Quando due conigli corrono lungo la terra

di Rota
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** *Prologo ***
Capitolo 2: *** *Capitolo uno ***
Capitolo 3: *** *Capitolo due ***
Capitolo 4: *** *Capitolo tre ***
Capitolo 5: *** *Capitolo quattro ***
Capitolo 6: *** *Capitolo cinque ***
Capitolo 7: *** *Capitolo sei ***
Capitolo 8: *** *Capitolo sette ***



Capitolo 1
*** *Prologo ***


Nickname: Rota
Titolo della storia: Quando due conigli corrono lungo la terra
Personaggi aggiuntivi: Un po' tutti
Avvertimenti: AU, What if...?, OOC
Genere: Storico, Introspettivo, Romantico
Note dell’autore: Il contesto storico è la Cina dei Tre Regni, più precisamente la rivolta dei Turbanti Gialli e quindi la conseguente caduta dell'Impero degli Han.
I nomi li ho lasciati originali per forza di cose, non potevo fare altrimenti X°°°°° sarebbe stato alquanto estraniante renderli più cinesi, per me D:
Chrona ho dovuto farlo necessariamente maschio, per questioni di trama e perché necessitavo di un Imperatore maschio ùù'''''
Perché si sappia, parte del mio prologo e tutto il mio epilogo è la traduzione di un classico cinese che risale all'epoca dei fatti narrati, per la precisione la cosiddetta “Ballata di Mulan”. I fiori, in Cina, di pesco rappresentano la bellezza femminile, lunga vita e abbondanza; inoltre faccio ovviamente vari e continui riferimenti alla morale confuciana, di cui la cultura cinese è pregna e su cui si basa tutta – riguardo prettamente la cultura di sottomissione della donna, per esempio, e del Mandato del Cielo come giustificazione del potere dell'Imperatore. Che si sappia, il fiume Giallo ha davvero rotto i propri argini in quegli anni e fatto stragi lungo tutto il proprio corso, senza contare la veridicità delle lotte interne alla corte tra le famiglie delle mogli/madri reggenti e gli eunuchi di palazzo – sì, esattamente.
Più che una fanfic storica, è venuta fuori una fanfic psicologica, e vi assicuro che è sempre stato quello l'intento X°°°°°

 

 

Storia seconda classificata a "Soul/Maka in AU contest" indetto da Mimi18 sul forum di EFP

 

 

*Prologo

 

Un sospiro dopo l’altro,
Mulan sta tessendo davanti all’uscio.
Non si sente il rumore della spoletta,
solamente i sospiri della ragazza
Le chiedi: «Cosa pensi?».
Le chiedi: «Di cosa hai nostalgia?».
«Non penso a niente,
non ho nostalgia di nulla.
La notte scorsa ho visto le insegne,
il Khan sta arruolando una grande forza,
la lista dei soldati occupa una dozzina di rotoli,
e in ognuno è il nome di mio padre.
Non c’è un figlio adulto per lui,
Mulan non ha un fratello più grande.

 

 

 

Soffia, nella placida tranquillità dell'umida sera nascente, un vento proveniente da ovest, fresco nella brezza leggera che tutto tocca, tutto culla.

Il petalo roseo di un fiore ormai spento, sul grande pesco della collina che si erge impervio al di sopra di ogni altezza del villaggio, si stacca dalla sua base tremula quando il ramo tutto, ancora acerbo delle prime foglie di primavera, si scuote stanco nel vuoto e rilascia un sospiro pieno di profumo e di polline; la falce sottile della Luna, timida tra le nuvole, ne accompagna in riflessi di madreperla il cammino.

Spirit Albam soppesa, qualche metro più in basso, con un ritmo cadenzato e appesantito ogni passo verso la nuova casa in fondo alla via grande. Ha sulle spalle l'acqua di due giorni interi del pozzo più vicino e sull'intero corpo ore e ore di lavoro nei campi. Con i pieni sporchi di fango e le vesti pregne dell'odore marcio dell'erba bagnata, non può far altro che sorridere all'idea di vedere di nuovo sua figlia dopo una giornata passata insieme ad altre donne, insieme ad altri uomini. Cercherà di non far vedere il tremito delle mani, quando poggerà a terra la brocca grande che trasporta, e di non far vedere quanta fame contiene ancora il suo stomaco nonostante abbia già finito la razione giornaliera del riso che spetta a ognuno di loro, e chiederà con un sorriso come la sua adorata primogenita abbia passato un'altra giornata monotona, lontana da lui.

Scorrono a lui accanto le case di legno malmesse degli abitanti di quel piccolo villaggio, e si ode provenire dall'interno di quegli spazi ristretti solo il rumore di cene condivise, del cibo povero e dal profumo labile spartito tra troppe bocche affamate e poco pazienti; qualcuno ha la fortuna di dormire già, senza che ci sia anima in quel mondo tanto crudele da disturbare.

Svolta un angolo, l'ultimo che deve superare, e vede nel vicolo che si allunga di fronte a lui un'ombra in movimento – quando si ferma per osservare meglio, scorge la coda di un gatto noto che, uscendo dall'ombra, gli si avvicina piano con occhi grande e un pelo lucidissimo. L'uomo sospira e si rannicchia a terra, allungando un gesto gentile della mano verso l'animale.

E mentre accarezza la graziosa Blair, mentre le dispensa carezze sul dorso agile e complimenti non necessari, lo colpisce sul fianco la brezza profumata di fiori, che correndo lungo la strettezza del vicolo lungo giunge quindi alla sua fine con più impeto del dovuto e lo investe, tutto. Quasi, gli scompiglia i capelli sporchi.

Il petalo roseo, prima di posarsi sulla veste che gli copre a malapena il petto, gli si palesa allo sguardo vorticando veloce assieme al sospiro di vento, seguendo lo stesso ritmo irragionevole dello sbattere di una farfalla. Quando si ferma contro di lui, Spirit abbassa lo sguardo e si alza, raccogliendo con il palmo aperto il piccolo petalo nella sua naturale caduta. Lo guarda e sorride, alza lo sguardo in alto, nella direzione della collina solitaria che sempre, da tanti anni e dopo tante tragedie, ricorda a tutti loro cosa sia la vita e cosa la morte.

Sotto quel pesco, giace anche il ricordo di quella che è stata sua moglie assieme alle tante anime che il Fiume si è portato via.

Spirit stringe il pugno, ma si accorge tardi che il vento lo ha derubato del suo piccolo tesoro – guarda la propria mano per istinto e poi attorno, scorgendo solo con la coda dell'occhio un movimento sospetto. Sospira piano, confondendo il proprio alito con la brezza.

Blair miagola ai suoi piedi e lui torna a sorridere; si sporge per donarle un'ultima carezza, poi solleva la brocca dell'acqua e continua a camminare: qualche passo ed è a casa.

-Sono qui, Maka!

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Capitolo 2
*** *Capitolo uno ***


*Capitolo uno

 




 

Piedi nudi contro un pavimento freddo lucido di pietra – l'Imperatore allarga le braccia, come se dovesse cercare un equilibrio che gli è stato tolto all'improvviso, e guarda avanti con la vista sbiadita di una presenza labile, tra tutte quelle vesti colorate che gli appesantiscono completamente la vista e quell'oro sempre presente che uniforma ogni possibile orizzonte, entro il palazzo di cui è Signore.

È il rumore delle voci che ha ancora nelle orecchie a farlo traballare, quando le dita sono l'unico sostegno per il passo e il movimento è già in atto, in avanti, e il busto piegato che da un senso di precarietà poco elegante, la corona brillante del capo che quasi sfugge al controllo, tra capelli chiari legati stretti da un laccio e da un fermaglio ben saldo: la gentilezza di sua madre e del suo sorriso da serpe pesano come un'incudine su doveri e affetti, su una volontà poco esplicita che si conforma a voleri altrui.

Chrona non cade e afferra la corona in tempo, con le dita che si chiudono attorno al metallo freddo e lo rimettono al proprio posto; si sveglia dalla sonnolenza auto- indotta e si accorge di essere ancora lì, tra drappi rossi e preziosi e un odore di chiuso che comincia, pian piano, a farlo ammattire.

Il trono dell'Imperatore, come le guardie immobili ai lati della porta, non è altro che un oggetto scintillante, fatto di poca anima e di solido materiale, come una pietra grezza e davvero poco, poco umana. Non ci sono finestre, nella sala, ma luci riflesse di fonti lontane che alterano ogni possibile luce naturale e la storpiano, la modificano fino a farla diventare una carezza fredda e insensibile. Se non fosse che non ne ha mai compreso e considerato le fattezze specifiche, Chrona potrebbe persino dubitare che quella non sia affatto la realtà, ma un fantoccio che qualcuno gli ha propinato come abbellimento, come spauracchio di problemi veri e tematiche per cui darsi noia la notte.

Quello che però ruba il sonno dell'Imperatore è un alito venuto da lontano, nel tedio agonizzante che si allunga per ogni singola giornata della sua esistenza attraverso i passi silenziosi di sua madre e il sorriso lungo che raramente gli capita in viso, quando non è lui a guardarla.

Chrona guarda in alto, anche in quel momento, immaginando invece che il soffitto basso un cielo sgombro e pulito, illimitato. Se c'è angoscia, come per ogni altra cosa, la ragione risiede soltanto lì, e sperare forse che gli venga suggerita una risposta all'inadeguatezza che si sente addosso, come persona, è poco divino ma molto umano.

Ha anche imparato a sentire la presenza materna, prima che questa si palesi di propria iniziativa – si riappropria di un poco di contegno e della corona in testa, prima di guardare il sorriso ferino di Medusa nascosto da un trucco di bianco e vesti magnifiche di potere, lucide come il pavimento che sente gelato.

-Mio splendido Imperatore, i consiglieri ti aspettano.

 

*******

 

Maka ha un passo svelto persino in mezzo a una folla senza ordine che circonda, come ogni volta, il carro dei mercanti. Ci sono bambini che sventolano mani, tentando di afferrare qualche oggetto particolarmente attraente e strano e colorato che i loro occhi di futuri contadini mai hanno potuto vedere, o profumi invitanti di cibi per loro esotici, che rendono apprezzabile anche il rischio di ritrovarsi qualche animale strano tra i denti – lei ha imparato col tempo a non fidarsi di lusinghe simili, ma non può esimersi dal dispensare contegno e un poco di sdegno per quelle anime così semplici.

Lei va avanti, dritta verso una precisa meta, scansando braccia di donne e bastoni di vecchi, piegandosi al movimento improvviso di arti e oggetti che capitano lungo la sua via con quella certa sapienza di chi ha ricevuto così tanti colpi in viso che conosce tutti i modi per evitarli e prevederli. Non guarda i succulenti pesci non più freschi che un uomo le muove fin troppo vicino all'orecchio, e neanche quei semi colorati e grossi che sembrano tanto promettenti e ricchi di vita, la promessa di alberi magnifici in luoghi dove cresce soltanto erba e qualche arbusto giovane. Scuote la chioma chiara, raccolta dietro la testa come conviene a ogni giovane in età da marito, e passa le quattro carovane senza alcun dubbio a riguardo.

Quando Patty la scorge provenire verso la propria direzione, ha già pronto il sorriso per lei. È piccola e bassa, bionda come il grano maturo, e possiede abbastanza memoria da conoscere perfettamente i desideri dei suoi clienti abituali: con quella ragazza ha sempre fatto un solo tipo di affare. Si liscia quindi il completo corto, colorato forse troppo, e non si muove dal proprio posto quando la ragazza si pianta immobile di fronte all'ampia carovana.

-La piccola Albam, che piacere rivederla!

Non è cattiva e Maka lo sa bene, il suo modo allegro di porsi alle persone è determinato solo dalla professione che esercita e dalla necessità di adattarsi a qualsiasi clientela; a Maka scappa un mezzo sorriso, nonostante l'abbia chiamata con il nome di una persona tanto detestabile, e con un inchino del busto risponde al suo saluto cortese.

-Signorina Thompson.

Nel gesto, la ragazza scorge con la coda dell'occhio quanto esposto, compreso lo sguardo di un uomo dubbioso che maneggia con scarsa capacità una bilancia di metallo, cercando di raccapezzarsi circa il suo utilizzo. Oggetti così particolari e specifici, lo sanno tutti, sono a uso e consumo di poche persone scelte.

Maka non ha bisogno di avvicinarsi alla giovane donna che questa, esaltata alla maniera di ogni venditori di fronte ad un cliente prossimo alla compera, annuncia il ritrovamento di qualcosa di davvero interessante con una voce acuta, squillante, tanto che la ragazza non ha proprio la possibilità di porre resistenza alla presa che, per il braccio, la costringe ad avvicinarsi a un baule tra tanti, scuro di legno antico e poco decorato, senza alcun lucchetto a sigillarlo. Quando Patty ne apre il coperchio, esce assieme a una mosca nera un profumo di carta usata e di inchiostro secco, assieme a quello del cuoio strappato per l'usura degli anni e la poca attenzione umana. Maka ha gli occhi che brillano quando la mercante le mostra l'ultimo tesoro di una collezione iniziata da anni.

-Non hai idea di cosa abbiamo dovuto fare per portartelo! È un pezzo più unico che raro!

Probabilmente non è vero, ma lei sa come certe persone più per abitudine che vera malizia, arricchiscano la propria iniziativa lodevole in maniera artistica e spesso pesante, badando più all'efficacia del messaggio che al contenuto dello stesso e forzando sospetto e malizia fino a non sapere più cosa sia cosa e sfruttando entrambi in maniera incredibilmente saputa. Contando però la strada fatta e la gentilezza del gesto in sé, Maka si vede bene dal far notare queste inezie e ringrazia, sinceramente e col cuore.

Lo apre piano, con la cura di chi sa quanto è fragile la carta e quando delicata ogni pagina, ma fa scorrere con riverenza quasi completa i polpastrelli sulla superficie ruvida, lungo le file dei caratteri dipinti, ed è come scorgere una saggezza antica che la rende più profonda, nella perfetta convinzione che quella parola scritta sia liberazione, sia essenza pura. Lo legge, non interessata né al momento né agli occhi di Patty su di lei, e ritrova persino nell'esercizio il ritmo dei canti delle genti che furono. Stringe al petto l'oggetto, come se fosse un caro affetto.

Il Libro dei riti ora non manca più, alla sua collezione personale.

Chiude il tomo con delicatezza e lascia che Patty lo fasci con un panno di cotone, come involucro di protezione.

-Ero sicura che ti piacesse: tu sei una vera intenditrice!

È felice anche lei, per quanto possa sembrare naturale per la malizia dovuta a chi contrae un buon affare: i soldi che cadranno nel palmo della sua mano, appena Maka li estrarrà dalla propria borsa, sono i risparmi di un intero anno di mancanza di divertimenti e rigore morale integerrimo, di una persona che sa esattamente come investire fatica e tempo. La ragazza gli è soltanto grata, però, quando scambia il vile metallo con quella meraviglia dell'intelletto e fa proprio un altro piccolo pezzo della cultura già millenaria che ha reso grande il suo Impero.

Patty ha giusto il tempo di mettere i soldi nella propria borsa che ecco, ecco che corre da un altro cliente abituale, un signore anziano interessato ai tappeti morbidi che vengono direttamente dalla capitale. Anche Maka si sofferma a guardare il vecchio, che sa bene essere il domestico della famiglia più importante del proprio villaggio, e si chiede con quello sdegno ritrovato all'improvviso come certa gente possa pensare a quel genere di comodità effimera quando il cibo scarseggia sulle tavole delle famiglie e gli uomini passino le loro giornate a lavorare in campi lontani per qualche tassa in più e qualche soldo in meno. È il vento che le gonfia i vestiti a farle perdere il pensiero maligno, piegata all'improvviso verso una gonna primaverile troppo leggera, e il petalo isolato di un fiore di pesco a farle alzare lo sguardo, verso la collina del villaggio, lì dove ogni memoria confluisce nella vita sempre presente di quell'albero. Non collega ancora niente, a quella visione: respira aria solamente, presa dai propri pensieri.

