Over Again.

di Peep
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***



Capitolo 1
*** I ***


 

I was confused by the powers that be,
forgetting names and faces.

 



 
«Pronto?»
Le labbra di Louis Tomlinson si piegarono in un sorriso sollevato nel sentire di nuovo dopo settimane la voce vagamente roca di Harry nel cellulare.
«Ehi, sweet cheeks.» proferì allegro, mettendo in moto l’auto ed incastrando il telefono fra l’orecchio e la spalla destra.
«Louis!» Riuscì ad avvertire il sorriso deformare la voce del fidanzato. «Stai tornando?»
«Sì, sto partendo ora. Tu come stai?»
«Ci sei mancato tantissimo.» mugolò in fretta Harry, ignorando la domanda di Louis. Fece una breve pausa prima di aggiungere: «E mi sei mancato tantissimo.»
Louis rise forte, tentando di sistemare il telefono nella posizione meno scomoda, ma senza risultati soddisfacenti, motivo per cui si ritrovò costretto a tenere una mano soltanto sul volante.
«Ho fatto una torta, sai, Lou?» continuò Harry con una nota curiosamente acuta nella voce, segno che stava per cominciare a fornire a Louis una sfilza infinita di notizie alla velocità della luce. «No, in realtà ne ho fatte diverse. Zayn ha detto che erano tutte abbastanza buone – il che vuol dire che erano buonissime, nel suo linguaggio. A proposito, sai che ieri sera ha fatto sesso con Liam? Ha detto che è stato ‘normale’. Che poi significa che è stato il sesso migliore della sua vita. – Comunque, ti ho lasciato una fetta di ogni torta. Ne ho fatta una al limone, una al cioccolato, e persino una alla cannella – sul serio! E poi...»
«Non vedo l’ora di assaggiarle!» cercò di fermarlo Louis, mentre la sua auto si inoltrava in una stradina di campagna buia, nonostante fossero soltanto le sei del pomeriggio, e ridacchiò leggermente quando «Oh» sussurrò Harry nel microfono dell’ iPhone. «L’ho fatto di nuovo, vero?»
«Non importa, love. Sei carino quando parli tanto.»
Louis seppe che Harry stava sorridendo ancora, sebbene non potesse vederlo in viso.
«Comunque dove sei? Arriverai entro stasera?»
«Penso di sì. Fatti trovare preparato per quando arriverò.» convenne Louis.
«Mmh, non sarai troppo stanco per fare sesso oggi?» lo prese in giro l’altro.
«Tesoro, sono stato lontano da te per ben tre settimane, pensi che possa addirittura permettermi di essere stanco per scoparti stasera stessa?»
La risata gorgogliante di Harry vibrò nell’orecchio di Louis, che in quel momento adocchiò, poco più avanti, una curva decisamente stretta.
«Ti amo.» bisbigliò Harry.
Louis fece per rispondere, aprì la bocca, col suo “anch’io” pronto ad uscire, ma non successe nulla.
Un forte impatto e il suo corpo fu spinto con violenza contro il parabrezza da qualcosa che Louis non poté controllare. La tempia cominciò a dolergli in una maniera lancinante, gli arti, come la testa, incastrati sotto il peso della macchina, sembravano non esserci più. Un fischio acuto si fece spazio nelle sue orecchie, sostituito subito dopo dal nulla più totale. Vuoto, silenzio assordante.
Solo una voce continuò a riecheggiare fra i pioppi, preoccupata, nel buio di quella stradina dello Yorkshire.
«Cosa… Lou? Louis che succede? Pronto? Louis? Louis?!»
 
 


 
«Non si è ancora svegliato.» fu il sospiro stanco che lasciò le labbra di Liam Payne che, la schiena appoggiata contro il muro esterno dell’edificio del Charing Cross Hospital e gli occhi bassi, stringeva il proprio setto nasale fra il pollice e l’indice, aggrottando profondamente le sopracciglia.
Harry non alzò nemmeno la testa. Si limitò ad annuire impercettibilmente e scalciare un sassolino con il piede, accucciato con un ginocchio al petto su una panchina.
Era rimasto lì tutto il giorno, tutti i giorni da quando Louis era entrato in coma all’ospedale. Con qualche breve pausa durante la quale Niall lo trascinava a forza a casa per aiutarlo a cambiarsi, mangiare qualcosa, lavarsi e dormire. Dormire, poi, era proprio un eufemismo. Tutto ciò che faceva Harry, infatti, era attorcigliarsi nelle lenzuola, con l’assenza di Louis a pesargli sullo stomaco, stringendo forte gli occhi e tentando di ricordare il suo profumo, fino al mattino, quando si alzava con due grosse occhiaie sotto agli occhi arrossati e lucidi per il pianto.
«Starà bene.» lo rassicurò Liam, avvicinandosi a lui, portò un braccio intorno alle sue spalle, stringendolo.
Harry ignorò le sue parole e «È stata colpa mia.» sussurrò fra i denti.
«Che stai dicendo? Non c’entri nulla Harry, è successo e basta, la colpa non è di nessuno.» replicò Liam, con aria autorevole e matura.
Harry si strofinò il viso con il dorso della mano e scosse con veemenza la testa.
«È colpa mia.» insistette, in un tono di voce appena più udibile. «Era al telefono con me quando è successo.» ammise, mentre un incudine piombava pesantemente alla bocca del suo stomaco.
Liam fece per rispondere, ma Harry si alzò in piedi prima che potesse aggiungere altro, e si avviò verso l’entrata dell’ospedale con decisione.
«È stata colpa mia, Liam.» soffiò  un momento prima di mettere piede in clinica.
Si diresse a passo spedito verso il reparto di Louis dove, in sala d’attesa, trovò la sua famiglia e Zayn, tutti seduti su sedie dall’aria scomoda, con gli sguardi bassi. Li superò e tentò di entrare nella camera di Louis – riusciva già a vederlo coricato sul letto, cogli occhi chiusi ed il petto che s’alzava e s’abbassava impercettibilmente – ma un’infermiera lo fermò: «Non posso farti entrare, tesoro.»
Harry sbottò irritato: «Dio, è il mio ragazzo.», cercando di sorpassarla.
«Mi dispiace, ma non si può entrare. Se si sveglierà te lo farò sap...»
«Vaffanculo.» sputò acido lui, ed uscì nuovamente, sbattendo con troppa forza la porta d’ingresso.
Ad aspettarlo fuori c’era ancora Liam, rimasto seduto sulla panchina verdognola.
«Non posso farti entrare.» Harry emulò la voce lievemente stridula dell’infermiera, un attimo prima che le lacrime prendessero possesso dei suoi occhi.
«Harry...»
Liam si alzò e strinse tra le braccia il più piccolo, che appoggiò tristemente il viso sulla sua spalla, lasciando che le lacrime bagnassero la giacca di denim dell’altro.
«Perché? Perché?» sussurrò, tirando su col naso.
«Mi dispiace.» replicò semplicemente Liam.
Lo strinse ancora un po’, prima di notare la figura di Niall avvicinarsi.
«Vieni, Haz. Adesso Niall ti accompagnerà a casa e starai meglio, okay?»
Harry lo guardò, notevolmente in disappunto, asciugandosi gli occhi con la mano e scosse la testa.
«No.» Rispose fermamente, e strattonò via Niall quando quello cercò di stringergli affettuosamente una spalla.
«Andiamo, Harry, non puoi rimanere qui tutto il tempo.» incalzò il biondino.
«Ma io non voglio lasciarlo solo.»
«Non sarà solo, non devi preoccuparti.»
Dopo altri diversi tentativi di convincerlo, alla fine Harry cedette con un sospiro triste: «Va bene.»
Seguì Niall in auto, che guidò fino all’appartamento che divideva con Louis e lo accompagnò dentro, rivolgendogli un mezzo sorriso d’incoraggiamento che però Harry non ricambiò.
Entrarono in casa, Harry si abbandonò sul divano bianco davanti alla televisione spenta, mentre Niall si inoltrava in cucina.
«Ti ho preso una pizza.» gli sorrise. Harry si limitò a rannicchiarsi ancora di più su se stesso ed arruffarsi i ricci, mentre lui gli si avvicinava, sedendosi al suo fianco. «Non hai fame?»
Harry per l’ennesima volta scosse la testa, e Niall inspirò profondamente dal naso, mettendogli una mano sul braccio, per poi espirare.
«Andrà bene, lo sai.»
«Scusa Niall, adesso sono un po’ stanco. Vado a letto.»
Il riccio si alzò barcollante, e si diresse nella stanza vuota di Louis.
«Haz, non hai mangiato nulla...» azzardò l’altro seguendolo di un passo, ma fermandosi un attimo dopo.
Un sorriso molto tirato e faticoso comparve sulle labbra di Harry quando questi si voltò a guardare l’amico. «Non importa, non ho fame, grazie.»
Niall annuì e basta, abbassando il capo. Un attimo prima che Harry si chiudesse la porta alle spalle, il biondino riuscì a mormorare un triste «Mi dispiace».
«Anche a me.» sospirò Harry. Chiuse definitivamente la porta, si spogliò lentamente, si infilò sotto le lenzuola terribilmente fredde per l’assenza di Louis, descrivendo l’impronta della sua testa sul cuscino con la punta dell’indice.
«Sì, anche a me.»
 

