Se un mattino d'estate un truffatore

di margheritanikolaevna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Se un mattino d'estate un truffatore ***
Capitolo 2: *** In una città straniera ***
Capitolo 3: *** Levando gli occhi al cielo, dove l'aria diventa polvere e lingue di fuoco ***
Capitolo 4: *** Guarda la Morte ghignare tra nastri di fumo sfilacciati ***
Capitolo 5: *** In una rete di linee che si intersecano ***
Capitolo 6: *** In una rete di linee che si allacciano ***
Capitolo 7: *** "E' ancora possibile una speranza?" grida il suo cuore smarrito. ***



Capitolo 1
*** Se un mattino d'estate un truffatore ***


                       

 

 

Come vedrete, la struttura di questo racconto cita quella del celebre romanzo di Italo Calvino “Se una notte d’inverno un viaggiatore”: infatti, i titoli dei capitoli e l’ultima frase, aggiuntiva, compongono il potenziale incipit di un altro racconto.

La frase “Bisogna sempre giocare onestamente quando si hanno le carte vincenti” è una citazione di Oscar Wilde.

Per alcune idee sono debitrice alla bellissima fic di LubyLover su CSI NY dal titolo “September Morn” di cui vi lascio qui di seguito il link.

 http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1516175&i=1

Dateci un’occhiata, perché merita davvero.

Grazie in anticipo a chi leggerà e lascerà un suo parere. Infine, un doveroso ringraziamento a Night Sins per i preziosi consigli.

 

Se un mattino d’estate un truffatore

 

 

«Bisogna sempre giocare onestamente quando si hanno le carte vincenti» mormorò Neal Caffrey, tirando fuori le banconote e allungandole con un sorriso alla signora di mezza età che sedeva, ancora tutta assonnata, nella biglietteria della Galerie St. Etienne; guardò di sfuggita l’orologio e poi levò gli occhi oltre l’ampia vetrata inondata del sole del primo mattino.

Fuori, un vento leggero proveniente dall’Oceano scompigliava i capelli dei passanti indaffarati e faceva fremere le cime degli alberi;  il truffatore si sorprese a pensare che sì, in giornate come quella persino New York riusciva a sembrare affascinante.

Già, sebbene fosse arrivato lì da alcuni mesi, la città che non dorme mai non aveva ancora conquistato il suo cuore: a uno che, come lui, amava godersi la vita e le cose belle - possibilmente con calma - quel posto appariva come un’accozzaglia confusionaria di vecchio e nuovo, allineati e intrecciati senza alcuna grazia, in cui la gente si affannava ogni giorno per raggiungere obiettivi impossibili, o inutili, e ignorandosi reciprocamente.

Una città dalle mille facce, ma senza un vero volto.

Una selva di grattacieli costruiti non per il bene pubblico, bensì grazie al denaro, all’iniziativa a volte spregiudicata e al potere dei singoli.

Sovente gli era capitato di ritrovarsi a pensare che in luoghi come quello gli uomini erano solo microscopiche rotelle strette in un ingranaggio che nessuno di loro aveva contribuito a creare, che si agitavano, ossessionati dal desiderio di conquistare mete che lui giudicava puerili, dedicando tanta energia al futuro da dimenticare di vivere bene il presente e non riuscendo, così, a godere né del presente né del futuro.

Vivendo come se non dovessero morire mai e morendo come se non avessero mai vissuto (1).

No, per sé desiderava un’esistenza diversa, libera dai condizionamenti, in cui poter godere di ogni singolo momento e dedicarsi ad assaporare il piacere e la bellezza; tuttavia, sapeva bene che la sua personale ricerca della felicità non poteva prescindere dal denaro, almeno in quel particolare momento della sua vita, e da questo punto di vista doveva ammettere che New York City era un posto assolutamente ideale per condurre i propri affari.

Pertanto, fino a che non fosse riuscito a mettere insieme abbastanza per ritirarsi in un  pittoresco paesino della campagna francese o italiana, meglio sforzarsi di sopportare lo smog, il caos e la gente perennemente frettolosa.

C’era anche da dire che talvolta la metropoli gli riservava piacevoli sorprese, svelandogli il suo lato luminoso, vivo e ricco di suggestioni: quella tiepida mattina di settembre, infatti, Neal Caffrey si apprestava a prendere parte all’inaugurazione della mostra organizzata dalla galleria di West Midtown per celebrare il grande pittore austriaco Gustav Klimt, dove sarebbero state esposte insieme - per la prima volta dopo decenni - due famose tele che l’artista dedicò al tema della speranza.

In particolare, avrebbe potuto ammirare Speranza n. 1, la più antica delle due versioni: il giovane richiamò alla mente ciò che aveva scrupolosamente studiato il giorno prima - giacché lui era un professionista e sapeva che ogni tipo di lavoro deve essere fatto al meglio -  ricordando come avesse letto che il quadro, dopo essere finito nelle grinfie dei nazisti e ritenuto per decenni distrutto nell’incendio del castello di Immerdorf (2), fosse stato ritrovato per caso l’anno prima nei sotterranei del museo nazionale di Ottawa. Da allora, quella era la prima volta che il dipinto lasciava il suolo canadese per ricongiungersi alla sua seconda versione, che invece era da tempo esposta al MOMA(3).

Neal attraversò a passi lenti l’ampia sala guardandosi intorno con aria solo apparentemente oziosa: nonostante l’arte fosse una delle sue passioni più accese, infatti, non doveva dimenticare il motivo per il quale era arrivato lì a quell’ora insolita, troppo in anticipo per la conferenza di apertura della mostra e quando era certo che in giro non vi sarebbe stato quasi nessuno.

Il committente che l’aveva assoldato era stato chiaro, anzi più che chiaro: Speranza n.1 doveva essere suo e il giovane aveva assoluto bisogno che quel riccone senza scrupoli, ma appassionato di Art Nouveau come pochi al mondo, si convincesse che scegliere lui era stata a cosa migliore da fare, giacché solo in quel modo sarebbe diventato la sua personale gallina dalle uova d’oro.

Come aveva immaginato, infatti, il locale era pressoché deserto e per il truffatore non fu difficile compiere una rapida, ma precisa, ricognizione dei sistemi di allarme e delle possibili vie di fuga: non che il colpo presentasse difficoltà insormontabili per uno come lui - intendiamoci - però Neal sapeva che a volte una minima disattenzione, una leggerezza, un dettaglio apparentemente trascurabile potevano far fallire anche il piano meglio congegnato. E lui non aveva nessuna voglia di finire in prigione; no, decisamente quello non l’avrebbe sopportato.

Preso da queste considerazioni, il ragazzo giunse davanti alla parete dove erano esposte, una accanto all’altra, le due tele e l’ispezionò velocemente con lo sguardo: perfetto, pensò, c’era solo una telecamera a circuito chiuso orientata esattamente sui quadri e non sull’uscita. Le opere non erano protette da cristalli speciali e, avvicinatosi fin quasi a sfiorare la tela, notò che non era stato sistemato neppure un rilevatore di prossimità collegato a un allarme sonoro.

Sorrise leggermente, considerando che il lavoro sarebbe stato anche più facile di quanto avesse immaginato all’inizio, e per la prima volta quella mattina cominciò a rilassarsi: sospirò e si allontanò di qualche passo per poter finalmente ammirare l’opera che avrebbe rubato.

Perché era lavoro, certo, ma anche piacere per uno che come lui si piccava di essere un artista.

Inclinò appena il capo e socchiuse le palpebre: ecco, senza dubbio ancora una volta doveva constatare che l’arte dei primi del Novecento non era in cima alle sue preferenze estetiche. Le figure di Klimt non avevano né la tranquilla, malinconica, dolcezza dei paesaggi del suo amato Monet e neppure il vigore plastico, virile, del San Giorgio e il drago di Raffaello: erano esangui, livide, come malate.

E questa  Speranza, poi… cosa poteva avere a che fare con la speranza quella giovane donna pallida, dal viso ossuto e dalle labbra serrate? In lei - gli zigomi sporgenti, gli occhi cerchiati, il seno cadente, i glutei quasi scavati, il ventre sproporzionatamente prominente, come estraneo rispetto al resto del corpo - non vi era nulla della tradizionale idea di maternità. Non un corpo morbido, accogliente, opulento, nessuna poetica esaltazione della carne femminile come soffice terra dell’attesa e del miracolo della vita.

