questa marea di auto in corsa. Meglio evitare!
Sono così nervosa da quando siamo partiti che non riesco a calmarmi, potrei provare a chiudere gli occhi e dormire un po’, peccato però che questo sedile di pelle è vecchio e scomodo, accidenti! Posso solo raccogliermi le ginocchia tra le braccia e pensare…Ma più penso e più sento i nervi tendersi.
Piove a dirotto…
Ormai le nuvole hanno coperto tutto e dell’azzurro del cielo non si scorge più nulla. Mi dispiace davvero tanto che la nostra vacanza sulla costa di Irvine sia andata male. Anche James se la meritava, abbiamo studiato come matti in questi mesi che era impossibile svagarci…e poi…ecco la ricompensa di due studenti sfibrati.
Però…
Ammetto che in parte sono felice.
Ci siamo consolati con musei e locali, assistito a spettacoli in teatri e partecipato a feste del posto; abbiamo visitato luoghi che non avremmo mai visto se fossimo andati tutti i giorni in spiaggia a far baldoria. Le mie giornate le vivo sempre in modo così ripetitivo e abitudinario, che mi rendo conto solo ora, che le cose significative possono verificarsi in ogni luogo se gli si vuol dare un valore. Questa è l’unica consolazione in grado di risollevarmi dopo giorni a catinelle e di tempesta.
Se ci fosse stata anche Alyson con noi…suppongo che questo viaggio sarebbe stato indimenticabile. Ally ha una strana magia interiore, ha il potere di farti apprezzare anche l’imprevisto più insidioso con il suo carisma; il temporale, con lei accanto, non sarebbe stato imperfetto e grigio, ma splendente e vivace.
Alyson è di un anno più grande di James, è sua sorella di sangue. Non è potuta partire per il divorzio imminente dei genitori, il tradimento del padre non ha giovato alla situazione di litigi già in corso, ma purtroppo non è della separazione che i figli si preoccupano, ma dello stato depressivo della madre. Abbiamo una situazione famigliare molto simile, anche i miei genitori si sono divisi: ”Alcolici”, questo era il problema di mio papà. Ora non so nemmeno che fine abbia fatto e che faccia abbia, l’ultima volta che lo incontrai avevo nove anni, ma sinceramente non m’importa, dove sia ora.
Ad ogni modo, ritornando a noi, spero che entrambi superino quest’ostacolo, e so che ce la faranno.
Sono gli amici più cari che abbia e non vorrei mai vederli soffrire.
Quando conobbi James al liceo, non seppi di sua sorella sin da subito, ma solo al secondo anno di scuola me ne parlò. Poi, al suo diciassettesimo compleanno, m’invitò a passare il Natale con la sua famiglia. In quell’occasione incontrai per la prima volta Alyson. Quando mi presentai, fu così inflessibile e distante, che ancora adesso mi sale addosso all’ansia di quel giorno. Quelle pupille profonde come l’oceano blu, quel mascara marcato sul suo volto, le labbra scarlatte, i cappelli lunghi scuri come la notte, quell’abito nero a borchie che indossava perfetto…tutto ciò mi provocò una fortissima soggezione.
Aveva quell’aria “dark” da cattiva ragazza che m’intimoriva.
Era ed è l’esatto opposto di James, lui sempre impeccabile e organizzato; e Alyson qualcosa di disordinato e tremendamente ostile.
Mi sento talmente idiota, persino il suo sorriso mi metteva addosso dell’inquietudine!
Mi sono fatta solo strane impressioni su di lei e…mi viene da ridere, è proprio vero che giudicare dall’aspetto non ha nessuna logica. Dopo quella sera abbiamo iniziato a uscire più spesso insieme tra di noi e con altri amici ma Alyson stava sempre sulle sue, era comunque difficile avvicinarla. Spesso chiedevo a James se c’era da preoccuparsi, ma ricevevo sempre la solita risposta “Non è anti-sociale, è fatta così, ti abituerai.”
Ci ho messo mesi a comprenderla e mi sembra di conoscerla ancora poco. Ally è odiata facilmente per la sua personalità enigmatica, malgrado ciò, è altrettanto semplice imparare a volerle bene una volta che si capiscono i suoi insoliti aspetti. In realtà il suo carattere altalena tra disponibilità e scontrosità pungente. A differenza di me che mi faccio abbindolare da qualsiasi complimento casuale, l’affetto di Alyson si sprigiona solo se una persona la ritiene davvero importante. Una rarità.
Entrare nella sua ottica non è stata un’impresa facile e quasi nessuno ha il coraggio di farsi avanti. Se James non fosse suo fratello, potrei dire che non sembrano nemmeno parenti.
Ally si meritava questi giorni di vacanza con noi, forse un po’ di riposo non l’avrebbe guastata. Chissà che tempo fa a Redwood? Mi auguro che non sia un casino come qui.
Potrei mandarle un messaggio sul cellulare, alla fine dovremmo vederci a casa sua…uhm…
Dove l’ho messo quel dannato telefono?
Nelle tasche dei jeans non ce l’ho…merda! L’ho lasciato nel bagagliaio prima di partire, diamine! Non mi ricordavo più…
Uffa, posso solo sospirare e abbandonare l’idea di scriverle. Pazienza, non importa, aspetterò l’occasione adatta per cercarla.
 
