This is your father

di Cosmopolita
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mutande arancioni e francesi rompiscatole (prologo) ***
Capitolo 2: *** Una notizia inaspettata ***
Capitolo 3: *** Hi, daddy! ***
Capitolo 4: *** Buoni consigli e giochi infantili ***
Capitolo 5: *** Fiabe depressive e desiderio di maternità ***
Capitolo 6: *** Fight like a brave ***
Capitolo 7: *** Storie di sopracciglie, baby sitter e pick up ***
Capitolo 8: *** Questione di fusi orari ***
Capitolo 9: *** Cose che Arthur non si sarebbe mai aspettato dalla sua vita ***
Capitolo 10: *** Come conobbi tua madre... ***
Capitolo 11: *** Pochi passi alla volta ***
Capitolo 12: *** Scoprire lati nuovi di sè ***
Capitolo 13: *** L'amico, l'amante, il padre ***
Capitolo 14: *** Polvere da sparo ***
Capitolo 15: *** Mai dire mai ***
Capitolo 16: *** Due cuori e un tavolo appartato ***
Capitolo 17: *** Così volle Walt ***
Capitolo 18: *** Profondo senso di vacuità ***
Capitolo 19: *** Provare ad andare avanti ***
Capitolo 20: *** Oltre la maschera ***
Capitolo 21: *** Perplessità ***
Capitolo 22: *** Amabili chiaccherate tra fratelli ***
Capitolo 23: *** Precario equilibrio ***
Capitolo 24: *** Parenti serpenti ***
Capitolo 25: *** In famiglia ***
Capitolo 26: *** Come rendere più difficili le cose in tre semplici passi ***
Capitolo 27: *** Notizie incoraggianti ***
Capitolo 28: *** Svuotare il sacco ***
Capitolo 29: *** Il segreto di Ian ***
Capitolo 30: *** Realtà diverse (Epilogo) ***



Capitolo 1
*** Mutande arancioni e francesi rompiscatole (prologo) ***


 New York, 1987

 
Quando sei un single che abita da solo, alcune cose ti sembrano talmente scontate da non accorgerti nemmeno che esistano.
 
Per Arthur Kirkland era così: la sua vita da single venticinquenne che abitava da solo, con una brillante carriera da poliziotto davanti sembrava il Paradiso terrestre che aveva sempre desiderato. Prima di tutto, non aveva più i suoi fratelli tra i piedi. Vivere con loro sembrava come essere in una gabbia: non poteva fare nulla che non fosse oggetto di irrisione da parte loro, soprattutto di Ian, il maggiore.
Secondo, non dipendere da nessuno gli piaceva.
Quando ricevette la sua prima busta paga da poliziotto fu preso da un brivido di eccitazione incontenibile perché quei soldi erano davvero i suoi e poteva farci tutto quello che voleva.
Logicamente non proprio tutto, visto che l’affitto della casa non si pagava da solo. Ma era stata comunque una bella sensazione.
Era ovvio che quell’indipendenza costava anche sforzi amari, non solo a livello di lavoro: Arthur ormai contava sei camicie con il colletto bruciato e circa venti mutande che si era dimenticato di separare dai colorati ed erano venuti di un arancione molto più vicino al rosa che ad altro.
Infine tanti anzi troppi, fallimenti culinari che comprendevano dalla bruciatura di cibi, fino allo scambio del sale con lo zucchero e viceversa.
Tuttavia si poteva ritenere felice così, con le sue camicie bruciate, le sue mutande arancioni e la sua pizza schifosamente dolce.
 
 
Quella giornata lavorativa era stata decisamente snervante.
Gli piaceva molto il suo lavoro, ma quando si ha per collega un francese che sembra stare ore ad apprezzare con sguardo malizioso il tuo “discreto sedere” convinto di non essere notato da nessuno, anche bere un bicchiere d’acqua può risultare sfiancante.
E quel francese, era decisamente la persona più repellente che Arthur avesse mai conosciuto in tutta la sua vita.
-A che ora stacchi, oggi?- gli chiese ad un certo punto, come un fulmine a ciel sereno. Non si parlavano gran che, di solito il loro rapporto era limitato da una violenta litigata e tante discussioni su quanto per Arthur l’Inghilterra fosse migliore della Francia, o su quanto la Francia secondo Francis, fosse migliore dell’Inghilterra.
A dirla tutta, era l’inglese a non avere un minimo di confidenza con nessuno. Se ne stava sulle sue e campava benissimo così.
-Scusa?- non capiva il senso di quella domanda, apparentemente priva di alcuna logica.
-Ho detto: a che ora stacchi oggi?- ripeté il francese adagio.
Forse, ai suoi occhi, Arthur in quel momento gli era apparso un po’ demente.
L’altro guardò l’orologio, aggrottando le sopracciglia. più che altro non capiva il perché di quell’insolito quesito –Tra mezz’ora…- la sua voce era fievole e tradiva un tentennamento dovuto più che altro dall’effetto sorpresa che quella domanda gli aveva provocato –Perché?- domandò circospetto poco dopo.
Francis fece una risatina che gli mise il nervoso –Oh, nulla.– il tono di voce che aveva usato non lo convinse per niente, ma forse era eccessivamente sospettoso e davvero Francis aveva fatto quella domanda solo per attaccare discorso, fallendo purtroppo.
-E come ritorni a casa?- aggiunse dopo un po’, in un probabile e sciocco tentativo di riattaccare bottone -Ho visto che non hai una macchina…-
Che nervi! Ma lo spiava o cosa? -Come fai a sapere che non ho una macchina?- lo attaccò irritato.
-Beh, ho intuito che non l’avessi, visto che arrivi in questura sempre a piedi. – il francese fece spallucce, non scomponendosi di un millimetro. E questa sua pazienza invidiabile, fece si che Arthur diventasse ancora più irritabile –O sbaglio?-
-No, non sbagli…- ammise arrossendo l' inglese. Tutti i suoi colleghi avevano tutti almeno una utilitaria o comunque una bagnarola a motore, lui invece era già troppo se aveva l’abbonamento annuale degli autobus.
Non perché fosse povero, anzi, forse era più ricco di tutta quella massa di “incompetenti” messi insieme ma era tutta una questione di simpatia. Simpatia.. che brutta parola!
Arthur provava un’avversità innaturale per questa parola, il che era quasi illogico. Può starti antipatico una persona, un atteggiamento ma no…una parola! Anzi, ad essere precisi, non era la parola “simpatia” a fargli ribollire il sangue nelle vene, ma il significato puramente soggettivo che veniva dato alla suddetta parola: persona gradevole, socievole, a modo…lui era così, pensava di esserlo per lo meno, eppure nessuno gli aveva mai detto che era simpatico, a parte rarissime e straordinarie eccezioni. Forse era per questo che odiava quella parola: era una concetto che voleva disperatamente essere.
Molti storcevano il naso, ma lui non capiva cosa ci fosse di strano in quello che era: un normale inglese che diceva raramente “ti amo” ad una donna, che non faceva sesso se non si era fatto prima una serie di esami di coscienza che solitamente, lo portavano a optare per il lasciar perdere, una persona capace di volere bene ai pochi amici che aveva, ma ovviamente non avrebbe mai detto loro le cose come stavano.
Era così, non poteva farci nulla.
Ma per i suoi genitori, forse, era sbagliato definire la questione come “simpatia”.
No, forse era qualcosa di peggio: ambizione. I suoi genitori avevano nutrito probabilmente con troppa convinzione l’idea che Arthur un giorno sarebbe stato il più grande avvocato di Londra ed erano andati su tutte le furie quando scoprirono che il loro pupillo voleva fare il poliziotto.
In poche parole: diseredato.
Vaffanculo e arrivederci.
Ma a lui non importava gran che. Anzi, era andato via dall’Inghilterra, nonostante amasse la sua terra più di ogni altra cosa al mondo.
Il primo anno aveva vissuto a Charleston, poi, dato che non trovava un lavoro decente e adatto a lui, aveva deciso in un folle momento di  trasferirsi a New York. Aveva vent’anni e rimase lì per cinque.
-Allora? Come ritorni?- la voce perentoria di Francis lo riportò alla realtà.
-Che domande?- sbottò impazientito –Secondo te? A piedi!- se lo ripeteva spesso: l’ironia era una delle sue migliori virtù, e lui ne abusava fin troppo.
L’altro lo squadrò dall’alto in basso –Dov’è che abiti?-
-Fatti una bella cura di affari tuoi. – rispose caustico.
-Mmm…- quel mugghio suonava come una manifestazione di riflessione –Simpatico!-
Ecco che ritornava nei suoi pensieri la parola simpatia, scritta in rosso. Oh, come la odiava…
-…Queen…- si decise a borbottare alla fine.
-Già, posto raccomandabile e, soprattutto, molto vicino alla questura!- da dove lo prendeva fuori tutto quel sarcasmo? Un rompiscatole sarcastico è peggio di uno normale…
-Ti prendevo in giro, ranocchio!- la sua voce era veemente, ma allo stesso tempo tradiva un tono di dignitosa sconfitta; come un soldato che si arrende al nemico dopo un' estenuante battaglia –Ovvio che non vado a piedi! Ho l’abbonamento dell’autobus…-
-Quindi, non ti scoccia se ti offro un passaggio…- 
-Hai sbagliato i tuoi conti- ecco dove voleva andare a parare! Quello che un ingenuo avrebbe confuso come un gesto di  gentilezza, ma che Arthur aveva subito percepito come non solo quello.
-Cosa c’è sotto?- il suo viso era rosso di rabbia. I suoi occhi verdi e fiammeggianti si scontarono con quelli azzurri e decisamente più gentili di Francis.
Ecco, come faceva una tonalità di colore così bella e pura ad essere incastonata sulla faccia di quell’uomo? Era uno dei misteri sui quali l’inglese avrebbe potuto indugiarsi anche per un’intera serata…
-Nulla, davvero! Insomma, per chi mi hai preso?-
-Non so, ho intuito qualcosa da quando hai cominciato a guardarmi il sedere!- rispose, sempre con quella nota di sarcasmo velenoso, tipico degli inglesi.
Francis rise. Se c’era una cosa che ad Arthur innervosiva più di tutto era la risata di Francis. Perché non era una risata normale, fragorosa  o genuina, no…assomigliava moltissimo ad una risata da caffè parigini… in poche parola falsa, e accattivante.. più o meno.
-Io non guardavo nessuno. - 
-Come no! Adesso vedi di sparire!-.
No, no, no! Quella era davvero una pessima giornata. Avrebbe preferito essere preso a manganellate da un delinquente, piuttosto che stare chiuso in quell’ufficio circoscritto e ristretto con quel vinofilo francese.
Francis si strinse nelle sue spalle, piuttosto dispiaciuto a dire la verità –Ti disturba se…- estrasse un pacchetto di sigarette dalla tasca del giubbotto della divisa. Quel gesto fu più che eloquente.
-No, vattene!- sembrava non gli importasse molto cosa facesse o non facesse il suo collega. Agitò una mano verso l’uscita in maniera molto disinteressata e si risedette buttando fuori un sospiro di sollievo.
Non immaginava che quello sarebbe stato probabilmente, il peggior errore della sua vita. Anche confrontato allo scambio del sale con lo zucchero.
Infatti poco dopo Francis rientrò con un sorriso sornione stampato in faccia.
-Beh? Che cosa ghigni in quel modo?- la ragione per cui la sola presenza di Francis lo faceva sbottare in quel modo così esagerato era ignota perfino a lui: forse era quel portamento troppo disinvolto o quei modi di fare nei suoi confronti decisamente irrisori…
-Piove. – quella risposta lapidaria e quel sorrisetto beffardo bastarono per fargli capire.
Maledizione. “Hai sbagliato i tuoi conti” pensò sarcasticamente tra se e se. Ovvero “le ultime parole famose”.
 
Il bolide del francese era una Renault che suonava tanto come patriottismo patetico.
Non che ci fosse bisogno di dirlo, ma Arthur stava odiando con tutto se stesso quel giorno.
-Mi ripeti la via?- continuava a chiedere Francis, anche se ormai gliel’aveva detta come minimo dieci volte, anzi, senza esagerare forse anche quindici.
Come al solito, quel vinofilo faceva ogni cosa in suo potere per attaccare bottone.
L’inglese quella volta non gli rispose, guardava dal finestrino la strada che sfilava velocemente, le macchie dei veicoli che sfrecciavano su di essa. Non sapeva dire se erano loro ad andare veloci o erano gli altri a farlo, ma in ogni caso ne dedusse che non gli importava gran che.
-Sai, tu hai bisogno di una donna!- il tono di voce di Francis era, o meglio simulava, una leggera apprensione nei suoi confronti.
-Cosa te lo fa pensare?- sbottò con aria scontrosa.
- Abiti solo ed hai un carattere intrattabile.. mi fai pena, lo sai?-
Le mani gli prudevano da morire e avrebbe preso volentieri quell’impiccione a schiaffoni se non fosse per il fatto che stava guidando e avrebbe messo a rischio anche la sua vita se lo avesse distratto. Si limitò a mostrargli il dito medio e a restare in silenzio. Per fortuna il viaggio durò poco, Arthur scese davanti al cancello del suo condominio, scrutato da Francis.
-Puoi andare!- Arthur sospirò come se si fosse appena tolto un peso gravoso sulle spalle e lo salutò con la mano. Il francese , però, sembrava non avesse la minima intenzione di scollarsi da lì.
-Ho detto che puoi andare!- scandì le parole con evidente nervosismo .
-Sei un maleducato!- commentò l’altro, scendendo dall’auto –Probabilmente sono l’unico dei colleghi a essere gentile con te e tu, non mi fai neanche salire?-
Arthur inarcò un sopracciglio –Quando mai sei stato gentile con me? Mi prendi in giro per ogni cosa.-
-E tu mi chiami pervertito, vinofilo e rana. Ah, già, e sei perfido con me. -
Chiunque in quel caso avrebbe borbottato un “touche” a mezza bocca, ma Arthur non lo fece. Grugnì soltanto e mugugnò qualcosa a proposito di “solo cinque minuti”.
Davanti al cancello del suo condominio c’era una donna ben vestita che continuava a premere il pulsante del citofono in maniera convulsa e di tanto in tanto sbuffava scocciata. L’inglese non era solito ad impicciarsi negli affari degli altri ma, quando vide che la signorina stava premendo il bottone del suo citofono, ne dedusse che stava cercando lui e fu parecchio incuriosito.
-Ha bisogno di qualcosa, signora?-con le donne solitamente preferiva usare toni più gentili e pacati.
La ragazza si girò: aveva gli occhi verdi e luminosi, come i suoi.
-Cerco il signor Kirkland: lo conosce?- il suono della sua voce era cristallino.
-Sono io!- rispose laconico e naturalmente piuttosto allarmato: cosa voleva quella donna da lui?
Lei sorrise –Che piacevole coincidenza!- usò troppa enfasi per Arthur, che invece non ci trovava nulla di piacevole in tutto quello.
Si affrettò piuttosto a chiedergli chi mai fosse. -Mi chiamo Sophie Van Der Meer e sono un'assistente sociale che si occupa della tutela dei minori!- si presentò, porgendogli la mano.
Arthur la guardò, un po’ estraniato –Mi scusi, ma ha sbagliato persona. – dichiarò, un po’ confuso –Io non ho figli…-
Sophie fece un sorriso un po’ sinistro e annuì come se la sapesse lunga –Davvero? Beh, le dispiace se andiamo dentro e ne parliamo con calma?-
Il britannico più che altro era incuriosito: cosa voleva quella donna da lui? Per istinto si girò a guardare Francis, che era più preso a guardare la signorina che a preoccuparsi di altro.
Sospirò abbattuto, tentato dal tirargli un calcio –Mi segua!- sospirò, aprendo il portone. 
 
 
 



Salve a tutti! Lo so, se non sono sommersa da FF fino al collo non sono contenta…comunque, ecco la mia nuova fic, che spero vi sia piaciuta!
Naturalmente ringrazio chi eventualmente recensirà questo primo capitolo (fatelo, mi rendereste immensamente felice!) che ricordo è solo un prologo!
Infine, ma non per questo meno importante sono infinitamente grata alla mia beta _Yurippe che ha avuto il coraggio di leggere e correggere i (tanti) errori che io non avrei mai notato.
E, siccome amo fare iscrizioni strane, voglio dedicare il capitolo a chi, per causa di un lavaggio sbagliato, ha le mutande arancioni *alza la mano* o chi ha messo il sale al posto dello zucchero *rialza la mano*
A presto :)
Cosmopolita

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Capitolo 2
*** Una notizia inaspettata ***


 

 

L’appartamento di Arthur sembrava quel che abitualmente chiamano “una confortevole dimora da single” ovvero tanti libri, tanti dischi e poche stanze ma soprattutto, nessun odore di omogeneizzati per bambini o profumo da donna.

E Francis che non ci era mai stato, in un primo momento fu piuttosto sorpreso dall'anonimia che quel posto gli trasmetteva: si aspettava qualcosa di più strano da uno come Arthur, invece si era trovato davanti ad un arredamento di indubbio buon gusto, ordinato e quasi asettico, mentre lui già si immaginava vestiti sparsi alla rinfusa, rubinetto aperto dalla mattina e pile di piatti sporchi.

Sophie si fermò a controllare lo stato del posto, come un agente immobiliare che deve valutare la casa che dovrà poi vendere e Arthur, dopo aver osservato per qualche minuto il suo ospite sgradito mentre si guardava attorno, gli si piazzò davanti.

-Puoi aspettarci fuori?-

Francis lo fissò a sua volta un po’ dispiaciuto –Perché, scusa?-

-Parleremo di cose personali, Francis. E tu non puoi sentire!- la sua voce era salda ed irremovibile.

Il francese sapeva che opporsi non sarebbe servito a niente per cui, borbottando qualcosa che somigliava ad un “che maleducato!” uscì fuori dall’abitazione.

Rimasero solo la signorina ed Arthur.

Lui preparò del thè e lei intanto si accomodò in cucina.

-Allora, mi vuole dire perché si trova qui?- seppur apparentemente calmo Arthur era ansioso, non sapeva cosa aspettarsi da quella donna.

Sophie sorrise, come se volesse calmarlo. -Lei conosce la signorina Eileen Jones?- esordì, arrivando subito al punto

Il viso di Arthur impallidì e divenne bianco come un cencio.

Annuì con lentezza –Le è successo qualcosa?- il suo tono di voce era più preoccupato di prima.

-Era la sua fidanzata quando abitava a Charleston, giusto?- in quel momento Sophie sembrava un’investigatrice più che un’assistente sociale.

-Sì, lei e la sua famiglia mi hanno aiutato nel momento più difficile della mia vita. – se chiudeva gli occhi, l’inglese riusciva ancora a vederla come se fosse davanti a lui. Eileen  aveva la sua stessa età e viveva in una grande villa di campagna alla periferia di Charleston, che la sua famiglia aveva deciso di affittare ai viaggiatori o agli sventurati come lui.

Lei era la solita ragazza della porta accanto, sorridente e radiosa, mentre lui era il forestiero apparentemente freddo e impassibile ma dotato di grande fascino, inutile dire che i due si erano attratti da subito come due calamite.

-Le hanno detto che è morta? – la voce dell’assistente sociale suonava piatta, quasi come se lei fosse stata una grande amica di Eileen e la sua morte le avesse lasciato un vuoto incolmabile.

Arthur sgranò gli occhi e fissò Sophie con maggior intensità; sembrava che volesse cogliere nei suoi movimenti o nella sua espressione una prova che, si trattasse di uno scherzo di pessimo gusto.

-Non è possibile…- mormorò un po’ smarrito –Come è successo?-

La donna sospirò abbattuta –Tornava dal lavoro e…- la sua voce si spezzò. Non perché fosse commossa, ma perché aveva capito che non c’era bisogno di altre spiegazioni. E infatti l’inglese non le trovò necessarie. Annuì, con apparente stoicismo, mentre in realtà sperava intensamente che si trattasse tutto di uno scherzo, anche se ormai era una lontana possibilità.

Pur non rivedendola ormai da anni, Eileen era comunque parte della sua vita.

-E…io in tutto questo cosa c’entro?- formulò la domanda con voce flebile.

Il suo piccolo lutto era composto e freddo, ma al tempo stesso traspirava un dolore quasi commuovente. Se si fosse messo a piangere non avrebbe reso allo stesso modo.

Sophie prese tempo: evidentemente si trattava di una questione molto difficile da discutere. Finì di bere il suo thè, si complimentò con lui per l’ottimo infuso e poi riprese a parlare della triste faccenda –Eileen Jones ha due bambini. – cercava di misurare le parole, di dire e non dire –Si chiamano Alfred e Matthew, sono gemelli... – si sistemò una ciocca di capelli color del grano dietro l’orecchio, forse un altro stratagemma per perder tempo e fece un gran sospiro.

 –Lei è il padre. – buttò giù la frase frettolosamente, quasi volesse togliersi subito quel fastidioso sassolino dalla scarpa.

Arthur si strozzò con la sua stessa saliva. Tossicchiò per alcuni minuti poi incredulo, ripeté –Il padre? Io? –

Suo malgrado, Sophie annuì con aria diffidente come se quella reazione fosse più che calcolata.

-No, ci deve essere un errore. – si alzò in piedi e cominciò a percorrere il perimetro della cucina con atteggiamento quasi piretico –Insomma, io ed Eileen abbiamo fatto…- si bloccò, tanto aveva sicuramente capito –è successo una volta sola, due mesi prima che me ne andassi! Come è possibile che al primo colpo…-

Sophie lo interruppe con voce gentile –è possibile, a volte succede! –

- Eileen avrà avuto altri uomini, dopo di me. – cercava con tutte le sue forze di accantonare quella terribile possibilità: lui non poteva essere padre! Era la cosa più assurda di questo mondo, un paradosso che non poteva accettare.

- No. Le cartelle dell’ospedale dimostrano che Eileen era incinta pochi giorni dopo la sua partenza, quindi due mesi dopo il vostro…rapporto. – arrossì, ma mai quanto Arthur -Quindi, a meno che non avesse un amante e stia pur certo che non ce l’aveva, lei è il padre dei due bambini. -

Il silenzio fu il padrone dell'appartamento per alcuni, lunghissimi minuti. Il britannico si risedette e cominciò a fissare le mattonelle del pavimento, provando a far mente chiara nella sua testa: lui era papà di due bambini che in cinque anni non aveva mai visto. Si sentiva mancare e non era certo una cosa positiva.

 Inizialmente si chiese come fosse possibile che lui, non desiderando in alcuna maniera dei figli, li aveva mentre tante altre coppie che invece, avrebbero fatto carte false pur di stringere tra le braccia il loro bambino no.

Era ingiusto, profondamente ingiusto.

Perché a lui e non ad altri più meritevoli?

Forse, non doveva riconoscerli come figli suoi e affidarli ad una vera famiglia. Sarebbe stata la soluzione migliore per lui e, in tutta franchezza, anche per quei due bambini.

Ma poi riaffiorava tra i ricordi il sorriso luminoso di Eileen e pensava a ciò che gli era successo. Era morta mentre tornava dal lavoro, quello che forse manteneva in piedi lei e i suoi figli.

Insomma, che rispetto dimostrava così nei confronti di Eileen?

-Signor Kirkland?- la voce di Sophie interruppe i suoi pensieri –Può anche non riconoscere i suoi bambini. Loro rimarranno all’orfanotrofio e qualcun altro se ne occuperà. Non deve farlo per forza lei…-

Era come se gli avesse letto nel pensiero e Arthur in un primo momento ne rimase un po’ suggestionato –No, signorina, io ho già preso la mia decisione. Terrò quei bambini. –

Si sentì scrutato da Sophie con troppa insistenza e improvvisamente gli venne l’assurda voglia di poter essere invisibile.

La signorina squittì deliziata –Ha fatto davvero un’ottima scelta. Quei bambini avranno un futuro migliore, grazie a lei…- si alzò e si avviò verso la porta –Si presenti domani mattina al nostro istituto…- gli porse un biglietto con scritta la via –Dovrà firmare alcuni documenti per il riconoscimento dei bambini e così Alfred e Matthew Jones saranno ufficialmente dei Kirkland…-

A sentir nominare il nome di quei due bambini sconosciuti in correlazione al suo cognome, Arthur sentì stringersi lo stomaco. Era accaduto tutto troppo in fretta…

-Io non posso venire domani…- biascicò a fatica –Lavoro!-

La sua ospite assunse una smorfia di disapprovazione; come poteva pensare al lavoro in un momento del genere? Cominciò a chiederselo anche lui e ne convenne che in quel momento il lavoro non era poi tanto importante.

-Ma farò tutto il possibile per esserci. -

 -Lei è un poliziotto, giusto?- si informò Sophie con voce esplicitamente curiosa.

Si sa, la curiosità è donna. E comunque, aveva tutta l’aria di conoscere ogni minimo segreto di Arthur.

Annuì, con un rapido cenno di assenso.

-Di che grado, se non sono indiscreta?-

Lo era e sapeva di esserlo. L’inglese avrebbe voluto non rispondere, tuttavia si vide costretto a farlo –Un semplicissimo agente di polizia. Lavoro nel “Task force”. –

Un verso d'ammirazione fu la sua unica risposta.

Arthur, da bravo gentleman qual’era, la prese sottobraccio e la accompagnò fuori dall’appartamento, scesero insieme le scale fino ad arrivare nel cortile al di fuori del palazzo. In piedi accanto al portone, li stava aspettando Francis.

L’inglese fu molto sorpreso di trovarlo lì: forse voleva sapere ogni particolare della conversazione che c’era stata tra lui e Sophie. Naturalmente, lui non gli avrebbe detto nulla.

-è stato un piacere conoscerla di persona, signor Kirkland…- quel piccolo rito era una chiara formula di saluto. L’assistente sociale strinse la mano ad Arthur e poi passò a quella di Francis –E anche lei, signor…-

- Bonnefoy, al suo servizio, madame! – poggiò le sue labbra sul dorso della mano candida di Sophie,e le guance della signorina Van De Meer si colorarono di rosso.

Il solito dongiovanni, insomma.

–Il suo accento…- mormorò sovrappensiero l’assistente sociale, dopo che ritrasse la mano –Lei non è americano, vero?-

Lui denegò con un cenno della testa –Allons enfants de la Patrie…-  canticchiò piano.

Sophie capì e sorrise –Di Parigi?-

Per tutta risposta, scosse la testa - Nizza. E lei?-

-Io sono di Bruxelles. -

Francis annuì, come per fargli capire di aver compreso e gli porse un foglietto di carta stropicciato, poi le sussurrò in un orecchio con fare molto seducente –Sa, nel caso si annoiasse…-

La belga ridacchiò, inizialmente piuttosto sbigottita per quel comportamento così sfacciato nei suoi confronti. Sbatté le ciglia confusa, lesse il foglietto e nonostante tutto se lo mise in tasca.

Sebbene non fosse suo amico, Arthur avrebbe voluto sprofondare di dieci metri sottoterra per la vergogna. Ma perché Francis si comportava sempre così?

Trattenne la rabbia fin quando Sophie non si allontanò. Poi, con uno scatto repentino, raggiunse Francis –Ma cosa ti è saltato in mente?-

-Impara dal maestro. Si chiama “flirtare con classe”. – gli strizzò l’occhio con aria complice e con una mano si fece scivolare i capelli biondi davanti all’orecchio.

L’inglese scosse la testa -Tu sei matto. Cosa ti dice che ti telefonerà?-

-Telefonerà, stanne certo. Lo fanno tutte!- fece una risatina civettuola, che assolutamente non s'addiceva ad un uomo.

Arthur dentro di se, si augurava ardentemente che Sophie non lo chiamasse. Chissà come avrebbe reagito a quel due di picche la rana... al solo pensiero gli venne da ridere.

-Mi trovi buffo?- domandò Francis che non aveva capito il senso di quella risata sguaiata.

-Non sai quanto. – lo guardò con aria di sfida –Comunque sia, domani non posso venire al lavoro…-

-Immagino non possa sapere il perché. – lo interruppe. Tanto aveva già capito che aveva tutto a che fare con il colloquio che Arthur aveva avuto con Sophie, Francis ne era certo.

-Esattamente. – era esageratamente serio in quel momento –Non è che puoi…-

Intuendo ciò che stava per chiedergli, Francis gli mise un dito sulla bocca –Chiedo ad Antonio se può sostituirti. –

Antonio Fernandez Carriedo era il migliore amico di Francis. Veniva da Barcellona e come loro, lavorava al Dipartimento di polizia di New York City.

L’inglese fu sollevato di sapere che poteva contare su Francis.

Certo, magari non era la persona più simpatica di questo mondo, però una cosa doveva riconoscergliela: era dannatamente gentile, anche troppo forse.

-Beh…grazie!- bofonchiò a bassa voce.

-Prego? Cosa hanno sentito le mie orecchie? – l’altro si chinò verso di lui, come se non avesse sentito –Mi è parso di sentir uscire un “grazie” dalla tua bocca. -

Suo malgrado, il britannico non riuscì a trattenere un leggero sorriso –Non abituarti!- anche se sorrideva, il suo tono di voce era piuttosto acidulo.

L’altro ridacchiò appena e si avviò verso il cancello –Se non ti dispiace, vado via! Ho un appuntamento. –

-Con chi?- chiese, quasi con impulso. Si morse la lingua, sperando il più possibile che la sua domanda venisse interpretata come semplice curiosità e non fraintesa con altro.

-Con la mia ragazza. – rispose.

Il britannico sospirò con rassegnazione e alzò gli occhi al cielo. Francis: stupiva ogni volta, eppure le sue erano sempre azioni abbastanza prevedibili. Già immaginava una bella impalcatura di corna sulla testa della povera fidanzata del francese.

-Non pensare male…- si affrettò ad aggiungere l’altro. Strano; erano gli altri ad leggergli nel pensiero, o era lui ad essere come un libro aperto? –Non l’ ho mai tradita. –

-E da quando la frequenti?- c’era ironia nel suo tono di voce, perché forse già intuiva la risposta di Francis.

-Una settimana, più o meno…-

Appunto. Arthur esibì un sorriso di puro trionfo.

 

Stranamente, non appena Francis chiuse la porta, si sentì terribilmente solo.

Non aveva mai provato questa sensazione prima d’ora. Certo si riteneva un tipo piuttosto solitario, ma l’ isolamento non gli dispiaceva affatto. Eppure in quel momento ne soffriva.

Forse perché la solitudine lo induceva alla riflessione e, l’unico pensiero che in quel momento riusciva a fare riguardava quei due bambini. I suoi figli.

Più ci pensava, più si sentiva male. Chissà com’erano! Gli somigliavano? Oppure avevano ripreso più dalla loro mamma? Già si figurava due bambini dagli occhi verdi, i capelli biondi e le enormi sopracciglia come i suoi. Due piccoli Arthur in miniatura che lo chiamavano “papà”.

Ma, la domanda più inquietante era una ed era certo che non l’avrebbe fatto chiudere occhio per tutta la notte: sarebbe stato un buon padre?

Il suo non lo era stato, sotto molti punti di vista. Gli voleva indiscutibilmente bene, ma il modo in cui glielo aveva dimostrato era sbagliato.

Avrebbe voluto il meglio per lui, senza rendersi conto che quello per Arthur non era affatto il meglio, e aveva irrimediabilmente perso un figlio.

Avrebbe fatto lo stesso errore di suo padre?

Non lo sapeva, ma in cuor suo sperava intensamente di no.

 

 

[Deep beneath the cover of another perfect wonder
Where it’s so white as snow]

 

 

 

 

 

Salve a tutti! Spero che questo secondo capitolo vi sia piaciuto e che vi abbia incuriosito!

Ringrazio chi ha recensito il capitolo precedente, sperando vivamente di riceverne altre =)

Questo capitolo è ispirato dalla canzone “Snow” dei Red hot chili peppers, infatti l’ultima frase è ripresa dal testo.

Ancora grazie per aver letto ^^

A presto

Cosmopolita

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Capitolo 3
*** Hi, daddy! ***


 Il taxi si fermò in vicinanza di Central Park.
Arthur abitava da poco a New York e il quartiere di Manhattan lo frequentava da scarso tempo, il suo lavoro prediligeva il Bronx, lui abitava a Queens e di solito usava bazzicare per Little Italy o Chinatown quando non aveva molta voglia di cucinare.
L’orfanotrofio si trovava in una viuzza piena di grattacieli, quasi tutti in mano ad aziende finanziare di cui aveva sentito a malapena il nome.
Era un edificio piuttosto vecchio e comparato a quella moltitudine di palazzi di acciaio stonava a dir poco.
Il poliziotto che non tremava di fronte a nulla, ora aveva paura di varcare la soglia di un semplice istituto,e se ci avesse pensato a mente lucida, forse si sarebbe messo addirittura  a ridere.
All’ingresso c’era una ragazza, il quale lavoro era probabilmente quello di controllare chi entrava ed usciva.
-Buongiorno!- dal suo tono di voce stanco sembrava si fosse appena svegliata.
- ‘Giorno…-
-Lei è venuto per?-
-Sto cercando la signorina  Van de Meer, lavora qui. – la sua voce rimbombava in quella stanza e gli fece un po’ strano, specie all’inizio –Sono Arthur Kirkland. – aggiunse, come se ci avesse pensato su.
-Piacere…- mormorò ironica. Fece un sospiro e lo squadrò da capo a piedi –Ora gliela chiamo. –
Tornò dopo un po’ in compagnia di una sorridente Sophie e l’inglese si trovò  pensare che la differenza tra le due donne era impressionante: tanto sembrava scocciata l’una, quanto pimpante e felice di vederlo risultava l’altra.
-Alla fine è venuto, signor Kirkland!- il suo timbro di voce era alto, allegro e Arthur dovette ammettere che lo mise di buon umore.
-Sì, ho chiesto a Francis se poteva sostituirmi al lavoro…-
- Il tizio del numero di telefono?- chiese divertita.
Alzò gli occhi al cielo, maledicendo quello stupido di un vinofilo –Esattamente…- bofonchiò a denti stretti.
Sophie rise di nuovo –Può dirgli che è stato un gesto molto carino da parte sua, ma che io sono già impegnata?-
Il britannico ghignò a sua volta; la giornata non poteva cominciare meglio di così –Sarà la prima cosa che gli dirò appena lo vedrò!- la sua voce suonava divertita e rassicurante al tempo stesso.
L’assistente sociale gli sorrise, poi fece tutto il possibile per tornare seria e darsi un contegno –è pronto, signor Kirkland?-
L’inglese deglutì: avrebbe voluto rispondere di no, eppure annuì. Il divertimento di pochi secondi prima sembrava essere svanito nel giro di una domanda.
-Capisco che è agitato…- Sophie gli mise una mano sulla spalla, come se in questo modo gli desse maggiore supporto –Ma le assicuro che andrà tutto bene. Deve solo prendere un bel respiro e calmarsi!-
E le pareva poco!
Camminavano fianco a fianco, lungo i corridoi dell’istituto. I muri bianchi trasmettevano un aria di austerità che Arthur non si aspettava. Eppure, vedeva i dipendenti sorridere al suo passaggio oppure salutare Sophie che ricambiava altrettanto allegra.
La cosa che gli fece più specie fu che non vide alcun bambino.
-perché questa è la sede dedicata ai servizi sociali, signor Kirkland…- gli spiegò la signorina con gentilezza –I bambini vivono in un altro edificio, più grande e più moderno…-
Arthur sbuffò e non capì inizialmente perché tutto, in quella maledetta città doveva essere così complicato.
-Signorina Van de Meer..-
-Mi chiami Sophie!-
-Ok…- fece molto fatica a dare del tu ad una persona che conosceva a malapena –Sophie, allora. I miei… figli…- lo sforzo che aveva impiegato per pronunciare quella parola era stato maggiore di quello di prima –Insomma… loro sono contenti di stare con me?-
La belga si voltò per fissarlo: sembrava stupita, come se nessuno gli avesse mai fatto una domanda del genere prima di allora –Ma… ma certo che sono contenti! Sei il loro padre. – la naturalezza con cui lo disse, lo fece quasi rabbrividire.
-Io ho lasciato la loro mamma…- provò a giustificarsi, con un po’ di timidezza.
-Sono bambini. Ti vorranno bene incondizionatamente. – sembrava volesse tranquillizzarlo con la sua voce improvvisamente addolcita.
“ti vorranno bene incondizionatamente”…Arthur ne dubitava profondamente.
*
Arrivarono davanti ad una porta chiusa, se lo sentiva, lì dentro c’erano Alfred e Matthew… i suoi figli.
-Ti senti bene?- domandò l’assistente sociale, un po’ preoccupata.
-Un po’ in ansia…- commentò in risposta.
Cercò di ridere, ma l’unica cosa che uscì dalla sua bocca fu un rantolo agghiacciante che assomigliava a tutto, meno che ad una risata.
-è normale…- Sophie lo guardò dritto negli occhi e il britannico si sentì trapassare da quello sguardo così acuto –Lì dentro ci sono i tuoi figli…- esordì cauta –Ti prego, cerca di non sembrare rigido, falli sentire a proprio agio, ma senza esagerare…-
Lui si sistemò i capelli e la giacca. Amava vestirsi in modo accurato, ma quel giorno aveva dedicato ancora più attenzione nella scelta degli abiti e, dopo averne scartati a migliaia aveva scelto quelli che a suo parere reputava i più eleganti.
Sophie aprì la porta e lui entrò con il cuore in gola. Era curioso, ma al tempo stesso terribilmente timoroso di vedere i suoi bambini.
Erano lì, seduti su due sedie che si guardavano intorno con aria spaesata e timorosa tanto quanto lui.
Ad una prima occhiata capì che dei suoi tratti c’era rimasta ben poca traccia, perché quei bambini erano la fotocopia in miniatura e al maschile di Eileen: avevano entrambi i capelli color biondo cenere e gli occhi grandi e azzurri.
Di lui non avevano ripreso nulla, solo il cognome: Kirkland.
-Bambini, questo è il vostro papà…- Arthur trasalì al suono di quella parola –Vi ho già parlato di lui…è una persona molto buona e presto vivrete con lui! Su, salutatelo!-
 L’inglese notò subito che, anche se erano gemelli, non si somigliavano poi molto: uno aveva l’espressione più gentile e i capelli un po’ più lunghi rispetto al secondo, che invece sembrava essere più vivace. Infatti, fu il primo ad aprire bocca.
-Ciao!-
Non sapendo cosa fare, Arthur si voltò per fissare con aria insofferente Sophie e lei gli fece segno di continuare a parlare.
-Tu sei Matthew, vero?- domandò gentilmente, mettendosi in ginocchio per essere della sua stessa altezza.
Il bambino rise e Arthur si sentì improvvisamente uno stupido –Io sono Alfred!- lo corresse divertito –E lui…- indicò il fratello –è Matthew. -
-Ah…- la sua voce suonava piatta e un colorito purpureo si stava cominciando a spandere sulle sue guance. Sentiva decisamente caldo –Ciao, Matthew!-
Il bambino ricambiò il saluto con un timido sorriso. tra i due era quello che sembrava somigliare di più a lui e in un certo senso parve molto contento di vedere in Matthew, quella dose di riservatezza che aveva anche lui.
Invece Alfred era un bambino piuttosto rumoroso e di una affabilità sovrannaturale.
-Guarda!- gli sventolò davanti agli occhi un pupazzo di Superman con aria seria –Da grande sarò come lui. –
-Non ne dubito…- biascicò a fatica.
Incredibile, stava parlando con suo figlio! Si chiedeva se lo avrebbero chiamato papà un giorno…
- Matt invece è il mio aiutante! Vero, Matt?- era incredibile come non frenasse mai la lingua continuando a parlare, senza quasi dare aria ai polmoni.
Il fratellino annuì silenziosamente e Arthur trovò che fossero due facce di una stessa medaglia.
Intanto Sophie li guardava intenerita. Si era seduta nella scrivania e aveva tirato fuori un paio di fogli che attirarono l’attenzione di Arthur.
-Cosa sono?-
-Tanta, utilissima burocrazia…- l’assistente sociale sorrise rassicurante prima a lui, poi ai bambini –Non può mica andarsene così. Deve fare una dichiarazione ed inviarla presso il giudice tutelare…ma, siccome la mamma è morta, lei diventa automaticamente tutore dei due bambini, considerato che è il padre…-
-Quindi?- la sua voce faceva trasparire un senso di fretta.
-Quindi, può avere i suoi figli…ma deve andare di fronte ad un giudice e chiedere il riconoscimento dei due bambini. Questi verranno considerati suoi figli legittimi e adotteranno il cognome Kirkland…- si avvicinò a loro con un sorriso smagliante, accarezzò loro i capelli e con voce materna pregò loro di lasciare la stanza perché lei e “papà” dovevano discutere di affari importanti.
*
Arthur non andava d’accordo con la burocrazia, decisamente. Quando uscì dallo studio di Sophie si sentiva più affaticato che dopo un intera giornata di lavoro.
Trovò Alfred e Matthew seduti tranquillamente per terra mentre chiacchieravano su chissà quali segreti tra bambini. A vederli così, il suo cuore si intenerì e pensò che ben presto avrebbe voluto sicuramente bene a quei due piccini così simili ad Eileen.
Quando i due si accorsero della sua presenza, si alzarono per guardarlo meglio e studiarlo con calma.
-Em…vogliamo andare?- domandò Arthur un po’ in imbarazzo.
*
-… un giorno la mamma ci ha portati a fare un pic-nic in campagna…c’era un fiume lunghissimo e c’erano i cavalli! Era bellissimo…-
La naturalezza con cui Alfred gli rivolgeva la parola lo sconvolgeva; quel bambino era un chiacchierone ma forse era meglio così che non un ragazzino freddo e taciturno come lui.
D’altro canto, Matthew non spiccicava una parola che fosse una, tanto che Arthur si era quasi dimenticato della sua presenza.
-Papà, mi stai ascoltando?-
Papà…probabilmente quella parola l’avrebbe fatto trasalire ancora per una buona settimana.
-Si, ti ascolto!- rispose distrattamente, mentre attraversavano la strada per andare alla fermata dell’autobus.
-Datemi la mano!- ordinò loro, prendendole entrambi una a destra e l’altra a sinistra e camminò sulle strisce, attento a controllare se qualche macchina di qualche cafone avesse improvvisamente deciso di tagliargli la strada non importandosene del semaforo.
-Papà, dove stiamo andando?- era la seconda volta che Matthew apriva la bocca, ma a differenza di Alfred, il suo tono di voce era pacato tanto che Arthur all’inizio non lo sentì e il bambino dovette chiamarlo tre volte prima di destare la sua attenzione.
-A casa. –
Alfred fece un verso meravigliato, come se non avesse mai visto una casa in vita sua –è bella?-
L’inglese ci rifletté un po’ su –Beh…credo di sì!-
-La mamma e noi vivevamo in una casa gigantesca!- riprese a raccontare il piccolo, come se fosse davvero convinto che ad Arthur importasse davvero. In realtà il britannico ascoltava in silenzio; sembrava come se quel bambino, suo figlio, volesse renderlo partecipe della vita che aveva vissuto lontano da loro.
-Non aspettatevi prati verdi e altalene…-  la sua voce scaturiva delusione –Però è carina…vi troverete bene, ve lo prometto!-
In realtà l’inizio della convivenza padre \ figli non era cominciata proprio nel modo migliore. Alfred e Matthew rimasero traumatizzati dall’esperienza autobus che sfortunatamente quel giorno era più stipato del solito, e come se non bastasse, una signora non avendo notato i due pargoli, aveva pensato bene di cominciare a fissare Arthur con interesse per poi smettere subito quando l’inglese, fece di tutto per accaparrare due posti ai suoi figli.
-Giuro che comprerò una macchina!- continuò a ripetersi per tutto il tragitto fino a casa –Un auto vecchia, scassata e di seconda mano, basta che cammina…-
I bambini lo guardavano sbraitare e inveire con chissà chi in silenzio e solo di tanto in tanto Alfred si permetteva di ridere con impertinenza.
Per fortuna non sembravano delusi alla vista della palazzina alta quattro piani in cui viveva Arthur. Salirono le scale come se fosse una sorta di gioco e il loro papà inizialmente stava più che altro attento che non cadessero.
Sarebbe stato un padre abbastanza premuroso, se lo sentiva.
-Papà, dov’è la nostra camera?- domandò Alfred una volta entrati nell’appartamento. Probabilmente non vedeva l’ora di sistemare i suoi giocattoli da qualche parte.
Non che non ci avesse pensato: Arthur aveva deciso di sgomberare a malincuore lo studio e disporre lì la stanza da letto dei gemelli, ma ovviamente, decidere era una cosa…fare un’altra
-Questa sera dormirete in camera mia, va bene?- si affrettò ad aggiungere –Io dormirò in salotto…-
-E i giochi? E i vestiti? Dove li mettiamo?- Alfred assunse un espressione corrucciata.
-Non preoccuparti…- fece per accarezzargli i capelli, ma poi ci ripensò e ritrasse la mano –Ci pensa papà…volete guardare la tv?-
Nonostante fosse povero, il britannico aveva capito che senza tv, isolato dal mondo intero non poteva vivere. Perciò, con la morte nel cuore, aveva spaccato il salvadanaio con dentro i suoi risparmi ed aveva comprato un catorcio di tv a colori.
Così, mentre lui preparava il pranzo, i bambini avrebbero avuto una distrazione e probabilmente si sarebbero messi a loro agio.
Arthur amava cucinare; era una vera passione per lui e di solito ci metteva tutta l’anima per preparare un piatto, fosse anche stato un semplicissimo panino. Ma nel suo caso, passione ed anima non bastavano, visto che ai fornelli era davvero pessimo e il bello era che lui non sospettava minimamente di cucinare male.
Ma i suoi figli questo non lo sapevano. Quando videro nei loro piatti l’arrosto bruciacchiato con un contorno di patate che sembrano alquanto posticce tanto erano compatte, pensarono si trattasse di chissà quale squisitezza e mangiarono il loro primo boccone affamati. Ma presto se ne pentirono.
-Che c’è? Non vi piace?- fece Arthur un po’ deluso, vedendo le facce affrante dei due bambini.
-Per niente…- rispose Alfred senza vergogna. Matthew invece si limitò ad abbassare lo sguardo.
-Lo so, forse è un po’ troppo raffinato per voi…- disse più a se stesso che ai suoi figli –Magari domani andiamo in un fast food, che ne dite?-
Alfred si allietò subito, Matthew un po’ meno.
Si sentiva a disagio, sapeva che doveva dire qualcosa ma non sapeva da dove iniziare
-Em…siete felici?- domandò a bruciapelo.
Alfred annuì subito e questo gli fece piacere. La delusione fu Matthew che, dopo un po’ di tempo che era rimasto a riflettere, mormorò un “forse” piuttosto evasivo.
La delusione si dipinse sul volto di Arthur -Ti va di dirmi il perché?- era un po’ amareggiato in realtà: certo, non si aspettava che gli volessero bene da subito.
-Mi manca la mamma…- la vocetta del bambino era fievole e si disperse nell’aria come la polvere, ma suo padre lo sentì comunque. Di nuovo il silenzio calò nella stanza più gelido di prima, ma venne subito interrotto dal vivace scampanellio della porta d’ingresso.
Arthur, purtroppo, intuiva già chi fosse…molto probabilmente avrebbe dovuto rivelare la sua paternità a qualcuno a cui decisamente non voleva far sapere nulla: Francis!
 
 
 
 
Salve a tutti! Scusate se ho impiegato un po’ di tempo per l’aggiornamento ma ci sono stati degli impegni sia da parte mia che della mia beta (sempre a puntare il dito sugli altri? Ok, è colpa mia…e del greco).
Comunque sia, spero vi sia piaciuto questo terzo capitolo. Ringrazio tutti quelli che hanno recensito gli scorsi capitoli, vorrei dedicare il capitolo a tutti voi :)
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 4
*** Buoni consigli e giochi infantili ***


-  Ritrovarsi davanti Francis con tanto di sorriso smagliante e una confezione di “Dr Pepper” in mano fu davvero una sorpresa poco gradita.

-Cosa ci fai qui?- si rese conto di essere stato un po’ troppo aggressivo e poco educato, ma fece finta di non averlo notato.

-Uh, che accoglienza! Volevo solo venirti a trovare…-
-Non l’hai mai fatto, in cinque anni. – notò spazientito
-Beh, perché prima non sapevo che abitavi qui e…- si interruppe.
Aveva lo sguardo oltre Arthur e lui sapeva benissimo chi stava guardando.
Infatti dietro di lui si erano sporti Alfred e Matthew per vedere meglio chi fosse quel nuovo arrivato. Naturalmente Arthur capì che Francis stava riflettendo a fondo sulla faccenda; come poteva trovarsi da un giorno all’altro con due bambini in casa?
-Em…fai gli straordinari come baby sitter? –domandò, non trovando nessun’altra spiegazione logica.
-Non indovinerai mai, rana…- sorrise un po’ maliziosamente incrociando le braccia.
- C’entra qualcosa con quella Sophie, ne deduco…- Francis passò lo sguardo prima sul suo collega, poi sui bambini e infine di nuovo su Arthur –Un po’ ti somigliano…-
Si fermò e sorrise. Era un sorriso sinistro che all’inglese non piacque per nulla perché aveva capito che Francis aveva fatto due più due, ma il risultato, invece che essere quattro, era cinque.
-Tu e...quella donna…- appunto…
-No, non lei…- si affretto ad interromperlo un po’ a disagio –…un’altra…-
L’altro lo guardò con tanto di occhi, poi esclamò stupito –Tu sei padre?-
Come risposta gli arrivò solo un cenno della testa.
Il francese, dopo qualche secondo di sbigottimento, emise un verso di scherno –Non sapevo che amassi questo genere di ginnastica, Arthur!-
L’inglese arrossì imbarazzato –è…è successo solo con lei…era la prima volta. –
-Guarda che non c’è niente di male, eh?- Francis sembrava un po’ dispiaciuto per aver messo in agitazione il collega –è solo che da te non me l’aspettavo. -
Il britannico fece un sorriso amaro –Vuoi sapere la verità? Neanche io…-
L’altro non rispose. Si fermò a guardarlo intensamente, come se stesse cercando di capire qualcosa che non gli tornava.
Arthur non l’aveva mai visto così serio prima di allora.
-Fammi capire…- il suo tono era incuriosito –Tu hai fatto sesso…-
-Ci sono i bambini!- lo rimproverò scandalizzato.
-Ah, scusa. Dicevo, hai fatto “tu sai cosa” con una e al primo colpo non solo la ingravidi, ma per di più di due gemelli?-
Arthur si girò per guardare i suoi bambini; sembravano non avessero capito gran che di quello che si stavano dicendo lui e Francis, ma avevano sicuramente compreso che stavano parlando di qualcosa che includeva anche la loro mamma.
-Sì…-
Per cinque secondi che parvero interminabili, il francese non disse nulla. Poi, come animato da chissà quale forza, scoppiò a ridere con la sua solita risatina melliflua –Tu hai un’arma impropria lì sotto, Kirkland!-
L’inglese avrebbe voluto prenderlo a schiaffi, ma capì che davanti ai bambini forse non era l’idea migliore e si limitò solamente a guardarlo in tralice
–Non c’è nulla da ridere, francese da strapazzo e... –
Si sentì tirare per un lembo dei pantaloni dal piccolo Alfred; aveva assunto un’espressione di curiosità.
-Papà…papà…-
-Ti chiama già papà? Oh, ma che carino…- tubò con voce sdolcinata Francis.
Fece finta di non averlo sentito –Dimmi, Alfred. –
-Davvero hai un’arma impropria?- essendo solo un bambino, non aveva capito che “l’arma impropria” non si trattava di una pistola.
Stava per rispondergli che no, non ce l’aveva, ma Francis fu più rapido di lui –Certo che ce l’ ha!- la sua voce suonava talmente realistica, che il bambino emise una nota di meraviglia –Davvero! Papà, faccela vedere…voglio vedere l’arma impropria. –
Mentre Arthur trovava imbarazzante, anzi, ignobile quel susseguirsi di doppi sensi involontari, Francis sembrava divertirsi un mondo.
Si accostò vicino al piccolo e gli bisbigliò in confessione. -Per il tuo bene…meglio che il tuo papà non ti faccia vedere nulla…-
-Oh, ma io sono un eroe, niente può farmi male…- replicò Alfred a voce molto alta. Il francese riprese a ridere, questa volta però con tenerezza.
-Questo bambino è una forza!- Arthur inarcò un sopracciglio: decisamente non era il termine migliore per definire suo figlio.
Solo in quel momento Francis parve accorgersi di Matthew, silenzioso e all’apparenza molto più maturo del fratello. Si avvicinò a lui e lo salutò con un sorriso –Ciao, piccolo. Come ti chiami?-
- Matthew…-  Arthur era geloso perché gli sembrava davvero ingiusto che Francis avesse fatto parlare il suo bambino solo con un saluto mentre lui, suo padre, ci aveva impiegato un sacco di tempo.
O era lui ad essere terribilmente impacciato o era Francis ad essere maledettamente bravo. Forse, entrambe le cose…
-Che bel nome, Matthew. – gli sorrise con gentilezza –Il mio nome è Francis…quanti anni hai?-
Dovette ammettere con estrema fatica che Francis era molto più capace di lui. Ovviamente, stava prendendo nota dei suoi comportamenti per cercare di fare di meglio.
Il piccolo gli mostrò tutte e cinque le dita della mano in modo solenne
–Cinque anni!- esclamò con voce molto teatrale Francis –Oh, ma allora sei proprio un giovanotto…- solo un bambino non si sarebbe accorto che stava fingendo.
-Anche io ho cinque anni. – si intromise Alfred, desideroso di attenzioni.
Arthur gli sorrise e prendendo con se tutto il coraggio che aveva, gli diede un buffetto sulla guancia. Si stupì che suo figlio non si scansò.
Prese la confezione di Dr Pepper lasciate a terra, le mise dentro al frigorifero e in seguito decise di richiamare l’attenzione di Francis.
-Bambini…em…che ne dite se andate un po’ a giocare?- propose.
-Vogliamo giocare con te!- la cordialità di Alfred ancora lo stupiva. Se fosse stato nei loro panni molto probabilmente avrebbe voluto un po’ di spazio per se.
-Dopo giocheremo, ve lo prometto…ma ora papà deve parlare con Francis .-
Matthew prese il fratellino per un braccio e gli sussurrò in un orecchio –Facciamo come ci dice…-
Rimasti soli, fu il francese ad iniziare a parlare –Sono simpaticissimi, i tuoi figli. Sul serio, soprattutto Alfred!-
-Perché sei venuto?- il brusco cambiamento di discorso lasciò inizialmente Francis un po’ spiazzato 
-Sono venuto a dirti che Antonio domani non può venire e se puoi sostituirlo tu. –
L’inglese sbuffò e dentro di se mandò Antonio a quel paese –Ho i bambini a cui badare!- sibilò sprezzante.
-Lo so, ma prima o poi dovevi restituirgli il favore…- Francis gli poggiò una mano sulla spalla con fare comprensivo, ma Arthur si divincolò subito.
-Parliamoci chiaro, Francis. Io non voglio che tu mi tocchi. –
Rise –Sai, sembri sempre una bomba a miccia corta. Non voglio farti nulla, ti ho solo toccato. –
-Non mi piace. Rispetta i tuoi spazi. –
-Come sei difficile…ora capisco perché l’ hai fatto una volta sola. –
Lo stava prendendo in giro, Arthur lo sapeva –Per tua informazione, la mia vita sessuale è molto articolata. – ribatté spazientito ma soprattutto, imbarazzato da quell’affermazione.
Ormai Francis aveva le lacrime agli occhi –Certo, certo…allora dimmi, sinceramente, quand’è l’ultima volta che sei uscito con una donna? – sembrava che lo volesse sfidare. I suoi occhi brillavano, sicuri e raggianti.
Il britannico aveva capito cosa voleva intendere e arrossì fino alla punta dei capelli –Non sono affari tuoi…pervertito!-
Il verso che emise l’altro sembrò di puro trionfo –Visto? Non vuoi dirmelo perché è passato molto tempo…scommetto cinque anni. –
La sua maturità era messa peggio di quella dei suoi figli, con la differenza che loro erano due bambini di cinque anni, mentre Francis di anni ne aveva ventisei.
-Da sette mesi circa. Contento?- quel vinofilo aveva capito che attaccare il suo orgoglio era il mezzo migliore per farlo parlare e ciò per lui era frustrante.
Lo fissò colpito, ma forse era solo una simulazione.
Perfino uno come Arthur riconosceva che era troppo tempo per un ragazzo di venticinque anni
–Mi aspettavo di più. –
-Solo perché non parlo delle mie ragazze a chicchessia non vuol dire che non ne abbia avute…- gli fece notare, aggrottando le sopracciglia –Perché scusa, la tua ultima volta quando è stata?-
Il sorriso lascivo di Francis la diceva lunga –Non esagerando, due ore fa…-
L’inglese si allontanò da lui inorridito –Che schifo. –
-Sei solo invidioso. – borbottò tra sé e sé, poi si illuminò di nuovo –Hai visto ieri il Tracey Ullman show?-
Arthur arricciò il naso –Non mi piace molto. –
-Ma come? A presentarlo è un’ inglese .- la sua voce risultava piuttosto sorpresa. Come se un inglese avesse l’obbligo di guardare programmi presentati da connazionali.
-E allora? Non mi piacciono i varietà…-
-Guardalo. Ieri sera hanno trasmesso un corto a cartone animato…come si chiamava?- ci rifletté un’ attimo –Ah, giusto “I Simpson”. Parla di una famiglia americana, dura un minuto, più o meno. I disegni fanno veramente pena, però è carino. –
-Un corto messo in un programma di varietà che dura un minuto?- riassunse velocemente, buttandosi languidamente sul divano –Non farà mai successo, te lo dico io. –
Sentì su di se l’occhiata di Francis che non distoglieva lo sguardo da lui neanche per un minuto.
Gli stava dando decisamente il nervoso –Francis…forse è meglio che tu te ne vada. –
L’altro sospirò enfatico -Va bene…a proposito, per domani come farai con i bambini e il lavoro?-
Arthur si alzò in piedi –Non lo so. Penso di portare i bambini con me, alla centrale…-
Il collega lo guardò storto –Due bambini ad una centrale di polizia. Sei matto?-
In effetti non era una saggia idea portare i suoi figli al lavoro, ma era l’unica opzione sensata che gli era venuta in mente. Molto probabilmente avrebbe rischiato di perdere il lavoro, ma non poteva fare altrimenti.
-Se non sbaglio Elizabeta è di turno domani e rimane in ufficio. –
-Cosa c’entra? Eliza è una poliziotta, non una maestra d’asilo. –
-Non so a chi altro lasciarli. Dovrò trovare una baby sitter, ma per ora devo arrangiarmi. – Si accomodò sul ciglio del divano abbattuto –Sarò un pessimo padre, me lo sento. –
Vederlo così sconfortato a Francis fece un effetto strano.
Aveva sempre covato un po’ di avversione per Arthur, anche se alla fine non era tanto lui quanto l’inglese a non sopportarlo. A volte lo trovava buffo ma non aveva mai provato tenerezza nei suoi confronti.
Si chinò e cercò di consolarlo –Dai, non è vero. Insomma, stai facendo del tuo meglio, no? –
-Non è abbastanza…- ribatté acido -Alfred sembra felice, ma Matthew…-
-Cosa ha fatto Matthew?-
Da quando quella rana era diventato psicologo? E soprattutto, da quando in qua lui gli raccontava di faccende personali? Se lo cominciò a chiedere e ne convenne che forse aveva bisogno di un supporto. Magari Francis non era proprio la persona adatta, però…
-Non cosa ha fatto, cosa ha detto. Gli manca sua madre e…-
Francis lo interruppe con voce pacata –Ma…Arthur…è normale! Insomma, è un bambino e la sua mamma è appena morta. Piuttosto, è strano il comportamento di Alfred. – Si fermò per controllare la sua reazione, poi si alzò e raggiunse la porta.
-Sii più naturale, sciogliti. Sembri sempre un cubetto di ghiaccio. – non avrebbe mai accettato consigli da Francis, ma dovette riconoscere che aveva ragione –Ah, e comunque, la tua arma impropria è preziosa; se Reagan sa della sua esistenza potrebbe usarla come mezzo di intimidazione e magari quei comunisti lo butteranno giù quel cazzo di muro!-
No, proprio non ci riusciva a non farlo innervosire. Arthur lo mandò al diavolo –Tu non farti vedere troppo in giro, perché se ti vedono i russi, ci bombardano. – concluse con la sua solita punta di ironia, prima di chiudergli la porta in faccia.
Tirò un sospiro di sollievo. Stare con Francis lo faceva sempre sentire in continua tensione e probabilmente un giorno l’avrebbe fatto morire per una crisi isterica.
Dalla sua stanza da letto giungevano dei rumori di giochi infantili e risate giocose. Nonostante non avesse mai ammesso una cosa del genere Arthur, un po’ titubante, decise di dare ascolto anche se molto ma molto a malincuore, ai consigli del collega.
Aprì la porta e sorrise ai due bambini –A che gioco state giocando?-
-Guardie e ladri. – rispose prontamente Alfred –Vuoi giocare anche tu?-
E perché no? In fondo, un po’ di svago non gli avrebbe fatto male. –Io faccio la guardia, però…-
Il bambino assunse un espressione corrucciata –Io voglio fare la guardia. Tu farai il ladro, insieme a Matt!-
A quanto pare, sembrava che quella peste volesse dettar legge e Arthur decise che glielo avrebbe lasciato fare.
 
-Mani in alto, siete in arresto!- con tanto di mano che fungeva da pistola, Alfred si era calato benissimo nella parte del poliziotto.
Fosse stato in un provino per un film dato da adulto, gli avrebbero affidato la parte.
-Oh, no, ci ha presi ancora. - in fondo, stare al gioco non era male, si stava perfino divertendo. Anche Matthew, sebbene si fosse dimostrato freddo all’inizio, ora esibiva un sorriso pacato sul viso.
-Ora che vi ho presi vi porto in galera e ci resterete per tuuutta la vita. –
Il fratellino fissò suo padre con un’occhiata supplichevole, quasi come se fosse davvero convinto che Alfred li avrebbe sbattuti in carcere.
-Ragazzi, devo preparare la cena .- annunciò, ponendo fine a quel gioco. Si alzò in piedi e compiendo uno sforzo immenso, passò una mano sui capelli di entrambi.
-Spero che non sia come il pranzo…- borbottò Alfred, un po’ deluso perché quel gioco era durato troppo poco, ma Arthur non lo sentì perché si era già avviato verso la cucina.
Sarebbero stati una bella famiglia, loro tre. Più ci pensava, più il suo sorriso si allargava.
 


 
 
 
 
 
Salve a tutti! Spero che questo nuovo capitolo vi sia piaciuto ^^. Ringrazio tutti quelli che seguono questa storia e che recensiscono!
A presto
Cosmopolita
 
 

  

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Capitolo 5
*** Fiabe depressive e desiderio di maternità ***


 La serata era andata avanti senza tanti inghippi. Arthur fece finta di non sentire i commenti lamentosi di Alfred riguardanti il suo “squisito” purè di patate e si beò nel guardare Matthew che non diceva nulla.
Non immaginava minimamente che il povero bambino stava lottando contro l’impulso di vomitare quella specie di poltiglia indigesta.
Quando fu l’ora di andare a dormire, i bambini insistettero per fargli raccontare una favola.
-Non ho libri di favole per bambini. – provò a tirarsi fuori da quella spinosa situazione con voce nervosa.
-La mamma ce ne raccontava sempre una prima di andare a dormire. –
Sentire la voce delusa di Alfred e vedere gli occhi lucidi di Matthew gli fecero cambiare idea; non poteva scontentarli, in fondo era il loro papà!
Si sgranchì la voce, poi si sistemò sul ciglio del letto. Rimboccò le coperte ai bambini e cominciò a passare in rassegna tutte le storie che sua madre gli raccontava da bambino. Scelse la sua preferita, ovvero, il soldatino di stagno.
Era il primo a dire che Andersen molto probabilmente soffriva di una grave forma di depressione, considerato che le sue fiabe avevano sempre una fine triste. Quella non era da meno, ma la poesia della storia, di quell’amore che superava ogni ostacolo l’aveva affascinato perfino da bambino.
Non lo avrebbe mai detto ad alta voce, ma Arthur era un tipo molto sentimentale. Abbastanza per apprezzare una storia come quella tra il soldatino di stagno e la ballerina di carta.
Sfortunatamente però, Alfred sembrava preferire storie più movimentate, infatti a metà racconto già dormiva profondamente.
Invece Matthew ascoltava rapito e a fine racconto, guardò il papà con uno sguardo malinconico
-Non ti è piaciuta? – quel ragazzino era veramente incontentabile. Non sapeva più cosa fare per entrare nelle sue grazie.
Ma, con sua sorpresa, il piccolo sorrise –Oh, no, mi è piaciuta molto. Solo che…è molto triste, non credi?-
L’inglese annuì piuttosto imbambolato –Ma certo…- fece una pausa e cercò di trovare le parole adatte –Era la mia preferita, da bambino. –
-Credo che sarà anche la mia storia preferita. –
Arthur osservò suo figlio che si rintanava insonnolito tra le coperte, abbracciando forte il suo orsetto bianco di peluche e gli venne da piangere.
Per un momento si era ricordato che non era la prima volta che raccontava quella storia a qualcuno e quel qualcuno gli aveva detto che sarebbe stata la sua fiaba preferita.
Eileen aveva detto la stessa cosa, molti anni prima. Era incredibile quanto Matthew le somigliasse. Alfred aveva ripreso molte cose da lei, come Eileen non stava mai zitto ed era sempre allegro, ma la mitezza e lo spirito di osservazione della ragazza, ciò che Arthur più amava di lei, erano qualità che aveva ereditato solo Matt.
Sospirò, diede un’ultima occhiata ai suoi figli e chiuse la luce.
 
 
Dormì male. Il divano del salotto era scomodissimo e il mattino seguente si alzò tutto indolenzito, oltre che di pessimo umore e più che mai deciso a sistemare la cameretta dei gemelli. Non poteva continuare a dormire lì sopra, il divano sembrava fatto di marmo per quanto era duro.
Andò in camera sua e trovò i suoi bambini che dormivano beatamente, cullati tra le braccia di Morfeo e con un sorriso serafico sul volto.
Sembrava stessero dormendo molto bene e gli piangeva un po’ il cuore svegliare quei due poveretti alle sei e mezza di mattina, ma purtroppo non poteva fare altrimenti; il lavoro non aspetta nessuno!
Li scrollò amorevolmente, fino a che entrambi aprirono gli occhi. Li salutò con un sorriso comprensivo
-Buongiorno. Avete dormito bene?-
Alfred fece un grande sbadiglio prima di annuire –Ora però, posso tornare a letto?-
Si morse la lingua –Mi dispiace Al…oggi papà vuole portarvi in un posto…speciale. –
Il più vivace dei Jones era troppo assonnato per rispondere e stranamente fu Matthew, più desto del fratello, a chiedere dove sarebbero andati.
Si gonfiò il petto, pieno di orgoglio –Vi porto dove lavora papà. –
Alfred a quelle parole si animò tutto d’un colpo –Veramente! Ci farai vedere le pistole? Posso arrestare un cattivo? Posso sparare con la tua pistola? Eh, papà, posso? – lo stava letteralmente sommergendo delle domande più disparate e non gli diede neanche il tempo di rispondere
–Possiamo prendere la macchina della polizia?-
-Vedremo…- ovviamente, quel “vedremo” era un palese no .
-Vedremo da cosa?- continuò imperterrito. Sembrava che il sonno fosse sparito con un colpo di spugna.
-Vedremo se farete i bravi. –
Non fu un mistero quindi per Arthur se Alfred a colazione mangiò tutto e non fece commenti riguardo al cibo.
La mattinata iniziò con non pochi problemi; non sapeva ancora come comportarsi con i bambini, che avevano bisogno di aiuto per ogni cosa.
Ad esempio, dovette aiutare Alfred ad allacciarsi le scarpe perché non lo sapeva fare e combatté una battaglia piuttosto aspra con i capelli di Matthew che avevano la brutta abitudine di prendere direzioni diverse, ma fortunatamente alle sette e un quarto erano già pronti per uscire.
-Dobbiamo prendere l’autobus?- il tono di voce di Matthew suonava apocalittico. In effetti, nessuno dei due bambini gioiva all’idea di prendere quella trappola mortale.
-Mi dispiace, ma…- l’inglese sembrava piuttosto amareggiato. Prese fiato e cercò di spigare loro come stavano le cose –Vedete, il vostro papà non è come la mamma. Lui non può avere certe cose che invece aveva lei…-
-E perché?- si intromise Alfred con la sua solita voce interessata.
-Perché…- cercò le parole adatte, perché si vergognava ad ammettere di non essere benestante
–Perché i vostri nonni erano delle brave persone. – non era certamente la spiegazione migliore, ma effettivamente era così; i genitori di Eileen l’avevano sempre aiutata economicamente e lui aveva sempre avuto molta stima di loro.
Matthew annuì –Io volevo bene ai nonni. Sono andati in cielo tanti anni fa. –
Non seppe cosa replicare, si limitò solamente a chinarsi per sistemare per bene il giubbotto del figlio.
Non parlarono molto durante il tragitto che li separava dalla fermata e per fortuna l’autobus quel giorno arrivò in perfetto orario. Arrivarono alla centrale che erano le otto e mezza,in perfetto orario.
Alla centrale Matthew camminava silenzioso e timoroso, mano nella sua mano mentre Alfred invece non stava mai un attimo zitto e si aggirava per il corridoio dell’immensa centrale di polizia, spalancando gli occhi per ogni cosa che vedeva.
 -I poliziotti sono come gli eroi, giusto papà?
-Più o meno…attento Alfred. – il bambino stava prendendo una direzione del tutto opposta alla sua –Dammi la mano e sta vicino a me. –
A quel punto il vivacissimo bambino lo guardò dritto negli occhi, come se fosse stato appena colto da una improvvisa illuminazione –Quindi tu sei un eroe!-
L’inglese arrossì –Beh…-
-Il mio papà è un eroe. – sembrava orgoglioso, ma mai quanto Arthur. Non lo diede a vedere, ma era davvero felice di sapere che agli occhi del figlio lui era un eroe.
Francis era già in ufficio e appena i bambini lo avvistarono, lo salutarono abbastanza contenti di vederlo
-Papà, c’è il tuo amico!-
Il francese sorrise e li salutò tutti e tre.
Avrebbe voluto precisare che Francis non era affatto suo amico ma in quel momento arrivò anche Elizabeta, un' ungherese che lavorava insieme a loro, che, notati i due bambini, ne fu piuttosto colpita
-Salve a tutti. Che bei bambini. – cinguettò in tono sincero ad Arthur –Sono i tuoi nipoti?-
Fu Francis a rispondere per lui –I figli. –
-Ho la lingua per rispondere, rana. – non sopportava che qualcun altro facesse da suo intermezzo, lo faceva sentire un impedito.
-Pensavo che ti vergognassi di dirlo…- provò a giustificarsi sulla difensiva.
-No, è il tuo maledetto gene francese che ti fa parlare troppo. –
Avevano cominciato le loro solite discussioni, ma Elizabeta li interruppe subito
-I tuoi figli?- sembrava molto sorpresa. E come non esserlo?
L’inglese fece una smorfia come per dire “è una storia lunga” e per un attimo dovette fronteggiarsi con l’occhiata sorpresa della ragazza.
Dopo un po’, l’ungherese fu come risvegliata da un sonno catatonico –I tuoi figli! Tu sei padre?- fece un urletto esaltato –Oh, ma è meraviglioso. – si chinò per guardare meglio Alfred –Eh, si…ti somiglia un pochino…-
-Sono due, in realtà…- gli fece notare Arthur. Perché nessuno si accorgeva di Matt al primo colpo?
 Elizabeta si girò verso il secondo bambino e come se volesse scusarsi, gli fece una carezza sul volto.
-E quando conosceremo la signora Kirkland? – chiese, figurandosi già nella sua mente il tipo di donna
-Mai. – fece laconico e nonostante la voce grave dovesse intimarle di non fare domande, Elizabeta non smise
-Vi siete lasciati?-
-No, è morta. –
Per un po’ ci fu silenzio. L’ungherese si affretto a scusarsi e l’inglese, con un sorriso tirato replicò che non era successo nulla, in fondo lei non poteva saperlo.
Il silenzio calò nella stanza, rendendo la situazione più imbarazzante di quanto non lo fosse stato prima. Fu Francis a rompere il ghiaccio
-Come sta il vecchio Gil?-
L'altra assunse un’espressione indifferente –Lo vedi più di me. -
Francis, Antonio, Gilbert, l’inseparabile trio. La gente che aveva a che fare con quei tre erano divisi in due nette parti. Una fazione sosteneva che fossero i tipi più originali e simpatici del mondo intero e effettivamente esageravano. Un’altra parte, seppur piccola, affermava che quei tre fossero solo degli idioti casinisti, un trio di bontemponi bravi solo a combinare ragazzate.
Arthur si considerava membro di quest’ultima parte ed esagerava.
Elizabeta idem, solo che a differenza dell’inglese, era la ragazza di uno dei tre.
-Avete ancora litigato?- domandò Francis piuttosto sorpreso.
-No…-
Arthur ormai doveva sorbirsi quotidianamente le litigate di Elizabeta e Gilbert, perché quei due litigavano per tutto, dal conto per la cena al carattere megalomane di Gilbert.
Gilbert Beilschmidt veniva da Bonn con una laurea da avvocato e tante folli pretese per la testa. Ad esempio, era convinto che sarebbe stato lui a far cadere il muro di Berlino e la prima cosa che avrebbe fatto dopo quell’evento, che per lui sarebbe accaduto presto o tardi, era trasferirsi a Berlino con il fratello minore.
Era la persona più vanagloriosa che Arthur avesse mai conosciuto, basti pensare che il suo biglietto da visita citava “Gilbert Beilschmidt: avvocato per diletto, magnifico per professione” e che la sua targa personalizzata dell’auto era “IMGR8”.
-E allora cosa?- insistette
-Fattelo dire da lui…- era parecchio innervosita, ma poi il suo sguardo tornò ai bambini e la sua bocca si curvò in un ampio sorriso
-Oh, ma quanto siete belli! E pensare che ho sempre immaginato il vostro papà insieme ad Antonio…-
-Che cosa?- la interruppe Arthur parecchio allarmato e soprattutto, terrorizzato da quella prospettiva –Ma cosa blateri, Elizabeta?-
La ragazza gli fece un occhiolino, poi si avviò verso il corridoio –Vado a cambiarmi…-
-Dovrei anche io. – avrebbe dovuto lasciare i bambini con Francis, ma sinceramente non si fidava di lui, per cui decise che avrebbe aspettato il ritorno della sua collega.
-Papà, ma dove sono le pistole? E i cattivi?- Alfred sembrava piuttosto deluso, ma ci pensò Francis ad accontentarlo.
-Beh, di cattivi per fortuna non ce ne sono…- gli passò una mano tra i capelli, ignorando lo sguardo truce dell’inglese –Ma alle pistole potremo riporre rimedio…- estrasse la pistola d'ordinanza dal cinturone, provocando un verso di meraviglia non solo in Alfred, ma addirittura in Matthew.
-Posso prenderla in mano?- chiese subito Alfred, mettendosi sulle punte per toccarla.
- Francis…- cercò di intervenire il padre dei due preoccupato, ma il francese non fu così incosciente e rimise la pistola al suo posto.
-Mi dispiace, ma ho la brutta impressione che a vostro padre stia per venire un infarto. -
In effetti era così e l’inglese si sentì molto più tranquillo quando il suo collega rimise la pistola nella fondina del cinturone.
Aspettò che rientrasse anche Elizabeta e uscì a cambiarsi anche lui. Quando tornò, trovò l’ungherese mentre dava buffetti sulla guancia ai suoi figli, accompagnati da complimenti che nascondevano una maternità fortemente voluta.
I bambini, quando lo videro in divisa da poliziotto fecero fatica a staccargli gli occhi di dosso, specialmente Alfred, che affermò in tono serio che da grande avrebbe voluto essere come lui.
Il fascino dell’uniforme, insomma, aveva contagiato anche i suoi figli.
-Oh, ma sono tenerissimi…- continuava a ripetere Elizabeta
Fu a quel punto che gli venne un’idea –Ti piacerebbe fargli da Baby sitter?- in fondo, Eliza sembrava una donna a posto, molto affettuosa e anche abbastanza simpatica.
La ragazza la guardò stranita –Io?-
-Ti pago…- si affrettò ad aggiungere.
-Non è questione di soldi. – sembrava quasi piccata perché Arthur aveva pensato ai soldi come se per lei fossero un problema –Solo che…io lavoro. –
-Hai ragione, scusa. –
L’ungherese sembrava molto dispiaciuta –Magari potrei darti una mano, nei giorni in cui sono libera. –
-E anche io…- aggiunse Francis.
Rimase spiazzato, a dire il vero. Non si aspettava tanta generosità dai suoi colleghi, aveva subito pensato che l’avrebbero lasciato solo con se stesso, ma non li ringraziò. Prima di tutto perché non voleva assolutamente far vedere che era loro riconoscente, secondo, perché un “buongiorno” quasi urlato li fece girare tutti.
-Salve. Contenti di vedermi? Il buongiorno si vede dal mattino, per questo sono venuto a rendervi la giornata migliore con la mia unica e sola presenza!-
Doveva aspettarselo. Anche se lavorava in uno studio legale, Gilbert veniva sempre ogni mattina per salutare Elizabeta.
-Eih, ciao Gil!- salutò di rimando Francis, abbracciando fraternamente il suo migliore amico.
L’ungherese invece si limitò a sbuffare, irritata per come si era annunciato il tedesco, e riprese l’attività che stava facendo prima, ossia fare la dolce con i figli di Kirkland.
 Gilbert invece sembrò non notare affatto i due pargoli, o meglio, li notò solamente quando Elizabeta virò insistentemente lo sguardo su di lui.
Elizabeta e Gilbert, strano a dirsi, stavano insieme tra alti e bassi più bassi che alti. Ma non erano una di quelle coppie che erano sempre lì a riempirsi di amorevoli carezze in ogni angolo del mondo.
Erano discreti e ad un primo sguardo neanche si sarebbe capito che stavano insieme. Insieme sul serio, visto che avevano deciso di comprare una casa insieme.
-Em…perché mi guardi così?- domandò sospettoso.
L’ungherese per tutta risposta si avvicinò a lui con passo felpato e disinvolto –Voglio un bambino. – esordì con voce melliflua
Il suo fidanzato deglutì –E io cosa c’entro?-
Elizabeta non la prese affatto bene e gli diede uno scappellotto dietro la testa.
- Ahi! Che ho detto di male?-
-Sei un idiota e pensi solo a te stesso. –
-Ma, cara…non credi sia troppo presto per pensare ai bambini?- Gilbert ed Elizabeta avevano la stessa età di Francis.
- No. Questi figli sono di Arthur e lui è più giovane di noi-
Arthur diventò rosso di rabbia.
Perché dovevano spargere il suo segreto ai quattro venti?
Gilbert lo squadrò come se fosse stato un alieno molto brutto –Davvero?- chiese scettico, rivolto all’inglese.
-Si…- rispose distrattamente per poi lanciare uno sguardo ad Alfred e Matthew, che sembravano un po’ spaesati.
-Ecco, me li avete spaventati…- in fondo, doveva aspettarselo –Venite, bambini, andiamo a prendere un po’ d’aria. –
Li prese per mano e uscirono dall’ufficio sotto gli sguardi dispiaciuti di Gilbert, Francis ed Elizabeta.
-Papà, ma quelli sono i tuoi amici?- Sembrava che Matthew non approvasse il gusto di suo padre in termini di amici.
-No, no di certo. – si affrettò a rassicurarlo.
 
 
I bambini tutto sommato, parvero divertirsi al lavoro. Alla fine al di là delle apparenze, Elizabeta e Gilbert erano simpatici, anche se mai quanto Francis.
Lo stesso discorso non valeva per Arthur.
Una volta fuori, sentì una voce chiamarlo da dietro –Eih, Arthur!- avrebbe riconosciuto la sua voce tra mille.
-Che c’è?-
-Non vorrai portare i tuoi bambini su un autobus durante l’orario di punta?- domandò retorico Francis. Guardò i piccoli Kirkland che a loro volta fissarono il padre speranzosi.
-Io…-
Il francese si accese ulteriormente –Potremo pranzare insieme da qualche parte, che ne dite bambini?-
Da quando faceva lui proposte ai SUOI figli? –Se non ti dispiace, Francis, sono i miei figli e decido io cosa fanno o no . Da qualche tempo a questa parte tu stai troppo tirando la corda…-
Si sentì tirare un braccio da Alfred –Papà, ieri ci avevi promesso che andavamo a mangiare al McDonald…- dentro di se maledì la lingua lunga del figlio.
-Visto?- gli fece Francis di rimando, capriccioso quanto Alfred  –Cosa ti costa?-
Gli costava molto. Sentiva che c’era qualcosa nelle gentilezze che Francis gli rivolgeva che proprio non gli convinceva, ma siccome i suoi bambini premevano molto per andare a mangiare fuori, chissà perché, si rassegnò e accettò il secondo passaggio da parte di Francis.
-Lo sai che quando fai l’arrendevole sei proprio carino? Mi verrebbe voglia di darti un bacio…-
L’inglese si allontanò dal collega e si trascinò dietro i bambini –Osa solo provarci, Francis e saprai come sono quando mi arrabbio veramente. -
 
 
Francis purtroppo sapeva com’era Arthur quando si arrabbiava. Cioè, quando si arrabbiava davvero.
Lo ricordava come se fosse stato ieri. E come dimenticarselo? Il 22 giugno del 1986, servizio mattutino, nessuno a rompere le scatole.
Antonio in quei giorni si era portato un televisore da casa per guardare i mondiali perfino in ufficio e quel giorno l’Inghilterra giocava i quarti di finali contro l’odiata Argentina.
Il viso accaldato di Arthur, terribile hooligan per un giorno, Francis non se lo sarebbe mai scordato. Quando urlò che Maradona era solo fortunato, quando fece gli elogi di un’ oretta circa a proposito di Lineker.. il grande Lineker! Sei reti in un mondiale, è un mito…ecco, se lo ricordava ancora a memoria!
Alla fine, tutti sanno che fine fece l’Inghilterra…
Elizabeta ed Antonio l’avevano lasciato perdere e abbandonato al suo destino di tifoso che aveva visto la sua squadra perdere. Ma Francis no .
-Insomma, avete fatto la vostra bella figura, no?-
Arthur lo fulminò con lo sguardo –Neanche per sogno! Odio gli Argentini, sono degli attaccabrighe inutili! 2 a 1…2 a 1, capisci? E poi, quello stronzo di Maradona cosa va a dire: Mano de Dios .-
Sarebbe stato molto divertente guardarlo se quell’inglese non fosse così affaticato e folle in quel momento. Il suo delirante sproloquio stava andando avanti imperterrito –Mano de Dios .- ripeté pacato –Mano de Dios?- alzò la voce, come se avesse intuito solo in quel momento il vero significato –Mano de Dios il cazzo!-
Il francese non aveva mai sentito quelle parole in bocca ad Arthur e di primo acchito gli fece impressione. Non lo riconosceva più, parlava come uno scaricatore di porto e si controllava a stento.
-Capita di perdere, no?- Francis non amava il calcio. Certo, si trasformava anche lui quando la Francia segnava, ma certo non diventava come quell’ hooligan.
-Non capisci, insulsa rana? Per noi inglesi perdere a calcio è orribile… insomma, l’abbiamo inventato noi, maledizione!- ed ecco che cominciava la tiritera. Questa volta aveva optato per un malocchio a Maradona e la speranza che quei bastardi avessero perso.
Invece gli argentini vinsero i mondiali, per lo sconforto di Arthur.
La cosa peggiore fu che la Francia e la Germania Ovest arrivarono rispettivamente al terzo ed al secondo posto e quindi dovette subire i festeggiamenti di Francis e Gilbert.
-Bastardi…- borbottava dall’angolino della sua scrivania dell’ufficio.
-Dai, Arthur, non prendertela. Guarda me, gli spagnoli hanno perso contro il Belgio eppure non mi lamento!- Antonio era pessimo come confortante. Era troppo allegro per i suoi gusti.
 -è tutta colpa di Diego Armando Maradona e della sua fottuta mano!- continuava a ripetere a tutti quanti.
-Mon cher, avrebbero vinto lo stesso! E poi a me Maradona sta simpatico!- Francis ammiccò divertito.
-Vaffanculo…- sibilò senza mezzi termini. Successivamente, avrebbe detto che gli argentini avevano vinto i mondiali, ma intanto gli inglesi avevano le Falkland.
Eppure, in cuor suo, avrebbe tanto preferito il contrario!
 