Le braccia magre raccolte sul seno, le mani intrecciate in un gesto di difesa e non già, come di solito, in una carezza spontanea al nascituro… e il suo sguardo, che pareva rivolgersi esattamente verso l’osservatore trafiggendolo con un gelido dardo ceruleo, carico di interrogativi senza risposta.

Una maternità che non conosce dolcezza - pensò il giovane truffatore - ma è attraversata da un senso palpabile di inquietudine.  Sensualità e tormento fuse in arte.

Il suo sguardo si spostò poi sulle figure mostruose che incombevano sulla donna, demoni grotteschi e insieme ieratici, e sulla creatura nera che le serrava in un laccio le caviglie, protendendo verso il suo grembo sporgente un’orribile zampa artigliata: ombre e minacce misteriose che attendevano il bambino? Era quello il senso? La felicità dell’uomo è sempre in pericolo, la speranza combatte quotidianamente una battaglia difficile, che forse è destinata a perdere.

A Neal sfuggì un sospiro triste: l’immagine gli aveva lasciato dentro una sensazione ambigua, sibillina, eppure densa, che lo induceva a interrogarsi sull’umanità e la sua sorte. La maternità dovrebbe essere in sé foriera di speranza, eppure come può un sentimento del genere nascere contemplando questa creatura pallida, scarna, dal volto irregolare e dallo sguardo tormentato, come oppressa da tragici presentimenti di sventura?

«Inquietante, eh?» sibilò una voce al suo orecchio, come se gli avesse letto nel pensiero, cogliendolo di sorpresa e facendolo quasi sobbalzare.

Era talmente assorto nei propri pensieri da non essersi accorto che, nel frattempo, una vecchietta canuta gli si era avvicinata e stava fissando il quadro proprio come lui; Neal non aveva voglia di chiacchierare e, tra l’altro, non doveva dimenticare di trovarsi lì per lavoro, quindi si voltò e rispose semplicemente con un cenno del capo, sperando che ciò la scoraggiasse e la convincesse ad allontanarsi.

Ma lei - almeno ottant’anni, un volto ricamato da rughe profonde e occhi grigi, mobilissimi, e scintillanti d’intelligenza - aveva un programma diverso, perché per tutta risposta prese sotto braccio il ragazzo e disse: «Scommetto, giovanotto, che lei sta pensando che il titolo non c’entra niente con l’opera e che nulla, in questo quadro, fa pensare alla speranza, non è così?».

La sua voce conservava un accento straniero, quasi impercettibile, che il ragazzo non riuscì a identificare ed era sottile, a volte persino tremula, in contrasto con l’aria allegra del viso e la forza con cui gli aveva artigliato il braccio, impedendogli di sottrarsi alla conversazione.

«Eppure» proseguì, senza alcuna intenzione di lasciarlo andare «deve sapere che per me e la mia famiglia è stato veramente un simbolo di speranza…».

Neal non voleva mostrarsi scortese, non con una vecchietta, e quindi suo malgrado tirò fuori un sorrisetto di circostanza e si rassegnò ad ascoltare il racconto che lei, a tutta evidenza, moriva dalla voglia di fargli.

«Lei è talmente giovane e non può conoscere la storia di questo dipinto: essa è intrecciata a quella della mia famiglia e del mio popolo» aggiunse con un’improvvisa nota di tristezza nella voce «Fu grazie a Speranza n. 1 che mio padre, ricco industriale ebreo appassionato d’arte, riuscì a corrompere un ufficiale delle SS barattando il quadro con la salvezza mia, di mia madre e di mio fratello, che all’epoca era solo un bambino. Così scampammo alla deportazione, espatriammo prima in Francia e alla fine venimmo qui, in America; mio padre fu, invece, costretto a rimanere a Vienna come garanzia dell’autenticità del dipinto e morì qualche anno dopo a Mauthausen, mentre del quadro si persero le tracce».

«Lui non ce la fece» disse, mentre un velo umido le appannava d’improvviso lo sguardo «e io e mia madre ci ritrovammo da sole in un paese sconosciuto, eppure questo quadro per noi volle dire la salvezza. Una nuova speranza, la speranza di una nuova vita.

Non ho mai più trovato il coraggio di mettere piede in Europa, anche se so che questa non è casa mia e non lo diventerà, nemmeno quando sarà la mia tomba».

Si passò sul volto una mano coperta di macchie scure, sorrise appena e strizzò l’occhio al ragazzo, che nel frattempo si era inconsapevolmente chinato verso di lei per non perdere nemmeno una delle sue parole.

«Voi siete così… così americani!» ridacchiò.

Poi, cambiando ancora una volta tono e tornando a osservare il quadro, concluse: «Perciò non potevo perdere l’occasione di vederlo ancora una volta prima di morire».

 

 

***

 

Neal Caffrey percorse di nuovo con lo sguardo l’ampia sala lastricata di marmo chiaro, considerando che adesso stava iniziando a riempirsi e che trattenersi oltre sarebbe stato inutile, oltre che potenzialmente rischioso; in fondo si era già attardato troppo per un semplice sopralluogo e sapeva che così sarebbero aumentate anche le possibilità che qualcuno potesse, in seguito, riconoscerlo e associarlo al furto.

Tuttavia, non riusciva ancora ad andarsene, né a staccare lo sguardo dagli occhi azzurri della Speranza n.1: era un professionista - o almeno si era sempre considerato tale - ma nonostante ciò doveva ammettere che il racconto che aveva ascoltato quella mattina l’aveva turbato, più di quanto potesse permettersi date le circostanze.

Speranza, destino, casualità: pensieri disordinati gli turbinavano nella mente, quasi cercassero di sfuggire alle grinfie del mostro nero del quadro, in tal modo impedendogli di concentrarsi come avrebbe dovuto.

Guardò distrattamente l’orologio: era ancora presto, mancavano dieci minuti alle nove e magari poteva restare lì dentro un altro po’…

Ciò che il truffatore non avrebbe in alcun modo potuto prevedere, né tanto meno immaginare, fu che in quell’istante un grido, proveniente dal bar dove erano situati i due televisori che aveva notato entrando, lacerò il silenzio ovattato della galleria; subito dopo i cellulari di alcuni visitatori iniziarono a trillare disperatamente e tutti i presenti, come spinti dalla stessa forza invisibile, si affrettarono verso il punto ristoro.

Una brunetta molto carina che aveva adocchiato al momento di fare il biglietto e che aveva tutta l’aria di essere una delle galleriste nella foga quasi gli andò a sbattere addosso; non si scusò nemmeno e mentre gli passò accanto il giovane lesse nei suoi chiari occhi celesti la medesima inquietudine che gravava sul volto della fanciulla di Klimt.

Fu solo un istante e Neal dimenticò la sua faccia quasi subito, mentre il ricordo del suo sguardo continuò ad attraversarlo tutto, come una lama gelata, ancora per molti anni dopo quella mattina di settembre.

Senza ancora aver capito, un’improvvisa scarica di adrenalina lo scosse, mentre le luci oscillavano per un istante e un brusio metallico lo avvisava che anche la telecamera di sorveglianza era andata momentaneamente in corto: la fortuna lo assisteva, considerò allora, tanto che forse non sarebbe stato nemmeno necessario tornare.

Neal vide l’occasione  e la colse, prendendo la decisione in una frazione di secondo: attese che anche l’ultima guardia lasciasse il proprio posto per correre fuori, tirò fuori dalla tasca un temperino affilatissimo e in pochi istanti - senza nemmeno staccare il quadro dalla parete - tagliò con precisione chirurgica la tela. Si guardò ancora una volta intorno rapidamente, lesto come un felino e altrettanto silenzioso, spiegò il sacchetto di tessuto sottile che ripiegato occupava pochissimo spazio e che, per prudenza, portava sempre con sé, arrotolò la tela con la massima cura e la ripose nello zaino.

Poi, come se nulla fosse, raggiunse gli altri visitatori che se ne stavano inebetiti davanti alla tv: passò loro accanto come se fosse un essere invisibile e solo fuggevolmente si rese conto che la CNN aveva interrotto la normale programmazione, mentre una giornalista dall’aria attonita dava la notizia di un non meglio precisato disastro appena accaduto al World Trade Center.

