Ancestrall Recall

di Thurin
(/viewuser.php?uid=448418)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I Fantasmi di Ohara ***
Capitolo 2: *** L'uomo di latta ***
Capitolo 3: *** Il silenzio è d'oro, la parola d'argento ***
Capitolo 4: *** Sweet Dreams ***
Capitolo 5: *** Chi cerca trova ***
Capitolo 6: *** Le parole che non ti ho detto ***



Capitolo 1
*** I Fantasmi di Ohara ***


Capitolo I
I Fantasmi di Ohara

 
La tenue fiammella della candela tremolava ad ogni alito di vento che filtrava all'interno dell’enorme stanza circolare. Nella penombra creata dal mischiarsi di luce ed oscurità, il vecchio professore si fermò appoggiando la candela al tavolo da lettura, si sedette in modo stanco sullo scranno di legno intagliato e trasse un profondo respiro; il vapore del suo alito rimase sospeso a mezz'aria quasi indeciso su che direzione prendere, poi quasi per magia sparì confondendosi con la fredda aria della notte.
-Sempre più affannato- pensò il professor Clover, e non si riferiva soltanto al suo respiro, ma a quello dell’immensa stanza sotterranea posta svariati metri al sotto dell’Albero della Conoscenza. Alzando lo sguardo verso l’alto, poteva quasi scorgere le radici che s’inerpicavano formando le pareti e il soffitto di quella sala, all’altra estremità, seppur nascosta, sapeva esserci una seconda scala che portava verso i piani superiori: biblioteca, cucina, sala da pranzo e poi ancora su fino alle aule dell’Istituto di Archeologia e le stanze dei suoi colleghi archeologi. Volgendo poi lo sguardo verso le sue mani rugose e incallite, provò un certo divertimento nel notare come nel tempo, sembravano aver assunto le stesse conformità del legno circostante.
"Suvvia professore, in realtà lei non è così vecchio"
La voce gli veniva incontro di spalle, accompagnata da passi decisi ma posati.
"Ma certo" rispose il vecchio senza voltarsi “io sono molto più vecchio”
A quelle parole i passi si fermarono, Clover si volto sedendosi ora di lato rispetto allo scranno ed anche se l’età che vantava di avere poteva tradire il suo udito, i suoi occhi non potevano non riconoscere la figura snella e slanciata ferma appena dentro il cerchio di luce della candela: gli stivaletti quasi nascosti da un paio di jeans aderenti, la lunga giacca rosa tenue quasi in contrasto con la carnagione chiara e il bianco innaturale dei capelli, una persona inconfondibile che il vecchio Clover conosceva fin troppo bene, non solo per la sua bellezza, ma soprattutto per la straordinaria genialità della sua mente.
“Ti stavo aspettando Olvia, vieni, accomodati pure”
Per un lungo attimo gli occhi azzurri della giovane donna si soffermarono sulla candela che ancora tremolava al ritmo del respiro del grande albero, infine si sedette di fronte al professore.
“Un posto davvero singolare per un appuntamento galante” ironizzò Olvia “l’archivio dell’Istituto d’Archeologia si addice proprio a due fossili come noi” Clover arrossì ma non si scompose, cercò nella mente le parole giuste per esprimere il turbinio di pensieri che lo avevano accompagnato nel percorso verso la grande sala:
“Se avessi voluto un appuntamento galante, avrei invitato una giovane studentessa del mio corso!” rise, rivolgendo uno sguardo ammiccante verso la collega, che non si scompose, per Clover questo era di certo un inizio non troppo incoraggiante. “Passando a cose più serie” ora il tono di voce chiaro e deciso “sei riuscita a metterti in contatto con lui?”
“Si, ma non sarà semplice”
“Chi altri lo è venuto a sapere”
“Nessuno che possa crearci particolari problemi, anzi forse potrebbe giocare a nostro vantaggio”
Lo sguardo di Olvia si soffermò su un angolo buio non molto distante dal tavolo, come se da qualche parte tra le venature dell’archivio, due occhi le fossero piantati addosso.
“Olvia sei sicura di quello che dici? Te l’ho già detto non possiamo correre alcun rischio”
L’archeologa tornò con lo sguardo verso il professore che ora le appariva davvero più vecchio di quanto non avesse immaginato.
“Nessun rischio professor Clover, ho già elaborato un piano, se tutto andrà come ho previsto, nessun altro ne verrà a conoscenza”
Clover s’appoggiò lentamente al duro schienale della sedia inarcando le spalle e la schiena rigida; mentre una mano massaggiava il mento e la folta barba, fissò il suo sguardo intenso negli occhi di Olvia, quasi a voler scorgere un barlume d’incertezza, poi distendendo i muscoli si limitò ad un'unica frase: “Molto bene”
Detto questo trasse da uno scomparto segreto sotto il tavolo un raccoglitore dall'aspetto comune, come se ne vedono tanti all'interno di un archivio. A prima vista, Olvia era più stupita dell’esistenza di uno scomparto segreto all'interno di quel tavolo, che del raccoglitore in sé. Clover appoggiò l’oggetto davanti lei, si ripiegò all'indietro appoggiandosi nuovamente allo schienale e incrociò le braccia.
“Dunque è tutto qui?” chiese Olvia con un misto di dubbio e stupore. Il vecchio professore non le rivolse alcuna parola, il suo sguardo sempre più profondo lasciava trasparire ogni suo pensiero. Olvia capì che le mille altre domande che voleva porre al vecchio maestro, non avrebbero trovato risposta, tornò allora a fissare quel punto oscuro tra le venature del grande albero, in mezzo agli scaffali dell’archivio, quasi ci fosse una strana forza attrattiva che la invogliasse a ricercare cosa fosse nascosto alla sua vista. Mentre ancora fissava assorta il buio oltre la candela che aveva di fronte si rivolse nuovamente al professore:
“Come d’accordo professor Clover, da qui sarà solo e soltanto una mia responsabilità; ora le spiegherò come ho intenzione di agire”
Non molto distante, nascosta dalle ombre degli scaffali, una bambina dai capelli corvini fissava la madre con profonda intensità ed ascoltando parola per parola quella discussione, cominciò a tremare, come se una paura ancestrale avesse attanagliato il suo cuore. Immobile e sbigottita fissava i due seduti al tavolo e mentre ancora parlavano le sembrò che la luce della candela diventasse sempre più intensa, nel giro di pochi istanti, divenne quasi insopportabile, le figure divennero sempre più sfuocate, un lampo di luce bianca investì tutta la stanza e le voci cessarono di colpo come inghiottite da quel nulla scintillante.
 
A bordo della Thousand Sunny Nico Robin si svegliò in uno scatto di puro terrore. Il sudore le imperlava la fronte e scendeva lungo il viso e il collo, gli occhi sbarrati, il respiro affannoso.
A quell'attimo di smarrimento seguì la frenetica ricerca del suo taccuino, si levò dal letto, aprì il cassetto della sua scrivania e si sedette a prendere appunti
-Ancora una volta, nuovi elementi, ma nessuno significativo- non sapeva ancora di preciso cosa volesse dire quel sogno ricorrente che la perseguitava dal suo ritorno sulla Sunny, ma qualcosa dentro di lei la spingeva a scavare sempre più a fondo in questo ricordo, quasi ne andasse della sua stessa vita. Cosa ci facevano il professor Clover e sua madre di notte nell'archivio dell’Istituto di Archeologia? Di cosa stavano discutendo in così tanta segretezza? Cosa conteneva quel raccoglitore affidato ad Olvia? Enigmi nell'oscurità. A Robin non piaceva affatto quella situazione, il viaggio verso l’Isola degli uomini-pesce sarebbe durato ancora qualche giorno e nell'impossibilità di cercare risposte nei suoi libri a bordo, si sentiva quasi prigioniera dei suoi stessi incubi.
Assorta nei propri pensieri si ritrovò a tamburellare la matita sul taccuino lasciando piccole macchie di grafite sui fogli appena ingialliti. Ridestatasi da quell'attimo quasi ipnotico di smarrimento si rese conto, guardando i suoi appunti che il nervosismo le aveva preso un po’ troppo la mano, con un sospiro sconsolato prese una gomma e cancellò accuratamente gli scarabocchi dai suoi appunti –cancellare ciò che non serve per preservare l’essenziale- quel pensiero le nacque quasi spontaneo, seguito dal fugace ricordo di un’isola in fiamme, un albero abbattuto e migliaia di libri in fondo ad un lago. Si alzò per dirigersi verso il piccolo boccaporto della stanza, all'esterno si stagliavano le profondità oceaniche, fredde, scure, come la grande stanza del suo sogno:
“Anche la natura sembra non concedermi scampo dalle mie ossessioni” le tenui luci degli organismi bioluminescenti balenavano in lontananza come tante stelle che a poco a poco perdevano la propria luce. Sapeva che ormai non avrebbe più chiuso occhio, quindi tanto valeva rivedere i suoi appunti degli ultimi anni di ricerca; riprese il taccuino e appoggiata alla parete della stanza sfruttava la poca luce esterna per rileggere i suoi studi. L’Isola degli Uomini-Pesce avrebbe dovuto segnare una tappa importante nella sua ricerca dei poignee griffe, d'altronde molti indizi portavano a sospettare che laggiù avrebbe trovato un altro tassello del mosaico, di che natura non ne aveva alcuna idea. Uno starnuto la colse di sorpresa mente ancora sfogliava il taccuino e solo allora si rese conto di essere scesa dal letto scalza e senza alcuna coperta addosso. Ora avvertiva il freddo della stanza e si biasimò non poco per essersi fatta prendere da quel momento di smarrimento, erano nelle profondità oceaniche, quindi era naturale che le temperature fossero basse. Scocciata s’infilò un paio di ciabatte ed una vestaglia pesante, poi si voltò per controllare se Nami stesse ancora dormendo. La posa scomposta e il respiro lento e profondo dell’amica navigatrice non le lasciò alcun dubbio, sorrise dolcemente, e scacciando gli ultimi residui di ansietà le rimboccò le pesanti coperte.
“Sarebbe un guaio peggiore se la nostra navigatrice prendesse un raffreddore”.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** L'uomo di latta ***


