Welcome to my mind

di lulubellula
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bianco ***
Capitolo 2: *** Rosa ***
Capitolo 3: *** Rosso ***
Capitolo 4: *** Verde ***
Capitolo 5: *** Blu ***
Capitolo 6: *** Giallo ***



Capitolo 1
*** Bianco ***


NdA: Le parti in corsivo sono state scritte da 2calzona3, quello in stampatello da lulubellula

Welcome to my mind

Dicono che gli ospedali siano i luoghi più sicuri del mondo, asettici, sterili, efficienti, in continua evoluzione.
Io non ne sono convinto, anzi credo proprio che siano l’esatto contrario dell’emblema della sicurezza, perché qui ho visto accadere cose orribili a persone straordinarie ed ho visto la feccia di questo mondo uscire sulle proprie gambe con solo qualche graffio.
E questa non si può definire sicurezza, ma beffa, scherzo del destino.
Se fossi sano di mente, se avessi un briciolo di buon senso, me ne andrei via, lontano.
Se fossi anche solo un po’ meno codardo o un po’ più ragionevole, sarei già a qualche centinaio di miglia di distanza da questo ‘non luogo’.
E invece sono qui, qui a combattere la mia battaglia quotidiana, fianco a fianco di tutti gli altri, quelli che mi hanno aiutato ad arrivare sino a questo punto, nonostante abbiano perso loro stessi lungo la strada.
E il minimo che io possa fare per sdebitarmi è porgere loro la mia mano e far ricordare, ogni dannatissimo giorno che Dio manda su questa Terra, che quello che sentono non è reale, che quello che vedono non esiste davvero, che la loro mente ha sbarre più solide di ogni altra squallida cella di prigione.
Io non sono che un testimone della loro (stra)ordinaria follia, dell’equilibrio precario tra insanità e normalità, del loro incessante e continuo uccidersi tra false convinzioni e irreali visioni.
Non sono che il custode della loro pazzia.
 
 
Arriviamo ad un punto della nostra vita in cui riponiamo noi stessi nella persona che chiamiamo la nostra anima gemella, qualcuno con cui dividere il peso della vita, si hanno quattro braccia con cui scavare, quattro occhi con cui esaminare, quattro gambe, a volte tre, per camminare oltre.
E se malgrado questo, senti ancora paura?

Arizona non poteva dividere con me le mie ossessioni, non capiva quanta ansia mi comportassero.
Non prendevo in braccio Sofia pensando che l'avrei infettata, perciò quando mi cercava, restavo ferma, a combattere contro il mio istinto materno.
Avevo paura di non poterla più crescere con naturalezza, portarla al collo per farla addormentare o semplicemente aiutarla a rialzarsi quando le sue due gambe non bastavano. Arizona non capiva. 


Mi svegliai con immensa tristezza.
Osservai lo spazio vuoto tra me e Arizona, era importante che non ci toccassimo ma era contemporaneamente una tortura.
Desiderare una persona profondamente e al contempo sperare di non toccarla.
Mentre mi facevo una doccia sentii mia moglie alzarsi, svegliare Sofia e trafficare con le pentole, quello era uno dei momenti più importanti della giornata, costruito per poter condividere del tempo insieme.
Ma Arizona non capiva.
Mi sedetti a tavola con Sofia, intenta a centrarsi la bocca con la forchetta, doveva essere un lavoro difficilissimo.
“Calliope mi passi il latte?” mi sorrise distraendomi, così allungai la mano verso la bottiglia e inorridii.
Come poteva essere così bianca?
Lo versò in tre bicchieri con tre stupide cannucce.
Odiavo quelle cannucce malgrado fossero dei colori più svariati.
Un momento di silenzio riempì la cucina, interrotto solo dal rumore tutt'altro che piacevole di quel liquido bianco aspirato dalle cannucce.
Potevo capire Sofia e i suoi quattro anni, ma Arizona poteva sopravvivere senza cannucce, non si sarebbe sbrodolata sporcando il vestitino per andare all'asilo.
Almeno così credevo.

 
 
 
La cucina brillava di una luce troppo intensa, fastidiosa, accecante e a te questo dava fastidio, ti mandava in bestia, faceva uscire il peggio di te, quel peggio che, a fatica, cercavi di tenere a bada per mantenere una parvenza di normalità.
Quella normalità che non ricordavi nemmeno di avere provato nel corso della tua vita.
La presenza di Arizona ti rassicurava e infastidiva al tempo stesso, vederla lì, seduta su uno sgabello in cucina, ti confortava e ti faceva impazzire e non in senso buono.
Se ne stava seduta, con i piedi appoggiati sul bancone e le pantofole contro il portafrutta, ignara del fatto di essere una portatrice sana di microbi e virus di ogni tipo, che avrebbero raggiunto la tua persona sino a contagiarti ed entrarti nel midollo.
Stava facendo colazione, bevendo qualcosa da una tazza color blu, appena comprata, continuando a giocherellare nervosamente con una cannuccia di plastica, di quelle che utilizzava Sofia per il succo di frutta.
Era fastidioso vederla bere con la cannuccia, incredibilmente frustrante, ti faceva saltare i nervi, non che ci volesse un gran sforzo per mandarti in paranoia, ma la sua presenza, lì, con quegli occhi grandi e azzurri e quell’aria di noncurante sfida, ti tediava.
E come se non bastasse, il liquido che Arizona stava bevendo era del caldo, disgustoso, bianco latte.
Lo stesso liquido che Sofia si ostinava a continuare a sorseggiare durante tutto l’arco della giornata, a colazione, a merenda, dopo il pasto serale.
Era troppo, troppo da sopportare.
Cannuccia, latte, bianco, cannuccia, latte, bianco, piedi sul bancone, cannuccia, latte, bianco, piedi sul bancone, microbi.
“Troppo! Troppo! Troppo!” cominciasti a ripeterti, prima lo pensasti soltanto, poi lo sussurrasti, lo gridasti, la sgridasti.
“E’ solo latte!” ti ripetè con aria di sfida, pulendosi con la manica le labbra.
Bianche, latte, bianco.
“Smettila! Smettila, Arizona! Piantala!”.

 
Non sapevo cosa stesse succedendo, non riuscivo a concepire perché mia moglie giocasse con un mio problema, perché mi schernisse e umiliasse in quel modo.

Odiavo con tutta me stessa il suo modo di fare e al contempo non potevo evitare di starle vicina, una vicinanza che mi uccideva. Doveva smetterla. 

 
Lei ti si avvicinò e ridacchiò, pronta a sferrare un colpo basso.
“Latte, latte, bianco!” gridò quasi, prima di rovesciare il liquido rimasto nella tazza della colazione sul pavimento.
Sofia vi osservò con gli occhi sgranati, sin troppo consapevole della tua imminente e disastrosa reazione, l’ultima di una lunga serie.
Tu osservasti quella macchia di liquido allargarsi vicino ai tuoi piedi contro la tua volontà, come se fossi stata una spettatrice impotente di quella sciagura che è appena avvenuta.
Troppo bianco, troppo, persino per una donna ragionevole come te.
Cominciasti a camminare avanti e indietro per la stanza, apristi  tutte le porte e le finestre, accendesti tutte le luci, apristi i cassetti, le ante degli armadi, la cassapanca con i giocattoli di Sofia, il frigorifero, il forno, la lavastoviglie.
Non riuscisti a respirare, i polmoni erano troppo pieni d’aria, facevano male, le gambe erano molli, fiacche, non ti sorreggevano.
“Idiota! Idiota! Idiota!” le gridasti, ascoltandoti sussurrare quelle parole, perché l’angoscia ti mozzava il fiato, le faceva morire nella tua gola.
“Esagerata!” ti rispose lei, prendendoti in giro, ridendo dei tuoi disturbi, facendoti sentire pazza, spostata, svitata, sbagliata.
“Devo eliminarlo, devo eliminare quella macchia!” pensasti, mentre osservavi l’armadietto del bagno, che conteneva una dose preoccupante di detersivi, disinfettanti, smacchianti.
Tutti bianchi, purtroppo.
“Il bianco si può eliminare solo con il bianco stesso” ripetesti a voce bassa, indossando un paio di guanti sterili, una mascherina, una cuffietta per i capelli.
Tutto perfettamente sterile, a prova di microbo.
 
 
Sembrava dovessi entrare in sala operatoria e la situazione era simile in modo allarmante.
Quella macchia bianca stava per conquistarsi un posto in casa mia, non poteva, non glielo avrei permesso.
Tornai in cucina e fissai con violenza e odio il latte sul pavimento, senza degnare di uno sguardo Arizona.
Riuscivo a sentire i suoi sensi di colpa, doveva averli, dentro lei qualcosa doveva averle detto di aver sbagliato, almeno così speravo. Cominciai ad esaminarla, come se tra me e quel liquido ci fosse una battaglia in atto, come se sia io che lei aspettassimo la prima falsa mossa.
Sparsi più detersivo possibile e cominciai a fregare con due mani, la spugna mi si disintegrò tra le dita, ne presi un'altra.
Altro detersivo, disinfettante, spugna.
Mi si disintegrò ancora tra le mani.
Sentivo un calore impressionante salirmi dalle dita, al polso fino al collo.
Come se stessi perdendo sangue.
Usai circa un litro di disinfettante perché l'attrito che la spugna creava contro il pavimento mi dava una sensazione di calma incredibile, come se tutto il mondo andasse a posto, come se la cosa più importante non fosse il rischio della bomba atomica ma avere eliminato il 99,9% dei batteri.
Non riuscii più a fermarmi.
Osservai l'alone scolorito del pavimento, gli agenti chimici stavano facendo il loro effetto.
Un senso di compiacimento mi pervase. Quello era più importante della bomba atomica.



 
Naturalmente non avresti mai potuto toccare quei detersivi così candidi a mani nude, quei disinfettanti così bianchi da farti girare la testa, così bianchi da sognarteli di notte.
Ma dovevi farlo, non volevi, ma era l’unico modo, l’unica arma che avevi per tenerti alla larga dal bianco.
Rientrasti in cucina e prendesti uno straccio, lo gettasti a terra e strofinasti contro la pozza di latte, senza toccarla con le mani, chinandoti a terra e pulendo il pavimento freddo, tra te e il bianco, i tuoi guanti asettici, i tuoi migliori amici.
Arizona ti osservò con la solita aria di compatimento mista a delusione e amarezza.
Ormai le tue crisi, i tuoi momenti ‘no’ arrivano a superare quelli buoni, quelli spensierati, quelli che le facevano ricordare il motivo per cui valesse la pena continuare a vivere lì con te, a dividere il letto e il cuore, a crescere una figlia.
“Ecco, ho finito. Niente latte, niente bianco, niente microbi”.
Ti osservò prendere lo straccio con i polpastrelli delle dita coperti da guanti sterili, la stoffa stretta tra il pollice e l’indice e il volto il più lontano possibile da tutto quel candore mortale.