Si accorge tardi di essere sola, in mezzo a oggetti strani e bauli pieni di roba – persino l'odore del libro è stato trasportato via dal vento assieme a ogni altro profumo. Non è cosa da signorine per bene: si chiude in sé stessa e si incammina lontano, tenendo stretto al petto il libro così prezioso.

 

Il battere regolare del martello da lavoro non detta il ritmo del suo passo, ma questo soltanto perché Black*Star non ha una personalità tanto debole da lasciarsi manovrare da dettagli come quelli: esprime se stesso persino nella camminata semplice, quando potrebbe lasciare i dettagli insignificanti a eventi esterni alla propria persona. Invece no, rimane pieno della propria essenza anche nei particolari, opponendo al gesto del fabbro qualcosa di totalmente suo – come, per esempio, l'urlo di saluto goliardico che precede la sua comparsa all'ingresso dell'officina e un arrivo tutt'altro che discreto agli occhi dell'uomo.

Soul sa che è inutile lamentarsi, lo fa da troppo tempo per anche solo sospettare che sia efficace, ma non può non togliersi la soddisfazione di lamentarsi, almeno per un poco, e di fargli notare quanto può essere irritato.

-Black*Star, dannazione! Sei più rumoroso te del mio martello!

Più fastidioso della voce del giovane, è la distrazione che coglie il fabbro quando la concentrazione si abbassa e lui si accorge del sudore sulla sua pelle e lo sporco che l'accompagna, per tutto il corpo, così come i capelli inzaccherati e luridi, tra il grasso che dai guanti di cuoio è passato lì e tutti i vapori dell'officina che li hanno resi grigi in modo prematuro. Per questo, nonostante l'amico sorrida, Soul Eater gli rivolge una smorfia poco gentile e non lo guarda quando comincia a parlare, sempre più vicino a lui.

-E tu puzzi come una capra, amico! No anzi, direi peggio!

Evita di dargli troppo retta, con un martello e un abbozzo di lama in mano sarebbe pericoloso lasciarsi andare a qualsiasi passione e Soul lo sa bene – quindi torna a battere sul ferro rossissimo, fissando lo sguardo sull'oggetto tra le proprie mani.

Gli occhi di Black*Star sono abituati all'armamentario che l'officina offre alla vista, e come sempre li potrebbe giudicare attrezzi di poco conto, da contadini o poco più, tra denti di forcone e falci dalla bocca larga, ma sono commenti così soliti che ormai Soul ha imparato a fargli il verso e non è più così tanto divertente prenderlo in giro per quello che fa, benché sia sicuramente più nobile che passare la propria giornata a rubare i frutti del melo del signor Wang o a scappare con le uova delle galline della signora Shu come se, alla loro età, fosse qualcosa di ancora giustificabile.

Soul ha solo la delicatezza di non rinfacciargli la propria occupazione e per questo Black*Star ha consacrato l'amicizia che ha con lui, ritenendola ancora più forte di un legame familiare eterno.

Ma non è per simili questioni sentimentali che Black*Star si ritrova in quel luogo, ed è bene e urgente per lui farlo notare. Si siede sul piccolo tavolo poco distante dall'altro ragazzo, incurante degli oggetti che fa cadere nel suo gesto e accomodandosi tra una sbarra e l'altra di materiale ancora grezzo. Estrae una mela dalle curve morbide della propria veste da orfano e guarda Soul colpire bozza dopo bozza la trave ora morbida, interessato piuttosto all'espressione di lui che, da corrucciata, si sfalda piano in qualcosa di diverso e distante, tutto appartenente al lavoro che sta compiendo. Black*Star lo definisce, quando è così, qualcosa di simile a un creatore, e detto a quella maniera e dalla sua bocca Soul non sa davvero se considerarlo un complimento o meno.

-La vedova Nakatsukasa ha detto che mi accetta in casa sua!

I battiti si fermano di nuovo – e di nuovo lo sguardo del fabbro si allontana dal martello e dal ferro, per farsi dubbioso e incerto in un ricordo che gli sfugge. Dopo comprende e si fa più sereno nell'espressione: nota, in quel momento, i lineamenti forzati in un sentimento palese e strano dell'amico, qualcosa di nuovo che non ha mai notato prima di allora, neppure quando è entrato nella sua officina.

Si parla tanto di anime unite, anime affini e legate le une alle altre, di amanti o di amici in egual misura, ma la verità che sa Soul Eater è che, senza niente di materiale e palese di fronte agli occhi, c'è ben poca spiegazione trascendente o psicologica che possa giustificare un'azione o un sentimento. Ipotizza che sia stato il rievocare il nome della donna o forse soltanto la situazione nuova che gli è capitata nella vita, ma è quella la dimostrazione che gli serve per vedere la felicità concreta di Black*Star. Arriva persino a sorridere.

-Quindi vuole assecondarti nel tuo folle piano?

L'altro ride, tralasciando volutamente o meno la non tanto sottile ironia nelle parole dell'altro – ma è un riso carico di sincera felicità e per questo non reca così tanto fastidio come il solito, borioso e pomposo apprezzamento verso se stesso solo.

-Sembra proprio di sì!

Soul non lo lascia neanche finire la risata come conviene ma sposta semplicemente lo sguardo al proprio lavoro, con gli occhi che fissano il vuoto per l'istante lungo giusto il tempo di un pensiero fugace, senza spessore alcuno.

Che la giovanissima vedova Nakatsukasa abbia perso il marito nell'ultima ondata del grande Fiume è una cosa risaputa da tutti, più o meno come anche il fatto che dalla cosa ne abbia ricavato più denaro di quanto potesse convenire a una donna sola dabbene. La casa splendida, delle più lussuose del villaggio che fu, è stata sostituita con una rispettabile dimora in legno, alta due piani e larga quanto tre delle normali capanne dei cittadini, tra le cui pareti è ben nascosto non solo il forziere pieno che ha fatto il suo lignaggio illustre, ma anche un vero e proprio tesoro per gente disperata ma ricca nell'animo come può esserlo l'erede di una casata militare caduta in disgrazia come Black*Star: una spada antica, delle più conosciute e delle più rinomate, compagna di un sapere che i Nakatsukasa si tramandano assieme al sangue da fin troppe generazioni.

In quella casa, Black*Star avrebbe imparato il lavoro del guerriero. Sempre che la padrona non lo cacci per la sua totale mancanza di educazione e la sua inesperienza con le donne di un certo grado sociale.

Uno spiraglio di vento fa ballare le tende che isolano l'officina aperta dal resto, scuotendo le cinghie di metallo che lo fissano al terreno e portando un profumo diverso, che si insinua tra le coltri pregne dello zolfo del fuoco. Soul alza lo sguardo, vedendo qualcosa che gli danza davanti – non capisce subito cosa sia e quello passa veloce, fino a confondersi col paesaggio verde che colora il resto del villaggio. Fa scorrere allora lo sguardo sul dorso morbido della collina, fino a incontrare con gli occhi il grande albero di pesco, colmo della primavera ormai finita.

Sorride, mesto, al pensiero del fratello geniale che ormai non fa neppure più da nutrimento a quelle radici secolari.

-Poverina, non sa cosa si aspetta.

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Capitolo 3
*** *Capitolo due ***


 
*Capitolo due

 




 
Elisabeth rotola su un fianco, trascinando con sé un lembo di coperta candida, che avvolge le curve del corpo ancora nudo, ancora tiepido di sonno condiviso. Il guanciale morbido entro cui la guancia affonda, non senza un sottile piacere, viene quindi stretto dalle sue braccia esili e magre, prive di qualsiasi pelo biondo o traccia del tale. Si solleva giusto un poco, per permettere ai muscoli della schiena di stendersi come di dovere, senza lasciare sopra la pelle il torpore molle che confonde sogno e realtà, e sente la carezza dei capelli che le circondano il viso, cascando quindi sulle punte e in tanti ciuffi biondi sul bianco immacolato. Sbatte le ciglia – si accorge della luce di quel giorno grigio e piovoso che dalla finestra si è allargata entro tutta la stanza – e poi torna in basso, sbuffando sottovoce.
Kid, accanto a lei, è sveglio e ben vigile, ma non la osserva mentre abbandona poco a poco la dormiveglia per consegnarsi completamente al nuovo giorno: con lo sguardo fisso al soffitto della stanza, sente attraverso il giaciglio in comune i suoi movimenti lenti e lo stiracchiarsi delle gambe che portano i piedi di lei a cercare i suoi, con gioco e un poco di ilarità. Il giovane uomo, alla fine, si lascia accarezzare la pancia da quelle unghie lunghe e lusingare dal sorriso che, pur senza trucco rosso o altra finzione che ne storpi la vera essenza, trova perfetto.
-Buongiorno, signor Death.
Anni di relazione, anni di notti passate insieme nella stessa stanza – nello stesso letto, con la stessa aria e lo stesso desiderio – non hanno alterato la relazione tra la puttana di alto bordo Elisabeth Thompson e il figlio primogenito del capo villaggio Death the Kid; come ogni volta il rituale del risveglio sancisce nella differenza di rispetto che uno rivolge all'altra e viceversa: per quanto antica e decadente, la famiglia di Kid rimaneva sempre quella di nobili militari al confine.
Ma non per questo avrebbero mai rinnegato, né lui né lei, ciò che davvero li univa, e non erano le informazioni sussurrate sulle labbra, di quelle che uomini appagati e caldi di un facile amore dispensavano come carezze sulle mani delle donne, non la sicurezza di un letto caldo e un tetto sopra la testa, cibo nella pancia e la serenità di tante risa. Solo bastava la dolcezza dello sguardo che ti accoglie al mattino.
Kid prende il polso di lei e induce un movimento regolare del polpastrello prima di rispondere alla sua espressione gentile con uno sguardo fin troppo simile al suo.
-Buongiorno, Elisabeth.
Se per lui è possibile non avere dubbi sulla veridicità delle notizie che lei ha recato con sé, assieme alla propria carovana e agli oggetti da mercante che si finge, è per la sincerità d'intenti che gli ha sempre dimostrato, anche negli anni, e la coerenza di fondo che non è mai venuta meno – neppure di fronte al sentimento più forte. Se poi aggiunge anche una buona dose di polvere da sparo di ottima qualità per i suoi cannoni da battaglia direttamente dalle piccole botteghe della capitale, Kid potrebbe anche elargire più complimenti del dovuto alla donna che tiene tra le braccia.
Ma sarebbe come sminuirla e privarla della sua intima essenza, e quindi si limita a prenderle delicatamente la testa con le dita e attirarla verso il basso, dove con le labbra le concede il primo bacio del giorno.
 
*******
 
Maka saltella sulle lastre piatte delle mattonelle in maniera allegra e senza un solo pensiero per la mente, appoggiando la punta del sandalo che indossa sugli angoli grigiastri con lo stesso ritmo di un gioco dell'infanzia che, per puro caso, le è venuto in mente proprio in quel momento. Tiene un piccolo libro rilegato in pelle scura in un abbraccio stretto, che quasi ne conficca gli spigoli in pancia e nel petto, ma muove le spalle e i fianchi in modo da cercare e trovare sempre, a ogni balzo, il perfetto equilibrio per non cadere a terra.
Passato il portone grande che dà sulla strada in comune, il cortile che si apre alla vista e al visitatore di passaggio collega le case di legno che lì si affacciano, attraverso un sentiero sottile di pietra nascosto per lo più da erbacce incolte e fiori bassi e poco allegri. C'è un piccolo pozzo dalle pareti lucide e ancora piene di muschio, nell'angolo più buio e freddo del lato nord, ormai inutilizzato – la corda che fa girare la ruota è rotta in più punti e manca, persino, il secchio adatto alla raccolta dell'acqua, elemento che più che dare un senso di inadeguatezza conforma la desolazione che l'intero complesso possiede, seppur nel piccolo dettaglio.
Poi, nascosto lungo le pareti vecchie delle case dei signori Wang e Chu, c'è il sentiero che porta all'orto interno, dove le prime foglioline delle rape appena nate sbucano teneramente verdi dal terreno e illudono in una speranza crudele con la prospettiva di un raccolto quantomeno decente.
Maka adora nascondersi in quel luogo, il più lontano possibile dalla strada esterna e abbastanza vicina a casa da poter in ogni momento disporre della propria collezione di libri e altri piccoli tesori. Le quattro pareti della sua camera non hanno l'odore né della terra né dell'erba, non il suono dei rivoli d'acqua cristallina che scorrono ai lati di ogni appezzamento sopraelevato e della piccola fontana a lato, dove vivono e crescono rane dalle mille dimensioni, e alla ragazza serve l'illusione di potersi estraniare dal mondo suo solito senza necessariamente dover spiegare qualcosa a qualcuno. Solo lei e i suoi libri, solo lei e il sapere che la nutre dentro.
Non ha bisogno di varcare la porta della propria abitazione per capire che, dentro, ci sono ospiti che suo padre ha portato con sé. Già sui primi scalini del balcone, il piano rialzato che separa l'abitacolo dall'umidità forte del terreno, può sentire provenire dalla finestra il vociare più o meno allegro di una persona che già conosce: il capo-villaggio è inconfondibile, nella sua risata sempre pronta e nelle sue affermazioni vivaci. Con una mano, si apre l'ingresso ed entra piano, per non disturbare troppo, ma capisce di essere stata sentita nonostante la premura quando, di colpo, ogni rumore cessa e si sentono solo i passi pesanti dell'uomo che identifica come suo padre, quando il suo capo sbuca dalla porta che da alla sala grande della casa. È allegro e sobrio, e Maka sa che la prima cosa la deve alla propria presenza e la seconda all'importanza attribuita all'ospite di riguardo che fino a quel momento ha intrattenuto.
Quando lei raggiunge la stanza, su invito di entrambi i due uomini, trova quel signore scuro già in piedi, con un sorriso sicuramente meno tirato e meno finto di quello del padre sul viso. Lei ha sempre attribuito il valore della sua persona alla capacità, seppur singolare, di portare avanti un villaggio grande come il loro, badando ai raccolti, ai lavori femminili e a tutto ciò che lei neanche immaginava poterci essere, dietro il perfetto funzionamento di un organismo così complesso – di sicuro, possiede l'arte del burocrate più alto e nobile, come si confà a ogni funzionario degno di questo nome, e già solo per questo merita onore e rispetto, di fronte a tutti i concittadini che dirige. Eppure sa, almeno sospetta, che la stazza del suo fisico e la pacatezza del suo animo siano frutto di ben altre esperienze.
Si prodiga in un inchino profondo, nel saluto che gli rivolge, e lascia che i capelli le cadano nei codini stretti in avanti, assieme alla frangia sottile. Non vede l'ennesimo suo sorriso, ma sente chiaro il congedo che rivolge al padre, detto in maniera delicata e sbrigativa assieme. Da quella posizione, Maka riesce a vedere gli oggetti disposti sul tavolino basso che occupa gran parte dello spazio della sala, e nota per lo più una carenza di alcool che gli pare dubbia, quasi, se non fosse per il sospetto che semplicemente Spirit per una volta ha rinunciato a voler fare l'ennesima figura da buffone qual è.
Non è compito suo condurre l'ospite all'ingresso, ma non può esimersi dall'incollargli gli occhi alla schiena, non tanto per fissare lui quanto certi pensieri nella propria testa. Sono sospetti labili, privi di consistenza, che però prendono forma e hanno conferma nell'attimo in cui, chiusa la porta, il signor Albarn si concede quel mezzo attimo per lasciarsi trasportare da un'emozione che gli piega i lineamenti del volto in un'espressione truce, pesante. Poi lui alza lo sguardo, e la saluta di nuovo, come se la vedesse solo a quel punto per la prima volta.
-Maka, bambina mia!
Il momento preciso in cui lei ha saputo di detestare suo padre, almeno nella classica versione che dava di se stesso, non lo sa dire – però sa elencare, in ogni minimo dettaglio, i difetti che trova non solo nella sua condotta, tra donne che non sono sua madre e una svogliatezza che lo rende molle davanti a qualsiasi senso etico. Probabilmente, compiacersi della pochezza dei pregi altrui è stata la motivazione di un rigore così esasperato, incapace di godere oltre che di sé medesimo, chiuso in quanto tale e passivo ad ogni cosa.
Ma, pur sempre figlia e donna, Maka riconosce anche quali segni umani di sofferenza portano con loro l'importanza di una paura, di una novità davvero grave. Per questo motivo, con la stessa sicurezza della bambina che è, si ferma nel bel mezzo del corridoio e affronta suo padre di petto. Ha ancora tra le braccia il libro di prima e vi si aggrappa come l'ancora per le ombre, per i mostri degli armadi che sbucano nella notte dei sogni infantili.
-Padre, cosa sta succedendo?
 