Capitolo II
L'uomo di latta

 
Due anni. Erano passati ben due anni dall’ultima volta che aveva visto la Sunny, la sua Sunny. Quando la vide ancora alla fonda tra le insenature dell’Arcipelago Sabaody, per un momento ebbe paura che svanisse tra le molteplici bolle provenienti dalle mangrovie che la circondavano. Era sempre stato un po’ sentimentale, non amava molto darlo a vedere ma sotto quella camicia floreale, batteva un cuore umano anche se a volte, portando le grandi mani al petto, sentiva soltanto un grande vuoto intervallato da due battiti simmetrici.
L’ora di cena era passata da un pezzo, Sanji aveva preparato un nuovo manicaretto davvero gustoso: -Gli devo chiedere dove ha imparato tutte queste nuove ricette- Franky si annotò la domanda nella mente, mangiando a sazietà qualsiasi cosa avesse davanti. Erano anni che non si ritrovavano tutti insieme nella grande sala sotto coperta e tutti erano davvero felici di poter tornare a divertirsi insieme. Al solito non mancavano le smancerie di Sanji verso Nami e Robin, servite di tutto punto dal cuoco di bordo con ogni lusso. Dall'altra parte del tavolo Usopp era intento ad aggiungere letteralmente un po' di pepe alla carne del capitano; Luffy non riusciva a capire come mai quella carne gli facesse venire così tanta sete. Lui era seduto di fianco a Brook, che quella sera pareva avere un discreto appetito, se non fosse che tutto il cibo era finito nello suo stomaco di ferro. Zoro e Chopper, seduti di fronte a loro, non mangiarono molto e la cosa gli sembrò davvero strana: si chiese da quando Zoro avesse cominciato a badare alle porzioni. Ripensando alle risse per gli avanzi degli anni passati provò un po' di nostalgia. Da un po’ di tempo a quella parte, invece, lo spadaccino sembrava più tranquillo del solito.
Le ragazze, finita la cena, fecero ritorno alla loro stanza, mentre il resto della ciurma si fermò a lungo nel salone a far festa al suono della chitarra di Brook; Franky non era solito rifiutare una serata in compagnia dei suoi amici, ma per qualche ragione, o forse mille ragioni, quella sera non se la sentiva di festeggiare. Ripensò all'intera giornata che aveva passato come un leone in gabbia in giro per la nave, l'aveva esplorata in lungo e in largo controllandone ogni angolo quasi in cerca di qualche cosa di storto o fuori posto; nessuno sembrava aver notato la sua inquietudine e forse era meglio così, non voleva certo causare preoccupazioni inutili ai suoi compagni.
Chissà cosa avrebbero pensato poi, se avessero saputo che il carpentiere di bordo, il cyborg super-perfetto, sentiva delle voci nella testa: -Probabilmente Luffy penserebbe che mi sono installato una qualche sorta di radio nel cervello- quel pensiero lo fece sorridere. Ma non poteva ignorare quelle voci, le voci delle sue creature, ognuna aveva un suono particolare; ricordò quando per la prima volta sentì il richiamo di una sua macchina, lavorava come apprendista da Tom, ancora oggi aveva impressa nella mente il sorriso sornione del grande uomo-pesce, mentre gli raccontava di come potesse comunicare con le navi da lui create.
Tom, la persona a cui doveva tutto, la persona che più di ogni altro aveva saputo capirlo ed accudirlo, tramandandogli un mestiere, una passione ed un entusiasmo impareggiabili. Erano passati tanti anni dalla scomparsa del suo mentore, una tragedia che lo segnò nel corpo e nell'animo. Lentamente si portò una mano al petto e per un attimo gli sembrò che l’intervallo fra i due battiti simmetrici fosse aumentato. Ora il viaggio della sua Sunny lo avrebbe portato verso il luogo d’origine del suo mentore, e chissà se proprio laggiù non avrebbe trovato qualche indizio sul passato del più grande carpentiere del mondo.
“Ci hai lasciato una bella gatta da pelare vecchio” si accorse di aver pensato ad alta voce, si voltò verso la porta della stanza come per assicurarsi che nessuno avesse sentito, impossibile, quella camera era solo per lui, grande e spaziosa abbastanza da poter contenere la necessaria strumentazione per le riparazioni e la fabbricazione di nuove invenzioni. Dal suo ritorno dall'isola del Dr. Vegapunk, poi, aveva raccolto e ordinato nei diversi scaffali e armadietti, vari e curiosi materiali utili per i mille progetti che aveva in mente. Tuttavia, non era passato giorno, su quell'isola invernale, senza che la sua mente ritornasse agli ultimi mesi con Tom ed Iceburg, dalla foga con la quale spingeva i due apprendisti a svolgere lavori sempre più intraprendenti, sembrava quasi che il vecchio uomo-pesce capisse che il suo tempo andava esaurendosi.
In quella stanza, la sua stanza, attrezzata come un vero e proprio laboratorio, Franky si ritrovò a guardare il tetro paesaggio al di fuori dell’oblò, quasi ipnotizzato dall'ondeggiare delle enormi alghe radicate sulla sabbia del fondale, le strutture coralline illuminate tenuamente dagli organismi bioluminescenti mostravano parte della loro vastità perdendosi nell'orizzonte scuro degli abissi. In quelle profondità oceaniche i concetti di giorno e notte perdevano ogni significato. Anche se coperti dalla penombra, nella stanza di Franky si potevano ben distinguere il grande tavolo da lavoro posto su un lato, pieno di cassetti ai bordi e con accanto un baule dal contenuto un po’ eccentrico: capigliature intercambiabili, utili per sfoggiare un look sempre differente. Dall'altro lato stavano il letto e un armadio pieno di vestiti ed armi, l’intera stanza era a prova d’esplosione, si era preso tutte le precauzioni del caso poiché, conoscendosi, sapeva bene quali rischi potevano correre i suoi amici mentre era intento a lavorare su qualche nuova e stramba invenzione.
 
In quel momento, senza alcun preavviso, un lampo di luce gli balenò davanti agli occhi, seguito da una fortissima fitta alla testa che quasi lo fece inginocchiare dal dolore; barcollando cercò di arrivare alla porta per chiamare aiuto ma le gambe non sembravano volergli dare ascolto. Stette immobile vicino all'oblò cercando di aprire gli occhi per rendersi conto se fosse ancora nella sua stanza, ma quella luce bianca rendeva tutto sfuocato ed incerto, poi, tra una fitta e l’altra avvertì chiaramente una voce risuonare nella sua testa:
“Svegliati” la voce dapprima era fievole poi via via sempre più intensa e continuava a ripetere sempre la stessa parola: “Svegliati!” Svegliarsi? Franky era ormai in pieno stato confusionale a causa del dolore, ma se c’era una cosa di cui era sicuro, era che non stesse dormendo. A poco a poco la voce cominciò ad assumere una forma, Franky vide davanti a sé una sagoma indistinta in risalto nella luce bianca, la sola cosa che potesse vedere, era nera come le profondità dell’oceano, flessuosa e dalla forma vagamente familiare.
“Ora devi svegliarti Franky!” la voce, che ora aveva assunto un tono chiaramente femminile, continuava a rivolgersi al cyborg insistentemente, “non c’è più tempo, abbiamo bisogno di te”
“Questa voce…non puoi essere tu!” si rivolse alla sagoma guardandola per avere conferma dei suoi sospetti e, purtroppo, la sua intuizione si rivelò esatta.
Nico Robin stava davanti a lui, la consistenza di una nuvola di fumo, lo sguardo fisso su di lui e la sua voce come un’eco nell'aria:
“Svegliati Franky, ho bisogno del tuo aiuto, solo tu puoi aiutarci”
“Aiutarvi?! Cosa vorresti dire? Siamo al sicuro qui sulla Sunny!”
Ora Franky, che distingueva chiaramente la figura davanti ai suoi occhi: Nico Robin lo osservava intensamente, i capelli spazzati dal vento e una sola tunica nera che lasciava scoperte le braccia, ondeggiava lasciando trasparire le forme flessuose del suo corpo; si accorse che il bianco attorno a loro stava lentamente svanendo, lasciando il posto ad un paesaggio a dir poco spettrale: dietro la figura che gli stava parlando, le fiamme circondavano un grande albero bruciandone i grandi rami e le foglie, tutt'intorno la terra era bruciata, riarsa, attraversata da rivoli di magma. In mezzo a questo caos persone in fuga urlavano in cera d’aiuto, alcuni erano divorati dalle fiamme, altri si gettavano in mare in cerca di una via di scampo; Nico Robin stava in piedi, impassibile, guardava il cyborg negli occhi quasi inconsapevole della realtà che li circondava.
“Cosa significa tutto questo? Chi sei veramente?” Franky ora urlava, il terrore negli occhi, la rabbia negli intervalli di vuoto tra i battiti simmetrici del suo petto.
“Tu hai causato tutto questo, tu ci hai portato a questa rovina e solo tu puoi salvarci”
“Io non so di cosa stai parlando Robin! Io non sono mai stato ad Ohara”
Si fermò agghiacciato, cosa aveva appena detto? - Ohara!? - era sicuro di non essere mai stato sull'isola degli archeologi, ma allora come mai gli era uscita quella frase così spontanea; certo Ohara era famosa per l’immenso Albero della Conoscenza, ma Franky era sicuro che non lo avrebbe mai potuto riconoscere, perché era sicuro di non avere alcun ricordo al riguardo, né di averne mai vista un’immagine in nessun libro.
Una fitta ancora più dolorosa, questa volta alla zona cervicale, interruppe il flusso dei suoi pensieri, in preda al dolore, guardava ancora la figura dell’amica in piedi di fronte a lui, attorno a loro la devastazione e le fiamme.
“Cosa mi stai facendo Robin? Cosa vuoi da me?”
“Tu ci hai portato questo e tu ora ci devi salvare”
“Come potrei, ormai la tua isola è stata distrutta da molti anni, ed anche il suo ricordo sta svanendo dal mondo”
“Se non ci puoi salvare, almeno salva lei”
Ora di fianco a Robin era apparsa una bambina, gli occhi spauriti e in lacrime, il viso tremante e i capelli corvini scompigliati, teneva la mano della ragazza stretta come una morsa e non sembrava volerla lasciare tanto facilmente. Franky guardò ancora la bambina, ma lei non ricambiava il suo sguardo, muoveva la testa alla ricerca di sperata di qualcosa, senza muovere un passo da Robin
“Hey! Bambina! Chi sei? Come ti chiami?” la piccola non sembrava dargli ascolto, volse la testa verso l’alto e subito dopo lanciò un grido di terrore che fece trasalire Franky.
Volse anche lui lo sguardo verso l’alto e la vide, tra le nuvole di fumo grigio dell’incendio, e il cielo reso rosso dalle fiamme, un’immensa figura si stagliava imponente sopra l’isola, sospesa per aria, sembrava osservare impassibile la devastazione circostante, in quel momento avvertì chiaramente che i battiti simmetrici del suo petto avevano lasciato il posto al vuoto assoluto. Il cyborg s’inginocchiò ansimante e stremato, le mani al petto alla ricerca di un segnale a lui familiare ma che in quel momento lo aveva abbandonato, le bambina intanto continuava ad urlare
“Piccola! Piccola!! Calmati, spiegami cos’è quella cosa lassù, perché ti fa così tanta paura?” Franky cercò ancora una qualche comunicazione con la piccola figura terrorizzata, anche se in quel momento avrebbe preferito capire cosa non andasse all’interno del suo corpo
“Non ti risponderà, Franky, non finché non l’avrai salvata dal suo dolore”
“Come posso salvarla se non so neanche di cosa ha tanta paura?”
“Tu conosci già la risposta, ma non vuoi accettarla”
“Tutto questo è assurdo, Robin, quando tornerò indietro mi dovrai dare delle spiegazioni!”
Robin sorrise, allungò la mano verso il petto del cyborg ora ai suoi piedi, appoggiò l’indice sul punto esatto dal quale fino a poco prima giungevano quei battiti simmetrici, ora oppressi dal vuoto insostenibile
“I cuori non saranno mai una cosa pratica finché non ne inventeranno di infrangibili”
Il dolore di Franky svanì di colpo, si rialzò stupito di quel gesto, così innaturale per la sua amica, ma notò subito che il petto sembrava funzionare come prima, anche la bambina aveva smesso di gridare, ora entrambe le figure, mano nella mano, guardavano il carpentiere che per la prima volta notò una certa somiglianza fra loro
“Aspetta un attimo Robin, che mi hai fatto!?”
“Non c’è più tempo, abbiamo bisogno di te”
“Ma non so cosa devo fare! Dimmi di più Robin!!!”
“Tu conosci già la risposta ma non vuoi accettarla”
Il paesaggio cominciò lentamente a svanire intorno a loro, in poco tempo rimasero solamente Franky e la figura di Nico Robin circondati dalla luce bianca, poi con un ultimo buffo di fumo, anche la giovane archeologa svanì alla vista e tutto fu nero.
La stanza tornò a materializzarsi davanti agli occhi del cyborg come una scena svelata da un sipario, Franky era ancora in piedi vicino all’oblò, le mani alla testa il respiro pesante. Si guardò intorno, buio, guardò di nuovo all’esterno, le profondità oceaniche erano ancora lì. Confuso e stordito osservò l’orologio sul tavolo da lavoro, non era passato neanche un minuto. Gli sembrava di essere stato assente per una vita intera, aveva ancora impresse le immagini di quella visione e l’ansia colma di dubbi che questa strana esperienza aveva lasciato, tuttavia, ripensando ancora a quella visione e a quella figura nel cielo in fiamme, fu preso da un improvviso bisogno di verificare una sua teoria.
Si sedette al tavolo da lavoro, allungò la mano al di sotto di esso e senza guardare premette un piccolo pulsante, un leggero click anticipò l’uscita di uno scomparto nascosto, dal quale Franky tirò fuori un oggetto di forma rettangolare, un po’ consunto e sciupato, un comunissimo raccoglitore.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il silenzio è d'oro, la parola d'argento ***


