Chiamami Charlie

di ScleratissimaGiu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mi chiamo Samantha Wilson ***
Capitolo 2: *** Mettimi alla prova ***
Capitolo 3: *** Il primo errore ***
Capitolo 4: *** Ha già problemi col caso? ***
Capitolo 5: *** Schizofrenia ***
Capitolo 6: *** Il Processo ***
Capitolo 7: *** 27 maggio 2013 ***



Capitolo 1
*** Mi chiamo Samantha Wilson ***


Quando compii ventidue anni, venni assunta nello studio legale dove lavorava mia madre, il “Benson&Clarks”, il migliore di tutta Los Angeles.
Ero giovane, ambiziosa e… beh, ammetto che non mi mancava certo una dose generosa di arroganza, ma credo che, dopo la mia prima esperienza, l’ho gettata tutta via.
Il mio nome è Samantha Wilson, vivo nel 2013 a Los Angeles, in una bella casa che mi sono comprata con i soldi delle cause.
La mia storia, comunque, inizia nel novembre del 2011, quando misi piede per la prima volta nella lussuosa hall dello studio legale, accolta dal sorriso speranzoso di mia madre Sophie, che mi accompagnò fino al quinto piano, dove lavorava lei.
- Andrà benissimo, - mi disse, mentre l’ascensore saliva.
Annuii, pensando solo a quello che mi aveva detto mio padre: “Rendimi fiero. E quando esci, chiudi la porta”.
Poche parole, chiare ed autorevoli: mi bastavano solo quelle.
Anzi, era già una conquista che mi avesse detto qualcosa.
Era sempre stato taciturno, papà; amorevole un secondo, detestabile quello dopo… ma gli volevo bene.
E molto.
Le porte si aprirono sull’ampia sala d’accettazione, dallo splendente pavimento di marmo nero ed eleganti mobili di legno scuro.
La vista dalla vetrata che correva lungo tutta la parete sinistra era una spettacolare veduta su LA, spezzata dalle poche scrivanie delle segretarie.
Mia madre si diresse verso l’ultima in fondo, dove una signora cinquantenne dai capelli biondo miele striati di una lieve nota di bianco stava firmando qualche foglio.
- Pam, - la chiamò mia madre, e la donna alzò i suoi occhi verdi su di noi, lasciando perdere le scartoffie di cui si stava occupando.
- Sì?
La sua voce era fresca, quella di una che ha davvero voglia di fare qualcosa per te.
- Questa è mia figlia, Samantha - le spiegò mia madre, con voce orgogliosa e un sorriso soddisfatto - chiamaci Crossway.
Pam prese in mano il telefono e parlottò per qualche secondo, dunque tornò a guardarmi e mi sorrise.
- Benvenuta, - mi disse.
- Grazie… - le risposi, ricambiando il suo sorriso caloroso.
- Philip!
Mia madre si era voltata, ed io la imitai, rendendomi conto che due uomini si stavano avvicinando a noi.
Uno era più alto, giudicai avesse una trentina d’anni, vestito elegantemente di blu con una cravatta rossa sulla camicia bianca; il suo compagno era più basso, doveva avere pochi anni più di Pam, e a differenza dell’altro portava un completo nero con cravatta nera, anche se indossava una camicia bianca anche lui.
- Sophie, - salutò mia madre, stringendole la mano - tua figlia, immagino - riprese, guardandomi.
- Samantha Wilson, - mi presentai, allungando la mia mano, che lui, da perfetto gentleman, baciò.
- Uno dei suoi colleghi, William Cooper, coordinatore dei clienti interni di tutta la California - presentò l’uomo ritto immobile di fianco a lui, uno sguardo sospettoso e indagatore puntato su di me.
- Piacere - continuò per lui Cooper, rimanendo fermo.
Stirai le labbra in un sorriso quasi impercettibile, e tornai a concentrarmi sul capo.
- Come le sembra il posto? - mi chiese Crossway, avviandosi nuovamente per la via da dove era arrivato.
Io, mia madre e Cooper lo seguimmo a ruota.
- Elegante, molto - risposi sinceramente.
Rise, battendo le mani.
- Ti abituerai presto, - disse - anche perché sarai spesso in aula o dai clienti… ti abbiamo assunta per le tue ottime referenze.
Stavolta sorrisi davvero, gettando un’occhiata fugace al mio nuovo collega, che alzò gli occhi al cielo, in evidente espressione di scocciatura.
Sia io che il capo facemmo finta di nulla e continuammo a camminare.
- Qui c’è il tuo ufficio, - mi spiegò, fermandosi davanti ad una porta di legno con una targhetta dorata a cui mancava il nome.
- Il tuo compito, da adesso in avanti, sarà di coordinare i clienti di Los Angeles: le cause ti verrano assegnate direttamente da Pam, a cui le avrò passate personalmente. Ti chiamerà lei se ci sono novità o qualsiasi notizia importante o degna di nota, e per chiamarla tu basta digitare il numero uno dal telefono del tuo ufficio.
- Signor Crossway, credo che noi dovremmo proprio andare… - lo interruppe Cooper, battendogli leggermente sulla spalla sinistra.
- Certo, certo Cooper, non preoccuparti.  Allora, a dopo, signorina Wilson.
Sorrisi, e i due si allontanarono, lasciando me e mia madre libere di esplorare il mio nuovo posto di lavoro.
L’ufficio era grande e spazioso; una finestra correva per tutta la parete destra, e si poteva vedere, in lontananza, la sagoma dello Staples Center.
La scrivania si trovava direttamente davanti alla porta, ed era di mogano pregiato, proprio come la libreria della parete sinistra, che traboccava di libri.
Una tv al plasma era posta proprio sulla parete difronte alla scrivania, ed era così grande che sarebbe stato praticamente inutile utilizzare i due divanetti che erano posizionati lì vicino.
-  È anche più bello del mio, - osservò mia madre, sedendosi su quello di sinistra, in modo da osservare meglio il panorama.
Andai a tastare le tende rosse; erano di pura seta.
- Adoro tutto questo, - mormorai, avvicinandomi alla libreria.
I volumi erano principalmente di legge, quali il codice penale e quello civile, ma c’erano anche molti saggi, la raccolta completa delle opere di Nietzsche, di Seneca, di Freud e dizionari di francese, italiano, inglese e spagnolo.
- Devi piacergli molto, - continuò mia madre, andando a prendere la bottiglia di champagne che era stata posta nel porta-vivande vicino all’angolo tra la finestra e la scrivania - per averti messo su un posto così.  Mince! C’est un Dom Perignon!
Detestavo quando mia madre parlava in francese.
Certo, sapevo parlarlo anche io e la capivo, ma non credo che per dire “Caspita! È un Dom Perignon!” ci sia bisogno assoluto del francese.
Si può usare tranquillamente la propria lingua.
- Davvero? - le risposi, con poco interesse.
- Sì.
Si era accorta del suo errore.
Mia madre era di Montrèal, e spesso e volentieri, quand’ero più piccola, a casa mi parlava in francese.
All’inizio ero contenta, ma poi mio padre mi mise in testa che bisognava parlare solo la propria lingua in casa, e così decisi che, se proprio volevo imparare il francese, avrei frequentato un corso e fatto smettere anche a mia madre di parlarlo in casa.
Solo che, ogni tanto, lei si dimenticava di questa nostra piccola regola.
Ma io no.
Io non potevo dimenticarmene.



Angolino dell'autrice ^-^

salve gente! 
sono contenta che siate arrivati fin qui, e conto di postare i prossimi capitoli in giornata o comunque entro la fine della settimana.
ricordate che comunque critiche, negative, positive oppure neutre, sono sempre gradite!
alla prossima!