Sinceramente, non era del tutto sicuro di voler far arrabbiare Arthur, ora come ora. Vederlo strepitare era divertente, ma non era del tutto certo di come l’avrebbero presa i bambini.
Fece un sorrisetto per sdrammatizzare e non replicò più nulla
 
 
 
 
 
 
Scusate il ritardo, ma purtroppo la scuola mi ha oberato e quindi non sono stata al computer per settimane intere. Spero comunque che il capitolo sia piacevole, anche perché ci ho messo tutto il cuore per scriverlo ^^
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 6
*** Fight like a brave ***


 Se ci pensava, non era poi passato molto tempo da quando era arrivato alla stazione di Charleston per prendere il treno per New York.
Cinque anni erano sempre cinque anni, certo, ma confrontati con tutta la sua vita erano assolutamente insignificanti e comunque, era vero che erano accadute troppe cose, anche per un arco di tempo così lungo; la “fuga” da casa, l’arrivo nel West Virginia, i genitori di Eileen e poi Eileen stessa.
Ora, sempre con la stessa velocità che lo travolgeva inconsapevolmente, si era trovato ad essere il padre di due bambini e quei bambini erano seduti là, nei sedili posteriori della Renault nuova di zecca di Francis.
-A cosa pensi?- il suo collega lo distolse dai suoi pensieri –Hai uno sguardo strano…-
-A nulla. – tagliò corto, girandosi verso il finestrino per guardare il paesaggio. New York era una città particolare, ogni suo quartiere possedeva una peculiarità che lo rendeva distinguibile dagli altri: dalla vivace e frenetica Harlem, alla moderna Manhattan passando per Brooklyn, quella città era una fonte inesauribile di sorprese.
Arthur la trovava un tutto di nulla, un crogiolo di nazionalità, persone che alla fine non sapevano più se definirsi americani o altro.
I suoi pensieri vennero nuovamente interrotti dalla radio che Francis aveva acceso, probabilmente per riscaldare l’atmosfera.
Conosceva bene la canzone che stavano trasmettendo
-Fight like a brave?-  domandò Francis.
Arthur, che amava molto quel genere di musica, annuì –Red Hot Chili Peppers. Uno dei pochi gruppi rock statunitense a non far schifo. –
-Che severo!- la voce di Francis suonava fastidiosamente ironica per i suoi gusti –Certo, voi in Inghilterra avete la crème della crème. –
L’inglese lo guardò malissimo –Sfotti? I Red hot non sono minimamente comparabili ai Queen, ai Genesis o ai Beatles. –
-Questioni di gusti…-
-Già…però mi piacciono abbastanza. Sono più raffinati dei Sex Pistols, questo è certo. –
La risata dell’amico gli fece saltare la mosca al naso –Uno come te ascolta i Sex Pistols?-
Fece spallucce –Cosa c’è, è vietato?- usò un tono di voce un po’ aggressivo, ma con Francis era quasi inevitabile farlo.
-No, no…- rispose sulla difensiva –Solo che da uno come te mi è parso strano…-
I bambini, ascoltavano la conversazione parecchio incuriositi, sembrava non volessero perdersi neanche una parola.
Arthur fece un sorrisetto sornione –Evidentemente non mi conosci bene…-
Era vero, in effetti. Arthur di Francis sapeva solo che era un pervertito antipatico e non aveva mai voluto approfondire più di tanto.
Il francese gli rivolse un’occhiata maliziosa –Beh, a me piacerebbe conoscerti…in modo più approfondito!-
Arthur sperò ardentemente che i suoi bambini non avessero colto il doppio senso… sicuramente non l’avevano colto anzi, forse era stato solo lui a vedere un gioco di parole che in realtà non c’era, ma diede comunque un leggero schiaffo sulla guancia di Francis –Pensa a guidare. Ma tu non avevi una ragazza?-
-Certo e stiamo d’incanto. –
-E Sophie si è fatta più risentire?-
Francis a quel punto borbottò qualcosa a proposito di un numero che aveva scritto in modo sbagliato e Arthur ghignò divertito.
-In realtà, io lo so perché non ti ha telefonato .- vedere la carnagione del francese farsi pallida era stata una grandissima soddisfazione. Certo, era estremamente infantile da parte sua umiliare i fallimenti sentimentali di qualcuno in quel modo, ma se quel qualcuno era Francis tutto assumeva un significato diverso.
-Sai, dovresti chiedere alle ragazze se sono fidanzate o meno, prima di dargli il tuo numero. È solo un consiglio, eh?–
Ironia. La migliore arma di cui disponeva. Non aveva mai visto Francis così imbarazzato e al contempo irritato.
In quel momento Matthew, quasi come se avesse intuito il disagio che in quel momento Francis provava e avesse provato tenerezza per lui, domandò se mancasse ancora molto.
-No, piccolo. – il francese sembrava quasi grato al bambino per aver cambiato argomento, infatti la sua voce risuonava dolce, quasi paterna –Siamo quasi arrivati, abbi solo un po’ di pazienza. –
Arthur a quel punto si sentì un po’ in colpa per come si era rivolto a Francis, ma il suo orgoglio gli impose di rimanere sulla sua posizione, quindi non aggiunse nulla.
- Burger King? È meglio o peggio del Mac Donald?- Arthur odiava i fast food. Il cibo spazzatura, l’odore di fritto e Ronald Mac Donald, o i clown in generale, non l’avevano mai attratto granché.
Lui ci aveva provato a fare uno sforzo, ma il meglio che era riuscito a fare in quegli anni era stato mangiare l’hamburger con la Coca cola e alla fine era giunto alla conclusione che nulla era meglio del suo amato fish and chips.
- Boh, sono uguali. – a dire il vero, neanche a Francis piacevano i fast food. Lui era più tipo da “nouvelle cousine”, roba altolocata, insomma –Ma qui ci lavora una mia amica…-
-La tua ragazza?-
Scosse la testa, ma Arthur continuò a domandarsi il perché di quel sorrisetto malizioso che era appena apparso sul volto del collega.
Entrarono e si sederono su un tavolo, mentre Francis continuava a guardarsi intorno pensieroso, come se stesse cercando qualcuno. Evidentemente alla fine lo trovò, perché fece un gran sorriso, si alzò in piedi e agitò in alto la mano in segno di saluto.
-Smettila, ci stanno guardando tutti. – Arthur detestava attirare troppo l’attenzione degli altri. O meglio, gli piaceva tantissimo essere al centro dell’attenzione, solo però quando faceva cose grandiose e quella non era certamente una cosa grandiosa.
Una ragazza però, ricambiò il saluto del francese e fece per avvicinarsi al loro tavolo. La divisa da cameriera le stava bene e in generale, era davvero una ragazza molto carina, che non poteva avere più di vent’anni.
Camminava spedita e ad ogni passo che muoveva, i capelli castani ondeggiavano ora a destra, ora a sinistra.
-Eih, Francy!- salutò allegra, dandogli un veloce bacio sulla guancia.
-Ciao Ellie. – il tono di voce del francese era decisamente più pacato –Lui è Arthur. –
La ragazza squadrò Arthur da capo a piedi e gli porse la mano –Piacere di conoscerla. –
-Piacere mio. – Ellie gli stava stringendo la mano in una morsa energica e poté giurare di avergliela indolenzita.
- C’è Sesel?- continuò Francis, mentre la ragazzina era concentrata a fissare Arthur, poi Alfred e infine Francis.
Ci pensò un po’ su –Sì, dovrebbe essere arrivata. Te la chiamo?-
-Prima ordiniamo, poi la chiami. È da tanto che non la rivedo. –
Ellie fece un sorriso ancora più largo –è stata impegnata di recente, con gli studi. –
L’altro sorrise a sua volta –Lo so. È una brava ragazza…-
Il primo ad ordinare fu Alfred che scelse un hamburger, patatine fritte formato maxi e una lattina di coca cola. Arthur pensò tristemente ai sanissimi fagioli che avrebbe tanto voluto cucinare quel giorno.
Fu il turno di Matthew che scelse un sandwich, le patatine e una bottiglia d’acqua, il che per un fast food è più che salutista.
Francis invece optò per un hamburger e le crocchette di pollo, ciò che c’era di più decente a suo parere nel menù.
Il difficile venne quando toccò ad Arthur che, guardando il menù con aria minacciosa come se si trattasse di chissà quale arma di distruzione di massa domandò a denti stretti se c’era qualche verdura.
Ellie sbattè gli occhi confusa –Nell’ hamburger c’è il pomodoro…oppure nel cheesburger c’è…- balbettò piuttosto confusa, prima che l’inglese la interrompesse.
-Insalata. – si affrettò a rispondere. Non voleva sentire più pronunciare la parola “burger”.
La ragazza lo guardò un po’ estraniata –Condita?-
-Semplice. Senza cipolle, senza salse. Se proprio dovete metterci qualcosa, sale ed olio. E s’è possibile, vorrei anche delle patatine fritte, il formato più piccolo che avete, grazie.–
Francis e Alfred stavano ridendo sotto i baffi e quando Ellie se ne andò lo presero in giro tutto il tempo.
-Tu sei l’unico che va ad un fast food e ordina l’insalata. – Francis lo stava letteralmente prendendo in giro e questo lo urtò parecchio.
-Siete voi che mi avete costretto! – incrociò le braccia offeso
-Papà, ma morirai di fame con solo un po’ di insalata. – Alfred aveva le lacrime agli occhi
Suo padre sbuffò e si rivolse a Matthew con aria complice –Ho fatto bene, vero?-
Credeva che il bambino lo avesse appoggiato, invece fece segno di no con la testa
- Arthur, rassegnati, anche Matt è dalla nostra parte. – Francis fece un occhiolino ai bambini e Arthur borbottò qualcosa tra se e se che nessuno dei tre capì.
A portargli il cibo non fu Ellie, ma un’altra ragazza anch’essa molto giovane, dalla pelle color caffellatte e i capelli corvini legati in due codine.
-Ecco ciò che avete richiesto. – poggiò tutto sul tavolo e poi guardò Francis come se lo conoscesse da una vita; sicuramente quella era la Sesel di cui Francis aveva chiesto notizie ad Ellie e infatti disse –El mi ha detto che volevi vedermi. –
Il francese annuì –è da tanto che non ti vedo. – mentre con Ellie era stato più libero e sicuro di se, con quella ragazza sembrava più a disagio.
-Sì, lo studio mi ha sorbito completamente…- si guardò alle spalle –è un tuo amico?– Arthur sapeva che stava parlando di lui.
L’altro ridacchiò –Ti interessa conoscerlo per caso?-
Sesel arrossì fino alla punta dei capelli –No…no, certo che no .-
-Si chiama Arthur, ma è un tipo frigido, non te lo consiglio…-
L’inglese arrossì di rabbia –Come ti permetti, insulso vinofilo del cavolo. Io non sono frigido, sei tu ad essere un libertino, un maniaco e…- si interruppe perché quelli del tavolo a fianco lo stavano fissando con un’aria troppo divertita e aveva paura che i suoi figli lo scambiassero per un tipo maleducato.
La giovane mormorò timidamente “è stato un piacere conoscerla” e con la coda tra le gambe, tornò a svolgere il suo lavoro.
- Ho chiesto un insalata condita con olio, non olio condito con insalata. – commentò cinicamente il britannico alla vista del suo piatto –C’è più olio qui che in un frantoio. -
-Accontentati. – Francis diede un morso al suo panino e cominciò a masticare in silenzio.
L’unico che parlava in quel momento era solo Alfred che, impossessatosi del ketchup, cominciò a versarlo tutto sulla sua porzione di patatine.
-Non mettercene troppo. – lo ammonì suo padre con voce perentoria.
-Ma senza il ketchup le patatine non sono buone. – il bambino sembrava il guru dei fast food in quel momento.
L’unico che mangiò controvoglia quel giorno fu Arthur. I pomodori della sua insalata sembravano non vedessero la luce del sole da una vita per quanto erano malsani e le carote non avevano sapore. Si accontentò di mangiare tristemente le sue patatine, ma si pentì di non aver preso un hamburger.
-Vuoi un po’ del mio, papà. – Matthew sventolò il sandwich mangiucchiato sotto i suoi occhi e Arthur sorrise dolcemente.
-Non preoccuparti, tesoro, mangialo tu. –
Alfred invece non sembrava intenzionato a dividere il cibo con nessuno e cominciò ad ingozzarsi come se non avesse mai mangiato in vita sua.
- Artie, sul serio, hai mangiato pochissimo…ordina qualcos’altro!-
Da quando Francis si preoccupava per lui? –Prima di tutto, non chiamarmi Artie! Secondo: fatti gli affari tuoi!-
-Ma hai mangiato solo un insalata…io lo dico per il tuo bene- insistette
-Taci…lo dico per il tuo bene. – fece di rimando e la sua voce irremovibile costrinse Francis a non ribattere più nulla.
In realtà Arthur stava pensando a cose più importanti. Avrebbe dovuto cercare la Baby Sitter per i gemelli, andare dal giudice per riconoscerli e sistemare la loro stanza.
Per il giudice avrebbe provveduto l’indomani, per la stanza avrebbe dovuto cominciare quel pomeriggio stesso, anche perché non avrebbe resistito una settimana su quel divano così duro.
Guardò il francese: molto probabilmente se gli avesse chiesto aiuto, lui glielo avrebbe dato.
Con i suoi bambini, il collega si comportava molto meglio perché era affettuoso e gentile ma, soprattutto, non si comportava come un pervertito. La sua superbia però gli impediva di chiedergli qualsiasi tipo di assistenza, soprattutto ad uno come lui…
-Cosa farete oggi pomeriggio?- si informò Francis dopo aver finito di ingoiare il suo ultimo boccone di panino, come se avesse sentito tutti i pensieri dell’inglese dal primo all'ultimo
-Forse sistemerò la camera dei gemelli, ma non credo che riuscirò a finirla in tempo e…Francis, mi stai ascoltando?-
No, Francis non lo stava ascoltando, preso com’era a guardare le curve della ragazza che stava seduta davanti a loro. Arthur emise un sospiro esasperato; gli dava fastidio non essere calcolato
-Davvero sistemerai la nostra cameretta?- almeno Alfred prestava attenzione, anche se solo per le cose che lo interessavano.
-Sì e magari riuscirò anche a disporre le prime cose…-
 “se monsieur ‘sbavo su qualunque sedere decente io veda ‘ non si sbriga a finire di mangiare.” Aggiunse tra se e se fulminando l’altro con un’occhiataccia e Francis, accortosi di essersi incantato, sbatté le palpebre e guardò il suo collega come se avesse appena ricevuto una botta in testa.
-Sei sempre il solito…devo ricordati che sei fidanzato, frog?-
Sbuffò alzando gli occhi al cielo –Sei un rompiscatole. E comunque, non è un peccato ammirare come Madre Natura manifesta la Bellezza. –
L’altro scosse la testa sconcertato –Mi chiedo come facciano le donne ad amarti. –
-Non solo le donne…- la sua voce era quasi un sussurro, ma Arthur lo capì comunque. Incapace di ribattere altro, rimase in silenzio fino a che il francese non decise di alzarsi per andare a pagare.
Fece per prendere il portafoglio, ma Francis lo fermò –Offro io. –
-Non se ne parla, vinofilo. –
-Hai i bambini, a te i soldi servono di più . – ribatté irremovibile
-Non farmi arrabbiare, maledizione. Ho detto che pago io. –
Era incredibile, litigavano anche per chi doveva pagare il conto. Arthur lo trovava stupido, ma doveva far valere assolutamente le sue ragioni. Non voleva dipendere da quel francese…
-Scusate…- intervenne piano Matthew –Perché ognuno non può pagare per se?-
Al bambino sembrava così ovvia la soluzione, non capiva perché quei due stessero litigando in quel modo.
Alla fine gli adulti dovettero dar ragione al piccolo americano e pagarono ognuno per conto proprio.
-E quindi, sistemerai la camera dei gemelli…- riprese a parlare Francis.
Lo guardò stupito –Ma allora mi stavi ascoltando!-
-Certo che ti stavo ascoltando…- alzò il collo, salutò Sesel che ricambiò con un occhiolino e gli fece segno di raggiungerli
-Devi dirmi qualcosa, Fra?- la ragazza sembrava nervosa, come se il fatto che Francis avesse chiamato proprio lei l'avesse messa in agitazione.
-Sì…vedi, il mio amico qui…- con un cenno indicò Arthur –Ha bisogno di una Baby Sitter per i suoi bambini. Non è che tu conosci qualcuno che potrebbe essere disponibile?-
Arthur rimase sconcertato da quella domanda e fu piuttosto colpito da come Francis poteva essere gentile alle volte. Naturalmente, alle volte, perché per tutto il resto del tempo restava il solito pervertito con cui non voleva avere nulla a che fare.
Sesel ci pensò un po’ su –Ho un’amica che fa la maestra in un asilo…- girò lo sguardo verso Arthur e le sue guance si colorarono di rosso –Ecco, magari posso darti l’indirizzo…-
-Grazie!-
La ragazza sorrise allegramente –Per la Baby Sitter… ho un’amica che cerca lavoro, ma non sono sicura  che sia disponibile…-
Arthur la interruppe –Facciamo così; appena trovi qualcuno, mi chiami…-
Sesel si morse un labbro e accennò un sorriso ancora più giulivo del precedente –Oh, ma certo…ti do un pezzo di carta, così mi scrivi il numero. – Mentre la ragazza stava parlando con il britannico, Francis andò di nuovo al tavolo che avevano occupato poco tempo prima si avvicinò alla ragazza che aveva adocchiato e le sussurrò –Mi permetta di dirle, che i suoi genitori hanno fatto davvero un bel lavoro. –
Quella, che era alle spalle del francese, si girò e gli rivolse uno sguardo parecchio stupito. Non ebbe neanche il tempo di domandargli chi cavolo fosse, che Francis si era allontanato ed era uscito fuori dal fast food in compagnia di Arthur e dei bambini.
-Insomma, potrei darti una mano…- Francis si stava riferendo alla camera di Alfred e Matthew –Sai con i lavori. Potrei invitare Gil e Tonio, se vuoi…-
-Sì, così farete tutto meno che lavorare. – il francese se l’aspettava quella risposta dall’inglese; riguardo a ciò che pensava del loro trio, Arthur era sempre stato trasparente
Scosse la testa –Sei talmente tronfio che non accetti neanche un aiuto genuino da parte mia. – il suo tono di voce suonava leggermente polemico
-Non è questione di tronfiezza, è questione di antipatia…-
- Francis, ma cosa hai detto a quella ragazza?- Alfred, caparbio ad ottenere quell’attenzione che fino a quel momento si era affievolita, interruppe la conversazione con voce prominente.
-Vedi, Al…se una ragazza ti piace, faresti di tutto pur di farglielo capire, giusto?-
Visto che il bambino lo guardava con aria spaesata, fece un sospiro e accennò ad un sorriso leggero –Lo capirai quando sarai più grande…- poi si rivolse ad Arthur –Bella mossa, quella di dare il numero di telefono a Sesel…-
L’altro arrossì violentemente –Ma cosa dici?-
-Insomma…- continuò –Si vede che stai imparando dal maestro, cioè moi! Sesel poi è davvero molto bella. –
Ma perché quel francese credeva che tutto fosse sesso e seduzione? Era quello uno degli atteggiamenti che Arthur meno sopportava di lui –Non ci stavo provando con lei. È troppo piccola!-
Il francese fece una smorfia di delusione –Ha vent’anni, solo cinque anni in meno. E poi, credimi, è davvero eccezionale! – il suo tono malizioso la diceva lunga
-Oh, no! Non dirmi che…-
Francis ridacchiò perché aveva capito come Arthur volesse terminare la frase –E non una volta sola .-
-Fai schifo…- si affrettò a ribattere
Ancora una volta, i loro discorsi vennero interrotti dalla vocina esuberante del piccolo Alfred che stava tirando Arthur dal lembo dei pantaloni
-Papà, mi porti sulle spalle fino alla macchina di Francis?-
Arthur lo guardò con gli occhi sgranati -Cosa? Ma sei pesante!-
Il bambino fece un verso bizzoso, come se avesse intenzione di ottenere quella voglia a tutti i costi
-Ti prego! Ti prego ti prego ti prego, portami sulle spalle!-
Francis sorrise e come se volesse dare una dimostrazione all’altro di come doveva fare, prese Matthew in braccio con delicatezza.
Arthur sbuffò: se c’era una cosa che più lo infastidiva di Francis era come si atteggiava con i suoi figli. Erano suoi e lui non li doveva toccare per nessuna ragione al mondo.
Fece finta di niente per non mettersi in cattiva luce davanti a Matt, che sembrava felice di ricevere attenzioni dal francese e tirando un sospiro, sollevò Alfred di peso e se lo portò sopra le spalle. Non pesava poi così tanto…
-Ah, che bello!- esclamò il bambino entusiasta –Si vede il mondo intero da quassù…-
Arthur sorrise tra se e se di quell’esagerazione così puerile.
-Lo sai che quando sorridi mi piaci di più?-
Ecco! Perché Francis doveva sempre guastargli l’umore con i suoi stupidi apprezzamenti?
-Pensa a tenere stretto mio figlio, che se cade non risponderò più delle mie azioni…-
I bambini non si curavano più di tanto dei battibecchi dei due, ma chiacchieravano e ridevano tra loro fino a che non raggiunsero l’auto di Francis, allora scesero e Alfred insistette per sedersi davanti, mentre Arthur si accomodò al sedile posteriore, vicino a Matthew.
Stette zitto per tutto il tempo perché era più preso ad ascoltare i discorsi di Francis ed Alfred che a fare altro.
-Un giorno possiamo andare insieme a Central Park a fare un pic- nic…- stava dicendo Francis.
Ad Alfred gli si illuminarono gli occhi –Sì...papà, ci andremo, vero?-
-Certo. – sembrava essere appena tornato sulla Terra, talmente il suo tono di voce suonava stralunato
-Lo sai, Francis, la mamma ci portava a fare i pic- nic ogni fine settimana e a me piacevano tanto perché lei ci faceva arrampicare sugli alberi e una volta è perfino salita su un cavallo…-
-Deve essere stata una brava mamma- commentò il francese con tenerezza
-La migliore!-
Arthur guardò Matthew seduto vicino a lui. Non sembrava triste, ma sapeva che tra i due gemelli era quello più sensibile, perciò si avvicinò a lui e gli accarezzò i capelli piano, quasi come se non volesse farsi sentire.
Era difficile ammettere che si era amaramente pentito di essersi trasferito a New York. Se non lo avesse fatto, magari a quell’ora avrebbe avuto un rapporto più saldo con i suoi figli e Eileen sarebbe stata ancora viva. Magari si sarebbero sposati e sarebbero diventati una vera coppia.
Ciò che desiderava di più adesso era far conoscere ai suoi figli una figura paterna, la migliore figura paterna che avessero mai immaginato.
-Adesso papà ci sistemerà la stanza, lo ha detto proprio oggi…-
Arthur non credeva che a Francis importasse molto, ma da come interagiva, sembrava che ciò che stesse dicendo il piccolo fosse vangelo
-Avrà bisogno di aiuto…- la sua voce sembrava pensierosa, ma l’inglese sapeva che era fatto apposta, come se non vedesse l’ora che il bambino lo invitasse a casa loro
-Sì. Papà, Francis ti potrebbe aiutare!- quello che Alfred aveva percepito subito come un’ottima idea, Arthur lo vedeva come un incubo. Non tanto per Francis, un po’ di aiuto in fondo non gli guastava affatto, ma quanto all’idea di avere compresi nel prezzo anche quei due rompiscatole di Gilbert ed Antonio.
-Io…-
-Avanti, Arthur, non fare il solito guastafeste. –
Diede un’occhiata a Matthew, che stava a guardarlo con uno sguardo pieno di speranza; a lui Francis piaceva un sacco e Arthur lo intuiva molto bene.
Sbuffò. Per quanto non sopportasse quell’idea, ai suoi bambini Francis aveva fatto una buona impressione e non poteva deluderli in quel modo. Era un pochino geloso, anzi, a dirla tutta era totalmente geloso dei suoi figli, ma non gli pareva una saggia mossa tagliare i ponti con quel francese.
Non perché gli dispiaceva, sia ben chiaro, ma perché sarebbe dispiaciuto ai bambini.
-Un po’ d’aiuto, forse…dico forse…non mi farebbe male. –
-Era un sì?-
Fece un altro sbuffo –Era un forse…- precisò irritato. Non gli andava di essere bollato come una persona arrendevole perciò avrebbe fatto oscillare Francis tra il sì e il no fin sotto casa e poi l’avrebbe invitato ad entrare, ma solo perché gli faceva una gran pena,.
In questo modo lui aveva l’orgoglio intatto e un aiuto in più…si complimentò con se stesso e continuò a guardare il paesaggio newyorkese che scorreva veloce davanti a lui.



 
 
 
 
 
 
Salve a tutti!
Allora, questo capitolo è stato un po’ più combattuto degli altri perché non riuscivo a trovare la canzone che mi ispirasse. Poi l’ ho trovata e mi ha dato talmente tanto sostegno (una canzone può anche sostenere u.u) che ho deciso di scriverla come titolo –anche se di per se c’entra poco con il contesto-
Quindi, ne approfitto per omaggiare quella meraviglia di gruppo musicale quali sono i “Red hot chili peppers” e la loro canzone “fight like a brave”, che non è proprio una delle mie preferite, ma era una canzone del 1987 (della serie, la precisione storica non finirà mai *_*)
Ellie è una mia OC che rappresenta lo stato di New York. La mia beta mi ha fatto notare che la storia diventa più realistica se aggiungo personaggi americani, per cui ho deciso che qua e là inseriro alcuni miei OC che rappresentano gli stati degli USA (naturalmente, avranno tutti ruoli minori).
Anyway, spero che questo capitolo vi sia piaciuto…vorrei dedicarlo in particolare alla mia amica Alice, che sta seguendo la storia "dietro le quinte". E, ovviamente, a Ronald Mac Donald perché mi ha salvato la vita *_*
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 7
*** Storie di sopracciglie, baby sitter e pick up ***


È buffo come certi interrogativi all’apparenza inutili ti balzino nella mente all’improvviso. Domande stupide, che non risolverebbero i più grandi problemi di questo mondo: suonano meglio i Beatles o i Rolling stones? È più forte Maradona o Pelè? Era più bella Marylin Monroe o Liz Tailor? Dipingeva meglio Picasso o Van Gogh? Cantava meglio Maria Callas o Edith Piaf? Erano più potenti gli USA o l’URSS?  Ma, soprattutto, la domanda da un milione di dollari: è peggio uno sciame di locuste o avere Francis per casa?
A questo pensava Arthur mentre guardava lo studio con aria afflitta… non sapeva proprio come in quella stanza ci sarebbe entrata la camera dei gemelli e in più la presenza di Francis lo infastidiva a dir poco.
Il francese aveva cominciato a curiosare per casa, dalla biblioteca –Leggi Wilde?- fino alla credenza dove teneva il suo amato rum –Tu bevi questa roba?-
Alfred e Matthew non sapendo che fare, avevano deciso di seguire Francis nella sua spedizione in casa Kirkland e in poche parole, l’unico che stava realmente pensando alla stanza da letto dei bambini, era Arthur.
-A cosa ti serve il letto matrimoniale se sei single, anglais? Cosa ci nascondi?-
La voce maliziosa e allusiva di Francis lo fece decidere: erano meglio le locuste, di gran lunga…
-Dannata rana, ti fai i cavoli tuoi e fai il piacere di aiutarmi?-
-Ah, giusto, la camera…- come se si fosse ricordato in quel preciso istante per cosa era davvero venuto, il francese si avviò lentamente verso l’ex studio di Arthur.
Se c’era una cosa che l’inglese decisamente non capiva era come Francis non si scomponesse mai di un millimetro; lui lo insultava quasi sempre e il suo collega invece non perdeva mai le staffe.
Ovviamente, per lui era soltanto una tattica per farlo innervosire di più.
-Papà, come farai a trasformarla nella nostra camera?-
Alfred non aveva tutti i torti, quella di stabilire lì la stanza da letto dei piccoli Jones sembrava un’impresa impossibile
-La libreria possiamo tenerla. – Francis sembrava un personal designer. Si reggeva il mento con una mano e si guardava intorno come se fosse il restauratore di un prezioso quadro di Leonardo da Vinci -Magari ci togliamo il codice penale, la costituzione, la Bibbia e…l’ Inghilterra attraverso i secoli?- indicò scettico una pila di circa una trentina di libri –Mi spieghi che cosa ci fai con tutta questa roba?!-
-La leggo?- rispose ironicamente inarcando un sopracciglio –Amo il mio paese e mi piace conoscere le cose grandiose che ha compiuto…dovresti leggere quello!- con un sorriso sprezzante indicò il tomo con il titolo “Guerra dei sette anni”
-E scommetto che tu non abbia mai letto quelli…- l’aveva fatto di nuovo! Francis, senza scomporsi minimamente l’aveva messo in imbarazzo, indicando due libri “Guerra dei Cent’anni” e “L’indipendenza Americana”.
Il francese non capì cosa gli disse Arthur, ma ne dedusse che non fossero complimenti alla Patria.
-Comunque sia…- riprese a parlare come se non fosse successo nulla –La libreria la teniamo…magari dipingiamo la stanza di azzurro. – con un tocco della mano accarezzò il muro spoglio –E togliamo di mezzo questa scrivania, che occupa quasi un terzo della stanza. –
I bambini sembravano assolutamente d’accordo con la proposta di Francis e anche Arthur doveva ammettere che quella era l’unica soluzione decente che gli era venuta in mente.
-Va bene…vogliamo metterci al lavoro?- per dare l’esempio che era intenzionato a fare un gran lavoro, Arthur si rimboccò le maniche del golf e Francis fece lo stesso togliendosi il maglione e rimanendo solo in camicia.
-Potrei chiamare…- avendo intuito la proposta di Francis, Arthur mise subito le mani in avanti –Non voglio né spagnoli né tedeschi in casa mia!-
- Antonio ha la vernice azzurra…- il tono di Francis suonava supplichevole, forse contava sul fatto che Arthur non avesse voglia di spendere troppi soldi.
L’inglese fece un sospiro –Solo Antonio. – la sua voce suonava concessiva, ma irremovibile allo stesso tempo
-Ed Elizabeta. Per controllare i bambini. –
- Elizabeta sia…-
-E se inviti Elizabeta…-
-Starò pur certo che verrà anche Gilbert…- completò con uno sbuffo –Maledetto me e la mia lingua lunga!-
Francis ridacchiò come se gli desse pienamente ragione, poi chiese, più per rispetto verso il padrone di casa che per altro, se poteva usare il suo telefono di casa per chiamarli.
Avrebbe dovuto fermarlo, avrebbe dovuto far valere la sua autorità, ma se pensava a quella libreria pesantissima e difficile da spostare cambiava idea e pensava che tutto sommato un aiutino in più non lo uccideva, anche se molto riluttante.
Guardò quello che era stato il suo studio e se lo immaginò ricolmo di giocattoli, con due letti e pitturato di azzurro; gli venne da ridere al solo pensiero e neanche lui sapeva esattamente perché. Forse perché era felice di avere Alfred e Matthew lì con lui.
Cominciò a togliere i libi dalla sua biblioteca domandandosi dove li avrebbe messi. Aveva un’altra libreria in salotto, ma quella era già occupata; l’unica alternativa era la sua stanza, ma non era del tutto sicuro che ci fosse entrata un’intera libreria lì dentro.
- Antonio verrà subito con la vernice azzurra, Elizabeta e Gilbert ci metteranno un po’…- la voce di Francis spezzò il silenzio che si era creato nella stanza e inizialmente quel rumore lo fece sobbalzare.
-Ok…- gli sguardi di entrambi si scontrarono e tutti e due si guardarono fissi negli occhi senza dirsi nulla.
-Hai delle sopracciglia bruttissime…- non capiva cosa c’entrassero in quel momento le sue sopracciglia di cui alla fin fine andava fiero. Erano un po’ grandi, certo, ma lo rendevano diverso dagli altri e questo non gli dispiaceva  –Sono strane, sembrano gli scarabocchi di un bambino fatti con un pennarello dalla punta troppo spessa…-
-Hai finito di parlare delle mie sopracciglia?- lo interruppe bruscamente incrociando le braccia. L’aveva offeso nell’amor proprio, non gli piaceva che si parlasse male dei suoi difetti fisici.
Francis sorrise, ma era diverso dal solito sorriso irritante che gli rivolgeva; era molto dolce e Arthur dovette accettare il fatto che non era poi tanto brutto quando sorrideva in quel modo –Però, devo ammettere che i tuoi occhi sono bellissimi. – indicò i suoi occhi verdi –Non ho mai visto un verde così…bello .- sembrava sincero e Arthur ne rimase alquanto lusingato.
Non seppe cosa ribattere: il suo lato di inglese che odiava la Francia e Francis lo intimava di rispondergli per le rime, ma un altro lato, quello più ragionevole, gli fece notare che così era lui che ci avrebbe fatto brutta figura, perciò non rispose nulla.
 Per fortuna intervennero i bambini a risolvere quella situazione che per l’inglese stava diventando imbarazzante.
-Papà, quando cominciate?- Alfred entrò dentro la stanza, impaziente di vedere la sua stanzetta finita.
Arthur distolse lo sguardo da Francis, rosso per l’imbarazzo e si avvicinò a suo figlio –Stanno arrivando Gilbert ed Elizabeta a darci una mano…-
Mentre Alfred sembrava piuttosto contento di quella prospettiva, Matthew fece uno squittio a metà tra il terreo e l’esasperato, segno che a lui i buffetti di Eliza non piacevano affatto.
Il primo ad arrivare fu Antonio. Arthur venne ad aprire e non appena lo vide fece un verso poco entusiastico –Salve Carriedo. –
Il sorriso che gli stava porgendo Antonio era un evidente segno di sfida –Ci si rivede Kirkland. – in quel momento l’inglese notò che il labbro inferiore di Antonio era leggermente gonfio
-Che ti è successo?-
Fu Francis a rispondere –Em…non ti abbiamo detto una cosa, io ed Elizabeta questa mattina…-
-Cioè?- lo incalzò, per la prima volta curioso di conoscere i fatti di Antonio.
Antonio era di Barcellona ed era emigrato in America con la sua famiglia quando aveva appena sedici anni. Ora ne aveva ventisei e nonostante tutti gli anni passati, quando parlava aveva ancora una esse sibilante e una erre doppia tipica di molti spagnoli.
Dopo Francis, era il collega che Arthur odiava di più perché era troppo allegro e ottimista per i suoi gusti. Per farla breve, il suo sorriso da ebete sempre stampato in faccia gli metteva il nervoso e forse, era anche complice il fatto che lo spagnolo aveva un carisma tale che quasi tutte le donne in centrale gli fischiavano dietro non appena lo vedevano.
Ad Arthur questo dava estremamente fastidio;  Antonio, Francis e Gilbert erano ammirati da tutte. Lui si reputava un bell’uomo e potevano confermare questa sua tesi anche le decine di ragazze che erano state con lui eppure al lavoro non faceva tutto quel successo.
Il suo problema forse era che non si comportava in maniera disinvolta e socievole come quei tre…non era invidioso, sia ben chiaro, ma a volte non riusciva a spiegarsi come quei tre facessero stragi di cuori.
-Il giorno in cui ti ho sostituito ho avuto un piccolo diverbio con due teppisti…- stava parlando di una rissa in cui probabilmente aveva avuto la peggio, tuttavia Antonio aveva ancora un sorriso radioso che gli illuminava la pelle abbronzata –Niente di grave, ma il più piccolo aveva un gancio destro invidiabile…- rise insieme a Francis, mentre Arthur non ci trovò proprio nulla di divertente.
-Ecco perché non sei potuto venire oggi al lavoro!-
-Sì, infatti…comunque, Francis non mi ha spiegato perché dovevo venire qui con la vernice azzurra. –
Solo in quel momento Arthur notò davanti all’uscio della sua porta, un recipiente piuttosto grande che mandava un odore acre, odore di vernice.
-Ecco…- si morse un labbro –Forse è meglio che te lo faccia vedere…- gli fece strada fino allo studio e lo spagnolo, quando vide i due bambini, sbarrò le palpebre leggermente confuso
-Devo far entrare in questa stanza una camera da letto per loro due. –
Lo sguardo sbalordito di Antonio non si spense, anzi, si accentuò ancora di più.
Francis gli si avvicinò poggiando una mano sulla spalla di lui –Lo so, è stato sconvolgente anche per me la prima volta. –
-Questi…questi sono i tuoi figli?- il suo tono di voce sembrava piuttosto indeciso.
Il britannico annuì, poi fece un gesto con la mano, come a dire “una storia lunga”. La reazione di Antonio fu proprio come se la immaginava; sbatté le palpebre, guardò meglio i due bambini e scoppiò in una risata fragorosa.
-I tuoi figli? Che mi venga un colpo, il vecchio Art è padre!-
Ormai era troppo abituato a quegli effetti per non emettere un verso divertito.
Antonio gli strinse la mano in modo energico –Complimenti, Kirkland. Io, Gil e Francy pensavamo fossi impotente e invece…-
-Prego?- fulminò quei due deficienti, ovvero Antonio e Francis, con cipiglio furioso; impotente, come si permettevano?
-No, il mio papà è molto potente, lui è un eroe…- la voce saccente e infastidita di Alfred lo fece arrossire ancora di più. Non poteva spiegargli che “impotente” non voleva dire “debole”…cioè, in un certo senso voleva dire quello... ma di certo non era la debolezza che intendeva suo figlio.
Antonio fissò il piccolino e sorrise; per fortuna non era depravato come il suo migliore amico e preferì non ribattere nulla.
Poco dopo arrivò Gilbert mano nella mano con Elizabeta. Si sorridevano entrambi e Arthur poté giurare che quando nessuno li stava guardando le labbra della ragazza si fossero poggiate su quelle del suo fidanzato, segno che avevano fatto pace.
Scosse la testa: lui quei due non li avrebbe mai capiti.
-Avete fatto bene a chiamarmi…- mormorò il tedesco una volta che gli fu messo davanti il problema –Il mio contributo influirà certamente sulla buona riuscita della stanza. –
Ormai erano tutti troppo abituati al carattere egocentrico di Gilbert per dargli corda, così cominciarono subito con i lavori.
Quella più giuliva di tutti era sicuramente Eliza che, prese le manine dei due bambini con un sorriso quasi sinistro, annunciò che sarebbero usciti: non potevano certo essere d’intralcio in un lavoro simile ed Arthur non ebbe nulla da obbiettare.
-Dove andiamo?- il povero Alfred non si rendeva conto in che mani era stato affidato. Matthew invece sembrava che lo avesse afferrato benissimo, perché si era fatto improvvisamente pallido
-Oh, vedrete!- l’ungherese sembrava più eccitata dei bambini –Vi porterò al parco, mangeremo un gelato…- alla parola “gelato” Alfred si fece improvvisamente più attento –Vedrete che vi divertirete con la zia Elizabeta. –
Arthur stranamente non ebbe nulla da ridire sul nomignolo che si era auto affibbiata Elizabeta; non era la sua presenza che la infastidiva ma, piuttosto, quella del trio.
-Mettetevi il giubbino. – li ammonì prima che andassero via
Alfred lo salutò con la mano mentre Matthew gli diede un’ultima occhiata afflitta. Arthur sorrise quando li vide andare via; gli sembrava così strano che lui, che di solito si affezionava troppo tardi alle persone, provasse già una sorta di bene per quei due bambini. Erano i suoi figli, forse era normale, ma questo fatto lo sorprese ugualmente.
-Mon Arthur, ci aiuti con la scrivania?- Francis aveva il fiatone perché aveva provato da solo a spostare il tavolo
-Sei una femminuccia…- sbuffò, mettendosi all’altro capo dello scrittoio e alzandolo di peso. In realtà, tanto leggero poi non era, ma non si azzardò a ribattere il contrario. Gilbert ed Antonio intanto, stavano mettendo tutti i libri della libreria negli scatoloni. Nella loro mente si era fatto avanti un quesito apparentemente irrisolvibile
-Come facciamo a spostare la libreria per dipingere la parete?- Antonio guardò il mobile con occhi sgranati
Gilbert fece uno sbuffo –Non sembra tanto pesante. –
Arthur e Francis erano riusciti a portare la scrivania fuori dalla stanza. Ora, se qualcuno fosse entrato nel corridoio in quel momento, sarebbe rimasto bloccato dal tavolo a metà strada.
-Vi aiutiamo noi!- la voce di Arthur era ancora ansimante per via della fatica . Si asciugò il sudore imperlato della fronte con il braccio e cominciò a pensare insistentemente ad un bel bagno caldo che avrebbe dovuto fare dopo tutto quel lavoro.
La libreria non era poi tanto imponente ; spoglia dei suoi libri, risultava piuttosto insignificante, tanto da sembrare di essere fatta con la cartapesta e non con del legno compensato.
Spostarla in quattro non fu difficile, bastò soltanto scansarla dal muro per poterlo dipingere di azzurro.
Stavano preparando la vernice, quando il telefono del salotto squillò.
-Pronto?- Arthur alzò la cornetta chiedendosi che mai fosse stato a chiamarlo. Era successo qualcosa ai bambini? Non ci voleva neanche pensare…
- Arthur Kirkland?- aveva riconosciuto la voce di Sesel dall’altro capo del telefono
-Certo. Ciao Sesel!- tirò un sospiro di sollievo e nella sua mente si figurò quella ragazzina mentre arrossiva al suono della sua voce mentre la salutava
-Ciao…em…- sembrava molto a disagio –La mia amica è disposta a lavorare per te, come Baby sitter. – parlò velocemente, come se si vergognasse e avesse tanta fretta di riabbassare la cornetta.
L’inglese fu molto contento di quella notizia; almeno aveva un problema in meno! –Ti ringrazio Sesel…- esclamò, animato di un improvviso buonumore –E ringrazia anche…-
- Lily Zwigli!- si affrettò a rispondere come suggerimento
-Già, ringraziala. A proposito, quanto chiede? – sperava che quella ragazza non pretendesse roba come trenta dollari all’ora, perché altrimenti non sapeva come sbrogliarsi da quella situazione
-Mi ha detto che è disposta a lavorare per quindici dollari l’ora. –
Era più che ragionevole come prezzo –Perfetto, quando verrà?-
Dall’altro capo giunse un verso di liberazione, come se Sesel avesse superato una gran prova di coraggio a telefonarlo -Le ho dato il tuo indirizzo, credo verrà a presentarsi tra un paio di giorni…-
Sorrise tra sé e sé –Non ti ringrazierò mai abbastanza per il tuo aiuto. E per l’asilo?-
Sesel si prese altri cinque minuti per spiegargli con voce acuta come arrivare all’asilo dove lavorava la sua migliore amica, una certa Hortense.
 -Ci sa fare con i bambini, è molto gentile…- finì di parlare, prendendo finalmente fiato
-Ti ringrazio ancora tanto, Sesel…- qui fu Arthur ad arrossire –Magari, qualche volta, se ti va di venire a prendere un thè…insomma…- esitò, ma poi riprese a parlare -la porta di casa mia è sempre aperta. –
Per un attimo non sentì nulla e temette che la ragazzina fosse crollata svenuta sul pavimento, poi uno squittio ruppe il silenzio e subito dopo sentì la voce di Sesel improvvisamente stridula –sarebbe un vero piacere. – e riattaccò, senza neanche salutarlo.
L’inglese alzò gli occhi al cielo, lieto però dentro di se di aver risolto la faccenda della baby sitter e una volta riabbassata la cornetta del telefono si ritrovò faccia a faccia con il viso soddisfatto di Francis.
-Complimenti. – mostrò i denti bianchissimi a mo’ di sorriso seducente – Invitarla a prendere un thè è stata una bella mossa. –
Arthur gli tirò una leggera gomitata nello stomaco –Volevo solo essere cortese. Sinceramente, non è il mio tipo…-
Il francese però non lo stava degnando di attenzione; fece ondeggiare la chioma bionda e continuò a parlare tra sè e sè –E dire che ti volevo anche portare in palestra…-
-Palestra?- domandò l’altro scettico. Non capiva quale passaggio collegasse la palestra a Sesel.
Fece spallucce –è lì che si trovano le ragazze migliori. –
-La tua ragazza l’ hai conosciuta lì?-
Francis scosse la testa –Lì ho conosciuto il suo ex!- gli fece un occhiolino che Arthur non ricambiò
-Sai, non so decidere quanto tu sia rivoltante da uno a dieci…-
Arthur notò quanto fosse difficile per lui portare avanti una conversazione con Francis senza finire ad insultarlo. Era strano, perché solo con lui accadeva.
Non si dissero più nulla e  tornarono dentro la stanza per aiutare Gilbert ed Antonio a pitturarla senza proferire altro.
In realtà, non completarono nulla, a parte ridipingere la camera.
Avrebbero dovuto finire di sistemare i mobili, ma tutto quello che fecero fu solo organizzare i posti per i due letti e per l’armadio, che Arthur avrebbe dovuto acquistare o farsi prestare al più presto.
-Devo spendere un sacco di soldi…- sembrava scocciato da quello prospettiva –La camera dei gemelli, la macchina. –
-Macchina?- ripeté Francis, improvvisamente interessato –La vuoi nuova?-
-Anche se è di seconda mano non importa. –
Per tutta risposta, il francese gli strizzò l’occhio complice –Oh, ma allora stai apposto. Devi sapere che mia zia Clemence…-
-La cara zia Clemence!- Antonio aveva usato un tono di voce piuttosto canzonatorio -Amo quella donna. – Gilbert rincarò la dose mettendosi la mano sul cuore in modo appassionato.
Francis spintonò il tedesco con gentilezza –Sei sempre il solito... Di’ la verità, non ti sarebbe piaciuta se non ti avesse detto che sei l’amico più bello che ho! Comunque, mia zia ormai è vecchia e vive con me perché non ha nessun altro parente. –
Ecco, questo non lo sapeva. Arthur ignorava completamente il fatto che Francis avesse una zia e fu molto sorpreso di scoprirlo.
-Beh, insomma, la zietta non è certo una guidatrice accanita, ora che è anziana…se ti interessa ti vendo la sua macchina. –
Il francese non si aspettava che Arthur scuotesse la testa –Non voglio auto francesi. – era irremovibile su questa faccenda. Poteva sopportare tutto, ma non guidare auto di quei vinofili…
-In realtà è un pick up della ford, degli anni Settanta, forse…è praticamente nuova, mia zia non l’ ha usata mai…-
Arthur aggrottò le sopracciglia –A che prezzo me la dai?-
Francis sembrava stesse trattenendo la calma a stento –Per chi mi hai preso? È esplicito che te la regalo…-
-TU per chi mi hai preso. Non chiedo elemosina…-
Sentì dietro di se Gilbert che diceva ad Antonio “cinque su Kirkland”, come se avesse voluto scommettere su chi avrebbe vinto quel testa a testa, e alzò gli occhi al cielo.
Francis lo guardò con sfida –Non capisco, perché è così umiliante per te?- in effetti, sembrava molto scettico e non comprendeva il perché quell’inglese fosse così restio ad accettare il suo aiuto. Non voleva fargli nulla, voleva solo essere gentile…
-Non voglio essere in qualche modo in debito con te. – il suo tono di voce era quasi sprezzante, ma nonostante ciò Francis, Antonio e Gilbert scoppiarono a ridere di gusto
-Ok, va bene…- il francese aveva le lacrime agli occhi –Che ne dici di cinque?-
-Cinquemila? – domandò diffidente come se cercasse una sorta di conferma –Ma non è poco?-
-è pure troppo, credimi…a me quella macchina non piace per niente. – come se la sua Renault fosse stata una Ferrari –Te la cedo volentieri. Un giorno di questi vieni a casa mia e te la porti. –
Il britannico non ringraziò per il bel pensiero di Francis, piuttosto, il fatto che volesse mollare a lui un’auto che non gli piaceva gli diede fastidio; come se fosste sempre stampato in faccia gliun centro di rottamazione!
Per fortuna, ben presto tornò Elizabeta con i bambini.
-Io ed i bambini ci siamo divertiti così tanto!- Arthur trovò che Elizabeta sarebbe stata perfetta come madre; premurosa, simpatica... aveva un’indole quasi naturale nel trattare i bambini e sperava che Gilbert si decidesse al più presto ad esaudire il suo desiderio.
Appena lo vide, Alfred corse ad abbracciarlo come se non l’avesse visto da un mese. Arthur strinse forte il figlio, anche se inizialmente si sentiva un po’ spaesato nell’essere guardato da tutti –Ti sei divertito?- gli disse piano all’orecchio
-Moltissimo!- l’urlo del bambino quasi gli spaccò i timpani –La zia Elizabeta ci ha portato al parco...-
Arthur provò un misto di gelosia quando Alfred chiamò Eliza “zia”. Un conto era se era l’ungherese a chiamarsi così, ma se erano i suoi figli a dirlo ci rimaneva male.
Ciò nonostante non lo diede a vedere e continuò ad ascoltare il racconto sconclusionato di suoi figlio
-Abbiamo giocato a nascondino e Matthew era bravissimo perché nessuno riusciva a trovarlo…-
Arthur temeva perché non riuscissero a trovare quel povero bambino; se Alfred era appariscente, il fratello era discreto e silenzioso tanto che nessuno mai si accorgeva di lui
-…invece Elizabeta si faceva trovare sempre…- Alfred ebbe uno scoppio di ilarità ed Elizabeta fece un sorriso soddisfatto.
-E tu, Matt, ti sei divertito?- Per fortuna, c’era Francis a non dimenticarsi di quel bambino
Annuì –Abbiamo mangiato il gelato…-
-A me è caduto, perciò Elizabeta me ne ha comprato un altro!- si intromise il fratellino, sovrastando la voce del piccolo Matthew.
Arthur si liberò dalla presa d'acciaio del figlio e fissò Elizabeta –Grazie… sul serio, deve essere stato difficile star loro dietro, sopratutto a questa peste. – con un cenno affettuoso indicò Alfred.
L’ungherese fece un gesto come per dire “figurati” –è stato un piacere. – ed era sincera.
Gilbert le cinse un fianco con fare invasivo –Mi dispiace, ma il suo bambino preferito sarò sempre io. – gli diede un bacio sulla guancia, ma la ragazza lo spintonò via divertita –Non cambierai mai…-
-Per fortuna, vero?-
Questa volta, anche Arthur scosse la testa; Elizabeta si poteva definire santa per sopportare un individuo simile.
-Beh, io e Antonio andiamo…- Francis prese il barattolo della vernice ormai mezza vuota e afferrò lo spagnolo per un braccio
-Anche noi, dovremo…- Elizabeta si avvicinò ai piccoli e gli diede ad entrambi un bacio sulla fronte –Ci vediamo. – sorrise radiosa e poi salutò anche il loro papà –Stammi bene. –
-Anche tu. –
Forse erano strani, a volte erano anche irritabili, ma l’inglese trovò che la compagnia di Francis, Antonio e Gilbert era quasi sopportabile.
-Papà, l’hai sistemata la stanza?-
-Mi dispiace Matthew, ma non è ancora finita…-
-Possiamo vederla?- Alfred non sembrava poi tanto deluso, l’inglese si aspettava che avesse piagnucolato perché la sua cameretta non era ancora pronta. Li prese per mano, come se li stesse conducendo in qualche posto pericoloso -Non toccate i muri, però, non si sono ancora asciugati…-
Avrebbe dovuto ancora sistemare molte cose, certo... ma già il fatto che i suoi figli erano lì con lui lo rendevano immensamente felice, come se il suo lavoro fosse già concluso.
 
 
 
 
 
Salve a tutti!
Spero perdonerete il mio ritardo ma, come al solito, l’inerzia primaverile è tornata a colpirmi ancora e quindi in questi giorni sono stata più fuori a bazzicare in giro che altro, ma spero comunque che questo capitolo vi sia piaciuto.
Come al solito, c’è stata una canzone che mi ha ispirato molto ed è “Somebody that I used to know” di Gotye, una delle poche canzoni che quest’anno mi è davvero piaciuta (dopo Paradise dei Coldplay *_*) anche se, come sempre, il testo c’entra davvero poco con il capitolo xD
Detto questo, vi saluto e spero che recensirete ^^
A presto
Cosmopolita
 
PS: Finlandia è il personaggio più virile del manga, seguito a ruota da Polonia u.u 

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Capitolo 8
*** Questione di fusi orari ***


Quella sera i bambini dovettero dormire ancora una volta nel lettone di Arthur.
Loro erano molto felici, perché quel letto era molto comodo, ma lo stesso non si poteva dire per Arthur che, al solo pensiero del divano duro, gli veniva voglia di dormire a casa di qualcun altro. Gli sarebbe andato bene qualunque letto, anche quello di Francis.
…Forse, non proprio “qualunque letto”…
-Che favola volete che vi racconti?-
Naturalmente, fu Alfred a rispondere. Forse lo aveva fatto anche Matthew, ma quel bambino parlava a voce talmente bassa che se anche avesse parlato, suo padre non l’avrebbe sentito
-Vogliamo una storia di eroi!-
-Eroi? In che senso?- l’inglese aggrottò le sopracciglia –Non vorrai mica che ti racconti la storia di Capitan America?-
Il bambino denegò con il capo –Voglio la storia di un cavaliere che salva la sua principessa. – era irremovibile, non accettava obiezioni e suo padre lo sapeva.
Con lo sguardo controllò se a Matthew la trama piaceva e non scorgendo alcuno sguardo insofferente capì che in fondo al bambino non importava la favola in se per se come ad Alfred.
A lui importava solamente sentire la voce di una persona che gli voleva bene, una specie di scacciapensieri.
Prese fiato e cominciò a dar sfogo alla fantasia –C’era una volta, nel grande regno di Inghilterra…-
- L’Inghilterra non è grande!- protestò Alfred interrompendo la voce insicura di Arthur –è un’ isoletta sperduta sul mare, dove tutti non fanno altro che bere thè. -
Inizialmente Arthur fu innervosito da quell’intervento –Guarda che tu sei per metà inglese. – lo biasimò con voce burbera e stizzita incrociando le braccia. Poi però si dispiacque un po’ nell'aver apostrofato il figlio in quel modo, così fece un sorrisetto tirato e replicò a denti stretti –Dove vuoi che si svolga la storia?-
-In America. – il tono solenne del bambino lo fece ridere
Stava per dirgli che negli Stati Uniti non erano mai esistiti i cavalieri, ma decise che in fondo era un bambino e che quindi sarebbe stato accondiscendente sotto questo punto di vista
-E va bene…Allora, c’era una volta nel grande regno degli Stati Uniti d’America…- storse un po’ il naso quando lo disse e poté giurare che anche Matthew lo fece –Un giovane cavaliere che tutti conoscevano perché difendeva i più deboli…-
-Si chiamava Alfred, vero?- suo figlio poteva anche essere vivace e intelligente, ma quelle interruzioni gli davano il nervoso. Perché non seguiva l’esempio di suo fratello e si stava zitto?
-Perché non lo chiamiamo Matthew?- Arthur si era reso conto che riversava il suo affetto più su Alfred che non sull’altro e di questo Matt molto probabilmente ne risentiva, poiché quando lo disse guardò suo padre dritto negli occhi. Sembrava molto felice e commosso di quella domanda e involontariamente annuì con la testa
-No, Matthew non è un nome da cavaliere…- la voce di Alfred rovinò quel momento così dolce –Alfred invece è molto più…eroico. Matt può fare lo scudiero. –
Arthur rivolse un’ occhiata all’altro figlio e questo, seppur a malincuore, reclinò la testa in segno di rassegnazione.
-Mi dispiace, Alfred, ma questa volta l’eroe lo facciamo fare a Matthew. La prossima volta lo farai tu. – era ora che mostrasse un po’ più di autorevolezza paterna, si era lasciato troppo comandare da Alfred fino a quel momento
-Oh, ma non è giusto…- piagnucolò il bambino con voce tediosa
-Sì invece. - 
 Matthew stava fissando il padre con un certo rispetto e gratitudine. Si vedeva che era contento del fatto che il genitore avesse preso una posizione più pedante nei confronti del suo pestifero fratellino
-Ma sono io l’eroe di casa…-
-Siete tutti e due degli eroi. –
-No, Matthew è il mio aiutante. –
-Perdonatemi se vi interrompo…-il bambino si intromise timidamente nella loro discussione–Perché non mettiamo due eroi?-
Padre e figlio smisero di battibeccare e guardarono Matthew come se fosse stata la colomba della Pace
-Va bene…- concluse un po’ scocciato Alfred. Ovviamente, lui avrebbe voluto la scena tutta per se, ma siccome era magnanimo, un eroe a suo dire, avrebbe lasciato correre per una notte.
-Quindi, c’era una volta nel grande Regno degli Stati Uniti, due fratelli votati all’ordine dei Cavalieri di nome Matthew e Alfred… -
e andò avanti così, tra le continue interruzioni da parte di Alfred che sembrava davvero preso dalla storia. Arthur si chiese afflitto perché mai quel bambino non poteva essere tranquillo come il suo fratellino, che ascoltava la storia interessato ma che non per questo si sentiva in dovere di interrompere ogni dieci minuti. Continuò ad ascoltare anche quando  suo padre decise che la principessa sarebbe andata in sposa ad Alfred, complici i capricci di quest’ultimo.
- Matthew allora diventerà il re di un paese lontano e sposerà una bellissima e misteriosa principessa…- concluse, così da non far incrementare le gelosie tra i fratelli
-Per me va bene…- nella testa di Matthew una bella principessa dai capelli neri e gli occhi viola stringeva la mano ad una versione più adulta e più nobile di se stesso.
-Siamo d’accordo allora…- Arthur sorrise –Alfred sposò la principessa del regno degli Stati Uniti e Matthew quella del…-
- Canada?- gli suggerì il bambino in quella che fu la sua prima interruzione
- Canada, ok…- concluse soddisfatto –E vissero tutti felici e contenti. -
I bambini applaudirono e Arthur sorrise, felice di vedere che i suoi figli si erano divertiti
–Buonanotte…- fece loro una carezza e fece per spegnere la luce, ma Matthew lo chiamò
-Non ce lo dai il bacio della buonanotte?-
-Bacio della buonanotte?- era un po’ dubbioso e frugando tra le sue memorie, si ricordò di sua mamma, quando ancora non nutriva per lui mitici sogni di gloria, che gli dava un bacio sulla guancia e della sua figura che sembrava chiara e vivida anche nel buio della sua cameretta.
“Servirà a scacciare Berretto Rosso?” domandava lui, improvvisamente più rassicurato e meno timoroso del buio.
“Servirà a scacciare tutto ciò che vuole farti del male.” specificava lei con voce dolce e rassicurante.
Sorrise al ricordo di quel passato ormai troppo lontano e si chinò per baciarli tutti e due sulla guancia.
Avrebbe voluto anche aggiungere che voleva loro bene, ma non lo fece. Spense la luce e andò in salotto, sperando che i bambini passassero una notte più comoda di quella che probabilmente spettava a lui.
 
Erano le quattro e mezza di notte quando il telefono squillò. Il cielo era ancora scuro, le strade di Queens erano illuminate dalle luminarie e in strada passavano poche macchine di quanto non ne passassero il pomeriggio.
Quando l’orecchio di Arthur percepì il suono nasale dell’apparecchio, lui si svegliò di soprassalto e in preda al panico, corse subito a rispondere per sapere chi mai l’avesse disturbato a quell’ora. Sperava che il rumore non avesse svegliato i bambini ma, più di ogni altra cosa, sperava che non fosse successo qualcosa di grave, tipo qualcuno che si era ferito al lavoro
-Pronto?- aveva cercato di dissimulare l’ansia, fallendo miseramente
-Ciao Arthur!- Gli venne il nervoso, quando gli giunse la voce tranquilla e perfettamente rilassata di sua sorella Hannah.
Hannah Kirkland era di tre anni più piccola di lui ed era il tipo di donna borghese che ad Arthur non piaceva affatto, anche se era troppo divertente perché la potesse odiare davvero.
Era una di quei tipi che frequentava una decina di club, che girava per i negozi portandosi dietro uno sfortunato ragazzo che fungeva da portapacchi e che la domenica pomeriggio si riuniva con le sue deliziose amichette single per spettegolare su cose decisamente inutili.
-Ti rendi conto di che ore sono?- domandò inacidito, una volta capito che quella telefonata non era per un’emergenza
-Sono le no…- si bloccò –Ah, giusto, il fuso orario…- completò illuminata, come se le cinque ore di differenza che incorrono tra l’Inghilterra e gli Stati Uniti fossero una bazzecola.
Suo fratello scosse la testa. Hannah era l’unica dei suoi parenti, insieme all’altro fratello Peter, con cui aveva un po’ più di contatto. Si telefonavano durante le feste e quasi due volte al mese.
-Beh, poco male, tanto tra un  po’ ti saresti alzato, giusto?-
Il difetto di sua sorella era che credeva troppo negli stereotipi e il suo preferito era quello del povero che si alza presto la mattina.
-Sono le quattro e mezza, potevo ancora dormire due ore. –
-Due ore in più, due ore in meno, qual è la differenza?- chiese piuttosto scocciata –Tua sorella è talmente gentile da chiamarti a dispetto degli altri e tu la tratti anche così?- era ironica perché in realtà Arthur sapeva che lei sentiva la necessità di chiamarlo. Gli voleva bene, anche se non l’avrebbe mai detto a voce alta
-Mi chiami solamente per vantarti del fatto che tu sei una ricca borghese che si gira i pollici dalla mattina alla sera, mentre io un poveraccio che si fa un culo così ogni giorno. – le fece notare piuttosto urtato.
-Sei diventato veramente volgare da quando abiti nella grande Mela, lo sai?- nella sua mente sapeva esattamente che gesti stava facendo sua sorella in quel momento; avrebbe storto il naso e si sarebbe accarezzata i capelli rossi con una certa aria da aristocratica –Comunque, non posso vantarmi con nessuno, almeno tu lasciamelo fare…- purtroppo Hannah era un tipo molto trasparente e diceva sempre le cose come stavano.
Suo fratello sbuffò scocciato –Come va da voi?-
-Bene, sono uscita fuori dai gangheri con sole sette persone oggi. –
-Il che per i tuoi standard è pochissimo. –
-Già .- sembrava molto orgogliosa di se stessa - Sto migliorando molto nel temperamento, Jacob è davvero fiero di me. –
- Jacob?- domandò scettico –E chi è?-
-è tipo il mio convivente…anzi, no, senza tipo…- era a disagio, lo sapeva. Come lui, anche sua sorella si vergognava di parlare della sua vita privata –Peccato tu viva lontano, perché secondo me andresti d’accordo con lui, avete tantissimi punti in comune. –
-E cioè?- non si aspettava nulla di buono, lo sospettava già
-Beh, tu bevi in maniera impressionante, lui fuma in modo impressionante, quindi…-
-La smetti con la faccenda del bere? Io bevo solo nelle occasioni speciali. –
-E quello dei pub cos’era allora, uno dei tanti alibi per non incontrare l’amico di papà?- Hannah rise e anche Arthur non riuscì a trattenere una risata.
C’era stato un periodo in cui suo padre avrebbe tanto voluto fargli conoscere un suo amico avvocato, un tipo che “averlo amico stretto, si può arrivare lontano” a suo dire. Ogni volta però, Arthur accampava una scusa per non vederlo.
-Ma tu non stavi con quel tipo dell’Irlanda che aveva una catena di centri commerciali?- chiese di punto in bianco, come se non gli tornasse qualcosa.
-No, l’ ho lasciato perché era un mezzo idiota. Poi, sono andata in vacanza ad Amsterdam ed ho conosciuto Jacob…- 
-è olandese?-
Cominciò a chiedersi, conoscendo molto la città di Amsterdam, se questo Jacob fumasse solo sigarette e non qualcos’altro di decisamente più sovversivo
-Sì. –
-Ed è ricco?-
-Ovviamente, altrimenti sarei lì con te e non qui a Londra. – Hannah rise un’altra volta.
Ovviamente –E gli altri come stanno?-
-Bene, James dice che in Galles le cose vanno alla grande…beh, quando sei un tizio che vince cause tutti i giorni, non mi sorprende che vada tutto alla grande…Andrew si sta per sposare e lascio a te immaginare quanto sia in subbuglio la mamma…Peter va a scuola, è un bravo ragazzo, la mamma ha già deciso che per lui vede un futuro in politica, perché è molto dotato. – Arthur sbuffò; anche il più piccolo dei suoi fratelli non era sfuggito dalle ambizioni dei suoi? Avrebbe avuto il coraggio, come lui, di ribellarsi, oppure gli andava bene così? In realtà, gli avrebbe fatto molto piacere sapere che il suo fratellino minore aveva un po’ seguito le sue orme. Essere la “pecora nera” dei Kirkland non era certo un grande onore, ma gli sarebbe piaciuto comunque.
-E Ian?- era strano che sua sorella non lo avesse nominato neanche per sbaglio
-Em…già, Ian. – Tutti sapevano che tra Ian e Arthur c’era una specie di ostilità ed era stato così fin dal principio; Ian era il primo ad aver gioito quando Arthur aveva deciso di partire per l’America e Arthur godeva ogni qual volta che Ian subiva qualche guaio
- L’ hanno radiato dall’albo dei medici?- domandò con una nota speranzosa
-No…- Hannah sembrava nervosa
-E allora?-
-Sua moglie l’ ha…cacciato di casa, ora vive con i nostri genitori. – spiegò un po’ afflitta –Dovresti vederlo, poverino…-
Non era un mistero per lui se Hannah fosse così dispiaciuta per Ian; il maggiore dei Kirkland era sempre stato un po’ il prediletto della famiglia.
-Appoggio in pieno sua moglie…- bofonchiò Arthur –Mi chiedo come abbia fatto tutto questo tempo a vivere con quel…-
- Arthur!- lo richiamò sua sorella un po’ piccata –Lo sai, sono quasi contenta che tu stia a New York, altrimenti qui avresti solamente rotto le scatole!-
Anche lui era, in certo senso, contento di essere lì.
Magari se fosse rimasto a Londra e avrebbe eseguito il volere dei suoi genitori, a quell’ora sarebbe stato certamente ricco sfondato. Come i suoi fratelli avrebbe girato a bordo di una Jaguar o di una Rolls Royce e non su un autobus più pieno che vuoto o facendosi scarrozzare da qualcuno.
Molto probabilmente avrebbe vissuto in una villa lussuosa di Kensington e avrebbe mangiato caviale fino a scoppiare.
Ma era anche vero che con ogni probabilità avrebbe svolto un lavoro che odiava come quello della magistratura e a quell’ora magari sarebbe stato ancora a lavorare in uno studio al centro di Londra mentre la sua testa sarebbe stata affollata da mille pensieri. Ad esempio, come liberarsi di una moglie che le avevano imposto i suoi, che non amava e che di conseguenza non era amato da lei. Magari quell’adorabile mogliettina che “mummy and daddy” avevano in mente per lui, non solo gli avrebbe lanciato ogni sera una pila di piatti addosso perché passava troppo tempo per i pub invece di fare il suo dovere di marito e ingravidarla per bene, ma avrebbe avuto anche l’amante.
E poi, ogni mattina mentre mangiava bacon, uova fritte e thè, avrebbe guardato in faccia un figlio che con ogni buona probabilità non sarebbe stato il suo ma che, complici i vegliardi nonni, lo avevano obbligato a riconoscere come suo –non voleva mica disonorare il nome della famiglia?-
Insomma, se fosse rimasto in Inghilterra dai suoi genitori sarebbe stato sì ricco sfondato, ma non era molto sicuro che sarebbe stato felice.
In America invece, a parte per qualcosina era felice, nonostante vivesse a Queens in un appartamento fatiscente e a colazione era già tanto se mangiava latte e cerali.
E poi, in America aveva conosciuto Eileen e senza Eileen non avrebbe mai avuto la gioia di avere Alfred e Matthew. I suoi figli.
-E tu come stai? Non c’è ancora stato nessuno che ti ha preso a pugni in faccia?- la voce di Hannah suonava quasi ottimista.
-Ti piacerebbe, eh?-fece un sorriso un po’ amaro, gli dava fastidio quando sua sorella faceva allusioni al suo lavoro –Comunque, no, non mi ha preso nessuno a pugni in faccia, ma…- non sapeva se dirgli di Alfred e Matthew, temeva che se gli avesse detto che lui era un povero ragazzo padre per lei equivalesse a dire “sono in difficoltà, aiutami” e sinceramente, la compassione era l’ultima cosa che voleva. Inoltre, Hannah non era certo una di quelle che sapeva tenere facilmente la bocca chiusa, soprattutto se tra le mani avevano una notizia allettante.
-Ma?- Hannah sembrava curiosa e in effetti chiunque lo sarebbe stato; interrompere la frase a metà non era stata una saggia mossa.
-Ma…ma nulla!- ribatté simulando innocenza
-Sì, certo…guarda che se non me lo dici comincio a diventare cattiva…- assolutamente, la curiosità di quella ragazza sembrava straripare
-Cattiva in che senso?-
Dopo un po’ di quiete, sentì la voce di sua sorella cambiata; era zuccherosa e cantilenante  –If you’re happy and you know, snap your finger…-
-Ah ah, molto divertente…- i suoi fratelli lo prendevano in giro per ogni cosa, anche per il fatto che non sapeva schioccare le dita
-If you’re happy and you know and you really want to show…- stava continuando senza prestargli attenzione
-Guarda che riattacco!- arrivò a minacciarla, il che era davvero pessima come frase intimidatoria
Sua sorella decise di andare sull’implorante –E dai…dimmelo, non lo dico a nessuno…-
Arthur soffiò: ma perché i suoi fratelli o erano dei bruti o erano degli emeriti cretini?
-E va bene…- si arrese esasperato –Sono padre!-
Silenzio. Per una volta tanto sua sorella non ribatté nulla e Arthur dalla sua cornetta sentiva Ovviamente, lui avrebbe voluto nuta a volume troppo alto
-E tu volevi nascondermi una cosa simile?!- era esplosa. La voce di Hannah sembrava quella di sua madre quando trovava impronte di fango sul parquet appena lucidato
-Beh, non mi andava di fartelo sapere…non voglio aiuto da nessuno. –
-Non ti aiutavo, se non me lo chiedevi. –
Ah, che carina!
-Chi è la madre?- avrebbe dovuto aspettarsi una domanda del genere: per i Kirkland la ricchezza contava molto, anche troppo
-è morta, quindi non dovrebbe tanto importarti. – se avesse risposto che Eileen possedeva una casa immensa a Charleston, più quella dei suoi genitori che aveva affittato a gente bisognosa, sua madre si sarebbe liquefatta per l’emozione e sarebbe sicuramente corsa dal suo notaio per aggiungerlo di nuovo tra gli eredi, ma sinceramente non gli andava di dire in giro i fatti suoi. Preferiva di gran lunga rimanere povero e avere comunque una dignità.
-Ah, mi dispiace…- sapeva che Hannah lo aveva detto più per etica che per altro.
Per un breve istante calò il silenzio. Arthur non seppe dire se si trattasse di un fattore positivo o meno.
-E come si chiama il bambino?- la ragazza ritornò tutto d’un tratto più allegra. Forse sapere che era diventata zia la eccitava parecchio
-Sono gemelli, in realtà…si chiamano Alfred e Matthew. – quando pronunciò il nome dei suoi bambini sentì la sua voce addolcirsi. Non l’aveva mai notato prima di allora e la cosa gli fece un po’ impressione.
-Come? Nessun John?- il loro papà si chiamava così, sarebbe stato un punto a suo favore se avesse messo a uno dei suoi bambini il nome del “capo famiglia” dei Kirkland.
-Li ha decisi Eileen i nomi, io me ne sono andato prima che nascessero…Hannah, devi farmi il favore di essere discreta. – aveva paura che sua sorella lo dicesse a tutti quanti i suoi conoscenti
-Lo dirò solo a mamma e papà…e ai nostri fratelli, ovvio…e a Jacob, io non gli nascondo nulla…-
-E poi a chi altro, alle tue amiche del club di ricamo?-
Hannah rise –Non frequento un club di ricamo. Arthur, sarò sincera con te: l’idea di essere zia…mi piace. Mi dispiace solo che non potrò vedere i miei nipotini…- per la prima volta sembrava sincera e per niente canzonatoria. Hannah era così; poteva sembrare ironica, impertinente, ma in realtà era la persona più sensibile che Arthur avesse mai conosciuto
-Potresti venire a New York, per conoscerli .- in fondo non gli dispiaceva rivedere sua sorella. Solo lei, però…
Ci fu un momento di riflessione, poi aprì bocca -In effetti, non ci sono mai stata negli Stati Uniti…ne parlerò con Jacob. – di solito quando dichiarava così, voleva dire che Hannah stava valutando i pro e i contro. E in quella situazione erano più i contro che i pro, sicuramente.
-Beh, quando hai deciso, chiamami. –
-Sicuramente. Scusami se ti ho svegliato, Bruco della Grande Mela!-
Sbuffò arrendevole–Senza rancore. –
Si salutarono e Arthur rimase con la cornetta all’orecchio fin quando non il tu-tu del telefono non gli diede alla testa.
Gli aveva fatto piacere risentire sua sorella, in fondo, l’unica nota negativa era che ora non sarebbe sicuramente riuscito a riprendere sonno, a causa dell’ora tarda.
Ormai erano quasi le cinque…avevano parlato per una buona mezz’ora e pensò alla mazzata di bolletta telefonica che sarebbe arrivata ad Hannah. Tanto lei era ricca, certe chiacchierate oltreoceano se le poteva permettere. Piuttosto, temeva di aspettarsi per i prossimi quindici giorni telefonate di congratulazioni da parte di mezza Londra o giù di lì.
A quel punto, rimettersi a dormire sarebbe stato ridicolo, tanto si sarebbe dovuto alzare da lì a poco. Tanto per fare qualcosa di utile, cominciò a preparare la colazione per Alfred e Matthew che quel giorno sarebbero andati all’asilo.
Non poteva portarli a lavoro con lui, c’era davvero il rischio che lo chiamassero per qualche servizio e lasciare due bambini da soli alla centrale non era proprio sinonimo di amorevolezza protettiva.
E poi doveva ancora fare un sacco di cose e al solo pensiero diventava verde per il nervoso; doveva andare dal giudice tutelare per riconoscere i bambini, doveva affrontare un colloquio con una Baby Sitter che chiedeva quindici dollari l’ora, doveva scontrarsi, molto probabilmente, con l’intera famiglia Kirkland per la questione di due elementi nuovi di cui non erano a conoscenza, doveva ritirare il gentilissimo regalino di Francis, il bellissimo pick up nuovissimo della Ford.
Sì, non era di buon umore quella mattina, ma in fondo, quando mai lo era stato?
Sospettava che la colpa fosse tutta del divano e di sua sorella. Ecco, ora che ci pensava, doveva anche sistemare la stanza dei gemelli. I problemi erano talmente tanti che alcuni gli sfuggivano anche di mano.
Alle sei e mezza svegliò i bambini. Fu difficile farli alzare, specialmente per quanto riguardava Alfred che sbadigliò per tutta la colazione.
Ci furono la solita battaglia tra Arthur e i capelli di Matthew e temeva che quello scontro non si sarebbe limitato a soli due giorni; appena furono pronti, uscirono di casa, per affrontare una nuova giornata. Tutti e tre insieme, come una famiglia.
 
 
 
 
Salve gente!
Ecco a voi il nuovo capitolo. So che non succede niente di eclatante (il bello inizierà nei prossimi capitoli), ma vi ringrazio con tutto il cuore se avete letto :D
Ci tenevo a rappresentare per bene la famiglia di Arthur; Insomma, prima o poi lo doveva dire a qualcuno dei Kirkland che è diventato padre ^^
Per chi non avesse mai seguito “Destini Incrociati” (la mia long- fic precedente) Hannah è la mia OC di Irlanda del Nord, spero non risulti una Mary Sue.
Ian ovviamente è Scozia, Andrew e James sono rispettivamente Irlanda e Galles.
Jacob invece è il nome che ho scelto per Olanda. In realtà, la coppia Irlanda del Nord x Olanda non è un pairing che amo particolarmente, anche se di mezzo c’è un mio OC (Olanda per me starà sempre con Islanda, mentre Hannah…per me è una single a vita xD).
Comunque, a parte queste inutili spiegazioni, spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento. E, siccome ho sempre una canzone che illumina le mie “crisi da pagina bianca”, voglio dirvi che “Yellow” dei Coldplay ha fatto sì che questo capitolo non venisse orribile. Quindi, la maggior parte del lavoro l’ hanno fatto loro u.u (insieme al vostro supporto e a quello della mia Beta, che non ringrazierò mai abbastanza per tutti i consigli che mi da).
A presto
Cosmopolita 

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Capitolo 9
*** Cose che Arthur non si sarebbe mai aspettato dalla sua vita ***


Chi sa fare, fa. Chi non sa fare, insegna. Chi non sa insegnare, insegna agli insegnanti. Chi non sa insegnare agli insegnanti, fa politica.
 
Era più o meno questa l’idea generale che si faceva Arthur quando leggeva la mattina il New York Times. Da bravo inglese qual’era, comprava quotidiani ogni mattina, anche se rimpiangeva il buon vecchio Times o il Daily Mirror londinese.
- L’America fa sempre più schifo…- sputò sprezzante dopo aver letto tutti i titoli.
-Su quali basi lo confermi? – Francis stava fumando in ufficio.
Odiava quando Francis fumava in ufficio perché a lui la puzza della sigaretta gli dava tremendamente fastidio, un disturbo secondo soltanto ai francesi e alla carta da parati macchiata di caffè.
-Leggi. – puntò il dito su un titolone a caratteri cubitali: “Scandalo alla Casa Bianca” e più sotto “Il democratico Gary Hart, candidato alle Presidenziali, ha una relazione con la modella Donna Rice”.
Francis lesse ad alta voce il titolo con tono teatrale, poi alzò le spalle in segno di diffidenza –Ti fa più schifo il fatto che vada a letto con una oppure, che gli americani facciano pettegolezzo su qualsiasi cosa?-
-Un po’ tutti e due…questo le presidenziali se le scorda…- aveva ragione, lo sapevano entrambi. Francis spense la sigaretta nel posacenere e si sedette –Io non li leggo i giornali. –
-Allora per fortuna ci sono io. – Arthur era dell’idea che ogni poliziotto, prima di tutti gli altri, avessero il dovere di comprare il giornale. Chi se non loro dovevano essere informati su ciò che accadeva nel mondo?
-Cambiando discorso, dove sono i bambini?-
Arthur sorrise –Primo giorno di asilo. –
Francis applaudì, ma senza malizia: era come se avesse voluto incoraggiare Arthur.
 
Era andato meglio di quanto si aspettava. L’asilo si trovava a Upper West Side in un posto insolitamente tranquillo per una città dinamica come New York.
Se c’era un quartiere di New York che Arthur trovava affascinante era Upper West Side. Situata nel distretto di Manhattan, il ragazzo non l’aveva mai frequentata gran che, ma gli sarebbe piaciuto molto entrare una volta ogni tanto a Broadway. L’unico posto di quel quartiere che conosceva bene era Central Park.
L’asilo era al confine, sulla cinquantottesima. Era piccolo ma sembrava abbastanza accogliente, soprattutto il giardinetto pieno di bambini. Quando li vide, Matthew si strinse timoroso a suo padre, invece Alfred li guardava dall’alto in basso con una certa aria di curiosità e ostentata superiorità.
-Cosa c’è, Matt?- Arthur si chinò verso il bambino, passandogli una mano tra i capelli biondi in maniera affettuosa, quasi ad incoraggiarlo
-Non ci voglio andare…- era la prima volta che il bambino aveva un capriccio e suo padre fu un po’ incredulo all’inizio di ciò che aveva appena sentito
-Perché?-
-Ho paura di restare da solo, perché nessuno si accorgerà di me. –
L’inglese ci rimase di sasso; in effetti non si era mai chiesto se suo figlio soffriva di questa sua tendenza ad essere dimenticato, ma immaginava che non fosse una sensazione di cui essere emozionato.
-Ci sarà tuo fratello. Lui non ti abbandonerà mai…-
Da come Alfred scalpitava per andare, ne dubitava profondamente, ma sapeva che Matthew avrebbe trovato sicuramente compagnia. Alfred era più vivace, certo, ma in Matthew c’era un qualcosa di maturo e misterioso che ad Arthur affascinava a dir poco.
-Io credo che Alfred mi consideri un peso. – lo disse a bassa voce, ma suo fratello lo sentì lo stesso e in un improvviso eccesso di bontà, lo prese per mano e gli sorrise gentilmente.
-Non è vero, Matt! Ci divertiremo tantissimo, magari troveremo un altro membro per il nostro team…- sembrava davvero emozionato per poco, ma quel bambino era così. Qualunque cosa nuova, l’avrebbe trovata divertente e spassosa
-Guarda, quello sembra un ottimo aiutante. – indicò un ragazzino dagli occhi a mandorla e i capelli scuri che se ne stava un po’ in disparte rispetto agli altri bambini. Appena vide che i gemelli lo stavano fissando, arrossì e si allontanò dalla loro vista.
Hortense, l’amica di Sesel, stava giocando con alcuni bambini. Era una ragazza dalla pelle molto scura, probabilmente era creola, con il lineamenti marcati e la corporatura androgina. Se non avesse avuto quei capelli neri e ricci, Arthur l’avrebbe certamente scambiata per un uomo. Insomma, non era una bellezza, ma c’era qualcosa nel suo modo di fare e di muoversi che la rendeva sinuosa, abbagliante.
Appena vide Arthur, sorrise e si avvicinò a lui –Salve. –
-Buongiorno. Mi chiamo Arthur Kirkland…-
Il volto della ragazza si illuminò –Oh, già…Sesel mi ha parlato di lei-
Sesel mi ha parlato di lei.
Oh, se lo aspettava,immaginava  quella ragazzina che chiamava le sue amiche e urlava con tutta la voce che poteva –Ho trovato l’amore della mia vita!- un’affermazione che più iperbolica non si può
-…troppo, direi – aggiunse poco dopo. Scoppiò a  ridere e quella risata ad Arthur ricordò quella di Francis; era accattivante, spregiudicata…da caffè parigini
-Lei è francese?- chiese, quasi d’impulso. Non sapeva perché avesse fatto quella domanda, nel suo accento non c’era l’ombra di una erre moscia o altre cose francesi. Solo la risata faceva molto “Vie en Rose”.
 E infatti, lei lo guardò straniata, come se avesse avuto un orribile bitorzolo  sul naso –Sono di New Orleans…-
Ah, ecco spiegato il motivo! La Louisiana era stata colonia francese, se la storia non lo ingannava.
-Beh, ci sono andato vicino…-
L’occhiata a fessura della giovane gli diceva che no, non ci era andato affatto vicino e Arthur la catalogò subito come una di quelle che era americana ed era anche fiera di esserlo
-E lei cos’è, irlandese o qualcosa del genere?- domandò con tono allegro, ma che velava una certa malizia.
Qualcosa del genere…- rispose freddamente  –Sono inglese. –
-Ah, ora capisco. – cosa capisse, Arthur lo ignorava. Forse il fatto che quando parlava aveva la bocca più chiusa rispetto agli americani che, quando aprivano bocca, sembrava sempre che  dovessero dare un morso ad un panino troppo grande.
-Comunque sia…- riprese il britannico, che per un attimo aveva perso di vista lo scopo principale di quella visita –Vorrei iscrivere i miei figli. –
Hortense annuì – Può lasciare i bambini qui, mentre discutiamo. –
E così, la faccenda dell’asilo era risolta. Il che era come aggiungere una bustina di sale al mare, ma Arthur si poteva ritenere soddisfatto, avere una preoccupazione in meno era piacevole.
Salutò i bambini ancora una volta, prima di andare via. Alfred aveva già simpatizzato con il bambino dagli occhi a mandorla che sembrava avesse vinto la sua timidezza, Matthew invece stava parlando con un’altra maestra dell’asilo, una mezza bionda ossigenata che sembrava più zuccherosa e materna di Elizabeta. Uscì dall’edificio con il cuore decisamente più leggero
 