Capitolo III
Il silenzio è d'oro, la parola d'argento

 
Isola degli Uomini-Pesce – foresta del mare
 
Nascosti fra i nodosi rami degli alberi dei fondali, due occhi gialli erano fissi su una giovane donna, seguendone passo per passo ogni suo movimento. Con un leggero movimento della pinna, lo squalo bianco gigante avanzò sopra la figura vestita di una giacca violacea ed un pareo variopinto, facendo bene attenzione che la sua ombra fosse nascosta da quelle degli alberi circostanti. Si trovava circa quattro metri al di sopra della preda e la seguiva a breve distanza, un rapido scatto gli avrebbe permesso di azzannarla senza che questa si accorgesse della sua presenza. Pur essendo uno dei predatori più grandi di quella foresta, lo squalo bianco gigante era in grado di tendere agguati improvvisi alle sue prede nascondendo la sua presenza tra le fronde della foresta. Dotato di una certa dose d’intelletto, il grande pesce sembrava esitare di fronte ad un facile boccone, quasi fosse incuriosito da quella figura così strana ed inusuale, tanto diversa eppure tanto simile ad una sirena.
 
Robin si era già allontanata dai suoi compagni, sapeva bene fin dall’inizio che aveva poco tempo per cercare le informazioni che le servivano. Sfogliò il suo taccuino cercando le indicazioni che l’avrebbero portata alla stele nascosta nella foresta del mare.
Secondo le sue fonti, il Poignee Griffe nascosto nell’Isola degli Uomini-Pesce conteneva importanti informazioni riguardanti una delle armi ancestrali, forse anche la sua vera natura; un’occasione troppo ghiotta da lasciarsi sfuggire. Silenziosa attraversò la spiaggia intravedendo in lontananza Franky insieme ad uno strano uomo-pesce piuttosto gioviale; erano entrambi sulla Sunny ma data la grande distanza, non riusciva a sentire di cosa stessero parlando. Decise di proseguire senza far caso a loro, entrò nella foresta tenendo ben saldi la bussola e il taccuino. Appena entrata si accorse che l’aria circostante si era sostituita ad una sorta di liquido simile all’acqua, ma che le permetteva di respirare
“Interessante, sembrerebbe una sorta di liquido amniotico” tralasciò presto quel particolare, si guardò intorno cercando qualche puto di riferimento, ma si accorse subito che orientarsi non era così semplice; in effetti la foresta del mare, pur essendo molto simile ad una foresta terrestre, non offriva tutti quei riferimenti geografici per una facile scarpinata – Non mi sarei mai aspettata un inconveniente simile – sbottò la giovane archeologa. Di fatto si era già addentrata alla cieca per un paio di chilometri, gli alberi intorno a lei cominciavano ad oscurare in parte la luce che proveniva dall’esterno della selva, ed anche i rumori cominciavano man mano a divenire più flebili. Robin proseguiva guardinga, attenta ad ogni alberello e cespuglio, tendeva l’orecchio ad ogni fruscio, qualcosa in quel posto non le piaceva affatto. Decise di fermarsi per qualche minuto cercando qualche indizio sul suo taccuino, tuttavia, nonostante lo sfogliasse già da diverso tempo non c’era niente che la potesse aiutare.
Aveva passato ora a studiare i Poignee Griffe ad Alabasta e a Skypea, entrambi parlavano di una sorta di strada attraverso le volte marine, aveva intuito subito che si trattava della foresta del mare, unico esemplare talmente vasto da poter contenere i resti di una perduta civiltà; nonostante tutto, però, ancora questa strada sembrava celarsi ai suoi occhi. Sconsolata si sedette sopra una piccola roccia, appoggiò le mani sulle, chiuse gli occhi cercando di svuotare la mente, aveva bisogno di riordinare i propri pensieri
Stai ancora girando a vuoto eh piccola Robin?
La voce risuonò alle sue spalle, Robin si voltò di scatto ma non vide che alberi e la strada da cui era venuta.
non dirmi che ti sei scordata come si percorre un labirinto!?
Ancora una volta la stessa voce, ma stavolta sembrava risuonare da un punto più lontano
“Chi sei? Vieni fuori!” nessuna risposta “Se sai il mio nome allora dovresti conoscermi, fatti vedere” ancora nessuna risposta. Robin cominciò a sentire la sua testa pesante e non riusciva bene a capire cosa volessero dire quelle frasi così strane, ma decise lo stesso di proseguire, sempre più dentro la foresta che, sempre più buia e silenziosa, sembrava chiudersi intorno a lei come una morsa.
 
L’enorme sagoma bianca campeggiava ancora sopra la donna dai capelli corvini, aveva osservato con curiosità lo strano comportamento di quella preda fin troppo anomala. Per un attimo aveva temuto di essere stato scoperto. Silenziosamente riprese ad avvicinarsi poco a poco, ma ancora non era il momento; lo squalo bianco conosceva bene quel tratto della foresta, anche se raramente vi passava durante la caccia, un tratto di foresta quasi privo di vita, come se la natura stessa avesse voluto in qualche modo impedire che pesci o altri esseri potessero intaccare la purezza di quei luoghi. Cresciuti liberi ed indisturbati, gli alberi intorno a loro erano spessi e contorti, il fogliame offriva un ulteriore copertura alla sagoma del grande predatore acquatico; il terreno al di sotto si presentava ricco di alghe di diverse altezze, comunque non abbastanza fitte per nascondere la preda ai suoi occhi. Decise tuttavia di scendere leggermente accorciando le distanze, piegandosi verso il basso in un unico e flessuoso movimento, lo squalo eseguì una rapida manovra schivando i rami più intricati, ora si trovava davvero a breve distanza dalla giovane archeologa.
 
Nico Robin si sentiva la testa pesante, aveva passato gli ultimi giorni prima dell’arrivo sull’isola in modo piuttosto tranquillo, aveva scherzato con Luffy, Chopper e Sanji come suo solito e si era dedicata alle sue letture quotidiane senza alcun problema – Dev’essere la grande pressione delle profondità – pensò – anche se questo liquido sembra limitare in qualche modo la pressione, mi sembra in qualche modo diversa da quando sono entrata – ormai era madida di sudore, si tolse la giacca rimanendo con la sola canottiera scura, ripose nello zaino anche il lungo pareo che le cingeva i fianchi.
Ben presto però si ritrovò sfinita dalla lunga marcia che sembrava davvero non avere né una fine né uno scopo. S’accasciò a terra ansimando per la fatica, lo sguardo appannato rivolto verso la foresta che ora sembrava chiudersi in un abbraccio letale su di lei, le gocce di sudore cominciarono ad impregnare il terreno e il respiro affannato agiava in modo irregolare le alghe circostanti. In quel momento scorse una piccola luce provenire dal terreno di fronte a lei, sembrava quasi che diventasse sempre più intensa man mano che il suo sudore toccava il terreno. Con uno sforzo quasi titanico scostò con le mani le alghe per scorgere la fonte di quella luce e notò con sorpresa che erano due piccoli quadratini di colore rosso molto intenso; aguzzò la vista cercando di distinguerli meglio ma sembravano non possedere altre capacità particolari se non quella di brillare a contatto con l’acqua.
La stessa fonte di luce si manifestò sul percorso all’altezza del suo ombelico e dei piedi, sempre una coppia di quadratini di luce rosso intenso. ancora confusa per lo strano fenomeno che stava osservando si rimise a sedere, ma la testa ancora le pulsava, provocandogli non poco fastidio
Ci sono molti modi per uscire da un labirinto piccola mia
“Mamma!?” Robin riconobbe la voce fin troppo familiare risuonarle nella testa poco prima che i dolori sparissero; ora sembrava tutto passato. Nel silenzio della foresta marina l’archeologa della ciurma di Cappello di Paglia non riusciva a non pensare alle parole che aveva sentito dentro di sé, doveva esserci un motivo se proprio in quel momento le erano tornate alla mente quelle parole. Lo sguardo era ancora fisso sui piccoli oggetti rossi sul terreno, mentre un vortice di pensieri sconnessi si faceva strada distruggendo ogni costrutto logico della sua mente. Chiuse gli occhi cercando di placare quella tempesta, ripensò a tutte le strane voci e alle frasi che aveva udito fino a quel momento, quando vide chiaramente la soluzione all’enigma della foresta.
 
La bestia bianca sembrava divertita, vedeva lo sgomento e l’apprensione della sua preda aumentare col passare del tempo, avrebbe atteso ancora qualche minuto in attesa che le sue forze si esaurissero del tutto, poi avrebbe sferrato il suo attacco. Gli occhi gialli seguirono di nuovo la donna tornare sui suoi passi, l’enorme sagoma pallida fluttuò nel liquido della foresta scivolando leggero e silenzioso, come una sentenza. Ora sembrava che qualcosa si fosse risvegliato nella sua preda, ma questo gli importava ben poco, tanto alla fine sapeva bene come sarebbe andata a finire, finiva sempre così, il più forte mangia il più debole, era questa la regola del gioco, e in quella foresta lui non aveva mai perso. Nuoto seguendo la figura sottostante nascondendosi ed attendendo, voleva ancora indulgere in quel gioco dell’attesa, se non altro, quella giornata non sarebbe stata noiosa in ogni caso.
 