«Harry? Harry, alzati...»
Era già sveglio, nonostante gli occhi serrati. Troppo spaventato dagli incubi che avrebbero potuto invadere il suo sonno, troppo attaccato dai sensi di colpa.
Aprì semplicemente gli occhi e li stropicciò, fingendo che la luce del sole gli desse fastidio, ma rendendosi conto subito dopo che il sole non era ancora sorto, e la stanza era buia come quando aveva chiuso gli occhi.
«Sei sveglio?» chiese gentilmente la voce di Niall, mentre questi lo strattonava leggermente per un braccio.
Harry si mise a sedere. «Che ore sono?»
Niall sorrise, ignorò la sua domanda e «Si è svegliato.» disse semplicemente.
«Chi?» domandò Harry senza pensarci, poi fece due più due e per poco la sua mascella non cadde a terra. «Scherzi?»
«No.» Niall scosse la testa. «Andiamo, vestiti, Liam e Zayn ci stanno aspettando.»
Harry, con un misto fra l’euforico, l’incredulo e l’essere sul punto di avere un infarto, indossò i primi abiti che trovò appoggiati alla sedia vicino al letto, correndo veloce fuori di casa, non prima di aver recuperato le chiavi della macchina in maniera alquanto frettolosa.
«Nialler, che aspetti? Muoviti!»
 
Una volta al Charing Cross, parcheggiata l’auto, Harry si catapultò nel reparto di Louis. Corse le due rampe di scale come se fossero state un unico gradino, il cuore a mille, le gambe cedevoli sotto il suo peso e Niall al seguito.
Corse ancora verso la sua camera, che oggi era aperta, e nessun medico si preoccupò di fermare Harry quando entrò e cadde sulle ginocchia nel vedere Louis seduto e con un sorriso perplesso sul volto.
«Louis...» boccheggiò semplicemente, non riuscendo a comporre una frase di senso compiuto. Che avrebbe potuto dire in fondo? Tutto ciò che poteva pronunciare era “Louis”, in quanto in quel nome si racchiudeva tutta la gioia che provava.
Louis, incerto, sollevò la mano. «Ciao.» disse tranquillo.
La stanza era gremita di gente, ma Harry non riuscì ad identificarli tutti, troppo concentrato sul ragazzo che sedeva sul lettino di fronte a lui. Si alzò in piedi, barcollò fino al letto, prese il viso di Louis fra le dita tremanti e baciò le sue labbra, esigente, bisognoso di avvertire quel contatto fin troppo agognato.
«Dio.» sibilò, gli occhi chiusi e la fronte premuta contro la sua. «Mi sei mancato tantissimo. Tantissimo, tantissimo, tantissimo. Sono così felice che ti sia svegliato e...»
Louis, con una freddezza sorprendentementenon sua, allontanò Harry con un gesto lento ma deciso. Si pulì le labbra con il dorso della mano, per poi tornare a guardare l’altro, i cui occhi erano sgranati, increduli.
«Posso...» azzardò Louis, mordendosi l’interno della guancia e inarcando le sopracciglia, confuso. «Posso chiederti chi sei?»
 





Hey! 
Bene, eccomi con una long larry, finalmente! 
Sono abbastanza soddisfatta, vah. Come idea di partenza mi piace, amnesia!Louis è sempre stato il mio debole, ma ammetto che questo prologo non è nulla di che, in verità.
Mi piacerebbe sapere i vostri pareri, sapere che ne pensate, se la trovate carina oppure se è proprio da buttare çwç
Ci tengo molto (come tengo a tutte le mie fic, poi, pff) e, davvero, mi farebbe tanto piacere conoscere la vostra opinione in proposito.
Vi aspetto, eh! 

Un bacione,

Peep.

 

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Capitolo 2
*** II ***


Le cose non la smettono più di lasciarti. Forse lo fanno perché sanno che devi procedere leggero, cercano di farti un favore.


