Alicanto

di Yoko Hogawa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Silver Dawn ***
Capitolo 2: *** Crystal London ***
Capitolo 3: *** Hic et Nunc ***



Capitolo 1
*** The Silver Dawn ***


Desclaimer: come sempre, i personaggi utilizzati in questa fanfic non sono di mia proprietà, ma sono stati creati da nonno Doyle e presi successivamente sotto l’ala protettiva di Moffat e Gatiss. Se possedessi qualcosa di tutto ciò avrei già un appartamento ad Highgate con vista Cemetery. Ovviamente non prendo niente (vi appesto il fandom gratis).
 
Note: alla fine di ogni avventura c’è l’inizio di un’altra. Con un cambio di genere, a quanto sembra.
 
Prima di tutto, i dovuti credits. Buona parte di quest’idea, a cominciare dallo stile di combattimento che descriverò successivamente, deriva da un anime/manga chiamato Shingeki no Kyojin (anche “Attack on Titan” o “L’attacco dei Giganti”) di Hajime Isayama. Se guardate la opening dell’anime su YouTube (click!) capirete il livello di epicness che mi ha ispirata.
Comunque non è un crossover, è solo liberamente ispirato.
 
Non so ancora quanti capitoli saranno. Vorrei tenermi sotto la decina, ma conoscendomi potrei cambiare di tutto in corso di svolgimento, dunque non mi esprimo.
 
Gli avvertimenti sono quelli già scritti in presentazione: SciFi, military!AU, dystopia!AU, post-apocalyptic!AU. Un sacco di “AU”. Mi ci sto buttando di testa senza paracadute. Ovviamente Johnlock. Potrebbe morire della gente, quindi minor-character!death direi che ci sta.
 
Le età dei personaggi sono state leggermente variate per necessità di trama.
 
E direi che con questo è tutto.
Come sempre, chi vorrà leggere è il benvenuto ♥

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______Uno______
THE SILVER DAWN

 
 
 
 
 
 

Londra.
7 Luglio 2013.
I posteri avrebbero ricordato questo giorno come una delle più grandi tragedie dell’umanità.

 
 
 
A svegliarlo fu il gran trambusto nel corridoio: i passi pesanti sulle assi del parquet e le voci concitate dei suoi genitori. Per un momento ebbe l’idea di alzarsi e andare a vedere cosa stessero facendo ma aveva tanto sonno e i suoi occhi non volevano aprirsi, dunque rinunciò, girandosi dall’altra parte e accoccolandosi meglio sotto le coperte.
Ma poi il trambusto arrivò in camera sua e lui fu costretto a svegliarsi da suo padre, che senza nemmeno accendere la luce – servendosi di quella che entrava dal corridoio tramite la porta spalancata in tutta fretta – tirò indietro le coperte e lo sollevò dal materasso, prendendolo in braccio.
Lui, con l’istinto dei suoi cinque anni d’età, allacciò le braccia al collo del genitore e appoggiò il mento sulla sua spalla. Aveva ancora il cappotto addosso, quello leggero di lana misto cotone color grigio scuro.
« Papà...? » biascicò, i residui di sonno ancora appiccicati come miele alla sua voce.
« Vieni Sherlock, dobbiamo andare » disse solamente l’uomo, la voce profonda ma frettolosa, e lo portò fuori senza prendere né la vestaglia né le pantofole. E dire che sua madre di arrabbiava sempre, quando girava scalzo per casa.
« Dove andiamo? » chiese Sherlock, stringendosi di più alle spalle del padre mentre questo imboccava il corridoio a grandi falcate. Una volta usciti dalla stanza, vide sua madre in vestaglia e camicia da notte uscire dalla camera di suo fratello, tenendo per mano un Mycroft dalla faccia ancora assonnata e con la vestaglia infilata a rovescio.
Siger Holmes non rispose alla sua domanda, così come non lo fece quando fu Mycroft a porla. I loro genitori si limitarono a portarli in fretta giù dalle scale e fuori di casa dove la guardia privata di suo padre, l’uomo gentile con i capelli brizzolati che lo accompagnava al lavoro tutte le mattine, li fece salire frettolosamente sulla sua auto nera. Mycroft salì dietro con Violet mentre lui, ancora fra le braccia di Siger, salì davanti.
L’auto partì quasi immediatamente.
« Gli elicotteri atterreranno ad Hampstead Heath, signor Holmes » disse l’uomo al volante, guidando ad alta velocità per le strade in salita di Hampstead: « saremo lì fra cinque minuti ».
Sherlock rabbrividì di freddo in braccio al padre, che lo strinse di più a sé e cominciò a sfregare una mano sulla sua schiena. Aveva indosso solo il pigiama e i piedi scalzi, dopotutto, e nonostante fosse luglio l’aria della notte era ancora abbastanza fredda.
« Resisti Sherlock, fra poco saremo al caldo » gli disse il padre, continuando a sfregargli la schiena con la mano.
« Dove stiamo andando? » chiese di nuovo il bambino. Con la testa appoggiata alla spalla del padre poteva vedere il sedile posteriore, dove sua madre era silenziosa e seria e suo fratello osservava la nuca del padre con aria interrogativa e le sopracciglia aggrottate. Mycroft lo guardò per un attimo e tentò un sorriso, ma non sembrò neanche lontanamente convincente e Sherlock gli fece una linguaccia.
« Andiamo in vacanza per un po’ » gli disse finalmente Siger, il tono piatto e baritonale.
« Ma non abbiamo portato niente » obiettò subito Sherlock, ma non continuò a fare domande quando si scontrò con il silenzio del padre e capì che quella sarebbe stata l’unica spiegazione che gli avrebbe dato. Fuori dal finestrino, gli alberi del parco di Hampstead Heath sfilavano veloci dietro la cancellata che lo delimitava.
Furono al cancello d’entrata in meno di un minuto, in fila insieme ad altre macchine nere davanti ad un uomo in divisa che ne faceva entrare solo una alla volta. Poco lontano, le pale di un elicottero militare giravano veloci piegando le fronde degli alberi e gli steli d’erba.
Il silenzio dell’auto fu finalmente interrotto.
« Lestrade, vai a casa. Prendi la tua famiglia e allontanati da Londra il più velocemente possibile. Vai verso sud, se ti fidi delle mie parole » disse suo padre rivolto all’autista.
Quello, senza voltarsi, scosse il capo. « Ho il dovere di assicurarmi che voi siate in salvo, signor Holmes » disse.
« Lo siamo, Adrian! » esclamò Siger alzando la voce. Al brusco cambiamento di tono, Sherlock sobbalzò e tutti gli occupanti della vettura puntarono gli occhi su suo padre. « Entreremo nel parco a piedi. Ti prego... vai. Anche tu hai dei figli... » disse, e se Sherlock non fosse stato troppo piccolo per capire, avrebbe sicuramente trovato strana la disperazione che aleggiava nella voce altrimenti ferma del capofamiglia.
E forse, fu proprio l’ultilizzo del nome proprio a convincere Adrian Lestrade che la situazione era più grave di quel che sembrasse.
Si guardarono negli occhi. Adrian cercò negli occhi di Siger la vera gravità di ciò che sarebbe successo e quado la vide trattenne il respiro. Successivamente, annuì.
« Grazie, Siger » lo ringraziò e, ad un suo cenno d’assenso, Holmes disse alla moglie e al figlio maggiore di scendere dalla macchina mentre lui stesso apriva la portiera e portava Sherlock con sé.
Una volta scesi, l’auto nera partì a tutta velocità. Sherlock non avrebbe più rivisto quell’uomo, ma ancora non poteva saperlo.
Facendo cenno alla moglie di seguirlo, Siger Holmes prese a costeggiare la cancellata a passo di marcia, arrivando all’entrata del parco con la famiglia a seguito. Sherlock notò che anche le altre famiglie erano in pigiama – quelle che scendevano dalle macchine nere in procinto di entrare una alla volta – e cominciò a provare una sorta di inquietudine che non seppe spiegarsi. Si strinse di più alle spalle del padre, chiudendo i pugni sulla stoffa del cappotto, ma Siger era troppo impegnato a parlare con il soldato per notarlo, dunque si limitò a sistemarlo meglio fra le sue braccia e a dargli un paio di colpetti sulla schiena.
Una volta finito di parlare, la famiglia ebbe accesso al parco.
Il rumore sotto le pale dell’elicottero era tremendo. Copriva ogni suono, persino la propria voce, e Sherlock dovette per forza coprirsi le orecchie con le mani per il troppo frastuono. C’era anche moltissimo vento, freddo per di più, ma una volta entrati nell’abitacolo sia il rumore che il freddo si attenuarono. C’erano altre famiglie con loro, almeno due coppie e altri tre bambini, e quando anche sua madre e Mycroft ebbero preso posto di fronte a loro un soldato – diverso da quello all’entrata – chiuse il portellone.
In realtà Sherlock voleva sedersi sul seggiolino, ma Siger non lo lasciava andare. Non ne aveva nemmeno l’intenzione, a giudicare dello sguardo assente oltre il finestrino, così il bambino non chiese nemmeno di scendere dalle sue ginocchia. E poi era vicino al finestrino e poteva guardare fuori mentre l’elicottero volava.
Finalmente il velivolo si alzò. Prese quota lentamente, con le case e le persone che diventavano sempre più piccole, e quando fu arrivato abbastanza in alto da riuscire a vedere il Tamigi e il London Bridge, l’elicottero virò verso ovest e cominciò ad allontanarsi dalla città.
In lontananza, all’orizzonte, una linea aranciata presagiva l’alba ormai prossima. E mentre si lasciavano alle spalle la capitale del Regno Unito, Sherlock sentì suo padre appoggiare le labbra sulla sua testa e sussurrare alcune parole.
Non le capì. Ma gli sembrò che somigliassero a “Dio, perdonami”.
 
 
 

Ore 04:52 am.
Un istante lungo quanto un ticchettio di lancetta.

 
 
 
Le persone si spingevano l’una contro l’altra nella ressa, pigiate come sardine all’interno della stazione ferroviaria.
Decine e decine di londinesi ancora in pigiama e vestaglia, usciti di casa con il minimo indispensabile, con le ciabatte ai piedi e i cappotti infilati alla bene e meglio sopra la camicia da notte, rinunciatari di ogni bagaglio e di ogni oggetto più ingombrante di uno zaino.
C’era un silenzio irreale per una situazione d’emergenza, un moderato mormorio di persone che bisbigliavano sottovoce l’uno nelle orecchie dell’altro per non coprire i continui avvisi dati dall’altoparlante della stazione, già difficile da sentire di per sé, e per seguire le medesime istruzioni urlate al megafono da un plotone di soldati che controllavano ogni punto nevralgico della stazione.
Erano della RAMC, John aveva riconosciuto gli stemmi. C’erano anche dei medici, le mostrine con la croce rossa su fondo bianco ben visibili sulle maniche delle mimetiche.
Se non avesse avuto ancora troppa paura, probabilmente avrebbe chiesto a suo padre di che grado erano, perché quelli non sapeva ancora riconoscerli. Ma era sicuro che la sua voce avrebbe tremato se avesse cercato di parlare e suo padre, che lo portava in braccio in mezzo alla folla che si muoveva lentamente un passo alla volta, sembrava troppo impegnato a tenere unita la sua famiglia per ascoltare le sue domande. Dunque non disse niente.
Si chiamava “evacuazione d’emergenza”. John aveva sentito una macchina della polizia passare davanti a casa e dire quelle parole con un megafono, dopo essere stato svegliato dal terremoto.
Era stato molto forte e sia lui che sua sorella avevano urlato per tutto il tempo. In camera sua e di Harry erano caduti parecchi calcinacci e, quando i suoi genitori li erano venuti a prendere e li avevano portati correndo al piano di sotto, aveva visto anche una profonda crepa attraversare il muro a lato delle scale. Erano caduti molti quadri e tutti i libri, i soprammobili e anche il vaso blu che era il preferito della mamma, ma lei non sembrava badarci troppo mentre faceva infilare loro i giubbotti e li prendeva entrambi per mano, uno da una parte e l’altra dall’altra, correndo fuori di casa nel freddo della prima mattina verso la stazione di Clapham Junction.
Non avevano preso niente. Nessun vestito, nessuna foto, nemmeno le scarpe. Suo padre aveva continuato a dire che non c’era tempo e che dovevano andarsene via subito, che non era stato un terremoto ma era successo qualcosa di più grave, qualcosa di diverso, qualcosa di “artificiale”. Aveva detto con l’agitazione nella voce che gli sembrava di aver sentito il boato di un’esplosione e dato che suo padre era stato in guerra, e di esplosioni ne aveva sentite tante nella sua vita, John ci credeva.
Si guardò intorno in mezzo alla folla, alzando la testa dalla spalla dell’uomo. Il realtà poteva anche camminare da solo, ma Jonathan non aveva voluto metterlo giù. La folla era così fitta che persino Harry, calta rispetto alla media dei suoi 12 anni, riusciva a malapena a non scomparire in mezzo alla folla. Sua madre le teneva un braccio intorno alle spalle e la stringeva a sé, in modo da non perderla di vista e per non essere separati, mentre l’altra mano era fermamente stretta in quella del marito che non sorreggeva lui.
John alzò gli occhi, cercando di leggere le scritte in giallo che campeggiavano sull’enorme tabellone delle partenze sulle loro teste. Erano uguali e ripetute in tutti i tabelloni e i monitor di arrivi e partenze, scritte in un giallo brillante e accompagnate dal suono lontano di una sirena che John non aveva mai sentito prima.

 

Stazione di Clapham Junction
EVACUAZIONE DI EMERGENZA
tutti i treni diretti a SUD
binari 1-2-3-4-6-9-10 inagibili
solo donne, invalidi e bambini

 
« Papà, cosa vuol dire “invalidi”? » domandò John senza riuscire a trattenersi. La curiosità dei suoi sette anni era più forte del rispetto della situazione generale in cui tutti loro si trovavano, e davanti a quella domanda si dimenticò della concentrazione che il padre era necessario mantenesse.
Jonathan, però, gli appoggiò una mano sulla testa. « Sono le persone che non possono muoversi bene, John. Quelle a cui dobbiamo lasciare il posto sull’autobus » gli disse, spingendolo con gentilezza a scostare lo sguardo dal tabellone e a piegare di nuovo la testa sulla sua spalla.
John lo fece, ma non smise di parlare. « Perché c’è scritto “solo donne, invalidi e bambini”? » domandò il bambino.
Il padre ci mise un po’, prima di rispondere. « Perché, per il momento, sul treno i papà non possono salire» disse, la voce forte ma bassa, atona.
John prese fiato per opporsi, ma la sua voce venne completamente subissata da quella squillante di un soldato, che abbaiò ordini dentro un megafono poco lontano da loro.
« Tutti i cittadini sono pregati di rimanere calmi e di non spingere. Solo donne, invalidi e bambini. Cercate di predisporvi equamente all’entrata di ogni binario. All’entrata in banchina sarete contrassegnati dal numero del vostro binario. Non spingete. Al momento solo donne, invalidi e bambini. Gli uomini e tutti i ragazzi al di sopra dei 18 anni sono pregati di dirigersi al lato destro della banchina e di attendere lì ulteriori istruzioni. Tutti i cittadini sono pregati... ».
John prese fiato per parlare di nuovo, ma ormai il panico gli aveva già chiuso la gola. Non aveva capito cosa stava succedendo, non aveva capito assolutamente niente; l’unica cosa che sapeva era che suo padre non sarebbe potuto andare con loro e questo, più di tutto, lo spaventava a morte.
Si accorse di stare piangendo solo quando vide le sue stesse lacrime, ed il suo stesso terrore, riflesse sul volto di Harry.
« Margaret, prendi John » disse all’improvviso Jonathan, passandolo in braccio alla madre. Lei non disse niente e John non guardò quando i suoi genitori si baciarono, ma sentì suo padre dire che sarebbe andato tutto bene e che avrebbe trovato un modo per fuggire. Diede un bacio a lui, uno ad Harry, poi fu costretto a separarsi da loro e corse, con la sua vestaglia bordeaux, in mezzo alla folla.
Sparì. John non riuscì a seguirne nemmeno la scia. Forse, se avesse anche solo immaginato che quella era l’ultima volta che lo avrebbe rivisto vivo, si sarebbe dimenato dalla stretta di sua madre e lo avrebbe seguito. Ma all’epoca John credeva ciecamente alle parole di suo padre, per lui era un eroe vivente, e se aveva detto che avrebbe trovato un modo, a ciò John avrebbe creduto.
Sua madre piangeva, ma John faceva finta di non sentirla, così come Harriett. Arrivarono tutti e tre ai cancelli, dove un soldato scrisse con un pennarello nero il numero 12 sui dorsi delle loro mani, ed insieme ad altre persone si diressero, a passo svelto, verso il dodicesimo binario.
Salirono su un treno. Dovettero stare in piedi perché era pieno di gente, persino fra un vagone e l’altro. Sentì il macchinista fischiare e, muovendosi piano, il treno cominciò, insieme ad altri, ad uscire dalla stazione.
In lontananza, il sole appena arrivato oltre lo skyline dei palazzi illuminava la città da est.
Fu così che loro, e altre centinaia di migliaia di persone in fuga dalla capitale inglese, videro.
 
 
 

368.000 i morti sul colpo.
Il quartiere della City, buona parte di Westminster e parte di Southwark completamente rasi al suolo.
Poi, la Nube.
Portata dal vento, si espanse verso nord.
Invase la parte settentrionale di Lambeth e Wandsworth, quella orientale di Kensinghton & Chelsea, tutto Camden, Islington, Hakney e Tower Hamlets.
Più di 1.200.000 le vittime totali.
Quasi 100.000 i dispersi.
Un quarto della popolazione londinese.

 
 
 
Dispersa nel cielo come un grande salice piangente, illuminata dal sole dell’alba che la inondava di riflessi di luce, al di sotto di una nube enorme di fumo nero e denso e di polvere grigia, quella che sembrava finissima sabbia d’argento brillava come polvere d’angelo sospesa nell’aria, colorando il cielo con spicchi di luce argentea.
 