La soluzione era così semplice che la sua mente l’aveva elaborata ancor prima che lei potesse accorgersene, cercando di comunicargliela in qualche modo. La foresta che copriva quasi del tutto la luce e che schermava ogni suono proveniente dall’esterno, era in realtà un grande labirinto, forse costruito proprio da quella civiltà di cui Robin agognava i segreti. La strana voce le aveva suggerito la soluzione, facendole tornare alla mente un metodo semplice per percorrere i labirinti e trovarne l’uscita. In pratica il metodo consisteva nel seguire un percorso scelto a caso all'interno del labirinto fino a raggiungere un incrocio, marcando la via percorsa fino a quel momento. Nel caso in cui il corridoio conducesse ad un vicolo cieco era necessario tornare indietro fino all'incrocio precedente, marcando la via all'andata e al ritorno.
Quando si giungeva ad un incrocio di più corridoi si prendeva preferibilmente una via che non era stata segnata come percorsa in precedenza, e se ciò non era possibile si prendeva una via percorsa una sola volta. Di fatto escludendo tutti i percorsi segnati due volte si era in grado di trovare la via d’uscita. Dunque quelle due luci rosse erano gli indicatori, evidentemente qualcuno aveva già percorso questo labirinto e la via sulla quale si trovava era un vicolo cieco.
Robin si mosse rapida tornando sui suoi passi fino alla piazzola precedente, cercò sul terreno gli stessi segni trovati in precedenza e vide che solo una strada presentava un singolo quadratino rosso luminescente. S’incamminò spedita, per la foresta che ormai non le incuteva più alcun timore, superati altri incroci, scorse i primi resti di quello che doveva essere un lungo muro di cinta; il perimetro del labirinto.
Giunta ormai priva di forze dopo una marcia di qualche ora, la giovane archeologa scorse una luce al termine di un lungo corridoio di alberi bianchissimi, la volta formata dai rami e le foglie era di un azzurro misto a verde acqua che ricordava le onde del mare, proprio come descritto nei suoi appunti sui Poignee Griffe. Si lanciò rapida lungo il sentiero e quando la luce colpì di nuovo i suoi occhi, la vide: un enorme stele cubica intarsiata da misteriosi simboli silenziosi, simboli che parlavano solo per lei e che solo lei sapeva ascoltare.
In quel momento anche i rumori leggeri che prima erano coperti dal manto della selva, tornarono ad affollare i suoi sensi, e proprio uno di questi la fece voltare verso l’enorme figura bianca che la stava attaccando alla sua sinistra: le enormi fauci con tre file di denti spalancate, gli occhi gialli iniettati di sangue, il corpo massiccio lanciato a tutta velocità contro di lei. Di riflesso riuscì a schivare il primo assalto, ma già il grande squalo bianco era pronto a lanciarsi di nuovo all’assalto, con un rapido movimento di coda si spinse ancora verso la sua preda; questa volta Robin non esitò: “Six Fleur” e incrociando le mani fece spuntare sei braccia sul dorso del grande pesce cercando di bloccarne i movimenti, ma senza successo.
“Sono troppo stanca per combattere, non so cosa posso inventarmi”
Lo sguardo di Robin spaziò per tutto il boschetto cercando una via sicura per mettersi al riparo, notò un gruppo di alghe rampicanti che saliva fra le fronde degli alberi alla sua destra, si gettò su di esse prima che il mostro bianco potesse riprendere l’inseguimento, si arrampicò fino in cima cercando di nascondersi alla sua vista, ma l’olfatto sviluppato dello squalo bianco non lasciava scampo a preda alcuna. Il pesce pallido cominciò a mordere furiosamente la corteccia dell’albero bianco fino a scuoterlo pesantemente, Nico Robin dovette ricorrere un’altra volta alle sue abilità per non subire troppi danni: “Cinq Fleur” e subito una liana di braccia accorse in aiuto della donna impedendole una rovinosa caduta. Tuttavia si trovava di nuovo a terra, affaticata e alla mercé del predatore degli abissi. Un terzo scatto repentino della bestia bianca la proiettò a pochi passi dalla preda, immobile di fronte alle sue grandi fauci spalancate quand’ecco un fascio di luce balenò davanti al viso di Robin schiantandosi con gran fragore contro lo squalo gigante. La bestia si accasciò a terra immobile ai piedi dell’archeologa, la quale vide di fronte a sé una figura fin troppo familiare: perizoma, spalle larghe, camicia a fiori, un braccio meccanico fumante teso verso di lei ed una testa rasata a zero con stampata un espressione seria e decisa, gli occhi coperti da un paio di occhiali da sole.
“Franky!?” disse, mentre la vista cominciava ad appannarsi.
“Non mi chiedere” le rispose il cyborg che le aveva appena salvato la vita. Robin si accasciò a terra, poi fu solo buio e silenzio.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Sweet Dreams ***


Capitolo IV
Sweet Dreams

 
“Qualcosa ti turba?” Clover si rivolse ad Olvia che stava fissando un angolo oscuro del grande archivio, le era parso che dagli scaffali, qualcosa o qualcuno avesse posto il suo sguardo su di lei.
“No…niente”
“Quindi sei sicura che affidarsi al ragazzo sia la scelta migliore? Non mi va molto a genio di mettere a repentaglio una vita tanto giovane.”
“Le scelte a nostra disposizione sono poche, e il ragazzo potrebbe rivelarsi un elemento disturbante per i nostri detrattori”
Nico Robin fissava la madre nel suo colloquio col professor Clover, la luce della fiammella danzava al ritmo dei loro respiri nel gelo della grande sala quando una luce proveniente dai suoi piedi la costrinse a volgere lo sguardo verso il basso. Ed eccoli, dall’ombra del pavimento due occhi fiammeggianti la stavano fissando, mentre due lingue di fuoco legate alle sue gambe le impedivano ogni movimento.
Lento ma inesorabile il fuoco si diresse come un fiume alle spalle di Olvia si erse assumendo una sagoma umana: immense braccia, petto possente e vita stretta, appena Robin la riconobbe raggelò.
“Non puoi sfuggirmi…tu…sei…mia”
Detto questo calò il potente braccio di fuoco sulle spalle di Olvia che si dissolse come una nuvola di fumo insieme ad ogni altra figura, in quell’attimo fugace, solo un grido acuto eruppe dal petto della giovane archeologa.
 
Nico Robin aprì i suoi occhi colmi di lacrime, ancora confusa tastò il terreno per prendere contatto con la realtà, si accovacciò raccogliendo le gambe intorpidite vicino al suo corpo. Solo dopo qualche istante e dopo aver riconosciuto il piccolo boschetto in fondo al labirinto della foresta del mare, i ricordi degli ultimi attimi prima di svenire le tornarono alla mente. Davanti a lei giaceva il grande cubo immacolato recante i Poignee Griffe, ansiosa cercò il suo taccuino – Devo sbrigarmi a raccogliere tutti i dati necessari – ma con sorpresa realizzò di non avere più indosso i propri vestiti.
Osservandosi attentamente, notò non solo l’assenza della sua giacca viola che aveva legato ai fianchi, ma anche che la canottiera nera era sparita lasciandola quasi del tutto scoperta. Unico indumento che si vide addosso: una camicia con temi floreali.
In quell’attimo, resasi conto della situazione, fu colta da un sentimento d’imbarazzo che le era poco usuale; ispezionò ogni punto del suo corpo per essere sicura che fosse tutto al suo posto: oltre alla camicia indossava i suoi soliti slip neri.
“Non preoccuparti per i tuoi panni, tra poco saranno asciutti” la voce proveniva dalle dietro le sue spalle. La studiosa si voltò di scatto, sobbalzando per un attimo, colta alla sprovvista. Riconobbe il cyborg che l’aveva salvata dall’enorme squalo bianco, sembrava intento a maneggiare una specie di getto di calore. Lo osservò attentamente mentre armeggiava coi suoi indumenti e davvero non riusciva a capacitarsi di come quell’immagine vista poco prima potesse essere tanto rassomigliante al suo compagno di viaggio.
Franky, sentendosi osservato si voltò verso la ragazza: “Ce la fai ad alzarti? Non credo sia sicuro rimanere qui a lungo, i miei sensori avvertono continui sbalzi di pressione”
Robin cercò di rialzarsi con calma e senza sforzi eccessivi, ma il terreno leggermente muschiato la sbilanciò facendole perdere l’equilibrio. Il cyborg si mosse rapido in suo aiuto, non era molto distante, e riuscì ad afferrarla prima che potesse cadere
“Hey Robin che ti prende!? Sicura di star bene?”
“Si Franky, ho solo avuto un piccolo giramento di testa, ma sono in grado di cavarmela da sola senza il tuo aiuto.”
“Va bene” replicò calmo e impassibile il carpentiere “anche se…ehm…ti consiglio di chiuderti meglio la camicia”
Robin notò l’evidente rossore sul volto di Franky mentre questi girava la testa di lato, poi osservò meglio la camicia e notò che la caduta l’aveva scostata proprio all’altezza dei seni che ora erano del tutto scoperti
La giovane archeologa arrossì tutta d’un colpo spingendo il cyborg lontano: “Ma come ti permetti!!!” cercò di riabbottonarsi la camicia non senza qualche difficoltà “Hai visto tutto vero? Sei proprio un pervertito!”
“Beh…scusami tanto se ho cercato di darti una mano!!!” le rispose Franky che intanto era stato scagliato a diversi metri di distanza
“Il tuo aiuto non era affatto richiesto”
“Oh ma certo! Sono sicuro che, ridotta com’eri, avresti fatto fuori quell’enorme mostro senza fatica, giusto?”
“Non mi riferivo a quello, ma…” Robin vinse l’imbarazzo pronunciando parole ferme e decise “chi ti ha dato il permesso di spogliarmi e di mettermi addosso la tua camicia da pervertito?”
L’enorme cyborg si rialzò in piedi e con espressione dura si avvicinò alla testarda amica, non aveva intenzione di farse mettere i piedi in testa
“Quando sei svenuta davanti a me eri tutta sudata e avevi la febbre alta, cosa pensavi potessi fare, eh?! Ho cercato di abbassarti la temperatura, e di certo non potevo lasciarti i tuoi panni bagnati addosso” Franky si ritrovò a gridarle in faccia senza rendersene conto “quindi ho dovuto sacrificare una delle mie splendide camicie di riserva per coprirti!!!”
Robin che ora aveva il volto del cyborg molto vicino al suo si ritrasse per lanciare uno schiaffo forte e preciso
“Sei proprio un tipo rozzo e indelicato! Ti sembra questo il modo di parlare ad una ragazza che si sente violata?!”
Franky non poteva credere a quelle parole “Che si sente cosa? E quando mai saresti capace di provare qualcosa del genere?”
“Si dà il caso che sia una donna anch’io come tutte le altre, o forse questo particolare ti è sfuggito mentre mi cambiavi?”
“Certo che no!...Ma…ops” il cyborg di rese conto di aver scelto la risposta sbagliata
“CLUTCH!!!” in un attimo due mani si materializzarono all’altezza dei fianchi dello sventurato carpentiere, dirette verso le parti intime le quali furono strette in una morsa micidiale; non era la prima volta che Franky sperimentava questo tipo di trattamento…ma erano passati più di due anni dall’ultima volta.
Si accovacciò dal dolore e con le poche forze che fu in grado di raccogliere rivolse uno sguardo afflitto verso l’archeologa che ora lo sovrastava quasi fosse una montagna.
“Fufufufu…allora lo ammetti di essere un pervertito”
“No…aspetta Robin…non esageriamo” la morsa si fece più stretta “Va bene, perdonami, non volevo farti niente di strano!!!”
“Dovrei fidarmi?!” un sorriso sardonico attraversò le labbra della ragazza “Massì! In fondo non sei così sveglio”
Le mani sparirono lasciando Franky dolorante, mentre Robin si era già diretta a recuperare il suo taccuino – Sembra tutto in ordine, è meglio che mi metta al lavoro – si diresse verso l’enorme lastrone e cominciò a decifrare il Poignee Griffe.
Tuttavia c’era qualcosa che non rendeva il lavoro tanto facile, i molti pensieri che le attraversavano la mente non rendevano facile concentrarsi su quell’antica lingua: le immagini del sogno che aveva avuto qualche minuto prima unite al pensiero di Franky che le salvava la vita, era soprattutto quel pensiero a turbarla maggiormente. Il robot intanto era tornato ad asciugare i vestiti, ormai erano pronti, prese due rami che erano caduti lì intorno a causa del precedente scontro, vi legò per il lungo uno dei suoi cavi da riporto e ci appese i panni; si rivolse poi verso Robin e la vide intenta ad ispezionare il lastrone di materiale indistruttibile
“E così questo sarebbe uno di quei Poignee Griffe che vai cercando”
“Bravo, noto che anche una persona rozza come te sa riconoscere le cose ovvie” pronunciò quelle parole senza distogliere lo sguardo dai pittogrammi.
“Uhmf…guarda che non sei la sola a sapere come sono fatti”
“Però di certo sono l’unica che li sa leggere”
“Ah ah, come se a me importi qualcosa di cosa possano dire”
Robin colse una strana inflessione in quell’ultima frase pronunciata dall’amico, ma decise che in quel momento non era importante. Franky riprese
“Robin, noi dobbiamo parlare”
“Se è per quello che è successo prima, lascia stare”
“No è qualcosa che ho bisogno di sapere, qualcosa d’importante”
Robin si voltò verso il cyborg, si tolse gli occhiali che usava per esaminare le antiche scritture e gli rivolse uno sguardo sconsolato “Dato che io non ho nulla di cui parlare con te, direi che è più un tuo bisogno personale, non credi? E posso ben immaginare cosa ti passi per la mente ora”. Franky arrossì a quelle parole, ma era deciso ad insistere
“Non farti strane idee! Ho bisogno di sapere cosa sai dell’arma ancestrale Pluton”
Robin inarcò un sopracciglio con evidente segno di curiosità, non si aspettava quella domanda così a bruciapelo “Quello che so è che esistevano dei piani di costruzione, che tu hai accuratamente distrutto per evitare che cadessero in mano al CP9…il fatto che li avesse Iceburg rende logico pensare che in origine i piani fossero stati scoperti dal carpentiere Tom”
“Già, Tom possedeva i piani, ma quelli che ha dato ad Iceburg erano dei falsi”
Nico Robin sgranò gli occhi in un misto di sorpresa e sgomento, se quella notizia fosse stata vera: avrebbe potuto essere in qualche modo correlata alle sue strane visioni, e il fatto che in una di queste Franky comparisse sotto forma di sagoma fiammeggiante, poteva significare solo che lui era coinvolto in qualche modo.
“Franky!!! Devi dirmi tutto quello che sai al riguardo, hai idea di quello che hai appena detto?” le mani avevano afferrato il colletto sporgente della camicia floreale.
“Si certo, so benissimo cosa vorrebbe dire avere per le mani i piani di un’arma ancestrale” Franky prese le mani di Robin, le staccò dalla camicia e la invitò a sedersi:
“Devi sapere che i veri piani di Pluton sono sempre stati in mio possesso, e non fu Tom a darmeli, ma una donna che ti assomigliava moltissimo, una donna dai capelli bianchi, mi disse che ero l’unica persona degna di fiducia per quell’incarico, io allora ero solo un moccioso di appena quattordici anni. Ricordo che guardai Tom e lui mi sorrise come faceva sempre e mi disse che potevo prenderli, ma che avrei dovuti custodirli con la massima cura”. Nico Robin ascoltava ogni parola con lo sguardo perso nel vuoto, a mano a mano che Franky continuava il suo racconto dei giorni in cui sua madre, Nico Olvia, aveva soggiornato a Water Seven si rese conto che qualcosa dentro di lei cominciava a farsi strada, un fiume di ricordi si riversò nell’animo della ragazza squassando ogni angolo del suo essere. Intanto Franky continuava il suo racconto:
“Poi da quando ci siamo rimessi in viaggio, non faccio altro che avere visioni di questa donna che continua a ripetere di salvare una piccola bambina, ma quella donna non è quella dei miei ricordi di bambino…quella donna sei tu Robin! E anche quella bambina, siete quasi due gocce d’acqua, è una tua sorella?” proseguì raccontando le immagini di devastazione e fiamme che si susseguivano in quelle visioni.
Robin ascoltò tutto quanto e ad ogni parola le sembrava che il cuore dovesse esploderle di dentro, il petto nudo sotto la camicetta ansimava pesantemente, mentre gli occhi ormai vuoti di ogni espressioni si perdevano nel vuoto profondo che si delineava nel suo animo.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Chi cerca trova ***