«Posso chiederle una cosa, Jim?»
«Certo, ragazzo.»
Louis si torturò le unghie coi denti.
Il cielo, fuori dal finestrino appannato del taxi in cui si trovava, era di un grigio plumbeo, nuvole dense di pioggia incombevano rabbiose sulla frenesia della città e dei suoi abitanti, mentre occasionali lampi illuminavano il traffico londinese.
«Come... si parla ad un estraneo? Intendo dire, qualcuno che prima si conosceva, ma che improvvisamente sembra essere diventato un estraneo.»
«Oh.» Il tassista parve vagamente interdetto. «Io non saprei...»
«Non fa nulla, dimentichi quello che le ho chiesto.» borbottò in fretta Louis, agitando leggermente la mano, e tornò a mordicchiarne le unghie già corte.
Quando scese dall’auto e si avvicinò cautamente al numero diciassette di St. Mary’s Road, notò subito che la porta d’ingresso era appena socchiusa e la spinse silenziosamente.
Un ragazzo dai capelli ricci – lo stesso che aveva visto in ospedale, probabilmente – gli dava le spalle, accovacciato sul divano con un libro sotto agli occhi. Forse nemmeno aveva notato il suo ingresso, prima che Louis inciampasse nei suoi stessi piedi sulla soglia di casa, facendo un gran baccano.
«Oh, Lou» Harry si alzò subito in piedi, raggiungendolo, e lo aiutò a rimettersi in piedi. «Sei già qui. Non... non pensavo che oggi fosse... beh, oggi.» borbottò mentre riponeva la borsa di Louis sul tavolo.
Louis si limitò a sorridere e si strinse nelle spalle. Si sentiva stranamente a disagio, come se si trovasse a casa di qualcuno che non conosceva. Ed effettivamente, forse, era così.
Si torturò le dita, mentre Harry tornava verso di lui.
«Hai fame? Sete? Voglia di qualcosa in particolare?» si informò il riccio con premura, mentre aiutava Louis a sfilarsi la giacca.
«No, grazie. Sto... bene così.»
Come si parla ad un estraneo?
Harry portò in fretta la giacca all’appendiabiti e tornò da Louis. Si chinò su di lui, fece per baciarlo sulle labbra, ma quello, come a causa di un riflesso condizionato, voltò il capo, lasciando che le labbra di Harry si posassero sulla sua guancia fredda e rossa. Il riccio lo guardò quasi con incredulità. Louis vide scivolare un velo grigio di malinconia nei suoi occhi smeraldini, prima che questi gli rivolgesse un mezzo sorriso debole.
«Allora, sicuro che non hai fame?» domandò Harry, una nota spezzata nella voce. Si avvicinò alla cucina, mentre Louis chiudeva la porta d’ingresso, ed aprì il frigorifero. «Oh, ecco, ci sono ancora le fette di torta che...» si interruppe bruscamente. Louis lo raggiunse e lo osservò mentre deglutiva rumorosamente. «le... fette di torta che ti avevo lasciato prima del... insomma, lo sai.» concluse sbrigativo. Estrasse il piatto con le torte e lo gettò tutto nell’immondizia. Si voltò verso Louis e si sostenne con le mani al piano cucina alle sue spalle. Lo guardò per qualche istante che sembrò eterno, prima di emettere una risatina che aveva un che di isterico.
«Saranno andate a male, ormai.»
Il più grande annuì, ma non disse nulla.
Harry sospirò pesantemente prima di scattare in avanti e stringerlo fra le braccia, e Louis non ebbe il tempo né di respingerlo, né di ricambiarlo.
«Scusami, Lou.» bisbigliò solo al suo orecchio. Piegando leggermente le ginocchia, appoggiò la fronte sulla sua spalla e chiuse gli occhi. «Scusami.»
Louis non seppe cosa rispondere, rimase immobile stretto nel suo abbraccio.
«Per cosa?» mormorò dopo un po’, difficilmente udibile anche a se stesso.
«Se faccio così e... ed è colpa mia, tutto questo. Sta-vamo parlando al telefono e...»
Harry sussultò quando avvertì le piccole mani di Louis sulla schiena e le sue braccia stringerlo con delicatezza, zittendolo.
«Non devi dire così. Non è stata colpa tua, Harry.» Notando che non replicava, Louis continuò: «Adesso non ricordo granché, ma vedrai che col tempo migliorerò. Non sarà così per sempre» esitò un attimo, prima di aggiungere sottovoce: «Spero
Harry si morse forte un labbro, in un gesto involontario. Baciò delicatamente la fronte di Louis per poi separarsi da lui.
«Speriamo.» Abbozzò un sorriso.
Louis annuì e lasciò che Harry preparasse del tè, senza dire una parola. Si sedette sul tavolo, con gli occhi fissi sulla testa riccioluta che aveva di fronte. Chi era? fu la domanda che gli balenò in mente. Davvero, chi era? Chi era quello che, proprio davanti a lui, si teneva occupato fra pentolini e acqua, intento a preparare del tè? Il ragazzo che lo aveva baciato in ospedale? Il ragazzo che lo trattava con tanta premura? Chi era?
Ma, soprattutto, improvvisamente, si ritrovò a pensare chi sono io? Oh. Chi era Louis?
«Harry.» lo richiamò in un sussurro.
Harry si voltò lentamente, ancora indaffarato con l’acqua che già bolliva. «Sì, Lou?»
«Chi sono?»
Il minore si bloccò, con la teiera a mezz’aria in una mano, e la bustina di tè nell’altra. Alzò lo sguardo stupito su Louis. «Cosa?»
«Voglio dire, chi sono io? Non so nulla, solo la mia età ed il mio nome. So che probabilmente col tempo questa cosa della perdita di memoria si affievolirà, ma sento comunque il bisogno di sapere chi effettivamente sono.» farfugliò nervosamente Louis. «Se è un tasto dolente non importa, posso capirlo.» si affrettò ad aggiungere, arrossendo sulle gote.
Harry sorrise e scrollò le spalle. «Sei la persona più importante della mia vita.» Lo disse con una spontaneità tale che Louis non ebbe nemmeno il tempo di articolare una replica. «Sei la persona che amo più di qualunque altra cosa, sei... sei la mia vita, Louis.» continuò Harry. Versò il tè in due tazze, una bianca e una azzurra. Asciugò col taglio della mano le poche gocce che aveva rovesciato sul piano della cucina e sorrise ancora a Louis, che, non riuscendo a sostenere il suo sguardo, abbassò gli occhi e si mordicchiò imbarazzato il labbro inferiore.
«Ti ho messo in imbarazzo, vero?» Harry gli porse una delle tazze e sorseggiò il tè dalla propria, per poi rivolgergli un sorriso di scuse. «Scusami, non volevo.»
Si sedette sul tavolo accanto a lui. Esitò un istante prima di avvicinarsi di più e lasciargli un bacio leggero sulla guancia. «Mi... sei mancato.» disse infine, riportandosi il tè alle labbra.
«Ti manco ancora.» commentò Louis, nascondendo il viso nella tazza.
Harry lo guardò perplesso. «Sei con me ora.»
Il maggiore prese un gran sorso della bevanda calda che aveva fra le mani. «Ma non è la stessa cosa, giusto? Adesso che non ricordo niente è diverso. Ti manco ancora.» concluse, con un breve sospiro.
Non lasciò ribattere Harry. Balzò giù dal tavolo, posò la tazza sul bordo del lavandino ed uscì dalla cucina.
«Dove vai?»
«A fare una doccia. Posso?»
«O-ovvio che puoi.»
Harry lo guardò allontanarsi e ci mise cinque minuti buoni prima di riuscire ad alzarsi anche lui e riporre la tazza vuota nel lavello.
Mi manca ancora? Appoggiò le mani sull’orlo del piano cucina ed oscillò lievemente, spostò il peso da una gamba all’altra. Louis mi manca ancora?
Un nodo bruciante si formò in fondo alla sua gola. Si massaggiò le tempie con una mano, poi si decise a smuoversi. Raccolse la borsa di Louis che aveva lasciato sul tavolo e fece per entrare nella sua stanza per riporvela. Non appena mise piede nel corridoio, però, il suo sguardo cadde distrattamente sulla figura di Louis, seduta a terra con le ginocchia strette al petto.
«Lou?» bisbigliò Harry.
Gli si avvicinò, abbandonando la borsa a terra con un tonfo sordo, e si accucciò davanti a lui.
«Lou?» ripeté.
Scostò i capelli dalla sua fronte e gli rivolse un sorrisetto debole, poco prima di notare i suoi occhi arrossati.
«E-Ehi Lou, che succede?»
Louis tirò su col naso e scosse la testa.
«Non so dov’è il bagno.» sussurrò.
Harry sollevò le sopracciglia
«Ma... ehi, non c’è bisogno di piangere per questo, vieni.»
Si alzò e gli porse una mano per aiutarlo ad alzarsi, ma Louis non si mosse.
«Non è questo il punto, Harry.» sbottò invece, battendo forte un pugno a terra. «Non so dov’è il bagno, non so dov’è la mia stanza, non so dove sono io. Sono completamente perso. E... e fa schifo. Fa schifo, Harry. Riesco a malapena a controllare le mie azioni, non so più fare la metà delle cosa che sapevo fare prima autonomamente. Ma soprattutto, Harry, sto facendo del male a te.»
«Non...» tentò Harry, improvvisamente incupito, ma Louis lo riprese prontamente.
«E non dire che non è vero, perché lo vedo benissimo che non stai bene. Ce l’hai scritto in faccia.»
Silenzio.
Harry sospirò per l’ennesima volta, poi improvvisamente portò le mani sotto le ascelle di Louis e lo fece sollevare, aiutandolo a sostenersi sulle sue proprie gambe, facendo infine scivolare le dita sui suoi fianchi stretti.
«Ssh.» sibilò, e piegò le labbra in un sorriso. «Adesso fatti una doccia e lascia perdere, okay?»
«Non posso solo lasciar perdere, io...»
«Ssh.»
Louis evitava il suo sguardo, ed Harry ne approfittò per sollevare i bordi della sua t-shirt, sfilandogliela completamente in un gesto fluido.
Quanto poteva essergli mancato quel corpo? Il suo addome piatto, la pelle calda e liscia, i tatuaggi scuri che sembravano fremere ogni volta che li sfiorava, quanto gli era mancato tutto quello? Quanto gli era mancato Louis?
«Harry...» La voce di Louis fuoriuscì in uno squittio dalle sue labbra, mentre lui indietreggiava spiazzato verso la parete alle sue spalle. «Senti, per favore...» Portò i palmi delle mani sul petto di Harry, che però fu più forte e veloce, e si abbassò a baciare il suo collo, rubandogli un sussulto di sorpresa.
«No, ascoltami...» insistette Louis allarmato.
«Ti prego, Lou.» lo supplicò Harry. Avrebbe voluto fermarsi – o forse no? – ma, in ogni caso, oramai non ci sarebbe più riuscito.
Si tolse frettolosamente la camicia e cominciò a slacciare la cintura dei pantaloni di Louis, il viso affondato nell’incavo fra il suo collo e la spalla. Baciò la pelle fresca e morbida delle sue spalle e portò una mano fra i suoi capelli lisci, sospirando di sollievo nell’avvertire finalmente la sensazione del corpo di Louis contro la propria pelle nuda.
«Harry, senti, smettila. Cosa... che stai facendo?»
Le poche forze di Louis ed il fatto che fosse dimagrito parecchio dall’incidente non poterono nulla contro la forza delle braccia muscolose di Harry e la sua bramosia.
Il riccio, seppur fosse in qualche modo abituato all’avere di fronte agli occhi il corpo nudo del compagno, rimase col fiato spezzato in gola nel momento in cui fece scivolare a terra i pantaloni lungo le sue gambe esili e tremule.
Prendendolo per i fianchi, fece per guidarlo verso la camera da letto, ma quando aprì la porta della stanza, Louis colse l’occasione per sgusciare via dalla stretta delle sue braccia ed allontanarsi di qualche metro da lui.
«Harry, basta. Te lo sto chiedendo per favore.» mugolò, lievemente ansante.
Harry lo fissava spiazzato, la schiena premuta contro la tappezzeria colorata, poi gli si avvicinò nuovamente e tentò di baciarlo ancora, ma Louis lo schivò per l’ennesima volta. Il minore si bloccò. Sospirò, fece mente locale, e scosse la testa.
«Scusami.» Arretrò di qualche passo. «Scusami, sono un idiota. Non succederà più.»
Si portò una mano sulla fronte.
Sono un idiota.
Harry sapeva che non avrebbe dovuto forzare Louis a venire a letto con lui, ovviamente lo sapeva ed era stato un idiota. Ma da un lato non si aspettava nemmeno la sua reazione, forse. Quel misto di paura e perplessità nella sua espressione, il suo totale rifiuto, le sue suppliche affinché lo lasciasse andare, il suo “che stai facendo?
Harry davvero non se l’aspettava, ma a dire il vero non si aspettava nemmeno le parole che pronunciò poco dopo Louis.
«Preferisco dirtelo ora, senza troppi giri di parole o altro. È meglio per entrambi.» Il più grande annuì solennemente, come dando ragione a se stesso. «All’ospedale... Quando facevo quella terapia inutile, i medici mi hanno detto qualcosa che temo possa essere vero.»
Esitò.
«Cosa?» incalzò Harry, sottovoce.
Louis serrò forte la mascella, prima di riprendere a parlare.
«Hanno detto che, con la perdita della memoria e tutto il resto, dovrò ricominciare daccapo. Ed è possibile che le mie preferenze sessuali siano... cambiate? Sì, ecco, cambiate. Quindi, se prima dell’incidente ero il tuo ragazzo, temo che non... Ora non lo sarò più.»
«Che... che cosa?»
«Non credo sia giusto essere il tuo ragazzo quando non ricambio i tuoi sentimenti.»
Il cuore di Harry perse un battito.

 

 
  

Ciao a tutti!
Finalmente ho partorito questo capitolo questa cosa.
So benissimo che non è un granché, e il finale fa schifo ed è tutto molto confusionario, ma avrò bisogno di qualche capitolo di passaggio, prima di arrivare alla parte buona della fic. ♥
In ogni caso, mi piacerebbe sapere che ne pensate. Fatemelo sapere se fa esageratamente cacca. ç_ç
Per ora vi mando un bacione e vado a completare il terzo capitolo, così la prossima volta non vi faccio aspettare secoli. ùù
 
A prestissimo! :)
Peep.

 

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Capitolo 3
*** III ***


Per quanto un albero possa diventare alto, le sue foglie, cadendo, ritorneranno sempre alle radici.


