This is love

di myheartwillgoon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Arrivo a Dublino ***
Capitolo 2: *** Cappuccino ***
Capitolo 3: *** Malinconia ***
Capitolo 4: *** "Nothing" ***
Capitolo 5: *** Dolore ***
Capitolo 6: *** Risveglio ***
Capitolo 7: *** Lo zoo ***
Capitolo 8: *** Fobia ***
Capitolo 9: *** Sogno o realtà' ***
Capitolo 10: *** Dublin's Streets ***



Capitolo 1
*** Arrivo a Dublino ***


CAPITOLO 1

«Mamma, devo andare, hanno già chiamato il mio volo!» mormorai all’orecchio di mia madre che non faceva che piangere.
   «Lo so tesoro, vai e mi raccomando chiama appena arrivi!» mi ripeté lei, asciugandosi il viso.
   Abbracciai forte mio padre che, anche se non voleva darlo a vedere, tratteneva a stento le lacrime. «Divertiti, vedrai che l’estate passerà in fretta, goditi questa vacanza, te la meriti.»
   Gli ultimi saluti li riservai al mio fratellino che, nonostante litigassimo di continuo, non mi voleva lasciare e alla nonna che non voleva mancare alla mia partenza.
   Presi la valigia e mi incamminai verso il gate 8, dal quale sarei partita per Dublino. Continuai a sbracciarmi finché non li persi di vista e solo allora mi resi conto di quanto mi sarebbero mancati. Respirai a fondo e sentii ancora chiamare il mio volo, era ora di andare. Mi feci strada tra la gente che affollava l’aeroporto e mi precipitai verso l’aereo giusto in tempo. “Cominciamo bene!” pensai.
   Le hostess presero il biglietto, ne strapparono l’estremità e me lo riconsegnarono, augurandomi buon viaggio. Arrivata al mio posto un uomo, probabilmente irlandese, si propose di sistemarmi il trolley nella cappelliera e io lo ringraziai. Ero già stanca prima di partire, non avrei mai superato i tre mesi che mi rimanevano. Infilai le cuffie dell’Ipod e mi rilassai, godendomi la vista dall’oblò. A circa metà viaggio sentii una mano che mi scuoteva leggermente, aprii gli occhi e vidi che l’uomo che mi aveva aiutato mi indicava alla sua destra. Una hostess stava servendo da bere così presi un succo. Quella sorrise e passò oltre. Ringraziai nuovamente l’uomo e lui si scusò per avermi disturbata. Si presentò come David e mi raccontò che era stato in Italia per far visita a un suo caro amico e che ora tornava dalla famiglia. A interromperci fu la voce del pilota che ci informava dell’imminente atterraggio. Scendendo salutai David che mi diede il suo biglietto da visita nel caso avessi voluto chiamare per un saluto. Per essere la prima giornata non era andata poi così male.
 

«Ti odio» urlò la ragazza, gettando a terra un vaso che andò in mille pezzi.
   «Perché dici così? Cos’ho fatto di male? Dimmelo!» rispose lui, rosso in viso.
   «Pensi forse che non sappia che fai il cascamorto con la tua assistente? Non voglio più vederti, che sia ben chiaro, sei solo uno schifoso come tutti gli altri!»
   «Ma cosa stai dicendo» disse disperato lui, prendendole il polso, «non ho mai fatto niente di niente con Sharon, è solo un’amica, niente di più!»
   «Lasciami, Danny» lo ammonì «lasciami o chiamo la polizia.»
   Lui la lasciò, non voleva farle nulla. Uscendo sbatté la porta e i tacchi risuonarono sulle scale. Solo allora lui cadde in ginocchio e scoppiò in lacrime, maledicendo il giorno in cui era diventato famoso.
 

«Mi dovrebbe portare a Ballinteer Avenue, per favore.»
   «Nessun problema» mi rispose il taxista.
   Ci volle un po’ per arrivare, si trovava in periferia. Pagai il taxi, scesi e notai che ad aspettarmi c’era tutta la famiglia O’Donnel. Chris, il padre, era un uomo ben piazzato sulla quarantina, capelli brizzolati e occhi azzurri come il giacchio, Alisha, la madre doveva avere la stessa età, snella, capelli biondi e occhi chiari anche lei, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Teneva in braccio il figlio più piccolo, Nick, di 4 anni, e per mano Cleo, di 8. Mi ero documentata bene prima di partire, per evitare di incappare in spiacevoli figuracce. Mi vennero incontro e si presentarono. Alisha mi abbracciò e mi disse: «Spero ti troverai bene, fai come fossi a casa tua.»
   Mi accorsi che, nonostante tutto, mi sfuggì una lacrima, ma la asciugai subito, non volevo che mi prendesse la malinconia.
   Chris prese le mie valigie e le trascinò per il viale che ci separava dalla loro casa. Non era un piccolo appartamento, ma una bellissima abitazione su due piani, dotata di piscina esterna e di un bel giardino curato. All’interno, al contrario di come mi sarei aspettata, trovai un grande ambiente illuminato, una vera e propria villa. Rimasi, probabilmente, a bocca aperta e i genitori si misero a ridere. Arrossii e mi scusai. La mia stanza era al piano superiore ed era anch’essa enorme. Almeno il doppio della mia a casa. Ero così felice che mi buttai sul letto e iniziai a saltellare. Mi mostrarono poi il resto della casa e mi lasciarono il tempo di riposarmi. Feci una doccia e poi scesi con loro per fare un giro del quartiere. Mi sembrava ancora un sogno.

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Capitolo 2
*** Cappuccino ***


CAPITOLO 2 Si svegliò completamente frastornato, come se fosse stato investito da un esercito di carri armati. Il braccio destro, imprigionato sotto il corpo, aveva perso sensibilità. La posizione in cui aveva dormito non era delle più comode. Si mise seduto e si prese il viso tra le mani tremanti. Sentì qualcosa vibrare sul tavolino del salotto. Era la sua assistente che lo chiamava. Ignorò il cellulare e si alzò dal divano, sistemando i cuscini meglio che poteva. Si recò in bagno e si gettò sotto il getto rovente della doccia, avendo il disperato bisogno di lavare via il ricordo di quanto successo il pomeriggio precedente. Lo aveva chiamato improvvisamente, era appena rientrato dallo studio di registrazione e aveva sentito la sua voce distante. Le aveva detto di raggiungerlo a casa, ma non si aspettava una simile reazione. Lo aveva accusato di spassarsela con Sharon, l’assistente del gruppo e non aveva saputo ribattere, non perché fosse vero, ma per il semplice fatto che fosse un’accusa assolutamente insensata. Ma ormai era successo e non poteva farci nulla, così si vestì e uscì per andare a far colazione al parco; più rimaneva lì e più aveva voglia di piangere. «Anna, ci porti al parco giochi?» Fu questo il mio risveglio del mattino successivo. Aprendo gli occhi mi ritrovai davanti due mostriciattoli sorridenti che cercavano di farmi alzare. Feci una specie di sorriso e mi alzai. Alisha bussò alla porta, si scusò per il risveglio e riprese i figli. Scesi a far colazione già vestita e truccata, pronta per accompagnarli al parco. Alisha mi lasciò scritto cosa avrei dovuto fare e gliene fui grata, non mi sarei mai ricordata, altrimenti, tutte le faccende della giornata. L’aria era frizzante anche se era la metà di giugno, ma tutti erano già in tenuta estiva, tranne me. Indossai la felpa dell’università di Oxford, che avevo acquistato in gita scolastica, e presi le maglie anche per i bambini. Camminammo per pochi minuti e arrivammo al parco dove mi sedetti su una panchina di fianco a una vecchia signora, mentre i piccoli giocavano. Non li perdevo di vista un attimo. «Un cappuccino grande, per favore» ordinò lui, appoggiandosi al banco. «Subito. Sono 2 euro e 50.» Danny appoggiò le monete, prese la bevanda e si incamminò per il parco. Vide un gruppo di bambini che stavano giocando, tirando calci a un pallone e gridando. Stranamente, quegli schiamazzi lo infastidivano. Amava i bambini, i loro giochi lo avevano anche ispirato per alcune canzoni, ma non in quell’occasione. Non si accorse che uno di loro stava correndo nella sua direzione, senza guardare verso di lui e gli finì addosso, facendogli rovesciare sulla sua maglietta il cappuccino bollente. Quel calore lo risvegliò dal torpore che aveva addosso. «Mi scusi signore» si giustificò il piccolo, guardandolo mortificato. Lui non rispose. Stavo controllando gli impegni della giornata e non mi resi conto fino all’ultimo di cosa stesse facendo quella peste di Nick. Lo vidi solo un istante prima che andasse a sbattere contro l’uomo che camminava imperterrito. Accadde tutto in un secondo, il bambino cadde, guardò verso l’alto e mormorò qualcosa. Scattai in piedi, seguita da Cleo, che corse verso il fratellino. Arrivata vicino all’uomo vidi che la bevanda che teneva si era rovesciata sulla sua maglia. Non sapevo cosa fare, mi sentivo malissimo per quell’incidente, ero una buona a nulla, non sapevo neppure tenere due bambini tutto sommato tranquilli per una mattinata, figuriamoci per tutta l’estate. Non lo guardai neppure in faccia, raccolsi il bicchiere da terra e solo allora mi accorsi di chi avevo davanti. Mi superava in altezza di una ventina di centimetri anche se non mi ero mai lamentata per il mio metro e 70. Proprio con lui, mi chiesi perché. Quell’uomo era Danny, Daniel O’Donoghue, il mio idolo indiscusso. Passavo giornate sdraiata in giardino ad ascoltare la sua voce attraverso le cuffie, ad immaginare di incontrarlo in qualche strano modo, a cantare a squarciagola le sue canzoni senza aver paura di risultare pazza, ad appendere per la stanza i disegni che amavo fare di lui. Ora me lo ritrovavo davanti e mi si bloccava la voce, presi coraggio e parlai. I suoi occhi malinconici si fissarono nei miei e mi ghiacciarono. «Scusa» gli dissi «è colpa mia, dovevo stare più attenta..» «Sì, avresti dovuto» rispose freddo. Mi crollò il mondo addosso. Non avrei mai immaginato che il mio incontro con lui sarebbe stato tanto terribile. Mi bruciavano tremendamente gli occhi, mi morsi il labbro per trattenere le lacrime. Quando alzai lo sguardo lui se ne stava già andando, ma rimase nell’aria il suo profumo, mischiato a quello del caffè e un bicchiere vuoto, che non aveva più senso conservare. “Cosa cazzo hai fatto?” continuava a ripetersi. Non era stato lui a dire quelle cose. Cosa gli era saltato in mente, era stato un autentico stronzo a risponderle in quel modo. Lei si era scusata, senza aggiungere nulla e le aveva distrutto il cuore. Lo sapeva, sapeva che quella ragazza lo conosceva, aveva visto i suoi occhi brillare, eppure non si era comportata come una fan impazzita, lo aveva trattato come fosse chiunque altro. Si girò quel tanto che bastava per vedere i suoi occhi annebbiarsi, la sua mano stringeva il bicchiere che aveva raccolto. Poi riprese a camminare. «Scusami, non volevo. Non dirlo alla mamma, ti prego. Lei si arrabbia e non mi fa più andare al parco» mi implorava Nick, strattonando i miei pantaloni. Gli misi la mano libera tra i capelli e lo guardai. I suoi occhietti erano colmi di tristezza, proprio come dovevano essere i miei. «Stai tranquillo, alla mamma non dirò niente.» Mi sorrise e mi strinse la gamba in segno di affetto. Avvicinai anche Cleo e la abbracciai. «Vi va di andare a fare la spesa, bambini?» domandai, cercando di cambiare argomento. Così ci avviammo verso l’uscita del parco, gettando per strada quel dannato cappuccino.