-Dove sono Antonio ed Elizabeta?- chiese a Francis
- C’è stata una rissa stamattina presto, in un bar. Un ragazzo era ubriaco fradicio uno l’ ha provocato e, va beh, da cosa nasce cosa…sono intervenuti in cinque per fermarlo. Era un energumene parecchio su di giri, a quanto pare…comunque, ora l’hanno arrestato ed Elizabeta credo stia scrivendo la relazione di servizio. -
Arthur annuì –Qualcuno ferito?-
-Per fortuna no…-
In quel momento entrò Antonio. Sembrava piuttosto turbato
-Eih, come stai?- si informò il francese, avvicinandosi e poggiandogli una mano sulla spalla
-Bene… ha soltanto spintonato qualcuno e ha urlato come un pazzo perché un altro tizio l’ ha provocato. – sorrise, ma appariva molto forzato
-Chi è venuto?-
-Tutti quelli che erano di turno ieri notte. Io, Elizabeta, quei due…hai presente Ben e Jack?- Francis annuì –Una tipa molto carina e Lovino Vargas. –
Francis rise divertito –Ora capisco perché sei sconvolto. –
Antonio lo spintonò, ridendo anche lui –Vaffanculo, France!-
Quello lo ignorò -Sei riuscito ad invitarlo a cena?-
Lo spagnolo assunse una faccia contrita –Ci stavo provando, mentre portavamo il tizio alla centrale, ma lui mi ha guardato in cagnesco quando mi sono avvicinato, quindi…-
L’altro scosse la testa –Non capisco perché con lui ti venga difficile. Insomma, con nessuno sei stato così timido…-
-Non saprei…forse perché mi suona tanto omofobo… -
Arthur temeva avesse colto il filo del discorso. I due confabulavano per non farsi capire, ma lui non era stupido.
-Sei gay?- domandò quasi come se avesse appena colto di sorpresa Gary Hart e Donna Rice nella sua stanza da letto.
Antonio rimase in un imbarazzante silenzio e fu Francis a rispondere per lui. Sembrava parecchio infastidito –è un problema?-
-Mi fa un po’ senso…- confessò, senza tanta vergogna. Non che fosse razzista, ma l’idea che Antonio fosse omosessuale lo sconvolgeva un po’. Insomma, chi non l’avrebbe fatto, conoscendo l’individuo e sapendo che circa mezza centrale impazziva per lui?
-Quanto sei Vittoriano!- la voce di Francis suonava per la prima volta sdegnosa, di solito quando parlava con lui era molto più canzonatorio
-Non sono Vittoriano. – replicò contrariato.
L’atmosfera si stava riscaldando un po’ troppo e Antonio cercò di intervenire fiaccamente –Dai ragazzi, guardate che non mi offendo se…- Francis interruppe il suo vanifico discorso di riappacificazione.
-Almeno lui non ha messo incinta una per poi andarsene pensando solo a se stesso. -
Aveva superato il limite, ne era cosciente, anche perché la carnagione di Arthur, da pallida e chiara si trasformò in una specie di rosso fiammante, ma per lui era stato quasi impossibile trattenersi.
La presenza di Arthur non lo infastidiva tantissimo, in linea di massima era Arthur a non poterlo soffrire. Quello che provava per l’inglese era sostanzialmente incompatibilità; quel suo modo di fare molto freddo e cerimonioso non gli andava giù. Ma soprattutto, odiava in lui quella specie di tendenza al conformismo, quel comportamento ambiguo e calcolatore, così poco incline ai sentimenti.
In quel momento in realtà, Arthur sembrava totalmente dominato dall’istinto che non dalla razionalità; le dita premevano forte sul palmo della sua mano, il suo guardo fisso su Francis era colmo di ira.
Era arrabbiato, peggio di quando l’Inghilterra aveva perso contro l’Argentina o quando suo fratello Ian gli fumava “accidentalmente” in faccia da ragazzino.
-Non…non avresti dovuto dirlo…- si controllava a stento. Antonio fece per calmarlo, tenendolo per le spalle, ma l’inglese si divincolò dalla presa.
-Lo vuoi sapere una cosa?- alzò la voce in maniera violenta –Non ti metto le mani addosso solo perché ho paura di farti male…-
-Sul serio?- il tono di Francis voleva essere beffardo, ma da come gli era uscito fuori, il suono della sua voce appariva più come un gracidio di una rana. Una rana molto spaventata.
- Arthur…- Antonio era sotto pressione. Teneva una mano stretta nel cinturone, come se avesse potuto estrarre la pistola e far fuoco in una situazione simile
Ma Arthur non fece nulla a parte il gesto eclatante di uscire dall’ufficio, sbattendo la porta con talmente tanta forza che Antonio temeva l’avesse rotta.
Lui e Francis rimasero in silenzio, senza dire altro. In fondo, non c’era nulla da dire; il francese aveva difeso il suo migliore amico dai pregiudizi della gente. Solo che effettivamente, si sentiva molto in colpa per aver attaccato Arthur in quel modo, quando Antonio non aveva detto nulla.
Insomma, era ovvio che tutti si sarebbero un po’ scandalizzati ad una notizia simile, non per cattiveria, ma solo…per sorpresa! Dopotutto, era una cosa inaspettata, sarebbe stato strano se l’inglese non avesse reagito. O peggio, se si fosse allontanato schifato da Antonio formando con le dita una croce di San Andrea e urlando “Vade retro”.
Forse la sua reazione era stata un po’ spropositata…solo poco, però.
-Ho esagerato?- domandò ad Antonio. Erano passati solo tre minuti; strano, gli pareva fosse più tempo.
-Ad essere sinceri, sì. – Antonio gli sorrise, come se volesse dimostrargli che in fondo lo aveva considerato un gesto carino da parte sua –Insomma, mi aveva fatto solo una domanda e ti assicuro che la sua è stata una reazione molto liberale. Di solito dopo una cosa del genere, la gente ti evita…- il suo tono di voce non era dispiaciuto, era quasi rassegnato, come se fosse nella norma una reazione razzista nel suo caso.
-Non c’è nulla di male. – Francis fece spallucce e lo spagnolo rise
-Per te non c’è nulla di male. – specificò –Anche Gilbert era un po’ stralunato quando gli ho detto che mi piaceva Lovino, eppure lui è uno dei miei migliori amici. –
Francis sospirò –Ho sbagliato, lo so. – e senza aggiungere altro, uscì fuori anche lui.
Arthur era vicino al distributore mentre conversava con Ben, un ragazzo di circa ventiquattro anni, un nuovo agente dal groviglio di capelli corvini ricci e gli occhi azzurri come il mare. Era uno di quelli che, insieme ad Antonio, aveva partecipato all’arresto di quel tizio ubriaco
-Ciao, Ben!-
Quando Arthur vide Francis, le sue sopracciglia si curvarono in un cipiglio minaccioso, ma Ben non lo notò
-Ciao, Bonnefoy…- strascicò con voce noiosa, come se già si aspettasse domande e congratulazioni per il suo operato –Non preoccuparti, sto bene, sono abituato a cose peggiori…a Las Vegas una volta un tale mi ha puntato una pistola contro…- prese un paio di monete e digitò un numero. Il francese vide una confezione di cracker cadere dal distributore
-Beh, cose di questo genere capitano spesso a New York. – replicò di rimando Francis –Arthur, per esempio, per fare gli straordinari se l’è dovuta vedere con dei tifosi di rugby piuttosto agguerriti-
Aveva tentato di alleggerire la situazione, ma non era servito. L’inglese era rimasto in silenzio, continuando a guardare Francis con odio
-Sul serio?- il tono di Ben si era animato tutto d’un colpo –Bravo, Kirkland…- gli diede una forte pacca sulla spalla –E ora, se non vi dispiace, vado…a proposito, secondo voi chi è la ragazza più carina della centrale?-
Arthur non rispose, Francis invece dovette prendersi un attimo di riflessione –Va bene “tutte” come risposta?-
Vedendo che Ben voleva decisamente una risposta più specifica di “tutte” cercò di pensarci meglio –Come si chiama quella ragazza con i capelli castani che era con me al processo contro Abbott?-
- Anne Marie? – Ben si sfregò le mani con aria molto soddisfatta – Jack dice che la più carina è la vostra amica…Elizabeta, ma io preferisco le americane, senza offesa, eh!…con il tuo voto siamo cinque per Anne e quattro per Eliza…più due che preferiscono Stephanie…tu Arthur, chi preferisci?-
- Elizabeta. – era molto brusco quel momento il suo tono di voce
Ben lo guardò storto, come se Arthur avesse appena alzato il braccio destro in alto e urlato “Her Fuhrer”
 –Così mi fai perdere la scommessa, non è giusto…-
Rimasero soli, Arthur e Francis. Il britannico fece per andarsene, ma l’altro lo fermò –Aspetta, Arthur…mi dispiace, io non volevo dire quelle cose. –
-Le hai pensate, il che fa più o meno lo stesso. –
-Oh, avanti, ti ho chiesto scusa. Insomma, anche se certe cose le penso, non è stato comunque carino dirtele in faccia. – certo, non era il modo più consigliato fare pace in quel modo, ma Francis preferiva essere sincero.
-Tu che ti vanti di averne fin sopra le orecchie del sesso, stai attento, che succederà anche a te una cosa simile. – lo minacciò in tono molto ironico, come se gliela augurasse davvero una cosa del genere.
Certo, avere Al e Matt con sé non era poi una situazione spiacevole, tutto il contrario, ma era certo che Francis non sarebbe vissuto un minuto di più con due ragazzini al carico; troppo farfallino.
Francis rise mordace –Io sono previdente caro, adotto qualche precauzione prima di…-
Lo interruppe con fare sbrigativo –Va bene, ho capito. Sei un deficiente. –
-Mi hai insultato, ora siamo pari!- cercò di usare un tono più spiritoso, ne trapelava quasi un sentimento di speranza.
-Non ti perdonerò mai, sottospecie di stupido. – incrociò le braccia come se fossero una protezione contro l'altro ragazzo
-Mi hai insultato due volte. Se continui così, sei tu che devi chiedermi scusa!- Francis gli sorrise e si avvicinò ancora di più a lui –Senti, Arthur…mi dispiace, dico davvero. Ho avuto una reazione esagerata, me ne rendo conto. –
L’altro scosse la testa –Se ci fossi passato tu, Francis, non penseresti queste cose su di me. Io non sono come pensi. –
-E come sei?-
Arthur ispirò dal naso profondamente –Senti, facciamo finta che non sia successo nulla, è la cosa migliore. –
Francis annuì più rallegrato –Sono più che d’accordo. Abbraccio della pace?- accompagnò le parole allargando le braccia
-Meglio di no . Ho detto che ti perdono, ma non per questo mi sei simpatico. –
- Arthur, il tuo tatto come al solito mi sorprende. –
-Almeno io non ho detto chiaramente in faccia ad una persona che ha praticamente sbagliato tutto nella vita ed è un egoista patentato. – gli fece eco con palese sagacia.
Francis per la prima volta rimase a bocca chiusa e non ribatté più nulla. Ritornò insieme a lui nel loro ufficio, dove trovarono Antonio mentre leggeva tranquillamente il New York Times di Arthur.
Appena li vide, lo spagnolo sorrise, come se avesse intuito che avessero fatto pace; poi vide che l’occhio di Arthur aleggiava minaccioso verso il giornale che teneva in mano
-Ah, scusa Arturo... stavo solo leggendo la sezione del cinema. – si alzò dalla scrivania e chiuse il giornale con precisione
-Non chiamarmi Arturo, non mi piace che il mio nome venga storpiato. È Arthur, dannazione! – ribatté secco –Comunque sia, puoi leggerlo, non mi interessa. –
Antonio sospirò. Doveva aspettarsi che l’inglese di lì in poi sarebbe stato molto più pungente con lui di quanto non lo fosse prima –Apri bene le orecchie, inglesino del cavolo: rimango sempre Antonio Fernandez Carriedo... solo che ho i gusti di Elizabeta. –
Francis rise, Arthur scrollò le spalle indifferente –Non…non mi importa…- balbettò, arrossendo –Puoi essere quello che ti pare, anche se ti avviso che per te io non sono disponibile. –
Gli sguardi di Arthur e Antonio si incrociarono per molto tempo; Antonio sembrava quasi essersi calmato, il britannico invece esibiva un sorriso un po’ obliquo.
-Sta' tranquillo, tu non mi piaci per nulla. – la voce di Antonio era allegra come sempre, ma si percepiva chiaramente il suo intento di offendere. Stranamente però, Arthur non perse le staffe e insistette altrettanto calmo
-Beh, la cosa è reciproca. -
Non successe più nulla; Antonio si risedette e riprese a leggere il giornale.
-Cosa danno di bello al cinema? – Francis si sporse per controllare in prima persona.
- C’è un film sulla guerra del Vietnam davvero interessante…-
-Sì, il Full Metal Jacket. – completò Arthur con fare esperto –Mi piacerebbe andarlo a vedere, ma…-
-Ma?- lo interruppe Francis curioso
-Ma è un film vietato ai minori. –
-E quindi?-
- Alfred e Matthew con chi li lascio?- chiese con aria spazientita, come se fosse stato da stupidi non arrivarci
-Non hai una baby sitter?-
Arthur rimase interdetto –Beh, si, ma…-
-Ma?-
-Verrà solo oggi pomeriggio o domani addirittura. –
Francis si allontanò da Antonio e si avvicinò a lui –Continuo ancora a non capire…-
L’inglese ispirò aria dal naso, distese i pugni e guardò il francese dritto negli occhi –Non so…non me la sento di lasciarla sola per una serata intera con i bambini…- in realtà, stava pensando a quanto gli sarebbe costato lasciarla troppe ore con Alfred e Matthew…non che fosse avaro, però Arthur riteneva che risparmiare fosse cosa buona e giusta data la sua situazione.
-Dai, Arthur, non puoi pensare solo ai bambini…hai venticinque anni, devi divertirti. – gli battè un pugno sulla spalla con fare complice e l’altro lo incenerì con lo sguardo
-E con chi ci dovrei andare, sentiamo?-
Il francese sfoggiò un sorriso che voleva essere ammaliante e in effetti poteva anche esserlo secondo i gusti di Arthur.
Peccato che il resto della faccia e della persona a lui non piaceva per nulla –Beh, se lo chiedi a me, non mi offendo…-
Arthur scosse la testa rassegnato –Piuttosto ci vado da solo. – questa volta non avrebbe ceduto. Francis poteva avere tutto, tranne la sua amicizia.
-Lo sapevo! Insomma, uno cerca di essere gentile con te e tu lo ricambi così?-
Lo sguardo scettico di Arthur non bastò per farlo rassegnare
-A chi altro lo vorresti chiedere? –
L’inglese strabuzzò gli occhi e per una prima volta sembrava essere davvero in difficoltà.
Pensò che avrebbe trovato sicuramente qualcun altro disposto a venire con lui, a parte Francis. Antonio neanche per sogno o lui avrebbe pensato che lo invitava per ben altro motivo. Elizabeta…uscire con una ragazza era strano, per di più se fidanzata.
Gilbert…uscire con quell’essere così egocentrico non gli andava per nulla.
Sesel…no, troppo imbarazzante! La conosceva da troppo poco tempo e lei sicuramente non avrebbe capito che il suo era un invito di amicizia. Lei avrebbe frainteso e sarebbe stato ancora più scomodo spiegargli come stavano le cose.
Per il resto, Arthur aveva un sacco di conoscenti, ma nessuno era adatto per una serata al cinema.
-Perché ti interessa tanto uscire con me?- il suo tono per la prima volta sembrava tanto quello del francese; era malizioso, allusivo, non gli piaceva per nulla.
Francis sorrise a sua volta –Sei antipatico, freddo, egoista, sarcastico e irascibile. Nonostante tutto, mi vai a genio. Per carità, per me sei più interessante ci una cicca di sigaretta per terra, ma…-
Arthur lo interruppe, acido –E così tu speri che io accetta?-
Fece spallucce –Pensaci. Se hai voglia, mi chiami…-
-Sta pur certo che non lo farò. –
In quel momento entrò Lovino Vargas.
Lovino era di origini italiane, suo padre veniva dalla Sicilia, dalle parti di Siracusa o cose simili. Aveva la cittadinanza americana, perché suo padre aveva sposato una del New Jersey, ma lui, pur essendo abitante americano, parlava sempre con trasporto della sua terra d’origine. Per il resto, era un ragazzo irritante e scontroso, la persona più scorbutica che Arthur avesse mai conosciuto.
-Ho finito di scrivere la relazione di servizio, bastardo. – Lovino chiamava sempre così Antonio. Gli schiaffò sotto gli occhi un pacco di fogli con aria di insufficienza –Leggila e firmala. –
Antonio obbedì –Mi sembra scritta molto bene. – commentò a fine lettura
-Devi firmarla, non dirmi quanto sono bravo a scrivere. Firma e non rompere. –
Sembrava che l’italiano non provasse lo stesso interesse che Antonio provava per lui. Arthur ridacchiò sotto i baffi.
-Mon petit, sei veramente carino oggi. – non capiva perché Francis doveva fare il patetico con tutti, nessuno escluso. Anche con il ragazzo che piaceva al suo migliore amico.
-Cosa cazzo vuoi?- lo attaccò, impulsivo. Anche Antonio si voltò verso il suo amico, piuttosto allarmato
-Niente, ti volevo solo fare un complimento. Sei molto carino, non è vero Antonio?-
L’inglese capì che il francese stava in qualche modo cercando di fare da intermediario tra quei due. Che cosa assurda! E in che maniera altrettanto assurda l'aveva fatto!
-Sì. – Antonio fece un sorriso più largo del solito.
L’italiano si guardò intorno sospettoso, come se supponesse che ci fosse una telecamera a riprenderlo
-Posso riprendermi il foglio?- domandò secco. Antonio sembrava un po’ dispiaciuto da come aveva reagito ma, conoscendo la persona, se lo doveva aspettare
-Tieni. – glielo porse, poi sospirò e dopo un attimo di esitazione gli chiese –Posso offrirti un caffè?-
Lovino lo guardò accigliato –Senti, vaffanculo. – strattonò il foglio, rischiando così di romperlo e uscì fuori di lì con furia, come se non desiderasse altro che andare fuori.
Antonio sembrava dispiaciuto, infatti Francis, che doveva essersene accorto, gli batté aritmicamente dei colpetti sulla schiena
-Ti è andata male, Tonio. – sottolineò l’evidenza, senza però alcuna ombra di malizia. Francis voleva molto bene ad Antonio, sembrava quasi più dispiaciuto dello stesso spagnolo
Per la prima volta, le labbra del ragazzo non si curvarono in un sorriso, ma rimasero una linea dritta e inespressiva -Me ne sono accorto. –
-Se vuoi, posso fungere da premio di consolazione!-
Un riso leggero e dal sapore un po’ amaro uscì dalla bocca dello spagnolo, mentre Arthur scosse la testa allibito. Guardò il suo orologio da polso e si alzò in piedi
-Il mio turno è finito circa mezz’ora fa…- sbadigliò stanco e si stropicciò gli occhi in maniera energica –Lavoro da stamattina all’una…perché New York è così malfamata? –
Francis fece spallucce –Vedila in questo modo: a me volevano trasferirmi a Chicago e al confronto New York è il Paradiso…-
Arthur, che in quel momento non aveva proferito parola, avrebbe voluto ribattere che era un vero peccato che in quel momento Francis non stesse a Chicago, ma rimase in silenzio. Francamente, con quella bocca aveva provocato fin troppi danni, per quel giorno.
 -Beh…- fece un altro sbadiglio –Io vado. Salutami Charlotte. –
-Con immenso piacere. –
Poi lo spagnolo si rivolse ad Arthur –E tu, salutami tanto Alfred e Mark. –
-In realtà, si chiama Matthew. – specificò Arthur stizzito aggrottando le sopracciglia
 
Il turno di Arthur e Francis finiva alle due. Era pesante per l’inglese lavorare con un uomo che sopportava a malapena, ma faceva parte del suo lavoro, purtroppo.
Per fortuna, quel giorno il tempo era passato piuttosto in fretta, anche perché Arthur era stato trattenuto al telefono per ore da una signora che voleva denunciare il suo vicino di casa per schiamazzi molesti.
La sua maggiore preoccupazione in quel momento era andare a riprendere Alfred e Matthew all’asilo al più presto possibile ed eventualmente senza farsi aiutare da Francis.
-Ci vediamo. – lo salutò lapidario, senza neanche girarsi a guardarlo
-Vuoi che ti accompagni fino a casa?-
-No. –
Sentì il sospiro a stento trattenuto di Francis. Sentì che si avvicinava a lui sempre di più.
-Passi oggi per l’auto? –
-Se non viene Lily a presentarsi, credo di sì. –
Ormai Francis era ad un passo da lui. Non erano poi così vicini, ma per Arthur quella distanza era già fin troppo eccessiva.
Si girò per fissarlo e notò che il viso di Francis era illuminato da un sorriso di tenerezza. Non lo aveva mai guardato in quel modo ed era…strano…fu in quel momento che ad Arthur lampeggiò nella mente un’idea che aveva cercato di negare e reprimere a forza, ma che ora era riemersa in maniera inquietante
-Tu sei come Antonio?-
Il francese lo guardò accigliato, come se non capisse cosa volesse intendere
-Voglio dire…- riprese a fatica –Anche a te piacciono…insomma…-
-Non mi piaci tu, se è questo che vuoi sapere. – completò candidamente l’altro, senza fare neanche una piega. Il suo sorriso non si era ancora spento
-Non hai risposto alla mia domanda. – gli fece notare nervoso
Francis si prese il suo tempo, come se solo in quel momento stesse pensando davvero ad una cosa del genere
-Sono dell’idea che l’amore esiste per tutti, a prescindere da come prende le sembianze. – rispose alla fine.
Il britannico alzò gli occhi al cielo; odiava quando la gente non andava subito al dunque
-Non hai ancora risposto. – non capiva neanche lui perché lo volesse sapere, anzi, forse era meglio non conoscere tutti i lati di Francis, visto che uno sembrava il peggiore dell’altro
-Ti ho risposto, invece. – obbiettò impassibile, poi aggiunse –Allora, ci vuoi venire al cinema con me, sì o no? –
Stava ancora pensando al cinema? Arthur si stupì di come Francis fosse così onnisciente, di come non gli fuggisse mai nulla. Sembrava che conoscesse i pensieri di tutte le persone che lo circondavano, come se li stava a fissare per tutto il tempo fino a che erano diventati un libro aperto per lui.
Aprì la porta e uscì dall’ufficio, seguito da Francis che gli stava dietro come un segugio
-E allora?-
-Dopo tutto ciò che mi hai detto stamattina, scordatelo. –
-Ah, ma sei ancora arrabbiato! Ti ho chiesto scusa. – sembrava davvero mortificato di averlo offeso così tanto, ma forse era una sua impressione; sapeva benissimo che neanche Francis provava simpatia per lui
In effetti serbava ancora molto rancore. Nessuno era stato così sfacciato nei suoi confronti prima di allora, a parte Ian.
-E se pago io?- la sua voce suonava sicura, come se fosse convinto di essersi giocato un asso nella manica.
Arthur rischiò di inciampare nello scalino. Maledì l’innocente rialzo, poi riprese a scendere, facendo finta che non ci fosse nessuno di fianco a lui.
-Sto aspettando una risposta. – gli ricordò Francis con voce maliziosa.
L’inglese si fermò e per una volta fu lui a guardarlo dritto negli occhi.
-Se ti dico di sì, mi lascerai in pace?- era sfinito, non ne poteva più di avere sempre quel francese tra i piedi.
Francis si mise una mano sul cuore –Giuro. E poi, dobbiamo provare la tua nuova macchina, giusto?-
Già, la sua nuova macchina…chissà come avrebbero reagito Alfred e Matthew alla notizia che non dovevano prendere più l’autobus?
-E va bene…- ancora una volta aveva alzato bandiera bianca e si era arreso –Ma solo per provare la macchina. Non è per nient’altro. –
-Ma certo. – anche se il tono di Francis non lo convinceva per nulla, Arthur annuì e senza aggiungere altro, si avviò verso la fermata dell’autobus
-Vengo a casa tua, sabato prossimo, verso le sette. Credo che la tua baby sitter li possa tenere i bambini fino a tardi, no?- gli urlò Francis da dietro
-Credo di sì. – gli rispose di rimando
Uscire con Francis; decisamente, l’ultimissima cosa che Arthur si aspettava dalla sua vita.
 
 
 
 
 
 
 
 
Salve a tutti coloro che sono arrivati fin qui.
Sì, ho impiegato pochissimo tempo per i miei standard a pubblicare questo nuovo capitolo, tutto merito della mia efficientissima beta e delle mie mani super veloci*_*
A parte gli scherzi, spero che il capitolo vi sia piaciuto. Gli OC che compaiono in questo capitolo (Hortense, Ben, Jack, Anne Marie e Stephanie), rappresentano i seguenti stati;
Hortense: Louisiana
Ben: Nevada
Jack: California
Anne Marie: Texas
Stephanie: Utah
Il Full Metal Jacket è un film prodotto dalla mente geniale di Stanley Kubrick (che io adoro).
Le canzoni che hanno ispirato questo capitolo sono due: 21 Guns e Boulevard of broken dreams dei Green Day.
A presto
Cosmopolita 

Q

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Capitolo 10
*** Come conobbi tua madre... ***


 Quel giorno a pranzo Arthur mangiò solo, perché Alfred e Matthew avevano già pranzato all’asilo.
Dopo l’arrivo dei suoi figli, la casa era più caotica e chiassosa di quanto non lo era mai stata prima d’ora e Arthur era ancora un po’ incredulo di osservare quanto la sua abitazione fosse cambiata con la compagnia dei gemelli.
Prima casa sua era di un silenzio inquietante, un silenzio che lo faceva sentire solo.
C’erano periodi della sua vita in cui si era sentito terribilmente solo, tanto che a volte aveva perfino creduto che la gente provasse repulsione per lui.
Ignorava se il problema fosse lui che aveva un brutto carattere o fossero gli altri che non lo comprendevano a pieno, ma una cosa era certa; la solitudine era stata una carissima compagna per lui, anche se a volte non la rimpiangeva per nulla.
Ora invece, la casa era avvolta dalle risate dei suoi figli che si cimentavano in giochi fiabeschi e fantasiosi
-Guarda, Matthew…lo vedi?-
-Cosa?-
-C’è un alieno…è proprio sotto il letto…-
Sorrise.
I bambini gli avevano raccontato che all’asilo si erano divertiti molto. Alfred aveva legato subito con un bambino di nome Kiku che aveva una personalità talmente diversa da quella di suo figlio che Arthur cominciò a chiedersi se non era vero che “gli opposti si attraggono”.
-Lo sai papà, che Kiku è nato in Giappone? Però poi lui e sua mamma si sono trasferiti qui. Lo sai che anche il papà di Kiku è in cielo? Magari farà compagnia alla mamma. –
Arthur fece un sorriso tirato e rimase in silenzio, incapace di aggiungere altro. Non sapeva che commentare a quella frase così infantile e allo stesso tempo così sensibile per essere uscita dalla bocca di Alfred.
Matthew aveva fatto amicizia, anche se si trattava sostanzialmente di un rapporto più timido, con una bambina di nome Caroline. Se l’avesse saputo Francis, gli avrebbe detto “E bravo! Cominci presto, eh?”
Purtroppo, quello stupido non avrebbe mai capito che un bambino non pensava a certe cose.
Per lui invece, non era andata molto bene; telefonarono un paio di persone da Londra per congratularsi del lieto evento che gli era capitato, alcune da parte perfino di persone che neanche considerava più, come una vecchia amica di scuola o una zia con cui aveva tagliato i ponti ormai da anni.
Tra i suoi fratelli, solo James si era fatto sentire. La sua era stata una chiamata concisa, un po’ fredda anche per uno come Arthur.
La telefonata di sua madre invece era stata più lunga. Prima di tutto, l’aveva rimproverato perché l’aveva cercato per tutta la mattinata senza successo e a nulla valsero le giustificazioni di Arthur a proposito del suo lavoro
-Se fossi rimasto qui, avresti avuto sicuramente il tempo di rispondermi. – lo disse con in un modo talmente arcigno, che Arthur trattenne a stento l’impulso di sbattergli il telefono in faccia. Era sua madre, non poteva mancargli di rispetto così.
-Comunque, Hannah mi ha detto che i bambini si chiamano Alfred e Matthew. –
-So come si chiamano i miei figli, mamma. –
-Non fare l’irriverente con me!- lo rimise a posto con voce autoritaria –Chi è la madre?-
- Hannah non te l’ ha detto?-
-Tua sorella mi ha detto che non gliel’ hai voluto dire. Forse è una sgualdrina di Savannah?-
A quel punto Arthur vide nero. Prima di tutto, perché sua madre non poteva permettersi di giudicare in quel modo una persona che neanche conosceva, in secondo luogo, offendeva i suoi gusti personali e questo proprio non lo reggeva.
-Si chiamava Eileen, la sua famiglia mi ha aiutato molto quando vivevo a Charleston…- rispose in tono di sfida
Da parte sua, la signora Kirkland fece un gran sbuffo –Un Kirkland che si abbassa a chiedere aiuto. Inaudito. –
Toccò ad Arthur sospirare infastidito. Non era un caso se chiamavano sua madre “Bloody Mary” –Mi passi papà, per favore? –
John Kirkland era meno acido della moglie, ma non aveva polso e in fondo Arthur non riusciva proprio a biasimarlo perché gli faceva una gran pena.
Quando lo salutò con quella voce bassa ed esile sentì dentro di se un sentimento strano, un grande groppo allo stomaco e gli occhi improvvisamente umidi. Si asciugò le lacrime: non era il momento di essere nostalgici.
-Eih, Arthur. –
-Eih, papà…risparmiati la paternale, ci ha già pensato mamma. –
John rise –Non preoccuparti, Arthur. Spero solo che quei due bambini ti rendano felici. –
-Lo fanno, papà. –
Sentì la voce irata di sua madre urlare su qualcosa a proposito di “non incoraggiarlo”e infatti suo padre emise uno squittio indefinito
-Mi dispiace…- disse soltanto, prima di chiudere –Mi dispiace che sia andata a finire così…-
Beh, in effetti la colpa era anche di suo padre se adesso Arthur era a New York, ma non glielo rinfacciò. Nel profondo, era stato davvero contento di sentirlo.
Quando richiuse, si accorse che la casa era diventata fin troppo silenziosa.
Non capiva cosa fosse successo, perché i bambini erano così taciturni?
-Al?- chiamò preoccupato
-Sono qui…- suo figlio era seduto sulle piastrelle del pavimento del salotto, senza fare apparentemente nulla.
Arthur lo guardò sbalordito –Che ci fai qui? E dove è andato Matt?-
-Dorme…-
L’inglese andò in camera sua e trovò il piccolino accoccolato stretto al suo orsacchiotto di peluche.
Sorrise con affetto, poi ritornò da Alfred. Era strano, sembrava più spento, anche se normalmente il bambino era un fuoco d’artificio
-Papà?- aveva una voce flebile, come se si stesse per sentire male
-Cosa c’è?- Arthur si chinò verso di lui e con la mano gli toccò la fronte; con sollievo constatò che non aveva la febbre
-Papà, gli eroi piangono?- la sua voce sembrava il pigolio disperato di un pulcino.
Lo prese per le spalle con delicatezza –Ma certo. Anche Superman piange, a volte…Perché vuoi piangere, Al? –
Il bambino aveva gli occhi acquosi, lucidi –Perché la mamma è morta…-
Per Arthur quello fu un duro colpo. Non se lo aspettava che a distanza di giorni il più vivace tra i suoi figli sentisse la mancanza della madre
-Ci sono io, no?- parlava in modo titubante, poco convinto della risposta che Alfred gli avrebbe dato
-Sì, però…Quando voglio ricordarmi di lei, non riesco a immaginarla bene. Io non voglio dimenticarla, papà. –
Arthur capì cosa intendeva suo figlio. Non era uno psicologo, ma anche lui, quando gli avevano dato la notizia della morte di Eileen, era andato a ripescare il suo album di fotografie perché temeva di essersi dimenticato di com’era fatta.
Lo stesso fece con il figlio; prese l’album nero dal cassetto dei ricordi che si trovava in sala e glielo porse con un sorriso
-Guardalo, se vuoi. –
Alfred non se lo fece ripetere due volte. Aprì in mezzo al libro e accarezzò la foto incastrata nella pagina. Arthur vide una lacrima scendere sulla guancia del figlio
-Siete tu e la mamma? – domandò, indicandogli la foto.
Si avvicinò. La foto ritraeva il giardino della casa dei signori Jones, infatti Arthur riusciva a scorgere la grande casa che affittavano alle persone cui ne avevano bisogno.
Al centro del prato c’erano loro due, Arthur ed Eileen che a prima vista un occhio esterno avrebbe detto tutto, tranne che stavano insieme.
Il loro rapporto era sempre stato così; Eileen non era il tipo da matrimonio, perché amava la libertà, non sopportava i vincoli e le proibizioni. Non era una ragazza facile, anzi, aveva fatto la preziosa perfino con lui, solamente non sopportava la routine, la normalità.
Le piaceva che lei e Arthur mangiassero la pizza nel suo letto, rischiando di sporcare le lenzuola di pomodoro, che uscissero ogni sera e andassero in un posto diverso, faceva volontariato ogni fine settimana e stringeva amicizia con i barboni perché, secondo il suo parere “sono le persone più interessanti di questo mondo”.
E Arthur si era divertito, fin che era durata. Non poteva dire che lui con Eileen avrebbe formato una famiglia, ma poteva placidamente affermare che quella ragazza l’aveva reso felice.
Ricordava bene quella foto. Era stata scattata il 10 novembre dell’ottantadue, il cielo era coperto dalle nuvole e lui ed Eileen stavano l’uno accanto all’altro come se fossero due vecchi compagni di classe.
-Sì, siamo noi. – il suo viso si illuminò insieme a quello del bambino
-è senza scarpe. Lei era sempre senza scarpe…- notò il bambino con la voce ormai immersa tra i ricordi improvvisamente più nitidi.
L’inglese rise. Eileen camminava sempre scalza quando passeggiava nel prato della casa dei suoi genitori.
Quando le aveva chiesto il motivo, gli aveva risposto che le piaceva sentire i fili d’erba che accarezzavano i suoi piedi.
Assolutamente, aveva sempre pensato che ad Eileen mancasse qualche rotella. Sembrava una figlia dei fiori, solo che era nata troppo tardi per esserlo.
 -Papà, tu amavi la mamma?-
Arthur arrossì ed esitò un po’, prima di rispondere
-Sì…sì, l’amavo. -
Alfred non staccava gli occhi di dosso alla foto. Girò pagina e questa volta Arthur ed Eileen sembravano davvero fidanzati. La testa di lei era poggiata sulla sua spalla e Arthur si sorprese del contrasto che c’era tra loro; sorridevano entrambi e si vedeva lontano un miglio che erano innamorati, ma nell’abbigliamento la ragazza era molto più trasandata di lui. Portava un maglione pesante e la gonna lunga da hippie, mentre lui sembrava stesse andando ad un matrimonio. Non indossava giacca e cravatta, ma al confronto con Eileen sembrava molto più elegante.
Suo figlio li guardava ammirato, come se all’improvviso avesse più chiara l’idea che ci fosse stato un passato tra i genitori che aveva conosciuto separatamente.
-Sai…- intervenne Arthur, con voce tranquilla –Il giorno in cui è stata scattata questa foto…io e la tua mamma abbiamo deciso di avere te e Matthew. –
Alfred alzò lo sguardo per fissarlo con gli occhi spalancati –Sul serio? Come avete deciso?- traspariva una curiosità morbosa ed ingenua dalla maniera in cui l’aveva chiesto, come se conoscere in che modo fosse nato lui si trattasse di una cosa grandiosa.
Arthur capì di essersi dato la classica zappa sui piedi e non sapeva come tirarsi fuori da quella situazione così imbarazzante. Si sforzò di ridere, gli accarezzò la guancia in modo piuttosto schivo e cercò di distrarlo da questo suo interesse –Se vuoi, ti regalo la foto. Così, ti ricorderai sempre della mamma. –
Funzionò. Il bambino annuì felice e Arthur tolse la fotografia dall’album –Non la rovinare. – gli raccomandò solamente.
Poi, successe una cosa del tutto inaspettata; Alfred lo abbracciò. Si aggrappò alle sue spalle con slancio ed affetto –Ti voglio bene. –
-Anche io…- mormorò Arthur attonito. Rimasero stretti a lungo, fin che suo padre non gli sussurrò all’ orecchio –hai visto?-
-Cosa?-
-Una fata…proprio lì. –
Alfred lo guardò accigliato. Fissò il punto che aveva indicato suo padre e vide che non c’era nulla –Non esistono le fate…-
Non gli diede retta - Se la trovi, ti do un premio. –
L’altro si animò tutto d’un colpo  -Davvero?-
-Certo. Però, prima sveglia Matt, così la cercate insieme. –
Non se lo fece ripetere due volte. Alfred corse da Matthew e il bambino, un po’ perplesso a dire la verità, iniziò a cercare la creatura fantastica insieme al fratellino mentre loro padre li guardava con un sorriso soddisfatto impresso nel volto.
 
Erano le quattro quando Sesel lo telefono per dirgli che Lily sarebbe venuta l’indomani pomeriggio, verso le cinque.
Ad Arthur andava più che bene, perché in quel pomeriggio voleva ritirare la macchina e l’indomani mattina voleva occuparsi della parte legale della situazione, ossia, riconoscere i figli.
I bambini si stavano dannando perché non riuscivano a trovare la fata e temevano di non ricevere il premio tanto agognato, ma Arthur li interruppe divertito
-Dai, la cerchiamo insieme questa sera. –
-E il premio?- chiese Alfred il quale non voleva rinunciare a quell’avventura eroica
-Lo avrete lo stesso. -
Sembrò essersi tranquillizzato, infatti non disse nulla quando suo padre annunciò che dovevano uscire.
-Dove andiamo?- Matthew aveva intuito che la parola uscire equivaleva a prendere l’autobus, ma più che altro era curioso di conoscere ciò che aveva in mente suo padre.
-Se vi dicessi che da domani in poi non prenderete più l’autobus?-
I bambini urlarono di gioia –è questo il premio?- chiese Alfred, contento di non prendere mai più quella diavoleria di mezzo.
 
Casa di Francis si trovava molto lontano da Queens, a Midtown, il posto che tutti pensano quando si immagina New York; i grattacieli, l’Empire State Building, Times Square e tante altre cose che fanno di Midtown uno dei più grandi centri finanziari del mondo.
Arthur non sapeva se Francis fosse nella sua stessa condizione economica; certo, vestiva firmato e una volta l’aveva visto venire al lavoro con una busta contenente Chanel numero 5 (per la mia Charlotte, aveva detto, oggi è il suo compleanno), ma se faceva i conti, il suo stipendio non era poi più alto del suo.
Non sapeva se vivere a Midtown equivalesse ad essere anche facoltoso, ma di certo Francis, che viveva in un vecchio appartamento del Dopoguerra, non aveva i soldi che gli uscivano dalle orecchie.
-è qui che vive Francis?- chiese Alfred, una volta alzato lo sguardo sulla palazzina non poi così alta come l’aveva immaginata. Quanti piani potevano essere, trenta?
-Speriamo che non si sia rotto l’ascensore…- ribatté invece suo padre con voce tetra. Il nome Bonnefoy, in realtà, era scritto da due parti sul citofono. C’era un C. Bonnefoy al ventinovesimo piano e un F. Bonnefoy al trentesimo.
- C. Bonnefoy, dovrebbe essere Clemence Bonnefoy, la zia di Francis. – riflettè con voce pensierosa. Senza pensarci un attimo, citofonò al secondo Bonnefoy, quello dell’attico.
Pazientò parecchi secondi, prima che Francis venisse a rispondere e quando Arthur gli annunciò chi era, il francese cambiò tono di voce; sembrava quasi sorpreso
-Oggi non doveva venire Lily?-
-No, viene domani…ti disturbo?-
Sentì la solita risatina di Francis –Ma certo che no. Sali. –
Per fortuna l’ascensore era funzionante. Il piano di Francis in realtà era occupato da un solo appartamento, il suo. Doveva essere molto più grande di quello in cui viveva Arthur, pensò, mentre con una mano suonava al campanello e con l’altra teneva per mano Matthew.
Quando il francese venne ad aprire, Arthur capì perché avesse adottato con lui quel tono di voce così sorpreso; era vestito, svestito per meglio dire, con solo un paio di boxer, parecchio ristretti a dire la verità. L’inglese avvampò di vergogna e si batté una mano sulla testa, i bambini invece, incuranti dell’abbigliamento, furono davvero molto felici di vederlo
-Ah, ma hai portato anche i bambini…- anche lui in quel momento si stava leggermente vergognando di quella situazione
-Con chi volevi che li lasciassi, idiota!- era furente, a dir poco. Come gli era venuto in mente di riceverli in quel modo?
La risposta gli divenne chiara quando Francis fece entrare loro in casa. Seduta sul divano, con fare languido, stava sdraiata una ragazza in vestaglia . La treccia sfatta le scendeva fino alla schiena e i suoi occhi azzurri strizzavano per focalizzare meglio la vista sullo sconosciuto; evidentemente, era miope.
- Arthur,  lei è Charlotte Rousseau… Charlotte, lui è Arthur Kirkland. -
Lei neanche rispose, guardava Francis con una nota di evidente disappunto
-Charlotte studia alla Normale di Parigi, è venuta qui per fare…come si chiama, tesoro?-
- Erasmus. – il suo accento era palesemente francese. La sua erre era più moscia di quella di Francis e tendeva ad accentare l’ultima lettera
-Già, Erasmus. Lei abita a Staten Island, così facciamo a sorteggio, o vado io da lei o viene lei da me. –
Né ad Arthur, né a Charlotte sembrava importasse molto il discorso di Francis. L’inglese la guardava sottecchi; era davvero molto carina…peccato fosse francese!
-Quindi, sei francese?- cercò di attaccar bottone con una voce che voleva simulare disinvoltura.
Lei storse il naso –Monegasca, prego. – pareva veramente stizzita
Il britannico la guardò come se stesse parlando con una mentecatta –Ah…scusa…- gli pareva davvero esagerato che quella ragazza se la fosse presa per così poco: Principato di Monaco, Francia…ma non era la stessa cosa?
- Francis…- fece lei, sempre più scontrosa –Posso parlarti, un minute?-
Il ragazzo le sorrise e la prese per mano, aiutandola così a farla alzare dal divano –Ma certo, cara. Tutti i minuti che vuoi.. – Guardò Arthur e i bambini –Vi dispiace?-
-No, va pure. –
I due fidanzati andarono in cucina e, di spalle, Arthur notò che le mutande di Francis avevano una scritta davvero disdicevole
 
J’ai a derrière tres jolie, n’est-ce pas ?*
 
Arthur scosse la testa e discostò lo sguardo dalla scritta, non prima di essersi accertato che anche i bambini non l’avessero letta.
Non sapeva per cos’era più imbarazzato; per la scritta, oppure per il fatto che si fosse fermato a leggerla. A furia di stare con persone come Antonio, sperava che non fosse diventato anche lui come loro. Ma no, forse, era solo stato catturato dalla scritta e non dal posto in cui si trovava…in fondo, era di un blu elettrico, era impossibile non notarla, il fatto che si trovasse proprio sul fondo schiena di Francis era un fatto del tutto secondario.
-Papà. – Matthew interruppe i suoi ragionamenti –Francis e la sua amica stanno litigando. –
Con orrore, Arthur sentì che dalla cucina, Charlotte stava inveendo pesantemente contro il suo amante. La sua voce era come un sibilo, molto fastidioso a dirla tutta.
- Francis, tu invites tout le monde sans que previens- moi!-
Non capiva molto il francese, ma a grandi linee stava riuscendo ad afferrare il succo del discorso
-Mais…c’est ma maison. – Al contrario di Charlotte, la voce del ragazzo sembrava alquanto divertita, quasi come se la stesse sfottendo
- Allors…- il sibilo di Charlotte divenne più polemico–Telephones-moi quand tu sais que le gens viens. -
-Porqoui?-
-Parce que…- sembrava stesse trattenendo tra i denti qualche parolaccia che proprio stonava detta da una personcina come lei -Il est la nième foise que quelqu’un me voit comme çà !- la voce di Charlotte si stava alzando progressivamente e Arthur sentì che l’altro cercava di farla calmare
-Tu est vraiment charmante…-
La voce del francese suonava seducente, come se con una sola frase volesse far cadere ai suoi piedi quella ragazza ed evidentemente ci era riuscito, perché il tono di quella si calmò
-Ne cerque pas de changer argument, s’il vous plait !-
-Oui, oui...excuse-moi, mon angeè !-**
E subito dopo, Arthur sentì uno schiocco di labbra piuttosto prolungato
-Oh, hanno fatto la pace…- bisbigliò Matthew affascinato, mentre Alfred rivolse a suo padre un’occhiata perplessa, come a dire “da cosa ha capito che hanno fatto pace?”.
I bambini di solito si dividono in due categorie: leader e saggi.
I leader sono allegri, trascinatori e sono di norma molto pragmatici.
I saggi sono introversi, chiusi ma dotati di una maturità incredibile.
I suoi figli entravano nettamente in una delle due categorie e secondo Arthur non era difficile capire che Alfred era un leader, mentre Matthew un saggio.
Francis e Charlotte rientrarono poco dopo, più in sintonia che mai. Lei rientrò in camera da letto, probabilmente per mettersi qualcosa di più consistente addosso, invece Francis raccolse da terra i suoi pantaloni e la sua maglia.
Solo in quel momento Arthur si accorse di come il salotto era arredato.
I mobili erano chiaramente di matrice Art nouveau e sicuramente costavano di più di quelli che aveva lui ed erano disposti con cura all’interno dello spazio. Ciò che lo colpì di più fu la lava lamp posta vicino al divano e le diverse stampe di Monet e Picasso. Uno in particolare lo colpì, perché non era una stampa, ma un dipinto vero e proprio. Non capiva chi fosse il soggetto, ma aveva intuito che lo stile era una specie di Cubismo.
Francis si avvicinò a lui sorridente –Ti piace?-
-Molto…ma non l’ ho mai visto nell’antologia di Picasso. Chi l’ ha dipinto?-
Il sorriso sornione e soddisfatto dell’altro la diceva piuttosto lunga. Aveva il dito puntato verso l’angolino a destra –è scritto qui. –
Ci mise un po’ per decifrare quella firma elaborata e incomprensibile, ma quando capì chi fosse mai il pittore, si girò verso di lui, sbigottito –L’ hai fatto tu?-
Rise –Perché sei così sorpreso?-
-Non me lo aspettavo…-
Anche i bambini si avvicinarono per vedere curiosi
-Oh, Francis…ma cos’è? Non si capisce nulla…- la voce di Alfred era un po’ delusa, aveva le sopracciglia inarcate in un cipiglio perplesso, come se si aspettasse una Monna Lisa o cose simili.
Francis sorrise –Nel tempo libero, adoro dipingere. –
-Sei bravo…- ammise l'inglese senza malignità –Perché non ti dai alla pittura?-
Per tutta risposta, alzò le spalle –Il pittore è un bel mestiere, ma è insicuro. E poi, ho faticato tanto a Providence per l’addestramento, non posso mandare tutto al diavolo così, non credi? –
Arthur alzò gli occhi al cielo. Eppure, Francis era davvero bravo a dipingere, era una delle poche cose che davvero gli riusciva bene a suo parere.
-Allora…- riprese a parlare il francese, dandogli una leggera pacca sulla spalla e dando un buffetto sulla guancia di Matthew –Vuoi vederla la tua nuova macchina? –
Fu Alfred a rispondere per lui, urlando un sì che superava i decibel della sopportazione umana.
I due adulti risero –Credo che la sua risposta sia eloquente. – Francis poi si rivolse a Charlotte, chiusa ancora nella camera da letto –Amore, fai come se fosse a casa tua! Io scendo per dare la macchina ad Arthur. –
-Oui. – fu la sola risposta della ragazza.
 
- Dov’è tua zia?-
-Mia zia abita un piano sotto il mio, non so se l’ hai notato…- Francis si accese una sigaretta e diede una lunga spirata –Ma oggi non c’è, è la giornata del bridge con le amiche. – fece una risata alquanto divertita.
- Francis, dov’è la macchina?- domandò Alfred che seguiva i due più emozionato che mai, come se si aspettasse un auto grandiosa e fantascientifica.
-Mia zia ed io siamo fortunati. Siamo tra i pochi ad avere il garage, qui. – prese le chiavi dalla tasca e si avvicinò verso uno dei box che si trovavano sul retro del palazzo. Dentro, stava un pick up dall’aria terribilmente vecchia ma ben tenuta, di un grigio metallizzato che ad Arthur piaceva abbastanza. Sempre meglio di giallo paglierino o, peggio, viola fosforescente.
-Che bello, papà, la nostra nuova auto. – Alfred era davvero fuori di sé per la felicità e anche Matthew a modo suo lo era. Salirono sui sedili anteriori e giocarono per un po’ con il volante, facendo finta di condurre la macchina in chissà quali posti meravigliosi, mentre Arthur esaminava con una cura certosina l’abitacolo dell’auto, che profumava di fresco e tutto sommato sembrava molto pulita. Ci fu un pensiero che gli attraversò momentaneamente la mente e rivolse a Francis uno sguardo di sbieco
-Non è che hai l’ hai usata come angolo dell’amore?-
Francis scoppiò in un risata fragorosa –Forse, una volta o due…non sai quanto sia eccitante farlo in auto. –
-I bambini!- gli strillò, rosso per la rabbia e l’imbarazzo. Al solo pensiero che lì Francis aveva…oddio, non poteva neanche pensarci! Fece una faccia schifata e ordinò ai bambini di scendere dai sedili
-Ma dai, scherzavo. – lo schermì il suo collega –Se venisse a saperlo mia zia che faccio…calmati, so che non devo dire cose scabrose in presenza dei bambini…- intercettò l’occhiata furibonda dell’altro –Dicevo: se sapesse che scelgo posti simili per amare qualcuno, ne rimarrebbe turbata. Mia zia è di vecchio stampo, non so se mi spiego. –
-Mi domando perché non abbia ripreso da tua zia. -
Gli strizzò l’occhio con fare complice –Tu saresti il suo nipote preferito. –
Arthur non rispose. Guardò l’auto nuova e nel complesso decise che non era poi un veicolo così brutto. Certo, c’era di meglio, ma meglio di così non si poteva aspettare nelle sue condizioni, sperava solamente che non avesse problemi con il motore o la batteria
-I soldi te li porto domani, in ufficio. –
Francis fece un verso di scherno –Avanti, Arthur, credi che io voglia i tuoi soldi?-
-E tu credi che accetta le tue elemosina?- gli fece di rimando, piuttosto innervosito
-Non ricominciare. –
-Non ricominciare tu!-
-Va bene, ok…portameli domani se ci tieni così tanto. –
Annuì, contento di averla spuntata almeno per quella volta
-Però…- riprese a dire Francis, con una luce speranzosa che gli illuminava il volto –Ricordati che noi abbiamo un’uscita…-
-Certo, sabato pomeriggio. – concluse con fare molto sbrigativo. Non voleva neanche pensarci che lui sarebbe uscito con Francis Bonnefoy, un ragazzo che mai prima di allora avrebbe considerato come compagno di uscita. Non lo pensava neanche adesso, eppure si stavano accordando per andare al cinema, per ironia della sorte.
Si salutarono con una formale e rigida stretta di mano, poi Arthur salì in macchina.
Avendo guidato fino a cinque anni prima solo macchine inglesi, gli fece un po’ strano all’inizio impugnare il volante al contrario di come era abituato.
Certo, aveva rinnovato la sua patente e aveva guidato qualche volta quando ancora viveva a Charleston ma lo aveva sempre fatto in modo sporadico.
Quando sentì che la macchina si stava mettendo in moto, si fece scappare un urlo di gioia, prima di arrossire per quella sua mancanza di contegno. Era stato infantile da parte sua, ma era davvero felice di avere un bolide tutto suo, anche se era un catorcio.
-Papà, è bellissima. – Alfred si mise davanti e cominciò ad accarezzare il sedile come se fosse stata la prima volta che ne vedeva uno
-Non prenderemo più l’autobus. – esultò Matthew, in una rarissima eccedenza di gioia.
Francis intanto se ne stava fuori e li osservava sorridente, come un benefattore molto generoso e fiero del suo operato. Seguì con uno sguardo il pick up di suo zia, che ormai era diventato di Arthur, superare i confini del suo palazzo, percorrere la via e poi girare verso Queens e risalì in casa. 
 
 
 
 
 
* Letteralmente: ho un sedere molto carino, nevvero?
** La conversazione dovrebbe essere più o meno così
-Francis, tu inviti tutta questa gente senza avvisarmi?-
-Ma è casa mia!-
-Allora telefonami quando sai che la gente viene. –
-Perché?-
-Perché…è l’ennesima volta che qualcuno mi vede così. –
-Sei veramente affascinante. –
-Non cercare di cambiare discorso, per favore. –
-Sì, Sì. Scusami, angelo mio. -
 
Salve a tutti quanti. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, anche perché ho dovuto dare una spolverata al mio francese piuttosto elementare ed è stata una battaglia molto cruenta. Per questo ci tengo a ringraziare tutti i morti di questa battaglia (la mia amica che è stata costretta a rileggere tutto il discorso, pur avendo lei studiato lo spagnolo come seconda lingua e il mio malridotto vocabolario di francese).
Ci tengo a dedicare il capitolo a Kyuketsuky Assassin che pochi giorni fa ha fatto il compleanno. Auguri, carissima. O, tanto per essere originali, “Bon anniversaire”.
Naturalmente, lo dedico anche a tutti quelli che mi seguono. Sì, anche a te che stai leggendo in questo momento.
La canzone che mi ha ispirato è “I don’t wanna miss a thing” degli Aerosmith.
Grazie ancora
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 11
*** Pochi passi alla volta ***


 Antonio diede un colpo al sacco da box, poi un altro e poi un altro ancora, fino a che il pugno della sua mano nuda non gli pulsò per il dolore. Si sedette sul parquet della palestra e osservò gli altri che si allenavano dando il meglio di sé stessi.
Cosa non si fa per perdere peso. È la dura legge della palestra; più sei muscoloso e tonico, più gli altri ti guardano.
Sorrise ad una ragazza che correva sul tapis roulant e che lo stava fissando, guardò Ben che ansimava, la maglietta era zuppa di sudore e infine Francis che stava facendo addominali ad una velocità impressionante.
Era stanco e sinceramente non aveva più tanta voglia di esercitarsi, piuttosto, gli sembrava davvero molto più appagante immaginare Lovino mentre faceva gli addominali come Francis.
Cavolo, gli sarebbe piaciuto se al posto del suo amico ci fosse stato lui.
Non sapeva cosa esattamente gli piacesse di quell’italiano all’apparenza così scontroso e poco incline all’amicizia. Forse era quella sua curiosità di conoscere qualcosa in più su di lui, magari per il fatto che una volta lo aveva visto mentre chiacchierava fuori dalla centrale con il fratello Feliciano, un tirocinante che lavorava nello stesso studio legale di Gilbert e con lui parlava in una maniera…
Usava sempre quel tono molto scorbutico, ma si vedeva che voleva molto bene a suo fratello e ciò lo aveva spinto a chiedersi se c’era altro dietro la facciata del ragazzo scontroso.
-Ti senti bene?- sentì la voce di Francis, fievole per la fatica e la sua mano che si appoggiava sulla sua spalla madida
-Pensavo. – rispose
Si sorrisero. L’amicizia che c’era tra lui e Francis era particolare. Mentre Antonio considerava Gilbert una specie di fratello che non aveva mai avuto, con Francis era diverso. Sentiva che tra loro c’era una sintonia più forte.
Non era innamorato di lui, ovviamente, anche se a volte, durante le sere in cui avevano bevuto parecchi bicchieri in più, ci erano andati vicino tanto così, ma onestamente non erano fatti per stare insieme; avrebbero rovinato la loro amicizia e poi lui in quel momento era troppo preso da Lovino.
-Pensavi a Lovino?-
Rise –Mi conosci troppo bene. -
Anche Francis ridacchiò, contagiato dall’amico –Ti piace proprio, eh?-
-Forse… - si strinse nelle sue spalle –E’ che…sento gli occhi di tutti, addosso a me. E come se sapessero che io sono…insomma…-
- E’ perché sei un bel ragazzo. – obbiettò lui per rincuorarlo –Non c’è niente che non va in te. –
-A parte un dettaglio…- specificò l’altro, senza che il suo tono allegro si affievolisse
-Quello, poi…- si sedette anche lui, accanto allo spagnolo –Quello è davvero niente. –
Rimasero in silenzio. Antonio di Francis riusciva soltanto a sentire il suo respiro lungo e profondo e la sua mano che sfiorava impercettibilmente la sua, fin che il francese non scoppiò a ridere. Era una risata fresca, fragorosa, diversa dalla solita a cui era abituato sentirgli
-Che è successo?- Antonio alzò un sopracciglio con aria sorpresa
Francis cercò di spegnere le risa a forza –Niente… pensavo all’estate dell’ottantaquattro. – disse, una volta che riuscì a prendere fiato
-Ah, ora capisco. – anche lui scoppiò a ridere –è stata l’estate più bella della mia vita. –
L’estate dell’84 era stata per loro veramente un periodo indimenticabile. Era sempre stata la solita estate passata nella spiaggia di Coney Island, fatta di tintarelle sotto il sole e bagni che potevano durare anche ore, ma c’erano stati degli eventi che l’avevano resa speciale.
-Ti ricordi quando Gil spiava Elizabeta dalla cabina? – domandò Francis, preso ormai dai ricordi
- All’inizio Lizzie non ne sembrava molto felice. – scoppiarono a ridere
-Già, la testa di Gil da quel giorno in poi non è stata più la stessa…Ma poi sappiamo com’è andata a finire tra quei due. –
Antonio gli diede una manata sulla spalla –E le tue serenate a Sesel?-
Francis sorrise –Quanto tempo siamo stati insieme, io e lei?-
-Tutta l’estate. Eravamo tu e Sesel, Gilbert ed Elizabeta e io e la turista di Faro. –
Il francese scoppiò nuovamente a ridere –Maria. È stata la tua ultima ragazza donna, vero?-
Annuì –Poi mi sono innamorato di un uomo…-
-E “bum”!  Hai scoperto che ti piaceva più il sesso forte che il gentil sesso. – completò Francis, però abbassando la voce per non farsi sentire da nessuno.
Lo spagnolo chiuse gli occhi, un sorriso etereo illuminava il volto –Anche tu non scherzi. Insomma…gli hai regalato una macchina. – la sua voce suonava incredula, perché certamente lui non avrebbe mai fatto una cosa simile nei riguardi di Arthur.
Francis storse il naso, si girò verso Antonio per guardarlo dritto negli occhi e gli diede una leggera spintarella –Oh, ma dai, Tonio! Quante volte te lo devo ripetere? L’ ha pagata, hai visto che oggi mi ha portato i soldi in ufficio? -
-Ho anche visto che tu hai insistito per non averli. – il suo tono di voce era divertito, ma allo stesso tempo anche un po’ schizzinoso e il perché Francis lo sapeva; Antonio non sopportava Arthur
–Lasciatelo dire, Francisco, ma hai dei gusti del cacchio!-
Sbuffò, alzando gli occhi al cielo –Ma come ti viene in mente? – vedendo che la faccia dell’amico stava assumendo un’espressione scettica, decise di andare sull’esplicito –Ehi te lo dico per la centesima volta; a me non piace Arthur!-
Erano usciti dalla sala e si stavano avviando verso lo spogliatoio maschile.
-A me non sembra…Cielo, prima gli regali l’auto, poi lo inviti ad andare al cinema…cosa altro dovete fare, baciarvi sotto la pioggia prima di accorgerti che ti piace?- lo rimbeccò, sempre più svagato da quel botta e risposta stuzzicante.
Anche Francis mostrò la lingua con fare immaturo -Almeno io faccio enormi balzi in avanti a differenza tua. –
L’altro fece un verso indignato, palesemente finto –Allora, lo ammetti che ti piace. –
- E’ carino, ma certo non gli sbavo dietro come fai tu con il tuo petit italien!- aprì la porta dello spogliatoio, vuoto, e cominciò a togliersi i vestiti bagnati di sudore
-Io non sbavo dietro a Lovino .- fece osservare piuttosto risentito –E riconfermo: hai dei gusti del cacchio. –
-Ma che dici? Non puoi dire che Arthur è brutto. –
- E’ insopportabile…e non è neanche messo un gran che se proprio vuoi saperlo. –
-Certo, perché il tuo Lovino è un gran Principe, con tutte le parolacce che dice. – ribatté con fare spiritoso
-A me sta simpatico…e poi, ammettilo, è anni luce più bello di Arthur! –
-Io non direi…insomma, l’ hai visto bene? Toglici le sopracciglia e l’aria da snob presuntuoso e diventa davvero un bel ragazzo. –
Lo pensava sul serio. In breve, la bellezza di Arthur era particolare e sulle prime neanche Francis gli avrebbe dato un soldo bucato, perché, oltre a non essere di grande avvenenza, era anche un gran superbo.
Ma, conoscendolo meglio, Francis aveva scoperto lati di lui piuttosto inconsueti; quando stava con i figli, ad esempio, era molto più tenero.
E il sorriso! Il sorriso di Arthur era magnifico, perché era sempre molto contenuto, come se avesse paura di mostrare il suo lato più gentile, ma era proprio questo che lo rendeva più bello. La compagnia dell’inglese era stimolante perché era sempre un testa a testa emozionante per vedere chi fosse il migliore e ovviamente, era sempre lui a vincere.
Certo, rimaneva il fatto che Arthur era e sarebbe rimasto schizzinoso, solitario e cinico, ma Francis cominciava a vederlo con occhi risolutamente diversi
-Ma sentiti!- esclamò l’amico ridendolo e mettendosi l’accappatoio –Di’ la verità, te lo faresti anche ad occhi chiusi .-
-Solo per scoprire se prova qualcosa. – era particolarmente canzonatorio.
Antonio scosse la testa e si diresse verso le docce –A proposito di farsi qualcuno: anche a te Ben stamattina a lavoro  ti ha chiesto qualcosa a proposito della ragazza più carina della centrale?-
-Sì… ieri a me e ad Arthur… Sta facendo una sorta di scommessa con Jack, sai, il nuovo agente…- rispose con un’inflessione assolutamente disinteressata –Tu per chi hai votato?-
- Elizabeta. Solidarietà tra amici, capisci?-
Francis annuì. In realtà, non gli importava poi molto per chi avesse votato Antonio, anche se intuiva che Ben non era stato molto felice di sapere che la “sua”Anne Marie e l’Elizabeta di Jack erano a pari merito.
Anzi, trovava piuttosto puerile scommettere sulla ragazza più bella, come se fossero in una corsa di cavalli. L’amore, quello che intendeva lui, era qualcosa di più spontaneo e veritiero.
In realtà, lui in quel momento stava pensando ad Arthur.
La conversazione di Antonio lo aveva del tutto confuso; perché lui adesso stava con Charlotte, amava Charlotte e non capiva il motivo per cui lo spagnolo dovesse fare allusioni su lui ed Arthur.
Ok, era carino e tutto il resto, a volte il suo pensiero si era anche fermato sulla sua figura, ma più in là non era mai andato.
Si tolse l’accappatoio, l’acqua calda della doccia gli scivolò sul suo corpo e rimase sotto il getto per quasi un’ora.
Così se ne andò quel pensiero su Arthur; come la schiuma dello shampoo che scivolava via dai suoi capelli biondi al contatto con l’acqua.
 
I bambini guardavano le pareti azzurre della loro stanza, mentre Arthur stava mettendo libri di favole sulla libreria, l’unico mobile che era rimasto nella stanza.
Quella mattina, poco prima di andare al lavoro, aveva risolto la faccenda del giudice tutelare e ora che li aveva riconosciuti come figli suoi, Alfred e Matthew Jones erano diventati Alfred e Matthew Kirkland.
“Come si chiamano i tuoi bambini?”; “Alfred Kirkland e Matthew Kirkland.“ Sì, gli piaceva molto il suono dei loro nomi associati al suo cognome.
All’improvviso però, sentì la voce di Matthew che lo chiamava.
-Papà. –
Si girò –Dimmi. –
-Giochi con noi?-
La questione dei giochi era ancora un problema per lui. Si divertiva nel vedere i suoi bambini dilettarsi in giochi fantasiosi, ma quando si trattava di prenderne parte attiva…ecco, da quel punto di vista era una frana. Era legnoso, aveva idee grandiose ma non riusciva a metterle in pratica.
Suo malgrado, sorrise –Ma certo. –
Così, ora gli toccava girare per casa facendo finta di essere uno stregone cattivo. I rischi del mestiere di essere genitori, dopotutto…
-Principe Alfred…ti troverò e non appena ti avrò preso, ti arrostirò e ti mangerò per cena…- la voce che gli stava uscendo in quel momento dalla bocca gli ricordava tanto uno di quei cattivi da cartoon Disney.
A Matthew era toccata, sebbene chiunque si sarebbe ribellato ad un’imposizione simile, la parte della principessa in pericolo. Era una gran sfortuna per lui la completa assenza di un’esistenza femminile in casa, ma almeno il suo ruolo consisteva solamente nello stare fermo da qualche parte e di tanto in tanto urlare con voce piagnucolosa una richiesta di aiuto
-Ma dove si sarà nascosto quel principe…- stava continuando a recitare la sua parte, ma in realtà Arthur era davvero preoccupato di dove mai si fosse cacciato quel bambino.
Diavolo, lo aveva perso di vista! Quale razza di padre perdeva il figlio, si domandava preoccupato.
Cercò di usare un po’ di psicologia e di mettersi nei panni del bambino
-Principe Alfred. – urlò, sperando che almeno quella frase lo aiutasse a ritrovarlo –Esci e combatti, codardo. –
Fu allora che Alfred lo sorprese da dietro, cacciando un urlo di battaglia talmente alto che Arthur sulle prime ebbe quasi un infarto
- L’eroe non è un codardo! Libera subito la principessa, mago cattivo. Io lotto per la libertà e per la giustizia, io difendo i più deboli e…-
Il sermone molto convincente del bambino venne interrotto dal suono nasale del campanello. Arthur si chiese che poteva mai essere, ma vedendo l’orologio che indicava la lancetta delle ore sulle cinque, capì che era arrivata Lily, la baby sitter.
Prese Alfred in braccio e si precipitò ad aprire. Davanti a lui c’era una ragazzina che sembrava avesse l’aria di un uccellino spaventato dagli spari dei cacciatori.
Aveva un visino dolce, fresco e adolescenziale. Doveva essere maggiorenne, ma non mostrava affatto i segni della pubertà; il suo fisico era esile, ma senza una curva, il volto non era segnato da acne giovanile, gli occhi verdi e grandi lo fissavano intimorita e i capelli biondi molto corti le conferivano un’aria ancora più maschile.
Accanto a lei stava Sesel e l’inglese non sapeva decidere quale tra le due fosse più rossa.
-Salve!- esibì il sorriso più largo che poteva. Voleva davvero mettersi in buona luce con la futura tata dei suoi figli
-Molto piacere, mister Kirkland. Io sono Lily Zwingli – l’accento di Lily era strano. Non aveva una perfetta pronuncia americana, ma Arthur non riusciva comunque a capire da quale Paese provenisse. Forse si trattava di qualche pesino Europeo dimenticato da Dio nelle Alpi.
-Il piacere e tutto mio. Arthur Kirkland…- gli offrì la mano e lei la strinse senza alcun vigore –Lui invece è Alfred. – fece cenno a suo figlio che si stava sbracciando dalla sua presa salda
Lily sorrise e gli diede un buffetto sulla guancia –Ma quanto sei carino!-
-Lo so. – il tono di Alfred non era per nulla imbarazzato
-E quel bel bambino chi è?-
Arthur ci rimase di sasso, perché il fatto che qualcuno che non fosse Francis avesse notato Matthew aveva dell’incredibile. Lily stava guadagnando punti in suo favore
-Lui è Matthew, l’altro mio figlio. –
La ragazza annuì e non rispose più nulla. Era strano che Sesel non avesse ancora parlato, dalla sua prima impressione, Arthur l’aveva subito dipinta come una persona piuttosto chiacchierona.
-Ciao Sesel. –
Lei avvampò fino alla radice dei capelli –Ciao Arthur…em…ti trovo davvero bene. –
-Lui è uno stregone!- aggiunse Alfred, facendo sì che le ragazze fissassero il povero inglese con aria confusa.
-Stavamo giocando, prima che arrivaste voi…facevo lo stregone. – cercò di spiegare, visibilmente imbarazzato.
Sesel prese un’espressione che faceva molto “gioca con dei bambini! Oh, che carino…”, Lily da parte sua non fece una piega.
-Scusate, sono davvero maleducato, lasciarvi qui fuori. Venite, accomodatevi….- fece loro sedere nel salotto mentre andò in cucina per prendere il thè e gli scones. Quando tornò, notò che Sesel e Lily stavano spettegolando, probabilmente su di lui, come due vecchie comari, o come due adolescenti in piena crisi ormonale.
-Allora…quanti anni hai detto che hai, Lily?- domandò, prendendo la sua tazza di thè e uno scone dal vassoio
-Diciannove e…- la faccia di Lily divenne spaventosa. La sua bocca si curvò e il naso si arricciò in segno di completo sdegno.
-Qualcosa non va?- fece con tono preoccupato
-Il biscotto…- pigolò, mentre sembrava fosse sul punto di vomitare –C’è qualcosa che non va…-
Arthur assaggiò il suo e capì perché –Oh, cazzo!- esclamò allibito contro sé stesso –Ho scambiato ancora una volta lo zucchero con il sale. Ma vaffanculo!-
Sentì gli sguardi dei bambini e delle due ragazze convergere su di sé. Aveva decisamente peggiorato la situazione con le sue imprecazioni da debosciato
-Cioè…- cercò di riprendersi, vergognandosi tantissimo. Un gentiluomo come lui non doveva certo dire simili blasfemie in pubblico, soprattutto davanti ai bambini. Voleva semplicemente liquefarsi nel terreno per l’imbarazzo –Perdonatemi, ho per caso confuso lo zucchero con il sale. Sono mortificato. –
-Ah, non fa niente. – si vedeva proprio che Sesel aveva una cotta per lui. Sorrideva allegramente e dai movimenti che faceva sembrava volesse risultare seducente, ma aveva un viso troppo ingenuo per poterlo apparire davvero –Pure io commetto errori simili. –
Anche gli angoli della bocca di Lily si curvarono leggermente all’insù –Capita. – disse solamente con un fare però molto più sincero e comprensivo dell’altra
-Io e Matt ormai siamo abituati. – aggiunse quella lingua lunga di suo figlio Alfred.
Suo padre gli lanciò un’occhiataccia involontaria, poi tornò a sorridere quando il suo sguardo incrociò quello delle due ragazze
-Scherza…beh, spero che almeno il thè sia buono…-
-Lo è!- Lily gli sorrise a sua volta, portandosi alle labbra la tazzina fumante.
-Allora…- esordì Arthur diventando improvvisamente più serio di quanto non lo fosse prima. Sia Lily che Sesel lo guardarono dritto negli occhi –Siamo qui per parlare di lavoro. Ti avviso che molto probabilmente spesso e volentieri verrai avvisata all’improvviso per venire qui, spero che per te non sia un problema. –
-Affatto. – Lily sembrava timida ma al tempo stesso molto determinata. Sì, gli piaceva molto come personalità
-Quale orario puoi coprire?-
- Dalle due del pomeriggio fino alle dieci di sera, dal lunedì al venerdì. La mattina non posso, frequento l’università…-
Arthur in effetti le dava molti anni di meno, non se l’aspettava che avesse più di diciotto anni
–Capisco…Non c’è problema, la mattina sono attrezzato. –
La ragazza annuì semplicemente con la testa –Le avviso, signor Kirkland, che ho molta esperienza con i bambini, ho già dovuto lavorare come baby sitter. Chiedo quindici dollari l’ora, ma sono responsabile e so cavarmela molto bene anche nelle situazioni di emergenza…-
-…Che spero non ci siano. – la interruppe Arthur di impulso
Lei arrossì –Era così per dire. – si giustificò, temendo forse che con quella frase fosse sfumato l’accordo.
L’inglese si accorse del disagio di Lily e cercò di rimediare. Fece un sospiro e si morse un labbro –Avrei già dell’impiego da offrirti…-
Funzionò, infatti la fronte corrugata della giovane si rilassò e lei fece un gran sorriso –La ringrazio. Quando vuole che io venga? –
Arthur guardò Sesel, che seguiva ogni singola parola di quella conversazione. C’era perplessità nella sua espressione, come se si stesse sforzando di leggere tra le righe un interesse che Arthur aveva per lei.
-Domani. Un mio…- come poteva definire Francis; amico? Ma neanche per sogno! Nemico? Non era normale che lui uscisse con un suo nemico…
-Collega…- decise alla fine –ed io andiamo a vedere un film. –
Lesse nel viso di Sesel un sollievo quasi palpabile e sapeva anche il perché: fin che usciva con un uomo, lei aveva ancora campo libero, il problema sarebbe stato se lui fosse andato al cinema con una lei…probabilmente, Sesel non aveva mai conosciuto tipi come Antonio. O meglio, aveva conosciuto Francis che era peggio, ma forse con lei si era comportato in maniera diversa…
-Capisco…Hitchcock?- domandò Lily
-No, Kubrick. –
-Ah…credevo che…insomma…il bambino si chiama Alfred!- indicò il citato il quale, accortosi di essere stato chiamato in causa divenne improvvisamente più attento.
Alfred, come Alfred Hitchcock. In effetti, non era male come analogia, contando che lui ed Eileen avevano cominciato a fare coppia fissa dopo aver visto in un drive in “La finestra sul cortile”. Il luogo era perfetto per due innamorati; il classico film in bianco e nero, il classico Maggiolino con il paraurti ammaccato e il classico silenzio. Solo il genere della pellicola stonava a dir poco.
Arthur si era chiesto perché Eileen avesse dato quei nomi ai suoi figli, ma il significato di essi era facile da intuire; Matthew, come il padre di lei e Alfred come il regista. Quel regista che li aveva fatti innamorare.
Lui e Lily si misero d’accordo per l’ora e rimasero poi alcuni minuti a conversare. Anche Sesel si unì a loro e Arthur notò come cercasse di attirare la sua attenzione. Era una bella ragazza, per carità, ma era troppo presto per dire che le piacesse.
 
Il sabato sera arrivò presto, come una folata improvvisa di vento.
Arthur si era vestito con cura, elegante ma non troppo perché altrimenti Francis avrebbe detto che aveva dedicato tutta quella cura nei dettagli solo per lui. Si sedette sul divano a guardare la tv impaziente, aspettando con ansia sia l’arrivo di Lily che quello di Francis.
Piuttosto, quello di Francis no; ancora ci credeva che stesse per uscire con lui!
I bambini erano stranamente tranquilli, evidentemente perché il fatto che il loro padre andasse via per qualche ora e che fossero stati lasciati alle cure di una sconosciuta spaventava loro un po’.
Arthur si sentiva in colpa a lasciarli, dopotutto avrebbero dovuto spendere più tempo assieme per recuperare gli anni persi, ma era anche vero che Francis aveva ragione; a venticinque anni bisogna divertirsi.
Essere un padre non gli pesava molto, anzi, anche lui spesso e volentieri si divertiva con i suoi bambini e doveva riconoscere che imparava lezioni di vita memorabili. Ma non gli dispiaceva staccarsi anche solo per un po’ da quel compito che era più difficile di quanto avesse mai immaginato.
Si era un po’ innervosito perché nel pomeriggio aveva chiamato Ian.
Ian, il più grande dei fratelli Kirkland e quello che in assoluto sopportava di meno
-Ciao, bruco!- l’aveva salutato con la sua voce profonda e baritonale. Era una bella voce, una delle tante cose attraenti che aveva suo fratello. Perché, sì, suo fratello era molto affascinante, ma anche un gran bastardo
-Cosa vuoi, brutto…- aveva cominciato a protestare lui, ma l’altro lo interruppe con una ristata
-Vengo in Pace. È vero che sei diventato padre?-
Come se già non lo sapesse –Non farmi perdere tempo. – aveva risposto sbrigativo. Voleva che quella conversazione finisse al più presto.
Ian rise, di nuovo –Ora sei bello e che sistemato, eh?- lo prese in giro –Ma chi è la poveraccia che ha deciso di darsi a te?- chiese in maniera retorica
Arthur in quel momento decise di andare sul pesante anche lui –Mi passi la mia deliziosa cognata? Ah, già…Hannah mi ha detto che ha troncato il vostro matrimonio, me lo ero dimenticato. Difficile capire perché lo abbia fatto, vero?-
Sentì suo fratello emettere un ringhio minaccioso. Molto probabilmente, se fosse stato davanti a lui, l’avrebbe preso a pugni in faccia fino a che il naso non gli si fosse rotto
-Io almeno sono ricco, bruco. Ricco e senza figli. Posso rifarmi una vita a differenza tua…-
Era troppo. L’inglese gli urlò di andare a quel paese con tutto il fiato che aveva e gli sbattè il telefono in faccia.
Non era difficile capire da chi Ian avesse ripreso. Insieme ad Hannah era quello che assomigliava più a sua madre. Andrew invece era la copia sputata di suo padre, mentre James sembrava avesse ripreso i pregi di tutti e due.
Peter invece era diverso; era un bambino molto generoso, con tanta voglia di diventare grande ed essere qualcuno di amato e rispettato. Arthur ammetteva che tra tutti i fratelli era quello a cui voleva più bene.
Lily arrivò alle sei e mezza, in perfetto orario e Francis la seguì pochi minuti dopo.
Appena la vide, fece un fischio di ammirazione
-Salve, mademoiselle!-
Lily arrossì –Buonasera, signore…- si voltò per guardare Arthur –E’ il suo amico, signor Kirkland?-
- Arthur…- la corresse lui con un sorriso –E comunque…è solo il mio collega di lavoro. -
Francis rise, perché tanto ormai era abituato a quel genere di commenti da parte di Arthur –Vogliamo andare?- disse soltanto.
L’inglese annuì, poi si avvicinò ai suoi bambini per salutarli –Tornerò presto. Comportatevi bene, avete capito?-
Matthew annuì e gli diede un bacio sulla guancia, cosa che fece arrossire suo padre. Alfred invece fece un po’ di storie perché anche lui voleva uscire “a fare il grande”.
-Un altro giorno verrai anche tu, va bene?- intervenne Francis dolcemente
-Davvero? Promettimelo!- aveva un tono di voce imperioso. Quel bambino, pensò Arthur, sarebbe piaciuto tantissimo a sua madre.
-Prometto. – Francis si mise una mano sul cuore e l’inglese si chinò di nuovo per abbracciare suo figlio
-Non fare i dispetti a Matt!-
-Io non faccio i dispetti a Matt. – ribatté con voce innocente
-E non fate arrabbiare Lily!-
-Oh, avanti Arthur, ancora altre raccomandazioni e il film inizia senza di noi. –
Fulminò Francis con un’occhiata che avrebbe potuto ridurlo in cenere –Va bene, andiamo. –
 
Il Pick up di Arthur era parcheggiato nel posto auto del condominio e quando salirono Arthur si sentì fiero di poter girare la chiave e accompagnare qualcuno che fino a pochi giorni fa gli offriva passaggi a destra e a manca
-Devo farti i complimenti. – disse Francis una volta usciti. Notò che indossava un completo molto elegante, ma allo stesso tempo semplice e raffinato. Doveva riconoscerglielo, in fatto di vestiti Francis era davvero molto competente –Un’ottima baby sitter. Un po’ androgina, ma di faccia non è male…ha per caso una sorella?-
Scosse la testa –Ha un fratello più grande. –
-Ah, non preoccuparti, non sono schizzinoso…- la sua risata venne offuscata dal motore dell’auto che veniva messa in attività.
 
 
 
 
Salve a tutti ^^
È passato del tempo, neh? Beh, spero almeno che il capitolo vi sia piaciuto…La canzone mi ha aiutato, diciamo così, è stata “Englishman in New York” di Sting and the Police.
Maria, per chi non l'avesse capito, è Portogallo.
Vorrei ringraziare il mio bellissimo e simpaticissimo amico che mi ha dato, anche se indirettamente, l’idea di fare un punto di vista dalla parte di Antonio. Grazie, Sé…so che ci sei! Anche se molto probabilmente in questo momento se in un pub di Dublino a cantare “Dublin is a fair city where the girl are so pretty….” (non sai quanto vorrei essere al tuo posto *_*).
Inoltre voglio dedicare il capitolo alla mia amica historygirl93, sperando che sia di buon auspicio per lei.
Detto questo vi saluto
A presto,
Cosmopolita

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Capitolo 12
*** Scoprire lati nuovi di sè ***


 Francis, più di ogni altra cosa, amava osservare le persone; guardare il loro viso e i suoi particolari più celati, veder compiere i loro gesti involontari. Era un passatempo all’apparenza piuttosto noioso, tuttavia lui lo adorava e a dirla tutta si divertiva un mondo, perché di solito a nessuno piace essere fissato intensamente per molto tempo e quindi, quando qualcuno nota ciò, comincia ad assumere comportamenti più irrigiditi e molto meno naturali che lo rendono decisamente buffo.
L’unica eccezione che conosceva a questa prassi era Gilbert.
E così, per i primi cinque minuti buoni del viaggio, era rimasto a fissare Arthur e i suoi lineamenti così poco marcati, femminei avrebbe osato dire.
Aveva notato che il suo naso era una linea diagonale perfettamente dritta, priva di gobbe o quant’altro, che aveva un piccolo neo, quasi invisibile, sullo zigomo. Che la sua bocca non era poi così sottile come le appariva se vista da davanti e che i suoi occhi di tanto in tanto si voltavano per guardarlo sottecchi. Le sue sopracciglia abnormi erano più grandi di quanto pensasse, ma per fortuna Arthur aveva l’ausilio degli occhi. Erano di un verde particolare che assumeva mille tonalità diverse a seconda della luce che filtrava dal vetro del finestrino; all’ombra, diventavano cupi e gli conferivano un’aria più seria, alla luce invece si addossavano di una tonalità quasi sul mela, innaturale.
-Hai finito di fissarmi?- domandò bruscamente l’altro, come se fosse già al limite della sua ben demarcata pazienza
-Non credevo fosse reato, fissare qualcuno. –
Sbuffò –Capitano tutte a me…Ian che mi chiama, io che devo andare a questa merda di appuntamento…-
Francis ridacchiò. Nei giorni precedenti, Arthur aveva precisato più e più volte che il loro non era un’uscita tra amici, ma solo un suo modo molto gentile per ringraziarlo dell’auto –Perché... è un appuntamento? – lo ammetteva: adorava stuzzicarlo perché, quando si innervosiva l’inglese assumeva sempre gli stessi atteggiamenti, ovvero, diventava rosso, cominciava a digrignare i denti, le sue sopracciglia prendevano una specie di tic che le faceva abbassare e poi alzare e avviava subito una serie di termini poco carini da sentire
-Cosa? Chi ti ha detto che si tratta di un appuntamento?-  sembrava molto infastidito da quella parola, come se fosse un peccato capitale per un inglese avere un rendez-vous con un francese.
-Tu l’ hai detto .-
-No, io non ho detto niente!- sbraitò fuori di sé, rischiando di andare a sbattere contro un’altra macchina –Non mettermi parole in bocca che non ho mai detto, Francis Bonnefoy, o ti avverto…-
-Va bene, va bene…- lo interruppe, già stufo. Quel giorno non era proprio in vena di litigare, voleva godersi il film in santa pace senza che il malumore di Arthur gli guastasse tutto.
In realtà, non conosceva molto il regista Kubrick, ma da quel poco che sapeva intuiva che i suoi film non erano esattamente l’ideale per un’idilliaca serata tra amici.
Invece Arthur sembrava quasi che lo venerasse. Aveva cominciato a parlare di “Arancia meccanica” e l’aveva idolatrata per almeno cinque minuti, “Shining” che era un capolavoro del thriller, “2001: Odissea nello spazio”, un film che aveva visto anche il francese cui in realtà sentiva di dare ragione al britannico: era una pellicola che valeva davvero la pena di vedere.
-Sai…magari sbaglio, ma tu mi sembri tanto uno di quei teppisti che però in superficie vogliono fare i bravi ragazzi. – lo interruppe Francis, mentre Arthur era entrato nella fase “Rimane il fatto che gli inglesi sono più bravi degli americani a fare film”.
Il collega non lo guardò, ma il francese vide che aveva aggrottato le sue sopracciglia –Cosa te lo fa pensare?- gli chiese inquisitorio
-Beh, un ragazzo che decide di andare in America, mandando alla malora tutti i progetti che avevano in mente i loro genitori per lui, di solito non è una persona calma e tranquilla, non trovi?-
-Non ho la fedina penale sporca, non temere. – sembrava essersi offeso mortalmente, infatti la sua voce era molto tesa, più fredda del solito.
Sembrava che Arthur odiasse essere interrogato sul suo passato. Quando lui accennava alla sua famiglia a Londra, ad esempio, lo sentiva irrigidirsi, anche se in maniera inavvertibile e notava che molto spesso si affrettava a cambiare discorso.
-Non intendevo quello…- si corresse il francese, prima che ricominciasse ad urlargli contro –Volevo solo dire che mi sembri uno di quei ribelli che…ma che ne so, fumano le canne e ascoltano i gruppi punk rock. –
Arthur rise, sembrava che prendesse quel discorso come una cosa che non gli apparteneva -Non serve fumare canne per essere ribelle. –
-Tu le hai mai fumate?- sarebbe stato divertente sapere che quell’inglese all’apparenza così conformista e arrogante avesse avuto un passato da oppiomane.
-Una volta soltanto…non mi è piaciuta…-
Francis sorrise. Non se lo aspettava da uno come Arthur, non tanto che avesse provato una cosa che lui invece non aveva mai fatto, ma piuttosto che lo avesse confessato così apertamente…e lo aveva fatto con lui, per giunta.
-Sono stupefatto. –
Quello alzò gli occhi al cielo. Prese fiato e assunse un’espressione vilipesa, come se stesse per fare una rivelazione terribile –Ho…sgonfiato le ruote dell’auto ad un mio professore perché mi aveva detto che io non sarei arrivato molto lontano, mentre tutti mi dicevano che ero praticamente un genio a scuola…e una volta ho fatto il malocchio ad un ragazzo…ascolto gruppi rock e me ne sono andato di casa a diciannove anni. Sono ribelle? –lo disse velocemente, quasi attaccando le parole. Era come se si fosse trovato nello scompartimento di un treno e stesse raccontando i fatti più strani accaduti durante la sua vita ad uno sconosciuto che molto probabilmente non avrebbe rivisto mai più; entrambi sapevano che quel ragazzo non sarebbe stato in nessun caso il tipo da sgonfiare le ruote alla macchina ad un suo superiore e che quello si trattava solo di un episodio isolato.
È questo il bello di parlare solo con un’altra persona; scopri lati dell’altro che probabilmente in compagnia di più non avresti mai conosciuto.
-No, per niente…- Francis non era sarcastico. Arthur forse in passato aveva pure avuto mille piercing facciali oppure aveva partecipato ad una miriade di manifestazioni di protesta, ma non era ribelle adesso. Adesso sembrava più un gentiluomo dell’Inghilterra di fine Ottocento.
Lo immaginava, a Londra, mentre apriva la portiera ad una signorina molto fine “Milady, può scendere. Ha sentito l’ultima notizia su Gary Hart e Donna Rice? Scandaloso, semplicemente scandaloso” rise di quella scenetta assurda e l’inglese si volse per fissarlo come se fosse stato un invasato.
 
Il film era iniziato, le luci della sala si erano abbassate fino a far scendere il buio totale in platea. Semmai Francis si fosse girato alla sua sinistra, avrebbe soltanto visto la sagoma scura di Arthur mentre frugava nella scatola dei pop corn che avevano deciso di dividere per due.
Sulle prime, il film gli era sembrato piuttosto innocuo. Iniziava con delle reclute del corpo dei Marines che si facevano rasare i capelli da un parrucchiere: la massa di capelli veniva risucchiata da quel mostro famelico chiamato rasoio e cadevano per terra come stelle filanti di Carnevale.
Il francese storse il naso e pensò a come avrebbe reagito lui se gli avessero rasato i suoi bellissimi capelli biondi che gli incorniciavano il viso e che la maggior parte definiva essere da spot pubblicitario.
Poi comparve lui, il sergente istruttore Hartman, che inaugurava la sua comparsa, riempiendo tutte le matricole di insulti
 
-I tuoi genitori hanno anche figli normali?-
-Signor sì, signore. –
-Bene, si pentiranno di averti fatto. Tu sei così brutto che sembri un capolavoro d’arte moderna!-
 
Si girò per guardare Arthur. I suoi occhi, che si erano abituati al buio della sala, notarono che si era morso un labbro per non ridere.
-Sai…- sentì il suo sussurro uscire dall’oscurità –Credo che questo tizio mi stia suggerendo un sacco di insulti da rivolgere contro te. – ridacchiò a bassa voce e prese un’altra manciata di pop corn.
Francis sorrise, ma non aggiunse altro. Quello che all’inizio gli sembrava un film ironico, gli apparve adesso come la macabra verità del mondo.
Perché gli insulti di Hartman non erano divertenti, non lo erano per nulla. Lo notava dagli occhi vitrei e folli del soldato Lawrence, Palla di lardo, tanto preso in giro dal sergente, che ormai non sembrava più il ciccione un po’ stupido che era all’inizio del film.
E a metà film infatti, il soldato impazzisce e fa fuoco su Hartman con il suo fucile. Poi si uccide, sotto gli occhi spaventati e sorpresi del protagonista, il soldato Jocker.
Anche Arthur smise di ripetere che quel sergente sarebbe stato il suo maestro di vita e ora guardava lo schermo senza dire nulla.
Più le scene andavano avanti, più Francis si accorgeva di quanto cupo fosse quel film, di quanto fosse pessimista il messaggio che lanciava.
Il soldato Jocker è mandato al fronte come corrispondente di guerra con il suo amico, il fotografo Rafterman. Ritrova il suo amico del corso Cowboy e anche lui mostra i primi segni di instabilità dovuti al forte stress della guerra.
Ogni parte del film colpiva Francis, ognuna era a suo modo carica di significato.
Come la scena in cui il comandante della squadra di Jocker presenta al soldato il cadavere di un Vietcong, adagiato su una poltrona come se dormisse, dicendo “Lui è mio fratello!”.
O la scena dell’intervista ai militari al fronte, quando ognuno dice la sua opinione, a volte assurda, a volte carica di rabbia
-Secondo me, noi spariamo ai gialli sbagliati. –
-Non mi piace il Vietnam. Non c’è neanche un cavallo in tutto il Paese, è evidente che c’è qualcosa che non va . –
- Io desideravo tanto andare in Vietnam, Paese di una civiltà millenaria, la perla dell’Indocina. Volevo conoscere gente interessante, stimolante…e farli fuori tutti. Volevo essere il primo ragazzo  del mio palazzo a fare centro su qualcuno. -
Francis di tanto in tanto, si girava per guardare Arthur e vedeva che nei suoi occhi lampeggiava un interesse per il film ma allo stesso tempo lo stesso orrore che molto probabilmente si trovava anche nel suo sguardo.
Era la fine quella che lo sconvolse di più; i soldati marciavano di fronte alle macerie e al fuoco cantando “Mickey Mouse club song”. Una canzone per bambini messa in bocca a delle persone che non sanno più in cosa credere e intanto la voce di Jocker pensa a quando tornerà a casa e farà l’amore.
 

“Sono contento di essere vivo. Vivo in un mondo di merda, ma sono vivo. E non ho più paura”

 
 
Francis uscì dal cinema un po’ stordito. Il film era indubbiamente ben fatto, valeva la pena di essere visto ma se fosse stato per lui avrebbe preferito vedere qualcosa di più leggero.
-Che ore sono?- Arthur invece non sembrava poi tanto perturbato, era come se fosse abituato a vedere dei film simili. Dopotutto, era o non era un fan di Kubrick?
- E’ tardi…Vogliamo mangiare da qualche parte?-
-No, non ho fame. – si diresse verso la macchina e la mise in moto.
Rimasero in silenzio per tutto il tempo, non dicendosi nulla e fu l’inglese ad aprire per primo la bocca. Era strano, perché Francis sapeva che lui non voleva assolutamente avere confidenza con lui –Non ti è piaciuto, vero?- sembrava essersi offeso, come se non amare un film di Kubrick era un attentato ai suoi gusti personali
-No, mi è piaciuto, solo che…-
- Troppo forte per te?- Arthur scosse la testa –Non c’è neanche una scena di sangue, a parte in qualche punto…Apocalipse now era più forte. -
Francis lo guardò con sorpresa. Possibile che non capiva che non erano state le scene violente a sconvolgerlo, ma i gesti e le parole degli interpreti?
–Non ti ha sconvolto neanche un po’?- c’era sbigottimento nella sua voce e Arthur sembrava averlo colto
-Certo che mi ha sconvolto…- obbiettò risentito, come se non gli piacesse che lo si accusasse di insensibilità –Ma è meglio la verità alle solite americanate, no?–
-Non saprei. Lo sai che mio padre è giornalista? Lui c’è stato in Vietnam…non mi ha mai raccontato però cosa facevano laggiù, credo fosse perché anche lui non voleva ricordarlo. – lo disse con un tono ovattato, come se in quel momento stesse parlando ad un’altra entità superiore, distante da loro.
Guardò fuori dal finestrino, il cielo era buio e le stelle erano coperte dalle nuvole. Per la prima volta in quel giorno aveva realizzato l’idea che si trovava con Arthur, da solo; non sapeva perché proprio in quel momento, forse il buio della notte ne era complice, ma lo aveva afferrato.
-Mi…dispiace che non abbia gradito. Se lo sapevo, avrei scelto un film più divertente. –
Il francese sbarrò gli occhi e sulle prime pensava di aver sentito male; da quando in qua Arthur si preoccupava di lui?
-Scusa?-
-Hai sentito bene. – la sua voce era acida come al solito, ma Francis non riusciva ancora a capire perché si fosse rivolto a lui con così tanta premura
-Da quando ti importa di me?-
-Non mi è mai importato nulla di te. – borbottò con aria scontrosa, stringendo le mani sul volante più forte di quanto avrebbe fatto normalmente
-Già, vero. Com’è vero che questa è solo un’uscita per provare l’auto. –
Arthur aveva capito che il ragazzo stava facendo dell’ironia
–Non lo è?- domandò ampolloso il francese, esibendo un sorriso scherzoso
-Non lo è. – ammise. Continuava a stringere il volante tra le sue mani e Francis temette che si fosse potuto rompere da un momento all’altro
-E allora, cos’è? Perché sei qui con me, ora- era stato scorretto da parte sua, non lo avrebbe negato. Ma era sinceramente curioso di conoscere cosa realmente sentiva Arthur per lui.
Il britannico non ne poteva più di rispondere a quelle domande così fastidiose –Volevamo andare al cinema a vedere il Full Metal Jacket. Niente di personale. –
Il francese rise, perché secondo lui Arthur aveva una gran bella faccia tosta –Quindi, neanche una bella serata tra amici?- in quel momento gli vennero in mente tutte le stupide, o almeno, stupide per lui, allusioni di Antonio e sorrise.
Il britannico storse un angolo della bocca e Francis vide che il profilo del suo naso si era leggermente arricciato, segno più che evidente di sdegno
-Capisco…- non gli lasciò neanche il tempo di parlare.
Si capiva da un miglio di distanza che l’inglese aveva sonno, sbadigliava ogni cinque minuti e i suoi occhi si stavano facendo pesanti
-Lavori, domani?- gli chiese Francis
-Il pomeriggio, così ho tutto il tempo per dormire. E tu?-
-Io sono più sfortunato di te. – rise e chiuse gli occhi per sottolineare ancora di più il fatto che il giorno dopo  avrebbe avuto una mattinata piuttosto pesante.
Il suo sguardo si chinò per guardare la mano di Arthur che si era distesa per un attimo sul cambio.
C’erano stati molti momenti al cinema in cui il francese avrebbe voluto toccargliela, nell’oscurità segreta della sala, solo per scoprire come il suo palmo reagisse al contatto con l’altro, per sentire se la mano di Arthur era liscia e curata come sembrava all’apparenza, ma non lo fece mai; non era del tutto sicuro che gli sarebbe piaciuto una sfuriata dell’inglese in una sala gremita di gente e poi non voleva litigare con lui.
Chissà quante volte lo aveva fatto, con Antonio, con Charlotte, con Sesel, con tutte le altre persone con cui era stato e chissà quanti non vedevano l’ora che lui lo facesse. Ma Arthur era diverso; si teneva a debita distanza da lui e Francis non riusciva ad intendere se l’inglese era così astruso nei suoi confronti perché era francese o perché mostrava un certo interesse per gli uomini.
-Siamo arrivati. – il tono secco di Arthur interruppe i suoi pensieri e il ragazzo, come se fosse stato appena risvegliato da un sonno molto lungo, si rizzò in piedi folgorato
Scese dal sedile, chiuse la portiera facendo attenzione a non fare troppo rumore e si accostò al finestrino di Arthur, aperto a metà
-Ho passato una bella serata. – la sua mano attraversò la sua chioma bionda disordinata, così diversa dalla sua così curata, e si chinò per baciarlo sulla guancia. Trovò inaspettatamente piacevole il contatto delle sue labbra sulla pelle di Arthur.
L’altro rimase spiazzato e se fossero stati in un contesto diverso, forse Francis si sarebbe messo anche a ridere della sua reazione. Spalancò contemporaneamente gli occhi e la bocca e con il dito sfiorò delicatamente la guancia su cui il francese aveva poggiatola sua bocca. In fondo, si disse Francis, non l’aveva poi presa così male; già si aspettava di ricevere una serie di beceri insulti contro di lui.
Non fece neanche in tempo a pensarlo che il volto dell’inglese prese un colorito molto vicino al rosso carminio; sembrava una pentola a pressione –Eih, me lo spieghi cosa diamine ti è saltato in mente?- da come aveva urlato, il collega temette che qualcuno del condominio si fosse svegliato
-Non ti ho mica violentato, ti ho solo…-
-Mi hai baciato!- lo interruppe livido e anche un po’ annichilito. Sembrava uno di quei robot da film americani a cui avevano premuto il pulsante dell’autodistruzione e dentro di sé l'inglese si sentiva proprio così. Se lo chiese per l'ennesima volta: "Ma perché Francis era così...dannatamente stupido?"
Scosse la testa con fare incredulo –Era un bacio sulla guancia. –
-Lo sai che non mi piace essere toccato da te. –
Non mi piace essere toccato. Ecco, magari Francis avrebbe tollerato una frase del genere dato che a molte persone dava fastidio il contatto fisico.
Ma Arthur aveva detto “Non mi piace essere toccato da te”, era questo che a lui dava fastidio. Si sentiva tanto un portatore di lebbra o cose simili.
Si mise una mano sul cuore in segno di giuramento -Non lo farò mai più, voyou. – ridacchiò nel vedere il suo compagno d’uscita adirarsi ancora di più per quell’epiteto.
-Non chiamarmi così! Io non sono un teppista.– ordinò digrignando i denti
Rise di nuovo –Preferisci che ti chiami rebelle? –
L’altro inspirò profondamente dal naso, sembrava che si stesse trattenendo dallo scendere e prenderlo a testate –Devi sempre rovinare tutto, Francis. – il francese percepì disillusione nel suono della sua voce, come se quella serata sarebbe stata davvero l’apoteosi dell’uscita perfetta, bacio sulla guancia a parte
-Mi dispiace…Beh, allora ci vediamo domani. –
-Non credo ci incontreremo, quando io arrivo, tu stacchi. – gli fece osservare con una nota di malcelata speranza
-Non si sa mai. – strizzò l’occhio, che sembrava tanto dire “Farò di tutto pur di farlo capitare” e aprì il cancelletto del palazzo, poi si girò per salutarlo un’ultima volta con la mano
-Sicuro di non voler salire?-
-Sicurissimo. – rispose asciutto, prima di mettere in moto l’auto e andare via.
 