 
Non riuscii a fermarmi.
Probabilmente non avevo cognizione di ciò che stavo facendo, appena mi alzai vidi che la parte disinfettata era circondata dallo sporco che probabilmente non era sporco, perché pulivo in continuazione.
Ero esausta, sentivo la compulsione arrivare, conquistarmi e costringermi ad agire.
Mi chinai di nuovo per terra e cominciai a fregare, quantità inimmaginabili di detersivo finirono sul pavimento.

“Smettila. Lo stai rovinando” più mi diceva di smetterla più io dovevo pulirlo.
Cosa importava dell'effetto estetico se poteva essere così pulito?
Ci avrei mangiato sopra.
No, non l'avrei mai fatto.
Ripetei per mille volte l'azione appena compiuta, mi consumai le mani e le articolazioni.
Consumai tutto il mio odio in quel movimento ripetitivo.

 
 
“Callie” ti disse piano, con la bocca, con gli occhi.
“E’ tutto a posto, Arizona, non c’è alcun pericolo” le rispondesti con la voce calma e piatta, che seguiva immancabilmente le tue crisi.
“Ora prendo lo straccio, accendo il camino e lo butto nel fuoco” continuasti a dire in tono monocorde.
“Calliope” ti ripeté, quasi supplicandoti.
“Hai visto l’accendino, Arizona? Non posso lasciare che Sofia venga infettata”.
Arizona continuò ad osservarti nel tentativo di vedere te in quegli occhi vuoti e persi, di aspettare che, come le altre volte, il tuo essere ritornasse ad abitare le tue pupille.
“Trovato – le dicesti soddisfatta – ecco qui, un bel fuoco” affermasti piano, osservando la fiamma che si allargava a macchia d’olio.
Prendesti un pezzo di legno e  lanciasti lo strofinaccio intriso di latte nel camino.
“Ben fatto – ripetesti piano – niente più bianco”.
Guardasti Arizona negli occhi, tornando in te per qualche istante e riportasti i detersivi in bagno.
Chiudesti le porte, le finestre, i cassetti, la cassapanca, il frigorifero, il forno e la lavastoviglie.
Il bianco non c’era più, il bianco se n’era andato, tu l’avevi vinto un’altra volta e il tepore del fuoco ti aveva assistito, di nuovo.

 
Quando riuscii a chiudere ogni finestra, ogni cassetto e ogni porta di ogni cosa mi sentii libera.
Non ero più incatenata da azioni involontarie, non dovevo uccidere batteri per sentirmi meglio.
Finalmente potevo guardare mia moglie e con un solo sguardo, farle capire quanto mi era costato quel gioco.
La stavo spaventando, la stavo allontanando. 

Sembrò aver inteso la mia sofferenza per qualche istante, mi guardò con occhi tristi realizzando quanto aveva compromesso la mia stabilità. Ero sempre sul filo del rasoio e lei era sempre lì, pronta a spingermi.

 
“Andiamo, Sofia! E’ ora che ti porti all’asilo e che io vada in ospedale, piccina” le dicesti porgendole la tua mano perfettamente sterile.
 
 
Il corridoio era lungo, infinito, grigio.
Due medici stavano camminando fianco a fianco, tenendo tra le mani un mucchio di cartelle cliniche, esami diagnostici, referti medici.
Il corridoio era semideserto, vuoto, freddo, delle voci, dei brusii parevano udirsi da lontano, ma, un orecchio poco attento, li avrebbe potuti classificare benissimo come semplici eco, come rumori fantasma, come nulla di importante.
“Hai saputo del nuovo arrivato?”.
“Chi? Lo sconosciuto in coma, senza documenti, senza segni particolari, senza passato?” gli rispose il collega, utilizzando una buona dose d’ironia e di disinteresse.
“Proprio quello. Caso interessante, soprattutto un ottimo spunto di conversazione, non trovi? Non accade mai nulla di intrigante in questo ospedale” concluse, chiudendo alle sue spalle la porta della camera del nuovo paziente.

 
Stanza 2332


Attraversando il corridoio facevo attenzione al numero delle porte, non sapevo in che stanza fosse e di conseguenza davo uno sguardo furtivo ad ogni paziente, probabilmente risultavo inquietante.
Quando individuai la stanza giusta cercai di memorizzarne il numero.
Non feci poi così tanta fatica.
Stava in un silenzio quasi naturale, come se fosse stato lui stesso a sceglierlo.
Aveva scelto bene lui, chi poteva biasimarlo?
Avrei volentieri preso il suo posto.
Mi alzai e lo feci, mi sdraiai in fianco a lui stando attenta a non toccarlo, immedesimandomi completamente.
Potevo escludere il mondo, far finta di essere più morta che viva.
Non avevo responsabilità su quel letto, lì Sofia non piangeva e Arizona non si divertiva a rompere i miei schemi.
Avrei voluto scappare con lui e non provar più nulla, a questo punto non avrei potuto più vedere Sofia dormire, non avrei potuto dare un bacio a mia moglie. Non avrei potuto davvero vivere. Aprii gli occhi, illuminata dal desiderio di un bacio di Arizona, mi alzai velocemente sapendo quanto poteva essere effimera e fugace quella voglia di vivere, poteva volarmi via dalla mente e io avrei potuto passare il resto della mia vita sdraiata lì.

NdA2:

storia scritta a 4 mani da 2calzona3 e Lulubellula
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Capitolo 2
*** Rosa ***


Nda: Le parti in corsivo sono state scritte da 2calzona3, quelle in stampatello da lulubellula

Welcome to my mind

 

CAMION...

Negli ospedali non c’è passato, non c’è futuro, sono un presente, un ‘qui ed ora’ imminente, uno scivolare veloce e incessante di azioni e reazioni che si susseguono seguendo un apparente filo logico. Ed è questo che ci rassicura, che ci permette di non impazzire: sapere che la stragrande maggioranza delle volte, alle medesime azioni, corrisponde una sola e unica reazione, controllabile, curabile, prevedibile.
Una conseguenza che ci coglie preparati, pronti, con la risposta esatta al momento giusto, permettendoci di fare bella figura con i famigliari dei pazienti, la figura di supereroi, di creature fuori dal tempo e dallo spazio, di individui scelti, eletti, onniscienti.
La verità, la pura e semplice verità è che non siamo altro che esseri umani come gli altri, che contano le perdite e collezionano sconfitte, che tra centinaia di vite salvate, non dormono la notte per quelle perse, che fanno un lavoro straordinario e sono a malapena ordinari.
E che quando si ammalano, spesso non se ne rendono nemmeno conto.


Immagina di poterti svegliare una mattina qualunque più vecchia di sei anni.
Immagina di poter vedere il tuo futuro, le foto con il viso dei tuoi figli, con le tue rughe ancora non nate.
Quello è tuo marito, quello è il bambino che ancora non hai partorito e quella è la cucina che ancora non hai costruito.
È davvero il tuo futuro, solo che non te ne accorgi, perché non sai dove ti trovi.
Perché sei nel presente e non te ne accorgi.


 
Eppure non riesci a fare due più due, a renderti conto del modo in cui tu sia riuscita ad arrivare sin lì, in mezzo al nulla, in una casa luminosa e dalle ampie vetrate dalle quali penetra un tiepido e dolce sole primaverile. Di certo non sei potuta giungere sin lì a piedi, innanzitutto perché, ad eccezione di quell’edificio, il luogo circostante sembra abitato al più da volpi e scoiattoli e, inoltre, il fatto che non ricordi il percome e il perché tu sia lì, ti fa pensare che sia stato il troppo bere e il farneticare con uno sconosciuto al bar a portarti in quel luogo, in auto.
A dimostrazione del fatto che l’equilibrio diventa superfluo dopo la quinta tequila, impedendoti di fare più di cinque passi di fila senza inciampare nei tuoi stessi piedi e che, perfino l’idiota di turno, assume le sembianze del principe azzurro.
Non  ti era mai successo di avere un vuoto di memoria così spaventoso, una voragine, un cratere, un limbo di tuoi ricordi che non ti sembra nemmeno di aver vissuto, condiviso, preso la briga di imprimere nella memoria.


Capita a tutti.
Capita a tutti di svegliarsi e non ricordarsi in che camera da letto ci si ritrova.
 A quel punto passi in rassegna tutte le case in cui hai dormito, un po' ti ci diverti e poi capisci che sei nella tua camera, con le tue coperte e il tuo profumo. Quella mattina mi svegliai, pensai ad ogni camera da letto, ad ogni divano o pavimento in cui potevo aver dormito nella mia vita. Non riconobbi nulla.
Probabilmente la sera prima avevo fatto l'amore con la tequila, di nuovo. Magari ero finita ancora a letto con quel Derek, il famigerato strutturato, era già strutturato? di neurochirurgia.
Mi alzai inciampando nelle coperte, superato quell'ostacolo cercai di ritrovare l'equilibrio che avevo perduto la sera prima nell'alcol.
In che razza di casa mi trovavo?
Stanze ampie e una vista mozzafiato che sembrava dare su un dirupo, dritto nella bocca di Seattle. Calpestai qualcosa di duro e gommoso sentendo una fitta lancinante alla pianta del piede, un giocattolo rosa e sorridente si beffava di me, stavo per offendermi.
Doveva esserci una bambina in quella casa, forse due.

 
Inorridisti al pensiero di un lattante o peggio di due, che sembravano abitare in quella casa e sperasti di non essere finita a letto con qualche quarantenne divorziato, o peggio vedovo, con tanto di prole a carico. Ti guardasti attorno alla ricerca dei tuoi abiti, di biancheria sparsa per le lenzuola o sulla testata del letto, ma senza successo.
Il vero colpo fu constatare che indossavi un pigiama di cotone, con tanto di stampa floreale all’altezza del seno e polsini ricamati.
“Non ci si risveglia con un pigiama indosso quando si passa la notte con uno sconosciuto” pensasti.
“Speriamo almeno che non sia della sua defunta moglie o di qualche altra donna da tequila che mi ha preceduto in questo letto” riflettesti poi, alzandoti e inciampando in quelle che dovevano essere le tue pantofole, con l’iniziale ricamata in un colore più scuro, una ‘M’, proprio l’iniziale del tuo nome.
E sperasti con tutta te stessa di non aver diviso il letto con un vedovo nostalgico che rivedesse in te la sua defunta e amatissima moglie.
 