Capitolo V
Chi cerca trova


Il paesaggio saettava intorno a lei con la rapidità del suo respiro, il verde degli alberi si fondeva con le macchie di luce del sottobosco che a poco a poco s’immergeva sempre più nell’oscurità.
Con un balzo superò le intricate radici che le sbarravano la strada, si voltò indietro fissando gli occhi verso un punto lontano, nessuno la inseguiva più ormai; perché allora continuava a correre? I capelli bianchi impregnati di sudore volteggiavano al vento, lasciando dietro di loro piccole goccie d’acqua; Nico Olvia si fermò a riprendere fiato, era riuscita a sfuggire ai suoi inseguitori ed allo stesso tempo era giunta molto vicina al luogo che stava cercando.
La ricerca era la sua passione, una passione che al di fuori di Ohara era considerata pericolosa, Olvia non voleva porre alcun limite alla sua sete di conoscenza, si era sempre interessata ai grandi misteri della storia, in particolare ai quegli anni bui che nessuno aveva mai avuto il coraggio di indagare. Solo più tardi capì che non era per mancanza di volontà da parte degli storici, che le indagini e le ricerche non si svolgevano regolarmente, ma che precise direttive del governo mondiale avevano proibito di svelare i misteri dietro quella parentesi storica. Quel velo calato sul tempo, sul mondo, aveva richiamato Olvia fin da giovane, facendole scaturire il desiderio di scoprire la verità e di regalarla al mondo: “un dono pericoloso” si ripeteva spesso, da anni ormai quella ricerca e quel sogno non le avevano portato altro che guai.
Soprattutto quando ad un certo punto, lo studio dell’antico alfabeto dei Poignee Griffe l’aveva portata a decifrare informazioni a dir poco incredibili sulla cultura della civiltà antecedente all’attuale. Molti Poignee Griffe parlavano di città, tradizioni, cultura e conoscenze di ogni genere, ma proprio non riusciva a capacitarsi come gli antichi, avessero voluto fissare nei segni, le informazioni riguardanti armi dalla potenza incalcolabile. A detta di questi scritti, le cosiddette armi ancestrali erano in grado di seminare morte e distruzione su larga scala, cancellando qualsiasi cosa si ponesse loro contro. Ma che senso aveva lasciare ai posteri queste informazioni? Inoltre, se queste armi erano davvero così potenti da poter rovesciare le sorti di una guerra, come mai non le usarono per difendersi dalla grande guerra che li cancellò dalla faccia del mondo?
 
Nico Olvia passò diversi anni nello studio di questi particolari Poignee Griffe, cercando di determinare i luoghi nei quali l’antico popolo aveva celato queste armi ancestrali. Dalle informazioni ricavate, aveva capito che tramite queste armi, la faccia del mondo era già stata sconvolta e che i luoghi descritti dai monoliti non corrispondevano più ormai, alle isole sparse per il mondo. Con molta pazienza arrivò a ricostruire una mappa del mondo dalle informazioni dei Poignee Griffe trovandovi uno schema ben preciso nella posizione di ogni monolite. Ognuno di questi non era stato messo a caso, ma in modo da formare un percorso ben preciso, che andava attraversato con esatta precisione, prima di poter accedere ai segreti delle antiche armi.
Olvia era arrivata alla fine di uno di questi percorsi, le innumerevoli tracce ed i sottili indizi l’avevano portata in questa isola ricoperta da una vegetazione simile alla foresta pluviale, aveva attraversato mari, deserti ed aveva combattuto contro diverse bestie feroci per ottenere le informazioni che cercava. Non per ultimo, aveva attirato l’attenzione dei corpi speciali della Marina; il CP9 le dava la caccia ormai da tempo, dapprima aveva sospettato che volessero dissuaderla dallo studiare i segreti celati dall’antica lingua, successivamente, si rese conto che più di ogni altra cosa, il CP9 e di fatto il Governo Mondiale, temevano che la scoperta delle armi ancestrali avrebbe rigettato il mondo nel caos di una grande guerra. Erano stati proprio due agenti del CP9 che l’avevano contattata per un incontro circa due settimane prima, quando ancora soggiornava nel regno di Alabasta.
 