 
«Ci fermiamo!» disse James di soprassalto «Sostiamo per un po’, mangiamo qualcosa e poi ripartiamo! Ok?»
Mi girai di scatto e fissai il suo volto sereno, quei denti bianchi sembravano abbagliarmi.
Non ero sicura di aver capito bene, ma risposi esaltata e senza troppi indugi «Non desidero altro!»
Quella sua voce roca spezzò il silenzio in modo devastante, mi sentivo sollevata.
Mancavano venti chilometri all’autogrill più vicino. Improvvisamente mi sentivo carica di vitalità, un’energia che non provavo dal mattino; tutto il nervosismo sembrava sparito di colpo, ma sapevo bene che era solo una stupida illusione, presto sarebbe ritornato.
Mi trattenni provando a non pensare più a nulla, ma l’unica cosa che aspettavo impaziente era di vedere la macchina svoltare e spegnersi. Dio, ho troppo bisogno di scendere!
James mantenne l’allegria sulle labbra sino a destinazione, quando fermò l’auto nel parcheggio affollato e tirò il freno a mano, gli saltai al collo abbracciandolo forte.
Questione di un attimo, poi rapidamente mi scostai e lo rimproverai punzecchiandolo come mio solito «Meno male che ti sei convinto! Non ce la facevo più, apri quella portiera! Abbiamo gli ombrelli insieme alle valige!»
«Che te ne fai dell’ombrello? Vai giù tu per prima, biondina! Tanto non rischi di rovinarti la piastra, ti sono ritornati mossi!» e scoppiò in una risata vivace.
Se c’è una cosa che non sopporto, è quando qualcuno mi chiama “biondina”, mi fa sentire imbecille e immensamente infuriare. Mi accontentai di replicare con una faccia seccata e silenziosa. Spalancai la portiera senza nessun ritegno! Immediatamente una ventata di freddo mi travolse, era fortissima, la pioggia scendeva incessante e tutt’attorno c’erano pozzanghere una più grossa dell’altra. James si mise il cappuccio della felpa in testa e chiuse la macchina con la chiave. Velocemente ci limitammo a prendere le borse dal baule con dentro portafogli e telefoni. Senza perdere tempo iniziammo a correre e attraversammo il grande parcheggio. Superando una dopo l’altra le automobili posteggiate ed evitando il più possibile le pozze insidiose, l’ingresso dell’autogrill era a qualche metro davanti a noi e, quelle porte da cui s’intravedevano altre persone contente al suo interno, mi apparvero come un portale d’accesso per un paradiso sperduto: luci accoglienti e calde a rischiarare l’ambiente e folla che si confortava in quella specie di luogo etereo.
Accelerai la corsa e superai James dandogli del filo da torcere.
Completamente fradicia dalla testa ai piedi, percorsi i gradini dell’entrata uno dopo l’altro, non erano nemmeno una decina, ed erano bassi e piccoli, li superai in tempo record, nemmeno stessi scalando l’intero Everest! Fiera di me attesi davanti alle porte, in mezzo ad altre persone che si parlavano fra loro fumandosi una sigaretta o mangiando qualcosa.
Mi guardai attorno spaesata e, voltandomi, avvistai un orologio digitale appeso alla parete accanto all’entrata: il led indicava le 20.13.
James mi raggiunse «Avanti! Entriamo! Ho i brividi!» si toccò le braccia e spinse la porta affrettandosi e superandomi.
Il profumo che fuoriuscì dal locale, di brioches e creeps, mi penetrò in corpo…Quel posto era davvero il paradiso? Oppure un’oasi delle delizie? Iniziai a sentire i vuoti nello stomaco e la mia golosità si svegliò più viva che mai.
Non dovevo esitare!
«Alyson!» dissi cercando il cellulare nella borsa «Le devo mandare un messaggio per dirle dove siamo, ti dispiace precedermi?»
«Tranquilla» rispose quieto James «Ti aspetto dentro, non raffreddarti più del dovuto!»
«Promesso!»
Varcò la porta e mi ritrovai in compagnia del rumore scrosciante della pioggia e il vociare della gente straniera. Mi appoggiai alla parete giallognola dell’edificio in evidente rovina: le crepe sui muri risalivano dal terreno, di certo quel posto non si riscattava in aspetto. Rovistando tra gli oggetti nella borsa afferrai finalmente il Nokia. Rapidamente con le dita sbloccai la tastiera dal touch-screen. Ero piuttosto curiosa di controllare se avessi ricevuto qualche chiamata o altro, subito notai che la ricezione della rete faceva schifo; c’era poco campo nella zona, molto probabilmente la perdita era causata dal temporale. Dovevo scrivere anche a mia madre, non potevo scordarmelo! Avvisai prima lei e poi cercai il nome di Alyson in rubrica. Composi il numero e iniziai a digitare una lettera dopo l’atra senza togliere lo sguardo dalla tastiera.
Le scrissi che eravamo in sosta e fermi a tre ore da casa, che mi mancava e che ero impaziente di rivederla. Inviai prontamente l’sms e ricevetti la sua risposta nell’arco di pochi secondi. Ci avrebbe aspettato con pop-corn, qualche coca-cola e una decina di dvd noleggiati.
Provai una grande gioia nel leggerla, la solita ingorda di film!
Poi il suono della batteria scarica interruppe il momento di solennità, non potevo far altro che spegnere il telefono e tenere quella preziosa tacca per le emergenze. Misi nuovamente il Nokia in borsa e mi affrettai per raggiungere James.
 
“Ancora poco e arriveremo a destinazione” iniziai a ripetermi queste parole per tutto l’arco dell’ultimo tratto di strada. Di certo non c’immaginavamo l’inaspettato.
La fatalità, a volte, è veramente feroce; non ti lascia respirare, non ti lascia vivere, ti toglie tutto, anche se supplichi, implori e piangi.
Il destino non guarda in faccia nessuno, sopraggiunge e ti porta via.
 

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Capitolo 2
*** BUIO ***


Mezz’ora…
Ancora trenta minuti di strazio e poi siamo a casa.
 