 
 

L’Alba d’Argento.

 
 
 
 
 
In parti diverse della stessa città, due bambini assisterono, involontariamente, all’inizio di tutto.
All’inizio di una nuove era e, allo stesso tempo, alla fine di una.
All’inizio di un mondo senza colori, senza luce, senza speranza o futuro. All’inizio del dominio dell’uomo com’era all’inizio della civiltà.
All’inizio di una storia che, bella o brutta, vale la pena raccontare.
Perché siamo tutti storie, alla fine.1

 
 
 
 
 
 
 
_________________________________________________________________________
 
1.Citazone da Doctor Who.

 

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Capitolo 2
*** Crystal London ***


_____Due_____
CRYSTAL LONDON

 
 
 
 
 
 
 

Quattordici anni dopo,
Agosto 2027

 
 
John spalancò gli occhi al suono della sveglia comune, il solito motivo a tromba e tamburi che sentiva da più di due anni. Come tutte le mattine storse il naso e richiuse di scatto le palpebre, pregando un Dio in cui nemmeno credeva di dargli l’occasione di dormire qualche minuto in più. Inutilmente, ma era sempre bello illudersi, in una vita come quella.
Sentì i suoi commilitoni muoversi nelle brande accanto alla sua, lungo la fila di dieci letti che la sua squadriglia occupava in quella camerata, e capì che non avrebbe più potuto riposare oltre. In meno di dieci minuti sarebbe entrato il Sergente Maggiore per il controllo del mattino e doveva rifare la branda prima del suo arrivo.
La vita dell’Accademia Militare aveva i suoi ritmi ed erano tutti scanditi da un preciso e puntualissimo programma.
Chi non lo rispettava, era punito. Chi si opponeva alle punizioni, veniva cacciato. Se venivi cacciato non c’erano seconde possibilità là fuori: i cadetti erano uomini che si erano volontariamente arruolati per fare i soldati e soldati dovevano diventare, punto. Fallire l’addestramento non faceva altro che portare disonore e nessuno, a Crystal London, assumeva per un lavoro onesto un uomo marchiato dal disonore. Era più facile finire in mezzo ad una strada come i barboni o darsi al crimine organizzato, e dunque diventare preda di quelli che anni prima erano stati tuoi commilitoni, o addirittura tuoi amici.
Non c’era posto per gli scarti, in quel mondo.
John frequentava l’Accademia da due anni ed era ormai vicino al giorno del Giuramento. Avrebbe potuto diplomarsi entro un anno se avesse scelto di entrare nella Guardia Cittadina, Barghest, come quasi tutti decidevano di fare, ma lui aveva da sempre avuto un altro obbiettivo.
Alicanto.
La Squadra di Ricognizione e Recupero era ciò a cui aveva puntato dal momento in cui era stata istituita, circa due anni dopo l’Alba d’Argento e un anno dopo la costruzione di Wall Elizabeth, la muraglia alta cinquanta metri che ora sigillava il centro e la zona settentrionale della vecchia Londra.
Da Clapham fino a Turnham Green a ovest, tagliando a metà Canary Wharf a est, estendendosi a nord verso Stratford, Tottenham, Turnpike Lane, Finchley, Hampstead, Willesden, e Acton. Chilometri e chilometri di muraglia costruita in fretta e furia sacrificando ogni grammo di ferro e ogni mattone, utilizzando impedimenti naturali pre-esistenti, inglobando case e costruzioni, palazzi e musei, con un numero impressionante di perdite fra i costruttori, fra i quali anche ragazzi appena maggiorenni. Per costruire Wall Elizabeth erano state abbattute le abitazioni circostanti e utilizzati fino all’ultimo dei materiali edili che esse potevano fornire, con il risultato che i quartieri che si erano salvati dall’esplosione erano stati rasi al suolo per opera dell’uomo.
Tutto, pur di difendersi dalle bestie.
Mesi dopo quello che era stato chiamato, a ragione, l’Esodo, il Governo era crollato e il potere era passato definitivamente in mano all’Esercito. Era stata istituita una Monarchia Militare e mentre i londinesi sopravvissuti si stabilivano nei territori a sud della città, occupando la zona di Sydenham Hill e ricostruendo il vecchio Crystal Palace1 come nuova abitazione della famiglia reale, il regime appena sorto aveva adottato una politica di trasparenza (poi presto dimenticata) e aveva messo al corrente la popolazione di cosa fosse realmente accaduto alla città.
Nelle segrete sotto il London Bridge, costruite in tempi antichi ed utilizzate negli ultimi anni come base si ricerca scientifica sul potenziale della nano-meccanica cellulare, un reattore di contenimento era esploso facendo letteralmente sprofondare il centro città e liberando nell’aria quella che fu ribattezzata “La Nube”, ovvero un insieme di Nanomacchine delle dimensioni di una cellula – o poco più – che attaccarono ogni forma di vita sul loro cammino, trasformandola in... qualcos’altro.
Mutando. Dilaniando. Creando incroci genetici improbabili fra animali e uomo, fra insetti e mammiferi, fondendo e modificando, scatenando il caos, sconvolgendo l’ordine naturale delle cose. Le bestie così mutate non avevano alcuna umanità, alcun sentimento, alcuna ragione: erano tornate ai primordi dell’evoluzione, dove la caccia era sopravvivenza, dove il forte trionfava sul più debole. Secoli di evoluzione e cultura spazzati via nel giro di ventiquattrore. Esseri che un tempo erano stati uomini ora attaccavano altri uomini per mangiarseli.
E crescevano, mutavano, evolvevano.
Fu il Regime a ordinare la costruzione di Wall Elizabeth a protezione del nuovo insediamento, successivamente nominato Crystal London. Una città dove da subito i ricchi ebbero molto e i poveri ancora meno di prima.
Il concetto di libertà divenne relativo, quello di giustizia arbitrario. Ogni abitante della città che non aveva nazionalità inglese fu espulso, quelli che la possedevano furono marchiati con un codice a barre sul collo, un numero di serie che identificava ogni essere vivente in ogni luogo andasse.
A quartieri ricchi e lussureggianti si alternavano zone della città puntellate di condomini di venti piani coperti da una nube perenne di smog, dove le persone vivevano in appartamenti tutti uguali in una struttura a nido d’ape. Intorno ad essi, poi, si formò quella che l’opinione pubblica – sempre che ne esistesse davvero una – chiamava “il Bassoborgo”, ovvero una serie infinita di piccole casette a schiera una di fianco all’altra, sottili e basse, sfruttanti ogni metro quadro possibile, in cui gli abitanti vivevano pressati come sardine in mezzo al cemento e senza un briciolo di verde.
John era cresciuto in una di quelle case.
Si era arruolato per rabbia, principalmente, ma anche per necessità. Aveva venduto la sua vita all’Esercito per sfuggire da un quartiere piccolo e malfamato, da una casa in cui sua madre era morta piangendo e sua sorella viveva nell’acool, da un angolo di una città che non ricordava nemmeno vagamente lo splendore della vecchia Londra, le sue vie pulite e serene, i suoi parchi verdi e rigogliosi. Un’immagine che gli era mancata per tutta la vita come gli era mancato suo padre, morto per farli fuggire.
Probabilmente, se avesse potuto prevedere dove sarebbero finiti, avrebbe lasciato che la sua famiglia morisse con lui.
Il Regime rifiutò ogni aiuto dalle città confinanti e obbligò i cittadini a rimanere all’interno di Crystal London riempiendone il perimetro di sensori a infrarossi che avrebbero rilevato ogni codice a barre in transito oltre il confine, attivando così le armi di difesa. Dispiegò poi gli Huginn, la Squadra di Difesa, in avamposti su ogni strada e ogni ponte di confine con l’ordine di sparare a vista.
A prezzo della morte, gli abitanti furono rinchiusi in trappola.
John odiava quella città. Odiava tutto, di quella città. L’aria intrisa di umidità, la perenne nebbia scura che circondava il Bassoborgo, la politica restrittiva del Regime e la casata reale stessa, specchio per le allodole di un popolo che non aveva rimasto niente in cui credere. Odiava l’Alba d’Argento e chi l’aveva provocata. Odiava non esserci nato, a Crystal London, perché se non avesse avuto ricordi della vecchia Londra, dei primi sette anni della sua vita passati giocando nel parchetto dietro casa, probabilmente quel disfacimento sarebbe stato più facile da tollerare.
Invece niente. Doveva cercare nel rancore la ragione per andare avanti, la ragione per non distruggersi (come da anni tentava di fare sua sorella vivendo nella miseria).
Sospirò mentre rifaceva gli angoli al lenzuolo, sistemando poi la coperta sopra di esso. Attraversò la stanza verso il proprio armadietto, esattamente di fronte al letto, aprendolo e tirandone fuori la divisa da cadetto che indossò velocemente, con movimenti abituali e precisi, attento che ogni bottone fosse al proprio posto e non ci fosse la minima piega. Maglietta bianca di cotone, pantaloni e stivali neri, blusa bianca a collo alto. Fissò la spilla a forma di croce rossa, simbolo che dimostrava la sua appartenenza all’Ordine dei Medici, sulla parte sinistra del petto, sopra al cuore, con mani ferme. Una volta terminato, tornò ai piedi della sua branda e rimase lì, pronto a scattare sull’attenti al comando dei superiori.
Gli studi dell’Accademia duravano in media due anni e si dividevano a seconda della squadra operativa per la quale il cadetto faceva domanda all’atto d’iscrizione. La squadre erano in tutto quattro.
La maggior parte dei cadetti faceva domanda per Barghest, la Guardia Cittadina. Con il simbolo di una testa di lupo nero sul gagliardetto, era quella che poteva essere paragonata alla vecchia polizia. Se si era abbastanza fortunati (e abili) si poteva essere mandati nei quartieri alti e, di conseguenza, migliorarsi notevolmente la vita. Era l’unica squadra per la quale era previsto un solo anno di addestramento e quelli che non riuscivano ad entrarvi, perché dichiarati non idonei o con voti insufficienti, venivano fatti forzatamente proseguire per un altro anno, in modo da entrare in una delle altre tre squadriglie.
Ifrit, la Guardia Reale, era quella più segreta. Nessuno sapeva davvero in cosa consistesse il loro lavoro ma vi venivano ammessi solo coloro che avevano ricevuto i voti più alti in tutti i corsi. Ergo, le persone accettate in Ifrit erano sempre pochissime per anno. Il loro stemma era una fiamma dentro una corona d’oro.
Gli Huginn, chiamati anche “Ultima Difesa” o “Corvi”, erano la squadra incaricata di proteggere il perimetro esterno della città sia da chi cercava di entrare sia da chi cercava di uscire. Venivano specificamente scelti tra le persone più brutali e insensibili dell’Accademia. Il loro stemma rappresentava un paio d’ali nere incrociate verso il basso.
Per ultima Alicanto, la Squadra di Ricognizione e Recupero. Un gruppo di uomini che venivano mandati all’interno delle mura della vecchia Londra per recuperare dati e ricerche tenuti al sicuro nelle altre filiali del laboratorio di ricerca di London Bridge. Il loro stemma erano un paio d’ali, una d’argento e una d’oro, incrociate verso l’altro.2
John desiderava far parte di Alicanto da quando aveva compiuto dieci anni. Il suo desiderio più grande era rimettere piede a Londra e uccidere qualunque creatura li avesse attaccati, rivedere la sua città anche se in rovina, ricordare com’era vivere liberi.
Forse così avrebbe superato il rancore e placato la sua rabbia. Forse.
La porta della camerata sbatté con un forte tonfo e tutti i soldati, ormai vestiti e con le brande rifatte, si posizionarono ai piedi dei letti. Il capofila diede l’attenti e loro, sbattendo i tacchi e alzando i menti, guardando fisso avanti a sé.
Il Sergente Maggiore Lafayette entrò a passo lento ma pesante, la sua solita espressione impettita nella divisa nera da soldato con il colletto alla coreana, i gradi scintillanti sotto le luci al neon. Molti cadetti dicevano che passasse buona parte del suo tempo libero a lucidare i suoi gradi e John non poteva essere più d’accordo.
Lafayette poteva essere molto stronzo ma anche molto svogliato. Quella mattina sembrava un pericoloso misto dei due, dato che schioccò le dita invece di parlare per ordinare al sottoposto che lo seguiva di estrarre il verificatore olografico.
« Oggi è giorno di conta, cani dell’esercito » cominciò scocciato, mettendosi i guanti di pelle come se l’esistenza di ogni singolo soldato in quella camera non fosse minimamente affar suo: « vediamo se siamo tutti presenti o qualcuno se l’è svignata senza avvertire » concluse. Alzò poi il volto, fissando a caso uno di loro, prima di gridare: « IN GINOCCHIO! ».
I cadetti, automaticamente, si inginocchiarono sul ginocchio sinistro.
« Fate vedere i vostri collari » sghignazzò Lafayette.
I cadetti, John compreso, piegarono il volto verso sinistra per mettere in mostra il codice a barre, inciso sulla pelle appena sotto l’orecchio destro. Il sottoposto, quando tutti furono in posizione, cominciò a passare uno ad uno gli aspiranti soldati, facendo scorrere il laser del verificatore – un piccolo apparecchio bianco simile ad un portacipria – e attendendo la conferma del nome che automaticamente appariva sul piccolo schermo olografico che l’oggetto proiettava.
Quella era routine almeno due lunedì al mese. Alcuni cadetti che uscivano in licenza per il fine settimana – tassativamente oltre il primo anno di corso altrimenti era vietato avere licenze – lasciavano il posto a persone che non avevano superato le selezioni che si facevano passare per loro (pensavano davvero di ingannare l’Esercito in quel modo? Quando hai un numero di serie che ti identifica senza fallo su qualsiasi sistema informatico di Crystal London?) oppure tentavano, per lo stesso motivo, di contraffare i codici a barre. Inutilmente, dato che erano come cicatrici nere e non semplici tatuaggi. Avrebbero dovuto saperlo.
O almeno, forse avrebbero dovuto almeno evitare di fingere di averlo dimenticato.
Quando il verificatore arrivò a lui, la sottile linea rossa del laser ci mise poco per far comparire la sua storia sul proiettore olografico.
« Nome, cadetto? » domandò il sottoposto.
« Watson, John Hamish » rispose.
« Anno di corso e Ordine? ».
« Secondo, Ordine dei Medici ».
« Numero di matricola? ».
« Alfa-Charlie-1-2-5-6-9-Zulu ».
« Bene ».
E passò oltre. La stessa cosa si ripeté per tutta la fila finché, arrivato all’ultimo uomo, il sottoposto di Lafayette chiuse il verificatore olografico e disse a voce alta: « tutto in regola, signore ».
Lafayette annuì. « Potete andare a fare colazione, cadetti » disse poi rivolto a loro con tono di sufficienza, uscendo dalla porta a passo svelto per infilarsi nella camerata adiacente.
Per fortuna, pensò John una volta che fu libero di rialzarsi, che non tutti gli istruttori erano pomposi come lui.
 
