Il bacio dell'aspide

di Cassandra Morgana
(/viewuser.php?uid=6337)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Alea iacta est ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Davide e Golia ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - L'angelo azzurro ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Uomini a confronto ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Dalla parte sbagliata ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - La cronaca di un termine ignoto ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - Ti fidi di me? ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Andrea s'è perso ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Non abbandonarmi ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - Cieli stanchi ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - Cambio di prospettiva ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 - Il lupo e la faina ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 - Confidenze ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 - Chi ha inventato i sogni? ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 - Fiele ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 - Cenere negli occhi ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 - Il cavaliere dell'Apocalisse ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 - Scontro frontale ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 - Cattivi ragazzi ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 - Peccati veniali ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 - L'aspide ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 - Nessuno mi può giudicare ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 - A lame sguainate ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 - Lacrime e fumo ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 - Dopo la tempesta ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 - Voci di corridoio ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 - Ineffabile ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 - Odi et amo ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 - Il primo della lista ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 - Coming-out ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31 - Io non ci sto più ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32 - Consiglio di guerra ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33 - In bianco e in nero ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34 - Di alcool e (mezze) verità ***
Capitolo 35: *** Capitolo 35 - La notte porta consiglio ***
Capitolo 36: *** Capitolo 36 - Scacco alla regina ***
Capitolo 37: *** Capitolo 37 - Tanto lui è peggio di me ***
Capitolo 38: *** Capitolo 38 - Bullismo, coincidenze e rivelazioni ***
Capitolo 39: *** Capitolo 39 - Relax ***
Capitolo 40: *** Capitolo 40 - Mezze verità ***
Capitolo 41: *** Capitolo 41 - La mia parola contro la tua ***
Capitolo 42: *** Capitolo 42 - Leccarsi le ferite ***
Capitolo 43: *** Capitolo 43 - Da quando te ne sei andato via ***
Capitolo 44: *** Capitolo 44 - Oscar ***
Capitolo 45: *** Capitolo 45 - Cronaca di una morte annunciata ***
Capitolo 46: *** Capitolo 46 - Crema inacidita ***
Capitolo 47: *** Capitolo 47 - Killing me softly ***
Capitolo 48: *** Capitolo 48 - Rovinerei tutto ***
Capitolo 49: *** Capitolo 49 - L'alieno ***
Capitolo 50: *** Capitolo 50 - Ultimatum ***
Capitolo 51: *** Capitolo 51 - Viaggio a vuoto ***
Capitolo 52: *** Capitolo 52 - Andrea può aspettare ***
Capitolo 53: *** Capitolo 53 - The day after tomorrow ***
Capitolo 54: *** Capitolo 54 - Galileus ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Alea iacta est ***


 

Il bacio dell’aspide

 

 

 

Capitolo 1

Alea iacta est

 

 

Via, via, vieni via di qui,

niente più ti lega a questi luoghi,

neanche questi fiori azzurri…

via, via, neanche questo tempo grigio

pieno di musiche e di uomini che ti son piaciuti…

 

(Paolo Conte, “Vieni via con me”)

 

 

I fantasmi della notte si diradano nella nebbia greve e sonnolenta di un mattino senza colori.

Apri gli occhi, le palpebre tremolano appena nell’ombra, la mente arranca nel riprendere possesso della sua funzione e della consapevolezza che oggi è venerdì, che, tempo qualche secondo, quel familiare strascico d’angoscia, costante irrinunciabile che scandisce ogni risveglio apatico, invaderà prepotente ogni anfratto della coscienza, inasprendo l’impresa atavica di emergere dalle coperte nel gelo del mattino, un piede e poi l’altro e via le lenzuola; zoppicare fino al bagno e, in un’associazione mentale del tutto involontaria, ripercorrere mentalmente l’ultimo pensiero, il nodo d’amarezza che ha compiuto l’ultimo giro di ricognizione, prima che il cono d’ombra di un sonno senza sogni allentasse la coscienza.

Lo schiocco metallico dell’interruttore, e presto una luce debole di un ocra sbiadito inonda le pareti assopite nella caligine del mattino presto, e proietta quella squallida, mattutina sensazione di raccoglimento in quelle stanze che per te definiscono il guscio immaginario che ti sigilla al riparo dall’incognita che sta là fuori, dall’ansia di uscire che, quasi come un paradosso, finisce per proiettarti fuori di casa ogni mattino, nel ricamo di una pioggia sottile che minaccia di piegare i tuoi passi.

 

Via, via, entra e fatti un bagno caldo

c’è un accappatoio azzurro, fuori piove un mondo freddo…

 

Ma stamattina, il vento gira in direzioni inedite.

La mente scevra di ogni riflessione accessoria, sorridi alla tua immagine allo specchio: forse, stavolta l’aria ha un colore diverso.

Cipria, la gatta persiana, si struscia voluttuosa sulle gambe infreddolite.

È diverso, perché non avverti la paura di ciò che sta là fuori, di un qualcosa che non ha forma né odore, che non condiziona visibilmente la tua vita e non ti impedisce di scandagliare tranquillamente la realtà: c’è solo il logorio estenuante che sempre reca con sé, che si accontenta almeno di martellarti dentro. Un sospiro.

La gatta si stende sulla schiena, avida di carezze, e un concerto di fusa riscalda il silenzio, il tepore del corpo sotto la mano fredda.

 

Lo specchio ti rimanda indietro la tua immagine. Capelli d’un biondo indefinito, contaminato dalla foschia cittadina, ruscellano piacevolmente sulla schiena, e no, non sono così male; occhi scuri, sopracciglia sottili ritoccate con cura certosina quasi a rendere evanescente l’espressione del viso, cristallizzata in una piega altera; e poi le labbra carnose, il volto pallido e affilato ritagliato in un profilo meno regolare di quel che dovrebbe.

Uno strato spesso di matita delinea le palpebre ampie; abiti che l’ordine che li assembla è sancito dal caso e dalla fretta, vestono membra vagamente spigolose, appena rinfrancate dal getto caldo della doccia. Una carezza a Cipria, e poi via, fuori – oddio, le chiavi, mamma non ha ancora chiamato stamattina; il cellulare è in tasca, sì, ce l’ho messo prima e sono sicura, il caffè me lo faccio direttamente alle macchinette, anche se mezza tazzina di sciacquatura di piatti riscaldata, di primo mattino, non è che sia una grande accoglienza. Via.

 

È il mondo, stamattina, la sua fotografia illusoria, a riflettere sembianze diverse dal solito, come una proiezione inedita; il mondo ha cambiato direzione, e non sai che cos’è, ma non sei abbastanza lucida da formularti la domanda, perché l’autobus potrebbe lasciarti a piedi da un momento all’altro. Pensi di aver urgente bisogno di una sigaretta, ma non c’è tempo.

Corri, la mente sgombra, un passo e poi l’altro. La città vuota, vergine incontaminata ritagliata nel marmo e nel cemento, il cielo brumoso appena albeggiato, cangiante di pioggia rarefatta nell’aria. Non è poi così male. Pensi che anche questo, dopotutto, ti piaccia.

Non è male neppure il raggio di sole improvviso che ti costringe a serrare le palpebre, il vago strofinio delle lenti a contatto schiaffate negli occhi ancora stanchi, unico strascico della sonnolenza tentatrice che per dieci minuti abbondanti ti ha ancorato dentro il letto. Ma non è come le altre volte, non c’era quel peso indecifrabile sul cuore, quella sensazione di estraniamento che accompagna il dubbio: il dubbio che non valga la pena di cacciarsi fuori dal proprio torpore, che forse sia più salutare lasciare tutto là fuori, e al diavolo tutto, senza pensieri – pensieri che tornano a scavare la voragine, puntuali.

Nulla di questo ti attraversa la mente. Vorresti dirlo, vorresti almeno domandartelo, senza attendere necessariamente una risposta, e invece ti limiti a riflettere su quanto ti sembri di muoverti nella caligine sottile di uno di quei sogni che al risveglio lasciano un sapore dolce in punta di labbra.

Rideresti: non ti importa dell’autobus pieno da scoppiare, dell’angolino di fortuna, del brusio che sa di vita e ti si riversa intorno. Raramente un filo di vento è in grado di decidere le sorti della valanga. Tutto sembra distante, incapace di scalfirti. Paradossalmente. Fino a varcare il cancello, vittima compiaciuta di quella che, pervasa da un filo di languore inspiegabile, appare come un sogno o un’allucinazione. Il sole si fa largo impertinente tra le fronde alte di una quercia, i raggi si infrangono in nastri di pulviscolo dorato che aprono un varco tra le foglie. Imbocchi il piazzale sterminato con passo sicuro. Tutto scorre intorno a me.

Potresti dire, curiosamente, che la Elena diffidente che si guarda intorno con sospetto, un filo d’amarezza divenuto esistenziale, intima costante, collante nocivo tra la tesi e l’antitesi, all’improvviso ti sembra un’immagine remota.

In fondo non è tanto più complesso di recitare un copione di cui, di colpo, senti di conoscere a memoria trame, personaggi e interpreti, le redini della tua giornata strette con pugno fermo. Il controllo sulle emozioni come nozione basilare.

E oggi neppure la bella Accademia d’Arte Drammatica è la stessa cosa: uguale la forma, uguali i contorni che delimitano la struttura severa, incombente; eppure, se non potessi citare a tuo favore, base concreta di un’insindacabile certezza, il fatto che la linea numero 8, cinque fermate a partire da casa, ti ha scaricato proprio qui senza margine d’errore, ti domanderesti con tutta probabilità se non abbia confuso la destinazione, se davvero siano sempre state queste le sensazioni con cui l’oggetto, il luogo, l’atmosfera, l’entità concreta si sia impressa in te. Se, raffrontando un prima e un dopo, non stia piuttosto osservando due singoli ritratti dello stesso soggetto, diversa la luce che ne scandisce le ombre e i profili, diverso il colore, la prospettiva, la sensibilità che ha modellato le pennellate sulla tela.

Invece c’è solo un raggio di sole che ti investe in pieno, l’ombra lunga che si staglia davanti a te. Ammicchi al di là del piazzale, la sigaretta fumata a metà che oscilla pigramente fra indice e medio, un brulichio crescente di voci che si spandono nell’aria e un certo “fattaccio” dai contorni ancora oscuri che rimbalza sulle bocche dei presenti.

 

L’ambiente che ti circonda è tutto un mutare forma, mentre cerchi di metterne a fuoco i profili. Puoi avvertire la cappa di tensione, il sapore d’ignoto che confonde le percezioni. Nemmeno questo ti ferma. I sensi catturano nell’aria un’insolita elettricità che sa di adrenalina.

Avida di sapere, distaccata dalle sensazioni più vivide, quasi ti compiaci della freddezza con cui osservi la realtà che si dispiega con rassegnazione davanti a te.

Eventi che ancora non conosci, sentori nebulosi che puoi solo provare ad accarezzare in un lampo particolarmente fervido d’immaginazione; lo sospetti – non del tutto, a dire il vero –, ma sai che verrà. Un fermento di cattive notizie dall’ampia portata, una caligine che pesa sulle spalle.

L’ingresso spalancato sul retro dell’edificio ti accoglie con un velo di grigiore notturno residuo incollato alle pareti dei corridoi e delle aule spoglie di vita; il linoleum dall’asettico color crema scorre sotto il tuo passo impassibile, spedito. E poi arriva l’andirivieni incessante, il brusio soffuso che si solleva nell’aria, che diviene indignazione, rabbia, rombo di protesta, valanga che invischia ogni spazio, onda anomala che chiama battaglia.

Il volto dell’Accademia è cambiato: non più studenti che si avviano ordinatamente alle lezioni della mattinata, le ultime tracce di sonno appena visibili sui volti.

Alcuni siedono in crocchio nel piazzale sulle panche gelide. Conversano fra loro, il gesticolare nervoso sancisce la sferza delle parole in ciò che sembra una critica feroce, un moto d’ira, un’accusa al vetriolo che percuote l’aria; occhi che vibrano nelle orbite stanche, sguardi sottili che corrono, strali invisibili alla ricerca del colpevole su cui puntare il dito, del dettaglio appetitoso, di uno straccio di indizio per gettare uno spiraglio di chiarezza sullo scandalo.

Altri stanno in piedi, nugoli irrequieti assiepati intorno all’ingresso principale come pronti a uno scontro immaginario, gambe divaricate in una posa aggressiva, mani tese nella smania d’agire, proiettili verbali che dalle labbra tirate cavalcano l’onda dell’indignazione.

I più insidiosi sono loro, loro che vagano senza posa come formiche spaventate in una strana processione, dentro e fuori. Quasi in spregio al regolamento, qualche timida voluta di fumo sale da alcune sigarette sfacciatamente accese. Un conversare malizioso e soffuso percorre l’aria, il sapore di dolce far niente in una scuola che oggi scuola non è: bordello, piuttosto – e allora, che senso ha prendersi il disturbo di raggiungere l’aula, depositare le proprie cianfrusaglie e attendere lezioni che non inizieranno?

 

Venduti, pagliacci, corrotti. Schifosi.

 

Sogghigni: lo scherno, il ridicolo sono armi potenti.

Ti è mai importato qualcosa? Si scannino l’uno con l’altro: l’avresti detto, in quel passato recente che sembra una foto sfocata; l’avresti detto quando ti crogiolavi dietro lacrime dense e una disperazione che reca il germe della forma peggiore di egoismo, veleno che alimenta una collera impotente.

Se l’eco del problema – e qualcosa di più complesso che non sai spiegarti – non fosse mai venuto a scrollarti dall’apatia, esacerbare i fumi del rancore, sollecitare l’eventualità di un riscontro personale e un umano disgusto.

Oltre alla rabbia, al brivido crudele di portare alla luce cumuli di carte false e carte stracce – che solo ora vedono la luce del sole, ostentate con tracotante orgoglio dai presunti fautori degli accordi dietro le quinte –, in quello che ho fatto, credete, non c’è niente di eroico, niente di cui essere orgogliosi.

Accarezzi la porta dell’Aula Magna come una belva da ammansire, e sorridi, un sorriso freddo, senza trasporto, perché la bambola inizia a camminare con le proprie gambe.

Una presunta dirittura morale che tutti, ingenuamente, ritenevano scontata, non era che fumo negli occhi, smaccata bugia, velo di Maya.

La promessa spudorata di un vantaggio dal risvolto materiale ha catturato l’onda e investito il dominio degli affetti, l’interiorità, fino all’illusione di una gioia duratura. Una piega di collera mista a rammarico ti indurisce le labbra arrossate dal gelo mattutino. Rapporti umani intessuti sotto le luci e le ombre dell’ipocrisia, di un astuto, ineffabile contegno; sentimenti e merce di scambio. Una bugia da cui deriva la costruzione di una felicità piena, pervasa di un appagante calore, figlia di un impianto di menzogne ben strutturato.

 

È forse colpa mia, Loria, se instaurare dei rapporti non è roba per te? Io creo dal nulla, cerco la chance, com’è giusto, normale che sia; di questo mi nutro. Tu sei arida.

Io posso, tu no.

 

Tu chiamali rapporti, cara stronza; chiamali teatrini ben costruiti, impianto ingannevole di una recita a puntino. Chiamali con il vero nome. Chiamalo leccare il culo!

“Sfigata” per definizione che fa sua ogni causa persa, che rifiuta di accontentarsi di guardare attraverso il velo e accettare con buona pace la propria inadeguatezza, i calci nello stomaco di un’indifferenza che le è dovuta; leone dalle sembianze ingannevoli di pecora, avvocato del diavolo, artista mascherato che gioca con la sorte.

Sorridi ancora. Un ghigno che gronda amarezza, una speranza dal profumo sconosciuto. Vendetta o giusta ripicca? Non sei diversa da loro. Non è il tuo trionfo, anche se un tempo avresti dato dieci anni della tua vita per carpire con occhi morbosi il momento. Rivalsa dal sapore inconsistente che non porta a nulla, se non a scandire il flusso delle sorti che mutano, salgono e poi crollano come castelli di carte; e tu osservi tutto senza lasciarti sfiorare, spettatrice silenziosa della disfatta di un nemico che forse non hai mai visto in faccia. Nulla di personale e accoratamente tuo.

Il brusio ti martella nelle tempie; le urla, le arringhe, scambio di prospettive vuote. È l’onda anomala che giunge a destinazione.

A fatica ti fai largo tra file di studenti assiepati per terra, gambe incrociate e sguardi di fiamma. Un sibilo intenso ti riempie la testa, ma ti sforzi di ignorarlo. Il mondo riprende a girare, ma la visuale è offuscata, allucinata, disattenta nel cogliere un quadro d’insieme che non fugga i dettagli. L’andirivieni così serrato e continuo da stordire.

E poi inerpicarsi su per la scala a chiocciola al centro della sala, alla ricerca di una boccata d’aria pulita e di un posto in prima fila.

A fatica oltrepassi un paio di ragazzi che neanche ti prendi la briga di identificare, e lì è il tuo posto di fortuna, la mente altrove, la tensione che sale.

Il dado è tratto.

 

* * *

 

(Aggiornamento 26/10/2012: ho “unito” prologo e primo capitolo. La risposta alla recensione si riferisce quindi a quella lasciata al prologo)

 

Passando ai ringraziamenti, come non citare il bellissimo commento di AhiUnPoDiLui?

È un meraviglioso complimento quello che hai fatto, perché hai centrato esattamente quel che volevo tratteggiare in questo primo capitolo. Realtà e sogno sembrano confondersi: ho voluto dare quest’impianto che sembra “velato” di nebbia e scandisce il flusso dei pensieri, dell’interiorità del personaggio che si muove sulla scena, delle atmosfere. Il paragone con il quadro impressionista… *.* Lì ho gongolato, a dover essere sincera!^^

Grazie a tutti coloro che hanno letto (nell’ombra), magari anche apprezzato (spero!) questa storia che, in effetti, si discosta un po’ dal mio solito modo di scrivere, mantenendone comunque viva l’impronta.

Alla prossima!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Davide e Golia ***


 

Capitolo 2

Davide e Golia

 

 

La dialettica è un’arma subdola, ineffabile, che viaggia su labbra nervose, scandita da una gestuale enfatica dall’animale sociale: è genio multiforme, mostro dalle cento bocche acquattato nell’ombra che ti avviluppa con le sue spire. Dea bifronte che muta le sorti, temibile come un coltello alla gola, come una falange di guerrieri schierata.