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Capitolo 2
*** Mettimi alla prova ***


Mentre io e mia madre ci gustavamo il nostro champagne accoccolate sui comodi e lussuosi divanetti color rosso scuro nel mio ufficio, in quello di Crossway stavano sorgendo problemi molto seri.
E quando dico “problemi molto seri”, intendo la mia primissima causa come avvocato.
Cooper reggeva in mano un plico sotanzioso dalla copertina color panna, mentre Crossway rimaneva seduto alla sua scrivania fissando il vuoto.
- Dobbiamo fare qualcosa! - esclamò William, battendo un pugno sul tavolo - è un’occasione che non può sfuggirci stavolta.
Il capo alzò lo sguardo su di lui, una maschera di perplessità sfumata di rabbia.
 - Dico, da che spacciatore ti servi ultimamente, Will? - gli rispose di botto, alzandosi bruscamente dalla sua sedia girevole, che venne spinta indietro finchè sbattè contro la parete - Ti ascolti quando parli?
- Signor Crossway, pensi a che cosa vorrebbe dire per lo studio: sarebbe un colpo enorme, sia vincerla che perderla.
- Io non prendo una causa per perderla, Bill. Dovresti saperlo bene.
Non era mai un buon segno se il capo lo chiamava Bill; lo imparai da Pam.
Non seppi mai fino in fondo il perché, mi pare perché uno dei figli di Crossway, che di nome faceva proprio Bill, si drogava e poi morì di overdose in un bagno della stazione… ma l’ho già detto, non lo ricordo.
Ad ogni modo, Cooper rimase in silenzio, e Philip riprese la sedia e si rimise seduto.
- È una bella gatta da pelare… - osservò sottovoce, massaggiandosi le tempie - Lasciami solo, Bill. Devo pensare.
Cooper uscì dal suo studio a testa bassa, e mentre camminava mi urtò nel corridoio, facendomi quasi cadere.
Gli rivolsi uno sguardo scocciato e arrabbiato, sbuffando.
- Che c’è? - sbottò lui.
- Guardi dove mette i piedi, - gli dissi, guardandolo di sbieco.
- Guardi dove mette i suoi, piuttosto - mi rispose, oltrepassandomi.
Che razza di maleducato, pensai, mentre mi ripulivo il vestito blu e mi ravviavo i lunghi capelli castani.
- Samantha?
Pam mi stava chiamando dalla sua scrivania, reggendo in mano una circolare.
Quando arrivai, me la mostrò; si trattava di un breve programma della settimana.
- Vedi, domani conoscerai tutto il personale, - mi spiegò, inforcando i suoi occhiali dalle lenti enormi - saprai di cosa ti occuperai e che cosa fanno gli altri.  La sera, poi, ci sarà una festa di benvenuto per te giù, nella sala delle feste.
- Davvero? - le chiesi, meravigliata.
- Certo. È un’usanza dello studio, inventata e mantenuta dal signor Crossway…
Pam aveva smesso di parlare, fissando un punto oltre le mie spalle.
Mi voltai, e vidi che proprio il signor Crossway stava radunando tutti gli avvocati del piano.
- Che succede? - domandai ancora, tornando a guardare la mia segretaria.
- Non ne ho la più pallida idea… - rispose questa, osservando il rapido via vai di gente.
Adesso, gli avvocati stavano entrando nello studio del capo, che si richiuse la porta alle spalle.
Dall’ascensore, stava arrivando a grandi passi Cooper, seguito da altri due uomini.
- Will, ma che… - cominciò Pam, ma lui rispose prontamente prima che lei potesse terminare la frase.
- Non posso dire nulla, - disse infatti - dunque non chiedermi nulla. Voi, andate, vi starà aspettando.
I due che erano arrivati con lui si avviarono verso lo studio di Crossway, lasciando noi tre a guardarci in faccia.
E, ovviamente, lasciando me libera di rendere al mio nuovo collega pan per focaccia.
- Ma le pare il modo? - gli dissi, indicando i due che si erano appena congedati senza alcun saluto.
- Non s’impicci, - tagliò corto lui, girando i tacchi.
- Lei è un gran maleducato.
Si voltò, alzando le sopracciglia.
Non sopportavo quell’atteggiamento autoritario e infantile che stava assumendo nei miei confronti: non lo meritavo.
- Come dice?
- Mi ha capito, lei è un maleducato.
Si avvicinò di nuovo, tanto da poter sussurrare la sua risposta e far sì che venisse udita solo da me.
- Non dureresti venti minuti qui dentro, - mi sorrise, un ghigno maligno e furbo.
- Sono l’avvocato migliore che si può trovare qui in giro, - gli risposi, restituendogli il sorriso - mettimi alla prova.
Il suo ghigno svanì per un attimo, per riformarsi qualche secondo dopo.
Tenendolo ben stampato sul suo viso, si avviò nuovamente verso l’ascensore, e osservai le porte che di chiudevano.
Oh sì, pensai, mettimi alla prova.

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Capitolo 3
*** Il primo errore ***


Crossway provò a schiarirsi la voce varie volte per ottenere silenzio nel suo studio, ma ogni singolo tentativo servì solo ad aumentare ulteriormente il volume.
Erano tutti in piedi, e tutte le loro facce erano un misto di curiosità e preoccupazione; il capo non aveva mai convocato l’intero piano d’urgenza.
O meglio, non aveva mai convocato l’intero piano in generale.
Il tavolo delle riunioni, grande abbastanza perché ci potessero trovare posto tutti loro, era inutilizzato, giacchè tutti stavano in piedi attorno ad esso, aspettando un ragguaglio su quella strana e nuova situazione.
Per tutta risposta, Crossway gettò il fascicolo color panna su di esso, attirando l’attenzione degli avvocati.
- Cos’è? - chiese quello che, imparai il giorno seguente, era il coordinatore degli affari tra lo studio americano e quelli medio-orientali, Alì Khal Jamahl.
Crossway si pose a capotavola senza però sedersi, e si appoggiò alla sua scrivania.
- Quello, signori miei, è la nostra rovina e benedizione insieme - spiegò, indicando il plico.
Gli altri si avvicinarono più incuriositi, e si levò nell’atmosfera tesa un lieve brusio.
- Ma cos’è? - chiese ancora una donna, la coordinatrice dei clienti sud-americani e spagnoli, Maria Juana Perez Rodriguez.
- Leggete.
Nessuno ebbe il coraggio di prendere in mano quei fogli, e fu solo quando Cooper entrò nella stanza che appresero cosa contenessero in realtà.
- Ha chiesto la libertà vigilata… di nuovo, - iniziò, attirando ancor più attenzione di quanta non ne avesse attirata Crossway lanciando il fascicolo sul tavolo.
- Non può, - intervenne nuovamente Khal Jamahl, prendendo finalmente i fogli - sa che non gliela concederanno mai.
- Cero che lo sa, - gli rispose il capo - ma ci ha chiesto una mano comunque.
- Fatemi capire, - disse Annette Belle-Fille, coordinatrice di clienti francesi e paesi dove questa era la lingua madre, come per esempio il Canada - questo si è fatto quarantadue anni di galera, e adesso, tutt’un tratto, viene fuori che è pentito e vuole la libertà vigilata?
Non c’era risposta per quella domanda, come non c’era una spiegazione per l’improvviso pentimento del soggetto in questione, ma a nessuno importava molto.
- Abbiamo cinque mesi per presentare la richiesta di un nuovo processo, - continuò Crossway, dopo qualche secondo di riflessione - e qualcuno, ovviamente, se ne dovrà occupare.
Nella sala cadde un silenzio di tomba, che non troveresti nemmeno in un cimitero sperduto sui monti alle tre del mattino.
Nessuno voleva entrarci.
Matematico.
Lentamente, Cooper si chinò sul suo capo e gli sussurrò all’orecchio: “la ragazza nuova”.
Crossway si voltò di scatto, un bagliore indecifrabile nel suo sguardo.
- Lasciateci soli, signori - intimò ai collaboratori, sorridendo - vi informerò non appena ci saranno novità. Grazie.
Quando la marmaglia si fu dispersa e i due furono rimasti soli, Cooper iniziò ad esporre le sue ragioni.
- È appena arrivata, - osservò - è giovane, capace… sarebbe un colpo da maestro.
- Proprio perché è appena arrivata non possiamo darle questo caso, - ribattè Crossway, allargando le braccia - ci vuole qualcuno con un bel po’ d’esperienza in più…
- E se quel “qualcuno” dovesse perdere la causa? La gente inizierà a dire che il nostro studio non è più il migliore…
- … ma se mandiamo lei, invece, avremmo la scusa dell’inesperienza… - concluse per lui il capo, grattandosi il mento.
- Esatto, - rispose Cooper, sorridendo soddisfatto.
Crossway sospirò, cominciando a misurare a grandi passi la stanza.
Ci sta pensando seriamente, pensò Cooper.
Alla fine, dopo una manciata di minuti di camminata, il capo si fermò e tornò a guardare l’avvocato.
- Sei sicuro che possa funzionare? - gli chiese, ancora un po’ dubbioso.
- Ovvio - gli rispose l’altro, con una nota di sicurezza di troppo.
- Allora andiamo e riuniamo gli altri, - continuò il più anziano - dobbiamo preparare un incartamento decente.
 