Il traffico intenso si è attenuato, siamo quasi fuori dall’autostrada, ma il temporale non ci ha dato tregua. A quanto pare ci vuole bene! Mi sa tanto che i tergicristalli non stanno più sopportando questa pioggia, li capisco. Le altre macchine, seppur poche, vanno e rallentano a ogni metro. Sembriamo circondati dalla fine del mondo.
Meglio svagarsi! Alla radio non danno nulla di buono, è da un po’ che continuo a far passare le frequenze una dopo l’altra, ma non si trova niente di decente.
Mi sto annoiando.
«Rein?» disse James «Perché non metti sul lettore cd quel disco che ti piace tanto?».
Lo scrutai per pochi secondi e non collegai subito di che stava parlando.
«Quale?» domandai dubbiosa.
«Quel gruppo, i Simple Pain, qualcosa di simile...»
«Oh, il Simple Plan!» esultai con un sorriso a cento denti.
«Sì, sì, quelli!» tagliò corto «Dove l’hai messo?»
Bella domanda, dove l’avevo lasciato?
Senza continuare il discorso controllai subito nel vano portaoggetti davanti a me e, aprendolo e vedendolo vuoto, ispezionai anche sotto il sedile e accanto alla portiera.
Nulla, non lo trovavo.
Infine mi girai con il viso verso i sedili posteriori e verificai anche lì con la coda dell’occhio. Il buio non mi aiutava di certo e, con le luci delle altre macchine che entrava dal lunotto posteriore, facevo fatica a distinguere qualcosa in quello spazio ristretto e oscuro, mi sembrava di osservare un buco nero senza fine.
Purtroppo non ero dotata di una vista acuta da gatto né di raggi infrarossi! Rassegnata, mi rigirai con la faccia sconsolata e, mentre pensai a un modo per farmi luce, James accese prontamente il piccolo riflettore del tettuccio. Alle volte sembrava leggermi nella mente.
Lo contemplai felicemente e con lo sguardo pieno di gioia lo ringraziai. Ne approfittai subito per catapultarmi dietro. La macchina fu rischiarata da quel bagliore tenue, ma ciò mi bastò per cercare il Cd. Slacciai la cintura di sicurezza che mi teneva salda allo schienale e iniziai a muovermi furtivamente; mi voltai sul sedile, inginocchiandomi e aggrappandomi con le mani al poggiatesta sdrucito, e m’inarcai, per allungarmi verso i posti retrostanti. Diedi inizio ad una vera indagine degna alla CSI. Allungai le mani più che potevo e per un paio di minuti controllai su ogni centimetro possibile che riuscivo a raggiungere, ma purtroppo finii senza esiti soddisfacenti. Finché, il caro buon cervello non mi mandò un segnale di speranza, mi acquattai e palpai il tappetino dietro al sedile di James; mentre vagavo senza meta con le dita e senza poter vedere nulla, sfiorai con l’indice contro qualcosa di piccolo e sottile. Sghignazzai divertita! Agguantai con foga la vittoria e mi rimisi a sedere con il trofeo tra le mani. Sospirando fissai con occhi bassi il cd, pulii la custodia di plastica dell’album e analizzai l’immagine della copertina.
All'istante e senza troppi perché, incominciai a rivivere un giorno del passato…
Un ricordo nostalgico, ma semplicemente perfetto.
I Simple Plan erano e sono il mio gruppo preferito.
Forse nel mondo della musica c’è di meglio, può darsi, ma l’emozione per quest’album ha più di un significato.
In primo luogo perché “Get your heart on!” è stato il regalo più bello della mia vita…e poi…
Beh, poi…fu Alyson a farmi innamorare di una loro canzone in particolare: “Summer Paradise”.
Più che piacermi l’originale, era la cover personale di Ally ad incantarmi l’anima.
L’ascoltai per la prima volta per caso. Ricordo che successe in uno dei tanti e soliti pomeriggi dove aspettavo James per uscire.
Quel dì mi pare dovessimo andare al cinema e c’era…sì, c’era già il caldo afoso degli ultimi giorni di maggio in previsione dell’estate! Ricordo che fermavo seduta sui gradini di marmo, davanti alla porta d’ingresso della villa, e stavo lì, ad attendere, in quel grande giardino pieno di piante tutte diverse. Mi crogiolavo al tepore dell’ombra ad occhi chiusi, con il vento che mi accarezzava la pelle e il profumo di fiori nell’aria. Poi, dal silenzio più assoluto, la voce di Alyson si fece strada dal primo piano, uscendo dalle finestre: un tono pulito, brillante e forte, seguito da una chitarra acustica e melodica.
È stato un colpo di fulmine!
Penso di aver assistito al primo concerto di tutta la mia vita, uno spettacolo improvviso e coinvolgente allo stesso tempo, una sensazione che non provai mai prima d’allora. Per me che non so intonare nemmeno una misera nota, Ally mi appare ancor oggi come una sorta di “celebrità”. La passione per il canto è la sua vena di sfogo, è tutto per lei. Spesso passavamo le giornate chiusi nello studio, ed io rimanevo solo per sentirla cantare con James, già…anche lui ha questa dote! Credo sia tutto merito del padre che fa il violinista, comunque, hanno entrambi due voci bellissime, così sexy e molto toccanti.
Perciò, con il passare dei mesi, diventando sempre più amici tra di noi, Alyson decise di fare qualcosa esclusivamente per me; sapendo della mia ossessione per il brano “Summer Paradise” e per l’amore che nutro per la sua cover, un bel mattino mi regalò qualcosa di unico.
Il cd che tengo tra le mani, era il suo, e per lei che ha sempre tenuto stretto ogni suo album, per me…fece l’eccezione.
Non mi stupirei se ora fosse in macchina con il volume al massimo e cantasse a squarciagola, è fatta così.
Tra poco ci rivedremo, ho così voglia di abbracciarla e raccontarle le giornate passate con James. Almeno le farò salire un po’ d’invidia per non esserci stata, con il risultato che si lamenterà senza potersi giustificare! Sono proprio cattiva!
 
In fondo lei…
 
«Rein?»
Il richiamo di James mi riportò a terra. Mi sentivo come quando ci si risveglia da un sogno, un sogno che non vuoi che finisca per nessuna ragione, ero indubbiamente in trance. Mentre aprii la custodia del cd e tirai fuori il disco, risposi guardandogli distrattamente le labbra «Scusa, stavo…»
«Ricordando il giorno in cui mia sorella ti fece quel regalo, giusto?» ponderò diretto.
«Certo che non ti si può nascondere nulla, da quando sei diventato così intuitivo con me?» inserii il cd nel lettore e premetti play, poi abbozzai un sorriso divertito e notai in lui un’inspiegabile dolcezza. Non l’avevo mai visto sotto quella prospettiva, James sembrava…imbarazzato…
C’era qualcosa che mi sfuggiva…lui che si vergogna? Sicuramente non stavo vedevo bene. Attesi una risposta scherzosa delle sue, ma se ne restò in silenzio e non si girò verso di me nemmeno per un secondo. Tenne gli occhi puntati davanti a sé, sulla strada e verificò la pioggia.
Il disco ormai immesso iniziò a suonare pochi attimi dopo, lasciai perdere James per un momento e mandai avanti le canzoni rapidamente. Con lo sguardo incollato al display verde della radio, cercai immediatamente “Summer Paradise” tra i brani.
«Eccola qui, traccia numero 8! La migliore!»  gioii sprezzante.
Mentalmente, e con il capo, iniziai a seguire il ritmo della melodia, ripetendo le parole del testo una dopo l’altra: “Cause I remember every sunset, I remember every word you said. We were never gonna say goodbye…Singing la da da da da”. Le labbra si dischiudevano senza emettere voce e cantai solo per me. Socchiusi gli occhi e mi lasciai trasportare completamente.
Era la cosa che mi rilassava di più in assoluto e dopo una giornata sfiancante era quello che mi serviva. Riaprii gli occhi e controllai la strada, la segnaletica indicava il casello per Redwood a cinque chilometri dalla nostra posizione. James si collocò con la Mustang sulla prima corsia a destra. In fila con altre auto, indugiavamo costretti dietro ad un pullman e, nell’attesa di svoltare a destra per lo svincolo d’uscita, innocentemente mi voltai verso di lui.
Notai in James un’aria diversa da quella dai restanti giorni, quasi tesa. La mano che teneva sul cambio da ore, la spostava leggermente in modo agitato e ripetitivo. Certo poteva essere la stanchezza che aveva addosso, ma negli occhi, gli si leggeva altro. Sembrava nascondere diverse cose, ma quali? So di essere timida in certi frangenti, ma non potevo evitare quel suo atteggiamento inconsueto.
Mentre i Simple cantavano, pensai al come agire, al se fare la curiosa o no con lui. Emisi un respiro, profondo, e mi decisi per la cosa più giusta: parlargli.
«Ascolta, posso farti notare…»
Un lampo spaccò il cielo in due abbagliando tutto attorno e, immediatamente, il boato potente del tuono ci fece saltare sui sedili dallo spavento. Era così poco distante, che James schiacciò il freno ed anche gli altri rallentarono davanti a noi. Quando meno te lo aspetti, succedono le cose più imprevedibili, basta abbassare la guardia e resti con le spalle scoperte.
Mentirei se dicessi che non avevo il cuore in gola!
Sentii i battiti uscire dal torace e spingere contro le ossa, come se qualcuno tentasse di farlo scoppiare gonfiandolo fino all’estremo.
Stupido temporale! Ecco perché lo odio! Idiota!
 