Neal dentro di sé trionfava, nonostante si sforzasse di mantenere un’espressione del tutto impassibile, e non prestò nessuna attenzione alla cosa; guadagnò velocemente l’uscita, ancora incredulo che la sorte gli avesse confezionato un simile regalo, offrendoglielo per di più sul proverbiale piatto d’argento.

Sulla porta notò una delle guardie giurate che, camminando nervosamente su e giù e parlando al cellulare con aria trafelata, aveva lasciato cadere sul pavimento il badge di identificazione; quando Neal lo raccolse e glielo restituì, quello borbottò uno stentato ringraziamento e, senza nemmeno guardarlo in faccia, si rituffò nella convulsa conversazione che lo agitava.

Il truffatore, invece, sorrise e mentre si lasciava alle spalle la St. Etienne considerò, tutto soddisfatto di sé, che è sempre bene giocare onestamente.

Quando si hanno in mano le carte vincenti.

 

(1)   La frase è una citazione del Dalai Lama;

(2)   Il castello di Immendorf, che si trova nel parte settentrionale dell’Austria, grazie alla sua posizione geografica e alla sua ampiezza era utilizzato dai nazisti come deposito di opere d’arte; tra quelle che vi erano custodite alla fine della Seconda guerra mondiale c’erano anche alcune delle più significative tele di Gustav Klimt. Queste opere vennero distrutte, insieme a tutte le altre, da un incendio provocato da un’unità delle SS naziste che, in seguito alla dichiarazione di resa delle truppe naziste in Austria - il 7 maggio 1945, con effetto dal giorno successivo - decisero di passare l’ultima notte di guerra nel castello di Immendorf. Tredici quadri erano di Gustav Klimt, esposti nelle stanze; gran parte di essi veniva dalla maggior collezione privata del tempo delle opere di Klimt, quella dell’industriale ebreo August Lederer, al quale vennero requisiti dai nazisti nel 1938. Il rapporto degli agenti di polizia che indagarono sull’incendio afferma che, la notte tra il 7 e l’8 maggio, gli ufficiali delle SS si diedero a un’orgia nelle stanze del castello dove venivano conservate le opere, così sensuali, dell’artista viennese: il giorno dopo, le SS decisero di distruggere il castello per evitare che le truppe russe, conquistandolo, entrassero in possesso delle opere d’arte. Piazzarono l’esplosivo nelle quattro torri del castello e se ne andarono: l’esplosione causò un incendio che continuò per giorni interi, distruggendo completamente la struttura e le opere che essa conteneva;

(3)   Il quadro fu dipinto nel 1903 e subito suscitò scandalo e critiche, tanto che l’autore ne dipinse una seconda versione, decisamente più castigata. Vi lascio il link per vedere l’immagine: http://it.wikipedia.org/wiki/Lista_di_dipinti_di_Gustav_Klimt

 

 

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Capitolo 2
*** In una città straniera ***


Grazie a tutti coloro che hanno avuto la gentilezza di leggere e lasciare un loro parere: questo capitolo è interamente dedicato a Diana, personaggio molto interessante secondo me e non abbastanza “approfondito” nella serie. Ho immaginato per lei un passato che non ci si aspetta, per come è mostrata in tv.

Spero vi piaccia.

 

 

In una città straniera

 

Diana Barrigan non amava Los Angeles.

Per quanto potesse sembrare stravagante, per lei i luccicanti negozi di Rodeo Drive e le ville fastose di Malibu non rivestivano alcuna attrattiva particolare; quella che per tanti americani era la città del sole e dei divi famosi per lei era solamente un agglomerato di vetro e cemento che si contorceva arrostendosi al sole di un’estate implacabile, senza fine.

Settembre, poi, era il mese peggiore: vacanze finite e caldo ancora insopportabile, luce così accecante da ferire gli occhi o, in altri giorni, una nebbia talmente fitta da rendere quasi impossibile guidare e persino camminare a piedi. 

Diana sospirò, massaggiandosi il collo indolenzito e considerando che almeno per qualche mese all’anno avrebbe voluto poter fare a meno dell’aria condizionata; si tolse le scarpe da jogging, sfilò la tuta impregnata di sudore e, godendosi la sensazione del fresco delle mattonelle sotto le piante dei piedi, andò in bagno, aprì il rubinetto e si sedette sul bordo della vasca.

Mentre aspettava, lasciandosi cullare dal leggero scroscio dell’acqua e dal sopore di quella quieta mattinata estiva, i pensieri che da alcuni mesi le avevano impedito di essere pienamente appagata ripresero a tormentarla; per quanto lei cercasse di ignorarli o di contrastarli non c’era niente da fare, tornavano sempre all’attacco e ogni volta diventava più difficile per lei far finta che non esistessero e andare avanti con la sua vita.

Ecco, questo era il problema: quella che stava trascorrendo lì, giorno dopo giorno, era una vita.

Ma non la sua.   

Non le piaceva la città, non le apparteneva il modo di vivere dei suoi abitanti, non sentiva di appartenere a una comunità e - cosa forse più importante - le mancava il suo lavoro a Washington; certo, Johanne guadagnava per tutte e due e non le aveva mai fatto mancare nulla, però Diana non riusciva a stare senza far nulla e aver lasciato l’F.B.I. era stato come privarsi di una parte fondamentale di sé.

Si sentiva inutile, vuota, senza un obiettivo: quando era un agente, invece, veritàgiustizia e legge non erano solo parole con cui riempirsi la bocca e gonfiare il petto, ma rappresentavano uno stile di vita e, in qualche modo, persino una missione da compiere. Un lavoro come quello, si era sempre detta, non lo puoi fare senza una fondamentale componente ideale: ci devi credere, insomma.

Eppure aveva scelto per amore di voltare le spalle a tutto ciò in cui aveva creduto; allora, quando seguire la sua compagna in California le era sembrata una scelta naturale e giusta, anzi l’unica possibile.

Johanne.

Johanne, lei c’era sempre stata nella sua vita: c’era quando i suoi genitori  - che avevano smesso di portarsela dietro con la scusa che aveva bisogno di stabilità - la lasciavano per mesi a casa da sola, nonostante fosse solo una ragazzina, a causa del loro lavoro di diplomatici.

Era stata accanto a lei subito dopo che Charlie era stato ucciso davanti ai suoi occhi, per salvarla; l’aveva aiutata a superare il senso di colpa e Diana era convinta che se non le fosse stata vicino in quel periodo avrebbe fatto una brutta fine, magari aggrappandosi alla bottiglia o peggio, come tanti figli dei colleghi di suo padre. 

Era stata una sorella maggiore per lei, quasi una madre mentre quella vera era lontana. 

Era stata la sua confidente, la sua alleata, la sua migliore amica prima e la sua ragazza poi.

L’unica che avesse compreso e assecondato i suoi desideri, quando si era resa conto che andavano al di là della semplice amicizia tra ragazze; colei che l’aveva aiutata a superare i pregiudizi della sua famiglia e che adesso sua madre per prima adorava, considerandola quasi la nuora perfetta.

Frequentare l’università insieme le aveva unite ancora di più, rafforzando il loro legame, e quando Johanne le aveva alla fine chiesto di abbandonare Washington e il lavoro all’F.B.I. per seguirla le era balenata in mente l’immagine che con lei avrebbe potuto avere finalmente una famiglia vera, solida, normale. Non come quella in cui aveva vissuto, per intendersi.

Aveva detto di sì, Diana, lasciandosi alle spalle ciò per cui aveva duramente studiato per anni.

E all’inizio era stata felice come si aspettava: Jo la adorava, la copriva di attenzioni e tenerezza e la faceva sentire esattamente al centro del suo mondo.

Ma quel mondo all’apparenza perfetto si stava ogni giorni di più rivelando per la ragazza una prigione: un gabbia dorata in cui si era rinchiusa volontariamente e dalla quale sarebbe stato difficile liberarsi.

Si sentiva soffocare, proprio così: lei, che aveva girato il mondo quando era solo una bambina, che aveva considerato gli alberghi più lussuosi come casa propria e visto a dieci anni più paesi di quanti la maggior parte degli uomini ne abbia conosciuto in tutta la vita, adesso si sentiva in trappola. Le pareti di quella meravigliosa prigione immersa nel verde delle colline di Los Angeles le gravavano sul petto, impedendole di muoversi e di respirare.