 
La mensa era, come ogni giorno, così bianca, asettica e spoglia da far male agli occhi.
Muri bianchi leggermente ingrigiti – a causa della mano di vernice negata di cui avrebbero ben giovato – dalla polvere, lunghe tavolate d’alluminio fornite di panche che correvano lungo tutta la lunghezza della stanza, ventilatori (tre, ora fermi) che pendevano dal soffitto intervallati da lampade al neon (l’unico tipo di luce esistente in tutto l’istituto, a quanto sembrava). Sulla sinistra appena entrati, una rientranza nel muro forniva lo spazio strettamente necessario ai banconi del self-service, dove i cadetti di turno in cucina servivano per colazione, pranzo e cena sempre le solite sbobbe.
Trattenendo un sospiro esasperato, John si mise in fila con gli altri e prese un vassoio e una busta di posate di plastica da una lunga pila all’inizio del self-service. Il mormorio continuo dei cadetti già seduti ai tavoli era, alle sue orecchie, abituale e noioso come la vista delle loro divise tutte uguali.
Fu raggiunto da Mike Stamford, un suo collega dell’Ordine dei Medici, giusto prima che gli venisse posata sul vassoio una ciotola di porridge simil-colla.
« John » salutò quello, mettendosi in fila dietro di lui e passando conseguentemente avanti ad altre reclute. Nessuno si lamentò. Dopotutto, nessuno aveva fretta di mettersi in bocca quella schifezza.
« Mike » salutò John a sua volta.
« Hai già dato un’occhiata a chi proseguirà per la Specializzazione? » domandò subito quello, prendendosi a sua volta una porzione di porridge e una mela. John integrò il pasto con una tazza di tè e un paio di toast, Stamford con una bottiglietta d’acqua.
No, John non ci aveva guardato. Sapeva benissimo che sarebbero stati in pochi, e che almeno due di loro sarebbero diventati suoi compagni di squadra, ma non aveva avuto voglia di andare in giro a chiedere chi proseguisse o meno, soprattutto agli altri Ordini.
Gli anni di studio all’Accademia si dividevano in tre tappe simboliche.
Il primo anno, che era uguale per tutti, consisteva nell’insegnamento di tecniche di combattimento, antisommossa, sopravvivenza, pianificazione e uso delle armi. Ogni corso prevedeva una valutazione finale e il totale complessivo delle valutazioni decretavano non solo il livello oggettivo del cadetto, ma anche quante possibilità si potevano avere di continuare gli studi. Le valutazioni erano pubbliche e venivano appese in bacheca complete di nominativo e numero di matricola.
Superato l’anno condiviso, la maggior parte dei cadetti faceva domanda d’ingresso in Barghest, la polizia interna. Coloro che puntavano ad altro proseguivano per un altro anno ed entravano in un Ordine.
Gli Ordini erano 4: l’Ordine dei Medici, di cui faceva parte John, addestrava al primo soccorso e alla chirurgia d’urgenza e i suoi allievi erano identificati da una spilla a forma di croce rossa; l’Ordine dei Tiratori addestrava al tiro di precisione con armi da fuoco e il suo stemma era una punta di freccia; l’Ordine dei Condottieri addestrava soldati di prima linea e d’assalto preferendo le armi bianche, il suo stemma erano due spade incrociate; l’Ordine degli Strateghi, ultimo ma non meno importante, addestrava alla pura strategia d’attacco e difesa, il loro stemma era la corolla di una rosa blu.
Guardandosi intorno, John poteva vedere alcuni degli stemmi degli Ordini brillare sulla giacche degli altri cadetti.
Una volta entrato in un Ordine l’addestramento proseguiva per nove mesi, fino al Diploma di Specializzazione. Da quel momento, sia Barghest che Ifrit erano disponibili ad accettare soldati per rimpolpare le loro linee.
Ma se si voleva entrare in Alicanto o Huginn, bisognava passare altri tre mesi di addestramento intensivo e arrivare al Diploma di Abilitazione. Consisteva in un addestramento speciale e più che altro fisico di cui nessuno sapeva davvero niente, perché chi ci era passato manteneva un ferreo silenzio in proposito. Giravano solo voci di corridoio che cambiavano con le stagioni, dunque non c’era da fidarsi molto.
Ma John non aveva affatto paura.
« No, non ho chiesto » disse semplicemente a Mike, sedendosi in una zona vuota del tavolo centrale. Stamford lo imitò, sedendosi accanto a lui.
« John... forse faresti meglio ad informarti. C’è la possibilità che diventino tuoi compagni di squadra » rispose Mike.
« Lo so. È solo che non mi interessa, davvero » rispose lui, mettendosi in bocca una cucchiaiata di porridge.
Ingoiò nel più completo silenzio dell’amico e, quando rialzò gli occhi, notò l’espressione con cui lo stava guardando. La stessa di uno che non crede ad una singola parola di quello che dici o, anche se ci crede, in ogni caso crede che tu sia un idiota.
John sospirò. « Va bene, va bene. Aggiornami » si dichiarò sconfitto.
Mike lo ripagò con un rapido cenno del capo e cominciò a guardarsi intorno.
« Là, vedi quello? » disse, indicando con il capo una persona seduta ad una decina di persone da lui nel tavolo subito dietro. John si voltò e, con la coda dell’occhio, individuò un ragazzo con i capelli neri, corti e lisci tirati indietro sulla testa. Aveva gli occhi scuri, a quanto poteva vedere da quella distanza, e stava sorridendo in modo equivoco ad un paio di cadetti che stavano parlando con lui. La rosa blu appuntata sul petto lo distingueva come appartenente all’Ordine degli Strateghi.
« James Moriarty » lo identificò Mike: « mente brillante, ha preso il massimo in quasi tutti i corsi. Durante l’addestramento base con le armi ha quasi spezzato il collo di un commilitone a mani nude. Si vocifera che i Corvi lo abbiano puntato ».
« I Corvi? Dev’essere un elemento da non sottovalutare, allora... » disse John.
Mike annuì in modo grave, ricominciando però a guardarsi intorno. « Ah, eccolo là » esclamò poi a bassa voce, facendogli un cenno del capo verso una persona seduta al tavolo direttamente di fianco al loro, subito dietro Mike. « Quello con i capelli brizzolati » disse per indicarglielo.
« Sì ».
« Greg Lestrade. Era entrato nei Barghest ma ad un certo punto ha chiesto di poter tornare in Accademia ed è rientrato per proseguire gli studi, per questo ha un anno in più di noi » disse, prendendo una cucchiaiata di porridge per dissimulare disinteresse. « Si dicono cose strane su di lui. È entrato nell’Ordine dei Condottieri perché nei voti finali non è andato benissimo, ma si dice che se la sappia cavare bene nel combattimento. Pare che si sia scontrato con un... sai... mentre era arruolato in Barghest » balbettò improvvisamente Mike.
John aggrottò le sopracciglia. « Un...? ».
« Un... dai, lo sai ».
« Un mutante? » domandò Watson.
Stamford annuì. « Anche se sembra molto X-men, a chiamarli così ».
« Beato te che lo ricordi, quel fumetto » commentò Watson, arrendendosi a metà scodella di porridge-colla e sorseggiando un po’ di tè.
Quelli che il popolino aveva cominciato a chiamare “mutanti” non erano altro che i mostri che vivevano dentro Wall Elizabeth, ovvero le entità divorate e trasformate dalla Nube quattordici anni prima.
Pari, madri, bambini, animali, amanti, fattorini, pizzaioli, politici, gioiellieri, banchieri... cani, gatti, piccioni, insetti. Mutati in bestie, veri e propri incubi. Tutti. Tutti coloro che non erano riusciti a fuggire in tempo, tutti coloro che erano rimasti.
Suo padre. Nei suoi sogni, John lo vedeva mentre, con la bocca insanguinata e gli occhi bianchi, somigliante ad uno zombie e con la pelle delle braccia e del torso a brandelli, lo attaccava cercando di divorarlo.
Era per questo che i ricordi piacevoli che conservava di Londra non sortivano alcun effetto calmante, su di lui.
Non diede a vedere la sua ansia, preferendo che Mike non se ne accorgesse. « È strano per un ventitreenne avere i capelli così brizzolati » commentò distrattamente.
« Si dice che gli siano venuti bianchi per la paura » disse Mike con noncuranza.
« Io direi più che è un raro residuo genetico ».
« Quello che è » tagliò corto Mike, indicandogli un’altra persona con un cenno della mano: « la ragazza alla fine della nostra tavolata, quella con i capelli lunghi e mossi » disse.
« Irene Adler » lo anticipò John. « Ha una certa... – si schiarì la voce – ...fama ».
Stamford si espresse in un sorrisetto pieno di sottintesi che andava da un orecchio all’altro. « E bravo il nostro “Tre Continenti” Watson! » esclamò battendo le mani.
A John andò di traverso il tè. « Piantala con quel nomignolo! » esclamò a mezza voce: « questa volta non centra niente » disse.
« E allora come... ? ».
« Sono in camerata con altri nove uomini, secondo te di cosa si parla la sera? » domandò retoricamente.
« Effettivamente... » concordò Stamford: « in ogni caso, anche la Adler ha un cervello niente male, anche se è più furba che intelligente. Nei test ha preso quasi il massimo dei voti. Ordine degli Strateghi, come Moriarty. Sa molte cose che altri non sanno e tutti dicono che ha le sue fonti in mezzo agli ufficiali e agli istruttori. Sa come farsi... ben volere, non so se capisci cosa intendo ».
« Immagino di sì » commentò John.
« Ah, il ragazzo che è appena entrato. Quel colosso biondo con la cicatrice » disse Stamford.
John voltò il capo verso l’ingresso e guardo l’interessato con la coda dell’occhio. « Sebastian Moran » disse dunque, tornando con lo sguardo sul proprio vassoio: « io e lui abbiamo avuto le valutazioni più alte nel corso di tiro di precisione, so che è entrato nell’Ordine dei Tiratori » disse.
« Corretto. È anche uno dei più bravi » rispose Mike. « Ma adesso arriva la parte più interessante » aggiunse poi, indicando con la mano due persone, una ragazza e un ragazzo, seduti parecchio distanti da loro; lei, capelli castani e lunghi legati in una coda, chiacchierava imbarazzata dando loro le spalle, mentre era palese che lui, capelli ricci e corti e occhi di un azzurro tendente al grigio, le desse nemmeno la metà dell’attenzione che avrebbe riservato a chiunque altro, giochicchiando con la buccia di una mela.
« Lei la conosco » disse John: « Molly Hooper. È nell’Ordine dei Medici con me. Non sapevo che avrebbe continuato » disse.
« Lei continua perché lo fa lui » intervenne l’amico, arricciando le labbra in un sorrisetto. « Sherlock Holmes. Persona brillante, davvero brillante. Ordine degli Strateghi, ha ottenuto il massimo dei voti in tutti i corsi e supererebbe in intelligenza me e te messi insieme senza nemmeno battere ciglio. Gli unici che possono competere con lui sembrano essere la Adler e Moriarty » disse Mike, fermandosi per bere un sorso d’acqua: « ha un carattere... strano. Poco socievole, o così sembrerebbe, riesce a scoprire con chi sei andato a letto solo guardandoti. Ma la cosa più sorprendente è che è di un anno più piccolo. Ha completato il corso base in sei mesi e la seconda parte negli altri sei... è un mostro » aggiunse, guardando il diretto interessato con la coda dell’occhio. Quando però notò che John non gli aveva risposto, portò nuovamente l’attenzione sul medico. John?
Ma Watson aveva lo sguardo fisso su Sherlock Holmes. Lo osservava con le labbra strette ma lo sguardo pacato, calmo come potrebbe essere il mare prima di una tempesta.
« John? » ripeté di nuovo Mike, ora un po’ più preoccupato.
« “Holmes”... » ripeté però lui, aggrottando le sopracciglia come per ricordarsi qualcosa. « Non era il cognome di uno dei principali responsabili del sito di London Bridge? » domandò.
Stamford sussultò. « John, non possiamo parlar– ».
« Rispondi e basta ».
Mike trattenne il fiato, guardandosi attorno, poi sospirò. « Sì, lo è » affermò a bassa voce: « ma ci sono milioni di persone che portano il cognome “Holmes”... » tentò.
« Mh... è vero » ammise John.
Ma Stamford non si fermò. « Anche se fosse? John, non avrai in mente di stuzzicare quel ragazzo, vero? Vero? » domandò, parlando a bassa voce con tono agitato.
John lo fissò. « No » rispose. « Anche se fosse, non incolpo il figlio per i peccati del padre » disse.
Mike sospirò, ora molto più tranquillo. « Meno male, John. Conoscendoti... »
« Andiamo » lo interruppe però il medico, alzandosi da tavola: « il tempo per la colazione sta finendo ».
 
 

***

 
 
L’aula era silenziosa senza il vociare di decine e decine di studenti intenti a chiacchierare sommessamente prima dell’inizio delle lezioni teoriche. Era stato sempre così da che era entrato in quell’Accademia: una miriade di sussurri intervallati da risatine a labbra strette, per non fare troppo rumore senza rimanere completamente in silenzio.
Ma ora era tutto diverso.
Il giorno prima si era tenuta la cerimonia di Diploma di Specializzazione.
Nessun parente, nessun discorso commemorativo, nessuna parata, nessuna soddisfazione. Solo una lunga sfilza di nomi, un foglio arrotolato chiuso con una ceralacca e il sigillo della Famiglia Reale, il saluto e una rigida stretta di mano con l’ufficiale incaricato della consegna. Punto.
Al nuovo Governo Militare non servivano le cerimonie, i festeggiamenti (gli incoraggiamenti). Ad un uomo basta solo quello: una stretta di mano. Un cenno del capo.
John era disgustato dalla tristezza che tutto ciò emanava. Suo padre era stato un soldato e ricordava le medaglie, le foto di gruppo con i commilitoni, quelle ufficiali in alta uniforme e il sorrisetto soddisfatto sotto i baffi.
Ora certi usi non esistevano più. Cancellati con un colpo di spugna perché qualcuno, da qualche parte e ad un certo punto, si era svegliato con il piede sbagliato e aveva deciso che non serviva più. Stop.
Appena arruolato, John ci era rimasto male. Ora stava persino dimenticando l’amarezza della consapevolezza.
I raggi del sole di un mattino particolarmente clemente entravano dalle alte finestre, inondando di luce grigiastra (era il sole di Londra e almeno quello non cambiava mai) i lunghi banchi in legno disposti a gradoni dal basso verso l’alto e fiancheggiati da un paio di scalinate. La cattedra con dietro due grandi lavagne era al centro in basso, vuota, e loro in attesa del professore.
Erano poco più di 20. Fra loro, tutti quelli che Mike aveva nominato.
Oltre a lui vi era Sebastian Moran – seduto poco distante – poi James Moriarty, Irene Adler, Greg Lestrade, Molly Hooper, Sherlock Holmes.
Sherlock Holmes.
John non riusciva a togliersi dalla testa quel nome e, di conseguenza, quel ragazzo.
Teneva la testa appoggiata alle mani con i gomiti puntellati sul tavolo, al suo fianco solo Molly che sembrava non sapere se parlare o meno o di cosa, gli occhi fissi sulla lavagna ma la mente altrove.
Watson si chiese dove. Non lo sapeva. L’unica cosa di cui poteva essere certo era dove fosse la propria, di mente, ed essa era tutta rivolta al suo cognome.
“Holmes”.
Siger Holmes era stato uno dei responsabili del sito di London Bridge. Era considerato un criminale e, da quello che ne dissero i giornali prima che la libertà di stampa cominciasse ad essere un po’ troppo libera per i gusti del nuovo Governo, pochi anni dopo la tragedia si era messo una pistola in bocca e aveva premuto il grilletto.
John aveva sorriso, quel giorno. Dopo anni, e problemi, e lacrime, aveva sorriso.
“Ben gli sta” aveva pensato. “Ben gli sta”.
Oggettivamente parlando, una vita come quella di Siger Holmes dopo l’Alba d’Argento non l’avrebbe desiderata nemmeno per il suo peggior nemico. Costretto all’isolamento e a chiudersi in casa per via dei giornalisti, del Governo, della Polizia, della gente. Di quelle persone che, come John, incolpavano lui per la perdita di un padre, di una madre, di un fratello, di una sorella, di uno zio, di una cugina, di un amico... di qualcuno o qualcosa, non era importante, purché fosse perso, perso per sempre.
Crescendo, John si era reso conto di essere stato una cattiva persona. Anche quell’uomo doveva avere una famiglia. Anche lui era umano, ed essendo tale poteva sbagliare. Anche Siger Holmes si sarà pentito, si era detto una volta divenuto adulto, se ha deciso che la morte era meglio della colpa.
John aveva capito, alla fine. Ma il perdono era un’altra cosa.
Per questo non avrebbe incolpato Sherlock Holmes, se fosse stato davvero figlio di Siger Holmes. Si dice sempre che gli errori dei padri non devono ricadere sui figli, ma anche se in realtà i figli pagano il doppio John voleva essere superiore. Voleva far sì che il detto divenisse realtà.
Avrebbe giudicato Sherlock Holmes per quello che era. Poi avrebbe fatto il possibile per evitarlo.
Perché il suo rancore era davvero troppo grande.
Fu con piacere che accolse l’entrata dell’insegnante. Distolse lo sguardo da Holmes pochi istanti prima che il giovane si accorgesse del suo, così che potesse fingere che fosse un’occhiata casuale. Pulendosi la mente da qualsiasi altra cosa, prestò la completa attenzione al Sergente Istruttore.
« Buongiorno » salutò quello.
« Buongiorno signore! » risposero tutti loro all’unisono.
Quello annuì. Sembrava una persona seria, nella sua divisa scura da soldato. A John piacque subito.
« Se siete presenti in quest’aula oggi, significa che siete il meglio del meglio » disse, prendendo una piccola pausa. « Specialisti. I migliori dei rispettivi Ordini o in singole discipline degli stessi. Se siete qui, significa che i vostri precedenti istruttori vi hanno ritenuti degni di far parte delle due squadre più capaci dell’intero Esercito: Huginn e Alicanto » disse.
Le teste ritte dei cadetti si alzarono un po’ di più. John sapeva che l’Istruttore stava esponendo solo dei dati di fatto, ma soldati che non erano abituati a ricevere alcun tipo di gratificazione scambiavano facilmente quelle parole come tali.
« Nei prossimi tre mesi, il mio compito è fare di voi dei soldati degni di queste due squadre. So che nessuno vi ha mai detto in cosa consista l’addestramento, ma lo farò io oggi. Il mio nome è Darius e sarò il vostro mentore fino al Diploma di Abilitazione » disse.
Darius fece poi schioccare le dita di una mano, chiamando con quel gesto uno dei due sottoposti che lo avevano accompagnato ed erano ancora in piedi a lato della porta. Uno di loro aveva un camice sopra la divisa nera e, scendendo i gradini con cautela, porse una piccola valigetta di metallo lucente all’istruttore. Darius la prese con cura e la appoggiò sulla cattedra, aprendola.
« C’è un motivo per cui chiunque lascia questo corso speciale, o chi lo supera e diviene un soldato di Huginn e Alicanto, non parla del suo addestramento nemmeno sotto tortura. Viene loro vietato. Così come, da questo momento, è vietato a voi » disse.
I cadetti si guardarono l’un l’altro per alcuni istanti.
L’istruttore riprese a parlare piano. « Tutto per via di queste » disse, sollevando una fialetta contenente un liquido denso e color giada somigliante a mercurio.
John si irrigidì, chiudendo inconsciamente le mani a pugno e stringendo talmente forte che le unghie gli si conficcarono nei palmi. Alcuni dei suoi colleghi trattennero il fiato o si alzarono in piedi per riflesso condizionato.
Nanomacchine.
L’ultima volta che le aveva viste erano color argento, ma era indubbio che fossero Nanomacchine. Avrebbe ricordato per sempre la loro consistenza come sottilissima sabbia impalpabile, sparsa per il cielo di Londra come nebbia o come finissimi cristalli di neve.
Dopo un momento di sorpresa i cadetti ripresero il controllo e i loro posti.
Darius non abbassò la fialetta. « Le vostre reazioni sono comprensibili » disse calmo: « c’è una cosa importante da sapere per comprendere la differenza fra le Nanomacchine che causarono l’Alba d’Argento è quelle che ho in mano in questo momento. Ma cominciamo per gradi: qualcuno di voi sa dirmi in poche parole cos’è una Nanomacchina? » domandò.
Un istante di silenzio, poi una voce.
« Associato alla Nanotecnologia, si può descrivere una Nanomacchina come una costruzione sintetica di livello molecolare i cui compiti variano a seconda della programmazione della suddetta ».
John voltò il capo, associando la voce bassa e profonda a Sherlock Holmes.
Darius annuì. « Qual è il tuo nome, cadetto? ».
« Sherlock Holmes, signore ».
L’istruttore alzò un sopracciglio. « Fratello di Mycroft Holmes? » domandò.
Il ragazzo annuì.
« Non mi stupisco che tu ne sappia qualcosa, allora » commentò Darius, e John non ebbe più dubbi.
Mycroft Holmes era una sorta di politico ed era conosciuto per essere figlio di Siger Holmes. Di conseguenza, si poteva dire con sicurezza che lo fosse anche Sherlock.
Apparteneva a quegli Holmes.
John scostò lo sguardo, tornando a fissarlo su Darius. Deglutì e strinse forte i denti dietro la labbra serrate.
« Il vostro collega ha sottolineato un concetto importante: quello della programmazione » continuò poi l’istruttore: « le Nanomacchine sono, basicamente, macchine ingegneristiche costruite a livello di nanometri, cioè di dimensione cellulare. Sono come piccoli computer che devono venire assemblati e programmati a compiere un determinato compito all’interno di un organismo ospite. Usate in medicina, le Nanomacchine sono in grado di prendere il posto di cellule morte o danneggiate, di ricostruire tessuti lacerati, di sostituire processi che cromosomi incompleti o assenti hanno precluso all’organismo stesso. Quando vengono programmate, o in altre parole quando viene dato loro uno “scopo”, viene loro inserito un gene cromatico che le distingue per colore. Queste – e indicò la fialetta che aveva in mano – sono state specificamente programmate per inserirsi all’interno del tessuto muscolare delle gambe e potenziarlo, aumentandone la potenza e la flessibilità. Sono quelle che dovrete imparare ad usare nei prossimi mesi di addestramento e quelle che, fra qualche settimana, vi inietteremo » disse.
John sgranò gli occhi ma, come gli altri, non fiatò. L’idea di avere quelle... cose dentro di sé non lo attirava affatto e adesso cominciava a capire perché molti abbandonavano il corso speciale senza diplomarsi. Ma lasciò da parte le perplessità quando l’istruttore continuò il discorso.
« Il loro colore di base è l’argento. Quelle che hanno reso Londra inabitabile, tanto per capirci, erano Nanomacchine appena formate e non ancora programmate, che spargendosi nell’ambiente ed entrando in contatto con gli esseri più disparati hanno cominciato ad evolvere per conto proprio e copiare funzionalità di cellule già esistenti. I risultati sono state le mutazioni, come tutti voi sapete, e la successiva evacuazione della parte della città interessata dalla Nube sprigionata dal reattore di contenimento esploso » spiegò.
Questo non lo rendeva più tranquillo sulla prospettiva non solo di entrare in contatto con le Nanomacchine, ma di averne alcune addirittura dentro di sé. Erano davvero sicure, una volta programmate? Non avrebbero potuto avere reazioni varie con le cellule dei loro corpi come aveva detto l’istruttore? Il dubbio serpeggiava anche sui volti dei suoi colleghi e, forse notandolo, Darius decise di proseguire il discorso.
« Capisco i vostri dubbi. Ed è giusto che vi avverta che l’operazione di inserimento delle Nanomacchine nei tessuti muscolari delle vostre gambe non sarà né indolore né priva di rischi. Servono 24 ore per impiantarle, durante le quali sarete completamente anestetizzati e tenuti costantemente in un sonno profondo, e una volta svanito l’effetto dell’anestesia passerete almeno 12 ore piegati in due da dolori lancinanti. Successivamente dovrete affrontare i 2 mesi di addestramento al loro uso specifico e quei mesi, signori, saranno i più duri della vostra vita. Ma lasciate che vi dica una cosa importante... » continuò, l’espressione seria: « ...le Nanomacchine sono la nostra sola opportunità di sconfiggere, o almeno di combattere alla pari, con le cose che vivono dentro le mura della vecchia città. In questo caso il fuoco non viene spento con l’acqua, ma viene abbattuto grazie ad un fuoco più forte. Quegli esseri sono veloci, agili, forti. Alcuni hanno esoscheletri duri come granito, altri ossa fatte di titanio. Alcuni volano. Sono tutti diversi ma c’è una sola cosa che li accomuna: sono tutti spietati. Non hanno pietà, o ragione, o senso di giustizia o moderazione; non provano sentimenti e anche se molti di loro hanno una forma vagamente umana o semi-umanoide, anche se assomigliano in modo inconfondibile ad un amico o ad un parente, loro non sono umani. Sono bestie » disse.
Poteva essere sufficiente, si disse John.
Poteva esserlo? Poteva davvero accettare di utilizzare ciò che aveva cambiato la sua vita – così come quella di molti – per combattere ciò che di quel cambiamento era rimasto? Poteva sacrificare tutto per la causa, qualunque essa fosse?
Sì. La risposta era sì.
La sua vita non aveva scopo se non combattere. Da quando era giovane la sua unica e sola possibilità era stata Alicanto. Non poteva tornare dal fantasma di sua madre e dalla sua sorella alcolizzata, in quella casa fatiscente nel Bassoborgo che non aveva mai imparato a considerare tale.
Se c’era bisogno delle Nanomacchine per combattere, le avrebbe usate. Dopotutto, da quando aveva firmato il proprio arruolamento, nemmeno la propria vita gli apparteneva più. Era tutto proprietà dell’Esercito.
L’istruttore posò delicatamente la fialetta all’interno della valigetta in metallo, richiudendola e restituendola al sottoposto con il camice. Prese un gesso poi e, puntandolo contro la lavagna, osservò la ventina di persona presenti con un lieve sogghigno.
« Avete tre settimane per imparare tutto ciò che c’è da sapere sull’uso tecnico e tattico delle Nanomacchine » disse: « quindi, cominciamo ».
 