 
 
 Controllai l'ora sentendomi tremendamente in ritardo, non potevo tardare i primi giorni di tirocinio, eppure sembrava ci stessi riuscendo.
 Ritornai nella camera da letto, raccolsi qualche vestito e me lo infilai.
 Buttai un occhio su un post-it incorniciato, chi è così matto da incorniciare un post-it?
Cercai di decifrarne la scrittura, sembrava scritto da un dottore, era completamente incomprensibile ad una prima occhiata.
Sembrava...sembrava il mio nome. Sembrava il nome di quel maledetto neurochirurgo.
Era sposato? Era sposato con una donna con il mio nome? 
Qualcosa mi travolse la mente, come un mezzo ricordo.
Come quando qualcosa ti sfugge per un pelo, sai come si chiama, sai come si pronuncia, sai che forma ha o che gusto ha, ma non riesci a dirlo.
Ero confusa, impaurita e tremendamente paralizzata, non riuscivo a funzionare. 
Feci un passo falso, inciampando nei miei stessi piedi, come se non mi stessi prendendo in giro abbastanza. Vidi come al rallentatore la punta di quel comodino tanto familiare avvicinarsi ai miei occhi, sempre più grande, sempre meno a fuoco fino a quando fu così vicina da colpirmi. 


La caduta fu rovinosa e per quanto annunciata, ti colse impreparata.
Cadesti a terra, stesa sul pavimento, nell’attimo che precedette l’impatto con il pavimento ti apparvero dei flash, dei frammenti incomprensibili e sconnessi tra di loro.
Vedesti dell’acqua, una donna che stava per annegare, poi un cane, il neurochirurgo che baciava una donna dai capelli rossi e incredibilmente bella, un funerale e delle persone che ridevano lontane dalla cerimonia, una bambina africana dolcissima.
Come poteva la tua mente giocarti dei simili tiri, quando non ricordavi nemmeno il più piccolo particolare delle tue ultime ventiquattrore?


Ero confusa. Potete scommetterci se lo ero.
“Meredith, si può sapere cosa hai fatto? Stai bene? Sei svenuta in camera da letto”
Derek mi riempiva di domande, non mi ricordavo neanche come avevo fatto ad arrivare in ospedale.
“Lo spigolo...ho sbattuto...”
“La testa. Lo so, non toccarti” giusto, la testa. Avevo sbattuto la testa. Dove? Avevo sbattuto la testa.
“Sto bene, sto bene! Smettila di farmi domande, capita a tutti” mi guardò, come se stesse vedendo in me qualcosa di grande, invasivo e sconosciuto.

Non c'era bisogno di portarmi in ospedale, capita a tutti di inciampare nelle coperte.
Cercai di alzarmi sfruttando il mio diritto civile di lavorare, ma nessuno me lo permise.
Passai ore a fissare il soffitto, avevamo uno dei soffitti più noiosi di Seattle probabilmente.
Decisi di alzarmi, stavo sprecando il mio tempo.

 
Pian piano il quadro cominciava a farsi più chiaro, ma c’erano ancora alcuni tasselli, tasselli importanti che ti sfuggivano e che rendevano la visione d’insieme confusa, sbiadita, tutt’altro che chiara.
Cominciavi a ricordare di essere sposata e di avere un marito, Derek, il neurochirurgo.
Questo spiegava il perché del pigiama e delle pantofole, anche se non riuscivi ancora a capire il significato del post-it, probabilmente era solo una sciocchezza.
Quello che sapevi per certo era che la testa ti faceva incredibilmente male, ti doleva in più punti e avevi lividi su svariate parti del tuo corpo a cui si aggiungeva un modesta ecchimosi vicino all’occhio sinistro.
Ciò che ti inquietava di più, però, era il fatto che tu non avessi la più pallida idea di come ti fossi fatta male e che ancora non riuscissi a spiegarti in alcun modo i giocattoli sparsi per il pavimento.
Sperasti che fossero di qualche nipotino di Derek, perché altrimenti, le cose per te cominciavano a prendere una piega tutt’altro che rassicurante.
 

“Ehi! Dove credi di andare gambe molli? Ordini del capo, devi stare a riposo” Cristina entrò in stanza e io mi rassegnai sprofondando nel cuscino.
“Sono io il capo, fino a prova contraria. E non chiamarmi gambe molli, prova tu a sentire il corno di un dinosauro di gomma entrarti nel piede, sverresti per principio” ancora uno sguardo intraducibile passò negli occhi di chi mi stava davanti, mi stavo chiedendo cosa avessi mai fatto.
“Non eri inciampata nelle coperte?” 
“Certo, i dinosauri si nascondono lì, di solito. Dove non puoi vederli”. Ovvio, il dinosauro era sotto le coperte, il lenzuolo mi ha bloccato il passo e sono caduta sbattendo la testa. Il suo cercapersone suonò, la invidiai enormemente e passai di nuovo a fissare il soffitto. Doveva essere il soffitto più noioso di Seattle. 

 



Incredibile vedere quanto l’arte di dire bugie durante il liceo, affinata anche nel corso degli anni a venire, ti fosse servita in quell’istante.
Si mente per svariati motivi, per paura, per noia, per la vergogna.
Tu mentivi per riempire un vuoto, una lacuna che la tua mente era del tutto incapace di colmare, perciò facevi ricorso alla menzogna.
Anche se, a dirla tutta, proprio di menzogna non si trattava, preferivi definirla un modo creativo e alternativo per raccontare la verità, la realtà.
Per raccontare tutto quello che la tua mente non riusciva più a far venire a galla.
Per convincerti che le tue belle storie fossero accadute davvero e più era plausibile la situazione che descrivevi, più te ne compiacevi e più gli altri bevevano le tue bugie, più allontanavi da te quel pensiero che oscurava le tue giornate.
Quella consapevolezza di vivere a metà, nonostante tutto e tutti ti convincessero del contrario, che qualcosa non andasse nel modo giusto e tu non te ne accorgessi nemmeno.
Quella stramaledetta sensazione di essere rotta, diversa, al posto giusto nel momento sbagliato.
Di non ricordare nemmeno come ci fossi arrivata.
 


CAPANNA...!


Richard bussò al vetro della porta, portando un' aria sospetta ancora prima di poter appoggiare gli occhi su di me. Cosa diavolo avevano tutti?
“Meredith, non sono il capo e non sono nessuno per darti consigli, ma dovresti prenderti un periodo di riposo, sembri stressata. Comincia a diminuire il lavoro, avere i figli in casa e un lavoro a tempo pieno deve essere dura”
“Effettivamente Zola vale per due. Ma sto bene, quante volte lo dovrò ripetere oggi?”
“Meredith, come sei caduta?” lo sapeva.

Sapeva come ero caduta, al contrario di me. Probabilmente avevo sbattuto la testa troppo forte.
“Spostando il comodino della camera da letto, cercavo di rimettere a posto e un gioco di Zola è finito là dietro, maledetti dinosauri”.
“Hai detto a Cristina di essere inciampata in un dinosauro, ma stava sotto un lenzuolo che ti ha bloccato il passo sul nascere”.
“Certo! Mi ricordo cosa ho detto Richard, non c'è bisogno che tutti me lo ripetiate. Ma cosa avete oggi?”.

Dinosauro, lenzuolo, comodino.
Dovevo semplicemente ricordarmi queste tre parole.
 


E pian piano cominciasti a ricordarti anche di Zola, anzi non te ne eri dimenticata nemmeno per un istante, tentasti di convincerti.
Dopotutto una donna non può dimenticarsi di aver partorito sua figlia, no?
Continuare a parlare della caduta non faceva che rafforzare il tuo malumore, perché al dolore fisico e alla noia, si aggiungeva la paranoia dei tuoi colleghi, troppo impegnati a trovare problemi in ogni dove, persino dove non ve n’era nemmeno l’ombra.
Deformazione professionale.
Sperasti che nessun altro varcasse quella porta perché non eri del tutto certa che saresti riuscita a ricordare la versione esatta dei fatti.
Dovevi riuscire a ripetere, come se fosse stata una stupida poesia a memoria, che “Eri caduta dal letto, inciampando nei cuscini perché la bambola di Zola ti aveva bloccato il passaggio”.
O forse era una macchinina?



“Ehi, hai un bambino in braccio?” Derek entrò con il sorriso, fiero di quel bambino, era molto piccolo, doveva avere si e no qualche settimana.
Non capivo di chi fosse. Perché teneva in braccio un bambino?
“Cosa c'è di strano?”
“Non lo so, forse il fatto che rubi bambini alla nursery?” controllò sotto la coperta del bambino per assicurarsi di non aver sbagliato, subito dopo mi guardo con quello sguardo.

Tutti avevano avuto quello sguardo durante tutto il giorno.
“Tieni, vuole la sua mamma” non mi mossi di un millimetro, forse gli occhi furono la sola cosa a muoversi, spalancandosi.
 Mio marito stava diventando matto. 
“Derek ti senti bene? Ti ricordo che stiamo provando da mesi ad avere un bambino” sorrise in modo allarmante.
“Ma che dici?” mi diede un bacio in fronte lasciandomi tra le braccia quel bimbo sconosciuto. Perché era realmente uno sconosciuto per me.

 Si mise ad accarezzarmi i capelli guardando orgoglioso la scena della famiglia perfetta.
 Dinosauro.
 Mio marito stava impazzendo.
Lenzuolo.
 Quello era il soffitto più noioso di Seattle.
Comodino.
Quello non era il mio bambino. 