Quando tornò a casa erano già le undici passate, Lily lo aspettava davanti alla porta come se fosse una specie di vecchia governante che aspetta il ritorno del suo datore di lavoro.
-Signor Kirkland…- sussurrò a mo’ di saluto a voce bassa, per non svegliare i bambini
- ‘Sera, Lily…Scusa per il ritardo, io…-
-Niente disturbo. È stato un piacere. – lo interruppe la ragazza, arrossendo considerevolmente
Arthur sorrise ed estrasse il portafogli dalla tasca –Quanto?-
- E’ stato via per quattro ore…- capì che Lily non confermò il reale prezzo perché si vergognava di dirlo e forse nella sua testa sembrava più elegante dire le ore e lasciar fare ad Arthur i conti da sé.
Infatti l’inglese gli porse la cifra con un sorriso –Ecco a te. –
Fece un sorriso –Grazie, signor Kirkland. –
- Arthur!- la riprese con una nota di benevolenza
- Arthur, scusami – si corresse, arrossendo ancora di più.
L’inglese si guardò intorno per controllare lo stato della casa e constatò che sembrava tutto in perfetto ordine –Come sono stati i bambini?- si informò
- Matthew è stato un angelo, Alfred è un po’ pestifero…- si accorse di aver detto qualcosa di offensivo e cercò di correggersi –Cioè, non è maleducato. – si affrettò a dire allarmata –è solo molto vivace. -
Il ragazzo annuì con un’espressione in viso indecifrabile –Perfetto…puoi venire anche domani pomeriggio?-
Il sorriso di Lily si accentuò ancora di più –Ma certo, signor…Arthur!-
Si sorrisero entrambi, poi la baby sitter prese tutta la sua roba e uscì in maniera piuttosto impacciata.
Quando fu solo, si diresse nella sua stanza e rimase ad osservare i suoi due bambini mentre dormivano beatamente. Sorrise; la mattina, quando li svegliava, non faceva mai caso alle posizioni che prendevano nel letto, ma ora che aveva tempo e soprattutto non sentiva per nulla il peso del sonno, poté osservare di come il loro modo di dormire risaltasse il loro carattere.
Alfred ispirava rumorosamente e cambiava sempre il lato d’appoggio: ora a destra…ora a sinistra, non si fermava mai.
Matthew invece se ne stava rannicchiato in un angolo del letto, raggomilato a sè stesso e stringeva in maniera soffocante il suo orsacchiotto bianco.
Dopo un attimo di esitazione, si chinò per accarezzare la testa di entrambi
-Papà…sei tornato…- la voce debole ed impastata di Matthew lo fece sobbalzare
Il britannico sospirò con un misto di bontà ed affetto e si chinò verso di lui -Sono, qui…Ora dormi. – gli fece un’altra carezza
Suo figlio si stropicciò gli occhi con la manina e si mise in posizione supina –Ti sei divertito, papà?- c'era sincera curiosità nel suo tono di voce e questo ad Arthur fece tanta tenerezza.
Suo padre ci rifletté per un po’... Insomma, tranne per l’ultima parte guastata dal saluto singolare di Francis, non era andata poi così male. Il film gli era piaciuto molto, non era stato né troppo violento e sanguinolento come “Apocalipse now”, che rimaneva comunque un bel film, ma neanche troppo stupido o superficiale. Lo aveva piacevolmente sorpreso, ma con Kubrick ormai era abituato a sorprendersi.
Per quanto riguardava il suo accompagnatore…era stato passabile fino ad un certo punto e alla fine si era guastato per quel bacio. Che stupido!
-Sì, molto. – concluse il suo ragionamento e baciò il figlio sulla guancia –Come si è comportata Lily?-
-è molto buona…- Matthew fece un sorriso –Ma tu sei più bravo. –
Suo padre si gonfiò istintivamente il petto, gonfio di orgoglio: quel complimento da parte di suoi figlio era stata la cosa più piacevole della serata –Fai bei sogni. – gli sussurrò, prima di chiudere la porta.
Mentre si lavava i denti, gli passò per la testa un pensiero. Si toccò di nuovo la guancia incriminata con la mano sinistra, mentre con la destra teneva lo spazzolino incastrato tra i denti.
Scosse la testa come per scacciare via una mosca fastidiosa e sputò il dentifricio sul lavandino.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Salve a tutti! Scusate per il ritardo, ma faceva troppo caldo qui per scrivere T_T
Comunque sia, come al solito spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento, voglio ringraziare chi sta seguendo questa storia, perché è anche grazie a voi che va avanti e non è naufragata!
Voglio dedicare il capitolo a TheJolly perché recensisce tutti i capitoli con pazienza e tanta simpatia ^^
La canzone che mi ha ispirato è ovviamente “Paint it, black” dei Rolling Stones.
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 13
*** L'amico, l'amante, il padre ***


 Di solito, Gilbert, Francis ed Antonio dopo una lunga giornata di lavoro, pranzavano insieme da qualche parte.
Non andavano mai nello stesso ristorante, abitudinariamente  a loro piaceva sperimentare roba nuova e anche quel giorno era successo quel che dettava la routine. Il tedesco e il francese presero le loro macchine, mente lo spagnolo inforcò la sua Harley Davidson e andarono dove  portava loro l’istinto.
 
-E, di grazia, te lo sei sbattuto sì o no?- arrivò al dunque Gilbert con fare quasi sbrigativo mentre portò alla bocca un’altra sorsata di birra. Stavano parlando dell’uscita tra Francis e Arthur della sera precedente in un ristorante che avevano appena aperto, pieno zeppo di famiglie con bambini
-La tua finezza come al solito è esemplare, Gil!- il tono di Francis risuonava secco e asciutto
-Oh e va bene…- alzò gli occhi al cielo contrariato –Avete avuto il piacere  di fare l’amore? – imitò nei toni quel fare sontuoso che a volte aveva il francese quando parlava
-No . Però l’ ho baciato sulla guancia. –
-Uh! Che vittoria, Fra, un’altra così e vi sposate. – insistette il tedesco tagliente, provocando un eccesso di ilarità in Antonio.
Francis guardò storto lo spagnolo –Proprio tu ridi?-
Il citato arrossì perché capì a cosa l’amico volesse alludere –Scusa…- mormorò in tono sommesso
Il francese si rese conto di aver esagerato e gli batté una manata sulla schiena –Dai, non pensarci. Scusami tu. –
L’altro gli sorrise con fare complice e scosse la testa come a voler dire “Ma figurati!”.
Gilbert mandò giù un altro po’ di birra –Io avrei conquistato sia Lovino che Arthur in un giro di la . – aveva ricominciato la solita tiritera delle lodi alla sua persona e gli altri due fecero uno gnaulo di esasperazione –Non sono caduti ai miei piedi solo perché non ho voglia di provarci. Avanti, come si fa a  resistermi?-
-Difficile dirlo, eh?- Francis strizzò l’occhio ad Antonio che si mise di nuovo a ridere, entrambi ignorando l’aria irritata assunta dal terzo amico –E comunque: casomai non te ne fossi accorto, Gil, io sto con Charlotte e Arthur non c’entra nulla con la storia. –
Il ghigno dell’avvocato risuonò quasi diabolico, stridulo –Certo, come se ti importasse di tradirla o meno. –
-Non ho mai tradito nessuno, mi sembra. – gli fece notare piuttosto spazientito e non stava millantando. Francis cambiava spesso bandiera, questo era vero, ma non si era mai permesso di tradire il suo patner, maschio o femmina che fosse. L’amore secondo lui era basato anche sul reciproco rispetto e il tradimento non era propriamente considerato un esempio di riguardo verso l’altro
-Va bene, ma non puoi nascondere che sei attratto da lui. –
Francis sorrise enigmatico. Chi poteva dirlo? Lui no di certo.
Non sapeva ancora affermare se Arthur gli piacesse o meno. Di sicuro non era immune al fascino dell’inglese e odiava dover dire questo. Per la prima volta non voleva convincersi di essere attratto da qualcuno e il perché era piuttosto ovvio; quel ragazzo non avrebbe mai accettato  quello che sentiva per lui.
Arthur non avrebbe compreso, o voluto comprendere che era più o meno la stessa cosa, che il suo interesse era sincero, non ci sarebbe arrivato al punto che il suo non era un capriccio o il frutto di una voglia improvvisa.
Non lo sopportava sì, non sopportava l’inglese perché in lui vedeva soltanto un maniaco pervertito, una specie di stupratore seriale che lo aveva scelto come prossima vittima.
Ma, dannazione, lui non era niente di tutto quello! Lui provava emozioni vere, lui sapeva cos’era l’amore.
Non era solo una questione di sesso, per quanto il sesso per lui fosse imprescindibile. È vero, si era innamorato di tante persone, aveva desiderato uomini e donne alla stessa maniera e aveva perso perfino il conto di quanti fossero stati, ma…
Ma Arthur non avrebbe capito. Ecco tutto.
-Sì, può darsi. – diede un assaggio alla sua “quique” e assunse un cipiglio nauseato –Questa cosa fa venire voltastomaco. – buttò sul tavolo la forchetta con fare sdegnoso –Nulla da fare, noi francesi siamo imbattibili in cucina. -
Entrambi i suoi amici rimasero zitti al commento di Francis, considerato che non erano d’accordo. Gilbert sosteneva sempre che nulla sarebbe riuscito a battere i wrustel tedeschi, mentre Antonio era dell’idea che gli spagnoli se la cavavano piuttosto bene in cucina.
 –Come va il virus di Elizabeta?- cambiò discorso l’ispanico
Gilbert fece una smorfia di pena –Non me ne parlare. Ci sono tante cose indegne di me, ma il virus di Lizzie le batte tutte…per lo meno adesso ha imparato a centrare il water!-
-Oh, ti prego Gil risparmiaci. Sto mangiando .- esclamò Francis con voce schifata, buttando disgustato di nuovo la forchetta nel piatto
-Non avevi detto che ti faceva venire il voltastomaco?- il sarcasmo del tedesco era molto simile a quello di Arthur
-Ho fame…-
-Non ho detto mica che vomita, ho detto solo…ok, ho capito- si interruppe vedendo che anche Antonio stava rinunciando alla sua bistecca con estrema repulsione –Ma cercate di compatirmi…Pensate alla vostra ragazza…o ragazzo…- aggiunse, scoccando un’occhiata allo spagnolo –Che dà di stomaco due volte al giorno. E non è la cosa peggiore. – senza che nessuno gliel’aveva chiesto, cominciò a raccontare per filo e per segno quello che gli era successo la sera precedente –Liz stava cucinando i funghi, ormai cucina solo quello e non ne posso più. Mi sono avvicinato a lei e le ho slacciato il grembiule. Lei mi fa “Che ti prende?” e io “Tu cosa pensi?”. Insomma, la volto e la bacio…-
Francis scosse la testa arrendevole; tutti gli aneddoti di Gilbert andavano a finire con lui che baciava la sua fidanzata –E allora?-
-Fammi finire. Lei non sembra d’accordo, io la ignoro perché è un onore avere un figo come me per convivente e…indovina che succede?-
Antonio tossì rumorosamente, forse perché gli era andato di traverso un pezzo di bistecca –Che schifo! Io non mangio più insieme a te. –
Anche Francis era dello stesso parere –Non potresti conservare questi deliziosi episodi per dopo?- gli domandò sarcastico a denti stretti, mentre abbandonava definitivamente il suo pranzo.
Il tedesco li guardò estraniato –Cosa c’è di schifoso? Semmai è umiliante…Dico io, mi ha preso a padellate in testa, vi sembra normale?-
Gli altri due si guardarono allibiti e scuoterono la testa, mentre Gilbert li osservava altrettanto smarrito –Ma che avevate capito?-
-Niente…- intervenne Francis con un sorriso zuccherino, prima che Antonio rispondesse con sincerità –Deve far male…-
-Male?- l’amico sembrava incollerito –Ho un bernoccolo sulla testa e oltre a farmi male, mi rovina l’aspetto. Ora non sono magnifico, sono solo un mediocre “favoloso”. –
-Che guaio!- fece velenoso il francese, beccandosi così la seconda occhiataccia della giornata da parte del tedesco
-Ma anche la tua fa così?- il tono di voce di Gilbert sembrava tanto quello di una casalinga che parlava della sua lavastoviglie difettosa
-Charlotte non mi dà questi generi di problemi, non so se mi spiego… - rivolse un occhiolino ad entrambi, godendosi l’effetto di un Antonio che lo guardava come se fosse stato un maestro dell’amore e Gilbert che alzava il naso all’insù parecchio contrariato
-Quello messo peggio di tutti sono io…- per la prima volta la voce dello spagnolo sembrava fiacca, languida.
Gilbert sospirò come se ne avesse già piene le tasche di quell’argomento. Non gli piaceva molto che si parlasse dei problemi degli altri, ma stranamente adorava in maniera esagerata che si discutesse dei suoi.
Invece Francis ascoltava sempre quello che gli altri avevano da dirgli, cosicché lui potesse elargire consigli a chiunque. Adorava dare consigli, lo faceva sentire più vicino all’altro che glieli chiedeva.
Poggiò la mano sulla spalla di Antonio e lo consolò con tono dolce –Tutti abbiamo i nostri problemi. Vedrai che prima o poi il tuo si risolverà. –
Lo spagnolo ricambiò la gentilezza con il suo solito sorriso aperto e gioviale.
-Prendiamo il dessert?- li interruppe nuovamente Gilbert alzandosi dal tavolo –Non ne posso più di drammi. Oggi c’è stato il processo del vostro amico…quello che è andato in escandescenze al bar e avete arrestato tu ed Eliza…- evitò di dire Lovino per non deprimere l’amico -Un incubo! Quel tipo è matto…-
-Perché, che ha fatto?- domandò ridendo Francis, con un interesse quasi donnesco
-Ha sbraitato tutto il tempo, il giudice ha dovuto richiamarlo minimo una decina di volte…non è che l’ ha proprio malmenato, eh? È soltanto obbligato a pagare un’ammenda per disturbo alla quiete pubblica–
-Disturbo alla quiete pubblica?- Antonio era sbigottito –Ma se stava per dare un pugno a Ben!-
Il francese fece spallucce e fece segno alla cameriera di avvicinarsi a loro–Ci porta il dolce?-
La cameriera doveva essere una di quelle tipe molto civettuole che al cospetto di tre ragazzi non riusciva a contenersi, perché emise una risatina più sgradevole di quella di Francis –Cosa volete?-
Ordinarono quello che c'era di più decente nel menù -Arrivano subito, ragazzi .- lo disse con un tono che sembrava voler intendere “Sono libera come l’aria, sapete?”, ma solo Francis sembrava avesse abboccato all'amo, visto che la seguì con lo sguardo fino a quando voltò l'angolo...o meglio, più che seguire lei, sembrava del tutto concentrato sul suo fondoschiena
E, in ogni caso, lui non faceva numero.
Lasciò che tornasse con quello che avevano richiesto e Gilbert guardò i suoi amici con un sorriso soddisfatto, come se stesse per fare un annuncio fondamentale –Mi ha scritto. –
-Chi?-
- Ludwig, cretino!- come se fosse la cosa più ovvia della Terra
Ludwig era il fratello minore di Gilbert. Aveva ventidue anni, studiava all’università e dalle descrizioni che suo fratello ne faceva di lui, Francis intuiva fosse completamente diverso dal maggiore.
-Ottimo!- Antonio era il tipo più empatico e generoso che Francis avesse mai conosciuto. Lo sorprendeva come ogni piccola notizia sui suoi amici lo rendesse felice, era davvero il migliore amico che si poteva desiderare.
Assaggiò il profitterole e decretò che non avrebbe mai messo più piede in quel ristorante.
-Che dice il vecchio Lud?- anche se non lo conoscevano direttamente, lui e Antonio leggevano sempre le lettere che mandava al fratello, fino ad avere l’impressione che il minore dei Beilschmidt fosse quasi uno di loro
-Le solite cose…- per Gilbert tutto ciò che non riguardava lui era catalogabile come “le solite cose” –Che vorrebbe distruggere il Muro a pugni, anche se dovesse affrontare tutta l’armata sovietica…io dico, vive nella parte ovest, ma che gli importa! A scuola va tutto bene…che vorrebbe un futuro sereno per il suo Paese e tante altre cose patriottiche…e poi… si è fidanzato. –il tono di voce era quasi acido, come se ci fosse qualcosa che decisamente non andava.
Ah, certo, fidanzarsi con qualcuno poteva essere definito come “le solite cose”…Antonio e Francis si guardarono stupiti, poi batterono le mani all’unisono.
-E bravo Ludwig…- ridacchiò il biondo francese, tormentandosi una ciocca di capelli con le dita –è stato più veloce di te a quanto pare. Chi è la fortunata? –
- E’ questo il punto!- alzò la voce in maniera quasi isterica –Ha due anni in più di lui…ed è ucraina! Insomma, è russa. –
-Se è ucraina non può essere russa …- Antonio storse il naso e scosse la testa; lui c’era abituato perché molti in giro lo scambiavano o per argentino o per portoricano
-E cosa cambia? Fa comunque parte dell’Unione Sovietica. E poi…è troppo vecchia per Ludwig. –
-Ha ventiquattro anni!- esclamò Francis esasperato alzando per l’ennesima volta gli occhi al cielo –Non è che sei geloso, Gil?- gli fece un occhiolino e si spostò con la sedia fino ad arrivare vicinissimo a lui. Il tedesco, al contrario, cercò di scansarsi in modo schivo
-Di mio fratello? No, è che vorrei il meglio per lui. Katerina ha aiutato mio padre quando era malato eccetera, mio fratello dice che è una brava ragazza e fin qui non contesto, però…Ha ventidue anni e già si fidanza! A me sembra presto…-
Dal tono di voce che aveva usato, si capiva che per Gilbert il matrimonio era una scelta che doveva essere presa in maniera ponderata e anche Francis in realtà era un po’ dello stesso parere: Per lui era quasi inconcepibile che una persona chiudesse i battenti così presto, era un concetto che gli avevano messo in testa fin da bambino.
La vita è troppo breve, diceva sua madre, perché tu possa fare le scelte sbagliate. E secondo sua madre, sposarsi giovane era uno di quelle scelte.
Non a caso, lei si era sposata a trent’anni e aveva avuto il suo primo ed unico figlio due anni dopo. Inoltre, lui non sarebbe mai riuscito a sopravvivere ad un legame così profondo e intenso come il matrimonio. Era come se quella fede al dito dicesse che lui non poteva più fare tante di quelle cose a cui era abituato e non gli piaceva molto.
 -Beh…- concluse il discorso Antonio alzandosi –La vita è la sua, no?- domandò con tono ragionevole
-Magari la tua futura cognata è simpatica. – rincarò la dose Francis prendendolo sottobraccio –Lei e Lizzie diventeranno amiche e in futuro prenderanno il caffè insieme tutti i giorni. –
Gilbert sorrise leggermente e nessuno dei tre ritornò più sulla questione.
 
Quando Francis tornò a casa e aprì la porta del suo appartamento, fu molto sorpreso di trovare lì Charlotte, seduta sul divano come una moglie che aspetta il marito rientrare dopo una bevuta trolito è esemplare, Gil!- iis. – si alzò in piedi e cominciò a fissarlo, come se niente fosse
-Come sei…?- sussurrò sbigottito, prima che lei lo interrompesse
-Mi ha fatto entrare tua zia. – sembrava quasi scocciata, ma per il francese quella spiegazione fu tranquillizzante; sua zia aveva le chiavi del suo appartamento e inoltre, la ragazza del nipote gli andava a genio. Si avvicinò a lei e le cinse i fianchi con le mani
-Sei bellissima, lo sai. – cercò le sue labbra, ma la ragazza si ritrasse dalla presa del ragazzo
-Non sono venuta qui per questo…- mise in chiaro, imbarazzata. Lui non capiva perché tutto d’un colpo Charlotte si stesse comportando con un atteggiamento così distaccato. Era sempre stata un po’ algida, ma mai così tanto.
-è successo qualcosa? – domandò sospettoso e si sorprese ancora di più quando la sua ragazza annuì decisa
-Parto. –
Sgranò gli occhi –Per dove?-
L’altra sbuffò impaziente –Torno a Parigi. L’anno dell’Erasmus  è finito…-
Francis sentì una morsa allo stomaco. Non che fossero stati insieme molto tempo loro due, ma era comunque affezionato a quella ragazza ambiziosa e intelligente e sapere che non  l’avrebbe rivista più, che non l’avrebbe più avuta lì con lui…beh, gli dispiacque molto –Già vai via!- esclamò con impeto
Gli prese la mano, sembrava a suo modo anche lei molto dispiaciuta –Potremo continuare, da lontano. –
Il francese ritrasse la mano e sorrise con delusione –Non sono un fan delle relazioni a distanza, ma cherie, dovresti saperlo…Finiremo per raccontarci bugie e sono sicuro che non durerà molto. –
-Beh, non possiamo abbandonare ciò che abbiamo costruito per noi. - fece la ragazza assennata –Io ho una vita a Parigi e tu hai la tua qui. Non posso chiederti di venire con me, vero?-
Scosse la testa –Mi dispiace, Charlotte. Quando parti?-
-Domani. – appariva indifferente, ma il ragazzo riusciva a percepire un tremolio leggero nella sua voce e gli occhi lucidi come lustri. Sorrise e la strinse forte a sé come faceva quasi sempre quando facevano la pace. Ma quella volta fu diverso; quell’abbraccio non era un segno d’amore, ma un saluto definitivo che creava male ad entrambi
-Mi piaci Charlotte. Mi piaci moltissimo, ma credo che questo non basti. –
-Lo credo anche io…Non ti dimenticherò mai. –
Dicevano tutte così, stava pensando Francis, ma forse nessuno lo meditava davvero. Non era in malafede, solo che era convinto che era proprio dell’uomo, rifarsi una nuova vita: “se una porta si chiude, se ne apre un’altra” era il suo motto preferito
-Ti accompagno all’aeroporto?- l’aveva chiesto più per essere gentile che per altro
Lei annuì sorridendo con misura –Se non ti dispiace…-
-Chiamo anche mia zia. Lei si è molto affezionata a te. –
Non si dissero più nulla. Rimasero così, a fissarsi, mentre la loro mente volava ai momenti felici che avevano vissuto insieme. Certo, si trattava pur sempre di un mesetto scarso, ma era stato comunque un bel ricordo, come l’estate; dura poco ma sembra sempre il periodo più intenso e felice dell’anno.
Non appena la ragazza se ne andò, prese il telefono e compose un numero che ormai conosceva a memoria
-Eih, Antonio…Hai un momento per un amico dal cuore spezzato?-
 
Arthur sapeva che quella mattina doveva svegliarsi comunque presto, ma per la prima volta avrebbe tanto desiderato dormire di più, anche su un divano duro come il marmo.
Si sentiva stanco, spossato. Lui aveva bisogno delle canoniche otto ore di dormita per sentirsi riposato e quella sera assolutamente non aveva dormito così a lungo, forse era già troppo se lo aveva fatto per cinque ore.
Il dilemma era che non era riuscito a prendere sonno e una volta che aveva finalmente chiuso gli occhi, sembrava fosse passato un lasso di tempo troppo breve.
Ora che ci pensava, non era obbligato a portare i bambini all’asilo e anche loro avevano bisogno di respiro, quindi nessuno sarebbe morto se avesse dormito tre orette in più.
Felice di aver preso due piccioni con una fava, sistemò la sveglia per le nove e si rimise a dormire.
In realtà non fu la sveglia a destarlo, ma i suoi figli che quel giorno si erano improvvisati molto più mattinieri del normale e infatti alle sette in mezza erano già in piedi nella sala, tutti pimpanti.
Lo scrollò Alfred che si era buttato a bomba sul divano, centrando in pieno il suo povero, delicato stomaco
-Al!- lo rimproverò, gemendo per il ventre dolorante, ma il suo bambino non si preoccupò di scusarsi e rimase a fissarlo seduto sulla sua pancia
-Papà, come mai stai dormendo?- Alfred sembrava sospettoso perché per lui era strano che si fosse svegliato prima di uno dei suoi genitori.
Arthur sospirò, aspettò che suo figlio scendesse da sopra di lui e si alzò per preparare la colazione per loro tre, o per lo meno, a riscaldare il latte e mettere in tavola i biscotti
Mentre Al e Matt mangiavano i pasticcini, per fortuna comprati al supermercato, il loro papà era impegnato a ritirare il bucato, ma per sua sfortuna, aveva ancora sbagliato a separare i colorati dai bianchi e alcuni calzini dei gemelli, di  cui la maggior parte appartenenti ad Alfred, erano diventate rosa antico.
Quando l’aveva saputo Al, aveva subito cominciato a piagnucolare –Gli eroi non portano i calzini rosa!-
-Oh, andiamo! Neanche si vedono…- cercò di blandirlo suo padre con voce prudente
-Non mi interessa, io non me li metto. – il bambino era irremovibile sulle sue posizioni: come molti altri era convinto che il pregiudizio rosa uguale donna fosse vincolante
- Alfred, non cominciare… – perché, si chiedeva l’inglese, perché quel bambino doveva essere così capriccioso?
Per tutta risposta, quel diavoletto corse in camera e prese una manciata di calzini che si erano salvati dalla strage –Mi metto questi!- aveva detto con voce  ostinata porgendoli a suo padre
-Ma questi non sono di Matt?-
-Lui può mettersi quelli rosa. – il piccolo fece spallucce, come se fosse stata la soluzione più congeniale che gli fosse mai venuta iosi così la seconda occhiataccial bambino l’avesse vinta sempre, fatto stava che quella mattina, andando fuori per ordinare i mobili per la loro camera, Alfred uscì con i calzini bianchi di Matthew, e Matthew, con quelli rovinati e rosa del fratello
-Non preoccuparti, Matt! Papà te ne compra una scatola piena del colore che preferisci…- gli aveva promesso Arthur lanciando un’occhiataccia all’altro figlio
-Li voglio arancioni. – il tono di voce del povero infante era rassegnato, ma allo stresso tempo era intriso quasi di una nota vendicativa nei confronti dell’altra peste –Anzi, con gli orsi polari. –
-Certo. Tutto quello che vuoi…- l’inglese non si accorse che da dietro Alfred stesse facendo linguacce e altre smorfie poco carine al fratellino.
Erano andati al mobilificio più vicino per comprare gli arredi per la camera dei gemelli, che sarebbero arrivati una settimana più tardi e Arthur era molto soddisfatto di aver concluso quell’operazione in poco tempo; avrebbe speso parecchio, ma non gli interessava, l’importante era che presto i bambini avrebbero dormito nella loro camera e lui nella sua. Avrebbe detto definitivamente addio a quell’odiato divano. Anzi, l’avrebbe buttato, ecco cosa!
Anche i suoi figli erano esaltati all’idea di una stanzetta tutta per loro, Alfred specialmente, che non vedeva l’ora di poter sistemare per bene i suoi giochi –Appena sistemeremo la cameretta, voglio farla vedere allo zio. –
Arthur increspò le sopracciglia –Zio? Quale zio?- chiese sospettoso
-Lo zio Francis!- Alfred era allegro come al solito, pareva che la sua dichiarazione fosse la risposta più chiara del mondo.
Dentro di sé, Arthur provò un moto di gelosia; aveva chiuso un occhio per “zia” Elizabeta, ma “zio” Francis…no, quello non riusciva proprio a sopportarlo.
Ripensò a quello che era successo la sera precedente, ripensò al film, a Francis, a quel dannatissimo bacio…era strano, era come se fosse stato tutto un sogno talmente sembrava così irreale, onirico ed era anche stata una bella serata, a parte per la conclusione così imbarazzante per lui.
Come faceva quel francese a piacere a tutti meno che a lui, questo lo ignorava proprio, anche se…
Scosse la testa e censurò quello che aveva appena pensato.
 
Quel pomeriggio al lavoro fu una cosa piuttosto monotona, a parte per il fatto che Elizabeta aveva mal di testa e disturbava tutti con il suo cattivo umore
-Perché non torni a casa?- le aveva domandato, esasperato.
-Non sarà un po’ di nausea a rimandarmi a casa!- quell’ungherese era talmente testarda che l’inglese aveva l’impressione che avrebbe continuato a lavorare anche moribonda
-Così rischi di attaccare il virus a metà centrale. – il suo tono di voce era cinico, non voleva restare a casa infermo e soprattutto, non voleva che si ammalassero anche i suoi figli
- Gilbert sta bene, quindi non credo sia contagioso…-
Arthur era convinto che non esistesse un virus che non fosse trasmissibile, per cui si tenne lo stesso a debita distanza da lei e anche Ben, Jack e Lovino sembrava stessero seguendo le sue orme
-Ha la possibilità di andarsene a casa…E che cazzo, ma ci vada!- aveva bofonchiato Lovino, più seccato del solito e il che era davvero tutto dire.
Arthur lo guardò con aria irrisoria; chissà se quel ragazzo sapeva che era l’oggetto del desiderio di Antonio Fernandez Carriedo, il “latin lover” della centrale
-Eih, Vargas, posso farti una domanda?-
L’italiano lo guardò sospettoso, forse perché il tono dell’inglese gli era sembrato troppo beffardo –Spara. –
“Bum” avrebbe voluto rispondergli con sarcasmo, ma si trattenne –Cosa ne pensi di Antonio?-
Lovino inarcò un sopracciglio –Ma tu e quel francese finocchio per caso vi leggete nel pensiero?-
-No!- esclamò indignato. Come si permetteva quel ragazzo a chiedere se lui condividesse i suoi sacri pensieri con quel vinofilo?
-Scusatemi, Sua Altezza. – la voce ossequiosa era una chiara presa in giro –è che anche lui mi ha fatto la stessa domanda…Comunque, penso sia un idiota, è talmente lento che secondo me va all’indietro. –
Arthur fu preso da un eccesso di risate incontenibile, prima di tutto perché era assolutamente d’accordo con l’italiano, secondo perché pensava dello spagnolo l’esatto contrario di quello che provava lui per quel ragazzo.
-Secondo me la pioggia ha annebbiato il cervello, a voi inglesi. –aveva commentato l’italiano brusco, prima di alzarsi e andarsene fuori, chissà per dove.
 
Lily, quella sera, rimase a mangiare con loro. Era una brava ragazza e all’inglese andava proprio a genio. Il suo unico difetto era che mangiava pochissimo, aveva praticamente lasciato intatta la carne e si limitò soltanto a mangiare l’insalata. Non si stupiva Arthur che fosse così magra.
- Come si chiama il Paese dove vivevi da piccola?- Lily gliel’aveva ripetuto quasi tre volte, ma Alfred ancora era riuscito ad impararlo
- Liechtenstein. – rispose paziente, rivolgendo al bambino un sorriso un po’ timido
-Come? Lict…Lict…è troppo difficile! – il piccolo americano sembrava deluso. Fissava la tovaglia concentrato, come se fosse stato scritto lì, il nome dello Stato in cui la ragazza aveva vissuto
-Sei di Vaduz?- il Liechtenstein è talmente piccolo, che se dici Vaduz vai sul sicuro, o almeno così pensava Arthur. Infatti, la giovane scosse la testa
-Un paesino vicino. Mio fratello è di Losanna, ma i miei si sono trasferiti perché amavano l’aria di montagna. –
Lily, in effetti, sembrava avere l’aria di un’ingenua Heidi, solo che era bionda, più grande e in tutta sincerità, anche più carina. Era un po’ timida e infatti aveva parlato molto poco durante il pasto e si vedeva che i loro bambini preferivano la compagnia più vivace e brillante di Francis ma, a loro modo, avevano già cominciato a volerle bene.
Quando se ne andò, Arthur mise a letto i suoi figli e gli cominciò a raccontare una favola, come di consuetudine. Questa volta, il tema era quello dei pirati, argomento che aveva attirato le attenzioni di Alfred, un po’ meno quelle di Matthew
-Barbanera…- stava raccontando con aria enigmatica, preso anche lui dalla storia –Scese dalla nave per cercare il tesoro. –
Un verso di meraviglia gli giunse alle sue orecchie -A questo punto compare il drago!- lo interruppe Alfred entusiasta, allargando le braccia come a mimare una creatura enorme.
-Sì…aspetta, cosa?- suo padre lo osservò accigliato –Non ci sono i draghi in questa storia. – nelle sue favole aveva inserito talmente tante licenze poetiche che ormai ne aveva perso il conto, ma quella del drago ancora gli mancava. In una storia di pirati, poi, era tutto da ridere.
-Io voglio il drago. – il suo tono di voce era tedioso, il solito di quando faceva un capriccio. Se Al aveva un difetto, era proprio quello di volere ogni cosa a tutti i costi e la desiderava in modo ostinato. Per fortuna Matthew non era come lui, altrimenti Arthur avrebbe perso la pazienza più o meno ogni giorno con loro.
-E va bene. – l’inglese alzò gli occhi al cielo, deciso ad accontentarlo come suo solito –Dicevo; scese dalla nave per cercare il tesoro del capitano Flitt, quando la strada gli venne sbarrata da un enorme drago nero a due teste. –
Entrambi i bambini emisero un verso di sorpresa e di orrore.
-Per Barbanera quella sembrò la fine, non sapeva come sarebbe riuscito a sconfiggere quell’imponente animale…ma poi…- rimase in silenzio per creare la suspence –Intervenne il coraggioso mozzo che con un colpo di cannone, atterrò il drago ferendolo mortalmente. – non sapeva se un mozzo sapesse usare un cannone, ma tanto ormai tra draghi volanti eccetera, quella favola aveva raggiunto da un bel pezzo la soglia dell’inverosimile.
Alfred esultò e battè le mani come se si trovasse allo stadio –L’eroe! Papà, dicci com’era. –
Il britannico sorrise e ci pensò per un momento –Aveva un bel viso. Era biondo di capelli e aveva gli occhi azzurri…-
Per la prima volta, fu Matthew ad interromperlo –Oh…il mozzo è Francis!- usò un tono al contempo meravigliato e sicuro, sembrava quasi speranzoso del fatto che il mozzo fosse proprio il collega di suo padre.
L’inglese guardò entrambi i figli e scoppiò in un eccesso di tosse –Ma…ma no…- balbettò imbarazzato –Non è Francis, perchè hai pensato che fosse lui? – passò in rassegna a tutte le volte in cui aveva tradito un certo interesse per quel francese, ma parve di non trovarle.
Il bambino fece spallucce –Gli somigliava. – il ragionamento non faceva una piega, ma era anche vero che Arthur non aveva minimamente pensato al francese in quel momento. Insomma, l’idea di inserirlo nella favola serale dei suoi figli lo impacciava. Non l’avrebbe mai fatto, o meglio, l’avrebbe fatto ma non l’avrebbe ammesso neanche sotto tortura.
-Molte persone sono così, Matt. Anche voi avete i capelli biondi e gli occhi azzurri. – gli fece notare, un po’ seccato e stizzito. Il fatto che qualcuno potesse pensare che si era affezionato a Francis lo innervosì parecchio –E ora, a dormire. –
-Ma non è ancora finita la storia. – Alfred incrociò le braccia in segno di protesta e anche il suo tono di voce suonava polemico.
-Fra…cioè, il mozzo cadde accidentalmente in mare e venne divorato da uno squalo. – concluse sbrigativo e anche con l’intento di infierire un po’ di vendetta al suo collega, anche se in maniera fittizia –Fine!- fece un sorriso a denti stretti e i due Kirkland rimasero a guardarlo con occhi sbarrati.
L’inglese fece finta di non accorgersene e si chinò per dare ad entrambi il bacio della buonanotte sulla guancia –Fate sogni d’oro. – il tono di voce dolce e paterno, era talmente diverso da quello usato pochi secondi prima, che anche i due bimbi gli sorrisero con affetto
-Ti vogliamo bene. –
-Anche io ve ne voglio…- rispose teneramente, dopo un momento di esitazione. Ormai quei due piccolini erano diventati parte integrante della sua vita e Arthur non riusciva più ad immaginare la sua vita senza di loro. Sì, voleva loro molto bene.
 
 
 
 
Salve a tutti, gente! So di essere in clamoroso ritardo, ma c’è stato un problema abbastanza fastidioso con il computer. È una storia lunga, che prevede un viaggio nel futuro, un fratello rompiscatole e il Dottor House che muore e poi risorge (ok, e con queste, ammontano a venti le cavolate che ho detto per questa giornata).
Comunque, spero che questo non sia un problema e che il capitolo sia piacevole tanto quanto gli altri. È più un capitolo di raccordo che altro, poiché il prossimo capitolo è un po’ più…movimentato, ecco xD
Dedico il capitolo a TudorQueen perché so che è una fan della Germania x Ucraina , una coppia che volevo inserire nelle mie storie da tempo immemore. Io li trovo davvero carini insieme :D Naturalmente, lo dedico anche alle altre anime pie che leggono, seguono e recensiscono la storia; cosa farei senza di voi?
La canzone da cui ho tratto ispirazione è “Bohemian Rapsody” dei Queen.
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 14
*** Polvere da sparo ***


 La macchina della polizia svoltò a destra, verso ChinaTown. Quel giorno c’era stata una soffiata su una banda di spacciatori cinesi, secondo i più, estranei alla mafia, a cui la polizia stava dando la caccia da parecchio tempo.
Era in quei momenti che Arthur si rendeva conto di essere un poliziotto; quando era seduto sul sedile dell’auto delle forze speciali a sirene spiegate, quando sentiva la sua pistola carica nel cinturone e pensava a quando il telegiornale avrebbe annunciato l’arresto di qualche malvivente. Sapere che lui aveva partecipato, lo inorgogliva in maniera spropositata. Si chiedeva come avrebbero reagito i suoi bambini nel sapere che lui aveva preso parte ad un arresto; Alfred avrebbe detto “Wow! Papà, ma tu sei un vero eroe!”, Matthew avrebbe sorriso e l’avrebbe guardato con profonda ammirazione.
-Ora?- chiedeva Francis nervosamente, seduto al posto della guida
-A sinistra…- mormorava piano Antonio, agitato come tutti, ma Arthur era sicuro che nessuno fosse più stressato ed impaurito di Lovino, seduto vicino a lui. Il povero ragazzo era pallido come un fantasma e sembrava avesse dei crampi alla bocca, perché questa era digrignata in maniera grottesca e lo sfigurava a dir poco. Aveva tutta l’impressione di voler svenire da un momento all’altro
-Calmati, Vargas. – non voleva usare un tono così sprezzante con lui, ma non riuscì ad ostentare il suo contegno –Siamo un’intera squadra di polizia contro…sei o sette criminali al massimo. –
-Tappati quella bocca. – imprecò l’altro abbastanza stizzito, come se si vergognasse per essere stato ripreso per i suoi timori, o più semplicemente perché non voleva sentire la sua voce. Antonio gli rivolse un sorriso di incoraggiamento, ma lui sembrò non notarlo.
Si rivolse con dolcezza all’italiano -Eih, non preoccuparti!- gli occhi dello spagnolo sembravano cioccolatini che si stavano sciogliendo –Andrà tutto bene, hai capito?-
Per tutta risposta, l’italiano sibilò - Fottiti. – e il suo ammiratore tornò sconsolato al lavoro
-Jack…Jack…- Francis stava cercando di mettersi in contatto con l’altra delle due macchine che erano partite per arrestare gli spacciatori
-Ti sento forte e chiaro. – rispose una voce parecchio esaltata dall’altro capo della ricetrasmittente –Jack Allen, seconda volta in azione. Che forza!-
-Reprimi l’entusiasmo…- in quel momento non sembrava più sé stesso. Sul suo viso sudato, si leggeva chiaramente una manifestazione di evidente preoccupazione ed era insolito, perché  di consueto appariva sempre molto rilassato. I suoi lineamenti distorti giocarono sull’inglese una strana impressione: lo preferiva di gran lunga quando sorrideva.
-Chi è che prende il comando?- continuò Francis, sempre rivolto verso Jack
-Ah, e che ne so! Non sono mica il commissario… comunque, credo l’ispettore Wang... è il più anziano in servizio e poi è cinese. – sembrava quasi che quell’americano fosse euforico perfino in quella situazione. Il britannico incrociò le braccia sbuffando –Che idiota. –
-Perfetto, è tra i tuoi?- anche il francese sembrava piuttosto indignato dall’atteggiamento che stava assumendo Allen. Batteva le dita sul volante e di tanto in tanto guardava il viso di Antonio, per sapere se stava andando nella direzione giusta
- E dove se no…- sentì un rumore, forse era Yao che stava sfilando a Jack la ricetrasmittente di dosso
-Ragazzi, statemi bene a sentire, aru…- Era strano per Arthur sapere di un cinese nel corpo di polizia. Li aveva sempre immaginati con il cappello a cono, i capelli lunghi legati in una coda e intenti a raccogliere il riso con i piedi sepolti dall’acqua. Oppure, dentro un ristorante cinese a preparare involtini primavera.
Yao Wang, a parte gli occhi a mandorla e i lunghi capelli neri raccolti, aveva ben poco di cinese. Anche l’accento non tradiva alcuna inflessione -…ci troviamo di fronte ad un’organizzazione piuttosto pericolosa, aru .- alla parola “pericolosa”, Lovino emise uno squittio indefinito –Forse sono armati, aru, per cui vi raccomando la massima cautela. – sottolineò “cautela” con voce ancora più ferma del solito –Siamo quasi arrivati, il nostro informatore mi ha appena confermato che hanno concluso la transazione e stanno controllando la qualità del prodotto, aru. Massima cautela. –
Davanti a loro stava una specie di magazzino o di negozio all’ingrosso, Arthur non sapeva come definirlo, abbandonato e anche piuttosto squallido, ma davvero immenso. Gli sembrava un mercato ittico, soltanto che erano troppo lontani dal porto per poterlo essere davvero.
Gli spacciatori erano vicino all’ingresso, dietro ad un camion, probabilmente pieno di merce che, stando alle parole di Jack “Non era borotalco” e appena videro irrompere nel locale le auto della polizia, la prima cosa che fecero fu scappare, come era da aspettarsi.
Arthur uscì precipitosamente dall’auto ed estrasse la pisola dal cinturone. Pensava solo a fermare quei criminali e non si accorse che anche gli altri stavano facendo la stessa cosa, certamente con la stessa adrenalina che aveva lui.
-Twist, Austin e Jackson , rimanete all’ingresso aru .- Yao aveva già cominciato a dirigere la squadra –Carriedo e Vargas, voi andate a destra, aru. Tu, Bonnefoy, sul retro, aru. Kirkland ed Hedervary andranno a sinistra, mentre io ed Allen andremo da questa parte – come per dare il buon esempio, si diresse verso la sua postazione e tutti quanti seguirono gli ordini dell’ispettore.
Il magazzino sembrava l’inferno sulla terra, o almeno, l’inferno come sempre l’aveva immaginato l’inglese; una puzza penetrante di fumo e di vecchio che si annidava in tutte le pareti spoglie e cadenti dell’edificio. Sembrava avesse l’intenzione di venir giù da un momento all’altro e il poliziotto temeva che il soffitto potesse crollargli addosso.
Inoltre, c’era un silenzio spettrale, quasi innaturale.
Dopo la foga del primo momento, sortito più che altro dall’effetto sorpresa, ora era calata una quiete sinistra; non si sentiva nulla, neanche un calpestio di piedi o un mormorio.
Guardò Elizabeta, aveva il viso contratto dalla paura –Secondo te…- cominciò lei, ma il britannico la interruppe, perché già intuiva cosa la ragazza volesse chiedergli.
-Non lo so. – l’ultima cosa che voleva era una sparatoria. Oltre alle esercitazioni ai poligoni di tiro, Arthur non aveva mai sparato in vita sua e immaginava che ci fosse una gran differenza tra la teoria e la pratica, tra lo sparare ad una persona in carne ed ossa o una figura semi movente in compensato.
Svoltarono l’angolo e videro un’ombra mentre cercava maldestramente di nascondersi in uno degli scompartimenti del magazzino. Arthur ed Elizabeta si diedero un cenno d’intesa e rincorsero il figuro con il sangue che ribolliva loro nelle vene –Vieni fuori con le mani in alto!- urlò Arthur, quando il criminale decise di fermarsi. Uno sparo lanciato in aria fu la sua risposta.
-Dannazione …- imprecò lui, mordendosi la lingua. Ripeteva a sé stesso che non voleva una sparatoria, ma che se quello continuava così non gli rimaneva altra scelta
–Butta la pistola a terra e non ti verrà fatto nulla. – la voce dell’ungherese voleva risultare benevola, ma nonostante il secondo ammonimento, nessuna risposta gli giunse alle orecchie, neanche un colpo di pistola.
-Siamo due contro uno, hai capito? Non ti conviene rimanere lì…- l’inglese invece aveva optato per una versione più minacciosa e sembrò funzionare, perché il manigoldo venne fuori con le mani sul capo. Era poco più che un ragazzino, tremante e spaventato, cui scoppiò in lacrime non appena sentì il metallo delle manette rinchiuderlo in una morsa
-Se mi vedesse mia madre…- Eliza ridacchiò –…direbbe che una signora non si comporterebbe in questo modo. –.
Anche l’altro si concesse un sorriso: chissà cosa avrebbe detto sua madre di tutta quella faccenda…scacciò via quel brutto pensiero e si concentrò sul suo lavoro. Si sarebbe aspettato di peggio, dopotutto, aveva riscontrato così poca resistenza che…
Non fece in tempo a dirlo che sentì delle urla, come se qualcuno stesse facendo una sorta di rissa. Dopo un attimo di silenzio, ci fu un suono secco, lancinante che squarciò l’aria e che fece sobbalzare tutti e tre, perfino l’arrestato… Subito dopo, Arthur sentì un urlo agonizzante, reso ancora più macabro dall’eco del deposito, seguito da un altro colpo di pistola assordante. Il locale, che prima gli era sembrato così silenzioso, ora risuonava dei mormorii preoccupati e dalle corse frenetiche per andare a vedere cosa mai fosse successo.
Elizabeta era pallida come un fantasma e fissava il collega con occhi sgranati –Cosa facciamo?- non potevano lasciare lì il manigoldo, ma neanche far finta di non aver sentito nulla.
Intanto, le voci dei presenti si fecero più forti; Arthur riuscì a scorgere tra quel putiferio di suoni, la voce prorompente e terrorizzata di Antonio –No, no…non può essere- era come se stessero ascoltando un film dell’orrore in lontananza.
Lovino. Avevano colpito lui, ecco perché lo spagnolo stava urlando così forte. Il britannico aveva sperato fino all’ultimo che fosse stato uno dei suoi a colpire lo spacciatore e non il contrario
- Lovino…- farfugliarono entrambi guardandosi.
-Cazzo, chiamate una maledetta ambulanza. –
Aspetta, si disse. Non poteva essere l’italiano ad essere stato colpito, visto che aveva sbraitato proprio in quel momento e la sua voce, per quanto sgomenta potesse essere, non sembrava quella di un uomo in agonia. Ma, allora chi?
L’inglese si stava tormentando; una parte di sé temeva chi poteva essere e avrebbe voluto fare come gli altri e correre fino a lì per vedere chi fosse mai. Un’altra parte di lui però, sapeva che non doveva assolutamente lasciare la sua posizione
 - Bonnefoy. Bonnefoy, riesci ad aspettare l’ambulanza?-
Era come se gli avessero tirato uno schiaffone. Era Francis ad essere stato colpito e nessun altro…quelle parole lo sferzarono come una secchiata d’acqua gelata, lo attraversarono davanti agli occhi come una scritta a caratteri enormi.
-Non muoverti per nessuna ragione!- urlò isterico ad Elizabeta e cominciò a correre per tutto il magazzino, interi reparti che si susseguivano veloci dalla sua vista.
Continuava a ripersi che non era possibile, seguiva le voci terrorizzate dei suoi colleghi per capire dove dovesse andare. Aveva la sensazione di un terribile vuoto allo stomaco e la prima cosa che vide, non appena arrivò, fu il sangue che ricopriva una parte del pavimento dell’edificio, seppur piccola.
Non ne aveva mai visto così tanto dal vivo e sentì la nausea percorrergli tutte le viscere.
La seconda reazione fu di orrore. Il corpo di Francis era sdraiato a terra, con il viso corrugato per il dolore, emettendo lievi lamenti. Poco lontano da lui, stava uno dei ricercati ferito alla gamba, con la pistola ancora in mano. Non sapeva dire se il suo collega era stato il primo a sparare il colpo, oppure il secondo a rispondere, ma non gli importava: in quel momento era più assillato a guardare il braccio del francese, da dove usciva tutto quel sangue, i suoi vestiti macchiati di quel rosso troppo vivace per essere vero.
Non aveva cognizione di quello che doveva fare, rivolgeva lo sguardo a quell’immagine davanti a lui con occhi sbarrati ed increduli; perché, insomma, era vero che a volte si era augurato che il ragazzo avesse fatto una fine simile, ma ora che tutto era diventato realtà, non gli sembrava bello come lo era nei suoi sogni più reconditi. Avrebbe tanto voluto chiudersi da qualche parte e far finta che non fosse successo nulla
-Amico…resisti, ti prego. – Antonio era chino sul corpo del suo migliore amico; era stato l’unico ad aver avuto il coraggio di avvicinarsi a lui –Te la caverai. Tra poco arriverà l’ambulanza e…- l’inglese non l’aveva mai visto così angosciato in vita sua, ma chi non lo era in quel momento?
Malgrado l’evidente dolore, il viso del francese si increspò in un piccolo sorriso, fatto più per tranquillizzare che per altro –Ci…ci vuole altro per mettermi a terra. – la sua voce era un fioco sussurro che solo quelli molto vicino a lui erano riusciti a sentire.
Intorno a lui, Arthur vide Lovino mentre sbraitava alla ricetrasmittente –Fottetevi, avete capito? Cosa cazzo vuol, dire che non potete fare nulla per quelli che sono scappati. Questo ufficio ha più falle di un qualsiasi cesso pubblico!- era fuori di sé, stava mostrando una rabbia repressa che era straripata nel momento più opportuno.
- Vargas, ti prego, calmati, aru…- lo stava implorando Yao, sfinito
-Calmarmi? Quei figli di puttana sono scappati e tu dici di calmarmi? Io a quei due li rincorro con una mazza chiodata, hai capito?- in faccia aveva un po’ di sangue rappreso e all’inglese divenne più chiaro il perché l’italiano in quel momento ce l’avesse con i due fuggitivi.
Perfetto, si erano lasciati sfuggire anche due della banda! Il blitz non poteva andare peggio di così…
L’ambulanza per fortuna arrivò subito e caricò Francis sulla lettiga e insieme ad essa, anche un’altra macchina della polizia, per portare alla centrale gli altri quattro malviventi che erano riusciti a fermare
-Eravamo troppo pochi…e loro erano armati, aru. – stava spiegando Yao ad un suo superiore, con gli occhi bassi –Alcuni di noi sono sotto shock. –
-Vi conviene salire pure voi, sull’ambulanza. – l’altro poliziotto indicò Antonio e Lovino con un cenno –Quei due agenti sembrano conciati male…-
Anche Arthur a dire la verità si sentiva un po’ scosso; non aveva mai avuto paura del sangue, ma quel contesto era diverso. Il fatto che fosse successo ad una persona che conosceva, lo aveva sconvolto. Non che gli importasse di Francis, ovviamente…
- Elizabeta. Liz stai bene?-
Si era momentaneamente dimenticato della ragazza e si sentì un po’ in colpa ad averla lasciata sola, spaventata e con un delinquente da sorvegliare. L’ungherese sembrava confusa, non l’aveva mai vista così disorganica, lei che era sempre tanto determinata ed energica.
Lei guardò Francis sulla lettiga, poi Antonio che la seguiva a piedi con un labbro più gonfio dell’altro e infine scivolò per terra, priva di sensi.
- Hedervary!-  esclamò spaesato Yao, prima di andare a sorreggerla con le sue braccia
Un paramedico si avvicinò a loro e mise una mano sulla fronte della ragazza –Forse è un po’ scossa. Portiamo via anche lei…-.
Gli unici che non erano saliti sulle ambulanze erano l’ispettore Wang, Anne Marie Austin e lui, che continuava ancora a fissare il veicolo della Croce rossa con occhi vacui e assenti; era accaduto troppo in fretta, il suo cervello non riusciva ancora a memorizzare tutto l’accaduto
-Vieni, Kirkland, aru. - Yao lo prese per un braccio, dirigendosi verso l’autoambulanza
-Sto bene. – il suo tono di voce era incontrollato. Si divincolò dalla presa del suo superiore e sentì gli occhi di Yao fissi su di lui.
-Sei pallido, non ha una bella cera, aru. – incrociò le braccia spazientito
L’inglese in effetti non si sentiva per nulla bene. Aveva la nausea e gli girava la testa, perciò, suo malgrado, salì anche lui sulla vettura.
L’ospedale era grande, Arthur non ci era mai stato, a parte una volta a Londra. Sicuramente, non era mai finito ad un policlinico per una causa di servizio così grave. Inizialmente si sentì come sbattuto, un po’ di qua e un po’ di là: vide la barella di Francis attraversare il corridoio velocemente, il che gli ricordò uno di quegli stupidi telefilm che la madre di Eileen seguiva alla tv.
Lui non aveva la “priorità assoluta” il che lo tranquillizzò, perciò si sedette nel corridoio, ignorando gli sguardi perplessi che la gente gli rivolgeva, per via della sua divisa da poliziotto. Per lui aveva rilevanza solo il fatto che qualcuno, un medico o un infermiere, uscisse e lo tranquillizzasse di tutta quella bolgia. Non che gli interessasse che Francis stesse bene o meno, per inciso…
Sentì la presenza di Jack Allen vicino a lui; non sembrava molto impressionato e neanche ferito e Arthur non capiva cosa ci facesse lì –Non preoccuparti, Kirkland. Bonnefoy è uno tosto…- era come se stesse cercando di consolarlo e all’inglese tutto ciò diede molto fastidio
-Non mi sto preoccupando, Allen. Di Bonnefoy, poi…- fece un verso di sprezzo e gli rivolse un’ occhiata di sbieco.
-Beh, mi sembra difficile non preoccuparsi , visto che…-
Lo sguardo di Arthur sembrava che volesse fulminare quel ragazzino rompiscatole. Possibile che non capiva che voleva essere lasciato in pace?
Chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie, cercando di non prestare attenzione alle chiacchiere a vanvera di quel molesto ragazzo.
-Tutto questo mi ricorda un film molto carino in cui…-.
No. Per quanto ci stesse mettendo d'impegno non riusciva a sopportarlo..
–Vuoi un consiglio? O te ne vai di qui o ti tappi la bocca. Altrimenti, faccio a te quello che hanno fatto a Francis. – sapeva di essere stato troppo rude e maleducato, ma non ce la faceva più a tollerarlo. Era disorientato, confuso, non capiva come facesse Jack ad essere così rilassato. Dentro la sala operatoria c’era un loro collega a cui avevano appena sparato e lui parlava di surf e film?
Jack lo guardò stranito, come se si trovasse al cospetto di un mostro –Siamo nervosetti, eh?- si alzò dalla sedia velocemente, prima che Arthur potesse reagire a quella domanda.
 
 
Antonio si accomodò nell’ala d’aspetto, dopo essere uscito dalla sala del medico. Aveva solo qualche piccola contusione ed ora sentiva sulla sua pelle tanti piccoli lividi fastidiosi.
Se chiudeva gli occhi, la scena accaduta nelle ore precedenti, cominciava a sfilargli davanti agli occhi come un film.
Inizialmente c’era stato il tafferuglio. Lovino era stato colto di sorpresa da uno degli spacciatori, che si era gettato su di lui e gli aveva sferrato un violento pugno sulla faccia.
Lui aveva fatto in tempo a girarsi e a vedere quello spettacolo e in un attimo era come se gli fosse scattato qualcosa nel cervello, qualcosa che era rimasto assopito per troppo tempo. Lo spagnolo non era un tipo facinoroso, non perdeva mai la pazienza, ma vedere l’italiano inerme sotto i colpi di quell'energumeno, lo avevano inorridito a tal punto da gettarsi sopra quello e colpirlo con una violenza che non sapeva di avere.
L’altro si era difeso abbastanza bene; gli aveva tirato un calcio allo stomaco, che lo aveva destabilizzato per un po’, e subito dopo gli aveva lanciato chissà cosa in pieno braccio.
Per fortuna, Lovino non era rimasto con le mani in mano e dopo essersi ripreso da quel periodo di scombussolamento, conseguì nel bloccare il criminale e metterlo in manette.
Poi, avevano sentito lo sparo inaspettato ed  entrambi si erano precipitati per vedere cosa mai fosse successo.
Non poteva ancora credere che Francis adesso si trovasse nella sala operatoria. Gli infermieri lo avevano tranquillizzato dicendogli che la ferita non aveva danneggiato nulla di serio, ma era comunque preoccupato e faceva fatica a pensarci; il suo migliore amico…
Sentì una porta sbattere violentemente; Lovino era uscito dalla sala del medico, con una lastra di ghiaccio premuta sulla guancia e si era seduto stancamente vicino allo spagnolo. Al suo posto entrò Anne Marie, in lacrime
-Stupida…- ringhiò l’italiano, stizzito più che altro da come era conciato.
Stranamente, per la prima volta, Antonio non gli diede retta: stava solo aspettando il momento in cui il chirurgo sarebbe uscito e avrebbe detto che l’operazione era riuscita perfettamente.
-Eih, ti hanno tagliato la lingua, per caso?- gli domandò quello, spazientito
-Sto bene. – la sua voce era flebile.
Lovino lo fissò per un secondo, con le sopracciglia aggrottate e se tutto quello fosse accaduto in un momento più opportuno, forse lo spagnolo avrebbe sentito dentro di sé nascere la quintessenza della felicità
-Ti…volevo dire…- sembrava a disagio, molto a disagio –…insomma, mi ha attaccato alle spalle e tu…-
Antonio lo fissò con gli occhi sgranati, ma subito il suo stupore si tramutò in un sorriso benevolo –Prego, non c’è di che –
Lovino lo fissò male –Che vorresti dire? Non ti stavo ringraziando, bastardo, era tuo dovere intervenire…Ti avrei denunciato se non l’avessi fatto. – anche se cercava di essere disinvolto, lo spagnolo avvertì una lieve tensione nei suoi modi di fare. Il suo sorriso si fece ancora più largo
- Lovinito caro, non c’è bisogno di fare il ritroso. – alzò una mano per cingergli le spalle, ma l’occhiata furiosa dell’italiano lo convinse a desistere.
Si alzò in piedi e cominciò a percorrere il corridoi a testa bassa, cercando di concentrare il suo pensiero alla strana pavimentazione del luogo, ma non ce la fece. Il suo pensiero era fermo al suo migliore amico e ad Elizabeta, che era entrata nell’ospedale svenuta e non era più uscita dalla sala in cui l’avevano portata. Chissà cosa le era successo…non le era mai sembrato il modello di persona che sveniva per certe cose.
Vide un medico uscire dalla sala operatoria, il quale gli fece cenno di venire. Era ormai da un’ora e mezza che attendeva notizie su Francis
-Il suo amico sta bene…- bisbigliò, come se fosse un gran segreto –Ha bisogno di riposo, ha subito un’operazione complessa. –.
Il cuore del ragazzo prese a battere velocemente, era come se il sangue fosse tornato ad affluire su tutto il corpo –E’ salvo?-.
-Ma certo. La ferita era piuttosto superficiale, per fortuna e lo teniamo sotto controllo solo per scaramanzia. Non ci aspettiamo che la ferita si infetti ma…- si interruppe, perché Antonio gli aveva preso la mano e aveva cominciato a stringerla in modo caloroso.
-La ringrazio, dottor…- lesse il nome sulla targhetta –Forster. –.
Il viso del dottore sembrava volesse dire “faccio solo il mio dovere”.
-Quando posso andare a…-.
-Anche questo pomeriggio. – il signor Forster sorrise –Per ora è meglio non disturbarlo troppo, solo parenti. –.
Lo spagnolo annuì; doveva avvertire gli altri…
Andò da Arthur, che non appena lo vide, si alzò in piedi tutto sollecito –Come sta?- fu la prima cosa che gli chiese.
-Bene. Ha bisogno di riposo. – L’inglese sospirò e arrossì allo stesso tempo.
Guardò il suo orologio da polso e vide che erano già le due –Io devo…i bambini…- farfugliò imbarazzato, ma lo spagnolo lo interruppe con la sua voce tranquilla.
-Non preoccuparti, vai. Qui ci pensiamo noi. – fu in quel momento che gli venne in mente una meditazione che lo risollevò completamente. Salutò Arthur con impazienza, si diresse verso Lovino e si posizionò davanti a lui.
-Vuoi uscire con me?- lo disse senza vergogna, con un coraggio riaffiorato da chissà dove. Pensava che dopo aver affrontato una banda di asiatici piuttosto combattiva, ce l’avrebbe fatta a conquistare quell’adorabile ragazzo.
L’italiano abbassò il giornale che aveva in mano –Prego?-
L’esplosiva fermezza che aveva ritrovato si spense proprio come si era accesa –Vuoi…uscire con me?-

Ti prego, Signore, dovunque tu sia, fa che accetti…

-Ora?- aveva uno sguardo quasi minaccioso, come se ritenesse inconcepibile che gli rivolgesse una domanda del genere in una simile situazione. Ad essere sinceri, non aveva poi tutti i torti…
-No, no…quando vuoi tu. – si affrettò a rispondere, esibendo un sorrisetto nervoso di circostanza
Prometto che andrò a messa tutti i giorni…anzi, no, tutte le domeniche. E non mi sbronzerò mai più. A parte nei sabati sera e durante le feste di compleanno…
-E perché vuoi uscire con me, bastardo?-
Perché sei bellissimo –Mi stai simpatico. – fece spallucce simulando indifferenza; tuttavia, dentro di sé, si era quasi pentito di averglielo chiesto.
Infatti, l’altro lo guardò ancora più scettico di prima –Uscire per dove?-
-Per andare a cena. –
Non capiva come fosse possibile, ma quell’italiano si era rabbuiato ancora di più. Con sua enorme sorpresa, si alzò in piedi per avvicinarsi a lui –Ci vediamo all’”Imperus”, venerdì, alle otto e mezza. – sembrava che stesse dando un ordine, più che un appuntamento.
Antonio non sapeva dire se fosse più sorpreso o contento. Aveva accettato di uscire con lui! Lovino Vargas! Non poteva esserci migliore cosa al mondo. Chissà com’era possibile che un avvenimento così bello fosse avvenuto dopo un altro altrettanto dispiacevole. Non vedeva l’ora di sapere che faccia avrebbe fatto Francis dopo averglielo detto
- L’Imperus è il ristorante con una stella Michelin, vero?- si informò un po’ titubante.
-Sì, è un problema?-
Diamine, certo che era un problema! Lo spagnolo non poteva permettersi una cena in un ristorante di lusso; viveva in un monolocale a Queens, aveva l’Harley Davidson di suo padre come mezzo di trasporto e in più metà del suo misero stipendio lo spediva ai suoi genitori
-Ecco, io…- era come sprofondare in un’immensa voragine. Si stava mettendo davvero in cattiva luce con lui -…non posso permettermelo. –
Per tutta risposta, l’italiano sbuffò impaziente –Guarda che l’Imperus è di mio nonno. –
Era come ricevere una botta in testa che si rivelava illuminante –Come, di tuo nonno?- il tono di voce di Antonio era sorpreso: e chi l’avrebbe mai detto, che quel ragazzo aveva per nonno il proprietario di un ristorante da una stella Michelin?
-Sì, Cesare Vargas. – fece un gesto di stizza -Ti dà fastidio, bastardo?-
-No, no, al contrario…sono sorpreso!-  gli rivolse nuovamente un largo sorriso, che l’altro non ricambiò. Lo vide girarsi di spalle e andarsene
-Dove stai…?-
-…Vado a togliermi questa merda. – indicò scocciato il ghiaccio che aveva in mano –Sembro un idiota…-
Antonio lo seguì con lo sguardo fin che non scomparve dalla sua vista. Alzò gli occhi al cielo e mandò dei baci verso il soffitto, fingendo di non vedere che tutti lo stavano guardando come se fosse un pazzo.
Io sono un uomo di parola. Si disse, al limite della contentezza.
 Fu in quel momento che vide Gilbert entrare in ospedale, non degnandolo neanche di uno sguardo.
Era successo qualcosa ad Elizabeta.
 
 
 
 
Salve a tutti quanti voi che siete giunti fin qui. Questo capitolo è sicuramente il più difficile che io abbia scritto per questa storia, quindi spero sarete sinceri con me e mi direte se sono stata brava o meno. Ha subito dei pesanti ritocchi dalla prima all’ultima riga perché non mi soddisfaceva mai e spero che questo risultato finale sia ottimale per tutti.
Forse sarebbe stato più difficile senza l’aiuto della mia beta che mi ha saputo fornire ottimi consigli e senza la mia solita canzone ispiratrice: “I’m shipping up to Boston” dei Dropkick Murphy’s.
Dedico il capitolo a tutte le persone che seguono la storia, in particolare The Naiads per il sostegno che mi ha dato nel corso dello svolgimento della storia con le sue recensioni! Grazie di cuore a tutti!
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 15
*** Mai dire mai ***


 Ansia. Era questo quello che provava essenzialmente Gilbert in quel momento.
Si era precipitato all’ospedale subito dopo aver ricevuto la telefonata in ufficio ed era stata una fortuna per lui che era in pausa, altrimenti non sapeva come spiegare la situazione di prolungata assenza al direttore dello studio legale.
- C’è stata una sparatoria e la signorina Hedervary è svenuta, adesso è in ospedale. – erano queste le parole che gli rimbombavano in testa. La sua Liza stava male e lui doveva assolutamente stare vicino a lei altrimenti, che razza di magnifico convivente sarebbe stato?
Era arrivato nel corridoio principale, passò davanti ad Antonio senza neanche degnarlo di uno sguardo. Aveva una faccia piuttosto malridotta, ma anche un’aria esplicitamente raggiante: chissà perché…
-Cerco Elizabeta Hedervary. – aveva il fiatone e fu un po’ oltraggiato nel presentarsi in quel modo a qualcuno. Certo, era comunque bellissimo, ma era tutto sudato per la corsa e per l’ansia e questo non gli faceva onore –è una poliziotta, insomma, io non so se…- non riusciva neanche a formulare una frase di senso compiuto.
Dopo un periodo di perplessità, l’infermiere si illuminò –Sì, certo, la ragazza che è svenuta…al reparto ecografie. –
Gilbert se ne andò senza neanche ringraziarlo e controllò nei cartelli dove fosse la sala che quell’uomo gli aveva indicato; al primo piano. Salì le scale con trepidazione e arrivato alla destinazione, fu molto sorpreso di trovare Elizabeta lì, in piedi ad aspettarlo. Sulle sue labbra aleggiava un sorriso fulgente, forse il più bello che Gilbert le avesse mai visto. Stava bene, questa era la cosa più importante, non era ferita e non aveva nulla di particolare, salvo una busta di carta in mano.
La ragazza gli corse incontro, abbracciandolo come mai aveva fatto prima d’ora. Era talmente fulgida che sembrava brillasse di luce propria –Sono contenta di vederti. Ti amo, Gil. – il suo tono di voce non era ironico e questo al tedesco non piacque.
Di solito, con lui l’ungherese non usava dire certe cose; sapeva che lei lo amava e non si perdevano in frasi sdolcinate e terribilmente fatte per dirselo.
-Stai bene? – domandò, tirando dentro di sé un sospiro di sollievo. I suoi capelli odoravano di uno strano aroma di polvere e di chiuso; storse la bocca disgustato.
-Sto bene. Stiamo tutti bene. - era così radiosa in quel momento, che Gilbert non capiva come fosse possibile che fino a poco tempo prima era priva di sensi. Forse era così che ci si sentiva dopo averli recuperati, d’altronde non era un medico e non era mai svenuto in vita sua.
Storse la bocca seccato -Avevano detto che era urgente, mi sono preoccupato. -
La ragazza assunse un’espressione strana; era come divertita da qualcosa che conosceva solo lei –Mi dispiace di averti fatto stare in pensiero, ma dovevi venire. – gli prese la mano, la strinse con vigore e gli passò la busta che aveva con sé.
Gilbert era disorientato, un po’ confuso a dirla tutta. Non gli piaceva essere tenuto all’oscuro di qualcosa che lo riguardava –E questa cos’è?- sventolò la busta davanti agli occhi di lei
-Aprila…- sembrava divertirsi un mondo.
Sospirò e fece come gli aveva chiesto, domandandosi cosa mai gli avesse nascosto quella donna di così tanto importante che la emozionava così tanto.
Dentro la busta c’era un’ecografia, come doveva aspettarsi del resto, visto che si trovavano davanti a quel reparto. Guardò l’immagine sconcertato, poi guardò Eliza e poi ancora l’immagine. Era la sua pancia, questo l’aveva capito…e c’era qualcosa dentro…
Ripensò alla nausea di Elizabeta, ai suoi sbalzi d’umore, alla voglia improvvisa di funghi e gulasch. Non era un virus, pensò tra sé e sé raggelato
-Tu…tu sei…?- no, non era possibile! Sperava che l’ungherese lo smentisse e invece lei annuì, sempre più splendente per quell’ambito surreale.
Per Gilbert fu come se il mondo avesse improvvisamente smesso di girare e stesse andando a rallentatore: Lizzie aspettava un bambino.
Lui sarebbe diventato papà.
Era uno scherzo?
-Da cinque settimane. Oh, Gil, non è meraviglioso? – si gettò nuovamente al suo collo e il tedesco rispose all’abbraccio con gli occhi ancora sgranati per la sorpresa. Accarezzò i capelli della sua ragazza con aria assente, ignorando la felicità che stava manifestando: non riusciva ad immaginarsi padre o in generale, in compagnia di un bambino.
Evidentemente, lei se ne accorse, perché si ritrasse e lo guardò piuttosto delusa. Si allontanò un po’ da lui, come se ne volesse prendere le distanze –Ma se tu non vuoi…insomma, non ti sto trattenendo e non sei obbligato a restare con me. Io so cavarmela e quindi…- sembrava in difficoltà, come se quella era la prima volta che prendeva in considerazione un’ipotesi del genere.
Il tedesco la prese per i fianchi –Eih, non pensarci nemmeno. Vuoi liberarti di me?-
Non avrebbe lasciato Elizabeta solo perché era in dolce attesa. Era da vigliacchi battere la fiacca per un motivo così stupido e poi lui non voleva abbandonare né lei né tanto meno il bambino. Era meravigliato, certo, ma questo non voleva dire che non fosse contento.
-No, no…- Lei scosse la testa velocemente, sembrava essersi rasserenata -…Pensavo che ti spaventasse l’idea di avere un figlio e…-
Gilbert gli mise un dito sulla bocca –Scherzi? Io sono un essere superiore, non mi spaventa certo una cosa simile .- il suo tono era quello beffardo di sempre -E poi…perché no? Sono felice, davvero. –
L’ungherese l’abbracciò di nuovo e insieme uscirono dall’ospedale, mano nella mano –Ma ci pensi?- domandò lei raggiante, una volta fuori –Noi due, genitori. –
L’unica risposta dell’altro fu un sorriso.
-Secondo te è maschio o femmina?- era talmente su di giri che sembrava vivere in un mondo tutto suo. Gilbert sapeva che lei nutriva un forte desiderio di maternità, ma non immaginava fosse così possente dentro di lei, talmente poderoso da renderla così elettrica ed emozionata.
-Per me è un maschietto. – continuò toccandosi il ventre in maniera dolce, probabilmente già figurandosi nella sua mente il neonato.
-Io dico che è femmina. E io ho sempre ragione.– il tedesco incrociò le braccia, come se non volesse sentir ragioni.
Rimasero in silenzio per un po’ fin che non fu Gilbert a romperlo definitivamente –Eih, Liz? Ma possiamo ancora…?- non lasciò finire la frase per rendere la domanda ancora più allusiva.
L’ungherese scosse la testa allibita perché aveva già capito cosa intendeva l’altro e gli diede un leggero scappellotto sulla nuca, come quelli che si danno ai ragazzini –…credo di sì. Fino ad un certo punto credo, perché al nono mese mi sembra un po’ difficile…- si interruppe e guardò di nuovo il suo compagno, sorridendo con aria lungimirante –Io ho fame, andiamo a mangiare del gulasch?-.
Il tedesco scosse la testa. Voglie. Doveva abituarsi a tutto quello per almeno i prossimi nove mesi.
 
 
 
-Papà, perché sei triste?-
Era la terza volta che Alfred gli aveva posto la stessa domanda. All’inizio aveva creduto che suo padre fosse abbattuto per via degli spinaci orrendi che aveva servito per pranzo e a pensarci bene, neanche lui era molto felice di mangiarli.
Già di per sé, gli spinaci erano una pietanza che mal sopportava, pur avendogli la maggior parte degli adulti ficcatogli in testa che mangiare quei disgustosi cosi verdi ti faceva diventare forte come Braccio di Ferro, ma se una pietanza terribile veniva messa in mano ad Arthur Kirkland diventava una sorta di bomba H biologica.
Tuttavia, siccome era un eroe, doveva consolarlo lo stesso, anche se condivideva il motivo della frustrazione di suo padre.
-Triste?- Arthur si sforzò di assumere un sorriso che anche ad un miglio di distanza avrebbero decretato come falso –Ma no, ero solo in pensiero. –
-In pensiero per cosa?- continuò ostinato.
-è successo qualcosa al lavoro?- diede manforte Matthew e per l’ennesima volta suo padre si chiese come faceva quel bambino a capire le situazioni al volo.
L’inglese sospirò sconfitto e pensò a come raccontare la vicenda di quella mattina ai suoi figli senza spaventarli troppo –Vedete…delle persone…hanno cercato di fare del male a qualcuno…e noi della polizia siamo andati a fermarli, ma…-.
-Davvero?- Alfred lo interruppe, euforico come non l’aveva mai visto, il che era davvero tutto dire. Lo guardava come se avesse scoperto la formula della felicità –Avete fermato dei cattivi?-
-Sì. – suo malgrado, Arthur sorrise. L’innocenza di quel piccolino lo inteneriva ogni volta –Ma Francis…ecco, gli hanno sparato. –.
Per un attimo giurò che uno di loro si sarebbe messo a piangere, perché lo guardarono entrambi con la bocca aperta, Matthew specialmente; sembrava che avessero ferito lui invece che il francese
-Lo zio Francis? Sta bene papà? –.
Sapeva cosa significava per i suoi figli la perdita di un’altra persona: avevano già subito un brutto trauma per la loro mamma e sicuramente non volevano che la storia si ripetesse con Francis
-Certo, sta bene. – si affrettò a rispondere per rincuorarli, accarezzando in maniera schiva la guancia di entrambi.
-Parlaci della sparatoria, papà. –lo incoraggiò Alfred, con voce rianimata, non stava più nella pelle nello scoprire quei dettagli emozionanti.
A dire il vero, gli sembrava più interessato alla dinamica dell’arresto che ad altro e una volta saputo che Francis non correva pericolo di vita, non tornò più sull’argomento.
Matthew invece sembrava davvero molto colpito dall’intera situazione e rimase ad ascoltare in silenzio suo fratello e suo padre che parlavano, fin che non li interruppe con la sua vocetta timida –Papà, lo andrai a trovare, vero?-
Lo dovette ripetere minimo cinque volte prima che l’inglese si accorse che stava parlando –Come?-
- Francis, lo andrai a trovare?-
-Oh…- non voleva mettersi in ridicolo davanti a quel francese a dire la verità. Non si erano parlati gran che dalla loro uscita e l’idea di andarlo a trovare in ospedale lo disturbava a dir poco.
Ma vedere Matthew chiederglielo con tanta insistenza, provocò in lui una sorta di tristezza verso il suo collega, una sorta di empatia che gli aveva trasmesso suo figlio -…Credo di sì. –
Con il tempo, Arthur aveva cominciato a riconoscere in modo più nitido le esigenze dei suoi figli; Alfred aveva bisogno di avventure stimolanti, preferiva di gran lunga essere trattato come un adulto piuttosto che come un bambino pieno di incertezze.
In più, adorava che qualcuno lo elogiasse, ma l’inglese non lo riempiva mai di troppi complimenti, per smorzare di tanto in tanto il suo ego fin troppo sviluppato per un piccino di cinque anni.
Per Matthew invece bastava soltanto che qualcuno lo ascoltasse per renderlo felice e nient’altro e infatti, sorrise quando suo padre diede una risposta al suo quesito.
-Quando?-
-Anche oggi stesso, se ti fa così piacere. Dovremo aspettare che arrivi Lily, però…- una cosa era certa; se doveva andare da Francis, non avrebbe portato con sé anche loro e il perché era ovvio: per i suoi figli l’ospedale era una specie di simbolo della morte, perché era lì che Eileen Jones aveva smesso di vivere.
Uscì di casa alle quattro e per lui fu come ripetere a ritroso il percorso che aveva fatto quella mattina, tornando dall’ospedale.
L’arresto che avevano fatto sfilò lentamente nei suoi pensieri, confusa così come se lo ricordava; l’inseguimento al ragazzino, il rumore lancinante della pistola, il viso di Francis agonizzante…si chiedeva come stava…se si era ripreso o se aveva ancora male al braccio.
Non che gli importasse tanto della rana in sé per sé, ma non voleva far dispiacere i figli dicendo che il loro francese preferito soffriva ancora molto.
Parcheggiò nel posto riservato ai pazienti dell’ospedale e si premurò di far durare quella visita meno di un’ora, altrimenti avrebbe dovuto pagare pure il pedaggio; più andava avanti con quella storia, più si convinceva che quella visita a Francis era la peggior idea che avesse mai avuto.
La camera del suo collega non fu difficile da trovare, era una stanza a tre letti, posta in un reparto molto più esclusivo rispetto agli altri. Da essa, l’inglese vide uscire una signora sulla sessantina che ripeteva tra sé che suo nipote era uno sconsiderato e che presto l’avrebbe fatta morire di crepacuore.
Doveva trattarsi della famigerata “zia Clemence”, pensò. In un primo momento gli venne voglia di chiamarla e ringraziarla dell’auto, ma poi decise che era meglio far finta di nulla e senza pensarci troppo, aprì la porta della camera di ricovero con un colpo secco.
Francis era sdraiato sul primo letto, più distanziato rispetto agli altri e non assomigliava neanche lontanamente ad un uomo addolorato che si è beccato un colpo di pistola sul braccio, a parte per il fatto che l’arto destro era ricoperto da una candida fasciatura immacolata.
L’infermo stava raccontando qualcosa ad un infermiera che sembrava stesse per avere un mancamento da un momento all’altro, per quanto era presa dalla storia e da Francis (Arthur era più propenso per la seconda opzione) -…e poi, mi hanno sparato. È stato brutto. –.
-Oh, poverino!- stava cinguettando, simulando un’esagerata apprensione. L’inglese scosse la testa, non credendo ai suoi occhi.
Ora, lui non capiva come facessero tutti, tranne rare eccezioni intelligenti, a cascare nella rete di quel ragazzo.
-Guardo il lato positivo. – il francese esibì un sorriso smagliante da palcoscenico –Se non mi avessero sparato, non avrei mai conosciuto un’infermiera graziosa come lei. –.
Lei per tutta risposta emise una risatina stridula –Com’è gentile, signor Bonnefoy! –.
Scosse la testa –Ma si figuri. Io dico solo la verità…- in quel momento si accorse della presenza di Arthur nella stanza e gli dedicò uno dei suoi sorrisi da copertina di Vogue. Ci mancava soltanto che i suoi denti si mettessero a brillare.
-Oh, ha visite…- l’infermiera andò fuori, costeggiando l’inglese, ancora scossa da risatine lusinghiere e lui alzò gli occhi al cielo, ancora più incredulo di prima.
Si avvicinò a Francis, con un cipiglio molto simile a quello di sua madre quando Ian rientrava tardi a casa -Stai civettando con l’infermiera servendoti della sparatoria?- ad essere sinceri era più sorpreso del fatto che quella donna perdesse tempo con quel pervertito invece di svolgere il suo lavoro. Si sedette stancamente sulla sedia vicino al letto.
Francis alzò le spalle indifferente –Opero con i mezzi che ho. – gli strizzò l’occhio in maniera sfacciata –Non mi aspettavo di vederti, ad essere sinceri…-.
Sospirò. Neanche lui si aspettava di andarlo a trovare, eppure ora era lì –Già. Matthew era preoccupato e ho deciso di farlo contento. – cominciò subito a mettere in chiaro; non voleva assolutamente dare al suo collega l’impressione che tra loro due potesse esserci del tenero
-Ah, non era neanche tua l’idea!- ridacchiò come se trovasse divertente tutta quella situazione. Poi cambiò espressione e il suo tono di voce si fece improvvisamente più grave, quasi ammaliante –Sai, ti ho visto ansioso quando mi hanno trasportato qui. –.
Arthur storse il naso –Come tutti, del resto. Ti trovo bene. –.
Sentì gli occhi del francese addosso a lui e arrossì per la vergogna –Nel senso che…pensavo ti stessi contorcendo per il dolore ed invece stai bene. -  con Francis bisognava sempre precisare tutto
- L’avevo capito. Magari lo speravi…- la sua non era una domanda, ma piuttosto un’affermazione, quasi una certezza.
Il britannico ghignò –Non immagini quanto. – mostrò i denti mordace
Al contrario, Francis esibì un sorriso un po’ obliquo –Però sei qui…-
-Non metterti strane idee in testa. – adoperò un tono di voce abbastanza brusco e si alzò in piedi –Non ti sopporto. Era Matthew che si preoccupava, non io. –
-Sei un padre esemplare, dovrebbero darti un premio. - rise poco convinto e riprese a parlare, questa volta però senza usare toni seducenti.
– Senti, se ti dicessi che il cuscino mi da fastidio, tu cosa faresti?-.
Arthur scosse la testa.
Non si sarebbe messo a fare il suo servetto, neanche se quelle erano le sue ultime volontà prima di morire –Ti risponderei che per fortuna quel “Mao Tze Dong” ti ha sparato ad un braccio soltanto e che quindi te lo puoi sprimacciare anche da solo . –
Adorava la sua ironia, quando ne aveva bisogno, era sempre l’arma più efficace e lo faceva sentire quasi potente.
L’altro sbuffò scocciato, gli dedicò una linguaccia per nulla amichevole e si mise a braccia conserte
-I bambini?- continuò poi
-Con Lily…-
-Ah. – fece scivolare le dita tra i suoi capelli per sistemarseli –Avevi detto che Matthew era preoccupato per me. – la sua inflessione malpensante non piaceva per nulla all’altro.
Sapeva cosa Francis stesse pensando; che la storiella del bambino in pensiero era solamente una brutta scusa malriuscita, un alibi per vederlo senza ammettere che fosse Arthur stesso ad essere in ansia per lui –Volevano venire, però…- si sforzò di assumere una faccia compita, ma proprio non ci riusciva a rimanere calmo. Non gradiva tutte quelle allusioni maliziose sul suo conto –…Eileen è morta in ospedale e non vorrei che rievocassero brutti ricordi. –
Francis ci credette, o finse di crederci, ed entrambi rimasero in silenzio tomba a fissare un punto imprecisato della stanza. Era una situazione alquanto surreale
-Che tipo era?-
Arthur alzò lo sguardo per guardarlo dritto negli occhi. Non aveva mai visto gli occhi di Francis da così vicino e si stupì di quanto fossero azzurri. Non erano né troppo chiari da essere ghiaccio e neanche troppo scuri da potersi confondere con il nero; sembravano pezzi di cielo ed erano…davvero molto belli, doveva ammetterlo –Di chi stai parlando?-
-Di Eileen, ovvio. –
Era strano, nessuno tranne i suoi figli gli aveva mai chiesto alcunché su Eileen, forse per rispettare il suo lutto –Che tipo era?- ripeté, abbozzando un sorriso malinconico –Pazza completa. –
Il francese corrugò la fronte; forse non capiva come una persona tutta d’un pezzo come quell’inglese potesse innamorarsi di una “pazza completa”.
-Sul serio. Quando l’ ho conosciuta, stavo leggendo in giardino. Era scalza perché adorava camminare a piedi nudi, quindi immagina come ci sono rimasto quando ho visto una senza le scarpe, vestita in modo sgargiante venire verso di me…-.
Francis, conoscendo fin troppo bene la personalità dell’inglese sorrise ed annuì –Si salvi chi può, eh?-.
Rise di rimando –Già. Non mi aveva neanche salutato, non mi aveva detto nulla. Si era seduta per terra e mi aveva chiesto “Tu hai fatto una scuola di polizia, giusto? No, perché volevo chiederti se ti arrestano per aver strappato una pagina della Costituzione”…-
L’altro strabuzzò gli occhi –Ha strappato una pagina della Costituzione?- non aveva mai sentito una storia simile e soprattutto, non si aspettava che Arthur uscisse con persone che staccavano pagine dai libri
Fece spallucce –Mi auguro di no, al massimo non lo ha fatto apposta. – sorrise –Lei era Cherokee per un quarto. –
Il francese non capiva il nesso tra l’eccentricità di Eileen e il fatto che discendesse dai nativi americani, ma forse il ragazzo stava solamente ricordando alcuni particolari della sua precedente fiamma e quindi non valeva la pena di sforzarsi per trovarlo.
Ascoltò comprensivo e guardò la mano di Arthur, poggiata fiaccamente sul letto. Chissà quante volte Eileen l’aveva tenuta stretta nella sua…
-Come ti sei sentito, quando ti hanno sparato? – mormorò piano l’inglese, come se non volesse farsi sentire. Si sentiva sullo stesso ripiano dell’infermiera con cui Francis stava flirtando pochi minuti prima e su due piedi si vergognò della domanda che aveva appena fatto.
L’altro aggrottò le sopracciglia di rimando, vagamente sorpreso e compiaciuto al tempo stesso –è una sensazione che auguro a nessuno. Neanche a te, pensa un po’. – si concesse una risata un po’ funerea –No, sul serio. Non ho mai provato così tanto dolore in vita mia e la zia Clemence dice che sono stato uno sciocco sconsiderato. Inutile dirgli che non l’ ho voluto io che andasse a finire così. –
Arthur non confutò nulla, colmando la loro conversazione in uno di quei soliti silenzi scomodi.
Era stranamente più occupato a guardare il viso dell’altro in maniera molto concentrata; si era messo in testa di trovare almeno un difetto nel suo volto perché, Francis aveva pure il carattere più schifoso di questo mondo, ma oggettivamente era di ampia attrattiva . Perfino Arthur ne era convinto.
-Ho qualcosa che non va?- il collega interruppe i suoi pensieri.
-Eh? – distolse subito lo sguardo, imbarazzato da morire.
Alzò gli occhi al cielo –Sei sordo? Ti ho chiesto se ho qualcosa che non va . – per la prima volta, era il tono di Francis ad essere aspro e non il suo.
In quel momento avrebbe tanto voluto che apparisse una botola per farlo sparire –No… cioè, sì…hai un aspetto orribile. – si passò una mano dietro la nuca, impacciato
-Non si direbbe, da come mi guardavi. - aveva un tono oltremodo petulante, come se provasse gusto a metterlo sulle spine.
-Io? – assunse un’espressione vagamente offesa - Non ti stavo guardando, ero immerso nei miei pensieri. – cavolo, cavolo…come gli era venuto in mente di guardarlo in faccia per così tanto tempo?  Ormai conosceva abbastanza quel pervertito per capire che certi particolari li coglieva e li trasformava in significati che solo lui sembrava conoscere.
D’altro canto, Francis finse di convincersi –Va bene…a cosa stavi pensando?- sorrise in maniera sinistra.
-Io…stavo pensando a quanto deve far male…- il suo tono di voce era sincero, quindi non stava affatto mentendo. Oppure, cosa assai ammissibile, era un bravo attore.
Fece un verso di comprensione –Beh, credimi, non è piacevole…anche ora la ferita mi prude un po'. – corrugò la fronte, come per sottolineare la frase con un gesto di dolore
-Lo credo…-
Smise di parlare. Osservò Francis mentre cercava di cambiare posizione e da supina, mettersi a fatica con il dorso appoggiato sulla spalliera del letto. Arthur ignorava del tutto il motivo di tutte quelle manovre: forse, parlare con qualcuno da sdraiato doveva essere fastidioso…
Erano talmente finitimi che l’inglese riusciva addirittura a sentire il respiro dell’altro sulla sua pelle; era la prima volta che lui e la rana erano così vicini l’uno all’altro, così circostanti che poteva vedere ogni singola sfaccettatura dei suoi occhi e il profilo del suo naso all’insù, che faceva molto “Made in France”.
Si sentì strano, come se il suo corpo fosse improvvisamente passato sotto il controllo di qualcun altro; intuiva benissimo quali fossero le intenzioni di Francis, che si stava pericolosamente avvicinando e i requisiti c’erano tutti, ma lui…cosa diamine stava facendo?
- Francis?- lo chiamò con una nota tesa.
-Sì? – rispose, disinteressato, continuando a virare lo sguardo sulle labbra dell’altro.
Il britannico sentì un brivido percorrergli dietro la schiena. Se il suo cervello fosse stato un’azienda, molto probabilmente a quell’ora i suoi neuroni stavano facendo sciopero.
-Devo andare. – si alzò bruscamente dalla sedia, la testa del francese era ancora protratta verso la sua direzione.
Non poteva neanche pensarci; stava davvero per baciare Francis! E quello non era il preludio di un bacetto sulla guancia, come quelli che si scambiano tra di loro i bambini di sette anni.
A peggiorare la situazione ci pensò anche Antonio, che in quel momento pensò bene di entrare nella stanza con un sorriso giulivo stampato sulle labbra.
-Ciao France…- guardò Arthur e storse il naso. L’inglese notò che in mano aveva un pacco regalo enorme –Ho interrotto qualcosa di importante?- sembrava canzonatorio, come se la sapesse lunga.
Un colorito purpureo si spanse sulle guance del britannico –No. No, io me ne stavo giusto andando. – ridacchiò in maniera stupida e dentro di sé stava urlando perché mai si stesse comportando in quella maniera così insensata.
Antonio si disinteressò presto ad “Arturo”, come lo chiamava lui, e scoccò un’occhiata vittoriosa verso Francis –Indovina? Lovino e io usciamo insieme. –.
L’inglese vide il volto dell’odioso ravvivarsi -Sul serio?- la felicità dell’infermo era quasi tangibile
-Sì, domani sera. –.
Arthur uscì da quel luogo senza salutare nessuno. Si sentiva come se avesse appena preso una terribile botta allo stomaco, avvertiva un senso di malessere dappertutto.
Lui odiava Francis, non lo sopportava. E allora perché per un fugace, stupidissimo secondo, era quasi sul punto di baciarlo?
A sua difesa, c’era da dire che a lui non sarebbe mai venuto in mente l’idea di baciare qualcuno in una stanza di ospedale, meno che meno il suo nemico number one. Era stato l’altro a dare inizio a tutta quella scenata ed era altrettanto colpa sua se adesso lui si stava fissando su tutte quelle paturnie esistenziali.
Lui non poteva provare, faceva perfino fatica a produrre quel suo pensiero nella mente, una sorta di affetto per un uomo. Era un’idea inconcepibile, qualcosa che non poteva esistere.
Lui aveva due bambini e li aveva fatti con una donna, fine della storia. Non poteva, di punto in bianco, preferire anche gli uomini, specie i francesi biondi e pervertiti. Era fuori discussione.
Ok…cercò di prendere fiato e di rifletterci con mente più lucida Poniamo il caso, in maniera del tutto ipotetica, che a me piaccia  un uomo. Non ci sarebbe nulla di male, giusto?
Molte persone hanno fatto cose grandiose e amavano quelli del loro stesso sesso…ci rifletté un attimo, stringendosi convulsamente le mani.
Il solo fatto che stesse pensando a quelle teorie assurde, lo facevano sentire un cretino.
Oscar Wilde! È il mio scrittore preferito e lui preferiva di gran lunga  il sesso forte…oppure…Freddie Mercury. Non gliene importa a nessuno con chi sta, lo ammirano lo stesso. Dico io, come si fa a non apprezzarlo? Canta in maniera divina!
Paul Verlaine preferiva Arthur Rimbaud a sua moglie…ma lui era francese, forse non conta…
Ci pensò ancora più a fondo Edward Forster! Non mi fa impazzire come scrittore, ma oggettivamente scriveva bene. Diamine, viveva a Bloomsbury! Ed era gay…
Ripensò a tutti i poeti greci, a tutti gli imperatori romani e ne dedusse che non era poi un problema essere così. O forse per lui non era tanto quello il nocciolo del dilemma, ma il fatto che tra tutte le persone sulla faccia della terra, fosse proprio quel francese insopportabile a perseguitarlo.
Ma tanto… concluse fieramente Sto divagando e in maniera del tutto ipotetica, per giunta. A me Francis non mi piace e mai mi piacerà. Non mi attirano gli uomini, se proprio devo dirla tutta…Non trovo forse che Lily o Sesel siano delle belle ragazze? Non volevo forse uscire con una di loro?  Sì, giusto! Perciò, morale della favola: io non sono nulla, io guardo solamente le donne e il caso è chiuso. Non pensarci mai più, Arthur Kirkland, questi giudizi ti rendono solo nervoso.
 Concluse soddisfatto, dirigendosi alla macchina e delineando un sorrisetto zuccheroso sulla sua faccia.
 