«Tutto bene?» si preoccupò James.
Accennai un sì con la testa e non molto convinta «Ho il petto sottosopra!»
«Non solo il tuo! Era così vicino. Pensaci! Poteva prenderci in pieno!» si spostò una ciocca di capelli dal viso e si passò la mano sulla fronte. Sudava.
«Siamo quasi a casa, presto ci faremo una doccia calda strafogandoci di schifezze insieme ad Alyson! Non pensiamo a nient’altro. Questa vacanza è iniziata e si è conclusa con il maltempo» cercai di rassicurarlo «Non potrebbe andare peggio di così, no?»
«Hai ragione…» terminò insicuro.
«Certo che ho ragione!» ero innervosita da tutta quell’acqua, talmente tanto, che mandai in “Repeat” la canzone dei Simple «Non odiarmi, so che non sono il tuo gruppo preferito.»
«Sarebbe impossibile farlo…» inserì la freccia per l’uscita di Redwood.
«Cosa? Hai cambiato gusti musicali? Da quando li sopporti?»
Non afferrai per nulla quelle parole.
James curvò per tutto il raccordo a velocità costante, solo quando arrivammo sulla corsia d’immissione, mi rispose «Non ero rivolto a loro. Intendevo, che non potrei odiare te.»
I suoi occhi neri si volsero verso i miei. Mi scrutò intensamente, per pochi attimi, e…diavolo! Sembravano divorarmi. Risplendevano, luminosi e decisi, anche nel buio che c’era.
Il cuore mi rallentò dallo sgomento del tuono, ma lo sentii dimenarsi per altro.
«Rein…»
Cosa? Che devi dirmi con quella voce roca?
«Credo di essermi innamorato di te»
Riguardò la strada.
Pochi vocaboli e mi lasciò completamente senza parole.
Una dichiarazione, da James? Stava scherzando? Era serio?
Mi stava prendendo in giro, non poteva essere vero. Lui che pensa a me come una ragazza con cui iniziare una storia? Sarebbe la barzelletta migliore dell’anno! Scioccamente non dissi nulla, ero solo incredula.
Restai zitta fino all’arrivo del casello, non che mi dispiacesse la situazione, ma…non me l’aspettavo. Presumo di aver tenuto gli occhi verso il basso per tutto il tempo.
James scalò le marce e si fermò dal casellante, fece scendere il finestrino della portiera e cercò i soldi nei jeans con cui pagare. L’aria fredda mi fece rabbrividire, tremai per i minuti che restammo lì. Infine la sbarra si alzò per farci passare e andare avanti.
Proseguimmo il nostro viaggio, inoltrandoci sulla statale per Redwood.
Dieci chilometri.
Non riuscii a dire niente, mi chiedevo solamente a cosa stesse pensando James.
Timidamente gli guardai la mano stretta sul cambio, la muoveva ancora in modo agitato. Scossi la testa in conflitto, come turbata, e ammirai il cielo appoggiandomi allo schienale, il cuore non si fermava.
Che stavo facendo? Perché non gli parlo? Del resto è un amico. Non ho mai provato niente nei suoi confronti, ed ora? Perché tutta quest’ apprensione?
Fissai la pioggia e la notte, sperando di trovare una sorta di risposta ai mille dubbi che mi stavano tormentando.
 
«Non è necessario che tu mi risponda» disse James tranquillo e rompendo il silenzio «Quello che mi sta succedendo…fa strano anche me» continuò con il sorriso «Non ho mai realmente amato nessuna…» diventò serio «Eppure, in questi ultimi mesi non ho fatto altro che pensarti. Mi sento un po’ scemo a scoprirmi così»
«Mesi?»
Dalla mia bocca uscì solo quell’interrogativo…ero davvero sconvolta.
Non scherzava…
Compresi all’istante che quel suo stato agitato era dovuto a questa confidenza.
«James, tu sei forse il miglior ragazzo che conosca, ma ora…»
M’interruppe «Non serve, te l’ho detto…non mi devi dare nessuna risposta per adesso. Non sto pretendendo nulla, cerco di essere solo sincero con me stesso e con te»
Per adesso?
Come potrei non ferirlo? È davvero una persona splendida…ma…
Non riesco a vederlo diversamente da un amico.
A gran fatica replicai con un “va bene”. Lo stomaco si ribellava e sentivo quel vuoto insolito che ti dilania da dentro, un’angoscia deprimente. Avevo voglia di piangere e non lo facevo.
Entrambi non fiatammo più.
La canzone dei Simple mi attraversò la testa, e mi soffermavo ad ascoltare solo la stessa frase ad ogni strofa:
“Now my heartbeat is sinking”
“Ora il mio battito del cuore sta affondando”
 