 
 
 
 
 
La giornata stava volgendo al termine; potevo vedere il sole che si tuffava dietro lo stadio, e la gente che cominciava ad ammassarsi per le strade per andare a vedere i Lakers contro i Celtics.
Era uno spettacolo maestoso, a cui difficilmente mi sarei abituata.
Mia madre se n’era andata poche ore prima per sbrigare delle commissioni urgenti, ed io ero rimasta sola in compagnia di un tv al plasma gigante e una libreria piena zeppa: non male, come rifugio.
Presi il mio cappotto marrone e uscii dall’ufficio, dirigendomi verso la scrivania di Pam, che stava rassettando un po’.
- Buona serata, - le augurai, sorridendole.
- Anche a te, - mi rispose, sorridendo.
Quando giunsi all’ascensore, premetti il pulsante zero e osservai le porte chiudersi con una certa felicità, ma mentre stavano per toccarsi si riaprirono di nuovo.
Velocemente, William Cooper entrò e premette il mio stesso pulsante.
Questa volta, le porte si chiusero senza problemi ed iniziammo la nostra discesa.
Nessuno dei due parlò fino al terzo piano, quando, con una falsa cortesia, lui mi chiese come mi trovassi nel mio nuovo ufficio.
- Molto bene, - risposi, un tantino scocciata.
- Domani conoscerà tutta la squadra, - continuò senza togliersi quel sorriso ebete che aveva in faccia.
- Già. Devono essere tanti, immagino… da quel che ho visto oggi.
- Certo. C’è un coordinatore per ogni continente. Si divertirà, lo so.
Per mia estrema fortuna, l’ascensore raggiunse finalmente la destinazione che avevamo indicato e le porte si aprirono, lasciandoci liberi di andarcene.
La sera, a casa nel mio letto, ripensai alla giornata e a quella successiva, domandandomi perché Cooper avesse così tanta voglia di sorridere.
Chi lo sa, pensai, pochi secondi prima di addormentarmi, lo scoprirò domani.
- Signorina Wilson, sono lieto di presentarle il nostro team al completo.
Il signor Crossway mi aveva accompagnata nel suo ufficio per presentarmi tutti gli avvocati che, da quel momento in avanti, sarebbero diventati miei colleghi.
- La signorina Maria Juana Perèz Rodriguez, coordinatrice dei clienti del Sud America e Spagna.
La donna, con un forte accento messicano, aveva lunghi capelli neri ed occhi verdi, la tipica bellezza ispanica.
- Dunque, lui è il signor Alì Khal Jamahl, e coordina i clienti del Medio Oriente, mentre il signore seduto accanto a lui è Kim Ling, coordinatore del settore cinese e giapponese… e lei è la signora Tabitha Salamankha, e coordina tutti gli altri paesi asiatici.
Khal Jamahl aveva tratti tipicamente medio-orientali, probabilmente era un iraqueno, ma non riuscivo a distinguere la provenienza di Kim Ling tra giapponese oppure cinese.
Tabitha, invece, era chiaramente indiana.
- Per ultimi abbiamo la signora Anne Rogan, che si occupa del settore europeo insieme a Annette Belle-Fille, che copre Francia e paesi francofoni, e Mustapha Kahlì, che si occupa del settore africano. Il signor Cooper e sua madre li conosce già, ovviamente…
Ovviamente, risposi mentalmente.
Lanciai un sorriso falsissimo a Cooper, che contraccambiò, e poi risposi con uno più vero a quelli che mi stavano dando la Rogan, Belle-Fille e Kahlì.
- Bene, signori - esclamò qualche secondo dopo Crossway - vi pregherei di lasciarci soli: abbiamo una questione importante da risolvere.
Esattamente come il giorno prima, gli avvocati se ne andarono, lasciando me, Crossway e Cooper da soli.
- Samantha, - iniziò il capo, aggirando la sua scrivania e avvicinandosi a me.  Notai che reggeva un plico color panna in mano.
- So che è solo il suo secondo giorno, ma qui c’è davvero bisogno di lei.
Quell’affermazione mi lusingò non poco, e mi portò a gettare un’occhiata piuttosto eloquente a Cooper, che tuttavia rimase in silenzio.
Non fece ruotare nemmeno gli occhi.
- Sono qui per questo, - risposi, con tono efficiente.
- E ne siamo contenti. Dunque, ecco gli incartamenti del suo primo caso, - mi disse, porgendomi i fogli - li legga con calma nel suo ufficio, e se dovesse aver bisogno di eventuali chiarimenti, non si faccia scrupoli a venire da me oppure da Will.
- Certamente, - sorrisi.
- Buon lavoro, allora.
Uscii dall’ufficio soddisfatta, volenterosa e desiderosa di mettermi finalmente alla prova.
Ma avevo fatto un errore: non avevo letto il nome degli incartamenti.
Un colossale errore.

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Capitolo 4
*** Ha già problemi col caso? ***