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Capitolo 3
*** Malinconia ***


CAPITOLO 3   “Malinconia”


Passarono due settimane da quell’evento ma la ferita rimaneva aperta. Non sono una di quelle che si dimentica presto di tutto, ci metto molto ad assimilare simili colpi. Continuavo ad ascoltare la sua musica, ma con malinconia, come se mancasse qualcosa alle parole di ogni canzone, come se mancasse sempre la fine di ogni strofa, come se mancasse qualcuno per completarla.
   Andai ancora al parco ma non lo incontrai più. Ogni volta che ci incamminavamo per quel luogo il mio battito accelerava come se dopotutto sperassi di ritrovarmelo davanti con un mazzo di fiori pronto a chiedermi scusa. Nessuna traccia. Poco male, cercavo di far credere a me stessa.
   Il lunedì della terza settimana Alisha avendo la giornata libera ci propose di andare a trovare suo marito al lavoro. Lei era un’infermiera, mentre della professione di Chris non sapevo nulla.
   Prendemmo il bus e vi restammo fino in centro quando Alisha e i bambini si alzarono. Ero talmente immersa nei miei pensieri che non mi accorsi di dover scendere finché Nick mi strattonò per una manica. Mi ridestai scuotendo la testa e sorrisi, fingendo che fosse tutto a posto.
 

Il suo sguardo si era soffermato sulla schiuma che scendeva attraverso lo scarico della doccia. Uscì, legandosi l’asciugamano attorno alla vita. Si osservò allo specchio. La pelle chiara sembrava più pallida del solito e gli dava un aspetto malaticcio che solitamente non aveva. I capelli corvini parevano impazziti e la barba di qualche giorno lo rendeva ancora più trasandato.
   «Datti una mossa, sembri uno zombie» disse alla sua immagine, schiaffeggiandosi le gote e facendole arrossare. Accese la radio e alzò il volume. Si sistemò i capelli e si rase. Tornò nella camera da letto, aprì l’armadio e si infilò una camicia e un paio di jeans neri. Controllò l’orologio, aveva ancora quasi un’ora prima dell’appuntamento con Mark e Glenn.
   Sdraiato sul suo letto chiuse gli occhi e la memoria lo divorò come una belva affamata.
   Gli sembrava di sentire ancora il profumo di Helen, quante volte si era sdraiata lì, lamentandosi del fatto che lui non riuscisse a sistemare il letto decentemente. In quanto a faccende domestiche era sempre stato un disastro. Aveva una donna che stirava i vestiti e puliva casa, ma almeno un paio di coperte era in grado di gestirle, anche se non bene.
   «Amore, ti ho mai detto che ti vedrei bene con un grembiulino nero di pizzo a fare la polvere?» gli diceva, ridendo.
   Aveva una risata così contagiosa che era impossibile resistere. Un giorno l’aveva fatto davvero, per il compleanno di Helen. Aveva comprato un grembiulino sexy e l’aveva indossato, rendendosi ridicolo davanti a tutti i presenti della festa a sorpresa. Non gli era importato, almeno lei aveva gradito molto.
   Il loro primo anniversario l’aveva portata a vedere le scogliere. Lei si era commossa e per tutta la giornata non aveva abbandonato il sorriso, nemmeno per un secondo.
   Aprì gli occhi e si sentì singhiozzare come un neonato.
   I bei ricordi presto sparirono per lasciare spazio alla litigata che gliel’aveva portata via. Non aveva più risposto alle sue chiamate, non un messaggio. Così aveva deciso di lasciarla continuare la sua vita. Le aveva preso un mazzo di fiori e li aveva lasciati fuori dalla sua porta, con una lettera in cui si scusava per tutto.

A Helen,
perdonami per tutto quello che ho fatto di male, per quanto ti ho fatta soffrire. Ora ho capito che hai bisogno di ricominciare una vita fuori da questo carcere. Mi dispiace non esserci, ma passerà..
Ti amo,
Danny.

 

Era una specie di grattacielo, non altissimo, a dir la verità. Alisha suonò a uno dei citofoni e subito gli fu aperto. Ci invitò ad entrare come se fossimo a casa sua. Prendemmo l’ascensore e salimmo fino all’ultimo piano. Ero curiosa di sapere dove stessimo andando, ma non chiesi.
   Cleo mi teneva per mano e mi aveva nominato sua sorella, cosa che mi rendeva estremamente orgogliosa.
   Il campanello dell’ascensore ci avvisò dell’arrivo al piano. Uscimmo e ci ritrovammo in una sala abbastanza grande e molto luminosa, con grandi vetrate su tutta la parete più ampia. Ai muri erano appesi numerosi poster di band irlandesi e non, a partire dagli U2. Mi venne in mente casa, dove mio papà ascoltava spesso i loro cd a tutto volume. Sorrisi tra me e me.
Notai anche dischi d’oro e di platino affissi in preziose cornici. I bambini si precipitarono verso le poltroncine rivestite di raso. Questa stanza comunicava con un’altra molto simile, divisa in due da una vetrata. All’interno due uomini stavano sistemando alcuni strumenti musicali mentre intravidi Chris di spalle che sistemava la console per la registrazione.
   Capii immediatamente dove ci trovavamo: in uno studio di registrazione.

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Capitolo 4
*** "Nothing" ***


CAPITOLO 4  “Nothing”



Era stranamente il ritardo. Prima di uscire inforcò gli occhiali e prese al volo la chitarra, urtano contro il mobiletto all’ingresso e reprimendo un insulto. Zoppicando raggiunse l’auto. Infilò lo strumento nel bagagliaio e si posizionò alla guida. Diede gas e cercò di raggiungere gli altri il più in fretta possibile.
   Era a metà strada quando il cellulare cominciò a vibrare. Lo prese e lanciò un’occhiata allo schermo. Il viso sorridente di Mark lo informava che era veramente in ritardo.
   Rispose, mettendo in vivavoce. «Dan, dove sei finito?» fece l’amico.
   «Scusate, sto arrivando» si affrettò a rispondere, chiudendo la chiamata.
   Si fermò nel parcheggio sotterraneo dell’edificio e salì velocemente le scale, gli ascensori erano occupati.
   Era un edificio non troppo alto, ma tutte quelle rampe di scale lo uccisero.
   Arrivò nella sala registrazioni con il fiatone.
   «Era ora, pigrone» gli fece notare Chris.
   Respirava forte, sentiva solo il cuore martellargli nel petto. Una goccia di sudore gli scese sulla fronte. Alzò lo sguardo e incrociò gli occhi della ragazza che aveva incontrato al parco.
   Sentì i muscoli contrarsi e i brividi percorrergli la schiena. Deglutì a fatica e cercò di darsi un contegno. Allora guardò nella direzione di Chris e fingendo un sorriso avvisò di essere pronto a registrare.

 
Avevo già capito cosa mi sarei dovuta subire. Avevo riconosciuto Mark e Glenn, come avrei potuto sbagliarmi? Chris ci aveva presentati, avevo fatto anche una foto con loro, prima che arrivasse Danny. Non mi andava di incontrarlo. Ma dovevo.
   Adesso che i nostri sguardi si stavano incontrando avevo voglia di scappare. Ma le gambe non ascoltavano il cuore e quindi non potevo che incassare il colpo e resistere.
   L’aveva preceduto una donna, sulla trentina, alta e magra, capelli lunghissimi e ricci. Tacchi altissimi e un abito quasi elegante. Si era presentata con un accento di presunzione, con un sorriso sarcastico stampato in faccia. Era Sharon, l’assistente. Lei si occupava della parte noiosa dell’essere famosi. La prima cosa che mi venne in mente fu che quella doveva per forza essere la fidanzata di Danny. Si sa, tra simili ci si attrae.
   Ma quando arrivò l’interessato mi ricredetti. Lei gli si parò davanti tempestandolo di domande. Lui semplicemente le mise una mano sulla spalla e la spostò di lato, con un’espressione scocciata. Ok, forse mi stavo sbagliando.
   Glenn prese un asciugamano che aveva con sé e lo gettò all’amico, che ringraziò.
   Andai alla finestra per evitare nuovamente di incrociare il suo sguardo. Mi faceva innervosire visto sotto qualsiasi luce, non lo sopportavo proprio. Chi l’avrebbe mai detto. Io che non riuscivo a guardare in faccia il mio idolo? Mia madre aveva riso al telefono quando gli avevo raccontato l’incontro-scontro con lui. «E te la prendi per così poco? Dovresti saperlo che le persone famose si nascondono dietro a delle maschere!» Mi aveva fatto riflettere molto quella chiacchierata.
   Ma ora chela situazione si ripeteva non facevo altro che fissare un punto a caso, fuori dalla finestra. Mi accorsi di quanto bella fosse Dublino. Una città qualunque, qualcuno potrebbe dire. Ma tutte quelle case addossate l’una sull’atra, i ponti dagli stili contrastanti, i pub e gli irlandesi stessi la rendevano magica. Un’atmosfera che sapeva toglierti il fiato con i suoi colori, suoni e odori.
   Mentre fantasticavo, la band iniziò a suonare qualcosa. Riconobbi le note di “Nothing” e solo allora mi voltai e li vidi esibirsi. Eravamo solo io e loro, immersa nel mio mondo. Sentii le parole ovattate di Chris che ci avvisava che era solo il riscaldamento.
   Ci stavano mettendo tutto il cuore. Sembrava che la stessero suonando per la prima volta. Sembravano i pezzi di un puzzle, uniti erano incredibili. Avevo la pelle d’oca e gli occhi lucidi. Ero incantata. A fina canzone applaudii senza pensarci, seguita dagli altri spettatori. Glenn diede una pacca a Mark e a Danny che abbassò lo sguardo e si asciugò gli occhi con un gesto rapido.

 
Quando Mark attaccò con la prima nota dovette concentrarsi per riuscire a seguirlo, dovette smetterla di pensare solo a lei, era ora di darsi una svegliata.
   Il testo uscì dalle sue labbra quasi senza che se ne accorgesse.
   Vide che la ragazza, che non l’aveva calcolato minimamente da quando era arrivato, si era girata e lo fissava con interesse. Notò i suoi occhi azzurri, che gli ricordarono una grotta marina, dolci ed espressivi; il suo volto delicato, invaso dai corti ciocche del colore del miele.
   Si calmò e riuscì a terminare l’esibizione, solo alla fine crollò.

 
«Ragazzi, siete stati strepitosi come sempre!» si congratulò Chris, andando a complimentarsi con la band.
   Decisi che avevo bisogno di una pausa, così uscii accompagnata dalla piccola Cleo, con la scusa di voler prendere un caffè. Prendemmo le scale e scendemmo di alcuni piani, dove c’era un bar.
   A un certo punto Cleo mi fece una domanda bizzarra. «Quando tu e Danny vi sposate posso fare la damigella? Ti prego!»
   Mi fermai e pensai di essere impazzita. Me l’ero sognato o l’aveva detto veramente? Lei mi guardava con occhi supplichevoli e aveva le mani giunte.
   «Perché mai dovrei sposarmi con Danny?» le chiesi, sempre più stupita.
   «Perché la mamma dice che quando due persone si guardano tanto è perché si amano e vogliono sposarsi.» Sorrise innocente.
   Scoppiai in una risata e le risposi: «Non lo conosco nemmeno e nemmeno se fosse l’ultimo uomo sulla Terra!»
   «La mamma dice che anche lei diceva così di papà!»
   Cercai velocemente una risposta, ma non mi venne in mente nulla di intelligente. Così rimasi zitta.

 
«Ragazzi, se abbiamo finito, io vado. Devo fare ancora un paio di cose prima di tornare a casa!» disse Danny, guardando l’orario su cellulare.
   «Ci vediamo lunedì allora» intervenne Chris, salutandolo «e stammi bene!»
   «Certo, grazie Chris» fece lui.
   Poi parlò Mark. «Dan, fatti sentire qualche volta eh!»
   «Sì, papà!» ironizzò lui. Salutò gli altri e si volatilizzò.
 