 
 
 
Salve a tutti! Lo so, ho aggiornato molto presto secondo i miei standard, ma ho deciso improvvisamente di portarmi un po’ avanti con la storia, perché questo è un po’ un capitolo decisivo.
So che qualcuno molto probabilmente non condividerà la mia scelta delle coppie, anzi, molti diranno dentro di loro: eih, ma questa non è la stessa tizia che tifava UsUk (anzi, UkUs) e Franada in maniera quasi folle?
Beh, in questa storia né UsUk né Franada potevano esserci e poi, sono dell’idea che non ci si debba per forza fossilizzare su una sola coppia. A me possono pure proporre una Francia x Svezia (oh, my God, questa è inquietante o.O) e non avrei problemi a ricavarne una storia.
Detta in maniera spiccia; sono più che convinta che una fan UsUk possa tifare benissimo anche FrUk e viceversa. Per lo meno, io sono fatta così ^_^
Quindi, ripeto, mi auguro che questo capitolo vi abbia emozionato anche se magari non tifate la coppia che ho proposto. Spero soprattutto che i due personaggi siano IC. Dedico il capitolo a Tomato_chan, perché so che in un certo senso questo momento se lo aspettava. O per lo meno, l’ ho intuito…correggimi se sbaglio xD
E naturalmente, lo dedico a tutti quelli che mi seguono. Grazie di tutto cuore <3
La canzone che mi ha ispirato è “Undisclose Desire” dei Muse.
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 16
*** Due cuori e un tavolo appartato ***


 Elizabeta era sempre felice di ricevere ospiti a casa e ora che sapeva di aspettare un bambino, non stava più nella pelle nel telefonare tutti per avvisarli del lieto evento.
Anche Gilbert superato lo shock iniziale, ci teneva particolarmente a far sapere che presto si sarebbe dovuto occupare di un bebè che, ne era certo, sarebbe stato magnifico tanto quanto lui.
-Ha per padre me…cioè, me! Quel piccolo è nato fortunato. E poi, ha per madre Liza, è matematico che sarà il bambino più bello di questo mondo. – stava dicendo in tono particolarmente orgoglioso a Antonio e Francis, nel salotto di casa sua.
 I medici avevano fatto uscire il francese dall’ospedale quel pomeriggio, perché la sua ferita al braccio non aveva riscontrato infezioni, e adesso esibiva all’altezza del braccio una fasciatura immacolata.
Entrambi gli amici del tedesco emisero risolini sommessi; avrebbero scommesso qualunque cosa sul fatto che Gilbert avrebbe tirato fuori dal cilindro una delle sue frasi vanagloriose.
Antonio come al solito, era quello che si mostrava più felice di tutti -Che nome gli darete? Oh, grazie Lizzie…- in quel momento Elizabeta, da brava padrona di casa, era riemersa con quattro tazzine ricolme di caffè fumante.
-Siamo indecisi. Se è maschio vogliamo chiamarlo Joseph, come mio padre…- nella voce della ragazza era avvertibile quel fremito di gioia che hanno quasi tutte le neo mamme quando parlano dei loro figlioletti.
Il suo ragazzo scosse la testa –Oppure Frederick,  come il mio…se è una femminuccia invece…-
-Fammi indovinare…- lo interruppe Francis, trattenendo una risata –Edith come tua madre o Abigail come quella di Lizzie?-
Assunse un cipiglio sorpreso –Bravo! – esclamò colpito
-Quindi, tuo figlio ti soffierà il primato di magnifico. –
Elizabeta fulminò Francis con lo sguardo e, ci poteva giurare, sembrava tanto lo volesse colpire con il vassoio che teneva in mano. Sapeva che se c’era una cosa che assolutamente doveva evitare con Gilbert, quella era proprio mettere in dubbio la sua magnificenza.
Ma il tedesco, in maniera assai matura, sorprese tutti –Non soffiare, ereditare. Mi dispiace cari, ma l’originale rimango io. – non se lo aspettava il francese quella risposta da parte sua, Gilbert non era il tipo da scendere a compromessi.
Doveva essere l’amore, evidentemente. L’amore per il figlio che portava in grembo Elizabeta, quella donna con cui aveva scelto vivere la sua vita.
Era la prima volta che provava nei confronti di qualcuno invidia. Sì, invidiava il tedesco perché la sua bella ragazza lo amava, lo amava talmente tanto che adesso aspettava un figlio da lui
-Vi sposerete?- Antonio con il suo tono di voce prorompente, li fece giare tutti e la coppietta si guardò con aria grave
-Non lo sappiamo…- confessò Elizabeta –…certo, adesso che stiamo per diventare genitori, ci sembra opportuno prendere una posizione più solida. –
-Abbiamo ancora otto mesi di tempo, fortunatamente. – il tono di voce di Gilbert era quasi evasivo, come se per lui si trattasse di un argomento tabù –Non voglio sposarmi nello stesso anno in cui si sposa mio fratello. –
Tipico di Gilbert. Le sue nozze doveva essere uniche nel loro genere e quindi, unirsi in matrimonio nello stesso anno di un’altra importante cerimonia nella famiglia Beilschmidt proprio non rientrava nei suoi canoni di perfezione.
Francis scosse la testa rassegnato –A proposito, quando si sposano?-
-A dicembre…con tanti mesi che ci stanno. - alzò gli occhi al cielo –Ce ne sono dodici e lui mi va a scegliere quello più freddo?-
Elizabeta si sedette finalmente sul divano vicino al suo Gilbert, tirando un gran sospiro di pazienza – Allora, Tonio. – esordì con una gentilezza che non era da lei, voltando la testa in direzione dello spagnolo –Gil mi ha detto che questa sera hai un appuntamento…-
Elizabeta, santa donna. Lei era una delle poche persone che accettavano serenamente le diversità degli altri: “Sei omosessuale? Ok.” ripeteva sempre “A me non da fastidio, ognuno è libero di fare quello che vuole.”
Santa donna sul serio! Era lei quella che, più di Francis stesso e Gilbert mesi insieme, appoggiava lo spagnolo in quello che era.
E appunto, il suo interlocutore gli rivolse un sorriso caloroso e annuì tutto impomatato –Già. Il Latin Lover colpisce ancora. – strizzò l’occhio con fare scherzoso
-Sei stato bravo. – Francis era sincero, non se lo aspettava che prima o poi il suo migliore amico sarebbe riuscito ad avere un appuntamento con “l’ombroso Vargas” –Mi chiedo ancora come abbia fatto.–
Antonio, che era seduto accanto a lui, gli tirò un pizzicotto sul braccio sano e gli strizzò l’occhio – Parliamo di te e Arturo, invece .- esclamò derisorio.
Elizabeta batté le mani compiaciuta -Ma dai! Tu e Kirkland? Oh, che coppia carina… – di solito era una donna discreta, ma adesso sprizzava curiosità da tutti i pori.
-…Non stiamo insieme. – mise in chiaro, con una nota di reale delusione –E non è successo nulla, Tonio. – gli lanciò un’occhiata in tralice.
- L’inglesino fa il difficile eh?- lo spagnolo ridacchiò, come a voler dire “e ora chi è quello che si trova in difficoltà?”
-Sì. – odiava dover ammettere questo. Di solito ci metteva poco a far cadere qualcuno ai suoi piedi, ma quell’inglese era un osso duro e quel sì detto a mezza voce sembrava una dichiarazione di sconfitta.
Se c’era un lato positivo in tutta quella situazione, era che lui adorava i giochi difficili alla follia, specie quelli che andavano a finire quasi sicuramente a “fotpar”, come amava ripetergli Gilbert
-Non mi stupisco. – intervenne il tedesco, stringendo la mano dell’ungherese e alzando le spalle
-Quello sembra avere perennemente una scopa conficcata nel…-
- Gilbert!- lo rimproverò lei, dandogli uno schiaffone piuttosto violento sulla testa.
D’altra parte, Antonio rideva di gusto e a dire il vero, addirittura Francis, seppure in modo più contenuto; più che sbellicarsi, sembrava si stesse sforzando per ridere ad una battuta che non aveva gradito affatto.
-Come darti torto. – alzò gli occhi al cielo, come se si stesse lamentando di un figlio che va male a scuola –Ci stavamo per baciare, ieri, all’ospedale, ma lui…niente! Ha girato i tacchi, rigido e freddo. In effetti, me lo sarei dovuto aspettare. –
La sua voce suonava ancora più cupa mentre, con sua somma sorpresa, sentì dalle parti di Antonio partire un applauso trionfale –Centro! Te l’avevo detto che era successo qualcosa. – Gli mise un braccio attorno alle spalle e lo strinse in una presa soffocante.
–Dai, non prendertela. –trillò in tono allegro, notando il broncio assunto dal francese –Lo dici sempre che nessuno può resisterti, che sei il numero uno della seduzione…-
-Eih! Quello sono io. – Gilbert rivendicò il proprio diritto con voce oltraggiata, provocando le risa di tutti, perfino quelle di Elizabeta.
Era in quei momenti che il francese sapeva di avere accanto a sé degli amici unici, che lo sorreggevano; era vero che lui, Antonio e Gilbert erano scanzonati e anche piuttosto disinibiti, ma loro tre si volevano davvero bene, come se fosse già scritto nei loro destini che dovevano incontrarsi. Erano fatto per essere amici.
 –Cosa ti metterai stasera?- domandò con dolcezza ad Antonio
-A dire il vero…- lo spagnolo arrossì –…non ne ho la minima idea. Elegante o informale? Questo è il dilemma .-
-Magari ti aiuto. – gli propose
–Se mi presti la tua giacca blu mi faresti un vero favore. – si scambiarono entrambi un sorriso complice.
Se ne andarono subito, per lasciare a Gilbert ed Elizabeta un po’ di intimità e come promesso da Francis, andarono a casa sua per la grande uscita.
Antonio adorava la casa di Francis, era sempre stata per loro la sede di incontri, progetti e sogni, prima solo loro due, quando avevano solo sedici anni e poi con l’aggiunta di Gilbert.
Il francese e lo spagnolo avevano alle spalle un passato e una famiglia completamente differente; i genitori di Antonio, due ballerini di flamenco, si erano trasferiti in America per aprire una scuola di danza e lì erano rimasti.
Quelli di Francis invece, erano troppo innamorati della loro Paris per restare a New York; erano ritornati in patria ormai da sei anni e lui li andava a trovare tutte le estati “Maman è deliziosa, da quando è tornata a Nizza sembra rinata” ripeteva sempre, ogni volta che rientrava dalle vacanze.
-Prova questo…- gli propose il francese, lanciando al suo amico una camicia di seta bianca, che aveva tutta l’aria di costare molto -Secondo me ti sta bene. –
Antonio fece di no con la testa, accennando un sorriso di ringraziamento –E se poi te la macchio?-
-Mi paghi la tintoria. – scherzò ridendo in maniera sottile –Cosa ti importa, se tutto questo serve per conquistare Lovino…-
Lo spagnolo avrebbe voluto tanto abbracciarlo. Francis poteva sembrare un fissato del sesso un po’ superficiale e “dandy”, ma se si provava ad approfondire meglio la sua conoscenza, si poteva registrare le tante qualità che lo sollevavano dalle sue manie: era gentile e non dispensava nessuno dai suoi consigli, soprattutto se questi erano detti al fine di far bella figura con qualcuno.
Avevano scartato fin da subito i jeans e la maglietta – è una cena! Va bene essere a proprio agio, ma così è troppo…- aveva declamato Francis con tono critico.
Poi, era toccato il completo marrone -Per carità, non ti dona per nulla!- sempre con quella maniera da stilista emergente; alla fine avevano optato per l’originario abito blu scuro, giacca e pantaloni, e la camicia di seta
-Adesso sei perfetto. – alzò il pollice in segno di apprezzamento –Se per caso l’italien ti rifiuta, passa da me, che ti consolo come solo io so fare. – il suo tono di voce era velato, ma ormai Antonio era abituato a quegli atteggiamenti molto sensuali da parte sua.
Rise parecchio nervosamente: di lì a poco sarebbe uscito con Lovino Vargas e sperava davvero che non andasse a finire in maniera spiacevole. Era oltremodo agitato, era la prima volta che usciva con qualcuno che gli piaceva davvero; di solito si comportava in maniera disinvolta con tutti quanti, ma quando era insieme a Lovino, si sentiva sempre in leggera tensione; era difficile avere a che fare con un ragazzo esagitato che sembrava essere sempre sull’orlo di uno scoppio d’ira.
Francis gli strizzò l’occhio in segno di incoraggiamento –Vai e fai strage di cuori. –
La risata del suo amico si udì per tutte le scale del condominio.
 
 
Antonio non aveva mai visto “l’Imperius” da vicino prima di allora. Era un locale davvero pittoresco che nello stile ricordava un po’ quello dell’Antica Roma, anche se in chiave più moderna e meno in antitesi con il paesaggio newyorchese.
Non era enorme come se lo aspettava, aveva le proporzioni di uno dei tanti bistrot francesi tanto amati da Francis.
Lovino lo stava aspettando, con un piede poggiato sul muro, l’occhiata da ragazzo spaccone e le braccia incrociate, a imitazione dei bellocci di Holliwood. Era semplicemente…wow! Erano le uniche parole che scorrevano nel cervello di Antonio.
Da bravo italiano qual’era, era vestito in maniera assolutamente impeccabile; Francis aveva un avversario sulla piazza, a quanto pareva!
Non se lo aspettava, in realtà, che Lovino venisse al loro appuntamento vestito in maniera così curata. Gli venne incontro con il sorriso sulle labbra –Ciao querido. –
- ‘sera bastardo. – si staccò dal muro, in maniera apparentemente annoiata, per raggiungerlo lentamente
Potrebbe fare il modello pensò Antonio, fermatosi a metà strada per fissarlo con aria imbambolata mentre camminava verso la sua direzione. Gli diede una pacca sulla spalla affettuosa, come faceva di solito quando doveva salutare un amico, ma Lovino non sembrava molto accondiscendente sotto quel punto di vista
-Eih, idiota, se vuoi uscire con me devi ricordarti di una cosa: io non sono il tuo amichetto francese frufrù e nemmeno il capo crucco di mio fratello, per cui non provare a toccarmi. Chiaro? – lo mise in guardia subito, sempre con i suoi metodi cortesi e amabili.
Lo spagnolo annuì velocemente, sulle spine: cominciava bene…
 –Cristallino! – sorrise mostrando i denti in modo un po’ frastornato; in circostanze normali si sarebbe perfino arrabbiato, ma con Lovino era quasi impossibile farlo, o per lo meno, secondo lui risultava difficile.
Quel silenzio lo stava uccidendo; era al di fuori di un ristorante da una stella Michelin, in compagnia di un ragazzo “adorabile” (sempre secondo il suo modesto parere, ovviamente), cercando di mettersi in buona luce, fallendo in maniera del tutto meschina
-Em…entriamo?- suggerì, prima di scoppiare a ridere. Forse era il nervoso, ma il fatto di invitare qualcuno ad entrare nel suo stesso ristorante gli pareva una scenetta buffa.
-Sì, è meglio. –
Chissà, si chiese, se quell’italiano sapesse sorridere…
Entrarono e il suo accompagnatore fece cenno al caposala di farli accomodare ad un tavolo per due, possibilmente appartato rispetto agli altri.
-Non farci aspettare troppo, Radu. – si raccomandò Lovino, dopo essersi seduto al tavolo, con un tono di voce che di solito i datori di lavoro riservano ai loro dipendenti.
Il caposala annuì in maniera professionale –Ma certo… - sorrise e mostrò i denti.
Ad Antonio fece un po’ inquietudine quel ragazzo dai capelli biondo sporco, i canini un po’ appuntiti e la pelle chiarissima –Sembra un vampiro. – sussurrò a Lovino con fare scherzoso, quando si allontanò
-Ma che cazzo dici? – Lovino fissò il caposala e scosse la testa –Se non sbaglio, esce di giorno…- lo disse con un sussurro talmente esorcizzante che l’altro si morse il labbro per non ridere.
Poco dopo, un cameriere minuto e dall’aria tremante, si avvicinò loro. Doveva essere giovanissimo perché sembrava avere poco dimestichezza con il lavoro
-Salve, signor Vargas. –
Ad Antonio, sentir chiamare Lovino “Signor Vargas” da qualcuno provocò uno strano effetto; era come se il principe Azzurro delle fiabe (magari nella sua versione più rude, volgare ed italiana) venisse chiamato “Signor Azzurro”.
Biancaneve si affaccia alla finestra, sorride radiosa e lo chiama –Salve, signor Azzurro!-
-Salve, signor Vargas. –
Gli veniva semplicemente da ridere, anche se il suo accompagnatore lo riempiva di occhiate poco gentili.
- ‘sera Galante . – fece brusco lui, senza neanche degnarlo di uno sguardo.
Il povero Galante abbozzò un sorriso nervoso e lo spagnolo pensò che doveva essere una gran fatica per quel ragazzo conservare il sorriso anche di fronte a clienti scorbutici come Lovino.
Accennò al cameriere un sorriso di incoraggiamento, che fu ricambiato –Cosa vi porto? – domandò in tono flebile e sottomesso
-Il meglio, ovviamente. Fa un po’ tu, insomma…- l’italiano fece un gesto sbrigativo con la mano –E di’ a quel bastardo di Adnan che se si permette ancora a chiamarmi “raccomandato” gli ficco una rosetta di pane, indovina dove?-
Il cameriere si sforzò di ridere e annuì mansueto –Glielo riferirò, signor Vargas. – e si allontanò, facendo attenzione a non intralciare la strada agli altri camerieri
- Raivis…- sbuffò –Un bravo ragazzo, ma debole. Tutto il contrario di quel cazzone “sono l’executive chef di un ristorante di lusso” di Adnan. – assunse un’espressione di stizza, come se il fatto che suo nonno avesse assunto un dipendente che non gradiva avesse fatto cadere quel posto un po’ in basso.
Antonio lo fissò sbigottito –Come, non cucina tuo nonno?-
-Ma dove cazzo vivi?- lo attaccò, bisbetico come sempre –è ovvio che mio nonno non cucina, in tutti i ristoranti è così. –
Quando parla con quel tono di voce così iroso è semplicemente adorabile –Non lo sapevo. – sorrise –Beh, ho imparato una cosa nuova, no?-
-Già…- bofonchiò l’altro, poco convinto, mettendosi a braccia conserte e scoccandogli un’occhiata di sprezzo –Sadiq Adnan è uno stronzo, ma fintantoché cucina bene…- Perché questo cretino mi sta fissando come se fossi una visione celeste? Quando mi guarda così sembra ancora più idiota…
-Non ti sta molto simpatico, vedo…- si diede una sistemata veloce ai capelli, tirandoseli dietro l’orecchio.
La faccia indispettita dell’italiano la raccontava tutta –Per nulla. – E sorride! Ma cosa cazzo ha da sorridere?
Rimasero in silenzio, fin che Raivis non portò loro l’acqua con il pane e una bottiglia di vino bianco, probabilmente consigliato dal caro nonnino.
Lo spagnolo si schiarì la voce, aspettando che il cameriere versasse il vino a tutti e due. Poi alzò il bicchiere in aria con fare solenne –A noi due. – Che staremo sempre insieme, ci dimetteremo dalla polizia e coltiveremo campi di pomodori per tutta la vita.
Suo malgrado, l’italiano rispose al brindisi, sollevando il suo con un gesto pigro
-Sai, Gilbert, il mio amico, segue tuo fratello al tirocinio…- Riprese a parlare, dopo aver bevuto un sorso; quanto era caduto in basso! Con tanti argomenti di cui poteva parlare, aveva scelto proprio suo fratello?
Lovino doveva pensarla allo stesso modo, perché assunse un’espressione imbronciata, quasi infastidita –Lo so. –
Doveva sforzarsi di trovare qualcosa di più interessante come argomento -Deve essere bello avere un fratello. –
-Due in realtà. – sbuffò spazientito –Siamo io, Feliciano e Giorgio. E, no, non è bello avere un fratello. –
Strano, Antonio aveva visto qualche volta Lovino e Feliciano che parlavano, ma gli era sempre parso che andassero molto d’accordo. Una volta lo aveva perfino sentito urlare a Francis perché aveva osato dire che tra lui e suo fratello non sapeva decidere chi fosse più carino “Non provare mai più ad insinuare qualcosa su mio fratello o ti spacco la faccia”.
Forse, si stava riferendo a Giorgio
-Beh, si sa, il piccolo di casa ha più attenzioni, no?- il suo tono di voce era consolatorio
-Soprattutto quando questo sta per laurearsi e diventerà presto avvocato. – Ok, ce l’aveva con Feliciano, mistero risolto
–Feliciano. Generoso e inverosimilmente ingenuo, ecco perché vogliono essere tutti suoi amici. Si lascia sfottere così, come uno smidollato qualunque. – fece un sospiro, ma non era stizzoso, né irritante. Era come una specie di rassegnazione dolorosa –La gente mi vuole conoscere solo per due motivi; Feliciano e mio nonno. Vaffanculo, ecco cosa gli rispondo. –
Antonio sapeva che si stava rivolgendo anche a lui.
Lo guardò dritto negli occhi, quegli occhi ambrati che gli piacevano così tanto e sorrise –Io sono qui soltanto per te. Non sapevo neanche che tuo nonno aveva un ristorante e in quanto a Feliciano…- si prese un po’ di pausa. Non si era reso conto che l’italiano era completamente arrossito, fino alla radice dei capelli –…Quello che cerco di dirti è…- come faceva a dirgli che ci teneva a lui, senza per forza rivelare la vera natura del suo interesse?
-…ho capito. – lo precedette subito l’altro, secco –Io proprio non ti capisco, bastardo… - con un cenno, ringraziò Raivis che nel frattempo aveva portato già gli antipasti
-Cosa non capisci?- il suo sorriso si fece ancora più largo.
Fece spallucce -Ti tratto di merda, eppure tu continui a cercare la mia amicizia…-
Sì, certo, amicizia…-Io non mi fermo alle apparenze. – rispose lo spagnolo in tono serio.
Non credeva che sarebbe stato a parlare di cose simili con Lovino, aveva già messo in preventivo che molto probabilmente avrebbero parlato della sparatoria, di lavoro, del ristorante…cose un po’ futili che nel profondo non avrebbe interessato nessuno dei due.
E invece si stava rendendo conto che parlare con lui non era poi così ostico come aveva immaginato; Lovino non era uno stupido, né tanto meno il ragazzo insensibile che voleva far apparire agli occhi degli altri.
Scoprì che aveva una passione innata per il cinema d’autore e la musica popolare italiana e che la sua vacanza ideale sarebbe stata sicuramente a Firenze.
Gli raccontò di quella volta in cui a Roma, suo fratello Giorgio si era perso e lo avevano ritrovato in albergo mentre ci “provava”, senza nasconderlo poi molto, con la ragazza della reception. Era davvero piacevole parlare con lui, sebbene in ogni frase che pronunciava dava sfoggio di parolacce di basso lignaggio.
-Spaghetti con l’astice…- borbottò Lovino ai primi, cominciando a mangiare con gusto –I miei preferiti. -
Ad Antonio venne da ridere: c’erano loro due, seduti in un ristorante italiano a mangiare gli spaghetti. Gli ricordava tanto una scena alla “Lilly e il Vagabondo”.
- Eliza va in maternità. – non sapeva perché in quel momento preciso avesse deciso di parlare di Elizabeta, forse perché non aveva più in mente altri argomenti di cui parlare.
Lovino aggrottò le sopracciglia –Aspetta un bambino?-
-Perché, cosa dovrebbe aspettare?- rise della sua battuta un po’ tirata e diede un’altra forchettata al piatto.
Sentì su di sé lo sguardo un po’ allibito dell’italiano. Inizialmente pensava che lo stesse guardando in quel modo per la battuta che aveva appena fatto e infatti disse –Cioè, certo che aspetta un bambino. –
-Ma cosa c’entra!- sbottò l’altro, acido e irritato allo stesso tempo–Di’ la verità, ma li hai mai mangiati gli spaghetti in vita tua?-
Lo guardò un po’ stupefatto –Certo!-
-Non sembra, da come li arrotoli. –
Con sua enorme sorpresa, Lovino si alzò dalla sedia, andò vicino a lui e gli prese la mano destra, facendogli vedere come doveva prenderli –E così che si mangiano, bastardo! Sembrava volessi ucciderli. – pareva che gli stessa a cuore la sorte di quei poveri spaghetti martoriati e sulle prime lo spagnolo lo trovò quasi buffo che si fosse offeso in quella maniera così spropositata.
Pensò al contatto che avevano avuto le loro mani in quel momento: nulla di così speciale o eclatante, in realtà, ma era stato comunque strano per lui sentire la mano dell’italiano sopra la sua, mentre lo accompagnava con la forchetta.
Al momento del dolce, al loro tavolo arrivò un uomo sulla sessantina, più vicino ai settanta in realtà, davvero tanto distinto, che per certi versi sembrava avere qualche somiglianza con il suo collega
-Buonasera. –
Lovino alzò un po’ la testa, giusto per dargli un’occhiata –Ciao nonno. – il suo timbro di voce sembrava scocciato, come se in quel momento non avesse tanta voglia di vederlo.
Per Antonio invece fu come fare la conoscenza di un personaggio delle fiabe. Aveva davanti ai proprio occhi il proprietario di un ristorante di notevole importanza e si sentiva un po’ imbarazzato. Lui, che nella vita non aveva mai concluso nulla, stava parlando con un uomo che aveva praticamente raggiunto il sogno ardente di qualunque cuoco
-Salve signore…- lo salutò, con un filo di voce e con un sorriso da ebete stampato sul volto.
Il signor Vargas fece una smorfia di stizza e gli rivolse un sorriso molto singolare; sembrava un sorriso uscito da qualche foto vecchio stile, di quelle in cui tutti esagerano un po’ troppo con l’essere allegri –Signore sa di vecchio. Ti sembro forse vecchio?-
Arrossì –No, no, però…- si morse la lingua –Come devo chiamarla?-
-Cesare .-
Strano, lo spagnolo aveva sempre pensato che i proprietari di qualcosa provavano una sorta di piacere irresistibile a sentirsi chiamare “signori” –Va bene allora…Cesare. – ammetteva che era la serata stava vertendo parecchio sull’ onirico
-Piaciuta la cena? –
-Eccome!- rispose per lui Lovino, con tanto di striscia di cioccolato sulla bocca che lo faceva assomigliare ad un bambino di cinque anni.
-I secondi erano ottimi. – assentì gentile l’altro, ricambiando il sorriso del nonno dell’italiano
In quel momento sembrava uno di quei bambini che a Natale ricevono il regalo tanto atteso –Sono contento! Quindi, tu sei l’amico di mio nipote…-
-Collega. – Lovino sembrava quasi infastidito dalla parola amico e da tutti gli altri suoi derivati, ma Antonio non se la prese più di tanto per aver corretto suo nonno, anzi, al contrario. Gli trasmise un sacco di tenerezza, forse perché lo aveva detto in quel modo talmente infantile da farlo sembrare per un momento un bambino molto capriccioso.
Viceversa, Cesare non sembrava molto contento di quell’intervento. Con quel suo sguardo grave sembrava come se volesse dirgli “mi dispiace, accettalo per come è”.
E lui lo accettava per quello che era, anche se probabilmente, o nel suo cervello, avrebbe passato tutta la vita in compagnia di quel ragazzo pieno di difetti.
Lui era fatto così; era il classico spagnolo che avrebbe compiuto qualunque impresa per la persona che amava e con molto probabilità, per Lovino si sarebbe perfino alzato alle due di notte per andargli a cantare una serenata sotto il suo balcone. Peccato fosse stonato…
 
Quando uscirono fuori, la Luna era parecchio alta nel cielo. Era una bella serata, tirava quella brezza leggera primaverile che non dà mai troppo fastidio e alleggeriva il caldo un po’ afoso che c’era stato nel pomeriggio.
Aveva passato una cena piacevole e sapere che ben presto tutto sarebbe finito e che lui e Lovino sarebbero tornati alla vita normale di sempre gli dispiaceva parecchio. Ma è così che va la vita, no? Prima o poi, tutto ha una fine, anche le cose più belle.
In uno sprazzo di follia, pensò di girarsi verso il suo amato e di dirgli le cose come stanno –Eih, Lovinito?-
-Non chiamarmi così. – gli uscì fuori una voce aggressiva.
Rimase in silenzio
-Beh, che volevi dirmi?- continuò, sempre sulla difensiva.
Sospirò e decise che per quella sera ci avrebbe rinunciato. Non era molto sicuro della reazione dell’italiano alla manifestazione dei suoi sentimenti, lo vedeva troppo timido per accettarli così liberamente.
Sì, non stava esagerando, era davvero convinto che Lovino fosse timido e molto, molto insicuro; lo aveva capito da tante piccole cose che quel ragazzo non era duro come voleva far sembrare dalla sua facciata. L’aveva capito quando, durante la cena, gli aveva parlato di come fosse difficile per lui fare amicizia, senza che nessuno si aspettasse da lui un tornaconto e forse, ci riflettè lo spagnolo, era per questo che si comportava così male con tutti
Antonio sorrise e preferì lasciar perdere. Si sentiva un po’ vigliacco, in effetti –Volevo solo dirti che mi è piaciuto stare con te. –
Per un attimo gli sembrò che Lovino avesse quasi sorriso. Un sorriso difficile, appena accennato che però allo spagnolo era piaciuto molto. Secondo lui, quel sorriso era la parte migliore di quel ragazzo che fugacemente era venuta fuori –Grazie. Sia ben chiaro che rimani comunque un bastardo. –
-Oh, certo. – rise di tutto cuore –Ci vediamo domani. –
Domani. Quel senso di continuità a lui piaceva davvero molto.
 
 
 
 
 
 
Salve a tutti! È da un po’ che non mi faccio viva, eh? Purtroppo è un periodo un po’ difficile per me, ho avuto una specie di apatia che mi ha fatto deprimere…capita, credo.
Comunque, eccomi qui, spero che questo capitolo vi sia piaciuto, nonostante tutto. Mi sono voluta focalizzare più su Antonio perché adoro la Spamano, spero mi perdonerete xD Il prossimo capitolo riguarderà senz’altro il nostro inglese preferito!
Per ora, voglio ringraziare chiunque abbia recensito almeno una volta questa storia: per me è molto bello sapere che c’è qualcuno che apprezza le mie storie e ci tiene a farmelo sapere ^^ Inoltre, ringrazio anche tutti quelli che hanno messo questa storia tra preferite\ricordate\seguite. Grazie, grazie, grazie.
Dedico il capitolo a SoneaTheMagician per la gentilezza che ha nel recensire ogni volta, grazie ^^. E poi, consentitemi di farmi gli auguri (da sola, come i matti), visto che tra nove giorni compirò gli anni.
A presto
Cosmopolita <3

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Capitolo 17
*** Così volle Walt ***


 -Parlano tutti di te a casa, Art! Non sei mai stato così popolare come ora…-
Andrew… Arthur non sapeva come sarebbe sopravvissuto senza di lui. Sì, era vero che neanche il suo fratellone, più grande di lui di appena due anni, lo sopportava molto, però era talmente spontaneo e allegro che alla fin fine non lo dava neanche a vedere.
Andrew era davvero una benedizione del cielo, tra la freddezza di James e i dispetti di quell’ochetta di Hannah e di quello stupido, idiota e sadico di Ian
-Sì, lo so. Non so se esserne contento o meno…-
-Non esserne contento, affatto. La mamma spera che tuo figlio non cresca come te…si chiama Alfred, giusto?-
L’inglese sospirò agguerrito: ormai il fattore invisibilità di Matthew era diventata una sua crociata personale, come se la gente si dimenticasse di lui e non di suo figlio –Ne ho due, Andrew, due! Matthew e Alfred…Alfred e Matthew. – era stato cinico e anche un po’ spietato nel dargli risposta, ma ormai era davvero stufo di stare a ripetere che aveva due figli e non uno solo.
Suo fratello fece un verso, della serie “Ma che palle, vaffanculo!”, anche se in vita sua non avrebbe mai detto una parolaccia.
–E fa nulla, dai…- rise come se non fosse successo nulla di così grave.
Suo fratello non avrebbe mai capito quale forza spingesse quel ragazzone alto e robusto dai capelli rossi a ridere anche nelle situazioni a lui più spiacevoli.
Intanto riprese a parlare, ma questa volta la sua voce si fece più mansueta –Eih, che ne dici se me li passassi?-
Arthur non poteva credere alle sue orecchie; nessuno al telefono gli aveva mai chiesto di parlare con i suoi figli e improvvisamente avvertì un moto di affetto irreprensibile verso il fratello –Io…- in realtà, non riuscì a formulare una frase di senso compiuto, quella domanda lo aveva colto di sorpresa.
-Sì, va bene…-
Si voltò verso il figlio –Al, vuoi parlare con lo zio?-
Alfred e Matthew erano impegnati a giocare con una pista per automobiline che aveva appena comprato per loro e inizialmente non gli diedero molto retta, presi com’erano dal gioco
-Al!- sbuffò spazientito –Ti sto chiamando. –
Suo figlio alzò gli occhi, come se lo avesse interpellato solo in quel preciso istante -Cosa?-
-Vuoi parlare con lo zio?- gli ripeté, una volta catturata la sua attenzione.
Il bambino rimase lì per lì a fissarlo con una faccia a metà tra il sognante e il confuso. Era come se avesse davanti ai suoi occhi una visione –Lo zio Francis?- chiese alla fine
-No, un altro zio. Il fratello del tuo papà. –
Eileen non aveva sorelle o fratelli, quindi per Alfred quella fu una novità assoluta. Annuì talmente forte che il collo sembrava essere una molla e si avvicinò trepidante al telefono –Pronto?-
Di solito i bambini si comportano in modo tentennante di fronte ad un adulto sconosciuto, ma quello non era il caso di Alfred; ad Arthur diede l’impressione di stare a parlare con un amico di vecchia data invece che con un zio del quale non aveva mai sentito parlare
-Io sono un eroe, lo sai zio…Sì, sì, proprio così?…-stava blaterando, con il solito tono saccente
–Papà è bravo, a parte quando cucina…- fece una risata, diversamente suo padre avrebbe voluto battere la testa sul muro –Tu cucini meglio? Ah, per fortuna…beh, non è che ci vuole tanto a superare papà. – ma lo stavano prendendo in giro o cosa?
-Davvero? Come si chiamano?…Oh, lo sai che anche un mio compagno di classe si chiama James? Sì…Wow…-
Probabilmente adesso stavano parlando degli altri zii.
-E perché papà non è con voi?-
Ad Arthur il sangue si raggelò nelle vene; sperava che Andrew non avesse sputato il rospo, suo figlio era troppo piccolo per capire certe cose. Magari si sarebbe solo limitato a dire che il fratellino, “A warm in the Big Apple” , come lo avevano soprannominato loro, aveva sempre sognato di raggiungere l’America, anche se questa era una bugia bella e buona
-Oh…- il verso di Al non gli diceva nulla di rilevante. Andrew poteva avergli detto la verità come una piccola bugia –E verrete qui? Davvero!- il volto splendette –Che bello…Vorrei tanto conoscere lo zio Ian. –
Oh, no, signorino pensò acidamente Arthur tra sé e sé Se discendi dal ramo giusto dei Kirkland, Ian non ti piacerà né adesso né mai.
Ora, poteva anche sopportare che ai suoi figli piacesse Francis tanto da chiamarlo “zio”, ma Ian era assolutamente fuori questione.
Non avrebbe impedito ai due bambini di conoscerlo, questo non poteva farlo, ma certamente non gli avrebbe fatto piacere se fossero andati d’amore e d’accordo. Insomma, volevano deluderlo così tanto?
- Ah, quindi solo tu, lo zio Peter e la zia Hannah…peccato. –
Peccato un corno! Non che gli piacesse avere Hannah tra i piedi, insomma, l’avrebbe volentieri scambiata con James, ma gli altri due fratelli andavano più che bene. Tanto sapeva che Andrew stava mentendo solo per dare un piacere al bambino.
Vide Alfred porgergli il telefono –Ti vuole lo zio. –
Appena si mise la cornetta all’orecchio, Andrew parlò –Tuo figlio è una forza. Cavolo, non ti somiglia per nulla. –
-Lo so…- mormorò a denti stretti. Non gli piaceva che qualcuno gli evidenziasse la ovvia differenza che incorreva tra lui e i suoi figli.
Decise di cambiare discorso e la sua voce si fece più grave –Sul serio verrete?-
Andrew per tutta risposta emise un rumore cupo, una specie di “m” prolungata –Mmmm .- non capiva se stesse riflettendo sulla questione o se stava negando.
Sapeva qual’era la sua risposta, per quanto gli facesse male conoscerla già. Era orgoglioso, Arthur, ma addossarsi del ruolo di pecora nera a volte non lo attraeva per nulla –Magari alla mamma verrà voglia di vedere i suoi nipoti. Un giorno o l’altro…– il suo tono di voce non era cattivo, piuttosto quasi rassegnato.
-Non giudicarla male, Art . Lei vuole solo il meglio per noi e a volte esagera. Janice dice che è una donna di carattere.–
Janice... Janice era un’amica di infanzia di Hannah, Arthur aveva di lei ricordi un po’ sfocati. Era una bambinetta bionda e aveva gli occhi  blu a palla, come se fosse in perenne sorpresa per qualcosa. Ricordava che era lentigginosa e che aveva sempre i nervi a fior di pelle, per cui piangeva per tutto.
Rammentava anche che Andrew non la sopportava, diceva sempre che “quella” (non la chiamava neanche per nome) un giorno avrebbe fatto esasperare i suoi genitori per quanto era malata di nervi.
Ma, ora cosa quadrava con il loro discorso?
- Janice?- domandò, sorpreso
Anche Andrew sembrava colpito, ma per ben altro motivo - Hannah allora sa tenere la bocca chiusa, quando vuole…- sentì ancora una volta la risata calda e infantile del fratello –Janice è la mia fidanzata. -
Eh? Hannah gli aveva fatto accenno di un imminente matrimonio tra i Kirkland, ma… Andrew e Janice? Non avrebbe mai potuto immaginare una coppia così male assortita. Forse quell’unione l’aveva imposta sua madre…
-Ma stiamo parlando della stessa Janice? Tu gli lasci permettere che ti sposi con quella…-
Venne nuovamente interrotto dalla voce rassicurante e roca del fratello –Stai giudicando male la mamma per l’ennesima volta. – la voce di Andrew non era mai stata refrattaria come allora.
Non ci stava capendo più nulla–Lei non ti ha imposto nulla?-
-Certo che no! Non siamo mica nell’Ottocento, Arthur. – sembrava parecchio divertito, era come se lo volesse prendere in giro –Io e Janice ci siamo innamorati e la mamma non c’entra. Anzi, all’inizio credeva stessi scherzando .- rise, ma poi ridivenne serio –Tu vedi solo quello che vuoi vedere, Arthur. La mamma ti vuole bene, a suo modo…-
A suo modo, certo. Finì così la telefonata tra lui ed Andrew, in un modo che Arthur considerava strano.
Sapere che Janice sarebbe stata presto sua cognata non gli dava fastidio, la riteneva una donna capace e intelligente, seppur psicolabile.
Quello che non riusciva a capire era come due persone, come lei e suo fratello, che non potevano stare nella stessa stanza perché subito cominciavano ad urlarsi contro, fossero arrivati a tal punto da decidere che avrebbero condiviso la loro vita insieme.
In fondo, la gente cambia, man mano che matura. 
 -Perché non mi hai fatto parlare con lo zio?-
Sobbalzò nel sentire la voce accusatoria di suo figlio Matthew. Lui era il primo a indignarsi sul fatto che nessuno lo considerava e lui adesso era il primo ad essersene dimenticato?
Si girò verso il figlio e vide che lo guardava con un faccino un po’ dispiaciuto, ma non imbronciato come probabilmente avrebbe fatto Alfred.
Quell’espressione rese suo padre ancora più mortificato; aveva tanta voglia di richiamare Andrew solamente per farlo parlare con Matthew
-Mi dispiace, Matt. – mise la mano sulla testa bionda del bambino e lo accarezzò con affetto paterno, ma il bambino esibì di nuovo un sorriso di comprensione
-Non fa nulla. –
Più diceva così, più l’inglese si sentiva un po’ in colpa. In realtà, mentre parlava al telefono con Andrew aveva ripetuto più volte a sé stesso che dopo Alfred sarebbe toccato a Matthew conoscerlo, ma con il discutere di Janice e la mamma, se lo era del tutto rimosso dalla mente
-Papà…- sussurrò ancora il più timido dei suoi figli, con gli occhi fissi sul pavimento, come se si vergognasse –Posso dirti una cosa?-
-Ma certo…- sorrise -…dimmi tutto. –
-A me manca .-
-Chi?- sperava con tutto sé stesso che non tirasse in ballo ancora una volta Eileen. Parlare di lei gli era diventato troppo difficile, specialmente con i suoi figli
- Francis. Poverino, siamo stati cattivi con lui a non essere andati a trovarlo…-
Suo padre sospirò; non sapeva cosa fosse peggio, l’argomento “Eileen” o quello “Francis. Si sentiva così imbarazzato dall’ultima volta che l’aveva visto…Di certo, non poteva dire ai suoi figli che non aveva alcuna voglia di vedere la rana perché questa aveva cercato di baciarlo a tradimento in una camera d’ospedale.
Anzi, ora che ci ripensava, loro due si lasciavano sempre in maniera alquanto critica; o infuriati l’uno con l’altro, o al preludio di un fastidioso bacio, o le due cose insieme.
Eppure, ora si trovava lo stesso lì, davanti alla porta di casa sua in attesa che venisse ad aprire.
Guardò Matthew e Alfred, che non stavano più nella pelle dall’idea di rivedere il loro francese preferito, specie ora che era reduce da una brutta sparatoria.
Francis ci mise poco a raggiungere la porta ed aprirla e, cosa di cui l’inglese gli era infinitamente grato, non li accolse in boxer.
Appena lo videro i bambini, questi corsero subito ad abbracciarlo
- Francis! Che bello, stai bene?-
-Ti hanno sparato, vero? È stato meglio o peggio di Superman a contatto con la kriptonite? –
Si vedeva che era mancato molto ai due piccolini. Il francese sorrise e si lasciò stringere in quell’abbraccio che non assomigliava per nulla a quelli passionali di Charlotte e neanche quelli amichevoli di Gilbert ed Antonio.
Erano gli abbracci che gli facevano capire, in uno sprazzo di follia, che avere una famiglia non doveva essere poi così male.
Arthur era rimasto a fissarli con espressione altezzosa, come se si volesse tirar fuori da quella manifestazione d’affetto per principio e di tanto in tanto lanciava sguardi di fuoco a Francis, quasi a dirgli “Eih, bello, non ti illudere troppo”.
Confessava che fosse un po’ geloso…
Francis si staccò dolcemente dalla presa dei due bambini e rimase ad ammirare il terzo visitatore con un sorriso sulle labbra –Ciao, tu. –
-Ciao. – mugugnò annoiato. Sembrava non avesse poi tanta voglia di essere lì
-Sono contento di rivederti. – al contrario, il francese sembrava fosse illuminato da un raggio di sole per quanto era splendente
-E io sono contento che tu non stia in mutande. –
Al francese uscì in risposta solo un risata un po’ impertinente. Rimase per un po’ sulla soglia della porta a parlare con i bambini, poi fece accomodare tutti dentro
-Vi offro qualcosa?- domandò, dirigendosi in cucina –Ho appena finito di fare la torta al cioccolato. – lo disse come se stesse facendo una terribile confessione
-Tu cucini torte?- Arthur era meravigliato; Francis cucinava, dipingeva e aveva una zia che giocava al bridge, un fonte inesauribile di sorprese! Cos’altro gli aveva nascosto? Che di notte sventava i crimini come Batman?
L’altro si affacciò dalla cucina e annuì radioso –Qualche volta. La zia dice che sono bravo…- aveva un tono talmente orgoglioso che ad Arthur ricordava tanto quei bambini che quando riuscivano in una cosa, andavano subito a mostrarlo ai loro genitori
-Allora, la volete sì o no?-
Alfred rispose subito di sì con un entusiasmo quasi contagioso e pure Matthew annuì, anche se sembrava lo avesse fatto più per gentilezza verso il padrone di casa che per altro.
-Tu, Arthur? Un pezzettino, solo per assaggiarlo…-
Finse di pensarci –Non è che mi avveleni?-
Francis rise e scosse la testa con fare sconsolato, come a dire “sei sempre il solito”.
Si mise una mano sul cuore –Parola di scout. –
Il britannico doveva ammettere che quel dolce era davvero buono. Il cioccolato non era troppo, ma non era neanche troppo poco. Era tutto dosato alla perfezione e, se non fosse per il fatto che a cucinarla era stato Francis, ne avrebbe chiesto anche un altro pezzo.
-Eih, zio Francis, perché non vieni a cucinare a casa nostra qualche volta?- gli propose Alfred, che evidentemente aveva apprezzato molto quel manicaretto –Papà non è molto bravo a cucinare. –
-Non è vero!- esclamò l’inglese d’impulso
-Ci credo che non sa cucinare…è inglese. – Francis aveva usato un tono troppo sarcastico nella sua voce e questo ad Arthur diede molto fastidio
-Che vorresti dire?-
-Scusami. Voi inglesi siete bravi in tante cose ma in cucina…proprio no . – scosse teatralmente la testa, come a sottolineare maggiormente il suo disappunto.
Arthur ci rimase un po’ male, ma non ribatté nulla, a parte borbottare qualcosa a sfavore della cucina francese, una frase che suonava come “La vostra gastronomia fa schifo”.
Era sicurissimo che anche Francis l’avesse udito, perché gli rivolse un’occhiata gelida che non era proprio da lui, però, a differenza sua, ebbe la brillante idea di non lanciare ulteriori frecciatine.
Al contrario, si sforzò di assumere un sorriso accogliente e gentile
–Ho un sacco di bei film…della Disney. Vi piacciono i cartoni della Disney?-
Nella sua voce c’era un non so che di…paterno. Sì, Arthur non sapeva proprio in che altro modo definirlo; era così lontano dalla persona frivola e sciocca che conosceva quando si rivolgeva ai suoi bambini in quel modo. In quei momenti la sua compagnia risultava stranamente gradevole
-Moltissimo. – rispose Alfred per entrambi, prima di ridere in quel modo così genuino e coinvolgente che lo contraddistingueva.
Il francese gli fece un sorriso di rimando –Dai, andate a sceglierlo, vi accompagno…-
 
La casa di Francis era più grande di quello che Arthur aveva immaginato. Lui fino a quel momento, era riuscito a vedere solo il salotto e la cucina e in effetti, or che lo stava visitando davvero, quell’appartamento contava molte più camere di quello suo ed era arredato con mobili di gran lunga più costosi.
Era talmente grande che il francese era riuscito perfino a ricavare una specie nicchia, o sgabuzzino non sapeva come definirlo, in cui conservava i suoi dipinti, oppure i suoi film preferiti.
Storse il naso davanti alla pila di videocassette, che contenevano ogni singolo film di François Truffaut, probabilmente il suo regista preferito.
Stranamente non trovò alcun film porno, cosa che si aspettava di vedere a man bassa nella casa del francese. Certo, “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci, non era proprio un film casto e leggero e non gli sembrava proprio l’ideale che quel deficiente lo avesse messo in bella mostra, dove anche Alfred e Matthew potevano vederlo.
Ma, con molta riluttanza, doveva ammettere che Francis aveva buon gusto in fatto di cinema: “Ultimo tango a Parigi” lo aveva visto anche lui, insieme alla sua ultima ragazza. Molto imbarazzante e molto scandaloso, ma anche molto bello. Riusciva benissimo ad immaginarsi Francis mentre se lo vedeva e automaticamente arrossì.
Più in basso, invece, si trovavano film più leggeri: i celebri cartoon Disney e qualche pellicola degli anni Cinquanta che Arthur non aveva mai visto in vita sua.
-Vogliamo vedere questo!- Alfred stava sventolando davanti a tutti una VHS con sopra disegnato un elefantino che spiccava il volo. L’inglese si irrigidì; quel cartone, “Dumbo”, lo conosceva bene e sapeva che la scena dell’imprigionamento della madre del protagonista avrebbero colpito tutti e due, in particolare Matthew.
Per fortuna, ci pensò il francese ad intervenire –Tesoro, non è più bello questo?- con voce dolce, scelse dal ripiano “Cenerentola”.
Ecco, quello andava già meglio!
Alfred corrugò le sopracciglia; non gli piaceva che gli venisse negato qualcosa –Cenerentola l’ ho già visto, Dumbo invece no . –
-Ma Dumbo…- Francis si morse un labbro, non sapeva cosa ribattere
–E Peter Pan?- intervenne allora l’inglese, con voce volutamente allegra –Al, è il più bel film Disney che abbiano mai prodotto. –
Gli porse la videocassetta e Alfred la prese in mano. Si vedeva che dalla copertina sembrava incuriosito: c’era un ragazzino che volava, seguito da altri tre e in lontananza si poteva scorgere una grande nave pirata.
Scoppiò a ridere –Ok. - poi indico il viso di Peter –Lui è un eroe?-
-Certamente!-
 
Il film era già iniziato. Alfred e Matthew erano seduti sul divanetto di fronte al televisore e i loro piedini si muovevano nell’aria, in attesa che la storia entrasse nel vivo. Sembrava che la pellicola fosse di loro gradimento.
Arthur e Francis invece, si erano accomodati sulla poltrona, in una posizione leggermente più scomoda rispetto a quella dei bambini. L’inglese si trovò a riflettere che, purtroppo per lui, non era mai stato così tanto vicino a Francis.
La mano dell’inglese era lì, poggiata pigramente al limitare dei suoi jeans. Forse non se ne era accorto, perché se c’era una cosa che Arthur non avrebbe mai fatto in tutto l’universo, quello era toccarlo, toccarlo con le sue mani, che da sempre si tenevano ad opportuna distanza dalle sue.
Francis era più concentrato a contemplare lui che il cartone, quella sua bellezza imperfetta che gli piaceva tanto. Aveva un’espressione corrucciata, forse concentrato a guardare lo schermo della televisione e ogni tanto, il francese sentiva la sua mano muoversi inavvertitamente e senza farlo apposta accanto alle sue gambe.
Sorrise e lentamente fece scivolare la mano sopra la sua, ignorando la probabile reazione che l’inglese avrebbe potuto avere.
Con suo immenso stupore, Arthur non protestò, né provo a togliere la mano; i suoi occhi rimasero assorti sulla tv, come se non si fosse accorto della presa del francese.
Quello intrecciò la mano con la sua, avvicinò le sue labbra alle punte delle dita del britannico, in una posa che gli ricordava tanto il Cavaliere che bacia la mano alla sua Dama.
Era un po’ patetico a dirla tutta, ma a lui non importava poi molto.
Probabilmente era stata la sua impressione, ma poteva giurare che Arthur avesse assunto un’espressione quasi appagata nel volto. Quasi certamente era tutto frutto della sua mente che già si era spinta troppo in là con le fantasie.
Ben presto infatti, si ritrovò davanti lo sguardo di Arthur, i suoi occhi verdi che lo fulminavano ricolmo di  profondo disappunto e, poteva giurarlo, disgusto –Mollami. La. Mano. – scandì le parole con fermezza, ma in tono basso, forse per non farsi sentire dai bambini.
Francis sorrise, i lineamenti raggianti del suo viso sembravano voler dire “non ci penso neanche” . Si avvicinò al suo orecchio –Perché? –
Sentiva la sua bocca all’altezza del lobo e l’inglese arrossì ancora di più di quanto non lo stesse facendo prima.
Dannazione, ora ci si metteva anche quel pervertito e le sue manie perverse.
Si scansò, sempre più saturo di repulsione –Lasciami in pace. – seppur aveva usato un tono disgustato, sul volto del francese non scomparì il sorrisetto soddisfatto, la stessa espressione beata che ha qualunque persona abbia vinto una sfida.
Dio se lo odiava quel sorriso!
-Non ghignare in quel modo. – si voltò verso i bambini, che erano troppo concentrati a guardare il film che prestare attenzione a loro due, per fortuna
-Non sto ghignando, mon cher…-
-Allora non ridere, non sorridere, non fissarmi e…smettila subito Francis!- alzò un po’ la voce quando sentì il dorso della mano del francese premere sul suo volto, come aveva fatto tante volte Eileen.
La sua mano andava su e poi giù e pregava con tutto sé stesso che i bambini non si girassero proprio in quel momento
- Arthur, mi sa che i tuoi pantaloni sono stretti. – ridacchiò compiaciuto, quella solita risata molto francese che all’inglese non piaceva per nulla.
Quel poco colore che gli era rimasto, era sparito violentemente, perché aveva capito cosa voleva intendere tra le righe quel maniaco schifoso.
Lo afferrò per un braccio senza troppi complimenti e lo trascinò in cucina, sotto lo sguardo accigliato e confuso di Alfred e Matthew.
Era infuriato nero, non ci aveva visto più: ma come si permetteva quel depravato a dire o a fare certe cose davanti a dei bimbi, davanti ai suoi figli? A dire cose assolutamente false e schifose, per giunta.
Il francese lo canzonò beffardo, ignorando di quanto fosse fuori di sé Arthur in quel momento
 –Vuoi concludere in fretta? – gli domandò, una volta che furono al sicuro dagli occhi indiscreti
-Tu…- sibilò colerico –Tu  brutto…maniaco, sei un deficiente .- sembrava stesse sul punto di esplodere -Non permetterti più a toccarmi nemmeno con la punta delle dita, mi fai schifo, hai capito? Sei l’essere più rivoltante che io abbia mai conosciuto e….- stava per iniziare una delle sue ramanzine sulla moralità che il francese conosceva fin troppo bene; noiose, stupide prediche che Arthur faceva solitamente per nascondere il suo penoso imbarazzo.
Ormai nella sua testa riusciva solo a recepire un sacco di “bla” confusi e poco chiari
-Davanti a dei bambini...bla bla bla…sei semplicemente disgustoso…bla bla  bla…stammi lontano almeno un metro…bla bla bla…Dio, quanto ti odio, hai una faccia insopportabile…bla bla bla…Mi stai ascoltando?-
No, non gli stava affatto prestando attenzione e come avrebbe potuto farlo, quando davanti a lui c’era la figura di Arthur che gli impartiva lezioni di formazione.
Che poi, lui era proprio la persona meno adatta a tenere certi discorsi sulla buona educazione: si stava parlando dello stesso tizio che aveva sgonfiato le ruote ad un suo professore, dopotutto!
Francis era un tipo che seguiva più la passione che il suo cervello. Sapeva che non avrebbe dovuto fare una cosa del genere, in modo particolare con quell’individuo che non la smetteva di blaterare su cose che non gli interessavano minimamente.
Ma ebbe comunque il coraggio di prendere la testa di Arthur tra le sue mani e poggiare le labbra sulla sua bocca, quella bocca che fino a pochi secondi prima lo stava insultando, velenosa e sferzante.
E se dopo un momento di stallo, raggiunto in particolare dall’effetto sorpresa di quel gesto, l’inglese era rimasto come un ebete, con gli occhi sgranati e le labbra assolutamente impassibili, un secondo dopo cercava di divincolarsi dalla presa con una forza che da parte sua, Francis ne ignorava l’esistenza
-Stai…stai lontano da me…- sibilò, allontanandosi lui stesso dal francese. Era arrossito e anche se in fondo non si era affatto pentito del suo gesto, l’altro era piuttosto dispiaciuto. Baciare sulle labbra Arthur era stata una cosa che aveva sempre sognato di fare, seppure i preamboli non erano dei migliori
-Mon cher…-
-Non chiamarmi così!- lo aggredì. In quel momento gli sembrò che tutto ciò che apparteneva a quella rana, dal suo viso e la sua voce accattivante al suo atteggiamento da stupido libertino era odioso anzi, peggio…rivoltante.
L’altro si avvicinò a lui, lo guardò dritto negli occhi e rimase in silenzio fin che Arthur non cedette e abbassò gli occhi rosso di rabbia e di imbarazzo.
Francis non capiva una cosa: se Arthur lo odiava come gli aveva ripetuto infinite volte, perché allora era lì? Perché si era sincerato tanto di sapere come stava? Ma, cosa più rilevante, perché pochi minuti prima, quando non stava pensando poi tanto a lui che gli prendeva la mano, sembrava molto felice del suo gesto?
-Tu mi ami. – era quella la risposta per Francis, balzata nella sua mente all’improvviso.
-Non è assolutamente vero!- Arthur, se possibile, arrossì ancora di più di quanto non lo stesse facendo
–Come si fa ad amare uno come te…-  era stato spietato, cinico. Non gli interessava più che Francis stava male e altre cavolate simili, ne era quasi contento.
-No? E allora perché sei qui?-
L’inglese sospirò profondamente, mentre nella sua testa sognava di prenderlo a pugni, per togliergli dalla faccia quello sorrisetto sardonico che gli si era formato in volto.
Gli dava fastidio dire certe cose, ma era la verità e l’avrebbe tolto dai guai -Perché…perché hai un braccio rotto, ecco perché! Mancavi ai bambini e io volevo solo essere gentile.–
-Non ho bisogno della tua gentilezza, Arthur .- la voce del francese suonava per la prima volta arida, quasi disdegnante. Evidentemente a lui non piaceva perdere e il fatto che Arthur non fosse ancora caduto ai suoi piedi la giudicava la più grande sconfitta della sua vita.
Per il britannico fu come ricevere un pugno in piena faccia. Lo guardò avvilito, poi domandò -Vuoi che me ne vada?-
- No resta. Ma non raccontarmi più stronzate, che ne dici?- la parola “stronzate”, detta da lui sembrava essere la più terribile volgarità del pianeta, anche se la pronunciava con quel trono di voce gentile, di chi ammetteva di aver tirato troppo la corda
-Non racconto stronzate. –
-Davvero? Allora mi ami o no?-
-No…-
L’altro sorrise malinconico. Si girò dall’altra parte e accarezzò il legno liscio del ripiano -Io invece sì. Da morire. –
Per Arthur fu come essere investiti da un tir.
Non era stupido, lui sapeva ormai da tempo che Francis desiderava con caparbietà le sue attenzioni, ma per lui erano sempre apparse come semplici bramosie che non andavano più in là del sesso; si stava parlando di Francis, dopotutto, i suoi comportamenti provocanti non lasciavano mai tanto spazio all’immaginazione.
Ma sentirsi dire certe cose, addirittura un “ti amo” detto in maniera quasi melodrammatica come una dichiarazione in piena regola, gli fece uno strano effetto.
Da una parte, provava quasi pena per quell’innamorato non corrisposto, dall’altra avrebbe tanto voluto prendere Francis a pugni fin che non avesse visto uscirgli il sangue dal naso.
-Che…che cosa? – lo guardò incredulo, era come se improvvisamente fossero rimasti solo loro due al mondo.
Francis rise con lieve amarezza –Davvero, non l’avevi capito? – l’inglese si lasciò raggiungere, guardandolo con occhi vacui –Tu, maledetto sopracciglione, mi stai facendo praticamente impazzire. Hai la lingua biforcuta e sei odioso come pochi ma…Tu mi piaci più di tutti quelli con cui sono stato messi insieme. E la lista è lunga…- si concesse una risata, ma questa ormai suonava priva di alcuna energia.
Forse perché Arthur lo stava guardando con due occhi vacui, privi perfino di tutta la rabbia che gli aveva scagliato fino a pochi secondi prima.
Sarebbe stato meglio se gli avesse rigettato tutto il suo odio addosso, con la sua voce stridula e collerica, piuttosto che guardarlo in quel modo, come se lui non valesse nulla.
-Hai finito, frog?-
-Io…- era la prima volta in vita sua che si trovava in difficoltà con qualcuno che gli piaceva. Va bene che la persona in questione era Arthur però…no, quel tono di voce così indifferente era davvero troppo.
Lo vide uscire con irruenza dalla cucina, senza neanche aspettare la sua replica e dirigersi verso il salotto come una furia –Andiamo, bambini. – sentiva la sua voce mossa dalla collera perfino da lì
-Ma il cartone non è ancora finito. – sentì la voce del piccolo Alfred che protestava, con la stessa intonazione isterica di quella che usava comunemente suo padre
-Dobbiamo andare, Al. Ce lo rivediamo a casa. –
-Ma…-
-Ho detto di no!- non lo aveva mai sentito alzare la voce con i suoi figli prima d’ora
-E Francis non lo salutiamo?-
Questo era Matthew, Francis lo sapeva. Non aveva la forza di volontà per fare niente, neanche per affacciarsi ed andare a salutare quel piccolino a cui voleva così tanto bene. Avrebbe voluto dirgli che fosse stato per lui, sarebbero rimasti, che la colpa era solo e soltanto di quell’odioso del loro papà
- No .- forse si accorse che era stato troppo duro con loro, perché si affrettò ad aggiungere -No, ha da fare. -
Se ne andarono in fretta e furia senza neanche salutarlo, come se quella fosse la loro casa e non ci fosse nessun altro con loro, come tre fuggiaschi che dovevano fare più svelti che potevano.
E in tutta la casa, ci fu quel silenzio doloroso che di solito c’è quando cala la solitudine.
Si sentiva soltanto il rumore della tv, mentre ciarlava a vuoto, e il suono malinconico dei singhiozzi di Francis.
 
 
 
 
 
 
 
Salve a tutti!
Ah, mi sa che dopo questo capitolo odierete Francis…o Arthur…o tutti e due.
E vabbè, this is FrUk and I like it, che vi piaccia o no .
Questo capitolo è stato quello più difficile da scrivere, in maniera di parole. Non sono particolarmente ferrata nelle scene di questo tipo, quindi, scusatemi se il capitolo fa schifo
Austria: Tu non sei ferrata in nulla è_è
Ringrazio già in anticipo chi leggerà e recensirà questo capitolo. In regalo avrete un Francis/catering per le vostre feste o a scelta, Spagna che balla il flamenco.
Scherzi a parte, dedico il capitolo BlueChan. Grazie per il tuo sostegno *_*
E naturalmente, anche a tutti quelli che mi seguono.
La canzone che ha ispirato questo capitolo è “Can you feel the love tonight”, la versione cantata da Elton John.
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 18
*** Profondo senso di vacuità ***


Il commerciante, che sembrava un uomo piuttosto avanti con l’età, inveiva contro i poliziotti disperato, con la voce quasi piagnucolante e l’accento più che marcato del New England.
-Erano i miei soldi, li ho guadagnati con onestà… cos’ ha questa dannato Paese che non va?- stava praticamente urlando ad Arthur, come se fosse colpa sua se quel giorno due ragazzini, tra i diciotto e i vent’anni, lo avevano rapinato.
A dire la verità, il bottino era davvero scarso, perché a quanto sembrava, il piccolo discount aveva poca clientela e l’inglese dubitava fortemente che alle dieci di mattina l’incasso fosse cospicuo. Quasi compativa quei due ragazzi.
-Signore, mi dica almeno che aspetto avevano. – lo pregò, al limite della sua pazienza, già di per sé corta.
- Ero talmente spaventato, non li ricordo…mi hanno puntato una pistola contro, quei delinquenti. –
-Non riesce neanche a fare uno sforzo?- lo incoraggiò Antonio con una voce decisamente più gentile.
Insieme a loro due avevano mandato anche Ben Sanders. Era una squadra piccolina, perché ormai il furto era già avvenuto e il proprietario aveva chiamato solo dopo che i due ladri se l’erano data a gambe con la refurtiva.
In ogni caso, era troppo tardi per acciuffarli.
-Aspetta…- strizzò gli occhi, come se in quel momento i rapinatori si trovassero accanto a lui e focalizzasse la vista per vederli meglio.
-Uno aveva i capelli ricci. Come quello lì. – indicò Ben che, sentendosi chiamato in causa, aggrottò le sopracciglia –La faccia da delinquente, già…senza offesa, eh?- rivolse un cenno a Ben che, con un gesto, gli fece capire che non doveva scusarsi.
-Ed erano vestiti in un modo…due straccioni, proprio così. – accompagnò le sue parole, colme di disappunto, annuendo energicamente – Stronzi. Drogati, ecco cosa sono. –
-Ne è sicuro?-
Arthur inarcò un sopracciglio; non che biasimasse il signore per essere così intransigente nei confronti dei suoi due ladri, fosse stato per lui, avrebbe combinato di peggio, però era decisamente di cattivo umore quel giorno.
Quella mattina aveva avuto timore di andare al lavoro e lasciare i bambini all’asilo e avrebbe tanto voluto chiamare il comandante e inventarsi che si era preso l’influenza.
Non capiva il perché, adorava il suo lavoro ed era proprio per questo che aveva lasciato l’Inghilterra, non aveva mai finto di essere malato.
Forse, semplicemente perché non voleva incontrare Francis, ma, come si era ricordato giustamente, lui non poteva lavorare né quel giorno e neanche quello dopo per via del braccio ferito e non sarebbe rientrato fino a che non si fosse destabilizzato del tutto.
Quindi, a rigore di logica, non si sarebbe dovuto preoccupare così tanto di rivederlo.
 
Si era sentito così in colpa verso Alfred e Matthew, li aveva trascinati fino a casa senza concedergli nemmeno uno straccio di spiegazione…ma cosa poteva dire?
“Vostro padre è arrabbiato con Francis perché lo ha baciato a tradimento” no, anche detta tra sé e sé era una frase ridicola.
Si sentiva così…imbarazzato! Come se fosse stato lui a baciare il francese e non il contrario.
Il fatto era che lui, mentre lo baciava…insomma…
- Kirkland?- la voce preoccupata di Ben lo fece tornare sulla Terra –Kirkland stai bene?- lo stava guardando con uno sguardo accigliato.
-Mai stato meglio. – si sforzò di sorridere, ma era convinto che quello che aveva assunto sulla faccia era tutto, meno che un sorriso.
-Mi sta prendendo per un bugiardo, eh?- adesso il negoziante stava urlando in faccia ad Antonio –Certo che sono dei drogati, solo delle persone simili potrebbero fare una cosa del genere…-
-Ok, ok…- il tono di voce di Antonio era remissivo e teneva le braccia all’altezza del petto, come se avesse avuto paura che quell’uomo dall’aria gracile potesse assalirlo con violenza.
-Giovanotto, ma è idiota o cosa?-
Ad Arthur scappò una risata ed entrambi i suoi colleghi si voltarono per guardarlo con aria, sorpresa da parte di Ben e accigliata per quanto riguardava Antonio.
-Hai preso nota di tutto?- domandò Ben ad Antonio, una volta usciti dal discount, diretti verso l’auto della polizia.
-Cosa, che sono un idiota?- ribatté lo spagnolo con una voce amara ed offesa che quasi non sembrava la sua. Lui, che di solito era piuttosto comprensivo e gentile…
Ben rise, arrogante, una risata che ad Arthur ricordò molto quella di Alfred  -Tanto non riusciranno mai a trovarli, i ladri intendo. Un tizio biondo con i capelli un po’ lunghi che indossa una felpa rossa e un berretto degli “Yankees” e un ricciolino con la maglietta color cachi e i jeans. Sembra la descrizione mia e di Bonnefoy!- rise ancora una volta, come se quella fosse stata davvero una cosa divertente.
Almeno per Arthur non lo era stato, infatti, nel sentir pronunciare quel nome, trasalì.
Perché qualunque cosa dicessero gli altri, qualunque cosa vedesse, tutto gli ricordava Francis? Maledizione, lui voleva toglierselo dalla testa quello stupido eppure, più si sforzava, più lui tornava prepotentemente a farsi strada tra i suoi pensieri.
-Credimi, Francis non è proprio il tipo da indossare felpe rosse e cappellini!- esclamò allegro Antonio, una volta ritrovata la sua natura spensierata.
-A proposito, come sta?-
Lo spagnolo assunse un’espressione dispiaciuta –Oh, di salute bene…-
Forse era stata solo l’impressione di Arthur, ma era certo che il ragazzo volesse esprimere dell’altro con quel tono di voce grave e quel cipiglio contrito, come se in qualche modo volesse alludere ad altro.
Dentro la macchina li aspettava Lovino, a braccia conserte –Alla buon ora, eh?- aveva un tono di voce spazientito che all’inglese mise il nervoso: non erano mica andati a farsi una bevuta, cosa aveva da lamentarsi quello?
-Potevi anche venire a darci una mano…- ribatté a sua volta, colmo di irritazione.
-E perché mai, bastardo? Quei cazzoni sono scappati, a cosa vi serviva una persona in più? O vuoi forse intendere che tre uomini come voi non sanno fare un sopralluogo. –
Antonio si limitò a sorridere, in presenza dell’italiano non era capace a fare altro, e Ben aggrottò le sopracciglia fino a farle sembrare una cosa sola, per quanto erano vicine; sembrava volesse dire “Eih, non starai certo parlando di me?”.
Lovino continuò a parlare, sempre più inacidito –Quello ha perso il suo tempo. A meno che le telecamere non li inchiodano, quei due col cazzo che li ritroviamo. –
-La telecamera ha ripreso tutto, per fortuna. – Antonio era alquanto soddisfatto, come se all’italiano avrebbe fatto piacere sentirsi dire una cosa simile.
Tornarono alla centrale in macchina, senza dirsi molto. Gli unici che davvero stavano facendo un minimo di conversazione erano Lovino ed Antonio, ma l’italiano sembrava preferisse starsene in silenzio e quindi alla fin fine si sentiva soltanto la voce gioviale dello spagnolo.
 
 Erano le due di pomeriggio e il turno di Arthur era finito. Doveva sbrigarsi a cambiarsi, pensava, così sarebbe passato subito a riprendere Alfred e Matthew dall’asilo. Era già fuori, al parcheggio della centrale, quando sentì una voce chiamarlo.
- Arturo…Arturo, posso parlarti?-
L’inglese ruotò gli occhi esasperato; cosa diamine voleva Antonio da lui, ora? Non si erano mai rivolti spontaneamente la parola tra di loro, prima di allora perlomeno e secondo, ma non per questo meno importante, Antonio sapeva benissimo che gli dava fastidio essere chiamato “Arturo”.
-Cosa vuoi?- il suo tono di voce era più aggressivo di quello che usava comunemente quando parlava con lo spagnolo. Il fatto era che Arthur aveva intuito con facilità il perché lo avesse chiamato.
Anzi, sperava con tutto sé stesso si sbagliasse e che lo spagnolo l’avesse interpellato solamente per rompergli le scatole, magari voleva raccontargli della sua uscita con Lovino, cosa che tra l’altro non lo interessava per nulla.
D’altro canto, Antonio non si scompose di un millimetro, anzi, abbozzò perfino un sorriso amichevole, cosa che certamente non si sarebbe mai permesso con Arthur.
Questo lo fece ancora più insospettire -Solo parlare… -
-Di cosa?-
-Ecco…So che tu e…- si morse un labbro e si prese del tempo, può darsi per cercare le parole adatte da dire, ma Arthur lo anticipò, secco e indifferente.
-So già che mi vuoi dire e stammi bene a sentire, Carriedo.  Tu e Francis siete amici ma io non…- e sottolineò il “non” con estrema accuratezza, assumendo un’inflessione ancora più dura -…Io non voglio più sentire parlare di lui.–
Anche se la sua voce era salda e tenace, Antonio provò a ribattere –Lui è dispiaciuto per com’è andata a finire. –
Il britannico fece una risata un po’ sinistra.
–Beh, doveva pensarci prima di comportarsi da pervertito qual’ è. - era talmente febbricitante in quel momento, che lo spagnolo temette che  da un momento all’altro potesse esplodere come mai aveva fatto prima – Te l’ ha detto il tuo amichetto che mi stava accarezzando davanti ai mie figli? Davanti a due bambini che non hanno più la madre e hanno solo me come riferimento? Eh, te lo ha detto?-
Vedendo il viso dello spagnolo intuì che il francese aveva tranquillamente steso un velo pietoso su quella parte della faccenda e questo gli fece aumentare ancora di più l’ira che serbava nei suoi confronti –Ma lui…-
-Lui niente!- alzò improvvisamente la voce, tanto che Antonio trasalì –Lui non capisce che devo crescere due bimbi e lui non farà mai parte della mia vita, deve soltanto toglierselo dalla testa. Cavolo, ma non se ne rende conto?- i suoi occhi fiammeggiavano di collera –Lui non si sarebbe dovuto neanche permettere, con o senza Alfred e Matthew. Io non sono come voi due…-
-Come voi due?- ripeté Antonio, fattosi improvvisamente più cupo e accigliandosi.
Arthur arrossì, ma non demorse -Oh, avanti, non fare il finto tonto!- non gli importava se lo aveva offeso o se il suo atteggiamento era razzista. Era arrabbiato, con Francis in primis perché era tutta colpa sua se adesso si ritrovava in quello stato e poi con Antonio che era talmente stupido da non rendersi conto della situazione
-Non mi piace Francis e non mi piacerebbe neanche se si togliesse l’accento francese e l’atteggiamento da frivolo immorale. Tu sai cosa vuol dire, vero? –
Antonio sulle prime rimase un po’ spiazzato e rimase a guardarlo a bocca aperta, incapace di rispondere; cosa poteva dirgli? In fondo, se ad Arthur Francis non piaceva per partito preso, lui non poteva fare nulla per cambiare la situazione.
E Francis poteva pensare quello che voleva, che Arthur faceva finta di disprezzarlo e via di seguito, ma ciò non toglieva che l’inglese non l’avrebbe mai ammesso.
-Capisco…- sussurrò solamente, in imbarazzo. Antonio non si era mai tanto preoccupato di quello che pensavano gli altri dei suoi gusti. La gente magari lo guardava storto, come se fosse stato un malato terminale, ma la cosa non gli era mai pesata così tanto, perché aveva capito che lui era normale.
Era normale sì, ma Arthur sembrava non pensarla allo stesso modo; ignorava se il problema fosse perché lui era un padre e, in quanto tale, doveva incarnare quella figura alla perfezione oppure semplicemente perché, a differenza sua, l’inglese aveva paura eccome dell’opinione altrui.
Lo guardò allontanarsi in silenzio, senza neanche provare a chiamarlo e farlo ragionare.
Cosa gli avrebbe potuto dire? Che Francis era innamorato di lui e che in fondo anche l’inglese ricambiava, doveva solo accettarsi per quello che era?
Perché non era così, almeno secondo lo spagnolo; il suo migliore amico gli aveva raccontato di come Arthur aveva reagito quando lo aveva preso per mano, di come aveva sorriso, ma…da qui a dire che quell’inglese provasse qualcosa, ne passava di acqua sotto i ponti
-Che cosa fai, aspetti che qualcuno ti metta sotto? Se vuoi esaudisco il desiderio…-
Antonio sorrise e si girò per guardare Lovino, fermatosi con la macchina a poca distanza da lui. Certo, il parcheggio non era proprio il luogo migliore per fare esami di coscienza –Stavo pensando.-
-Ti hanno fottuto la moto?- con quel tono di voce sempre molto scorbutico.
Rise –No…- “magari” avrebbe voluto aggiungere, così aveva una scusa in più per chiedergli un passaggio.
Chissà, si trovò a riflettere, se anche Lovino, come Arthur, reagirebbe in quel modo se lo baciassi.
Magari, farebbe di peggio.
-Beh, magari se togliessi il tuo culo da qui, io passerei molto volentieri…- la voce scocciata dell’italiano lo richiamò all’attenzione
Sorrise; era sempre il solito, non sarebbe cambiato mai. Non che gli dispiacesse, ovviamente. Era l’unico che rimaneva se stesso, in ogni situazione e questa era una qualità apprezzabile, secondo il suo punto di vista -Oh, certo, scusa Lovinito.-
L’altro lo guardò come se davanti a sé si trovasse un orribile insetto e quando lo spagnolo si tirò più in là per lasciarlo passare, con la testa si girò verso di lui –Beh, ci vediamo domani, bastardo.-
Antonio annuì –Ciao, querido. –
-Non so cosa cazzo voglia dire “querido”, ma forse è meglio che non lo sappia. – borbottò, prima di ripartire.
Già, forse è meglio che tu non sappia, Lovino. Se c’è una cosa che assolutamente non voglio è che tra noi due finisca come Arthur e Francis.
 