 

***

 
 
Fu la tromba dell’adunata a svegliare John di soprassalto quella stessa notte, provocandogli una scarica d’adrenalina non indifferente e uno spavento più che altro dovuto alla fase REM bruscamente interrotta.
Subito, la mente corse al peggio. Una breccia nelle mura. Un fuggitivo di Londra che i Corvi non erano riusciti a fermare. Una fuga di Nanomacchine dai laboratori. Respirò velocemente cercando di capire cosa stesse succedendo ma finché rimaneva da solo, nella camerata da dieci ora vuota tranne che per le sue cose, non poteva saperlo. Le imposte erano chiuse e la stanza era immersa nel buio se non per la luce nel corridoio che filtrava da sotto la porta.
Quando finalmente trovò la prestanza di spirito per capire almeno cosa dovesse fare, saltò giù dalla branda e si infilò la divisa alla bene e meglio, caricando la pistola d’ordinanza – una Browning L9A1 che veniva consegnata a tutti i soldati già diplomati – e infilandosela nella cintola. Uscì poi dalla stanza a passo svelto, unendosi ai coetanei e ai cadetti degli anni inferiori nell’aula magna dell’istituto.
Lì si infilò in una delle file più alte, affiancando Sherlock Holmes che era già presente e in attesa. Sembrava, a dispetto di tutti gli altri che mostravano ancora i residui del sonno, che il ragazzo non avesse nemmeno toccato il letto.
Lo salutò con un cenno del capo e quello rispose con il medesimo gesto. Non parlarono, rimanendo ognuno chiuso nel proprio silenzio, ma non poterono fare a meno di lanciarsi vicendevolmente piccole occhiate con la coda dell’occhio.
Da vicino dava un’impressione diversa. Aveva sempre quell’aria di superiorità che aveva percepito anche nella voce, forse dovuta all’intelligenza spropositata di cui Mike gli aveva parlato quel giorno a colazione, ma oltre tutto quello, oltre la corte della sua malcelata inavvicinabilità, era... un ragazzo. Occhi azzurri che sembravano non avere mai la stessa sfumatura, capelli ricci e neri, pelle chiara. Aveva l’aria da nobile ma qualcosa negli occhi, nello sguardo che vagava da un punto all’altro della sala e da una persona all’altra senza sosta, gli diceva che non era cresciuto nella bambagia. Ovviamente senza contare la parte del suo passato che era di dominio pubblico.
Quando si accorse che i loro sguardi si erano incrociati, e si stavano guardando già da un paio di secondi, John poté fingere che fosse casuale. Dovette pensare in fretta a come rimediare a quella figuraccia così, girandosi verso di lui, gli tese la mano. « Non ci siamo presentati » disse: « John Watson ».
Holmes attese un istante, assottigliando gli occhi nell’osservarlo, ma alla fine afferrò la sua mano. « Sherlock Holmes » si presentò. « “Sherlock” va bene » aggiunse.
« Allora è “John” » rispose lui. « Sai qualcosa riguardo a quest’adunata nel cuore della notte? ».
Sherlock negò con il capo. « Posso solo ipotizzare che sia successo qualcosa di sufficientemente grave da riunire tutti gli studenti ma non abbastanza da dare l’allarme evacuazione. Dunque è qualcosa di interno all’Accademia » disse.
John annuì. Stava per aggiungere qualcosa – forse per fare un’altra domanda giusto per non far cadere uno strano silenzio fra loro – ma venne interrotto dal Comandante dell’Accademia, tutto impettito e con il volto inamidato in una maschera severa.
Si misero tutti sull’attenti. Quando arrivò alla cattedra e si impadronì del microfono, diede il riposo e tutti si misero con le gambe leggermente divaricate e la braccia incrociate dietro la schiena.
Il Comandante non salutò. Il suo tono di voce risultò freddo e duro quando parlò, solcato da un’ira repressa malamente e da una preoccupazione che non riusciva del tutto a dissimulare.
« La farò breve » cominciò: « questa sera è scomparsa una fiala di Nanomacchine dal laboratorio dell’Accademia. Siamo sicuri che non è uscita dall’istituto ma non abbiamo la minima idea di chi sia il colpevole. Cosa che scopriremo molto presto » disse.
John aggrottò lievemente un sopracciglio, cercando di capire le implicazioni di ciò che il Comandante stava dicendo. Pensò per un attimo ad una esercitazione surreale ma le espressioni dei vari Istruttori al suo fianco, serie e dure a loro volta, non lasciavano spazio a dubbi. Era tutto vero.
Qualcuno aveva rubato all’Accademia e non una cosa qualsiasi: una provetta piena di Nanomacchine.
Solo il Dio in cui aveva smesso di credere poteva sapere cosa una persona esterna all’Esercito – e non solo, a quel specifico ramo dell’Esercito – avrebbe potuto fare con una tecnologia simile.
In cosa si sarebbe potuto trasformare. A quale disastro avrebbe dato il via.
« In questo preciso istante i responsabili dei dormitori stanno perquisendo le camere e i vostri armadietti. Se qualcuno di voi è colpevole è meglio che lo diciate subito, perché altrimenti la pena sarà aggravata dal vostro silenzio » disse.
« Come se non fosse severa ugualmente... » borbottò a bassa voce John. Non era sua intenzione ma non riuscì esattamente ad impedirselo.
Al suo fianco, Sherlock schioccò le labbra. « È stato il responsabile di laboratorio » disse.
John inarcò le sopracciglia. « Cosa? Come...? ».
« L’atteggiamento » cominciò a spiegare Holmes a bassa voce, indicando il diretto interessato in piedi a poca distanza dal Comandante. John si rese conto che era la stessa persona che quella mattina aveva consegnato la valigetta in metallo con dentro una fiala di Nanomacchine all’istruttore che aveva fatto loro lezione.
Holmes continuò. « È da quando ha messo piede nella stanza che continua a guardarsi intorno, direi che sembra nervoso. Il camice è stropicciato sulle maniche, quasi come se avesse dovuto risvoltarle o si siano sollevate oltre i gomiti, e in un laboratorio come quello dell’Accademia è possibile solamente quando si maneggiano le Nanomacchine da dietro il vetro protettivo, in cui è necessario infilare mani e braccia in appositi guanti. Le sue scarpe sono perfettamente pulite, il che significa che non è uscito all’esterno della struttura, dato che piove ormai da qualche ora e si sarebbero per lo meno schizzate, ergo non è andato a casa nonostante non abiti all’interno dell’Accademia ed entra ed esca usando un pass speciale fornitogli dal governo. Questo è un salto nel buio ma oggi a lezione ho notato delle occhiaie sotto ai suoi occhi, segno che non dorme molto e non riposa bene, ma per cosa? Potrebbe essere qualsiasi cosa, problemi in famiglia o sul lavoro, ma chi avendo problemi in famiglia non torna a casa dopo l’orario di lavoro? Questo mo porta a pensare che sia stato lui a rubare il campione e non sia ancora riuscito a trasportarlo all’esterno a causa dell’allarme generale. Se le mie deduzioni sono corrette, e la maggior parte delle volte lo sono, tenterà di uscire dalla porta di rifornimento delle cucine, ovviamente chiuse a quest’ora della notte, ma procurarsi le chiavi è sufficientemente facile quando si ha una relazione con l’addetto alla portineria, consumata di solito nella loro comune pausa caffè in uno degli sgabuzzini al primo piano. E considerando che ha una striscia di vernice bianca sotto al lobo dell’orecchio, suppongo che l’incontro della serata sia già avvenuto, e dunque abbia già le chiavi che gli servono. Basta intercettarlo e coglierlo sul fatto con la fiala fra le mani » disse.
John era completamente sbalordito. Socchiuse le labbra senza accorgersene, girando il capo in direzione del moro che stava ancora guardando dritto davanti a sé, come la posizione di riposo davanti ad un ufficiale comandante prevedeva. Corresse la postura giusto in tempo per non essere visto ma non poté fare a meno di esprimere la propria sorpresa.
« È stato stupefacente » disse.
Holmes sembrò interdetto. « Davvero? ».
« Sì, assolutamente. Fantastico » commentò di nuovo John.
« Non è quello che mi dicono di solito » rispose Sherlock.
« Perché, cosa ti dicono di solito? ».
« “Fottiti” ».
John dovette fare attenzione a non ridere nel perfetto silenzio della sala, sormontato solo dalla voce del Comandante che continuava la sua prolissa lista di punizioni a cui sarebbero incorsi se non si fosse trovato il colpevole in nottata.
Gli sembrò che anche Holmes avesse piegato l’angolo delle labbra in un sorrisetto ma con il volto dritto avanti a sé era difficile capire se lo avesse fatto davvero o se lo fosse solo immaginato.
« Dovresti dirlo, allora » cominciò poi John: « se sei sicuro dovresti farti avanti e mettere fine a questa storia ».
« È una pessima idea » rispose però l’altro. « Come faresti a spiegare le mie supposizioni? Non sono del tutto avvalorate da prove certe, per il momento, e in ogni caso le alte gerarchie dell’esercito tendono a proteggersi fra loro piuttosto che valutare seriamente l’accusa di un cadetto. Si rigirerebbero la mia accusa sul mignolo per rivoltarmela contro e non credo che basti dire l’oro che l’ho dedotto quando mi chiederanno da che basi muovo l’accusa contro il responsabile del laboratorio. No... andrò nelle cucine e lo intercetterò. Quando lo prenderò con le mani nel sacco saranno più propensi a credermi » disse.
In effetti non aveva tutti i torti, ma quel suo piano era da pazzi. Incontrare un potenziale ladro di Nanomacchine da solo, di notte, con il rischio che possa essere armato? Nelle cucine poi, che non forniscono alcuna via di fuga se non la porta d’entrata e quella – chiusa fino a prova contraria – dei rifornimenti alimentari? E poi come avrebbe spiegato il suo trovarsi lì se le cose fossero andate storte?
« È rischioso » si sentì in dovere di dirgli.
« Correrò il rischio » rispose però l’altro.
John lo guardò con insistenza. « È così che ti diverti, non è vero? Rischi la tua incolumità pur di dimostrare che sei intelligente » disse.
Ma Sherlock non rispose, limitandosi a seguire le ultime parole del Comandante e mettendosi sull’attenti al suo ordine. Avevano completato le perquisizioni e non era emerso niente, dunque erano liberi di tornare in branda.
 