Eravamo già usciti da una ventina di minuti perché Nick voleva fare una passeggiata. Fortunatamente vicino allo studio di registrazione c’era un parchetto e ci recammo lì per lasciarlo sfogare.
   Io e Alisha chiacchierammo un po’ e mi resi conto di quante parole faticavo ancora a comprendere. Mi sentivo un’idiota, ma Alisha sembrava non farci caso.
   Vidi un’auto nera, con i finestrini abbassati, che usciva dal parcheggio sotterraneo del palazzo.
   Alla guida c’era Danny.
   Fu un attimo.
   Un’auto lanciata a folle velocità, invase la corsia opposta, non fece in tempo a frenare e gli finì contro, riducendo quella del cantante a un cartoccio.
   Urlai il suo nome.

 
Doveva ancora passare a ritirare la nuova tastiera al negozio di musica. Appena salito in macchina tolse gli occhiali e si stropicciò gli occhi. Uscire gli faceva bene, doveva farlo più spesso. Mise in moto, abbassò i finestrini e uscì senza difficoltà dal parcheggio. Controllò a sinistra e a destra, non arrivava nessuno.
   Imboccò la strada quando vide un’auto sportiva venirgli incontro ad una velocità pazzesca.
   Sentì gridare il suo nome.
   Poi, il buio.

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Capitolo 5
*** Dolore ***


CAPITOLO 5: Dolore

Corsi a perdifiato verso la scena, mentre Alisha strillava preoccupata al telefono. I soccorsi stavano arrivando. Il rumore lontano di sirene sembrava surreale. Non poteva essere accaduto veramente.
   Cercai di avvicinarmi all’auto scura di Danny, ma vidi il corpo dell’atro autista, incastrato tra i vetri della sua auto. Aveva gli occhi sbarrati e una smorfia di dolore in volto. La pelle lacerata.
   Sentii le gambe cedermi e caddi a terra. La testa mi girava ed avevo una forte nausea. Sentivo i miei singhiozzi, ma mi sembravano estranei. Svenni così, seduta sull’asfalto macchiato di sangue.
 

La prima cosa che percepii fu un pungente odore di disinfettante e una mano calda tra i capelli. Aprii piano gli occhi e vidi Alisha sopra di me che sorrideva stanca. Il trucco le era colato e le guance erano striate di nero. Doveva aver pianto molto.
   Mi misi a sedere troppo in fretta e mi resi conto di essere in ambulanza, ancora sulla strada. Cominciai a fare domande e l’unica cosa che riuscivo a immaginare era il corpo di Danny disteso in una bara. Stavo impazzendo, dovevo sapere.
   Mi accompagnarono fuori. Sangue scuro imbrattava la strada. Le auto erano ancora lì, due scheletri metallici, squarciati dalle tenaglie dei vigili del fuoco per poter estrarre i corpi.
   Due uomini con delle strane tute riponevano una figura in un sacco scuro, richiudendolo con una zip.
   «L’uomo che ha provocato l’incidente è morto su colpo, non c’è stato nulla da fare..» disse Alisha, abbracciandomi. Ma sapeva che io volevo sentire altro. «Danny aveva le cinture di sicurezza. Lo hanno rianimato una volta estratto dal rottame. L’ambulanza l’ha portato d’urgenza all’ospedale.»
   «E.. com’era ridotto?» chiesi titubante, pregando che stesse bene.
   «Non voglio mentirti, i medici hanno detto che non sanno se ce la farà. Era irriconoscibile quando l’hanno portato via.» Mi abbracciò forte. Non volevo far alto che urlare e liberarmi di questa sensazione orrenda.
   Ci spostammo verso un gruppo di persone che si erano radunate lì vicino. Su una panchina erano seduti Mark, Glenn, Chris e Sharon, che, nonostante tutto sembrava quella più calma. Gli altri erano in preda all’angoscia. Si torcevano le mani ed erano rassicurati dai passanti che non credevano davvero in quello che dicevano.
   Chris, appena ci vide, ci corse incontro, seguito da Cleo e Nick, che erano rimasti con lui. Erano ancora piccoli per rendersi conto di quanto successo e credevano alla storia che tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi. Sognai per un attimo di essere come loro. Ma la realtà, purtroppo, era un’altra.
   «Come stai, Anna?» mi domandò allarmato.
   «Meglio, grazie» risposi, senza convinzione. «Come stanno gli altri?» aggiunsi, muovendo la testa in direzione degli altri del gruppo.
   «Scossi. Adesso andiamo in ospedale e speriamo in bene.»
   Stavo per domandargli di portarmi con loro quando Alisha prese la parola: «Vi seguiamo. Passo prima dai miei a lasciare i piccoli, poi vi raggiungeremo all’ospedale.» Prese per mano i figli. «Vieni» mi disse, «andiamo a prendere l’auto.»
   Ce ne andammo nel momento in cui Mark e Glen presero le loro cose a salirono in macchina con Chris.
   Arrivammo a casa dei genitori di Alisha. Possedevano una graziosa villetta a pochi minuti dal centro. Suonammo il campanello e ci aprì una donna sulla settantina, con dei grandi occhi gioiosi. I bambini si precipitarono ad abbracciarla e lei sorrise loro amorevolmente.
   Quando ci guardò in faccia però la sua espressione assunse dei toni tristi. «Tesoro, cosa succede? Volete fermarvi, posso offrirvi qualcosa?» chiese alla figlia, passandole una mano sulla spalla.
   Alisha prese un grande respiro. «No, grazie mamma. C’è stato un incidente. Hai presente Daniel, il figlio di Shay?»
   «Certo! Cosa gli è successo?» chiese la donna, allarmata.
   «Una macchina è andata a scontrarsi con la sua. Stiamo andando all’ospedale, ma la situazione è citica.»
   Le lacrime cominciarono nuovamente a scendere copiose, annebbiandomi la vista. Decisi di salire in macchina. Vidi la madre di Alisha portarsi una mano al viso e i suoi occhi diventarono lucidi. Abbracciò la figlia e tornò in casa.

 
In macchina lei taceva, ma io volevo sapere cosa legava la famiglia O’Donnel ai The Script. «So che non è il momento per fare certe domande, ma vorrei sapere perché siete così legati a loro…» sussurrai, temendo di essere inopportuna.
   «Ai The Script, intendi? Be’ Chris da bambino viveva vicino agli O’Donoghue. Lui, Vicky, la sorella di Danny e io, inoltre, eravamo compagni di classe. Passavamo tanti pomeriggi da loro. I quella casa non c’era mai un momento di pace. Mi ricordo benissimo che sua madre faceva i panini più buoni al mondo e suo padre ci faceva sempre suonare una delle sue chitarre» si interruppe e rise. «Penso che Danny la conservi ancora. L’avevamo riempita con i nostri scarabocchi.»
   Sorrisi, immaginandomi la scena.
   Poi continuò: «Un giorno Danny ci ha presentato Mark, che aveva conosciuto in un club. Poi abbiamo preso strade diverse ma non ci siamo mai persi di vista. Danny e Mark erano entrati a far parte di un gruppo, a Los Angeles. Quando sono tornati a Dublino hanno cominciato a lavorare a una loro band, insieme a Glen. Il giorno delle mie nozze erano tutti e tre presenti e hanno suonato per noi. Anche se sono passati poco più di una decina d’anni, mi sembra sia moltissimo tempo» concluse.
   Spense il motore e prese la borsa. Eravamo arrivate.
 

Entrammo più velocemente possibile nella sala d’aspetto dove trovammo i ragazzi, insieme alla madre e ai fratelli di Danny. C’era anche una donna molto bella, con lunghi capelli mogano e occhi ambrati. Stava seduta in un angolo senza prendere parte al dolore della famiglia. Due donne, probabilmente le sorelle, camminavano in tondo per la stanza, consumando pacchetti di fazzoletti uno dietro l’altro. Gli altri tre erano seduti intorno alla madre, Ailish, che piangeva con contegno.
   Al nostro arrivo Chris si alzò in piedi e corse ad abbracciare la moglie, che poi andò dritta verso quella che doveva essere Vicky. Io presi posto vicino a Mark, che mi diede una pacca sulla spalla, mostrandomi un sorriso spento.
   Passarono molte ore. Continuavo a girovagare per la stanza, andai numerose volte in bagno per rinfrescarmi, presi molti caffè. Chiamai ai miei che cercavano di consolarmi in qualche maniera. Mi sembrava di morire. Era come se dentro quella sala operatoria ci fosse qualcuno della mia famiglia, come se a rischiare la vita fosse mio fratello o i miei genitori. Mi imponevo di darmi un contegno ma non riuscivo a smettere di piangere.
 

Era sdraiato su un lettino, con tubi che lo fasciavano come serpi. Aveva numerose escoriazioni al volto a causa dell’Air-bag. Un’infermiera chiamò all’interfono i medici, che preparassero la sala operatoria al più presto. Dalla lastra era emerso un trauma cranico e alcune costole fratturate che avevano perforato il polmone destro. Aveva perso sangue. L’urto, oltretutto, gli aveva compresso la trachea, impedendo quasi completamente la respirazione.
   «Sbrigatevi! Non c’è tempo da perdere» urlò il caporeparto ai suoi collaboratori, «preparate le sacche di sangue per la trasfusione. L’anestesista è pronta, vi voglio tutti concentrati e vigili. Un piccolo sbaglio e lui muore.»

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Capitolo 6
*** Risveglio ***


 
CAPITOLO 6: Risveglio


Eravamo ancora tutti in stato confusionale, pregavamo e imprecavamo, aspettando che qualcuno ci dicesse finalmente qualcosa. Dopo troppo tempo la porta in vetro si aprì ed entrò un medico con il camice macchiato di sangue e la mascherina a coprirgli la bocca e il naso. La abbassò. Aveva una brutta cicatrice che gli divideva in due parti la guancia destra.
   «Abbiamo fatto il possibile» iniziò, «era un intervento delicato. L’operazione si è conclusa bene, ma è troppo presto per parlare.» Sorrise. La madre di Danny si precipitò dall’uomo, seguita dalle figlie, e lo abbracciò. Lui fu felice di ricambiare, con il volto visibilmente sconvolto dalla fatica.
   Pensai quanto un medico possa amare così incondizionatamente la vita per poter portarsi allo strenuo delle forze per salvare uomini e donne che nemmeno conosce, per poter dire “Ce l’ho fatta, ho salvato una vita”, per poter vedere i sorrisi sul viso dei pazienti.
   Mi guardai intorno e vidi volti gioiosi, volti di chi sa che il peggio è passato. Mi soffermai sulla donna seduta all’angolo. Piangeva. Si alzò improvvisamente e corse fuori, i tacchi che risuonavano sulle piastrelle.
   «Se volete seguirmi, l’abbiamo trasferito in camera» disse a un certo punto il medico. «È tenuto in coma dai farmaci per non sovraccaricare il cervello, stiamo aspettando che si stabilizzi, poi potremmo risvegliarlo.»
   Lo seguimmo lungo il corridoio fino alla stanza 57.
   Danny era adagiato su un letto candido. Era coperto fino alla vita. Sembrava una specie di angelo. La pelle diafana si confondeva con il candore delle lenzuola, i capelli corvini spiccavano sul cuscino. Aveva un’espressione serena, le labbra rosse erano leggermente dischiuse, il petto si muoveva impercettibilmente. Era incredibilmente bello, seppure rovinato dai tagli e escoriazioni sul viso e sul resto del corpo. Una fasciatura gli avvolgeva la parte bassa della testa, dove aveva urtato contro il poggiatesta.
   Sul comodino vicino al letto c’erano appoggiati gli occhiali distrutti.
   Ailish gli si avvicinò lentamente, quasi avesse avuto paura di svegliarlo. Gli sussurrò qualcosa che non compresi. Mi sentii prendere delicatamente per un braccio. Alisha mi invitò con un cenno a uscire, per lasciare gli O’Donoghue da soli, in famiglia. Lo guardai per l’ultima volta e pregai che stesse di nuovo bene.