“Novità dal paziente X?” domandò una matricola ad un suo collega, dividendo con lui una barretta energetica.
“Nah, niente. Gli  strutturati mi trattano come se fossi un idiota e non mi fanno nemmeno sbirciare, come se potessi uccidere quel paziente senza nemmeno toccarlo. Scommetto che deve essere qualcuno di incredibilmente famoso oppure con una malattia estremamente interessante”.
“Magari un alieno?”.
“Nate. Tra tutte le idiozie che dici ogni santo giorno, questa le batte tutte! Ti sembra forse possibile che un alieno possa persino esistere?”.
La matricola abbassò lo sguardo e rispose: “Mai dire mai, no? E poi era solo una battuta! Tanto per smorzare l’alone di mistero che il paziente X ha attorno a sé. Comunque, sciocchezze o no, c’è sempre un viavai di strutturati in quella stanza e nemmeno un parente o qualcun altro a fargli visita. Secondo me, quel tizio ha qualcosa da nascondere, qualcosa di strano e di raccapricciante e …”.
“Non mi dire che hai intenzione di scoprire cosa”.
“No. Sono un aspirante chirurgo, non un investigatore privato!” disse prima di buttare l’incarto della barretta nel cestino.
 


stanza 2332

Già tanto che mi ricordo come ti chiami, no?
Ti conviene svegliarti prima che mi dimentichi il tuo volto, o la tua voce. Dopotutto non te ne è mai fregato molto di noi, o forse non lo davi a vedere. Siamo così simili.
Un giorno ti sveglierai e ti accorgerai di avere un buco di 5 anni incolmabile, il vuoto totale.
Non che tu abbia vissuto in quei cinque anni, ma io sì.
Io ho vissuto, ho lottato e mi sono arrampicata sui vetri più scivolosi del mondo per arrivare sino a qui.
E dopo tutta questa vita conquistata non mi ricordo di aver avuto un figlio.
Non mi ricordo chi è mio marito.
 Potrei svegliarmi domani e decidere di fare il pompiere.
 O di seguire ostetricia, l'ho fatto una volta vero? Andavo in giro con il camice rosa. 
Svegliati codardo! Stai vivendo nel mondo che io sto cercando di evitare con tutta me stessa. 
Devo andare.

Dicono che ho un figlio a cui badare.
 Dicono che ho un figlio da dimenticare. 


CUCCHIAIO?



NdA2: Eccoci qui con l’aggiornamento del martedì, siamo già alla stesura del quarto capitolo, perciò dovremmo riuscire ad aggiornare questa storia con una certa costanza.
Le recensioni sono benvenute e anche le visite alla nostra pagina facebook, il link della pagina lo trovate alla fine del primo capitolo.
A presto
Lulubellula e 2calzona3

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Capitolo 3
*** Rosso ***


Welcome to my mind

 

NdA: Le parti scritte in corsivo sono di 2calzona3, quelle in stampatello di lulubellula

 
Da piccoli siamo fragili, vulnerabili, esposti ad ogni tipo di pericolo, intemperie, fobia.
Nasciamo senza protezioni, piccoli, nudi, senza peli né piume, artigli, scaglie, scorze che ci proteggano dal mondo esterno.
Nasciamo con un sistema nervoso che ci permette di colmare queste mancanze, queste debolezze di partenza, non abbiamo bisogno di nient’altro, se non della nostra materia grigia.
Eppure non smettiamo mai di sentirci insignificanti, soli, prede, per quanto il progresso ci guidi lungo il percorso evolutivo, noi continuiamo a sentirci dei cuccioli senza armi di difesa, pronti ad essere attaccati dal predatore di turno.
E’ questo che ci differenzia dagli altri esseri, non solo un sistema nervoso che funziona alla perfezione, ma la consapevolezza di essere rimasti piccoli e senza mezzi, sapere che il predatore di turno potrebbe venire da un momento all’altro e sbranarci.
E per quanto cerchiamo di fingere il contrario, questa consapevolezza ci rimane impigliata addosso come il nostro peggior nemico, il nostro migliore amico.
La paura, quell’emozione primaria che non risparmia uomini e bestie, ci attanaglia il respiro, frena le nostre azioni, anticipa le nostre emozioni e ci fa suoi prigionieri, come uomini delle caverne accerchiati da una tigre dai denti a sciabola.
Soli. Indifesi. Spacciati. Senza speranza di sopravvivere.
 
 
 
 
 
Dicono che aiuti a non morire.
Dicono che se perdi i sensi, il tuo aggressore ti considererà un preda inutile. Perché penserà che in te qualcosa sia sbagliato, o che tu non sia più un pericolo.
Dentro di me qualcosa doveva essere realmente sbagliato, ma non capivo chi fosse l'aggressore. 


Sembrava che quel paziente fosse una donna, sembrava avesse i capelli corti e rossi.
Poco importava insomma, il suo viso sarebbe stato coperto. Perché è così che facciamo, copriamo il volto dei nostri pazienti per non considerarli umani, per avere l'impressione di non aver un'anima sotto le mani. Eppure qualcosa di quell'intervento mi spaventava.
Era più o meno alta come lei.
Scossi la testa, ogni mio delirio personale doveva restar personale. Dovevo praticare un semplice intervento all'addome, presi in mano un bisturi e mi immobilizzai. Il paziente si stava muovendo, vidi la brandina muoversi e le persone in parte a me fare lo stesso, non aveva senso.
Un secondo dopo tutto era immobile, il paziente era rimasto sedato tutto il tempo e il mio bisturi era rimasto lì, a mezz'aria e tremante. La mia testa doveva smettere di girare. 
Un'incisione. Dovevo solo praticare un'incisione.


 
 
Il cuore martellava forte nel tuo petto.
Un respiro, due respiri, tre respiri.
Chiudi gli occhi, sei concentrata sul tuo battito cardiaco sino ad eliminare tutti gli altri rumori, il ronzio dei respiratori, le suole delle calzature ortopediche trascinate sul pavimento sterile, i sospiri degli specializzandi che aspettano solo un tuo ordine.
“Dottoressa Kepner”.
“Shhh! Non disturbarmi! Sto respirando!”.
Cerchi di eliminare ogni interferenza tra te e il mondo esterno, di dimenticare quanto la prima incisione sia la peggiore, di dimenticare l’odore delle carni bruciate, sezionate, ricucite, l’odore del sangue nelle tue narici.
Caldo, dolciastro, nauseabondo, rosso, vivo.
Quello che ti separa dalla tua più grande e peggiore fobia è uno strato di epidermide e la lama di un bisturi.
“Perfetto, cominciamo” ordini con la voce tremante.


 
Non sarebbe stato difficile, ma sembrava che il mio cuore si divertisse a pulsare più forte, il sangue mi scorreva nelle dita con così tanta violenza da non permettermi un lavoro pulito.
Presi la mira, come se stessi giocando a freccette. Dovevo risultare ben poco professionale.
 La punta del bisturi trapassò il primo strato di pelle e poi formò una sorta di linea incomprensibilmente storta. Ne avevo fatte mille di incisioni, dritte, pulite e perfette. Eppure mentre il mio braccio si allontanava, mentre la mia testa si piegava all'indietro, mentre i miei occhi rigiravano all'interno feci un'incisione storta.
 


Sei caduta all’indietro come una marionetta dai fili tagliati, un peso morto, una danza greve e disperata si leggeva nei tuoi bulbi oculari che roteavano verso il nulla.
I tuoi capelli rosso fuoco, rosso sangue che si  muovevano leggeri, nell’aria, a descrivere un moto perpetuo e a incorniciare il pallore del tuo viso, del tuo collo, delle tue guance.
Il pavimento così freddo e inospitale a raccoglierti, ad abbracciarti mattonelle asettiche e regolari, a sentire la tua testa crollare a terra.
Il rosso, ancora una volta, a vincere e a macchiarti come un’onta, una paura che ,di nuovo, aveva preso il sopravvento sul filo sottile delle tue sicurezze.
 
 
 
Mi svegliai convinta di tenere un bisturi. Spalancai le mani per assicurarmi di non avere tra le dita quell'arma.
Perché era un'arma nelle mie mani.
Le osservai per qualche secondo, cercando di convincerle a smettere di tremare. Non stavo operando, non c'era sangue, non c'erano tagli.
Cosa mi era successo? Un chirurgo non può reagire così, non può farsi impressionare dal sangue. Sono come un ballerino che ha paura del ritmo. Il sangue era il ritmo del mio ballo, mi sapeva dire quando muovermi, come muovermi. Il sangue è il ritmo di ogni chirurgo. 
Il mio cercapersone suonò e mi alzai con fretta, come se potessi farmi perdonare con il tempismo il mio svenimento.
Corsi fuori dal corridoio in cui mi trovavo, attraversai la postazione degli infermieri e percorsi un nuovo corridoio.
Non capivo perché tutti mi guardassero, ogni medico in quell'ospedale aveva fretta, ogni medico al mondo corre per un'emergenza. Mi toccai la faccia, convinta che qualcosa mi fosse rimasto incrostato, non volevo sapere cosa e non volevo sapere in che modo era finito sul mio viso.
Avevo il terrore di guardarmi le mani, così correvo e correvo. Avevano bisogno di me. Anche io avevo bisogno di me stessa, volevo ritrovare in me la April di un tempo, cominciai a cercarmi. Eppure percorrendo quel corridoio sbagliai a specchiarmi nel vetro delle porte.
Un'immagine fugace, illeggibile mi apparve davanti agli occhi, la mia bocca era ricoperta da una macchia scura, una crosta che si era stabilita lì, come se fosse il suo naturale posto.
Subito mi portai le mani davanti al viso. 
Stavo togliendo sangue. 
Non potevo continuare a svegliarmi per inciampare. Svegliarmi per svenire.

 


 
La verità è che più ci provi e meno ci riesci.
Non sarai un chirurgo, mai, per nulla al mondo.
Senza speranza, senza futuro, tutti i tuoi sogni e gli anni impiegati a studiare e a diventare il medico che avresti voluto essere non erano serviti a nulla.
Tutti quei sogni, quelle aspirazioni, le dita a danzare mentre ricucivi lembi di pelle, erano scivolati a terra in una pozza di sangue.
Sei inciampata in un corridoio cieco, in un vicolo buio e freddo che sapeva di morte, che saprà sempre di morte.
Perché è un odore che non si può semplicemente cancellare, che non va via con un colpo di spugna e un disinfettante a prova di macchia.
No, è una sensazione, uno stato d’animo che ti accompagna, che ti insegue sino ad acciuffarti, anche nei momenti in cui credi di essere al sicuro, in cui il pensiero del sangue è lontano.
E questo perché, piccola e fragile April, una fobia non si può semplicemente rinchiudere in un angolino della propria mente nella speranza che prima o poi scompaia.
Le paure di nutrono di angolini bui e dimenticati, crescono, vegetano, si rafforzano sino a prendere possesso delle persone e quando si fanno sentire è già troppo tardi, significa che l’infezione è già arrivata al cuore, al centro della nostra anima.
E le povere vittime non possono più nulla, se non lasciarsi trascinare a fondo da brandelli di brutti ricordi mai davvero superati.