 
 

 
Quando Zayn lo chiamò invitandolo fuori, Harry non usciva di casa da settimane intere.
Era come se Louis non fosse mai tornato, come se lo stesse ancora aspettando nel letto freddo, avviluppato nelle lenzuola ancora impregnate del suo profumo. Non l’aveva più rivisto, in quanto aveva deciso di tornare a vivere a casa della sua famiglia, cosa che probabilmente gli avrebbe giovato, in qualche modo. Harry non capiva come, a dire il vero, ma l’aveva lasciato fare, semplicemente perché lo amava così tanto che non sarebbe riuscito a negargli nulla, nemmeno se fosse stata in ballo la sua vita.
Aveva passato le giornate raggomitolato sul letto o sul divano, con indosso i maglioni che Louis aveva dimenticato in fondo all'armadio, chiedendosi cosa stesse facendo, quando sarebbe tornato, ma soprattutto chissà se gli manco? e avrà già ricordato qualche cosa?
Ed ora, con una risatina debole e rauca, stava rispondendo a un Zayn decisamente divertito che sì, sarebbe uscito con lui, solo dopo che questi l’ebbe davvero pregato in arabo.
Col busto avvolto nella lana del golfino – troppo stretto, per dire la verità – di Louis e i capelli completamente arruffati varcò la porta d’ingresso. La debole luce del sole di novembre colpì direttamente i suoi occhi, costringendolo quindi a coprirli con una mano, infastidito.
«Harry!» si sentì richiamare da una voce che riconosceva fin troppo facilmente.
«Ehi.» un sorriso storto piegò le sue labbra, mentre Harry incespicava vagamente sul pianerottolo. Sollevò la mano in segno di saluto, senza riuscire ad alzare del tutto lo sguardo sulla figura scura di Zayn che gli si avvicinava.
Questi lo abbracciò, ed Harry non poté fare a meno di aggrapparsi a lui, con un impercettibile sospiro di sollievo, prima di separarsene.
«Vieni, andiamo a mangiarci qualcosa?» propose Zayn. Harry annuì, sebbene non avesse minimamente fame, e seguì l’amico, mentre quest’ultimo ciarlava all’infinito di qualcosa che Harry non riuscì davvero a capire finché, una volta davanti al pub nel quale lo stava guidando Zayn, non udì la parola “Louis” sfuggire dalle sue labbra.
«Che hai detto?» Si fermò sulla soglia del locale, mentre Zayn si era già inoltrato dentro.
Il più piccolo lo seguì e, sbrigativo, afferrò il suo avambraccio tatuato.
«Che hai detto?» ripeté, esigente.
Zayn si voltò con la più perplessa delle espressioni in volto. «Eh?»
«Cos’hai detto prima?»
«Ah, niente, che io e Liam...»
«No, prima prima
Zayn fece schioccare la lingua sul palato, in un misto fra l’infastidito e il divertito e «Prima quando? E lasciami andare il braccio, mi fai male! Andiamo a prenderci qualcosa da bere e poi mi dici di cosa hai bisogno, okay?» convenne, massaggiando il braccio appena liberato dalle grinfie di Harry, il quale annuì e mugolò qualcosa di indefinito.
Una volta seduti a uno dei tavoli liberi, con una bottiglia di birra ciascuno, Zayn sospirò e «Cos’è che volevi sapere?» chiese, una punta di qualcosa che ricordava la rassegnazione, nella voce.
Harry delineò il bordo del bicchiere con l’indice e tenne gli occhi fissi su di esso, le sopracciglia aggrottate.
«Hai menzionato Louis.»
L’altro trasalì impercettibilmente prima di appoggiare pesantemente i gomiti sul tavolo.
«L’ho fatto?» chiese, cercando lo sguardo di Harry sotto i suoi riccioli scompigliati.
Con sua sorpresa, questi alzò il capo e affondò gli occhi grigiastri nei suoi, facendolo rabbrividire.
«Sì.» disse semplicemente, con un’impazienza notevole nella voce.
Zayn tentò di girare intorno al discorso, mordicchiandosi il labbro. «Sei sicuro che abbia parlato proprio di lui? Cioè, magari...»
«Zayn, smettila, per favore.» tagliò corto Harry, tornando con gli occhi sulla birra. «Lo sai benissimo che stavi parlando di lui. Che cosa avevi detto?»
Il più grande dondolò titubante sulla sedia, gettando la testa all’indietro, prima di tornare a guardare Harry. «Sei proprio sicuro di volerlo sapere?»
Questi tacque per un istante, prima di deglutire. «Non dovrei?»
Zayn scrollò le spalle e prese finalmente un sorso della sua Guinness. «Non lo so.»
Nessuno dei due proferì parola per un breve lasso di tempo, finché Harry non annuì e «Voglio saperlo. Ovvio che voglio saperlo, lo amo.» convenne.
«Bene.» L’altro fissò gli occhi su un punto imprecisato del tavolo. «Louis ricorda di nuovo.»
Harry per poco non stramazzò a terra, e dovette afferrare il tavolo con entrambe le mani per non rovinare sul pavimento.
«Cosa hai detto?!»
«Ma non tutto.» lo interruppe Zayn, cupo. «Non ne so granché» premise, prendendo un gran sorso di Guinness. «Ma sembra che non ricordi ancora di te. Voglio dire, se l’avesse fatto sareste di nuovo insieme.» borbottò, pulendosi con la manica della giacca il labbro sporco di schiuma.
Harry non seppe cosa dire. Rimase per un infinità di tempo con la bocca semiaperta, le palpebre che si abbassavano e si alzavano ad intervalli irregolari, e il respiro impigliato in fondo alla gola. Solo quando Zayn alzò gli occhi su di lui, diede un colpo di tosse e «Okay» disse.
Bevve anche lui un po’ della sua birra, perdendo lo sguardo in mezzo al pub, senza guardare niente in particolare.
Più tardi Zayn parlò di nuovo, stavolta incespicando un po’ nelle parole.
«An-Ancora una cosa.»
«Cosa?» chiese distratto Harry.
«Niall mi ha detto, e Liam mi ha confermato, che sembra che… uhm… stia uscendo con una.» Detto questo, Zayn affondò il naso nel bicchiere, per evitare la reazione ― che si aspettava esplosiva ― di Harry.
Ma questi semplicemente alzò le sopracciglia. «Davvero? Finalmente.» disse, gli occhi verdi fissi sul bicchiere. «Era ora che Niall si trovasse una ragazza.»
Zayn non seppe se scoppiare a ridere o cominciare a piangere.
«Non intendevo Niall. Parlavo di Louis.» mormorò.
Harry fece cadere il bicchiere di birra che teneva in mano e non sembrò nemmeno accorgersene.
Assottigliò gli occhi. «Mi prendi per il culo.»
L’altro scosse impercettibilmente la testa.
«Merda.» lo sentì sibilare Zayn fra i denti serrati. Poi Harry si alzò di scatto,ed uscì dal locale a passo felpato.
Sapeva che in qualche modo sarebbe successo, e si era già preparato ad affrontare la situazione senza dare di matto. Ma non si aspettava di certo che succedesse così presto.
 