 

Dopo pochi giorni lo risvegliarono dal coma. Chris era al lavoro e ci avvisò lui del suo risveglio. Salimmo subito in auto. Quando arrivammo al quarto piano, dove era ricoverato, due bodyguard ci vennero incontro con fare minaccioso. Ci chiesero i documenti, spiegandoci che alcuni fan avevano cercato di entrare, una volta scoperta la notizia del suo incidente. Alisha si infuriò quando ci negarono l’accesso e cominciò a sbraitare.
   «Fateci entrare scimmioni, Danny è un amico di famiglia!»
   «Senta signora, abbiamo l’ordine di non fare entrare nessuno che non sia di famiglia o della band.»
   «Adesso chiamo mio marito così le faccio sentire io chi siamo, razza di idiota!»
   L’ascensore suonò e uscì dalle porte Glen, con in mano alcuni caffè. Fece una faccia stupita. «Cosa ci fate qua, pensavo foste già dentro!»
   «Lo saremmo se questi cari ragazzi ci avessero fatto passare!»
   Rise di gusto. «Ragazzi, lasciateci passare, sono solo amici!»
   Si spostarono borbottando qualcosa. «Si è svegliato da molto?» chiesi a Glen, curiosa come non mai.
   «Poco più di un’oretta fa» rispose lui, sorridendo. Aveva delle brutte occhiaie, segno di quanto tenesse a Danny. «Penso che sia stato traumatizzato dal risveglio. Mentre era in coma abbiamo composto una canzone per lui “Good morning Zombie” e gliel’abbiamo cantata appena ha aperto gli occhi! Ha chiesto di poter tornare a dormire, pur di non sentirla!»
   Appena aprimmo la porta fummo sommersi dalla calda luce del sole che entrava dalle finestre spalancate. Una montagna di peluches, lettere e mazzi di fiori giacevano sulla poltrona nell’angolo della stanza. Doveva essersi divertito a leggere tutti i messaggi degli ammiratori.
   In stanza c’erano Mark e gli altri della band, insieme ad Ailish che ormai si era accampata lì. Danny era seduto sul bordo del letto con le lunghe gambe a penzoloni. Stava ridendo quando ci vide entrare. Aveva la risata più dolce e attraente che avessi mai sentito. Tirai un lungo sospiro.
   «Ecco il tuo caffè» gli disse Glen, avvicinandosi e prendendo posto vicino a lui.
   I bambini corsero da lui e gli portarono un biglietto che avevamo scritto insieme nei giorni precedenti. Li ringraziò con voce roca.
   Presi posto sull’altro letto. Mi sentivo estremamente in imbarazzo, dopotutto io ero solo un’intrusa.
   «Allora Danny, come stai?» chiese Alisha, sedendosi vicino a me e prendendomi una mano. La ringraziai con uno sguardo. Era una donna eccezionale, capiva tutto prima che qualcuno glielo dicesse.
   Lui si schiarì la voce: «Mai sentito meglio in vita mia» scherzò. «A parte gli scherzi ho un’emicrania terribile e sembro un cavernicolo quando parlo. Per il resto tutto bene, potevo essere morto e invece sono ancora qui.»
   Mark prese la parola,rivolto all’amico: «Bello noi dobbiamo andare, passiamo dopo pranzo, promesso!»
   «Vi aspetto. In effetti non saprei dove andare conciato così» disse indicando la camicia da notte dell’ospedale.
   «Vado anch’io con loro» aggiunse Chris. «A presto, rimettiti.»
   «Ci proverò.»
   Chris diede un bacio alla moglie e ai figli e mi salutò, uscendo in tutta fretta.
   Avrei voluto tanto parlare con Danny, chiedergli come si sentiva, ma non trovavo il coraggio. Nella tasca della felpa avevo un pensierino per lui, un bracciale con le sue iniziali, ma non sapevo come darglielo. Mi sudavano le mani e il cuore mi batteva a mille. Mi sentivo sotto esame, sentivo i suoi occhi penetranti su di me, ero indifesa.
   «Ailish, ti va di scendere un momento al bar a prendere qualcosa? Offro io!» propose Alisha, lasciandomi spiazzata. Feci uno più uno e capii quale intenzione avesse e non mi piacque. «Può rimanere qui Anna con Danny.»
   Cercai di ribattere ma stavano già per uscire. Nick e Cleo seguirono le donne. “Dannazione” pensai, “perché non sono rimasta a casa?”.
 


Restammo in silenzio per alcuni istanti che mi parvero ore.
   Fu lui il primo a parlare. Aveva la voce stanca, malinconica e mi chiesi se fosse mia la colpa del suo malessere. Fino a pochi istanti prima sembrava stare bene. Pensai fosse sul punto di chiedermi scusa invece una lacrima cominciò a rigargli il viso. «Sai, voglio dirti una cosa che non sa ancora nessuno. Ti chiederai perché proprio a te. Be’ perché forse sei quella che in questo momento se ne frega più di me, dopo Helen, ovviamente.»
   Più che parlare con me stava facendo un monologo. Non capivo dove volesse arrivare a parare. Non capivo chi fosse questa Helen, ma non lo interruppi.
   «Il dottore stamattina, quando mia madre era uscita per andare a chiamare gli altri, è venuto a parlarmi. Si è presentato come un certo dottor Ryan. Aveva una brutta cicatrice in faccia.» Si schiarì ancora la voce, faceva molta fatica a parlare. «Assomigliava a mio padre, quando ti doveva dire una brutta cosa glielo leggevi in faccia, non riusciva mai a mentirti. Gli ho chiesto cosa succedeva e mi ha detto che la trachea era rimasta schiacciata nell’incidente e le mie corde vocali erano state lesionate.»
   Un brutto presentimento cominciò a farsi strada tra la mia mente. Cercai di scacciarlo ma non si mosse.
   «Non sa se potrò tornare a cantare.»
   Non riuscivo a credere alle sue parole. Non poteva essere vero. Cominciai a boccheggiare, cercando di dire qualcosa, ma lui ricominciò a parlare, senza nemmeno calcolarmi. «Ma mi chiedo perché ne sto parlando con te. Ho una vita fottutamente schifosa, ma tu non sai nemmeno cosa voglia dire.. Sei troppo piccola..» Si asciugò per l’ennesima volta gli occhi e guardò fuori dalla finestra.
   Quelle parole erano state peggio di una pugnalata. Non fu solamente il fatto che forse non sarebbe più esistito il Danny O’Donoghue di una volta, ma la cosa che più mi faceva male era essere paragonata ad una bambina. Mi alzai, presi il suo regalo e mi avvicinai.
   «Pensavo di averti incontrato nel momento sbagliato al parco, volevo provare a credere che tu non fossi così. Pensavo che la tua facciata da ragazzo dolce non fosse poi così finta. E invece no, sei solo un cantante montato, uno che crede di essere il migliore. Tu non sai cosa ho passato io, non mi conosci! Sono cinque anni che faccio la volontaria in un ospedale pediatrico. Lì ci sono bambini malati di leucemia..» urlai, in preda ad un attacco di nervi. «Mi è capitato più e più volte di salutare un bambino la sera e sentirmi dire il giorno dopo che quel bambino era morto. Ti rendi conto di quanto si possa soffrire? Ma se non ti basta vuoi sapere perché ho scelto di farlo? Ti accontento. Mia sorella è morta di cancro a dieci anni.» Cominciai a piangere, era una ferita ancora aperta. «Quindi smettila di giudicare chi non conosci. Tieniti pure questa specie di regalo. Sono stanca di vederti, sei solo uno stronzo!»
   Gli lanciai il bracciale e uscii sbattendo la porta della camera. Un’infermiera mi corse incontro ma io la scostai, dicendole che andava tutto bene. Presi l’ascensore. I grandi specchi all’interno riflettevano la mia immagine. Mi sembrava di vedere un’altra persona. Avevo il viso pallido, con linee scure che lo dipingevano. Soffiai il naso e sperai che fosse tutto un incubo.

 

Vedeva ancora la sua faccia, sentiva la sua voce urlargli quello che nessuno aveva mai avuto il coraggio di dirgli. Lui non era l’unico a soffrire, non era lui al centro dell’universo. Le parole della ragazza gli rimbombavano in testa. Aveva tra le mani il bracciale. Era di cuoio scuro con due ciondoli su cui erano incise le sue iniziali.
   Sentì bussare alla porta. Si ricompose. «Avanti».
   Percepì per prima cosa il suo profumo dolce. Se la trovò davanti, vestita come sempre, con un mazzo di fiori in mano.
   «Helen» sussurrò.

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Capitolo 7
*** Lo zoo ***


CAPITOLO 7    Lo zoo


Doveva fare qualcosa. Aveva meditato su quello che Anna gli aveva detto, non voleva più aspettare, doveva farsi perdonare, doveva mostrarle il vero Danny.



   A fargli capire il suo errore era stata Helen. Due giorni prima, dopo la litigata, era apparsa lei, bella più di sempre.
   «Helen» aveva sussurrato, vedendola apparire come un miraggio, nella camera vuota.
   «Ciao Danny. Come stai?»  Aveva un tono distaccato, quasi assente.
   «Non bene…»
   «Ho sentito tutto.» Si sistemò vicino a lui, con un’aria seccata. «Se fossi stata in quella ragazza probabilmente ti avrei preso a schiaffi. Danny, svegliati, smettila di fare il cretino!» Si alzò. Si passò una mano tra i capelli. «Dove diavolo è finito il Daniel che amavo? Ricordi? L’hai scritto tu! “So if you lost a sister, someone’s lost a mom and if you lost a dad then someone’s lost a son, and they’re all missing out, yeah they’re all missing out”… Tutti abbiamo momenti di debolezza, tutti prima o poi perdiamo qualcuno che amiamo, a tutti può capitare qualcosa di brutto, ma dobbiamo risollevarci e non scaricare addosso alla prima persona che incontriamo tutta la frustrazione. Siamo tutti uguali, abbiamo bisogno di qualcuno che ci rispetti e così noi dobbiamo rispettare quella persona.» Il suo telefono suonò. Lo estrasse dalla borsa. «Devo andare.»
   Si avvicinò al letto e gli carezzò il viso. Si sporse lentamente verso di lui. Gli occhi fissati nei suoi. Li chiuse. Appoggiò la sua bocca alla sua. Aveva le labbra tremanti, come se lo stesse baciando per la prima volta. Il suo sapore dolce le invase la bocca. Si scostò rapidamente, come se si fosse pentita di averlo fatto. Gli rivolse un sorriso triste e se ne andò. «Addio Danny, non dimenticarti mai chi sei.»
 


Ero in macchina e fissavo un punto imprecisato fuori dal finestrino. Le case passavano davanti ai miei occhi, una dopo l’altra, come la pellicola di un film.
   Quella sera non cenai nemmeno, andai in camera presto, ero distrutta. Non volevo pensare più a quella faccenda. Mi mancava casa, la famiglia, i miei amici. Volevo tornare indietro nel tempo, prima della partenza e volevo fermare quello stupido aereo. Mi addormentai ancora vestita, cullata dalla brezza che entrava dalla finestra.


 
Era mattino presto quando entrò il dottor Ryan. Danny aveva gli occhi ancora sonnolenti e non lo riconobbe subito.
   «Mi scusi per averla svegliata. Volevo solo avvisarla che entro tre giorni, se tutto andrà bene, sarà libero di tornare a casa. Ora l’infermiera l’accompagnerà a fare una nuova radiografia per vedere a che punto si sono rimarginate le costole.»
   Entrò nella stanza una donna, all’incirca della sua stessa età che lo aiutò ad alzarsi. Prese il tubicino della flebo e lo staccò.
   «Venga, si appoggi pure a me» disse l’infermiera.
   Le gambe lo reggevano un po’ a fatica e appoggiarsi alla donna non era esattamente una passeggiata, considerata la statura assai minuta.
   Presero l’ascensore. Mentre scendevano di qualche piano l’infermiera cercò di iniziare un discorso. «Scusi l’indiscrezione ma dove l’ha preso? Sa volevo fare un regalo al mio fidanzato.»
   Danny le rispose sovrappensiero. «Cosa?»
   La donna le indicò in basso. Il bracciale che gli era stato regalato da Anna abbracciava il suo polso. «Ah, questo. Ehm… è il regalo di un’amica.»
   «È veramente bello.»
   «Grazie…» bofonchiò imbarazzato.
   Il suono dell’ascensore interruppe il momento. «Venga, dobbiamo scendere.»
 