Non è sontuoso come un palazzo reale – e probabilmente neanche come la villa superstite della vedova Nakatsukasa – ma la casa del capo villaggio si riconosce come sede amministrativa di quel piccolo borgo dove lui stesso vive in elementi e in dettagli sparsi ovunque, su mobili decorati e insegne esposte come i tesori che a tutti gli effetti sono. E gli abiti, l'aura che circonda il padrone di casa tutto e i suoi prossimi più vicini, denotano ancor di più il senso di regalità fine che dimostra non tanto per sfarzo ma per vera essenza.
Quando Soul ha ricevuto il messo, quella stessa mattina, con una tale urgenza e un tale affanno da dover essere quantomeno sospetti, credeva più che altro di dover risolvere l'ennesimo capriccio del signorino di casa o sellare il suo cavallo per l'ulteriore volta: già in passato ha avuto problemi con l'esigenza di Death the Kid e la sua mania per la simmetria radicale che solo lui, unicamente lui, può quietare con ferri da cavallo perfetti e armi da caccia che conoscono ben poche imperfezioni, e quindi più che un compito tanto alto ha preso la cosa più come frutto smanioso di un'ansia già conosciuta, già provata sulla propria pelle. Non si è preso neanche la briga di indossare un abito troppo elegante, sebbene il suo naturale carattere lo porti in ogni occasione a essere quantomeno presentabile, persino nella previsione di dover passare il proprio pomeriggio in una stalla a litigare con il capriccioso e svogliato cavallo preferito dell'amico d'infanzia, cercando non solo di fermargli la zampa ma persino di sistemarla in maniera tale da poterla lavorare perché sia adeguatamente ferrata.
Il disagio, quindi, risulta palese e totale quando una delle domestiche della casa lo conduce non solo al cospetto di Kid ma persino del padre di questo, senza che una spiegazione in merito gli venga elargita in modo da preparare animo e corpo a brutte sorprese del genere. Rimane fisso e fermo, presso l'ingresso, anche quando la giovane donna chiude la porta alle sue spalle e si sente, nel silenzio creatosi nella stanza, solo il rumore del battente che viene serrato.
Soul non reagisce neppure al sorriso dell'uomo tutto vestito di nero.
-Giovane Eater, accomodati!
Ci sono diversi cuscini per terra, un tappeto rosso e spesso dall'aria antica, straniera – probabilmente di provenienza più illustre di quanto il fabbro possa effettivamente immaginare – e una teiera di porcellana candida, appena spostata di lato, che fuma dal suo becco emanando un aroma prezioso dal retrogusto di spezie. Addossata alla parete, c'è una cassapanca dalle rifiniture dorate, e appesa alla parete il lungo strascico di un rotolo di pergamena di seta con inciso uno scritto antico, dall'inchiostro nerastro e secco. La luce proviene tutta dalla grande finestra verso est, dalle inferriate di legno dipinto e lascia passare solo spiragli di vento flebile, senza più alcuna forza, e tutto l'odore delle nuvole basse e della risaia posta ai piedi della collina su cui è costruita tutta quanta la dimora.
Kid è accanto al padre, vestito ugualmente di nero, e non ha l'espressione esaltata dei momenti di maggior svago, né tanto meno l'accondiscendenza condivisa dei pomeriggi passati in allegra compagnia, ma un'apprensione che non genera dubbio alcuno su quanto sia realmente grave la richiesta che lui e l'altro hanno intenzione di porgli.
Per questo motivo, e l'intesa che gli sfugge nello sguardo, Soul riprende coscienza di se stesso e si fa avanti, com'è giusto che sia. Si piega in un profondo inchino di saluto prima di piegarsi sulle ginocchia e occupare il proprio posto, ad un cenno del padrone di casa, sul singolo cuscino posto ai piedi del piccolo altare in cui è diviso il pavimento della stanza: il signore sopra, l'ospite sotto. È una cosa abituale, necessaria alla morale, che passa tanto in secondo piano quant'è veloce il momento in cui arriva il confronto diretto tra i tre.
Lord Shinigami rimane una persona gentile e pacata, allegra in certe battute forse, e nelle domande gentili che per cortesia non tanto obbligata rivolge direttamente alla sua persona. Arriva a offrire il tè al fabbro, chiede se è di suo gradimento assaggiare qualche biscotto della vecchia cuoca di casa, che occupare lo stomaco con qualche dolce non fa poi male.
Poi Kid si schiarisce la voce e non cambia nulla, se non l'argomento di quello che diventa un lungo monologo.
Le spade mostrate lungo la parete, dalle faretre lucide di blu nobile e dalle impugnature di cuoio duro, prendono quindi origine in un passato militare, lontano e glorioso, al servizio di un Imperatore che non esiste più e che ha lasciato il nulla avanti sé – la perdita del Diritto Celeste è perdita di onore di uno stesso aristocratico decaduto e confinato in quei luoghi, distanti da ogni possibile sfarzo e dalla luce giusta dell'etica morale irreprensibile. Come il fiume in piena che ha spazzato ben oltre la metà di quello stesso villaggio in decadenza, come molti altri lungo gli argini fertili del grande Fiume, così la corruzione e la decadenza hanno demolito ogni regale virtù, gettando non solo la corte nella più completa anarchia ma pure l'impero, la Cina stessa.
Il male necessario della guerra, così come illustri filosofi passati lo hanno definito nella sua più critica rappresentazione di sterminio e genocidio, serviva in quei tempi a dare una svolta: perché non accadessero mai più disgrazie simili, perché la pace potesse di nuovo governare su quelle terre.
Lord Shinigami usa altre parole, in realtà, difficili e adatte al suo lignaggio. Ogni tanto cita il Sommo Filosofo, ogni tanto si rifà a citazioni classiche di cui il fabbro ignora esistenza e origine, seppur appartenenti al suo sentire di uomo cinese. La sostanza, però, non gli sfugge minimamente.
-Ho bisogno di armi, signor fabbro, e del suo aiuto.
Kid, che per tutto il tempo è rimasto al suo posto ad ascoltare il discorso del padre e a muovere la testa, in cenno di assenso chiari e sempre nei punti cruciali del suo dire, fissa lo sguardo sull'ospite con la stessa intensità del genitore, carico di fiduciosa aspettativa. Non dice nulla, per non essere di troppo, ma si intuisce perfettamente cosa desidera.
Anche Soul sorride – e dall'amarezza che si è rannicchiata proprio all'angolo delle sue labbra, lì dove di solito si nascondono baci furtivi, entrambi gli uomini intuiscono già la risposta ancor prima di sentirla con le proprie parole.
Perché non c'è obbligo, non c'è costrizione, e il privilegio della libertà è qualcosa che porta irrimediabilmente a scontrarsi anche qualcosa di poco perfetto come il rifiuto.

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Capitolo 4
*** *Capitolo tre ***


*Capitolo tre

 

 

Il petalo rosa di un fiore di pesco entra dalla finestra di soppiatto, interrompendo una concentrazione già evanescente e poco presente.

L'errore non sfugge alla maestra, il cui rammarico e disappunto si dipinge in quella solitaria piega che interrompe la fronte liscia e abbassa di poco le sopracciglia, ma c'è una calma confuciana nelle sue parole e una pazienza che non conosce limiti, per quanto possa suonare all'ascolto velata di commiserazione.

-Non distrarti, Black*Star. Continua nei tuoi esercizi.

Il ragazzo si apre a un profondo sospiro di disagio e lancia, abbastanza di sottecchi, uno sguardo non troppo contento alla giovane donna, come se questo potesse davvero smuoverla dalle proprie posizioni. Ma ormai la conosce abbastanza da saper intendere cosa la sua pacatezza voglia significare e cosa si aspetta da lui, con precisione – impegno, non altro che questo.

Tsubaki Nakatsukasa ha accolto, a suo tempo, la sua richiesta la prima volta che si è presentato alla sua porta, con una sfacciataggine e una mancanza di rispetto degne solo della sua giovanissima età e della baldanza del genio qual è. Se la domestica più intima della signora ha impiegato diverso tempo a esprimere, nel dettaglio, la sua intenzione a non lasciar entrare in casa quello squilibrato, la donna è stata colpita subito dalla forza delle intenzioni di lui, così da essere accondiscendente verso quel folle ragazzo e la sua folle idea.

Forse la solitudine, forse la voglia di avere di nuovo rumore per casa, forse la visione di nuova vita così energica e così pura, solare: sono supposizioni, queste, che danno adito a voci e chiacchiere di chi si annoia e non ha niente di meglio da fare. Ma così come Tsubaki è stata una signora devota alla memoria del marito, così Black*Star non ha dato il minimo segno di essere interessato a lei in quanto donna – e la condotta dell'una e l'esaltazione infantile dell'altro hanno taciuto le più mere cattiverie.

Ereditare per merito la spada demoniaca, il monile più antico e prezioso, più ricercato, del clan Nakatsukasa, è tutto ciò che Black*Star desidera e che ha chiesto alla donna, e così come ogni carica che si rispetti viene innanzitutto dal merito e non dalla forza, dalla bontà dell'animo e non da altre oscure virtù, Tsubaki ha messo alla prova il pretendente con lo stesso metodo e lo stesso esercizio con cui suo padre ha reso lei una maestra d'armi – maestra di spada.

Prima di tutto, la capacità di conoscere sé medesimi senza errori o sbavature, consapevolezza che può nascere soltanto da una profonda meditazione che collega interno ed esterno, nella totalità di un Tao che regola ogni singola cosa e fa della realtà, d'anima e cuore, un'unica definizione. Il resto soltanto dopo, perché non c'è apprendimento se non c'è riflessione prima, né presa di coscienza sulla motivazione ultima a cui sono diretti tutti i gesti.

Black*Star quindi chiude ancora gli occhi, mentre sente Tsubaki servirsi di una bevanda calda e rimanere quindi in silenzio, ferma e muta, al suo fianco. Sembra quasi che lo stia attendendo, con la pazienza non di un maestro ma di qualcuno di diverso, che ancora gli sfugge.

Pazienza, si dice. Ora non ha tempo per comprendere anche l'animo delle donne.

 

******

 

Il Libro dei Mutamenti – copertina rossa e un segnalibro di cartoncino spesso in mezzo, qualche pagina prima dell'ultima lettura ultimata – esce, con tutto lo spigolo destro in alto, dalla pila dei libri ordinati sulla scrivania della stanza. Ed è evidente, almeno dalla posizione che Maka occupa, in quanto interrompe il fascio della luce mattutina che dalla finestra alta, che quasi tocca il soffitto della camera, si apre poi alla piccola stanza intera, toccando tutti gli oggetti lì riposti. Giaciglio compreso.

La giovane si appoggia su un lato, dando quindi le spalle alla fonte luminosa nel tentativo di ripararsi dal fastidio e allo stesso tempo di riprendere sonno, che ancora l'ora della leva non è giunta e lei ha qualche minuto per abituare i muscoli al nuovo giorno, alla prospettiva di altre ore di lavoro e di studio. Ma basta piegare di un poco la schiena in avanti, contrarre leggermente la pancia e ciò che contiene, che il male che dallo stomaco arriva alla gola come sapore di sangue, in quello che sembra a tutti gli effetti il risultato di un mal di pancia da stress durato un'intera nottata di sonno agitato, le suggerisce che no, non dormirà più e sì, quella sarà sicuramente una mattinata pessima, per umore e prospettiva.

Il padre ha spiegato, dopo varie domande e insistenti interrogativi, cosa capiterà alla sua famiglia e al suo villaggio. Maka è una persona intelligente, lui lo ha sempre sostenuto e di questo sempre si è vantato con tutti – il solo frutto del suo amore è così splendido e capace, benché donna e benché una, e gli ricorda l'amore stesso che ha provato per una sola, in un tempo non troppo lontano da quello – e nonostante la poca pazienza sa come giudicare certe informazioni, anche quelle più spinose e importanti. Con questa convinzione in corpo Spirit le ha parlato di Chrona e sua madre, degli intrighi di palazzo tra la famiglia della genitrice dell'Imperatore e il resto della corte, tralasciando magari qualche dettaglio di poco conto come l'essere stato arruolato per la prima linea all'interno del corpo attivo della rivoluzione in atto direttamente da Lord Shinigami. Ma quello Maka l'ha capito da sola, senza bisogno di alcuna spiegazione in merito né tanto meno aggiuntiva, perché altrimenti non si spiega le preghiere che l'uomo ha diretto alla moglie morta, in un momento della notte in cui ha creduto d'essere solo e inascoltato, il suo giuramento alla stessa e la comparsa di una vecchia spada, cimelio di famiglia, tra le sue mani.

Suo padre è pronto per la guerra. È il pensiero stesso che aumenta il dolore e la fa dolere, mentre un piccolo gemito esce senza scrupolo dalle sue labbra strette, serrate.

C'è il canto di un gallo particolarmente eccitato che proviene dall'esterno e il chiocciare di alcune galline allegre che accolgono il nuovo giorno con lo starnazzare tipico del pollame di piccole dimensioni. E quando lei stessa muove ancora il viso contro il guanciale, strofinando la guancia sulla federa candida e umida del proprio sudore notturno, c'è il rumore leggero delle piume d'oca che vengono schiacciate, proprio contro il suo orecchio, che la disturbano e la irritano. Non si rende neanche conto, in realtà, che qualsiasi cosa le possa accadere in quel momento il risultato non cambia: il dolore rimane, il blocco la schiaccia.

Sente persino i passi dell'uomo che chiama padre fuori dalla sua stanza, che percorrendo il lungo corridoio da una stanza interna si dirigono verso l'esterno, per andare chissà dove – probabilmente a lavoro, forse a bere qualcosa, forse ancora a parlare con qualcuno più interessato alla vicenda che gli sta sconvolgendo la vita.

Sente anche gli occhi pizzicare, ad un certo punto, e il volto farsi caldo tutto di colpo, partendo dalla base del naso e dagli zigomi. Non versa alcuna lacrima coscientemente, ma sotto le palpebre si accumula acqua salata, che fa comunque male.

E allora danna ogni cosa, partendo proprio da quella casa per poi andare lontano, a ogni particolare che le rende lo stomaco dolorante e l'intestino così schiacciato, così ferito ma senza piaghe vere. Suo padre e la virtù a lungo dimenticata che lo ha reso un pessimo marito e un pessimo padre sotto ogni aspetto nel tempo dell'ozio, ottimo combattente nel tempo del bisogno – e la crudeltà amara di un obbligo che lega più i virtuosi come lui che i nullafacenti incapaci. Lord Shinigami e la pretesa improvvisa che tutti, per dovere e morale che vengono da altre fonti ben più nobili che la sudicia guerra, lo seguono nella folle impresa di ristabilire un ordine naturale delle cose che mai ha destato alcun interesse, mai è stato preso in considerazione – e quella malizia intravista negli atti che sia stato fatto tutto per puro dispetto, come solo l'infantile e sciocco capriccio può consigliare, nel dolore della consapevolezza improvvisa. Ma specialmente se stessa, per essere donna e figlia, per avere mani non adatte a ledere né tanto meno a curare, e la poca propensione anche solo a immaginare cosa sia, una guerra – l'incapacità totale.