Per i primi tre minuti non seppe bene dove stesse andando. Metteva soltanto un piede davanti all’altro alla volta, col fiato corto. Quando poi salì sull’autobus gremito di gente e ricordò della prima volta che era andato a casa dei Tomlinson, si rese conto che sì, era diretto da lui. E non a casa propria, come si era proposto, per avvilupparsi nelle lenzuola e piangere in silenzio.
Non voleva fare una scenata davanti alla sua famiglia, in ogni caso, men che meno davanti alle gemelle. Quelle bambine lo adoravano.
Perciò lungo il tragitto in bus, schiacciato tra corpi di estranei e con discorsi di cui non afferrava il filo nelle orecchie, decise che no, cazzo, nemmeno per sogno avrebbe urlato. Perché avrebbe dovuto farlo, poi? Non era certo colpa di nessuno. Avrebbe detto le cose a Louis come stavano, punto e basta.
Chiuse gli occhi e respinse la vagonata di lacrime che premevano per scivolare sulle sue guance. Va tutto bene, va tutto bene.
Riuscì a balzare giù alla fermata giusta, e si fermò in mezzo al marciapiedi, piegando più volte le ginocchia, in un vano tentativo di frenarne il notevole tremore. Infilò le mani grandi e fredde nelle tasche strette dei pantaloni,  si strinse di più nel maglione, alzò lo sguardo e riconobbe la casa della famiglia di Louis in fondo al vialetto. Prese un gran respiro. Va tutto bene. Ricominciò a camminare in fretta, attirò diversi sguardi su di sé, e ne riconobbe alcuni ― la signora Dull, ad esempio, che viveva nel cottage accanto a quello dei Tomlinson, e che faceva i biscotti tutte le volte che Louis e Harry tornavano lì.
Ma continuò verso la sua meta. La raggiunse in pochissimo tempo e, con dita che non sentiva più ― un po’ per il freddo, un po’ per il nervosismo, ― premette il campanello.
Ad aprire la porta fu proprio Phoebe, una delle gemelle, che alzò i grandi occhi chiari su Harry e «Oh! Ciao!» esclamò, aprendo le labbra in un gran sorriso. Allargò le braccia, pronta per farsi sollevare, ed Harry l’accontentò, sebbene l’attesa di vedere Louis lo stesse divorando.
La bambina batté le mani, ridacchiando. «Fizzy e Daisy e Lottie sono a scuola. Mamma e Mark fanno la spesa.» raccontò. «Io sono a casa. Perché ho la tosse. Senti?» e diede un colpetto di tosse, facendo ridacchiare anche Harry.
«E, uhm… tuo fratello?» domandò Harry riuscendo a disincagliare la voce roca dal fondo della sua gola, e si sentì avvampare.
«Louis?» squittì la piccola. «E’ di là, nella sua camera. E’ una noia, non parla mai in questi giorni, uffa. Vuoi che ti accompagno
Harry la mise giù a terra e scosse piano la testa, sorridendo gentilmente. «Non c’è bisogno, Phoebe. Grazie comunque.»
«Okay.» Phoebe affondò fra i cuscini del divano. «Ti aspetto qui, però, eh.»
Harry le fece l’occhiolino e si inoltrò verso quella che ricordava essere la stanza di Louis. Sospirò, quando fu davanti alla porta ed appoggiò le nocche sul legno freddo. Bussò due volte, poi, senza aspettare alcuna risposta, girò la maniglia ed entrò, senza farsi tanti problemi. Si diede un’occhiata rapida intorno: le pareti erano azzurre, tappezzate di vecchi poster e fotografie istantanee, il pavimento di parquet era coperto parzialmente da un tappeto indiano, un po’ rovinato ai bordi, il letto a una piazza era lo stesso su cui avevano fatto l’amore tempo addietro, soffocando ogni rumore nel timore che le sue sorelle potessero sentire qualcosa, e infine, al fondo della stanza, davanti alla finestra chiusa e con le tende gialle, c’era la scrivania. E davanti alla scrivania, accovacciato su una sedia girevole che cigolava, c’era Louis.
Harry lo guardò in faccia, per un attimo dimentico di tutto. Guardò le sue occhiaie, le sue labbra screpolate e rovinate dai morsi, il suo corpo esile come non lo era mai stato, i suoi capelli lisci, non più curati in quel modo maniacale, e sì, per un momento Harry cedette e dimenticò tutto.
Fu Louis stesso a svegliarlo, in qualche modo, alzandosi in piedi, barcollante, e fissandolo col vuoto negli occhi blu.
Il riccio rimase a guardarlo a sua volta e non fece un solo passo verso di lui. Si limitò sistemarsi il maglione e guardarsi attorno con aria distratta. Con una fitta allo stomaco si rese conto che la loro fotografia, contornata da una cornice rosa e bianca, giaceva ancora dove l’avevano lasciata l’ultima volta. L’avevano scattata durante la festa di compleanno di Louis, ubriachi come solo loro potevano essere, stanchi e fatti come pigne, come avrebbe detto Niall. Nello scatto Harry baciava sulla guancia Louis e Louis sorrideva. Era stanco, si vedeva dal modo in cui il sorriso si piegava storto, ma era felice, e glielo si leggeva negli occhi.
Harry tornò con gli occhi sul più grande e, con una voce che non sentiva più sua, bassa, spezzata dal nervosismo e acuita dal pianto che incombeva, chiese: «Lou, posso… abbracciarti?»
Louis, da parte sua, trattenne il respiro in gola per qualche istante e, senza ancora buttar fuori l’aria, annuì, in imbarazzo.
Harry si sporse in avanti ma arretrò immediatamente. «No, scusami, non voglio costringerti. È per un’altra cosa che sono venuto, io…»
«No. Fallo.» lo interruppe Louis, sottovoce, gli occhi bassi. «Fallo. Per favore.»
Harry non credette alle sue orecchie. Deglutì, avanzò di nuovo, aprì le braccia, e fu Louis stesso a infilarsi nel rifugio caldo che rappresentava il corpo di Harry. Solo allora respirò davvero. Louis, fra le sue braccia, stretto tanto da non riuscire a respirare, si sentì vivo. Una sensazione che non seppe spiegare nemmeno a se stesso.
«Mi dispiace.»biascicò Louis, contro la spalla di Harry. «Averti trattato così quella volta. Mi dispiace.»
Harry scosse la testa, strofinò il palmo della mano sulla schiena di Louis, cosa che era solito fare ogni qualvolta lui fosse in qualche modo agitato, e chiuse gli occhi, inspirando il suo profumo. Gli venne da piangere.
«Va tutto bene.» disse, e la sua voce suonò ferma e rassicurante. «Va tutto bene, Lou. Non è successo niente.»
Louis singhiozzò sonoramente, tentando invano di zittirsi. «E’ che è tutto così incasinato, e non ci capisco un cazzo.» mormorò ancora. «E mi dispiace se sto facendo male a te.»
«Louis.» Harry pronunciò il suo nome con tutto l’amore e la delicatezza del mondo, la sua voce sfiorò le orecchie di Louis come l’ala di una farfalla. «Va bene così, non piangere. Va tutto bene
Louis non rispose, ma calmò i suoi singhiozzi, sostituendoli con enormi sospiri. Harry continuò a parlare per lui, e Louis gliene fu grato, mentre veniva cullato dalla sua voce calda.
«Voglio aiutarti. Devo aiutarti. Ma tu devi farti aiutare, Lou. Non posso farcela da solo. Okay?»
Sì, Harry aveva decisamente dimenticato. Aveva dimenticato Zayn e quello che gli aveva detto, aveva dimenticato il motivo principale per cui era andato a trovarlo. Le cose avevano preso una piega completamente sbagliata. Ma a Harry andava bene così, in fondo.
Louis nel frattempo annuì lentamente.
«Perfetto. Vedrai che andrà tutto bene.» assicurò Harry. «Ti amo da morire.» concluse in un soffio, accarezzandogli i capelli.
La porta cigolò ed entrò nella stanza Phoebe, in punta di piedi. Il fratello le scoccò un’occhiata oltre la spalla di Harry, strofinandosi un occhio, mentre lei si avvicinava a loro e «Anche io!» protestava, tirando forte i pantaloni di entrambi. Harry rise, sinceramente divertito, e scompigliò i capelli biondicci della bimba. Anche Louis rise, e davvero Harry si sentì morire.
«Anche tu, mocciosetta.» ridacchiò il più grande e prese in braccio la sorellina.
Harry non aveva dimenticato proprio un tubo, in realtà aveva semplicemente deciso che non gli importava più niente, dal momento che aveva il mondo tra le braccia.
E sì, forse avrebbe dovuto anche ringraziare Zayn, più tardi. Per il buon tempismo, perlomeno.


 

 

 
Fluuuuuuff.
Dunque… salve!
Grazie mille se siete arrivate fino a questo punto senza vomitare per il troppo fluff e grazie anche se avete vomitato.
Comincio col dire che sono un mostro, perché avevo promesso che avrei aggiornato in fretta, e invece voilà, a qualcosa come un mese (?) di distanza dal secondo capitolo. E per giunta alle quattro del mattino, per cui non so chi avrà lo scazzo di leggerlo. Boh. Vogliate perdonarmi! ç.ç
(E perdonate anche eventuali orrori di battitura, appena potrò li correggerò senza dubbio)
 
Comunque sia, veniamo alla storia.
Una parola: CASINO. Questo capitolo è stato il casino per eccellenza, non ci si capisce niente ed è molto confusionario. Che poi è sempre tutto confusionario nelle mie storie. Wat.
Oh, amo come Phoebe rovini i momenti di fluff dei miei larry. You go, Phoe. çwç
Ah, la fotografia che ho menzionato sarebbe questa. Aaaah, sono splendidi. ç.ç
 
Bene, non saprei bene che dire ancora perché è tardi e ho sonno e Star Trek non la smette di tormentarmi.
Concludo ringraziando immensamente tutti coloro che hanno recensito finora, soprattutto quelli cui non ho ancora risposto: grazie e scusatemi! Se non vi rispondo stasera/notte/mattina, sappiate che lo farò comunque nel pomeriggio, di sicuro.
Riangrazio anche chi ha inserito la storia tra le preferite/seguite/ricordate, ma anche i lettori silenziosi ovviamente. :)
Mi rendete davvero felice e vi voglio bbbbbene ç.ç
 
Eh GNENTE, ho in progetto due nuove shot, sempre larry, che pubblicherò a breve (il mio breve corrisponde a sette anni luce!), quindi… nulla.
Alè, buonanotte, buongiorno, buona serata a tutti.
 
Un bacione! :)
 
Peep

 


(finalmente Harry sorride, picci.)

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Capitolo 4
*** IV ***


 



Johannah Darling ha sempre avuto una vita che, nel complesso, le piace.

Ha sposato Troy quando ancora non sapeva che farsene, di un marito ― “troppo presto, l’aveva avvertita sua madre. E Jay l’aveva mandata al diavolo: si era sposata ugualmente.

Rimase incinta prima che potesse rendersene conto, partorì un bambino che assomigliava tutto a suo padre. Lo chiamò Louis. Lo baciò sulla fronte e si disse che forse quello era un segno del destino, il coronamento del loro sogno d’amore, che lei e Troy sarebbero rimasti insieme per sempre.

Alla fine, invece, il suo prezioso matrimonio le si sgretolò tra le mani. Cadde a pezzi davanti ai suoi occhi, Troy scappò, e Johannah pianse.

E pianse, e pianse ancora, e un giorno smise. Il suo bambino le sorrise, e Johannah non pianse più.
 

Allora ci fu Mark.

Jay lo conobbe su un treno per Nottingham, lui aveva gli occhi belli, giocava con Louis e l’aveva invitata ad uscire dopo tre quarti d’ora di viaggio. Ebbero un primo appuntamento nel più squallido dei bar, un primo bacio sotto la pioggia, e lui l’aveva fatta sentire una ragazzina. Si amarono forte, si sposarono presto, Jay sapeva che Mark era giusto, e probabilmente aveva ragione.

Si trasferirono a Londra, ebbero delle bambine: Charlotte, Félicité e le due gemelle, Phoebe e Daisy. Jay si sentì in colpa quando lo pensò, ma Louis sarebbe stato per sempre il suo prediletto.

I suoi figli crebbero in fretta, nell’ambiente che Johannah desiderava per loro, e senza che né lei né Mark gli facessero mancare nulla.
 
Louis, da parte sua, era sempre stato un ragazzino allegro, non si faceva mai prendere sul serio, ma quando aveva quindici anni, successe: Louis invitò sua madre a sedersi in cucina con lui. Sudava, era un fascio di nervi, intrecciava le dita e si mordeva le labbra, ripeteva “devo dirti una cosa”, e poi stava zitto. Poi si massaggiò la fronte, sputò fuori “sonogay” e trattenne il respiro. Diventò paonazzo, scoppiò addirittura a piangere. Johannah lo abbracciò, Louis si lasciò sfuggire un “mi vuoi bene lo stesso?”, mentre singhiozzava sulla sua spalla. Lei sospirò, assunse un’aria di disappunto: “E me lo chiedi? Certo che sì, tesoro. Certo che sì.”
 