E le mani palpitano nella segreta frenesia di farsi largo nella folla, afferrare e scrollare con forza – fino a convincere della vanità delle proprie tesi – l’incauto conferenziere della domenica, calzoni aderenti e capelli sbarazzini. Forse tenta di salvare la faccia, sua e di quelli per cui ha dilapidato regali e lusinghe, mari e monti e promesse reciproche innaffiate di buon vino d’annata, coronate di sorrisi prostituiti al miglior offerente.

Un animo testardo non si arrende all’evidenza, si mette il cuore in pace; non rinuncia – neppure per l’esigenza di una parvenza di decoro – alla rete di legami così abilmente intessuta, alla corsia preferenziale procacciata con tanta perizia e fatica, alla garanzia di facili successi montati a tavolino e col sorriso ammiccante.

La banalità del non riconoscere, almeno una volta, che si sta scalpitando invano dalla parte sbagliata.

E ora, appurata l’inconsistenza del proprio ruolo, scartato ogni margine d’incertezza di trovarsi nel torto palese, un bravo prestigiatore, maestro nell’arte di rimescolare le carte, ha capito che i bivi per lui sono due: perdere la battaglia o la faccia. Ma la guerra, oh, perdere immancabilmente la guerra, e tutto da rifare, punto e a capo; smarrire quell’occasione ritagliata a suon di sgambetti e sorrisi di plastilina… Quello no, va oltre ogni ragionevole prospettiva.

Ergo il bravo illusionista, dinnanzi a manipolabili platee, sa che la propria dignità è un prezzo irrisorio in confronto alla possibilità di condurre a vittoria la propria insensata epopea. Meglio giocarsi il jolly che può mutare le sorti: il consenso delle masse. Spargere fango sull’avversario, magari, e minimizzare la portata delle questioni serratamene dibattute fino a quel momento, sono, fra tutti, i metodi più immediati che gli si prospettano.

Un innato carisma, una mente raffinata al servizio di un fine tutt’altro che nobile, sono belve incontrollabili. Scagliarsi sull’avversario, giostrarsi lo scontro campale sospesi a vari metri d’altezza sopra una lama acuminata, non è scelta da imboccare con leggerezza, così come non lo è confidare nella garanzia che un rivale umiliato non sappia giocare altrettanto duro.

Riderei dinnanzi all’astrusità di questo concerto di gracidii. O, molto più ragionevolmente, tratterrei il fiato tra le labbra serrate, meditando che ciò che auspica il nostro uomo non è proprio inattuabile come può appare a un’occhiata poco attenta. Riderei, e riderei di cuore, se le tempie non pulsassero in un crescendo di rabbia dall’impatto freddo, misto a un inconsueto fervore: il pensiero razionale offuscato, ancora una volta, da fuorvianti aspirazioni che si esplicitano nell’immediato, senza preavviso.

Mille ombre dinanzi ai miei occhi; voci che si sovrappongono le une sulle altre, maldestra sinfonia di grida che si traduce in caos privo di aggettivi. Poi, immancabile, il filo si spezza fra le dita.

 

La sottile ringhiera di ferro che ti taglia la visuale, spezzando la realtà in linea retta, non è un problema, e non lo è l’eventualità che l’impalcatura crolli sotto il peso di venti animi roventi, appollaiati sugli scalini dal vertiginoso andamento curvilineo. Non temi che la struttura di una realtà scontata e semplice collassi su se stessa, catapultando nel carosello della contraddizione qualunque oggetto graviti nel suo raggio.

E la vedi chiaramente, in fondo ai tuoi incubi, la pallida Elena – la sua versione più accreditata, incompleta e distante dalla realtà del cuore, scialba tappezzeria relegata dalle sue stesse paure in un angolo anonimo, il cuore gonfio, l’anima confinata oltre le spesse inferriate di un blocco oscuro e profondo, di un’angoscia che inibisce il respiro e ti riduce a scenografia senza voce.

Osservi per un istante l’intangibile, delirante rappresentazione dei tuoi timori, ma poi una nube cala dinanzi ai tuoi occhi, la mente sgombra di ogni implicazione deleteria: una piega temibile sul volto, le gambe che si drizzano in piedi. La voce graffia in fondo alla gola, parole che affiorano su labbra atteggiate in un piglio risoluto.

Troppo tardi per non colare a picco, amico mio. Troppo tardi.

Ed è la fine. Un’esplosione priva di eco che ti vibra nel petto e non regala tracce visibili: solo una spontaneità di agire che da troppo tempo non riuscivi ad assaporare, imbrigliata nell’intrico di mille schemi mentali e di un’inquietudine inafferrabile.

Hai mai riflettuto su cosa potesse significare riprendere a respirare, tornare in vita, uscire e riveder le stelle? Le avvisaglie non erano poche né scontate.

L’altro da te, in questo momento, non è che forza uguale e contraria alla tua, avversario contro cui lottare ad armi pari, che ora sai di poter battere con una mossa sapiente mentre annaspa sul filo del rasoio. Non è nient’altro che questo: ogni implicazione nociva viene a mancare, e la funesta equazione che per troppo tempo ha retto e giustificato i tuoi mali, impazzisce. Non hai più paura di alzare la voce, non hai paura di essere Elena Loria, e l’ebbrezza di “essere” non è più utopia.

- Che cosa ti prende, Alberti? Hai il conto in rosso a furia di allungare bustarelle? Ti si è seccata la lingua?

Un’ovazione di risa ti esplode intorno. Socchiudi gli occhi, l’illusione di una brezza leggera che ti lambisce il viso. Un tepore rassicurante si fa largo in ogni cellula del corpo, calma ogni tremito e non scalfisce la tua lucidità: sai cosa fare senza che lo sforzo di un processo logico inibisca le possibilità di agire.

Qui si pagano mesi di fottute menzogne. Qui si paga il fango gettato sul professor Neri, rimpiazzato da una manica di fantocci. Non è così, Alberti e compagni?

 

Taci, immobile in cima alla scala ritorta, figuretta esile dal volto pallido e tagliente, lo sguardo imperioso, quarantasette chili che si vestono di fiamme, la voce insospettabilmente stentorea che riecheggia.

E mille volti si muovono davanti a te, alcuni conosciuti, altri intercettati di rado e fissati nella mente solo adesso, il sorriso come veicolo di un tacito consenso. Non riesci a ripercorrere il flusso di parole puntuali e concise che hai scagliato in faccia all’interlocutore, ma l’onda d’urto innescata non può più ritrarsi.

Nulla ti fa tremare; nulla, stavolta, ti troverà impreparata a parare il prossimo assalto. Attendi, una piega ironica sulle labbra, come una fiera che brama la mossa successiva della sua preda, astuto pretesto per rincarare la dose in un gioco di colpi serrati di cui stai scrivendo le regole.

E l’offesa, come da copione, giunge senza farsi attendere, varca la barriera delle labbra increspate in un sorriso di prematuro trionfo, pronta ad innescare la reazione.

Nihil sub sole novum. Niente di nuovo sotto il sole.

- Oh-oh! – mani inanellate carezzano distrattamente le labbra ghignanti con fare pensoso – Loria! Le tue perle di saggezza mi mancavano! Mancava solo Grazia Deledda dei poveri (*), all’appello degli sfigati… Che manco il corso di dizione ti ha messo a posto quell’accento orrido. Ti chiederei di farti una bella indigestione di fatti tuoi, se non sapessi quanto te ne importa. Se qua tutto va a rotoli, cara, anche tu te ne tornerai a pascolare nel tuo ridente paesello.

L’insulto sferza l’aria, perché, quando il combattente si dibatte nella tela e, svantaggiato in partenza, smarrisce la forza dei propri argomenti, allora urge un diversivo: e attaccare l’altro, vomitare sarcasmo e tentare di ribaltare l’impensabile sfruttando l’effetto catartico e imprevedibile del ridicolo, è ciò che gli resta prima di ricadere sul fondo insieme ai suoi propositi.

Il fendente vibra sulle pareti, e un riverbero di stupefatta indignazione si propaga di sguardo in sguardo; il baricentro dell’attenzione dei presenti vaga dalla figura risoluta e trionfante che gonfia il petto al centro della scena, allo scricciolo d’acciaio che fa capolino al di là del corrimano. È dura decidere se dedicare il proprio pronostico di vittoria al Golia con la clava stretta in pugno o al piccolo Davide con la fionda tesa, che attende, carica il proiettile, tende l’elastico e attende.

E poi il silenzio che preannuncia il tuono. La collera scema all’orizzonte, s’incanala nelle vene in un flusso indolore, si placa nella sua immediata traduzione in altrettanto sarcasmo. Sangue chiama sangue.

- D’accordo – calma glaciale, sguardo liquido di falsa indulgenza, labbra stirate in un gelido sorriso – Noto del sarcasmo nelle tue parole. E del razzismo. Se questo è il tuo… modo di vedere la cosa. Quanto al resto, te lo dico in limba: ficchidìnci in su cunnu! (**)

 

E il vapore della rissa verbale, toccato l’apice, cede il posto a un brusio carico di perplessità, l’ombra dello sconcerto che si allarga sul volto dell’aggressore, incerto su cosa fare, sul se e come replicare a parole dal tono caustico che sibilano disprezzo come piccole armi puntate, composte in un insulto dal suono aspro di cui non riesce ad afferrare il significato.

Pochi istanti di smarrimento che decretano la tua vittoria al sapor di veleno. Ed è un balsamo profumato d’ambrosia che scorre in punta di labbra. Risate mascherate in un finto colpo di tosse. Poi, il sollievo.

 

 

 

 

 

 

(*) Il (poco) simpatico Alberti, volendo destabilizzare l’avversaria, le rivolge la prima risposta acida che gli salta in mente e, osservando sommariamente la semi-sconosciuta interlocutrice, la scelta ricade sulla battutaccia a sfondo semi-razzista riguardo la regione di provenienza. La protagonista, Elena Loria è di origini sarde; studiando da attrice di teatro, ha seguito dei corsi di dizione, ma l’accento caratteristico si sente ancora quando parla senza troppo controllo. La scrittrice premio Nobel Grazia Deledda è stata, a quanto sembra, la prima associazione d’idee che Alberti ha ricollegato alla terra di Loria. Quindi, alla fine, un paragone che voleva essere irriverente, così non è stato.

Sono sarda anch’io, adoro la mia terra, e l’ironia semi-razzista del personaggio maschile in questione non mi appartiene nella maniera più assoluta. Anzi, volevo proprio mettere in ridicolo la cosa.

 

(**) Piccolo vademecum linguistico:

te lo dico direttamente “in limba” ? “Te lo dico direttamente in sardo (letteralmente: “in lingua”), visto che hai mostrato interesse per l’argomento”.

(Perdonate i “paroloni”) “Ficchidìnci in su cunnu” ? Insulto comune (e cattivello) che suona all’incirca “Tornatene nel luogo donde provieni, nel grembo che ti generò”. Traslando il significato, “potevi tranquillamente non prenderti il disturbo di venire al mondo”.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 - L'angelo azzurro ***


 

Capitolo 3

L’angelo azzurro

 

 

Giri di sguardi che vagano nell’aria tesa, e l’onda lunga della colluttazione verbale sfuma all’orizzonte. Ultime scintille di un fuoco morente che svaniscono dinanzi agli occhi in un turbinare di volti la cui momentanea perplessità si stempera ben presto in un moto di approvazione. Un mormorio carico di biasimo che fende l’aria fino a urtare l’ego imponente del monarca prossimo alla deposizione. È l’eco smorzata di un frammento di realtà in un mondo irreparabilmente capovolto.

 

So cosa pensate senza bisogno di sentirmelo dire, senza moti di benevolenza pervasi di quel fallace consenso che prima o poi evaporerà come foschia, quando gli schemi cambieranno di nuovo.

E non era fuori luogo l’idea che qualcuno, qualcuno tirato a caso dalla sorte, alla fine si risolvesse nello sforzo verbale d’incrinare la strafottente egemonia di uno dei divi del “Goldoni”.

Qualcuno sorride: forse avrà intuito con un certo margine d’approssimazione il contenuto metafisico dell’ingiuria che ha costretto il caro Alberti a chinare il capo un istante, l’orgoglio scalfito in superficie, orfano di quell’“ultima parola” che consacra l’autocrazia delle lingue taglienti, le labbra impacciate nel ricercare la replica più adeguata, il fiele della parziale sconfitta che brucia nelle iridi.

È l’errore che mai, mai prima d’ora, probabilmente, avevi contemplato lungo il tuo cammino, Alberti dalla mente sottile addestrata alla persuasione e alla menzogna: la prima volta, forse, che la tua battaglia non coincide con la Battaglia, stendardo diffuso sotto cui è facile trovare rifugio, e che cela l’intento individuale. Forse hai capito solo adesso che hai sopravvalutato la forza del tuo ascendente, e magari, se non fosse ormai tardi per ritrattare, ti dibatteresti a rigirare le carte con l’abilità di un contorsionista. Nel paradossale tentativo di tornare indietro ed eludere la macchia d’olio che ti ha fatto sbandare lungo la scorciatoia; magari scaricando con noncuranza il nocciolo intero della questione su qualche valvola di fortuna. E lo faresti con una mossa da fuoriclasse. L’errore cruciale è stato non esserti precipitato da principio in quella che sarebbe stata la parte vincente della barricata, intorbidando le acque sul tuo reale coinvolgimento.

Povero, ingenuo, poco lungimirante Alberti: andasti per immerdare e t’immerdasti con le tue mani.

 

Ridi, ora, Elena.

Ridi, e lascia scorrere per un istante sul tuo viso il sollievo di non dover contemplare di nuovo dinanzi a te il dilemma fra la decisione facile e quella che sembra la più giusta.

Un nodo di ansia residua scioglie il respiro, dissipando l’ultimo barlume di tensione che per un attimo ti ha serrato la gola. Non c’è gloria in tutto questo, ma lo scoppio di ilarità nervosa che ha seguito l’assalto, è così contagioso da distogliere definitivamente l’attenzione da Alberti e dalle sue filippiche.

Come un filo invisibile che arriva, scioglie l’emozione e guida la mano, la lingua ad articolare le parole, la mente ad affinare le percezioni e aggiustare la mira; un insolito coraggio ha reso questo possibile, ha decretato che nulla, nulla, stavolta, s’interponesse tra te e i tuoi passi. Quell’impianto rigoroso che governava il tuo farti largo fra maschere vuote di vita, ora è caduto, svanito.

E quella sensazione di libertà appagante e giocosa che non provavi da tanto tempo – la mente a lungo inquadrata dentro schemi tesi a decretare il tuo ruolo inerme dietro la scenografia –, di colpo si definisce nei contorni di due grandi occhi scuri, iridi di miele circonfuse di calore che puntano su di te, e nell’impronta luminosa di un sorriso che riscrive il profilo delicato davanti a te.

Lo vedi. Un lampo d’intelligenza gli increspa la fronte, la mente registra il consiglio spassionato generosamente elargito al prode Alberti.

Ha compreso. Almeno lui ha compreso. E ride anche lui, ride con te, un accesso d’ilarità accortamente dissimulato tra le dita.

Nicoletti Andrea, classe 1989, ammiccante cocco dei professori a mezzo servizio, getta la maschera e cambia bandiera.

 

- ’cazzo ridi, Nicoletti? – un sussurro malevolo, un rombo d’indignazione.

Stride nel mormorio diffuso, spezza quella precaria armonia.

È lì. La figura spavalda di Alberti, occasionale proiezione dell’altro di te che crea il conflitto, l’ostacolo, l’occasione; avanza con artificiosa impassibilità su per la scalinata, riduce le distanze, un sorrisetto ostile che si fa largo sul volto dall’espressione indolente.

- Fuck you, Alberti. Fottiti. Ricevuto il messaggio?

La sua voce suona limpida, profonda, appena scossa dallo stesso fremito che gli increspa l’arco perfetto delle sopracciglia in una piega strafottente. Le palpebre si stringono in un’espressione decisa, e solo le labbra tradiscono la dolcezza di un volto marcatamente femmineo.

Nicoletti. Lui, Andrea Nicoletti. Lo studente modello, l’ex favorito che ogni tanto si lascia fregare da qualche grillo per la testa; la stellina, ex amico di coloro che ora attacca senza timore.

Dopo le dimissioni del suo professore preferito, Nicoletti è incazzato. Molto, molto incazzato.

È tradimento, alto tradimento da ambo le parti, vie parallele ormai disgiunte.

E Alberti avanza fino a sovrastarlo, la collera sul viso mitigata da un’ondata di stupore.

- Tu eri…

A conoscenza di tutto.

Annuisce, Nicoletti. Seduto, gambe distese, il volto reclinato ad incrociare lo sguardo del suo contendente, e ceri ardenti in fondo alle pupille.

Si stringe a me in un inconscio tentativo di proteggere entrambi dallo scoppio d’ira imminente. Ma non basterà.

- Sono…?

Non sono una merda come voi, che getta a mare ogni parvenza di rispetto di sé come prezzo ragionevole, come merce di scambio su cui contrattare, per poi giostrarsi in tutta calma una partita già truccata.

L’avresti detto, Andrea, senza bisogno di sciacquarti la bocca, senza esitare, e lo capisco, se due tenaglie non fossero calate su di te, dita implacabili che si serrano sul cotone della maglia. Lo scossone improvviso quasi ti toglie l’equilibrio e ti lascia annaspare a mezz’aria come una marionetta dai fili spezzati.

Sta per massacrarti.

- Tu eri d’accordo con questa… buffonata da cretini!

- Alberti, lascialo!

Un fortuito lampo d’astuzia del piccolo Davide stavolta non basterà ad aver ragione sul gigante Golia. Non stavolta.

Non è particolarmente grosso, Alberti, ma l’essere che strattona è un agnello recalcitrante. Mani che lo strattonano, e quello niente, iridi scure fisse sull’avversario, sprezzanti.

E poi, come se tutto avesse ripreso improvvisamente a girare, qualcuno si frappone tra i due. Braccia che si dibattono a separare i litiganti, e un intreccio confuso che fai fatica a dispiegare.

- Mollami, stronzo! – Alberti si dibatte fra un paio di mani risolute che ne trattengono lo slancio – È un bastardo! Un contaballe!

- Lascialo in pace! – l’ordine giunge categorico, puntuale.

E poi quel qualcuno dal braccio fermo si affretta a trascinare Alberti giù per la scalinata in una processione d’improperi. Un ultimo sguardo, gelido, vaga sul povero Nicoletti intento a massaggiarsi il braccio. Volti assenti che si scrutano, e l’uomo dal provvidenziale intervento sparisce nel gorgo variegato della folla, conducendo con sé un recalcitrante Alberti.