La donna che si aggirava lungo il patio soleggiato, che trascorreva i pomeriggi in piscina o a curare i fiori del giardino non era lei: non aveva niente della persona indipendente, tagliente con le parole e incisiva con i fatti, che aveva conquistato giovanissima un posto al Federal Bureau of Investigation.

Non assomigliava nemmeno lontanamente alla giovane agente capace di mettere k.o. a mani nude uomini che pesavano il doppio di lei e di caricare la Glock di ordinanza con la stessa grazia con cui un’altra si sarebbe passata il mascara.

Dopo aver a lungo riflettuto, Diana era giunta a capire la chiave del suo malessere: certo, il lavoro le mancava e spesso le capitava, quando accompagnava la fidanzata a una festa, di sentirsi un inutile gingillo ornamentale, ma il vero problema era che i suoi sentimenti verso Johanne erano cambiati.

In verità, l’aveva assalita il terrore di non averla mai amata sul serio, ma di essersi solamente aggrappata a lei perché ne aveva un disperato bisogno: forse non aveva amato lei, ma ciò che aveva rappresentato nella sua esistenza disordinata, l’aiuto e il sostegno che le aveva dato in tutti gli anni della loro amicizia.

In altri momenti - durante le notti insonni in cui la guardava dormire rilassata accanto a lei, ascoltando il suo respiro regolare - era certa, invece, che il loro fosse stato un grande amore… un fuoco così ardente che alla fine di era consumato, forse soffocato dalla propria stessa energia.

Aveva smesso di amarla e, quando se n’era resa conto, la consapevolezza di aver già intrapreso - per quella sola consapevolezza - un cammino ineludibile che l’avrebbe allontanata per sempre da lei l’aveva trafitta, provocandole un dolore lacerante.

Chiudendo con Jo, Diana avrebbe chiuso con una parte fondamentale di sé, avrebbe rigettato buona parte del proprio passato e delle proprie esperienze.

Ma sarebbe stata veramente capace di farlo? Avrebbe trovato il coraggio di andarsene, di dirle che era finita? Talvolta si chiedeva persino se Johanne sarebbe riuscita a sopravvivere a una cosa del genere: forse non l’avrebbe mai lasciata andare, forse avrebbe compiuto qualche follia per tenerla legata a sé.

Diana conosceva la forza dei suoi sentimenti per lei e più di una volta era stata quasi spaventata dall’intensità con cui la sua compagna era capace di amarla.

L’unica cosa di cui era certa era la necessità di parlarle; non poteva più tacere, perché tenere tutti i suoi dubbi per sé la stava logorando.

Aveva deciso: non appena Jo fosse tornata dal viaggio di lavoro a Washington - l’aereo doveva essere decollato già da un po’ - avrebbe affrontato l’argomento. 

La ragazza trasse un sospiro, si tolse anche la biancheria e s’infilò nella vasca da bagno; mentre sentiva i muscoli rilassarsi nell’acqua tiepida e le tensioni sciogliersi, donandole un momentaneo sollievo, considerò che per quella mattina non aveva voglia di torturarsi oltre.

Così, infilò gli auricolari e subito dopo le note di “Breathe” iniziarono a cullarla (4).

Si era quasi assopita, quando alle 9.36 il telefono iniziò a squillare.

Diana non lo udì e non rispose.

 

(4)La canzone è di Faith Hill ed è stata uno dei successi del 2001.

Un'avvertenza che mi è stata suggerita dall'attentissimo Max_T, che ringrazio infinitamente: l'episodio cita la drammatica vicenda del volo AA77, un Boeing 757 decollato dal Washington Dulles International Airport alle 8.20 dell'11 settembre 2001 con a bordo 58 passeggeri (tra cui cinque dirottatori) e sei membri dell'equipaggio. Il volo, diretto a Los Angeles, si schiantò alle ore 9.37.46 sulla facciata ovest del Pentagono. Come sapete, tra Los Angeles e Washington c'è una differenza di fuso orario di tre ore in avanti, ma per mantenere unitaria la linea temporale della storia ho scelto di usare comunque il fuso orario di New York, anche per rispettare una cronologia unica degli avvenimenti storici, visti dal luogo che ne fu epicentro.

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Capitolo 3
*** Levando gli occhi al cielo, dove l'aria diventa polvere e lingue di fuoco ***


Grazie infinite alle amiche e agli amici che stanno continuando a seguire questa fic: mi fate veramente felice!

Questo capitolo ci conduce per mano dritti dritti sulla soglia dell’Inferno…

 

 

Levando gli occhi al cielo, dove l’aria diventa polvere e lingue di fuoco

 

 

«Signore, ti prego… ti supplico, fa’ che El stia bene» ripeteva ossessivamente tra sé e sé l’agente speciale Peter Burke, mentre arrancava - le palpebre serrate per proteggersi dalla polvere e dal fumo acre - sorreggendo un’anziana donna che si premeva la mano sulla fronte coperta di sangue, nel tentativo di allontanarsi il più possibile da quell’incubo di fiamme e calcinacci che prima era conosciuto come World Trade Center.

La sua parte razionale sapeva che la moglie si trovava al sicuro - era riuscito a contattarla dopo che il primo aereo si era schiantato e le aveva detto di tornare subito a casa e di rimanerci, qualunque cosa fosse accaduta - eppure, nonostante ciò, non riusciva a dominare l’angoscia che gli attanagliava le viscere e gli faceva tremare le gambe.

Si trovava nel suo ufficio, non molto distante dalle Torri Gemelle, quando i telegiornali avevano iniziato a diffondere le notizie, dapprima frammentarie e confuse, poi via via più precise, dell’incredibile attacco sferrato al cuore degli Stati Uniti d’America: dopo aver tranquillizzato El ed essersi sincerato che stesse bene (inutile dire che tentare di mettersi in contatto con lei era stato il primo pensiero che gli aveva attraversato la mente non appena si era reso conto di ciò che stava accadendo) lui e i colleghi erano scesi in strada per dare una mano ai poliziotti e ai vigili del fuoco che già si affannavano a evacuare gli edifici circostanti, allontanando quante più persone potevano dalla nube di fumo e polvere che, come un inquietante fungo atomico, iniziava a sprigionarsi dai grattacieli collassati.

«Questo sarà il giorno peggiore della nostra vita» gli aveva detto con voce tremante Hughes, fissandolo negli occhi, e Peter si stava rendendo conto sempre più che, accidenti, era proprio così.

Nonostante l’addestramento e gli anni di esperienza, nonostante avesse desiderato fin da bambino di fare il poliziotto, servire e proteggere il proprio paese, nulla di ciò che aveva imparato l’aveva preparato a gestire una cosa come quella.

Fino a che si era pensato potesse trattarsi solo di un incidente - drammatico, straziante ma comunque a suo modo casuale - l’accaduto era rimasto racchiuso entro i confini di ciò che la sua mente riusciva a comprendere e a spiegare; quando, invece, il secondo aereo aveva terminato il suo volo impattando contro la Torre Sud e aveva iniziato a farsi strada la consapevolezza che dietro i due schianti potesse esserci una precisa volontà omicida, tutte le sue certezze si erano miseramente sgretolate.

Lui e tutti coloro che, nel mondo, avevano assistito in diretta tv alla scena avevano vissuto sulla propria pelle l’esperienza dell’inconcepibile che si realizza, l’irruzione dell’impossibile nella realtà quotidiana.

Per un istante eterno era rimasto immobile, come paralizzato e quasi incapace di pensare, fissando gli enormi rottami di acciaio e gesso che cominciavano a cadere dall’alto, mentre un fitto fumo riempiva l’aria.

Si era guardato intorno, poi, e aveva visto lo shock e il terrore dipinti sui visi dei colleghi: proprio come lui, nessuno di loro riusciva a comprendere esattamente cosa stesse succedendo, né chi avesse mai potuto organizzare qualcosa del genere. Prevederlo, poi, sarebbe stato del tutto impensabile.