«Dalla radiografia risulta che la costola superiore si è quasi completamente risaldata, quella inferiore non ancora, ma può stare tranquillo, non ci vorrà più di un settimana» spiegò il medico.
   Una settimana? Era troppo. Doveva uscire di qui e trovarla. «Mi scusi, quindi dovrò rimanere ancora in ospedale per una settimana?»
  «No, può andarsene tra alcuni giorni. L’importante è che non faccia sforzi e torni il mese prossimo per un controllo. Se dovesse avere disturbi anche prima.»
   Danny trasse un sospiro di sollievo. «Grazie, dottore.»
 


Era passata una settimana ormai dallo scontro con Danny. Ero seduta comodamente sul divano, insieme a Nick e Cleo. Stavamo guardando un cartone animato. Eravamo noi i padroni di casa. Alisha e Chris sarebbero tornati solamente la sera.
   «Anna, oggi andiamo a fare un giro allo zoo?» mi chiese a un certo punto Nick, cogliendomi alla sprovvista.
   Mancava poco a mezzogiorno, saremmo andati nel pomeriggio. «Prima chiamo alla mamma. Se a lei va bene possiamo andarci!»
   I bambini cominciarono a saltellare felici. Non sapevo nemmeno dove si trovasse lo zoo quindi presi in mano il telefono e chiamai Alisha. «Pronto, Anna, sei tu?»
   «Sì, ciao Alisha. I bambini mi hanno chiesto se posso accompagnarli allo zoo. Per te è un problema?»
   «No no, assolutamente. Almeno escono un po’ di casa! Ma sai almeno dove si trova?»
   Adoravo quella donna. Ti leggeva nella mente. «Non proprio…» risposi titubante.
   Udii la sua risata. «Immaginavo! Allora dovete prendere il bus fuori casa e fare capolinea al Trinity College.» Mentre parlava mi appuntavo su un foglietto tutte le istruzioni. «Prendere la linea blu per una fermata, finché non siete all’incrocio sull’ O’Connell Bridge. Lì scendete e prendete la linea che passa davanti al quartiere di Temple bar. Scendete alla Christchurch Cathedral e…»
   «Non ci arriveremo mai, lo sai vero?» dissi ridendo. «Non conosci qualcuno che ci possa accompagnare?»
   «Mmm i miei sono via. Vedrò che posso fare. Ti richiamo.» Attaccò.
   Stracciai il foglietto pieni di ghirigori e chiesi aiuto ai bambini per apparecchiare la tavola.
 


Il telefono stava squillando. Si annodò l’asciugamano in vita e uscì a rispondere.
   «Pronto?»
   «Ehi, ciao. Sono Alisha!»
  «Ciao! Come stai?»
  «Bene, grazie e tu?»
  «Meglio. È bello essere di nuovo a casa!»
  «Scusa se ti disturbo... ho un grosso favore da chiederti» disse lei.
  «Dimmi pure.»
  «Ti andrebbe oggi pomeriggio di accompagnare i bambini allo zoo? Avrei chiesto ai nonni ma non ci sono. Se hai tempo, e voglia soprattutto, li faresti contenti.»
   «Ma certo! Tanto sono ancora in convalescenza, non posso fare molto. Allora vengo io a casa tua. Verso le due potrebbe andare bene?»
   «Va benissimo. Grazie Danny, sei un tesoro» disse Alisha, prima di riattaccare.
   Guardò l’orologio, mancavano quasi due ore. Fortunatamente abitavano a pochi minuti di autobus. La sua auto non esisteva più quindi gli toccava utilizzare i mezzi pubblici, come quando era ragazzino.
   Guardò sul comodino e vide il bracciale scuro. Si rese conto solo in quell’istante che anche Anna sarebbe andata con loro. Non era ancora pronto ad affrontarla, ma ormai non aveva altra scelta.
 


Stavamo ancora pranzando quando il telefono prese a suonare. Mi alzai e risposi e riconobbi la voce di Alisha. «Tutto a posto, fatevi trovare pronti per le due. Ci vediamo dopo, ora devo scappare.»
   Non mi lasciò nemmeno il tempo di parlare. Finimmo il pasto e misi i piatti nella lavastoviglie. «Su bambini, andiamo a cambiarci. Tra poco andiamo allo zoo.»
   Si precipitarono come due uragani nelle loro camerette. Li aiutai a scegliere degli abiti adatti e poi mi cambiai anche io. Mi infilai in bagno. Mi sistemai i capelli e mi truccai, giusto per avere un’aria più sveglia. Cleo mi pregò di farle una treccia così quando il campanello trillò mi dovetti precipitare giù per le scale urlando per farmi sentire. Nella fretta mi ricordai di non aver chiesto ad Alisha chi ci avrebbe accompagnato.
   Aprii la porta.
   Mi paralizzai. Sentii la gola annodarsi.
  «Ciao Anna.»
  «D... Danny.»

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Capitolo 8
*** Fobia ***


CAPITOLO 8 Fobia


«Be’ che ci fai lì sulla porta? Entra. »
   «Oh, grazie. Scusa se non ti ho avvisato che sarei arrivato in anticipo, torna pure a vestirti...» Tossicchiò, guardando in basso.
   Mi venne un orribile presentimento, abbassai lo sguardo verso terra.
   Merda. Nella fretta avevo dimenticato di indossare i jeans.
   Feci una risatina imbarazzata e corsi su per le scale, rintanandomi in camera, sperando di essermi immaginata tutto. Socchiusi la porta e intravidi Danny all’ingresso. No, era successo davvero. Perché dovevo essere sempre così dannatamente sbadata?
   Presi un paio di pantaloni dall’armadio, li infilai e mi soffermai nuovamente sulla porta a osservarlo di nascosto, mentre stava a naso all’insù e contemplava le fotografie appese. Si grattò il naso e starnutì e non potetti fare a meno di notare quanto fosse dolce il suo viso candido e con quella espressione malinconica che sembrava sempre avere. Sospirai e mi appoggiai alla parete. Perché mi comportavo così? Avrei dovuto odiarlo o perlomeno essere infastidita dalla sua presenza e invece niente. Be’ il problema era che avrei dovuto per forza parlargli di quello che era successo, ma non sapevo come.
   «Anna, posso entrare?» disse una vocina da dietro la porta.
   Mi ridestai e aprii a Cleo. «Scusa tesoro, entra che finisco di sistemarti i capelli.»
   Le infilai due mollette e presi la borsa. Avevo il cuore a mille e le mani sudate. Odiavo la mia maledetta ansia.
   «Possiamo andare» dissi. Chiusi la porta a chiave e presi per mano Cleo. Danny fece salire sulle sue spalle Nick che rideva felice.
   Aspettammo il bus per alcuni minuti, passati in assoluto silenzio. Sentivo la tensione stringermi lo stomaco, ma gli altri erano tranquilli, come se fossi io l’unica pazza.
   Salimmo sul mezzo. Nick ci trascinò al piano superiore scoperto. Mi sedetti vicino a Danny, subito dietro ai bambini. Infilai gli auricolari e accesi l’iPod.
   Notai che le case erano costruite sempre più vicine man mano che ci avvicinavamo al centro. Adoravo le villette a schiera nonostante fossero tutte appiccicate tra di loro e assolutamente identiche. Avevano un non so che di romantico e accogliente che probabilmente altri avrebbero considerato mancanza di privacy e silenzio.
   «Hai una bellissima voce, sai?»
   Mi girai verso Danny, con un’espressione stupita. Aveva lo sguardo fisso avanti e ripeté quello che aveva appena detto, voltandosi e sorridendomi. Venni investita dal calore di suoi occhi, così dolci e così espressivi da far venire il capogiro. Mi tornò in mente perché mi ero innamorata di lui dalla prima volta che lo avevo visto. Quel suo sguardo così carico di emozioni, quel suo sorriso, il più bello del mondo e il modo in cui riusciva a ucciderti senza toccarti mi facevano andare nel pallone.
   «Cosa dici?» gli chiesi, togliendomi le cuffie.
   «Stavo dicendo che hai una bella voce quando canti.»
   «Ah... e come fai a saperlo?»
   Scoppiò a ridere. «Perché è da quando siamo saliti che stai canticchiando. Devo dire che Science and Faith è quasi più bella sentita cantare da te, che da me.»
   Merda. Non potevo per un giorno ascoltare qualcun altro che non fossero i The Script? A ripensarci mi aveva appena fatto un complimento. O forse era solo un modo galante per dirmi di smettere di cantare le sue canzoni?
 

Danny sentiva bisbigliare qualcosa alla sua destra ma pensò che fosse solo uno scherzo del vento. Il suono, tuttavia, persisteva e sembrava diventare una melodia. Si voltò quanto bastava per vedere le labbra di Anna muoversi impercettibilmente. Riconobbe il testo di “For The First Time”, seguito da “Nothing”, “Science and Faith”, una dopo l’altra. Guardò il suo volto, aveva un’espressione rilassata, gli occhi socchiusi, l’aria che le scompigliava i capelli dorati.
   Tornò a osservare le persone che camminavano sui marciapiedi, i bambini che giocavano a pallone, mentre una ferita si riapriva nel suo petto. Le sue canzoni, chissà se sarebbe più riuscito a fare emozionare la gente con la sua voce o se avrebbe dovuto lasciare il gruppo, sconfitto. Aveva provato a intonare qualcosa dopo l’incidente, quando la voce era tornata, ma non riusciva più a raggiungere le note che lo distinguevano. Certo, alcune melodie non richiedevano grandi sforzi, ma non poteva fare a meno di mettersi a piangere ogni volta che la voce si strozzava in gola, lasciandolo muto.
   Portò una mano al petto, là dove stavano le sue collane portafortuna. Poteva sembrare una cosa stupida, ma gli ricordavano i numerosi rosari che possedeva suo padre. Era estremamente devoto e trasmetteva a chiunque il suo credo. Anche Danny lo era stato per molto tempo finché Shay non li aveva lasciati, poi la magia di Dio se n’era andata miseramente, lasciando solo un gran vuoto. Si era stancato di sentir dire che qualcuno sceglieva di far morire bambini e persone innocenti “perché se l’erano meritato”. Non era più un bambino.
 