 

* * *

 

Sorride, Andrea, complice silenzioso della rivalsa, le labbra scolpite nella neve; a fatica si scrolla via la paura di ritrovarsi, tempo qualche secondo, riverso sulle scale sotto il peso della propria coscienza che sarebbe sì rimasta pulita, in contrasto con una faccia sporca di sangue.

Un casuale sfioramento della mano sul suo petto, in un gesto inconsciamente protettivo che cattura sotto le dita il battito accelerato, lo strascico di una paura non camuffabile.

Non dici nulla e torni a rigirare pigramente una lunga ciocca bionda fra indice e medio, una piega ironica sulle labbra. Le mani scivolano dietro la nuca e ravviano i capelli in un gesto indolente. Un sospiro che dirada la tensione, e il mosaico si ricompone. È come tanti frammenti che aleggiano nell’aria, mentre gli oggetti reali riprendono a palpitare vivi, non più mortificati dalla patina di mille nodi esistenziali che t’impediscono di sentirli, di catturarne l’essenza.

Tutto ciò che da normale era divenuto utopia, complicata e irraggiungibile accezione, in quell’attimo torna al proprio posto in un impianto che non si configura più in una rappresentazione incompleta e sfuggente, capace di procurare dolore. Un calore che si diffonde in ogni fibra del tuo corpo, ogni segnale d’allarme che cessa di appannare la mente.

- Andrea Nicoletti – gli occhi scintillano di amichevole curiosità – Sardo come me, suppongo.

Annuisce.

- Come…

- Beh, hai compreso dove ho mandato Alberti. E… L’accento. Si sente, quando t’incazzi.

Un moto rassegnato gli percorre i lineamenti distesi.

- Il vero problema è che non sono l’unico e nemmeno il più incazzato.

Obbediente, giri lo sguardo tutt’intorno, verso il punto di rottura.

Un ultimo sussulto d’indignazione percorre la massa di studenti stipata in Aula Magna, la piovra dagli istinti volubili, disseminata nella stanza in una forzosa occupazione; e l’intenso vociare si spezza in un brontolio ovattato. Qualche timido tentacolo qua e là fiuta nell’aria la mossa successiva, una confusa linea di lotta che chiede d’inasprire la posta in gioco, caduta la forza delle parole in una conclusione nulla. Borse e giubbetti raccattati velocemente, ed ecco i primi nuclei isolati che abbandonano l’aula, orgogliosa indignazione scandita da movenze nervose. Episodi sporadici di ritiro sdegnato che presto divengono un mutevole formicolio di animi inquieti che guadagnano l’uscita. Qualche fischio, qualche grido di protesta che emerge nel chiacchiericcio, ed il vivace brulichio cede il posto al gelo di un tacito dissenso.

Nicoletti scuote il capo, indolente, le onde morbide dei capelli che gli lambiscono le spalle rilassate. E il suo sguardo interrogativo vaga sul tuo volto.

- Loria, giusto. Loria…?

- Elena.

La mano pallida si tende con fraterno trasporto, calda profferta d’amicizia.

- Andrea Nicoletti, Andre per tutti gli altri, se si esclude la professoressa Longoni ed i suoi appellativi “cognominali”, manteniamo le distanze e tutto il resto, con conseguenze che saranno buon materiale d’indagine per il mio psichiatra.

- Non è così male – un sorriso appena accennato, una sensazione d’incontaminata, spontanea familiarità.

Parole che affiorano fra le labbra senza chiedere il filtro di un impianto mentale contorto.

- Cosa non è male?

- La Longoni e la sua “disciplina”. Dare del “lei” e tutte quelle altre cose, come lo scienziato pazzo – reiteri con enfasi melodrammatica – Escludendo difetti di collaudo.

Neanche tu sei male, Nicoletti o “Andre” che dir si voglia.

Non è male quella voce pulita dalle note sensuali, che difficilmente attribuirei a una figura dall’apparenza così delicata.

E l’ondeggiare dei riccioli sulle spalle quando muove la testa; volute così invitanti che quasi tenteresti di farteli scorrere tra le dita per tastarne la consistenza soffice. O di assaporare con calma il disegno di quelle labbra dal tratto infantile.

Un improvviso cessato allarme può nuocere irreparabilmente a un equilibrio quanto mai provvisorio. Succede che tutto sembra virare in direzioni accidentali.

Calma.

Calma, Elena. Elena, calma.

Ora respira e, da brava, ficcati bene in testa il motivo per cui sei qui. Scrivitelo da qualche parte, traccia un elenco, se non ti riesce fare da sola un promemoria, ma fa’ qualcosa: sai come finirebbe.

Pazza. Completamente, irrimediabilmente, spudoratamente pazza.

Potrebbe barare con l’età ed essere minorenne; potrebbe avere là fuori una ragazza che se lo scopa già a dovere, e arrivederci e grazie. Potrebbe essere in circolo dentro quella sua testolina l’idea di mandare a monte i più dorati progetti sul suo futuro e optare per la vita monastica. Potrebbe essere gay o magari, al dunque, preferire concedere le sue intimità, che ne so, al suo amato professor Neri, piuttosto che ad una bionda sboccata conosciuta sul momento che, con ogni probabilità, potrebbe non avere tutte le rotelle al proprio posto; una semisconosciuta che fuma come una turca e la cui specialità, improvvisamente, è divenuta sciogliere le contese che la vedono parte in causa con un bell’invito a… quello, insomma. Meglio se comunicato al proprio astioso interlocutore in modo a lui non comprensibile.

Potresti aver sbagliato tutto prima ancora di addentrarti nei più infidi meandri del discorso; potresti non averci preso proprio per nulla, e potrebbe pure rivelarsi vera l’unica eventualità che avevi posto ai margini del possibile, l’unica che non avevi machiavellicamente procrastinato.

Vaffanculo, Loria.

‘fanculo alle seghe mentali da telenovela, così ai limiti della prevedibilità da sfiorare il grottesco e il patetico.

E cento e mille volte ‘fanculo all’impronta ormai sbiadita di uno sconforto generale, deleterio metro di giudizio che da troppo tempo ha supportato i tuoi fantasmi con la forza di una logica distorta e avuto sin troppa parte in causa nel tuo mandare sistematicamente a gambe all’aria il più ottimistico degli intenti.

Ma non per questo lascerai che l’ennesima stronzata ti s’intrufoli nella mente di soppiatto. Non senza aver calcolato i rischi a mente fredda, e veloce, prima che lo sforzo diventi vano. Ti è andata bene una volta, non è ancora lecito cantar vittoria.

E poi, sai come dice il proverbio, no?

“Non dire gatto, se non l’hai nel sacco”.

“Non fare i conti senza l’oste”.

E mille altre metafore proverbiali che adesso proprio non ricordi.

 

Però il ragazzo è un gioiellino. Rifinito al millimetro da un orafo esperto, e da maneggiare con cura.

Oh, Loria. fa’ una cosa intelligente: fottiti!

 

* * *

 

- Un monumento: sì, ci starebbe.

- Uh?

Terra chiama Loria. Terra, sai, quell’ammasso confuso di pietre, di suoni e di vita in cui tutto sembra procedere deliziosamente alla rovescia, in barba alle aspettative.

Un nervoso battito di ciglia catapulta nuovamente il tuo sguardo sulla presenza delicata e sfuggente che pare essertisi incollata addosso sin dalla scenografica uscita di scena a furor di popolo dall’Accademia in rivolta. Un sogno sfocato, un dramma già scritto, ogni mossa caricata a mille, scandita dalle note irregolari di un dissenso manifesto. Occhiali da sole sfacciati, mani che si muovono fluide nell’accensione della seconda sigaretta della mattinata.

- Per celebrare degnamente l’occasione. Un monumento al milite ignoto che ci ha aperto gli occhi su come andavano davvero le cose e che ha sputtanato tutto; un monumento al signor Enne Enne che si è messo il culo al riparo appena in tempo. Un monumento a Elena Loria per il benservito ad Alberti e al suo clan di avvocati difensori, e per aver rispedito la merda al mittente.

E un monumento a Nicoletti che è uscito dal circolo dei furbi, vorresti aggiungere. Alla coscienza di Andrea Nicoletti.

Sorridi, vorresti minimizzare l’accaduto: sei fortunato, Andrea, perché, se davvero un eccesso d’euforia dovesse portarti per assurdo a commissionare monumenti celebrativi lungo tutto il piazzale, potresti tirare un sospiro di sollievo e limitarti ad uno soltanto, perché una è la persona che risponde a quelli che hai descritto come meriti. Sempre la stessa.

È stato tanto, d’accordo: troppo, considerando i tuoi standard medi di reazione, e non lo ammetteresti neppure sotto tortura.

- Ma dai! È stato dopo quella battutaccia da snob e razzista che… non ci ho visto più, ecco. Anche se, beh, era ciò che volevo: fargli perdere il controllo, provocare una reazione impopolare che lo mettesse con le spalle al muro, lui e la sua credibilità. Qualcosa che lo rendesse indifendibile. E lui ha mangiato la foglia e si è sputtanato da solo.

- Elena… – esordisce enfatico, disarmante nel richiamare su di sé l’attenzione: hanno poco valore le scusanti raffazzonate sul momento, quando per lui ormai la realtà si configura nell’elogio sperticato ed entusiastico all’insospettabile faccia tosta di Loria Elena, classe 1988, e al suo inaspettato colpo di fortuna; Andrea parla, la realtà si modella secondo le sue congetture.

- L’hai fatto nero – prosegue – Nessuno l’aveva mai messo nel sacco con tanta semplicità. O nessuno ci aveva mai provato davvero – il suo sguardo si fa serio, stridendo col garbato sarcasmo che gronda fra le parole – Per uno come lui, carino, intelligente, abituato ad avere consensi, è tanto eccome, la figura barbina quando gioca in casa.

Trattieni il fiato. Chi l’avrebbe detto, solo poche ore prima, quando la situazione sembrava di nuovo sotto il tallone dell’élite? Fantasmi vendicatori che fustigano pubblicamente i discolacci di turno, non sono un evento consueto.

Per non parlare della follia di crearsi dal nulla un nemico di quelli tosti, come se tutto il resto non fosse abbastanza per spezzare la monotonia di un frangente qualsiasi di un giorno da leoni.

- Andre, non esagerare. Per fare “neri” quelli come lui ci vorrebbe ben altro. Tanto più se penso che sarebbero i tuoi occhi, a quest’ora, ad avere quella tipica colorazione intorno alle orbite, se non fosse stato per quel, quel…

Un’ombra scura, ciglia lunghe che schermano in un ammiccamento nervoso lo sguardo che vibra, che si perde in un punto insignificante.

- Gabriele Derossi – conviene alla fine, sputando quel nome in un’unica emissione di voce a labbra tirate, quasi a voler sgomberare la mente da un pensiero insostenibilmente molesto.

Incognite.

- Qualcosa non va?

Lui scrolla le spalle, e il leggero disappunto sfuma sui suoi lineamenti in un’impronta interrogativa. Occhi al cielo, combattuto.

- È che… non capisco perché abbia impedito che Alberti mi riducesse in formato spalmabile. Tutto qui.

- È amico di Alberti?

Domanda intelligente. Derossi e Alberti: da dove cominciare? Perché la certezza che tra Derossi e Nicoletti non scorra esattamente buon sangue, è cosa talmente ovvia che neppure vale la pena far domande sciocche. La certezza numero due è che infilare due galli nello stesso pollaio non è un’eventualità da prendere sottogamba, ed è sufficiente.

- Che ne so… Non lo so di chi è amico – scuote il capo – No, non sono amici. Derossi non ha questa familiarità con Alberti, non bazzica da quelle parti – una smorfia indecifrabile – Figurati! È così pieno di sé che sembra non consideri nessuno alla sua altezza. Non è uno che si espone, non lascia capire molto ciò che pensa.

Strano ma vero, eppure quello strano e antipatico e pieno di sé ti ha salvato il culo per un soffio. Qualcosa non torna?

- Beh, è poco per capire cosa gli frulli in testa – sentenzia senza troppa convinzione, quasi ad aver colto nell’aria l’ombra di una leggera perplessità.

Buio.

 

Perché si potrebbero trarre le stesse conclusioni su di te, Nicoletti dal volto poco definito: non ti conosco, nessuno mi garantisce che possa fidarmi di te. Anche tu andrai a letto bianco e ti sveglierai nero?

Sarebbe saggio, in fin dei conti, sperimentare sulla mia pelle l’ebbrezza di un salto nel buio?

Solo stavolta. E il perché non so dirlo, anche se i pensieri continuano a girarci intorno.

Perché hai gli occhi belli, Andrea Nicoletti. Perché non è difficile interagire con te, parlare, sentirti. Perché la volubile alchimia di corrispondenze, di sensazioni, di casualità, di, insolite congiunzioni mi dice “sì”.

 

 

 

 

Salve a tutti coloro che son giunti sin qui! Sì, lo ammetto: stavolta vi ho fatto aspettare tanto.

Ringrazio come sempre coloro che leggono e commentano, in particolare AhiUnPoDiLui e Olghisch per le loro splendide recensioni.

Alla prossima!^^

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 - Uomini a confronto ***


 

Capitolo 4

Uomini a confronto

 

 

È un tepore dolce e frizzante a dominare i sensi, in quegli sgoccioli di inverno, albe brumose che declinano come una carezza sbiadita. Pallidi raggi di sole che fanno capolino tra le fronde degli alberi e s’infrangono in spiragli polverosi che confondono la vista nel gioco di luminescenze.

L’erba avvizzita, impronta di mattini gelidi e densi di brina, fruscia sotto il tuo corpo.

Distesa in quella radura solitaria, nel ritaglio di tempo tra l’intervallo del pranzo e le lezioni del pomeriggio, attendi; non t’importa degli steli sottili che s’impigliano nei capelli. Le dita sottili scivolano lungo il filtro della sigaretta, le unghie laccate di nero, e il sapore dolciastro e ingannevole danza tra le labbra socchiuse per risolversi in una nuvoletta proiettata verso il cielo.

E dopotutto non è male il perdurare di quel limbo mentale. Non è male l’intimità spontanea e giocosa – né quell’atmosfera di stasi guardinga, mentre i contorni stentano a ridefinirsi – né il calore del suo corpo, il contatto casuale sul fianco, le palpebre sottili che cedono all’infierire della luce diretta e si socchiudono.

Scuote i capelli scuri, le iridi che seguono distrattamente il percorso di quell’ultima voluta di fumo che sale pigramente verso l’alto.

Non fuma, Andrea. Lui, mai un capello fuori posto. Troppo perfetto. Non sembra cosa “da lui”. Che tu sappia.

- Posso? – allunga la mano, quasi a voler contraddire i tuoi pensieri, verso il pacchetto quasi intatto abbandonato in bilico sul petto.

Tentativo neppure troppo dissimulato di sfiorare la curva del seno.

E questo è decisamente da lui: non si può dire che Nicoletti sia uno che non sa come canalizzare la palese malizia di un gesto in un’istrionica acrobazia per salvaguardare la sua buona fede. O a volgere l’ironia in pungente sarcasmo.

Scuoti la testa.

- Ecco. Adesso inizi a tossire come un disperato.

Il filtro marroncino è quasi un insulto su quelle labbra sinuose dai tratti infantili. Aspira poco convinto, la tensione di un istante, il volto impassibile. E sorride.

- Oh, figurati. Con Derossi in stanza, ci si abitua a questo e altro.

Già, Derossi. Il Gabriele Derossi della mezza rissa sventata in Aula Magna, quando i fuochi della rivoluzione annunciata ancora non si erano dissolti in una nube di vapore, lasciando come ricordo i fumi del sospetto e del rancore. Equilibri riscritti, legami sconvolti e maschere cadute, contorni delicati che esitano a trovare un nuovo assetto. Tutto in sospeso. E tutto tace, la brace cova sotto le ceneri.

 

Derossi, sai, quello sempre svanito, che sembra stare in una dimensione tutta sua – senti chi parla, Loria!

 

- Dividete la stanza al convitto degli studenti?

- Dividevamo. Un bel po’ di tempo fa.

- E… Com’è?

- Normale. Sembra a posto. Beh, per i nostri standard. Se escludi l’abitudine di affumicare il salotto per la canna rilassante di metà pomeriggio.

- Derossi si fa le canne?

Sogghigna.

- Non lo sapevi? È la sua unica macchia. Però è uno che non rompe le palle. O non le rompe troppo spudoratamente. Per il resto, canne o non canne, è uno già schizzato di suo.

 

E quindi Nicoletti fuma – o ci prova con l’enfasi del bimbo tracotante –, Derossi si fa le canne, e Loria, per quanto lungi da una popolarità sui generis, da un po’ di tempo a questa parte si trascina dietro come patina sbiadita la fama della persona che, fra le altre cose, sa anche farsi rispettare.

L’Accademia ribolle sotto un’ingannevole superficie piatta e, dopo i bellicosi pronostici iniziali, tante urla sprecate e chili di deliziose, innocenti, rassicuranti cazzate, torna a celare i bollori sotto le ceneri di un nulla di fatto e di un’indifferenza sospettosa, foriera di sorprese non necessariamente piacevoli. Il piccolo, delizioso microcosmo accademico che non è più quello di una volta.

I “buoni” aguzzano i cinque sensi, gli occhi foderati di una diffidenza perenne; i “cattivi” affilano i loro coltelli.

E il bravo Nicoletti si addentra di sorpresa fra le trame dei tuoi più fumosi rimescolii cerebrali, fugando la ricomparsa all’orizzonte di un impianto nocivo capace di farti rialzare le barriere, di minare un sereno rapportarsi con l’altro da te sul filo di una confidenza sempre più spontanea. È lui che riscrive il copione e ti rende viva.

È come ripercorrere le proprie giornate con passi innocenti di bambina, senza domandarsi i più deleteri “perché”.

 

* * *

 

Con lui prendi posto nell’aula pervasa dal chiacchiericcio pre-lezione; con lui ridi rammentando un episodio buffo, uno strafalcione di questo o quell’insegnante.

Non sembra importargli molto, se quelli che considerava amici, non lo degnano più di un’occhiata, quasi fosse un fantasma: è il voltagabbana da ostracizzare, lo spione, il bugiardo che ha cercato di infangarli, pronto a marciare sui loro cadaveri.