E nemmeno adesso ci riusciva, lottando contro l’angoscia e il disagio causatogli dalla polvere densa che gli riempiva il naso e gli bruciava la gola, mentre consegnava la donna che aveva portato in salvo a due paramedici; bevve un sorso d’acqua dalla bottiglia che uno di loro gli porse, si terse il sudore dalla fronte e poi si tirò su nuovamente il lembo di camicia stracciata che aveva annodato intorno al collo per proteggere il viso dalla fuliggine.

Deglutì dolorosamente, come se stesse inghiottendo spine, e fissando il via vai di pompieri intenti a estrarre le persone dalle macerie considerò che no, non era abbastanza forte per tenere il conto di quanti corpi senza vita stava restituendo il ventre squarciato di New York ai suoi soccorritori… meglio non pensare a quante esistenze fossero state spezzate, né immaginare qualcuno che gli fosse caro in quell’inferno.

D’improvviso vide avanzare verso di lui un uomo, che emerse dalla coltre biancastra di polvere come una sorta di fantasma disorientato, la pelle scura coperta da una patina grigia sulla quale erano evidenti i solchi scavati dalle lacrime; era giovane, dannatamente giovane, e senza far caso a lui gli passò accanto cercando di farsi largo attraverso la pesante cortina di fumo e detriti.

Peter credette che fosse un civile riuscito a superare i cordoni di sicurezza, scattò in avanti e lo afferrò per un braccio, tirandolo con energia verso la postazione di soccorso; il ragazzo sussultò, fissò prima l’uomo in viso e poi il distintivo che portava alla cintola e cercò di divincolarsi, ma la disperazione regalò al federale inaspettate energie.

C’erano già i vigili del fuoco all’opera e lui sapeva che, nonostante l’addestramento e tutto il loro  equipaggiamento, stavano rischiando a loro volta la vita: il suo compito adesso era impedire che anche solo un’altra persona mettesse a repentaglio la propria sicurezza per coraggiosa disperazione.

«Sono un marine!» gridò allora l’altro, tentando ancora di sottarsi alla presa ferrea dell’uomo «Devo andare laggiù! ».

Peter scosse la testa, seguitando a non lasciarlo andare.

Per tutta risposta, il giovane gli mostrò la medaglietta metallica che portava appesa al collo, convinto che il federale non gli credesse, e urlò con quanto fiato aveva in gola: «Primo Tenente Clinton Jones, mi lasci… io devo andare laggiù».

L’agente a quel punto gli si mise di fronte, di fatto sbarrandogli la strada, e rispose: «È inutile, ragazzo: laggiù non è rimasto più nessuno da salvare».

«Sono morti tutti»  aggiunse tristemente. 

 L’orrore e la disperazione che vide riflessi negli occhi neri del ragazzo erano i suoi.

 

***

 

Quando uscì dal bagno, Diana era rilassata e persino di buon umore; avvolta nel morbido accappatoio azzurro cupo si diresse verso la cucina per prepararsi un buon caffè e la colazione… era giovane, era sana e il sangue correva allegramente nelle sue vene, impedendole di rimanere a lungo depressa in una mattinata bagnata di sole come quella.

Il trillo del cellulare la colse mentre tentava di far partire la complicatissima e ipertecnologica macchinetta del caffè che Jo aveva voluto comprare a tutti i costi un paio di mesi prima: la ragazza rispose con un sorriso, ma la voce di sua madre dall’altra parte era talmente strana che subito l’allegria scomparve dal suo viso, cedendo il posto a un inspiegabile timore.

«Diana»  disse la donna, quasi ansimante come se facesse fatica ad articolare le parole «accendi la tv, presto, sta succedendo qualcosa di terribile».

Ancora inconsapevole, la giovane afferrò il telecomando e obbedì.

«Su quale canale?» chiese, premendo i tasti rapidamente.

«Uno qualsiasi»  fu la risposta.

Mentre contemplava le immagini del World Trade Center che collassava su se stesso in una nube di fumo e polvere e senza ancora aver capito cosa stesse succedendo, confusamente Diana si rese conto che uno dei ricordi che avrebbe per sempre portato dentro di sé di quella terribile giornata sarebbe stata l’inutilità della domanda che aveva appena rivolto a sua madre.

 

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Capitolo 4
*** Guarda la Morte ghignare tra nastri di fumo sfilacciati ***


E finalmente anche Neal comincia a rendersi conto che qualcosa non va… mentre a Los Angeles Diana riceve un dono inaspettato.

Grazie infinite agli amici che hanno la pazienza di continuare a leggere e a lasciare un loro commento: vi voglio bene!

 

 

Guarda la Morte ghignare tra nastri di fumo sfilacciati

 

 

Neal Caffrey non impiegò molto tempo a rendersi conto che qualcosa di tremendamente grave era appena accaduto in città: per la verità, capirlo non sarebbe stato difficile nemmeno per uno sveglio la metà di lui.

Camminava a passo svelto, conservando un atteggiamento del tutto normale e cercando di non attirare l’attenzione in nessun modo, per raggiungere al più presto il suo appartamento e mettere al sicuro il nuovo tesoro che aveva appena preso in prestito a tempo indeterminato.

La prima cosa che lo colpì fu la presenza massiccia di vigili del fuoco e poliziotti che, visibilmente agitati, si dirigevano di corsa verso la punta sud di Manhattan: sebbene gli sembrasse strano uno spiegamento di forze del genere - e tanto rapido per di più - per un semplice furto d’arte, si irrigidì e aumentò ancora l’andatura curando di non guardare nessuno degli agenti in faccia.

Il suo ego ebbe uno scossone quando si accorse che nemmeno uno di loro faceva caso a lui e che, pure se avesse tirato Speranza n. 1 fuori dallo zaino e l’avesse sventolata per aria, non avrebbero degnato d’uno sguardo né il prezioso dipinto, né colui che l’aveva rubato.

Come se non bastasse, i passanti sembravano impazziti: c’era chi parlava ininterrottamente al cellulare col volto deformato dall’ansia, chi correva alla disperata ricerca di un taxi e chi, al contrario, si era fermato davanti a un grande magazzino di elettronica e fissava, immobile, gli schermi delle tv espose in vetrina.

A quel punto un senso di inquietudine sempre più intenso prese a serpeggiargli nelle vene e, senza riflettere oltre, si infilò nel primo caffè che trovò lungo la strada: anche qui, come immaginava, nessuno gli prestò attenzione perché tutti i presenti, personale compreso, se ne stavano impalati a guardare il piccolo televisore appeso al muro dietro il bancone. Muti, con gli occhi sgranati e le labbra contratte.

Fu allora che Neal alzò gli occhi e lo vide.

Lo vide e gridò.

Perché quello che la sua mente aveva registrato per una frazione di secondo solo come un aereo che volava decisamente troppo basso, un istante dopo s’infilò a tutta velocità nel ventre di una delle Torri Gemelle mentre l’altro grattacielo, già circondato da una densa coltre di fumo, ebbe come un doloroso sussulto d’agonia. 

Neal barcollò e si aggrappò con tutte le sue forze allo schienale della sedia che aveva davanti, evitando in tal modo di cadere sul pavimento perché le gambe minacciavano di cedere.

 

***

 

Diana Barrigan aveva ascoltato le incredibili notizie che tutti i canali stavano trasmettendo con angoscia, ma senza minimamente essere sfiorata dal pensiero che la catastrofe potesse toccare anche lei da vicino: la sua famiglia si trovava in Canada, infatti, e Jo a quell’ora era al sicuro su un aereo che la stava riportando a casa.

Niente e nessuno la legava a New York, la città martoriata da quello che ancora non si capiva bene se fosse stato un attentato terroristico o altro, né da chi fosse stato orchestrato; eppure, nonostante questa consapevolezza, un’ansia irragionevole ma insopprimibile le serrava il cuore, impedendole di pensare con lucidità.

Razionalmente sapeva che non sarebbe riuscita a parlare con la sua compagna, dato che durante il volo le avrebbero senza dubbio chiesto di spegnere il cellulare, ma non riuscì a impedirsi di fare comunque un tentativo; in fondo, considerò, dato ciò che stava succedendo magari i piloti avevano consentito ai passeggeri di entrare in contatto con chi si trovava a terra…

Con le dita che le tremavano, compose il numero di Jo sul telefonino: quando udì la voce automatica che le chiariva che l’apparecchio non era raggiungibile fu come se d’improvviso una mano ferrea le avesse stretto il cuore così, come si stringe una spugna, facendone schizzare fuori tutto il sangue. Una lama di gelo le attraversò le membra e invano tentò di rassicurarsi ripetendo a voce alta che era normale, che non c’era nulla di strano e che tra poche ore Jo sarebbe atterrata a Los Angeles.