Fu davanti al Trinity College che lasciammo il bus per prenderne subito un altro, e di seguito altri tre. Quando arrivammo allo zoo era passata almeno un’ora, ma l’ansia continuava a perseguitarmi. Alla biglietteria Danny mi precedette, insistendo per offrirci il biglietto d’entrata. I bimbi lo ringraziarono in coro e io feci lo stesso. Il luogo era abbastanza affollato quindi decisi di fissare un punto d’incontro nel caso ci fossimo persi. I bambini presero una cartina del parco e ci fecero da guida. Ne presi una anche io e notai con orrore che era presente, all’interno del parco, anche un reparto degli insetti, con un’esposizione temporanea di aracnidi tropicali. Mi vennero i brividi anche solo a pensarci.
   Passammo davanti a numerosi recinti, soffermandoci a leggere le caratteristiche di ogni animale. Danny si dimostrava sempre più disponibile ad ascoltare tutto quello che i bambini dicevano riguardo a leoni, tigri, nonostante fossero perlopiù storielle inventate.
   Io e Danny parlavamo poco, del più e del meno. Presi coraggio e decisi che più aspettavo, più sapevo che non gli avrei detto nulla sulla nostra discussione. Mi concentrai, cercando le parole giuste per iniziare.
   Non facevo caso a dove camminavo così andai a sbattere contro una donna che si girò stizzita. Appena mi vide, però, sembrò calmarsi.
   «Mi scusi, non l’avevo vista... » dissi mortificata.
   «Nessun problema, quando si sta con la propria famiglia non si fa caso a chi ci sta intorno.»
   O la mia salute mentale stava davvero peggiorando, o quella donna pensava davvero che Danny fosse mio marito e Cleo e Nick i miei figli? Va bene che non ero lontana dai vent’anni, ma non mi sembrava di apparire così adulta.
   Le sorrisi nervosa e passai oltre.
   Tornando al fianco di Danny, gli chiesi quanti anni mi avrebbe dato.
   «Non più di venti. Perché?»
   «Quella donna contro cui mi sono scontrata ti ha preso per mio marito e queste pesti per i miei figli! Cleo ha quasi dieci anni, non dirmi che sembra che io ne abbia dieci in più di quanti ne ho!» Poi mi ricordai che lui ne aveva molti più di me. «Senza offesa per te!»
   Danny scoppiò in una fragorosa risata, che mi coinvolse. «Tranquilla, so di essere decrepito ormai. E no, non sembri una trentenne.»
   «Grazie, mi serviva sentirtelo dire...»
   «Senti,» disse, tornando serio. «Voglio scusarmi con te per il modo in cui ti ho trattata. So che adesso starai pensando che sono uno stronzo opportunista perché non mi sono fatto sentire prima, ma la verità è che non ne avevo il coraggio... Questa storia della voce mi ha buttato a terra e non sapevo come fare per farmi perdonare.» Abbassò lo sguardo sui suoi piedi, calciando la ghiaia davanti a sé. «E sappi che mi dispiace molto per tua sorella... » concluse, senza alzare la testa.
   «Volevo iniziare io questo discorso ma per fortuna mi hai preceduto. Devo scusarmi anche io perché la mia reazione perché è stata un tantino esagerata, ma sono una persona impulsiva, non riesco proprio a frenarmi. E a me dispiace per tuo padre, so quanto ci tenevi.»
   Mi guardò e sorrise. I suoi occhi brillarono. Sapevo di essermi guadagnata la sua fiducia. «Ora siamo pari» annunciò divertito, «ma devi ancora dirmi cosa devo fare per essere perdonato.»
   «Mi basta un tuo bacio.» No, non potevo averlo detto veramente. Stupida boccaccia.
   Mi preparai a ricevere un sonoro “Mai e poi mai”, ma sentii solo le sue labbra umide poggiarsi alla mia guancia. Si allontanò di poco sfiorandomi l’orecchio con la bocca. Percepivo la barba ispida pizzicarmi la pelle. Ero bloccata, come una statua di gesso. Prese fiato.
   «Ricordati questo: una persona non muore fino a quando resta nel cuore di chi la ama.»

 
Quella ragazza aveva il potere di renderlo un’altra persona, il Danny che era, senza maschera. Nel momento in cui le aveva chiesto quel bacio aveva sentito il suo bisogno di essere accettata, la paura di essere respinta. Si era chinato, inumidendo le labbra. La sua pelle morbida aveva accolto quel gesto come se fosse l’unica cosa che contava.
   «Andiamo?» le disse, ridestandola da quello stato di intontimento. «Altrimenti perdiamo i bambini.»
   «Sì, certo. Grazie.»

 
Non ci potevo credere. Danny, Daniel O’Donoghue mi aveva dato un bacio. In quell’istante realizzai di essere la persona più fortunata sulla Terra, almeno dal mio punto di vista. Pensai alla sera, quando avrei detto tutto alla mia migliore amica, facendola schiattare d’invidia.
   Raggiunti Cleo e Nick, il secondo disse una cosa che mi fece gelare il sangue. Voleva andare a vedere gli insetti. Non sapevo se mettermi a urlare o piangere. Provavo ribrezzo per quelle creaturine e una paura irrazionale verso i ragni. Non potevo farci niente, appena ne vedevo uno stavo male. Pensai che Nick mi avrebbe fatto morire prima o poi, sembrava scovare ogni mio punto debole, rigirando la lama nella ferita.
   «D... D’accordo» dissi, dopotutto non potevo negarglielo.
   Ci avviammo nell’edificio dove regnava un caldo infernale.
   «E così, hai paura dei ragni...»
   Ma coma aveva fatto a capirlo? Annuii.
   «È semplice da capire. Appena ha indicato l’insettario sei impallidita e considerato che l’aracnofobia è la paura più diffusa ho fatto uno più uno.»
   Deglutii. Mi sentivo davvero male.
   «Se hai bisogno aggrappati pure al mio braccio.»
   «Ok, grazie infinite.» Ma nemmeno lui riusciva a calmarmi, non completamente.
   Entrammo in quella che sembrava una specie di serra. L’aria era irrespirabile. Mi girava la testa e l’umidità era talmente elevata da farmi sudare.
   Alcune farfalle svolazzavano sopra le nostre teste, mentre gli altri insetti erano rinchiusi in gigantesche teche di vetro. Abbassai lo sguardo e lo tenni fisso sul sentiero di terra battuta. L’ambiente circostante era rigoglioso e in ogni singolo angolo cresceva qualche pianta tropicale che non avevo mai visto. Arrivammo alla fine della serra dove, sopra una porta, c’era un’insegna che indicava la mostra degli aracnidi. Era arrivato il momento della verità. Sarei morta dentro o sarei stata trasportata fuori in ambulanza? Tremavo come una foglia scossa dal vento, le gocce di sudore che mi scorrevano lungo la schiena. Ok, decisamente sarei morta.
   Danny mi prese per mano. «Coraggio, ci sono qua io.»
   Annuii riluttante. La sua presa era salda ma allo stesso tempo delicata e mi infuse una minima quantità di coraggio.
   La stanza seguente era un luogo abbastanza scuro e la luce proveniva solamente dalle teche brulicanti di esseri mostruosi. Provai ad avvicinarmi a una di quelle, dove si erano fermati i bambini. Alzai lo sguardo giusto un attimo e incontrai quello di una grossa tarantola, con una macchia gialla sul dorso. I suoi occhietti neri mi fissavano come se fossi una sua preda. Soffocai un urlo e mi avvinghiai al braccio di Danny, come una bambina impaurita.
   Lui mi prese la testa e la appoggiò al suo petto, ripetendo alcune parole per distrarmi e aiutarmi a calmarmi. Respirai a fondo il suo aroma, un insieme di sapone e costoso profumo maschile. Chiusi gli occhi e lui mi guidò fuori. Ci sedemmo su una panchina. I piccoli mi si avvicinarono chiedendomi se stessi bene e io sorrisi per evitare che si preoccupassero.
   «Scusa per la mia reazione, ma non riesco proprio a farci nulla...» dissi.
   «Non devi scusarti. Se fossimo entrati in un rettilario probabilmente mi avresti visto avere la tua identica reazione.» Rise. «Solo che vederne uno come me che va in panico per alcuni serpenti e strilla non è una bella scena.»
   «D’accoro, forse è meglio non entrarci allora» constatai, immaginandomi la scena. L’orologio del parco suonò. Dovevamo proprio tornare a casa, si stava facendo tardi.
   Una volta lì presi le chiavi e aprii la porta, lasciando passare i due piccoli uragani, che si fiondarono sul divano.
   Mi fermai sull’uscio e chiesi a Danny se volesse entrare per bere qualcosa.
   «Grazie per l’invito ma devo proprio scappare. Se un giorno di questi ti va di fare un giro per Dublino potrei accompagnarti» disse lui, con un tono normalissimo.
   Io, invece cominciai ad arrossire. «Certamente, chiedo il numero ad Alisha!» balbettai, stringendo tra le mani che chiavi fino a farmi male.
   «Perfetto. Be’ allora io vado.» Si avvicinò e mi diede un altro bacio sulla guancia. Questa volta non feci nemmeno in tempo ad accorgermene che lui già mi salutava con la mano dall’altra parte della strada. Alzai anche io la mia e poi richiusi la porta. Sospirai e corsi in camera.

 
Decise di tornarsene a casa a piedi, almeno avrebbe avuto il tempo di riflettere. Era stata una giornata intensa. Ogni passo che faceva i suoi piedi imploravano pietà ma non li ascoltò. Rivisse nella sua mente tutta la giornata, assaporandosi ogni attimo. Rivide davanti a sé Anna che rincorreva i bambini, senza abbandonare mai quel sorriso che la rendeva ancora più bella. Pensò che forse era merito del fatto che fosse italiana. Dopotutto gli italiani erano famosi in tutto il mondo per essere sempre di buon umore.
   Si toccò il braccio destro e gli parve di sentirla ancora aggrappata, impietrita dalla paura. Sorrise e percepì la sua pelle vellutata sotto le labbra. Come poteva stare con lui dopo tutto quello che le aveva fatto?

 
Aspettò che il cellulare squillasse due volte e poi dall’altro capo rispose la voce squillante della sua migliore amica.
   «Anna, sei ancora viva? Era ora di farsi sentire!»
   «Ciao Eli, scusami se non ti ho più chiamata!» dissi, cercando di scusarmi, ero davvero un’amica pessima.
   «Ok, falla finita» tagliò corto lei. Non era una permalosa. «Raccontami tutto.»
   «Cosa pensi se ti dico: Danny O’Donoghue?»
   «Penso all’uomo più figo della Terra! Cosa diavolo è successo? Guarda che se lo hai visto nud...»
   La bloccai. Era sempre stata una persona senza peli sulla lingua. «Ti avevo detto che lo avevo incontrato al parco e che era stato uno stronzo e blablabla. L’ho incontrato ancora, alla sala di registrazione di Chris, il mio papà inglese, e non mi ha rivolto la parola!»
   Elisabetta mi interruppe. «Quanto tempo fa è successo?»
   «Non mi ricordo. Più di due settimane fa.»
   «E ci credo che era scontroso. La sua tipa l’ha lasciato! L’ha scritto persino su Twitter!»
   Fu come una doccia fredda. «Non lo sapevo...»
   «Comunque, vai avanti, voglio sapere cos’è successo.»
   «Lo stesso giorno ha avuto un incidente in auto e ha rischiato di morire...»
   Elisabetta si mise a urlare, distruggendomi il timpano sinistro. «Cosa è successo? Ecco perché non hanno più scritto niente da quel giorno. Oddio, come sta adesso? Ti prego dimmi bene.»
   Preferii evitare di dirle della voce di Danny. «Sta bene. Oggi, e adesso arriva la bella notizia, ha accompagnato me e i figli della famiglia che mi ospita allo zoo.»
   «Vuoi dire che hai passato una giornata intera con lui?! Se fossi lì probabilmente ti ammazzerei!»
   Scoppiai a ridere. «E mi ha dato anche due baci sulle guance.»
   Dall’altra parte della cornetta Elisabetta cominciò a insultarsi, maledicendosi per non essere lì con me.
   In quel momento pensai a Danny.

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Capitolo 9
*** Sogno o realtà' ***


 
CAPITOLO 9 Sogno o realtà?
 
Chiuse la porta d’ingresso silenziosamente, e appoggiò le chiavi di casa sul mobiletto. Si fermò un attimo a contemplare la sua immagine nello specchio. Alcuni segni sfregiavano il viso cereo, come piccole righe tracciate da una penna su un foglio. Aveva un’aria stanca, e forse lo era davvero.
   Lungo il tragitto si era attardato seduto su una panchina, a osservare la gente. Era un modo per rilassarsi e per trovare ispirazione. Un gruppetto di anziane signore che andavano a fare la spesa con i nipotini, un ragazzo che correva seguito dal cane e una coppia di giovani innamorati che camminavano con le dita intrecciate. Gli era venuto istintivo guardarsi le mani, pensare a quanto gli mancasse avere qualcuno accanto a sé, a cui stringere la mano, qualcuno che potesse capirlo, amarlo, con cui condividere la propria vita. Non era più un ragazzino. Era stanco di passare da una ragazza all’altra alla ricerca di quella giusta. Helen lo era stata.
    Pensò a Glen che, nonostante vivesse da solo, aveva l’amore di Luke, suo figlio; a Mark, la gioia di avere una moglie e tre stupendi figli. Si ritrovò a mangiucchiarsi le unghie, un brutto vizio che non riusciva a sradicare. Prese un bel respiro e chiuse gli occhi. Affiorarono al pensiero un paio di occhi limpidi come il cielo, un sorriso caloroso e aperto, un viso dolce. Si lasciò trasportare da quell’immagine. Un senso di tranquillità si fece largo dentro di lui annientante come un uragano, ma con la dolcezza della brezza primaverile.