Di nuovo il gallo canta, la signora Chu comincia a urlare e probabilmente a battere la scopa contro il selciato che porta al pollaio, nel tentativo di sedare un piccolo battibecco iniziato tra le galline in prossimità della mangiatoia.

Si alza a sedere sopra il giaciglio di paglia soffice e si guarda attorno, con la testa ancora pesante, oltre i ciuffi chiari che le ricadono scomposti dalla fronte in giù. Localizza con lo sguardo stanco la brocca dell'acqua per pulirsi la faccia e la veste del giorno lì accanto, sotto un comodino di legno scuro. Ingoia ogni sofferenza e ogni altro lamento, l'ennesimo gemito che vorrebbe uscire quando tenta la prima volta di mettersi in piedi, e allora si avvicina al lavello per iniziare, come tutti, un nuovo giorno.

È quando, con la consapevolezza sveglia che le deriva dal contatto con l'acqua gelida, guarda di nuovo il vestito che deve indossare che le giunge una verità all'animo, assieme al ricordo di una confessione dolce che suo padre sempre le rivolge quando lo vede fasciata da quel rosa e da quel bianco.

-Tua madre indossava quello quando sono andata a chiederne la mano.

Ed è tutto lì, tutto in un solo attimo – non necessita di guardare niente, né di leggere le parole di alcun saggio, perché nessun saggio ha mai parlato dei problemi delle donne costrette all'attesa casalinga dei grandi eroi, nella paura e nel terrore di protrarre l'ansia solo per un vago e illusorio sogno.

Spalanca gli occhi ed è come se fissasse i motivi impressi sul tessuto, nei ghirigori lunghi dei fiori di pesco che dai bordi bassi arrivano quasi fino alle maniche. Ha un'immagine rapida, di una donna che non è lei ma che le somiglia e che passeggia per la stanza, in braccio una bambina e addosso quelle stesse vesti; non si domanda neppure cosa pensi per la propria creatura, quella novella madre. Perché sa che è solo il meglio, per corpo e spirito assieme.

 

Il fuoco rientra nell'ambito del lavoro, per Soul, che di sicuro non gradisce doverci avere a che fare anche oltre le tre pareti e mezzo che richiudono la sua fucina e la isolano in una cappa di vapore, fumo e odori strani, di ferro liquido e di qualcosa di molto simile alla carne cotta – probabilmente la sua, ma non si è mai degnato di pensarci seriamente.

Un po' per questo e un po' per la spossatezza delle membra che lo prende, immancabilmente, dopo ogni giorno di lavoro, considera il bagno caldo come uno dei lussi da ricchi svogliati e di quelle famiglie agiate che non hanno altro a cui pensare che predisporre un fuoco sotto una specie di grande pentola solo per scaldare dell'acqua fino a portarla a una temperatura che non solo lava via ogni sporcizia, ma lessa anche la carne dei poveri sventurati che vi si immergono.

Il senso della famiglia e la svogliatezza Soul se li è, entrambi, lasciati volentieri alle spalle. Ma è pur sempre stanco di doversi addormentare con l'odore di fuliggine e sudore nascosto alla base dei capelli, doversi guardare ogni mattina le mani sporche e le unghie quasi nere, per martellate distratte e vera e propria pigrizia, dove sentire il liscio dell'usato sulla pelle quando incontra la divisa lercia da lavoro, provando lo stesso fastidio del contatto con membra usate e riusate all'infinito. E allora si prende una sera per sé, dedicando quell'ora di troppo alla pelle giovane e rovinata allo stesso tempo, per lenire i calli duri delle dita e dei piedi con una cura non troppo sua ma che gli fa nascere, al momento giusto e nell'attimo in cui la guardia si abbassa per la piacevolezza e la pace, un sorriso rilassato sulle labbra.

La casa che occupa è lo scarto di quella che fu l'agiatezza dei suoi genitori, ma per nome e per lavoro è riuscito a occupare il bagno in buona parte con una vasca grande abbastanza da potersi stendere con comodità, subito accanto alla pentola dove far bollire l'acqua in più, quella capace di scaldare il resto. Svuota la pentola e vede quasi il liquido straboccare; non si cura della cenere del fuoco spento né della fuliggine che vola appena, quando poggia in malo modo il contenitore per terra, ma si leva gli ultimi indumenti intimi e quindi si immerge, con un sospiro di sollievo che non si sente pronunciare da parecchio tempo.

Sente la pressione dell'acqua calda che gli comprime, seppur di poco, la pelle molle del ventre e delle cosce, in un tocco più accennato e gradevole. Prima di muoversi e cercare di togliersi di dosso ogni impurità, porta la testa all'indietro, appoggiando la nuca al bordo alto di legno, e socchiudendo gli occhi lascia che siano le sensazioni a prevalere sul proprio cervello, in un sentire più fisico che altro, che gli dona serenità momentanea ma di sicuro molto gradita.

Non vuole pensare, non ancora.

Non allo sguardo deluso che Kid gli ha rivolto, non alla sottile commiserazione che Lord Shinigami gli ha fatto pesare sulle spalle – perché quella che loro chiamano comprensione, per le sue sofferenze e il suo passato, ai suoi occhi non è altro che pena e pietà per quello che è un essere umano cresciuto a metà, con solo il cuore o solo il corpo, e mai perfetto, mai completo. Né la maturazione né il lavoro che svolge ogni giorno della sua vita hanno potuto togliergli quest'etichetta dalla persona, e questo alla lunga pesa, rende l'anima cattiva e torbida, quasi che un mostriciattolo dalle sembianze umanoidi e dai palmi delle mani troppo grandi ballasse al suono della musica che fa la sua crescente pazzia, assieme alla visione terribile di battere, al posto che sul ferro, su teste di gente odiata e poco sopportata, portatrice di sgarbi anche piccoli ma perdurati in un tempo senza fine. Sono come sogni, rubati al sonno e alla notte, e Soul ha imparato a cacciarli in fondo, da qualche parte, senza considerarli davvero.

Quello che desidera non è tanto la responsabilità di un onore tanto grande da rendere quasi divino, se la morale lo consente e lo permette, ma una fuga rapida che non desse neanche traccia del proprio passaggio sul terreno, nell'aria, presso le coscienze dei pochi sventurati spettatori occasionali. Annullato come il suo orgoglio nel momento del mancato superamento dell'ostacolo principale – fratello maggiore e padre, geni di professione e artigiani abilissimi – ha preso consapevolezza di non poter competere in alcun modo con dei morti, per impossibilità ed evidente svantaggio schiacciante.

Quello gli è bastato per una resa totale e totalizzante.

Passa la mano stanca sulle braccia nude, scoprendo il colore naturale di una pelle come abbronzata sui muscoli gonfi delle spalle e lungo tutte le dita lunghe, come quelle di un signorino elegante. Scivola in basso, tanto da ritrovarsi sommerso fin sopra la fronte dall'acqua calda, e sente bolle di ossigeno scivolargli fuori dalle narici per arrivare fino a galla e disperdersi, quindi, nell'aria circostante. Socchiude gli occhi e guarda il soffitto della piccola stanza attraverso le increspature della superficie del liquido, in quelle piccole onde che rendono tutto smosso e come traballante.

A differenza di un ferro caldo, appena liquefatto dal fuoco energico del suo forno più potente, lui non potrà mai cambiare. Né come sostanza né come forma.

Allora passa i polpastrelli sui contorni del proprio corpo nudo, tra le pieghe dei muscoli del petto fino al ventre piatto, arrivando alle cosce e percorrendo tutte le gambe fino alle dita ancora sporche dei piedi. Prova un senso di inconsistenza, seppur il corpo che sente è vivo e reale, tanto che deve riemergere dal fondo prima di annegare; sputa spruzzi d'acqua tiepida e porta una mano a liberarsi la fronte da ciuffi chiari, distesi in modo bizzarro per tutta la sua fronte. Negli occhi non ha niente, se non la prospettiva di una vita sempre uguale a se stessa – la cosa terribile è che si compiace dell'immagine e sente una certa rassicurazione nel cuore, derivante da una monotonia quotidiana a cui si è arreso con un cuore stanco tempo addietro.

Come l'adulto cinico e incoerente che condanna i sogni come illusioni infantili, così Soul si chiude nel suo mondo fatto di poche cose sicure.

Torna a lavarsi, senza badare ad altro.

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Capitolo 5
*** *Capitolo quattro ***


*Quarto capitolo

 

 

Apre il telo giallastro, con mani frettolose e piuttosto stanche, per stenderlo sui vasi di materiale duro in fondo al suo carro: tra tutti gli oggetti che deve assicurare e immobilizzare, lì dentro, sa che occuperà tutto il pomeriggio e oltre, per una partenza il più vicina possibile. Ha passato le ultime settimane lì, sotto un tetto fermo e cibi caldi in mense accoglienti, ma comprende bene – come sempre a fatto, fedele alla propria natura – che quello non è più il suo posto. E il sospiro che gli esce dalle labbra non è né di rassegnazione né di stanchezza, ma di leggera spossatezza in vista di un lavoro fisico che no, non le piace proprio fare.

-Forza, sorellina! Se ti fermi già adesso, non finiamo più!

Lizzy sbuffa in maniera sonora, perché Patty possa sentire il suo disagio oltre che vederlo palesato nell'espressione di finta stanchezza con cui si dipinge il viso, proprio in quel momento. Non è compito che fa per lei, quello, né mai lo è stato, così preoccupata del trucco che sbava sulle guance o delle ciglia che cadono a furia di sbattere gli occhi pieni di polvere. E le unghie colorate di lacca che si scheggiano, e il vestito che si infila in posti strani e quindi tira.

D'altronde, però, non può neanche permettere che la sorella svolga tutto il lavoro da sola, facendosi carico dell'intera carovana che gestiscono assieme, unicamente per noia e leggerezza. Non solleverà mai bauli interi di mercanzia, ma sa pulire con stracci umidi e avvolgere in panni, per isolare il tutto da polvere e luce. Di più di così, non servirebbe.

Lizzy si lagna solo per il gusto di farlo – e forse anche per scatenare un'ilarità facile sulle labbra di lei, sempre pronta a vedere il comico in un viso truccato e reso male perché, prima che la maggiore possa parlare, la minore le dà candidamente del pagliaccio, accompagnando la definizione con una sonora risata. Quindi la giovane donna, seguitando a lamentarsi, torna al proprio lavoro e recupera un altro panno, si avvicina a un altro vaso e continua.

Ha imparato a non avere rimpianti, per mestiere e per dignità. Come spia, dispensatrice di informazioni dal prezzo raro, sa che potrebbe vedere la fine della propria vita in qualsiasi momento, anche il più improvviso: al minimo dubbio della lealtà che palesa al padrone o alla poca contentezza recata assieme a informazioni non del tutto gradevoli o, ancora, all'amante di turno passionale che non si accontenta di avere solo un poco del suo affetto. Quella è una scelta che ha fatto lei, forte dell'amore sempre totale della sorella a lei vicina, con cui condivide fortuna, sorte e destino – senza di lei, sarebbe ben poca cosa.

Ha imparato a guardare sempre avanti, ingoiando un dolore pur riconosciuto importante per l'intensità, debole o meno, dei sentimenti che persone e cose le danno, nel cuore. Come viaggiatrice, ha visto nascite e morti, crescite emotive e fisiche come mille vite o più non potrebbero contenere neanche a stento, e sa di essere una privilegiata, sa di poter guardare il mondo con una prospettiva tutta sua. E sa bene, anche, che c'è qualcosa che ha tinto di un colore più bello e più forte ogni suo sguardo con la presenza e un tono di voce rassicurante, indifferentemente dalla vicinanza o lontananza, perché sa bene come non sia quello, l'importante – senza di lui, sarebbe ben poca cosa.

Apre il telo, lo stende per bene, copre la bocca del vaso di ceramica: domani, anche per loro, è un nuovo giorno.

 

*******

 

Ha fatto poche volte quella strada, seguendo la via principale per arrivare alla sua fine, svoltare una volta a destra fino a che l'ultima delle stalle puzzolenti dei signori Wei non è terminata e poi superare un buon pezzo di prato verdissimo, cercando di non cadere a terra per colpa di qualche sasso nascosto tra i ciuffi e i fiori. Eppure i suoi passi sono sicuri, l'intenzione non vacilla neppure quando un gatto nero gli taglia la strada – Blair, appostandosi poco distante dai suoi piedi, sbadiglia ai suoi improperi bassi e fugge lontano, per rintanarsi tra le travi e la paglia di un pollaio decisamente più grande del suo, alla ricerca di qualche pulcino incauto e sprovveduto.

Maka ha un discorso di poche parole in mente che ripete, in ogni possibile forma, da quando ha lasciato la propria dimora. L'abito da signorina per bene le fascia in maniera stretta le gambe e le cade, largo, sulle braccia, dandole una libertà apparente che non le rende molto facile il movimento concitato che il corpo pieno di ansia ed eccitazione vorrebbe imporre a se stesso. La suola dei sandali poveri strofina contro il terreno duro a un passo più affrettato, e quasi lei si piega in avanti per il mancato equilibrio improvviso. Ma anche la rugiada degli steli più lunghi, di quella mattina ancora piena di nebbia, che le accarezza il vestito e lo impregna di umidità, non sbollisce lo spirito neanche di poco.

Alla fine, con tutta la sicurezza di sempre, arriva alla fucina del fabbro.

Ha visto lo sguardo dell'uomo indugiare sulla sua persona, ancora quando è stata abbastanza lontana da essere confusa con una passante occasionale o uno dei figli del signor Wei alla ricerca di qualche coniglio abilmente scappato dal suo recinto, e si rende conto di avere tutta la sua attenzione ancora prima di averla richiesta.

Non la ferma, questo.

-Fabbro, ho un lavoro da commissionarti.

Lui sorride, appena, non aspettandosi niente di meno da un cliente che arriva da lui con tanta sicurezza nei propri movimenti. C'è qualcosa nella sua espressione che alla ragazza sfugge, quasi una consapevolezza venuta da ipotesi formulate tempo addietro che, in quel momento, vengono attese proprio da lei; ma lei non conosce il suo nome, non sa di che monili splendidi sono state capaci le mani sapiente di altri Eater, altrimenti probabilmente avrebbe più sdegno che incomprensione tra i pensieri.

-Mi dica, signora. Sono a vostra disposizione.

Maka si guarda attorno, di sfuggita, vedendo con la coda dell'occhio il rosso del fuoco ardente dalla bocca del forno ancora acceso, l'incudine dove materiale ferroso e martello entrano in contatto nello schiocco sonoro di ogni colpo – e attrezzi, di molte forme, qualche ferro di cavallo e attrezzi contadini conosciuti contro la parete, appesi ed esposti con tanti chiodi. È una cosa veloce, per assicurarsi di essere giunta nel posto giusto e di non essersi lasciata semplicemente trasportare dai propri piedi.

Gli rivolge un'occhiata diretta.

-Voglio commissionarti la forgiatura di una spada.

Lui si irrigidisce, lo vede chiaramente, e lo stupore del momento lo blocca in un punto, seppur nella posa non abbia neanche l'intenzione di compiere un singolo gesto, che sia un passo o una martellata all'uncino che sta levigando. Lo ignora, forse attribuendo la reazione, per orgoglio e un poco di pregiudizio, alla curiosità ipotetica verso il vero committente della tale richiesta che no, non può essere sicuramente una gracile donna esile. Il tono di lui, quasi freddo, è un chiaro segnale che la porta a pensare davvero il peggio.

-Una spada, signora? Per quale motivo?

Ed è sempre per orgoglio che gli risponde quasi per ripicca alla sua domanda, senza pensare che un briciolo di gentilezza possa risolvere molte più faccende del previsto – ma d'altronde per lei è impensabile, non tanto per questione di carattere quanto piuttosto per la situazione e l'ansia che ancora le appesantisce lo stomaco, vivere qualcosa senza tensione per tutta quanta la propria persona.