 
“April! April? Si può sapere che ti è successo? Sanguini?”
“Ti prego Jackson non dire quella parola! Smettila” mi scosse le spalle facendomi rinvenire, non che io volessi.
“Sto bene. È solo che svengo. Io vedo il sangue e svengo! Mi sembra un po' inadeguato per un chirurgo, ma che vuoi che sia? Andrò a dar da mangiare ai miei maiali, loro non sanguinano così spesso. O no. I maiali partoriscono, credo che non potrò far altro che piantare carote per il resto della vita. Magari ogni tanto proverò a suturare un pomodoro, in ricordo dei bei vecchi tempi”
“Cosa c'è che non va? Hai tutto nella vita, di che ti lamenti?” sembrava sminuirmi.
“Sembra che il sangue sia la mia vita. Non posso pensare neanche al fatto di averlo nel corpo, non posso immaginarmi viva per colpa del sangue”
“Scherzi? Guarda me. Sto ricevendo messaggi sexy dal capo, perché confonde gli Avery della sua rubrica. E ricevo le fantastiche risposte altrettanto sexy di mia madre. Io l'ho sempre detto, la tecnologia va lasciata ai giovani” gli diedi una spallata, cosa importava a me di sua madre?!
“Jackson, quando vedi una persona mezza svenuta sul pavimento, non parlare di tua madre. È un consiglio. E adesso spostati” gli mollai un'altra pacca sulla schiena
“E smettila di specchiarti nel vetro!” me ne andai dritta negli spogliatoi pensando seriamente ai pomodori.

 


 
Lo trovavi così irritante a volte, incredibilmente sexy e irritante. Altalenavi il tuo senso di fastidio al perderti nei suoi occhi verdi, il senso di frustrazione al suo sorriso smagliante.
Dannazione! Non riuscivi ad arrabbiarti con lui, non per più di dieci secondi di fila almeno.
Aveva un modo di fare tutto suo, un portamento, un linguaggio così coinvolgente, così sicuro di sé, perennemente al centro dell’attenzione che ti infastidiva e ti attirava a lui al tempo stesso.
Nonostante il fatto che riuscisse a far passare in secondo piano la tua fobia, il tuo disagio interiore, glissando suoi messaggini hot tra sua madre e il Capo, nonostante il fatto che riuscisse a far sembrare le tue peggiori paure un problema da nulla, non eri capace di non dargli retta.
Non riuscivi a non pensarci, a non pensarlo.
E l’idea di voi due insieme a volte era stupenda, magnifica, un sogno, ma altre, ti faceva sembrare allettante la prospettiva di passare il resto dei tuoi giorni a coltivare pomodori e carote, a centinaia di miglia di distanza da lui, da sua madre, dal Capo, dal sangue.
 
 
 
 
 
“Oggi il damerino ha ricevuto visite?” chiese la specializzanda occhialuta alla sua migliore amica.
“Non mi pare. Anche se ho visto la rossa, quella che sviene per i corridoio e chiude gli occhi in sala operatoria, passare di qui”.
“Dici sul serio? Credevo che fosse già corsa a gambe levate a Tulane. E poi saremmo noi l’ultimo anello della catena della chirurgia!”.
“Già. Vuoi una barretta?”.
“Sì, volentieri. Hai saputo qualcosa riguardo a quello lì?”.
“Sembra che i medici lo conoscano. Sembra uno di loro. Eppure c’è qualcosa che mi sfugge: ma cosa?”.
“Sai una cosa? Tu pensi troppo! Probabilmente è solo un paziente qualunque. Niente di misterioso”.
“Allora perché lo chiamano “Paziente X”?”.
 
 
 
Stanza 2332

Non so cosa facessi in quella stanza.
Non so cosa ci stessi facendo io come non avevo idea di cosa ci facessi tu. Era l'ora di smetterla.
Perché io, un chirurgo, avendo davanti la possibilità di dare la vita mi bloccavo? Mentre in quel momento, avendo davanti un uomo più morto che vivo restavo calma? Le stesse identiche quantità di sangue ti scorrevano dentro,io ero la stessa identica persona. Speravo di potermi fidare delle tue vene in quel momento.
Le osservavo pulsare lente, nulla ne sarebbe uscito, nulla mi avrebbe sporcato. Ero quasi contenta che tu non potessi sanguinare e che restassi praticamente morto,inerte, fermo...continua così.
Non svegliarti.
Magari nella tua testa stai vivendo una vita migliore di questa, magari lì i medici non impazziscono e nessuno muore.
Non ti conviene svegliarti.
Tanto non salverai più vite.
Come me.



 
Eccoci giunte al terzo capitolo, come vi sembra?
Cominciate a capirci qualcosa, a seguire il filo conduttore che accumuna i dottori?
Ma soprattutto, cosa ne pensate?
Scrivetelo qui sotto
Lulubellula e 2calzona3

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Capitolo 4
*** Verde ***


Welcome to my mind
 

Le parti in corsivo sono state scritte da 2calzona3, quelle in stampatello da lulubellula.
Buona lettura!


 

La vita vera non è poi così diversa da un campo di battaglia.
Ci sono amici, nemici, alleati, strategie da portare avanti, una missione e qualcuno o qualcosa da proteggere a tutti i costi, persone che staranno al tuo fianco e lotteranno per la vita, persone che la perderanno al primo istante, esseri umani mutilati nel corpo e nell’anima che non saranno più quelli di prima.
Ci sono vincitori e vinti, prigionieri di guerra e soldati arricchiti, vedove, orfani, profughi, senzatetto, bambini che non diventeranno mai grandi, bambini che non avranno infanzia e diventeranno adulti senza nemmeno aver goduto della loro fanciullezza.
Saranno tutti sullo stesso disastroso piano a dividersi un brandello di vittoria, a saltare sul carro dei vincenti al momento giusto, perché nella vita, nel gioco e in guerra, non contano le carte che hai in mano, conta solo come te le giochi.
 
 
La battaglia, questo mi lasciavo alle spalle.
Questo credevo.
In effetti ero lontana dalla guerra in Iraq, lontanissima.
Questo però non mi impediva di affrontare un conflitto tutto nuovo dentro di me, qualcosa che mi procurasse sensazioni contrastanti: dovrei scappare ma voglio restare. Questo è il pensiero che occupa la mente di un chirurgo d'urgenza sul campo, questo è il pensiero di una qualsiasi banalissima persona innamorata.
Dovrei scappare ma voglio restare. Perché non c'è nulla di banale nel pensarlo, perché stai sacrificando te stessa per qualcun altro. 

Ero sdraiata su quel letto da quattro settimane, da quattro settimane giravo la testa verso lui, da quattro settimane sorridevo al suo sorriso.
Sembravamo entrambi la metafora di noi stessi: lui un malato di cuore, perché amava e lo faceva fino a rompersi. Io una reduce di guerra, perché amavo, combattevo e non riuscivo ad andarmene.

Eravamo due persone con il cuore malato, non metaforicamente, stavamo davvero male.
Forse questo aspetto fisico ci ha uniti, forse il fatto che i nostri due cuori non potessero funzionare da soli li ha portati a spingersi l'uno verso l'altro. Insieme funzionavano come un unico, perfetto, cuore.



 
Quanto può essere difficile dire “Ti amo” a qualcuno?
Quanto ti costa? Perché lo guardi e gli sorridi?
Perché parli con lui? Perché ridi?
Non puoi essere così codarda, un medico in prima linea, una donna dell’esercito che si spaventa di fronte al più semplice, puro, immediato dei sentimenti, l’amore.
Perché non gliene parli? Perché non gli dici tutto quanto?
Non gli dici di quanto i suoi occhi brillino, nonostante il pallore del suo volto malato, non gli dici che la sua risata rende il cibo della mensa dell’ospedale un po’ meno disgustoso.
Perché non gli dici che ti fa male il solo pensiero di allontanarti da lui, che ti fa morire l’idea che la sua malattia o la tua possano separarvi per sempre?
Sono solo tre parole: “Ti amo Henry”, sono tre dannatissime parole che ti separano dallo svelare le tue carte sino all’ultima, dallo scoprire se hai la vittoria in pugno oppure hai perso tutto.
Non gliele dirai, vero, Teddy?
Preferisci che non sappia piuttosto che perderlo del tutto.
Eppure in qualche modo lui si sta allontanando da te, anche se non vuole, anche se non vuoi.
Il suo cuore batte troppo forte e questa volta non a causa del tuoi occhi troppo belli e troppo stanchi.

 
Ma da soli i nostri cuori non riuscivano a sopravvivere. Era seduto sul mio letto, come un qualsiasi amico, come un qualsiasi amante che non sa di esserlo.
Avrei voluto dirglielo, avrei dovuto farlo.
È diritto di una persona poter dire “ti amo”, in qualsiasi momento, in qualsiasi dove, non importa se stravolgerai delle vite nel farlo. Quel “ti amo” non detto, sono le parole che avevo sulle labbra mentre Henry diventava tachicardico in parte a me, proprio vicino alla mia spalla.
Sentivo il suo petto muoversi irregolarmente, i suoi polmoni respirare il vuoto dell'aria, il suo cuore pulsare troppo veloce sotto la sua pelle, lo sentivo. Sono nata per sentirlo, ho studiato per sentirlo. Non era il battito dell'amore. Era un dannato infarto del miocardio.

Me ne accorsi prima di lui, me ne accorsi praticamente prima del suo cuore.
Chiamai subito aiuto, sentendo che il mio cuore stava percorrendo esattamente la sua stessa strada, pulsava sangue con una velocità inaudita, era il suo dovere. Solo in quel momento mi accorsi di come funziona, avevo visto quell'organo da ogni angolazione: dall'esterno, dall'interno, nella mia mente, nei libri e nelle mie mani.
Mai l'avevo potuto sentire dentro di me in quel modo, non era il cuore di una persona malata.
Era il cuore di una persona innamorata che era a conoscenza della triste sorte del proprio amore. Sarebbe morto con lui il mio amore, non l'avrebbe mai saputo? Perché sono stata vigliacca.
Perse conoscenza ancora prima che io finissi di urlare aiuto, e mi arrabbiai.
Non mi aveva aspettato.