Come se non bastasse, in quell’istante l’attonita speaker della CNN annunciò con voce rotta che era stato appena ordinato il ground stop su tutto il territorio nazionale e che almeno due voli aerei avevano spento i trasponder, scomparendo dal radar e non rispondendo più alla torre di controllo (5).

D’improvviso, guardandosi intorno con angoscia quasi che gli oggetti che le erano familiari e cari potessero darle le risposte di cui aveva bisogno, Diana notò che la luce che sul cordless segnalava la presenza di nuovi messaggi in segreteria lampeggiava con insistenza: confusa e senza fiato, premette il pulsante e cadde pesantemente a sedere sul divano.

«Diana, amore» la voce di Jo, incrinata dalle lacrime, riempì prepotentemente la camera sebbene non fosse più alta di un singulto strozzato.

«Non mi senti, non riesco a parlarti… il capitano ci ha appena detto che c’è una bomba a bordo e che dobbiamo rimanere seduti. Non so cosa sta succedendo, mi sembra di soffocare chiusa qui dentro».

Il respiro le si spezzò in gola per un istante e Diana capì che Jo stava cercando con tutte le sue forze di non piangere per non spaventarla.

«Non so come finirà»  adesso il suo tono era fermo «voglio solo dirti che ti amo. Ti amo tantissimo. Se dovesse accadermi qualcosa, so che sarà più dura per te che per me.

E io voglio solo che tu stia bene. Ti amo…».  

 

(5)   Si tratta del divieto di decollo a tutti gli aerei sul territorio americano, diramato subito dopo l’attentato.

 

 

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Capitolo 5
*** In una rete di linee che si intersecano ***


Ecco che finalmente in questo capitolo si affacciano i miei due pg preferiti: Elizabeth e Mozzie.

Grazie a tutti gli amici che resistono a leggere e a commentare.

In una rete di linee che si intersecano

Da quando era tornata a casa, Elizabeth Burke non aveva smesso di guardare le immagini trasmesse senza interruzione da tutte le reti televisive, camminando su è giù per il piccolo soggiorno e tormentandosi le mani. Ogni tanto le giungeva qualche telefonata di amici e parenti preoccupati per l’incolumità sua e del marito, ma lei le liquidava frettolosamente sia perché temeva che Peter tentasse di chiamarla e trovasse il telefono occupato, sia anche perché non ce la faceva proprio a commentare ciò che era successo solo una manciata di ore prima nella sua città, a pochi chilometri da dove si trovava.

Certo, entrambi stavano bene e nessuna persona che conosceva era rimasta coinvolta nel crollo delle torri, eppure si sentiva straziata, oppressa da un’inquietudine che le stringeva le viscere in una morsa gelata.

Quando Peter entrò senza far rumore in casa e, richiusa dietro di sé la porta, vi si appoggiò contro, Elizabeth si voltò di scatto e, fissatolo, fu sul punto di non riconoscerlo: non erano solo gli abiti ricoperti da una sottile patina di polvere opaca che lo facevano sembrare un fantasma in carne e ossa, né i capelli impiastricciati di calce grigiastra, bensì i suoi occhi. Spenti e scioccati, piantati nel volto completamente incrostato di cenere.

Le sue labbra, le sue labbra tanto familiari, si mossero appena e non emisero alcun suono, mentre lei gli si avvicinava; e quando Elizabeth gli mise una mano sul braccio, sussultò come se gli avessero appena dato una coltellata e lui sentisse il freddo della lama senza avvertirne ancora il dolore.

Poi, in silenzio, arrancò fino a una sedia e lei lo vide artigliarsi con una mano a essa come se stesse per cadere e volesse afferrarsi a qualcosa, gli occhi divenuti d’improvviso opachi.

Barcollò ancora una volta e annaspando, come cieco, vi si lasciò cadere su.

Non alzò lo sguardo sulla moglie, non le disse nulla, non la cercò.

Guardò fisso davanti a sé con quegli occhi ciechi e si mise a piangere: non un pianto dolce, malinconico e quieto. No, gemiti rabbiosi e singhiozzi che lo scuotevano come una tempesta e gli facevano tremare le labbra bagnate di lacrime.

Elizabeth rimase immobile, come inebetita, a fissare le sue spalle possenti ora squassate dai singulti; incapace di muoversi, di dire qualcosa e finanche di pensare con lucidità.

Non aveva mai visto il marito piangere - mai, nemmeno quando era morto suo padre.

Levò piano una mano per toccarlo, ma il suo gesto fu spezzato da un singhiozzo più forte degli altri: deglutì in silenzio, serrando le mascelle, e indietreggiò di un passo.

Non ci riusciva.

Non riusciva nemmeno a fargli una carezza.

Era come paralizzata dallo sbigottimento e dall’orrore: dentro di lei, qualcosa moriva un poco a ogni suo singhiozzo, eppure non era capace di trovare parole o gesti che in quel momento potessero avere un senso.

Un senso… forse in quel giorno maledetto nulla aveva senso.

Forse nulla l’avrebbe più avuto, per loro.

Tutto ciò che contava in quel momento era riuscire a dire o a fare qualcosa perché gli occhi di Peter tornassero a essere occhi e quelle non sorde caverne di disperazione che erano diventati; eppure, non ne era in grado.

Avevano senso, potevano esistere gli abbracci, i baci e le parole di conforto in un mondo come quello?

C’era ancora spazio per la speranza e l’amore?

Angosciata, rimase lì invisibile, con le mani congiunte e trattenendo il respiro, a guardarlo.

E il suo sguardo era l’aria stessa che lo accarezzava, senza che lui se ne sentisse toccare (6).

***

L’11 settembre 2001 Mozzie - mancava poco alle dieci - venne bruscamente svegliato dall’ululare rabbioso delle sirene delle ambulanze: sobbalzò e si lasciò andare a un mugugno incollerito, tirandosi poi il cuscino sulla testa. Niente da fare, quel giorno evidentemente l’universo cospirava contro di lui, sfoderando le sue più fastidiose armi acustiche per impedirgli di riposare: e pensare che ne aveva tutto il diritto, dopo che aveva passato buona parte della notte a invecchiare innocenti vasetti di terracotta made in China per farli assurgere al rango autentici e rarissimi esemplari di bucchero etrusco!

Borbottando e masticando fiele, si decise a trascinarsi fuori dal letto; si passò un mano sul viso e mise su la macchinetta del caffè, considerando che con la miscela di scarsa qualità che poteva permettersi ne sarebbe venuta fuori una brodaglia marroncina pressoché imbevibile e rimpiangendo il favoloso espresso che aveva, invece, bevuto un paio di giorni prima in un bar sulla 42esima.

Aprì il frigo e, gettatovi dentro un lungo sguardo carico di aspettative subito deluse, lo richiuse e optò per risollevare le sorti di una giornata iniziata non nel migliore dei modi versandosi ciò che era rimasto della bottiglia di pinot che gli aveva fatto compagnia durante la nottata di lavoro appena trascorsa: non era molto, in verità, ma pur sempre sufficiente a fargli tornare la voglia di aprire le tende e alzare gli occhi sulle grigie cime dei palazzoni che costituivano tutto il panorama che la Grande Mela concedeva ai suoi occhi di artista della truffa.

Intanto, i lugubri suoni delle sirene - vigili del fuoco o ambulanze, ormai non li distingueva più - non erano cessati e confusamente Mozzie sentì agitarsi dentro di sé un vago e inspiegabile senso di angoscia; con un gesto ozioso, afferrò il telecomando e accese la tv.

Il primo pensiero, sincopato e in qualche modo ridicolo, che lo assalì quando si rese conto di ciò che era successo fu che per tutti gli anni a venire a chi gli avesse domandato dove si trovasse e cosa stesse facendo quando i due aerei si erano schiantati sulle Torri Gemelle, lui avrebbe potuto rispondere solo: stavo dormendo.