 
 Quando i bambini lo videro entrare dalla porta principale, corsero subito ad abbracciarlo.
Sentire la vivace vocetta di Alfred gridare “Eih, papà, non sai cosa è successo!- e soprattutto, l’abbraccio affettuoso e timido di Matthew, gli fece improvvisamente dimenticare tutto; la conversazione ostile avuta con Antonio e tutti quei pensieri deprimenti che gli orbitavano in testa.
Perché, da una parte c’era il suo lato razionale che gli diceva, o meglio imponeva, di lasciar perdere Francis e tutto il resto, che in quel momento lui doveva pensare solo ai suoi figli e a nient’altro.
D’altronde, era stato il francese a cominciare con quel corteggiamento assolutamente indegno, mica lui.
Fosse stato per lui, quel bacio non ci sarebbe mai stato.
Dall’altra però, la sua parte sentimentale, che faceva timidamente capolino di tanto in tanto, gli faceva notare che tutto sommato, nel profondo del suo cuore (anche se c’era molto da scavare), il francese non era poi così male.
Alla fine, era prevalsa la facciata ragionevole, come sempre. Lui non era attratto da Francis, neanche un pochino, anzi. Lui non lo sopportava proprio.
E il fatto che quando era vicino al francese sentiva una specie di groviglio allo stomaco, come se le budella improvvisamente si fossero attorcigliate…beh, non voleva dire assolutamente nulla!
Poteva anche voler dire che aveva la nausea…era sicuramente quello, non esistevano altre spiegazioni plausibili.
-Papà, lo sai che oggi ho sventato un crimine?- gli stava domandando intanto Alfred, con voce fiera
“Anche io, pensa un po’” avrebbe voluto rispondergli –Dai, racconta tutto. – lo incoraggiò, ridendo. La voce del suo bambino lo faceva stare meglio
-Yong stava per rubare la merendina di Kiku, ma io l’ho difeso e gli ho detto di lasciarlo in pace, perché Kiku è il mio migliore amico e gli eroi aiutano sempre i loro amici. –
Sorrise, il fatto che Al fosse sempre così allegro e infantile al tempo stesso, lo inteneriva. Per fortuna c’erano loro due a tirargli su il morale
-Oh, ma bravo…- con voce esageratamente colpito, l’inglese gli diede un buffetto sulla guancia –E tu Matthew?-
Matthew scrollò le spalle –Niente di speciale…-
Si sbagliava o era un po’ triste?
-Gli hanno fatto qualche dispetto?- domandò al fratello, ma quello scosse la testa
-No, gli altri non lo vedono proprio a parte Caroline. –
Caroline e Kiku erano state le prime amicizie che i suoi figli avevano fatto a scuola. Se n’erano aggiunte altre com’era naturale, soprattutto per quanto riguardava Al, che ogni giorno aveva da raccontargli qualcosa di nuovo
-Sai che Yong So oggi ha morso Kiku, papà? Poverino, chissà perché lo odia così tanto. Sua sorella Mei invece gli vuole tanto bene, però ci costringe sempre a giocare a “mamma e figlia” e io devo sempre fare il figlio grande. Perché non posso mai fare il papà?-
Mei e Yong So erano i nipoti dell’ispettore Wang.  L’inglese lo sapeva perché una volta lo aveva visto mentre stava per entrare dentro l’asilo tenendo per mano i due bambini.
“Kirkland? Anche tu qui, aru?” aveva domandato lui con il suo buffo accento.
E gli aveva spiegato che lui aveva una sorella più piccola e di come  l’aiutasse con i bambini “Lei e suo marito devono lavorare e a volte fanno fatica a gestirsi con l’orario, aru. A volte li accompagno io, a volte mio figlio…un po’ per ciascuno, aru.”
-Allora, Matt, perché sei così triste?-
Non c’era neanche bisogno di chiedere perché suo figlio lo fosse, Arthur aveva imparato a conoscerlo bene.
Quel piccolino non si preoccupava mai per sé stesso; a lui dispiaceva che suo padre avesse litigato con lo “zio” senza una ragione ben precisa. Ovviamente, lui e i suoi figli non avevano indugiato sull’argomento, ma era evidente che a Matt quella situazione dispiaceva e anche molto.
Il britannico sospirò. Si rammaricava del fatto che il suo bambino fosse così giù per una cosa che riguardava lui, ma non voleva sentire ragioni: lui e Francis non potevano parlarsi.
Non voleva più sentirlo, né vederlo.
Sospirò un po’ abbattuto, senza aspettare alcuna risposta –Sapete cosa facciamo?-
-No! Cosa?- rispose Alfred, come al solito molto curioso
-Questo pomeriggio andiamo a fare una passeggiata al molo. Magari invitiamo anche Lily, che ne dite?-
I due si mostrarono entusiasti della proposta del  loro papà, perfino Matthew sembrava essersi rasserenato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Salve a tutti! Allora, forse avrete notato che questo capitolo è un po’ più…non so come definirlo in realtà… introspettivo? Mah, io gli ho affibbiato un nomignolo: il “capitolo della vacuità”, nel senso che a mio parere, in questo capitolo Arthur dia dimostrazione di sentirsi incompleto e soprattutto, incerto. Boh, interpretatelo come volete, io come al solito dimostro di essere un’inetta >_< Yong e Mei sono rispettivamente Corea e Taiwan. Spero che da quel poco che ho detto abbia indovinato i loro caratteri. Invece il figlio di Yao sarebbe Hong Kong.
Ringrazio tutti quelli che recensiranno. Dedico il capitolo a Sweet Witch per la pazienza con cui recensisce questa storia. Graziegraziegrazie.
Inoltre, siccome la raccolta premi ha avuto un gran successo nello scorso capitolo, questa volta potrete scegliere tra: Arthur e Lovino versione poliziotto buono e poliziotto cattivo (a voi la scelta su chi interpreta chi) oppure…ChibiAmerica e ChibiCanada *_* (quando finirà questa follia?)
Pace, amore e pony rosa!
Cosmopolita
 
PS: Volevo avvisarvi che probabilmente, dal 12 settembre in avanti, farò molta fatica ad aggiornare, perché…beh, avrete intuito perché. Sono talmente limitata che posso pensare ad una sola cosa alla volta e la scuola ha la priorità. Cercherò comunque di aggiornare con frequenza, ma sarà molto difficile (tra me e il greco antico coesiste un rapporto molto simile a quello di Arthur e Francis, cercate di capirmi u_u)
 

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Capitolo 19
*** Provare ad andare avanti ***


J’aime de vos longs yeux la lumière verdatre,
douce beauté, mais tout aujour’hui m’est amer,
et rien, ni vostre amour, ni le boudoir, ni l’atre,
ne me vaut le soleil rayonnant su la mer.(…)
 
Lily si sentiva sempre un po’ in soggezione quando aveva a che fare con uomini più grandi di lei, complice probabilmente il fatto che suo fratello, da piccola, le aveva sempre trasmesso l’idea che non si doveva mai fidare di nessuno, dei ragazzi più grandi in particolare.
Tutt’ora, a vent’anni, faceva molta fatica a socializzare e nei rapporti interpersonali era molto più aperta con le ragazze che con gli uomini.
Per questo era rimasta interdetta quando Arthur la chiamò per uscire, con quella sua voce imbarazzata di chi, come lei, si vergognava di manifestare qualcosa.
Certo, di mezzo c’erano anche i Alfred e Matthew e questo la faceva sentire meglio, ma…
-Vash, io esco!- urlò al fratello, che stava battendo qualcosa al computer, nell’altra stanza. 
Affari di lavoro, immaginava lei.
-Dove vai? Con chi va? A che ora torni?- come si aspettava, suo fratello la tempestò di domande.
Lily arrossì; voleva mentire. Lei usciva spesso con i ragazzi, però ogni volta che lo diceva a Vash, non la sottraeva dalle solite raccomandazioni: “Non bere alcool, non farti trascinare, non combinare bravate, non fare sesso e fa pagare sempre l’uomo” e via di seguito.
-Esco con un’amica…-
-Quale?- la precedette lui
-Sesel. Con Sesel. Torno presto non preoccuparti, andiamo al mare. –
Suo fratello si affacciò dallo studio e rimase a guardarla con uno sguardo perplesso –Con questo tempo?- con un cenno, indicò dalla finestra le nuvole che si addensavano in cielo.
La ragazza si morse un labbro –Ma no, facciamo una passeggiata sul lungomare, fratellone, non preoccuparti. –
Vash la squadrò, sempre più accigliato –Non…-
-…fare cose stupide. – completò lei arrossendo –Lo so. –
Annuì compiaciuto –E non…-
-…dare confidenza agli sconosciuti.– sembrava che stessero giocando ad uno di quei giochi in cui uno diceva una frase e l’altra doveva completarlo con il pezzo rimanente.
Ma, se questo bastava a far calmare suo fratello, allora andava bene anche per lei.
Fuori non faceva così tanto freddo, seppure non ci fosse neanche un raggio di sole penetrato attraverso le nubi.
Arthur la stava aspettando seduto su una panchina insieme ai suoi bambini e, quando la vide, la salutò con un cenno
-Ciao Liechtenstein!- urlò Alfred non appena la vide. Da quando aveva capito per bene la pronuncia del suo Paese d’origine, per lui era diventata “Liechtenstein” e non Lily. A lei non dispiaceva, anzi, di solito si metteva a ridere quando la chiamava così.
Sorrise anche lei e si avvicinò alla famiglia. Si sentiva un po’ il terzo incomodo della situazione, anzi, contando Matthew, il quarto.
Vedere Arthur seduto sorridente in compagnia dei suoi figli le aveva fatto venir voglia di girare i tacchi ed andarsene via, neanche lei sapeva spiegarsi il motivo.
Arthur adorava il mare d’inverno. Non l’Oceano Atlantico che si vedeva dalla Baia di New York, ma quello di casa sua, in Inghilterra. Non a Londra, ovviamente, ma in un paesino vicino Plymouth, dove tempo prima abitavano i suoi nonni paterni.
Adorava il silenzio assoluto, l’unico rumore era quello delle onde che si infrangevano sulla riva e gli dava un senso di malinconia, la sensazione che tutto d’improvviso era come rimasto sospeso, fermo.
Ora era maggio e di certo non si trovavano nella contea del Devon , ma passeggiare silenziosamente con Lily, con quel tempo nuvoloso e poco adatto per uscire, gli ricordava quel panorama a cui era molto affezionato.
La ragazzina non era di molta compagnia, visto che non spiccicava una parola a parte quando gli si domandava qualcosa, ma a questo Arthur non importava. Ci pensava Alfred a riempire con i suoi chiacchiericci i silenzi tra loro due
-A casa della mamma non c’era il mare, però noi in estate andavamo in un posto bellissimo dove c’era. Te lo ricordi Matt?-
Rideva, rideva sempre in quel modo spontaneo, meraviglioso e suo padre non riusciva a capire come facesse. Anche lui avrebbe voluto avere la stessa capacità di suo figlio; avrebbe voluto ridere a crepapelle per le situazioni stupide, voleva ridere perché ne aveva voglia e basta.
Perché ad Al veniva naturale e invece a lui no? Non che non ridesse mai, ma in quel momento non aveva proprio lo slancio per farlo.
Dopo aver camminato a lungo, si erano fermati in un chiosco vicino alla spiaggia. Matthew e Alfred special modo, insistettero per andare a giocare “sulla sabbia” per dirla a parole loro e suo padre li fece fare.
Lui e Lily li osservarono per un po’, bevendo la cioccolata calda che avevano ordinato, fino a che l’inglese non aprì bocca
-Lily, posso farti una domanda?–
Si sentiva strano. Tra tutte le opzioni possibili, non avrebbe mai e poi mai scelto una donna a cui rivelare le sue confidenze ma, chissà per quale assurdo perché, quella ragazza gli ispirava fiducia.
Lei lo fissò con i suoi grandi occhi verdi, lattiginosi –Dimmi pure. -
Sospirò. Avrebbe voluto dirle di lasciar perdere, si vergognava tantissimo.
Non gli era mai piaciuto mostrare agli altri le sue debolezze, non voleva suscitare pena – Ti è mai…capitato di innamorarti della persona sbagliata?-
Involontariamente, Lily arrossì; le era capitato eccome di innamorarsi della persona sbagliata.
Era Roderich Edelstein, un austriaco che suonava al conservatorio, davvero molto promettente. Un ragazzo gentile, capace, distinto, il migliore amico di suo fratello.
-Sì. – rispose con voce stranamente roca, lei che di solito parlava con quel fare sommesso e lieve.
Cosa c’era di sbagliato, a parte l’età? Lei aveva appena diciotto anni, lui venticinque, ma…per il resto? Lui era diligente, il suo sogno era di diventare pianista ed era ostinato nell’ottenere quello che desiderava.
All’inizio non gli era piaciuto. Suo fratello perdeva il tempo con lui, pendeva letteralmente dalle sue labbra e lei era invidiosa, gelosa. Vash aveva sempre avuto occhi per lei e tutto d’un tratto sembrava preferire quello sconosciuto alla sua sorellina.
Ma un giorno aveva assistito ad una delle sue interpretazioni al pianoforte e ne era rimasta folgorata. Al piano Roderich cambiava completamente atteggiamento e dalla persona scialba che Lily aveva sempre creduto che fosse, si trasformava in qualcosa di unico.
Le sue mani lunghe si muovevano sui tasti con naturalezza, in un modo che le dava la sensazione che suonare quello strumento fosse la cosa più facile del mondo
-Sul serio?- l’inglese aggrottò le sopracciglia. Ad ogni minuto che passava, si sentiva sempre più stupido
Annuì, la sua pelle aveva assunto un colorito talmente vivido che non sembrava naturale –Era il migliore amico di mio fratello. Ma poi, hanno litigato. –
Per fortuna, Arthur non le domandò il perché, discreto come sempre.
Neanche lei lo sapeva. Forse, suo fratello non vedeva di buon occhio quello che stava accadendo tra loro due, era certamente così. Per questo l’amore tra lei e Rod era sbagliato; a Vash non andava a genio. Era diventato geloso, proprio come lei all’inizio
-Ci siamo frequentati per molto tempo. Sette mesi, forse…lui poi è tornato in Austria e…-
-E’ stato brutto?- la interruppe lui, con una specie di allarmismo nel tono della sua voce.
Lily si prese il suo tempo di riflessione. La linea diritta della sua bocca, piano piano si curvò in un sorriso
–N…no.- il suo sorriso divenne dolce- È stata una bella storia e anche se è finita…beh, ciò non toglie che è stata bella, no?- per la prima volta, alle orecchie dell’inglese quella voce suonò ferma, potente.
L’altro annuì, poco convinto in realtà.
-Roderich e io forse non siamo stati dei perfetti fidanzati. Ci saremmo baciati sì e no quattro volte, ma credimi, è stata la più felice unione della mia vita, anche se mio fratello non approvava. Non devi preoccuparti di quello che le persone pensano, insomma, credo che fino a che due persone si vogliono bene e si rispettano, quella tra loro non è una cosa sbagliata. È solo la gente che pensa sia così, ma… – non aveva mai fatto un discorso così lungo in vita sua, si era bloccata improvvisamente, con le parole che le morivano in gola.
I suoi occhi si incontrarono con quelli di Arthur –Tu, invece?-
Vedendo che l’inglese non accennava a rispondere, si affrettò ad aggiungere, imbarazzata –Non che siano fatti miei.–
-Esatto. – rispose secco, più che altro perchè era stato preso in contropiede. Non avrebbe voluto essere così sgarbato.
Si sentiva uno sciocco, farsi dare un consiglio da una ragazzina, farle capire che lui, dentro di sé, non era quella persona tutto d’un pezzo che voleva dare a vedere.
Eppure, forse Lily aveva ragione, nonostante tutti i suoi sforzi per negarlo; era la gente a dire che era sbagliato, ma lui non era la gente.
-Ti…ti ringrazio…- mugugnò poco dopo, sforzandosi di sembrare poco interessato alla faccenda
Lily, seppure fosse stupita per come l'inglese le aveva risposto, gli dedicò uno dei suoi soliti sorrisi comprensivi –Figurati. Spero che ti sia stata d’aiuto. –

Il giorno dopo non doveva lavorare, così, per la gioia dei suoi figli, svegliò loro un po’ più tardi rispetto al solito e li aveva accompagnato all’asilo con tutta calma.
Li aveva baciati entrambi sulla guancia, aveva detto loro “vi voglio bene”. Più i giorni passavano e più gli veniva naturale farlo.
Le parole di Lily gli erano rimaste impresse nella mente e avevano girato dentro di questa per tutta la notte, tanto da tenerlo sveglio.
Eppure, ora il divano duro come il marmo non c’era più, o meglio, non dormiva più lì da quando i bambini avevano la cameretta nuova; ma il problema dell’insonnia era rimasto comunque.
È solo la gente a pensare che una storia sia sbagliata.
È solo la gente a pensarlo…
Forse Lily aveva ragione, forse no, o più semplicemente, Arthur non avrebbe dovuto dare retta ai consigli di una ragazzina con molta meno esperienza della sua.
Fatto sta che aveva girato per Midtown e non era perché avesse voglia di visitare l’Empire State Building.
 
(…) Et puortant aimez-moi, tendre coeur! Soyez mère
meme pour un ingrat, meme pour un méchant;
amante ou soeur, soyez la douceur ephémère
d’un glorieux automne ou d’un soleil couchant.(…)
 
Ad Antonio non era mai piaciuta la pioggia, lo deprimeva.
Quando quella mattina si era svegliato e aveva visto le gocce di pioggia battere sulla finestra pensò che la giornata non poteva iniziare peggio di così.
Le strade di New York erano più trafficate del solito e lui con la sua moto si era bagnato tutto, perciò era arrivato in ufficio tutto zuppo, oltre che in ritardo.
Quando entrò, Lovino, che era arrivato prima di lui, si voltò per guardarlo storto –Ma cosa hai fatto, sei caduto nell’Hudson?-
Antonio, nonostante rischiasse di beccarsi un raffreddore se continuava ad andare in giro con quei vestiti tutti fradici, sorrise divertito –Quasi. Piove. –
-Questo lo so. – la voce dell’altro era scocciata, un po’ sarcastica a dirla tutta –Fanculo alla pioggia. –
-A chi lo dici. – lo spagnolo si indicò sé stesso, i capelli gli si erano attaccati alla pelle per quanto erano bagnati –Io la odio. –
Lovino fece un cenno di assenso, come se gli stesse dicendo che non la sopportava neanche lui –è un bordello ogni volta che piove in questa maledetta città. –
Antonio rise, poi rimase a fissarlo per minuti che parvero interminabili. Guardò a lungo i capelli scuri dell’italiano e il colore dei suoi occhi di un marrone talmente chiaro da sembrare ambrato.
Notando che Lovino si stava alquanto innervosendo per quei due occhi puntati su di lui, si ricompose, tossicchiò un po’ e disse, con una voce forse troppo enfatica da poter risultare vera –Io vado a cambiarmi. –
L’italiano non rispose, semplicemente restò a guardare le gocce di pioggia che rigavano il vetro della finestra.
Quando Antonio rientrò, lo trovò ancora lì, annoiato e con gli occhi perfettamente fissi sul vetro
-Sembra non abbia nessuna voglia di smettere, eh?-
Lovino sobbalzò al suono della sua voce –Già…e tu come cazzo fai a tornare in moto, con questa merda di tempo?-
Fece spallucce –Vedremo. –
Erano soli, soli, il che era strano perché in ufficio da loro si trovavano come minimo tre persone.
Antonio era combattuto dall’impulso di andare dall’italiano e confessargli tutto il suo amore; di come gli piaceva quando sorrideva in quel modo un po’ altezzoso, come se lo facesse perché era costretto e di come aveva voglia di scoprire quella dolcezza che, ne era sicuro, era certamente nascosto da qualche parte.
Poi pensava ad Arthur e a come aveva reagito davanti alle attenzioni di Francis.
-Lovino?-
-Che vuoi. – gentile come sempre.
Antonio deglutì e si sforzò di assumere un atteggiamento rilassato –Tu hai pregiudizi?-
Si girò verso la sua parte, lo guardò dritto negli occhi –In che senso, scusa?-
-Beh…- non si era mai sentito tanto idiota in vita sua, peggio di quando il commerciante del discount gli aveva urlato di non avere un minimo di sale in zucca o di quando sua madre lo aveva fissato sbigottita quando le aveva confessato:
“A me piacciono gli uomini”.
Ma Lovino lo interruppe, freddo e stranamente calmo, per la prima volta da quando lo conosceva –Guarda che ti ho capito, eh? Ma per chi mi hai preso, per un cretino?-
Aggrottò le sopracciglia talmente tanto che ormai erano diventate una sola e lunga linea. Davvero, non riusciva a capire a cosa alludesse –Cosa vorresti dire? –
-Io so cosa sei. – rispose semplicemente, con la voce piena di disprezzo puro, non diverso da quello che usava abitualmente, in ogni caso –Credi che non me ne sia accorto? Tutte quelle domande dei tuoi amici, tutti quei sorrisi durante la cena dell’altra sera, tutte quelle maldette attenzioni…davvero, quanto scemo pensi che io sia? –
Fu come se qualcuno si fosse affacciato dal corridoio di fianco e lo avesse bagnato con una secchiata di acqua gelida, come se la finestra all’improvviso si fosse aperta, lasciando entrare il freddo gelido;
Lui aveva capito e chissà quanti ci erano arrivati, prima di lui.
Improvvisamente si sentì osservato, quasi fosse troppo scoperto; lui aveva sempre cercato di non darlo a vedere, eppure, Lovino l’aveva capito. Aveva capito ogni cosa –Lovinito…non è come pensi…-
-Ah, davvero?- fece ironico –E com’è, sentiamo?-
-Io…- strinse i pugni, abbassò lo sguardo, imbarazzato come mai lo era stato prima
–Va bene, diciamo che è così. Diciamo che sono attratto dagli uomini. – gli uscì fuori una voce determinata, secca, quasi insolita a quella allegra e spensierata che l’italiano sentiva uscire da quella bocca – Diciamo che mi piaci tu, se proprio devo essere sincero. – tornò a guardarlo dritto negli occhi e notò di come l’italiano fosse arrossito tutto di colpo
- C’è qualcosa di sbagliato? Avanti, dimmi pure…magari mi spiegherai anche perché sei uscito con me, pur sapendo che io sono…-
-La smetti?- urlò, con la voce contratta dal nervosismo –Ci stanno sentendo tutti. –
-Non c’è nessuno qui. – ecco, adesso era certo che qualcuno lo aveva sentito.
E, così come avevano alzato entrambi la voce, con la stessa velocità erano ritornati silenziosi.
Antonio si era sentito in colpa per aver alzato la voce in quel modo, con Lovino specialmente. Adesso poteva andare tranquillamente a fare compagnia a Francis nell’isola di “Due di Picche”.
-Lovino…-
-Sta zitto, per favore. – beh, se doveva trovare qualcosa di positivo in tutto quello, poteva tranquillamente affermare che il tono di Lovino era rimasto scorbutico come al solito.
Dopo una pausa di silenzio che sembrava essere andata avanti per svariati minuti, l’italiano riprese a parlare–Vuoi un passaggio?-
Rimase sbigottito, tanto che sbarrò gli occhi per la sorpresa –Cosa?-
Vide l’italiano alzare gli occhi al cielo –Ho detto se vuoi un passaggio. Non dirmi che vuoi tornare a casa con la tua moto, con il putiferio che c’è fuori…-
Avrebbe voluto alzarsi in piedi, mettersi a saltellare e urlare “Che sei tu, cosa ne hai fatto di Lovino Vargas”, ma era troppo stupito per ribattere davvero qualcosa di sensato
-Eih, bastardo. – ora lo riconosceva! Cavolo, per un attimo aveva pensato ad un rapimento alieno –Allora?-
Sorrise, come un ebete, ma davvero non sapeva cosa dire. Aveva creduto che la reazione di Lovino fosse stata come, se non peggio, quella di Arthur –Vuoi dire che…-
Lo interruppe con un verso di stizza, come se non volesse più sen tir parlare dell’argomento –Senti, bastardo, diciamo che ti sto dando una…possibilità, chiamala come ti pare. Ma non credere che questo voglia dire qualcosa. –
Certo che no Lovino, certo che no. Ma già il fatto che aveva reagito in quel modo, ad Antonio già bastava.
 
I giorni passavano, ma Francis non riusciva a scandirli bene nella sua testa.
Solitamente la sua vita era organizzata bene; la mattina andava a lavorare e il resto della giornata lo passava a dedicarsi ai suoi infiniti hobbies. La sera usciva, o con Gilbert e Antonio oppure con la sua nuova conquista.
Ora invece, con il braccio fuori uso non poteva più lavorare.
Certo, poteva comunque riprendere a fare le cose di prima, anzi, adesso aveva più tempo a disposizione, ma era comunque diverso.
Il rifiuto di Arthur ormai l’aveva passato; insomma, lui era pur sempre l’affascinante Francis Bonnefoy, quello che aveva sempre la frase giusta da dire, non era certo colpa sua se quel…quel bruchetto insignificante non lo voleva capire!
Il mare è pieno di pesci…
Già…


Ma chi voleva prendere in giro?
La verità, quella reale e pura, era che Arthur gli mancava e tanto pure.
Il suo “no” non era solamente stata una partita persa, ma anche qualcosa di più profondo, qualcosa che gli faceva male sul serio.
Non era soltanto una ferita al suo orgoglio. Sapeva che l’inglese era restio nei suoi confronti e doveva aspettarselo che avrebbe reagito così, ma…
Ma, chissà perché, quando qualcuno è innamorato di una persone, arriva a pensare che anche la sudetta amata ricambi, perché ogni piccolo gesto diventa un chiaro segno del suo amore.
Anche lui si era illuso che Arthur contraccambiasse, ma evidentemente si sbagliava
“lui non vuole parlarmi più…” pensò “E devo rassegnarmi”.
Non fece neanche in tempo a riflettere sulla faccenda, che sentì suonare il campanello della porta.
Pensava fosse Antonio che era venuto a consolarlo, o Eliza, che era venuta per chiedergli cosa pensava del completino che avevano comprato per il bambino.
Non era nessuno di loro.
-Che ci fai qui?-
Davanti a lui c’era (e non era una visione anche se all’inizio aveva preso in considerazione l'ipotesi) Arthur, in carne ed ossa.
Non sembrava minaccioso, tutt’al più, pareva avesse tanto bisogno di chiarimenti, come lui, del resto
-Ciao. – la voce dell’inglese era normale, tranquilla. Certo, era un pochino tesa, ma Francis si aspettava che, una volta rivisti, loro due al massimo avrebbero continuato a litigare.
Non sapeva dare un nome a quella visita, a quella voce pacata e imbarazzata al tempo stesso.
Poi guardò meglio Arthur.
La sua espressione non gli diceva nulla, a parte il rossore evidente sulle guance
-Posso entrare?- domandò, sempre più teso.
Continuava a non capire. Come, non serbava rancore? Eppure Tonio gli aveva detto che aveva reagito molto male al suo tentativo di riappacificazione. Perché gli dava tormento in quel modo? Si divertiva a farlo soffrire, immaginava…presentarsi a casa sua in quel modo, giusto per ribadire quello che aveva perso.
Lo faceva apposta per tormentarlo, non sapeva darsi altra spiegazione.
Oppure…
-Sì, certo. – la sua voce era uscita fuori rauca, come se non parlasse da tanto tempo, oppure come se avesse appena pianto. Era terribile, lo doveva riconoscere –Vuoi…bere qualcosa?-
L’inglese annuì. C’era troppa freddezza tra di loro, non sapeva dire se fosse una sfortuna o una benedizione dal cielo –Un thè?-
Francis annuì –Ok, un thè.-
Lo fece entrare e chiuse la porta.
 
(…)Courte tache! La tombe attend; elle est avide!
Ah! Lassiez-moi, mon front posé vos genoux,
Gouter, en regrettant l’été blanc et torride,
De l’arrier-saison le rayon jaune et doux!
(C. Baudelaire)
 
 
 
 
Ah, questa depressione mi sta seriamente contagiando >_< sarà una mia impressione, ma questo capitolo è triste…e vabbè, cercate di capirmi xD
Ebbene sì, ragazzi miei, questa storia sta per giungere al termine (a meno che la signora Ispirazione mi dia un’altra botta in testa…).
Mancano pochi capitoli (cinque, quattro…bah, non ricordo)…
In ogni caso, spero che questo vi sia piaciuto ^^ lo dedico a…Sol Vargas_Jones per la simpatia e la dedizione con cui recensisce questa storia.
E poi, a tutti quelli che silenziosamente mi seguono. Vedere ogni giorno che il numero delle persone che seguono, ricordano e preferiscono questa fic aumenta…beh, mi fa tornare il sorriso.
Grazie a tutti.
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 20
*** Oltre la maschera ***


Erano tornati a casa, lui e i suoi figli, dopo aver accompagnato Lily.
Avevano mangiato e si erano messi a guardare la tv, perché quel giorno trasmettevano un cartone animato, ma sia Alfred che Matthew si erano addormentati sul divano, stanchi.
Arthur li prese in braccio, cercando di non svegliarli. Ci era riuscito con Matthew, che aveva il sonno pesante, ma Alfred, che bastava davvero poco per fargli aprire gli occhi, si era svegliato non appena suo padre l’aveva preso in braccio ed era rimasto a guardarlo con quell’occhiata mista a curiosità ed affetto, che ormai lui conosceva bene.
-Sei triste, papà. – non era una domanda, piuttosto un’affermazione, detta con una fermezza che, seppur pronunciata da un bambino, colpì Arthur.
-Perché dovrei?- gli sorrise, cercando come sempre di nascondere la verità.
-Hai litigato con lo zio Francis. Non è una bella cosa. – gli fece osservare. Era la prima volta che parlava con uno dei suoi figli di ciò che era successo tra lui e Francis e avrebbe voluto tanto sviare il discorso, ma non ci era riuscito.
-Sì, lo so. Ma a me importa solo di te e di Matthew…Solo di voi due.  –
Alfred assentì ridendo, come se fosse contento di quella constatazione
–Mi sono divertito oggi, papà. Sai, un giorno dobbiamo invitare anche Francis, secondo me ne sarebbe felice. – Arthur scosse la testa; suo figlio non aveva capito nulla di quella situazione, a quanto pareva.
Malgrado il disagio di suo padre fosse evidente, il viso del bambino si illuminò –Magari se andiamo al mare tutti insieme, farete la pace…- stava praticamente parlando con sé stesso –e siccome l’idea è venuta a me, sono un eroe. – sembrava parecchio felice del suo ragionamento.
Guardò suo padre negli occhi –Ora ho sonno. – concluse.
L’inglese annuì e lo abbracciò intenerito –Sogni d’oro, Al. –
Lo vide fare un grande sbadiglio e piano piano chiudere gli occhi, come per magia.
Lo invidiava, così piccolo, senza pensieri per la testa…
E gli voleva bene, voleva bene ad entrambi.
Era così bello guardarli dormire, vedere sotto ai suoi occhi le uniche due vite che esistevano grazie a lui. Era così bello sapere che in ogni caso, nel mondo c’erano due bambini che gli volevano bene, che lo chiamavano “Papà” con la loro voce pulita ed infantile.
Perlomeno, questo gli dava conforto, osservare i suoi figli dormire e cercare in loro qualcosa che gli richiamasse il suo viso.
Era uscito dalla loro stanza per andare nella sua.
Si era sdraiato sul suo letto, a fissare il vuoto, senza nemmeno avere un pochino di sonno. Cercò di concentrare il suo pensiero su cose futili, ma era più forte di lui e allora le parole di Lily cominciarono a vagare confuse per la sua mente.
E’ la gente a dire che è sbagliato…
Anche se è finita, ciò non toglie che è stata una bella storia, no?
 
E tu, invece?
 
E io, invece?
 
Pensò al giorno prima, quando aveva riflettuto che avrebbe voluto invitare Sesel o Lily a cena. Ci aveva ragionato molto in quegli ultimi tempi perché, dopo quello che era successo tra lui e Francis, aveva voglia di pensare ad altro.
Pensare alle ragazze, prima di tutto.
Perché, se c’era una cosa ad essere assolutamente certa per lui in tutto il Cosmo, quella era che lui non era innamorato del francese, neanche un po’.
Ma non era riuscito a fare nulla, né con Sesel, né con Lily; ogni volta che provava a immaginarsi insieme a loro, non ne era capace.
La sua testa era rivolta costantemente al viso di Francis, sempre lui, con il suo modo stucchevole di parlargli, con tutte le sue maniere così dannatamente romantiche, che a volte risultavano quasi moleste.
In quel momento, rivide inevitabilmente quell’ attimo in cui le labbra di quell’uomo si erano poggiate sulle sue e sentì una strana sensazione avvolgerlo. Era la prima volta che ci stava riflettendo seriamente, dato che all’inizio si rifiutava perfino di discuterne con sé stesso.
Quel bacio lo disgustava a prescindere, perché Francis era maschio. Lui non poteva, non poteva in alcuna maniera essere innamorato di lui.
Lui non desiderava i maschi, né i francesi pervertiti ma rimaneva comunque il problema che (oh, come si vergognava, anche solo a pensarlo) la rana gli mancava.
Gli mancava la sua risata, anche se era odiosa e irritante, il suo viso che aveva sempre quel cipiglio lusinghiero e lascivo che tuttora aveva voglia di prendere a ceffoni; le sue stupide allusioni e teorie sull’amore, il suo carattere di merda…
La sua mano, quasi per istinto, accarezzò il cavallo dei suoi pantaloni e Arthur, già di per sé imbarazzato dalle sue riflessioni, arrossì ancora di più.
Ma a cosa stava pensando? E, soprattutto, cosa stava facendo?
Più rimuginava sopra a tutto quanto, più arrossiva, più si sentiva male.
Perché, anche se il suo cervello si rifiutava di  riconoscere quello che ormai sarebbe diventato evidente per tutti, era ricorso qualcos’altro a far luce su quello che provava per la ranocchia. Un’ovvietà che era esplosa, senza alcun ritegno, all’interno dei suoi boxer.
 
 
Il giorno dopo aver accompagnato i suoi figli all’asilo, malgrado la vergogna dilagante, decise che sarebbe andato a casa di Francis, per chiarire, solo per quello.
Quando gli aveva aperto la porta, aveva notato che il viso del francese, nel vederlo, si era disteso per la sorpresa e come biasimarlo? Perfino lui era incredulo di non essersi tirato indietro da quell’assurdità.
-Cosa ci fai qui?- era come ritornare a casa dopo un lungo periodo d’assenza, l’inglese avvertì una strana percezione di disagio e nostalgia al tempo stesso
-Ciao. Posso entrare?– aveva un tono troppo rigido, non andava bene. Doveva sforzarsi di apparire calmo, come se il fatto di essere lì non gli importasse nulla.
-Sì, certo…- Francis sembrava così poco lui in quel momento che il britannico in un primo momento voleva chiedergli “Chi sei, il suo gemello nascosto?”, ma quello non era il momento adatto per fare sfoggio di ironia –Vuoi bere qualcosa?-
Annui, non sapeva che altro aggiungere –Un thè?-
Anche il francese mosse la testa –Un thè, perfetto. –
Si accomodò in silenzio nella sala da pranzo rimanendo in silenzio e anche quando Francis gli porse la sua tazzina e si sedette vicino a lui, non dissero nulla.
Era strano, non sapeva cosa dire. In macchina si era perfino preparato un discorsetto, giusto per non far capitare situazioni come quella, eppure anche in quel caso le parole rimanevano lì, senza avere il coraggio di uscire.
Non sapeva come iniziare. L’altro lo guardava attentamente, come se avesse avuto paura che Arthur potesse sparire d’improvviso dalla sua vista.
-Eih- udire la voce flebile di Francis chiamarlo, lo fece sobbalzare. Non era il tono energico del solito, ma sentirla gli fece comunque impressione
–Come stanno i bambini?-
L’inglese non accennò a staccare gli occhi dalla tazzina. Avevano un bel motivo, gli piaceva –Bene, sì. Li ho accompagnati all’asilo. –
Annuì piano, si passò una mano sul viso, quasi a sottolineare una grande stanchezza –Non lavori oggi?-
Scosse solamente la testa e Francis fece un sospiro di accettazione. Sapeva che sviare il discorso facendo finta di non essere successo nulla, non era la maniera più adatta per interagire con l’inglese.
A lui si doveva render chiaro tutto, altrimenti avrebbe serbato rancore per tutta la vita
–Sei venuto qui per discutere di quello che è successo l’altra volta?- chiese con un tono di voce solenne, quasi non sembrava una domanda.
L’inglese non si era mai sentito così tanto a disagio -Sì. –
Francis fece un altro sospiro –Arthur…io, sinceramente, non so proprio di cosa discutere. Quello che avevo da dirti, l’ho già detto e ho la sensazione che abbia rovinato tutto. So cosa vuoi sentirti dire; desideri che mi scusi e che ti assicuri che mi sono pentito di quello che ho fatto, ma…- qui fu lui ad abbassare lo sguardo –Io non sono dispiaciuto, affatto. Cioè, sì, non mi ha fatto piacere che tu ti sia arrabbiato, però questo non toglie che baciarti è stata un’azione di cui non mi ricredo assolutamente. –
Ci fu silenzio per alcuni minuti, che sembravano essere diventati l’eternità. Arthur era troppo imbarazzato, o troppo furioso, o, chissà, troppo confuso per poter ribattere qualcosa.
Le parole non riuscivano a venir fuori; rimanevano impigliate tra la gola e la bocca, timorose di venir fuori.
-Credevo che anche tu lo volessi e magari in questo ho davvero sbagliato. – riprese a parlare, ma la sua voce era diventata dura, senza alcuna traccia della passione e del sentimento di prima.
Lo interruppe -Francis! Lo hai fatto davanti a dei bambini. – come poteva, si chiese l’inglese, non capire la gravità del problema.
Cosa avrebbero pensato di lui Alfred e Matthew se lo avessero visto in quegli atteggiamenti così intimi con quell’uomo? Non voleva neanche pensarci…
L’altro non sapeva cosa ribattere e Arthur fece un verso di trionfo –Visto! Adesso lo capisci il mio punto di vista?- era partito con la sua ramanzina e non lo avrebbe fermato più nessuno
–Potresti qualche volta chiederti “Ma chissà cosa pensano gli altri?” invece di fare di testa tua? E poi, io e te non ci siamo sopportati per anni. Com’è che tutto d’un tratto hai deciso che dovevamo stare insieme? Vuoi che faccia parte anch’io della tua lista di conquiste? Magari ne discuterai con i tuoi amici, eh, mi sfotterete tutto il tempo perché hai vinto anche questa volta. Già lo immagino: “Eih, Tonio, hai presente quel presuntuoso di Arthur? Beh, me lo sono fatto, ahaha!” – alle sue orecchie, la sua voce velenosa e accusatrice suonava più fastidiosa che mai e Francis si sentì ferito da quelle insinuazioni.
Prese fiato e cercò di spiegargli bene tutto; cosa sentiva davvero per lui e che come al solito lo aveva frainteso, forse influenzato dai suoi stupidi pregiudizi.
–Vedi…Mia zia mi ha sempre martellato con la storia della famiglia “sistemati, Francis, trovati una bella ragazza e costruisci insieme qualcosa di stabile”…io non sono mai stato così! Non ho mai desiderato nulla di tutto questo. Per anni il mio unico pensiero fisso è stato quello di divertirmi, vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo e questo mi piaceva, mi sentivo un mito. Ma poi…- fece una risata rauca
–Mettiti a ridere se ti va, Arthur. Quando ho visto te e i tuoi figli insieme, così uniti…li conoscevi da pochissimo tempo e già tenevi a loro. Già ti preoccupavi per Matthew, già riflettevi su che storia avresti potuto raccontare loro la sera presto…- le parole uscivano pacate, senza alcuna rabbia.
Anche l’inglese alzò lo sguardo per fissarlo, sbalordito. Non capiva dove voleva arrivare, ad essere sinceri e il nervoso di prima stava scemando lentamente.
-Io non ti sopportavo, non ti ho mai sopportato dal primo giorno che ti ho visto, ho sempre pensato che fossi una persona egoista, fredda, senza scrupoli. Eppure, con i tuoi figli sei diverso. Forse non te ne sei reso conto, ma io sì…Ho cominciato a pensare che avere una famiglia non doveva essere poi così male, se perfino uno come te ce la stava facendo. All’inizio avevo creduto fosse questo che mi attraeva di te; volevo capire fino a che punto saresti cambiato. Poi ho cominciato ad accorgermi che ai miei occhi eri anche bello, oltre che ad avere un carattere interessante. Ogni volta che non venivi al lavoro mi mancavi, avevo voglia di starti vicino e…beh…- abbozzò un sorriso malinconico –Sai, da cosa nasce cosa, no?-
Arthur annuì stupito; fino a quattro anni prima non si sarebbe mai neanche lentamente atteso un colloquio simile con Francis –Francis, io…-
Stava per pronunciare qualcosa, ma l’altro continuò, fermo ma al tempo stesso appassionato –Fino a ieri ero convinto che mi fossi sbagliato, che tu non ricambiassi i miei sentimenti, anzi, che dopo tutto quello che è successo, tu mi odiassi ancora di più. Però ora sei qui.-  poggiò una mano sulla sua, facendolo avvampare per la vergogna
–Qual è il problema, Arthur? Ti prego, dimmelo. –
Il problema in fondo esisteva solo nella sua testa, ma questo non toglieva che ci fosse.
-Il problema!- ripeté con un inflessione quasi ironica, togliendosi la mano dell’altro di dosso –Il problema, Francis, sei tu. –
Vide il francese impallidire –Io non posso accettare il fatto che mi sono…- si fermò, era certo che il suo collega avesse capito quello che voleva intendere e ciò lo impacciò ancora di più.
Si sentiva un imbecille; cos’altro avrebbe potuto dire?
-E' perché sono un uomo, vero?- lo precedette l’altro –Lo hai detto ad Antonio. -
L’inglese arrossì ancora di più, non era la prima volta che la rana lo giudicava.
Lo guardò e si chiese perché mai una persona di così bell’aspetto dovesse essere al contempo così insopportabile. Era un vero peccato…
E se forse Francis aveva ragione? Se era vero che lui non era immune al suo fascino?
Scacciò subito quel pensiero assurdo, perché lui lo odiava e non c’erano altre storie. Lui odiava il fatto che quel giorno la mano di Francis si era intrecciata alla sua, odiava che quel giorno il collega gli aveva detto che l’amava…lui, Francis Bonnefoy, francese, amava Arthur Kirkland, un inglese.
Inglesi e francesi non vanno d’accordo, è risaputo, è destino che si debbano odiare a prima vista.
Si avvicinò al francese e lui, dopo un momento di esitazione, si fece coraggio e lo avvolse a sé, cominciando ad accarezzargli i capelli biondi.
Arthur sentiva di doversi opporre.
Farsi toccare da un francese andava contro tutto ciò che sosteneva, ma non fece nulla per fermarlo.
Inaspettatamente il contatto delle sue mani che passavano tra i suoi capelli gli fece piacere, perché era delicato ma allo stesso tempo sembrava metterci tutta la passione che aveva dentro. Era quasi rilassante.
- Di’ la verità, da quando sognavi questo momento?- domandò con una punta di spietata ironia, come se non volesse dare a vedere che in fondo non gli dispiaceva affatto essere lì, con lui.
La risata di Francis gli bastò come risposta. L’inglese si sfilò con rudezza alle carezze dell’altro, che ormai sembrava non volesse più smettere. Lo guardò dritto negli occhi e capì che erano troppo, troppo vicini ai suoi.
Sapeva benissimo che tutto quanto quello che stava succedendo andava contro ogni suo buonsenso, ma ormai non riusciva più a mettere i bastoni tra le ruote a quella parte di lui che si era irrimediabilmente innamorata di quel francese.
E doveva andare a finire così; le sue labbra incontrarono quelle di Francis, si poggiarono alle sue con una facilità che non si aspettava. Sembravano muoversi all’unisono, come un movimento inequivocabile, qualcosa che era già scritto da qualche parte.
Era stato semplice, più naturale che bere un bicchiere d’acqua e Arthur si chiese come facessero due tipi, che erano così diversi caratterialmente, ad essere così compatibili in modo fisico.
-Francis…- si staccò da lui e si alzò in piedi di scatto, talmente rosso da sembrare quasi finto
 –Maledizione. –
Il francese per tutta risposta, sorrise dolcemente –Non rovinare tutto, ti prego. Non stavolta. –
Subito credette che per quello che aveva detto, da parte dell’inglese ci sarebbe stato come minimo un manifesto segno di irritazione. Lo avrebbe mandato a quel paese, accusato che rovinava sempre tutto. Se ne sarebbe andato di nuovo.
Con sua immensa sorpresa, Arthur lo baciò di nuovo, con una decisione che l’altro non si aspettava che avesse.
Dischiuse le labbra, esplorò la sua bocca senza l’ombra di un ripensamento; la sua parte razionale gli stava urlando furiosamente di darsi un contegno, ma lui aveva deciso che per quella volta non gli avrebbe dato retta, non voleva.
Sentì le mani di Francis che gli cingevano la vita per attirarlo ancora di più su di sé e allora anche le sue cominciarono a scivolargli con insicurezza sulla pelle.
Il francese non riusciva a credere che tutto quello stesse accadendo fosse vero. Doveva essere un sogno, sicuramente, ma lui non voleva essere svegliato.
I suoi piedi spinsero entrambi fino alla stanza da letto, continuandosi a baciare con passione e quando la raggiunsero, un po’ barcollanti e a fatica, caddero pesantemente sul letto.
Francis si tolse il golf e lo buttò a terra senza alcun riguardo, fece scorrere le dita sulla camicia del suo compagno e cominciò a slacciargli i bottoni con una lentezza quasi esasperante.
Ogni volta che ne sbottonava uno, sentiva Arthur, ancora avvinghiato a lui, boccheggiare rumorosamente e sussurrare il suo nome a fior di labbra.
–Francis…Francis…Francis…-
L’inglese non sapeva cosa stesse facendo, si sentiva un idiota, uno stupido, inesperto, idiota. Ripeteva gli stessi identici movimenti dell’altro, ma voleva essere allo stesso tempo il primo a dare un freno a tutta quella storia.
Era inconcepibile che fossero arrivati a quel punto, all’esatto estremo di quello che provavano all’inizio l’uno per l’altro.
Francis invece se lo sentiva che quel momento prima o poi sarebbe successo. Antonio aveva sempre avuto ragione quando diceva che lui voleva Arthur e lo desiderava con tutto sé stesso. Perché amava l’ardente voglia dell’inglese di primeggiare su di lui, quel suo modo di comportarsi nei suoi confronti così refrattario.
Ma ora aveva vinto ed era felice. Non tanto perché ancora una volta aveva fatto centro, di questo gli interessava meno che di zero, semplicemente perché l’inglese era lì senza maglia, con le labbra attaccate alle sue…e sembrava non gli dispiacesse poi tanto come situazione.
E nei loro gesti non c’era la violenza e l’irruenza che tante volte la rana aveva immaginato nelle sue fantasie e neanche quell’incertezza di cui Arthur era sicuro ci fosse stato.
Erano mossi da qualcosa così dolce e allo stesso tempo deciso che nessuno dei due sapeva spiegare. Non era sesso, non era il lato più fisico del suo istinto che lo stava spingendo.

Lui amava Arthur, lui adorava che in quel momento fosse lì e che quell’ istante così tante volte sognato fosse più splendido delle molte sue fantasie sepolte.
-Arthur.- gli sussurrò piano all’orecchio –Ti amo. Ti amo così tanto che non riesco a trovare altre parole per dirtelo. -
Per tutta risposta, dopo un aver percepito fremito percorrergli tutta la schiena, l’inglese cominciò a baciargli il collo, cosa che non si sarebbe mai atteso da sé stesso.
In generale, il francese non si aspettava tutta quella sensualità da parte del inglesino, quella forza che lo aveva spinto, nonostante la sua rigida moralità, a desiderare Francis nello stesso modo spasmodico con cui lo cercava lui.
Si fermò per guardarlo, aveva il viso accaldato e gli occhi lucidi; era la prima volta che lo vedeva con quell’aria stimolata e scomposta, lui che di solito lasciava poca libertà alle sue emozioni.
 Era strano vederlo senza camicia e senza pantaloni, guardarlo in tutta la sua integrità, memorizzare ogni particolare del suo fisico esile e delicato.
Si chinò di nuovo per baciarlo e non riuscì a pensare più a nulla se non ad Arthur. Era come se il suo cervello fosse stato improvvisamente disattivato.
In quel momento riusciva a vedere solo lui. Lo percepiva ovunque, i suoi sensi assaporavano tutto ciò che richiamava alla sua immagine.
Poteva sentire il profumo della sua pelle, che si era mischiato al suo, i suoi gemiti che uscivano soffocati dopo averli trattenuti inutilmente e il suo nome, che, mormorato in quel modo, contribuiva a farlo sembrare il suono più bello che avesse mai sentito.
Anche se loro due litigavano sempre, si erano perfino auto convinti di odiarsi con tutto il loro cuore, questo non voleva dire che non potevano anche amarsi.
Quella stessa impulsività che li aveva mossi a non sopportarsi, adesso li spingeva a cercarsi a vicenda e anche se il loro rapporto non sarebbe mai stato normale, perché erano troppo orgogliosi per lasciarsi prevaricare uno sull’altro, in quel momento non aveva nessun valore.
Nessuno dei due, in realtà, stava pensando alle prossime conseguenze.
In quel momento nulla, a parte loro due, aveva più alcun significato e tutto il resto del mondo, almeno secondo il francese, era passato piacevolmente in secondo piano.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ok…chi si aspettava che avrei fatto una cosa del genere? *nessuno risponde*
E vabbè, mi sa che molti dopo una cosa simile mi manderanno a quel paese senza troppe cerimonie ç_ç
Allora, questa scena l’avevo scritta per una mia cara amica amante della Fruk che, per una scommessa, mi ha esortato a scrivere una Lime, pur sapendo che scene simili io non ne ho mai scritte (due volte soltanto, in una raccolta di drabble…che pena. Se poi si considerano le fic scritte di getto e poi rimosse per ovvie ragioni, quello è un altro paio di maniche.).
In ogni caso, come potete notare, ho cercato di non sforare i limiti del rating arancione (anche perché, una Lemon proprio non riuscirò mai a scriverla. Già mi è uscita da schifo la Lime, figuratevi se approfondisco…) e spero che il capitolo vi sia piaciuto ^_^
 Riconosco che è erotico tanto quanto i miei pigiamoni con le ranocchie (tanto per restare al passo con il tema) rosa shocking (che poi, dipende dai punti di vista…per me è un bel pigiama, ma io differisco quasi sempre dall’opinione pubblica).
Senza “Stairway to heaven” dei Led Zeppelin, “Comfortably numb” e “Hey you” dei Pink Floyd, questo capitolo sarebbe stato certamente molto più orribile.
Lo dedico a…mah, a chiunque sia riuscito ad arrivare fin qui, già per questo ha tutta la mia stima. Ho una cassa di pomodori, se volete potete usarli! Ringrazio la cara BlueChan per aver creato questo bellissimo disegno che io ormai considero la “copertina” di questa fic. Ecco il link, e dateci un’occhiata, eh? ;D


http://i48.tinypic.com/kagqo5.jpg

 
A presto
Cosmopolita
 

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Capitolo 21
*** Perplessità ***


-Ehi, Mattie?- si sentì chiamare il bambino, forte. Sapeva benissimo chi lo stava cercando.
Era strano, molto strano. Suo fratello Alfred non cercava mai la sua compagnia, all’asilo, entrambi coltivavano amicizie diverse e quindi di rado giocavano insieme. Era meglio così, probabilmente, perché stare insieme a lui gli causava solamente guai.
Forse era perché lo aveva visto solo e gli aveva fatto una gran pena che Alfred si era avvicinato a lui con un sorriso smagliante sulle labbra.
Doveva essere per forza così, si ritrovò a riflettere
-Fred, hai lasciato Kiku da solo?- chiese con un tono di voce abbastanza sorpreso; Alfred e Kiku erano come pane e burro, sempre insieme.
Suo fratello rise allegramente –Ma no, c’è Mei con lui! Gli sta facendo…em…- ci rifletté un po’ sopra, portandosi il ditino sul mento e aggrottando le sopracciglia –Menicura…quella cosa con lo smalto, insomma. –
-Manicure. – lo corresse debolmente. Ricordava che se la faceva spesso anche la mamma.
Una volta, quando gli aveva chiesto se poteva mettere lo smalto anche lui, lei si era messa a ridere in quel modo molto simile a quello di Alfred, e aveva esclamato
-Tu sei un maschietto, Mattie! I maschietti non fanno la manicure. –
-E perché?- aveva domandato, non capendo. Perché c’erano cose che le femminucce potevano fare e i maschietti no, e viceversa?
 
Sua madre l’aveva fissato per qualche secondo, con un’espressione sbigottita sul volto; era talmente confusa che per un attimo il bambino avrebbe voluto chiederle scusa. Ma poi lei aveva sorriso e gli aveva dato un bacio sulla guancia –Non lo so, tesoro. Qualcuno ha deciso che quelli come te e Alfie non possono mettersi lo smalto. –
Lì per lì non aveva capito, ma in quel momento non importava granché; avere presente bene quell’episodio solamente perché il giorno dopo, una signora vestita di bianco aveva detto a lui e ad Al che la loro mamma non c’era più e che presto avrebbero conosciuto il loro papà.
 
La mamma non sarebbe più tornata.
 
Ricordava anche che, prima di non tornare mai più, la mamma li aveva abbracciati e aveva riso ancora e ancora. Non la smetteva mai di ridere e di essere allegra, a parte quando qualcuno di loro due chiedeva –Ma perché tutti i bambini hanno una mamma e un papà e noi no?-
Di solito era Alfred a fare domande simili, curioso e invadente come al solito. Allora, Eileen diventava seria, lo era sempre quando parlava di Arthur, e prendeva fiato.
-Il vostro papà ci voleva davvero bene. Ma è stato costretto ad andare via…- la sua tristezza durava per pochi minuti, perché poi riprendeva a sorridere in quel modo sbarazzino che a Matthew piaceva tanto –Sono certa che vi sarebbe piaciuto conoscerlo, vi somigliate moltissimo.-
E ora che loro un padre ce l’avevano ed era proprio lo stesso di cui la mamma parlava tutte le volte, il bambino sentiva di darle ragione; gli era piaciuto conoscerlo.
Sentì la voce vivace di Alfred chiamarlo nuovamente -Matt?-poi, le braccia di suo fratello cominciarono a scuoterlo con irruenza.
Sospirò; ormai era abituato a comportamenti di quel tipo da parte del suo fratellino –Dimmi. –
L’altro si sedette per terra, vicino a lui e prese un’espressione che forse voleva essere solenne, ma che in realtà contribuiva a renderlo ancora più buffo –A te manca la mamma?-
Lo guardò confuso; non ne aveva mai avuto voglia di parlarne, soprattutto con Alfred.
Mosse la testa, annuendo e basta, poi aggiunse con impellenza, come se si fosse improvvisamente vergognato –E a te?-
 
-Sì. Per fortuna adesso c’è papà, vero?- era allegra la sua voce in quel momento, anche se stavano parlando di argomenti fin troppo delicati per loro.
 
Matthew annuì, di nuovo e non aggiunse altro.
Fu il fratello a prendere un'altra volta la parola, espansivo e vivace –Secondo te?-
-Cosa?-
-Papà vuole bene allo zio Francis?-
Matthew ci pensò su prima di rispondere. All’inizio aveva pensato che il suo papà odiasse Francis, anche se negli ultimi periodi c’era stato qualcosa di diverso nel suo modo di fare. Non aveva voluto darlo a vedere, ma lui se ne era accorto –Penso di sì, anche se litigano sempre. –
Alfred sorrise ancora di più –Sai, spero che faranno la pace e continueranno a volersi bene. –
Anche Matt sorrise insieme al fratello, ma rimase in silenzio a guardarlo.
Lo avrebbe voluto anche lui.
Sentì le braccia di suo fratello ancora una volta, ma questa volta invece lo strinse forte come non faceva da tanto tempo
-Ti voglio bene, Matt. – mentre lo diceva, rideva.
Come sempre.
 
 
 
Quando riaprì gli occhi, c’era solo una cosa che Arthur voleva disperatamente urlare: “Maledizione”.
Sentiva il braccio di Francis che, da sotto le coperte, lo avvolgeva a sé in una morsa talmente intima e colma di cameratismo che lo fece arrossire. La prima cosa sensata che gli venne in mente fu di togliersi il braccio di dosso e alzarsi in piedi.
Si guardò intorno alla stanza e vide il parquet costellato di vestiti, i loro vestiti, come ci tenne a sottolineare con evidente vergogna.
L’aria era pregna di quell’odore inconfondibile di chiuso e di pesante era come se tutto fosse rimasto sospeso, immobile, eppure lui aveva la sensazione che fossero passate ore intere da quando…da quando era successo.
E Francis…lui era ancora lì, addormentato, aveva sentito il suo respiro lambire dolcemente la sua pelle. Arthur lo guardò e inevitabilmente sorrise; quando dormiva, la rana era inverosimilmente meno attraente e abbagliante del solito ma era proprio questo che, almeno ai suoi occhi, lo rendeva più affascinante.
C’era qualcosa nei suoi capelli ondulati poggiati disordinatamente sulla federa del cuscino, sulla sua bocca curvata in un sorriso quasi distratto, nel viso che nel sonno aveva abbandonato quel cipiglio malizioso che aveva da sveglio che gli conferivano un’aria dismessa e naturale che lo rendevano, malgrado tutto, ancora più bello.
Le sensazioni precedenti gli riaffiorarono nella mente, una dopo l’altra, in un climax crescente di passione e piacere.
 
Ogni bacio, ogni carezza, ogni spinta, quel momento perfetto che lo aveva inebriato, l’inglese l’aveva lasciato impresso nella sua testa; era incredibile quanto si fosse sentito coinvolto positivamente dal francese, averlo accanto a sé era stata una sensazione incantevole.
 
Improvvisamente però, si ricordò dei bambini, che aveva lasciato all’asilo e subito fu preso dal panico
-Cazzo!- urlò con una nota d’isteria, noncurante del fatto che l’altro stesse ancora dormendo profondamente; non sapeva che ore fossero e lui alle due doveva andare a riprendere Alfred e Matthew. Cercò la sveglia sul comodino e, quando la notò, constatò con immenso sollievo che le lancette erano ancora puntate sul numero dodici.
Ma, in ogni caso, sarebbe pur dovuto tornare a casa e farsi una doccia, quindi cominciò a prendere da per terra i suoi vestiti e a indossarli, incurante del fatto che fossero tutti stropicciati
-Mh, Arthur?- la voce di Francis, che probabilmente era stato svegliato dall’urlo lanciato dall’inglese, lo fece girare verso la sua direzione.
Lo guardò; non riusciva a capacitarsi del fatto che quell’uomo fosse lo stesso con cui poche ore prima era andato a letto.
In quel momento, tutta la dolcezza di pochi minuti prima si trasformò in qualcosa di più grave, più doloroso.
 
Quello che avevano fatto era stata una cosa del tutto improvvisa, che lui non aveva assolutamente previsto e si era lasciato andare, senza pensare, senza riflettere. Era stato bello, sì, questo era vero, ma non poteva ancora crederci che lui avesse provato tutta quella smania nei confronti di Francis Bonnefoy.
Cavolo! E ora come avrebbe fatto?
Di certo non si aspettava che cominciassero ad intraprendere una relazione felici e contenti come se niente fosse. Era assurdo che lo avesse anche solo pensato una cosa del genere.
Era tutta colpa di quella maledetta rana; lui e quel modo di sedurre così morboso che avrebbe infinocchiato chiunque e…oh, se ci pensava ancora sarebbe morto di vergogna!
Ora che il suo lato più razionale stava emergendo e stava cancellando gli ultimi sprazzi della passione rimasta, stava lasciando spazio al senso di colpa, bruciante e denso. C’era solo una questione che lo assillava: l’opinione della gente.
 
Se qualcuno avesse scoperto che amava un uomo, Dio, ma come avrebbe reagito? Male, sicuramente.
L’avrebbero accusato di essere insano, impuro, magari l’avrebbero perfino giudicato incapace di mantenere i suoi figli.
E lui con che coraggio avrebbe continuato a guardare Alfred e Matthew, i suoi bambini, che non avevano più neanche una madre, dopo essere stato a letto con lui?
-Arthur, ehi, va tutto bene?- Francis doveva ammetterlo, l’inglese riusciva a togliergli il fiato sempre, anche mentre si rivestiva.
-No che non va bene!- esplose, mentre era impegnato con la zip dei suoi pantaloni che non voleva alzarsi –Devo andare a riprendere i bambini. –
Il francese lo guardò imbronciato e l’idea di Arthur adorabile sempre e comunque andò a farsi benedire –Sì, Art, è stato fantastico anche per me, ti ringrazio dell’interessamento. – si mise a sedere sul letto e cominciò a fissarlo di sbieco.
L’inglese scosse la testa; sapeva che la rana avrebbe desiderato un risveglio più romantico, fatto di frasi smielate e baci infiniti, ma lui proprio non ce la faceva a concepire una situazione simile. D’improvviso sembrava che tutto quanto, il sesso, l’amore, la sua sola presenza e quella di Francis nella stessa stanza, tutto ciò che riguardava loro due era diventata pesante, orribile.
Semplicemente lo ignorò e continuò a vestirsi
 
Sentì le labbra dell’altro posarsi dolcemente sulla sua guancia -Qual è il problema, mon amour? – il tono del francese a quel punto suonò seriamente preoccupato. Aveva intuito che nel britannico c’era qualcosa che decisamente non andava e cominciò a chiedersi dov'era finita tutta la passione e l’amore di qualche ora addietro. Eppure, era la stessa persona di prima, non capiva perché fosse tornato ad atteggiarsi con il suo solito modo di fare freddo e acido
-Non chiamarmi “mon amour”, prima di tutto…Fuck, stupida zip!- digrignò i denti esasperato: la zip che rimaneva bloccata, Francis senza neanche un paio di mutande addosso che continuava a fare domande con il suo tono turbato…stavano complottando contro di lui, e che diamine!
Il francese continuava a non capire –Non ti è piaciuto?- non era mai stato sfiduciato dalle sue doti di grande amatore, evidentemente quell’inglesino era capace di mandargli il cervello in fumo, nella buona e nella cattiva sorte.
Arthur lo fulminò con un’occhiataccia. Ma che genio! Erano domande da farsi quelle? Certo che gli era piaciuto, anzi, tutto quello era stato ben distante dall'essere “fantastico”, come aveva specificato la rana.
Perlomeno, a lui era sembrato qualcosa di meglio di quell’aggettivo buttato lì. Era stato qualcosa di gradevolmente intimo e totale e in un primo momento non era stato neanche affatto dispiaciuto di averlo fatto.
 
Oh, ma a cosa stava pensando!
Avrebbe voluto liquefarsi, desiderava scomparire attraverso il pavimento e sottrarsi da quell’uomo che lo faceva sentire così meravigliosamente bene ma che, allo stesso tempo, lo faceva infuriare come pochi.
Scosse la testa spazientito, non aveva nessuna intenzione di rispondere a Francis, ma quell’altro non demorse.
 
Sospirò e riprovò a porgergli una domanda –Ne vogliamo parlare?-.
-No!- replicò infuriato e rosso in viso, Ne aveva piene le tasche di quel tono premuroso, di quella voce così…così splendida –E mettiamo in chiaro una cosa: non avresti dovuto mai saltarmi addosso prima di tutto e…-
-Oh, Mon Dieu, Arthur! Io?- la voce di Francis superò quella dell’inglese di un paio di ottave. Non si era mai sentito così offeso e umiliato in vita sua.
–Io? Eri d’accordo anche tu, se non sbaglio. Ma mi spieghi cosa ti è preso?-
Avevano ripreso a litigare, era pazzesco. Eppure erano le stesse due persone che si erano donati tutto quell’amore, tutto quel piacere…
 
“Arthur, ti amo. Ti amo talmente tanto che non riesco a trovare altre parole per dirtelo”
 
Gli aveva detto proprio così e questo Francis lo pensava ancora, ma in quel momento il britannico stava facendo di tutto per fargli perdere seriamente la pazienza.
Ovviamente, secondo lui era colpa di Arthur perché lui doveva sempre rovinare tutto, avrebbe sempre complicato la situazione con le sue fissazioni stupide e con i suoi sensi di colpa.
D’altra parte, secondo l’inglese, lo sbaglio era del francese e delle sue manie da seduttore. Era stato il primo a cominciare, lui era semplicemente caduto nel suo tranello –Non credo che abbiamo fatto la cosa giusta, facendo sesso in questo modo. – spiegò con calma e freddezza, riportando la conversazione ad un tono più accettabile
-Ma dai! Stai scherzando, spero. – il francese scosse la testa incredulo –La cosa giusta…sembra la prima volta che lo fai. –
Arthur. Lui era capace di creare problemi anche dove non persistevano. Aveva fatto l’amore, si erano completati a vicenda ed era stato bello così. Perlomeno, a lui sembrava che fosse andato così, ma perché l’altro non voleva vedere le cose così com’erano? Di cosa aveva paura?
Poi ripensò al senso della frase “Non abbiamo fatto la cosa giusta” e a quello che l’inglese aveva sempre pensato di lui; forse cominciava ad intravedere la genesi di tutto quel problema e in effetti gli veniva anche da ridere perché gli sembrava una motivazione stupida
 
-Senti, ho capito quello che mi vuoi dire. – si alzò in piedi, ricominciando a sorridere –Tu hai paura che io l’abbia fatto solo perché mi andava, a prescindere dalla persona che mi capitava. – si fermò, per vedere quale effetto le sue parole avrebbero sortito nell’inglese. Nessuno, a quanto pareva.
-Io ti amo e penso che tu l’abbia già capito questo. Io voglio restare con te.- lo abbracciò e sentì il profumo della sua pelle: aveva esattamente il suo stesso odore e questa cosa lo colpì. Era un dettaglio irrilevante e anche piuttosto ovvio, ma gli era piaciuto comunque.
-Francis…- sospirò l’inglese e lui non seppe giudicare se fosse un’intimazione a lasciar perdere oppure uno spasimo di apprezzamento –Sei tutto…-
-…nudo?- completò lui ridendo appena –Non credo sia questo la causa della tua scenata, no?-
-Scemo! Sei un pervertito.- commentò solamente, acido e se lo tolse di dosso senza troppa ortodossia.
Le volte che Francis gli aveva detto di amarlo ormai non riusciva più a contarle ed era sempre bello sentirglielo dire.
Anche lui lo amava, diamine! Per quanto si fosse sforzato di negarlo, di nasconderlo dietro la sua maschera fatta di indifferenza e cinismo, lui provava per quella stupida rana un amore che non sapeva spiegarsi. Lo amava, punto e basta. Ma…
-Io ho dei figli. – cercò di farlo ragionare, imponendosi la calma più totale –Non possiamo andare mano nella mano saltellando e urlare ai quattro venti “Ci amiamo tanto, guardateci”. Anzi no, che ne dici di questa:“Bambini, Francis sarà la vostra nuova mamma!”?- l’ironia di Arthur, per quanto si fosse sforzato di non lasciarsi prevalere dall’irritazione, era sempre velenosa nei momenti più inopportuni come quello. Nei periodi normali, il francese sarebbe scoppiato a ridere, ma in quel momento non aveva decisamente voglia di farlo.
–Magari mio padre arriverà da Londra a darci la sua benedizione. Ian commenterà con “Buona scelta, la migliore che tu potessi fare”,Hannah ci scatterà una foto per il suo club di fotografia e mia madre scoppierà a piangere quando ci vedrà tutti e quattro uniti! Invece la zia Cleménce…mi ha regalato un’auto, pensi che ce la comprerà una casa? Eh, Francis? - prese fiato e lo guardò con aria severa. Il suo tono divenne più pacato rispetto a prima, seppur ancora contratto dal nervosismo ma non aveva più resistito dal trattenersi, come al solito
–La vita non è così facile. Noi due insieme è il paradosso assoluto, nessuno ci accetterà mai per quello che siamo. –
Al francese le sue parole in fondo gli suonarono veritiere…purtroppo, avrebbe voluto aggiungere
-Non ho detto che sarà facile. Ti sto chiedendo di provarci, solo questo. – sorrise paziente, in attesa di una decisione da parte sua.
Arthur, per tutta risposta, emise un ringhio dal profondo –Vuoi sapere se mi è piaciuto, frog?- domandò più acido che mai –Ebbene, sì, mi è piaciuto. Va bene così? Sono stato romantico e carino secondo i tuoi stramaledetti standard? E ora…- si interruppe, perché Francis lo aveva appena afferrato da dietro in una stretta d’acciaio e minacciava di non staccarsi più. Sarebbe rimasto per sempre il solito, eccessivo, stupido francese a quanto pareva -Lasciami, cavolo, lasciami in pace!-
Cominciò a divincolarsi continuando a strepitare infastidito, ma il francese finse di non sentire nulla
-Mi ami anche tu, mon cher. – non era una domanda e il britannico lo sapeva
-Ma…ma certo che no! Levatelo dalla testa, Francis, ti ho solo detto quello che volevi sentirti dire.-
Arthur era un pessimo attore. Francis avrebbe dovuto farglielo presente, prima o poi…
 
 
 
-Dovremo andarci. –
Ian guardò Hannah, dritto negli occhi; era sorpreso, davvero molto sorpreso; era la prima volta che la ragazza si rivolgeva a lui con così tanta convinzione. Sua sorella si comportava come una piccola snob con tutti, tranne che con lui. La sorellina nutriva per il maggiore una reverenza che proprio non si conciliava con il suo carattere freddo e indipendente, eppure adesso gli stava parlando di cose che, lei lo sapeva, gli davano oltremodo fastidio
-Stai scherzando, spero!- esclamò inacidito.
Scosse la testa –E’ nostro fratello, Ian e quei bambini sono i nostri nipoti. – la sua voce non era mai stata così dolce. Ian era sorpreso di quanto Hannah potesse essere materna, quando ci si metteva d’impegno
-Hannah, no. – scosse la testa. Era irritato da tutto quanto. Era stato appena lasciato dalla moglie, la sua adorata aveva detto che “non voleva più saperne nulla” di lui e di tutto quello che c’era stato tra loro.
 
Poi, era arrivata la notizia che Arthur fosse diventato padre e lì non ci aveva visto più; non era giusto.
Forse era infantile come atteggiamento, ma il fatto che quel, bruco ottenesse tutto ciò che lui desiderava lo considerava un po’ come una maledizione; era riuscito ad opporsi a sua madre e ad andarsene, a vivere una vita per conto suo ed ora…quei due bambini.
Nessuno dei suoi fratelli conosceva il suo desiderio impellente di avere figli. Nessuno, neanche Arthur, eppure sembrava che quello lo facesse apposta.
-Pensaci, ok?- Hannah non teneva mai in considerazione l’opinione degli altri
 
“Che stronza egoista” si ritrovò a pensare Ian, accendendosi l’ennesima sigaretta della giornata
 
-Non ci vado, Ann, hai capito?- il suo tono di voce era più spietato che mai, solo Arthur lo faceva uscire fuori dai gangheri in quel modo.
La sorella gli sorrise in un modo un po’ fallace, era insopportabile quando faceva così –Beh, io parto per New York. Ci resto per un po’ e poi ritorno. –
-E la mamma?-
-Capirà. Se vuoi venire con me, è meglio che mi dai una risposta e subito. –
Si morse la lingua. Non voleva, non voleva assolutamente andarci. E per cosa, poi? Per lasciarsi sfottere da quello stupido, fastidioso di suo fratello?
Da piccolo era lui a tenergli testa; ricordava che una volta lo aveva pestato talmente tanto da rompergli un braccio.
Ora doveva riconoscere che era stato Arthur a pestare lui, seppur metaforicamente
-Sei patetico. – la voce di Hannah interruppe il fluire dei suoi pensieri –Sul serio, scusa se te lo dico…- stava per aggiungere qualcos’altro, ma la voce secca di Ian la interruppe
-Andiamoci, va bene. Hai vinto tu!-
La sorella lo fissò per alcuni minuti, sbigottita. Poi, fece un verso di vittoria, una specie di “Yuhu!” e gli diede un bacio sulla guancia
-Oh, lo sapevo che sotto sotto sei un bravo ragazzo, Ianny!-quella ragazza aveva il brutto vizio di affibbiare soprannomi terribili –Quindi, ci andremo, no? Magari avremo l’occasione di salire sulla Statua della Libertà! Sai che bello, io non ci sono mai stata…-
Aveva preso a ciarlare su tutti i posti dove sarebbe voluta andare, ma Ian non la stava ascoltando.
Stava pensando al momento in cui avrebbe rivisto Arthur, una specie di resa dei conti personale.



 
 
Salve! Uh, quanto tempo è passato, a me personalmente è sembrato moltissimo °_° Purtroppo, con l’inizio della scuola, questo è xD
Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto ^^ Lo dedico ad Hanii perché commenta ogni capitolo con tanta pazienza, dedizione e simpatia *_* grazie davvero <3
E naturalmente, grazie a tutti quanti voi che siete arrivati fin qui.
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 22
*** Amabili chiaccherate tra fratelli ***


Elizabeta in quei giorni era talmente presa dal bambino, che Gilbert temeva seriamente che fosse partita con la testa.
Non che a lui non importasse della gravidanza, tutt’altro; il fatto che lui avesse generato qualcun altro e che quel qualcuno stesse crescendo piano piano dentro la pancia della sua amata, lo affascinava tantissimo. Considerava la sua persona ancora più meravigliosa e stupenda di quanto non la valutasse prima.
Forse, era proprio questo il concetto. Qualunque cosa facesse, che lavorasse, che facesse l’amore con Elizabeta, che comprasse il seggiolone per il loro bambino... Gilbert  avrebbe sempre pensato che la vita girasse intorno a lui, che tutto esistesse per lui.
 
Eliza invece, sembrava sostenere la tesi inversa; in quei giorni, il suo pensiero era rivolto esclusivamente al loro bambino, sempre, e ciò all’inizio lo aveva sconvolto perché era stato una specie di sfasamento del mito in cui aveva creduto per tutto quel tempo.
 
Sé stesso.
 
Certo, l’aveva compresa quando gli aveva ficcato sotto il naso il suo progetto per la stanzetta del bambino, perché anche lui aveva pensato parecchio a come sarebbe dovuta essere.
Aveva chiuso due occhi quando si era dovuto sopportare il suo sproloquio di due orette a proposito delle tutine da acquistare: “Non possiamo comprarle rosa o blu, perché non sappiamo se il nostro tesorino è un piccolo Gilbert o una piccola Elizabeta!”
Parlava proprio così ed era allucinante, considerato che l’ungherese non aveva mai pronunciato in vita sua la parola “tesorino”, né tanto meno “piccolo Gilbert” per parafrasare la parola “bambino”.
 
Aveva chiuso un occhio quando si era ritrovato la casa assediata dalle amiche della sua ragazza che si congratulavano con lei per il lieto evento e che intanto, con la coda dell’occhio lo guardavano sottecchi…non che gli dispiacesse, ovviamente. Non era una sorpresa per lui sapere che metà delle amiche di Eliza impazzivano per lui.
Aveva sopportato quando, all’una di notte, era dovuto uscire a cercare un dannato supermercato perché alla ragazza era scoppiata un’improvvisa voglia di ciliegie. Con lo stesso grado di sopportazione, aveva subito tutte le chiamate extracontinentali da Budapest, ovviamente tutte da parte del suo carissimo suocero (“La tratti bene, la mia piccolina, vero?” esordiva ogni volta il signor Hédervàry con un tono di voce che avrebbe messo inquietudine a chiunque.)
Aveva digrignato i denti, ma stoicamente resistito quando Eliza, senza chiedergli prima il suo parere, aveva invitato a cena i laureandi in giurisprudenza che seguiva, come se non fosse già abbastanza vederli al lavoro.
Per tutta la serata aveva dovuto sopportare Feliciano che si preoccupava dello stato di Lizzie “Beh, Liza, stai bene? Chissà come verrà fuori il bambino! Spero non con gli occhi di Gilbert, perché mi fanno paura, sono così strani…senza offesa. –
Oppure, Feliks, un altro dei suoi tre tirocinanti, che le forniva consigli di moda con un tono che lo faceva assomigliare di più ad un giornalista di gossip che ad un aspirante avvocato:
“Tipo, gli abiti prémaman migliori sono quelli rosa, tipo, perché danno l’impressione di essere totalmente magra. E poi, tipo, secondo me con la tua carnagione sta che è una meraviglia.”.
L’unico che sembrava essere sulla sua stessa barca era stato il ragazzo di origine lituana Toris, quello più prossimo alla laurea tra i tre che, a fine serata, si era offerto di dare una mano a lavare i piatti.
 
Ma adesso, dopo una settimana infernale, gli pareva giusto prendersi un po’ di tempo solo per sé stesso, giusto?
E invece no, perché la sua amabile Elizabeta lo aveva messo in croce per tutta la mattinata del sabato a proposito di Ludwig.
 
Era tutto iniziato all’ora di colazione; Elizabeta stava sorseggiando il suo frappè alla fragola, cosa strana perché lei odiava le fragole, e lui stava bevendo il suo caffè amarissimo, quando l’ungherese parlò con la sua voce cristallina e pimpante.
 
-Amore?-
-Dimmi, cara. –
 
Gli piaceva quando Liza lo chiamava “amore”. In realtà, non lo faceva quasi mai, ma quelle poche volte che succedeva, mandava Gilbert in solluchero. Sembrava si rivolgesse a lui come se fosse l’emblema stesso dell’amore e ciò, agli occhi del tedesco perlomeno, era verissimo.
 
-Lo hai detto a tuo fratello che aspettiamo un bambino?-
 
Era l’ossessione di quella donna, far sapere a tutti che presto avrebbero avuto un figlio. Beninteso, anche a Gilbert piaceva far sapere a tutti che oltre ad essere fantastico, era anche un padre; insomma, lui era fiero del suo piccolo bebè ma gli pareva esagerata tutta quella mania.
 
Il tedesco scosse la testa –Mi dispiace, ma quando abbiamo scoperto che “Awesome junior” era tra noi, avevo già spedito l’ultima lettera a Lud…-
 
Elizabeta sospirò, parecchio contrariata –Esiste il telefono. –
 
Lei non aveva mai capito perché i due fratelli Beilschmidt non comunicassero mai via telefono, ma solo attraverso lunghe missive; tra l’una e l’altra passavano sempre troppo tempo e avevano inventato il telefono per una ragione, dopotutto.
 
Avrebbe davvero aspettato altri mesi prima che suo fratello Ludwig sapesse che stava per diventare zio?
 
Il tedesco aveva captato nella sua voce un misto di irritazione che gli fece capire che non era il caso di ribattere, perché Eliza già di per sé era una donna lunatica e  a maggior ragione, ora che era incinta e temeva i suoi attacchi d’ira.
Sbuffò, poggiò la tazzina non ancora vuota e si stiracchiò per bene, per poi alzarsi e raggiungere il telefono.
Gli rispose una voce che non era quella di suo fratello; era molto flebile, quasi lamentosa ed aveva un timbro decisamente femminile
 
-Pronto, ufficio del sindaco Beilschmidt, chi parla?-
 
Aveva sbagliato numero. Suo fratello non era il sindaco, anche se faceva di cognome Beilschmidt.
Oppure, cosa assai probabile, quella era Katerina e quel giorno era in vena di scherzi. Non l’aveva mai conosciuta, ma già da come gli aveva risposto non gli andava a genio…insomma, sperava con tutto sé stesso che non fosse lei, o avrebbe creduto che suo fratello non sarebbe potuto cadere più in basso di così –Deve esserci un errore – rispose un po’ circospetto –Io sono il fratello di Ludwig Beilschmidt e l’ultima volta che l’ho sentito non era il sindaco…-
 
Sentì dall’altro capo del telefono una specie di piagnucolio –Oh, mi scusi…ecco, io pensavo che…mi dispiace, ora glielo passo. –
 
Gilbert aveva solo una domanda in testa: era la famosa diligente Katerina di cui Lud aveva tanto scritto nella sua lettera, quella? Perché “quella” di diligente sembrava avesse davvero ben poco.
Ok, lo ammetteva, forse era un po’ parziale. Non era geloso di suo fratello, solo che personalmente riteneva non stesse facendo la cosa giusta, a sposarsi ad una così giovane età e se poi la sua sposa era una tipa come quella, aveva tutte le sue buone ragioni per essere perplesso.
 
- Gil? – sentire la voce profonda e baritonale di Ludwig gli procurò  uno strano effetto: era da tanto tempo che non lo sentiva via telefono e la sua voce era come se dicesse “Io esisto, sono ancora vivo”. Le lettere non davano la stessa impressione, almeno secondo il suo punto di vista
 
-Il sindaco Beilschmidt?- gli rispose di rimando, sarcastico
 
Poteva scommetterci quello che voleva, suo fratello era arrossito –A mia moglie piace scherzare. –
 
Ah, bene, mistero risolto a quanto pareva. Quella al telefono era, come aveva temuto, la signorina Braginsky
 
-Uh, ma senti con che fierezza lo dice! Mia moglie…non siete mica sposati, casanova. – lo prese in giro con il solito modo di fare dei fratelli maggiori
 
Sentiva la voce di suo fratello diventare ad ogni parola sempre più grave, come se provasse imbarazzo –E’ come se lo fossimo. Ma lascia perdere…è da tanto che non ci sentiamo. –
 
-Lo so, ma dopo aver letto la tua lettera…quindi ti sposi? – per lui quell’argomento era oltremodo ermetico e imbarazzante, ma non sapeva come iniziare l’altrettanto discorso spinoso del “sto per diventare padre”.
 
Era raro sentire Lud ridere, con quell’ilarità sempre molto seria e contenuta –Sì, è così. –
 
-Sono contento per te. Com’è questa Katerina, allora? È ben piazzata? –
 
- Gil! – lo richiamò notevolmente sotto pressione, in contemporanea con Elizabeta, che nel frattempo si era posizionata vicino a lui per cercare di afferrare almeno un po’ della conversazione tra i due fratelli –E’ una brava ragazza, anche se…-
 
-Se? – e adesso, che problema c’era? A suo fratello di solito non facevano così paura le difficoltà; cercava di superarle e soprattutto, cercava di uscire da ogni spiacevole difficoltà nel miglior stato possibile.
 
Ludwig Beilschmidt non temeva i problemi.
 
-La sua famiglia…ecco, non è proprio quel che si dice “bucolica”…il suo fratello minore…Ivan forse è il male peggiore. –
 
-Che ha fatto?- lo incalzò sospettoso. Se già prima non gli andava a genio Katerina perché si era “appropriata” in così poco tempo di suo fratello, adesso non la sopportava.
 
-Lui è un po’ contrario all’unione tra me e sua sorella…Natalia, l’altra sorella, non so dire se sia meglio o peggio. E’…è pazza. –
 
Strano, suo fratello non giudicava mai così apertamente le persone –In che senso è pazza? Si è opposta anche lei al vostro matrimonio?-
 
-No, no, a lei non importa davvero nulla.- pareva, forse era una sua impressione, un po’ rincuorato da quella constatazione. Gilbert lo sentì riprendere fiato, come se stesse per annunciare qualcosa di strano
 
-Vuole sposare suo fratello…e ha un coltello dentro la borsa. Perlomeno, a lei non disturba il fatto che mi sposo con Katerina. –
 
Se quello non fosse stato suo fratello, Gilbert si sarebbe messo sicuramente a ridere per la totale sfortuna in cui era precipitato, ma Ludwig era una delle poche persone a cui voleva bene tanto quanto sé stesso e quindi in quel momento per lui provò solo tanta, tanta compassione –Perché la sposi, allora? Molla lei e quella banda di pazzi che si ritrova per parenti.–
 
A lui sembrava facile la soluzione: per il bene del suo ego, passava sopra ad ogni cosa. Ma Ludwig non era affatto così, non avrebbe rinunciato mai a qualcosa solo per amor proprio.
 
-Io…beh…- balbettò in difficoltà –Io la amo, Gil. Non mi interessa della sua famiglia. –
 
Suo fratello era così. Partiva in quarta per ogni cosa e la portava a termine, senza mai neanche provare a fare un passo indietro e in questo, almeno in parte, somigliava poco al maggiore.
 
La determinatezza era propria di entrambi, ma la forza di volontà ce l’aveva solo Ludwig.
 
-Va bene, ho capito. – tagliò corto –In ogni caso, non ti ho certo chiamato per sentirmi dire quanto sia bella e adorabile la tua donna.-
 
-E allora per cosa?- lo incalzò Ludwig incuriosito.
Suo fratello emise un sospiro, persino Elizabeta gli mise una mano sulla spalla, come se avesse capito che erano arrivati, all’interno della loro conversazione, al punto cruciale e lo volesse in qualche modo sostenere
 
-Io…-
 
-A proposito, la tua fidanzata come sta?- lo interruppe il fratellino.
 
-Sta con me, quindi magnificamente. – il suo tono di voce era frettoloso –Comunque…a parte per il fatto che sta bene…- si prese una pausa; non sapeva davvero da che parte iniziare; avrebbe voluto dire una di quelle frasi pompose che si pronunciano di solito in quei pessimi film riservati ad un pubblico prettamente femminile, ma l’unica frase che gli venne da dire fu.
 
-Sto per diventare padre. Un Magnifico papà, ad essere precisi. –
 
Per un attimo temette che la linea fosse ceduta, perché dall’altra parte della cornetta non si udì alcun rumore. Solo dopo un po’ di tempo, che parve andare avanti per molti giorni, che Ludwig si degnò di rispondere con un tono un po’ polemico –Non è divertente come scherzo, Gilbert. –
 
-Non è uno scherzo, stai davvero per diventare zio…Lud…Lud, ci sei?-
 
-Sì ci sono…- la voce di Ludwig era sorpresa, proprio come suo fratello si aspettava –Verdammt, Gilbert! Non ci posso credere…-
 
-Lo so.- rispose, un po’ troppo apatico, per la verità
 
-E’ fantastico!-
 
-Lo so. –
 
-Wow…- Ludwig non si prendeva mai il lusso di darsi alla pazza gioia, i suoi erano sempre manifestazioni molto contenute. Era felice, Gilbert lo sapeva, ma suo fratello lo dimostrava sempre con una certa dose di correttezza –Ed Elizabeta come sta?-
 
-Bene, ma è completamente fuori di testa…- guardò la sua ragazza e capì che non stava seguendo la conversazione per fortuna, altrimenti l’avrebbe presa molto male.
 
-Sapete se è maschio o femmina?-
 
-Il sesto senso di Elizabeta dice che sarà maschio, ma il suo sesto senso è lo stesso che diceva che lei non era incinta ma aveva un virus, quindi…-
L’ungherese, senza troppe cerimonie lo colpì sulla testa con uno schiaffone e Gilbert emise un sibilo di dolore. A parte gli sbalzi d’umore e le voglie più improbabili, il carattere di quella donna non era cambiato per nulla, forse era addirittura peggiorato.
 
-Tu come l’hai presa?- Ludwig lo conosceva troppo, troppo bene. Sapeva che la paternità si posava male su una personalità così egocentrica come suo fratello.
 
Gilbert, per tutta risposta, fece un ghigno –Molto bene, ovviamente. Awesome numero due dovrà essere tale e quale a me…anzi, magari tale e quale no, l’originale è inimitabile. –
 
-Non cambierai mai, temo.- il tono di suo fratello era a metà tra il biasimo e il critico. Perché il minore dei Beilschmidt non avrebbe mai capito dove sarebbe mai finito lo sconfinato amore che Gilbert aveva per sé. Era allucinante, non aveva mai conosciuto una persona dal carattere come il suo
 
-Ne sono davvero lieto, bruder, davvero lieto. Magari avremo l’occasione d’incontrarci…-
 
Gilbert sapeva che suo fratello stava alludendo al suo matrimonio con Katerina –Sicuramente. – rispose affabile.
 
Le rare telefonate tra lui e suo fratello finivano sempre così, in sospeso. Era una delle tante cose strane del loro rapporto; continuavano a sentirsi da lontano, sporadicamente, eppure nessuno di loro due aveva mai avuto il desiderio di vedersi fisicamente o, quantomeno, nessuno dei due lo aveva mai detto all’altro.
Quello del matrimonio e del bambino, era soltanto un pretesto per vedersi, il tedesco lo sapeva bene. Non sapeva darsi una spiegazione neanche lui.
Sentì la mano di Elizabeta sfiorargli la guancia, era calda.
Ecco, davvero non la capiva; fino a cinque minuti prima lo aveva preso a schiaffoni, ora invece lo stava guardando con occhi adoranti.
 
-Ho un sesto senso che fa schifo, quindi?- gli domandò ironicamente, ma non aveva un tono cattivo.
 
Il tedesco annuì con serietà –Mi dispiace dirtelo, ma il mio funziona meglio. –
 
La ragazza fece un sorriso un po’ obliquo –Scommettiamo: se è un maschio, gli diamo il nome che voglio io. Se è femmina, quello che piace a te. –
 
Sorrise e la baciò sulla bocca –Mi sembra una proposta ragionevole, tanto si sa che vincerò io. –
 
L’altra scosse la testa, sempre più divertita da quel discorso –Vedremo, vedremo, caro il mio fantastico.- aveva un tono di voce molto battagliero, che gli calzava a pennello.
E con un sorriso sinistro, senza neanche lasciar tempo al tedesco di ribattere, si diresse nella loro camera.
 
 
 
Era passato molto tempo da quando loro tre, Gilbert, Antonio e Francis non erano più usciti insieme; una cosa del tutto normale forse, visto che ognuno di loro aveva i propri problemi personali e se Francis era troppo occupato a smaltire l’ormai passato rifiuto di Arthur, Gilbert era preso dal figlio che doveva ancora nascere.
Forse, l’unico davvero rilassato era Antonio che, malgrado fosse in bilico nell’incertezza della sua Historia de amor, come la definiva spesso, tra lui e Lovino, non aveva perso il suo sorriso.
Tutto sommato, era anche bello secondo Francis, rivedere dopo tanto tempo i suoi migliori amici riuniti; dopo quello che era accaduto tra lui e lochenille, avrebbe tanto desiderato informarli del lieto evento, ma Arthur era stato fin troppo categorico –Se dici a qualcuno che abbiamo fatto sesso….- era arrossito nel dirlo, forse lo imbarazzava la correlazione che c’era tra lui, il sesso e quel francese -…Francis, io ti giuro che…- aveva teso un pugno, che per il francese parve più eloquente di qualsiasi altra parola
 
-E noi due?-
 
-Noi due in che senso?-
 
-Mica mi pianterai in asso in questo modo?- aveva specificato in maniera sibillina, strizzandogli l’occhio.
 
L’inglese l’aveva guardato per alcuni secondi inebetito, non pronunciando alcuna parola. Dal colorito livido, aveva capito che non gli era piaciuta granché come domanda
 
-Arthur, ti ricordo che i bambini sono all’asilo…Non dovresti perdere tempo.-
 
Fu come se avesse fatto scoppiare un palloncino vicino al suo orecchio; il biondino trasalì improvvisamente, si precipitò verso la porta d’ingresso e senza neanche salutarlo mormorò fiaccamente –Vieni a cena da noi, ai bambini manchi. Ovviamente, ci comporteremo normalmente – lo guardò un’altra volta, questa volta però sorridendo con misura -Normalmente…in effetti, tra noi due non c’è mai stato nulla di normale. – lo aveva salutato così, enigmatico e sempre con la sua solita inflessione ironica.
 