Ed è ormai sprofondato nell’abisso…
 
Giungemmo alla 13° strada cinque minuti dopo, all’incrocio tra River Street e la Carpet.
Sentivo il profumo di casa, finalmente! La città era illuminata da mille chiarori diversi provenienti da negozi, lampioni, semafori e grattacieli; persino l’acqua sull’asfalto rifletteva tutto come uno specchio e il traffico sembrava scivolarci sopra. Era quasi mezzanotte, ed anche nelle ore più tarde, Redwood era viva più che mai. Non c’era da stupirsi se si potevano vedere gruppi di passanti, bus e quant’altro.
Il temporale che ci seguì da Irvine non aveva proprio l’intenzione di lasciarci andare. In tutto quel periodo, badai solo ai miei pensieri, a quello che stava succedendo.
James seguì la coda di auto fino allo stop. Passarono parecchie auto con il verde e quando arrivammo, scattò il rosso. Ci fermammo in attesa di precedenza.
In quel preciso istante iniziò a piovere, fortissimo, talmente forte che le gocce che cadevano sul tettuccio una dopo l’altra creavano un rimbombo strano. Ci guardammo per un attimo e di colpo cadde la grandine.
Palline di ghiaccio piccole, ma così fitte da non riuscire a capire il dove si andava. I tergicristalli erano al massimo della velocità, e non si comprendeva nulla. Più se ne toglieva, più ne arrivava. La foschia dell’acqua che si rialzava dal terreno, faceva impazzire il traffico con nugoli fastidiosi. Quando il semaforo scattò sul verde, James schiacciò l’acceleratore…
Fu un attimo…
Un idiota a bordo di una Toyota bianca ci tagliò la strada da destra. Inchiodammo bruscamente così gli altri dietro di noi. Era passato con il semaforo rosso e ci mancò davvero per poche spanne, questione di centimetri!
Urlai fortissimo...credo di aver assordato il povero James.
La Mustang si sostò al centro dell’incrocio, ancora accesa. Il tale o chiunque egli sia stato, non si prese la briga nemmeno di accostare o di preoccuparsi…proseguì dritto su quella cazzo di macchina!
Il fiato iniziò a mancarmi ed io imprecai tra me e me.
James sospirò profondo, in fretta schiacciò la frizione e ingranò la prima. Sembrava tranquillo, non mostrava nessuna debolezza.
La grandine non smetteva di cadere e le luci delle auto opposte a noi ci abbagliavano. Dispersi, alla cieca.
Per un solo istante James perse il controllo della Mustang…
Bastarono pochi metri e ci schiantammo!
Non ebbi nemmeno il coraggio di reagire allo spavento, ero già sconvolta da prima e non riuscivo a trovare l’equilibrio tra polmoni e respiro. Urtai contro il sedile per la conseguenza del colpo e fui trattenuta dalla cintura di sicurezza.
«Merda! Merda!» dissi arrabbiata con tono vacillante «Non fa già schifo questo giorno, anche un incidente?»
Non avevamo nulla di rotto, ma in pochi attimi avevamo rischiato grosso e per ben due volte. Strinsi i pugni sulle gambe e iniziai a piangere come una disperata. Quando alzai la faccia per guardare chi stava a bordo sull’altra macchina…sentii James pronunciare una sola parola.
«Alyson?»
Scrutai con gli occhi sgranati alquanto perplessa quella persona, e la vidi, la faccia di Ally con le mani tra i capelli, completamente scioccata. Che diavolo ci faceva in giro con questo cavolo di temporale?
Quando capì che eravamo noi, si portò le mani al volto, sorpresa; iniziò a sorridere per scaricare la tensione, era un modo diverso per non piangere. Le macchine erano entrambe distrutte, i fanalini erano andati e pure un bel po’ paraurti e cofano, ma per fortuna andavamo piano.
James iniziò a ridere per sfogare lo sgomento, in una risata isterica inascoltabile.
Io non riuscivo a sbloccarmi, mi limitavo a disperdere lacrime e mordermi nervosamente il labbro. Sempre di più facevo fatica a respirare! Dovevo scendere...
Cercai di aprire la portiera, senza indugio, ma…non ci riuscivo! All’improvviso tutta la mia energia sembrava essere sparita e cominciai a tremare. Sentivo il corpo completamente trasalito da sussulti, una sensazione bruttissima! Appoggiai le mani sulle gambe con il palmo verso l’alto e le guardai, pur concentrandomi per tenerle immobili, non stavano ferme.
«Dio mio! Non ci riesco…» mugolai singhiozzando. Il terrore aveva vinto su di me.
«Ho bisogno di aria…» continuai a ripetere «Ho bisogno di ossigeno…»
James mi accarezzò il ginocchio, un tocco caldo e delicato «Ora ci spostiamo e andiamo a casa! Stai calma!» disse ingranando la retro «Cerchiamo solo di accostare e spostarci dall’incrocio, siamo in mezzo!»
Il traffico attorno era fermo, la canzone continuava a suonare e la tempesta a scendere.
«Rein, è tutto finito, guarda Alyson, ci sta aspettando!» provò ad accendere l’auto «Adesso la raggiungiamo, ok?»
La macchina non si accendeva…
«Ok!» pronunciai con gli occhi pieni di lacrime.
«È tutto finito, biondina!»
La Mustang ritrovò vita in un rombo vigoroso. James si lasciò andare ad un sospiro di sollievo.
Alyson ci segnava continuamente di avvicinarci al marciapiede. Dei pedoni, che si proteggevano sfruttando le infrastrutture dei palazzi, erano fermi ad assistere all’accaduto sin dall’inizio. Piano iniziammo a indietreggiare, a spostarci dal paraurti di Ally, cercando di non dare fastidio a nessuno nei paraggi. Instabile spensi il cd e restammo con il suono della tempesta ininterrotto nelle orecchie. Tutta l’atmosfera che si creò con la dichiarazione di James, sparì nel nulla.
 
“Tra poco potrai scendere, rilassati” mi ripetevo “Tra poco tornerete a casa e ritornerete quelli di sempre, non agitarti”.
 
Non fu così.
 
Un camion sopraggiunse alla nostra sinistra a velocità elevata. Completamente verniciato di rosso, ci allertò con quel maledetto clacson cupo! Con quegli inutili abbaglianti! Sentii i freni di quelle ruote immense cigolare e vidi il muso di quel bestione avvicinarsi sempre di più a noi.
Gridai con tutta la voce che avevo in corpo, la paura aumentò a dismisura.
Gridai tanto che ingenuamente mi riparai la testa con le braccia…
Non servì a nulla…
James non ebbe il tempo di concentrarsi che, Dio…era schiacciato accanto a me, lacerato dei suoi arti, completamente maciullato in pochi secondi.
Me lo ritrovai addosso, urlai dal dolore, era morto e mi fissava con quegli occhi senz'anima…e c’era sangue, ovunque!
La Mustang fu spazzata via, ci ribaltammo sulla strada, e rotolammo per non so quante volte. Sentii le ossa delle braccia e le costole incrinarsi, un dolore così inteso, così eccessivo che non mi sembrava tangibile. Siamo così fragili...
Nell’incoscienza dei sensi….
Lentamente…
Divenne tutto buio…

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Capitolo 3
*** STASI ***


  «Giorno 23 agosto 2013. Ore 10.30 del mattino. Ospedale di Redwood, Obitorio.
Sono il medico legale Josef Henke, con me c’è l’assistente Sophie Tayler, insieme ci occuperemo dell’autopsia del caso numero 8: James Kismet.»
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«Giorno 24 Agosto 2013. 8.30 del mattino. Ospedale di Redwood, Obitorio.
In merito ai risultati di ieri, possiamo dire che il corpo ha riportato gravissime lesioni.
Il cranio è stato schiacciato in tre diversi punti distinti. Il volto è sfigurato, ci sono tagli profondi sulla pelle e ferite più che infossate; la bocca è stata troncata dal proprio labbro inferiore; i denti sono quasi tutti rotti; la mascella è completamente frantumata e lacerata. Il collo sembra non presentare nessuna rottura. Scendendo verso il petto, nella parte toracica, alcune costole, incrinandosi verso l’interno, hanno perforato polmoni e cuore. La spina dorsale è spezzata in due punti nella parte lombare.
Il braccio destro…mutilato, così come entrambe le gambe.»