La sua città era sotto attacco e lui dormiva.

Migliaia di persone avevano trovato una morte atroce, gettandosi disperate nel vuoto o sepolte dalle macerie, e lui dormiva.

Il mondo come lo aveva conosciuto era finito.

E lui dormiva.

Il secondo pensiero che gli balzò in mente, l’istante successivo, fu per Ethan.

L’unico di quelli che erano stati insieme a lui ospiti dell’orfanotrofio di Detroit, dove era cresciuto prima di essere dato in adozione a una ricca famiglia, che avesse ritrovato una volta giunto a New York; cioè, per la verità era stato il caso a farli incontrare di nuovo e da principio Mozzie non era stato nemmeno entusiasta, dato ciò che era accaduto e considerati i motivi per i quali aveva dovuto lasciare la città e trasferirsi…

Il solo che, da quelle parti, conoscesse la reale origine del suo nome e potesse ricordare come era stato il piccolo Moz da bambino, che l’avesse sentito piangere di notte nel suo lettino perché maltrattato dai coetanei per il suo aspetto debole e indifeso (7).

Il solo che sapesse quanto era stato importante Isaac per lui e come gli avesse insegnato a sfruttare la propria intelligenza per compensare i punti sui quali Madre Natura era stata più avara nei suoi riguardi.

E, alla fine, l’unico che potesse metterlo in relazione con i furti subiti da personaggi poco puliti a opera di un misterioso personaggio conosciuto semplicemente come Il dentista di Detroit (8).

Poi, però, Mozzie aveva vinto il timore e la diffidenza che gli appartenevano e quel giovane dai dolci occhi castani e dalla risata un po’ strascicata era riuscito a entragli nel cuore, come e più di quando erano ragazzini: soli in una città sconosciuta, si erano aiutati a vicenda tanto da diventare l’uno per l’altro l’unico pezzetto di famiglia sopravvissuto alle intemperie del destino.

Ethan, a differenza di lui, non era mai stato dato in adozione e non appena era diventato maggiorenne se l’era svignata, deciso a trovare finalmente il suo posto nel mondo.

Dopo qualche impiego occasionale, da un anno lavorava come portiere al Marriot WTC Hotel e più di una volta aveva passato al suo amico truffatore qualche soffiata su clienti danarosi dell’albergo, che erano ben presto divenuti bersagli e vittime dei raggiri di Mozzie; ovviamente, poi si divideva a metà davanti a una bottiglia di vino.

Provò a chiamarlo, ma il cellulare squillava a vuoto.

Allora tentò di ricordarsi se quella maledetta mattina fosse di turno alla reception o meno, ma si rese conto che molto probabilmente non glielo aveva mai detto e che in realtà lui non conosceva tanti particolari della vita del suo amico, né di come organizzava le sue giornate.

Cercando affannosamente in tv notizie relative all’albergo, che si trovava alla base delle torri, apprese che quando il volo American Airlines 11 si era schiantato contro la Torre Nord, il carrello di atterraggio era caduto sul tetto dell’hotel e che dopo il crollo dei due grattacieli l’edificio era stato completamente distrutto (9).

Col cuore in gola si infilò i primi vestiti che gli capitarono a tiro e uscì di casa, diretto verso ciò che rimaneva del glorioso World Trade Center.

(6) La frase è una citazione dalla novella “Soffio” di Luigi Pirandello;

(7) Come abbiamo visto in tv, “Mozzie” non è altro che un vezzeggiativo nientepopodimenoche di Mozart, dato che da neonato il pg venne abbandonato davanti a un orfanotrofio con un orsacchiotto che portava al collo un’etichetta con su scritto “Mozart”. Fin da piccolo, Mozzie storpia il nome del suo amico di peluche chiamandolo “Mozzie”, da cui trae il suo stesso soprannome;

(8) Il riferimento è all’omonimo episodio, n. 4 della terza stagione;

(9) Nell’aprile scorso, a quasi 12 anni dagli attentati contro il World Trade Center di New York, vicino a Ground Zero è stata ritrovata parte del carrello di atterraggio di uno dei due Boeing 767 che l'11 Settembre 2001 si schiantarono contro le Torri Gemelle; il reperto, lungo circa un metro e mezzo, è stato rinvenuto in un vicolo largo poco più di 45 centimetri che separa il controverso centro islamico di Ground Zero da un altro edificio vacante ed è stato identificato grazie alla scritta «Boeing» e a un numero di serie. Gli esami dovranno chiarire, tra le altre cose, se il carrello apparteneva all'aereo della United Airlines o a quello della American Airlines. In base alle cifre ufficiali, negli attentati alle Torri Gemelle persero la vita 2.753 persone, ma nessuna traccia è stata ritrovata di ben 1.122 di loro. Finora sono stati recuperati 21.817 resti umani, di cui solo il 59% identificati (fonte: www.corrieredellasera.it).

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Capitolo 6
*** In una rete di linee che si allacciano ***


Ecco che qui la cupezza del capitolo precedente cede il passo al sentimento che, nelle mie intenzioni, vuole connotare di sé l’intero racconto: la speranza.

Grazie a chi continua a seguirmi, lasciando una traccia della sua attenzione.

 

 

In una rete di linee che si allacciano

 

 

 

Diana aprì leggermente il finestrino, facendo entrare l’aria fresca della notte; spense la radio e inspirò a pieni polmoni l’odore del deserto, un misto di sabbia umida e asfalto consumato, sperando che ciò bastasse a vincere la stanchezza. 

Guidava da ore, ormai, e la sua meta era ancora lontana.

Senza fermarsi, ma solo rallentando lo stretto indispensabile, sporse appena la testa fuori dal finestrino, gettando uno sguardo fugace al cielo sopra di lei; non aveva mai visto nulla di simile - considerò - e se non avesse avuto tanta fretta di arrivare a destinazione si sarebbe di certo fermata ad ammirarlo. 

Un cielo vasto, immenso, di un blu cupo eppure trapunto di una miriade di puntini luminosi: il cielo freddo e immobile del deserto, una distesa celeste sconfinata che si mescolava, sull’orizzonte, con una terra anch’essa senza confini.

Immensità, questa era l’unica parola che le veniva in mente.

Confusamente, pensò che forse era proprio ciò di cui aveva bisogno per cominciare a guarire ridimensionando, per quanto possibile, la sciagura che l’aveva colpita: nonostante la gravità della tragedia, infatti, essa rappresentava pur sempre una minuzia se messa a confronto con i millenni della storia umana e l’immensa vastità dell’universo.

«Cazzate!» mormorò però tra i denti l’istante dopo, ricacciando indietro le lacrime che già le velavano lo sguardo.

Già, nient’altro che cazzate: l’universo, l’umanità… che cosa le importava? Jo non c’era più e con lei migliaia di esseri umani innocenti. E anche se si era resa conto di non provare più per lei gli stessi sentimenti di prima, l’idea di averla perduta così ingiustamente e senza nemmeno averle potuto dire addio le era insopportabile.

Per l’ennesima volta il ricordo tornò alle parole dell’ultima telefonata della sua compagna: era stata incredibilmente coraggiosa, così generosa - come sempre - anche se già sapeva che stava per morire. Il pensiero di ciò che aveva sofferto, da sola e senza alcun conforto, le mozzò il respiro ancora una volta e dovette forzarsi per non spegnere il motore e abbandonarsi di nuovo al pianto.

No, non doveva.

Perché le ultime parole di Johanne erano state non di disperazione, bensì di speranza e di amore e lei a quella speranza, a quell’amore, avrebbe dato corpo andando nella Grande Mela ferita per dare il suo contributo, aiutando chi ne aveva veramente bisogno.

Ancora non sapeva cosa avrebbe trovato dall’altra parte del deserto, né quale direzione avrebbe impresso la sorte alla sua esistenza.

Ma era certa del luogo dal quale sarebbe cominciata la sua nuova vita.

  

***

 

Peter Burke abbassò la mascherina che gli proteggeva il volto dal fumo acre e dalla polvere che ancora ammorbava l’aria; si asciugò il sudore dalla fronte, allungò le mani e afferrò i due bicchieroni di carta colmi di caffè che il ragazzo di Starbucks gli porse.