Avete presente quando uno è convinto di aver svolto una verifica alla perfezione ed è sicuro al cento percento di aver preso un bel voto, ma poi, quando la verifica gli viene riconsegnata, vede che ha preso quattro?
Ecco, quella fu la mia esatta sensazione quando lessi il suo nome sul plico, una volta seduta alla mia scrivania nel mio studio.
Charles Manson.
Tanto valeva darmi la difesa di Satana in persona, e tanti saluti.
Risi di quella mia battuta mentale, e voltai la prima pagina.
In realtà, le pagine non erano nulla più che un resoconto della vita di Manson, della Famiglia, degli omicidi.
Solo le ultime sette parlavano del processo, e di certo non mi servivano a molto.
1970, inizio del processo, lo Stato contro Charles Manson; egli si presentò con una X incisa sulla fronte che, in seguito agli anni di prigionia, sarebbe diventata una svastica.
Il solo dibattimento durò un anno e, anche se Manson non ammise mai di aver compiuto gli omicidi, un membro della Famiglia, Susan Atkins, rivelò che oltre agli omicidi già compiuti avevano in programma altre uccisioni di celebrità quali, per esempio, Liz Taylor e Frank Sinatra.
29 marzo 1971, il giudice stabilisce la condanna a morte per tutti i membri della Famiglia, sentenza ribaltata l’anno seguente in quanto la California, nel 1972, abolì la pena di morte.
La condanna, dunque, si trasformò in ergastolo.
25 maggio 2007, nel carcere di Corcoran viene respinta l’undicesima udienza per la libertà vigilata di Manson, il quale annunciò che, nel 2012, avrebbe chiesto la dodicesima.
All’alba dei suoi settantotto anni.
Mi misi le mani nei capelli, continuando a leggere il breve resoconto per niente dettagliato (e ringrazio ancora chiunque l’abbia scritto per questo) sugli omicidi.
Quando finalmente riuscii a capire che starmene lì a commiserarmi sarebbe stato totalmente inutile, presi in mano gli incartamenti e mi diressi verso l’ufficio di Crossway.
“Nossignore” pensavo di dirgi, con tono risoluto “non se ne parla minimamente. Nemmeno per scherzo. È persa in partenza, stavolta”.
Proprio mentre m’immaginavo in piedi davanti al mio nuovo capo intenta a spiegargli il mio punto di vista, qualcuno mi urtò, facendomi cadere i fogli di mano.
Quando alzai gli occhi, William Cooper mi stava guardando sogghignando.
- Lei proprio non è capace di camminare! - ringhiai tra i denti, raccogliendo il fascicolo.
- E lei ha già problemi con il caso, a quanto vedo.
Non gliel’avrei data vinta nemmeno sotto tortura, figuriamoci lì, in mezzo al corridoio, sotto le occhiate maliziose delle segretarie curiose.
- Per niente, - risposi infatti, spazzolandomi il vestito di taffetà nero che avevo comprato pochi giorni prima da Macy’s - stavo giusto andando dal signor Crossway per chiedere il numero di telefono di Corcoran.
Lui parve interdetto dalla mia risposta, probabilmente si aspettava una confessione del tipo “non posso farcela” oppure “perderò sicuramente”.
Ma aveva sbagliato a capire: quelle parole non esistono, non nel mio vocabolario.
- Giusto, - convenne infine - allora, buona fortuna. Chiami, se dovesse avere bisogno.
Aveva aggiunto l’ultima frase tornando a ghignare: anche lui sapeva che non l’avrei chiamato, se non per disperazione.
L’aveva detto solo per sottolineare il fatto che ero dannatamente fottuta.
Così, ostentando una perfetta calma che tirai fuori non so da dove, andai da Crossway e gli chiesi, con tutta la gentilezza che mi venne fuori dallo stesso posto in cui avevo preso la calma qualche momento prima, il numero del carcere di Corcoran.
Nascondendo bene la sua perplessità, il capo mi porse un bigliettino e mi disse che avrei potuto dire a Pam di chiamare per me, se fosse stato necessario.
Ringraziai e uscii, diretta nel mio ufficio.
Decisi che quello era il mio caso, e dunque dovevo risolverlo da sola.
A Corcoran mi rispose una guardia, che dopo qualche secondo di conversazione passò la linea al direttore stesso, Mark Weller.
Il signor Weller, al telefono, sembrava una persona cordiale e disponibile, specialmente quando gli dissi che chiamavo per il caso Manson.
- Non ci sono problemi, - mi disse al telefono, con una voce sorprendentemente tranquilla - può venire qui anche domani. Facciamo alle undici, così ha tutto il tempo per arrivare, signorina Wilson.
- La ringrazio molto, signor Weller. A domani.
- A domani.
 
Quella sera andai a letto a mezzanotte, dopo aver passato una serata in compagnia di incartamenti, documentari e pagine internet tutte riguardanti Charles Manson… e aver rinunciato alla festa a cui dovevo partecipare assolutamente.
- La farò rimandare, - mi promise Pam, dopo che le annunciai il caso che mi avevano appioppato - non c’è nessun problema. Chissà che possiamo trasformarla in una festa per la vittoria della tua prima causa!
Mi dispiaceva perdere il party, ma Charles Manson aveva l’assoluta priorità su tutto e tutti.
Ormai sapevo la sua storia meglio di lui!
Benchè fossi veramente stanca e mi rendessi conto che la mattina dopo mi sarei dovuta sobbarcare tre lunghe ore di treno (avevo scelto quel mezzo di trasporto per studiare ancora meglio il caso e prepararmi un discorso), non riuscivo ad addormentarmi.
Mi rigiravo continuamente, in cerca di una posizione più comoda, ma quella che assumevo mi faceva solo stare più scomoda di prima.
Se tenevo gli occhi aperti non riuscivo a vedere altro che buio, se gli chiudevo vedevo la svastica sulla fronte di Manson.
Avevo paura? Sì.
Anche se ci sarebbero state delle guardie a sorvegliarci, avevo paura, ma… non avevo paura di lui, cioè… non avevo paura di quel che poteva farmi o di quel che aveva fatto.
Avevo paura che avrebbe potuto farmi pietà.
Avevo paura che, dopo averlo incontrato, avrei sviluppato davvero la voglia di fare uscire il più spregevole (e malato) killer di tutta l’America dal carcere di Corcoran.
Quando arrivai a rendermi conto di questo fatto, mi addormentai improvvisamente.
 
 
Alle otto e trenta del mattino, mi ritrovai sul binario due della Union Station, aspettando l’espresso per Corcoran, che arrivò provvidenziale alle otto e quaranta, con cinque minuti d’anticipo.
Durante il viaggio, anche se con le palpebre molto pesanti, ripassai il caso Manson e Famiglia.
La sera prima ero riuscita a stampare molte pagine utili per le mie ricerche e a prendere parecchi appunti da alcuni documentari trovati su internet, con testimonianze prese direttamente da una pentita della Famiglia, Linda Kasabian.
Ammetto che, quando il macchinista annunciò l’arrivo a Corcoran, il mio cuore fece un balzo enorme.
Quando uscii dalla stazione, chiamai un taxi che mi portò direttamente davanti al carcere.
Il numero 900 di Quebec Avenue erano due edifici bianchi, uno diviso dall’altro, posti dietro ad una torre di controllo rettangolare dal tetto a punta nero; il tutto era circondato da un’alta rete di filo spinato.
Il taxi mi lasciò vicino all’ingresso, dove mi attendevano due agenti armati fino ai denti, che mi scortarono nell’ufficio di Mark Weller.
Il signor Weller, scoprii, era sulla cinquantina, un signore eccentrico e simpatico, che stonava molto in quell’ambiente.
Una volta nel suo ufficio, dopo che ebbi consegnato cellulare e portafoglio e fatto controllare la mia valigetta, attesi che le guardie portassero il mio cliente nella sala adibita ai colloqui.
Dopo dieci minuti, un uomo dal taglio di capelli militare mi scortò lì, dove Manson mi stava aspettando.
Stava fumando una sigaretta, e aveva già appestato la sala con il fumo.
Quando avvertì la mia presenza, si voltò a guardarmi.
Sì, la svastica c’era ancora.
Sì, aveva gli occhi di un malato.
Sì, era invecchiato terribilmente.
- Buongiorno, - mi salutò, sfoderando un sorriso smagliante.
Gli mancava anche qualche dente, e quelli che aveva o erano mezzi rotti oppure ingialliti per colpa del fumo.
- Buongiorno, - sussurrai, mentre mi sedevo difronte a lui.
Appoggiai la mia valigetta sul tavolo, e ne feci scattare le serrature.
- Avvocato, immagino - continuò, dando uno sbuffo di fumo verso il soffitto.
- Samantha Wilson, sono il suo avvocato - affermai, sistemandomi sulla sedia.
Lui annuì, continuando a fumare.
- Dunque si occuperà lei del mio caso, - disse, appoggiandosi allo schienale di una malandata sedia di legno.
- Esatto - iniziai ad estrarre le carte dalla mia valigetta.
Annuì di nuovo, e spense la sigaretta.
- Allora, signorina Wilson - esclamò, facendomi sobbalzare - come siamo messi?
Aveva urlato.
Cavolo, se aveva urlato!
- Beh, - riuscii a biascicare, cercando di calmare i battiti del mio povero cuore - direi che potremmo cavarcela…
Mi guardò.
Non vidi un assassino nei suoi occhi, ma vidi un sacco di altre cose.
Vidi un bambino ingenuo, vidi un ammalato di schizofrenia, vidi un pazzo delirante, vidi un leader; ma non vidi un killer.
Nossignore.
- Splendido!
Aveva urlato di nuovo, ma stavolta non sobbalzai.
Ormai ero pronta, avevo capito su che tattica puntare.
- Sente le voci? - gli chiesi, chinando leggermente il capo verso destra.
Lui stirò le labbra in un sorriso.
Un sorriso da vecchio, da vecchio pazzo.
- Lo so, che vuole dire.
Sussurrava.
Aveva cambiato umore: da euforico era diventato tranquillissimo.
- Sì, sono malato. Sono malato da tutta la vita, signorina Wilson. 
- Allora perché non l’ha detto prima?
Non rispose subito, ma si vedeva che aveva la risposta sulla punta della lingua.
È che lui voleva entrare nel mondo dello spettacolo, quindi stava dando un po’ di pepe alla scena.
E gli riusciva bene, eccome.
Se lo avessero preso, avrebbe fatto carriera.
E avrebbe ucciso molte meno persone.
Si sporse in avanti, come per confidarmi un segreto, tuttavia non mi mossi.
Notai che anche le guardie si erano messe in allerta, ma nemmeno loro si erano mosse.
Non ancora.
- Perché ho capito solo ora che ho fatto male. Perché sono pentito. Perché ho capito che devo curarmi.
Abbassai le spalle, interdetta.
Quella risposta non me l’aspettavo, dico davvero.
- Vuole uscire… per curarsi?
Il mio tono, più che sorpreso, suonò scioccato.
Lui rise.
- Pazzesco, eh?
- Già…
Tornai a sussurrare, fissando il vuoto.
Avevo una linea da seguire, avevo una pista.
- Bene, credo che… per oggi possa anche bastare. Tornerò domani. Arrivederci, signor Manson.
- Ti prego, chiamami Charlie.
 