Loro sono lì, attendono la mossa successiva come sicari nell’ombra e incoccano la freccia; con noncuranza, si lambiccano il cervello alla ricerca dei giri più fantasiosi con cui fargli pesare la perdita del suo posto al sole per alimentare con il veleno dell’indifferenza l’umiliazione di Andrea nelle sue nuove, inedite vesti di sfigato-rosicone-asociale. O, almeno, sperano di prenderci giusto.

Quasi temi che da un giorno all’altro prenderà avvio la loro scalata sugli specchi con l’intento di inquinare le prove a loro sfavore e voltar pagina, pronti a farsi interpreti del nuovo pensiero vincente. O di quello che annovera più sostenitori, dimostrato dalla prassi degli eventi e da indizi inoppugnabili. Perché incaponirsi sulla causa bocciata non ha più senso. Volteranno bandiera e cadranno in piedi senza colpo ferire.

 

- Che fine ha fatto il tuo amico Derossi?

Isa. Capelli corti di una vistosa sfumatura ramata, una lingua che non sempre interloquisce con cognizione ed una discreta abilità di controllo e manipolazione.

Sospiri: la consapevolezza di detestarla in silenzio non è un antidoto sufficiente. E quasi compiangi il povero Alberti per essersi affiancato una serpe di tale levatura.

Fanno capannello sulla porta dell’aula come comari sul sagrato della chiesa dopo un funerale.

- Derossi, dici? – la mano di Alberti rincorre distratta le ciocche spettinate che gli ombreggiano la nuca – Sarà a farsi una canna al cesso. Come al solito.

Gabriele irrompe in quel momento. All’ultimo momento e palesemente di cattivo umore, il volto arrossato per la corsa lungo infidi corridoi dal pavimento liscio. Si fa largo con malcelata sopportazione sotto il fuoco incrociato delle occhiate sprezzanti di Isa, di Alberti e dell’eterogenea palude che ridacchia alle loro battute e non indietreggia di un millimetro per agevolargli il passaggio.

Due liquidi occhi scuri che irradiano disprezzo su coloro che fino a qualche istante prima stavano processando i cazzi suoi.

- Si scherzava, Derossi!

Una reciproca spallata poco amichevole, al suo passaggio, sancisce l’evolvere della situazione verso un corridoio troppo stretto per due contendenti – o forse tre, aggiungendo all’appello l’onnipresente Andrea Nicoletti, nodo e fulcro inconsapevole delle tensioni.

E il bel Gabriele si trascina a prendere posto, i lineamenti dall’ossatura sottile pervasi da un velo di estenuazione che si addensa negli occhi lucidi, incastonati nelle orbite scure. Qualcosa non va, Derossi: sei un morto che cammina.

Sospira. Un mezzo sorriso un po’ imbarazzato gli increspa le labbra.

- Ciao, Elena. Avresti gli appunti della volta scorsa…?

 

Tre giorni e un copione che si ripete come in automatico, tra occasionali, uggiose pioggerelline che siglano con inchiostro avorio l’ingresso della nuova stagione, e sprazzi di cielo dorato oltre il vetro, ad evocare una boccata d’aria fresca.

Gabriele Derossi che fa il suo ingresso in aula all’ultimo momento, quasi furtivo, lo sguardo assente perso in chissà quali anfratti della sua mente; reciproca occhiata ostile a mo’ di singolare convenevole con Alberti e soci, zoppicata fino ai due enigmatici figuri della fila là in fondo, la ragazza introversa dall’occhio lungo e l’effeminato voltafaccia dalla lingua tagliente. Un trio bizzarro che, compito, si scambia il buongiorno e la buonasera e cincischia su argomenti di circostanza; e lì comincia e si conclude l’idillio.

 

* * *

 

- Stanno cercando di isolarci.

Lo sguardo di Gabriele corre lungo l’intero perimetro della stanza, cingendo i suoi occupanti in un metaforico abbraccio, mosso da chissà quale angosciosa pulsione. Sputa fuori la sua inquietudine, l’amaro che da giorni gli rimescola dentro; lancia l’ordigno quasi gli costasse immane fatica, dare un nome alla sensazione di ostilità intorno a sé.

- Oh, non l’avrei mai detto! – Andrea e la sua cadenza caustica, quel fare sagace che, buttato lì, può apparire un po’ rude – Forse non gli siamo simpatici. Beh, peggio per loro.

- O forse, a suo tempo, non abbiamo gettato abbastanza fango, per metterci lì a fare i santini e sputare sentenze.

Lapidaria, metti via lo specchio a favore del solito blocco per appunti, sapienti pennellate scure sulle palpebre truccate.

Non è mai un buon momento per abbassare la guardia, neppure quando la mente si concentra sulla lezione che scorre veloce, tra appunti vergati con calligrafia frettolosa e occasionali interventi.

Cinque minuti cinque per raccattare le proprie cose, ficcare tutto in borsa e dirigersi a passo di marcia nell’aula in fondo al corridoio per l’ultima lezione della mattinata. Di lì, prendere posto e attendere paziente che la supplente di Neri si decida a considerare degno della sua scienza il compito d’inculcare i rudimenti del mestiere a una manica di novellini; attendere che Nicoletti e Derossi ti raggiungano al più presto a toglierti d’impiccio, e che Isa e i suoi la piantino di fare i deficienti.

- Che fine ha fatto lo squalo femmina?

Sobbalzi all’intrusione improvvisa. Sorridi: non fai più caso a quel suo modo di riferirsi alle persone con strani giri e allusioni né al suo materializzarsi al tuo fianco senza preavviso.

- La prof? Impegni extracurricolari. Così hanno detto. Figurati che non ho ancora avuto il piacere di vedere che faccia abbia…

- Non ti sei persa nulla. Gabri, piuttosto…?

È troppo. Stavolta ti trattieni a stento dal ridergli in faccia.

Niente ti ha mai fatto pensare a una particolare affezione da parte sua – tanto meno i loro precedenti –, ma l’ormai quotidiano rituale del “fronte comune” davanti a serpi di più grossa levatura, sembra aver momentaneamente soppiantato le conseguenze di una diffidenza reciproca.

- A prendersi una boccata d’aria, credo.

- Mi dispiace solo di non aver avuto la sua stessa idea – lo sguardo di Andrea saetta enfatico verso i colleghi agghengati accanto all’ingresso, intenti a soppesare con occhio clinico chi entra e chi esce.

 

- Alberti, piantala di giocare alla spia del KGB e apri, ché fa caldo!

La porta leggermente appoggiata, solo una fessura sottile da cui occhieggiare in corridoio senza essere visti.

- Apri, ché qua tra un po’ non si respira!

Nicoletti. Gli rivolge parola per la prima volta dalla famosa lite in Aula Magna, il tono scostante per mascherare una venatura allarmata.

Che cazzo hanno in mente? Che cazzo gli frulla in testa?

- Ma sì, alla faccia degli spifferi che fanno venire il torcicollo, facciamo contento il principino!

Attende, Alberti, una luce ambigua sul volto. Cerca la lite, o forse cavalca l’onda di una provocazione senza pretese. E spalanca la porta con forza.

Lo senti prima ancora di realizzare l’accaduto. Il tonfo secco della superficie di legno che investe qualcosa lungo la sua traiettoria, e un lamento strozzato; una sensazione familiare, come sentire il setto nasale del malcapitato che scricchiola in una collisione non indifferente.

Lo scorgi solo un attimo, il viso sanguinante pressato fra le dita, mentre si piega al suolo.

- Oddio, Derossi… Mi scuuuuuusi!

- Stronzo!

Andrea. Ancora lui. Stavolta non aspetta che la molla scatti verso l’alto: esplode.

- Ecco, Andre: vai a dirglielo tu, al tuo nuovo fratello di sangue, che starsene là dietro con la testa per aria non è una buona idea! O forse era troppo fatto per accorgersene?

- Cos’è questa nuova… trovata, Alberti? È terminata la fase delle battute idiote, e sono iniziati i tentativi di eliminazione fisica?

- Diventi ogni giorno più noioso, Nicoletti. Terribilmente noioso, con le tue accuse e paranoie. Pensi che il sottoscritto non abbia niente di meglio da pensare che a te e ai compagnetti sfigati che ti sei trovato, per non faticare ad affermare il tuo… inesistente carattere?

- Non ti ho chiesto nulla – la voce di Andrea trema per la profonda irritazione, la lingua incespica nel cercare nel lampo di un istante le parole adatte a far da etichetta all’indignazione – È questa… cosa che vuoi far passare per una distrazione, per me non è casuale. Sei una testa di cazzo di dimensioni colossali.

- Prima di tutto ti calmi e smorzi un po’ i toni! Non vado a fare i dispetti in giro perché mi rode che un certo Andrea Nicoletti, che ritenevo amico, cerca di farmi le scarpe mettendo in giro voci assurde, e con lui gli altri stronzetti opportunisti di cui si circonda. Hai la coda di paglia?

- L’hai detto tu, e scoprire qualcosa in più dello schifo che hai dentro la testa, è sempre più deludente.

- E allora, qual è la cosa più deludente, più degna di disprezzo tra le due, Nicoletti? Dare inavvertitamente la porta sul muso al cannaiolo della domenica che se ne sta dove non deve stare, oppure tradire gli amici, tramare alle loro spalle per ottenere chissà che cosa, e gettarli nella merda dopo averci pasteggiato?

- ‘fanculo, Alberti!

- No, non interrompermi, che il bello viene adesso! Rosicavi perché le cose non erano andate come volevi… È così? Avevi pianificato tutto, e nello stesso tempo volevi farti bello con quelli che reputavi alla tua altezza. Con quel… con Gabriele non ti è andata tanto bene, e allora, guarda un po’, c’è Alessandro Alberti che fa al caso tuo: basta cercare di manipolarlo un po’, fingersi il suo migliore amico e trarne il tuo profitto.

- Queste le hai sognate stanotte, oppure hai bevuto?

- No, ma dopo che saprai cos’ho scoperto, ti si cancellerà quel ghigno idiota dalla faccia. Perché, vedi, Andre, non sono un ingenuo: stavolta quadra tutto, e sono davvero stanco di stupide insinuazioni da parte di… uno come te.

- Che stronzate stai dicendo?

- Andre, piccolo, davvero eri convinto che il particolare che scopavi con Neri e grazie a lui avevi ottenuto quello stage e chissà cos’altro, rimanesse all’oscuro per sempre? Il bel professorino, come volevasi dimostrare, si è preso il calcio in culo che merita, dopo tutte le puttanate andate a segno per portare in punta di dita il suo cucciolo. Cosa ti rimane, adesso, se non inquinare le acque e scaricare a qualcun altro la patata bollente, protestare contro il licenziamento del tuo mentore e cercare il marcio altrove?

Venti paia d’occhi che, come richiamati da un complicato incantesimo, dalla figura priva di sensi di Derossi spostano il baricentro della loro attenzione sul viso di Andrea che si tinge di cremisi, gli occhi lucidi e congestionati come sull’orlo di un attacco di nervi.

È troppo. Troppo.

La tua mano trema sui capelli arruffati di Gabriele, sugli occhi che non si schiudono, il naso spaccato. Con fatica ti rialzi in piedi fino a sovrastare la figura spalmata di fronte all’ingresso dell’aula ventitré, gli occhi febbrili e le dita imperiose che formicolano, la mente annebbiata. Troppe sensazioni accavallate le une sulle altre. E le gambe che percorrono quei pochi passi, il braccio teso da far male e lo schiocco fulmineo di uno schiaffo sulla guancia di Alberti.

- Sei un serpente!

- Loria?!

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 - Dalla parte sbagliata ***


 

Capitolo 5

Dalla parte sbagliata

 

 

- Scusami, Alberti. Ero rimasta a “stupide insinuazioni”. Poi un miagolio confuso. Cos’è questa specie… di teatrino? Me lo spieghi?

Lo apostrofi con voce piatta, frammenti di ghiaccio tra le parole.

Si è incazzata, Loria. Di nuovo. Ha risollevato il capo dalla cenere del sospetto razionalizzato.

E sarà un altro scontro tra statue di cemento armato. Nessuna sintesi chiarificatrice.

Il sovrano semi-spodestato e la piccola spia che non striscia nell’ombra ma, giorno dopo giorno, matura il colpo di Stato e non ne fa mistero.

Un istante. L’onda d’urto che si dissolve e trova il punto di stallo in due occhi scuri di collera che puntano su di lui.

Non ride, Alberti.

- Loria, che cazzo vuoi? Ti è partito l’embolo?

Calma. Non ha detto nulla. È un brusio indistinto e senza senso, granelli invisibili scagliati in faccia.

Niente gesti infantili o avventati, stavolta. Ragiona.

- Chiedigli. Scusa.

Attendi; non ti capaciti subito del gelo che scorre tra le labbra socchiuse, perché, dopo lo scatto iniziale, il morso di un infallibile autocontrollo è l’ultima cosa che ti saresti aspettata da te. E lui ti osserva come se avessi appena detto una bestemmia. Arriccia il naso.

- Non ci penso neanche!

- L’hai coperto d’insulti e insinuazioni assurde, e i tuoi cavalieri lì a darti manforte. Facile demolire qualcuno, così. Non ci sei andato neanche leggero. E… Derossi, poi. Se qualcuno qui si è bevuto il cervello, quello sei tu. Potevi fargli male, lo sai? Gli hai fatto male.

Un sospiro teatrale, gli occhi che puntano verso il cielo. Una risatina forzata che scalpita nel tentativo di minimizzare la questione.

- Allora il vostro è un chiodo fisso! Pensi proprio che sia colpa mia, Loria, se quel tuo amico gira talmente fatto da non accorgersi di una porta che gli si sta per spiaccicare sul muso? Non l’ho visto, maledizione! Poi c’è il signor Giuda… Dulcis in fundo – sguardo esasperato – Oh, finiamola così, davvero! E poi ci sei tu! Scusami, Elena, posso ridere? Ti senti così in gamba, a dar manforte ad arnesi simili? Mi complimento per il tuo salto di qualità. Fossi in te, preferirei continuare a far tappezzeria come hai sempre fatto, piuttosto che sputtanarmi dietro alle stronzate di un serpente a sonagli e un cannaiolo rosicone. Parere personale, eh.

Calma. Distogli lo sguardo, stavolta, deglutisci a fatica. Un nodo d’angoscia tenacemente aggrappato alla gola.

Calma. Procedere con metodo. Alberti è in pieno delirio o forse cova qualcosa. Ha capito che forse può giocarvi tutti e tre, e sta per sganciare la bomba. Perché nulla, dannazione, nulla è casuale. Non è casuale che lui tenesse la porta socchiusa, solo un istante prima, sbirciando e calcolando i tempi. Dispettucci degni di un bambino, e peccato che Alessandro Alberti non sia un bambino. Né, tanto meno, uno stupido.

Lascialo blaterare le sue invettive, ora. Attendi la seconda mossa. Se non potrai farne a meno, riservati la stoccata finale, perché è nella furia di una rissa verbale calcolata al millimetro che risiede il nocciolo di tutto ciò che ha fatto, calamitando l’attenzione su di sé e su Andrea.

E cos’è, poi, quella specie di cattivo presagio, non quantificabile, ma che ti si aggira nella testa come un ronzio di vespe?

Andrea ha lo sguardo basso e gli occhi lucidi che sprizzano collera, le guance in procinto di andarsene a fuoco sotto mille sguardi che lo denudano, e il silenzio che sa di piombo. Veleno che scivola giù dalle pareti.

E lui, troppo orgoglioso per non trattenere in punta di ciglia un torrente di lacrime furibonde, si morde il labbro, la voglia di saltare al collo del suo accusatore repressa in fondo al petto. Potrebbe scappare via e dar sfogo alla sua rabbia in maniera più igienica.

- Lo sai che non è così, Alessandro – sibila, la voce che non riesce a non tradire l’emozione – Ti ringrazio delle belle parole, se è ciò che pensi. Prova a pensare un po’ ai cazzi tuoi, d’ora in avanti, se non vuoi ritrovarti qualche escrescenza di troppo sulla faccia.

Un’occhiata reciproca che sgocciola disprezzo, soffocata nel silenzio palpitante che inonda l’intero corridoio nord. Passi ovattati, soffusi, attutiti sotto mille strati di nebbia, e il sospetto che prende vita.

Qualche spettatore nell’ombra e il vuoto intorno, in attesa della tragedia annunciata.

- Bravo, Nicoletti. Sei uno stronzo.

- E tu un voltagabbana del cazzo.

E infine lui, Gabriele, una macchia scura allungata a terra, contro il pavimento lucidato a specchio, infranta solo dal pallore del volto e dalla chiazza di sangue che spicca da lontano.

- Gabri, mi senti? – un pigolio confuso nel brusio che ti ottenebra la mente.

E, per un istante, la tentazione di scrollare i due contendenti dallo sguardo avvelenato e supplicarli di non far degenerare la situazione, trascurando il vero problema.

Anche Andrea è chino su di lui, il viso un’alchimia di rabbia, angoscia, imbarazzo. Senso di colpa impigliato alle palpebre.

- Gabri, apri gli occhi. Ti prego. Non… non è nulla – un sussurro, la mano che indugia quasi ossessiva sul volto immobile.

- Permettete? – Alberti s’infila di prepotenza nel varco fra te e Andrea.

Soprappensiero, esamina la figura stesa a terra quasi si trattasse di un animale esotico.

- Che diavolo vuoi, Alessandro?

- Andrea, non rompere le palle. Non… non l’ho fatto apposta! Devo firmarti una dichiarazione col sangue, perché tu e Loria mi crediate? Non devo scusarmi proprio con nessuno.

Con la tua coscienza, se proprio.

Distogliete entrambi lo sguardo, vibrazioni di collera contenute fra le labbra. Almeno ha la buona grazia di arrossire, Alberti, mentre si toglie d’impiccio, lui e la sua faccia di bronzo.

- Dicevo solo – prosegue con noncuranza – che… credo abbia battuto la testa quando è caduto. Se non riprende conoscenza nel giro di qualche secondo, io chiamo il 118. Non lo voglio sulla coscienza. Con tutta la roba che avrà mandato giù negli ultimi giorni, dev’essere stato il colpo di grazia. Mi meraviglio di voi, che vi ritenete suoi amici… Ignorare certi piccoli dettagli quasi di dominio pubblico!

- Chiudi quella boccaccia, Alberti! – è la lapidaria risposta di Andrea – Sei l’ultima persona che può venire qui e fare la morale. Non lo conosci, non sai un accidente. Piantala con queste stronzate a misura d’imbecille! Ricorda bene: i cazzi tuoi, Alberti. I fottutissimi cazzacci tuoi. Una volta in vita tua.