Avevano concordato per trovarsi in un luogo pubblico e dato che la proposta veniva direttamente da loro, Olvia non se la sentì di rifiutare, era curiosa di sapere a cosa mirassero quelle persone che da tempo le stavano alle calcagna; si diresse dunque verso la piazza della grande capitale del regno, essendo pieno pomeriggio il traffico di persone intente a seguire i propri affari era imponente: chi era intento a far spesa al mercato, chi raggiungeva il posto di lavoro o anche chi semplicemente aveva portato i figli a fare una passeggiata per la città. Il vociare della folla e la brezza del deserto erano molto intensi quel pomeriggio, Olvia si portò al centro della piazza dove una grande fontana zampillava acqua fresca e potabile, si guardò intorno esaminando i passanti cercando d’individuare gli agenti con cui doveva incontrarsi; un rumore di passi più leggero di altri attirò la sua attenzione, si voltò lentamente ed alle sue spalle emersero dal nulla un paio di agenti, li riconobbe subito: il tipico abbigliamento degli agenti del CP9, un completo nero con camicia bianca e cravatta nera, era inconfondibile. Per un attimo si chiese come facessero a sopportare il caldo torrido del deserto di Alabasta.
“Capelli bianchi, occhi blu, cappotto lungo e chiaro” l’agente la squadrò da cima a fondo “tu devi essere Nico Olvia”
L’archeologa sorrise compiaciuta, a quanto pare era riuscita ad attirare così tanto l’attenzione che ora il CP9 la riconosceva a vista
“Completo nero, portamento austero, ed una malcelata spocchia” Olvia passò col dito sulla giacca scura del giovane di fronte a lei “tu devi essere una recluta del CP9” l’agente si stupì non poco per quella reazione così pronta e non riuscì a celare il suo imbarazzo. Da dietro le sue spalle il suo collega scoppiò in una sonora risata divertita
“Ahahah! Sapevo che oggi mi sarei divertito con te Riley, sai davvero come renderti ridicolo in queste situazioni”
“Shinjiro-senpai non mi pare il caso di prenderla troppo alla leggera. Abbiamo ricevuto precise istruzioni riguardo questa donna, e…”
“Istruzioni riguardanti me?” interruppe divertita Olvia “e di che genere miei cari signori?”
L’imbarazzo del giovane agente si fece molto più evidente, sapeva di aver parlato a sproposito, si voltò verso il suo superiore con aria afflitta “Senpai..io, veramente non…”
“Lascia stare Riley” replicò Shinjiro senza mostrare alcuna alterazione “sono errori comuni tra le reclute, ora vediamo di passare ad argomenti più seri”
L’attenzione della studiosa ora era tutta verso l’agente Shinjiro: alto, bruno e scuro di carnagione, occhi verdi come un mare d’erba celavano tutta l’esperienza d’innumerevoli operazioni ad alto rischio; negli anni Olvia aveva imparato a distinguere le persone e a leggere il loro passato attraverso i segni del corpo; quello sguardo fisso su di lei non le piaceva, sapeva che non sarebbe stato facile liberarsi di lui. I tre i sedettero presso un tavolo all’aperto di un locale della piazza, ordinando qualcosa da bere, non sembravano attirare troppo l’attenzione, forse perché ognuno dei presenti era occupato a pensare agli affari propri, Olvia si sedette di fronte ai due agenti in modo da avere un’amplia visuale del circondario per un’eventuale fuga, appoggiò la schiena contro la sedia reclinando leggermente la sedia
“Bene signori, di cosa volgiamo parlare?”
Dall’atteggiamento dei due membri del CP9 si capiva che a condurre la discussione sarebbe stato Shinjiro; posò i gomiti sul tavolino circolare incrociando le mani ed appoggiandovi contro la testa, gli occhi stavano sempre fissi sulla giovane storica. Trasse un profondo respiro: “Cosa porta un’archeologa della famosa Isola di Ohara in un luogo lontano come il Regno di Alabasta?”
Olvia si stupì per un attimo della domanda, posò la tazzina di caffè che stava sorseggiando e rispose prontamente: “Mi ha sempre affascinato la storia di questo antico regno, e trovo che ci sia ancora molto da svelare riguardo la storia delle passate dinastie”
La giovane recluta emise un verso di disprezzo che né Shinjiro né Olvia degnarono di attenzione
“E queste ricerche…” proseguì “lei le svolge in mezzo al deserto?”
“Le antiche rovine possono trovarsi sepolte dalle dune di sabbia”
“Beh, certamente, ma da quel che so nel deserto al di fuori della capitale, non sono mai esistite strutture appartenute alle antiche dinastie regnanti ad Alabasta”
L’archeologa sorrise compiaciuta ma non si scompose: “Vedo che anche lei è un esperto della storia di questo paese”
“Oh niente affatto dottoressa Olvia” rispose ridendo il bruno agente del CP9 “è solo che ho fatto qualche ricerca…e guarda caso sono venuto a conoscenza di ben altri ritrovamenti in quella zona desertica”
Shinjiro mise una mano nella tasca interna della giacca e tirò fuori alcune fotografie che dispose davanti ad Olvia, la studiosa le osservò attentamente, erano foto molto particolari, rappresentavano una grande stele con dei segni strani e particolari, segni che lei conosceva bene, infatti di fianco a questa particolare stele riconobbe la sua figura intenta ad esaminare i Poignee Griffe.
“A me questa più che ricerca sembra spionaggio agente Shinjiro” replicò Olvia senza scomporsi, tuttavia aveva già capito dove il discorso voleva andare a parare, gli occhi già cercavano una via di fuga agevole da quella situazione
“Non c’è molta differenza tra spiare e ricercare, in entrambi i casi si viene sempre a scoprire qualcosa d’interessante, non trova?”
“Dipende agente”
“Da cosa?”
“Da chi lo ritiene interessante” Nico Olvia cercava di evitare lo sguardo indagatore di Shinjiro, i suoi occhi verdi erano ormai diventati un ossessione per lei. L’agente ripose le foto nel taschino e con tutta calma proseguì la discussione
“Inutile negare che lei abbia attirato l’attenzione di certe personalità, specialmente tra i miei superiori”
“Immagino non siano professori o accademici giusti agente Shinjiro?!” l’agitazione nella voce della storica era quasi palpabile, Shinjiro se ne rese conto e cercò di tranquillizzarla, non voleva che la paura potesse far compiere gesti inconsulti alla giovane.
“Dottoressa Olvia non si preoccupi, qui nessuno vuole farle del male” ora le braccia erano incrociate sul petto e lo sguardo si era fatto meno severo, Nico Olvia tornò a fissare quegli occhi verdi come un prato d’erba cercandovi una via di fuga
“Chi mi garantisce per la sua parola?”
“Lei ha la mia parola che oggi non le verrà fatto alcun male, non siamo venuti per deportarla”
“Davvero?! Allora perché questa urgenza di un incontro?”
“Vogliamo solo, i miei superiori ed io, che lei la smetta d’inseguire fantasmi e vecchie profezie”
“E lei cosa ne sa di cosa sto cercando?! Non siete in grado di capire nulla” pronunciò quelle parole con astio tirando fuori l’orgoglio intellettuale che sempre l’aveva contraddistinta.
“Sappiamo bene che lei, dottoressa Olvia, si sta interessando a particolari tipi di Poignee Griffe. Non creda che anche al Governo Mondiale manchino i ricercatori e gli storici!”
Olvia capì, era stata smascherata, alla fine avevano scoperto che la sua ricerca puntava alle armi ancestrali, si alzò di scatto dalla sedia muovendosi per allontanarsi da quel posto. La giovane recluta Riley cercò di fermarla ma fu trattenuto dal collega più anziano il quale a sua volta si alzò lentamente in modo da essere faccia a faccia con la giovane archeologa. Entrambi si fissarono negli occhi quelli di Olvia pieni di rabbia e sconforto, quelli di Shinjiro ora calmi e compassionevoli; Olvia s’incamminò con passo deciso passando oltre l’agente del CP9
“Riley aspettami qui, è un ordine!” si voltò e si diresse a passo svelto verso la studiosa che aveva imboccato una via laterale della piazza.
Shinjiro la vide in un vicolo  e con uno scatto la raggiunse fino ad afferrarle un braccio, stringendolo con forza
“Mi lasci!” gridò Olvia in preda al panico
“Aspetta Olvia, non capisci…” ora Shinjiro cercava di calmarla “non sono venuto per farti del male, ma per avvertirti”
“Avvertirmi di cosa? Che il CP9 vuole uccidermi? Che se continuo con le mie ricerche il governo mondiale metterà una taglia sulla mia testa?” l’agitazione aveva ormai preso il posto del pacato e posato atteggiamento che la contraddistingueva, Shinjiro fece forza sul braccio sbattendo l’archeologa conto il muro del vicolo, si avvicinò in modo da non darle spazio per scappare, ora erano viso a viso
“Molto peggio, non sai di cosa possono essere capaci i miei superiori” Olvia ora leggeva negli occhi dell’agente del CP9 una profonda tristezza anche se ancora non ne capiva il motivo
“Olvia, devi capire che stai attraversando un percorso rischioso, che ti porterà alla rovina, non solo tua ma anche di tutti i nostri cari”
“La mia rovina?! Che intendi dire?...E poi…i nostri cari?” quella frase l’aveva lasciata quasi di stucco “non dirmi che tu…” lo stupore cancellò ogni residuo di paura dal corpo della donna, quelle poche parole le avevano spalancato una verità sorprendente.
“Si Olvia! Anche io vengo da Ohara e capisco perfettamente che sentimenti ti muovono, per questo ho cercato di farmi assegnare il tuo caso”
“Se davvero mi capisci, allora saprai che il mio interessa è solo riportare la verità”
“A volte ci sono verità che sarebbe meglio lasciare celate, soprattutto quelle riguardo alle armi dell’antico popolo! Ti rendi conto di quello che potrebbe scatenare la loro scoperta?”
“Esse sono un’eredità fondamentale, fanno parte del nostro passato! Non possiamo cancellarle dalla storia”
“Quelle armi hanno quasi cancellato la storia di tutti noi, ed ora che sono sopite le vuoi risvegliare? Solo per amore della conoscenza?!”
“Gli uomini hanno il diritto di sapere ed imparare dagli errori del passato”
“Col rischio di ripeterli? Ti prego Olvia non costringermi a fermarti nei modi che non vorrei! Ti ho già coperto diverse volte, ma ora sta diventando sempre più difficile, ti prego pensaci!”
“Non ho bisogno del tuo aiuto agente Shinjiro! In un modo o nell’altro le cose andranno al loro posto”
“Anche se quel modo non rispecchierà il tuo piano?!”
“Io me ne vado, ho delle ricerche da compiere” si liberò dalla presa e si diresse verso il vicolo sparendo nell’oscurità della viuzza.
 