«Dottor Henke? Si sente bene?»
«Scusi dottoressa Tayler…certe cose mi fanno ancora effetto.»
«È più che comprensibile, dottore. Proseguiamo con la registrazione…»
«Giusto»
«Il braccio sinistro è misteriosamente intatto, ha solo un’ingente quantità di ferite, botte e tagli. Non c’è ombra di dubbio che il giovane James sia morto sul colpo durante l’impatto.»
 
«Signorina Tayler, finisca di scrivere il rapporto, non c’è più nulla da dire a riguardo»
«Sarà fatto, dottor Henke»
«Mi raccomando, mandi i risultati al dipartimento, domani si svolgerà il processo in tribunale»
«Sarà tutto pronto entro il tardo pomeriggio»

«Dottor Henke, è pensieroso?»
«Capita sempre in situazioni simili, è evidente che la famiglia Kismet vincerà il caso. L’autista ubriaco del camion se la vedrà molto brutta. Ha investito questi due ragazzi uccidendone uno.»
«Com’è la situazione medica della paziente Rein Noire?»
«Non ottima. Ha riportato gravi rotture alle braccia e fratture a solo quattro costole, può ritenersi fortunata di essere ancora tra noi: ritrovarsi viva in una macchina a forma di lattina, non è cosa per tutti. Il sistema nervoso però non ha giocato in suo favore, povera ragazza.»
«Si risveglierà dal coma?»
«A questa domanda non saprei proprio rispondere.»
«La sorella di James Kismet?»
«È distrutta per la perdita del fratello, per la situazione giudiziaria che c’è in corso e del perché non può visitare la signorina Rein.»
«Prima o poi potrà rivederla.»
«Me lo auguro dottoressa. Me lo auguro.








"Rein, mi senti? Sono Alyson, mi manchi".  

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Capitolo 4
*** COME LA NEVE ***


Sono passati quattro lunghi mesi da quando successe l’incidente di James e Rein.
Tanti a Redwood parlarono della disgrazia sulla 13° strada, la gente ne discusse finché la notizia non fu offuscata da altre sventure…è così che va, l’uomo tende a dimenticarsi le cose, è ipocrita, ma è la vita.
 
Il processo contro Norman Gate, il camionista che ha causato l’incidente, terminò con successo una vittoria schiacciante da parte dell’accusa. I Kismet e la signora Noire ottennero la giusta ricompensa per la perdita subita e per i danni morali del caso. L’uomo dall’aspetto grossolano e sulla mezza età, già con piccoli reati al seguito per rapine a mano armata, fu processato a ventitre anni di reclusione per omicidio volontario in stato di ebbrezza e per tentata fuga dopo lo scontro. Non vi fu nessun modo, da parte della difesa, di proteggere l’imputato.
L’inalterabilità dei coniugi Kismet, anche al fronte di un divorzio, fu soddisfatta a pieno dalla condanna; il giorno stesso, in fine udienza, fuori dal tribunale, furono circondati da una massa curiosa di giornalisti e fotografi:
“Quell’uomo marcirà in cella come merita, decomporrà come mio figlio sta facendo sotto terra; Sono morti entrambi quel giorno”.
Queste furono le parole che uscirono dalle loro bocche, questo udirono quei pettegoli pronti a far polemica davanti al dramma. Sui giornali i Kismet furono spesso etichettati come “seppellitori”, perché il cinismo bastardo di alcune persone non si smentiva mai, nemmeno per chi ha perso un figlio e faceva dichiarazioni furiose. Alcuni quotidiani, soprattutto di città limitrofe, furono denunciati da quell’ironia ignorante e cattiva. Solamente la madre di Rein, riuscì a non attirare su di se tutti quegli occhi indiscreti, forse perché per loro non vi era nulla di succulento, una figlia in coma non avrebbe fatto scalpore come la morte di James.
La vita dopo quel drammatico giorno non fu facile per nessuno. I Kismet divorziarono una settimana dopo; il padre si trasferì da Reedwood nel giro di un mese, e Alyson restò a vivere con la madre nella villa. La signora Noire, denota come Ive, fu costretta a vendere l’appartamento fuori città per trovarne uno nei pressi dell’ospedale.
Trascorsero periodi complessi, finché l’autunno giunse portandosi via i dispiaceri maggiori dell’estate, ma la pesantezza del vuoto, del dolore, viveva nella mente di ognuno in modi differenti.
 
Rein, dopo una settimana di cure, non dava comunque segni di risveglio, e il coma sembrava volesse portala via per sempre. Nella sua stanza, dipinta di un lilla tenue, c’erano bigliettini con dediche infissi sulla porta e le pareti: pensieri di amici e conoscenti della ragazza. I parenti più stretti spesso portavano regali o fiori alla madre, gentilezze per cercare di tirarle su il morale. Alyson, quando non andava al cimitero da James, passava quasi tutto il tempo accanto a quel letto, restava da lei, cantandole ogni dì la canzone che tanto amava, pensando che l’amica potesse sentire la sua voce mentre le stava vicino.
Ogni minuto, Rein, era circondata da persone che le volevano bene, e gli stessi si auguravano solamente di rivedere quei suoi occhi celesti schiudersi.
Purtroppo non fu così, la giovane indugiò dispersa nei meandri della propria mente ancora per molto e le settimane volarono, inesorabili, una dopo l’altra.
Finì così settembre e giunse ottobre. I medici attesero e non dichiararono ancora lo stato vegetativo. La madre di Rein cominciò a preoccuparsi davvero, non che prima non l’avesse mai fatto, ma la paura iniziò a divorarle l’animo; fu solo capace di immergersi in troppe domande, e se sua figlia non si fosse davvero più risvegliata? Se avesse continuato così per anni? Che cosa avrebbe fatto?
Nessuno poté risponderle, nessuno poté consolarla.
La donna cadde gradualmente in una depressione infausta, vedere la propria bimba in quello stato, la distruggeva ogni secondo di più.
I parenti, gli amici, pian piano smisero di andare a trovare la ragazza, come se non ci fosse stato più nulla da fare per lei, come se fosse condannata e già data per morta. L’indifferenza di quelle persone, non aiutarono lo stato emotivo della madre.
Il mese volò via più veloce degli altri, tra grovigli di discussioni e incongruenze continue, ed arrivò novembre con i primi venti freddi del prossimo inverno, ma con la speranza che tutti attesero.
Rein aprì gli occhi e, come se n’era andata, ritornò dai suoi sogni.
Sembrava avesse passato solo una notte immersa nel sonno, senza rendersi conto del dove fosse stata e di quanto tempo fosse trascorso.
Il 13 dello stesso mese incominciò la riabilitazione.
Riuscì a migliorare in circa sette settimane: le sue cellule cerebrali, lo stato motorio del suo corpo, i ricordi, si riconfermò in perfetto stato.
 
 
 
Poi, dicembre finì e la neve iniziò a cadere soffice posandosi ovunque.
 