 
Quella notte dormii come un neonato. Mi sentivo la mente più libera che mai.
Al risveglio venni accolta dal suono della caffettiera al piano inferiore e dal profumo di pancake caldi e sciroppo d’acero. Alisha quella mattina non lavorava e così si dilettava in cucina, preparando una colazione degna della regina. Mi sciacquai il viso in bagno e scesi ancora in pigiama, salutando con un bacio la cuoca e ringraziandola per essersi data tanto da fare. Mi invitò ad accomodarmi e mi servì.
   «Allora come è andata ieri allo zoo?» mi chiese, continuando a trafficare sul ripiano della cucina.
   «Benissimo, Danny è stato mooolto paziente.» Mi sorse una domanda. «Scusa se te lo chiedo, perché hai chiesto proprio a lui?» Doveva pure avere qualcun altro a cui chiedere, che ne so, un’amica?
   «Perché i bambini lo adorano. E anche tu.» Si voltò e mi sorrise innocente.
   Arrossii e mi limitai a tuffarmi sulla mia tazza di caffè. Odiavo ammettere che aveva maledettamente ragione.
Finita la colazione salii in camera. Accesi il cellulare e sullo schermo comparvero alcuni messaggi e una chiamata persa. Due poemi dalla mia migliore amica, uno da mia mamma, di cui era anche la chiamata. Mi stupii che non ce ne fossero almeno una decina. Un ultimo messaggio era di un numero sconosciuto. Non era nemmeno scritto in italiano. Brutto segno.
   “Ciao Anna, sono Danny.” Una dormita fantastica, una colazione regale e adesso anche questo? Dovevo sicuramente essere morta e quello doveva essere il paradiso. “Ho chiesto il tuo numero ad Alisha, spero non ti dispiaccia.” E come potrebbe? “Mi ha detto che non hai ancora avuto modo di visitare il centro come si deve. Oggi pomeriggio sono libero, ti va di venire a fare un giro? Fammi sapere.” Il mio corpo reagì senza chiedermi il permesso e cominciai a saltellare per la stanza, senza controllo. Cosa diavolo mi stava succedendo? Fino al giorno prima lo odiavo a adesso ero la persona più felice del mondo... Che strana cosa, la mente umana.
   Cercai di darmi un contegno, benché minimo. E formulai una risposta che avesse un minimo senso compiuto.
   “Ehi, grazie per avermelo chiesto. Non mancherò!” Ok, non aveva molto senso.
   Qualche minuto dopo l’apparecchio vibrò e si materializzò il suo nome (che intanto avevo segnato in rubrica) seguito da una fila di cuoricini, che davano l’idea di quanto la mia malattia mentale fosse grave. “Perfetto! Allora passo io a prenderti verso le 2... Ricordati i pantaloni!”
   Faceva pure lo spiritoso.
   Mi  resi conto di avergli garantito la mia presenza ancora prima di chiedere il permesso ad Alisha. Ma sicuramente non mi avrebbe negato il permesso. Scesi da lei e glielo domandai e, come da prognostico, fu felice di lasciarmi via libera.
   Pranzai presto per potermi preparare con comodo.
   Mi infilai sotto la doccia, sperando di sciacquarmi via l’ansia che mi tormentava. Anche se dall’esterno potevo sembrare la persona più calma dell’universo, dentro di me sentivo crescere, minuto dopo minuto, una strana sensazione. Mi sembrava di aspettare di essere chiamata per l’esame orale di maturità, avevo le mani congelate, la gola secca e i tremori. A un certo punto fui perfino tentata di controllare che non avessi la febbre. Non riuscivo a controllare le mie mani, la mia testa, il mio stomaco e il cuore mi scoppiava sotto lo sterno.
   Mi dovetti sedere sul piano della doccia, travolta dal getto bollente che picchiettava insistentemente la mia pelle, facendomi quasi male. Rimasi così un attimo, cercando on ogni modo di tranquillizzarmi.
   La verità era che avevo paura.
   Avevo paura di quello che sarebbe successo, di come avrei passato quella giornata con una persona che non conoscevo e che non poteva nemmeno essere definita “normale”. Dopotutto non potevo dimenticare che Danny era famoso e che probabilmente mi considerava come una delle tante fan che avevano il privilegio di passare qualche ora con lui e il suo invito probabilmente era per fare un favore ad Alisha. Mi aspettavo già un pomeriggio passato in un locale isolato e sconosciuto, a bere qualcosa parlando con un pazzo nascosto dal menù per non essere riconosciuto.
   Le note di “If You Could See Me Now” presero a diffondersi dal mio cellulare. Chiusi l’acqua e uscii avvolta nell’asciugamano. Era Danny. Pensai di essere in ritardo.
   «Pronto, Danny?»
   «Ehi, scusa il disturbo. Volevo sapere se ti andava anche di fermarti a cena, conosco un posticino niente male dove hanno birra alla spina per tutti i gusti!»
   Peccato che fossi astemia. «Certo, volentieri! Ma come facciamo per i bus?»
   «Ho chiesto la macchina a Mark, possiamo tornare quando vogliamo.»
   «Fantastico! Allora ci vediamo più tardi.»
Non era per niente fantastico. Poter tornare a qualsiasi orario significava fare molto tardi e quindi passare molto, troppo tempo da sola con lui. Mi diedi uno schiaffo, basta pensare negativo.
   Mi asciugai i capelli e mi truccai, giusto per rendermi presentabile. Indossai un maglione leggero e un paio di jeans scuri, sperando di resistere all’aria frizzante che soffiava la sera. Fui tentata di prendere anche la giacca ma mi imposi di dimostrarmi meno freddolosa di quello che ero veramente.
   Ultimati i preparativi mancava ancora un buon quarto d’ora. Decisi che non potevo non avvisare Elisabetta dell’ “appuntamento”, sarebbe andata su tutte le furie. E magari mi avrebbe persino dato qualche buon consiglio. Dopo alcuni squilli stavo per attaccare quando dall’altro capo rispose una voce affannata.
   «Stavo per riattaccare! Quando mi servi scompari sempre!» la rimproverai con tono ironico.
   «Frena, frena, frena! Ho salito quattro rampe di scale come un fulmine per rispondere! Per fortuna che la suoneria era alta. Non è colpa mia se scegli sempre i momenti peggiori per chiamarmi!»
   «Ok, lasciamo perdere. Ho poco tempo e un problema ben più grande da risolvere» dissi io, cercando di risultare più calma possibile.
   «Mi spaventi così! Prima di tutto quanto è grande questo problema?»
   Avevo sempre avuto la tendenza ad ingigantire i problemi, ma non lo facevo per cattiveria. «Un metro e novanta» annunciai, sperando capisse.
   «Cosa?!» Aveva capito. «Il tuo problema è Danny O’Donoghue? Hai la fortuna di conoscerlo e ti lamenti pure?»
   Sbuffai. «Non hai capito. Il mio problema riguarda lui ma non è lui!»
   Potevo quasi vedere la sua espressione stupita. «Spiegati.»
   Sapevo che mi avrebbe sbraitato contro. «Allora... Danny si è offerto per accompagnarmi per il centro.» Ignorai la sua imprecazione. «Passa a prendermi tra nemmeno dieci minuti e io non so cosa fare!»
   «Mettiamo in chiaro una cosa. Se fossi lì ti ammazzerei con le mie stesse mani. Detto questo, ascoltami bene. Hai l’opportunità di uscire con l’uomo dei sogni e ti stai chiedendo se andare e passare la giornata più bella della tua vita oppure rifiutare, distruggendo le sue e le tue aspettative. Penso che adesso tu possa risponderti da sola» concluse lei, con un tono di chi la sa lunga.
   «Ma non so come comportarmi con lui! Sarà abituato a donne bellissime, sicure di sé e che sanno sempre cosa dire, non a una ragazza normalissima, insicura e timida.»
   «Tu sei bellissima, Anna! Te l’avrò detto un milione di volte. Credi in te stessa e soprattutto non cercare di assomigliare a nessun altro. Sei perfetta così come sei, capito?»
  Mugugnai qualcosa e sentii il campanello di casa suonare. Era arrivato.
   «Ora devo andare» dissi, troncando la chiamata. «Domani ti chiamo per aggiornarti. Augurami buona fortuna.»
   «Aspetterò solo quello. Fatti onore bellezza!»
   Infilai il cellulare nella borsa e presi a scendere le scale, stringendo il corrimano di legno.

 
Era in ritardo. Una lunga chiamata del suo produttore l’aveva tenuto incollato al telefono fino a pochi minuti prima. Aveva dovuto fare tutto di fretta. Una doccia lampo e aveva indossato i primi vestiti che aveva trovato. Odiava farsi aspettare. Prese le chiavi del gioiellino di Mark e si fiondò al volante, finendo di sistemare i capelli guardandosi nello specchietto retrovisore.
   Ingranò la marcia e la sensazione della leva sotto la mano gli fece ricordare il giorno dell’incidente. Non aveva più guidato da quell’evento ma non si poteva per sempre rimanere incollati al passato. Era ancora vivo ed era quello che contava anche se la sua carriera era ancora a rischio. Un paio di volte a settimana tornava in ospedale per la terapia riabilitativa nel tentativo di salvare il salvabile. Il medico che lo seguiva non voleva sbilanciarsi ma aveva notato un miglioramento, benché minimo. “L’importante è non perdere la speranza” ripeteva, e Danny non ne aveva nessuna intenzione.
   Quando fu fuori dalla casa degli O’Donnel parcheggiò e andò a suonare il campanello. La porta si aprì e si ritrovò davanti Alisha, in tenuta casalinga, con tanto di guanti e grembiule.
   «Ciao Danny, entra pure!» lo invitò lei, facendosi da parte per lasciarlo passare.
   L’interno profumava di fresco e di pulito. I bambini erano in salotto e giocavano con uno strano gioco da tavolo che gli ricordava quello che il nonno aveva creato per loro. «Te lo ricordi?» chiese Alisha, avvicinandosi. «L’aveva fatto tuo nonno per noi...»
   «E mia madre ve l’ha regalato quando è nata Cleo. Ecco perché mi sembrava famigliare.» Sorrise.
   «Sul fondo ci sono ancora incisi i nostri nomi» ricordò lei, con occhi nostalgici. «Ah, bei tempi!»
   Stava per rispondere quando vennero interrotti da tonfi di passi sulle scale. Si girarono contemporaneamente e comparve Anna con il viso arrossato. Guardava in basso ed era impegnata a sistemare un filo che fuoriusciva dalla cucitura dei jeans. Sollevò lo sguardo quel tanto che bastò perché i suoi occhi celesti riflettessero la luce della stanza. Lo salutò con la mano, stringendo con l’altra la tracolla.
   «Ciao, Anna, possiamo andare?»
   «Certo.»
   Avanzò verso Alisha e le schioccò un bacio sulla guancia. «A dopo, non aspettatemi svegli.»
   La donna borbottò qualcosa del tipo “Non fate troppo tardi”. Anche Danny la salutò con un abbraccio fraterno prima di far scorrere un braccio sulle spalle di Anna e trascinarla con sé verso l’auto. Poteva sentire il suo cuore accelerare sotto la punta delle dita.

 
Mi cingeva delicatamente le spalle e parlava di qualcosa ma in quel momento proprio non riuscivo a connettere. Ero persa nel suo abbraccio, tanto strano da sembrare un sogno, assaporandomi ogni singolo istante e sperando di non sentire mai suonare la sveglia.
   «Anna, ci sei ancora?» disse spostandosi di fronte a me e sventolandomi una mano davanti agli occhi.
   «Sì, ehm... Cosa mi hai chiesto?»
   «Ho chiesto se ti andava bene di andare a fare colazione ai bagni pubblici...» disse lui, serio.
   «Si certo, va benissimo!» risposi, senza pensarci.
   Capii solo dopo cosa avevo detto, dalla risata di Danny mentre si infilava in auto. Diventai paonazza. Il mio proposito di evitare momenti imbarazzanti era andato miseramente in fumo.