A due settimane di distanza, in quella foresta pluviale, Nico Olvia si ritrovò a pensare a quell’episodio cercando una soluzione ai tanti dubbi che non volle affrontare davanti a Shinjiro, chissà se avrebbe mai avuto modo di rivederlo. Era preoccupata soprattutto per il fatto che ora aveva messo in difficoltà anche un suo conterraneo, non riusciva tuttavia a spiegarsi come un abitante di Ohara avesse potuto dedicare la sua alla Marina e ai corpi speciali del CP9. Mentre questi pensieri le affollavano la mente notò con lo sguardo che gli alberi intorno a lei mostravano degli strani intagli che non erano tipici delle venature, ma chiaramente prodotti da mano umana; sembravano rappresentare delle fiamme, erano intagli molto profondi che presentavano leggere bruciature nei contorni, seguì una linea che da un albero raggiungeva il terreno di rocce e muschio, raschiò via un po’ di quest’ultimo per trovare altri intagli nella pietra, anche qui con leggeri segni di bruciature ai bordi.
Si fermò a pensare per qualche istante poi prese un accendino, fece una torcia con un pezzo di camicetta e un ramo raccolto lì nei paraggi. Accesa una torcia di fortuna, l’avvicinò ad uno degli alberi, molto lentamente e notò che il legno non bruciava se non nei punti intagliati. Avvicinò di più la fiamma premendola con forza contro il tronco dell’albero, finché con un leggero scoppio l’intaglio non prese fuoco. Le fiamme si propagarono velocemente per tutto il percorso sull’albero, quello di fianco e quello di lato ancora, fino a formare una circonferenza intorno al pnto roccioso sul quale si era fermata. Una volta che tutti gli alberi intorno a lei si furono accesi la fiamma si diresse decisa seguendo il percorso verso la roccia sottostante, Olvia si spostò per lasciare spazio al fuoco di propagarsi. Le fiamme disegnarono nella roccia la figura di una specie di demone dalle zanne e i denti aguzzi che brandiva una spada fiammeggiante, gli occhi brillavano del fuoco che vi si era formato all’interno emanando un’aura di terrore.
Il rumore di un ingranaggio e di una botola scorrevole fecero trasalire la giovane donna che si spostò rapida ai margini della formazione rocciosa, vide il terreno incavarsi formando aprendo un passaggio con gradini di pietra. Olvia teneva ancora in mano la torcia. Si avventurò all’interno di questa nuova grotta, l’umidità non era tuttavia elevata, anzi era piuttosto secco per essere in un ecosistema pluviale, sembrava quasi che qualcosa avesse arso via ogni forma d’acqua circostante. Con la torcia ad illuminarle il cammino, l’archeologa si diresse sempre più in profondità fino ad arrivare ad una sorta di piccolo altare con sopra uno scrigno piuttosto grande. Lo scrigno era in oro puro, con rubini incastonati a formare l’immagine di un fuoco dirompente; Olvia pensò che quell’immagine evocativa doveva essere in relazione col contenuto dello scrigno e con l’immagine del demone fiammeggiante inciso nella roccia. Non aveva dubbi, doveva essere arrivata nel luogo dov’era conservato il segreto di una delle armi ancestrali.
Avvicinò le mani allo scrigno e on molta calma lo aprì sollevandone il coperchio, la luce della torcia riflettendosi sulla superficie dorata, illuminò il contenuto dello scrigno: un semplice e comunissimo raccoglitore.
Olvia prese il contenuto decidendo di esaminarlo all’esterno con calma, poi con estrema cautela uscì dalla grotta, una volta all’esterno spense il fuoco che ancora ardeva nell’intaglio e subito il meccanismo richiuse il passaggio alla grotta. Non stava più nella pelle dalla gioia, si trovava faccia a faccia con un reperto d’inestimabile valore, forse il più importante che avesse mai scoperto, un reperto per il quale aveva speso anni di ricerca. Aprì con impazienza il raccoglitore tutta presa dal desiderio di decifrare i segreti in esso contenuti, ma fu con profonda amarezza e una certa dose di sorpresa che si trovò di fronte ad una serie di fogli dalla natura incomprensibile. Numeri, linee tratteggiate sparse e all’apparenza casuali, pezzi di parole e frasi incomplete, ogni figlio sembrava essere un elenco incompleto di elementi messi alla rinfusa.
Stava perdendo la calma, e l’emozione stava lasciando il posto allo sconforto, quando decise di sedersi e ragionare con calma: “Bene Olvia, eccoci qui, non era proprio quello che ti spettavi, ma ci dev’essere una logica dietro.” Cercò di ragionare con calma, i fogli all’interno del raccoglitore erano circa una trentina e tutti presentavano caratteristiche simili, sembravano incompleti. Olvia cominciò ad esaminali a piccoli gruppi, quando notò che alcune parole presenti in un foglio facevano coppia con altre in altri fogli, formando frasi sensate e a quel punto capì. Quel raccoglitore era un puzzle, doveva contenere una sorta di testo accompagnato ad un disegno di qualche genere, ma andava riprodotto ricopiando ogni foglio nell’esatto ordine, su un supporto più grande. Olvia si sentì sollevata nel capire che comunque non erano fogli inutili o danneggiati, ma una parte di lei si sentiva delusa nelle aspettative, evidentemente l’antico popolo voleva mettere alla prova chiunque volesse carpire i suoi segreti.
“Delusa dottoressa Olvia?” quella voce fece girare di scatto l’archeologa, non aveva avvertito minimamente la sua presenza, ma Shinjiro era proprio alle sue spalle immobile, emerso dalla foresta.
“Non mi aspettavo di trovarti qui, fai anche tu una passeggiata?” rispose quasi divertita Olvia
“Ah…si, in un certo senso. Diciamo che mi piace il sottobosco, non sai mai cosa potrai trovarti di fronte” Shinjiro sorrise fissando i suoi occhi verdi sulla giovane ricercatrice.
“O chi…” con calma Olvia si alzò in piedi tenendo in mano il raccoglitore e muovendosi verso l’agente del CP9 “sono in arresto?”
L’uomo bruno inarcò il sopracciglio in segno di sorpresa: “Non esattamente, volevo solo riprendere il discorso di qualche giorno fa”
“La mia posizione rimane la stessa” alzò il raccoglitore mostrandolo fieramente all’agente di fronte a lei “ora più che mai!”
“Ti prego ancora Olvia, tu non sai in che guai rischi di cacciarti, tu e tutta la gente di Ohara”
“Quello che non so è come mai un mio concittadino, uno studioso, è entrato a far parte di un’organizzazione militare filogovernativa, tu ne sai qualcosa?!”
Shinjiro sospirò abbassando dapprima lo sguardo per poi riportarlo su Olvia, gli occhi dipinti di tristezza: “Il mio passato non ha importanza, ora ciò che conta è il futuro tuo e della nostra gente…io non posso più difenderti ed è già stato un rischio venirti ad incontrare qui”
“Ma và! Sono sicura che avrai avvisato un intero battaglione che siamo su quest’isola”
“No Olvia! Siamo solo tu ed io, l’equipaggio della mia nave non sa del perché mi trovi qui, e neanche l’Alto Comando della Marina. Sono venuto qui per salvarti Olvia!!!”
“Salvarmi da cosa? Non credo tu sia in grado di eclissarmi dagli occhi del governo mondiale”
“Salvarti da te stessa e da questa follia di voler svelare i segreti delle armi ancestrali!”
“Non sarai certo tu ad ostacolare la ricerca della verità, io perseguirò nel mio intento nonostante tutto!”
“Non hai idea di quali verità si celano dietro quelle armi, non sai a che destino stai condannando milioni di persone, ti prego non andare oltre questa folle ricerca”
“Ma mi vuoi spiegare di che cosa stai parlando? Quali segreti? Quali destini?” la voce rabbiosa di Olvia sovrastò ogni altro rumore della foresta, ma non quello dei passi diretti verso la loro posizione. Shinjiro e Olvia li udirono chiaramente, si guardarono fissi negli occhi cercando la risposta poi fu l’agente del CP9 a parlare
“Non ho idea…forse sono i miei uomini che sono venuti a cercarmi” poi una voce eruppe dalla foresta
“Nico Olvia è qui! Dobbiamo avvisare Shinjiro e catturare quella criminale!!!”
Nel volto di Olvia si dipinse il ritratto della paura “Allora era una trappola! Li hai condotti da me!!” poi si voltò verso Shinjiro aspettandosi una qualche rivelazione sul suo piano, ma nel suo volto scorse la stesso identico terrore che l’aveva colta.
“Non c’è tempo da perdere Olvia, ora devi colpirmi!” tirò fuori un coltello dal fodero sui pantaloni
“Cosa?!”
“Prendi questo e feriscimi, in questo modo potremmo salvare le apparenze” lanciò il coltello ad Olvia che lo afferrò al volo
“Ma che intendi dire Shinjiro? Perché dovrei ferirti?”
“Non capisci stupida?! Ormai è tardi e non posso più aiutarti! Se davvero vuoi metterti in salvo dobbiamo inscenare la tua fuga!”
“Ma perché devo ferirti?! Non ha senso!” l’archeologa teneva ancora il coltello in mano senza sapere cosa fare
“Sei un’ingenua forse? Sanno che sei qui, se tornassi senza averti catturato e senza neanche segni di lotta come credi che reagirebbero? Sospetterebbero di me e farebbero di tutto per tirarmi fuori ogni informazione! Non sai di cosa sono capaci…ed io non voglio tradirti!”
“Shinjiro io non posso farlo, così senza motivo…” le mani di Olvia tremavano per l’incertezza, non sapeva cosa fare, era bloccata dalla paura
“Se non vuoi che ci mettiamo tutti e due in guai peggiori di quelli in cui siamo ora, devi farlo!” poi prese le braccia della donna e con forza le premette contro il suo addome, il coltello attraversò la divisa penetrando su un fianco; Shinjiro cadde a terra ferito e sanguinante.
“Ora vai Olvia, fuggi, sei libera di scoprire tutti i segreti che vorrai”
“Non eri costretto a farlo, nessuno ti ha chiesto di aiutarmi” lo sguardo della ricercatrice cercava di mostrare un certo contegno, che tuttavia stava scivolando via lentamente “non ti ho mai visto né conosciuto e tuttavia ti sei dato tanta pena inutilmente per me!”
“Non inutilmente Olvia, io ti ho avvisato” il dolore era lancinante, ma Shinjiro riusciva ancora a parlare “hai azionato una serie di eventi che porteranno alla rovina di tutti noi, e a partire da ora ne pagherai le conseguenze, cerca solo…cerca solo di salvare più vite possibili” detto questo l’agente del CP9 perse i sensi accasciandosi a terra.
Olvia tastò il suo polso, era ancora vivo e la ferita non era molto profonda, gli altri agenti l’avrebbero ritrovato e soccorso; raccolse le sue cose e si diresse verso l’imbarcazione che aveva lasciato prudentemente nascosta in un versante non molto distante dell’isola. Mentre attraversava la foresta facendosi strada tra la fitta vegetazione non poteva fare a meno di pensare all’importante scoperta che aveva raggiunto quel giorno, per il momento aveva già in mente di consultare il professor Clover, lui avrebbe decifrato quel puzzle in breve tempo dandole le prime risposte, inoltre era più sicuro lasciare tutto ad Ohara, eppure i tanti moniti dell’agente Shinjiro di Ohara l’avevano alquanto allarmata. Evidentemente altri misteri si celavano dietro ai destini delle armi ancestrali e forse ci sarebbero voluti altri anni d’indagine per poterli svelare, un altro paziente lavoro alla ricerca della verità.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Le parole che non ti ho detto ***