Non l’aveva neanche posta sotto forma di domanda, era una specie di concessione, che suonava tanto come “Non sono io ad avere bisogno di te, semmai è l’esatto contrario”.
 
E comunque, la sostanza era sempre quella; non poteva dire ai suoi migliori amici che, in un certo senso, lui ed Arthur stavano insieme.
Stare insieme ad Arthur…solo in quel momento si rese conto di quanto fosse dolce e piacevole quell’accostamento di termini.
Arthur e insieme…insieme ed Arthur, La sua mente sarebbe potuta andare avanti a ripeterlo all’infinito, ma la voce di Gilbert lo riportò alla realtà
 
-Sei ancora dispiaciuto per quell’affare tra te ed Arthur?-
 
Si morse la lingua –Oh…no, acqua passata. – si affrettò a rispondere, simulando un tono di voce a metà tra il rassegnato e l’apatico.
 
Era stato convincente, a quanto pareva, perché Antonio gli batté una mano sulla spalla; in realtà, il loro luogo d’incontro, era molto più banale del solito; si erano visti, tutti e tre, a casa di Francis,  come ai vecchi tempi, quando non avevano bambini, italiani e bruchi a cui pensare
 
-Dai amico, il mondo è grande. -
 
Antonio era la miglior spalla su cui piangere, o su cui ridere, a seconda dei casi. Dopo il rifiuto di Arthur, era venuto spesso a far visita a Francis e lui ne era stato contento, molto contento.
Ciò che c’era di più bello nell’allegria di Antonio era che fosse altamente contagiosa; era una dote che, segretamente, invidiava tantissimo.
Perché c’era qualcosa nel sorriso di quello spagnolo, nelle sue fossette che gli si formavano e che lo rendevano ancora più adorabile.
 
-E poi, Arthur non era neanche tutto questo splendore, se proprio vuoi saperlo. – ci tenne ad aggiungere, con un tono di voce che mostrava tutta la sua ostilità nei confronti dell’inglese.
 
-Già…- stava lottando con tutto sé stesso per non scoppiargli a ridere in faccia; chissà come avrebbero reagito Antonio e Gilbert alla notizia che lui ed Arthur avevano chiarito, eccome se avevano chiarito, il loro rapporto.
 
Tanto, non potevano certo rimanere all’oscuro per molto tempo, prima o poi l’avrebbero pur dovuto dire a qualcuno.
 
-E’ sicuramente meno affascinante, bello e simpatico di me. – il tedesco annuì a mo’ di compatimento personale –E sono certo che io sarò molto meglio di lui come papà.-
 
-Arthur è un ottimo padre. – il tono della sua voce era stato un po’ freddo, molto simile a quello dell’inglesino. Non era riuscito a trattenersi.
 
L’amico lo guardò con aria di superiorità e scetticismo; si era capito che il francese l’aveva offeso dal profondo, dubitare della sua magnificenza era un po’ come dichiarargli guerra.
Antonio fu parecchio abile da sviare il discorso un po’ spinoso –Lovino e io usciamo, questa sera. –
 
-Come sempre, dalla prima volta che siete usciti. – il tono di Gilbert era insensibile.
 
Francis invece si congratulò con lui con gentilezza; beato ad Antonio, che aveva un ragazzo che non si poneva tutti quei dubbi amletici!
 
-Parliamo di me, piuttosto.  – il tedesco voleva che si parlasse sempre di lui, a dire il vero –Ho sentito Ludwig al telefono. –
 
-Come sta?- sembrava che Antonio stesse chiedendo notizie di un suo carissimo parente e non di un tizio che in vita sua aveva visto solo in fotografia –Ti ha presentato la moglie. –
 
-Sì…lasciamo perdere. – alzò gli occhi al cielo –Presto mi ritroverò una cretina per cognata che ha per famiglia una banda di pazzi…io quelli non li faccio avvicinare ad Edith…-
 
-Edith?- il francese corrugò le sopracciglia e l’amico gli strizzò l’occhio divertito
 
-E’ il nome del bambino. Anzi, della bambina. –
 
Antonio sgranò gli occhi –Come hai fatto a sapere che è una femmina?-
 
-Non lo so, lo credo. E siccome io ho sempre ragione sarà una femmina e si chiamerà Edith, proprio come mia madre. –
 
Francis scosse la testa: quella bambina, o quel bambino visto che era certo che Gilbert non avesse assolutamente il dono della onniscienza, avrebbe avuto per papà quel megalomane di Gilbert e per madre un maschiaccio come Elizabeta.
No, non la o lo ovviamente, invidiava per nulla…
 
Fu in quel momento che suonarono alla porta e quando Francis andò ad aprire, si trovò Arthur davanti a lui. Era la seconda volta che lo andava a trovare in una giornata, era quasi un record.
 
–Arthur?- lo accolse un po’ spiazzato da quella vista. In realtà, non si aspettava di vedere quel ragazzo prima di cena.
 
L’occhiata gelida dell’inglese era più che eloquente -Sì, buongiorno. – rimase sul ciglio della porta, senza neanche accennare a voler entrare
 
-Oh, guarda chi si fa risentire!- urlò Antonio dalla sala con tono polemico, cosa che fece sorridere il francese sotto i baffi
 
-Arthur nulla da fare, sono più bello io di te. – diede manforte Gilbert
 
-Ci sono anche quei…due con te?- bisbigliò acido. Non sembrava molto felice di quella notizia, anzi, la sua voce si era fatta ancora più cupa –Non gli avrai detto che…-
 
-No, no, non preoccuparti. – lo rassicurò con prontezza –Che c’è, comunque?-
 
Per un attimo, l’inglese non disse nulla, rimase zitto, come se non sapesse cosa dire. Poi si decise, in maniera alquanto affrettata –Abbiamo un problema. –
“Abbiamo un problema” sembrava essere diventata la sua frase preferita, a quanto pareva…

 
 
 
 
Salve a tutti quanti! Scusate prima di tutto l’imperdonabile ritardo, ma la scuola mi ha praticamente assorbito e inglobato nel suo malefico giro (???). So, spero mi perdonerete per questo increscioso ritardo ^_^
Come potete vedere, il capitolo ha un po’ ripreso quel tono commediale che c’era anche all’inizio. Magari è solo una mia considerazione, visto che ho il senso dell’umorismo di poco superiore a quello di una ciabatta rotta (senza offesa alle ciabatte, che sono utili per la società…a differenza mia.)
In ogni caso, spero vi sia piaciuto ^_^
 
IMPORTANTE:
Credo mi dilungherò parecchio. Allora, siccome questa storia è quasi giunta al capolinea (mancano pochi capitoli, anche se ne ho aggiunti un paio in più…che brutalità), qualcuno mi ha consigliato (e per questo, lo ringrazio) di scrivere vari spin off che si ricollegano a questa fic. Ebbene, ci ho pensato a lungo…troppo a lungo. Mi sono venute talmente tante idee da rendermi conto che non posso pubblicare tutto questo (altrimenti qualcuno organizzerà seriamente una congiura ai miei danni).
Quindi, mi rivolgo a voi lettori per fare una specie di votazione (cosa per altro un po’ infantile, ma vabbè…). Le opzioni sono:
1)         Una storia dedicata interamente alla gravidanza di Elizabeta e quindi, il rapporto tra lei e Gilbert. Dovrebbero essere all’incirca nove capitoli (uno per ogni mese, beninteso)
2)         La famosa estate dell’84 di cui parlano Francis ed Antonio nel capitolo 11. Quindi, lo spin off in questione sarà incentrato sul Bad Touch Trio
3)         La vita di Arthur a Londra
4)         La storia di Ludwig nella Germania divisa dal muro
5)         Il continuo naturale di This is your father, ossia, i gemelli che diventano adulti e via di seguito
Oppure…beh, magari potreste proporre voi qualcosa. Non so, se vi ha colpito un particolare e volete saperne di più, basta solo chiedere ^^
 
A questo punto, mi sento in dovere di dedicare il capitolo a tutte quelle persone che, almeno una volta, hanno lasciato una recensione alla storia. Alcune me le sono perse per strada, altre invece sono rimaste fino a questo punto, e questo mi fa davvero piacere. Inoltre, vorrei ringraziare con tutto l’affetto possibile, tutti quelli che hanno inserito la storia tra i preferiti. Mi riferisco a loro perché, è soprattutto per loro che questa storia è tra le più popolari del sito (è una delle ultime, ma meglio di niente, giusto?).
Il capitolo è dedicato soprattutto a voi e credo che non riuscirei mai a ringraziarvi abbastanza <3
Inoltre, ringrazio chiunque sia arrivato fin qui, anche chi a questo punto vorrebbe uccidermi xD
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 23
*** Precario equilibrio ***


Antonio osservò il volto di Francis, il suo amico di sempre, quello con cui aveva condiviso praticamente tutto, quello che per lui era stato molto più di un semplice amico.
Ricordava quando, agli albori della loro amicizia, lui, Francis e Gilbert, si incontrassero tutti e tre nell’attico del francese e di come non facessero assolutamente nulla: stappavano qualche birra, bevevano, parlavano di qualche cavolata e nulla di più. Eppure, a lui piaceva tanto.
Ora invece le cose erano un po’ cambiate, ed era anche normale: lui si era innamorato, Francis stava cercando di riprendersi dopo una delusione d’amore e Gilbert stava per diventare padre.
Erano cresciuti, tutto qui. Insomma, a ventisei anni era pure ora, si ritrovò a pensare, abbozzando un sorriso un po’ malinconico.
Quel giorno, per la prima volta dopo tanto tempo, si erano trovati da soli, come i vecchi tempi ed era stata una sensazione strana per lui; certo, avevano continuato ad uscire, ogni sabato sera andavano insieme da qualche parte, si vedevano praticamente ogni giorno al lavoro…ma, nulla da fare, per lui non era la stessa cosa.
Gli incontri all’attico di Francis avevano decisamente un sapore diverso da tutto il resto, almeno per lui
 
-Io esco con Lovino questa sera!- buttò lì, prima di pentirsene; si era momentaneamente dimenticato che Francis era depresso per l’esito della storia tra lui ed Arthur, ma il francese sembrava avesse superato tutto.
 
Meglio così, pensò allegramente, France non è il tipo da abbattersi
 
-Ah, sono contento!- il suo tono di voce era lo stesso sbarazzino e malizioso di sempre –Giusto per curiosità, siete già passati ai fatti?-
Lo spagnolo rise; in quel momento il solito Francis allusivo e libertino gli sembrava di gran lunga migliore della versione malinconica e spenta dei giorni prima –Mi credi se ti dico di no?-
 
-No.- il francese ridacchiò divertito, Gilbert, d’altro canto, fece uno sbuffo, come se l’argomento non gli interessasse –Ormai uscite sempre insieme, Tonio. Sembri un’ adolescente con il suo primo amore, alle volte. – sembrava parecchio seccato, era sempre così quando nessuno accennava mai a lui –Parliamo di me, piuttosto. –
 
-Noi parliamo sempre di te. – gli fece notare Francis scuotendo la testa.
D’altra parte, il tedesco cacciò la lingua in una maniera alquanto infantile –Ho sentito Ludwig per telefono, oggi. –
Strano, Gilbert non sentiva mai suo fratello via telefono –Ah, e come sta?- gli chiese Antonio sinceramente curioso. Forse era patetico da parte sua, ma gli importava davvero di come stesse il minore dei Beilschmidt, ormai lo considerava parte del loro giro, seppur abitasse lontano e non lo avesse mai conosciuto dal vivo
 
-Bene…- non sembrava molto convinto
 
-Ti ha presentato la moglie?-
 
A quella parola, il tedesco gli rivolse uno sguardo quasi di terrore –Ah, lasciamo perdere che è meglio! Sua moglie è stupida, punto.-
 
-Neanche la conosci. –
-Lo so per certo, tu non l’hai sentita per telefono…- sia Francis che Antonio erano da sempre convinti che Gilbert fosse geloso solo nei confronti di due persone: Elizabeta e Ludwig. Era per questo, sicuramente, che la povera Katerina non aveva fatto buona impressione su di lui –Presto avrò una cretina per cognata che ha per famiglia una banda di pazzi. –
 
-Pazzi in che senso?- il francese ormai non si preoccupava neanche di nascondere la sua ilarità. Non che ridesse delle disgrazie altrui, ma ormai era abituato a quel genere di lamentele da parte del tedesco, tanto che ormai entrambi la prendevano sul ridere
 
-La sorella colleziona coltelli!- esclamò avvilito –Ti pare nomale! Io quelli non li faccio avvicinare ad Edith…-
 
Avevano continuato a parlare, fino a che non suonò alla porta: era Arthur, che con un tono di voce un po’ nervoso, aveva sussurrato a Francis “Abbiamo un problema”.
 
E fu in quel momento che Antonio si accorse che, in tutta quella faccenda, lui si era decisamente perso un passaggio. Prima di tutto, l’inglese era lì, davanti ai loro occhi, come se la litigata tra lui e Francis non fosse mai avvenuta.
 
E poi, aveva detto “Abbiamo un problema”. Non Ho un problema…era come se includesse anche il francese in quell'Abbiamo e questo non lo capiva.
Aveva detto che non avrebbe avuto più a che fare con lui, ed ora cosa ci faceva lì?
Sentì Francis sibilare infastidito, solo quell’inglese riusciva a fargli perdere la pazienza in quel modo –Arthur, io proprio non ti capisco! Non mi dire che è per quello che è successo tra noi, perché…-
Ok, si era decisamente perso qualcosa per strada. Lui e Gilbert si guardarono reciprocamente, entrambi ignoravano il significato della scena che si stava svolgendo sotto ai loro occhi
-Cosa è successo tra voi due?- ebbe il coraggio di domandare, un po’ polemico. Gli seccava il fatto che Francis non gli avesse neanche fatto un accenno a qualcosa.
 
Vide il volto di entrambi girarsi di scatto verso di lui, impalliditi –Ehm, Antonio…- il francese si morse un labbro –Ecco, devi sapere che…-
-Non sono affari tuoi. – lo mise a tacere Arthur, le sue guance si erano improvvisamente tinte di rosso e il suo tono di voce era diventato insensibile. Non era una novità per lo spagnolo, visto che il britannico si rivolgeva sempre in quel modo quando parlava con lui.
Era come guardare due mondi paralleli; da un lato c’era il viso abbronzato e scuro di Antonio, che cercava in qualunque modo di mantenere un sorrisetto di circostanza, dall’altro invece quello pallido e decisamente meno amichevole di Arthur, che lo stava guardando in cagnesco.
 
-Arthur, forse è meglio che…- iniziò a dire Francis, ma venne interrotto dalla voce esasperata dell’inglese
 
-Devo parlarti. Da solo. –
 
Il francese sospirò: si girò verso Antonio e Gilbert e chiese loro scusa con un’occhiata, non spiegare ai suoi migliori amici come stavano realmente le cose tra lui e Arthur lo metteva in difficoltà.
Poi prese per mano l’inglese e lo trascinò in camera da letto.
 
Era strano, si ritrovò a pensare; in quella stessa mattina, lui e il britannico si erano amati e in quel momento, sempre lì, Arthur gli stava per fare una rivelazione che, se lo sentiva, avrebbe messo in difficoltà entrambi.
 
Doveva dirglielo –Prima o poi, Gilbert ed Antonio dovranno saperlo che io e te…-
 
-Non mi sembra proprio il caso di discuterne. – il viso del britannico in quel momento era più pallido del normale. Sembrava che fosse davvero un guai seri e Francis non riusciva ad immaginare cosa mai fosse successo.
 
Sperava soltanto che non fosso colpa sua, per Arthur la colpa ricadeva quasi sempre su di lui.
 
-Francis…- esordì l’altro, abbandonando i toni irritati di prima. Sembrava un altro, parlava con un filo di voce e si era fatto improvvisamente teso –Mi hanno telefonato i miei fratelli. –
 
-E quindi?-
 
-Lasciami finire. – tagliò corto sbrigativo, poi fece un sospiro gravoso –Loro vogliono conoscere Alfred e Matthew e quindi…beh, vengono a trovarmi. Non tutti, naturalmente, però…- era in difficoltà, questo il francese lo aveva intuito.
 
Insomma, aveva afferrato quello che in breve Arthur voleva dirgli; per loro due, continuarsi a vedere sarebbe risultato, almeno per quanto riguardava il bruco, tremendamente imbarazzante.
Sinceramente, questo non lo capiva, ma forse era perché non aveva fratelli con cui confrontarsi e ai suoi non era mai interessato più di tanto delle sue inclinazioni. Perfino la zia Cleménce, che pure abitava sotto casa sua e in qualche modo lo aveva intuito, si era sempre fatta gli affari suoi.
 
Prese fiato –Cosa hai intenzione di fare?- dal tono di voce, non sembrava essere sul piede di guerra.
Cosa hai intenzione di fare. Era evidente, no?
Francis lo guardò negli occhi, profondamente, in attesa di una risposta, che non arrivò mai, perché anche Arthur, di riflesso, guardava lui.
Era una scena patetica; lui stava aspettando risposte da Arthur; Arthur stava aspettando che lui si rispondesse da solo
 
-Allora?- lo incalzò.
 
All’inglese pareva tanto di essere finito in una di quelle puntate delle soap opera argentine che seguiva di tanto in tanto la signora Jones, la madre di Eileen.
 
“Cosa hai intenzione di fare?” di solito lo diceva la protagonista, che di solito era un’attricetta da quattro soldi che aveva l’unico pregio di essere bella e lo diceva in un tono molto simile a quello che aveva usato il francese; melodrammatico, stucchevole.
Il belloccio di turno, quello a cui rivolgeva la domanda, la guardava profondamente negli occhi, poi partiva un leitmotiv altisonante e, subito dopo, lui pronunciava una frase molto artefatta e anche piuttosto posticcia, tipo:
 
“Aspettarti tutta la vita, perché la vita non ha senso senza di te”.
 
Ovviamente, Francis non era un’attricetta da quattro soldi e Arthur non avrebbe mai detto frasi simili, men che meno a quella rana. L’unica cosa che era stato capace di tirar fuori dalla sua bocca, era stata –In che senso, scusa?- con un tono di voce che rasentava il fastidioso.
 
L’altro fece un grande sospiro. Fece scivolare la mano tra i suoi capelli biondi, piano – So cosa vuol dire per te l’arrivo dei tuoi fratelli e ti capisco, sul serio. –
 
Fu preso in contropiede. Personalmente, credeva che avrebbe dovuto condurre una battaglia personale tra lui e quel francese per fargli capire che, come al solito, lui aveva ragione a preoccuparsi della loro relazione così…fastidiosa? Non c’erano altre parole per definirla.
 
Sgranò gli occhi e lo guardò sorpreso –Davvero?-
 
Per tutta risposta, l’altro annuì abbozzando un sorriso molto diverso rispetto al solito.
Solitamente il sorriso di Francis si riduceva per lo più ad un ghigno molto malizioso, ma in quel momento la sua bocca aveva assunto una piega decisamente più matura –Arriva il momento in cui devi fare scelte legate all’amore. Insomma, l’amore è fatto anche di decisioni più o meno difficili da prendere, no?-
 
Annuì;  non riusciva a capire dove volesse andare a parare. Era tipico della rana fare discorsi privi di senso logico riguardo l’amore
 
-E quindi?-
 
-E quindi…ti lascio in pace. – nonostante l’avesse detto con quel tono di voce così serio e consapevole, il suo sorriso continuava a permanere –Almeno, finché i tuoi fratelli restano. Magari verrò a trovarti qualche volta e tu farai finta di sopportare a forza le mie visite. Quando me ne andrò, comincerai a lamentarti con loro di quanto sono stupido e francese…Tanto, credo che non sia difficile, vero? – sogghignò piano, si avvicinò a lui e lo abbracciò intensamente, con quella confidenza che era riuscito a conquistare piano piano e che, anche in quel momento, gli sembrava incerta.
 
Ma probabilmente, era proprio per questo che gli piaceva stare con Arthur; il loro rapporto era sempre in bilico, immerso nell’incertezza e non  c’era niente di più romantico e appassionante, a suo parere, del dubbio
 
-Francis, smettila. – l’ordine perentorio dell’inglese era più che eloquente ma il francese non lo ascoltò più di tanto, era come se l’atmosfera intorno a lui si fosse fatta d’improvviso più ovattata e confusa. Con le mani attraversò la schiena del britannico e…
 
-Cavolo! Ma tu non ti rendi proprio conto?- Arthur interruppe il momento spintonandolo via senza troppa grazia –Ti ho detto che vengono i miei fratelli e tu ti comporti in questo modo?–
Non capiva cosa ci fosse di tanto strano; stavano insieme, gli sembrava una cosa perfettamente normale che si atteggiasse così nei suoi confronti.
Francis temeva che non si sarebbe rilassato mai sotto quel punto di vista -Stavo cercando di tranquillizzarti.- rispose un po’ seccato
 
-Lo fai in un modo che non mi piace. –
 
Rise –Allora, quali sono questi fratelli inquietanti?-
 
Era questo il problema di fondo che lo aveva spinto ad andare fin da lui e ad avvisarlo di ogni cosa; erano i peggiori tra tutti i suoi fratelli ad andare a trovarlo, facevano concorrenza perfino a sua madre.
Sarebbe stato contento di vedere Andrew, o James, era un tipo così tranquillo e diplomatico che forse sarebbe pure riuscito a parlargli della sua…della sua situazione (non aveva altre parole per esprimersi) con Francis.
Invece, sarebbero venuti Hannah e Ian. Due incubi. A loro non poteva dire nulla di tutto quello, nulla; non avrebbero mai capito.
Avrebbero soltanto avuto un altro pretesto in più per deriderlo
 
-Hannah e Ian…- il suo tono di voce fiacco faceva capire tutto
 
Francis sorrise incuriosito e gli cinse le spalle con una mano -Non mi hai mai parlato di loro…-
 
L'altro fece spallucce e se lo scrollò di dosso -Non c’è molto da dire, in realtà. Ian è uno stronzo. Fa anche il chirurgo, ma è principalmente uno stronzo. – Francis ridacchiò appena -…Hannah pende praticamente dalle sue labbra, ma almeno ha la decenza di non riprendermi per qualsiasi cosa io faccia. Una volta però mi ha spiato mentre ero al cinema con la mia prima ragazza e quando l’ha saputo, la mia ragazza intendo, mi ha piantato. – fece una pausa, poi riprese a parlare in tono più sarcastico -…forse è per questo che fa la giornalista.–
 
-Bella famiglia che hai!- commentò l’altro soffocando l’ennesima risata; non aveva mai pensato che essere figlio unico fosse una bella soddisfazione e il viso di Arthur era la più chiara conferma di ciò.
 
-Loro non mi accetteranno mai per quello che sono. – lo disse piano, lo faceva sempre quando aveva timore di dimostrare i suoi reali sentimenti –Mi considereranno un deviato, o qualcosa del genere…- sospirò grave e si sedette sul letto- Anche Francis, sembrava colpito da quelle parole così penetranti e pesanti da ascoltare, poiché c’era anche di mezzo lui, in quella situazione.
 
Si sedette sul letto, lo attirò a sé –Non ti preoccupare, Arthur. Si sistemerà tutto, te lo prometto. Fingeremo, se è necessario. –
Era la cosa più bella che la rana gli avesse mai detto, perfino più bella di quando, quella mattina stessa, aveva detto di amarlo.
Perché non era da lui far finta di nulla e scendere a compromessi in quel modo, l’inglese ne era consapevole. Lo stava facendo per lui.
Rimasero in uno dei loro soliti silenzi difficili, finché, come al solito, non fu proprio Francis a riprendere la parola -Dovremo spiegare tutto ad Antonio e Gilbert…-
L’inglese si raggelò. Fino a quel momento non ci aveva minimamente pensato, visto che il suo chiodo fisso era la temuta visita da parte dei suoi fratelli.
 
 –Credo che non abbiamo poi tanta scelta. A meno che non si dimostrano davvero degli idioti, avranno capito che noi due…- si fermò per cercare la parola adatta, ma nessuna gli sembrava quella adatta
 
-…ci amiamo?- lo aiutò Francis, accompagnato da un sorriso ancora più giulivo
 
Storse il naso, inorridito da quella parola –Parla per te, Bonnefoy. – si alzò dal letto –Ora vado, ho lasciato Alfred e Matthew da un mio vicino, ma quello è matto, ha gatti dappertutto…- alzò gli occhi al cielo e l’altro, per replica, gli strizzò l’occhio
 
–Mi mancano tanto Alfie e Matt. Sul serio, quei bambini sono meravigliosi…Posso venirci lo stesso a cena da te? Non credo che i tuoi fratelli arrivino subito, giusto?-
 
-Fa come vuoi, basta che non te ne esci con le tue solite frasi da maniaco depravato, tipo “Me lo dai un bacio?”- aveva un tono di voce molto sbrigativo e apatico.
 
Scoppiò a ridere, poi si avvicinò a lui con uno sguardo malizioso in volto –E adesso, non me lo daresti un bacio, mon cher?-
 
Arthur scosse la testa –Sei patetico…e anche un fissato, ma questo credo di avertelo già detto.- Sbuffò e si chinò per baciarlo, piano, per alcuni secondi, come se avesse avuto fretta –Ora devo andare. - gli sussurrò con voce fioca, a pochi centimetri dalle sue labbra
Il francese annuì, poi lo guardò chiudere la porta della camera con furia.
Avrebbe dovuto spiegare un mucchio di cose, ad Antonio e Gilbert
 
 
 
 
 
-State insieme?- Francis aveva la netta sensazione che l’urlo di Antonio l’avesse sentito perfino sua zia Cleménce, al piano di sotto.
 
Lo spagnolo aveva sgranato gli occhi ed era rimasto a bocca aperta quando alla domanda “Cosa è successo”, il suo migliore amico aveva risposto “Io ed Arthur abbiamo chiarito, questa mattina”.
Sapeva benissimo cosa intendeva il ragazzo per “abbiamo chiarito” e in quel momento tutta la scena svolta davanti ai suoi occhi gli divenne chiara
 
-Più o meno…- il francese aveva un tono di voce irreprensibile, quasi fosse una cosa normale, di tutti i giorni
 
-E perché non ce lo hai detto prima?- intervenne Gilbert, chiaramente molto più piccato di Antonio. Non gli piaceva molto il fatto che Francis non l’avesse ritenuto tanto affidabile da eleggerlo a confidente.
 
-Scusami, Gil, Arthur non voleva che lo raccontassi a qualcuno.-
 
-Ma noi siamo amici tuoi! Di che cosa avevate paura? - Antonio invece era più che altro sorpreso: Francis ed Arthur? Due persone che credeva non potessero stare insieme per alcuna ragione –Cavolo…io ho detto quelle cose su Arturo, mentre tu…mi dispiace. – riuscì a farfugliare confuso, ma il suo amico ammiccò parecchio divertito
 
-Non me la sono presa. E comunque, ho un problema ben peggiore di questo. –
 
Raccontò loro dell’arrivo dei fratelli del suo ragazzo e di come lui avesse paura di quello che avrebbero detto dei suoi discutibili gusti. Raccontò di quello che si erano detti quella mattina stessa, dopo la loro prima volta, di come secondo lui, l’inglese avesse paura dei suoi stessi sentimenti
 
-Anche adesso che stiamo praticamente insieme, non mi ha mai detto nulla di quello che prova per me. Me lo ha dimostrato, questo sì, ma non ha il coraggio di dirmi che mi ama. –
 
Tutti e tre rimasero in silenzio, per la prima volta non sapevano che dirsi
 
-Wow…porca puttana, Fran, ma le disgrazie te le vai a cercare tutte tu!- Gilbert agitò la testa con fare polemico –Io non avrei avuto problemi simili. –
 
L’altro alzò le spalle –Che ti devo dire, Gil, l’amore è…-
 
-Oh, ma che palle! Prima Ludwig, poi tu…va bene, ok, lo ami. Non ti dilungare sull’argomento che ne ho abbastanza. –
 
Antonio sorrise appena e poggiò una mano sulla spalla del francese –Beh, congratulazioni, allora. Ce l’hai fatta. –
 
-Appena lo saprà Eliza che ti sei tro…volevo dire, che stai insieme a quello lì, farà i salti di gioia. Tifava per voi da quando siete usciti al cinema. –
 
Francis sorrise. Chissà perché, quando stava con i suoi amici, i suoi migliori amici, le difficoltà sembravano più leggere.
E il fatto che adesso doveva fingere di non provare nulla per quel bruco inglese, almeno fino a quando i suoi fratelli fossero rimasti, beh, gli era sembrato molto più facile da sopportare.
 
 
 
 
 
Salve a tutti ^^
So di essere in clamoroso ritardo e mi dispiace. Spero che l’attesa sia valsa a qualcosa e che il capitolo sia bello tanto quanto gli altri!
Allora, le votazioni sono state fatte e vi ringrazio per aver risposto ^_^ ho deciso che, probabilmente, pubblicherò due spin off, poiché persiste una parità.
 
Quindi, ecco a voi i risultati:
La gravidanza di Elizabeta: 4 voti
Il sequel: 4 voti
L’estate dell’84 e il Bad Touch Trio:3 voti
Il passato di Arthur a Londra: 3 voti
Le vicende di Ludwig: 2 voti
 
Di riflesso, il mio spin off sarà incentrato sul sequel e sulla gravidanza di Elizabeta. Siccome però sono innamorata pazzamente dell’idea di ricostruire il passato londinese di Arthur, credo che seguirò i suggerimenti della cara The Naiads e inserirò all’interno della storia originale qualche flash back. Oppure, mi inventerò qualche altro “divertente” stratagemma xD
Mi scuso con chi magari è stato deluso dalla decisione. L’unica cosa che posso dirgli è che la maggioranza vince e che mi dispiace!
 
A presto
Cosmopolita
 

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Capitolo 24
*** Parenti serpenti ***


Arthur passeggiava da solo per le strade affollate di Londra. Un ragazzo distratto lo urtò per sbaglio e lui lo fissò male per un momento.
Forse era colpa sua che aveva la testa tra le nuvole e non si era scansato in tempo, tuttavia non avrebbe mai e poi mai detto a sé stesso che era colpa sua. Mai.
Com’era vero che non avrebbe mai ammesso che, quando aveva visto Yvonne e Ian, sdraiati sul divano di casa Kirkland, avvinghiati in quel modo si era sentito così…così…umiliato, deluso e tante altre cose messe insieme.
Era rientrato perché si era dimenticato di prendere i soldi, credeva che in casa non ci fosse nessuno. Quando li aveva visti, aveva sgranato gli occhi per la sorpresa -Che ci fate qui?-
 
-Hey, microbo, ma che vuoi?- aveva sbottato suo fratello con il suo solito tono di voce scorbutico.
 
Non doveva assolutamente dare a vedere quello che provava davvero. In quel momento non sembrava stargli a cuore altro e il fatto che suo fratello stesse amoreggiando con la ragazza che piaceva anche a lui non doveva importargli nulla.
 
Non in quell’istante, ovviamente
 
-Nulla. – rispose subito, un po’ troppo immediatamente
 
Yvonne lo fissò per un secondo; i suoi occhi lo guardavano con allegria, quasi fosse contenta che li avesse beccati in quella situazione. Era innamorata, lo capiva da come sorrideva in quel modo aperto, da come non accennava a togliere le braccia dal collo di Ian, da come guardava Arthur, incurante di ciò che lui potesse pensare di loro due
 
-Pensavo…pensavo non ci fosse nessuno. Avevi detto che andavi all’università oggi e…- cominciò a farfugliare, ma Ian fu ancora più celere di lui
 
-Ti secca, vero?- non era dispiaciuto, quando mai lo era stato nei suoi confronti? Si rivolse ad Yvonne –Tesoro, per tua informazione il mio caro…- calcò per bene la parola “caro” –fratellino vorrebbe tanto essere al posto mio.– poi guardò ancora lui, con il suo solito sguardo perfido –Non è vero, bruco?-
 
Il minore arrossì violentemente –Cosa dici, Ian? Non dire cavolate, maledetto idiota , altrimenti io…io…-
 
-Tu cosa? Non sei neanche capace di formulare un insulto decente.- al contrario suo, il fratello maggiore mostrava divertirsi un mondo.
 
Lui invece, voleva volatilizzarsi per la vergogna: Dannatissimo Ian, questa gliela avrebbe pagata eccome!
Il peggio però, lo diede quella ragazza. Anzi, la faccia di quella ragazza; voltò lo sguardo da Ian a lui, ma non era un’occhiata di scherno, come l’inglese immaginava.
Sembrava quasi lo stesse…compatendo? Il suo sorriso sbarazzino aveva lasciato spazio ad un’espressione decisamente più seria
 
-Ian, dai, non dire così!- lo rimbeccò, accennando dandogli una leggera gomitata sullo stomaco, che non voleva assolutamente essere forte.
 
Ma lui non voleva essere commiserato, affatto. E anche se, lo ammetteva, non era del tutto indifferente alla ragazza di suo fratello, questo non voleva dire che fosse geloso come il più patetico degli uomini.
 
-Devo andare. – disse soltanto con tono impassibile, senza guardarli neanche in faccia.
 
A lui non doveva importare nulla.

 
 
Alfred sembrava euforico all’idea di conoscere gli zii, incosciente di che pasta fossero realmente fatti quelle diaboliche persone.
 
Matthew più che altro era timoroso; quel bambino non amava molto, in linea di massima, avere a che fare con persone sconosciute e faceva bene in quel caso, sempre secondo il punto di vista paterno
 
-Uffa, papà, ma quando arrivano?- sbuffò Alfred esitante.
 
Si erano seduti il più vicino possibile all’uscita dalla sala del ritiro bagagli, anche se mancava ancora molto all’atterraggio dell’aereo che, teoricamente, i suoi fratelli avrebbero dovuto prendere
 
-Non lo so…- spero mai, avrebbe voluto aggiungere.
 
Probabilmente Hannah avrebbe portato con sé un mucchio di bagagli al seguito, per fortuna alloggiavano in albergo, perché a casa sua non sapeva dove metterli
Era perfettamente capace di figurarseli quei due mentre uscivano dall’aeroporto con aria sostenuta e vestiti con abiti esageratamente estivi, solo perché avevano sentito dire da chissà quale fonte “attendibile” che New York a primavera era decisamente più calda rispetto a Londra.
 
-Come sono gli zii? Sono simpatici?- Al non la piantava di porre domande.
 
Storse il naso; cercava il più possibile di non pensare a quei due, nondimeno sembrava impossibile non farlo e di certo i suoi figli non lo aiutavano.
Non riusciva a capire perché quando riusciva a raggiungere una certa stabilità, arrivava sempre qualcosa a mettergli a soqquadro la vita. A volte era una seccatura…
 
-Papà, perché non rispondi?-
 
Non avrebbe smesso mai, temeva -Sono simpatici, sì…- voleva sembrare sprezzante, ma non ci era riuscito.
E poi, aveva Francis come ennesima gatta da pelare perché, lui lo sapeva che presto a quello stupido non avrebbe più importato la regola “finzione e indifferenza”. Già la sera prima a cena, dopo che Arthur aveva messo a letto i bambini, gli aveva domandato se poteva rimanere a dormire, un modo molto più elegante per dirgli che voleva fare l’amore con lui
 
-I bambini sono nell’altra stanza, stupido. – gli fece notare con non poca irritazione. Possibile che non pensasse altro che al sesso quella stupida rana francese?
 
Senza scomporsi neanche di un millimetro, il francese aveva sorriso e aveva baciato piano il lobo del suo orecchio – Va bene, me ne rendo conto…non sono abituato a certe cose. –
 
L’inglese fece spallucce, ancora più piccato di prima
 –Se non ti sta bene, vattene. – lo attaccò con non poca veemenza –I miei figli non sono una seccatura o un ostacolo!-
L’aveva frainteso, come al solito, ma aggredirlo in quel modo risultava quasi più forte di lui
-Oh, no, al contrario. – rise di tutto cuore e gli cinse la vita; quando lo guardava con quell’aria rabbuiata, Arthur era ancora più adorabile -Io sono affezionato ai tuoi figli…-
E loro lo erano a lui, completò mentalmente l’altro con una certa invidia.
Sia Alfred, ma Matthew in particolar modo, stravedevano per Francis e quando lo avevano visto sulla soglia della porta, si erano precipitati subito ad abbracciarlo.
Matthew, discreto come sempre, non aveva parlato granché, ma Alfred quella sera aveva fatto sfoggio ad una prova di logorrea che non aveva davvero limiti
 
“Sono contento che tu e papà abbiate fatto pace…voi vi volete bene, vero? Io e Matthew pensiamo di sì, altrimenti non fareste la pace, anche se voi litigate sempre, questo non vuol dire che non vi volete bene, giusto? A meno che…papà non abbia intenzione di avvelenarti…” e così via. In breve, si poteva dire tutto, tranne che non l’avessero presa bene, tutta quella situazione.
 
E anche il francese, effettivamente, aveva dato prova di tenere a quei due bambini
 
-E comunque, i tuoi figli avevano decisamente ragione…- gli aveva detto, prima di andare via, sul ciglio della porta
 
Lo guardò perplesso -Su cosa?-
 
–Cucini malissimo. – sorrise furbescamente e si godette l’effetto che avevano prodotto le sue parole in Arthur, il quale divenne rosso di rabbia e lo spintonò fuori dalla porta senza un minimo di grazia –Ti odio.- sibilò a mo’ di saluto
 
-Anche io ti amo, Arthur…-
 
 
-Secondo te, papà, hanno portato dei regali?- chiese ancora suo figlio, interrompendo il divagare della sua mente
 
-Eh?-
 
-Lo zio Ian e la zia Hanna. –
 
-Ah…- non sapeva cosa rispondere -Non lo so…- ad essere sinceri, era fermamente sicuro che non avrebbero portato regali; perché mai avrebbero dovuto farlo?
 
Dopo un po’, l’altoparlante annunciò che l’aereo di Londra era atterrato e il cuore dell’inglese ebbe letteralmente un sussulto: ci siamo pensò con una vena un po’ apocalittica
 
-Sono loro, papà?- Matthew, al contrario del fratello, appariva un po’ a disagio, proprio come suo padre. Il suo sorriso timido e indiscreto lasciava intendere che, fosse stato per lui, gli zii sarebbero potuti benissimo rimanere a Londra.
 
Si limitò ad annuire e istintivamente prese loro la mano, come se la loro vicinanza fosse stata per lui una specie di supporto morale.
 
Stavano per arrivare e riusciva perfino ad immaginarseli:
 
Scendono dall’aeroporto e Ian, come al solito, avrà qualcosa da ridire riguardo ad ogni minimo particolare. Hannah si lamenterà che fa freddo e intanto giurerà che, non appena tornerà a casa, gliene dirà quattro a chi le ha consigliato di vestirsi con una camicia a mezze maniche.
Aspettano i bagagli. Ian sbuffa perché i loro non arrivano mai, Hannah, per passare il tempo, fotografa qualcosa. E’ un’inutilità fotografare all’aeroporto, ma a lei sembra non importare. Si annoia e questa la autorizza anche a fare cose inutili.
Finalmente recuperano tutti i loro bagagli, escono, lo vedono. Arthur Kirkland, quello è il fratello che non vedono da più di cinque anni.
Pensano che sia peggiorato dall’ultima volta che lo hanno visto…Ian avrebbe voglia di prenderlo a pugni, senza un motivo preciso: in fondo, non ha mai avuto un motivo in particolare per prendersela con lui. E quelli dovrebbero essere i suoi figli! Cavolo, non gli somigliano per niente, ma è sicuro che sono figli suoi?
 
Il suo filmino mentale andò avanti fino a quando Alfred non urlò –Ehi, papà, sono loro?-
Alzò gli occhi verso la folla di persone che uscivano, per individuare tra questi se ci fossero Ian e Hannah.
Eccoli, pensò ancora una volta con una nota mista all’ansia e al terrore.
Hannah non era cambiata per nulla, aveva sempre la stessa massa di capelli ondulati e rossi, il viso rotondo cosparso di lentiggini e gli occhi di un verde talmente chiaro da sembrare giallognolo.
Ian invece gli fece quasi impressione per quanto era mutato dall’ultima volta che lo aveva visto; era dimagrito e anche di parecchio, ma nonostante tutto, appariva ancora più affascinante di quanto ricordava.
Quando lo videro, Hannah si staccò dal fratello e corse per salutare Arthur –Hey, ciao Bruco della grande Mela! – non lo abbracciò, né pianse commossa come nei film, ma si vedeva che era contenta di vederlo, anche se faceva di tutto per non dimostrarlo.
 
Sorrise, suo malgrado. Vedere i fratelli lì, in carne ed ossa, dopo cinque anni di assenza, gli aveva provocato un effetto strano, nel senso che non si aspettava minimamente che fosse un minimo contento di vederli.
Sì, anche Ian, stranamente –Sono lieto di vederti.–
 
Hannah gli rivolse un cenno di finta indifferenza –La cosa non è reciproca…- sembrava essersi accorta solo in quell’istante dei bambini di Arthur. Alfred aveva praticamente fatto di tutto per farsi notare, Matthew invece era rimasto mano nella mano del suo papà, guardando con occhi un po’ timorosi quelle persone a lui sconosciute.
La ragazza dai capelli rossi sorrise ancora di più e si abbassò verso di loro –Sono questi i marmocchi?-
Arthur contrasse la mascella –Sì…- si sforzò di non mostrarsi irritato per il lessico usato da sua sorella –Loro sono Alfred e Matthew…- poi si rivolse a loro e il suo tono di voce si fece più dolce rispetto a quello freddo e contratto di prima –Bambini, lei è la zia Hannah. –
 
Alfred, naturalmente, fu l’unico a rispondere al saluto di sua zia, che si chinò per guardarlo meglio
 
-Giovanotto, noto con piacere che non somigli per nulla a tuo padre.– lo disse in tono quasi soddisfatto, come se fosse venuta fin lì solo per accertarsi di quello -…forse il naso…- aggiunse dopo un po’, giusto per essere ancora più sarcastica nei confronti del fratello maggiore.
 
Il bambino aggrottò le sopracciglia –Io sono un eroe, non somiglio a nessuno. –
 
La sorella di Arthur fece un sorriso compiaciuto –Ecco, bravo, marmocchio. Ragiona sempre così, mi raccomando.-
 
Ian stava in disparte a guardare quel quadretto familiare con occhi inespressivi e a braccia conserte. L’unico gesto degno di nota che fece fu quello di accendersi una sigaretta e molto probabilmente sarebbe rimasto lì ancora per molto se quella stupida di sua sorella non si fosse voltato per chiamarlo
 
-Guarda, Ianny, Kirkland junior. – buttò la testa indietro e rise con la sua solita risata gioviale, molto simile a quella di Andrew, indicando il piccolo Alfred.
 
Per tutta risposta, l'uomo borbottò qualcosa che suonava come “Già”. Ad Arthur non importava molto di lui, anzi, faceva tutto il possibile per ignorarlo. Era la persona che più odiava al mondo e nessuno dei due aveva mai fatto qualcosa per riparare quel rapporto fraterno disastroso; a loro, in un certo senso, stava bene così e in fondo, Arthur non riusciva a far altro che serbare rancore verso il maggiore dei fratelli Kirkland
 
Ancora non capiva perché fosse partito insieme alla sorella, sapeva benissimo che non sarebbe mai venuto a trovarlo in circostanza normali.
Se c’era una cosa in cui Ian gli somigliava sul serio era l’orgoglio. Non si sarebbe mai abbassato fino a quel punto e allora, le ipotesi erano due: o Hannah lo aveva costretto, o aveva deciso di sua spontanea volontà di rovinargli la vita anche lì a New York. O, peggio, tutt’e due le cose insieme, cosa assai probabile
 
-Tra te e Jacob come va?- si concentrò nuovamente ad Hannah, cercando di ignorare il più possibile lo sguardo omicida che gli aveva rivolto Ian.
 
Lei storse la bocca, fece un gesto come per dire “lasciamo perdere che meglio” e cambiò subito argomento
 
 –Allora, ci porti tu all’hotel o ci lasci fare tutto da soli?- il suo tono di voce, come al solito, era polemico e anche un tantino seccato.
 
Anche l’inglese sbuffò; più passava il tempo più si convinceva che la visita da parte di quei duei in quella situazione. Era innali era accaduta nel giro di tre anni. Era anche peggio dell’aver incontrato Francis, il che era davvero tutto dire.
 
 
 
L’albergo dove alloggiavano Hannah e Ian era, naturalmente, in pieno centro e possedeva, ovviamente, cinque stelle
 
-Guarda, i balconi si affacciano praticamente su Time Square!- esclamò Hannah estasiata davanti all’ingresso, con due valige in mano –Tu invece, Arthur, dov’è che abiti?-
 
-A Queens…- bofonchiò incenerendola con lo sguardo; sapeva benissimo che quello era il preludio di una delle sue frecciatine
 
-Queens...- finse di fare mente locale portandosi una mano sotto il mento e accigliandosi –Ah, ho capito...Invece io, indovina dove ho comprato casa, fratellino caro?- sorrise in modo assolutamente perfido secondo l’inglese –A Chelsea! Pensa, ogni giorno passo per la King’s Road!-
 
Avrebbe voluto prenderla a schiaffoni perché lo faceva apposta, quella ragazzina infantile e dispettosa che faceva di tutto per farlo uscire fuori dai gangheri.
 
Tuttavia, decise di non dargliela vinta così facilmente e di fare buon viso a cattivo gioco.
 
Ian era visibilmente irritato da tutta quella situazione, nonostante approvasse i commenti velenosi della sorellina e l’unica volta che parlò fu quando Alfred gli chiese, in macchina (“Cos’è, un pezzo da museo?” aveva criticato Hannah con voce falsamente ingenua, quando l’aveva vista) –Tu sei lo zio Ian, vero?-
 
-Sei intuitivo, ragazzino!- era sarcastico, ma il bambino non aveva colto minimamente l’inflessione ironica e continuò a parlargli imperterrito
 
-Che vuol dire “intuitivo”?-
 
-Che sei dotato di grande intelligenza- rispose sbrigativo, cominciando a battere nervosamente le dita sul finestrino dell’auto
 
-…quindi è una cosa buona?-
 
Alzò gli occhi al cielo, si vedeva proprio che era il figlio di quel rompiscatole di suo fratello -Credo di sì.-
 
Scoppiò a ridere –Ah, menomale!-
 
 
 
Si accese un’altra sigaretta; quando era sotto pressione fumava sempre di più del solito, in più sentiva vicino a lui, sua sorella che blaterava su cose inutili
 
–Andrew si sposa con Janice! Quando l’ho saputo ho cominciato ad urlare e ho detto, a Janice ovviamente, che se non mi fa fare la testimone io non la ritengo più mia amica. Ah, che bello, ti rendi conto? Janice e Andrew si sposano, il mio fratellone e la mia migliore amica.-
 
-Sì, metti anche i manifesti sul giornale, mi raccomando. – la interruppe Arthur con una nota scorbutica e quella, per tutta risposta, lo fulminò con un’occhiataccia parecchio inquietante
 
-Lo zio Andrew è quello con cui abbiamo parlato al telefono vero?-
 
L’unico che sembrava incline a parlare sembrava Alfred a quanto pareva…
Il fratello li lasciò soli davanti all’ingresso dell’albergo, con la promessa che sarebbe andato a riprenderli la sera per far vedere loro la sua casa, non che ci fosse molto da guardare
 
-Vi lascio riposare…- aveva borbottato e Ian, nella sua voce, aveva intuito un’espressione di puro sollievo.
 
-Non hai parlato per nulla. – gli bisbigliò Hannah mentre salivano le scale dell’albergo, dopo aver preso la chiave della loro stanza alla reception; aveva un tono decisamente polemico –Neanche una sillaba…beh, poco male, mi hai fatto fare delle battute stupende!- rise con quel suo modo di fare isterico e malevolo che a volte inquietava anche lui
 
-Quella di Chelsea era sublime. – si complimentò con una punta di perfidia –Ma l’alunna non supererà mai il maestro. –
 
Sua sorella storse la bocca, come se le ultime parole non le avesse gradito affatto. Girò la chiave nella toppa della serratura e aprì la stanza
 
-Come ti sono sembrati i bambini?-
 
-Fisicamente non gli somigliano per nulla…- Ian si prese una pausa e sistemò la sua valigia accanto al suo letto –Per fortuna…- aggiunse dopo un po’ .
 
Hannah ridacchiò nuovamente –Però in alcune loro abitudini sono la sua copia. Sputata. –
 
-Beh, il moccioso…quello che parlava sempre…-
 
-Alfred!- gli suggerì apatica
 
-Sì, lui. Beh, è un rompiscatole tale e quale a suo padre. – sorrise, togliendosi la giacca a vento –Quell’altro non ho neanche notato che ci fosse, finché non mi ha salutato…-
 
-Ti dirò, a me piacciono. – e senza neanche spogliarsi, Hannah si diresse dritta e difilata in bagno, lasciandolo temporaneamente solo.
 
Lui e Yvonne alla fine si erano sposati, si amavano, o meglio, fino ad un certo punto era come se loro due viaggiassero su due binari paralleli. All’improvviso, però, il binario di Yvonne si era allontanato, ogni giorno sempre di più; non avrebbe mai capito il motivo per cui era successa una cosa simile tra loro, era successa e basta.
A pensarci bene, era proprio questa la cosa che lo faceva sentire ancora più abbattuto e incollerito nei confronti di quella situazione: l’amore per lui si era consumato, affievolito, e non c’era stato nulla che lui aveva potuto fare. Tutto qui.
Era una cosa ben triste, lo sapeva.
Ma, pensò ridendo tra sé e sé, se un vermetto come Arthur ce l’aveva fatta a tirare avanti, nonostante avesse due ragazzini al carico, una ragazza defunta, una famiglia che lo odiava e una posizione sociale di merda, beh, allora anche lui ce l’avrebbe fatta.
Forse, New York era un inizio per lui, non la fine, anche se, naturalmente, suo fratello e i suoi figli non avevano nulla a che vedere con tutto il resto
-Hey, Ian, il bagnoschiuma di questo albergo ha un odore buonissimo! Quasi quasi me lo frego e me lo riporto a Londra…sai, tipo un souvenir!- urlò la voce di Hannah dalla porta del bagno.
Trattenne una risata.



 
 
 
 
Salve a tutti…
Ah, lo so, sono in un ritardo quasi madornale. Spero che in ogni caso il capitolo vi sia piaciuto, mi sono impegnata molto per farlo uscire bene ^_^
Detto questo, ringrazio il “modello” da cui ho preso spunto per fare Hannah. Ti ringrazio tanto tanto tanto…mi dispiace soltanto di averti dato la parte della sorellina acida e opportunista xD
E poi, dedico il capitolo a tutti i recensori. Davvero, grazie mille, se questa storia va avanti è solo grazie al vostro enorme supporto <3 Vi auguro ogni bene!
A presto
Cosmopolita
 
PS: Secondo voi, chi è più stronzo, Hannah o Ian? xD

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Capitolo 25
*** In famiglia ***


 
« Soli, o a coppie
 Quelli che davvero ti amano
 Camminano su e giù fuori dal muro…»
Outside the wall- The Pink Floyd
 
1982
 
La sua stazione preferita stava trasmettendo Van Morrison proprio quel giorno, dovevano per forza farlo apposta, non si spiegava altro
-Maledetti…- mormorò Hannah a denti stretti; avrebbe potuto tranquillamente spegnere la radio e continuare il suo viaggio verso casa senza troppo disturbo, ma a lei Van Morrison piaceva da impazzire, nonostante da un po’ di giorni tutte le sue canzoni le davano fastidio. Le facevano tornare alla mente troppi bei ricordi che non sarebbero tornati più e questo la intristiva.
E poi, sarebbe stato semplicemente ridicolo chiedere al suo ragazzo, che in quel momento era alla giuda, di cambiare solo perché quella canzone le faceva venire in mente suo fratello.
 
Beautiful vision
Stay with me all of the time
Beautiful vision
Stay ever on my mind with your beautiful...
 
Ormai quella canzone la conosceva a memoria, nonostante l’album da cui era estratta fosse uscito relativamente da poco tempo e senza neanche accorgersene cominciò a cantare insieme al suo cantante preferito
-Mystical rapture\I am in ecstasy\ Beautiful vision\ Don't ever separate me from your beautiful...- tamburellò le dita sul volante della macchina, ignorando le lacrime che gli scendevano sulle guance, non facendo alcunché per fermarle.
Sua madre e Ian si erano detti quasi lieti di quell’evento “Finalmente ce lo siamo tolti dai piedi” aveva sentenziato il suo fratellone con aria particolarmente soddisfatto.
James…bah, a lui sembrava sempre non importargli nulla di nessuno, nemmeno di suo fratello: “E’ voluto andarsene? Non vuole più sapere nulla di noi perché ci odia? Beh…pazienza!” sembrava volesse dire con il suo atteggiamento di totale distacco.
Ed Andrew, anche lui l’ aveva sorpresa, visto che aveva adottato la stessa politica di ignara indifferenza, proprio come James.
L’unica a cui pareva importargli veramente quella situazione, era lei. Perché, in fondo, le dispiaceva che l’ultima cosa che aveva detto ad Arthur prima che andasse via era stata “Perché non ti radi le sopracciglia?”
Insomma, se avesse saputo che non lo avrebbe rivisto mai più, si sarebbe certamente inventata un insulto migliore da rivolgergli
 
In the darkest night
You are shining bright
You are my guiding light
You show me wrong from right
 
Anche ad Arthur piaceva Van Morrison, lei gli rubava i cd per non comprarne altri di tasca sua e lui, quando lo veniva a sapere, rimaneva per minuti interi a farle la predica a proposito di “Il furto è un reato, signorinella e non mi venire a dire che è una cosa da nulla, perché in futuro non sarà un cd che ruberai, ma qualcosa di più grande!”
Sorrise per quella breve e, in fondo, noiosa reminiscenza, ma subito si portò una mano sulla guancia e si asciugò le lacrime in tutta fretta.
Stupida che sei…non è morto mica! E poi, che ti interessa di Arthur, tu lo hai sempre preso in giro perché era terribilmente noioso…ora che vive a New York poi, ah! Sai quante volte tu e Ian sparlerete di lui…”
Si interruppe. Il problema era questo: non era la stessa cosa!
Insomma, il fatto che lei e suo fratello lo avrebbero preso in giro ancora di più, cosa avrebbe cambiato? Che gusto c’era a sfottere una persona se quella non poteva sentire?
O magari, Arthur le cominciava a mancare, almeno un po’…
Scosse la testa; quello assolutamente no! Non le sarebbe mai mancato nessuno in vita sua, men che meno suo fratello.
Una voce calma e serena, ma al tempo stesso venata di una certa preoccupazione, la riportò alla realtà
-Hannah, ma che fai, piangi?-
Fu presa da un nervoso ineccepibile. Odiava quando il suo ragazzo gli poneva una domanda con quel tono di voce che sapeva un po’ di compassionevole, un po’ di ansioso
-Sto bene!- tagliò corto
Avvertì su di sé gli occhi di quell’uomo; lui diceva che stare con una ragazzina di diciotto anni all’inizio gli era sembrato strano, perché lui aveva esattamente la stessa età di Ian, quasi ventitré anni e prima di allora era stato sempre con ragazze della sua età.
Tu però sei diversa” le  diceva sempre per tranquillizzarla, sfornando il suo solito sorriso caloroso “Sei talmente imprevedibile che stare con te è come passare un’intera giornata al Luna Park”
Forse era per questo che con lei si comportava sempre come una sorta di fratello maggiore.
Le diede un buffetto sulla guancia –Ti manca tuo fratello, vero? Sono cinque mesi che non si fa sentire…-
Si sentì montare dalla rabbia, avrebbe voluto tanto prendere una cosa qualsiasi, ad esempio la sua borsa, e tirargliela in faccia con tutta la forza che aveva.
Perché il suo carattere si era dimostrato, come sempre, un dispiacevole ossimoro.
Quel ragazzo era uno stupido molto istintivo, che forse era peggio di uno stupido normale. Afferrava al volo la situazione, ma siccome era limitato, non capiva mai quando era il momento di chiudere la bocca. Ebbene, quello era decisamente uno di quei momenti
-Sta’ zitto e guida. –
Ma non demordeva, quello lì, anzi, faceva di tutto per approfondire quell’argomento così astruso
–Io credo sia normale, a me è sembrato che tu ad Arthur un pochino tenessi, anche se gli rispondevi sempre per le rime…-
Sbuffò spazientita, sforzandosi il più possibile di restare nella calma totale –Sei sordo o semplicemente cretino? Ti ho detto di tacere. Mi dai sui nervi, lo sai?-
E invece di offendersi, quello sorrise in una maniera anche abbastanza insulsa.
Forse perché conosceva Hannah molto bene, a quel punto. Abbastanza per aver capito che, più teneva ad una persona, più la trattava male.
 
 
 
 
Arthur tirò un sospiro liberatorio soltanto quando furono a casa, abbastanza lontani da quegli infernali individui quali erano i suoi fratelli, almeno il tempo per riprendere fiato e organizzare tutto il resto della loro permanenza; quanto sarebbero rimasti, tanto, una settimana? Non più di due comunque…
Insomma, non credeva amassero la sua compagnia a tal punto da rimanere a New York per così tanto tempo, visto che i suoi fratelli odiavano qualunque cosa facesse parte del “suo mondo” e non facevano poi tanti sforzi per nasconderlo.
-Lasciamo loro due orette per riposarsi e poi ritorniamo, ok?- domandò ai bambini, come se avesse la netta impressione che a loro dispiacesse il fatto che dovessero abbandonare così presto i due nuovi arrivati.
-Si sono comportati in maniera strana…Non sono tanto simpatici. – notò Alfred, francamente un po’ deluso da quella rivelazione. Era ovvio, lui si aspettava due persone sorridenti che lo avrebbero riempito di infinite attenzioni e invece quei due non avevano fatto altro che parlare e ignorarlo
-Perché la zia Hannah ti prendeva in giro?-
Arthur arrossì –Non mi prendeva in giro…- odiava quando la gente lo faceva sentire inferiore e le frecciatine di sua sorella erano uno dei tanti modi. Per rivolgere la sua attenzione altrove, si rivolse a Matthew che, come al solito, sembrava sempre dimenticato in un angolino –E a te, Matt? Sono piaciuti gli zii?-
Il bambino arrossì e, dopo un attimo di riflessione, scosse la testa –Preferisco lo zio Francis. – poi lo guardò con un’espressione che sembrava quasi una richiesta di scuse. Suo padre non era affatto offeso, al contrario, condivideva pienamente il parere di Matthew…beh, a parte per il fatto che lui non preferiva né i suoi fratelli, né Francis.
-Perché ti odiano?-
In quel momento, toccò a lui arrossire e sospirare per il disagio: ancora una volta, Matthew aveva mostrato la sua capacità di notare le cose scomode
-Non mi sembra il caso di raccontarlo, davvero…- cominciò a rispondere in tono titubante, ma Alfred lo interruppe, perché, a differenza di suo fratello, non sembrava per nulla notare cosa ad una persona desse fastidio o meno
-Dai, papà, diccelo!-
Sospirò per la seconda volta –Ecco, vedete…la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il fatto che sia andato a vivere in America, ma in realtà, sono tante le cose che ci hanno separati. Io e i miei fratelli…non ci piacciamo, tutto qui. Capita, a volte…-
Mentre lo diceva, si accorse che il suo tono era un po’ dispiaciuto, ma preferì non restarci a pensare troppo a lungo, visto che lui mal sopportava talmente tanto la sua famiglia da non avere la minima intenzione di riappacificarsi con loro. O meglio, magari il desiderio ce l’aveva, ma non sarebbe stato certo  lui a fare il primo passo e chiedere scusa.
Scusa per cosa, poi? Erano loro che avrebbero dovuto implorarlo di perdonarli per il modo orribile in cui si erano comportati con lui negli ultimi anni!
-Sei dispiaciuto, vero?-
-Dispiaciuto di cosa, Matt?-
-Di non vivere più in Inghilterra…-
Lo fissò negli occhi e per un attimo si chiese come cavolo gli fosse venuta in mente una domanda simile, visto che non aveva mai detto a loro due di quanto amasse la sua terra natale.
In fondo, non ci aveva mai pensato con serietà, se aveva fatto bene o meno ad andarsene via dalla sua “Cara, vecchia Inghilterra”, il Paese che lo aveva visto nascere e crescere; insomma, a volte si divertiva a metterla a paragone con l’America e di solito quest’ultima ne usciva meramente sconfitta e, se di rado qualcuno gli porgeva una domanda sul “Paese della Regina”, lui rispondeva sempre con una vivida passione che il più delle volte non si confaceva per nulla ad una personalità distaccata come la sua.
Eppure, eppure…
Anche se l’Inghilterra era praticamente il suo unico amore, aveva paura di confessare che non voleva tornarci a vivere per tutto l’oro del mondo.
Temeva che il ritorno a quel posto tanto amato e odiato al tempo stesso, gli avrebbe causato nient’altro che delusione. A lui la Gran Bretagna piaceva ricordarsela con gli occhi di un adolescente piuttosto che di un adulto.
L’America era diventata la sua casa ora e, nel profondo, si era affezionato a quella terra; era stata pur sempre colonizzata dagli inglesi, non si sentiva tanto fuori posto.
In America c’era il suo lavoro, la vita che si era costruito con le sue mani, i suoi figli, Francis…
Scosse la testa –No, Matt. –
A giudicare dal sorriso dolce che si era formato nella sua bocca, al bambino quella risposta gli era piaciuta, e anche molto.
Si inginocchio e li abbracciò entrambi –Ecco io…- arrossì mentre lo diceva: manifestare i suoi stati d’animo era sempre stata una difficoltà notevole per lui, perfino quando aveva a che fare con i suoi figli. Ma in alcune circostanze, perfino una personalità fredda come la sua riusciva a piegarsi
 –Io…io vi voglio bene. Tanto bene e…ecco…-
Avrebbe voluto aggiungere qualcos’altro, ma non sapeva che altro dire: decisamente, aveva ancora parecchio da lavorare con la sua incapacità di esternare le emozioni. Li distaccò da loro dopo un po’ di secondi e si rialzò in piedi –Forse è meglio che cominci a preparare la cena per quei due stro…Volevo dire, gli zii…-
Alla parola “cena” Alfred fece un verso che assomigliava a quello di una persona che si stava per sentire male. Sbarrò gli occhi e scosse la testa con aria più che disgustata –Vuoi davvero cucinare tu, papà?-
Ma che carino!
 
Anche se abitavano praticamente nella stessa casa, Francis e sua zia di rado erano l’uno a casa dell’altro, anche se sia lui che sua zia avevano una copia delle chiavi di entrambi i loro appartamenti.
Semplicemente, a loro due piaceva stare per conto proprio, ognuno estraneo alle interferenze dell’altro e solamente poche volte la zia Cleménce veniva a trovarlo al piano di sopra. La maggior parte delle volte si trattavano di visite fatte per motivi piuttosto ordinari, della serie “Mi è finito il sale, ma mi scoccia andare fino al supermercato. Te n’è rimasto un po’, vero caro?”
Oppure, lui “Zia, mi dai quella ricetta per fare Quiche Lorraine?”
Quel giorno, però, stranamente Cleménce Bonnefoy era salita dal nipote senza alcuno scopo preciso. Francis se l’era semplicemente trovata davanti alla porta, con un’espressione che a lui ricordava tanto quella di un generale dei Marines: freddo, imperscrutabile.
Rimase a guardarlo un po’, fino a la voce fremente di sua zia non lo fece quasi sobbalzare
-Beh, allora? Ti decidi a farmi entrare o no?-
-Hai bisogno di qualcosa?- le domandò, quasi meccanicamente
-Fai un caffè, magari, o un thè. Per due, ovviamente. – non sembrava neanche una domanda. Era un ordine preciso.
Sua zia non era abituata a farsi invitare, la maggior parte delle volte si insediava nelle case di qualche sua amica senza neanche un minimo di preavviso e a volte questo risultava davvero molesto…
Ma il francese ormai era abituato a quel tipo di rare intrusioni da parte sua. Sbuffò in modo piuttosto drammatico, come suo solito, (perché in realtà, le visite di sua zia gli piacevano parecchio) e la lasciò entrare –E’ raro che vieni a farmi visita…- constatò con voce perfettamente tranquilla.
–Oggi mi andava, oggi sono venuta. – Cleménce fece spallucce. Aveva sessantadue anni, ma era ancora una donna piuttosto spregiudicata e tutta d’un pezzo. Forse era proprio per la sua travolgente forza d’animo che nessuno aveva voluto sposarla ed era rimasta zitella. Perché, per quanto riguardava l’aspetto fisico, sua zia dava l’impressione di essere una matrona dell’Antica Roma: non era bellissima, però aveva una luce così ferma e sicura nei suoi occhi celesti che nell’insieme le stava davvero bene.
Senza fare troppi complimenti si sedette in sala da pranzo e cominciò a fissare il ragazzo mentre metteva a bollire l’acqua
-Allora, della macchina che dicono?-
Francis si voltò per fissarla, sorpreso –Ma di cosa stai parla…ah! Quella macchina!- sorrise nel pensare che l’auto inutilizzata di sua zia adesso apparteneva ad Arthur –In realtà non ne abbiamo parlato molto, però sembra gli piaccia…Perlomeno, mi ha dato questa impressione…-
-E, questo ragazzo…E’ lo stesso che uscito l’altra mattina da casa tua, giusto? Non siete proprio amici…-
Come cavolo fa a saperlo? Pensò, continuandogli a voltare le spalle. Sulle prime non rispose, si limitò a versare il thè nelle due tazzine e a portarlo al tavolo; siccome fondamentalmente entrambi si facevano gli affari loro, sua zia non si era mai pronunciata sui gusti sessuali di suo nipote. Era palese che lei sapesse più di quello che lasciava trapelare, ma non gli aveva mai rinfacciato nulla e forse era meglio così, almeno secondo il francese.
Sapeva che lei avrebbe preferito di gran lunga che stesse con una lei piuttosto che con un lui, ma non ci aveva mai messo bocca a tal proposito
-Come hai…-
-Suvvia Francis, pensi che io sia ingenua? Ti conosco fin troppo bene e capisco quando consideri qualcuno un semplice amico: Gli hai regalato un’auto, lo hai invitato al cinema, Charlotte ti ha lasciato e tu non te la sei presa più di tanto…-
-Non me la sono mai presa per certe cose. – le fece notare con aria stizzita –In ogni caso, zia, non ti so proprio dire se stiamo…- doveva controllare tutto ciò che diceva. Quella donna accettava il fatto che gli piacessero anche gli uomini, questo era vero, ma rimaneva pur sempre una persona all’antica, che storceva il naso per alcune cose –Insomma, se tra noi due c’è qualcosa. –
Per tutta risposta, quella gli lanciò un’occhiata di traverso –Come sarebbe a dire, scusa?-
-Ecco…lui non riesce ancora a smaltire bene il fatto che…insomma, gli piaccio. Nel senso che lui è molto confuso e ha dei bambini, perciò…-
L’altra lo interruppe con voce dubbiosa –Ha dei figli?- per sua zia, avere dei figli era un po’ l’equivalente di essere sposati e, ovviamente, la cosa a lei non andava per nulla giù
-Sì, ma, ecco, ha una storia un po’ particolare…- si affrettò a rispondere, conoscendo fin troppo bene i pregiudizi di sua zia –La sua ragazza è morta, non erano neanche sposati…-
Nonostante tutte le sue rassicurazioni, quella donna sembrava non rassicurarsi, anzi, accentuò ulteriormente il cipiglio scettico che gli si era formato in volto. Ma lui, ad essere onesti, non sapeva che altro aggiungere per tranquillizzarla –E’ una storia seria, zia. –
-Seria!- esclamò sprezzante –Quando mai hai preso qualsiasi cosa sul serio, Francis, dimmelo! Anche Charlotte, all’epoca, era una storia seria.-
-Cosa c’entra adesso Charlotte?- ribatté stizzito, alzandosi dalla sedia. Quella conversazione non gli piaceva, voleva  finisse al più presto; si chiedeva per quale motivo sua zia, da sempre rispettosa della sua privacy, tutto d’un tratto sembrasse tanto curiosa. Certo, lo aveva da sempre ammorbato su questioni come il matrimonio e la famiglia, ma più di tanto non era mai andata a finire
-Io lo amo, zia. Che ti piaccia o no. – si decise a ribattere con voce quasi concitata. Mentre lo diceva, avvertì dentro di sé un forte senso di folle agitazione; avrebbe voluto farlo sapere a tutti, sì, a tutti! Che cosa importava se la gente lo avrebbe additato, dopotutto…
Sua zia scosse la testa –Sei proprio come tuo padre. Anche Louis era volubile, ma quando ha conosciuto tua madre…- sbuffò contrariata –Bah, non vi capirò mai, voi due. Due damerini senza un minimo di nerbo che credono nel vero amore e altre cavolate simili. – esclamò con un tono di voce alquanto critico, che al francese fece quasi ridere
-E, concludendo?-
-Concludendo, tanti auguri! Spero me lo farai conoscere, questo ragazzo che ami tanto, no?-
Sorrise –Te li ho fatti conoscere tutti, mi sembra. –
Stranamente, anche sua zia ricambiò il sorriso ma, a differenza del nipote, il suo sembrava fatto più per cortesia che per volontà –E’ vero. A volte però, avrei voluto risparmiarmelo!-
Francis non rispose, lasciando scendere il silenzio tra di loro, fino a che sua zia non decise di andare via.
Chissà, pensò abbozzando fra sé un sorriso un po’ tirato, se anche Arthur si deciderà ad uscire fuori dal guscio e…e dirlo a tutti. Ai suoi familiari, ai suoi fratelli…a tutti.
Scosse la testa; probabilmente non sarebbe capitato mai.
Lo conosceva troppo bene.
 
 
 
 
 
Lo so! Sono in ritardo madornale e mi scuso, anche con Cicerone (mi dispiace se ti ho sbeffeggiato durante l’ora di latino, ma non ero in me quando l’ho fatto).
E quindi…beh, nulla, spero che, nonostante tutto, il capitolo vi sia piaciuto! Voglio ringraziare chi mi segue e chi recensisce. In particolare voglio ringraziare BlauHimmel per la sua proverbiale gentilezza nel recensire ogni capitolo e Nekorii che ha avuto la forza di recuperare i capitoli mancanti. Vi ringrazio tanto, tanto, tanto *_*
E, anche se non serve a nulla, voglio ringraziare i miei mitici Pink Floyd perché mi salvano sempre la pelle!
A presto
Cosmopolita
 

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Capitolo 26
*** Come rendere più difficili le cose in tre semplici passi ***


Lovino e suo fratello Feliciano abitavano nella stessa casa, una villetta a schiera molto carina e arredata con buon gusto. I colori erano caldi e accoglienti; cosa che si confaceva molto al carattere dei due italiani o, perlomeno, a Feliciano.
In realtà, non avevano mai sentito il bisogno di separarsi l’uno dall’altro, anche se ormai erano abbastanza grandi e autosufficienti per farlo; semplicemente, la compagnia dell’uno piaceva all’altro e andava bene così ad entrambi.
E così per forza di cose, la vicinanza con suo fratello permise a Feliciano di conoscere Antonio, quello che sembrava essere il candidato al posto di “suo cognato”. All’inizio non aveva immaginato affatto che Lovino e il suo amico spagnolo con cui stava uscendo spesso in quegli ultimi giorni fossero amici in quel senso, ma quando se li era ritrovati sotto il portico, mentre si scambiavano un bacio…beh lui era ingenuo, ma non fino a quel punto!
Era appena tornato a casa, dopo una lunga giornata di lavoro e appena varcata la soglia del cancello, loro due erano stati la prima cosa che aveva visto.
E a nulla erano valse le scuse di suo fratello a proposito di “non è assolutamente come pensi, hai capito?”, perché lui ci vedeva benissimo e sapeva altrettanto bene che quello che aveva visto era stato un bacio.
Non appena lo videro, la prima reazione che ebbe Lovino, fu quella di spintonare via lo spagnolo da sé e guardare il fratellino con stizza, come se fosse tutta colpa sua se adesso si trovava in quella situazione.
La reazione di Antonio fu, se possibile, ancora peggio.
-Em…ciao!- si rivolse a Feliciano, rosso un viso ma sempre con il suo tono allegro.
-Ve’, ciao!- ricambiò il saluto l’italiano alzando improvvisamente la mano, come se fino a cinque secondi prima non avesse visto assolutamente nulla –Tu dovresti essere l’amico del mio fratellone, giusto?-
Lo spagnolo annuì a scatti, sempre più rosso –Assomigli proprio a Lovinito, sai?-
Lovino, nel frattempo, guardava entrambi a mezza via tra l’irritato e il sorpreso. Cercò di fare mente locale; Feliciano li aveva visti, mentre si baciavano e invece di scandalizzarsi come le normali persone, cosa aveva fatto? Aveva cominciato a socializzare!
Quel ragazzo era incredibile.
-Oh, me lo dicono tutti!- stava continuando quello, sempre con un timbro molto socievole –Solo che lui ha i capelli più scuri. –
-Vedo. –Nessuno di quei due imbecilli la smetteva di ridacchiare senza controllo. L’unico che pareva a disagio era lui!
Feliciano tossicchiò un po’, come se non avesse la più pallida idea di cosa dovesse dire a quel punto –Ehm…Vuoi entrare in casa?-
Per fortuna Antonio ebbe la decenza di dire “No no, ho da fare, ma grazie lo stesso!” altrimenti Lovino, come minimo, lo avrebbe morso a sangue.
-Ciao mi amor…- aveva avuto il coraggio di dirgli, prima di andare via.
-Vaffanculo!- mormorò a bassa voce, prima di rientrare a casa, molto silenziosamente, insieme al fratello. Non si dissero nulla per un po’ e fu Feliciano ad aprire la bocca per prima, dopo essersi schiarito la voce -E’ simpatico?- aveva la voce rauca, anche se si stava sforzando di apparire perfettamente a suo agio. In realtà, neppure lui sapeva da dove far partire il discorso
-No.- rispose voltandosi bruscamente verso di lui, ancora rosso per la vergogna.
Il minore ricambiò lo sguardo per nulla stupito; purtroppo, conosceva fin troppo bene il carattere scorbutico e soprattutto, chiuso del fratello -E allora perché lo hai baciato?-
-Non l’ho baciato-
-A me sembra una persona carina…- continuò con un tono perfettamente distaccato, cercando di fare tutto il possibile per far stare il fratello maggiore a suo agio; sembrava stesse discutendo del tempo, piuttosto che del fatto di averlo visto mentre si baciava con un ragazzo, talmente era disinvolto.
L’altro ruotò gli occhi al cielo –Per te, sono tutti simpatici. Mi chiedo proprio come fai a non perdere mai le staffe...E smettila di ghignare, che cavolo!-
Feliciano continuava a sorridere con dolcezza, ignorando che egli si stesse innervosendo seriamente, com’era naturale. Già era poco dignitoso per lui, andare in giro con Antonio che, va bene magari gli piaceva molto, ma rimaneva lo stesso un gran deficiente.
Essere però beccati da suo fratello, mentre per giunta si scambiavano effusioni, era addirittura stupido, a tal punto che in quel primo, breve momento avrebbe voluto di buon grado prendere a pugni quello scemo spagnolo…
La voce vivace di Feliciano e i suoi gesti bruschi e aperti, però, interruppero bruscamente i suoi pensieri rancorosi –Lo invitiamo a cena, un giorno di questi?- fece un sorriso, convinto che a suo fratello quella proposta avrebbe fatto gradimento.
Lovino lo incenerì con lo sguardo –Cosa cazzo stai blaterando?- assunse un tono talmente violento, che la sua rabbia sembrava quasi tangibile e perfino Feliciano sembrò accorgersene
-Beh, mi sembrava una bella idea…- cercò di giustificarsi, la sua voce si era improvvisamente affievolita e tradiva una nota quasi di timore –Ti prego, non arrabbiarti, fratellone. –
Il maggiore scosse la testa e fece un sospiro, La cosa più strana di tutta quella situazione, probabilmente quello che l'aveva maggiormente sconvolto, era che Feliciano non aveva fatto un solo commento riguardo alla sua relazione con Antonio, si era semplicemente limitato a dirgli che gli era apparsa una persona tutto sommato simpatica e se lo volevano invitare a cena.
Forse, era stato esagerato con lui.
Sospirò e alzò gli occhi al cielo –Magari…- cominciò a balbettare pieno di vergogna –Insomma…magari riusciamo a organizzare una cena…-
Venne risposto con un sorriso. Dopo anni e anni che lo conosceva, Lovino non capiva ancora come suo fratello riuscisse a sorridere per ogni minima cavolata. Di tanto in tanto lo invidiava seriamente…
-Sono contento che tu abbia trovato qualcuno a cui volere bene. –
Preferì cambiare discorso, perché quell’argomento lo infastidiva a dir poco. Odiava gli inutili sentimentalismi –Cosa vuoi per cena?-
La risposta giunse immediata -Cuciniamo un piatto di pasta? Ne ho una voglia matta!-
 
 
 
Per la cena di quella sera con i suoi fratelli, Arthur doveva ammetterlo: era molto agitato.
Non sapeva come comportarsi con quei due, dopo il modo in cui si erano salutati.
Fin da quando misero piede all’interno della sua casa, Hannah non mancò di fare un commento sgradevole a proposito di tutto ciò che la circondava e peggio ancora, metterli a paragone con il suo stile di vita brillante
–Brutte mattonelle…non mi piace il colore che hai usato per le pareti, il giallo è un colore così banale! Casa mia ha il parquet e ho deciso di dipingere i muri di (Tenetevi forte)…lilla! All’inizio la mamma mi ha detto “Il lilla non va bene per niente, vedrai che la casa si svalorizza in questo modo”, ma poi si è dovuta ricredere. E’ bellissima, dovresti vederla. E ha un salotto stupendo…-
Né Ian, né Arthur sembravano parecchio interessati a quello che stava dicendo, perfino i bambini avevano deciso di ignorarla, sebbene stesse parlando solo lei.
A parte Hannah, che era passata a parlare della sua “promettente carriera da giornalista”, tutti, Alfred compreso, mangiavano in silenzio, non rivolgendosi la parola come se fossero completamente soli.
Era veramente una situazione scomoda, soprattutto per Arthur, a cui tutta quella storia dei fratelli che arrivavano a New York si era mostrata da subito come insopportabile.
Guardava Ian, che a sua volta osservava lui con un’occhiata che non sapeva ben definire se fosse minacciosa o di sdegno.
 
Fu in quel momento che Ian parlò per la prima volta, rivolgendosi direttamente a lui –Certo che per te non è stato un vantaggio andare a vivere qui, dico bene?-
Aggrottò le sopracciglia –Dove vuoi arrivare?-
-Beh, - il suo sorriso prese una piega quasi sinistra, che all’inglese non piacque per nulla. Era uno di quei risolini che di solito accompagnavano il fratello quando diceva, o faceva, qualcosa ai suoi danni –Non è facile vivere in questa…”casa”…- pronunciò quell’ultima parola con un certo astio –E con due ragazzini a cui badare. Insomma, non ti manca la vecchia vita? –
In risposta, si limitò semplicemente a guardarlo in cagnesco: in fondo non era la cosa peggiore che gli aveva detto in tutta la vita, ma doveva pronunciarla per forza davanti ai bambini?
-Se il caterpillar ora vive qui e non è fuggito di corsa, vuol dire che qualcosa di positivo in questo posto l’ha trovato. – intervenne Hannah con un timbro di voce stranamente inoffensivo. Arthur notò che stava guardando, quasi insistentemente, i suoi bambini e capì perché lo stesse facendo; davvero, non se lo aspettava tutto quel tatto e tutto quello spirito di osservazione da lei
-Per una volta, Hannah, hai detto qualcosa di sensato!-
Ridacchiò –Io dico sempre cose sensate, solo che tu sei troppo stupido per arrivarci…E comunque, - aggiunse malevola –Vedo che non hai seguito il mio consiglio e che al contrario, il cespuglietto lì sopra sia aumentato in maniera spropositata. –
Perfino Alfred rise a quella battuta rivolta alle sopracciglia di suo padre, che si offese terribilmente. Mai toccargli le sopracciglia, erano un tasto altamente sensibile per lui –Maledetta, sei una grandissima…- non doveva dire parolacce davanti ai bambini, si ricordò in un lampo –Sei una grandissima…Beh, una grandissima oca!-
-E sei anche peggiorato con gli insulti…non che prima fossi un fenomeno!-
-Zia Hannah, com’era papà da piccolo?- cercò di intervenire Alfred con voce terribilmente curiosa.
La zia fece un sorrisetto e prese fiato, suo fratello intanto la guardava di sbieco, come a dire “Guai a te se provi a mettermi in cattiva luce davanti ai miei figli” –Caterpillar era un orrendo bambinetto. Ci portiamo poco, due anni quasi, ma ha voluto sempre comandare tutti a bacchetta, perfino i fratelli maggiori…-
-…Direi che con me non ci sei riuscito, eh, piccolino?- continuò Ian con voce piena di scherno nei suoi confronti.
-Smettila!- esclamò l’altro, parecchio infastidito da quella chiacchierata.
-Piuttosto, oserei dire che avevi paura di me…-
-Ho detto che la devi smettere. – ripeté l’inglese con tono imperante, sempre più furibondo.
I bambini non si rendevano conto dell’aria tesa che c’era da parte di tutti e tre i fratelli Kirkland, al contrario, erano vivamente incuriositi da quella singolare chiacchierata. D’altronde, era interessante per loro mettere insieme i tasselli della vita del loro padre, una persona che in fondo conoscevano da pochissimo tempo.
Il loro papà era come se si stesse trattenendo dal cacciare fuori quei due ospiti; aveva la faccia rossa, gli occhi lucidi di rabbia e li guardava, specialmente Ian, con irritazione e rabbia –Tu e David…è vero, mi prendevate sempre di mira, – sperava, con tutto se stesso, che Alfred e Matthew non afferrassero il reale senso delle sue parole: non voleva, ai loro occhi, apparire come un debole.
Non gli era mai piaciuto essere considerato come tale, perché lui non si credeva affatto così. Era un essere superiore a tutte quelle emozioni, tutte quelle debolezze, a tutto quanto quello che la gente poteva usare contro di lui. O almeno, lui pensava di essere così.
-Ma siete sempre stati due grandissimo scemi!- concluse soddisfatto.
Ian fece una faccia schifata –Ti ricordi di David?-
-David Smith, ma certo.- rispose Arthur, sorpreso. Era surreale, parlare con suo fratello in totale serenità di un passato molto imbarazzante per lui, non l’avevano mai fatto prima.
-Già, Smith…- pronunciò annuendo, con una punta di disprezzo non troppo nascosto –Quel bastardo!-
Inarcò un sopracciglio, perché qualcosa non gli tornava affatto –Era il tuo migliore amico, da quello che mi ricordavo. –
-Era, appunto-
No, c’era decisamente qualcosa che non andava, perché Ian e quello Smith andavano davvero d’accordo. Erano quegli amici che si spalleggiavano a vicenda, quelli che si scambiavano le ragazze al liceo, quelli che alle elementari facevano tutto il possibile per capitare nella stessa classe. Amici veri, del tipo di cui si vede poco in giro.
Cosa cavolo era successo che li aveva fatti improvvisamente separare? Di solito non si incuriosiva mai delle faccende di Ian, anzi, lo annoiavano, ma questa…
-Avete tagliato i ponti?-
Di rimando lo sentì sbuffare, sembrava non avere molta voglia di parlarne –Lo faresti anche tu, credimi, dopo quello che mi ha detto…-
-Cioè?-
Hannah per una volta, non rideva né deliziava la compagnia con le sue battutine, ma guardava Arthur con una faccia grave; indubbiamente lei sapeva cos’era successo tra Ian e David Smith e ne era rimasta fortemente indignata
-Me lo ha detto…- scandì piano e quasi disgustato –Una mattina, al lavoro. Mi ha detto che la mia… vicinanza gli causava, come dire “agitazione”. Hai capito, no?-
L’inglese continuava a guardarlo, impietrito. L’aveva capito benissimo, eccome, ma non ebbe la forza per rispondergli, in quel momento aveva in testa solo una parola: “Merda”.
Annuì, con gli occhi dilatati e facendosi improvvisamente pallido. Avrebbe voluto che suo fratello la smettesse ed invece egli continuò.
-Sai che gli ho risposto? “Ti sembro una checca?” Sì, gli ho risposto così. “Ti sembro il tipo da prenderlo nel culo, eh?”. Gli ho dato una bella lezione ed ora, credo che la mia vicinanza non gli provochi più “agitazione”- ridacchiò quasi divertito ma, d’altro canto, Arthur non trovava davvero nulla di divertente: sentiva la testa quasi girare, non sapeva cosa dirgli in quel frangente. Ma, obbiettivamente, cosa poteva dirgli?
“Eih, stronzo, io sono esattamente come il tuo amico David!”
Maledizione... anche detto tra sé e sé, sembrava una condanna a morte. Una sentenza inequivocabile, in fondo, che doveva già aspettarsi.
-Sei contro gli omosessuali?- ebbe il coraggio di domandargli, con un filo di voce.
Gli occhi di suo fratello si fecero improvvisamente violenti –Se Dio ha creato un uomo e una donna, c’è un motivo, no? È una cosa contro natura e la trovo insensata… Non ho forse ragione?- sembrava particolarmente offeso dalla domanda che gli aveva posto il fratello minore, chissà perché.
L’inglese deglutì e si affrettò a rispondere sommessamente –Giusto, giusto…Come no! – era a disagio, profondamente a disagio;  lo desiderava dal loro arrivo ma ora ancora di più, che i suoi fratelli sparissero dalla sua vista una volta per tutte e che gli facessero il favore di lasciarlo in pace. Era già depresso per conto suo perché la sua virilità (Perché di questo si trattava, secondo lui) veniva messa a durissima prova per tutta quella storia di Francis, ma ora, anche quello…era veramente troppo, non ne poteva più!
Il bello era che in fondo, avrebbe potuto anche dare ragione a suo fratello, per la prima volta nella sua vita ma, come poteva?
Come poteva?
C’era anche lui compreso, in mezzo a tutti quelli che Ian definiva “persone contro natura”.
E lui, che aveva cercato con tutto sé stesso all’inizio di negare il suo interesse per Francis e poi piano piano accettarlo come parte di sé, adesso gli sembrava di sprofondare lentamente.
Aveva in testa una sola frase: Non posso assolutamente dire loro come stanno le cose.
-Arthur, stai bene?- per una volta, Hannah appariva davvero in pensiero nei suoi confronti.
No, non stava bene per niente.
Impallidiva ogni minuto che passava e sul suo viso era rimasto un sorrisetto paralizzato e poco rassicurante. In ogni caso, cercò di darsi un contegno –Sto bene, mai stato meglio. – scoppiò in una risata nervosa e si alzò in piedi
-Papà, ma cosa vuol dire...?- iniziò a dire Alfred, ma lui lo interruppe bruscamente: intuiva perfettamente a cosa volesse alludere il figlio e non lo fece continuare. Avrebbero chiarito una volta che si fossero liberati di quei due "problemi"
–Immagino siate stanchi e non vediate l’ora di ritornare in albergo.-
Suo fratello gli rivolse un’occhiata scettica e si sentì quasi gelare: che avesse capito?
Era sicuramente una sua brutta impressione, però doveva ammettere che l’idea che loro sapessero e lo andassero a dire a tutti che lui era… no, no non aveva neanche la forza e il coraggio di formulare il pensiero.
In quel momento, si sentì suonare alla porta.
 