 
Nel ritornare in camera – dopo essere passati per una accurata perquisizione corporale – le parole di Sherlock Holmes non volevano sparire dalla sua mente.
Aveva detto che lo avrebbe incrociato nelle cucine e aveva tutta l’intenzione di farlo in nottata, se lo sentiva – l’espressione era quella.
Era rischioso su molti livelli, prima di tutto se qualcosa fosse andato storto. Cosa sarebbe successo se lo scienziato non ci fosse andato? Se non fosse stato lui e Holmes si fosse sbagliato? Lo avrebbero trovato fuori dalla camerata dopo il coprifuoco e l’Esercito non era particolarmente gradevole o riverente nei confronti delle persone trovate fuori dalle brande fuori dall’orario consentito.
Poteva essere punito. Anzi, poteva essere espulso dal corso avanzato.
Si rendeva conto a cosa stava andando incontro?
Senza nemmeno accorgersene, si ritrovò fermo in piedi nel bel mezzo del corridoio deserto. Tutti i suoi commilitoni erano già rientrati in stanza e lui, perso nei suoi pensieri, era rimasto solo.
Sentiva l’arma contro la schiena, ben trattenuta dalla cintola. Pochi diplomati la indossavano in accademia ma lui aveva deciso di farlo non appena avesse avuto la possibilità per abituarsi al peso e alla sensazione. Era carica, pensò con lo sguardo basso sulla piastrelle bianche del pavimento, carica e pronta al fuoco.
L’istinto gli stava urlando di andare. Di dirigersi verso le cucine per... controllare che tutto andasse bene, che Sherlock Holmes non rischiasse il grado (o il collo).
Chiedersi perché fu il passo successivo.
Perché mettere a rischio a sua volta la sua carriera per lui? Per un Holmes? Per quegli Holmes?
Il padre si Sherlock era stato responsabile dell’Alba d’Argento. Aveva condannato a morte un quarto della popolazione londinese. Aveva ucciso suo padre.
Prese un profondo respiro e cercò di fare ordine all’interno della propria mente divorata dal dubbio.
Non gli doveva niente.
Ma avrebbe salvato qualsiasi suo commilitone se si fosse trovato in difficoltà. Non era il significato base dell’Ordine dei Medici? Aiutare il prossimo?
Tuttavia, per un Holmes avrebbe fatto un’eccezione.
Lo avrebbe lasciato morire?
Sì, John– disse una voce nella sua testa – lo lasceresti morire.
No– le rispose lui – io non sono un mostro.
Si voltò, all’improvviso, ritornando sui suoi passi. Poi aumentò il passo, camminando velocemente e a grandi falcate fino a che non si mise a correre, sfrecciando per i corridoi vuoti e scendendo le rampe di scale per tre piani fino al pian terreno.
Oltrepassò l’atrio, altri corridoi, poi la mensa buia. Scavalcò il bancone che si stava preparando ad ospitare la colazione senza farsi notare dall’addetto alle pulizie che puliva i vassoi e disponeva le posate in una catasta ordinata e sgusciò oltre, seguendo il corridoio oltre i banconi in direzione dell’uscita d’emergenza che imboccò con uno spintone.
Fuori l’aria era fredda e la notte stava pian piano trasformandosi in alba. Soffiò fuori un rivolo d’aria e il suo respiro si condensò davanti a lui.
Estrasse la pistola dalla cintola e, facendo attenzione che non ci fosse nessuno in vista, camminò attiguo al muro e fece il giro di quell’angolo dell’edificio, arrivando alle finestre delle cucine.
Erano tutte chiuse ma si poteva tranquillamente vedere facilmente l’interno, anche perché c’era una singola luce accesa: una di quelle lucette gialle incorporate alla cappa di un fornello per poter osservare meglio le pentole.
L’alone chiaro di quella luce insperata illuminava due persone.
Una era indubbiamente Sherlock Holmes. Era di spalle ma ne riconosceva i capelli ricci e la postura dritta del fisico esile. L’altro, a quanto sembrava, era il responsabile del laboratorio e portava con sé una piccola valigetta in metallo il cui contenuto non era difficile da intuire.
Holmes aveva ragione. Era lui il ladro.
Strinse meglio la presa sulla pistola e ne tolse la sicura. Da quella posizione la visuale di tiro non era delle migliori, senza considerare che il vetro avrebbe potuto deviare il colpo, così si piegò sulle ginocchia e procedette silenziosamente in avanti, arrivando quasi dietro ad Holmes, spostato di qualche grado in modo da avere una visuale buona di tiro sul ladro. Non sembrava armato ma non poteva vedere l’altra mano, dunque non poteva saperlo.
Rimanendo con gli occhi a filo del davanzale, John tolse la sicura dalla propria arma e provò a leggere il labiale per capire cosa si stessero dicendo i due uomini all’interno delle cucine, in piedi in mezzo ad una fila di fornelli. Forse Holmes stava guadagnando tempo conscio che i preparativi per la colazione sarebbero cominciati poco dopo l’alba, ma l’altro continuava a lanciare occhiate verso la porta di rifornimento merci e sembrava desideroso di andarsene.
Poi, successe tutto in un attimo.
Per John, abituato al tiro dinamico, fu come se il movimento dello scienziato fosse estremamente lento.
Il balzo all’indietro, la valigetta che cadeva a terra, la mano portata dietro la schiena a raggiungere quella che doveva essere per forza un’arma, probabilmente un coltello.
Holmes era disarmato. Lo vedeva. Non c’erano segni d’armi sotto la divisa né dietro la schiena né al fianco.
John strinse forte la pistola fra le mani, il dito già sul grilletto, il ginocchio che si appoggiava a terra per arrogarsi una posizione di tiro valida e ferma, gli occhi che già correvano alle tacche di mira sulla canna dell’arma.
Lui ha ucciso tuo padre! – gridò una voce nella sua testa.
No. Non è stato lui– fu la sua muta risposta e premette il grilletto.
Il colpo squarciò l’aria come un tuono a ciel sereno.
John non aspettò di vedere il corpo dello scienziato crollare a terra con un proiettile conficcato vicino al cuore, così come non attese che il vetro della finestra, completamente infranto a causa della vicinanza del colpo, crollasse del tutto a terra. Scattò in direzione dell’angolo più vicino pregando che Sherlock non si voltasse e non lo vedesse, nascondendosi dietro al muro giusto in tempo, dato che lo stesso Sherlock si affacciò dall’intelaiatura vuota per cercare di vedere chi gli aveva salvato la vita.
John lo vide con la coda dell’occhio guardarsi intorno un paio di volte poi, quando le luci cominciarono ad accendersi, lo notò rientrare. Probabilmente avrebbe avuto molte cose da spiegare ai superiori, quando sarebbero venuti a conoscenza di questa storia.
Con il cuore ancora in gola, John tornò sui suoi passi e rientrò nell’edificio diretto verso la propria camerata.
E sperò con tutto il cuore che, per vederci chiaro, l’Alto Comando non decidesse di perquisire di nuovo gli studenti in cerca del proiettile mancante che ora era conficcato nell’arteria succlavia di un ladro morente.
 
 
Poche ore dopo, quando ormai il sole era alto e tutti gli studenti riuniti in una mensa rumorosa più del solito, John si alzò dal tavolo e portò il vassoio vuoto della colazione al bancone.
Tutti gli studenti non facevano altro che parlare dello sparo e del ladro finalmente trovato, di Sherlock Holmes e di come l’avesse incastrato, così come discutevano animatamente della decisione dell’Alto Comando di ritirare tutti i caricatori e i colpi ai diplomati per vedere chi avesse sparato, dato che nessuno degli ufficiali, sottoufficiali ed istruttori era coinvolto in quella strana faccenda.
John aveva mangiato con la gola chiusa.
Lo avrebbero scoperto, probabilmente. E non l’avrebbe passata liscia. Anche se la motivazione era ottima – salvare una vita e fermare un ladro – aveva comunque ucciso un uomo su suolo cittadino, per giunta militare essendo l’Accademia, utilizzando un’arma da fuoco senza autorizzazione e in presenza di materiale altamente pericoloso (dato che poteva inavvertitamente colpire la valigetta contenente le Nanomacchine).
Lo avrebbero cacciato dal corso speciale. Anzi, peggio, forse lo avrebbero addirittura congedato e interdetto dall’Accademia. L’Esercito non stava a guardare al fine, in queste cose, ma solo al mezzo e a quante regole venivano infrante nel mentre.
Era condannato.
Deglutì un principio di nausea mentre, stoicamente, attraversava la porta della mensa e si apprestava a percorrere il corridoio per tornare alla propria camerata a prendere caricatori e pallottole per consegnarle in armeria.
Fu lì che incontrò Sherlock Holmes.
Camminava nella direzione opposta alla sua, divisa impeccabile e stemma della rosa blu al petto, occhi puntati su di lui come se lo stesse scannerizzando per carpire ogni suo minimo segreto.
John gli rivolse solo un cenno del capo come saluto. Ma Sherlock non rispose.
Anzi, preferì avvicinarglisi, cambiando la traiettoria sulla quale stava camminando e passandogli accanto. Gli sfiorò la spalla con la sua e, discretamente, gli fece scivolare qualcosa in mano.
« Bel colpo » disse, timbro profondo, senza guardarlo o esprimere alcuna emozione.
Watson non rispose e non smise di camminare. Non alzò o mosse la mano ora stretta attorno al piccolo oggetto che Holmes gli aveva premuto contro il palmo con dita fredde in modo che lo afferrasse saldamente senza lasciarlo cadere.
Non ne aveva bisogno. Sapeva riconoscere un proiettile al tatto.
 
 

***

 
 
Tre settimane passarono velocemente e altrettanto in fretta arrivò il giorno dell’impianto.
Quella mattina, John si presentò davanti alla sezione scientifica alle otto in punto (così’ come gli era stato ordinato) indossando solo la tenuta da campo: una maglietta grigia e pantaloni lunghi sportivi del medesimo colore.
Ad attendere in corridoio vi erano quasi tutti i membri del corso speciale, compresi quelli che già conosceva perché indicatigli da Mike quasi un mese prima.
Sebastian Moran e James Moriarty – che diceva sempre a tutti di chiamarlo Jim con un sorriso che John non poteva descrivere se non con il termine “viscido” – stavano uno di fianco all’altro appoggiati al muro direttamente davanti alle porte dell’ascensore. Jim parlava e Sebastian si limitava ad ascoltare ed annuire.
Quasi la stessa cosa succedeva poco distante, dove Sherlock e Irene Adler sembravano impegnati in una conversazione disinteressata. Ancora più in là, seduto a terra, Greg Lestrade stava guardando Sherlock come se dovesse proteggerlo con gli occhi dalla semplice presenza della Adler mentre, dal lato opposto del gruppo, Molly Hooper guardava a sua volta Sherlock ma con una gelosia timorosa in fondo agli occhi.
John si appoggiò alla parete con un sospiro, in attesa.
Era dall’inizio di quel corso di abilitazione che aveva cominciato a pensare a chi gli sarebbe piaciuto avere in squadra con sé, se fosse stato ammesso ad Alicanto.
Le formazioni di Alicanto procedevano per squadre da tre: un Condottiero in carica della prima linea e alla guida della squadra, un Medico (di solito armato) che si occupava della linea difensiva, e uno Stratega nelle retrovie, il cervello del gruppo, elaboratore di tutte le strategie operative.
Ovviamente i tre membri dovevano provenire dai rispettivi Ordini e la scelta era ampia, in quel caso, dato che erano un gruppo misto in modo omogeneo. Non gli sarebbe dispiaciuto essere in squadra con Lestrade, dato che si era dimostrato un buon commilitone durante le lezioni teoriche, ma se c’era qualcuno che avrebbe preferito evitare come la peste, quel qualcuno era Irene Adler.
E James Moriarty. Per quanto non gli avesse fatto niente di personale, il suo sguardo faceva pungere il suo istinto di protezione verso se stesso, una cosa che non apprezzava.
Non sapeva cosa pensare di Sherlock Holmes. Non sembrava un cattivo ragazzo, assolutamente, e lo diceva nonostante il suo pregiudizio interiore verso la famiglia Holmes che ancora si faceva sentire, ma continuava ad essere il più chiuso e solitario di tutti e, tra l’altro, dopo il caso del ladro non si erano nemmeno più rivolti la parola. Non riusciva a capire se lo facesse apposta o semplicemente non gli interessasse.
Stava per incrociare il suo sguardo quando le porte dell’ascensore si aprirono, rivelando un ufficiale con camice e mascherina bianca sulla bocca. « Seguitemi » disse semplicemente, voltandosi e facendoli entrare tutti nell’ascensore (abbastanza grande da contenere tutti loro e anche qualcuno in più).
In silenzio, tutti i cadetti lo seguirono.
L’ascensore scese in silenzio, oltrepassando probabilmente tre piani interrati, fino ad aprirsi in quella che aveva tutta l’aria di essere un’anticamera spogliatoio. File di armadietti in metallo occupavano entrambe le pareti e le piastrelle del pavimento erano bianche e ruvide come quelle di una piscina.
« Spogliatevi di tutto quello che avete e disponetevi su quattro file da cinque individui » venne loro ordinato.
Ai soldati non doveva dare fastidio la nudità, né essere elemento d’imbarazzo. Capitava spesso di condividere le docce con il sesso opposto, soprattutto dopo le esercitazioni pratiche all’esterno, e anche se i dormitori maschili e femminili erano separati e ai due lati opposti dell’istituto, stare l’uno davanti all’altra senza alcun tipo di vestito non doveva essere elemento di disturbo. Oppure, se effettivamente l’imbarazzo c’era, era compito del soldato dissimularlo.
Il trucco era semplice in realtà: occhi fissi davanti a sé e mente sgombra. Era meglio non focalizzarsi sul seno quasi perfetto di Irene Adler, anche se lei sembrava divertirsi un mondo a restare nuda in un gruppo in prevalenza maschile.
John si spogliò in fretta, ripiegando i suoi abiti alla meno peggio e mettendosi in una delle file centrali. Lo spazio fra una parete e l’altra era largo a sufficienza per ospitare quattro file spalla-a-spalla.
Quando furono pronti, una seconda porta automatica di vetro si aprì davanti a loro e vennero fatti entrare in quella che aveva tutta l’aria di essere una camera di decontaminazione.
Rimasero fermi immobili mentre quattro scienziati in tuta bianca e mascherina passavano fra di loro e verificavano i loro codici con un verificatore laser, a cui associarono la solita domanda ( « Codice personale? » « Alfa-Charlie-1-2-5-6-9-Zulu » ). Una volta terminata la verifica, ordinarono loro di divaricare le gambe e aprire le braccia poi lasciarono la stanza, che si sigillò a tenuta stagna.
Venne spruzzato loro addosso una sorta di getto di vapore freddo e dall’odore vagamente simile al talco, che fece starnutire molti di loro. Poi furono investiti da un getto d’aria calda molto forte e infine, indicato da una fastidiosa luce verde lampeggiante, il processo di disinfezione fu terminato.
Aprirono le porte e furono guidati all’interno di una stanza circolare dalle pareti bianche piena di capsule. Somigliavano vagamente a capsule criogeniche; una sorta di bozzoli di metallo sormontati da ante ricurve in vetro ora aperte, ma che di sicuro li sigillava perfettamente una volta chiuse. Alle pareti subito dietro erano collegati, con fili di diversi colori e spessori, monitor a ologramma per monitorare le funzioni vitali degli ospitati.
Avanzarono di qualche passo e si fermarono in attesa di essere chiamati. Nella camera vi erano almeno quattro tecnici e dieci infermieri qualificati, compresi i due scienziati in camice che stavano caricando nei bozzoli fiale e fiale di Nanomacchine color verde pallido della consistenza del mercurio.
Con un profondo sospiro, John distolse lo sguardo.
Finalmente, una voce maschile chiamò il suo nome. Fu indirizzato verso la capsula numero 9 dove un’infermiera gli fece segno, senza dire nulla, di coricarsi dentro lo strano bozzolo di metallo e fili. L’interno era rivestito di una sorta di gommapiuma traspirante color beije.
John vi si adagiò e subito le mani dell’infermiera cominciarono ad attaccare sul suo petto gli elettrodi per il monitoraggio cardiaco. Gli fu fatta un’endovena di fisiologica e gli fu inserito un secondo catetere intravenoso per la successiva somministrazione di nutrienti. Un terzo catetere, quello più fastidioso, gli venne inserito per le sostanze di scarto che il suo organismo avrebbe prodotto nelle successive 24 ore di sonno.
Una volta terminato, l’infermiera gli attaccò con mani delicate due elettrodi sulle tempie, sorridendogli da dietro la mascherina. « Fra pochi istanti la capsula si chiuderà automaticamente e le verrà iniettato in vena un cocktail di barbiturici, cadetto Watson » disse: « dovrebbe addormentarsi nel giro di un minuto. Quando si risveglierà l’operazione sarà già finita ma avrà in corpo degli antidolorifici, dunque non sentirà dolore. Va bene? ».
Watson annuì.
« Le auguro un buon riposo » disse quella e, scostandosi dalla sua visuale, andò ad occuparsi di qualcun altro.
Non ci volle molto perché il segnale di chiusura fosse dato e la capsula si richiudesse con un lieve rumore idraulico. John guardò il soffitto circolare per l’ultima volta prima di sentirsi le palpebre pesanti. Si addormentò senza pensare a niente.
 
 
 
 
 
 
 
 
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1 – Il Crystal Palace (Palazzo di Cristallo) era una struttura costruita a Londra nel 1851 per ospitare la prima Esposizione Mondiale (EXPO). Fu installato prima ad Hyde Park per poi essere smontato e ricostruito a Sydenham Hill nel 1852. Venne distrutto da un incendio nel 1936.
Quindi no, il nome della città non è relativo alla Crystal Tokyo di Sailor Moon XD
 
2 – Sono tutte creature provenienti da diverse mitologie.
Il Barghest proviene dalla mitologia medievale germanica ed è la versione spettrale di un lupo. Secondo la leggenda perseguita chi in vita ha commesso crimini di grave entità.
L’ Ifritderiva dal folklore arabo ed è un tipo di Djinn (Genio) che comanda il fuoco. Vengono raffigurati come uomini molto avvenenti e si credono superiori alla razza umana.
L’Alicanto invece proviene dalla mitologia peruviana ed è un uccello incapace di volare che cambia il colore del proprio piumaggio in base ai metalli che mangia (di solito oro e argento).
Huginn(e Muninn) sono due corvi presenti nella mitologia norrena associati al dio Odino. Huginn significa “pensiero” mentre Muninn significa “memoria”.