 
 
  

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Capitolo 5
*** RISVEGLIO ***


Il sole splendeva alto nel cielo del mattino e le nuvole si disperdevano in una moltitudine di forme. Nell’aria si respirava l’odore fresco e pulito del pieno inverno. Per le strade ghiacciate di Reedwood circolavano solo i più intrepidi e forse qualche mezzo pubblico. I vecchi televisori accesi nei corridoi dell’ospedale, trasmettevano telegiornali con previsioni meteo, anticipazioni non ottime: gennaio stava dando il meglio di sé con le sue piccole bufere. Le scuole erano chiuse, molti cantieri erano bloccati e tutta la città sembrava in panico.
Il paesaggio era saturo di candore, come se una tonnellata di panna montata fosse stata rovesciata su ogni centimetro di terreno.
Rein osservava quel panorama dalla sua stanza al quinto piano, con le braccia incrociate e appoggiate sul davanzale della finestra, e il viso sporto leggermente al di fuori. Con gli occhi indagava il mondo e lo controllava nei minimi dettagli, pareva che non avesse mai visto nulla di tutto ciò prima d’ora. L’ospedale era situato in un vecchio palazzo ottocentesco che fu poi rinnovato a dovere, ma pur mantenendo quel fascino gotico di quell’epoca. L’intero edificio ricopriva una vasta area con le sue murature, ed era circondato da un ampio parco ricco di vegetazione, un laghetto artificiale e tantissimi sentieri a ciottoli: il luogo perfetto, dove poter passeggiare e rilassarsi.
Il volto serio della giovane non si smuoveva da quel riquadro, totalmente affascinata e senza rendersene conto, le sue labbra piccole e carnose, intonavano la melodia della canzone dei Simple Plan. In realtà la sua mente e le sue osservazioni erano rivolte altrove, e si sentiva dispersa tra quello scenario bellissimo e la preoccupazione per Alyson.
Già, perché l’amica non si era mai fatta vedere, o sentire, da quando si era svegliata.
Rein non riusciva a capirne il motivo, lei era tornata dal coma e Ally non era lì, perché?
Con tutti quei pensieri nella testa, non percepiva neppure il vento freddo che le pungeva le guance e le scostava i capelli biondi che le scendevano sulle spalle.
Meditò tanto a riguardo. Nell’incidente il suo cellulare fu andato distrutto con la Mustang e, stando rinchiusa lì, non aveva mai avuto l’opportunità di rifarsi un nuovo numero; ma ciò, non le sembrava un buon motivo per non rispondere alle chiamate che faceva dai telefoni dell’atrio. Ogni volta che provava a telefonarle, tutte le chiamate si bloccavano dopo pochi scatti e in automatico partiva il nastro registrato della segreteria. Considerò tanti presupposti per quella sua assenza, e potevano essere davvero molti visto la perdita del fratello James, ma erano tutte ipotesi inutili se non poteva parlarne con Alyson a tu per tu.
La madre, Ive, le disse che non frequentò più l’ospedale già alla fine di settembre, e aggiunse che aveva problemi con i genitori e la villa; ma lo disse solamente una volta, e lo pronunciò con fare indifferente, quasi scomodo, come quando si dice una cosa senza sapere se quella sia la vera versione dei fatti.
Rein non si era mai convinta da quell’affermazione ipotizzata e si limitò a stare zitta senza cercare troppe spiegazioni.
Doveva solo trovare Ally.
 
La ragazza si spostò finalmente con le braccia dalla finestra e si stirò la pelle, sbuffò sconfortata tra sé. Doveva smetterla di rimuginare, tanto tra poco sarebbe uscita dall’ospedale e poteva riprendere la sua vita. Guardò l’orologio al polso, le lancette segnavano le dieci. Si scostò dalla parete e chiuse le ante, indagò un’ultima volta il paesaggio attraverso i vetri, e se ne andò a passi rapidi in direzione del letto. Sopra alle coperte, in modo sparso, teneva una valigia piena d’indumenti, un quaderno dalla copertina buffa e il suo amato cappotto alla marinara blu. Con entrambe le mani tolse il bagaglio trascinandolo faticosamente a terra, era pesante e Rein non era per nulla forte. Sin da piccola veniva presa in giro per quel vigore striminzito, aveva una fisionomia gracile ed era magra per costituzione. Il suo aspetto snello la faceva sembrare più alta, ma era già tanto se raggiungeva un metro e settanta. Possedeva modi di fare molto delicati, un portamento fine, molto piacevole, sebbene spesso dalla sua bocca uscissero le frasi più rozze e più stupide. Il suo carattere era in parte ironico, era davvero brava a far sorridere, ma possedeva anche lo strano difetto di spaventarsi per le cose più futili, come la paura per i gatti, la terrorizzavano. Non era la classica ragazza ricoperta di trucco, le piacevano, ma non riteneva un’esigenza il perdere del tempo per farsi bella; del resto, lo sguardo furbo, le ciglia dense, i lineamenti morbidi del viso, le stavano meglio al naturale.
 
Rein indossò il cappotto e si allacciò i bottoni per chiuderlo, lasciò aperto solo il colletto per far scivolare la sciarpa all’interno e, infine, mise i guanti ad entrambe le mani, erano di finta pelle, bianchi. Si aggiustò i capelli lunghi da dietro la schiena e si guardò attorno. Dopo pochi attimi, raccolse il quaderno dal sopra il letto, dentro le pagine custodiva tutti i biglietti che gli amici le avevano portato durante il coma; sul viso si delineò un sorriso, emozionato ed anche un po’ liberatorio. Si riteneva molto fortunata, poteva morire e non vedere più nessuno, ma era ancora lì e stava bene. Prese con sé quel cimelio e lo tenne stretto al proprio fianco. Tirò su il bagaglio e, sempre con fatica, cercò la porta per allontanarsi dalla camera. Aggrappandosi alla maniglia uscì definitivamente da quel posto e, prima di accostare l’uscio dietro alle proprie spalle, sì voltò dando un saluto definitivo a quel luogo.
Un addio desiderato.
S’incamminò con calma verso l’ingresso, lì l’aspettava la madre per riportarla a casa e lì poteva salutare il dottore che si prese cura di lei. Nei diversi corridoi infermieri e pazienti le facevano cenni col capo vedendola passare, e Rein ricambiava quella cortesia nello stesso modo; dopo tutto avevano imparato a conoscerla in quel periodo. L’aria che la ragazza muoveva attorno a sé, prendeva il sapore del profumo che tanto amava: un’essenza dolce, floreale, fruttata, dalle note fresche e brillanti. Accelerò il passo e, più si avvicinava all’ascensore, più comprese quella sensazione di agitazione entusiasta nascerle dal petto; il cuore iniziò a palpitarle forte, in un attimo, e non si placò nemmeno per un momento. Nei pensieri non focalizzava cose tormentate o tristi, lei desiderava solamente uscire dall’ospedale, e magari di correre all’aria aperta, tuffarsi nel primo cumulo di neve, affondare la faccia nel candore gelido e sentire la pelle divampare da quel tocco.
Pensò solo a se stessa abbandonando tutti i dispiaceri, l’unico che non rimosse era rivolto ad Alyson.
 