 
 
 
 
 
 
Salve! Scusate il mio proverbiale ritardo, che ormai è quasi di casa. Spero che il capitolo vi sia piaciuto lo stesso, perché ci ho messo tanto impegno ;)
Questa volta è ufficiale: la fic sta per finire, ma non dico quanti capitoli mi mancano perché non voglio un altro flop xD Manca poco, comunque…Quindi ne approfitto per ringraziare tutti, come sempre.
Questo capitolo lo vorrei dedicare ad una mia cara amica, che mi segue in silenzio e critica i miei capitoli a voce. A volte quello che dice mi irrita, ma lo fa sempre a fin di bene <3
E poi, lo dedico a tutte le fan Fruk; questa coppia ha bisogno di più ammore *_*
A presto
Cosmopolita

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Capitolo 27
*** Notizie incoraggianti ***


Quando la signora Kirkland aveva saputo della l’imminente partenza per New York da parte di Hannah e Ian, quelli che in un certo senso erano sempre stati i suoi figli modello, il paradigma assoluto dei ragazzi intraprendenti e spregiudicati che lei aveva da sempre ammirato, ne era rimasta vagamente delusa.Per carità, sapeva benissimo di essere stata fin troppo dura e intransigente con Arthur, in fondo si trattava sempre di suo figlio e lei gli voleva bene, ma era anche vero che Mary Kirkland era una donna molto orgogliosa e non avrebbe ammesso mai il suo errore.
Faceva parte della vecchia scuola e per lei “salvare le apparenze” era diventato un motto personale
-Mi state facendo uno scherzo, mi auguro. Non andrete mica a trovare vostro fratello?- aveva quasi balbettato, il giorno prima della partenza.
Gli angoli della bocca di Hannah si incurvarono dolcemente; una delle poche figure degne del suo rispetto, secondo la ragazza, era proprio sua madre e vederla soffrire perché era rimasta confusa dalla loro scelta, faceva male perfino ad una come lei.
-Io gliel’ho detto a questa qui,- Ian con un gesto la indicò –Di lasciar perdere con questa cavolata, ma sai com’è, mamma, vuole sempre fare come vuole lei!-
-Ah, ma dai, quanto siete noiosi!- ribatté lei allegramente –Sentite, diciamo che ho voglia di vedere Arthur, ok? E…- rivolse un’occhiataccia al fratello –Ti ho…gentilmente invitato ad accompagnarmi perché non posso sostenere dieci ore di viaggio senza compagnia. –
-Ma perché? Hannah tesoro, sai che non approvo questa tua decisione. – sua madre non era per niente felice della sua scelta, anzi. Si era rivolta alla figlia con un tono acido e arcigno, che di solito non usava mai con lei.
Quando la guardava in quel modo e le parlava con quel tono critico, pensò rabbrividendo, sua madre le ricordava in modo impressionante Arthur.
-Sì, lo so. Ma ormai ho deciso di andarci e tu puoi dirmi quello che vuoi, io non cambierò affatto idea. –
-Sei proprio una scema!- esclamò Ian d’impulso
-Ah, davvero? Se non sbaglio, stai partendo anche tu, insieme a me.-
Il loro padre, intervenne in quel momento. Abbassò il giornale e si rivolse al figlio  –Già, perché parti anche tu, Ian? Non che critichi la tua scelta, anzi, ma sappiamo tutti qui che a te Arthur non piace.-
Ian sospirò. Era giunto il momento di dire le cose come stavano in realtà; di far capire ai suoi familiari che aveva semplicemente bisogno di voltare pagina e che Yvonne, insieme a tutto quello che faceva parte della sua vista precedente, erano per lui un ricordo troppo bello e amaro allo stesso tempo per lui  –Mi sono licenziato ieri mattina, dall’ospedale. –
Silenzio. Per una volta tanto, né sua madre, nè Hannah, ribatterono qualcosa, ma rimasero semplicemente a guardarlo con gli occhi sgranati, come se mentalmente gli avessero chiesto il perché di quel gesto.
Fu suo padre a domandarglielo in modo esplicito.
-Mi hanno accettato in un altro ospedale, lontano da qui…indovinate dove?- sorrise nel notare che tutti i suoi familiari si erano voltati per guardarlo in faccia, sorpresi
-Non è possibile!- esclamò la sorella dopo un po’, sorpresa e, poteva giurarci, anche vagamente divertita  –Per questo sei voluto partire con me. –
Annuì.
Aveva deciso di trasferirsi a New York. Per ricominciare tutto da capo.
Se ci era riuscito Arthur, poteva farcela benissimo anche lui.
 
 
Il rumore del campanello fece sobbalzare tutti, perfino Ian che fino a quel momento era rimasto rigidamente impassibile.
Alle volte, la vita sembra voglia giocarci dei brutti tiri, o almeno, era quello che credeva Arthur quando si alzò dalla sedia per andare a vedere chi fosse.
Perché obbiettivamente, non era possibile che i suoi fratelli venissero a trovarlo a New York proprio in quel momento; era impossibile che entrambi fossero così ritrosi e schizzinosi nei confronti degli omosessuali e infine, ma non per questo meno importante, non era plausibile che, mentre questi ultimi stavano elencando le ragioni della loro avversione per quella categoria, Francis avesse deciso di andare a trovarlo.
Maledizione! Possibile che quella sera ci dovevano essere tutte quelle complicazioni del cavolo?
In quel momento non voleva vedere nessuno, men che meno quell’individuo; aveva avuto un bel tempismo, a presentarsi a casa sua proprio quando i suoi fratelli erano a cena da lui e stavano parlando di argomenti che li riguardavano molto da vicino.
-Cosa diavolo ci fai qui?- gli sussurrò a denti stretti, una volta che il francese lo salutò con una certa cortesia -Uh, sono contento che tu sia felice di vedermi, Arthur!-.
Possibile che non si accorgeva di quanto era poco gradito in quel momento? Quel francese era più stupido di quanto pensasse, poi si lamentava se lui era sempre nervoso in sua presenza.
Gli rivolse un’occhiata poco amichevole e si rivolse a lui con una voce alquanto sbrigativa –Senti, Francis, io…-
-Stavi mangiando, ti ho disturbato?- chiese subito, aggrottando le sopracciglia. Del sorriso smagliante con il quale si era presentato non era rimasta più alcuna traccia
-Non è quello il punto, che poi, tu sei fastidioso sempre, ma…-
In quel momento, sentì la presenza di Hannah dietro di lui e subito dopo la sua voce petulante –E questo qua chi è?-
Si morse la lingua –Lui è…-
-…Sono un collega di lavoro di Arthur. – lo precedette l’altro, con un tono di voce che l’inglese conosceva abbastanza bene; di solito, quando parlava con quella cadenza lenta e determinata, voleva affascinare qualcuno.
Avrebbe voluto tirargli un pugno in testa e cacciarlo fuori da casa sua con i suoi fratelli al seguito, ma era talmente sconvolto da tutta quella situazione che sembrava sfuggirgli di mano, che non fece nulla di tutto questo. Almeno gli era grato per essersi definito “collega di lavoro” e non “amico”.
Hannah lo squadrò da capo a piedi con aria piuttosto critica per poi dire, con un tono altrettanto distaccato –Buonasera.-
-Buonasera, signorina!- il francese fece un sorriso abbagliante che perfino quell’insensibile della sorella ricambiò –Il mio nome è Francis, lei invece deve essere la deliziosa sorella di Arthur. Je suis fascinè de connait- vous, mademoiselle.  -
Ad Arthur sembrava di essere ad un salotto parigino; tutte quelle moine, tutti quegli stupidi convenevoli…solo lui ne aveva il potere, o il coraggio, di creare un’atmosfera simile!
Ovviamente, non riusciva a sopportare nemmeno un briciolo del suo atteggiamento, meno che mai in una situazione simile.
-Esatto, sono Hannah Kirkland, molto piacere – il tono della ragazza era determinato, anche se suo fratello la conosceva fin troppo bene e aveva capito quanto fosse lusingata dalla lingua francese o, piuttosto, da quell’aggettivo “deliziosa”; su di lei si poteva dire di tutto, tranne che non avesse un debole per i complimenti.
Si girò verso Arthur –Non credevo potessi diventare amico di un francese, considerato che non ti sono mai piaciuti.- aggiunse maligna –Evidentemente, l’America ti ha dato alla testa!-
-Non siamo amici!- ribatté lui, ignorando con tutto lo stoicismo possibile le risatine sommesse di quella rana cretina.
-Ah…ho capito, solo colleghi. Sventate i crimini insieme, tipo Batman e Robin.-
-Si vede che siete fratelli!- fu l’unico commento di Francis a quella battuta sarcastica e probabilmente sarebbe stato di gran lunga preferibile per lui se non l’avesse affatto pronunciata, perché entrambi gli rivolsero un’occhiata di biasimo: era palese che nessuno dei due impazziva di gioia all’idea di essere paragonato all’altro.
Per fortuna, c’erano i bambini ad allentare la tensione. Appena videro infatti che il loro amato “zio” era venuto a fare loro visita, si alzarono in piedi.
-Eih, c’è lo zio Francis!- urlò Alfred dalla sala da pranzo, precipitandosi verso di lui. L’uomo gli sorrise in maniera affabile sporgendosi per salutarlo.
-Ciao, campione!- gli batté il cinque e gli fece una carezza affettuosa sul volto.
L’inglese intanto, avvertiva su di sé gli occhi indagatori di Ian; sapeva benissimo che magari era solo una sua impressione e che si condizionava per nulla, ma aveva la brutta sensazione che suo fratello avesse, in una certa maniera… capito tutto.
E infondo non era sorpreso: il modo in cui quel ragazzo si relazionava con i suoi figli e il modo in cui quei due bambini lasciavano trapelare l’affetto che provavano per lui, lasciavano intuire fin troppo esplicitamente che rapporto ci fosse tra loro due.
Indubbiamente, entrambi avevano capito che non erano “solo colleghi” come aveva ribadito lui più volte. Era meglio non pensarci e piuttosto concentrarsi su come ristabilire quella situazione che gli era letteralmente scivolata dalle mani.
-Beh, che vuoi?- chiese con un tono un po’ drastico; non era colpa del francese se in quel momento lui si sentiva così in imbarazzo, così poco a suo agio e allo stesso tempo cercasse, si sforzasse con tutto sé stesso di non dare a vedere nulla. Eppure in quel momento non riusciva a non attribuire il motivo di tutta quella confusione a lui e, di riflesso, a prendersela con lui; era un impulso quasi impossibile da trattenere
-Ma Arthur, ti sembra il modo di rivolgerti ad un ospite?- lo riprese sua sorella con aria beffarda
-Fatti gli affari tuoi!- e si sentì, di replica da parte di lei, una specie di sibilo rabbioso, come se non se l’aspettasse quella risposta così secca da lui.
-Se vuoi ripasso un’altra volta…-  fece per dire il francese con voce roca, piuttosto confuso per tutto quanto: la ragazzina di fianco a lui guardava Arthur inviperita, i bambini erano improvvisamente rimasti in silenzio, quasi avessero intuito anche loro la gravità della situazione e poi… c’era quell’altro tizio dai capelli rossi, il fratello con molta probabilità, che non la smetteva di fissarlo. Quest’ultimo non somigliava per nulla al suo amico; era di una bellezza nettamente superiore, aveva i lineamenti marcati e allo stesso tempo proporzionati, quasi perfetti.
Ma possedeva anche un’aria altera, inquietante, che lo intimoriva addirittura. Ora capiva perché l’inglese non parlava mai molto volentieri di lui -Salve – lo salutò sforzandosi di guardarlo negli occhi. Ian non rispose, fece soltanto un cenno con il capo, come se non gli importasse minimamente di ciò che stava accadendo davanti ai suoi occhi -Ehm…lui è mio fratello, Ian. – mormorò con voce sorda.
Si sentiva chiaramente che era profondamente imbarazzato, anche senza guardarlo in faccia.
Proseguiva guardando il pavimento con aria distratta e nervosa e le sue guance erano colorate di rosso; sembrava avesse la febbre.
Si sforzò per guardare suo fratello negli occhi e far finta di niente.
-Piacere di conoscerla, mi chiamo Francis Bonnefoy!- malgrado il tono allegro, anche il francese si sentiva piuttosto fuori luogo e imbarazzato; più passavano i minuti, più si rendeva conto che quella di andare a fare visita ad Arthur proprio il giorno in cui i suoi fratelli erano appena giunti a New York, non era stata propriamente una brillante idea -Il piacere è tutto mio- il rosso strinse educatamente la mano del nuovo arrivato e gli sorrise in maniera affabile –Sono stato a Parigi, l’anno scorso. E’ una bella città. –
Anche lui sorrise –La ringrazio. Ecco, credevo che l’inglese comune non ci trovasse nulla di buono nella Francia– poco dopo aggiunse –Suo fratello, per esempio, è uno di quegli inglesi. – lanciò un’occhiata ad Arthur e notò che era rimasto stranamente impassibile a quel commento. Probabilmente, era talmente sotto pressione e innervosito da non riuscire neanche ad incenerirlo con uno sguardo.
-E’ una delle tante cose da cui, per fortuna, mi dissocio dal bruco. – Ian scoppiò in una risata smodata che inizialmente fece quasi rabbrividire Francis; odiava le risate come quella sua, erano così volgari ed eccessive!
Si sentì un sibilo di impazienza, o di irritazione piuttosto, da parte di Arthur. Più passava il tempo, più diventava sempre insofferente a tutto quanto quello che lo circondava e di questo il francese se ne era accorto
-Allora, deve dire qualcosa a mio fratello?- riprese a dure quello con un’aria vagamente divertita –Avanti, dica pure. – Deglutì a vuoto –In realtà… ecco, sono venuto semplicemente a trovarlo. – accennò nuovamente ad un sorriso, ma lo sguardo di quell’uomo e, cosa peggiore, il fatto che ad Arthur non piacque per nulla quella risposta, a giudicare dal modo in cui si massaggiava le tempie con fare nervoso, lo misero maggiormente sotto pressione.
Era strano; non aveva mai provato un senso così opprimente di agitazione, prima d’ora -Quindi avevo ragione, non siete solo colleghi– ribatté Hannah trionfalmente.
Il suo tono allegro e acuto li fece trasalire entrambi.
-Lui è lo zio Francis, noi gli vogliamo bene. – intervenne Alfred.
 
Ecco, ci mancava pure questa!
 
Arthur disse definitivamente addio alla sua copertura, già di per sé abbastanza fragile e pessima. Davvero, credeva che ormai, toccare il fondo fosse quasi impossibile.
Lui ci era già arrivato, al fondo.
-Oh, ma che teneri!- tubò Hannah accarezzando la testa del nipote il suo unico, e isolato forse, gesto d’affetto nei propri confronti –Così volete bene al “collega” del papà.- calcò volontariamente quella parola, come se ci provasse gusto a punzecchiare Arthur e la sua tendenza a nascondere i suoi sentimenti.
Alfred annuì –Lui viene a trovarci quasi sempre e qualche volta siamo noi ad andare a trovare lui.-
Suo padre si morse la lingua, un gesto di puro nervosismo.
Sentì che gli occhi preoccupati di Francis si erano soffermati su di lui, come se avesse intuito perfettamente i suoi sentimenti. L’unica cosa che voleva, in quel momento, era che semplicemente Hannah smettesse di fare domande a proposito dei suoi rapporti con il francese e il perché era abbastanza chiaro; i suoi bambini, pur secondo la loro logica infantile, avevano compreso molto bene che loro due si “volevano bene” e semmai avessero detto una cosa del genere davanti ai fratelli, avrebbe dovuto aspettarsi ben di peggio del loro totale scherno verso di lui.
Ormai a questo, era anche abituato. Ma l’umiliazione che avrebbe provato nel sapere che tra i suoi familiari lui era considerato una vergogna e un “impuro” al tempo stesso, era troppo insopportabile per lui.
E, cosa assai catastrofica, sia sua sorella che Ian sembravano molto interessati al suo rapporto con il francese
-Da quanto tempo vi conoscete, tu e il bruco?- gli stava domandando quella diabolica ragazzina.
Il bello era che perfino Francis sembrava frastornato da tutto quello che stava accadendo. Manteneva a stento un sorrisetto di circostanza e non sembrava molto a suo agio, cosa strana perché normalmente era molto disinvolto, in qualsiasi luogo si trovasse
-Il bruco?-
-Ma sì, Arthur!-
-Ah…ecco, da più o meno cinque anni.- si rivolse ad Arthur –Bruco? E’ un bel soprannome, posso chiamarti anche io così?-
–No!- esplose all’improvviso lui, rosso di rabbia. Non ne poteva davvero più, ne aveva piene fin sopra le tasche di tutto quanto
-Sei un po’ nervosetto stasera, eh? Mi mancavano questi tuoi eccessi. – Hannah sorrise e fece per prendere il cappotto –Ora, forse è meglio che andiamo, vero Ian?-
-Già- il tono della sua voce era impassibile come al solito ma, Arthur ne era assolutamente sicuro, sembrava quasi divertito e perché no, interessato da tutta quella situazione.
 
Possibile che avesse capito tutto?
 
No, non era logica come ipotesi. Insomma, uno come Ian che disprezzava quel genere di cose, non l’avrebbe trovato divertente né tanto meno interessante. A meno che, non sospettasse qualcosa e non vedesse l’ora di farselo rivelare proprio da lui stesso.
Quello sì che era da lui!
-Avete bisogno di un passaggio?- cercò di domandare l'inglese, con una voce un po’ impastata.
-Ah, no, chiameremo un taxi. – liquidò la faccenda Hannah, sistemandosi per bene. Poi si avvicinò a Matthew e Alfred e li salutò con un bacio sulla guancia.
-Ciao ciao, bambini! E ciao anche a te, bruco. Vedi di fare qualcosa per quei cespuglietti, eh?-
-E tu vedi di farti gli affari tuoi. – le frecciatine di quella donna di certo non lo aiutavano a calmarsi; possibile che nessuno avesse un briciolo di pietà per i suoi nervi malridotti?
-Buona serata. – Ian sorrise in maniera sinistra –La vuoi sapere una cosa, fratellino?- fece una pausa, forse in attesa di un cenno da parte sua –Ebbene, ho accettato un lavoro qui, a New York. Pensa che bello, ci vedremo ogni giorno – rise nel suo tipico modo molto incontrollato e girò lo sguardo verso la rana –Potremo conoscerci meglio, io e lei, che ne dice? Sono sempre molto curioso di sapere che gente frequenta il mio fratellino. –
Francis deglutì; anche lui, come l’inglese, aveva uno strano sospetto, non riusciva neanche a capire
cosa di preciso sospettasse. Insomma, aveva fatto di tutto pur di non lasciar trapelare nulla sul reale rapporto tra loro due –Ehm… Ma certo, come no!- aveva sorriso talmente tanto che si sentiva la bocca quasi paralizzata.
Presa la sorella sottobraccio, uscì dalla casa senza salutare nessuno.



 
 
 
Porca miseria, quanto tempo è passato? Uno, due mesi…Ah, mi sento una persona orrenda 0_0
Purtroppo ho avuto molti impegni e non sono riuscita a fare nulla di concludente. Di fatti, il capitolo stesso sembra inconcludente ç_ç Bah, spero mi capiate e che vi piaccia lo stesso. So che non è un granchè, ma siamo alla fine e quindi preferirei presentare le cose con più lentezza!
Detto questo, ringrazio e dedico il capitolo a tutti quelli che lo leggeranno <3
A presto,
Cosmopolita

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Capitolo 28
*** Svuotare il sacco ***


Quando Ian e Hannah se ne andarono, per un attimo in casa calò il silenzio più totale. Nessuno per un bel po’ trovò qualcosa di sensato da dire, anche perché, non c’era proprio niente da dire: i bambini non avevano ben compreso quello che era successo dal principio, Francis sapeva che era meglio non infierire con ulteriori domande sulla situazione già di per sé abbastanza penosa e Arthur…beh, forse lui era l’unico che poteva fornire delle spiegazioni, ma il problema era che non aveva la forza per farlo: tutto quello scambio di battute che gli erano scorsi davanti agli occhi e, soprattutto, il fatto che Ian aveva l’intenzione di restare a New York, lo avevano lasciato basito.
Inaspettatamente, il primo a parlare fu Matthew con il suo tono di voce basso e dolce al tempo stesso –Papà, ho sonno. – sembrava non avesse capito praticamente nulla di tutto il trascorso, ma suo padre sapeva benissimo che, più lui che Alfred, aveva intuito qualcosa.
D’altronde, non sarebbe di certo stata la prima volta che Matthew gli dimostrava di saperne una più del diavolo.
-Anche io voglio andare a letto!- gli fece eco Alfred, sbadigliando assonnato.
Arthur sorrise inconsapevolmente: anche se la situazione era per lui quello che era –disastrosa- non poteva fare a meno di cambiare atteggiamento davanti ai suoi figli.Forse stava davvero cambiando.
-Certo, adesso andiamo a dormire…-
Francis annuì d’istinto, dome se l’inglese si fosse rivolto a lui; prese Matthew in braccio senza farsi troppi problemi, cercò di ignorare l’occhiata poco incoraggiante che gli aveva rivolto l’altro ragazzo e lo accompagnò nella camera dei gemelli. Quando la vide, inizialmente, fu preso dalla nostalgia, perché si era ricordato di quel giorno in cui lui, Gilbert e Antonio avevano aiutato Arthur a dipingere quella stanza dove ora dormivano.
Osservò l’inglese mentre rimboccava le coperte ai suoi figli e, vuoi per la dolcezza che trapelava in Arthur in quel momento, vuoi perché dopo tutto quello che era accaduto avrebbe voluto soltanto essere rassicurato, desiderava solo stringerlo e dirgli quanto lo amasse, quanto lo bramasse in quel momento.
-Papà, ma quando lo zio ha raccontato la storia di quel suo amico…io non l’ho capito, cosa voleva dire?- chiese Alfred con voce impastata. Si vedeva lontano un miglio che stava lottando contro se stesso per non cedere al torpore e addormentarsi.
Suo padre sospirò –Nulla, nulla. – sussurrò sbrigativo, accarezzandogli i capelli, come se quel gesto servisse a scusarsi per tutte le sue risposte poco convincenti –Ha solo litigato con un amico, tutto qui. – era la replica più stupida che avrebbe potuto fornire, ma il bambino parve crederci e annuì soddisfatto –Per fortuna sono un eroe, papà. Lo zio Ian non può dire quelle cose brutte anche a te, se ci sono io-. Scosse la testa con fare divertito –Buonanotte, Al. –
Diede un bacio sulla fronte di Matthew, che ormai era talmente intorpidito dal sonno da tenere gli occhi semichiusi, e spense la luce.
Rimase a guardarli nella penombra per un po’, fino a quando non sentì la mano di Francis attraversargli tutto il braccio senza energia, come se lo stesse facendo con distrazione, come se non se ne fosse neanche accorto.
Sospirò –Sono bellissimi, vero?- non se lo riusciva a spiegare neanche lui il perché di quella domanda; una cosa era certa, non voleva accennare nemmeno una parola ai suoi fratelli e a tutto il resto, non in quel momento naturalmente. Era ancora troppo scosso per parlarne
-Io direi meravigliosi. – lo assecondò l’altro. Anche se non poteva vederlo, sapeva benissimo che il francese stava sorridendo
-Non mi somigliano per niente. Forse è una fortuna, che dici?-
Sentì una risata soffocata–Mmm…io invece sono dell’idea che siano uguali a te. Guarda Alfred, per esempio; volete entrambi prevaricare su tutti…in questo ti somiglia, no?- avvertiva la sua voce, calma, tranquilla, all’altezza del suo orecchio –E Matthew…Matthew è un bambino molto sensibile ed insicuro. Anche tu lo sei, anche se fai di tutto per non darlo a vedere. – il suo palmo passò sulla sua guancia e Arthur la bloccò con la mano con fare irritato
–Dai, lasciamoli dormire. – lo intimò un po’ sbrigativo e spazientito al tempo stesso, alzandosi in piedi.
Era strano rimanere solo con Francis. In quei giorni erano rimasti spesso da soli, questo era vero, ma non avevano avuto addosso la stessa tensione di quella che stavano vivendo in quel momento. -Io…- aprì la bocca ad un certo punto Francis. Aveva la voce roca, come se non sapesse bene da dove cominciare il suo discorso -…Mi dispiace di averti messo in difficoltà con i tuoi fratelli. Credevo esagerassi quando dicevi che erano terribili e via di seguito e…In fin dei conti, io sarei dovuto rimanere a casa, forse. –
-Non preoccuparti. – tagliò corto il britannico con aria rassegnata. Era vero, un po’ ce l’aveva con lui, ma la cosa che lo spaventava più di ogni altra cosa era la notizia del trasferimento di Ian a New York e questo forse attenuava il rancore che provava nei suoi confronti –Ormai è fatta. –
Francis si avvicinò a lui e gli prese la testa tra le mani –So a cosa stai pensando; che forse loro già sanno. O che, in ogni caso, prima o poi dovrai dire a tuo fratello ogni cosa e temi la sua reazione.-
L’altro assentì con un cenno della testa –Devo trovare una soluzione. Maledizione, io so che ha capito tutto, lo so. E’ un bastardo, lui non aspetta altro che glielo riveli io stesso. – il suo tono di voce, a differenza di quello del francese, sfiorava l’esasperato e l’isterico
-Perché non glielo dici?-
Lo fulminò con lo sguardo –Ti rendi minimamente conto di quello che hai detto? Se riferissi questo lato di me finirei per diventare “lo strano” della famiglia. Già mi odiano, non voglio essere considerato anche un disgustoso pervertito omosessuale!- Francis non seppe cosa rispondere. Non c’era modo di rispondere, secondo lui, ad un’affermazione del genere.
Lo abbracciò e basta, sentì il corpo rigido di Arthur rimanere impassibile.
Probabilmente avrebbe fatto meglio a staccarsi, sapeva quanto l’inglese odiasse i contatti fisici troppo prolungati, ma non lo fece; il fatto di sentire la sua presenza vicino a lui gli piaceva, in un certo senso lo rincuorava.
Rimasero in silenzio per un po’, finché Arthur non aprì bocca –Penso che sarebbe meglio lasciar perdere. Tutto. E’ meglio sia per te che per me. – il suo tono era incredibilmente monocorde.
Il francese si raffreddò improvvisamente e, sciolto l’abbraccio, guardò l’altro con un’occhiata piena di malumore; non se l’aspettava una frase simile, anche se da parte sua era abbastanza prevedibile –Dici sul serio?- Annuì –E’ la cosa migliore, sì, non c’è alcun dubbio. Il problema è che…- inaspettatamente, scoppiò in una risata amara e abbassò lo sguardo, leggermente imbarazzato; era fuori di sé, non c’era alcun dubbio –Il problema è che non ci riuscirei…-
Francis sgranò gli occhi. Ora, il fatto che Arthur Kirkland, il suo Arthur, gli avesse dimostrato di tenere a lui era già troppo, ma sentirglielo dire lo aveva giudicato quasi improbabile, un’utopia su cui non contare più di tanto. E invece…
Sentirglielo dire, senza peraltro essere stato costretto lo rese felice. Era davvero una reazione idiota, considerato che erano stati coinvolti in una situazione abbastanza critica, ma non poteva fare nulla per reprimerla.
Era fatto così; non riusciva a nascondere la sua passione, i suoi sentimenti verso di lui, perché erano troppo forti, troppo intensi.
Lo amava, non poteva farci nulla. Perché Arthur era diverso dagli altri, così complesso, così pieno di difetti…all’apparenza gli era parso significante, a volte perfino indegno delle sue attenzioni, ma piano piano si era accorto che non era affatto così. Era singolare e alla fine tutto di lui, dalle sue sopracciglia enormi alla sua avversione nei suoi confronti, lo avevano affascinato, colpito, ammaliato.
E in quel momento, il solo fatto che Arthur, seppur con malavoglia, gli aveva fatto capire che anche lui ricambiava il suo sentimento, era stupendo.
-Ripetilo. –
-Sei uno scemo, un pervertito e alla lista adesso si è aggiunto anche l’incontentabile. Sei un rottame. – era strano, e in un certo senso molto buffo, accostare l’ inflessione acida che aveva usato, al viso rosso che l’inglese aveva in quel momento.
–Neanche tu sei messo meglio mister acidità!- Il francese scoppiò a ridere e si avvicinò a lui ancora di più –Voglio dire, sei sempre così caustico, non riesci mai a farti coinvolgere dall’amore…-
-Credimi, in questo momento non ho proprio voglia di farmi coinvolgere. Men che meno da te – ribatté ironico alzando gli occhi al cielo e, se possibile, arrossendo maggiormente rispetto a prima.
Francis continuò a fissarlo con un sorriso. Poi lo prese per la vita e, con una certa esitazione, si avvicinò sempre più alla sua bocca; temeva che Arthur lo respingesse, in fondo non avrebbe potuto biasimarlo dopo tutto quello che era successo, e invece non accadde.
Chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dalle tante emozioni che ogni volta provava nel baciarlo; sentiva il respiro lieve dell’inglese, la sua lingua che dolcemente accarezzava la sua e la sua mano che, con non poca titubanza, si era poggiata sulla sua schiena, come se volesse invitarlo ad avvicinarsi ancora di più.
Entrambi avevano bisogno più che mai di quel contatto, perché dopo la visita di Ian e Hannah sentivano la necessità di stare vicini, di avere una sorta di “supporto morale”.
-E’ tardi…- mormorò il francese quando, a malincuore, si separarono –Ti ho già disturbato fin troppo, mi sa.-
–Direi di sì. –
Sorrise –Sei sempre molto gentile…- fece per prendere il cappotto, ma la mano di Arthur afferrò il suo braccio lo costrinse a fermarsi –Che c’è?-
-E’ effettivamente troppo tardi…- la voce del ragazzo tradiva un certo imbarazzo. Era una di quelle pochissime volte in cui non dimostrava la sua celebre acidità –Se vuoi…beh, puoi rimanere qui…Ma solo perché mi fai troppa pena per lasciarti vagare da solo a quest’ora, precisiamo. –
L’altro ridacchiò in maniera compiaciuta –Sono contento che tu me lo abbia chiesto.-
Sembrava che Arthur avesse temporaneamente dimenticato quello che era successo poche ore prima in presenza dei suoi fratelli, ma in realtà non era affatto così.
 
 
Quella notte non riuscì a dormire perché, ogni volta, gli tornava in mente l’espressione sinistra di Ian, il modo perfido con cui gli aveva annunciato che sarebbe rimasto lì, nella sua stessa città
“Pensa che bello, ci vedremo ogni giorno” gli aveva detto, il che suonava molto più come una minaccia che come una notizia su cui festeggiare.
Era la prima volta che non sapeva davvero che fare; teneva troppo, suo malgrado, a Francis per lasciarlo, ma era anche vero che non poteva tenere nascosta la loro relazione ancora per molto, prima o poi l’avrebbero scoperto.
L’idea di parlare con Hannah e Ian di come stavano realmente le cose tra lui e Francis lo terrorizzava; li conosceva troppo bene da non prevedere la loro probabile reazione.
D’altronde, quel maledetto stronzo aveva interrotto l’amicizia con David (in maniera anche abbastanza brutale, da quello che aveva capito), solo perché quest’ultimo gli aveva confessato di essersi innamorato di lui! Non era difficile immaginare come si sarebbe comportato una volta venuto a sapere che suo fratello era della stessa risma del suo ex migliore amico.
Hannah invece…beh, forse lei sarebbe stata meno perfida…a modo suo ovviamente. Si rigirò dall’alto lato del letto, il braccio con cui Francis lo stava avvolgendo a sé ricadde sul materasso con un tonfo sordo. Sapeva che il francese avrebbe voluto che lo dicesse; anche se non glielo aveva dichiarato apertamente, lo aveva capito da molte circostanze e poi, sarebbe stato scontato da parte sua.
Sospirò e socchiuse gli occhi.
L’indomani pomeriggio, una volta tornato dal lavoro, sarebbe andato dai suoi fratelli e avrebbe raccontato ogni cosa, pensò in conclusione. Se ne sarebbe pentito amaramente, questo già lo sapeva, e tra tutte le opzioni quella era meno dignitosa, ma sentiva che era la cosa giusta da fare.
Se non altro, era quello che gli suggeriva il cuore.
 
 
La mattina dopo, i bambini furono molto sorpresi di trovare al loro risveglio, il viso limpido e perfettamente rilassato di Francis
-Buongiorno. – li salutò con un tono allegro e un sorriso aperto. Alfred, dopo un momento di sorpresa ( E suo padre si domandò come facesse ad essere così pimpante e riposato a quell’ora della mattina), ricambiò il saluto con un cenno della mano
-Zio Francis? Che ci fa lui qui!- domandò, pragmatico come sempre, indicandolo a suo padre
-Vi ho voluto fare una sorpresa, non siete contenti?-
Alfred rispose per entrambi –Sì sì. Papà non sa preparare neanche la colazione, magari puoi pensarci tu. – Arthur lo fulminò con lo sguardo –Ehi, ragazzino, bada a come parli.-
-E’ vero, papà, non puoi farci niente. – La risata del francese interruppe il piccolo battibecco che si era creato tra i due –Dai, non preoccupatevi!- si avvicinò al bambino con fare complice –Facciamo in questo modo; papà è la mente e io il braccio. Cosa ne dici?-
Per tutta risposta, la piccola peste ci pensò per un po’ e poi annuì abbastanza compiaciuto –Mmm…ok, si può fare. –
Era davvero bizzarro, pensò Arthur mentre osservava Francis preparare la frittata, pensare a loro quattro insieme come una famiglia, eppure era quello che stava accadendo quella mattina; stavano preparando la colazione insieme, avrebbero accompagnato i suoi figli all’asilo insieme, sarebbero andati al lavoro insieme, come una famiglia. Non avrebbe mai creduto, né lontanamente concepito, che potesse accadere una cosa simile nella sua vita, tutto era così lontano dalla pallida idea che aveva del suo futuro. Prima di tutto, era padre di due bambini, cosa su cui in passato non si era mai soffermato più di tanto e come ultima cosa, ma non per questo meno importante, si era innamorato di Francis, la persona che più aveva odiato nella sua vita. Era strano come la vita aveva giocato con il suo destino.
-A cosa stai pensando?- gli domandò il francese, con lo sguardo fisso sui suoi occhi
-A niente. – tagliò corto, quelli erano pensieri che teneva volentieri per sé
–Senti,- esordì dopo qualche minuto di silenzio –Oggi pomeriggio verranno i miei fratelli, per raccontarmi quanto è stato bello fare shopping nell’Upper West Side, immagino…- Il ragazzo, intuendo dove l’inglese volesse andare a parare, gli posò un dito sulle labbra –Non agitarti, tornerò a casa e non mi farò vedere fino a domani, contento mon cher?-
-In realtà, vorrei che ci fossi. Se mi lasciassi completare la frase, magari. –
Francis inarcò un sopracciglio e lo guardò con aria perplessa
–Davvero? Credevo che dovessi farmi vedere poco o niente in presenza dei tuoi fratelli –
-So cosa ho detto, però…- si morse un labbro –Odio doverlo dire, ma avevi ragione. Ho deciso che riferirò ad Ian e Hannah di noi due…ci ho riflettuto ieri notte e, per quanto possa essere la più grande cazzata che farò nella mia vita, è la cosa più ragionevole che mi è venuta in mente. Tanto…- e qui la sua voce assunse un tono improvvisamente più cupo –Ian lo avrebbe scoperto comunque. O, peggio, lo ha già scoperto, perciò…Ehi, ma ti senti bene?-
Francis era rimasto a guardarlo con gli occhi spalancati, nella sorpresa di quella notizia aveva perfino fatto cadere la forchetta che aveva in mano
-Di…dirai loro tutto?- balbettò meravigliato, una volta che fu capace di formulare una frase di senso compiuto
Alzò gli occhi al cielo –Ti ho detto di sì. Sei scemo o sordo?-
-N...Non devi agire in questo modo solo per farmi felice, tu lo sai. – non poteva davvero crederci che quell’inglese così scorbutico avesse davvero pensato di dire della loro relazione ai suoi fratelli. Di sicuro lo stava prendendo in giro.
Insomma, già lo aveva spiazzato quando la sera precedente aveva ammesso di tenere a lui, ma addirittura questo…no, era davvero troppo!
-Non lo faccio per te, cosa credi! Lo faccio solo perché non ho altra scelta. – concluse sprezzante, lanciandogli un’occhiata in tralice, prima di andare in sala da pranzo per servire la colazione.
Francis, invece, rimase per un po’ di tempo in cucina; sul viso, gli era rimasto impresso un sorriso colmo di felicità e di soddisfazione.
 
 
 
 
I due Kirkland arrivarono puntualissimi quel pomeriggio. Appena sentì suonare il campanello, ad Arthur venne quasi un infarto: ci siamo pensò in una maniera alquanto apocalittica. Forse avrebbe dovuto lasciar perdere, non riusciva a rendersi conto di che cosa diavolo aveva avuto per la testa quando aveva deciso che parlare della sua situazione ai suoi fratelli sarebbe stata la cosa migliore da fare. O, comunque, l’unica chance che aveva. Sentì la mano del francese sulla spalla –Andrà tutto bene, rilassati…- l’inglese sapeva che lui era contento della decisione che aveva preso, ne aveva avuto la conferma dal tono concitato che aveva usato.
Deglutì e andò ad aprire; trovarsi avanti Hannah e Ian lo fece impallidire e, dentro di sé, pensò che quella non era la realtà, era la sceneggiatura di un film dell’orrore... Perlomeno, i presupposti c’erano.
-Ciao Bruco!- la voce esaltata di Hannah gli risuonò nelle orecchie –Vedo che non sei in gran forma, come al solito ovviamente…Dove sono i miei nipoti preferiti?-
Sentiva il suo cuore martellargli nel petto come se fosse andato repentinamente in tilt –Al e Matt sono con Lily…cioè, la baby sitter . – i suoi figli non dovevano assistere ad un simile frangente, questo era poco ma sicuro -E perché? Uh, c’è il tuo collega, ciao!- Francis rispose al saluto con un cenno del capo, anche lui sembrava, come l’inglese, in preda all’agitazione.
Ian era rimasto in silenzio; fissava alternamente prima suo fratello, poi il suo amichetto francese e, ancora una volta, Arthur ebbe la brutta impressione che avesse capito già ogni cosa. In fondo, non era difficile fare due più due e tirare le somme; l’assenza dei bambini, la baby sitter, loro due insieme…più palese di così! Eppure, stava rimanendo troppo impassibile per poter giungere ad una conclusione possibile. Si trattava pur sempre di Ian Kirkland, non era il tipo da essere disinteressato davanti ad una notizia simile. L’inglese cominciò a respirare in maniera più profonda, mentre dentro di sé sentì l’ansia e l’agitazione accrescere sempre di più –Io…- sussurrò incerto sul da farsi –Devo dirvi una cosa molto importante. –
Vide con la coda dell'occhio Ian sogghignare. Di nuovo si fece prepotentemente strada la congettura che aveva ipotizzato pochi secondi prima.
Tanto, concluse rassegnato Oramai è fatta. Non posso più tornare indietro.
Perfino sua sorella era diventata più seria –Avanti, di’ pure. –
Si accomodarono sul divano e Arthur prese fiato; era arrivato il momento –Ecco…- guardò dritto negli occhi i suoi fratelli con uno sguardo a metà tra il rassegnato e il consapevole: non sapeva se quello che stava per fare fosse la cosa giusta o meno, ma era la prima cosa sensata che gli era venuta in mente. Scegliere tra due cose: i suoi fratelli, la sua credibilità, il suo orgoglio, oppure Francis. Questo era il suo problema e se prima vagava nel dubbio, adesso era più che sicuro su quello che doveva fare.Sentì sia gli occhi di Ian, sia di Hannah, sopra di sé, entrambi si aspettavano una qualche rivelazione eclatante da parte sua –Non c’è un modo per dirlo e…insomma, non è una cosa piacevole da sentire, ma ho deciso che non posso nasconderlo. Si sono create troppe circostanze che mi hanno costretto a rivelarvi ogni cosa. –
 
Sentì il corpo del suo compagno, che era accanto a sé, irrigidirsi. Prese nuovamente fiato e finalmente parlò-Io…e Francis…- cominciò, scandendo per bene le parole, deciso più che mai a svuotare il sacco e dire tutto –Stiamo insieme. –



 
Salve. Eh, vabbè, diciamo che mi sono sforzata di pubblicare il capitolo prima della mia partenza per la gita (Parto domani, che bello!), per cui non so se il capitolo fa schifo o meno…vabbè, spero che vi sia piaciuto tanto quanto gli altri. Anche perché, il prossimo è il penultimo :D
Ne approfitto per ringraziare la cara Fede perché è una compagna di banco bravissima ed è riuscita a tirarmi su il morale durante i periodi più neri. E poi, naturalmente, tutti quelli che seguono questa storia. Vi ringrazio di tutto cuore.
Indovinate? Sì, questo capitolo sarebbe stato più brutto senza l’ascolto di “Mad World”, sia la versione dei Tears for Fears e dei R.E.M…era da un po’ che non citavo le mie canzoni ispiratrici :)
A presto <3
Cosmopolita

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Capitolo 29
*** Il segreto di Ian ***


1986, Londra
 
-Dottor Kirkland?- l’infermiera lanciò un’occhiata accattivante a Ian; non nascondeva che il ragazzo, molto giovane per essere un chirurgo di fama abbastanza entusiasta all’interno dell’ospedale, fosse anche un bellissimo uomo
-Mi dica. – rispose lui con un tono poco amichevole. Quel giorno non era affatto di buon umore; sua moglie Yvonne e lui avevano litigato con una foga peggiore delle precedenti.La donna, messa in difficoltà dall’austerità con cui il dottore le si era rivolto, balbettò piena di incertezza qualcosa come “Il dottor Smith le vuole parlare”.Egli parve divenire più sereno, ma questo non fu una sorpresa per lei: né il signor David Smith, né Ian Kirkland nascondevano la profonda amicizia e ammirazione che uno nutriva per l’altro. Erano proprio una bella squadra.
-Certo, lo raggiungo subito. – capì di aver utilizzato un tono troppo secco con lei, prima. Era una ragazza, forse di poco più vecchia di lui di due o tre anni e per certi versi, i suoi lineamenti gli ricordavano quelli di suo moglie; forse era per questo che si era comportato in modo così insensibile con lei.
Lesse il nome sulla sua targhetta: Camille. Lo appuntò , l’indomani le avrebbe spedito dei fiori a suo nome come segno di scusa.
David era di poco lontano da dove si trovava; erano talmente uniti e talmente simili nelle idee, che alla fine avevano frequentato la stessa università e casualmente, li avevano entrambi accettati all’ospedale di Londra. Certo, per quel momento non erano dottori a tutti gli effetti, mancavano ad entrambi pochi esami per conseguire la specializzazione, ma ambedue si erano distinti per competenza ed intraprendenza. L’unica differenza tra loro due era che lui si stava specializzando in chirurgia, il suo migliore amico invece voleva diventare psichiatra.
Lo trovò all’entrata della sala operatoria, lo stava attendendo a braccia conserte e non appena lo vide, gli sorrise alzando una mano in segno di saluto
–Ave, Kirkland. –
-Ciao, Dave. – Ad una prima occhiata capì subito che c’era qualcosa nel ragazzo che non andava; il sorriso che gli aveva rivolto era stentato e tremava impercettibilmente. Sulle prime, in ogni caso, fece finta di nulla; pensò soltanto che alla fine della loro chiacchierata gli avrebbe suggerito un paio di medicine da assumere contro l’influenza -C’è…qualcosa che devi dirmi?- gli domandò sospettoso dopo che rimasero almeno un minuto buono in silenzio. Trasalì leggermente –Cosa? Ah, già… ti ho mandato Camille… brava  ragazza, vero?-
Stava divagando e questo non prometteva nulla di buono –Mi ripeto: c’è qualcosa che devi dirmi?- a differenza dell’amico, il suo tono non era farfugliante, ma fermo, più vicino alla difensiva –Altrimenti torno a casa. –
-... A proposito!- quasi urlò l’altro, come se avesse voluto attirare la sua attenzione –Come va con la tua signora?–
Abbassò lo sguardo; si sentì pungolato nel profondo. Tutto ciò che aveva a che fare con sua moglie in quel periodo era tabù –Non ci parliamo, perciò…- fece per andarsene, ma sentì la mano di David poggiarsi sulla sua spalla.
Si poteva sapere cosa diamine gli era preso quel giorno? Che fosse colpa della pseudo febbre? -No, aspetta, non andartene. Io devo parlarti. –
-E’ da un secolo che aspetto che tu mi dica questa fantomatica cosa, puoi darti una mossa?- E, beh, si era tirato la zappa sui piedi tirando fuori il discorso su Yvonne, David lo aveva capito troppo tardi. Inoltre, Ian non era il tipo con cui scherzare, lui reagiva subito nel peggiore dei modi.
In un primo momento si pentì di averlo fato chiamare, ma tanto il danno l’aveva già commesso
-Amico, sono nei guai… -.
Era stralunato; aveva il viso pallido e il sudore freddo e il suo amico si stava cominciando a preoccupare
Mi sono innamorato–
Kirkland scoppiò a ridere in maniera sprezzante –Davvero…tutto qui?- anche se non voleva darlo a vedere, si era tranquillizzato; quel sempliciotto si preoccupava sempre per delle stronzate. Tuttavia, lo psichiatra divenne ancora più pallido
–Non è questo il punto. – si morse un labbro ed intrecciò le dita, successivamente lo guardò negli occhi –Il fatto è che…- sospirò con gravezza –Mi sono innamorato di te–
 
Fermo.
 
Era come se tutto fosse rimasto fermo, sospeso in aria, nel preciso istante in cui lui aveva sputato tutto d’un fiato quella frase. Silenzio tomba.
 
Sembrava che perfino gli altri dipendenti dell’ospedale, dottori, infermieri, perfino i pazienti, si fossero fermati a fissarlo. E Ian…lui lo guardò con gli occhi vuoti, la bocca orribilmente inespressiva; sembrava stesse per svenire o, probabilmente sarebbe stato meglio, che gli stesse per sputare in faccia.
 
Le sue fisionomie si erano indurite, il che gli conferivano un’aria ancora più terribile del solito. Deglutì agitato; aveva capito solo in quell’istante di aver buttato alle ortiche anni ed anni di amicizia
 
-Ian!- esclamò con spavento. Lo prese per il camice e lo strattonò, ma quello non si mosse –Ti prego, Ian, di’ qualcosa! Di’ che sono uno stupido, per favore!– La reazione del suo amico fu peggio di quello che si aspettò. Non disse nulla; avrebbe preferito che gli tirasse un pugno in pieno stomaco, ma non lo fece. Si limitò a spintonarlo via con brutalità e se ne andò senza aggiungere nulla a quella breve conversazione -Ian, ti prego!- lo implorò seguendolo
-Non abbiamo nulla da dirci. – concluse freddamente, voltandogli le spalle.
Definitivamente.
 
 
 
In un primo momento, la voce tesa di suo fratello  gli ricordò quella di David e questo non poteva sopportarlo.
Teoricamente... un po’ c’era da aspettarselo; anche la sera prima aveva pensato in un’ipotesi del tutto utopica e scherzosa, che il francese e suo fratello non fossero “colleghi”. Insomma, la storia dell’amante che va ad incontrare l’amato la sera l’aveva sentita talmente tante volte che ormai sembrava una prassi comune a tutti. Addirittura Yvonne, poco prima del divorzio, portava la sua nuova fiamma (“quella migliore” la chiamava lei) a casa loro, quando lui faceva i turni di notte. Ma un conto era immaginare un fatto simile e riderci sopra, scoprire che quel pensiero si trattava anche della verità, oltre che surreale,  gli apparve di cattivissimo gusto.
Era esattamente come ritrovarsi dentro un flashback, riportato indietro di un anno prima; la situazione era più o meno la stessa così come l’atmosfera: come se tutto quanto si fosse congelato.
Nessuno riusciva più a sentire cosa dicesse la televisione, nessuno riusciva a percepire cosa aveva intorno a sé. In mente, avevano solo una frase:
 
“Io e Francis, stiamo assieme”.
 
Arthur scrutò attentamente le espressioni dei suoi fratelli e di primo impulso, egli desiderò di non avere mai detto nulla; il viso di quei due esprimeva perfettamente l'impatto negativo delle sue parole.
Hannah, semplicemente, sembrava una maschera di cera piuttosto brutta: pallida, con gli occhi sbarrati, bocca aperta, come se  volesse dir qualcosa, ma non ne avesse il coraggio. Ian invece, aveva impresso nel volto la stessa espressione indecifrabile che aveva da quando era entrato in casa e non si comprendeva cosa provasse di preciso in quel momento. Una cosa era certa, sarebbe stato il momento più opportuno per far riaffiorare l’odio ancestrale che entrambi i due fratelli provavano reciprocamente.
Se l’era aspettata una reazione di quel tenore sin dal principio, ormai si era talmente tanto preparato a quell’evenienza che non ne provava più vergogna, al contrario, era come se con il dire tutto quanto ai fratelli si era tolto di dosso quell’onere che lo soffocava da tanto tempo
-Sentite, - intervenne ad un certo punto Francis con una certa cautela, interrompendo quel silenzio imbarazzante e opprimente che stava perdurando già da troppo tempo –Non vi chiediamo di accettarlo subito, so che è faticoso, ma…cercate almeno di comprendere. –
-Comprendere?- tutto d’un tratto, le emozioni che Ian sembrava avesse celato riemersero e furono ancora più agghiaccianti di quelle che suo fratello aveva auspicato. Era talmente infuriato da aver assunto un colorito porpora sulle guance –Come credi che si riesca a comprendere una roba del genere!-Guardò Arthur con disgusto –L’avevo immaginato. Fin da quando vi ho visti, ho capito che c’era qualcosa che non andava… voi… voi siete– avrebbe voluto aggiungere “Siete come David”, ma non ci riuscì a terminare la frase in quel modo.David, Yvonne, adesso Arthur…possibile che si fossero tutti messi d’accordo per rovinarlo psicologicamente?
-Sai come la prenderà nostra madre?- continuò con il suo tono di biasimo.
Arthur era senza parole.
 –N… non andrai forse a dirglielo?-
-Sei pazzo, è ovvio che non glielo diremo! Vuoi farla morire prima del tempo? - intervenne Hannah con il tono più duro che le aveva mai sentito emettere. Era abituato a vederla irritata, nervosa, ma di solito la sua rabbia gli suscitava ilarità: i suoi sfoghi erano sempre uno spasso da vedere. In quel momento però, non aveva per niente voglia di ridere .
Non l’aveva mai vista in quello stato; delusa, frustrata… la sua durezza era dovuta principalmente per quello. Lei non sembrava sdegnata come il maggiore, quanto piuttosto sconvolta. Era come se non ci volesse credere.
-Non avrei dovuto dirvelo!- sbottò Arthur, ancora più irritato dei fratelli –Lo sapevo che avreste reagito così, lo sapevo–
-Come cavolo ti è venuto in mente di fare una cosa del genere?-
L’inglese fulminò la sorella con un’occhiata velenosa –Credi che l’abbia scelto io? Magari per farvi un dispetto!?–
-Saresti capace!- La loro breve discussione tuttavia, fu interrotta da un gesto. Un semplicissimo gesto che era durato pochi secondi e che, nondimeno, aveva fatto tacere tutti.
Ian, con uno scatto repentino, si era alzato dal divano e con una tempestività innaturale, aprì la porta e se ne andò. Così, senza aggiungere nulla, senza dire niente di clamoroso. Semplicemente, era andato via.
 
 
 
 
Arthur inseguì il fratello per tutte le scale, fino a che non riuscì a raggiungerlo appena fuori dal cortile.
 Non gli importava se, come Francis gli aveva fatto notare pochi secondi prima che uscisse fuori, quello avrebbe reagito ulteriormente male.
 D’impulso, lo afferrò con violenza per una spalla, tutto il rancore che serbava verso di lui riaffiorò all'istante, e lo costrinse a guardarlo negli occhi.
Gli occhi del fratello lo fissarono densi di disprezzo -Si può sapere che ti è preso?- domandò con irruenza. Era la domanda più illogica che avrebbe potuto fargli; era ovvio cosa gli fosse preso, giusto? Gli faceva schifo stare lì, gli faceva schifo guardarlo.
La risposta era talmente semplice, che bastava intuirla da sé.
Come replica, l’altro digrignò i denti, tese le mani e lo spinse il più lontano possibile da lui.
Ian reagiva sempre allo stesso modo, fin da piccolo, usando le mani. Non aveva smesso neanche da adulto, a quanto pareva –Non provare a toccarmi, hai capito?- gli urlò con tono dispotico. Ma lui, seppure riconoscesse che insistere sarebbe stato come cercare di disinnescare una mina, non mollò. Al contrario, i modi rudi del fratello lo spinsero ancora a reagire.
Era stufo di farsi continuamente da parte e adattarsi alle decisioni della sua famiglia: per una volta avrebbe fatto valere le sue ragioni, com’era giusto che fosse –Posso dirti cosa penso di te? Sei un coglione. –
Ian spalancò gli occhi, probabilmente non se l’aspettava un’uscita simile da parte del fratellino, che in un certo senso si era sempre tenuto a debita distanza da lui
-Sì…- continuò –Che t’importa di chi mi piace e di chi frequento? E’ un problema mio, non tuo. –Ian lo guardò furente.
Si avvicinò a lui, le iridi quasi dardeggiavano dalla rabbia, le mani cominciarono a pizzicargli per il nervoso. Non tollerava un simile atteggiamento nei suoi confronti da parte di nessuno, special modo da parte di suo fratello –Non permetterti più a parlarmi così. –
-Io ti parlo come mi pare e piace. –
Ian, d’istinto, ribatté così come era solito reagire; la sua mano colpì la guancia di Arthur con talmente tanta violenza che si sentì perfino il rumore secco dell’impatto.
Tuttavia l’altro non rimase fermo e passivo come quando erano piccoli. Ora Arthur era un uomo, forte e prestante tanto quanto lui, e quei comportamenti dispotici da parte sua non li reggeva più come una volta. Non curandosi minimamente del dolore, strinse la mano destra a pugno e rispose con un colpo allo stomaco. Era ben assestato a tal punto che lo stesso Ian, quello che da piccolo aveva frequentato un corso di boxe e aveva usato il fratello minore come punchingball, fece fatica a reggersi in piedi
- Osa ancora toccarmi e giuro che ti colpisco ancora più forte. – non gli importava se qualcuno li avesse visti o sentiti, pazienza, lo avrebbero preso per un rissoso e un violento. Quello che gli premeva di più era di far capire a quell’imbecille che lui era un uomo tanto quanto lui “Mi so battere meglio di te, che ti credi, stronzo!”.
La reazione di Ian fu più inaspettata della sua: poggiò la testa sulla spalla del fratello e non fece più nulla. Per un attimo, l’inglese sospettò con non poco timore che fosse svenuto, invece dopo un po’ lo sentì singhiozzare.
Incredibile!
Stava piangendo come non aveva mai fatto in vita sua, quasi identico ad un bambino.
Arthur cominciò a non capirci più niente
La situazione era assurda; cinque minuti prima si erano insultati, erano stati ad un passo dal picchiarsi, ed ora invece, se lo era ritrovato a singhiozzare sulla sua spalla. In preda alla confusione, l’unica cosa plausibile che gli venne in mente fu cingergli le spalle e battere la mano sulla sua schiena.
Non si era mai sentito così imbarazzato e impotente come in quel momento, mai così impietosito nei confronti suoi, di Ian. Men che meno avrebbe dovuto esserlo in quella circostanza, dato che poco tempo prima il maggiore stava inveendo contro di lui e, viceversa, lui stava cercando di preservarsi in tutti i modi possibili; la vita, evidentemente, giocava brutti scherzi più volte di quanto pensasse
-Non è giusto, cazzo, non è giusto!- stava mugolando intanto Ian, adirato piuttosto che triste, con il viso ancora poggiato sull’incavo della spalla di Arthur –Non puoi avere tutto che ti pare!-
-Ma che stai dicendo?-
Cominciò ad avanzare nella sua testa l’ipotesi che fosse uscito fuori di testa, la cosa era abbastanza plausibile.
Ian alzò lo sguardo e per la prima volta Arthur si rese conto che non l’aveva mai guardato davvero. Si accorse, come assurda fatalità del destino, che loro due non si somigliavano per nulla, se non per gli occhi
-Io e Yvonne ci provavamo da mesi. Mesi, capito? Io non lo volevo, ma lei si stava allontanando e credevo fosse per questo motivo. Perciò ho pensato, proviamoci! – stava delirando, non capiva a cosa si riferisse –Dopo cinque mesi ci siamo preoccupati. Com’era possibile? Lo facevamo tutte le sere, cavolo tutte le santissime sere! Sembrava un dovere, più che un piacere. Lei ha insistito perché andassimo da un medico.-
Forse Arthur stava cominciando a capire quale fosse il problema di suo fratello
–Non posso avere bambini. Io non posso avere bambini: “Sua moglie è fertilissima, ma lei signor Kirkland…”. Quando mi ha detto così, ho realizzato che lo desideravo, forse anche di più di quanto non lo volesse quella stronza di Yvonne. Volevo quel bambino, ma il problema era che non potevo averlo… e mi ha lasciato per questo, capisci?-
Per la prima volta in vita sua, Arthur provò per suo fratello un sentimento diverso da quello che gli riservava di solito. Lo aveva sempre odiato senza una ragione precisa; perché lo maltrattava, perché gli soffiava le ragazze che piacevano anche a lui, oppure semplicemente perché i suoi genitori lo preferivano. Adesso invece, era mosso da una sensazione di compassione, tenerezza. Per un momento provò ad immaginare come sarebbe stata la sua vita senza Alfred e Matthew e si sentì stringere il cuore. Capiva come doveva sentirsi.
 -Mi…dispiace. – usò un tono freddo, come se lo stesse dicendo perché era educazione rispondere in quel modo.
Ian lo guardò con odio –Lo so che non te ne frega un cazzo. Tanto, tu li hai già…è questo che mi fa imbestialire; tu li hai! Hai due bambini e il bello è che non li volevi. Non li volevi allo stesso modo in cui li voglio io…Ti è capitato per puro caso, lo hai fatto una volta e hai beccato l’occasione giusta. – il suo tono era sprezzante, disgustato, ma i suoi modi disperati, quasi isterici, commossero l’inglese ancora di più –E per di più ami un uomo. Non li dovresti avere proprio quei bambini!-
-E perché mai?- lo interruppe. Di colpo, tutta la sua intenerimento sparì e riaffiorò di nuovo l’irritazione; non avrebbe dovuto dire una cosa di così cattivo gusto
-Non fare l’idiota, per favore!- Anche lui aveva ripreso la sua solita cadenza violenta -Due uomini non possono avere figli, non lo dico mica io. Saresti stato sterile come me e probabilmente non me la sarei presa, e invece… stai con quell’idiota francese e per di più hai due figli. Non puoi avere tutto quello che ti pare!-
Era invidioso di lui! Ian, che era ricco, aveva un lavoro redditizio ed era amato dall’intera famiglia Kirkland, provava gelosia per lui, Arthur, che era povero e malvisto da tutti quanti i propri famigliari
-Sono patetico, vero?-
-Un po’…-
L’uomo sospirò rassegnato e rispose con durezza –Lo so- poi aggiunse –Non lo sa nessuno… E’ strano che tra tutti quanti io lo abbia proprio confessato a un idiota come te–
Arthur lo fulminò con lo sguardo. A pensarci bene, anche lui aveva rivelato il segreto più imbarazzante e difficile della sua vita a due decerebrati
-Per questo sei qui? Per dimenticare? Non è da te scappare di fronte alle situazioni più complesse.- lo biasimò con il tono di voce più critico che potesse avere. Ian, contrariamente a come si era aspettato, sorrise con strafottenza. Aveva gli occhi ancora rossi e gonfi –Può darsi che sia così. In fondo, anche tu sei fuggito come un vigliacco–
-Non sono fuggito– obiettò contrariato –Io mi sono semplicemente allontanato da voi. Volevo essere libero dalla vostra presenza–
L’altro fece spallucce –E’ più o meno la stessa cosa. E poi se proprio vogliamo metterla così, anche io voglio essere libero-
Arthur, in un certo senso, capiva il suo stato d’animo e ciò lo trovava un po’ strano da parte sua, visto che non aveva mai avuto tanta empatia verso suo fratello. Lo comprendeva perché era esattamente così che si era sentito lui quando aveva lasciato l’Inghilterra; in vita sua aveva sempre avuto la brutta sensazione di essere rimasto imprigionato e l’ebbrezza della libertà, il suo richiamo irresistibile, era stato troppo forte. Quello non era fuggire come un vigliacco e lui questo non lo metteva in dubbio.
Si accorse solo in quel momento che, andando avanti con il discorso, entrambi si erano completamente scordati della ragione per cui si trovavano faccia a faccia
–Sai- fece un sospiro –Non ho mai avuto bisogno della tua commiserazione, ma non so perché…ho paura che non accetterai mai quello che sono. – si sedette sul selciato ruvido incurante del fatto che il pietrisco del cortile era un terreno troppo scomodo a cui non era abituato.
 Ian, stranamente, lo imitò.
Entrambi guardavano l’orizzonte -Intendi il fatto di essere checca?- domandò con una punta di disprezzo Ian –Forse.-
Rimasero in silenzio, senza dirsi nulla. Era un epilogo un po’ strano, quello.
Di certo nessuno dei due si sarebbe aspettato che la notizia di Arthur e Francis avesse portato a quella circostanza, a loro due che ammiravano il tramonto come due soggetti che non avevano più parole da scambiarsi.
-L’amicizia tra me e David è finita proprio per questo, - riprese a parlare dopo un po’ e Arthur sentì il suo sguardo sopra di lui –Non so se ho sbagliato io o è sbagliato lui. Ma una cosa è certa: è finito tutto.-
Non seppe mai interpretare quella risposta.
 
 
 
Un mese dopo,
 
Più li guardava, più Hannah non capiva come fossero arrivati quei due a quel punto. Confessava, tra sé e sé, che quella situazione le faceva schifo.
Un po’ aveva sperato che Ian avesse reagito con più intransigenza alla notizia che loro fratello era gay, ora le dispiaceva un po’ di essere colei che aveva meno metabolizzato la faccenda -Non eravate costretti ad accompagnarmi all’aeroporto. – disse con un tono apatico
-Ma, zia Ann, dovevamo salutarti per bene!- gli fece notare Alfred, seduto vicino a lei, un po’ offeso dall’antipatia che stava dimostrando la zia.
Lei lo guardò e gli spettinò i capelli con una mano –Cerca di non diventare come tuo padre. – scoccò un’occhiata maligna verso Arthur, che in quel momento stava guidando. Francis, accanto a lui poggiò una mano sopra la sua spalla, quasi avesse voluto dirgli “Non farci caso”.
Arrivare all’aeroporto non fu difficile.
-Salutami tutti. – le disse addio Arthur con freddezza, prima che la sorella entrasse per fare il check in
-Controlla Ian, piuttosto. – gli fece eco lei –E non cominciare a metterti il rossetto. –
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo –Sono solo stupidi cliché– aveva un tono di voce talmente risentito che, nonostante non approvasse la sua omosessualità, Hannah sorrise
-Saranno anche stupidi cliché, ma io dico sul serio. – con la coda dell’occhio guardò Francis, che intanto era rimasto con i bambini ad una distanza piuttosto lunga da loro. Era per donargli un momento da soli, l’aveva capito.
-Non è poi così male. – aggiunse controvoglia, riferendosi al francese –Peccato che…- guardò il fratello, il resto della frase era più che eloquente
“Non posso accettarlo perché tu sei mio fratello. Eri qualcuno da ammirare, per me, adesso ai miei occhi sei semplicemente scaduto” avrebbe voluto confessargli questo, ma detto così le sembrava troppo stupido. Anche quella volta, l’ultima cosa che aveva detto ad Arthur, era stata una cattiveria
“Ricordati di potare i cespuglietti”, “Non cominciare a metterti il rossetto”.
Lei era fatta così, non era un mistero per nessuno.
-Un po’ mi mancherà. – confessò Matthew quando la figura della zia Hannah scomparve definitivamente
 -Già, diceva cose simpatiche a volte- aggiunse Alfred.
 Francis invece non disse nulla, si limitò semplicemente a stringergli la mano e a sussurrargli ad un orecchio –Dai, torniamo a casa. -



 
 
 
 
 
Ok, ragazzi, questo è il penultimo capitolo. Non ci posso credere, il prossimo è l’ultimo. Un solo capitolo e questa fic è finita…oddio è surreale 0_0
Ringrazio coloro che hanno letto e leggeranno. Chi mi ha amato e chi mi ha odiato per questo. Alla Alice, che ci ha scritto una parodia sopra (“Are you really sure that this is our father?”) e che mi ha consigliato tanti spin of che potrei fare. Tutti quelli che hanno messo questa storia tra le seguite/ricordate/preferite/tutte e tre le cose. A chi l’ha recensita. Alla mia beta che non ringrazierò mai abbastanza, temo e ai Pink Floyd, perché a volte sono stati molto più di aiuto loro che il mio cervello!
Detto questo…ci vediamo per l’ultimo capitolo, se volete :D
A presto,
Cosmopolita

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Capitolo 30
*** Realtà diverse (Epilogo) ***


4 gennaio 1988
 
Come poteva un luogo solo essere al confine tra la vita e la morte, due stati dell’uomo così distanti e al tempo stesso, in fondo, parte di tutti noi?
L’ospedale gli aveva dato fin da sempre l'apparenza di essere un posto pieno di controversie; lo affascinava il fatto che lì dentro una vita poteva nascere, continuare a vivere, ma anche morire.
In ospedale Eileen Jones era morta.
In ospedale aveva capito di amare Francis, malgrado in principio non avesse dato peso alla faccenda.
In ospedale erano venuti al mondo Matthew e Alfred.
I suoi pensieri vennero interrotti dalla voce di Francis –Hey, tutto bene? Ti vedo preoccupato, qualcosa non va?- sentì la sua mano poggiarsi sulle sue spalle e lui se la scrollò di dosso. Ormai era diventato un gesto tipico da parte sua –Non ho nulla. Stavo semplicemente pensando- il suo compagno gli sorrise apertamente e Arthur gli fu immensamente grato che non avesse continuato a porgli stupide domande, ad esempio “E a cosa pensi?”. Non era dell’umore adatto per essere accondiscendente… in effetti non lo era mai stato.
Gilbert invece, continuava ad avanzare nevrotico da una parte all’altra della stanza, gettando qualche volta un’occhiata ansiosa alla porta bianca di fronte a loro
-Quanto ci mettono… cavolo, ma è possibile che duri così tanto?- sbottava di tanto in tanto, ogni volta sempre più innervosito da tutta quella faccenda.
L’inglese alzò gli occhi al cielo, ancora più infastidito di lui –Ma deve fare così ancora per molto?- lo indicò con un’occhiataccia –Mi sta facendo venire il mal di testa!-
Francis fece spallucce –Beh, cerca di capirlo, in fondo è normale essere un po’ agitato in una situazione del genere–
-E allora potrebbe anche entrare lì dentro e dare una mano invece di rompere le palle a noi–
-Ci ho già provato io a proporglielo. – intervenne Antonio con un tono di voce stranamente insofferente –Mi ha risposto che gli fa troppo schifo assistere ad una scena simile–
Alzò ancora una volta gli occhi al cielo, sempre più esasperato –Allora andiamocene noi. In tutta onestà, non è che mi freghi più di tanto di tutto questo. –
Francis e Antonio rimasero a fissarlo ammutoliti, come se avesse detto una gran fesseria
-Ma sei matto? Quello lì...- lo spagnolo indicò l’amico, che intanto era rimasto fermo a fissare la parete e a battere ritmicamente il piede sul pavimento dando ancora più fastidio –si innervosisce ancora di più se ce ne andiamo–
-Cerca di capire- aggiunse Francis con ancora più gentilezza –lui è il nostro migliore amico, dobbiamo stargli accanto in un momento come questo–
-VOI siete i suoi migliori amici, precisiamo– poteva tranquillamente affermare di essere più nero dello stesso Gilbert in quel momento. Anzi, era addirittura arrivato ad invidiare lo stesso Lovino, che aveva pensato bene di mettersi a lavorare quel giorno, probabilmente per evitare tutta quella gran pagliacciata del “supporto morale”. Supporto morale per cosa, poi? Quell’imbecille che volteggiava per la sala d’attesa in stile “Fred Astaire dei poveri” stava semplicemente diventando padre.
Più facile di così?!?
L’unica che ora necessitava  di supporto morale, era Elizabeta. Sbuffò seccato –Hey, tu!- urlò contro al tedesco, che si voltò per guardarlo con occhi ancora più rossi della norma –Se non la smetti subito vengo là e ti prendo a testate–
Sentì su di se gli occhi sgranati del francese –Ma che fai?- gli sussurrò, e la replica fu immediata
-E’ ovvio che tu non capisca stupido ingurgita tè, non sei mica magnificamente sensibile come me! Devo sapere subito se il mio erede è in perfetta salute, ma quelli là ci stanno impiegando troppo tempo!–
-Allora mettiti il cuore in pace, siediti e non rompere più i coglioni!- ribatté di rimando con un tono ancora più esasperato del suo.
Inizialmente si sforzò per non dargli ascolto (d'altronde, un tipo come lui non avrebbe mai accettato ordini da nessuno), ma poi si rassegnò e si accomodò pesantemente vicino a lui
 -Tuo fratello è bravo in queste cose, vero?- gli domandò ansioso dopo un po’
-Non ho mai avuto il piacere di farmi ricucire la pancia da un dottore, perciò…- Antonio rise d’istinto -Arturo, questa è bella!- Gilbert d’altro canto non rispose nulla, si limitò semplicemente a fulminare l’inglese con gli occhi, anche perché la porta in quell’istante si aprì.
Appena scorse la figura dell’ostetrica, il tedesco si alzò celermente e chiese immediatamente –Allora?-
Quella sorrise con allegria e gli strinse la mano calorosamente –Congratulazioni. Sua moglie sta benissimo e anche il bambino è in perfetta salute–
Tirò un sospiro di sollievo: era finita, finalmente. Presto avrebbe conosciuto suo figlio e riabbracciato la sua amata Liz. Si lasciò stringere con l’impeto affettuoso che caratterizzava Antonio -Congratulazioni, Gil!-
-Già, adesso hai un marmocchio a cui badare...– Francis gli strizzò l’occhio complice.
Non parlava, sorrideva semplicemente in maniera entusiasmata.
Poi gli venne in mente un dettaglio e subito il suo favoloso e brillante castello in aria si sfaldò –Bambino? Aspetta, vuole forse dirmi che…-
-E’ un bel maschietto, signor Beilschmidt–
Gilbert si portò le mani sulle guance e assunse un’espressione delusa –Nooo! Un maschio?- il suo tono era esageratamente apocalittico, la stessa ostetrica lo guardò perplessa; in momenti come quelli, di solito, si gioiva –è un problema?-
-Certo che sì! Ho perso la scommessa…Uno come me non perde mai!-
Perfino i suoi amici rimasero a fissarlo sbalorditi –Gil, sinceramente… ma che importa?- tentò di farlo ragionare il francese.
Parve rifletterci un po’ su –Mah, in effetti…- mugugnò ancora poco convinto –con un maschio si possono fare progetti più ampi. Con una bambina tutta bambole eccetera non avrei combinato granché. – d’improvviso gli venne l’illuminazione –Ho trovato! Mio figlio diventerà Il Presidente degli Stati Uniti!–
Arthur scosse la testa spazientito. Possibile che tutti i genitori, anche subito dopo la nascita, cominciassero a fare progetti assurdi sulla propria prole? Sua madre non era l’unica, allora.
 -Liz sta bene?-
-La sua compagna è ancora spossata per via del cesareo, dovrebbe svegliarsi tra poco– l’ostetrica sorrise –Ma le assicuro che il parto è andato benissimo. Il dottor Kirkland ha fatto un ottimo lavoro– guardò sottecchi Arthur, come se ci avesse tenuto a fargli giungere alle proprie orecchie una notizia simile
-Mh, ha fatto solo il suo dovere– borbottò il tedesco, probabilmente poco incline a riconoscere le capacità di qualcuno all’infuori di lui –E mio figlio posso vederlo, vero?-
-Ma certo! Venga, l’accompagno–
Francis e Antonio gli vennero dietro, invece Arthur preferì rimanere da solo. A dirla tutta, anche se le probabilità che lo avrebbe riconosciuto fossero meno di zero, lui invidiava profondamente Gilbert e il motivo non era molto difficile da capire: lui aveva avuto la fortuna di poter assistere alla nascita.
Suo figlio, quel pargoletto dall’aria anonima e parecchio brutto (Tutti i neonati lo sono) che però aveva il potere di mandare in adorazione metà parentado, lui lo avrebbe conosciuto da sempre. Gli avrebbe potuto raccontare di quando lui e sua madre sono usciti mano nella mano con lui in braccio per portarlo verso la sua nuova casa.
Erano tutte cose che lui non avrebbe mai potuto dire ai gemelli. E in effetti, per quanto si sforzasse, non riusciva neanche ad immaginarseli appena nati.
Forse era un bene.
Vide uscire dalla sala parto il resto dei medici; Ian, sempre con la sua area altera di chi vive tutto ma niente lo sfiora e la sua nuova tirocinante, Sesel.
-Come sono andata, dottor Kirkland?- continuava a domandare lei a suo fratello con impazienza.
Arthur sorrise.
Miss Seychelles alla fine si era rassegnata all’idea che tutt’e due i ragazzi per cui aveva avuto una cotta erano finiti per mettersi insieme. Anzi, si era sorpreso quando, una volta averla rivista e averle rivelato tutto (“Cara Sesel, non ti ho mai invitato a cena perché sono finocchio”), lei non si era minimamente scomposta e, da brava dottoressa in iter, la prima domanda che gli aveva fatto era stata “Ma almeno lo usate il preservativo?”.
Sorrise nel vederla così adorante nei confronti di suo fratello. Come se ci tenesse sul serio alla sua lode.
-Allora, come sono andata? Non sono svenuta neanche una volta!- continuò lei, con l’esaltazione tipica di chi è nervoso o imbarazzato.
-Se fosse svenuta, signorina Michel, temo che avrei dovuto smorzare il suo entusiasmo e consigliarle un’altra carriera in alternativa a quella medica– vide il sorriso della giovane spegnersi dalle sue labbra, ma Arthur sapeva che era tutto un trucco; più faceva il sostenuto, più Ian appariva il bello e tenebroso di turno. Proprio non comprendeva come facessero tutte le ragazze a corrergli dietro.
-Oh… oh, beh, in effetti– provò a ribattere lei cercando inutilmente di non mostrare quel perenne imbarazzo che da sempre la inibiva al cospetto dei ragazzi che le piacevano.
Lei non lo vide, ma Arthur sapeva che suo fratello stava tentando di nascondere un sorriso
–Si ricordi di studiare, piuttosto. Lei è entrata qui con un voto eccellente, ma questo non vuol dire che può abbassare la guardia– sostenuto, come di regola. Sembrava quasi un professore vero.
Sesel fece una specie di inchino goffo e, rossa in viso, si congedò al dottore, passò accanto ad Arthur e gli sorrise
–Il bambino è bellissimo– gli sussurrò soltanto all’altezza dell’orecchio, per poi sparire dalla circolazione
-Sarà fiera di sé stessa, è la prima volta che assiste ad un’operazione. Racconterà l’aneddoto ai suoi familiari e poi entrerà nel dettaglio con le sue amiche di quanto è sexy il dottore che ha operato- Ian rivolse al fratello un ghigno che, per i suoi canoni, poteva essere anche definito sorriso –Mi piace, davvero, ma al pensiero che prima di me ci provasse anche con te mi vengono i brividi. Passa da un genere all’altro-
Arthur ricambiò il ghigno divertito –Sono del tuo stesso parere. Sesel è caduta in basso-
Lo fissò malissimo e finse che non avesse detto nulla –Che fai, non vai a vedere il marmocchio?- cambiò discorso con un tono parecchio infastidito. Sembrava che parlasse con lui solo per fare scena e non per un sincero impulso affettivo.
Scosse la testa –I bambini degli altri sono tutti uguali.- si pentì troppo tardi di quello che aveva detto.
Non era ancora abituato a rivolgersi a Ian come genitore mancato e ciò gli causava disagi enormi. Credeva, in un certo senso, che il loro rapporto si stesse incrinando ancora di più anche per quel motivo; almeno prima avevano un po’ di dialogo, se per dialogo si può anche intendere “insultarsi con l’eleganza e la gentilezza di cui è dotato ogni inglese civile che si rispetti”.
Dopo quel pomeriggio in cui si erano rivelati i loro reciproci segreti, otto mesi prima, tutto aveva assunto un sapore diverso; niente più litigate furibonde, le frecciatine se le sarebbero lanciate sempre ma non avevano la stessa veemenza di un tempo. Probabilmente era perché si erano resi conti di essere di uomini adulti, presumibilmente perché avevano capito di aver oltrepassato una soglia strana all’interno del loro già flebile rapporto.
Si erano spenti.
-Lei lo sa?- non bisognava neanche specificare cosa sapesse
-Gliene ho parlato– Ian non sembrava affatto provato da quella domanda –Ma a quanto pare le va bene così, considerato che ci prova con me spudoratamente…-
-E’ molto più giovane di te.-
-Sono sette anni di differenza, non direi che sia molto– rispose con voce infastidita, continuando a guardarlo con ostilità –E comunque, è normale che un uomo cerchi una donna,- ci tenne a sottolinearlo –Più giovane. Sinceramente, Arthur, pensa ai cazzi tuoi che io penso ai miei… e non prendermi alla lettera–
No... decisamente, le cose non erano cambiate poi così tanto. Forse si erano addolcite, ma Ian sarebbe rimasto sempre un bastardo. Era nel suo carattere, non poteva farci nulla.
Sentì da lontano le voci decisamente rumorose di quei tre che ritornavano dalla nursery e vide gli occhi di Ian ridursi a due piccole fessure –I tuoi amici fanno un baccano assurdo. –
-Non sono miei amici. –
Fece spallucce –Avete dei comportamenti molto simili. E se non ti dispiace, ora vado via…-
-Vai, vai, pensa ad un modo idiota per invitare a cena la tua cara allieva senza farla sembrare per forza una manifestazione di interesse. – sibilò tra i denti una volta allontanatosi. Se non fosse stato che lo “zio” Ian era, per l’appunto, uno zio che con il tempo si era meritato affetto da parte di Alfred e Matthew, con molta plausibilità Arthur avrebbe fatto di tutto pur di non vederlo. Anche farsi curare in un ospedale che si trovava dall’altro lato della città
-Il mio Joseph ha tutto il potenziale per poter diventare un magnifico come suo padre.- la voce di Gilbert gli arrivò alle orecchie e pensò che da quel momento in avanti avrebbe evitato la famiglia Beilschmidt in tronco.
Con un padre che predicava la teoria del “Mio figlio è Magnifico, Tutto suo padre!” e una madre altrettanto psicopatica sotto questo punto di vista, non se la sentiva di stare a sentire lodi in merito a quel povero neonato. Non che prima li frequentasse poi molto…
-Perché Joseph?-
-Sono sicuro che Eliza lo chiamerà come suo padre…fosse per me…Frederick, quello sì che è un bel nome tosto! Joseph mi ricorda quei vecchi Asburgo con i mustacchi e l’aria da morti che camminano–
-E pensa che tuo figlio avrà un nome simile!-
Lo sentì sbuffare melodrammatico -Già… maledetto cromosoma XY–
-Avrete tempo per farne altri di figli, no? Il prossimo lo chiami come vuoi tu. O sei come uno di quelli che una volta avuto il primo non fa più ginnastica sotto le coperte?–
L’inglese scosse la testa rassegnato. Francis e i suoi consigli patetici.
Gilbert però sembrava avesse preso con filosofia quel consiglio e presto li lasciò soli per andare a vedere come stesse Elizabeta -Devo dire a Liza che mi somiglia tantissimo- non si accorse neanche della presenza di Arthur nella sala d’attesa.
O meglio, se ne accorse, ma fece finta di nulla perché il fatto che quello lì non fosse venuto “in pellegrinaggio” insieme a loro per vedere il nascituro gli pareva tanto una dichiarazione di guerra
-In realtà credo somigli molto più alla madre che a lui. – gli confessò Francis una volta che lo ebbe raggiunto, come se a lui importasse realmente qualcosa. Per fortuna Gilbert era già andato via
–Perché non hai voluto vedere il bambino?- aggiunse poi con voce incuriosita
-Non mi interessano i figli degli altri– proferì con un tono acre incrociando le braccia sul petto.
L’altro scosse la testa, ma non rispose; lo conosceva abbastanza da aver capito che con Arthur era meglio non insistere se non aveva voglia di dirti cosa non andava. Antonio, però, che evidentemente ancora ignorava come ci si dovesse comportare nei suoi confronti, rise solare e gli passò un braccio sulle spalle –Mangiato yogurt scaduto a colazione?-
-Lasciami stare, Carriedo, oggi non sono in vena. –
-Quando mai lo sei?-
L’inglese lo incenerì con lo sguardo e si limitò a non rispondere. Francis gli fu profondamente grato per questo.
Cercò di assumere un atteggiamento tranquillo e rilassato e sorrise agli altri due –Secondo voi come crescerà? Il bambino, intendo-
-Con due genitori come quelli?- Antonio represse a fatica una risata –Non parlo mai male degli amici, ma lo sai anche tu che quei due sono fuori di testa. Io non vorrei mai essere nei panni di bambino– e questa volta si lasciò trasportare dall’ilarità.
Arthur non rispose, ma con sorpresa di tutti, si incamminò lentamente verso la nursery
-Ma dove va?- Antonio guardò il suo amico con apprensione, ma quello fece spallucce.
Lo spagnolo scosse la testa –Certo che il tuo ragazzo è strano forte– Francis sorrise e scosse la testa
–Nah, è solo un po’ lunatico. Per questo lo amo–.
 
Oltre il vetro si estendeva una serie di bambini che pareva infinita. Arthur cercava di scorgere con gli occhi qualcuno di quelli che ricordasse più o meno i tratti di Elizabeta o Gilbert, ma nulla, non trovava nessuno moccioso che somigliasse a quei due.
Aveva ragione: i figli degli altri erano tutti uguali.
Sentì la voce di Francis risuonargli nelle orecchie -E’ il secondo a destra-
I suoi occhi rimasero a fissare il bambino che si trovava in quella posizione e più lo guardavano, più Arthur si rendeva conto sempre più che i tratti ricordavano giusto in modo approssimativo quelli di Gilbert ed Elizabeta.
La mano del francese si poggiò sulla sua spalla –Sai, io proprio non ti capisco– il suo sussurro gutturale lo rilassava, per quanto fosse difficile ammetterlo –Prima dici che non vuoi vedere il bambino e poi ti precipiti per dargli almeno un’occhiata-
-Volevo solo…- scosse la testa –no, niente, lascia perdere-
Francis non era padre, non avrebbe mai capito.
-Di’ la verità, ti spiace che tu non li abbia visti nascere, non è così?-
Si girò sorpreso verso di lui e vide che gli stava sorridendo
-Non credo sia una cosa così devastante, sai?- continuò lui con tranquillità, come se stessero conversando sul tempo, mentre la sua mano salì per accarezzargli i capelli –Non sono padre, certo, ma io considero Alfred e Matthew come dei figli ormai… non sai quanto sia stato difficile per me all’inizio sentirmi parte della vostra famiglia, voi eravate uniti da legami molto più stretti da quelli che vi legavano a me e…- il suo sorriso si accentuò ancora di più –…beh, credo che lo stesso sia stato per te. Ti sentivi tagliato fuori dalla loro vita. Magari provi una cosa simile ancora adesso–
Arthur non rispose.
Tutto d’un tratto quella verità da parte di Francis gli diede fastidio. Era difficile ammettere che aveva ragione -Anche se non li hai visti crescere, questo non vuol dire che loro ti vogliano meno bene– concluse con voce addolcita
-Non riesco ad immaginarmeli appena nati. – parlò il britannico dopo qualche minuto di silenzio –Dici che è un bene? –
Fece spallucce –E che ne so! Tanto i bambini a quell’età sono tutti uguali-
Sorrise.
Da un po’ di tempo erano sulla stessa lunghezza d’onda, stare insieme aveva addolcito l’uno e inacidito l’altro. Probabilmente era da considerarsi una bella cosa
-Dai, andiamo a casa- Francis lo prese per mano e con il viso si avvicinò ancora di più verso di lui –Ho in mente una cosa speciale per questa sera…solo io e te–
Gli fece l’occhiolino e Arthur lo spintonò leggermente con la mano
-Rimarrai sempre una stupida rana!-
 
Una volta usciti da quell’ospedale, si sarebbero sicuramente avviati per andare a prendere Al e Mattie a scuola. Sarebbero tornati a casa insieme, lui mano nella mano con Alfred e viceversa Francis con Matthew.
Avrebbero come al solito litigato per chi dovesse preparare il pranzo e, come sempre, avrebbe vinto Francis perché
“La tradizione culinaria francese è di gran lunga superiore e a quella roba che cucinate voi in Inghilterra…Come si chiama, haggis?”
ignorando completamente che l’haggis era scozzese e che la Scozia NON era Inghilterra.
Alfred avrebbe sicuramente tempestato entrambi di domande: com’è il figlio di Gil e Liz? È un maschio? Così possiamo giocare insieme…Potrei istruirlo e farlo diventare il mio aiutante. Matt sarebbe rimasto in silenzio ad ascoltare, come sempre. E, come sempre, l’unico a spronarlo verso una conversazione sarebbe stato Francis. A volte Arthur temeva che lo capisse meglio di lui e ciò lo infastidiva a morte.
Magari avrebbe potuto telefonare Hannah. Chissà, magari quel giorno era di buon umore e se la sentiva di parlare con “La famiglia Queers”, come amava chiamarli nei suoi “giorni buoni”.
Magari un giorno avrebbe accettato quella situazione così com’era. Magari sarebbe riuscita a dirgli che gli voleva bene.
Magari prima o poi anche i suoi avrebbero voluto conoscere la sua famiglia di persona. Arthur non sapeva se Hannah avesse spifferato alla mamma della sua relazione con il francese, il fatto che non si fosse fatta più risentire al telefono non era un indizio che lo aiutava.
Uscirono dall’ospedale e salirono in macchina.
 Si accorse che alla fin fine tutto il resto del mondo non aveva significato per lui; se Hannah e il resto dei Kirkland non lo avrebbero accettato mai non era importante, così come non lo era sapere di che sesso fosse il bambino di Gilbert ed Elizabeta, oppure se Ian e Sesel un giorno o l’altro sarebbero usciti.
I loro problemi non lo riguardavano
-Mi spieghi cosa ti prende oggi?- Francis interruppe i suoi pensieri, leggermente infuriato, desideroso di attenzioni e d’affetto come sempre –Sei sempre stato silenzioso e scontroso, ma oggi hai battuto ogni record–
Con sua immensa sorpresa, l’inglese non lo mandò a quel paese come avrebbe fatto normalmente, ma sorrise, continuando a volgere lo sguardo verso la strada.
La sua mente si rivolse ad Eileen e al suo viso sorridente, ai gemelli che si erano rivelati nel corso del tempo il connubio perfetto tra loro due, una trasformazione di un qualcosa che ora non esisteva più.
E poi, guardò Francis.
Era di loro che gli importava davvero. Il resto, si ripeteva, non aveva nessuna rilevanza.
Loro, anche il pallido ricordo di Eileen, erano la sua vera famiglia.
-Che programma avevi per questa sera?- rispose solamente accelerando impercettibilmente.
 
FIN
 
 
Ebbere, siori e siori, questo è l’ultimo capitolo.
Ammetto che vederlo concluso mi fa uno strano effetto. E’ finito, continuo a ripetermi.
Questa è una fic molto importante per me. Mi ha fatto maturare sia in ambito stilistico che in quello personale, non smetterò mai di ripeterlo.
E scusatemi se ho avuto battute di arresto o cali di scrittura, non era mia intenzione.
Ringrazio TUTTI. Tutti quanti. Chi mi ha inserito negli autori preferiti, chi recensisce questa storia, chi non lo ha fatto più.
Chi ha sempre seguito questa storia, anche in silenzio.
Chi l’ha messa tra le ricordate, tra le preferite, tra le seguite. Chi in tutte e tre.
Ringrazio Alice, la mia cara amica, colei che mi ha appoggiato in tutto e per tutto. E’ solo grazie a lei che il personaggio di Hannah è così (Non insultatela, non è così stronza come lei xD).
Ringrazio Sara che non conosceva nulla di Hetalia ma ha letto la storia volentieri.
Fede, la mia spalla su cui piangere, a cui in fondo dedico tutta la storia.
Fabba, che ha sempre consigli utili da elargirmi.
Il mio “muso” ispiratore, che è un connubio perfetto tra Alfred e Francis ma non lo vuole ammettere <3 Ti voglio bene.
E infine, ma non per questo meno importante, ringrazio chi ha letto la mia sciocchezza. E la mia Beta; se non fosse stato per lei, questa fic sarebbe stata un cumulo di materia grezza ancora non plasmata.
Posso dire di aver concluso,
Valete!
Cosmopolita

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