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Capitolo 3
*** Hic et Nunc ***


La scena dei gessetti è palesemente ispirata a Naruto.
Buona lettura a chi vorrà ♥
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_____Tre_____
HIC ET NUNC

 
 
 
 
 
Si risvegliò con il rumore del proprio respiro nelle orecchie.
Era un suono famigliare ma al contempo strano. Come un rimbombo. Gli ricordava quando da piccolo si era addormentato nella cassapanca mentre giocava a nascondino con suo padre e sua sorella e i suoi respiri profondi nel dormiveglia risuonavano diversamente, cupi e chiusi. Era la stessa sensazione.
Aprì gli occhi e li sbatté un paio di volte. Una luce bianca illuminava un soffitto circolare dall’altra parte di una cupola di vetro attraverso cui stava guardando.
Fu abbastanza per ricordare dove si trovasse.
La capsula di installazione delle Nanomacchine. Ora riconosceva il soffitto della sezione scientifica sotterranea in cui era stato portato insieme a tutti gli altri. Se tutto era andato per il verso giusto, dovevano essere passate ormai 24 ore.
Tentò di concentrarsi sul proprio corpo. A parte per gli aghi in endovena e per gli elettrodi attaccati su petto e tempie, non si sentiva diverso dal solito. Certo, sapeva di essere sotto antidolorifici e appena uscito dall’anestesia, ma avvertiva le sue gambe così com’erano prima dell’installazione: la stessa identica sensazione di avere entrambi i membri attaccati al corpo, niente di più.
Che fosse andato storto qualcosa? Che in realtà fosse passato molto meno tempo e l’installazione non fosse affatto avvenuta? Poteva succedere? Certo che poteva. Ma era successo?
Mosse la testa il più possibile – poco – alla ricerca di un pulsante o di un interfono per chiamare l’infermiera, o comunque gli addetti al processo a cui si stavano sottoponendo, ma non trovò nulla. Proprio quando stava per muovere le braccia e provare a bussare sul vetro della capsula, il volto dell’infermiera che lo aveva aiutato ad entrare apparve sopra di lui.
Lei gli fece segno di aspettare e John rimase fermo. La capsula di vetro si aprì con un rumore idraulico e il sorriso della donna fu in un qualche modo incoraggiante e consolatorio.
« Non la aspettavamo sveglio così presto, cadetto Watson » disse lei, cominciando con mani delicate a rimuovergli aghi ed elettrodi.
« Quanto tempo è passato? » chiese John, aspettando pazientemente che la donna facesse il suo lavoro.
« Venti ore » gli rispose. « È in anticipo di quattro ore, cadetto ».
John aggrottò le sopracciglia, preoccupato. « Ed è una cosa... voglio dire, è normale? ».
« Beh, non è mai successo... » rispose lei sinceramente, rimuovendogli con cura l’ultima flebo e spostandosi per far sì che si alzasse: « ma ora la manderemo dal medico e potrà fare a lui tutte le domande del caso » disse.
John annuì, alzandosi in piedi senza nessuna difficoltà. Anche nel movimento le sue gambe non sembravano diverse, né più pesanti né più leggere del solito, e l’unica cosa che differiva dal normale erano alcuni punti rossi sulla pelle, dove probabilmente degli aghi avevano iniettato le Nanomacchine nei suoi muscoli.
L’infermiera gli passò un accappatoio bianco che lui infilò ed allacciò bene, poi lo guidò attraverso la stanza fino ad una porta a vetri automatica che dava su un corridoio ugualmente bianco. Tutte le altre capsule erano ancora chiuse e lui, a quanto pareva, era l’unico già sveglio.
Rimase in silenzio mentre veniva guidato, a piedi scalzi sul pavimento di piastrelle bianche e fredde, verso una porta altrettanto bianca con una targhetta in metallo che recava inciso “studio medico 2”. L’infermiera bussò alla porta e la aprì quando una voce, dall’altra parte, gli diede il permesso di farlo.
« Dottor Nash, le ho portato il primo cadetto » disse lei.
« Fallo entrare » rispose una voce seria e profonda dall’altra parte, dal tipico stampo militare, e John capì ancora prima di varcare la soglia che la parentesi di gentilezza che quella particolare infermiera gli aveva riservato sarebbe terminata in pochi istanti. Stava per rituffarsi nel rigore della vita militare.
Fece un cenno con il capo alla donna prima di entrare e sentire la porta che si richiudeva alle sue spalle.
Lo studio medico era essenziale, con una scrivania e un lettino, pareti bianche e solo una libreria in metallo con alcuni volumi medici (volumi che anche lui conosceva).
Il medico aveva una corporatura snella nascosta dal camice, i capelli neri e corti e gli occhi di un verde particolare e brillante. Indossava un paio di occhiali da vista dalle lenti sottili e l’unica cosa che rivelava la sua vera età era una spruzzata di grigio sulle tempie.
In piedi davanti alla scrivania, John si presentò. « Cadetto John Watson, Alfa-Charlie-1-2-5-6-9-Zulu » pronunciò chiaramente.
« Benvenuto, cadetto. Si stenda sul lettino » disse subito, senza perdere tempo ed indicandogli il lettino medico a lato della stanza.
John fece come gli venne detto, arrampicandosi sul lettino di plastica imbottita. Si distese con un sospiro, osservando con ansia uno dei neon che illuminavano l’ambiente.
Il medico gli si avvicinò in silenzio, sollevandogli i lembi inferiori dell’accappatoio per scoprire le gambe nella loro interezza. Inforcò un paio di occhiali dalle lenti spesse e, con mani coperte da guanti di lattice, cominciò ad osservare da vicino i segni rossi delle punture.
Ne aveva sei per gamba e il medico li visitò tutti accuratamente. Ovviamente lui non aveva sentito alcun ago e alcun dolore, dato che dormiva, ma già gli sembrava di avvertire le proprie membra diverse, leggere e pesanti al contempo, come se i propri muscoli stessero ancora cambiando e modificandosi, tendendosi e rilassandosi in micro scosse di energia. Ma poteva anche essere la sua immaginazione.
« Bene » disse alla fine, risollevandosi dalla puntura sulla sua caviglia destra. « Le iniezioni sono avvenute regolarmente, tutto normale. Ora rimanga fermo » disse.
John non si mosse mentre il dottore afferrava un apparecchio nero e piccolo, con uno schermo sottile, e lo accendeva. Lo passò piano sulla linea della sue gambe, osservandolo con attenzione e, di nuovo, solo quando arrivò alla fine lo spense e gli rivolse lo sguardo.
« Tutto nella norma » disse.
John trattenne un respiro di sollievo mentre quello continuava.
« Il fatto che lei abbia terminato il processo prima degli altri può dipendere da un fatto fisiologico di adattamento all’anestesia. Il processo di installazione delle Nanomacchine avviene normalmente in dodici ore, le altre dodici vengono aggiunte per la completa assimilazione al tessuto muscolare » spiegò. « Temevo che qualcosa fosse andato storto ma avevo torto, lei sta benissimo ».
John annuì, mettendosi seduto.
« Ora, le raccomandazioni » riprese il medico, tornando a sedersi alla propria scrivania e aggiornando contemporaneamente un file al computer (il suo file personale, intuì John, in cui veniva appuntata la sua vita minuto per minuto): « starà bene per ancora poche ore poi comincerà a sentire dei dolori. Purtroppo le è vietato prendere antidolorifici o qualsiasi altra sostanza per un periodo di tempo pari a quindici ore, così come le è vietato mangiare o bere qualcosa che non sia acqua minerale, cadetto. Mi raccomando. Un errore potrebbe compromettere il processo di fissazione delle Nanomacchine al muscoli » disse.
John annuì di nuovo, silenzioso.
« Saranno dolori molto forti. Molti cadetti faticano ad arrivare alla fine del lasso di tempo necessario ma si renderà conto che, non appena passate le quindici ore, il dolore comincerà a calare esponenzialmente. Entro la giornata di dopodomani starà benissimo. Al contempo, la sua pelle comincerà a cambiare. Hanno programmato le Nanomacchine che le abbiamo inserito con un componente cromatico che creerà sulle sue gambe quello che in gergo viene chiamato “il Fiore”: è una lunga striscia di colore verde chiaro che va dalla caviglia alla coscia, dove si divide in piccole virgole di disposte a raggiera sull’estremità più alta. Proprio come un fiore stilizzato. È una reazione normalissima dell’epidermide; il Fiore si forma solo quando il processo è terminato correttamente » gli spiegò.
John annuì per l’ennesima volta. Aveva molte più domande ma non credeva che avrebbero trovato risposta. Ormai si era stancato di fare domande, in quell’accademia, dato che ogni volta gli veniva fornita una risposta vaga o addirittura non ne otteneva affatto.
« Se è tutto chiaro, può tornare nella sua stanza, cadetto Watson » disse infine il medico.
« Grazie, signore » rispose John, sbattendo i tacchi e uscendo dalla porta. Nessun altro si era svegliato, a parte lui, dunque il corridoio era immerso in un silenzio ronzante.
John sospirò e, a passo lento, si diresse piano verso la camera a lui assegnata.
 
 
Il dolore era insopportabile.
Sembrava che le sue gambe stessero bruciando, oppure si stessero corrodendo a causa di un acido. Ogni centimetro di pelle, ogni muscolo, ogni tendine, ogni cartilagine, ogni osso, ogni singola cellula sembrava penetrata da chiodi affilati conficcati da un sadico aguzzino armato di martello e sorrisetto ghignante.
Era l’Inferno.
John aveva sempre avuto una resistenza molto alta al dolore, ma quello superava ogni tipo male che avesse mai sentito o provato. Scosse dolorose al punto da togliere il respiro lo lasciavano senza forze, ansimante, sul letto sfatto e dalle lenzuola bagnate di sudore; tutti i muscoli delle gambe si tendevano fino allo spasmo, che lui accompagnava con gemiti a denti stretti che cercava di non trasformare in pianto. Si sentiva accaldato, febbricitante, ed era come se tutta la parte inferiore del suo corpo fosse compressa in un tornio che roteava lentamente, spaccandogli ossa e membra.
Nei pochissimi minuti in cui riusciva a rimanere in silenzio sentiva le urla dei suoi colleghi provenire dal corridoio. Dopo l’inserzione delle Nanomacchine li avevano fatti trasferire in un edificio a parte, in stanze singole in cui avrebbero vissuto fino alla fine del corso speciale, e i gemiti di dolore degli altri cadetti che si erano sottoposti al trattamento oltrepassavano persino le spesse mura divisorie.
Molte volte John aveva pensato di andare nel locale docce e buttarsi sotto l’acqua fredda, per trovare refrigerio e un po’ di quel sollievo che non poteva trovare in nessun farmaco, ma solo il pensiero di appoggiare i piedi a terra e di alzarsi in piedi lo faceva tremare di paura. Le gambe facevano male già da steso, piegato in posizione fetale – come se potesse provare meno dolore – e non aveva la minima intenzione di alzarsi finché quell’ondata di malessere non fosse finalmente passata.
Si era preparato a tutto, ma non a quella situazione. C’erano istanti in cui gli sembrava di essere ripetutamente investito da un camion, avanti e indietro sulle sue gambe. Teneva la luce spenta perché la febbre gli aveva gonfiato e arrossato gli occhi, rendendolo fotosensibile, ma quella del corridoio era sempre accesa e filtrava da sotto la fessura della porta permettendogli di vedere almeno i contorni delle cose.
Ogni volta che le ondate di dolore diminuivano abbastanza per farlo respirare, o per lo meno girare sull’altro fianco, sperava che fossero passate ore. Invece erano passate forse qualche decina di minuti, o a volte mezz’ora, e il cielo dall’altra parte della finestra rimaneva sempre scuro.
Si sforzò a rimanere coperto e, stringendo convulsamente il lenzuolo fra le mani, lo morse con forza.
Cominciò a pregare che quelle quindici ore di dolore passassero il prima possibile.
 
 
 

***

 
 
 
La visita medica successiva diede risultati nella norma dunque, secondo lo statuto dell’Esercito di Crystal London, John fu ammesso alla parte pratica dell’addestramento.
Nella parte posteriore dell’accademia, oltre tutti gli edifici scolastici e i dormitori, era stato ricavato uno spazio d’addestramento grande come due campi da football americano affiancati che replicava in tutto e per tutto una via della vecchia Londra, con edifici semi-diroccati e tutto il resto.
Quando John raggiunse la cima del pezzo di muraglia che era stato replicato – alta meno di Wall Elizabeth ma di un’altezza comunque considerevole – la prima cosa che fece fu tentare di riconoscere quale via, quartiere o pezzo di Londra avessero preso come modello per quella riproduzione fin troppo realistica. Non riuscì a riconoscerlo o forse, semplicemente, non avevano preso alcun modello di riferimento reale.
Camminò sul ciglio della muraglia fino a raggiungere un paio di suoi commilitoni – fra cui Murray, una sua vecchia conoscenza – che chiacchieravano a bassa voce. Al contempo si guardò attorno e constatò che tutte le persone che gli aveva indicato Stamford avevano passato l’installazione e, come lui, erano stati ammessi alla seconda parte dell’addestramento.
Incontrando per un istante gli occhi chiari di Holmes, John distolse lo sguardo e lo posò su Murray, salutandolo con una pacca sulla schiena.
« Johnny! » lo salutò quello di rimando, passandogli un braccio attorno alle spalle: « ci stavamo giusto chiedendo se non fosso stato scartato » ironizzò.
Watson sogghignò. « Ti piacerebbe, vero Murray? Meno competizione » scherzò a sua volta.
Murray e Sebastian Wilkes ridacchiarono.
« C’è davvero qualcuno che non ce l’ha fatta, però » riprese seriamente Sebastian dopo il giro di risate: « quattro di noi non sono stati ammessi e altri due non hanno resistito alle quindici ore dopo l’impianto. Hanno preso qualche antidolorifico e hanno avuto una reazione di rigetto » gli disse.
John aggrottò le sopracciglia. « Stanno bene? ».
« Sono in infermeria. Non sappiamo se potranno camminare di nuovo in modo normale... ho sentito dire che il rigetto è molto forte e se non viene controllato può causare mutazioni » disse di nuovo Sebastian.
« Non mi sorprenderebbe » commentò Murray, John annuì.
« Ancora mi chiedo come possano permettere che dei soldati combattano con una cosa pericolosa come le Nanomacchine impiantate nelle gambe » aggiunse John, spostando a disagio il peso da un piede all’altro. Anche gli altri due abbassarono lo sguardo sui propri piedi.
« Siamo soldati, John » diede poi come risposta Murray: « elementi sacrificabili e sostituibili. Anche se non sarebbe il pensiero giusto da fare con un quarto della popolazione distrutta e il bisogno costante di Ricognitori che sembrano avere ».
« Parli come se non avessi intenzione di entrate in Alicanto, Murray » ne approfittò John, prendendolo in giro.
Quello gli rispose con un sorrisetto. « Mi conosci bene, Watson. Non potrei andare da nessun’altra parte » disse.
Ed era vero. I genitori di Murray erano morti nell’esplosione del reattore mentre lui e la sorella erano a casa dei nonni, motivo per cui erano riusciti a fuggire e a salvarsi dalla Nube. Aveva giurato vendetta ai responsabili fin da allora e, come John, fin da allora aveva desiderato poter fare parte del corpo di Ricognizione e Recupero.
« Siete pazzi, ve l’ha mai detto nessuno? » disse però Sebastian: « io tenterò l’ingresso ad Ifrit appena questo addestramento sarà finito ».
« La Guardia Reale interna. Chissà perché non avevo dubbi » lo sfotté Murray, John ridacchiò.
Non ebbero più possibilità di continuare le loro chiacchierare amichevoli perché, dalla porta di accesso alla finta muraglia, un fischietto precedette l’arrivo dell’Istruttore. Tutti i cadetti si misero velocemente in linea, vestiti uguali come una fila di bamboline su di uno scaffale, pantaloncini neri e maglietta a mezze maniche bianca che non schermava dal vento che tirava a svariati metri da terra.
Un uomo magro e basso vestito con la divisa standard dei corpi armati – pantaloni bianchi, stivali neri, maglietta nera e una giacca corta di tessuto sintetico color verde scuro – camminò velocemente davanti a loro fino a fermarsi al centro esatto del gruppo. Portava sul petto la spilla dell’Ordine di Condottieri, le due spade incrociate, e sulla spalla destra della giacca lo scudetto con lo stemma di Huginn, le guardie dei confini, anche chiamati “Corvi”.
L’uomo era magro ma atletico e aveva corti capelli biondi su un paio di occhi marroni e una carnagione pallida. Aveva lo sguardo stanco e severo e mantenne la stessa espressione quando annuì in loro direzione, ordinando il riposo.
« Il mio nome è Thomas Fry e per le prossime sei settimane sarò il vostro addestratore ed istruttore » cominciò, la voce ferma e aspra, dura come il cemento. « Chiariamo subito una cosa: io sono qui per insegnarvi cosa vuol dire essere un soldato fuori da queste pigre mura e voi avete semplicemente venduto il culo all’Esercito, dunque, per estensione, lo avete venduto a me. Siete miei da fare ciò che voglio, e quello che voglio è farvi faticare su quel campo fino a rompervi le ossa » disse, indicando la finta riproduzione di Londra con un cenno secco della mano. « Farete quello che vi dico quando ve lo dico. Mangerete quando vi verrà detto, digiunerete se vi verrà ordinato di farlo, imparerete cosa vuol dire combattere dentro Wall Elizabeth e rischiare la vita nel posto che una volta chiamavamo Londra. Non mi importa se il vostro obiettivo non è Alicanto, se terrete il culo al sicuro dentro i confini o se vi metterete in gioco nel mio reggimento: siete arrivati fino a questo punto per diventare come il dito di Dio ed è esattamente ciò che diventerete » disse.
John deglutì, teso ma al contempo eccitato. Fry sapeva esattamente come fare un discorso incoraggiante, anche se minaccioso al contempo.
« Vi avverto, non c’è margine di errore. Non potete esitare, non potete sbagliare. Se rimanete indietro, indietro verrete lasciati. A me non importa se uscite da questo corso incapaci di affrontare le minacce, la vita in gioco non è la mia e non ho nemmeno un onore da difendere. Le conseguenze saranno tutte vostre e vostre soltanto da affrontare » aggiunse.
Il silenzio dei cadetti divenne teso e si prolungò per i minuti in cui l’istruttore Fry non parlò. Poi il soldato fece un cenno secco del capo, cominciando a girare avanti e indietro lungo la linea di cadetti.
« Questa è la vostra prima lezione di “volo” » spiegò: « suppongo vi abbiano già spiegato a cosa servono le Nanomacchine impiantate nelle vostre gambe, ma mi hanno insegnato che repetita iuvant: vi daranno la possibilità di attutire gli urti di cadute da grandi altezze, di fare salti che un essere umano normale non potrebbe nemmeno sognarsi di fare, di correre a velocità che vi sembreranno inizialmente assurde. Questa settimana imparerete a controllare le vostre nuove capacità fisiche. E ora mettetevi in piedi sul ciglio del muro » disse, spostandosi dietro di loro mentre tutta la fila di cadetti, obbedendo senza fiatare, compiva tre passi avanti e si affacciava allo strapiombo.
« Nella prima fase di questo addestramento pratico imparerete la tecnica. O almeno, così è scritto sulle linee guida ufficiali » disse Fry: « ma io non credo in un manuale che mi dice cosa fare. La capacità di chi arriva a questo punto dell’addestramento è quella, praticamente, di volare, e non si impara a volare leggendo. Tutti i soldati che fanno parte di Alicanto e che attraversano Wall Elizabeth ogni giorno non si basano sulle linee guida per salvarsi la pelle quando i mutanti decidono di attaccarli. Il volo è istinto, è reazione alla paura di cadere » disse.
John non aveva la minima idea di cosa volesse dire l’istruttore con “volo”. Era risaputo che i soldati non volassero nel vero senso del termine, dunque quello doveva essere un modo di dire maturato all’interno della fanteria stessa.
Non ci volle molto perché scoprisse cosa intendesse dire.
Senza nessun preavviso, improvvisamente Fry diede una spinta a Sebastian Wilkes, sull’attenti di fianco a John, e lo spinse oltre il dirupo.
L’intera fila di cadetti trattenne il fiato e si sporse in avanti; l’urlo di puro terrore di Sebastian risuonò nell’aria come un rumore di vetri infranti nel pieno silenzio mentre il ragazzo precipitava a peso morto.
Ciò che guidò John fu semplicemente l’istinto.
Senza nemmeno riflettere sulle conseguenze di ciò che stava per fare, prese lo slancio e si lanciò a sua volta, di testa a fendere l’aria che gli faceva fischiare le orecchie.
Una caduta di quasi trenta metri dall’esterno sembra lunga un istante, ma se si è colui che cade è infinita.
L’aria lo colpiva sul volto con una forza fastidiosa, rendendogli quasi impossibile tenere gli occhi aperti. Dovette subito ridurli a due sottili fessure per evitare che dolessero, anche se in quel modo tutto ciò che poteva vedere di Sebastian era il colore chiaro della maglietta sfuocato dalle ciglia quasi del tutto chiuse.
Digrignò i denti per resistere alla pressione sempre più violenta, sforzandosi di tenere le braccia lungo e fianchi e le gambe tese, per guadagnare velocità. Arrivò ad afferrare Sebastian ad appena qualche metro da terra.
Non ebbe il tempo di pensare.
Tenendo stretto Sebastian, che urlava ad occhi chiusi aggrappandosi come un matto al suo braccio, John cambiò posizione e si preparò ad atterrare sulle proprie gambe, dato che era l’unico modo che aveva tentare di salvare il salvabile.
Poteva già sentire il rumore sordo dei suoi femori mentre si spezzavano. Percepire lo scricchiolio di ogni singolo frammento di osso che si sarebbe staccato dalla tibia e dal perone, dei suoi piedi martoriati, delle ossa del bacino che si staccavano e delle costole che, frantumandosi, perforavano polmoni e fegato, reni e stomaco. Stava per morire schiacciato sul cemento dopo essersi buttato da un muro per salvare uno come Wilkes, che sarebbe morto con lui quasi sicuramente.
Chiuse gli occhi, preparandosi come poteva all’impatto, ma esso non avvenne mai. O meglio, non avvenne come lui si era immaginato che accadesse.
I piedi atterrarono sul cemento come se fosse gommapiuma, come se non si fosse lanciato da almeno venticinque metri d’altezza; i muscoli delle sue gambe si tesero come corde e si piegarono, flessibili come giunchi, e attutirono senza sforzo la caduta, assorbendone l’urto e convertendone la forza in slancio.
Uno slancio che però John non seppe controllare. Era rimasto troppo impressionato dalle crepe che si erano formate nel cemento dal punto in cui era atterrato, troppo preoccupato a non far urtare Sebastian contro il pavimento per fare il salto che gli avrebbe permesso di continuare la corsa, magari arrivando persino sul tetto del vecchio rudere che si ergeva a lato della finta strada dissestata e piena di buche (dello stesso tipo di quella che aveva appena provocato lui): una depressione di almeno tre centimetri nel terreno con centro il punto d’impatto dei suoi piedi.
Perse l’equilibrio e, come un motore che gira a vuoto, le sue gambe lo fecero capitombolare a terra con il mento, che sbatté e strisciò poco decentemente sull’asfalto. Sebastian rovinò a terra accanto a lui, ansimante per la paura e, probabilmente, persino terrorizzato a morte.
« Oh mio Dio, oh mio Dio, oh mio Dio... » lo sentì rantolare: « oh mio Dio, John, grazie... grazie... » ansimò.
« Di niente » rispose il medico, alzandosi da terra e mettendosi seduto con una mano sul cuore. Si era già visto parte integrante della pavimentazione stradale, una poltiglia umana da raccogliere con la pala.
E invece.
Ora capiva cosa intendeva Fry con “volo”. Non era come volare ma, Cristo, ci andava vicino. Ora non faticava più a credere che i soldati che entravano in Alicanto avevano il potere di saltare sugli edifici senza il minimo sforzo. Le Nanomacchine facevano davvero quello che promettevano.
Anche se la sensazione di avere nelle gambe delle bombe ad orologeria non passava così facilmente.
Quando finalmente si furono rimessi entrambi in piedi, ovvero il minuto successivo, anche Fry si lasciò cadere dalla cima del muro. John guardò con attenzione come l’istruttore prese lo slancio con eleganza, camminando per qualche metro in verticale sul muro e saltando su uno dei tetti adiacenti alla muraglia, prendendo di nuovo lo slancio e appoggiandosi di nuovo sul muro prima di atterrare, saltellando qualche volta per ammortizzare meglio l’impatto, arrivandogli esattamente di fronte con una frenata secca della suola degli stivali.
John e Sebastian si misero sull’attenti.
Fry squadrò bene entrambi, spolverandosi dal giubbotto verde della polvere che non c’era, poi, senza preavviso, diede un pugno nello stomaco a Wilkes, che si piegò su se stesso con un gemito.
« Sei un idiota con dei riflessi di merda » parlò Thomas: « se fossi in una missione vera, a questo punto saresti già carne per mutanti » lo redarguì.
Sebastian non rispose e si rimise sull’attenti.
« Per quanto riguarda te » disse poi Fry: « ottimi riflessi, atterraggio un po’ sgraziato ma nessuno riesce ad atterrare decentemente, la prima volta » disse. « Come ti chiami, cadetto? ».
« John Watson, signore ».
« Watson... » disse Fry, come assaporandone il suono sulla lingua. « Pare che tu sia un talento nato ».
« Grazie, signore » rispose John.
Fry annuì. « Risalite sul muro usando le scale » aggiunse, indicando con il capo una rampa di scale in metallo inglobata nella parete che si incuneava verso l’alto: « per oggi sarà questo il vostro addestramento: l’atterraggio da grandi altezze. Andate! ».
« Sissignore! » esclamarono i due, scattando di corsa verso le scale mentre l’istruttore prendeva la via più breve, arrampicandosi si corsa su per il muro fino alla cima.
 