- Mah, contenti voi…

Una pausa soffocante, con te che ti limiti ad annuire in silenzio e a misurare la densità dell’aria. In attesa, ancora, di quel tassello che si rifiuta di combaciare, di lasciarsi catturare.

Poi la scossa improvvisa, una sferzata di consapevolezza. Un giro fulmineo di sguardi tra te e Andrea; e vedere i tuoi medesimi sospetti annidati nei suoi occhi, è una conferma che vale la pena considerare. Lo stesso sospetto inchiodato tenacemente al suo cervello.

Gabriele. Chiamo il 118. Con tutta la roba che si fuma, figurarsi se…

Alberti che giocherella con il cellulare come un’arma da avventare contro il nemico.

Continuate a fissarvi. Forse anche Andrea ha un vago sospetto sul perché di tutte quelle stranezze… Gabriele. Ed è quasi un grido all’unisono.

- No!

- Alessandro, lascia stare!

- Che cazzo vi prende ora? Non sto chiamando il boia. Si vede che non sta bene, no? Ha perso i sensi per la botta, e le porcherie che ha in circolo l’hanno buttato a terra. Male che vada gli ficcano un ago nel braccio, e domani è come nuovo. Se poi… Beh, se il signor Derossi ha qualcosa da nascondere, cazzi suoi. La salute è più importante, non credete? – un sorriso che gli taglia il volto da orecchio a orecchio.

Diabolico. Vuole combinargliela sotto il naso.

Le ciglia di Gabriele tremolano sotto la luce slavata di quel corridoio simile all’anticamera dell’inferno. Le palpebre dischiuse in un’espressione confusa, come un cadavere che riemerga per miracolo dalla tomba, la mano che corre a massaggiarsi distrattamente la faccia.

- Ehi… Va tutto bene?

- Eh? Io…

Gabriele si tira su a sedere. Un’occhiata ostile tra lui e Alberti, e il vago sentore di chi ha appena subodorato l’inganno ed elaborato una reazione immediata.

- Tutto bene, sì.

- Sicuro? Se è così, meglio per te – Alberti si stringe le braccia contro il petto, il volto indecifrabile – Se non vi dispiace, io torno a lezione… – azzarda un cenno con la mano e si allontana come un avvoltoio che scruta il suo futuro pasto.

Tolgo il disturbo. Va tutto bene. Tutto meravigliosamente bene.

 

* * *

 

- Che… ipocrita, lurido bastardo intrigante.

Siete lì, lontani da tutto, quattro pareti di un bianco che vira al grigiastro ricamate tutt’intorno. Al sicuro fra le mura di un’aula deserta, lontani da occhiate indiscrete, la testa fra le mani.

- Ti rendi conto, Loria?

Sospiri, i capelli ravviati all’indietro in un unico gesto nervoso, ben scandito.

- Pensi anche tu quello che penso io, Andrea?

- Spara.

- Seguimi. Se per una sciocchezza qualunque, Gabriele finisse su un letto del Pronto Soccorso… Insomma, un banale prelievo di sangue, e saltano fuori gli altarini.

- E quindi?

- Beh… La notizia in qualche modo girerebbe. E, una volta rientrato, avrebbe non pochi casini.

- Eppure c’è qualcosa che ancora non torna – Andrea si fissa la punta delle scarpe – Alessandro: cosa gli entrerebbe in tasca? Può sputtanare Gabriele o chicchessia come preferisce, con o senza letti del Pronto Soccorso, test del DNA e autopsie, e non mi pare si sia risparmiato. Può cavare il sangue dalle rape, se lo desidera, mettere in giro tutte le fesserie che gli dice il cervello, e aspettare che il veleno faccia effetto. No, forse non è neanche questo. La semplice soddisfazione di spaccargli il muso? Per quello che è successo in Aula Magna o altre cose che si è legato al dito. Perfetto, c’è riuscito. E adesso? Perché insiste?

Un sorrisetto sagace t’increspa le labbra.

- Andre, non fare il finto tonto. Hai capito: se Gabriele… o te, o un altro studente particolarmente… rinomato, promettente spina nel fianco di ogni arrampicatore che si rispetti, si beccasse un’espulsione fra capo e collo… Voilà: un rivale in meno per lui. Si libererebbe di una persona scomoda che per giunta non abbocca ai suoi giochi di prestigio.

- E brava Loria. Il discorso non sta molto in piedi, solo che, ecco… Può essere – volge lo sguardo, Andrea, la fronte corrugata – E tu, Gabriele, cosa… – azzarda.

Non risponde subito, lui. È scuro in viso, perso in complicate cogitazioni tra sé e il suo mondo.

- Ho mal di testa, Andrea. Che vuoi?

- Oh, bentornato fra i vivi, signor “mi faccio prendere in castagna, il mio regno per una maledetta canna”. Hai capito le intenzioni di Alberti?

- Elena non sbaglia. Non troppo, almeno. Quello vuole confonderci le idee, non vuole buttarci a terra come birilli. E poi… dai, voleva farmela pagare – biascica di fretta, intento a tamponarsi la faccia, il naso insanguinato.

- Il discorso è anche un altro… – ha alzato la posta in gioco, Andrea.

E guarda verso di te, un’intesa muta impigliata al filo invisibile tra sguardo e sguardo. Attende, cerca il tuo consenso.

- Gabriele, sei un incosciente di proporzioni cosmiche. Se… se sei così convinto che quelli ti diano la caccia e aspettino un passo falso per farti le scarpe, con le buone o con le cattive… Mio Dio, dargli l’occasione è da idioti! Non hai cinque anni, maledizione! Non sei un bambino che pesta i piedi perché vuole le caramelle!

- Bravo, Andrea! – qualcosa, come uno strano luccichio nello sguardo, lascia intendere che riderebbe, Gabriele, se la faccia non gli facesse così male – Sei un vero amico. Come se non sapessi che sei stato tu a mettere in giro quelle voci su di me. Quando tu e Alberti eravate ancora fratelli di sangue.

Andrea trasale.

- Queste sono balle per metterci l’uno contro l’altro! Sono tutte balle. Dio, non lo capisci? Vogliono farci incartare con le nostre mani, come marionette ai loro comandi. E noi stiamo facendo il loro gioco. Io… non sono ogni giorno dietro ai cazzi tuoi. Dico solo che a vederti un giorno sì e l’altro pure andartene in giro con una faccia indescrivibile, ecco… Anche un cieco si porrebbe il dubbio.

Scuote il capo, Gabriele, manciate di silenzio brevi e concentrate, tensione in punta di dita. Sorride debolmente.

- Come no, Andrea. Dicevi di peggio, s’è per questo. Di molto peggio.

- Ascolta, Gabriele. I vecchi rancori non portano da nessuna parte. Non legarti al dito cose di cui non hai neanche la certezza.

- Beh… Il dubbio è legittimo.

- Bravo. È su questo che giocava il “signore” di poco fa, lo sai? Penso di averti già spiegato. Non capisco perché perdersi dietro recriminazioni assurde. Lo sai cosa penso, no?

- Naturalmente – ribatte Gabriele, sarcastico – Che ti faccio pena. Che ti reputi troppo in gamba. Che non ti prenderesti neanche il disturbo di considerarmi nemico, se qualche idiota non avesse messo in giro queste stronzate. E adesso vorresti stringere nuove alleanze, andare incontro alla tempesta e sorvolare su tutto ciò che dicevi una volta. Vuoi dimostrare che il tuo ascendente è così forte da poterti levare il capriccio di andare contro tutto e tutti, cambiare bandiera quando e come preferisci. È abbastanza? Se proprio vuoi saperlo, io raccolgo e porto a casa. E ti mando anche affanculo.

Indietreggia, Andrea, colpito al cuore dal fulmine vagante che fino a pochi secondi prima si era limitato a fendere l’aria. E poi, realizza.

- Ora ti calmi, Gabriele! Sei incazzato, okay; ce l’hai con me perché Alberti ha attaccato te per colpire me. E poi… c’è quella vecchia storia con Neri. È questo, vero? Perché non… non ci provi, almeno, a non pensarci più? Hai visto cos’è successo? Non ti sembro neppure un po’ più sopportabile, adesso che non sono più il membro onorario del trio Miracoli, ma uno che si è rotto il cazzo di assurde strategie per neutralizzare l’avversario? Guarda un po’, sono diventato Satana. Ho perso la posizione di comodo e non la rimpiango. Sei un po’ più convinto, adesso?

- Lasciar stare…? – un blocco di tristezza addensato in fondo alle pupille, come a impedirgli di aprire gli occhi e guardarlo in faccia senza quel moto di gelida rassegnazione – Dovrei… lasciar stare, io. Certo. Non pensarci più. Al fatto che preferisco far affidamento su Bin Laden, piuttosto che su di te?

- Cosa ti costa? – è quasi una supplica.

- No, tranquillo: non mi costa niente. È tutto a posto, come vuoi tu… Nicoletti parla e il mondo si piega! – una risata isterica prontamente schermata col dorso della mano – Del resto, me lo sono solo ritrovato in quel posto perché tu, Andrea, andavi a letto col professore. Tanto per farla breve. E oltre al danno, la beffa, i tuoi insulti che hanno fatto praticamente il giro dell’istituto, quando ho tentato di chiederti spiegazioni.

- Cosa avresti detto al mio posto, Gabriele? Io non… non ho fatto nulla, te lo giuro. Erano… Dovevano restare due cose assolutamente indipendenti e separate. La mia carriera non aveva nulla a che fare con… tutto il resto. Con la mia vita privata. Come puoi pensare di aver perso l’occasione per cause extra di cui ero all’oscuro anch’io? Perché, santo Dio, non è così, Gabriele!

- Non dipendeva da te… Non l’hai fatto apposta: naturalmente. Però ti sei procacciato in silenzio tutti i vantaggi che sapevi di poter procacciarti, e solo schioccando le dita. Ed io sono rimasto fregato.

- Non è così. Neri mi aveva giurato che il suo giudizio sarebbe stato assolutamente imparziale. Mi aveva garantito totale professionalità. E così è stato: il fatto che… che fossimo stati insieme, non aveva nulla a che vedere con il resto. Anche se avesse scelto me. Maledizione, Gabriele! C’era un’intera commissione; Neri valeva il peso di un voto, e anche se avesse voluto, gli sarebbe stato difficile imporre la sua volontà, perché era già ai ferri corti con mezza commissione. Ma tu sei venuto da me, sei partito in quarta e mi hai detto di tutto. E sono state botte da orbi, come puoi immaginare.

- È lecito pensare che Neri o chi per lui abbia corrotto gli altri commissari? Che abbia pilotato i giochi a favore del suo pupillo? Se ricordi, ti avevo solo chiesto che cazzo di accordi sottobanco ci fossero stati dietro la fantomatica scelta.

- Beh, darmi della “puttana” in diretta non è proprio una cortese richiesta, non credi? Quando ti ho risposto che evidentemente ero piaciuto al professore, e che se eri stato sbattuto fuori, io proprio non sapevo che farci, mi hai risposto che a Neri non piacevo io, ma gli piaceva scoparmi. E forse lo pensi ancora, che sia andata così. Ti ringrazio per l’alta considerazione.

- La tua responsabilità è al cinquanta per cento. Tu sapevi e te ne sei stato zitto a raccogliere i frutti: come darti torto? Del resto, non ero che un rosicone del cazzo che ogni tanto tira fuori qualche visione. No?

- Ed io il capo dei leccaculo raccomandati, oltre che puttaniere da strapazzo. Neanche tu sei stato tenero con me. Vorrei solo capire perché dai retta alle puttanate di Alberti e non mi lasci spiegare.

- Non c’è niente da spiegare, Andrea – un velo d’amarezza davanti agli occhi, un sentore di attesa.

Si tira su in piedi, lo sguardo fisso davanti a sé.

- Gabri, aspetta… – Andrea ha gli occhi lucidi, le ciglia palpitanti.

Si osserva intorno, smarrito. E cerca ancora una volta il tuo appoggio, il tuo assenso, la voce un pigolio tremolante incollato alla gola che non vuol saperne di formulare un concetto logico con cui tradurre la morsa che stringe lo stomaco.

Ha paura dell’esito della discussione, Andrea. Per la prima volta, di fronte ai tuoi occhi non è che un concentrato di rimpianti, di dubbi, d’incertezze che minacciano di sciogliersi in un torrente di lacrime. È solo e allo stremo.

- Andre… – sospiri.

Pensi sia arrivato il momento di far da paciere, veste quanto mai insolita e improvvisata. Non sarà mai la scelta giusta. Ficcare ancora una volta il naso in questioni che non ti riguardano.

E Alberti… Alberti ha ottenuto almeno parte di ciò che voleva: schierarvi l’uno contro l’altro, creare l’occasione di conflitto tra i suoi polli.

- È vero tutto questo? – prosegui, un groppo alla gola.

Andrea è un fascio di nervi prossimo all’esplosione.

- Sì. È vero. Ma sì, dai, non fingere con me: ti saranno arrivate le voci. Io… – china lo sguardo, una confessione che costa più di mille spilli arroventati sulla schiena nuda – Ho avuto una relazione con Neri. Ho avuto accesso di diritto a quella fottuta selezione. Ma giuro su quanto ho di più caro, che non c’è nessun legame tra le due cose. Non che io sappia o che abbia cercato di provocare. Sarebbe stato impossibile per Neri prostituire ai suoi voleri un’intera commissione con idee discordi. È… del tutto fuori questione.

- Hai sentito, Gabriele? Costa davvero tanto provare a dargli fiducia?

Sorride appena, Gabriele, un’occhiata indecifrabile, sospesa. Amareggiata. Forse vorrebbe esserne capace, di fidarsi. Tenta di ripulirsi alla meno peggio l’alone di sangue che gli si allarga sulla parte bassa della faccia. È stanco, Gabriele. Stanco di quella pantomima.

- Lo senti come parla adesso? Non è proprio il discorso che mi ha propinato quel giorno. Perché era gasato al massimo, portato in trionfo dai suoi vecchi compagni: poteva pure prendersi il lusso di umiliare l’avversario. Qual è il tuo problema, Nicoletti? Hai una doppia personalità?

- Mi dispiace, Gabriele – un soffio appena percettibile, le labbra arricciate a contenere un singulto isterico – Io… mi dispiace. Per questo… sì. Mi dispiace aver usato quelle parole, anche se il concetto era simile. Ho sbagliato a dar carta bianca ad Alberti e agli altri, al loro elitarismo di comodo. Ho sbagliato tutto, okay. Vuoi farmelo pesare in eterno? Ho sbagliato. Credevo di non fare niente di male, invece non era così, stavo sul carro sbagliato. Vuoi fustigarmi per questo? Vuoi un esempio tangibile del fatto che non sono come loro? Ho conosciuto Loria: se davvero fossi stato chiuso a riccio, a seguire ciecamente il loro pensiero, non le avrei dato mezza possibilità, perché lei a loro non piaceva. Se avessi seguito quella scia, mi sarei blindato nelle mie posizioni, capisci? Mi sarei negato centinaia di occasioni per il semplice fatto che loro non le ritenevano degne di attenzione; non avrei conosciuto ciò che stava fuori della loro ottica. Mi sarei precluso occasioni, amicizie. E poi magari constringermi, in un secondo momento, ad abbracciare qualcosa che non mi sarebbe piaciuto. È abbastanza?

- Gabriele, dai, basta musi storti! – sei in mezzo a loro, in bilico fra l’incudine e il martello, avvocato di quelle cause perse, degne di una chance immaginaria – Non lo vedi? – accenni al volto congestionato di Andrea, in procinto di cedere – Si è umiliato, denudato. Ti ha chiesto scusa. Cos’altro pretendi, per potergli credere? Che si metta il cilicio?

- Beh, non so se denudarsi di fronte a Neri sia stato altrettanto spiacevole – incalza Gabriele, tagliente, sprofondato fino agli occhi in un fiele in cui forse non vorrebbe indugiare neanche lui.

È solo che non può rimangiarsi in un battito di ciglia ciò che ha appena detto, per due lacrimucce e qualche scusa mormorata con voce tremante. Troppo fottutamente orgoglioso per non mantenere almeno per un po’ il ruolo di quello che vuol vedere il sangue… Anche se del sangue non gli è mai importato un accidente.

- Stai esagerando, Derossi. Non merita questo trattamento. Sai una cosa? La pensavo esattamente come te. Nicoletti, ma sì: il fighettino con l’ego alle stelle, troppo superbo per fraternizzare con i comuni mortali; il raccomandato, l’amico che conta tra quelli che contano, il principe incontrastato. E adesso, cos’è quello che vedevi come un concentrato di negatività? È una persona come te. Che sbaglia, dà fiducia alle persone sbagliate, va nel pallone, ma sa anche compiere delle scelte.

- La fai facile, Loria. Non è come dici. Accoglieresti a braccia aperte qualcuno che ti ha disprezzato e umiliato ogni singolo istante, per il piacere di trovarsi nella posizione di chi può farlo? Di chi si è finto tuo amico per poi mollarti con un calcio nel culo, appena ha capito che quelli che gli convenivano erano altri, un nido di vipere pronte a sputare sentenze?

- No, Gabriele. Non è il vostro caso. Era confuso, non sapeva di chi fidarsi; ha perso l’orientamento. Adesso però ha capito qual è il gioco che vale la pena di giocare.

- Grazie, Elena – riprende Andrea, tirando su col naso – Gabriele… Se mi disprezzi fino a questo punto, mi spieghi perché hai impedito ad Alberti di farmi a pezzi, quando aveva tutta l’intenzione di picchiarmi? Mi spieghi perché da qualche settimana a questa parte sopporti di starmi vicino a lezione?

Tace, Gabriele. Colpito come da un dardo in piena fronte.

- Non lo so, Nicoletti. So solo che… non mi andava. Tutto qui.

- Che cosa non ti andava?

- Non volevo che Alberti ti picchiasse. Non quella prima e unica volta che ti ho visto usare il cervello e dire qualcosa che pensi veramente, non la solita brodaglia precotta che tutti ritengono giusta.

- Grazie, Derossi. E scusa… per tutto.