Ha il mento alto e lo sguardo sicuro, troppo.

-Non è mio dovere dirtelo.

Il fabbro non esprime il proprio dissenso in un facile disprezzo, per quella ragazza impuntata che non sembra voler neanche capire le ragioni di un povero lavoratore, e Maka prova un primo moto di disagio quando quello sposta lo sguardo da lei e lo posa sul proprio lavoro interrotto. Il martello si alza ancora, il ferro rossissimo viene battuto più e più volte.

-Non costruisco armi, signora. Per nessuno.

Forse capisce che è tardi, per rimediare, ma rimane un tono accigliato quello che gli rivolge ancora, con qualcosa di profondamente vicino alla delusione nel petto e alla sicurezza del piano perfetto che si sgretola, definitivamente, quando è un passo quello che avvicina i due.

-Ti pagherò il doppio di quello che un'arma del genere costa!

Il fabbro non si sposta dalla propria posizione – si allontana ad un certo punto, andando a introdurre l'uncino ormai freddo di nuovo nel forno, prendendolo di lato con una morsa di metallo con un colore più scuro. Alle orecchie di lei, sembra addirittura disinteressato, e non sa se faccia più male il rifiuto o la poca considerazione che l'altro ha di lei, in quel preciso momento.

-Sarebbe inutile. Non ho mai forgiato attrezzi del genere, non saprei dar loro un valore appropriato. Mi dispiace, signora, ma non posso portare a termine la vostra commissione.

C'è l'odore del metallo che si cuoce, per Maka è nuovo e sente che gli pizzica il naso. Si addentra ancora di qualche passo dentro la fucina, scorge tra molte altre cose anche piccoli pugnali da caccia, oggetti vari che riconoscere per acconciare pelli e fermare capelli, pellicce e mantelli. Piccoli o grandi, gli oggetti si differenziano per una quantità ingente di forme disparate.

Gli è quasi dietro, e vede di nuovo la sorpresa nel balzo di lui quando torna a rivolgergli la parola.

-Potresti quantomeno provarci, no? Sei l'unico che potrebbe farlo, qui al villaggio.

Il fabbro la guarda, negli occhi accesi che sembrano essere infiammati come l'uncino che tiene nella morsa, tanto caldi da sembrare gialli, nella tonalità e nel colore. È tagliente quando le risponde.

-Non ho la tecnica né l'esperienza adatta. Se suo padre vuole giocare a fare il bravo soldato usi il forcone con cui smuove le balle di fieno, non oggetti così tanto cari alla nostra tradizione da guerrafondai.

L'umiliazione brucia dentro, con la stessa forza del fuoco: tacere tutto, dalla motivazione del piano al progetto della sua realizzazione ultima, blocca lei in un ostinato quanto contegnoso silenzio e lui nella vaga illusione di una vittoria totale. Tra il padre insultato e l'offesa alla Tradizione, Maka davvero non sa per cosa essere più offesa.

Ma prima di andarsene, la ragazza di prende la soddisfazione di sporcarsi la mano per un contatto ravvicinato, violento, con la faccia di lui.

 

La guancia non fa più male, ma l'impressione del dolore e delle cinque dita di lei è ancora più che presente, sul suo viso: pessima presentazione, pessima prima volta – Soul ha provato tanto fastidio verso qualcuno ben poche volte nella sua vita e mai in maniera così immediata, così di pancia.

La figlia del bottaio rientra nella categoria di gente con la boria sotto il naso e un'insensibilità tale da non essere avvicinata neanche per sbaglio, capitando per caso lungo la loro stessa strada. Non prende in considerazione che, forse, è l'irritazione del momento a fargli formulare pensieri simili, ma certo se ha accumulato stress nell'ultimo periodo, tra le richieste assurde di Lord Shinigami e la pretesa di quella di assecondare ancora una volta folli proposte, quello è stato il modo più efficace di scaricare almeno parte della tensione trattenuta.

Vede un bambino scappare dalla mano tesa della madre, seguendo le proprie stesse urla e rotolando quasi a terra quando un sasso gli fa prendere l'equilibrio. Gli si affianca, tranquillo, e lo prende da sotto le ascelle per sollevarlo; quello lo guarda strano, anche quando tenta di sorridere oltre lo sporco della sua faccia, ma non si ribella e non si agita nella sua presa, tanto che l'uomo riesce a riconsegnarlo alla madre preoccupata senza alcun problema. Viene ringraziato, con un inchino e una parola gentile, e può notare i due allontanarsi – la mano della donna si stringe di più, ed è evidente, perché il bimbo impiega pochi secondi per cominciare a lamentarsene. Ma quello deve sopportare.

Soul alza lo sguardo da terra, quando torna a camminare lungo la via, e nota le case e le botteghe che lo affiancano, da una parte all'altra, nel momento della giornata che sembra il più caotico e il più vivo, tra la porta della merceria aperta e la vecchia Long che spazza per l'ennesima volta l'esterno del portone della propria residenza, con uno strumento vecchio dai denti consumati. Ogni tanto c'è qualche donna che scivola lungo le pareti delle case, uomini più o meno adulti che portano sulle spalle sacchi di cibo o farina, dalla direzione del mulino alle case più disparate del piccolo villaggio. Il carretto del signor Pin passa con un rumore di zoccoli e di fango sollevato, tanto che Soul deve addossarsi al lato di una casa per non venir sporcato ulteriormente – guarda le lunghe assi di bambù che oscillano, metro dopo metro, seguendo il ritmo dell'asino che traina non senza una certa fatica, sempre in avanti, e la ragazzina non così pimpante che trotta dietro al tutto, ben attenta a non far cadere nulla a terra e, nel caso, raccoglierlo prontamente.

Death City è un posto tranquillo, nonostante tutto, dove la vita si allunga lenta come le zampe di un gatto sonnecchiante, dagli artigli sfoderati soltanto per convenienza e una mollezza in corpo da non far presagire niente di entusiasmante. Eppure è un cacciatore, nell'intimo, benché indolente.

Soul non crede così tanto nella volontà degli uomini da poter in qualche modo ammettere che possano, con il loro impegno, cambiare realmente le cose. La sfiducia viene portata dall'idea di morte che molti dei loro propositi conservano intrinsecamente, come se già la natura e il Cielo non provvedessero a dispensare punizioni e benedizioni per conto loro, in una crudeltà che può venire soltanto da qualcosa che umano non è. Quello che più avvizzisce il suo animo è la convinzione, fermamente radicata, che non ci sia ragione per valutare degno il sacrificio di qualcuno.

Per i pianti delle madri. Per il dolore dei padri. Per la solitudine degli amici.

Lui ha avuto tutto, per sé, ed è stato privato di quel tutto non tanto da un uomo – non più di quanto le mani bianchissime e voraci dei funzionari dell'Imperatore non abbiano toccato, con la stessa pochezza di grazia, un qualsiasi altro suo concittadino più ricco, con la scusa di una povertà generale sempre più palese – ma da qualcosa a cui non si può attribuire vera colpa, vera intenzione.

Non si consola con la concezione di un disegno inconcepibile per quelli come lui, perché la concretezza della sua fede arrivi a privarlo persino della più piccola speranza. Ma sa bene che non può arrendersi alla concezione di nulla che lo circonda: il concetto di continuare a vivere è, paradossalmente, più importante della vita stessa, privata così di ogni possibile consistenza. E Soul non ha intenzione di assecondare i capricci degli uomini che questa concezione della vita la disconoscono come poco onorevole, perché lui non necessita né di comprensione né tanto meno di appoggio pietoso, così come non lo concede agli altri. Lavora per quel bambino con le ginocchia sporche per la caduta, la madre che lo ha preso e stretto a sé, la figlia del signor Pin e la vecchia Long che necessita di nuove briglie per il suo cavallo vecchio: del resto gli interessa poco, solo il turbinio del vento che fa volare le foglie secche del tempo dell'aridità.

Ignora, quasi, il petalo rosa che gli balla vicino ai piedi, sospinto da un alito di brezza che dalla collina è sceso lungo il pendio morbido portando un poco di colore nel fango. Quando si muove, diretto verso l'osteria dove incontrerà alcuni amici e conoscenti, lo schiaccia col piede senza pensieri, senza neanche accorgersene.

Soul lascia dietro di sé solo l'impressione della fuliggine e della cenere, come il resto di un incendio ormai spento da tempo, senza vitalità alcuna, solo un odore di essiccato e di legno bruciato, nel grigio che non lascia spazio a niente.

Il ciclo di rinascita, che regola ogni stagione e modella le ere, le dinastie e ogni altra cosa sulla terra, nella sua persona ha concretizzato un piatto autunno.

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Capitolo 6
*** *Capitolo cinque ***


*Quinto capitolo

 

 

Il medico si sistema gli occhiali sul naso, in un gesto che Spirit non gli vede fare da parecchio tempo. Potrebbe sorridere per la cosa, pieno di una nostalgia antica, ma si trattiene al ricordo della spiegazione che l'altro ha dato a quello specifico movimento, una volta che si è deciso a chiederglielo: eccitazione, di qualsiasi natura.

Il signor Albarn è in quello stadio preciso in cui ha consapevolezza di non essere sobrio – lo deduce dal fatto che la bottiglia di alcool che ha tra le mani allunga il collo e lo restringe senza una spiegazione apparente – ma anche non del tutto brillo, incastrato nel mezzo delle due condizioni senza dolore alcuno, solo qualche risata di troppo e l'emotività alterata.

Troppi ricordi, troppe emozioni: la cicatrice di una guerra dimenticata spunta dal collo basso della veste del suo ospite e il suo sguardo scende, senza esprimere troppa meraviglia nel ricordarsi, anche se coperte dagli indumenti, ogni cicatrice del corpo martoriato dalle battaglie portata con orgoglio e con vanto. Ogni tanto si stupisce che Stein possegga ancora la forza di fare qualcosa come allungare la vita altrui, con la propria professione, e non abbia terrore di quella morte a cui è andato così vicino nel lago di sangue e di umori in cui l'ha visto più di una volta.

Pensa che gli sia dovuta una certa ammirazione, esattamente come gli sia dovuto il non doverlo palesare a nessun costo: quel ghigno sul suo viso, unico segno di una follia che mai si è allontanata da lui, inquieta più di una minaccia di morte e di tortura e lui non ha alcuna intenzione di nutrirlo, assieme all'ego spropositato che nasconde.

China il bordo della bottiglia che tiene ancora tra le dita verso il bicchierino piccolo che ha appoggiato sul tavolo, riempiendolo di liquore – riempie anche quello dell'altro quando l'uomo, senza alcuna parola, glielo porge. Non sono persone da bevute, ma l'occasione non ha potuto che farli stringere di nuovo attorno allo stesso tavolo, con la stessa agitazione in corpo.

Combatteranno ancora fianco a fianco, come già in passato è successo. Dentro, Spirit sa di essere rassicurato da questa cosa, ma non può che pensare che avrebbe preferito, con tutta l'onestà di cui è capace e che sente propria, non dover per forza arrivare a tanto per avere una simile compagnia. Lui e Stein hanno sempre avuto la medesima fede, per quanto professata in maniere diverse, e questo li ha resi più vicini di qualsiasi altra cosa, come uno stupido legame di sangue o altri sentimenti imbarazzanti.

Sfogano la paura così, bevendo la stessa cosa e condividendo la stessa aria. Perché quando Spirit alza gli occhi su di lui, lucido o non lucido, Stein risponde senza un ghigno o un sorriso, ma fermandosi per dedicarsi solo a lui – lo guarda come viene guardato: con la sicurezza di esserci.

Poi, la testa di Spirit cade di peso contro il legno duro del tavolo, e lì rimane.

 

*******

 

Quando si è ritrovata di nuovo in camera, da sola, senza neanche addosso la voglia di leggere uno dei suoi amatissimi libri, ha preso completa consapevolezza che quel fastidio non l'avrebbe lasciata mai in pace. Non crede sia un senso di colpa opprimente né qualcosa di vagamente simile, ma ha letto da qualche parte come la coscienza abbia mille e più modi di farsi presente all'animo delle persone e di sicuro uno è quello. Non è neanche una sensazione uguale a quella che l'ha spinta a trovare una soluzione per aiutare il padre, in qualsiasi modo, ma si mescola alla frustrazione che la porta a camminare senza una meta, a fissare il vuoto per svariati secondi prima che il pensiero le torni alla mente.

Passano giorni così, e poco importa delle domande di un padre sempre più preoccupato – che non è così insensibile da non poter intuire le ragioni di tutto quel malessere, senza però volerle davvero affrontare assieme a lei.

Donna: di sentimenti e di questioni amorose ne sa quanto tre uomini e più, così è sempre stato e così sempre sarà. Ma Maka non ha ancora imparato da nessuno come si gestisce la paura e la rassegnazione il dolore e il terrore, i desideri così prorompenti da diventare simili a incubi terribili, e nessuno pare così interessato a farlo, lasciandola sola con se stessa senza nessun vero appiglio. Forse è il risultato del rifiuto del genitore così a lungo perdurato, forse l'orgoglio ferito che non trova più ragione d'essere dopo una sconfitta tanto spiazzante.

È conscia di aver sbagliato tattica e questo la porta, seppur con una certa difficoltà, a pensare ad un'ulteriore prova e a calmare lo spirito infiammato alla ragione, al dialogo, visto alla fine come unica vera strada per arrivare alla meta conclusiva.

Con metà della convinzione addosso della prima volta, torna di nuovo dal fabbro, con l'intento di commissionargli di nuovo la forgiatura della spalla.

Se, quando l'ha incontrata allora, è stato inizialmente quantomeno sospetto, ora palesa senza rimorso alcuno un'espressione irritata e scocciata – e non ferma il proprio lavoro, come se niente sia più importante di quello. Il viso è nero, come sempre, e la lingua passa veloce sulle labbra secche, in un piccolo angolo di straordinario rosa.

-Mi sembrava di essere stato chiaro, l'altra volta.

Non alza la voce, non si agita – muove la punta del piede nella polvere, sporcandosi i sandali proprio al limite estremo. Lui non la guarda mentre parla, lei non fa molto per essere guardata, non per vergogna o per modestia, forse per una sorta di senso di colpa che si è ancorato dentro di lei e non la molla.

Una bambina, è ancora una bambina dentro.

-In effetti sì, lo sei stato.

-Allora perché siete tornata, signora? La mia risposta non è cambiata.

-Devo dirti la verità, fabbro. La spada che voglio commissionarti non è per mio padre.

-Per chi dovrebbe essere, allora?

-Per me.

Lei scorge il viso di lui alzarsi, allora con un gesto rapido volta il proprio e gli restituisce lo sguardo. Lo trova quasi irrisorio, incomprensibile, distante. Non sa come reagire allo scherno che ancora palesa, e il rumore secco e fastidioso dell'ennesima martellata non la aiuta molto a ragionare.

-Cosa può farsene una donna, di una spada?

-La stessa cosa che se ne fa un uomo.

-Non dica sciocchezze. Le donne non sono fatte per combattere.

-Le donne sono fatte per combattere come i fabbri sono fatti per forgiare spade.

Il fabbro si ferma definitivamente e abbandona i propri strumenti sulla grossa incudine su cui sta lavorando. Pulisce le proprie mani contro i fianchi e l'affronta davvero, senza scherno e senza sorriso in volto, perché la cosa è diventata abbastanza assurda da non poter essere ignorata – Maka ha mille parole tra le labbra, e potrebbe anche volerle dire, se solo non trovasse un uomo come tutti gli altri di fronte a lei. Lo sente come l'ha sentito la scorsa volta: ruvido e inavvicinabile.

-Signora, come ho già detto una volta non asseconderò il suo capriccio. Non credo che possa servire a qualcosa questa sua follia se non soddisfare la sua vanità.