 
 
Dicono che quando sei vicino alla fine te lo senti, un presentimento, un campanello d’allarme, uno straccio di qualunque cosa che ti faccia capire che la tua vita è giunta agli sgoccioli.
Prima che lui si sentisse male, tu non hai provato nulla, né hai avuto sensazioni particolari, lo stavi semplicemente guardando con occhi innamorati e parlando con lui.
Andava tutto bene prima che cominciasse ad andare letteralmente a rotoli.
Hai chiamato aiuto, hai cercato medici, infermiere, azionato l’allarme, ti sei persino alzata dal letto, nonostante il tuo stato di salute precario e le tue forze che divenivano sempre più deboli.
Un proiettile ti aveva lacerato un lembo dell’atrio destro, un innesto magistralmente eseguito te lo aveva riparato, vedere l’amore della tua vita spegnersi davanti ai tuoi occhi ti aveva consumata, i battiti ad aumentare, le pulsazioni ad impazzire, l’innesto a cedere.
Vedere lui che ti osservava implorante, guardandoti negli occhi, tendendoti le braccia, cercando di dirti qualcosa (ma cosa?), ti avrebbe uccisa, avrebbe ucciso chiunque.
Sapevi che cosa gli stava accadendo, sapevi persino quello che stava accadendo a te, il cuore non aveva segreti, il cuore era il tuo territorio, il tuo porto franco, eppure, per beffa del destino, te ne stavi andando per causa sua.
Il cuore umano pompa oltre settemila litri di sangue al giorno, batte centomila volte in ventiquattrore, in quell’istante preciso, il tuo ha mancato un battito, il sangue ha cominciato a defluire dall’innesto e tu hai ceduto all’inevitabile, accasciandoti accanto al suo letto, le vostre mani a sfiorarsi in una stretta fatale.
 
Mi sembrava di avere ancora il cuore aperto, mi sembrava di non sentir più i battiti, il mio torace non si stava dilatando e nessuno soffio d'aria mi gonfiava i polmoni. Non ero morta. Stavo trattenendo il respiro perché non avevo necessità di respirare. Che bisogno c'era di farlo se Lui mi teneva la mano? Che bisogno c'era di compiere un atto primordiale e istintivo quando lui fermava il tempo? Mi faceva vivere con uno sguardo e a sua volta mi viveva. 
Questa è una favola, è la mia favola con il mio lieto fine.
Come in tutte le storie che si rispettino mi ritrovai sdraiata sul letto, una fasciatura a costringermi il petto e l'uomo della mia vita a stringermi la mano.
Mi aveva aspettata, così che io potessi dirglielo. Era sopravvissuto all'intervento solo per far vivere me, perché dovevo dirglielo. 
“Non farlo mai più Henry capito? Non devi farlo. Mai più”
“Riposa, dormi. Potremo dirci tutte le parole del mondo domattina”
Sapeva che volevo dirgli tutte le parole del mondo, sapevo che lui voleva fare altrettanto.
Perché ci amavamo e non l'abbiamo capito in modo banale, con quelle famose parole, l'abbiamo capito facendoci scoppiare il cuore l'uno per l'altra.
E risvegliandoci, l'uno per l'altra.

 
 
E’ buffo. Passi la vita ad inseguire un sogno, un milione di sogni, a rincorrerli come un bambino insegue farfalle con un retino e poi arriva il momento in cui ti fermi.
Ti blocchi, resti spiazzata, inerte, inerme, sola.
Allora ti guardi indietro e vedi tutti gli anni passati a studiare, a mangiare la polvere per restare allo stesso passo degli altri, a sacrificare attimi di vita preziosi in nome di qualcosa.
Che cosa poi?
Niente.
Perché se ti guardi indietro non riesci a vedere nulla, le tue piccole e grandi vittorie quotidiane, le partite a pallone con Owen e gli altri ragazzi, gli interventi a cuore aperto, il fresso, il caldo, la sete, il sonno.
Non ti è rimasto niente di buono.
Solo un cuore martoriato dalla guerra.
Un cuore che ha cominciato a battere troppo tardi, che ha cominciato a vivere un secondo prima di morire, che ti ha fatto capire che i giorni che ti restavano non sarebbero bastati, perché la felicità non basta mai, non sazia mai.
E’ come un paiolo con la base bucherellata, l’acqua che entra esce senza lasciare il tempo di goderne, così è la felicità umana, un breve sorso che non disseta mai abbastanza, che lascia gli individui con la gola secca, assetati, infelici, mai sazi.
Il rumore attorno a te è troppo forte, intenso, assordante, senti un gran vociare, urla, pianto o forse è tutto nella tua testa, forse nulla è reale, forse nemmeno tu lo sei.
 
 
 
“Yang, dichiarala!”.
“Ora del decesso, 15 e 25”.
“Un’intervento inutile” disse la donna, uscendo e lavandosi le mani.
“Era un caso senza speranza, praticamente già morto, prima di entrare in sala operatoria”.
“Povera Teddy” le disse Meredith.
“Lei come sta?” chiese la Yang.
“E’ viva”.
“Per fortuna”.
“E’ in coma”.
Cristina osservò il pavimento con espressione sconvolta.
“Owen come l’ha presa?”.
“Piuttosto male, dal momento che per espressa volontà di Teddy, se non si risveglierà o non darà segni di miglioramento, lui le dovrà staccare la spina.
“Davvero una brutta giornata”.
“Oserei dire pessima”.
 
 
 
“Il paziente X è la superstar dell’ospedale! Oggi in mensa non si parlava di altro. Del paziente X e della nuova fiamma di Sloan”.
“Quella Lexie?” chiese la specializzanda mora, passando un pacchetto di patatine al collega.
“Proprio lei”.
“Ma non aveva una cotta per George?”.
“Le sarà passata presumo. Comunque sembra che il paziente misterioso abbia fatto la speializzazione qui, in questo ospedale”.
“Accidenti, pensavo che venisse da fuori”.
“No, è uno di noi o almeno lo era”.
 
 
 
“Ehi!! Ma quello non è Andy? L'uomo che rifornisce le macchinette delle...”
“Merendine?” lo specializzando si girò nella direzione che gli era stata indicata
“Che corre....”
“Nudo?” si guardarono con la stessa faccia allibita e cominciarono a rincorrere l'uomo, sperando di poterlo fermare prima che facesse del male a qualcuno.

 Non c'era verso, Andy correva per i corridoi portandosi all'orecchio una merendina, probabilmente alla crema di nocciola, e urlando:“Mamma, ho detto che adesso non posso parlare! Ti chiamo dopo” e a quanto pareva, era così arrabbiato da buttare giù la cornetta a sua madre.

Stanza 2332

Guardati, sei praticamente solo. Il bello è che da mezzo morto non puoi farti odiare, perciò sembra che le persone come me possano stare nella tua stessa stanza senza volerti tirare un bisturi nella carotide, con casualità.
Chissà cosa sogni. Chissà se sai di essere in coma, chissà come ci si sente ad essere in coma. Non sai se sei morto, non sai se sei vivo. Non puoi chiederlo a nessuno, ti manca la parola. Il tuo cervello non risponde. Non riesci nemmeno a fare domande, magari ti piace la situazione in cui ti trovi, magari non vuoi far domande perché ti va bene così. È giusto che ti svegli, non abbiamo sbagliato nulla con te, ognuno di noi ti ha operato come meglio poteva. Eppure c'era qualcosa di irrisolto, è come se mi facesse male il cuore. 



 
 
  

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Capitolo 5
*** Blu ***


Welcome to my mind
 

NdA: Le parti in corsivo sono state scritte da 2calzona3, quello in stampatello da lulubellula


Ci sono un’infinita di paure a questo mondo, si può aver timore del buio, della morte, dei ladri.
Puoi aver paura di annegare non appena vedi una pozza d’acqua di modeste dimensioni, puoi credere di morire quando ti trovi nel centro di una piazza e vedi fiumi e fiumi di individui che camminano verso destinazioni diverse, fiumi che sembrano investirti, annientarti, annullarti.
Le paure colgono le persone senza fare troppe distinzioni: alti, magre, biondi, more, laureati, medici, giardinieri, avvocati, nessuno si salva, nessuno è al sicuro.
Come ci si può mettere al riparo allora? Come si riesce a scampare dal pericolo di venire infettati?
Non ci sono cure, né formule, nessun incantesimo, nessuna fattura.
Non siamo immuni dalle nostre paure, non ci sono vaccini, non c’è via di scampo.
Dobbiamo semplicemente convivere con questo tarlo incessante e infinito, con la paura di aver paura, con il timore di non riuscire, di finire nelle nostre stesse trappole.
La mente è un labirinto e gli uomini semplici ancelle dispersi per la vie sconfinate e confuse, alla perenne ricerca del bandolo della matassa con il quale si sono illusi di poter salvare loro stessi, con la quale si sono illusi di ritrovare la strada di casa.
Ed è troppo tardi, troppo per poter tornare indietro, potrete solo andare avanti, lasciandovi consumare ad ogni passo.
La paura vi uccide, vi ferma, vi annulla, trasforma cefalee in tumori, palpitazioni occasionali in temibili e fatali attacchi cardiaci, semplici e curabili infezioni in arti da amputare.
E giunti a questo punto, non c’è più nulla di sano da conservare, ma tanto di infetto da eliminare.

 
 
 
Sentire il respiro calmo della persona che amo, in parte a me.
Sentire Owen tranquillo, tiepido, sdraiato dietro di me. Sarebbe stata una gioia incommensurabile, se solo fosse stato un respiro calmo, se solo lui fosse stato tranquillo. Owen era come agitato, il suo torace si dilatava e si rilassava con troppa velocità per una persona dormiente, probabilmente aveva la febbre.
 Presi una sua mano tra le mie, un po' riluttante ad avvicinarmi ai suoi batteri.
Era caldo, era un nido infinito di batteri.
Secondo i miei calcoli, nel giro di tre giorni d'incubazione mi sarei ammalata anche io. Cominciai a toccarmi i linfonodi del collo che scoprii essere sicuramente infiammati, mi sarei ammalata eccome.
Ma non sarebbe stata una banale influenza perché le mie difese immunitarie avrebbero perso contro il virus, questo sarebbe andato avanti ad attaccare il mio corpo, mi avrebbe infettato.
 I polmoni, mi facevano male i polmoni. Chi nella vita non ha mai sentito male ai polmoni? Bronchite, polmonite, pleurite, bronchiolite, enfisema polmonare.
Sarebbe stato carino se i miei polmoni avessero smesso di sfregare contro le costole, forse avrei dovuto smettere di respirare per impedire quell'attrito.
Non capivo se stavo per morire o se ciò che pensavo diventava realtà. 
Stavo per morire sicuramente. 
Ed era la realtà
.