 

 




E' la prima volta che mi faccio sentire,perdonatemii :(
Voglio ringraziare chi ha messo "This is love" tra
le storie seguite, da ricordare, nelle preferite,
chi ha recensito e chi ha semplicemente letto <3
Questo capitolo fa particolarmente schifo ma abbiate pietà!
Scusate per averci messo tanto per aggiungerlo,
per il prossimo speriamo in meglioooo
baci e grazie a tuttiii <3
 

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Capitolo 10
*** Dublin's Streets ***


Il sedile di pelle, che doveva essere morbidissimo, aveva assunto la stessa consistenza di una roccia e mi costringeva in una scomoda posizione, facendomi sembrare una sorta di manico di scopa.
            Probabilmente anche Danny se ne era accorto, a giudicare dal sorriso sfacciato che aveva. Intorno a bocca e occhi la pelle era stropicciata, solcata da piccole pieghe che ricordavano la superficie di uno stagno quando ci si getta un sasso. Questo mi ricordò che, per quanto potessi negarlo, non era più un ragazzino e probabilmente il suo interessse verso di me si limitava alla semplice simpatia.
            Lottando con tutte le mie forze contro il nervosismo provai a rilassarmi, adagiandomi allo schienale. «Pensavo che Mark avesse fatto montare senza dirmelo dei chiodi nello schienale» disse ad un certo punto, facendomi arrossire. Ma perchè avevo accettato l'invito?
            «No.. È solo che ho problemi alla schiena.» Lo guardai con convinzione, sperando di non aver distrutto completamente la mia reputazione. Ma lui continuava a sogghignare, come se lo divertisse ogni mia stranezza.
            «Posso chiederti una cosa?» gli domandai.
            «Spara.»
            «Ma trovi così divertente ogni cosa che dico o quel sorrisetto è dovuto ad una paralisi?»
            Rise. Come se non avesse fatto altro in quel lasso di tempo. «Io rido quando sono nervoso o quando sono in imbarazzo. In questo momento per entrambi i motivi.»
            Rimasi interdetta. Pensare che Danny, un cantante carismatico e dal fascino magnetico si trovava in imbarazzo per causa mia non fece altro che peggiorare la situazione. Così decisi di tagliare corto e cambiare argomento: «Come va la guarigione?»
            «Non male... ho ancora un grosso livido all'altezza delle costole fratturate» ed alzò la maglia per mostrarmi una grossa macchia violacea «ma sto bene.»
Poi prese una pausa, sospirò e disse: «Ma continuo a fare esercizi per la voce. Quando parlo è normale, ma quando provo a cantare sembro un'oca starnazzante.»
            «Mi dispiace...»
            «Oh, non dispiacerti. Non è colpa tua. E scusa ancora per essermela presa con te, non avrei dovuto.»
            «Non pensarci.»
            «Sai, ho ricevuto le scuse della famiglia di Kevin, l'uomo che... beh, che mi è venuto addosso. Erano mortificati. Ma non lo incolpo. Io sono ancora vivo, lui no.»
            Aveva assunto un'aria malinconica. Perchè i nostri discorsi dovevano sempre vertere su morti, malati e feriti? Mi sembrava parlare con mia nonna, quando mi parlava di gente sconosciuta che era morta o stava morendo. «Che ne dici di cambiare argomento? Altrimenti potrei iniziare a deprimermi!» sdrammatizzai, strappandogli un sorriso.
            «Ci sto!» rispose. «Iniziamo con te: come sei arrivata in questo luogo di pioggia e alcolisti?»
            «Oddio... beh... Piacere sono Anna, vengo da un posto di sole e mafiosi...»
            «Dai dicevo sul serio!» mi interruppe.
            Tornai seria. «Beh sono qua perchè avevo bisogno di cambiare aria. Ero stanca della solita gente, con i soliti pregiudizi. Io provengo da una zona di montagna, dove la mentalità si è fermata al secolo scorso. Ma non sono gli anziani a infastidirmi, sono i ragazzi come me, che hanno sempre da ridire su tutto e su tutti.»
            «Esistono anche qua persone del genere.»
            «Prova a vestirti come quella ragazza» e indicai una giovane che indossava pantaloni strappati e una maglia scura. Il braccio destro era interamente tatuato e stringeva quello di un'anziana, mentre con l'altro trasportava due sacchetti della spesa. «E per tutti diventi subito una drogata. Non una ragazza con gusti particolari, una da emarginare. Capisci?»
            Lui si zittì e guardò il tatuaggio che compariva dallo strappo dei miei jeans: un acchiappasogni. Sollevai la manica del maglione e gli mostrai la piuma e i gabbiani che avevo sul braccio. «Rappresentano i componenti della mia famiglia. E non mi drogo, lo giuro!»
            «Amo le ragazze tatuate» disse lui. Sorrise e gli si illuminarono gli occhi. Quei denti bianchi e un po' storti formavano il sorriso più dolce del mondo, un sorriso a cui era impossibile resistere.
            Mi ricomposi. «E tu perchè sei a Dublino, cioè voi?»
            «Segreto professionale» mi rispose. «No, scherzo. Quando non siamo in tournèe torniamo a Dublino, Londra è troppo caotica per tre irlandesi. E, dato che Chris ha uno studio di registrazione, ci ha proposto di provare da lui, senza dover per forza tornare subito nella grande città. Per tutta l'estate dovremmo stare qua.»
            La me interiore esultò. «Capisco» mil imitai ad esclamare.
 
Dopo venti minuti arrivammo in centro, dove si apriva la via pedonale dei pub. Danny parcheggiò lì vicino, in un parcheggio privato per il quale sostenne di avere il permesso di sosta.
            Scendemmo dall'auto e venni investita dalla brezza, non propriamente estiva, che mi fece rabbrividire. «Hai freddo?» mi chiese lui, con addosso solo una T-shirt.
            «Posso resistere» mentii io.
            «Aspetta.» Riaprì la portiera dell'auto e si sporse all'interno, alla ricerca di qualcosa. Uscì tenendo in mano una specie di cardigan scuro, nel suo stile. «Probablimente sarà stropicciato, ma se chiudi gli occhi tiene caldo» disse imbarazzato.
            «Andrà più che bene, grazie» lo ringraziai io, indossandolo. Aveva il suo profumo e, nonostante fosse troppo grande per me, mi sentii subito meglio.
            «Andiamo» esordì, chiudendo l'auto.
 
Camminammo per alcuni minuti lungo il fiume Liffey. L'aria profumava di pioggia e nuvole scure danzavano nel cielo, formando una cappa sopra la città. «Come ti trovi a Dublino?» mi chiese, mentre il mio sguardo era catturato da una donna seduta su una panchina che controllava di continuo l'orologio e si guardava attorno. Chissà chi stava aspettando.
            «Anna, va tutto bene?» mi domandò Danny, piazzandomisi davanti e facendomi inciampare. Gli caddi addosso, ma lui riuscì a sorreggermi. Sollevai il volto, per scusarmi, e mi ritrovai a non più di dieci centimetri di distanza dal suo. Venni attratta dai suoi occhi del colore del sottobosco, un miscuglio tra marrone e verde, che mi fece pensare ai prati dell'Irlanda, la sua terra. Sorrideva.
            Mi sollevai imbarazzata e mi sentii avvampare. «Ehm...» deglutii, «scusami. Sono un po' distratta!»
            «Ho notato. Ma non preoccuparti, sono anche io un tipo con la testa sulle nuvole.»
            Ero sicura che l'avesse detto solo per pietà.
 
Ogni momento che passava era sempre più convinto di avere di fronte una ragazza straordinaria. Il suo modo di approcciarsi, quel suo accento strano da italiana, il suo abbigliamento, le sue idee un po' folli e il suo sorriso timido ma sincero. Tutta quell'accozzaglia di caratteristiche che racchiuse in lei sembravano amalgamarsi alla perfezione. La guardò camminare, avvolta in quel maglione troppo grande e in quei jeans distrutti ad arte. Poteva quasi immaginarsela con in mano un taglierino mentre li riduceva a brandelli. Non sapeva che scuola frequentasse, che passioni avesse, quali fossero i suoi gusti, cosa li accomunasse, ma non gli interessava, voleva semplicemente passare un po' di tempo con lei.
            «Di me saprai già molto quindi dimmi qualcosa di te...» esordì, preoccupato dal suo silenzio.
            Lei si ridestò. «Scusami se non riesco a connettere» si scusò. Poi iniziò: «Allora, da dove posso iniziare... Sono una persona testarda, disordinata, svampita, ma dicono che sia per colpa del mio segno zodiacale...»
            «Vergine?»
            «Sì, perchè?» rispose lei, voltandosi verso Danny con un'espressione interrogativa.
            «Appassionato di zodiaco. Giuro che non sono andato a cercare da qualche parte la tua biografia.»
            «Non troveresti nulla» rise. «E, tra i difetti, diciamo che non sono nemmeno una ragazza eccessivamente aggraziata...» Si parò davanti a lui, improvvisando un pezzo rap e strappandogli una risata. «Ma questo penso che tu l'abbia capito dall'abbigliamento e dalla mia estrema eleganza nei movimenti! Tra i pregi posso dire di essere una buona ascoltatrice...»
            «Interessi?» aggiunse lui, curioso.
            «Vediamo... la mia vera passione è il disegno! Sapessi quanti ritratti ho fatto di te!»
            «Scherzi?» Danny era lusingato da una simile dichiarazione e le rivolse tutta la sua attenzione.
            Anna, rendendosi conto della rivelazione, iniziò a boccheggiare, cercando qualcosa da dire che la potesse liberare dall'imbarazzo. Rassegnata sbuffò e borbottò qualcosa che lui non comprese, probabilmente in italiano. «I tatuaggi che ho li ho disegnati personalmente. Ma ho lasciato a qualcun’altro il compito di rifarli sulla pelle.»
            Lui non potè fare a meno di spalancare la bocca.
            «Tutto ok?» chiese lei.
            «Mi stupisci ogni secondo di più. Mi chiedo come possano tanti pregi stare in una sola persona!»
            «Come sei egocentrico!» controbattè lei, sarcastica. Danny notò con quanta fatica lei riuscisse a tenere un discorso serio e fu felice di non essere l'unico.
 
Continuavo a pensare quanto fosse strano ritrovarmi lì, in compagnia di Danny, come se fosse una persona come le altre, non un cantante ammirato e conosciuto al mondo intero, dal talento straordinario e, secondo me, sottovalutato. Quando parlava rimanevo stregata dalla sua voce limpida e forse leggermente nasale, certamente non al pari della mia. Un timbro maschile ma non cupo, che sapeva infondere sicurezza e avvolgerti con quel tipico accento irlandese. Seppure il mio livello d'inglese fosse buono, mi risultava abbastanza difficile cogliere alcuni modi di dire o parole pronunciate troppo velocemente. Alcune volte fui tentata di chiedergli di rallentare ma non volevo rischiare di rovinare quel suo bellissimo modo di pronunciare le parole. ''Ok'', mi dissi ad un certo punto, ''ti stai veramente bevendo il cervello''.
E forse era vero.
Ma non m'importava.
Ero nella città che mi aveva rapito il cuore, con Danny O'Donoghue.
Al diavolo il resto.



 
Nota dell'autrice
Era il ontano 2013 quando iniziai questa storia e Dio solo sa per quale motivo io non abbia più pubblicato nulla.
I miei interessi sono cambiati da allora, ma dannazione, sono sempre innamorata di Danny.
Ecco qua un ennesimo capitolo, risistemato in una noiosa gioranata di febbraio.
Spero che possa piacervi e possa in qualche modo rimediare al mio periodo di assenza.
Un bacio a tutte le lettrici (e ai lettori, se esistono)
 

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