-Non è vanità. Voglio seguire mio padre in guerra ed essergli utile in qualche modo. Non è vanità.

Lui sospira e non abbassa gli occhi, si guarda attorno per un attimo in ricerca, forse, di qualcosa con cui potersi distrarre. Non lo trova, e allora torna da lei. Parole che sembrano più pesanti del suo stesso martello contro le membra, serie come nessun'altra sentenza Maka ha sentito pronunciare da quella voce, le arrivano all'orecchio con una brutalità spiccia, che gli ricorda tanto la secchezza delle sentenze del grandi Filosofi, nella loro assolutezza immortale. Ha la stessa audacia, la stessa forza – ed è qualcosa di sbagliato a cui però non sa dare un nome preciso, lei lo sente fin troppo bene.

-Se vuole essere utile a suo padre, lo trattenga a sé senza farlo combattere. Morte e nascita sono cose che non possiamo né dobbiamo influire, perché non è il nostro compito.

-Credo che il senso della vita derivi dalla scelta consapevole di una morte determinata da noi, fabbro. Come puoi definirti vivo senza una convinzione?

Lo vede arrivarle vicino, in un cenno di contatto che due persone della loro età, del loro rango, non dovrebbero mai e poi mai permettersi, per il buon nome e il rispetto opinabile della morale. Maka non si sente in contraddizione a pensare a queste cose, lei che sfida apertamente il sistema a cui in quel momento si rifà, lei che si appella non alle regole del pudore ma alle regole del rispetto che ogni buon cittadino deve al superiore, e benché si stringa in se stessa per il disagio di averlo così vicino tanto da sentire l'odore suo, della pelle cotta delle spalle e delle braccia, lì rimane a ricevere l'ultimo impeto di rabbia che lui le rivolge, pur non urlando, pur non aggredendola.

-Come può definirsi viva con la morte nel cuore, signora?

Questa volta non parte uno schiaffo sonoro e neanche un piccolo singulto di fierezza: Maka ha gli occhi spalancati e non vede nient'altro che lui.

Non c'è più sbaglio, nelle sue parole, solo una schietta verità che lei ha sempre ignorato – per vanità, non altro che vanità. È così forte la vergogna d'essere esattamente ciò che lui le ha sempre attribuito che non riesce neanche più a parlare.

Corre via, appena l'altro ribadisce la propria posizione.

-Io non asseconderò alcun suo capriccio, si metta l'anima in pace.

 

Fuori piove, batte in gocce forti contro il suolo e lo rende molle, fangoso. Ogni tanto si sente il movimento lento del fiume, un'onda troppo energica per essere racchiusa negli argini rigidi che gli uomini hanno a lui impresso – ma non è niente che spaventi davvero l'animo, non come avrebbe fatto in altri tempi, e i contadini continuano come meglio possono il loro lavoro cercando di ignorare il disagio degli abiti incollati addosso e della visuale poco pulita, racchiusi quasi in una cappa fredda che sbiadisce ogni contorno, persino degli attrezzi che tengono tra le mani.

Soul è appoggiato allo spigolo del proprio tavolo con le braccia conserte al petto, lo sguardo stanco di chi ha giusto due minuti di tempo libero per svuotare la testa dal suono continuo del fuoco che arde e il martello che batte. Si obbliga a pensare alla cena di quella sera, agli ortaggi che gli sono rimasti nella dispensa e la carne essiccata che si è dimenticato di mangiare, assieme ai cereali e al formaggio, a pranzo.

Scorge tardi una chioma colorata tra le trame spesse della pioggia, tanto che quando si ricompone dalla propria posizione l'altro è già dentro la fucina, a scrollarsi le gocce d'acqua di dosso e strofinarsi i capelli con entrambe le mani.

È allegro come sempre, anche se fradicio – dal suo naso, cade un'ultima goccia che gli fa a finire dritta in bocca, per l'eccessivo suo entusiasmo.

-Ciao, amico!

-Ciao, Black*Star.

Lo saluta a suo modo, come tanto gli è mancato, e sente l'animo stranamente leggero nel riascoltare dopo tanto tempo – due mesi circa, ma Soul non ha mai badato a cose inutili come il tempo che passa – il timbro di una voce tanto cara.

-Sempre sporco e puzzolente come una capra, te!

Fa per avvicinarsi ma l'altro si scosta subito, mettendo le mani in avanti. Ride ancora, ma è evidente come si voglia dare un tono. Lo fa per scherzo, e Soul non crede accetterebbe di essere contraddetto.

-Non mi toccare! Non posso tornare da Tsubaki se mi riempio di fango!

-Tsubaki? Ora chiami la vedova Nakatsukasa per nome?

-Certamente! L'ho fatto fin da subito!

Fa più che mai ridere, convinto com'è di dover preservare una parvenza di rispettabilità che la sua persona, almeno all'apparenza, non ha mai davvero avuto. Soul sogghigna mentre quello va a sedersi sopra lo stesso tavolo a cui lui si è prima appoggiato, scansando oggetti e sedendosi su altri – una scena simile l'ha già vista, ma evita di farlo notare.

-Sapessi che fatica, seguirla nelle sue richieste. Non ho mai incontrato donna più esigente di quella.

Rende acuta la propria voce, scimmiottando evidentemente quella che dovrebbe essere una donna poco propensa alla comprensione; Soul può solo immaginare, in realtà, quanto paziente debba essere una tal figura per non averlo ancora buttato fuori di casa, tra l'insolenza che sa sua e il poco rispetto per l'etichetta, così che le parole dell'amico sono più comiche di quanto vogliano esserlo in origine.

-”Fai questo, fai quello, non si fa così, devi essere più paziente, devi farlo in un altro modo, stai attento a non distrarti”. Una vera lagna!

Sorride ancora quando lo raggiunge e gli si fa accanto. Si trattiene dallo scaricare tutta così la tensione delle spalle e l'irritazione che ha ancora addosso, e quindi decide di parlare, per sentirsi al contempo vicino a lui e condividere qualcosa di personale. Se non ci fosse Black*Star, probabilmente Soul non ricorderebbe più neanche il rumore della propria voce.

-Anche io ultimamente ho incontrato una donna esigente, di quelle che richiedono l'impossibile senza neanche rendersene conto.

-Chi?

-La figlia del bottaio, una ragazza giovane con due codini in testa che sembra quasi una ragazzina.

-Maka, dici? Tsubaki ne parla abbastanza spesso, sembra che sappiano entrambe leggere e si scambino i libri. Una cosa noiosissima, ho tentato anche io di sfogliare uno di quei cosi ma hanno un odore di muffa che è terrificante!

-Quindi è una ragazza istruita, anche...

C'è qualcosa di molto simile alla curiosità, nello sguardo dell'altro ragazzo, ed è così strano non vederlo così preso da se stesso che Soul si chiede quale magia sia accaduta perché, per soli cinque secondi, Black*Star non stia parlando della sua magnifica persona.

Tutto cambia, è evidente.

Sente dentro la necessità di un'ulteriore spiegazione – anche se non lo guarda, mentre seguita a parlare e a rispondere alle sue domande, come se fosse una cosa, d'altronde, di ben poco conto.

-Ha la pretesa di fare qualcosa che non le compete.

-Del tipo?

-L'altro giorno è venuta da me a chiedermi di fabbricarle una spada. Per partire per la guerra con suo padre, mi ha detto.

Lui ride subito, forte, tanto che non si capisce per cosa effettivamente lo faccia, se per la follia che sente condivisa o semplicemente la pazzia che ha preso una donna quando, inesperta, ha dovuto fare effettivamente i conti con qualcosa di tanto grande quanto la guerra. E Soul non si sente più il solo dalla parte del giusto, per una volta.

-Che idea strana!

-Già. L'ho mandata via senza pensarci troppo.

Ma la sensazione di piacevolezza si raffredda subito come il riso sul volto di Black*Star sparisce – e il fabbro sente anche una sorta di disagio ruvido, contro la pelle, a cui non riesce a dare precisamente un nome.

-Perché?

-Come perché? Già l'idea di una donna con una spada è ridicola, una donna armata in battaglia lo è ancora di più.

-Anche io andrò in guerra, Soul. Ho deciso di seguire Lord Shinigami una volta che avrò ottenuto la spada demoniaca da Tsubaki.

Non lo guarda ancora, Soul. Non lo guarda e sente un groppo salirgli dallo stomaco alla gola e poi tornare giù, con un dolore atroce. Non che non ci abbia pensato, ma ignorare la cosa è stato molto più facile del previsto, per lui, tra un forcone e una spranga da fare, così come una vaga speranza che la pazzia dell'altro non fosse tale da assecondare quell'ennesima prova.

Senso di abbandono, senso di impotenza, senso di sconforto: molte cose esprime con lo sguardo quando alza gli occhi al suo viso, e sa bene che l'altro non si lascerà impressionare da tutto quello – e non di meno, non può trattenersi dallo sbatterglielo in faccia.

-Tu sei folle, esattamente come tutti gli altri.

-No, Soul. Sei tu che non capisci. Per questo proprio non hai mai davvero capito niente!

-Dimmelo tu cosa non capisco, Black*Star!

Black*Star urla, livido di rabbia. Soul lo ha visto poche altre volte così adirato e non è stata un'esperienza per nulla piacevole, perché fa male al fegato e allo stomaco, rende la testa pesante e la lingua troppo veloce per essere controllata.

Quale sia la verità e la menzogna il fabbro non lo sa più, non lo capisce più; si lascia solo investire dalla sua forza come non ha mai permesso a nessuno, perché nessuno mai ha potuto provare, come l'altro, lo stesso terribile sconforto di essere soli al mondo senza avere proprio nulla.

-Ci sono mille modi di difendere i propri ideali, qualsiasi cosa essi siano! Pensi che si combatta per morire, Soul? Tu non hai armi in mano eppure non sei già morto dentro! Lo sei sempre stato! Non hai un motivo valido per continuare a vivere? Quella donna lo ha e questo la rende più forte di te!

Lo prende per il grembiule che indossa, impossibilitato a fare altrimenti, e se lo addossa contro per guardarlo, fin troppo vicino, negli occhi.

-Non pensi che qualcuno potrebbe avere ben altre prospettive che invecchiare come un cadavere vicino ad un fuoco per tutta la vita? Sei soltanto uno stronzo con la boria sotto il naso!

Il primo pugno che gli arriva è in faccia – il resto, raccontato soltanto dai lividi del corpo che spariscono troppo lentamente.

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Capitolo 7
*** *Capitolo sei ***


*Capitolo sei

 

 

Il labbro spaccato ormai non sanguina più ed è dimenticato ogni dolore fisico che lo ha accompagnato – brucia da qualche altra parte una ferita ben peggiore, in realtà, che ancora rende il giovane dolente e pieno di pensieri turbinosi.

Black*Star non può che nascondere tutto questo sentire nei muscoli tesi della propria mano quando, inginocchiato a terra, appoggia palmi e dita sulle ginocchia, in un inchino di riverenza che ha imparato soltanto negli ultimi tempi, come segno di profondo rispetto per qualcosa di inconcepibile in un periodo lontano non più di qualche mese prima, per lui, come la rispettabilità di una donna e del padrone, il significato che ogni rito porca seco, nel peso dei gesti ripetuti e conformati ad una tradizione non così priva di logica.

Tsubaki ha i capelli raccolti in alto, una tunica che non è da lutto, un trucco sobrio e l'aria d'importanza che si confà al suo ruolo di padrona. Si è chiusa nella camera grande della propria casa per un ben preciso scopo, in ricordo dell'esperienza che l'ha vista partecipe, nel tempo lontano precedente al suo matrimonio, quando è stata designata come prima erede donna della spada demoniaca.

Il vestito rosso dalle maniche larghe, chiaramente maschile, la segue in ogni movimento, specialmente quando estrae da una custodia rigida e scura, come uno scrigno decorato con particolari floreali degni di un'alta corte, il lungo oggetto che poi porge al giovane uomo.

-Black*Star, questa è per te.

Lui non l'afferra subito, mostrando brama incontenibile, ma lascia che lei sfoderi l'arma e la faccia ben vedere, sopra entrambe le loro teste, in ogni perfezione di cui è composta, dal manico saldo di cuoio alla lama sottilissima ma solida, compatta, liscia come poche altre. Le corna di un cervo si dilungano, come tema, lungo gran parte della sua superficie.

La donna, quindi, gliela consegna.

-Te la sei guadagnata. Ora è tua.

Black*Star la prende tra le mani come il tesoro che è – gli brillano gli occhi che ormai comprendono l'importanza e il giusto valore di ogni cosa.

-È splendida.

Lei sorride dolce alle sue parole, presa dal medesimo suo sentimento, perché non c'è niente di più meraviglioso che dare la propria eredità ad una persona tanto degna, per lei.

-Esattamente come la tua anima, Black*Star.

Il giovane la guarda, sinceramente coinvolto, e ascolta come ha imparato a fare le sue parole, consigliere e veritiere senza però conservare alcuna arroganza e alcuna boria. Tsubaki è la sola maestra, la sola donna, il solo essere umano, che lui abbia mai potuto accettare al proprio fianco, come guida di pari dignità.

-Sei pronto a impugnare la spada demoniaca dei Nakatsukasa e ad addossartene tutto il peso.

Black*Star si alza dal proprio posto, provando a sferzare il vento. Fa qualche passo, verso una finestra grande, e affonda l'arma nella carne di un nemico immaginario, mentre in lontananza il vento scuote le fronte verdissime dell'albero di pesco sopra la collina. Sente i passi di lei quando gli si affianca, in silenzio.

-Prometto di tornare, Tsubaki. Io tornerò qui, quando tutto sarà concluso.

Le sorride, quando la guarda, e se ha scorto un'antica rassegnazione nel suo sguardo, come se avesse consegnato un'infausta seppur magnifica sorte alla persona amata e rispettata, lo spazza via con la sua forza, con il suo sorriso, in virtù proprio di quel rispetto che si devono l'uno all'altra.

-Non sarebbe per niente degno dell'illustre sottoscritto lasciarti da sola, no?

 

*******

 

Il sentiero di ciottoli e terriccio che divide la collina in due, portando direttamente ai piedi del grande albero di pesco, è illuminato soltanto dalla luce fioca dell'ultimo sole oltre i monti lontani, i cui raggi si espandono nel cielo terso e già colorato di notte, con stelle e luna che si intravedono in lontananza, come in attesa ghiotta del proprio turno. C'è l'aria pulita, tipica del dopo pioggia, e l'odore dell'erba bagnata ovunque – non più fiori, ormai senza petali, e non più animali, rinchiusi in stalle distanti o in tane nascoste da pietre e terra solida.

Anche il corpo del fabbro è freddo, lontano dalla fucina ardente, e zoppica di poco quando la pendenza del colle lo obbliga a mettere tutto il proprio peso sul piede sinistro ancora dolorante per una lotta recente; si sposta in avanti con velocità, facendo un passo in più non calibrato per bene, ma riprende equilibrio subito e continua il proprio cammino. Quel posto, una volta, doveva far parte del giardino di una casa padronale.

Non ha più parlato con nessuno, da quel giorno, e la vergogna ha preso posto, per intensità e importanza, all'irritazione che ha rivolto al mondo intero senza addossarsi alcuna colpa. Ha capito tardi, in maniera piuttosto fisica, che qualsiasi pensiero ha il suo valore, ed è stata una lezione impartita da quell'amico che riteneva il più superficiale di tutti. Ha dovuto curarsi da solo le proprie ferite, per comprenderlo davvero, e riconoscere la viltà dello sdegno a lui rivolto dopo un litigio del genere.

Ma forse è orgoglio, forse è davvero imbarazzo: preferisce tenersi ogni cosa dentro, perché niente di troppo trapeli all'esterno. Dopotutto, lui non ha cambiato idea circa ciò che sente verso la catastrofe umana che sta per avverarsi, senza badare troppo ai suoi voleri di piccolo uomo: l'errore che ha commesso è più subdolo, quasi un dettaglio, e non varrebbe neanche la pena doverlo davvero affrontare.