- Non esagerare però

- No, lasciami finire! Erano secoli che volevo ringraziarti per aver… preso le mie difese nonostante tutto. Mi dispiace per averti trascinato dentro questo casino. Mi dispiace che ne abbia pagato le spese anche tu, che ti sia preso quella maledetta porta in faccia al posto mio. No, non esagero, ti giuro, potrei romperti le scatole in eterno, finché non ti deciderai a darmi una fottuta “seconda possibilità” – pausa imbarazzata; Andrea sembra una mina pronta a esplodere – E se posso… Quelle dannate canne, Dio mio, buttale al cesso! Hai capito: Alberti stavolta l’aveva architettata bella pesante. Vogliono farti buttare fuori e hanno trovato un pretesto. E tu non darglielo, il pretesto, stattene tranquillo per un po’! Lo sai che cosa rischi? Di cadere nella loro trappola. È chiaro o devo rigirartela ancora?

- No, non è necessario. Chi sei per venire da me e fare la mammina premurosa?

Andrea solleva gli occhi al cielo, esasperato.

- Sono un rompicazzo: è il mio nuovo mestiere. Il rompicazzo ufficiale che tutto vede e nulla tiene a freno; Rompicazzo sarà il mio secondo nome. Almeno, male che vada, potrò dimostrarti di non essere un deficiente che se la fa sotto. Contento?

- È una recita, per caso? O ci credi davvero? Non devi dimostrarmi niente. Cerca prima di tutto di dimostrarlo a te stesso, che questo non è il tuo ennesimo, patetico voltafaccia.

- No, perché ho nulla da guadagnare e tutto da perdere, se ci pensi. Sono tornato studente di serie B, comune mortale, e pure vagamente sfigato. E non mi sono mai sentito meglio. Posso dire quello che voglio senza pormi il problema né farmi condizionare da stupide chiacchiere e diktat friggi-cervello. Cosa vuoi di più?

- Niente, Andrea. È un problema tuo – Gabriele si decide a riportare finalmente lo sguardo su di lui, un barlume d’indulgenza.

- No, è anche un problema tuo. Perché, casualmente, da questo momento i nostri obiettivi coincidono. Mi perdoni, adesso?

China il viso a terra, Gabriele, lo sguardo combattuto; una venatura malinconica a impedirgli il famoso salto nel buio. Concedergli la sua fiducia.

Intercetta il tuo sguardo, in cerca di un segnale tangibile.

Anche tu te lo sei chiesto. Troppe volte: vale la pena accettare Andrea Nicoletti, il suo cervello pensante e la sua leggendaria lingua tagliente: lingua ben decisa, stavolta, ad agire di proprio conto, senza bandiere né fili invisibili né padroncini subdoli in jeans firmati, e senza fare sconti di simpatia a nessuno? Vale la pena accettare la profferta d’amicizia a scatola chiusa?

Annuisci: è troppo presto per dire addio a quel sogno con la mente libera e il cuore leggero. Per provare a esistere davvero, senza paletti né assurdi timori a fungere da sipario.

Immobile, segui il movimento incerto della mano di Gabriele che indugia a mezz’aria, incerta, per poi posarsi su Andrea e sfiorargli dolcemente una ciocca di capelli, scostandogliela dal viso. Sorridi, attendi l’atto finale per mettere un punto fermo e ricominciare a respirare.

- Andre. Mi fido. Ci proverò, almeno.

Ammicca con gli occhi stanchi, Andrea, un luccichio di lacrime che, annidato in qualche anfratto nascosto, sfugge al suo controllo. È come annaspare sulla lama di un rasoio e ritrovarsi da un momento all’altro scaraventato di sotto, confuso sui propri passi e poi giù, verso il buio e l’ignoto, senza pensieri.

Accenna solo a un timido sorriso e gli si getta al collo, una reazione simile a un pianto liberatorio che a stento riesce a soffocare, la faccia premuta contro la maglietta di Gabriele. Le dita intrecciate alle tue, possessive, in cerca di conforto, pronte a stringersi come tenaglie.

Chiudi gli occhi: sembra piccolo, adesso, una cosetta minuscola e sussultante addossata a un Derossi che mai come in quel momento sembra sovrastarlo; Derossi e il suo metro e ottanta e le sue spalle larghe, ossute. Lo osservi. Ha un aspetto notevole, più che avvenente; bello, se non fosse per quell’aria perennemente emaciata a scavargli le orbite, le palpebre sottili incassate in un’espressione guardinga, febbrile.

- Grazie, Gabri. Io… io non… – Andrea affonda con il viso fra le pieghe della maglia di Gabriele, tra lacrime e stropicciamenti assortiti.

E poi nient’altro. Solo un mormorio non facilmente decifrabile, parole che sfumano troppo in fretta e un fugace sollievo, tra una lacrima confusa in un singulto e un abbraccio che gronda gratitudine.

Per te non sarà un problema giocare da quella parte: ci sei sempre stata e, stavolta, adori il solo fatto di starci a pieno diritto. Dalla parte sbagliata. Attivamente, stavolta, come un fascio di nervi pronto a esplodere di energia, come miriadi di particelle impazzite.

 

 

 

 

 

 

*Si avvicina con fare vagamente furtivo*

Buonasera a tutti!

Ebbene sì, a quasi un anno di distanza dall’ultimo aggiornamento di questa storia, in effetti la distanza un po’ si sente. La genesi di questa storia è strana: oltre ad essere molto intima e molto “sentita” da parte mia, frammenti di vissuto, di fantasie, di riflessioni, di sensazioni (particolare ampiamente colto dalla mia carissima Witch, che ringrazio tantissimo per i commenti! ?), conta anche un percorso insolito: nasce a fine gennaio dell’anno scorso quale strascico di un sogno dal forte impatto che mi aveva lasciato addosso una sorta di “risposta”, una sensazione un po’ strana ma positiva; viene poi interrotta a maggio dell’anno scorso, causa difficoltà nella prosecuzione, nonché ripresa della stesura di Noir Trésor… E poi, inaspettatamente, a distanza di otto mesi (che volete che sia…), precisamente a metà febbraio di quest’anno, arriva miracolosamente l’illuminazione, e torno ad innamorarmi di questa storia momentaneamente archiviata.

Comunque sia, non prometto rapidità negli aggiornamenti, perché conosco la mia incostanza dai risvolti tragicomici; auguro soltanto una buona lettura, con la speranza di leggere un po’ le vostre impressioni.

Alla prossima!^^

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 - La cronaca di un termine ignoto ***


 

Capitolo 6

La cronaca di un termine ignoto

 

 

La porta sbattuta in faccia è un’immagine eloquente, se devo liquidare il discorso con un simbolo che racchiuda bene il significato.

Retorica spicciola, okay, ammettere che così comincia e così finisce – stando alla logica passeggera di questo preciso istante – la parabola discendente di un’irrinunciabile occasione di vita. Porta in faccia, punto, poche storie.

Era la mia splendida, delirante occasione, sin dal momento in cui misi piede qua dentro, uno sfondo di troppe luci e troppe incertezze; occasione che poteva contenere, in nuce, la possibilità di portarmi qualcosa di buono. Eventualmente.

Occasione sbiadita, stanca; troppo sfuggente e remota per diventare concreta, per poterne intersecarne il cammino; e magari afferrarla, addomesticarla nel mio particolare caso con altrettanta indolenza.

Gabriele Derossi, molto piacere. Quello che, strategicamente, occupa sempre uno degli ultimi posti in fondo, qualche schiena di troppo a fare da barriera tra sé e l’eventuale seccatore. Quello insuperbito e tutto dalle sue: troppo, per scendere dal trespolo e dichiararsi comune mortale a tutti gli effetti. O forse, semplicemente, troppo codardo per esporsi in prima persona e, schiaffeggiato nel marasma di un teatrino d’interpreti mediocri, gridare sì, dannazione, sono vivo!

Quello abbastanza masochista – o abbastanza furbo – da preferire, se proprio deve, una sospetta frattura del setto nasale, con tanto di provvidenziale scivolamento nell’oblio, ad una “porta in faccia” morale che non lasci troppi segni visibili.

 

Ai suoi occhi fissi nei tuoi, che ridono sotto le leggendarie ciglia scure e tutto incatenano a sé; che ti catturano per un istante, nell’ebbrezza di un messaggio da decifrare, rendendoti fugacemente partecipe; e poi ti mollano lì, punto e capo, pronti a ribadire il concetto.

Io sono, mio caro. Esisto.

 

Insomma, mettetevi un po’ nei miei panni: un attimo prima c’era l’angoscia, il gelo della più nera autocommiserazione, il suo volto stampato davanti ai miei occhi come una specie di reliquia. Un attimo dopo, solo il cielo bianco abbagliante del soffitto a tre metri o poco più in linea con i miei occhi, un vago sentore di pace come dopo una dose di tranquillante, e il sapore del sangue a invischiarmi le labbra fino in fondo alla gola.

Chissà se lui si sarebbe fatto quattro risate o se, al contrario, avrebbe avuto un attimo di sgomento – perché, accidenti, anche Derossi è umano; anche Derossi ha il suo delizioso, insospettabile difetto di fabbrica –, nell’apprendere che il sottoscritto si sente svenire per due gocce di sangue: immaginate un po’ trovarsene la faccia impregnata, le labbra impastate di quel retrogusto appiccicoso, metallico.

Troppo pochi, i secondi a disposizione, per razionalizzare l’accaduto e non lasciarti portare alla deriva dalle tue personali fobie. Sempre meglio il mondo dei sogni.

Chissà se lui avrebbe commentato con la solita voce strascicata. Che magari, tutto sommato, gli facevo tenerezza. Lui e il suo sorriso disarmante.

Poi si sarebbe passato una mano tra i capelli e sarebbe tornato al solito sarcasmo in forma standard. Chi diavolo è, in fin dei conti, lo sconosciuto che si guarda intorno e distilla una parola ogni due ore?

Ed è così superfluo ripartire da principio, ora, e dire che la mia croce e delizia, l’alfa e l’omega, l’ascesa e il proverbiale declino, hanno nome Andrea Nicoletti?

Voglio dire che, quasi di certo, ogni singola cazzata che lui avrà avuto modo di assemblare sul mio conto fino a questo momento, purtroppo è vera. Che sono un paranoico, un lupo solitario, un’incognita trasparente, materia indistinta in via di ebollizione, insignificante agli occhi dei più? Niente di più vero.

Il fatto che non fosse riuscito a inquadrarmi al primo colpo, doveva aver scompaginato non poco la sua perversa, naturale tendenza che spazia dalla semplice provocazione al rendere il soggetto prescelto un’appetibile valvola antistress.

Se c’è una cosa che a Nicoletti riesce bene, in fin dei conti, è proprio farti incazzare. Sarà un modo di dimostrare il suo affetto, chissà.

Io l’avevo detto, del resto; l’avevo intuito da subito, che a furia di macinare discorsi su discorsi, di far previsioni del cazzo, lui era destinato a vestire i panni della mia Nemesi spietata, pronta a sviscerare le mie debolezze con i suoi occhi d’ardesia fine. E poi sputarci sopra.

Ho capito quale sarà la prossima domanda. Se è vero che mi faccio. E che sono fuori come un missile. Ho la certezza pressoché matematica che il solito Nicoletti abbia raccontato castronerie tali da surclassare persino il suo ex-compare di malefatte, l’Alessandro Alberti con cui ha rotto il sodalizio e che ora, presumibilmente, starà fremendo dalla gioia di andarsene a strillare ai quattro venti che Nicoletti lo dà via come se non fosse suo.

Non credete alle stronzate che vi dirà Andrea. La verità, se proprio lo volete sapere, è che avrò fumato sì e no una volta o due in sua presenza – e che sarà stato… – e, da lì, ecco partorita seduta stante la sua personale versione dei fatti, pronta da dare in pasto ai deficienti come verità assoluta, infiorettata a prova di cretino.

Del resto, non è che la mia stupenda, logorante ossessione. Andrea.

Eppure le cose parevano tutto fuorché destinate ad andare così – almeno, per quel che mi riguarda. Di certo non a vederci contrapposti come due ratti che cercano di passare contemporaneamente in un cunicolo troppo stretto; antagonisti per forza, dualismo imperfetto e caldeggiato artificiosamente, là fuori, da qualche pazzo sceneggiatore di soap-opera o qualche malalingua di passaggio. Con gran disappunto della nostra stellina, troppo al di sopra di tutti, a ben vedere, per accettare a cuor leggero la competizione fasulla con uno sfigato di prima categoria.

All’inizio dividevamo pure la stanza. Io e lui. Si parla della mitologia della mia permanenza al “Goldoni”, quando intorno a noi non c’era nient’altro che un microcosmo dalle pareti chiare; così semplice, ai miei occhi, incontaminato, salvo quel bizzarro, rassicurante profumo d’ignoto, come una scatola vuota da riempire. Strano dirlo, per uno che come me detesta le novità piazzate fra capo e collo e l’angoscia che ti artiglia la nuca.

Ero lì, completamente confuso, sospinto a viva forza dentro un labirinto di bivi e incertezze, inebriato da quel piacevole, nauseante profumo di nuovo.

Lui aveva stampata in viso l’espressione sagace dell’uomo di mondo, flemmatico e razionale, nulla di nuovo sotto il sole: nulla in grado di destabilizzarlo, le redini della situazione strette nel pugno.

Sembrava un sogno, e lui era il mago dal volto enigmatico.

Ti dirò il tuo futuro. Avvicinati, non temere.

Ricordo che ebbe la buona grazia di sollevarsi a sedere, come un gatto dalle movenze altezzose, quando irruppi per la prima volta nella camera spoglia, la sua reggia appena nidificata. Che ci apprestavamo a condividere. Continuava ad arrotolarsi pigramente tra le dita una ciocca di capelli come seta inanellata – lo ricordo ancora – e aveva gli occhi sottili e una piega appena percettibile all’angolo della bocca. Piega che, nel migliore dei casi, poteva sfociare nel più radioso dei sorrisi. Le labbra di velluto e uno scintillio acuto e sfuggente in fondo alle iridi.

Non so dire se la stoccata in pieno stomaco fu il vibrare della sua voce bassa in un Piacere, Andrea leggermente trascinato, l’impronta vagamente adolescenziale; un miagolio troppo studiato, troppo per dirsi appunto “studiato”. O se fu piuttosto la lunga stretta di mano che seguì, accompagnata da un cenno sibillino del capo.

E poi… Non so, ripeto. Non so cos’altro aggiungere per fare chiarezza. Non era che un preludio dai colori troppo tenui, caliginosi, per individuarne i contorni, e una luce soffusa rendeva tutto così dolce, pulito, privo di fuorvianti implicazioni.

Avevo intuito che Nicoletti non era il tipo che desiderassi farmi nemico: no, non era quel suo essere malizioso e imprevedibile a spaventarmi, man mano che imparavo a conoscerlo, quanto il fatto che la sua presenza, per qualche motivo, mi turbava.

Ci sono incognite che rendono appetibile l’oggetto che ti capita davanti agli occhi. Andrea è l’esempio emblematico. Se ne stava lì, lui e i suoi lucidi occhietti persi in contorte riflessioni o nella sommaria catalogazione del nuovo mondo intorno a lui, e le labbra di tanto in tanto si piegavano in un vago sorriso. Parlava poco e dispensava perle di semplice arguzia. E intanto cresceva il piccolo mito, lì confinato e circoscritto. Così carino, candido, ironico… Il bel Nicoletti. E poi, Dio, che forza, mentre imparava a calcare le scene e si vestiva di fiamme! Il nostro splendido, adorabile, piccolo genio. A furia di dirglielo, ha finito per crederci.

Che poi, rimanga tra noi, ma recitare è l’altra cosa che a Nicoletti riesce troppo bene. Qualsiasi sfumatura si voglia dare alla parola “recitare”. È l’Attore, lui, l’Attore con la “A” maiuscola, l’istrione, dentro e fuori dalla cornice-palcoscenico o in qualsiasi altro contesto lo si voglia infilare. Per lui il vero palcoscenico è destreggiarsi tra i suoi simili. L’altra sua specialità, l’ho detto, è generare incazzature di portata storica.

Forse era il sottoscritto a fare eccezione alla legge sulle persone introverse, un po’ ermetiche, sul sottile alone di fascino che esercitano intorno a sé. E lo sapevo, dannazione – lo compresi soltanto a posteriori –, sapevo che è meglio fare meno affidamento possibile sui luoghi comuni. Perché ogni caso è mostruosamente unico e irripetibile, impossibile da ricondurre ad una legge che faccia da collante.

Io ero l’altra faccia della medaglia, nulla di più: l’equazione cui a nessuno, in realtà, importava prendersi la briga di decifrare, di rendere esplicita. Sempre più difficile, quando tutto, intorno a te, si configura nelle iridi di metallo brunito di un intrigante demonietto dai gesti attutiti nella nebbia, l’enigma al di là delle ciglia.

Forse mi trovava troppo insipido per lui, o forse, con altrettanta plausibilità, non aveva nessuna voglia di mettersi di buona lena a scandagliarlo come si conviene, il bizzarro termine ignoto così ben mascherato.

Ci sono poi ferite che riesci a portare tutto sommato con orgoglio, almeno in fase di cicatrice. Altre di cui non vai fiero, e allora preferisci occultarle sotto il calore di qualcosa che faccia da scudo. Ecco, era il mio caso.

Tre mesi da quell’ingresso semi-trionfale, e non avevo stretto amicizia praticamente con nessuno. Nicoletti compreso. Si scherzava ogni tanto, ci si provocava a tempo perso, in quelle lunghe serate autunnali trascorse a seguire il ricamo della pioggia sulla superficie del vetro; ci si chiamava cameratescamente per cognome. Ma per il resto, ripeto, eravamo poco più che due incognite impazzite, due particelle costrette a scorrazzare nel vuoto senza mai sfiorarsi.

Dopo il periodo di assestamento, era stato presto catturato nell’orbita di Alberti e Isa – altri futuri astri nascenti –, quasi per legge di natura. Io stavo là, osservatore nell’ombra e, al tempo stesso, vittima ignara di sferzate più o meno letali.

Chiariamo: l’ultima delle cose che desideravo, in quella delicata situazione, era che Andrea fosse tratto in inganno da un’idea sbagliata sul mio conto, unì’idea figlia di discorsi del cazzo. L’idea del superbo che non guarda in faccia nessuno, dell’invidioso che si rode il fegato nell’ombra, metabolizzando controvoglia i successi altrui, professionali, umani e quant’altro. Questa l’avrei quasi sopportata meglio. Peggio ancora, trovarmi con il marchio di sfigato senza appello, di povero alienato con la testa fra le nuvole che proprio non vuol saperne di scendere dal suo universo incantato.