Jay conobbe Harry a Natale. Louis lo presentò alla famiglia come il suo migliore amico, poi mangiarono insieme, lui fece i complimenti a Johannah per l’ottimo tacchino ripieno e lo straordinario Christmas Pudding. Le chiese se un giorno gli avrebbe insegnato a cucinarlo come faceva lei. Jay sorrise e disse di sì.

Il giorno in cui, invece, Louis confessò a tutti i Tomlinson che Harry era il suo fidanzato ― parola che fece venire i brividi alla povera Johannah, che di colpo si rese conto di quanto grande stesse diventando suo figlio ― nessuno seppe bene che dire, se non “che bello!” e “mi fa piacere”, ma le gemelle gioirono e dissero che se ciò significava che Harry sarebbe venuto a casa più spesso, allora sarebbe stato perfetto.
 

Johannah Darling, nel complesso, ama la sua vita. Ama suo marito, le sue figlie piccole che crescono a vista d’occhio, e ama la splendida persona che è diventato Louis.

Quando capitò l’incidente, però, il mondo le cadde nuovamente addosso. Il coma del figlio l’atterrì, ma ancora di più l’atterrì il suo risveglio, la sua amnesia e tutti i pezzi della vita di Louis che erano da ricomporre.

Quando seppe anche di Harry e di quanto avesse sofferto, le venne da piangere. Immaginò quanto dovesse sentirsi impotente e distrutto, e quando lo vide lo abbracciò come fosse stato figlio suo.
 

E adesso, invece, eccolo lì, Harry, indaffarato e attivo come non mai, mentre ride con Louis e prende lentamente i frammenti della vita di entrambi, e tenta con fatica di ricomporli.

Di nuovo, a Jay verrebbe voglia di piangere.

Quando Harry e Louis si preparano per andare via, attira in cucina Harry con una scusa, e mentre armeggia con un contenitore di plastica, lo guarda negli occhi e «Mi dispiace» Dice, in un sussurro, ma abbastanza forte perché arrivi alle orecchie del ragazzo di fronte a lei.

«Per… cosa, Jay?» Harry sembra sinceramente perplesso.

«So che stai soffrendo.» Dice Johannah, e sospira. «Non devi prenderti cura tu di Louis, Harry, se questo ti fa male. Non sentirti obbligato.»

Harry sorride, prende in mano il contenitore che le porge la donna e «Louis è la persona che amo e con la quale voglio passare il resto della mia vita» Conviene, quasi sovrappensiero. «Se non mi prendessi cura di lui come devo, mi sentirei uno straccio. Quindi va bene così, davvero. Aiutarlo mi rende felice.» Sorride ancora, di un sorriso pieno di dolore, poi si allontana, diretto alla porta della cucina.

«Harry.» Lo richiama però Johannah.

«Che cosa?» Chiede lui gentilmente.

La donna pausa, scuote la testa. «Quelle sono polpette.» Sorride. «Vi conviene mangiarle stasera, altrimenti non saranno più buone.»

«Sì. Grazie.»

Harry annuisce ed esce definitivamente dalla stanza.

Johannah appoggia la spalla allo stipite della porta, osserva suo figlio uscire da casa sua, Harry portare il braccio intorno alle sue spalle ed imbracciare i suoi borsoni e sorridergli e amarlo.

Ripensa alle parole di Harry e un po’ sorride, un po’ s’intristisce.

La persona che amo e con la quale voglio passare il resto della mia vita. L’aveva pensato anche lei di Troy, l’aveva pensato tante volte. E ci aveva creduto, eccome se l’aveva fatto.

Eppure era finita come era finita.
 

 
È un venerdì sera, fuori piove, i lampi illuminano parte della casa, la finestra socchiusa del salotto cigola, l’acqua calda scorre e riempie la vasca da bagno. Louis vi è dentro con le ginocchia al petto, l’acqua gli scivola sulla pelle liscia, una spugna gli accarezza la schiena. È un po’ imbarazzato, rabbrividisce spesso e stringe gli occhi.

Harry è accovacciato davanti alla vasca. Si è tirato su le maniche del maglione, stringe una spugna soffice in una mano, strofina la schiena di Louis mentre quest’ultimo trema vagamente ad ogni sfioramento.

Harry pensa è un bel momento, puro e innocente, come il corpo nudo e ormai pallido di Louis, e impreca mentalmente quando si rende conto dell’inopportuna erezione che cresce sotto il tessuto dei suoi pantaloni, ma non dice niente. Fa finta di nulla, le sue attenzioni rimangono tutte per Louis. 

Tacciono entrambi per tutto il tempo.

Louis l’ha lasciato fare, quando Harry l’ha invitato ad entrare nella vasca. Ha annuito quando gli ha detto che un buon bagno non gli avrebbe fatto altro che bene, e semplicemente Louis si è imbarazzato quando Harry gli è venuto vicino e si è offerto di aiutarlo. Poi però gli ha detto di sì, e “grazie”.

E ora Harry accarezza Louis, la spugna morbida disegna sulla sua pelle i baci che non può più regalargli, e Louis rabbrividisce, e il tocco di Harry non lo riconosce più, e gli fa paura.

Harry parla un po’ a vanvera, per distrarre sia Louis che se stesso. «Tua madre mi ha lasciato le polpette, sai? Possiamo mangiarle stasera, posso farle con la pasta... E Liam ha detto che domani verrà verso le tre, ha detto che porterà i muffin, quelli al burro di arachidi, li porta dalla pasticceria di Dahlia...»

Sorride un po’ debolmente, sta per passare la spugna sulla nuca di Louis, ma nota la sua cicatrice, i segni dei punti che gli devono aver dato, esita a lungo, e non appena una goccia vi cade sopra, Louis sobbalza, si ritrae e si rannicchia come un bambino spaventato, gli occhi sbarrati, neri di terrore, le mani sulle orecchie, come se potesse sentire ancora il rumore dello schianto.

Harry sbianca come un lenzuolo, si sposta i capelli dalla faccia nervoso e preoccupato, colpevole, e non gli chiede scusa un centinaio di volte soltanto perché sa che non farebbe che peggiorare la situazione. Gli prende la mano, lentamente, lo guarda, in lacrime, e resta così a lungo, tirando su col naso, con i ricci molli sugli occhi.

Glielo dice una volta soltanto: «Scusami, Louis.»

Louis scuote il capo dopo un po’, forza un sorriso, carezza la mano di Harry e posa un bacio sulle sue nocche, come faceva qualche volta prima di addormentarsi. Gli dice «Non importa,» e che sta bene, lo rassicura come può. Gli sussurra che può continuare da solo. Gli chiede per favore di riscaldare le polpette, anche se in realtà non ha fame.

Harry tira ancora su col naso. «Okay...» Si alza lentamente, spingendosi i pugni sugli occhi per scacciare le lacrime. «Scusa, Lou. Se hai bisogno, chiamami.»

Louis fa sì con la testa, Harry gli indica gli asciugamani con una mano, e poi se ne va, si chiude la porta alle spalle.

L’acqua torna a scorrere, Harry versa le polpette di carne col sugo in una pentola, accende il fornello. Si passa una mano sul volto segnato dalle notti insonni, e decide di chiamare Liam.

Ciao... Hey, sì, sto bene... Sì, è tornato a casa da poco, sta facendo un bagno... Eh? No, nulla, è successo un po’ un casino stasera... Niente di grave... Sì, stiamo bene, tranquillo... Sei con Zayn? Salutamelo... Niente... Volevo ringraziare te e gli altri per esserci stati accanto mentre Louis era ricoverato... Sì, lo so... Vi voglio bene, ragazzi... Okay, okay...Grazie, va bene... Ci vediamo domani? Okay... Ciao, saluta ancora Zayn... Buonanotte.

Sbuffa, mette giù il telefono, e si muove nella cucina vuota e silenziosa: prende i piatti dalla credenza, i bicchieri e le posate, posiziona le polpette nei piatti come se fosse chissà quale composizione, diviene stranamente consapevole dei suoi più spontanei gesti, per questo ha un’espressione stranita quando finalmente mette la pentola vuota nell’acquaio. Si guarda le mani come fosse la prima volta che le vede, le guarda accigliato e alla fine sospira.

Se alzasse gli occhi, probabilmente si renderebbe conto di Louis, in piedi nel suo pigiama – che consiste di una maglietta dei Foo Fighters di qualche taglia troppo grossa per lui e dei pantaloni della tuta grigi.

Forse si accorgerebbe del suo sguardo che lo segue per la cucina da quando ha messo giù il telefono, delle sue mani tremule e piccole, intersecate con fare lievemente ansioso, mentre i capelli ancora bagnati gli si appiccicano al viso. Si accorgerebbe di Louis che si siede quietamente su un delle sedie in cucina e resta a guardarlo fino a quando Harry non solleva il volto: solo allora se ne accorge, e il suo volto sembra ammorbidirsi, da com’era contratto e serio, in un sorriso molle. Gli pone sul tavolo due piatti: uno, con la carne e un po’ di verdura, e un altro, più piccolo, con tante pastiglie di colori diversi, disposte a formare uno smiley. Louis lo guarda e gli viene solo da vomitare.

«Grazie, Harry...»
 


Quella notte, come molte altre prima e probabilmente molte altre a venire, Harry giace sul divano sapendo che non chiuderà occhio. Louis resta sveglio ancora un po’, seduto davanti al pianoforte, muove le dita incerte su di esso e suona do mi sol si, le stesse note di continuo, finché è fin troppo stanco.

«Buonanotte.»