Quello fu il loro addestramento per l’intera giornata. Voli di venticinque metri con relativi atterraggi e 5 piani di rampe di scale fatte di corsa. Molte volte John ebbe il fiato corto ma, al contrario di altri, non si fermò mai, anche se almeno una volta aveva rischiato seriamente di svenire per il caldo e la fatica. Fry aveva ragione: era bravo, forse uno di quelli che se la cavavano meglio.
Dopo la Adler e Moriarty. E, ovviamente, dopo Sherlock Holmes.
 
 
 

***

 
 
 
Due giorni dopo tutti i cadetti erano in grado di saltare da grandi altezze e di atterrare praticamente illesi e senza fatica.
John aveva capito il trucco dopo la terza volta che sbatteva il mento, o direttamente la faccia, sul cemento. Aveva tutto il viso rovinato e pieno di sfregi ma non era quello messo peggio. Molly Hooper aveva le ginocchia fasciate per tutte le volte che aveva sfregato contro il cemento, bucando persino i pantaloni, e Sebastian Wilkes aveva dovuto girare una sera intera con le mani bendate senza riuscire a prendere in mano nemmeno il cucchiaio del rancio.
Fry aveva tenuto i refrattari ad imparare la tecnica dopo l’orario d’addestramento, facendoli continuare anche di notte e senza cena. Il pretesto della mancanza di cibo sembrava avere funzionato, dato che già il giorno dopo c’erano state molte meno cadute e sfregamenti sull’asfalto.
Il mattino del terzo giorno, però, il punto d’incontro non era più la cima del muro ma i piedi dello stesso. Fry era già presente prima dell’arrivo di tutti i cadetti dunque, a differenza dei due giorni precedenti, non ci fu tempo per le chiacchiere.
Una volta che tutti i cadetti si furono presentati sul posto, Fry si fece portare una scatolina di cartone da un suo assistente e cominciò a distribuire qualcosa fra i cadetti. John si rese conto che era un gessetto colorato solo quando Sherlock, che quella mattina era capitato di fianco a lui, ne ricevette uno.
Una volta completato il giro, l’istruttore tornò al centro e cominciò a parlare.
« La seconda fase dell’addestramento riguarda l’arrampicarsi » cominciò a dire: « per un soldato di Alicanto o Huginn non è essenziale solo il sapere atterrare, ma anche il sapersi arrampicare. Affronteremo più avanti l’utilizzo strategico degli edifici o degli alberi, per il momento voglio che impariate letteralmente a camminare sui muri » disse, indicando il muro esattamente dietro di lui e davanti ai cadetti.
John alzò il volto verso la cima del muro, venticinque metri più su. Non ce l’avrebbe mai fatta. Mai.
« Non agitatevi, nessuno arriva mai in cima al primo tentativo. No, suppongo che ci vorranno almeno tre giorni prima che uno di voi ci riesca, e cinque perché ce la faccia la maggior parte » disse, anche se quelle parole non sembravano affatto tranquillizzanti. « Diversamente dalla fase precedente, però, le persone che arriveranno in cima per tre volte consecutive non aspetteranno gli altri cadetti e passeranno direttamente alla fase successiva dell’addestramento. Siete una squadra, questo è vero, ma ci sono situazioni là fuori in cui vi ritroverete a dovervela cavare da soli e, sappiatelo, molte volte chi rimane indietro, indietro viene lasciato » disse.
Un silenzio profondo cadde in mezzo a tutti loro. Nessun aveva neanche il coraggio di respirare nonostante tutti sapessero che le parole che Fry stava pronunciando non erano altro che la pura verità.
« Immagino che abbiate capito tutti a cosa vi serve il gessetto, a questo punto » continuò poi Fry: « ognuno di voi segnerà sul muro il punto in cui riuscirà ad arrivare ogni volta che proverà ad arrampicarsi. Questo stratagemma non vi serve solamente per sapere dove siete arrivati e dunque darvi un punto di riferimento per i tentativi successivi, ma vi aiuta anche a sviluppare il giusto movimento del busto che vi servirà, andando avanti nell’addestramento, per l’uso del chokuto.1 » disse. « Ora vi farò vedere una volta qual è lo stile di arrampicata adatto, poi toccherà a voi » aggiunse successivamente, mettendosi in posizione.
Con “arrampicata” Fry intendeva lo stile di risalita della “corsa sul muro”. Partiva prendendo una breve ricorsa, faceva un balzo verso il muro e lo risaliva correndo, alternando momenti di corsa diritta ad altri in cui si muoveva a destra e a sinistra, sinuoso come un serpente. Arrivò sulla cima del muro al primo tentativo e mettendoci forse meno di quaranta secondi.
« E ora provate voi! » gridò poi dalla cima.
John fissò il suo gessetto, che per puro caso era color lilla. Aggrottò le sopracciglia al colore ma si ridestò quando si rese conto che, anche se lilla, quel gessetto doveva fare il suo dovere e basta. E poi sentiva Murray lamentarsi a denti stretti di averne ricevuto uno rosa, dunque non era quello messo peggio.
Con un sospiro a labbra chiuse, alzò lo sguardo sui metri e metri di muro che si innalzavano di fronte a lui. Gli sembrava una cosa semplicemente impossibile da fare, ma Fry aveva appena dimostrato che era possibilissimo.
Lo era ora, per lo meno. Ora che erano “modificati”.
Scosse il capo, come per far andare via il pensiero dalla mente, e si limitò a pensare all’addestramento. Accanto a sé, proprio in quel momento, Holmes prese la rincorsa per fare il suo primo tentativo.
Saltò più in alto di tutti quanti.
Era giusto dire che fosse un genio di qualche tipo, una di quelle persone che nascono dotate ed in grado di riuscire a fare tutto al primo tentativo. Certo, non era arrivato in cima come l’istruttore, ma aveva fatto una corsa di svariati metri verso l’alto; una cosa che nemmeno Moriarty e la Adler, le due persone del gruppo che potevano vantarsi un’intelligenza e una genialità pari o di poco inferiore a quella di Sherlock, erano riusciti a fare.
Sherlock atterrò con un balzo delicato dopo il salto. Almeno quattro persone si fermarono a guardare il suo segno marrone, metri più un alto, con palese invidia.
Ma non John. Era stato uno dei migliori alla prova precedente e di certo non voleva fare di meno in questa. Sentiva di avere la possibilità di eguagliare, o per lo meno raggiungere, il “genio della classe” e non si sarebbe arreso ancora prima di cominciare. Doveva farcela. Era stato in grado di eccellere in poche cose, nella sua vita, e questa doveva essere una di quelle.
Annuì, più che altro a se stesso, con lo sguardo in avanti. Fece un paio di passi indietro, piegò le ginocchia. Cominciò a sentire i muscoli contrarsi, le Nanomacchine elasticizzarli e rinforzarli, la pelle in corrispondenza dei segni che aveva sulle gambe riscaldarsi e rispondere alla sua volontà. Prese una piccola rincorsa e via, gessetto in mano, balzò sul muro con il sinistro e si diede la spinta sul piede d’appoggio; seguendo l’esempio dell’istruttore fece i primi tre passi ondeggiando con il busto, per acquisire equilibrio, e una volta trovato si piegò in avanti il più possibile e cominciò a correre, un piede dietro l’altro, passetti piccoli per non perdere attrito fra la suola delle scarpe e la parete. Era anche convinto che gli scarponi della divisa ufficiale fossero pensati per cose del genere, ma loro dovevano farcela con le semplici scarpe da tennis che la divisa d’allenamento dei cadetti prevedeva.
Salì di quelli che gli sembravano decine e decine di metri. Sentì il diaframma sobbalzare e una sensazione di vuoto a livello dello sterno quando si rese conto di cominciare a perdere la presa sul muro e, prima di cadere, portò il braccio sinistro davanti a sé e lasciò una strisciata di gesso lilla sul muro. Ricadde a terra un po’ malamente ma, tutto sommato, mantenne l’equilibrio e non cadde.
Carico d’aspettativa, alzò gli occhi. Il suo segno lilla era appena di una spanna più in basso di quello di Sherlock Holmes.
Il secondo miglior risultato al primo salto di tutti i cadetti.
Non poté trattenere un sogghigno. Ok, non lo aveva superato, ma ci era andato vicino. Molto vicino. Da lassù gli sembrava di aver saltato almeno dieci metri, quando invece erano poco più di quattro probabilmente, ma era esattamente dietro a Sherlock Holmes.
E poteva superarlo.
John non resistette alla tentazione di voltarsi verso Sherlock. Lo fece con le labbra ancora tirate in un sorrisetto soddisfatto, l’espressione tesa ma sicura di sé di chi è consapevole di potercela fare, per una volta, ad essere il migliore. Un inclinarsi di labbra che poteva anche sembrare un ghigno di sfida.
E che, probabilmente, Sherlock Holmes prese proprio come tale.
Lo vide assottigliare lo sguardo e sollevare il mento lentamente, come se lo stesse studiando guardandolo dall’alto i basso, oppure come se lo avesse già ritenuto meritevole di una sfida e si stesse mettendo in mostra come un pavone che ruota la coda. Distolse lo sguardo da lui solo quando prese un’altra ricorsa e, con un balzo ed una camminata molto simili a quelli precedenti ma corretti nei punti giusti, riuscì a fare un segno quasi un metro sopra a quello che aveva fatto in precedenza.
Forse John avrebbe dovuto sentirsi sopraffatto, preso in giro e soggiogato, ma non era affatto così. Era sicuro di sé, per una volta, e l’aria della sfida si era ormai insinuata dentro di lui, riempiendogli i polmoni e arrivando in tutte le sue cellule al ritmo cardiaco della circolazione sanguigna.
Fece di nuovo due passi indietro, si piegò sulle ginocchia, si preparò e ripeté il salto.
Questa volta, il segno lilla del suo gessetto si posizionò qualche centimetro sopra quello di Sherlock.
John, una volta a terra, ridacchiò. Sherlock, accanto a lui, sogghignò maliziosamente.
Il gioco era cominciato.
 