Dicevano che ero bravo, o che comunque non ero così male. Dicevano persino che ero bello, ma non davo confidenza a nessuno.

E ritrovarsi così, in sospeso, invisibile, trasparente, costantemente frainteso, faceva male, dannazione! Faceva male già di suo, Andrea: ci hai mai pensato? Non riuscire a schizzare fuori da una fottuta corazza che, anziché ripararti da quel che sta fuori, tutto ciò che fa è renderti fragile, vulnerabile.

Forse è in quel momento che ho cominciato a fumare, anche se non ha molta importanza; non è che il risvolto macroscopico della questione, che cattura l’attenzione, l’involucro non necessariamente più significativo del contenuto. Non ricordo come diavolo è che ho iniziato a ficcare a viva forza nella mia esistenza abitudini che, fino a quel momento, poco e nulla avevano a che fare con me. Mi ci vedete? No, ecco. Nemmeno io. Ero il soggetto passivo della questione, manovrato dalle mie stesse paure. Fuma che ti passa.

Forse era la necessità disperata di fermarmi un momento, sigillare tutto in un unico istante, prima che la situazione imboccasse il sentiero del non-ritorno. Dormire e non pensarci più, sognando l’opportunità che non mi era stata elargita, l’attimo in cui le possibilità erano ancora immense e sconosciute, e nulla era ancora precipitato nel grigiore angosciante della salita impraticabile, senza aria per respirare. Sognare l’occasione di vita che in realtà non sarebbe mai stata, sapere quale via imboccare; immaginare di tornare indietro quando l’avessi voluto e riprendere in mano tutto da principio, io e Andrea, senza scivolare nel baratro della frecciata di troppo che devia il corso del fiume. Frecciata che mai – ci mancherebbe altro – nessuno si era mai degnato di scagliarmi in piena faccia. Che forse non sarei neppure stato in grado di rispedire al mittente senza incidenti diplomatici. Come ad esempio, chiarire a Isa che in fin dei conti mi andavo bene anche così, pure sfigato, leggermente paranoico e con qualche piccolo problema di socializzazione, se l’alternativa era diventare inutili puttanelle popolari.

Per farla breve, se proprio vogliamo metterla su questo piano, mi drogavo per regalarmi la possibilità, quando rientravo la sera, di non trascorrere il resto della serata a fissare il soffitto; a macinare, nella prospettiva di un alienante vicolo cieco, il vuoto di una giornata scivolata via dalle dita dentro la tana dei leoni, con una posta in gioco sempre più aspra.

Unico episodio degno di nota fu quella sera che Nicoletti se ne rientrò a notte fonda completamente sbronzo. Non so cosa gli fosse frullato in testa – forse il rientrare a pieno titolo tra le simpatie del suo amato professor Neri o chissà quale altro, effimero trionfo. Fatto sta che quella sera Andrea non si reggeva in piedi. Non che fossi in condizioni migliori, mezzo addormentato e con un post-canna niente male, ma in qualche modo riuscii a evitargli d’inciampare su ogni ostacolo lungo la sua traiettoria, risparmiandogli un’indegna conclusione della sua notte brava, disteso a tappetino sul pavimento.

Era completamente cotto e continuava a mugolare cose incomprensibili, aggrappato a me come a qualcosa di rassicurante, le unghie che affondavano con voluttà nella stoffa della maglietta. Alla fine riuscii a depositarlo sul letto.

Hai bisogno di qualcos’altro, principino? Sicuro che il mio ruolo si esaurisca qui?

- Derossi… Ho sete. Cosa c’è in frigo?

Vodka, tesoro. Per tutti i gusti. Ma non per te. Non è il caso.

- Ho la gola secca… – continuava a piagnucolare con la voce cantilenante, impastata di sonno.

Cazzi tuoi, Andrea. L’acqua del rubinetto è ciò che passa il convento. Chissà, magari ti rinfresca un po’ le idee.

- Gabri…? – un pigolio sottile sottile, di micio abbandonato.

Mi sembra di sentirlo ancora, in lontananza, un’eco che non si è mai smorzata del tutto.

Difficile conciliare tutto questo con il cipiglio a metà tra lo strafottente e l’annoiato che campeggiava di solito su quel volticino di porcellana.

Che succede, Andre? Ti fa male la testa?

E poi… Ecco, non so come ho fatto, a questo punto, a non stramazzare a terra.

- Gabri… Resti a dormire con me?

La cazzata del secolo, dannazione. E dannazione a te, Andrea. Maledetto. Fottuti imbecilli, tutti e due.

Cos’avrei dovuto farci secondo te su quel letto? Cosa diavolo ci facevo con te?

Ero il trastullo del momento, naturalmente; il giocattolo nuovo di zecca, il giaciglio su cui adagiare le tue membra aggraziate.

Per il resto, ti limitavi a ignorarmi e a dispensare sorrisi falsi. Era uno di quelli?

 

Chi c’è a disposizione per quattro innocenti lisciatine di testa? Gabriele Derossi, uno degli scemi con cui divido la stanza. Quello alto e bruno, con i capelli sconvolti, fisicamente passabile? Vada per lui, allora.

 

E allora coraggio, Derossi: non essere timido, accetta l’offerta generosa, lasciati onorare dal felino che ti si struscia sulle gambe, che ti spinge con il muso, desideroso di attenzioni, e si rifà le unghie sulla tua salute mentale.

Il dio Gatto l’aveva predetto.

 

Non so come trascorse poi quella notte. Ad ogni modo, assecondai il suo ennesimo capriccio. E sperai – sperai davvero, stavolta – in quella scintilla di deliziosa intimità. In quel corpo accaldato addossato al mio, un braccio sul mio petto come una barriera, possessivo, quasi a volermi impedire la fuga. Il suo respiro lento, appena alterato, dritto sul mio collo; il suo profumo destabilizzante, mix letale tra l’aroma cristallino della sua pelle e un sottile retrogusto d’alcool.

Erano poi i movimenti con cui chiedeva tacitamente una carezza, la parte ostica; quelle labbra delicate da fanciulla, e i suoi capelli, che mi ritrovavo continuamente sulla faccia.

Ti amo, Andrea. Maledizione.

L’ho detto. Qui lo dico e qui lo nego, per quanto possa negarlo fino a un certo punto.

 

Mi vuoi bene, Gabriele, almeno tu? Qua non me ne vuole nessuno. Vogliono solo l’amicizia del primo della classe, ma di Andrea a nessuno importa più di tanto. Mi getteranno nel cestino della carta straccia, appena sarò inutile ai loro propositi.

Tu almeno me ne vuoi un po’, Gabriele?

 

Sarebbe stato… Oh, dannazione! Sarebbe stato perfetto, il bandolo della matassa ritrovato, se le cose avessero seguito quella scia.

Cosa succede, Andrea? Cos’era successo, piccolo?

E dannazione a me che, per un istante, ripresi a respirare. E a sperare. Una svolta, in quel preciso istante. Una qualsiasi. Avrei potuto mettermi a supplicare.

Che diavolo ci facevi appiccicato a me a mo’ di francobollo, piuttosto, per poi arrivare a… allo schifo attuale?

Perché ti eri sbarazzato dei tuoi vestiti, idiota, e perché te ne stavi lì al caldo, simulacro vivo e tremendamente eccitante, premuto a viva forza contro le mie ossa, vestito solo di t-shirt e intimo?

Volevo baciarti, Andrea. Ibernare quella follia nella capsula di un secondo da rivivere all’infinito, come un nastro da rimandare indietro. Calcificarla su qualche superficie tangibile, come una fotografia che conservi i profumi, i singoli frammenti di vita.

Volevo baciarti. Disperatamente. Piano, così. Adagio. Ed eri così bello…

Non dicesti nulla. Ti limitasti a stringerti a me, braccia e gambe, il tuo viso e la tua bocca a stretto contatto con la mia pelle, appena sotto la gola, un sospiro appena percettibile a seguire il ticchettio dei secondi.

In qualche modo, anche quella notte vide il suo termine.

L’indomani, manco a dirlo, eri uno straccio per lavare i vetri. Ti limitasti a mugolare, dal groviglio delle lenzuola, che non stavi bene, che non avresti schiodato le chiappe da quel letto per niente al mondo e non ti saresti presentato a lezione. Di inventarmi una balla e mandare tutti a quel paese da parte tua.

Il professor Neri, il tuo mentore, naturalmente poteva aspettare i tuoi comodi. Non che il fatto che la sera precedente fossi ubriaco non avesse fatto il giro dell’istituto. Comunque, nessuno ti torse un capello. O non ancora, non a viso scoperto.

Si respirava un’atmosfera strana, il veleno nell’intonaco delle pareti: il veleno di chi avrebbe venduto la madre pur di procacciarsi una chance e accedere di diritto allo stage di Neri, stimato docente di Drammaturgia e Tecniche teatrali. Andrea era il suo pupillo, l’ho già detto.

Ed io ero demoralizzato al massimo. Non mi piaceva per nulla come stavano andando le cose. Non mi piaceva il mio modo di stare là dentro, il mio ruolo ritagliato nelle trame elaborate della tappezzeria nuova della sala audizioni. Non mi piaceva la figura in ombra seduta laggiù in fondo, assente, i gomiti puntati e un fitto banco di nebbia tra sé e l’altro, tra sé e il fantasma di ciò che desidera, tra sé e ciò che avrebbe voluto o potuto essere, che gli si chiedeva di essere. Presente. Sarebbe bastato questo.

Non mi piaceva ciò che gli altri vedevano di me, non mi piaceva la mia immagine distorta sbalzata in fondo alle pupille del casuale osservatore. Io non ero nulla di tutto ciò.

Fu Nicoletti, manco a dirlo, a buttare il carico da undici. Non ero la sua compagnia preferita, l’avevo capito. Non mi conosceva. Conosceva ciò che non ero, che non mi rappresentava, e questo non gli diceva nulla. Aveva gettato la spugna da tempo. Molto meglio archiviare la parentesi della sbronza in fondo a un cassetto su in soffitta.

Sembrava che l’ambizione di essere il migliore, ancora una volta, di distinguersi in quel marasma di schegge impazzite, se lo stesse mangiando. Ormai, evitavo completamente l’argomento, perché mi avrebbe fatto capire che per lui non ero all’altezza. Alla sua, quantomeno. Era diventato l’argomento tabù, pena la defenestrazione.

Tu… contro di me, Derossi? Sembravano gridarmi i suoi occhietti liquidi, sfuggenti, sarcasmo ritagliato in un blocco d’ossidiana. Anche tu, sciocchino, sei tra quelli che vorrebbero soffiarmi il posto? Possibile che a nessuno venga in mente di riservarmi scommesse più appetitose?

Si leccava le labbra come una tigre pronta ad addentare un pasto esiguo per quanto vitale.

E continuava a guadagnare punti. L’Accademia intera smaniava per lui, tutti lo guardavano con rispetto; qualcuno l’avrebbe pure voluto morto, ma erano dettagli insignificanti.

Me lo disse chiaro e tondo: cosa volete di più? Io non mi sento in competizione con te, Gabriele. Non sei un… problema. La fissa è solo tua. Tu… e me? Stai scherzando?

Non so cosa mi trattenne, quel giorno, da colpirlo su quel faccino da serpe fino a buttarlo a terra, fino a vedere il sangue. So solo che qualcosa, qualche morbo oscuro ancorato in fondo alla gola, soffocò il mio grido sul nascere, inchiodò la mia volontà alla parete.

Almeno… avrei potuto almeno urlargli addosso quel suo stesso disprezzo gravato degli interessi. Invece fu solo tanta rabbia in potenza, e poi la figura misera di chi non è in grado di rimbalzare al mittente l’umiliazione subita.

Tutto ciò che venne fuori da quella mezza discussione biascicata tra sguardi scivolosi e pieni di rancore, fu la mia ritirata fulminea, ho bisogno di un’altra stanza, cambio stanza, per favore – non voglio un deficiente vanaglorioso fra i piedi. E un “vaffanculo” smozzicato sul limitare della porta. Vaffanculo, Nicoletti. È il posto che più ti si addice.

Neri intanto se la mangiava con gli occhi, la sua creatura. Era abbastanza. Sin dal primo momento, quelle attenzioni mi avevano reso furioso. E deluso. Come studente, come cretino innamorato di un mostro insensibile dalle mille facce. Avrei dato quanto avevo di più caro, per ficcarmi lì in mezzo a viva forza, guadagnarmi la stima del professore e l’amicizia di Andrea. Ci tenevo. Mi mangiavo il fegato nell’ombra. Perché io ero il figlio della serva, lui splendeva davanti agli occhi di chiunque lo osservasse.

Ero lì. Ancora una volta fermo al palo, escluso da trame che desideravo fare mie, geloso del gesto più banale, di una quotidianità rasserenante che non mi apparteneva; di occhi che mai si sarebbero posati su di me, di un rapporto umano, del calore che non riuscivo a sentire né a trasmettere. O meritare.

Sicuro che tutti ti odino, Nicoletti? O era la tua ennesima menata? Volevi irretire anche me. O forse no, nemmeno questo. Perché, a pensarci bene, non ero indispensabile alla tua sopravvivenza. Semplicemente non esistevo nel tuo orizzonte. Ero il torrente di parole non dette. Perché avresti dovuto preoccupartene?

 

Cos’eri tu, Gabriele, prima che arrivasse lui? Che cos’era, prima, la tua vita?

Era il Caos. La perenne, frustrante mancanza. Un continuo ripiegarsi. E lui, tutto sommato, non è che una singola manifestazione, una delle tante facce momentaneamente vive di questa “mancanza”. Di questo fluttuare nel vuoto. La perenne indecisione, l’intima vigliaccheria che uccide il moto concreto mentre stai per gettarti su un banchetto immaginario.

 

È stato forse lui a segnare lo stacco, a decretare la sconfitta, la frustrazione, l’occasione mancata? A porsi come punta dell’iceberg del tuo disastro esistenziale?

Non è così. È solo la falce di luna visibile in questo frangente.

 

Ha cambiato qualcosa, in concreto?

Mi ha reso di nuovo vivo, almeno per un po’. Intimamente, ma senza le sovrastrutture per esserlo davvero. Solo una frustrante implosione che non riesce a valicare le barriere.

 

La sua semidivinità non ebbe lunga vita. Qualcosa si spezzò, e poi giunse la tempesta a riscrivere i confini.

Neri fu sollevato dai suoi incarichi. Qualcuno fece una soffiata, qualcun altro vociferò che avesse una mezza relazione con un suo allievo. Che quest’ultimo ne avesse beneficiato in qualche modo. Il nome dell’allievo non venne mai fuori.

La verità, poi, è che a fare le scarpe a Neri furono la Longoni e la Balducci, nemiche di vecchia data. Con la complicità dei loro cocchini raccomandati e corruttibili. Che naturalmente lo odiavano.

Chissà se saltò fuori proprio allora, il nome di Andrea. Non era l’unico ragazzo bisex o omosessuale nell’intero istituto, questo no. Era l’unico, però, a starsene appiccicato al professore in maniera al dir poco equivoca.

Ancora una volta, conoscevo i retroscena. E ancora una volta mi preoccupai di morsicarmi la lingua. O meglio, vi fu qualcosa di ancestrale che mi fece gettare ai rovi la possibilità di immerdare a puntino un figlio di puttana reo di essermi entrato nel cuore e avermelo ridotto a uno scolapasta. Di aver scovato con il lanternino i miei punti deboli ed esserci passato sopra più e più volte con l’aratro. Di aver minato la mia sanità mentale, propinandomi a scadenze alterne sorrisetti provocatori che sapevano di miele, riaccendendo in me la speranza di nonsochecosa, per poi infliggermi la mazzata con gli interessi e scagliarmi di nuovo nel fosso.

Questo è il mio ultimo favore per te, Andrea, giurai. Il mio ultimo atto di lealtà.

Come ad esempio, un po’ di tempo fa, evitare che Alberti, nel corso di una lite, ti pestasse di santa ragione. Ecco, quella non so proprio come mi venne. Dovevo aver fumato di recente, per forza di cose, o non me la spiego. Sarebbe stato il coronamento ideale: Alberti e Nicoletti che se le danno di santa ragione, e fine dell’idillio.

Come dicevo, la semidivinità di Andrea uscì da questa storia intaccata, trafitta da insidiosi punti di domanda, privo com’era del suo pigmalione. Non so poi cosa accadde di preciso, nel frattempo. So solo che, per un po’, evitai di mangiarmi il fegato crogiolandomi nella fugace visione, sempre fissa nella mia mente, di Andrea fra le braccia del professore. Ma questo di solito succede quando ho particolarmente voglia di farmi del male.

Chissà cos’era vero e cosa non lo era, alla fine. Chissà cos’era stato per lui tutto questo. Se davvero era il viscido profittatore che avevo creduto per lungo tempo. Chissà… com’erano andate davvero le cose. Senza il fiele del pregiudizio a fare da filtro.

Vi chiedete come diavolo faccia a sapere tutte queste cose? Beh… È una storia ancora più lunga. Tutt’altro che entusiasmante, credetemi.

La tempesta sul momento parve placarsi, tra un sorriso gravido di veleno e un cattivo proposito trattenuto malamente fra le dita. Troppi giri strani, troppi avvoltoi che si lanciavano a beccare le briciole, dopo la caduta di Neri. E le cose andarono di male in peggio.

Fu a quel punto che entrò in scena la Loria. O meglio, che mi avvidi della sua esistenza. Elena Anna Loria, presente. A scadenze alterne, ma mai ai miei livelli.

Di lei, per quel poco che posso ricordare, avevo sempre creduto fosse un tipo tosto. Abbastanza tosto da portarsi in giro con fierezza una criniera che ormai le sfiorava i fianchi, in barba alle occhiate al vetriolo di qualche vipera che mal sopportava il suo starsene fuori da ogni recinto imposto, il suo rifuggire con altrettanta noncuranza il posto che le era stato affibbiato – quello del brutto anatroccolo che dovrebbe far “sì” con la testa per paura di finire in bocca allo squalo di turno –, nonché il suo fermo rifiuto di affondare le zanne nella carne martoriata del nemico appena abbattuto e demonizzato a dovere. Era una che badava ai cazzi propri. O, almeno, fu la mia prima impressione.

Come dicevo, la ghenga al femminile di Isa mal tollerava l’atteggiarsi a regina di picche di quella che sarebbe stata la outsider per eccellenza, se fossimo stati in un teen-moovie made in Usa. Si trascinava da un corridoio all’altro come una visione in bianco e nero, dimentica di chi la accusava di non prendere posizione. Secchiona del cazzo. Se mai ci fosse stata, aggiungo, una “posizione” definita, non inquinata da secondi fini prestabiliti, che valesse la pena di essere abbracciata senza riserve.