Arrivai a Los Angeles alle cinque del pomeriggio, e quando giunsi al quinto piano dello stabile dove risiedeva “Benson&Clarks” fui accolta da un turbinio di domande.
Ma la mia mente, in quel momento, era lontana da loro.
La mia mente, in quel momento, ruotava attorno a due parole.
Chiamami Charlie.
 

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Capitolo 5
*** Schizofrenia ***


A Los Angeles avevo consultato un medico, il dottor Elijah Torres, che aveva acconsentito ad una visita di Manson per stabilirne lo stato schizofrenico, a patto che anche la prigione di Corcoran avesse dato la sua disponibilità.
Il signor Weller, malgrado il tono titubante, diede il via libera per una visita medica stabilita per il giorno 3 dicembre 2011.
Nel frattempo, mi aveva spiegato, avrei potuto far visita a Manson quando avrei voluto.
Tornai dal mio nuovo cliente per circa tre volte a settimana, spiegandogli la mia linea nei minimi dettagli.
Lui annuiva, non so per quanto potesse essere cosciente di ciò che gli stavo spiegando, ma asserì che, nelle motivazioni dell’udienza, dovevo assolutamente dire “riabilitazione”.
- O qualsiasi parola che ti passi per la testa che sia simile a questa, - mi spiegava ogni volta, sempre con lo stesso tono che definivo invasato - perché io voglio guarire.
Lui voleva guarire.
Io volevo vincere e umiliare Cooper.
Le tre cose potevano combaciare alla perfezione.
 
 
Il tre dicembre presi il treno come facevo ormai da poco più di un mese e andai alla prigione di Corcoran insieme al dottor Torres.
Quando arrivammo, nella sua cella Charlie stava cantando qualcosa.
Non riuscii a capire cosa fosse, ma s’interruppe appena ci vide.
Inaspettatamente, quando il dottore lo portò nell’infermeria per la visita, mi scoprii in ansia.
Qualcosa in me stava cambiando.
 
 
 
- Le comunicherò i risultati in treno, non voglio che nessun altro li conosca a parte me, lei e Manson.
Così mi aveva detto il dottor Torres, dopo due buone ore rinchiuso in quella saletta con Charlie.
Annuii silenziosa, salutando il mio cliente con la mano e un sorriso radioso, gesti che lui ricambiò volentieri.
Il Los Angeles Express, alle sei del pomeriggio, era deserto, il che era un bene sia per me che per il dottore.
- Vede, - mi disse, mostrando alcuni disegni e scritte fatti da Charlie - gli ho detto di scrivere tutto quello che gli passava per la mente, e questo è quel che ha fatto.
Il foglio era pieno di frasi sconesse, parole a caso, scritte per di più in una calligrafia incomprensibile e con diversi colori.
Si distinguevano, in una calligrafia a dir poco atroce, parole come “Dio, Gesù, Satana, Reincarnazione, Morte, Vita, Discepoli, Famiglia, Charlie”.
- Quanto è grave, dottore? - domandai, senza distogliere lo sguardo dai fogli.
- Difficile a dirsi, - sospirò l’uomo, accarezzandosi il mento - la schizofrenia peggiora ogni giorno, indipendentemente dall’individuo. Ha parlato da solo, si è messo a cantare… non so davvero cosa dirle.
- È malato, quindi?
- Su questo non c’è dubbio.
Mi appoggiai al sedile, sospirando.
Uno a zero per Samantha Wilson, lo stadio è in delirio, signori.
La palla ritorna al centro.
- Crede che potrò invocare l’infermità mentale in tribunale?
- Ovvio, ma non credo che le daranno retta, anche con le analisi in mano. Gliele consegnerò non appena avrò scritto un’ulteriore diagnosi personale sul paziente.
- Perfetto.
Quando, quella sera, mi distesi a letto, pensai a Charlie più del solito.
Non ero totalmente felice perché era davvero malato, ma anzi ero triste proprio per questo fatto.
Dunque, mentre mi trastullavo in questi pensieri, presi il telefono e composi il numero di mio padre, che rispose al primo squillo.
- Tesoro, qualcosa non va?
Domanda scontata.
Lui sapeva già quando aveva risposto, che c’era qualcosa che non andava, e sapeva anche cosa.
Ma la sua nuova “umanità”, chiamiamola pure così, lo stava catturando più di quanto si era aspettato.
- Sì. Sono preoccupata.
Sospirò.
Non gli piaceva quando assumevo quell’atteggiamento, quando mi buttavo giù senza combattere.
- Vinci. Tiralo fuori di lì. Io credo in te, Sam. 
E appese.
L’ho detto anche prima, di poche parole.
E sì, anche stavolta mi bastavano solo quelle.
 