Lo sportello di acciaio dell’ascensore sì aprì davanti ai suoi occhi.
Rein aveva raggiunto l’atrio: un immenso salone che accoglieva gente di ogni etnia ed età. Non era il classico posto saturo, quell’ambiente donava calore e senso di serenità, l’atmosfera si soddisfaceva con colori vivaci, in un misto tra natura e decorazioni contemporanee. La giovane s’inoltrò tra quelle persone, cercando la figura della madre tra di loro. Poi la scorse, appoggiata al bancone di una delle due reception, in compagnia del dottore.
Ive era una donna bassa e corpulenta, dalla strana chioma riccia e castana, dai modi un po’ scontrosi ma non cattivi; indossava un giubbotto viola e un berretto di colore annesso. Rein non le assomigliava per nulla, la bellezza l’ereditò dal padre e la grazia non la ottenne certo da lei. Forse l’unica cosa che poteva farla sembrare sua figlia era il dna…ma per il resto, no, non c’era davvero nulla di paragonabile tra le due.
 
«Mamma!» esclamò avvicinandosi ad entrambi e guardando l’uomo «Buongiorno, dottor Evans!»
«Salve signorina, come state?» rispose rigoroso da sotto la barba folta e grigia.
«Grazie a lei meravigliosamente!» lanciò un’occhiata alla madre «Ha fatto tanto per noi, ha guarito entrambe»
Il dottore sorrise compiaciuto «In realtà il lavoro più grande l’hai fatto tu stessa, io ti ho solo assistito come meglio potevo, sei stata fortunata»
Rein lo sapeva molto bene, e si limitò ad annuire gioiosamente con il capo. Le piaceva il signor Evans, era un veterano nell’ospedale, e seppur era calvo e con qualche chilo di troppo, non dimostrava per nulla i suoi sessant’anni; dalla sua si giocava un carattere molto risoluto e tantissima passione per il lavoro che faceva. Un uomo da stimare e da seguire come esempio.
Ive si scostò dal bancone e baciò la figlia sulla guancia, infine le cinse un braccio dietro la schiena stringendola forte «La mia bambina può tornare finalmente a casa, nella sua nuova casa!» osservò dolcemente gli occhi azzurri di Rein.
«Sono sicuro che si sentirà un po’ spaesata inizialmente, ma si ambienterà meglio che qui. Avete passato un periodo molto difficile e insieme siete state in grado di superare ogni ostacolo. Vostra figlia supererà tutto, è una persona allegra, ha sempre dimostrato la sua forza interiore. L’incidente e tutto il resto la renderanno certamente migliore.»
La giovane non disse nulla, ma si sentì stringere ancora di più dalla mano della madre, come se da quella morsa energetica sprigionasse tutto l’orgoglio che Ive provava per lei.
«Bene, presumo che per voi sia ormai giunta l’ora di andare!» aggiunse il dottore indicando la porta d’entrata.
Rein, con il batticuore ancora in petto ed i brividi dall’emozione, inspirò a pieni polmoni, e scosse la testa divertita «Mi sento come se dovessi scappare da una prigione» vociò contenta e allo stesso tempo tesa «Ti sale addosso un'adrenalina che ti vorrebbe far gridare “libertà!”»
Evans scoppiò in una risata soddisfatta «Mi mancherà questa tua strana ironia!» e si fece serio, come un padre preoccupato «Mi raccomando, se succedesse qualcosa non esitare a chiamarmi, d’accordo?»
«È una promessa, passerò qualche volte nel negozio di sua moglie, così si potrà bere qualcosa in compagnia. Mamma, tu che ne dici?»
«Che è un’idea bellissima» concordò Ive.
Passarono diversi secondi di silenzio, poi Rein, tese la mano al dottore e mantenne un saluto professionale con lui; anche se in verità voleva abbracciarlo con tutta se stessa. Le era molto grata. Evans allungò la sua e strinse quella della ragazza: percepì il palmo bollente da sotto il guanto. L’uomo salutò nello stesso modo Ive, e poi il suono del cercapersone gli squillò da sotto il camice bianco: lo volevano al quinto piano.
«Mi dispiace, ma devo tornare ai miei impegni.»
«Non si preoccupi» rispose la donna raccogliendo la pesante valigia da terra «È il suo dovere!»
Rein si fece coraggio nel salutarlo definitivamente «Arrivederci, signor Evans.»
Il dottore sorrise ottimista «In bocca al lupo per tutto!»
Un cenno e voltò la schiena, mischiandosi tra la gente, raggiungendo a passi svelti l’ascensore. L’uomo aveva fatto il massimo per Rein e ne andava fiero. Erano questi momenti a renderlo raggiante per ciò che faceva ogni giorno, il suo lavoro veniva prima di tutto, perché il benessere del prossimo era la sua priorità.
 
«Siamo rimaste sole» affermò Ive che si spostò di qualche passo «Vuoi restare lì immobile per sempre o ci avviamo?»
La giovane era all’apice dell’agitazione «Usciamo!» si aggrappò alla manica del giubbotto della madre, questa volta era lei che la teneva stretta a sé.
Insieme percorsero quei pochi metri che distavano dalla porta d’ingresso, se per la donna erano veramente così pochi, per Rein sembravano infiniti. Quello fu in assoluto il corridoio più lungo e tanto atteso della sua vita. Con mille sensazioni addosso, d’improvviso, la luce del sole le abbagliò il volto e sentì il corpo pervaso immediatamente dal freddo. Ive continuò a camminare per raggiungere il parcheggio, ma Rein, lei si fermò ad osservare se stessa nuovamente nel mondo. Era in estasi, dopo quasi due mesi confinata in una camera, poteva muoversi come voleva sotto il cielo. Si spostò eroicamente dal viottolo e si chinò a raccogliere la neve con i guanti nell’erba, era soffice e leggera, infine la soffiò via. Le sembrava di essere tornata bambina, a quando giocava fino a tardi sopra quei cumuli bianchi, a quando l’unica scusa che riusciva a farla tornare in casa era una buona tazza di cioccolata calda.
Ive si rese conto solo dopo pochi minuti che Rein non stava più al suo passo, si girò cercando la figlia, la notò in ginocchio accanto ad una pianta di ciliegio. Scosse il capo rassegnata e allettò la sua attenzione urlando il suo nome. La ragazza scattò in piedi distratta dai propri ricordi, sorrise di gusto tra sé, e cominciò a correre velocissima per andarle incontro, e più andava veloce e più dentro la felicità le esplodeva. 

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