Shinjiro aprì gli occhi lentamente, la luce gli perforava le palpebre come una lama bianca e impalpabile. Passò qualche istante prima che il corpo riprendesse a pieno la propria sensibilità: la vista si fece via via più nitida e quei rumori che udiva indistintamente provenire da qualche parte intorno a sé cominciarono lentamente a trasformarsi in parole comprensibili; si accorse subito che si trovava sdraiato in un letto con due comodi cuscini appoggiati dietro la testa che gli permettevano di muovere la testa in modo da potersi guardare intorno. La stanza nella quale si trovava non gli era familiare ma oltre le sponde alte del letto poteva ora distinguere i muri biancoazzurri e l’emblema della marina dipinto in nero sulla parete.
Doveva trattarsi di un ospedale militare, pensò, evidentemente la sua scampagnata nella foresta in compagnia di Olvia doveva averlo lasciato con qualche livido di troppo, e mentre osservava il resto della stanza, notò la finestra aperta e il grande giardino che si estendeva al di là di essa; era una bella giornata ed una brezza tiepida riempiva la stanza dei profumi dei fiori di campo. Cercò di allungarsi per avere una visuale migliore ma subito sentì un dolore lancinante ai muscoli dell’addome, con una smorfia si accasciò di nuovo sul letto alzando lo sguardo verso il soffitto vuoto
“Ma come diavolo mi è venuto in mente?!” quelle parole suonavano più come una forma di autocommiserazione che di una vera e propria domanda
“Già, è quello che vorrei sapere anch’io… Ti va di parlarne?”
“Non lo so, mi sento ancora un po’ confuso e poi… Che diavolo ci fai tu qui?!” pronunciò quelle ultime parole urlando per lo stupore e la quiete che tanto desiderava svanì quando infine vide di fianco al suo letto la figura di Aokiji che l’osservava in modo stanco e distratto.
“Da quanto tempo sei qui? Non dirmi che hai vegliato su di me al posto di qualche dolce infermierina!” il membro del CP9 conosceva bene l’ufficiale del Comando Centrale della Marina e sapeva quanto fosse dura cavargli dalla faccia quell’espressione altera ed impassibile, ma si era ripromesso che prima di morire sarebbe riuscito a far perdere le staffe ad Aokiji almeno una volta.
“Shelly” rispose quell’uomo di ghiaccio
“Cosa?”
“Le ho promesso una cena in cambio di qualche minuto da solo con te”
“Ma che razza di scambio sarebbe?” Shinjiro si rese conto che la sua tattica non era molto efficace, finora l’unico ad aver perso le staffe era lui “Al massimo offrila a me una cena stupido ghiacciolo!”
Aokiji ora osservava l’amico ferito con una certa dose di compatimento, sospirò sedendosi sulla sedia che aveva spostato di fianco al letto di Shinjiro, alzò le gambe e le appoggiò incrociate sopra le sponde del letto
“Sai perché sono qui Shin-kun vero? Non avrai pensato che la tua gita di piacere su un isolotto sperduto del Nuovo Mondo sia passata inosservata”
Lo sguardo di Shinjiro si fece pesante e si adagiò di nuovo sui cuscini scuro in volto, quegli occhi verdi solitamente brillanti e pieni di vita, ora apparivano spenti e svuotati di ogni energia. Anche se la presenza di un vecchio amico come Aokiji lo aveva rassicurato, i tristi pensieri che avevano affollato la mente nei giorni precedenti il suo incontro con Olvia, si fecero di nuovo pressanti come morse d’algamatolite marina. Sapeva bene perché l’ufficiale del Comando Centrale era li: un agente del CP9 ferito, una sospettata in fuga, un oggetto legato ai Poignee Griffe trafugato, ce n’era abbastanza per stendere un corposo rapporto da presentare alle alte sfere del Governo Mondiale.
“Mi stupisce che abbiano mandato proprio te… Ao-kun, mi sarei aspettato piuttosto quel bellimbusto di Kizaru o ancora peggio la brutta faccia di Akainu. Sinceramente non ti ci vedo proprio a torchiarmi”
“Amico mio così mi ferisci, io ero solo venuto a trovarti, guarda ti ho anche portato un mazzo di fiori come augurio di pronta guarigione” Aokiji sventolò un mazzo di crisantemi ed abbozzò un leggero sorriso, poi con molta delicatezza lo appoggiò ai piedi del letto.
“Per prima cosa, non mi sento di stare per morire, anche se so che ti piacerebbe un sacco, seconda cosa io odio profondamente i crisantemi e tu lo sai, terza cosa ma non meno importante… non mi chiamo Shelly!” Shinjiro lanciò il bigliettino con dedica addosso al marine, ma non fece in tempo a sfiorarlo che si ruppe in tanti piccoli frammenti di ghiaccio
“Possibile che tu riesca sempre a scherzare su tutto? Mi domando come facciano a prenderti sul serio i tuoi superiori”
“Sto solo cercando di tirarti su il morale vecchio mio, quella Nico Olvia sta diventando una vera ossessione per te, dovresti lasciarla perdere”
“Guarda che è il mio lavoro impicciarmi degli affari della gente, e guarda caso Olvia è un soggetto sotto osservazione da parte mia.”
“So bene che ti sei offerto volontario per il suo caso, non credere che non ti conosca, siete entrambi di Ohara e tu sei ancora molto legato ai tuoi conterranei. Agisci sempre cercando di risolvere i problemi senza sporcarti le mani, ma proprio per questo lato del tuo carattere, il CP9 non è il reparto adatto a te.” L’impassibilità di Aokiji e il suono atono della sua voce lasciavano trasparire un’insolita calma: era freddo, calcolatore, implacabile nelle sue deduzioni.
Shinjiro aveva subito capito dove voleva andare a parare, e per questo ringraziò il cielo che l’alto ufficiale della Marina fosse un suo intimo amico, in quei momenti Aokiji faceva davvero paura.
“Ora, se vuoi Shin-kun, lascia che ti racconti una bella storia” incrociò le gambe in senso contrario e si portò le mani dietro la testa allungandosi ancora di più sulla sedia “è la storia di un uomo che era solito navigare per i mari di testa sua: quest’uomo, che svolgeva diverse spedizioni di merci per conto del suo capo, intraprendeva sempre una rotta diversa dalla solita. Lo faceva all’insaputa del suo capo, ma riusciva sempre a raggiungere i risultati previsti; tuttavia aveva bisogno sempre di qualche amico che coprisse i suoi errori e le sue negligenze. Ora accadde, che un giorno per una di queste rotte, l’uomo perse il carico, il suo capo lo venne a sapere e chiese ad uno dei suoi dipendenti, che era anche amico dell’uomo in questione, di indagare sull’accaduto. Grande fu lo stupore dell’amico quando scoprì che in realtà l’uomo stava imbrogliando il suo capo per trattenere parte dei guadagni e che il suo lavoro di copertura aveva favorito quell’uomo ed i suoi piani.”
Shinjiro si fece pallido come un cencio, aveva capito l’antifona e dove Aokiji voleva andare a parare. Deglutì pesantemente e fissò con occhi preoccupati quelli dell’amico che stava in silenzio ad osservarlo, il marine riprese
“L’amico si trovò di fronte a due scelte: poteva denunciare l’uomo al suo capo e far si che ricevesse una severa punizione, oppure poteva coprirlo per l’ultima volta e salvarlo da quella incresciosa situazione.”
Seguì un’altra lunga pausa, Shinjiro aspettò un qualche cenno da parte di Aokiji, che tuttavia rimase imperturbabile; l’aria nella stanza si era improvvisamente fatta gelida e neppure la tiepida brezza che continuava a soffiare dalla finestra sembrava mitigare quel clima pesante e surreale. Davvero in quei momenti quell’uomo di ghiaccio sapeva infondergli un vero senso di terrore
“E quindi cosa scelse di fare l’amico di quell’uomo?”
l’agente del CP9 teneva sempre gli occhi incollati sul marine, allo stesso modo il marine affondava il suo sguardo gelido negli occhi dell’agente ferito. Shinjiro si sentiva impotente e braccato da un predatore troppo superiore a lui, Aokiji aveva capito tutto, non l’aveva detto esplicitamente, ma lui sapeva bene che dietro a quelle parole si celava la verità sulle sue intenzioni.
Nella miriade di pensieri che affollarono la sua mente arrivò a domandarsi se davvero era stato talmente sciocco da farsi scoprire in maniera così palese, oppure se tutta questa situazione era dovuta al grande intuito dell’ufficiale dei Marine. Shinjiro voleva fuggire, scappare da quell’ospedale, che era diventato da alcuni istanti una cella, come quelle nei più bassi gironi di Impel Down.
“Non lo so… conosco la storia soltanto fino qui, forse dovrei chiedere a Garp di raccontarmi il finale.”
Quelle parole ruppero di colpo la catena dei pensieri di Shinjiro, il suo volto riprese colore ed il suo respiro prima affannato si placò visibilmente. Pur sapendo che Aokiji era solito a scherzi di questo tipo, doveva ammettere che questa volta era stato davvero pesante.
“Già, sono sicuro che il tuo capo conosce il finale di questa storia meglio di te.”  Pronunciò quelle parole con leggerezza, quasi sorridendo, aveva l’impressione che anche questa volta, il suo vecchio amico avrebbe chiuso un occhio, forse per l’ultima volta.
Aokiji si alzò lentamente dalla sedia e prendendo il lungo cappotto dall’appendi-abiti, fece per uscire dalla stanza
“Ti aspetto al Comando Centrale non appena ti sarai rimesso, per il momento, il tuo caso sarà registrato come infortunio in missione. Ricordati che mi devi una spiegazione di tutto.”
Shinjiro guardò la sua figura di spalle che usciva dalla stanza, poi si ricordò dei fiori sul letto
“Hey… Non stai dimenticando niente?” disse sventolando i crisantemi
“Quelli serviranno più a te che a me”
“Che vuoi dire? Non devi uscire a cena con quella Shelly?!”
“Le ho promesso una cena è vero, ma non ho mai detto che era con me. Ci vediamo… Shin-chan.” Aokiji sparì dietro la porta, mentre fuori dalla stanza una graziosa infermiera mora e un po’ piccolina, incrociò lo sguardo di Shinjiro ed arrossendo corse via, l’agente del CP9 rimase immobile a fissare la porta che si chiuse con un leggero clack.
“E adesso dove lo trovo un altro bigliettino?!”
 
 
***
 
La notte era scesa di colpo. La foresta coi suoi fitti rami aveva inghiottito i raggi del sole oscurando il sentiero. Olvia correva facendosi largo tra i tronchi dei giganteschi alberi, correva, incespicava e cercava di aggrapparsi ad ogni sporgenza per evitare di cadere; i suoi capelli bianchi umidi per il sudore ondeggiavano nell’oscurità, ogni volta che muoveva lo sguardo alle sue spalle. Si sentiva osservata, braccata; da quando aveva lasciato Shinjiro sanguinante su quell’isola le sembrava che potessero comparire da un momento all’altro, agenti del Governo Mondale pronti a sequestrarla e portarla chissà dove per interrogarla, torturarla.
“No, non finirà qui, io non mi arrenderò!”
la voce rotta dal respiro affannoso tradiva il nervosismo dell’archeologa: da giorni non mangiava regolarmente, era sempre in movimento tra le diverse isole del Nuovo Mondo cercando di sfuggire a non ben precisati inseguitori.
D’improvviso la figura sinuosa di un leone maculato scivolò fuori dal fitto intreccio di alberi bloccando la strada di Nico Olvia. La ricercatrice di Ohara era talmente stanca per la corsa da aver perso ogni percezione verso l’ambiente circostante e si accorse troppo tardi della presenza del grande felino. Il leone avanzò con un balzo allungando la zampa artigliata verso il petto di Olvia, lei tuttavia raccolse le sue forze e con uno scatto riuscì a schivare le zanne del predatore ricadendo all’indietro. Ora si trovava a circa cinque metri di distanza dall’animale che le sbarrava la strada. Gli occhi del leone la fissavano con aria famelica, evidentemente Olvia doveva essere una facile preda per questo re della foresta; dal canto suo l’archeologa non era insolita ad incontri spiacevoli durante i suoi lunghi viaggi e nonostante si sentisse stremata, tirò fuori dalla fodera del cinturone la sua pistola pronta ad usarla in caso di estrema necessità. Si alzò cercando di mantenere la calma e la giusta distanza dal quel gatto troppo cresciuto, armò il cane e si posizionò in modo da avere una chiara linea di tiro.
“Avanti bel micione, vieni a prenderti la cena”
Quasi obbedendo a quell’invito, il leone si lanciò in un nuovo attacco e con un balzo cercò di afferrare Olvia per buttarla a terra di nuovo. Il tutto si svolse in un breve ed interminabile atto: la donna dai capelli bianchi tese le braccia e con un rapido gesto dell’indice sul grilletto fece fuoco, mirando alla testa dell’animale. Il colpo centrò in pieno il bersaglio ed il corpo esanime del leone maculato si riversò al suolo con un tonfo sordo.
Nico Olvia rimase a contemplare il corpo del predatore per qualche istante riprendendo fiato, poi riprese la sua corsa attraverso la foresta; non riusciva a togliersi dalla mente quell’intrico di pensieri legati a Shinjiro e al coinvolgimento del CP9, e come se non fosse abbastanza, ora si trovava in quella situazione proprio perché quello stupido dagli occhi verdi si era messo in testa di coprirla. Mentre correva allontanandosi dal luogo dello scontro, cercava invano un anfratto o una grotta nella quale ripararsi e passare la notte, ma i pensieri tanto confusi e pressanti quanto la vegetazione che la circondava, non le davano pace.
Una radice sporgente le intrappolò il piede facendola cadere pesantemente a terra, non aveva più forze per rialzarsi e per un attimo pensò che in fondo non sarebbe stato male riposarsi su quel morbido letto d’erba.
La rabbia che fino a poco prima animava la sua corsa sfrenata si tramutò in disperazione e gli occhi di Olvia, quei grandi occhi blu come il mare aperto, si bagnarono di lacrime amare. Aveva pianto poche volte in vita sua, e per ogni volta ne ricordava nitidamente il motivo: la prima cotta, la gioia del vero amore, la nascita di Robin e la scomparsa di suo marito. Tuttavia questa volta non capiva perché, non era sicura dei suoi sentimenti e del suo cuore, semplicemente sentiva il bisogno di piangere ed urlare la sua frustrazione.
Si girò di schiena con lo sguardo rivolto verso il soffitto di alberi, i pochi sprazzi di cielo offrivano una vista mozzafiato, un firmamento chiaro e luminoso, eppure Olvia, di quello spettacolo unico e stupendo, riusciva a cogliere solamente la sua piccolezza. Era sola, indifesa, lontana da casa e dagli amici, lontana da Robin, lontana dalla verità. Aveva combattuto e perseverato fino a quel momento, affrontando ogni difficoltà a testa alta, ma ora era a terra sia fisicamente che mentalmente: l’incontro con quell’agente del CP9 era stato davvero inaspettato. L’aveva costretta a mettersi in discussione, a considerare che forse stava combattendo una guerra persa in partenza.
“Shinjiro… Maledetto!” strinse i denti mentre le lacrime le solcavano le guance “tu non sai nulla… Non sai nulla!” urlò quelle ultime parole, le stesse che avrebbe voluto dire a quell’agente governativo, le stesse che avrebbe voluto urlare in faccia a Clover e a tutti quelli che l’avevano sempre osteggiata.
Il cielo raccolse muto quelle grida esasperate, senza rispondere nulla.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1875630