 
                              * febbraio 2011, due mesi e mezzo prima dell’udienza *
 
 
- Allora, Charlie, riprendiamolo per l’ultima volta.
Gli stavo parlando da più di due ore, ma quel giorno era uno delle sue “ricadute”, come diceva il dottor Torres.
Ricaduta” era il termine con cui il dottore definiva i giorni no del mio cliente.
Lo sorpresi a parlare da solo più di una volta, a fissare il vuoto con occhi smarriti, a storcersi le mani senza una qualche ragione.
- 9, 10 e 26 agosto 1969, dov’eri, Charlie? Sei andato con loro?
Erano i giorni degli omicidi.
Da quello che avevo letto e visto nei documentari, Charlie non c’era mai stato, era sempre rimasto al ranch col resto della Famiglia.
Ma era lui che doveva dirmelo.
- No… - mormorò, sempre fissando il vuoto.
- Dunque tu non hai mai fatto niente a quelle persone, giusto?
- Ho detto agli altri di ucciderle… 
- Ma materialmente non hai fatto nulla, no?
Scosse la testa, poi si girò improvvisamente dietro di sé.
- Cosa c’è? - mi allarmai, cercando di individuare quel che aveva attirato la sua attenzione.
- Niente… Niente!
Aveva urlato.  
Di nuovo.
Continuava ad urlare.   
Sempre.
Non dico che mi spaventasse, ma mi preoccupava.  
Mi preoccupava molto.
Stava peggiorando.
- Io vado, Charlie. Torno tra qualche giorno, ok?
Annuì, fissando il tavolo.
Rimasi a guardarlo per qualche secondo, per vedere se si riprendesse da quello stato catatonico, ma invece rimase lì, imbambolato.
Sul treno di ritorno a casa, per la prima volta piansi.
Un vecchio signore si accostò per chiedermi se avessi bisogno di qualcosa, ma gli risposi che stavo bene, era solo un crollo nervoso.
Piansi perché avevo paura, visto che Charlie stava peggiorando.
Piansi perché sapevo che avrei perso la causa.
Piansi perché sapevo che, se l’avessi persa veramente, Charlie non avrebbe mai potuto curarsi.
Piansi perché una persona che voleva tornare a vivere sarebbe morta agonizzante in una cella di due metri per tre, sotto gli sguardi noncuranti della sorveglianza.
 
 
 
 
Una settimana dopo, Charlie si era ripreso.
Quel giorno di delirio schizofrenico acuto era solo un brutto ricordo, che lui peraltro non ricordava.
Potei spiegargli tranquillamente per la quarantesima volta la mia linea da seguire, e stavolta credo che l’abbia ascoltata attentamente e l’abbia assimilata.
- Io credo in te, Samantha.
Alzai lo sguardo verso di lui, incontrai i suoi occhi nocciola.
Sembrava lucido.
- Davvero?
- Davvero davvero.
Suonava tanto come una conversazione di bambini dell’asilo, ma… non so, mi lasciò una sensazione strana, e me la lascia tutt’ora, quando ci ripenso.
Nel frattempo, sui giornali la mia faccia e quella di Charlie stavano spopolando.
Montagne di articoli, cronologie sulla vita di Manson, sulla mia, chi eravamo e cosa stavamo facendo.
Parecchie volte trovai nugoli di giornalisti, armati di macchine fotografiche, radio e videocamere ad attendermi sulla porta di casa, ansiosi di sapere che cosa stesse succedendo, se mi sentivo sicura, perché io.
“Perché sono l’unica che può farlo” risposi, e sento che sia un concetto vero.
Ma è anche vero che, giorno dopo giorno, l’ansia per il processo aumentava. 
 
 
                                              * 6 marzo 2011, un mese esatto prima dell’udienza *
 
 
 
- … e poi portarono via prima Susan, che ha fatto la cretina con una compagna di cella. Le ha detto tutto: Tate, LaBianca. Così hanno preso me, Tex, Patricia, Leslie e Linda. Tutto qui. Ecco com’è andata veramente.
Charlie, dopo lunghe pressioni, si era deciso a raccontarmi per filo e per segno la sua cattura.
- Come mai Linda ha voluto trattare e gli altri no?
- Chi lo sa. Se n’è andata.
- Non sai dove?
Fece spallucce.
Non gliene fregava nulla, di dove fosse andata Linda, fosse anche morta o viva.
Tanto lei era nascosta, e non sarebbe mai uscita.
L’avevo sentito in quel documentario di History Channel.
- Capito… Charlie, manca solo un mese al processo, lo sai, no?
- Certo.
- Da adesso ho accesso negato a questo posto. Almeno fino al 6 aprile.
Mi guardò perplesso.
- La prigione, per me, è off-limits finchè non ci sarà l’udienza. Così vuole la legge. Mi dispiace.
Sbuffò.
Era un gesto da bambino, che mi portò a sorridere spontaneamente.
Era peggiorato nell’ultimo mese, lo si vedeva dalle rughe che gli si erano formate su tutto il viso, in particolare accanto agli occhi e agli angoli della bocca.
Ma, dopotutto, aveva sempre settantotto anni.
- Capisco…
Si alzò dalla sedia, che scricchiolò terribilmente.
Non ebbi paura quando si avvicinò, e risposi al suo abbraccio come fossi stata una nipotina che sta per partire in un altro continente che salutava il nonno.
Inutile dire che piansi anche quel giorno, sul treno.

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Capitolo 6
*** Il Processo ***