 
 
 
“L’hai rifatto! Dannazione, Cristina, l’hai rifatto di nuovo!”.
Si sedette sul letto, guardò nella tua direzione e saresti voluta scomparire.
Beccata, scoperta, tradita dalla sua stessa paura, di nuovo vulnerabile, esposta ai microbi, agli urti, alla sua voce che sembrava massacrare le tue fragili orecchie.
“Non capisco di cosa tu stia parlando, forse sei stanco, spossato, lievemente esaurito, sarebbe meglio che ritornassi a dormire, Owen, sarebbe meglio che allontanassi le tue labbra dal mio volto” gli dicesti quasi sussurrando, mentre le tue ultime parole ti morirono sulla bocca, rimasero lì sospese, dove tutti i sogni e le frasi a metà vanno a scomparire, in quell’angolino tra il non detto e il pensato.
“Mi stavi spiando, stavi osservandomi dormire, respirare, vegetare. Dovresti farti vedere da un medico, dovresti parlarne con qualcuno” sbottò il tuo quasi fidanzato, quell’uomo a metà tra il futuro marito perfetto e l’amante che avevi sempre cercato.
“Sono un medico io stessa, non ho bisogno di vederne altri, sto benissimo, è tutto ok, tutto perfettamente sotto controllo” affermasti con sempre meno convinzione.
“Credi forse che osservare il tuo uomo dormire in modo ossessivo si avvicini almeno un pochino ala comportamento di una persona normale?” ti urlò contro, senza mezzi e misure.
“Intendi forse dire che un uomo stabile e equilibrato tenterebbe di strangolare la sua fidanzata durante il sonno?”.
Lo osservasti increspare le labbra, chiudere i pugni e girarsi dall’altra parte del letto.
Avevi vinto tu questa battaglia, ma la guerra era solo agli inizi.
 
 


 
Aveva urlato troppo forte, sentii i miei timpani tremare, una vibrazione e una pulsazione negativa.
Cercai di riaddormentarmi, cominciai però a concentrarmi sul malsano battito cardiaco nel mio timpano, questo rimbalzava su ogni parete del mio corpo e si amplificava, stavo ascoltando l'eco dell'eco dell'eco del mio cuore.
Pensai seriamente ad alzarmi e controllarmi le orecchie, potevo aver subito un trauma al timpano, di quelli che ti abbassano l'udito.
Almeno non l'avrei più sentito sputarmi addosso quelle verità. Non lo stavo fissando, stavo solo cercando di capire quanto fosse ammalato.
Ero troppo vicina a lui, al suo battito cardiaco accelerato, tanto che le sue palpitazioni si univano alle mie, confondevano ogni mia conoscenza sul cuore.
Mi allontanai dal suo corpo, cosa che risultava inutile, ormai l'infezione stava conquistando il suo posto. Le mie orecchie ora erano più fragili.
Bronchite, polmonite, pleurite, bronchiolite, enfisema polmonare.
Cercai di non badare al suo sonno disturbato ma tutto il suo corpo me lo impediva.

Si muoveva, come se non stesse dormendo.
Insonnia, sicuramente un sintomo di malanno.
Probabilmente il suo sonno disturbato non era altro che quello.
O forse si sarebbe girato verso di me, apposta per farmi del male.
Si girò e non mi diede un bacio, non mi fece una carezza e non mi urlò contro, avrei preferito che l'avesse fatto.



 
Il tuo problema maggiore era ostinarti a credere e far credere agli altri che, fondamentalmente, tu non avevi alcun problema.
All’inizio era stato piuttosto semplice, era bastato nasconderti sotto una maschera di apparente forza e freddezza, una maschera che ti calzava a pennello, al punto tale da guadagnarti l’appellativo di “Robot”.
Ma l’animo umano non resiste alle forzature e prima o poi qualcuno o qualcosa avrebbe spezzato la tua perfetta messinscena, la tua performance recitativa da Premio Oscar.
Sarebbe bastato poco, un raffreddore, un’amica troppo presente, un uomo perdutamente innamorato di te.
Owen e Meredith erano riusciti a toglierti la maschera, lentamente e senza darti modo di accorgertene, perseverando nel loro intento, in un modo tanto subdolo e delicato al tempo stesso, che, tolto quel velo di bugie che in fondo non ti apparteneva, si sei sentita nuda e vulnerabile, ma in un certo senso finalmente libera di essere te stessa, di vivere e di convivere con il tuo mostro di paura e fragilità.
Eppure, voltata di spalle, in un misero lembo del letto, accanto a lui, a quell’uomo complicato e spezzato come te, non potevi fare a meno di sentirti sola.
Sola e completa per la prima volta.
Che senso ha bastare a se stessi, se non si ha essere umano alcuno con cui condividere questo stato di grazia?
 




Forse non avrei dovuto preoccuparmi nemmeno per un secondo dei miei polmoni o delle mie orecchie. Forse il problema non era lì, tutto consisteva nel riconoscere il problema del mio cuore.
Questo fantastico organo che solo organo non è.
Scossi la testa per convincermi del contrario, il mio cuore pulsava e pompava perché era costituito da cellule, e i sentimenti non hanno mai avuto cellule.
Scivolai giù dalla brandina senza che il mio cercapersone avesse suonato, volevo allontanarmi da Owen, come se lui rappresentasse la malattia che si infiltra nelle cellule di un organo, e lo era.
Appena varcata la soglia verso il corridoio incontrai Meredith, sembrava confusa e sembrava tenere in mano un sacco di patate.
“”Questo è mio figlio” sembrava quasi stupita.
“Lo so. Anche se tenerlo a testa in giù non l'aiuterà” feci per aggiustare la posizione del bambino, avvicinai le mani a quelle gambette pure, a quella pelle così candida senza sudore, senza ormoni e senza sporco.

Mi bloccai.
Parotite, pertosse, mononucleosi. 
“Cristina! Questo non è mio figlio, prendilo!” malgrado avessi voluto con tutta me stessa far cadere quel bambino, lo presi tra le braccia osservando Meredith impazzire e svanire di fronte a me.

Non ebbi rivelazioni sulla maternità, non sentii smuovermi dentro neanche un po'. Il bambino cominciò a piangere e tutte le donne presenti nel reparto si girarono verso di lui, come se questo istinto materno le facesse correre ovunque ci siano della bava e dei pannolini.
Io no, io spalancai gli occhi cercando in ogni modo di non toccarlo con la pelle, mi girai frettolosamente e andai a sbattere contro un uomo.
“Ehi! Questo è mio figlio!” Andy non era nudo, stava avendo un'illuminazione di paternità sul bambino e io volevo fuggire, perfetto. 
“Perché tutti ripetete questa frase?!” gli dissi, quasi tirandogli addosso quel povero bambino.
“E’ il frutto dell'amore tra me e lei” indicò la macchinetta delle merendine e per qualche momento mi vennero in mente immagini orribili di Andy e quella macchinetta, non avrei più mangiato patatine.
“Non credo che tu...sia suo padre. Forse dovrei chiamare AIUTO” urlai l'ultima parola e neanche una delle dannate infermiere che prima si erano girate mi degnò di uno sguardo.
“Chiedilo a lui, il distributore di bibite ha visto tutto, io sono suo padre! La macchinetta delle merendine è sua madre!”.




 
 
I soliti specializzandi annoiati stavano camminando per i corridoi, discutendo del paziente X, come erano soliti fare negli ultimi tempi.
Non avevano un granché di cui spettegolare, novità allettanti non ce n’erano, nuovi indizi nemmeno.
Erano solo riusciti a scoprire che il paziente misterioso aveva avuto una “crisi” nella notte, ma la natura del malessere era sconosciuta alle loro orecchie.
Poteva trattarsi di una crisi nervosa, cardiaca, epilettica, di una crisi ipoglicemica, ma a loro non era dato sapere e questo non faceva che incuriosirli ancora di più.
“Hai sentito cosa ha combinato Andy?” chiese la donna, rubando un biscotto al doppio cioccolato al collega.
“Andy, chi?” ribatté lui, curioso.
“L’uomo che rifornisce i distributori automatici”.
“Ah, l’uomo altresì conosciuto come:’Cookie, telefono casa?’. E’ folle, totalmente folle”.
“Già. Pensa che stamattina ha strappato il figlio della Grey dalle braccia della Yang e l’ha preso tra le sue, tenendolo a testa in giù e gridando a squarciagola che Bailey è suo figlio, figlio suo e del distributore automatico”.
Lo specializzando osservò la confezione di dolcetti che teneva in mano con disgusto.
“Credo che mi sia passata la fame”.
“Anche a me, puoi giurarci”.
“Perché non lo licenziano? E’ uno squilibrato!”.
“Si vocifera che sia “amico” di qualcuno dei piani alti”.
“E di chi?”.
“Io che ne so? Se lo sapessi, sarei milionaria a quest’ora. Venti milioni di dollari per il mio silenzio”.
“Sei venale, lo sai?”.
“Sì, ne sono perfettamente consapevole”.



 
 
Stanza 2332

Sei sempre stato un tizio sudaticcio, di quelli con l'alito pesante e i pori ostruiti dai rimasugli di tequila della sera prima.

Sei sempre stato il più sporco.
Sei andato a vivere in una roulotte, hai dormito su ogni piastrella di questi pavimenti eppure...non ti sei mai ammalato.
Certo non eri invincibile. Infatti ora sei sdraiato su un letto e stai sognando un mondo più insano del nostro, il lato positivo è che sei pulito.
Si, le infermiere ti lavano, ti spogliano e ti muovono come una bambolina.
Ti sfotterò a vita per questo.
Ma sappiamo che non ti risveglierai tanto facilmente.
Bé, ti sfotterò a vita lo stesso, per questo.

 
     N.d.A.

grazie a tutti, se avete fatto la fatica di arrivare fino in fondo lasciateci un parere!
e se avete idee su come far impazzire Andy la mascotte, siamo tutte orecchie!
Lulubellula e 2calzona3
 

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Capitolo 6
*** Giallo ***


Welcome to my mind
Giallo

 

Le parti in corsivo sono di 2calzona3, quelle in stampatello di lulubellula
 

Sin da bambini, i nostri genitori ci impartiscono regole, modi di comportamento e d’azione, moniti, consigli, massime e pensieri che ci accompagneranno lungo tutto l’arco della nostra vita e che, in una maniera o nell’altra, ci condizioneranno per sempre.
Ci guideranno e indirizzeranno verso la strada che riterranno più giusta per noi, ci influenzeranno e bloccheranno, mettendoci paura o dandoci coraggio.
Le regole, i comandamenti, i moniti.
Non uccidere.
Non desiderare l’uomo o la donna d’altri.
Non rubare.
Poche parole che racchiudono la differenza tra il bene e il male.
Mangiare la mela o no.
Conoscere la differenza tra il bene e il male oppure ignorarla.
Mela o male?
E se il male fosse racchiuso in una mela?
E se la persona più dolce e insospettabile del mondo, fosse in realtà ben diversa da ciò che sembra?