«Buonanotte, Louis...»
 

Harry si alza alle due e un quarto di notte, sale in soffitta e si arrampica sul tetto dalla mansarda. Si accende una sigaretta sotto la luna giudice che lo guarda, dura eppure compassionevole in quel suo biancore silenzioso, ed Harry alza gli occhi esasperato. «Cosa cazzo devo fare! Cosa cazzo devo fare!»

Si graffia il dorso delle mani con le unghie in un riflesso condizionato, si preme i palmi sugli occhi mentre tra le dita che tremano stringe ancora la sua Marlboro. Sputa una bestemmia sottovoce, finisce la sigaretta, prima di tornare in casa. E finge di dormire, sul vecchio divano di pelle, per il resto della notte.

Il mattino dopo Louis si alza, gli occhi rossastri ancora cerchiati di scuro, sorride ad Harry e finge di non averlo sentito durante la notte. 




 





Salve a tutti, agli eventuali vecchi lettori e a chi è nuovo!
Come qualcuno avrà notato, non ho più pubblicato per un luuuungo tempo: mi sono presa una pausa per motivi personali e problemi che ora ho risolto - o che mi sono messa al lavoro per risolvere - ma sono finalmente tornata, con il quarto capitolo di questa a long a cui, alla fine, tengo molto. Sono felice di presentarvelo, così, nudo e crudo, forse un po' diverso dai miei precedenti scritti e un po' imperfetto poiché io sono un po' arrugginita (è davvero tanto che non scrivo!), ma spero vi piaccia comunque.
EFP mi è mancato, mi è mancato molto scrivere, e mi siete mancati voi lettori.
Confido in voi, fatemi sapere che ne pensate, e scusate ancora per la mia scomparsa un po' improvvisa. Vi voglio bene!

P.
 
(un patato) 

 

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Capitolo 5
*** V ***


 

and you have the face of an angel
when I break it's special
when I break it's for you
 
 
 
 
 
Louis una sera decide che deve permettere che gli altri lo aiutino.

Ha rifiutato la terapia psicologica che gli hanno proposto sin da quando l’hanno dimesso, ma Harry riesce finalmente a convincerlo a cominciarla dopo il diciottesimo attacco di panico che ha nel giro di soli pochi giorni.
 
Ne ha avuto uno quando Liam è venuto a casa loro e gli è suonato il cellulare, poi è stata la volta che erano al parco e ha visto alberi identici a quelli contro cui si era schiantato; ne aveva diversi durante la notte, solitamente preceduti da incubi in cui riviveva l’incidente, e così via. Harry lo convince a farsi aiutare davvero un martedì sera. Louis, un po’ scettico e un po’ riluttante, con gli occhi fissi sulle mani di Harry, acconsente in silenzio.
 
 
Lo accompagna Harry al primo appuntamento dalla dottoressa con la quale hanno parlato al telefono, una tale Badger. Fanno un tratto in metropolitana, e poi il resto della strada lo fanno a piedi – Louis ancora non sopporta di entrare in un auto.
 
È stata una settimana un po’ pesante per entrambi, fra una cosa e l’altra: i ricordi di Louis sono ancora sfocati e sbiaditi, il viso di Harry gli è familiare eppure ancora non riesce a trovare un vero collegamento con il resto della sua vita, mentre Harry, dal canto suo, non ha fatto che annegare nei sensi di colpa, distraendosi occasionalmente soltanto sostituendoli con altre preoccupazioni e altre paure.
 
Lo studio della psichiatra si trova in un quartierino residenziale nuovo, un viale pieno di alberi. Harry accompagna Louis alla porta, lo abbraccia forte prima di lasciare che suoni il campanello, ed è un abbraccio al quale Louis non si sottrae. Harry indietreggia scendendo gli scalini e lo saluta con una mano, con un sorrisino vago.
 
«Vengo a prenderti più tardi.» Lo rassicura, spingendo le mani nelle tasche dei jeans. «A dopo, mhm?»
 
Louis annuisce, lo saluta con una mano in modo quasi infantile. «A dopo,» e suona il campanello.
 

 


Quando Harry raggiunge la caffetteria, Liam è già lì ad aspettarlo nel suo grembiule grigio, col telefono in mano e gli occhi sullo schermo, le spalle contro la parete. Il locale è mezzo vuoto, c’è il solito odore di croissant e caffè, e quando Harry vi mette piede ha quasi l’impressione che sia tutto rimasto come sempre, che fuori ci sia stato il più devastante uragano mai visto, eppure la caffetteria sia stata la sola a salvarsi.
 
Appoggia i gomiti sul bancone, sorridente, batte una mano sul ripiano per attirare l’attenzione dell’amico.
 
«Haz!» Liam sorride e gli va incontro con un abbraccio, lasciando il cellulare nella tasca.
 
 
È una mattinata chiara con delle nuvole dalle forme assurde: Harry sta a guardarle dalla grossa vetrina del locale, sovrappensiero. La caffetteria si riempie lentamente, entrano studenti giovani, e poi famiglie, gente che beve il caffè in fretta e furia e dimentica il resto sul bancone.
 
Ha salutato sua sorella Gemma, che è venuta a trovarlo, «Liam mi ha detto che tornavi al lavoro oggi, volevo farti una sorpresa!» ed ha preso un tè con lui. Si è fatta raccontare tutto pazientemente, mentre Liam dava il cambio ad Harry alla cassa. «Come sta andando?»
 
Harry, con una voce incerta, parla e parla a non finire e le dice che a volte si sente morire, non sa che cosa fare, che a volte parla da solo e fuma come una ciminiera. Racconta di Louis e dei suoi attacchi di panico, dei suoi incubi, che ha paura di fargli del male e di farsene da solo, che non dorme, che Louis è sempre stato la sua anima gemella eppure ora sembra uno sconosciuto. È possibile che tutto cambi così, come nulla fosse? E perché mai? Le dice che è andato in chiesa una mattina, quando Louis era dai suoi genitori, e vi è rimasto un’eternità a chiedersi se c’è un dio, se c’è qualcuno che decide queste cose, perché proprio lui?
 
 


 
Seduto in una poltrona enorme, nello studio della dottoressa Badger, Louis avverte l’odore dolciastro alla vaniglia di quei diffusori per ambienti agli oli essenziali, quelli che si usano a volte negli ambulatori, e lo associa vagamente con qualcosa che non riesce ad identificare, ma che deve provenire dalla sua infanzia. Ha le mani sempre tremolanti giunte in grembo e la dottoressa gli siede a pochi metri di distanza, su un’altra poltrona, con un blocchetto tra le mani che sfoglia lentamente, prima di posarselo sulle ginocchia ed alzare lo sguardo su Louis.
 
Sono due ore scarse che Louis vive inizialmente come il peggiore dei supplizi, ma a cui, col passare dei minuti, comincia ad adattarsi. La Badger chiede se può dargli del tu, sorride cordiale, gli chiede come mai si è rivolto a lei. Louis è sul punto di dirle che non lo sa nemmeno lui, eppure qualcosa lo ferma: le confessa che ha accettato di farsi aiutare.
 
Con uno sforzo immane riesce a parlare dell’incidente, racconta di questo Harry che è così familiare eppure così estraneo, del modo in cui lo sente vicino eppure lontano anni luce. Le dice delle crisi che ha avuto, che non riesce ad entrare in macchina, che non sopporta nemmeno il rumore delle ruote di un’auto sull’asfalto, che conosce il volto dei suoi famigliari, che saprebbe tracciare a memoria gli occhi di sua madre, quelli dei suoi nonni, delle sorelle, riconoscerebbe le loro voci in una stanza gremita di gente che grida. Ma Harry, questo ragazzo che non fa che cercare di aiutarlo, e quelli che ha incontrato e che dovrebbero essere gli amici di una vita, e persino le sue sorelle più piccole, le gemelle, li sente distanti in un modo che lo fa uscire di senno. Le dice di sentirsi morto, addirittura, di doversi pizzicare le braccia per constatare d’essere reale, qualche volta: senza controllo sulla sua vita, è praticamente un morto che cammina.
 
È un incontro che dura un po’ più di quanto Louis avesse pensato: la dottoressa gli spiega che la sua si chiama amnesia retrograda e che, dopo il trauma, i ricordi che ha, da un determinato periodo in poi, sono andati perduti, mentre quelli più antichi sono rimasti con lui. Che non esiste una cura specifica per far tornare indietro i ricordi. Che può prescrivergli degli ansiolitici per calmare le crisi di panico, ma che per far sì che non si presentino più dovrà arrivare alla radice del trauma e superarlo.
 
 


 
Harry si fa dare un passaggio da Liam, che accosta all’angolo del viale alberato, e lo saluta con un abbraccio affettuoso – «Coraggio, Haz.»
 
Harry sorride, lo ringrazia per tutto, lo saluta con una mano quando lo vede allontanarsi in macchina, e poi si dirige verso lo studio. Trova Louis già fuori, appoggiato ad una staccionata, con lo sguardo un po’ vuoto fisso sulla strada, ed un foglio stretto in una mano.
 
«Lou, eccomi... Scusa, è da molto che aspetti? È che il caffè era pieno, e poi è venuta a trovarmi Gemma, non mi sono accorto del tempo...» Harry come al solito parla a macchinetta. Passa un braccio intorno alle spalle di Louis, gli sorride come a chiedergli scusa.
 