* 6 aprile 2011, carcere di Corcoran, otto e quaranta del mattino *
 
 
Osservai Charlie camminare flebile dietro una scorta di gorrila armati ed entrare in uno dei cellulari della polizia, grossi furgoni blu dai finestrini oscurati, che non capirò mai perché si chiamino “cellulari”.
Io salii sulla macchina del signor Weller, che mi scortò personalmente in tribunale, aggirando abilmente le schiere di giornalisti che si formavano davanti a noi come funghi in autunno.
Sospiravo continuamente, cercando di calmarmi, ma sentivo che sarei scoppiata in lacrime per la tensione di lì a pochi secondi.
Il cuore mi martellava nel petto, e peggiorò quando raggiungemmo l’entrata del tribunale.
Fui sommersa da un’ondata assurda di flash, e rilasciai poche fugaci parole, per poi rifugiarmi all’interno dell’edificio di marmo, dove i giornalisti, per mia grande fortuna (e, naturalmente, per quella di Charlie) avevano accesso vietato.
Charlie, con gli agenti che l’avevano portato al furgone della polizia, mi stava già attendendo davanti al portone dell’aula numero quattro, guardandosi intorno sorridendo.
Probabilmente era dagli anni Settanta, quando aveva smesso di uccidere, che non vedeva tanto lusso.
- Tutto bene? - sussurrai, avvicinandomi.
- Eccome! - mi rispose raggiante, ma senza gridare.
- Siamo pronti? - chiese la guardia che sorvegliava l’ingresso.
Annuii, e lui ci aprì le porte.
Al nostro passaggio, l’aula gremita si voltò a guardarci.
Un mormorio si levò nell’aria fresca, sopra il ronzio del condizionatore.
Io e Charlie ci sedemmo al tavolo a destra, occheggiando l’accusa: due avvocati vestiti come pinguini che ci guardavano di sbieco.
Feci un cenno col mento nella loro direzione, tornando a soffermarmi sulla giuria e poi di nuovo su Charlie.
- Nervoso? - gli chiesi, tirando fuori dalla mia inseparabile valigetta di pelle alcuni appunti.
- Certo - rispose con sincerità - e tu?
- Sì, - ammisi, rimettendo in ordine le carte.
In quel momento, una guardia entrò e si posizionò proprio di fronte al posto del giudice.
- Tutti in piedi.
Obbedimmo.
Per forza, non avevamo altra scelta.
- Dichiaro aperta la seduta della Corte Civile e Distrettuale della Contea di Corcoran.  Presiede il giudice Michael John Harvey.  Che Dio protegga questo Stato e questa onorevole corte.
L’aveva detto in tono piatto, melenso, probabilmente perché ripeteva la stessa frase da anni.
A giudicare dalle rughe che, come quelle del mio cliente, gli solcavano il viso e le mani, doveva essere così.
A quel punto, il giudice Harvey, un ometto bassino e stempiato, entrò e si posizionò al suo posto.
- Grazie, cancelliere. Sedetevi, prego.
Aveva una voce profonda, malgrado non superasse il metro e sessantacinque.
Dopo aver obbedito al suo stesso ordine, il giudice procedette come da programma.
- L’udienza è presentata dal signor Charles Milles Manson a richiesta della libertà vigilata. Il signor Manson è rappresentato dalla signorina Samantha Wilson, mentre la controparte da Jason Slyde e Parker Timothy. Il processo avverrà con la partecipazione della giuria.
Che frase senza senso, pensai, mentre osservavo le labbra sottili di Harvey.
Era scontato che il processo avvenisse con la partecipazione della giuria, no?
- Prego, signor Manson. Al banco dei testimoni.
La Bibbia era già stata posizionata sul bordo del banco, e una volta che Charlie ci arrivò ci posizionò immediatamente la mano sopra.
- Alzi la mano destra, - disse il cancelliere.
Per l’ennesima volta, Charlie ubbidì.
- Giuri di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità? Dica lo giuro.
- Lo giuro - ripetè Charlie, da bravo.
- Avvocato Wilson, può procedere.
Mi avvicinai a lui, accorgendomi con tremendo orrore che le gambe mi tremavano.
Pregai che i bassi tacchi a cui mi ero affidata la mattina all’hotel vicino alla prigione dove avevo alloggiato da due giorni fino a quel momento mi reggessero, e assunsi la mia solita espressione da “sì, lo so che sono la migliore e non c’è bisogno che me lo dica tu”.
Espressione che, alla fine di quella giornata, persi del tutto.
- Signor Manson, - iniziai, con tono spavaldo da mascherare la mia insicurezza - da quanto si trova rinchiuso nel carcere di Corcoran?
- 29 marzo 1971 - rispose lui, con sicurezza.
- All’inizio lei e la sua Famiglia siete stati condannati alla pena capitale, dico bene?
- Sì, esatto.
- Poi commutata in ergastolo nel ‘72, quando la California abolì la pena di morte.
- Obiezione, Vostro Onore.
A parlare era stato Timothy, che si era alzato in piedi.
- Sta solo ripercorrendo i passi del processo.
- Accolta, - approvò il giudice - la prego di procedere, signorina Wilson.
- Sì, Vostro Onore.
Strinsi la lingua fra i denti; non potevo replicare.
- È mai stato sottoposto ad una visita medica, signor Manson?
- Nessuna, a parte quella del 3 dicembre dell’anno scorso.
- Lei ha asserito solo negli ultimi processi di essere malato, giusto?
- Precisamente.
- Vorrei che si mettesse a verbale questa mancanza, - dissi, voltandomi verso il cancelliere, che annuì.
- Un’ultima cosa, signor Manson: lei ha mai compiuto i fatti di cui è stato accusato? Materialmente, intendo.
Materialmente.
L’avevo detto anche quella volta in cui Charlie aveva avuto “una brutta giornata”.
Una brutta giornata che non si sarebbe mai ricordato, uno dei vantaggi, se così vogliamo chiamarli, della schizofrenia.
- No, materialmente no.
- Ho concluso, - dissi, voltandomi per tornare al mio posto.
Lanciai un’occhiata soddisfatta al banco dei miei avversari, i quali mi risposero con un’occhiata altrettanto eloquente.
- Proceda pure, signor Timothy.
L’uomo non era sicuro.
Era seduto al limite della sedia, e chiese qualche attimo per consultarsi con il collega.
Il giudice acconsentì.
Mi voltai verso Charlie, e notai che stava sorridendo.
Sorrisi debolmente di rimando, cercando di non essere vista.
Dunque, Timothy si alzò.
- Non abbiamo altre domande da porre all’imputato, Vostro Onore - annunciò, a capo quasi chino.
- Bene, venga messo a verbale.  Può procedere, signorina Wilson.
- Chiamo il dottor Elijah Torres.
Torres entrò da una porticina che si trovava appena dietro il banco dei testimoni; giurò sulla Bibbia e si sedette.
- Signor Torres, lei è andato a far visita al signor Manson il giorno tre dicembre 2011, esatto?
- Precisamente, - rispose Torres.
Era estremamente calmo, il che tranquillizzava anche me.
- E ha sottoposto il mio cliente ad una visita medica, giusto?
- Sì.
- Vostro Onore, ho contrassegnato questo come prova della difesa.
Gli porsi uno dei fogli che avevo nella mia valigetta: il referto medico della visita.
Il giudice lo esaminò con attenzione per un lasso di tempo che mi parve interminabile, ma alla fine annuì e lo passò al cancelliere.
- Dunque, dottor Torres, vuole dire alla corte cosa è emerso dalla visita al signor Manson?
- Certamente. Si tratta di un tipico caso di schizofrenia acuta, in cui il soggetto è preda di deliri, pronuncia spesso frasi sconnesse o è sottoposto a gravi allucinazioni uditive, che nel gergo più comune è tradotto “sente le voci”.
- La sua diagnosi medica qual è, dottore?
- Naturalmente che il paziente venga ospedalizzato immediatamente per essere curato. Un soggetto schizofrenico è molto pericoloso.
- La ringrazio, dottor Torres. Non ho altre domande.
Andai nuovamente al mio posto, e Charlie mi battè una mano sulla spalla.
Sapevo che era fiero di me, e speravo che lo sarebbe stato anche alla fine della giornata, quando avrebbe lasciato il tribunale.
Diretto in una clinica privata, magari.
- Il teste passa a lei, avvocato Timothy.
L’uomo si alzò, stavolta senza obiettare, e si diresse verso Torres.
- Dunque, lei è stato il primo ad eseguire una visita al signor Manson?
- Esatto, l’hanno confermato anche al carcere di Corcoran - rispose il dottore.
- Abbiamo già ascoltato la sua opinione professionale riguardo al paziente, ma qual è la sua opinione personale?
- Obiezione, Vostro Onore - sbottai, alzandomi in piedi.
Anche la mia sedia vacillò, retta prontamente da Charlie.
- L’avvocato non ha alcun diritto di porre questo tipo di domande.
- Si attiene al processo, - replicò Timothy, con voce cantilenosa.
- Accolta, - concesse Harvey - si moderi, avvocato - rimproverò, guardando Timothy di sbieco.
- Chiedo scusa, Vostro Onore.
- Può proseguire, ora - l’informò il giudice, facendo un cenno con la mano.
- Può descriverci la visita a Manson?
- Sì, certo. Era tranquillo, almeno mi sembrava. Gli ho chiesto di scrivere tutte le parole che gli venivano in mente su quel foglio, - disse Torres, indicando il foglio che il cancelliere stava esaminando - e beh… quello è il risultato.
- Pensa che possa essere curato?
- La schizofrenia è incurabile, - precisò il dottore, sistemandosi meglio sulla sedia - ma non è irriducibile. Con un ricovero, il signor Manson potrebbe migliorare molto.
- La ringrazio, dottore.
Timothy tornò a sedersi, apparentemente soddisfatto.
- Partiamo con la prima arringa… avvocato Wilson, vuole procedere?
- Sì, Vostro Onore.
Mi alzai, e andai davanti alla giuria.
Dodici persone, sei uomini e sei donne, mi fissarono.
Non sembravano arrabbiati, frustrati oppure divertiti; avevano solo voglia di ascoltarmi.
Almeno credo fosse così.
- Signori, - comincia, ma la mia voce tremò un poco.
Ahi, pensai.
Mi schiarii la gola e ricominciai.
- Signori.
Meglio, molto meglio.
- Non sono qui per dirvi che il signor Manson è un brav’uomo, perché so benissimo che non lo è, come lo sapete voi e tutte le persone presenti in quest’aula.
Silenzio.
Il condizionatore continuò a ronzare… peccato, un silenzio d’effetto sarebbe stato l’ideale.
- Certo, il signor Manson ha fatto delle cose davvero orribili, delle cose di cui si vergogna ancora al solo pensiero. Ma il signor Manson non ha mai ucciso nessuno.
Brusìo.
Era meglio il silenzio col condizionatore, a quel punto.
- Lo so, lo so signori. È difficile da credere. Ma pensateci: nessuno di loro, Susan Atkins, Linda Kasabian, Leslie Van Houten, Tex Watson, loro non hanno mai detto che era stato Charlie.   Charlie aveva detto solo di farlo.
Il giurato numero nove annuì.
Almeno uno era d’accordo.
- Loro potevano anche non farlo, ma l’hanno fatto. Il signor Manson, signori, li ha solo istigati.  Ma c’è una cosa ancora più brutta di questa.
Di nuovo il silenzio del condizionatore.
- Il signor Manson è malato. Il signor Manson ha bisogno di cure. Istigazione ad omicidio, quarantadue anni di galera. Non credete che abbia sofferto abbastanza?
La maggior parte dei giurati scosse la testa.
Piano B, pensai.
- Ah, no? Beh, pensate come dev’essere sentire continuamente una vocina nella tua testa, che cambia ogni giorno, che dice cosa devi fare e come. Oppure vedere delle persone che non esistono, che magari sono morte, che magari ti hanno fatto vivere i momenti più brutti della tua vita. Questa non è sofferenza? Questa non è un’orribile maniera di vivere?
Nessuno osava ribattere.
Mi sentivo fiera, ma un singhiozzo mi indusse a fermarmi.
Ancora prima di girarmi per tornare al mio banco, avevo capito che Charlie si era messo a piangere.
Quando mi sedetti, gli misi una mano intorno alle spalle, ed il giudice chiamò Parker Timothy per la sua arringa.
- Signori, - iniziò, posando la mano destra sul banco dei giurati e indicando il nostro tavolo con la sinistra - volete davvero farvi impietosire da un paio di lacrime a comando? Io non credo, no.
Mi voltai verso di lui e lo fulminai.
Quello sguardo l’avevo preso da mio padre.
Sarebbe stato fiero, se mi avesse visto in quel momento.
- Il signor Manson non ha mai commesso gli omicidi materialmente, ma ne è stato l’arteficie. Così è anche peggio, non trovate?
Non vidi cenni d’assenso, né di dissenso.
Timothy tornò all’attacco.
- Signori, perché quest’uomo dovrebbe essere liberato ora? Perché non ha chiesto di curarsi prima? Mi sembra che sia una cosa molto sospetta, voi no?
Silenzio.
Condizionatore.
- L’avvocato Wilson è giovane, probabilmente non potrà certo capirlo… ma perché dovreste concedere la libertà a questo mostro? Che obbligo ne avete?
Stava esagerando (… silenzio…).
E io mi stavo arrabbiando parecchio (… condizionatore…)
- Io non vedo l’utilità di liberare una macchina per uccisioni mettendo in pericolo i nostri figli, e voi?
Girò i tacchi e tornò al posto, ghignando.
Lo odiavo anche più di Cooper.
- Bene signori, adesso la giuria si ritirerà per deliberare. Grazie a tutti.
 