Goffamente, cercò di costringere i muscoli indolenziti della braccia a tirare fuori dalla tasca il portafogli, ma l’altro gli fece cenno di no col capo: per i volontari di Ground Zero il caffè era gratis.

Il federale lo ringraziò con un sorriso accennato e si allontanò senza staccare lo sguardo dalla moltitudine di persone, diverse per aspetto ed età, che intorno a lui si affaccendavano a rimuovere i cumuli di macerie che ancora ingombravano le strade principali di Manhattan.

Incredibile - considerò - di quanta solidarietà umana, di quanta generosità fosse capace la sua gente: persone che avevano saputo elevarsi al di sopra dell’odio e della violenza esattamente mentre li stavano sperimentando sulla propria pelle.

I terroristi possono aver abbattuto i nostri grattacieli, rifletté, ma non hanno schiacciato la nostra voglia di libertà, il nostro amore per la vita e la nostra speranza.

Se ne era reso conto, riuscendo a scuotersi dall’abisso di disperazione in cui era precipitato, solo grazie a El: quando lei gli si era accostata, l’aveva circondato con le braccia tremanti e l’aveva tenuto stretto - forte e a lungo -  mescolando le lacrime e il respiro con i suoi.

Non c’era stato bisogno di parole: si erano guardati negli occhi e subito intesi.   

Una doccia veloce per lavare via polvere, cenere e stanchezza e poi era stato, di nuovo e stavolta per entrambi, World Trade Center.

Fianco a fianco, consapevoli di cosa volesse dire fare la differenza, aiutando gli altri con coraggio.

Dentro di lui ardeva ancora, però, una rabbia feroce all’idea che esistessero uomini che li odiavano talmente tanto da infliggere un così orribile e insensato dolore a una moltitudine di innocenti; in alcuni momenti, poi, il ricordo - l'odore acre del fumo e della carne bruciata, le persone disperate che si gettavano dalle torri, la gola secca a causa della polvere e del calore -  era talmente vivo da trasformarsi in un malessere fisico.

Altre volte, invece, pensava a tutte quelle vite spezzate, alla sua città (la stessa che aveva giurato di proteggere non molti anni prima) piagata e lo assaliva una tristezza senza rimedio. Allora si domandava se sarebbe stato sempre così, per lui: se anche quando fosse riuscito a essere di nuovo felice e soddisfatto della sia vita, ci sarebbe stata ancora, nascosta in un angolo del suo cuore, la stessa profonda tristezza di quei momenti pronta a balzare fuori all’improvviso.

Trasse un sospiro profondo e fece due passi verso un giovane afroamericano che, sudato e impolverato, trascinava una carriola piena di calcinacci.

«Ehi, Clinton! » lo chiamò con un sorriso appena accennato, mostrandogli il secondo caffè che si era appena fatto dare proprio per lui.

Quello levò gli occhi e subito fissò con cupidigia la bevanda; si raddrizzò sbuffando, prese il bicchiere, ricambiò il sorriso del federale e lo ringraziò con uno sguardo eloquente che voleva dire pressappoco proprio quello di cui avevo bisogno!

Non lo avrebbero mai detto a nessuno - non quando in tanti avevano perduto una persona cara in quelle stesse ore - ma quel maledetto giorno di settembre loro si erano, invece, trovati.

 

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Capitolo 7
*** "E' ancora possibile una speranza?" grida il suo cuore smarrito. ***


 «È ancora possibile una speranza?»  grida il suo cuore smarrito.

 

 

 

All’improvviso Elizabeth si sentì toccare una spalla e si girò di scatto, credendo si trattasse del marito che l’aveva raggiunta nella zona dove stava aiutando, insieme a un’altra decina di volontari, a recuperare le migliaia di libri della biblioteca pubblica di New York semisepolti dalle macerie dell’edificio crollato.

Ma invece di Peter si trovò di fronte un giovane poco più alto di lei, col volto nascosto da una mascherina di plastica e il cappuccio della felpa tirato su, nonostante il caldo soffocante: la parte di lei che scherzosamente suo marito chiamava Mrs. F.B.I. registrò subito quella stranezza, mentre il suo istinto femminile colse nella stessa frazione di secondo il baluginio di due sfuggenti occhi blu.

Senza guardarla in faccia e senza dire una parola, il ragazzo le mise tra le mani un contenitore cilindrico e subito dopo si dileguò, sparendo - repentinamente come era comparso - in mezzo alla folla dei volontari, senza che lei potesse far nulla per fermarlo.

 

***

 

Quando fu abbastanza lontano, Neal Caffrey rallentò il passo, tirò giù il cappuccio e si tolse la mascherina, respirando più liberamente.

Senza dubbio i suoi colleghi ladri d’arte l’avrebbero giudicato un pazzo e avrebbe anche perso il suo danaroso committente: eppure restituire la tela che aveva rubato gli era sembrata da subito la decisione migliore, l’unica possibile.

Quel quadro era stato in passato simbolo di speranza, di nuova vita: allora solo per una famiglia, smembrata dalla follia nazista.

Oggi forse per un’intera città, piagata da un’analoga follia senza rimedio, né spiegazioni.

Quando, due isolati più in là, una pattuglia che sorvegliava le strade semideserte lo fermò, si lasciò perquisire con calma, sorrise e infine ringraziò gli agenti per ciò che stavano facendo; quelli lo salutarono ricambiando il suo sorriso, convinti di aver appena incontrato un cittadino modello.

Molto meglio giocare onestamente, considerò il truffatore, se si hanno in mano le carte vincenti… 

 

***

 

Sarebbe stato un ben triste Ringraziamento quell’anno per New York City, rifletté amaramente Mozzie contemplando, dall’alto del terrazzo di un grattacielo a pochi metri di distanza dove era salito eludendo i cordoni di sicurezza, l’orrenda voragine nera e grigia che s’apriva dove fino a qualche tempo prima svettavano, lucenti, le Twin Towers.

Dallo squarcio nel ventre della città saliva ancora qualche spirale di fumo, che pian piano si dissolveva nel vento del mattino.

La cenere era caduta per giorni e giorni, come avvenne sessanta anni prima nelle città vicine ai campi di sterminio nazisti; solo da poco erano stati spenti gli ultimi focolai e la nube di fumo che lui - come tutti gli altri newyorkesi, del resto - si era rassegnato a sopportare per settimane si era rarefatta, sgombrando finalmente il cielo sopra la città ferita.

Lassù, il vento gli tagliava la faccia, facendo sbattere le falde del suo soprabito beige come la vela di una barca impazzita nella tempesta; non fu il vento, tuttavia, a riempirgli gli occhi di lacrime…

Sospirò, tirò su col naso e si passò una mano sul volto; si sporse appena per spingere lo sguardo verso il basso, verso l’enorme groviglio di cemento e ferro dove fino a non molto tempo prima si era snodata la colorata catena umana dei volontari, accorsi da ogni parte d’America per dare una mano. L’uno accanto all’altro, ricchi e poveri, accomunati da una sciagura che aveva colpito tutti, dal basso verso l’alto di una società che si reputava invulnerabile, in una città le cui dimensioni superano quelle umane e in cui l’individualismo era quasi una legge.

Fu attraversato da un brivido, come una lama gelata, al pensiero che laggiù - confuso e irriconoscibile entro quel mare di polvere e cenere - ci fosse anche tutto ciò che rimaneva di Ethan Stanford: il suo corpo, come tanti altri del resto, non era ancora stato trovato e molto probabilmente non si sarebbe mai riusciti a isolare i suoi resti dal mare di rovine circostanti.

Vaporizzato, polverizzato, fuso.

Ethan… riusciva ancora, a volte, a ricordare il suo sorriso: eppure anche quello se l’era portato nella tomba. Anzi no, considerò Moz, nuovamente sull’orlo del pianto, nemmeno quell’immagine rendeva l’idea del suo dramma.

Non era dentro una tomba: no, la sua carne e il suo sorriso, tutte le sue speranze, erano divenuti aria, luce, polvere, vento.

Quello stesso vento che adesso, calato d’improvviso, gli accarezzava con dolcezza il volto.

Inspirò profondamente, si guardò a destra e a sinistra e poi, rapido e timido, quasi furtivo, lanciò un bacio nel vento.

Il vento dove ora riposava il suo amico di un tempo.

 

FINE

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