 
Misi a posto gli ultimi guadagni della giornata e guardai il mio Tesoro, ne andavo orgogliosissima. 
Il barattolo della mia prima appendicectomia, un gigante fallimento. La molletta per capelli di Sofia, si, avevo rubato ad una bambina, mi ricordava quanto dovessi dividere Mark con altre 3 donne.
Un quadro dell'ospedale, ritraeva una finestra, almeno mi dava l'impressione che quello sgabuzzino non fosse uno sgabuzzino, almeno mi faceva sentire meno morbosa.
Mille oggetti: siringhe, bisturi, guanti, dilatatori, padelle per la notte, cateteri....che schifo i cateteri.
Perché li ho rubati?
Oggetti lasciati dai pazienti negli armadietti: foto ricordo di ricordi che non ricordavo, e grazie al cielo, oggetti da bagno e cioccolato, tantissimo cioccolato.
Sembrava il primo regalo che ogni paziente riceveva durante le visite.
Uscii dal mio sgabuzzino, sentendomi ancora un po' sporca, rubare cose e accatastarle lì dentro non era da persone normali, ma ne sentivo il bisogno.
Lì erano presenti le mie memorie insieme a quelle di mille persone, riuscivo a dare sollievo al mio cervello, quel posto era come una “memoria esterna”, funzionava come magazzino.
 
 
Quello sgabuzzino era il tuo “nido”, lo stavi costruendo ramoscello dopo ramoscello, oggetto dopo oggetto.
Mancavano ancora piccoli dettagli per completarlo, una cucina a gas, doveva pur essercene qualcuna di troppo nelle cucine, così come pentolame e stoviglie, per i letti non ci sarebbe stato alcun problema, ti trovavi pur sempre in un ospedale no?
In ogni dove si celavano oggetti che ti facevano gola, utili ed inutili, non importava, ti interessava solo prenderli per il gusto di farlo, come quando mangi un gelato anche se non hai fame, solo per toglierti uno sfizio.
Rubare per te era come mangiare dolci fuori pasto, ti soddisfaceva inizialmente, per poi inevitabilmente lasciarti con un senso di nausea qualche minuto dopo, nausea che se ne andava via al prossimo oggetto sul quale mettevi il tuo sguardo.
Eppure, nonostante i tuoi innumerevoli sforzi, mancava sempre qualcosa a completare il tuo nido.
Forse un vaso di colore blu.
Oppure una cappelliera antica trafugata in discarica.
Anche una piscina gonfiabile per bambini non sarebbe stata male.
Piscina.
Gonfiabile.
Bambini.
Oddio, ecco che cosa ti mancava.
 
 
 


Sentii bussare alla porta del mio sgabuzzino. Avrei voluto rubare il suono di quel tonfo e metterlo in un barattolo per non doverlo riascoltare.
“Lexie?” Mark entrò, in silenzio si guardò in giro, non disse niente per dei minuti, gli avevo appena rubato la parola.
“Ti posso spiegare tutto” si fermò davanti ad uno specchietto.
“Questo è...questo è lo specchio del mio bagno?”
“Sì, quello che usi per rifarti le tue stupide sopracciglia, quello che tenevi in parte al dopobarba e alla crema antirughe, molto virile Mark”
“Quello è il mio spazzolino da denti! E quello è...un giocattolo di Sofia? Cosa ci fai con un giocattolo di Sofia? E cosa ci fai con quelle posate, con quei barattoli, con quelle...cosa sono? Foto di sconosciuti?” mi guardò come se fosse invidioso del mio Tesoro, sicuramente avrebbe voluto rubarmelo. Finendo per trafugare di nuovo le cose che avevo rubato. 
“Lexie, perché metà della roba che hai qui dentro è MIA?”
“Volevo qualcosa di tuo Mark”.

 



Ti stava guardando come se tu fossi stata pazza, malata, una squilibrata.
Non riuscivi a capire se a lui desse più fastidio il fatto che tu avessi rubato una montagna di oggetti sparsi ovunque tra casa sua e l’ospedale o il fatto che gli avessi sottratto il suo amato specchio.
Trascorreva ore intere in bagno, a specchiarsi e a farsi bello, riusciva a battere la media nazionale di minuti passati ad ammirare la sua immagine riflessa.
E la media nazionale si riferiva a delle adolescenti alla prima cotta, alle prese con trucco e parrucco.
Deprimente.
Nauseante.
Da narcisisti.
Ma così seducente, in fondo.
Non poteva passare metà del tempo arrabbiandosi con te e l’altra metà a sistemarsi i capelli e a controllare la sua dentatura perfetta.
Avreste dovuto avere un figlio.
Un figlio vostro.
Avresti rubato milioni di piscine per lui.
E vagonate di orsacchiotti.
Avresti persino rubato un bambino, se solo si fosse rivelato necessario.





Avrei voluto rubargli tutti e 32 i denti e portarmeli sul comodino in parte al letto, sarebbe stato come addormentarsi con il suo sorriso. No?
Avrei voluto prendergli gli occhi e metterli sulla mensolina del bagno, mi avrebbe guardato in continuazione e io avrei dato spettacolo, perché ci sapevo fare.
Poi le mani, Mark aveva delle bellissime mani. Uscì dalla stanza con un’espressione delusa e arrabbiata in viso, quella no, non la volevo, non l’avrei mai rubata per tenerla con me. Sentivo che mancava qualcosa, non poteva assolutamente andarsene così, senza lasciarmi una parola per chiarirci, un bacio per appacificarci, un pezzo di lui.

Ma la cosa più importante...dovevo trovare il modo di rubargli i capelli. Cominciai perciò a seguirlo, mi rendevo conto che non avrei mai potuto staccargli pezzi di corpo, ma avrei potuto prendere comunque qualcosa di suo. Passava di stanza in stanza nei post operatori, era sempre il solito, diceva di odiarli ma nel frattempo si assicurava sempre dell'ottimo lavoro che aveva fatto. Stavo letteralmente pedinando il mio uomo, così mi nascosi dietro a qualsiasi persona mi potesse servire.
Stanza 2330, Mark uscì e si diede uno sguardo al vetro della porta, si sistemò i capelli e io ne approfittai per nascondermi dietro la Bailey.
“Piccola Grey ma cosa diavolo stai facendo?” era davvero troppo bassa.

Le rubai una cartella e nel momento giusto ricominciai a correre dietro a Mark.
Memorizzai tutta la cartella aspettando che finisse con il nuovo paziente.
Stanza 2331, Mark uscì e si specchiò nel vetro di una Xilografia, ottima stampa, ottimo quadro, sarebbe stato bene nel mio sgabuzzino.
Mi nascosi dietro mia sorella.
“Lexie! Sono miei! Non te ne do neanche uno, vai a rubare cioccolatini ai bambini in pediatria, questi servono a Feto”.
Le rubai due cioccolatini e mentre aspettavo che Mark entrasse nella stanza seguente ne mangiai uno, mi sentii subito meglio.

Stanza 2332, Mark uscì e non si specchiò, rischiai di essere scoperta, Jackson mi venne addosso correndo da dietro, facendomi cadere la cartella della Bailey, il cioccolatino di Mer e la matita porta fortuna che gli avevo appena rubato.
 




Fu solo e unicamente dovuto alla tua arte di dissimulare che tu non fosti scoperta.
Riuscisti a far dimenticare lo specchio a Mark, chiudendo la porta dello sgabuzzino alle vostre spalle.
Narciso aveva un altro punto debole in fondo oltre all’eccessivo amore per se stesso.
Dopo l’inutile discussione con tua sorella, inghiottisti il cioccolatino senza masticarlo, diventando quasi violacea in volto, rischiando la tua stessa vita per non farti scoprire.
La Bailey e Jackson accorsero in tuo aiuto.
Ti aiutarono a non soffocare e non fecero caso agli oggetti sparsi sul pavimento.
Così, con una mano lesta, riuscisti ad infilare la matita portafortuna in una tasca del tuo camice e con il piede sinistro, allontanasti la cartella della donna sotto una barella abbandonata in corridoio.
“Dovresti stare più attenta, Lexie. Hai rischiato il soffocamento” ti fece notare Jackson.
Tua sorella si avvicinò a te e noto i denti sporchi di cioccolato.
“Hai rubato i miei cioccolatini, Lexie?” ti domandò con aria di rimprovero.
“No, che cosa te lo fa pensare? Li avevo con me”.
“Ne sei sicura”.
“Certo che sì! Stai diventando paranoica, lo sai?” le rispondesti, allontanandoti e sogghignando tra te e te.
Eri semplicemente euforica e sentivi una scossa di adrenalina pervadere il tuo corpo e correre sino al cervello.
Rubare era per te persino più soddisfacente di una tavoletta di cioccolato.
E ti rendeva felice almeno il doppio.
Finchè il senso di colpa non si sarebbe ripresentato di nuovo.
Ma la vista dell’uomo delle macchinette che trafugava dolciumi dal magazzino, ti rincuorava.
In fondo, non eri l’unica a custodire lo stesso dolceamaro segreto.






Mi avvicinai ad Andy, la sua tuta color carne mi metteva i brividi, possibile che quando era vestito sembrava più nudo di quando era svestito?
 Non so, mi avvicinai incuriosita, sembrava organizzato per questo genere di cose, metteva le merendine su una carriola.
 Poi metteva me sulle merendine sulla carriola.
“Stanza 2332 per favore” gli indicai il corridoio, lui fece partire il conta chilometri e mi spinse. Lo pagai in cioccolatini e abbandonai a carriola-taxi per entrare nella stanza.
 Che poi, il mondo dovrebbe funzionare a cioccolatini, non a soldi.
 
 



Stanza 2332


Mark ha quasi finito di sistemarti il volto, non sei bello quanto lo eri prima...ma le cicatrici ti daranno un viso da duro. Lo so che non ne hai bisogno, allontani la gente con le tue maniere scorbutiche senza bisogno di cicatrici. Meredith e Cristina non ti hanno mai lasciato cioccolatini, sono la tua famiglia, questo si. Per questo motivo hai il comodino pieno di birre e cartelle mediche. 
Credo che ti ruberò una birra.
Ho sbirciato nel tuo armadietto, non hai dentro niente. Non posso rubare niente, perché non hai niente. Certo è che rubare ad un mio amico in coma non è il massimo delle azioni.
Credo che mi porterò via tutte quelle cartelle.
Credo che la flebo di fisiologica serva più a me che a te.
Tu non ti sveglierai mai, non ti arrabbierai.
E la flebo ti sarà sostituita in meno di cinque minuti da un'infermiera innamorata di te.
E io ruberò anche quella.
Ruberò anche l'infermiera.
E l'ospedale.
Tutto mio.
 

 
 
 
 
 
 
 

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