È con aria stanca che arriva in cima alla collina, issandosi sulle proprie stesse gambe. Non ha bisogno di aguzzare la vista, però, perché scorge lei da lontano, e anche se non la distingue chiaramente di primo acchito dal resto lo sa già chi si ritroverà di fronte, continuando il cammino.

La figlia del bottaio non è più andata da lui – lo capisce bene, visto come l'ha trattata. Non ha saputo se desiderare di averla attorno oppure maledire la sua stessa esistenza, per lunghe ore solitarie ma poi, vedendo l'assenza della stessa materia di studio, ha rinunciato a porsi interrogativi inutili e fuorvianti. Neppure in quel momento preciso ne ha così tanta voglia, a dire il vero, e lascia che sia il vento a condurlo in avanti, spingendolo con spirali gentili ancora lungo il sentiero.

La trova appoggiata al tronco di schiena, in una posa molle, seduta sopra una delle grandi radici sporgenti del pesco ormai privo di fiori ma pieno di un verde smeraldo, oscurato ancora di più dalla sera. Sul grembo, appoggiato alla veste morbida, c'è un libretto piccolo e molto consumato.

Il suo sguardo, quando Soul decide di incrociarlo al proprio, non esprime né eccessiva meraviglia né una qualche sorta di disagio, ma sembra anzi, proprio come il suo animo, pieno di una mesta tranquillità che rende lenta ogni cosa, persino le parole che rotolano fuori dalle labbra.

-Come mai sei qui, fabbro?

Lui sorride e le si fa vicino, proprio dove la radice su cui lei è posata emerge dal terreno. La colpisce con la punta del piede, solo per gioco, solo per sfizio.

-Potrei chiederti la stessa cosa, signora.

Ha i capelli legati in una coda bassa, in una capigliatura che non le ha mai visto. Si dice che è quello a darle un'aria diversa dal solito anche se non sa spiegare bene cosa mai le ricordi ora.

-Capita ogni tanto che io venga a leggere su queste radici, quando devo far finta di allontanarmi da casa tanto da non essere più trovata da mio padre.

Maka, da canto suo, non saprebbe davvero spiegargli il perché di tanta calma. Se in un primo momento ha rifiutato con tutta se stessa le parole dell'altro, ripresasi dal momento e dalla furia che lui aveva palesato senza alcuno scrupolo e quindi riappriopratasi della propria indole e del proprio orgoglio, non è seguita alcuna follia aggiuntiva, alcuna crisi isterica che potesse ritenersi davvero tale, ma la consapevolezza schiacciante di un errore, l'ennesimo, che non si poteva davvero ignorare a quella maniera.

Ha ripreso a mangiare con suo padre, in quei giorni, a sorridergli e a parlargli come un tempo – lui ne è stato felice ed è stato sincero a farglielo capire, tanto da indurre il sospetto in lei su quanto sia facile, dopotutto, avere gentilezza solo per altra gentilezza. Più dei valori, più di concetti alti, sono gli esseri umani che necessitano di cure e attenzioni, e il fabbro glielo ha fatto capire molto bene.

Lui si guarda attorno, non per imbarazzo ma per mirare il paesaggio tranquillo, con i ciuffi di erba smossi da un vento colpevole, quasi malizioso. Al solo pensiero, l'uomo sorrise.

-È un bel posto dove poter stare in solitudine: si vede ogni cosa, da quassù.

Indica, con lo sguardo, tutto ciò che la vista ha di particolare, tra le prime luci artificiali delle case non troppo lontane e ciò che le circonda, nel verde e nella natura tutt'attorno, nei campi di riso coltivati e le stalle dal tetto di paglia.

-Le case che ci sono, le case che non ci sono più, il fiume che dorme nel suo letto, e il cielo sconfinato che sovrasta questa valle infinita, dall'inizio alla fine.

La guarda mentre si alza, con gesti lenti, e come lui anche lei guarda il medesimo paesaggio, mentre alcuni ciuffi chiari le scivolano davanti, proprio sopra la spalla.

-Ho perso mia madre, per colpa dell'ira del grande Fiume.

-Ho perso tutta la mia famiglia per lo stesso motivo.

Si guardano direttamente, per la prima volta. Nessuno dei due ha un'aria colpevole o rimasugli di un qualche senso di colpa di sorta, ma hanno sguardi limpidi e puri, di chi non ha fatto previsioni terribili sul proprio futuro. Dialogo e non battaglia: sono pronti, forse, a questo.

Il fabbro indica ciò che tiene tra le mani, e lei parla di qualcosa che sa a memoria, che non crea alcun disagio al suo animo – lui lo sa e per questo l'avvicina così, in maniera quasi impercettibile.

-Di cosa parlano i libri che normalmente leggi?

-Descrivono il caso e la storia, l'ordine predefinito di tutto il mondo di cui facciamo parte e le regole imprescindibili di questo. Sono le parole dei Maestri a insegnarci quale sia la via da seguire e come dover individuare il compito che ci è stato affidato dal cielo.

Ha la tentazione di aprirlo, dopo avergli mostrato la copertina, ma il dubbio che non sappia leggere la ferma nel mezzo e la riempie di premura poco adatta al momento, quasi di troppo. Soul le prende dalle mani l'oggetto e fa da sé, sorridendo mentre fa scorrere lo sguardo sui versi del sommo Sima Qian e sui suoi racconti di epoche andate, lontane. Maka lo guarda rapita, vedendo in lui la stessa meraviglia che sa di aver provato la prima volta che ha preso in mano quell'oggetto.

Non osa avvicinarsi di più, con il proprio corpo, perché sarebbe alquanto disdicevole: lo fa con l'anima, per quanto gli è permesso.

-Fabbro, io non voglio morire. Né su un campo di battaglia né rinchiusa tra le quattro mura della mia casa. Né mescolando il mio sangue con quello di altri uomini pazzi né tanto meno con le ossa secche di chi ha rinunciato al sole per qualcun altro!

Lui alza gli occhi dal testo, chiudendo le pagine del libro e dedicandosi a lei, soltanto a lei.

Ora capisce bene cosa la rende diversa, quella sera, e non è la pettinatura o il vestito, l'assenza usuale di trucco – ma qualcosa dentro che si palesa, nelle parole e nei gesti.

-Cosa vuoi fare allora, signora?

-Voglio continuare a vivere. Piena di me, di quello che mi circonda! Dell'amore di mio padre e dell'affetto dei miei amici e concittadini! Questo lo voglio e lo pretendo!

Iniziano a cantare le prime cicale, arrampicate sui rami del grande pesco.

Soul sorride mesto, ancora, e abbassa lo sguardo a terra per qualche istante. Non c'è più cattiveria nella curva delle sue labbra né commiserazione maligna di qualsivoglia specie, perché ora che lei ha perso la testardaggine cieca e infantile che l'ha sempre infastidito, si accorge persino che è una bella donna.

-Penso di invidiarti, signora. Io non ho mai trovato da nessuna parte una tale convinzione in qualcosa. Non so dove dirigermi né quale compito portare a termine: ha passato gli ultimi anni a modellare ferri di cavallo e uncini, spranghe di tutte le dimensioni e oggetti da lavoro contadino. Qualche pugnale, se sono fortunato.

-Pensi che questo ti abbia reso arido?

-No, ma mi ha aiutato a crogiolarmi nel mio stesso dolore.

Lei fa per dire qualcosa, ma si blocca con la bocca dischiusa, per un attimo – deve scuotere la testa, spazzare via l'indecisione di un momento, per parlare con franchezza e sincerità, pur senza eccedere come già ha fatto. Questa volta, è determinata a non fare alcun errore, cosa che non vuol dire rinunciare a se stessa, e lo sa bene, ma solo dire le cose giuste nel modo giusto, senza più alcuna paura.

-Il tuo non è un errore incomprensibile, fabbro. Il sentimento che hai provato era così grande da immobilizzarti e questo ti ha creato dei problemi. Io stessa l'ho fatto, ugualmente, presa così tanto dal mio desiderio di appagamento da dimenticarmi di tutto il resto.

Gli sorride, con le labbra morbide e calcia il ciuffo d'erba che le solletica le dita bianche dei piedi, dentro i sandali.

-Non sono cose che bisogna schiacciare dentro di noi, ma la maturità degli uomini si rivela nella gestione di ciò che provano, per apparire uomini perfetti e donne perfette.

Torna a rivolgersi al pesco, come se fosse stato lui a dirgli tutte le cose giuste, tutte le parole e i pensieri adatti – e forse è davvero così, nella calma possente della terra e la forza mai smorzata e dalle mille forme, dai mille giorni del legno. Quell'albero ha accompagnato tutti loro come un'ombra fedele, ed è giusto, anche per Maka, dargli il giusto riconoscimento.

-Il destino è uno, per tutti noi, e nessuno se lo può scegliere. Ma come questo si realizza lo decidono le nostre mani, i nostri cuori, le nostre anime.

Soul si gode il vento tra i capelli di lei e il silenzio che appesantisce le parole, prima di esordire con un commento che ritiene vagamente inutile ma serve per smorzare la tranquillità invadente che li ha presi.

-Tu sei saggia, padrona. E dici un sacco di cose giuste.

Lo interrompe, ma senza fretta o stizza.

-Mi chiamo Maka Albarn, fabbro.

-Io sono Soul Eater, signora.

Guarda anche lui l'albero, l'attenzione catturata dalle fronde verdi smosse dal vento e dal suono insistente di una cicala particolarmente innamorata o disperata, dipende dal punto di vista. Poi però, a differenza sua, lui torna a guardarla in volto – poco dopo lei lo imita, iniziando a guardarlo dal basso, come se fosse diverso in qualche modo.

Ed è così, anche se è passato solo un minuto.

-Maka Albarn, non ho cambiato idea sulla vanità delle persone e, specialmente, degli uomini che vanno in guerra. Uno dei grandi Filosofi la definì come male necessario, io credo sia qualcosa per cui nessun essere umano dovrebbe sentirsi orgoglioso di se stesso.

Si avvicina all'albero, invitandola con un gesto specifico a fare altrettanto. E come lui appoggia il palmo della mano sulla corteggia dura, spessa persino al tatto, anche lei lo fa, in un'empatia e in un contatto delle anime che diventa ormai fisico, concreto. Bastava sincerità, bastava il giusto profumo delle stagioni che cambiano, seppur lentamente, perché tutto fosse così perfetto dal principio.

-Ciò che rende sopportabile l'idea è che, in mezzo all'orda di tali bifolchi, ci siano persone come te, che arginano la stupidità umana e la indirizzano verso una precisa meta. Io non ho dimenticato l'arte di forgiare le armi, Maka Albarn. Ho imparato da mio padre e da mio fratello la tecnica, nei tempi che furono, ed è scolpita nella mia memoria come se fosse marchiata a fuoco.

La sua mano non la tocca come potrebbero fare le sue parole, ed è giustissimo così. Maka ha gli occhi ugualmente commossi, ugualmente presi, come se fosse stata guardata dentro – e non serve l'asservimento della totale comprensione e della totale devozione, perché non si comportano così neanche gli amanti più passionali: rispetto, sentimento, passione, sincera convinzione bastano a tutto, senza altri discorsi alti.

-Il mio non sarà l'invito ad un facile suicidio, Maka Albarn. Non è questa la mia intenzione. Quindi dimostrami qui e subito, ancora una volta, che non userai l'arma che io ti darò in mano per fare del male a te stessa.

Come se fosse stata punta da un insetto, Maka lo guarda dritto negli occhi e arretra di qualche passo, con velocità sorprendente. Ha i capelli sciolti e sa che sarà un problema, ma ha anche le guance rosse di chi sa di essere vista, analizzata, giudicata, non da una giuria piena di malizia ma grave del valore della prima rivelazione: nessuno ancora l'ha vista strapparsi di forza e di violenza la veste sulle gambe, per rendere liberi e svelti i passi; nessuno ancora l'ha vista acconciarsi le maniche a quella maniera, contro le spalle perché tutte le braccia si vedano, dalla punta delle unghie corte fino alle ascelle; nessuno ancora l'ha vista togliersi i sandali e muoversi come suo padre le ha insegnato, in tanti anni di giochi alla guerra, di incontri tra i manici di scopa e bacchette per il pranzo. Anche senza oggetti immaginari, ma in un ballo marziale elegante che non necessita di forza ma di precisione, di concentrazione che lei non si lascia sfuggire né dai muscoli né dal corpo, dal movimento veloce dei polsi e delle caviglie, dai balzi e dalle giravolte.

È un segreto che confesserebbe solo in rare occasioni, importanti come quella, perché la guerra non è arte che si confà a una fanciulla per bene, istruita e così carina, in età da marito. È un segreto che ha coltivato assieme al genitore sempre amorevole, così preso da felicità di averla da non accorgersi di nient'altro che lei, solo di lei, unicamente di lei. Come negarle una corsa a cavallo, allora, come l'imitazione del sapere che l'ha reso grande a suo tempo. Maka è cresciuta così, nel sapere completo e profondo di quella che è la sua cultura di sempre.

È qualcosa che sembra antico, l'arte dei viandanti dalle armi povere e leggere, senza alcuna bardatura – ed efficace esattamente come una lama tagliente, nessun dubbio a riguardo.

Atterra sulle punte dei piedi e si ferma ancora chinata in avanti, con le braccia chiuse in una posizione di guardia ferrea. Ha il fiatone, ma lo trattiene ancora al petto, e sul braccio sinistro scivola lenta la manica della vesta.

Soul si riprende dal suo incanto per andarle incontro, con un sorriso sicuro: sa cosa le serve per essere davvero perfetta.

-Maka Albarn, io costruirò per te l'arma adatta.

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Capitolo 8
*** *Capitolo sette ***


*Capitolo sette

 

 

Per chi non l'ha mai vista prima, casa Albarn conserva i segni di un passato diverso, nella quantità esigua di oggetti casalinghi che esulino da quelli prettamente indispensabili e l'insegna così simile e familiare, appesa nella sala grande dove si accolgono gli ospiti, che il padrone di casa mostra sempre con un certo orgoglio.

Gli ricorda, ma sa bene di essere un ignorante e basta, ciò che ha sempre visto nella dimora di Lord Shinigami.

Si rende conto che è una cosa ovvia quando altri dettagli gli tornano alla mente: Spirit Albarn, in un passato che non è così lontano, ha investito una carica illustre nello stesso ambito del Lord – militare, nell'esercito al servizio del sommo Imperatore – e questo spiega l'educazione della figlia e mille altre piccole cose. Ciò che basta, insomma, perché molti quesiti vengano taciuti una volta per tutte.

Il padrone di casa non lo accoglie con un sorriso pronto, per quanto il dovere del buon ospite lo obblighi ad accoglierlo in casa e a offrirgli il poco che la dispensa può offrirgli. Raccoglie del pane, un poco di formaggio e qualche frutto, perché altro non vuole sul serio consegnargli.

-Non ricordo di averti chiamato, fabbro.

Spirit continua a guardare con un sospetto il lungo oggetto che Soul porta con sé, avvolto da un panno ruvido. Non riesce ad attribuire una precisa natura a quello e tutte le possibili opzioni che gli vengono in mente non aiutano a diventare ben disposto nei confronti del giovane, per niente.

-Come mai sei qui?

-Sono qui per sua figlia, signor Albarn.

Soul non può neanche sospettare quali sentimenti Spirit provi, in quel momento, nella miriade di paura che si tramutano in realtà nel giro di qualche istante che lo rendono un padre nervoso, isterico, a tratti assurdamente folle. Perché, nella concezione di possessione non solo dell'altrui vita ma persino dell'altrui destino che molti padri hanno, seppur in buona fede e senza sentimenti turpi, Spirit non può concepire che ci sia qualcuno, su quella terra, che voglia portare via sua figlia e farla sua, come lui la sente propria.