 
Continuarono, incuranti della fine dell’addestramento e dell’adunata per i pasti, fino a sera inoltrata. E fu così anche il giorno dopo, e quello dopo ancora.
Saltando il pranzo, cenando di fretta ed in ritardo rispetto a tutti gli altri. Sempre insieme senza mai rivolgersi però la parola, una volta e poi ancora un’altra a superarsi l’un l’altro, ad eguagliare il risultato raggiunto in precedenza, a volte persino sbagliando, mettendo male un piede o piegando male il busto, salto dopo salto dopo salto.
Finché, al tramonto del terzo giorno dall’inizio di quella parte dell’addestramento, Sherlock Holmes toccò per primo la cima. Dopo una rincorsa breve e concisa, un balzo ben calibrato, l’equilibrio perfetto della prima parte della scalata e una corsa in verticale su per il muro da far venire il capogiro a chiunque stesse guardando, il ragazzo si aggrappò con la mano al bordo e, con un ultimo balzo del piede d’appoggio, si issò sul muro.
In quello stesso salto, dopo Sherlock, John arrivò ad una spanna dalla cima ma non riuscì a scavalcarla. Ricadde a terra con malagrazia e, questa volta, si lasciò andare con la schiena contro il cemento crepato e rovinato dai numerosi atterraggi.
Aveva perso.
C’erano solo loro, lì. Persino Fry li lasciava fare, senza sorveglianza, ormai. Nessuno dei loro compagni lo aveva visto perdere, aveva assistito a quel fallimento, ma a John non sarebbe interessato comunque.
Sherlock Holmes era rimasto il migliore nonostante tutto.
Tanto valeva lasciar perdere e arrivare in cima con calma, il giorno dopo, insieme a tutti gli altri.
Ansimò, a terra, sollevando e abbassando il petto al ritmo dell’aria che entrava nei polmoni, deglutendo per trattenere le lacrime di nervosismo che minacciavano di uscirgli. Prese un profondo respiro e guardò, battuto e abbattuto, la figura di Sherlock lassù, in alto, sulla cima del muro, a venticinque metri di altezza da lui.
Era sicuro di potercela fare, e invece...
« TI DAI UNA MOSSA?! »
La voce di Holmes, dall’alto del muro, lo raggiunse e lo raggelò.
Quella non era pietà. Quello non era lo sguardo che un vincitore unico riserva a chi è arrivato dopo di lui, sapendolo già dal principio.
Sherlock Holmes lo stava aspettando.
Sherlock Holmes sapeva che ce la poteva fare.
E glielo stava dicendo a gran voce.
John si rialzò, cancellandosi con un gesto veloce del braccio le due lacrime solitarie che nonostante tutto erano scivolate via dal suo controllo. Ripeté gesti che ormai erano abituali, calcolò le distanze, si preparò allo sforzo, al salto, alla corsa, alla fatica.
Partì. Balzò in avanti, calibrò l’equilibrio e corse, corse trattenendo il fiato, il busto piegato in avanti e le scarpe che si consumavano contro quel muro, passando un segno lilla di gessetto dietro l’altro, con negli occhi solo la cima.
Quando finalmente la raggiunse, e appoggiò la mano sul bordo per darsi l’ultimo slancio ed issarsi sopra di esso, capì che quello che aveva considerato un rivale fino a quel momento in realtà poteva essere qualcosa di molto simile ad un compagno.
« Sei bravo » gli disse Sherlock una volta che John, guardato giù oltre lo strapiombo, sorrise.
« Anche tu » rispose il medico.
« Lo so » fu la risposta di Holmes.
Risero entrambi senza riuscire a fermarsi.
 
 
Il mattino successivo, mentre solo Moriarty era riuscito a superare i tre quarti dell’altezza del muro, John Watson e Sherlock Holmes arrivarono in cima contemporaneamente in un salto talmente coordinato da sembrare passi di danza.
 
 
 

***

 
 
 
Mancava un mese alla fine dell’addestramento speciale.
Un mese alla scelta del reggimento, un mese all’assegnazione ad una squadra tattica di tre persone che sarebbero diventate i suoi compagni, la sua famiglia, le persone più fidate. Per forza, se si dovevano proteggere reciprocamente.
John aveva fatto richiesta ufficiale di ingresso in Alicanto il giorno prima, per iscritto e poi a colloquio diretto con l’ufficiale responsabile di reclutamento del reggimento. Aveva notato subito, appena entrato, il gagliardetto con le due ali incrociate e non era stato in grado di distogliere lo sguardo dalla spalla dell’uomo finché quello non gli aveva rivolto parola.
Era il suo sogno, la sua vendetta. Era tutto quello che ancora riusciva a desiderare.
Alicanto. Wall Elizabeth. Londra.
Avrebbe saputo i risultati nell’arco di un mese esatto.
Sperava di essersi dimostrato meritevole di quello stemma.
 
 
 

***

 
 
 
Erano stati schierati sulla cima dal muro, sferzata da un vento freddo. La falsa Londra si estendeva sotto di loro illuminata dalla luce grigia di un cielo plumbeo che minacciava pioggia da un momento all’altro.
« Questo è uno dei vostri ultimi test » disse Fry a pochissimi centimetri dal bordo. Ormai nessuno di loro aveva paura dell’altezza, o di cadere.
« È una gara. A squadre » precisò con voce decisa: « imparerete a cooperare come farebbe una vera squadra operativa al di fuori dei confini. È una prova a tempo che determinerà le vostre abilità nell’abbattere gli ostacoli lungo il percorso e di cooperare con gli altri componenti nella squadra. Il percorso si snoda lungo tutto il campo operativo, fra edifici e strade. Andata e ritorno in stile staffetta. Una volta rientrata una squadra parte subito la successiva. I punti che accumulerete in questa prova, sia individualmente che collettivamente, saranno presi in considerazione per la creazione delle squadre vere e proprie » disse l’istruttore.
Una vena d’ansia si sparse fra i cadetti. Ormai il tempo era passato, si erano formate alcune amicizie, delle preferenze, dunque non era comunemente ben voluto il fatto che sarebbero stati selezionati – anche se solo in parte – grazie a dei punteggi. Tuttavia questo era l’Esercito e, dopo alcune mezze parole dette sottovoce, fra loro tornò un calmo silenzio.
« Ora chiamerò tre persone per volta e vi sistemerete in fila » cominciò Fry, facendosi dare una cartellina dal suo onnipresente assistente.
Anche John aveva fatto i suoi calcoli, considerando le proprie esperienze ed amicizie. Si era risparmiato di capire con chi sarebbe voluto capitare in squadra, dato che non voleva delusioni e questo era il modo più veloce per non crearsene, ma aveva anche capito con chi non voleva capitare in squadra.
Moriarty, per esempio, o la Adler, con i loro modi di fare strani e superiori a tutti gli altri, a tutti quelli che loro non consideravano intelligenti abbastanza. Non sarebbe capitato con Molly perché erano entrambi Medici, ma la ragazza sembrava troppo fragile e spaurita per poter far parte di una squadra operativa di Alicanto (se lì voleva entrare, non lo sapeva). Non riusciva ad esprimersi su Holmes e tantomeno su Lestrade, ma Wilkes, nonostante fossero compagni e parlassero molto, sembrava giorno per giorno sempre meno umano e più cafone. Aveva l’aria di uno che ti avrebbe abbandonato nei guai per salvarsi la pelle, dunque no, grazie.
Si riscosse quando sentì chiamato il proprio nome.
« Adler, Watson e Moran! » urlò Fry.
Senza commentare, si misero in fila dietro la squadra che era stata chiamata prima di loro, terzi.
Le squadre erano formate normalmente da un Medico e uno Stratega a cui veniva aggiunto un Condottiero o un Tiratore. Nel loro caso era uscita la triade Stratega/Medico/Tiratore e, sempre nel loro caso, a decidere la strategia sarebbe stata Irene Alder, non la migliore ma una delle più brave di sicuro. E poi, loro avevano il vantaggio di avere anche il Medico molto bravo con le armi da fuoco.
Fry terminò di creare le squadre poi, posizionandosi a fianco del primo gruppo, prese una penna e si fece dare un cronometro. Spiegò brevemente quale doveva essere il percorso da fare e, quando tutti annuirono, diede il via al primo trio.
La falsa Londra che si snodava dall’altra parte del muro era costituita da alti palazzi in rovina e, una volta che i tre si erano infilati in mezzo ad essi, era quasi impossibile per gli altri vedere quali potevano essere gli ostacoli – che probabilmente cambiavano di volta in volta. Si sentivano solo ordini gridati ad alta voce, atterraggi su pietra e rumore di lame. John strinse con la destra l’elsa del chokuto che si portava al fianco e, con la sinistra (dominante), il calcio della pistola. Gli avevano dato il permesso di sparare se necessario e, per avere un punteggio decente, non avrebbe esitato a farlo.
Il primo gruppo ritornò quasi cinque minuti più tardi e, arrivando di corsa e toccando le mani dei rispettivi alter-ego, la seconda terzina pertì. Fry segnò un manipolo di numeri su di un foglio a griglia e li guardò per un istante, come a considerare la squadra stessa e la loro combinazione.
La seconda terzina ci mise di più a completare il percorso e, quando arrivarono, uno di loro perdeva sangue da una ferita sulla fronte. Atterrarono sul muro e toccarono le loro mani, dando il cambio.
Piegando le ginocchia, John balzò in avanti.
Seguendo gli ordini di Irene precedettero in linea retta in formazione unita, con la donna al centro e i due uomini ai lati. Lei era armata solo di un coltello mentre John aveva il chokuto e Sebastian due pistole.
Inizialmente non successe granché. Saltarono giù dal muro e sul primo edificio, sferzando l’aria e scendendo in strada;: ad un cenno della Adler poi si divisero, John a destra e Moran a sinistra, mentre Irene rimase in strada, correndo con il busto basso e le mani armate ognuna da un coltello a serramanico.
Appena qualche istante dopo, apparve un mutante. Era palese che non fosse vero, che fosse solo una sagoma di legno ed acciaio, ma si potevano vedere alcuni bersagli dipinti, in piccoli, nei punti di maggiore debolezza della sagoma (collo, testa, cuore).
Scattarono in sintonia come se non fosse nemmeno necessario mettersi d’accordo.
John scattò da destra con la spada sguainata, prendendo slancio da un edificio fatiscente, e gli conficcò la lama esattamente al centro del bersaglio dipinto sul collo. Sebastian Moran, fermandosi in equilibrio su di un palo della luce, sparò fino a crivellare di colpi il bersaglio dipinto sulla testa del mostro. Infine Irene, facendo un balzo direttamente da terra, lanciò entrambi i suoi coltelli al centro del petto della finta creatura, che smise automaticamente di muoversi dando loro campo libero.
Senza recuperare le armi, proseguirono.
Cominciarono a balzare da un edificio all’altro procedendo verticalmente: Moran prese il posto dell’Avanguardia, in prima linea, preferendo il proprio chokuto alle pistole. Watson veniva per secondo, nella postazione della Retroguardia, tipica dei Medici e dei Tiratori. Aveva estratto la sua pistola d’ordinanza e la teneva carica e pronta a far fuoco. La Adler invece, armata di altri due coltelli, veniva per ultima e a teneva d’occhio la situazione ai lati.
All’improvviso, proprio quando erano in vista della fine della strada e dalla boa che avrebbero dovuto aggirare, un manipolo di cinque falsi mutanti delle dimensioni di cani da caccia andò verso di loro ringhiando e sbavando, con sei zampe e pellicce folte, zanne appuntite e artigli che lasciavano i segni sul cemento. Potevano saltare quanto loro e furono davanti a Moran in pochissimi istanti.
Irene diede l’ordine al Tiratore di occuparsi del primo e chiamò il nome di John per occuparsi degli altri. Watson sparò al primo mentre era per aria, prendendolo al secondo colpo e uccidendolo, e mentre la donna li teneva occupati fuggendo fra gli edifici lui si posizionò su quello più alto e ne uccise altri tre. Il quarto fu eliminato da Sebastian che, estratta la pistola, sparò un colpo dritto in mezzo alla testa della bestia.
Arrivarono alla boa in un balzo, toccando il muro di delimitazione del campo su cui essa era attaccata.
« Abbiamo solo due minuti per tornare al Muro per avere il tempo migliore fin’ora! » urlò Irene e, con un semplice cenno del capo, cominciarono a correre in direzione della partenza il più velocemente possibile.
Non trovarono altri ostacoli e diedero il cambio alla squadra successiva con un tempo inferiore ai 4 minuti.
Nel riprendere fiato, John adocchiò l’espressione dell’istruttore. Annuiva con interessa, segnando tempi e punteggi.
Non sapeva se esserne fiero o spaventato.
L’ultima persona con cui voleva passare il resto della sua carriera militare era Irene Adler.
 
 

***

 
 
 
La fine dell’addestramento a squadre, durato tre giorni, decretò anche la fine del corso speciale.
Era ormai tempo di sapere se fosse stato accettato o meno in Alicanto, chi lo avrebbe accompagnato e chi sarebbero state le due persone che avrebbe dovuto proteggere – e da cui sarebbe stato protetto – per il resto della sua vita.
La mattina della cerimonia di arruolamento effettivo non gli fu difficile svegliarsi, dato che non dormì. Si mise in piedi all’alba e, dopo una doccia veloce, raccolse i suoi pochi averi e si vestì. In qualsiasi caso quello sarebbe stato il suo ultimo giorno all’accademia militare; da quel giorno in poi, avrebbe passato (probabilmente) il resto dei suoi giorni in una camerata militare al quartier generale del reggimento che lo avrebbe accolto fra le sue fila.
Nel caso peggiore, Barghest. Nel migliore, Ifrit. Se le cose fossero andate come voleva lui, Alicanto. Inaspettato era Huginn, ma non credeva di essere tagliato per i Corvi.
Infilò i pantaloni bianchi dell’uniforme standard dei soldati effettivi, gli stivali neri e la maglietta nera. Si sistemò i capelli per l’ennesima volta e, guardandosi al piccolo specchio dell’armadietto, sospirò. L’adunata suonò poco dopo.
Scese le scale fingendo una calma che non aveva. Non incontrò nessuno dei suoi amici più stretti se non Greg Lestrade, che lo aspettò fra una rampa di scale e l’altra per fare il tragitto insieme.
« Watson, giusto? » domandò quello fra un gradino e l’altro.
John annuì.
« Greg Lestrade » si presentò quello.
« Mi ricordo » disse semplicemente John, sforzandosi di sorridere in modo poco teso: « ti conosco da un po’ anche se non abbiamo mai avuto occasione di parlare ».
Anche Lestrade sorrise.
« Posso chiederti cos’hai scelto? » domandò poi John, senza una vera e propria ragione se non quella di parlare per tenere a bada l’ansia. Si rese conto troppo tardi che forse era una domanda scomoda, troppo personale.
Ma l’altro rispose comunque. « Alicanto » rispose. « Tu? ».
« Alicanto » ammise John. « Siamo entrambi pazzi o masochisti » aggiunse.
« O tutti e due » ironizzò Greg, John ridacchiò.
Arrivarono al cortile in meno di due minuti, dividendosi per prendere posto in ordine alfabetico davanti ad un palco su cui cominciavano a riunirsi gli ufficiali dell’Esercito e gli istruttori che avevano seguito la seconda parte del loro addestramento. John, essendo sotto la “W”, prese posto nell’ultima fila mentre Lestrade si posizionò nella stessa fila di Holmes e Molly, davanti a Moriarty e Moran. John adocchiò anche Irene Adler, in prima fila dato che cadeva sotto la lettera “A”.
Dovette aspettare fermi in piedi per altri dieci minuti prima che tutti gli ospito dell’Alto Comando fossero presenti e si potesse cominciare la cerimonia. Un ufficiale diede l’attenti dai piedi del palco e loro, battendo i tacchi, si portarono le mani lungo i fianchi. L’ufficiale urlò il saluto e, subito dopo, il riposo. John si trovò con le gambe leggermente divaricate e le braccia incrociate dietro la schiena.
Il Generale di Corpo d’Armata prese posizione davanti al microfono sul palco e, schiarendosi la voce, cominciò a parlare.
« Il mio saluto a tutti voi, cadetti, e le mie congratulazioni per aver portato a termine con successo l’addestramento speciale all’uso delle Nanomacchine » disse, le mostrine sulla giacca verde scuro che brillavano sotto i raggi di un pallido e clemente sole. « Come già sapete, nel corso di questa cerimonia vi sarà comunicato il vostro reggimento di appartenenza e vi sarà consegnata la giacca con il relativo stemma. Non solo, in questa sede saprete anche a quale squadra siete stati assegnati ».
John ascoltò con la voglia pressante di conoscere il suo destino. Wilkes, in piedi al suo fianco, si schiarì la gola senza un motivo preciso, probabilmente per scacciare l’ansia che gli faceva muovere nervosamente le dita delle mani.
« Prima di cominciare, voglio ringraziare ognuno di voi per la dedizione e il tempo che avete dedicato alla causa. Per noi è importante riuscire a combattere i mutanti usando le loro stesse armi, e queste armi siete voi, giovani soldati che mettete in gioco la vostra vita per garantire la sicurezza del regno e della famiglia reale » omaggiò.
John si trattenne dal roteare gli occhi.
« Ed ora, le assegnazioni » cominciò, facendosi passare una lista di nomi e attendendo che altri due sottoufficiali si sistemassero sul palco con le giacche.
John seguì il tutto con attenzione. Irene Adler fu accettata in ifrit e ritirò la sua giacca con lo stemma della fiamma incoronata. Fu poi il turno di Sherlock Holmes, che fu accettato in Alicanto, così come Molly Hooper.
Sebastian Moran e James Moriarty ricevettero a loro volta lo stemma con le ali d’argento e d’oro incrociate, mentre Murray fu assegnato ad Huginn, ricevendo il gagliardetto con le ali nere.
Fu il turno di Lestrade, che venne chiamato come soldato di Alicanto.
Poi, dopo altri nomi che John dimenticò quasi subito, toccò a lui.
« John Hamish Watson, matricola Alfa-Charlie-1-2-5-6-9-Zulu » lo chiamò, John si avvicinò al palco dove la voce disinteressata del Generale pronunciò « Alicanto ».
Non poté trattenere un sorrisetto. Gli venne consegnata la giacca, che indossò subito, e tornò a passo veloce al proprio posto mentre il Generale proseguiva chiamando Wilkes, che finì in Ifrit.
Non poteva crederci. Era finalmente riuscito ad avere lo stemma del reggimento in cui voleva andare da quando era fuggito dalla città. Poteva già sentire sulle spalle l’adrenalina, vedere negli occhi la vecchia città di Londra.
Ora, doveva solo capire con chi avrebbe combattuto.
Dopo aver terminato i cadetti, il Generale proseguì nelle nomine. Cominciò a pronunciare liste da tre di nomi e cognomi, creando squadre appartenenti alla stessa fazione, i cui interessati automaticamente annuivano in segno di comprensione e si cercavano di sottecchi con gli occhi.
Finalmente, dopo minuti che sembrarono ore, il Generale pronunciò il suo nome.
« Sherlock Holmes, Gregory Lestrade e... » un secondo che durò un’eternità: « John Watson ».
E John, all’improvviso, non fu più sicuro di niente.
 
 
 
 
 
 
 
 

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1- il chokuto è un tipo di spada simile alla katana ma con la lama diritta e affilata solo da una parte. Si legge “ciocuto”.

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