 
 
Attendevamo nella sala da pranzo, senza mangiare.
Erano passate due ore e mezza, e ancora non eravamo rientrati.
Stavano ancora discutendo, erano combattuti.
Era un bene.
Charlie fissava il vuoto, ma almeno se lo chiamavo tornava alla realtà.
Timothy e il suo collega erano al tavolo opposto della sala, parlottando fitto fitto.
Li tirerei addosso una granata, pensai distrattamente, accavallando le gambe.
Proprio mentre pensavo ai miei sogni di guerra, il cancelliere ci fece rientrare in aula.
Non avevo più un cuore nel petto, avevo solo un brutto dolore di ansia.
Entrò il giudice.
Ci alzammo in piedi.
Entrò la giuria.
- La giuria ha raggiunto un verdetto? - chiese Harvey.
- Sì, Vostro Onore - gli rispose un ometto basso e tarchiato.
Il capo della giuria.
- Lo dia al Cancelliere.
Scorremmo ogni singolo individuo, finchè non consegnarono la busta al Cancelliere, che la passò al giudice.
Il nostro sguardo si concentrò su Harvey.
Gettai un’occhiata a Timothy e Slyde, che ricambiarono e poi, come me, tornarono a fissare il giudice.
Harvey, con estrema calma (che mi fece salire la bile al cervello), aprì la busta e ne estrasse il foglio.
Dunque, iniziò ad annunciare la sentenza.
- Nel procedimento Charles Manson contro lo Stato, la giuria sottoscrive le ragioni della difesa, - annunciò.
Il pavimento mi mancò da sotto i piedi.
Il cuore mi cadde nel petto.
Negli occhi mi si formò un mare, che poi divenne un oceano.
- Tuttavia, - riprese il giudice dopo pochi secondi - stabilisce che il signor Manson venga curato per tutta la durata della pena stabilita nel 1972, ovvero l’ergastolo, nella prigione di Corcoran proprio come verrebbe curato in una clinica.
L’oceano non si contenne, e inondò le mie guance.
Avevo perso, ma avevo anche vinto.
L’aula scoppiò in un applauso fragoroso, e anche il giudice, la giuria ed il Cancelliere si alzarono in piedi per applaudire.
L’avrebbero curato.
Sarebbe stato meglio.
Aveva vinto anche lui.
Mi girai, e lo trovai in lacrime.
Mi abbracciò, e ricambiai.
Rimanemmo così per più di cinque minuti, finchè uscimmo, sommersi dai giornalisti.
E poi lo riportarono in prigione.

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Capitolo 7
*** 27 maggio 2013 ***


* 27 maggio 2013, diciotto e quindici *
 
 
 
È passato un anno dal processo Manson, e sono sempre più felice di come sia andata.
Quando sono tornata allo studio, ho ricevuto i complimenti di tutti, perfino di Cooper, a cui ho stretto la mano e ho detto: “adesso magari possiamo aspirare a diventare quasi colleghi”.
Mia madre piangeva, e Pam pure.
Il signor Crossway ha fatto partire un lungo applauso, che mi ha fatto piangere ancora di più.
Stavolta siamo riusciti a fare la festa, e ci siamo divertiti molto.
Adesso vado da Charlie una volta a settimana, di domenica, così mi informo sui progressi che ha fatto durante la settimana.
Ora, però, non lo chiamo più solo “Charlie”, ma “zio Charlie”.
Nonostante questo, mi sono dimenticata di asserire un piccolo ma importante dettaglio: come l’ha presa mio padre quando ha saputo del processo.
Sono andata da lui il giorno dopo, e appresi con una certa soddisfazione che era tornato finalmente a casa.
Dunque sono scesa e, dopo aver zigzagato per un po’ tra qualche anima in pena, l’ho trovato.
La sua faccia umana era scomparsa.
Quella da demone, però, era ritornata.
- Tesoro! - esclamò, abbracciandomi - sono fiero di te.
Gli sorrisi.
Lo sapevo, che avrebbe detto così.
- Dopotutto, per Charlie qui c’è sempre posto.
“Certo”, pensai, sedendomi sul suo trono “c’è sempre posto all’Inferno”.


Angolino dell'autrice ^-^

salve! sono riuscita a finirla, e spero che, chinque sia arrivato fin qui e abbia letto i capitoli precedenti, l'abbia apprezzata almeno un pochino! 
ricordate che critiche, negative, positive o neutre, sono graditissime!
Alla prossima, ciao!

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