Ha una smorfia terribile, quando si sporge sul tavolo, guardandolo da vicino per studiarlo, esaminarlo come un pezzo di carne in putrefazione.

-Sei qui per la sua mano?

Soul, per riflesso, si allontana da lui, non senza un certo disgusto, e gli restituisce la sensazione di schifo che ha nell'espressione.

-Non dica sciocchezze! Niente del genere!

-Cosa vuoi da lei, allora?

-Consegnare ciò che mi ha commissionato, signor Albarn.

Il fabbro porta la mano all'oggetto nel sacco di paglia ed estrae un lungo manico lucido, fatto probabilmente di pietra pura. La lama dell'arma non è decorata, arrotondata perfettamente e con la punta rivolta verso il basso, come in uno spicchio di luna, e da una sensazione di compattezza e di resistenza allo stesso tempo, come il vento che con eleganza e senza necessità di troppa forza sferza con decisione sconfinati cambi di grano e li piega al proprio volere.

Soul poggia l'oggetto sul tavolo.

-Questo.

E l'uomo abbandona il suo sguardo rabbioso, ferino, per tornare al sospetto iniziare e un'incomprensione totale che lo rende quasi estraneo alla situazione che sta vivendo.

-Cosa dovrebbe essere, questa falce?

Un brivido lo coglie quando, all'improvviso, fa la sua comparsa Maka, appoggiata ancora allo stipite della porta d'ingresso alla stanza. È sicura, nel tono, come lo è anche Soul.

-La mia arma, padre.

Spirit si volta piano, perché ancora il pensiero non arriva a concepire la presenza di lei in quel posto, figurarsi accettare la rivelazione che ha appena detto.

-Maka...

-Il fabbro ha eseguito un mio ordine, padre. Quella falce è l'arma che userò in guerra.

-Quale guerra?

-Quella che combatterò assieme a te.

Spirit non è stupido, non come crede di dare a vedere e spera di mostrare, con il comportamento poco degno per una persona della sua età e tutte le cose sbagliate che fa, consapevolmente. Non ha bisogno di ulteriori domande, di ulteriori conferme, non di mostrarsi incredulo oltre quel limite né di spingere la figlia a dirgli cose che già sa, dentro il cuore e dentro l'animo.

Non vuole pensare che sia naturale, quasi, per quella che è Maka, aver pensato a una soluzione del genere, ma metterla in pratica è quell'eventualità pessima che nessuna brava donna, nessuna brava figlia avrebbe mai preso in considerazione.

Non sa neppure perché si arrabbia così tanto, Spirit. Rompe il silenzio creatosi con un urlo alto, terribile, più animalesco che mai, e con quella follia che rende ciechi i padri delle figlie disonorate, delle mogli stuprate e delle sorelle violentate estrae d'impulso l'arma che sempre porta alla cintola – un lungo coltello da caccia sempre utile in tante, troppe occasioni.

Lo punta verso l'unica persona in quella stanza cui accetterebbe la morte, Soul, e si avventa su di lui con un tale impeto da non essere fermato neanche dal tavolo che divide i due uomini. Il fabbro si sposta per istinto, pur rimanendo colpito di striscio al fianco, e porta con sé nella fuga l'arma che le sue mani hanno forgiato. Così che, quando Spirit si rialza da terra e gli rivolge nuovamente la punta del coltello contro, Maka impugna la propria falce e lo affronta, non senza qualche insicurezza.

È terribile per lei guardarlo in volto, è terribile per lui dover mantenere l'intento rabbioso che lo ha dapprima mosso – perché se cede viene sconfitto, subito, e Spirit non può permetterselo così in fretta.

Nella situazione di stallo, le braccia tremano assieme alle armi, i piedi quasi cedono, e c'è un principio di supplica nella decisione che dipinge di nuovo colore lo sguardo della figlia. Questo lui lo nota, e fa male come mille pugnalate.

Urla ancora e si avventa su di lei, con il coltello puntato. Maka fa due soli movimenti, portando non la lama contro di lui ma prima il manico e poi il bordo innocuo della falce contro il suo braccio, disarmandolo sfruttando nel movimento la forza del suo stesso impeto. Ma Spirit non si ferma quando si schiaccia da sé contro la parete del muro, ormai disarmato, e corre, inciampa lungo il corridoio per andare fuori, nel cortile davanti alla loro casa.

Non piove e la notte ingloba per sé ogni rumore molesto – l'ombra di una signora anziana viene proiettata, allungata, sulle mattonelle rade del sentiero che divide a metà l'erbaccia, ma poi ogni cosa si placa.

Spiri piange, senza alcuna esitazione.

-Questo non è ciò che avrebbe voluto tua madre.

Maka lo ha raggiunto senza avere la falce in mano e si costringe a cacciare la pietà, ogni sentimento di compassione, perché non sarebbe giusto nei confronti di nessuno dei due. Ha superato la prova che suo padre l'ha obbligata ad affrontare, e ancora col cuore dolorante non può che essere forte per tutt'e due, almeno una volta nella sua vita.

-È vero, non è quello che avrebbe voluto lei. Ma è quello che voglio io.

-Io non posso e tu non devi.

-Padre, è esattamente il contrario: tu devi e io posso.

Un passo, verso di lui – il tentativo mai portato a termine di una mano sulla sua spalla.

Non importa neanche Soul dentro casa, che aspetta paziente il loro ritorno – assistere a una scena del genere, così intima e loro, sarebbe stata davvero una colpa terribile.

-Padre, papà. Sono sempre Maka. Sono sempre tua figlia.

La giovane appoggia la fronte sulla sua schiena, e il peso di quella vita piena, grave, assoluta, si concentra tutto sul corpo e sullo spirito di lui. Non l'ha mai sentita così viva.

Lei lo accompagna nel suo pianto, alla fine.

-Permettimi di starti accanto sempre, anche nei tuoi ideali. Permettimi di starti accanto come fa una donna con un uomo e come una figlia con il proprio padre.

 

Maka fa una smorfia di fastidio e alza di poco il sedere, cercando in un movimento leggero una posizione più comoda sul proprio cavallo. Black*Star la vede e la prende in giro, lei che così chiaramente non ha mai montano su una sella ma solo a pelo, una di quelle maledette bestie. Lei gli risponde con una boccaccia e l'altro si allontana ancora ridendo, mentre il suo destriero muove la coda lunga e nera e sbuffa, confondendosi con altri animali della truppa in partenza.

Maka sospira, un poco affranta. È scomoda l'armatura che indossa, stretta peggio di una veste femminile di quelle pudiche, e pesa sulle gambe e sulle spalle. Probabilmente Spirit ha pensato bene, spinto da un'esaltazione strana dettata dal momento e dalla situazione, che una vecchia quanto gloriosa divisa d'altri tempi avrebbe investito di sfarzo e gloria la figlia.

Ma non era servito il suo strano elmo, le strane spalline e gli stivali alti, perché Lord Shinigami guardasse male i due Albarn, chiedendo apertamente cosa ci facesse una donna tra le file del suo esercito. Spirit aveva risposto per lei e per se stesso, a quel punto, pieno di nuovo orgoglio e di forza.

-Combatterà con noi, come solo lei è capace di fare!

Lord Shinigami li aveva guardati, prima lui e poi lei, poi aveva sentito ridere il figlio e si era voltato a guardare anche lui. Non era scherno, quello che stava esprimendo, ma divertimento per una situazione strana e imprevista – accettabile, dopo tutto, perché grande è l'onore e rispetto della famiglia Albarn. E anche al signore era bastato quello.

Spinge il cavallo in avanti, per tornare a suo padre. Ma dopo pochi metri vede i soldati aprirsi, stranamente, e qualcuno avanzare.

Una testa biancastra, lavata e quasi profumata, un viso lindo e il sorriso conosciuto di un uomo: Maka gli risponde e si avvicina a lui.

-Signor fabbro, ancora sulla mia strada.

Le sorride, guardandola con addosso il miglior completo dei due che possiede e che non indossava da mesi e mesi, dal fidanzamento di suo fratello maggiore.

-Non posso fare altrimenti, mia padrona. Lei è una donna speciale.

Vede Black*Star, immerso dalla folla, ed è solo il suo sguardo prima e il suo sorriso poi che lo ferma, obbligandolo a rispondere all'amico quantomeno con un gesto della mano. Un altro peso viene levato dal cuore – poi torna da lei.

-È l'unica che è riuscita a piegare la mia volontà.

Sorride con dolcezza, con un viso sgombro da ogni ciuffo molesto.

-Soul, io ancora non ti ho ringraziato come si deve per quello che hai fatto per me.

-Non è necessario, Maka. Tu hai fatto qualcosa di altrettanto importante.

Non è una frase ad effetto, così come la supponenza di una maggior magnificenza mostrata solo per vanità. Fa bene allo spirito, a entrambe le loro anime, sentirsi tanto affini.

Lui si avvicina ancora a lei, persino sentendo vigili e puntatigli contro gli occhi del signor Albarn, ma si limita a toccare la federa della sua imponente arma e ad assumere uno sguardo serio, per qualche istante,

-Io sarò qui, con te, ovunque tu andrai e ovunque tu sarai. Trattami bene, padrona, mi raccomando.

Il sorriso di lei quasi si fa ilare, in uno scoppio di risa fuori luogo, ma perché la mancanza di una risposta evidente riempie quasi di disagio quell'affermazione, tanto che a Soul basta guardarla negli occhi per capire di dover dire qualcosa in più.

-Un vero uomo non abbandonerebbe mai una donna in difficoltà.

Ride piano, ride anche lui – ma ci credono entrambi.

Ed è l'ultima cosa che Maka gli dice, quel giorno.

-Grazie, Soul...

 

*******

 

Piedi nudi contro un pavimento freddo lucido di pietra – l'Imperatore alza le braccia, come se dovesse cercare un qualcosa che gli è stato tolto senza ragione, o si dovesse arrampicare sul soffitto e lì appendersi, e guarda in alto con la vista sbiadita di una presenza labile, tra tutte quelle vesti colorate che gli appesantiscono completamente la vista e quell'oro sempre presente che uniforma ogni possibile orizzonte, entro il palazzo di cui è Signore.

È il rumore delle voci che ha ancora nelle orecchie a farlo vacillare, quando le dita sono l'unico sostegno per il passo e il movimento è già in atto, in avanti, e il busto piegato che dà un senso di precarietà poco elegante, la corona brillante del capo che quasi sfugge al controllo, tra capelli chiari legati stretti da un laccio e da un fermaglio ben saldo: la gentilezza di sua madre e del suo sorriso da serpe pesano come un'incudine su doveri e affetti, su una volontà poco esplicita che si conforma a voleri altrui.

Chrona non cade e lascia cadere la corona sul pavimento, che produce un suono freddo di rimbalzo, nell'eco che si irradia e rimbalza contro tutte le pareti della stanza; si sveglia dalla sonnolenza auto-indotta e si accorge di essere ancora lì, tra drappi rossi e preziosi e un odore di chiuso che comincia, pian piano, a farlo ammuffire.

Lo scettro dell'Imperatore, come i battenti della porta che lo isolano da tutto il resto, non è altro che un oggetto scintillante, fatto di poca anima e di solido materiale, come una pietra grezza e davvero poco, poco umana. Non ci sono finestre, nella sala, ma luci riflesse di fonti lontane che alterano ogni possibile natura e la storpiano, la modificano fino a farla diventare una carezza fredda e insensibile. Se non fosse che non ne ha mai compreso e considerato le fattezze specifiche, Chrona potrebbe persino dubitare che quella non sia affatto la realtà, ma un fantoccio che qualcuno gli ha propinato come abbellimento, come spauracchio di problemi veri e tematiche per cui darsi noia la notte.

Quello che però ruba il sonno dell'Imperatore è un alito venuto da lontano, nel tedio agonizzante che si allunga per ogni singola giornata della sua esistenza attraverso i passi silenziosi di sua madre e il sorriso lungo che raramente gli capita in viso, quando non è lui a guardarla.

Chrona guarda in avanti, anche in quel momento, immaginando invece che drappo rosso che gli fa da tappeto sottile di seta il paesaggio verdeggiante delle pianure del suo impero. Se c'è angoscia, come per ogni altra cosa, la ragione risiede soltanto lì, e sperare forse che gli venga suggerita una risposta all'inadeguatezza che si sente addosso, come persona, è poco divino ma molto umano.

Ha anche imparato a sentire la presenza materna, prima che questa si palesi di propria iniziativa – si riappropria di un poco di contegno e della corona in testa, prima di guardare il sorriso ferino di Medusa nascosto da un trucco di bianco e vesti magnifiche di potere, lucide come il pavimento che sente gelato.

-Mio splendido Imperatore, i tuoi generali ti aspettano per la guerra.










 

 

 

*Epilogo

 

 

Un sospiro dopo l’altro,

Mulan sta tessendo davanti all’uscio.

Non si sente il rumore della spoletta,

solamente i sospiri della ragazza

Le chiedi: «Cosa pensi?».

Le chiedi: «Di cosa hai nostalgia?».

«Non penso a niente,

non ho nostalgia di nulla.

La notte scorsa ho visto le insegne,

il Khan sta arruolando una grande forza,

la lista dei soldati occupa una dozzina di rotoli,

e in ognuno è il nome di mio padre.

Non c’è un figlio adulto per lui,

Mulan non ha un fratello più grande.

Andrò a comprare un cavallo e una sella

per combattere al posto di mio padre.»

Al mercato dell’est comprò un eccellente destriero,

al mercato dell’ovest comprò una sella completa,

al mercato del sud comprò le briglie,

al mercato del nord comprò una lunga frusta.

All’alba salutò i genitori,

all’imbrunire si accampò vicino al fiume Giallo.

Non ascoltava più la voce chiamante di suo padre e sua madre,

sentiva solo l’acqua fluente del fiume.

All’alba abbandonò il fiume Giallo,

al crepuscolo riposò sulle Montagne Nere.

Non ascoltava più la voce chiamante di suo padre e sua madre,

sentiva solo il fragore dei cavalieri nemici sulle Montagne Yan

Le truppe in guerra percorsero grandi distanze,

attraversarono passaggi di montagna come se stessero volando.

Le raffiche della tramontana portavano il segnale dell’ora fatto dalle sentinelle notturne,

alla luce della luna brillavano le armature.

Generali morirono in tante battaglie,

guerrieri coraggiosi fecero ritorno a casa dopo dieci anni.

Al loro ritorno furono ricevuti dal Figlio del Cielo

che sedeva nella sala degli splendori.

Si concessero dodici promozioni,

grandi ricompense si assegnarono a migliaia di uomini valorosi.

Il Khan chiese a Mulan cosa desiderasse.

«Non ho bisogno di un incarico di governo,

desidero una bestia per cavalcare leggermente

e tornare finalmente al mio villaggio.»

Quando i genitori udirono la figlia ritornare

uscirono ad accoglierla fuori delle mura del villaggio appoggiandosi fra di loro.

Quando la sorella maggiore la sentì avvicinarsi

si truccò di rosso e l’aspettò davanti alla porta.

Quando il fratello minore la sentì avvicinarsi

affilò il coltello per uccidere maiali e capre.

«Apro la porta della mia camera orientale,

siedo sul mio letto nella camera occidentale.

Mi tolgo l’armatura che portavo in battaglia

e mi metto i vestiti del tempo passato.»

Vicino alla finestra si accomodò i capelli,

davanti allo specchio si adornò con un impasto di fiori gialli.

Lei uscì fuori della porta e vide i suoi camerati

che rimasero tutti stupiti e perplessi:

«Dodici anni siamo stati insieme nell’esercito

e nessuno sapeva che Mulan fosse una ragazza.»

«Le zampe del coniglio maschio saltellano su e giù,

mentre il coniglio femmina ha occhi confusi e sconcertati.

Quando due conigli corrono lungo la terra,

come puoi capire se io sono maschio o femmina?»


 

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