Louis alza lo sguardo, decisamente non stupito, ma sorride appena, si lascia stringere da Harry, lo segue verso la stazione. È breve, nel raccontare dell’appuntamento, e per il resto del tragitto verso casa è silenzioso e stranamente calmo, si limita ad annuire o scuotere la testa alle occasionali domande di Harry. È poco dopo mezzogiorno, la metropolitana è strapiena di gente tutta appiccicata, ma nonostante ciò Harry è bene attento che Louis abbia il suo spazio, che riesca a respirare, gli fa da guardia del corpo, “Louis, tutto okay?”
 
Louis annuisce imbarazzato, evita lo sguardo della gente e anche quello di Harry, tiene gli occhi fissi sul suo pomo d’Adamo, quando parla. Sto bene, Harry, sto bene, sto bene, sto bene, sto bene... Sono solo un po’ morto. Tu come stai? «Sto bene, grazie...»
 
 


 
C’è una notte scura in cui Louis si sveglia dopo un breve sonno spezzato, sono le quattro, ed entra in bagno per ritrovarsi di fronte Harry, chino sul lavandino, intento a lavarsi i denti, coi capelli tirati indietro da un elastico.
 
Louis indietreggia, con un mezzo sorriso: «Scusa, H.1
»
 
Harry si commuove un po’, a quella sorta di soprannome, perché è lo stesso che gli dava prima, prima dell’incidente, la sera quando era a pezzi, la mattina quando non aveva voglia di parlare, qualche volta anche dopo che Harry tornava dai suoi concertini nei pub, quando ancora suonava in giro. Louis gli cingeva i fianchi con un braccio, appoggiava una guancia un po’ arrossata per l'ebbrezza contro la sua spalla, rideva piano mentre baciava distrattamente Harry sul collo. Quand’è che insegni anche a me a suonare la chitarra, H... Sei una merda, torniamo a casa. Ti amo.
 
«Non preoccuparti...» Harry si risciacqua la bocca e il viso, si asciuga con un panno, sorride. «Guarda, ho finito. Hai bisogno del bagno?»
 
Louis scuote la testa e fa spallucce, come se non lo sapesse nemmeno lui. «Non riuscivo a dormire...»
 
«Ti va una tisana?»
 
 
Va a finire che è quasi mattina, Harry fa due tazzoni di caffè e ne porge uno a Louis, con due cucchiai e mezzo di zucchero dentro. Ha gli stessi jeans di due giorni fa, gli occhi stanchi e i capelli disordinati, seppur raccolti grossolanamente. Vuoi salire sul tetto?
 
Stanno a guardare l’alba dietro i palazzi, entrambi accucciati sulle vecchie tegole del tetto, Harry coricato, con la sua tazza appoggiata sulla pancia, Louis seduto con le gambe al petto e il sole negli occhi. Tenta di restare a guardarlo fisso fino a quando comincia ad essere insopportabile, e quando abbassa lo sguardo offuscato sulla figura di Harry, sospira e si chiede se anche a lui non faccia male, quando lo guarda. Mi tratti come fossi il Sole, eppure io non ti riconosco... Sei una stella lontana anni luce, sei tutta un’altra galassia...
 
Tacciono a lungo, poi Louis spezza il silenzio con la sua voce che sembra far fatica a uscire, roca. «Sai, la psicologa, – la psicoterapeuta, quello che è, insomma, – mi ha detto che potrei prendere degli ansiolitici.»
 
Harry quasi sbuffa, tirando su il busto, si gratta la fronte col palmo della mano. «Li prendeva anche mia madre... Non fanno altro che renderti più stanco e più morto... Evitali, se puoi.» E si accende una sigaretta.
 
«Non voglio prenderli, infatti,» spiega Louis lentamente, e stringe le dita intorno alla sua tazza di caffè. «Mi ha anche detto che devo affrontare il trauma di petto. Che può migliorare gli attacchi d’ansia.» Lo dice come se non ci credesse davvero, come se cercasse di convincere sé stesso.
 
«Okay...» Harry scandisce con calma, spostando gli occhi dalla cenere della sua sigaretta al volto di Louis, per regalagli un sorriso un po’ storto, ma gentile. «Quindi hai preso un altro appuntamento?»
 
«Il prossimo lunedì.»
 
«Bene... Sono contento. Vedrai, pian piano qualcosa lo tiriamo fuori da questa testina.» Harry ridacchia sottovoce, porta affettuosamente una mano sulla testa di Louis, e Louis ha voglia di strofinarci contro la faccia, come un gatto che chiede altre carezze, fare le fusa accoccolato sul suo grembo.
 
C’è dell’altro silenzio, ma stavolta non è teso. Harry fuma la sua sigaretta in pace, Louis allunga le gambe e tamburella le dita costantemente tremanti sulle sue ginocchia, si volta ogni tanto per sorridere a Harry, con l’imbarazzo di un ragazzino adolescente.
 
 
Sono quasi le sei quando Harry si mette a sedere e sbadiglia, appoggiando sulle tegole la sua tazza vuota. «Forse sabato andrò a suonare all’Astoria, Niall mi ha convinto, alla fine – vuoi venire a sentirmi?»
 
Louis finge di non essere confuso, annuisce. «Sì, certo.»
 
È ormai giorno, ci sono gli uccellini che cinguettano e, per la prima volta dopo mesi, Harry non ne è infastidito a morte. Sorride a Louis e parla come se stesse pensando ad alta voce. «Lo sai, qui è dove ti ho baciato per la prima volta.»
 
Louis esita, e poi si alza in piedi. Il più antico ricordo che ho di questo posto è la voglia di gettarmi nel vuoto, lo pensa con un’amarezza fastidiosa in gola. Poi si volta, quasi sul punto di tornare dentro, ma si ferma di nuovo. Si accovaccia davanti ad Harry, dice «Io voglio davvero ricordarmi di te, H.» E poi lo bacia.
 
Harry chiude gli occhi nello stupore per quel gesto inaspettato, sente l’ossigeno mancargli, mentre le labbra del maggiore premono contro le sue, screpolate dal vento e dai morsi. Louis ha le guance rosse, negli occhi l’imbarazzo di un bambino e un certo disagio, quando infine si distacca lentamente dal suo viso. Si infila nella mansarda e torna in casa senza una parola.
 

 
Harry non dice nulla. Non ne parla nei giorni seguenti, fa finta di niente, ma non smette un attimo di pensarci. Lo racconta soltanto a Liam quel pomeriggio, alla caffetteria: «L’ha fatto per me... Non voleva, l’ho capito.  Io non voglio che si senta forzato a fare cose del genere.»
 
Sa di aver sbagliato, i primi giorni che Louis era di nuovo a casa, quando ha tentato di portarlo a letto, quando gli ha esposto il suo amore senza rendersi conto che a lui era completamente estraneo. Louis deve avere una tale confusione in testa, e Harry è un completo coglione.
 
 
Più tardi, Louis sta tornando a casa con una busta del supermercato, perché si è detto questo è quello che fa la gente normale: ha comprato il latte, il pane per i sandwich, della schiuma da barba, diverse barrette di snickers, anche se nella dispensa ce n’è ancora un pacco intero.
 
Harry non era ancora a casa, Louis ha posato il sacchetto sul ripiano della cucina, ha riposto ogni cosa al suo posto con cautela, come controllando anche i gesti più naturali.
 
Stamattina si è sentito un deficiente, a baciare Harry così. Non gli ha detto nulla. È passato, in un millisecondo, dal sentirsi come se avesse avuto il mondo in mano, all’avere alla base della gola un prurito e un disagio incredibili, tanto da fargli quasi venire da vomitare.
 
Sospira, seduto sul divano, si massaggia il setto nasale con due dita, poi recupera il cellulare da una tasca dei pantaloni. C’è un messaggio da Harry.
 
Sono un coglione, ma tu non devi fare nulla di ciò che non vuoi fare davvero, nemmeno se è qualcosa che a me può fare piacere. Non devi sentirti costretto da me a fare nulla.
Sono una testa di cazzo, ma tengo a te. Non amarmi per forza. Io sono sempre tuo, ti aspetterei anche sapendo che non torneresti mai.  - H
 
 
Harry sta mestamente preparando cappuccini per un gruppo di ragazzine che non fanno che voltarsi a guardarlo e ridacchiare eccitate, quando legge il messaggio di Louis, sullo schermo dell’iPhone che s’illumina per un istante:
 
Mi dispiace farti aspettare. Prima o poi tornerò. - L






H è pronunciato come la lettera dell'alfabeto in inglese, eich (eɪtʃ).



Ed eccoci, alla fine di questo beneamato quinto capitolo! Come sempre, un abbraccione a chi continua da tempo a seguire la storia, a chi l'ha cominciata da poco, a chi si è addirittura preso il tempo di recensirla, e a chi legge in silenzio.
Per questo capitolo in particolare, un grosso ringraziamento va a flatsound, che mi ha fatto compagnia nel processo di brainstorming.

Come penso avrete notato, leggendo i capitoli precedenti, si nota decisamente quanto il mio stile sia cambiato, rispetto a due anni fa, quanto i personaggi si siano un po' meglio sviluppati, col resto della storia... Prima o poi mi prenderò un momento per editare meglio i primi capitoli: nel frattempo, godetevi questo.
Sto tentando di trovare un modo per scrivere (e postare, ovviamente) con un certo ritmo e più decentemente possibile, così da non lasciarvi troppo a lungo senza aggiornamenti, quindi scusate se per ora sono sparsi e senza una programmazione precisa, ma è qualcosa su cui sto lavorando.
Per ora, spero vi stia piacendo. La storia cresce e si sviluppa lentamente, mi piace particolarmente lo sviluppo Louis, ancora nella sua bolla appannata di confusione, ma che cerca di uscirne nonostante tutto. 

Che ne pensate? Fatemi sapere!
Vi adoro, un bacione enorme. 

 

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