“Io osservo”, sembrava rispondere lei. E un po’ la ammiravo per questo. Non che fosse un personaggio: semplicemente, non doveva fregargliene proprio un accidente, di guerre di quartiere e affini.

Non che Loria sia brutta. Semplicemente, a qualcuna avrebbe fatto comodo che, a suo tempo, si fosse rassegnata all’invisibilità. Bisognava abbatterla in tutte le sue accezioni, come collega, come donna; farle terra bruciata intorno, lasciarla in disparte: una rottura di palle in meno. Comunque devo ammettere che ha una bella faccia, alla fine. Occhi scuri, zigomi alti. Ha un che di drammatico, forse anche questo contribuì al suo ingresso, chissà. Al silente interesse di Neri nei suoi confronti, interesse non gridato, per sua fortuna, come accadde per Nicoletti.

È risaputo poi come la penso io, no? E dico che se mai dovesse frullarmi in testa di andare a letto con una donna, ecco, penso che la mia scelta ricadrebbe più su un tipo alla Elena Loria. Non mi dice nulla la quinta abbondante che Sara, l’amica del cuore di Isa, si ostinava a sbattermi sotto il naso a ogni piè sospinto. Benedetta figliola, devo forse mettertelo per iscritto che, uno, mi piacciono gli uomini; due, il sangue di arpia mi sarebbe indigesto…? Forse, se l’élite dei miracoli non mi avesse ritenuto una specie di alieno completamente schizzato, alla fine un pensiero ce l’avrebbe fatto. Con mio sommo imbarazzo.

Alla fine, per farla breve, non fu Loria a coinvolgermi nel folle progetto. Fu uno scambio fitto di e-mail durante il quale rifiutai fino all’ultimo di palesarle la mia identità. Le passai tutto il materiale che riuscii a racimolare – materiale da cui saltarono fuori simpatici altarini, vedi il padre di Alessandro Alberti che, tramite finanziamenti incrociati, si preoccupava di supportare di tasca propria parte delle attività extracurricolari per cui l’Accademia era rinomata, e via discorrendo, con altre beltà di questo genere. Peccatucci veniali e meno veniali in un intreccio inedito.

E la seconda bomba ben presto esplose; Nicoletti fiutò l’affare, fece il voltafaccia e diede inizio alla sua donchisciottesca crociata per riabilitare Neri, vittima, a suo dire, di complotti dall’alto perché scomodo agli alti vertici. E il resto, come sapete, è storia.

Ora, certo qualcuno si starà chiedendo perché colui che complottò esclusivamente nell’ombra, che fino all’ultimo rifiutò di parare la faccia, ora giace disteso sul pavimento del corridoio nord dell’istituto, di fronte all’aula ventitré, con una probabile frattura al naso. E per quale motivo Andrea Nicoletti, il diavolo, si porta a spasso le sue ossa tutte intere, mentre strilla ai quattro venti che spaccherà la faccia al primo stronzo che oserà mettere in dubbio la moralità di Neri dopo aver avallato, in cambio di qualche posizione di favore, le porcherie di Longoni, Balducci e relativo codazzo di leccapiedi matricolati.

Il nodo cruciale è che vorrei davvero riuscire a odiarlo, Andrea. Disperatamente. A fargli male, per una volta.

 

 

 

 

 

 

Buonasera a tutti!

Poiché vado un po’ di fretta, stavolta evito le circonvoluzioni verbali e passo direttamente a rispondere alle recensioni.^^

Witch: oltre al fatto che il tuo commento… estremamente “passionale”, “istintivo”, ecco, mi ha fatto davvero piacere, devo dire che, ebbene sì, non ci hai visto affatto sbagliato. Almeno, riguardo alla situazione per come si presenta fino a questo momento. E, chissà, forse in questo capitolo le questioni si delineano in maniera un po’ meno fumosa.

La “doppia coincidenza nominale”, se ci pensi, ha un che di “terribile”, in un certo qual modo. Comunque, mi sa proprio che Andrea è venuto su così e ci possiamo fare ben poco, XD. Doveva risultare un po’ “coglione”, quello sì: diciamo, ecco, che l’obbiettivo è stato raggiunto. Chissà, però, che i fatti non ci smentiscano nel tempo. Che il pugnale l’abbia già sfoderato a suo tempo, come dicevi, è sacrosanto. Crescerà. Almeno, spero. In ogni caso, trattare con lui come personaggio, si sta persino rivelando divertente!

Alla prossima, un bacio! <3

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 - Ti fidi di me? ***


 

Capitolo 7

Ti fidi di me?

 

 

- Oh, cazzo! La smetti di guardarmi… in quel modo, Nicoletti?

Sospiro, lentamente. Gomiti sul lavandino, lo sguardo fisso sulla mia faccia riflessa nello specchio. Cerco di capire dove stia la fregatura, stavolta.

Calma, Gabriele, calmo. Riprendi fiato.

Proviamo a fare chiarezza sullo stacco temporale che dall’aula delle meraviglie ti ha trascinato direttamente nel bagno in fondo al corridoio.

Prima, la lite in quell’aula deserta. Io e Nicoletti, e Loria che cercava disperatamente di far da paciere. O di soffiare sulle braci, chissà, in combutta con il piccolo serpente che in questo momento sembra troppo occupato a perforarmi la schiena con quegli occhietti di metallo, per pensare ad altro.

È terribile quello sguardo che segue ogni tuo movimento. Volutamente irritante.

Poi, dicevo, sulla porta è apparsa la Balducci, che attualmente rimpiazza Neri, e per un attimo son stati cazzi.

Non ho capito, dal modo in cui lei e la Loria si sono fissate, se si conoscano già o semplicemente si stiano sulle scatole a pelle.

Comunque è stata chiara, e poche rotture di scatole: ha chiesto se avessimo intenzione di saltare le lezioni, se ci fosse stata qualche rissa e lei non ne sapesse nulla; se io fossi tutto intero, e di andarmi a lavare la faccia, che così non mi si poteva guardare.

È completamente pazza. Ha continuato ad abbaiarci addosso finché non ci siamo decisi a sloggiare, e per un attimo mi è venuto il dubbio che fossimo finiti dentro una strana commedia e ce ne fossimo resi conto soltanto allora. Nel complesso, mi dà la sensazione di una che mette un sacco di enfasi in quello che fa, e ha quei modi da arpia compiaciuta che proprio non sai cosa aspettarti.

Nicoletti ha avuto persino la faccia tosta di domandarle se potesse accompagnarmi lui, a sciacquarmi la faccia.

Imprecare in tredici lingue diverse avrebbe sintetizzato bene il mio pensiero a riguardo. Un che cazzo vuoi non sarebbe stato altrettanto incisivo.

Forse è vero, dopotutto, che dovrei smetterla di farmi le canne: eviterei di amplificare ogni sensazione, smarrire pezzi lungo la strada e rendere impossibile, a giochi fatti, la ricostruzione di un filo logico che non sia del tutto sballata.

In ogni caso, eccomi qui. Con lui che mi guarda. Alle spalle, sadico.

Trovo semplicemente urticante il silenzio che ritaglia intorno a sé. Una spirale con centro sul suo viso. E lui se ne sta lì con il suo sorrisino obliquo ad attendere le prossime mosse.

È come avere un gufo appollaiato sulla spalla, credetemi.

- Scusa… – azzarda alla fine, la voce leggermente arrochita come se non parlasse da qualche ora – Mi dici dove sta il problema?

Calma serafica.

Preferisco fissare con rassegnata desolazione ciò che la superficie riflettente, puntuale, mi rispedisce indietro.

- Il mio naso, sarebbe il problema. Che fra qualche ora avrò la faccia deturpata. È abbastanza?

- Oh, perdona la franchezza – il re ci ha degnato di sollevare il suo sguardo su di noi… Gioiamo! – Ma non vedo cos’abbia il tuo naso che non va. A me sembra uguale a prima…

- Lo dici tu.

- Beh, allora guardala dal lato positivo – un ghignetto cospiratore – Peggiorare non può. Semmai migliora.

Stupendo. Non so se qualcuno abbia afferrato la situazione. Ghiaccio. Battutine da due soldi in cambio della sua compagnia non richiesta in un antibagno di due metri per tre.

- Perché non vai a farti fottere, Andrea?

- Ehi, come siamo permalosi! Non posso dire che il tuo profilo sia uguale uguale a quello dell’Apollo del Belvedere, però, al di là di questo, tu hai un tuo perché… – ammicca.

- È un apprezzamento dissimulato?

- No. Ma non è colpa mia se, nonostante tutto, sei una bella visione. Alla faccia dei profili irregolari e delle espressioni da cane bastonato.

Eccoli. Quei famosi frangenti in cui desideri strangolarlo.

Perché non è figo prendersi la porta sul muso e finire gambe all’aria in mezzo al corridoio, Nicoletti. Non è figo avere il naso rotto e sopportare stoicamente, per quattro o cinque giorni, di andarsene in giro con tutti e due gli occhi pesti e una faccia indescrivibile. Ci hai pensato, a questo?

E lui si decide finalmente a scendere dalla panca su cui stava appollaiato in attesa del Giudizio Universale. Con nonchalance, si sfila la sciarpetta dal collo.

Fino a non molto tempo fa, probabilmente mi sarebbe sorto un dubbio. Se fosse meglio adoperare la sua dannata sciarpetta per strozzarlo o per assicurargli i polsi alla testiera del letto. Con solo quella addosso, magari.

Mi costringo a osservarlo. È cambiato qualcosa sul suo viso: nulla che riguardi la composizione alchemica dei suoi lineamenti, modellati in un’espressione curiosa, come il gatto che punta il topo.

E poi si avvicina e mi posa una mano sulla spalla. Con cautela, come se da un momento all’altro potessi voltarmi e staccargli il braccio con un morso. Che è più o meno ciò che per un istante mi è saltato in mente.

Ecco, potrebbe sembrare quasi … intimidito, adesso. Se non sapessi che si tratta pur sempre di Andrea Nicoletti. Parafrasando, se l’obiettivo era adottare la “faccia giusta al momento giusto”, niente male, Andrea.

- Mi dispiace… – sussurra.

L’hai già detto, vorrei soffiargli in faccia.

Sospiro. Vorrei riuscire a dar fiato alla tensione. Alla rabbia in eccesso, alla frustrazione di non riuscire a decifrare l’enigma. Se, come da copione, non mi s’inceppasse la lingua sul più bello, insieme alle sinapsi che, di colpo, smettono di connettere come dovrebbero.

Il torrente di parole che tornerà a rimestare nel silenzio con un certo scarto temporale, scalpitanti riflessioni che ti riempiono il cervello di fumo. Rigorosamente in ritardo di qualche ora, quando sei da solo, non sai come ingannare il tempo e ti stordisci a suon di paranoie, rimuginando sulle varie circostanze nell’arco della giornata in cui non hai agito come ti sarebbe piaciuto. O come avresti dovuto. Pensi a ciò che davvero avresti dovuto, voluto dire o fare, in quella tua veste inedita che nessuno conosce. Solo che poi sei inciampato sui tuoi passi, soggiogato da qualcosa di inafferrabile, senza poter tradurre l’impulso in un processo logico, il processo logico in azione tangibile.

- Andrea… Va bene così, sul serio.

Sicuro. A dire il vero, non c’è nulla che vada bene.

Neanche le tue mani intorno ai miei fianchi, che scivolano con noncuranza su di me, la faccia premuta contro la mia spalla – posso avvertire il contorno sottile del mento, della mandibola. Ti dondoli appena, indeciso.

- Andrea…

Silenzio. Il classico momento in cui uno dei due dovrebbe aprir bocca e sperticarsi nella più immane cazzata della sua vita.

Come chinare lo sguardo ed esitare sul triangolo di pelle candida che sbuca oltre il colletto, nel punto in cui la felpa troppo larga scivola a scoprire l’attaccatura della spalla. La clavicola in rilievo, il pallore immacolato.

Una cazzata storica, come ricambiare il suo abbraccio con forza spasmodica.

Calmo, rilassati. Rischi di frantumarlo.

E lui ridacchia. Una risata argentina. Solleva la testa dal suo lauto pasto e scuote i capelli, giulivo.

- Gabri… dovrei riprendere a respirare, se non ti dispiace.

Devo aver razionalizzato solo adesso che è il caso di allentare la pressione sulle sue spalle. Almeno un po’.

La madre di tutte le cazzate: avvicinarti al fuoco sapendo che potresti bruciarti. Lasciarti risucchiare dentro il calderone.

E la sua cute non sa di crema, come il colore e la consistenza serica suggerirebbero. È qualcosa di più penetrante, speziato. Come… cannella.

La cazzata storica per eccellenza è avvicinarmi a lui e scostargli i capelli dal collo. Sfiorarlo con le labbra. Lungo la gola, poi di lato. La giuntura incantevole della spalla.

E poi dischiudere le labbra sulla sua pelle.

- Gabri… – un leggero singulto di sorpresa, solo per un istante, la testa reclinata all’indietro a scoprire la gola.

- Ecco – sorride – Ora… è perfetto.

Potresti giurarci. Perfetto come piace a te, Andrea.

E se in questo momento entrasse qualcuno, probabilmente gli rivolgerebbe un sorriso smagliante, gli direbbe che sta lavorando e che non è il momento di rompere le scatole. Ripassi più tardi, arrivederci e grazie.

Poi non so dire cos’altro sia successo. Ancora una volta. So che siamo ancora nel bagno degli uomini, corridoio nord ultima porta in fondo, e che sto baciando il collo di Andrea Nicoletti contro il bordo del lavandino.

 

Non so se questo abbia un senso. Stavolta non c’entro – o almeno, non del tutto: lo giuro.

Nicoletti è più schizzato di me, ed io come un allocco sono finito in balia delle sue trame assurde. Lui è lo scienziato pazzo, io il suo brevetto da collaudare.

Calma, Gabriele. Non può fare sul serio – vorrei auto-convincermene, disperatamente. Perché Nicoletti non è mai serio. Saprà anche esserlo, non lo metto in dubbio, ma quando fa così, è chiaro come il sole che sta bluffando.

E se questo era il bluff peggiore in cui si potesse cadere, beh, io ci sono caduto. Con tutte e due le gambe. Ragiona, Gabriele.

 

E tu, Nicoletti, in fondo sei sempre lo stesso che mesi fa mi ha studiato per bene e vibrato la pugnalata con gli interessi. Mirando bene a quelli che, nel frattempo, aveva individuato come i miei punti deboli.

In fondo tu mi disprezzi, no? Allora chiudiamo la faccenda quanto prima, senza scuse idiote, senza faccette di circostanza. Mi disprezzi e non ne hai fatto un gran mistero. Come persona, come collega, artista o aspirante tale. Sono uno dei tanti ingranaggi, ai tuoi occhi: uno dei tanti stronzetti gasati che si credono dei grandi e la cui ambizione è accaparrarsi meriti che non gli appartengono. Sono l’ennesima mediocrità con le braccia e le gambe che briga per portarti via lo scettro. Sono l’incolore e l’indefinibile in tutte le sue gradazioni.

Non vale la pena rivalutarmi come amico, come compagno, perché in fondo non sono altro che l’idiota asociale che cerca di salvare le sorti intessendo intorno a sé un’aura evanescente da “uomo del mistero” sotto cui occultare il vuoto cosmico della sua essenza.

È ciò che pensi? L’hai detto – anche se in termini meno chiari e meno raffinati. L’hai dimostrato a trecentosessanta gradi, anche se adesso trovi conveniente ritrattare. Io sono le chiacchiere all’arsenico di Isa e le occhiate di sufficienza di Alberti, verità rivelate, e nulla che esuli da ciò.

Che senso ha, da parte tua – me lo chiedo ancora e non smetterò di chiedermelo, di dubitare, fino a quando non mi saprai dare una risposta –, fingere di cambiare idea in maniera così drastica e di allungare la tua mano a chi avevi deliberatamente ignorato fino a questo momento? O peggio, a qualcuno su cui avevi spalato fango in quantità industriale?

Non pensi che sia… umiliante, per chiunque, accettare una mano tesa dal proprio aguzzino?

Ed io non mi fido più. Non ho bisogno della tua mano, Andrea: se ho potuto farne a meno finora, potrò farne a meno anche in seguito, e non mi disturberà.

Però vorrei che nessuno, a distanza di tempo, venisse a tubarmi nelle orecchie com’è bravo Andrea, com’è buono Andrea, così generoso e affabile con tutti – e sincero, naturalmente, franco, schietto, sinonimi vari. Perché, ecco, penso potrei non rispondere di me e abbattere l’incauto tessitore di lodi a testate in mezzo agli occhi.

 

Oltre al danno la beffa: riuscite a capirmi adesso? Il mio problema è l’equivalente di un poliedro dalle mille facce che, dannazione a lui, le sa adoperare tutte magistralmente.

Che cazzo ti frulla in testa, Nicoletti? Voglio saperlo, solo questo, mentre mi candido ad artefice e soggetto passivo, al tempo stesso, della tua volontà, del tuo assedio.

Che cazzo mi baci a fare? Ancora non ti è chiaro il concetto? Non hai capito che per me è veleno?

Ti rivolterai di nuovo contro di me, Andrea: lo so. Farai carte false per ottenere quello che vuoi, ancora una volta, e poi tornerai a cambiare idea come cambi la biancheria.

Vorrei essere capace di piangere, ora. Disperatamente. Invece, tutto mi lascia credere che, ancora una volta, la soluzione più indolore sarà la proverbiale coltre d’indifferenza. La mia autodifesa e la mia maledizione, dopotutto.

- Andrea, ascolta, non ha senso.

- Cosa… Non ha senso? – si riscuote.

Ha il volto arrossato, l’espressione stralunata, persa nel suo torpore erotico-delirante.

Volevi chiudere in bellezza, per caso?

- Che ti scusi tre miliardi in dieci minuti. Non ha senso. Non è stata colpa tua. Ho capito – voce piatta.

Coraggio, Gabriele. Ce la puoi fare. Forse.

E magari è davvero così, alla fine. Non è colpa tua, Andrea, se Alberti mi ha buttato a terra: fin qui siamo d’accordo. E se Neri, a suo tempo, è stato così accecato dall’ossessione per te da non riuscire a tenere per sé la sua predilezione – che sbordava nella sfera professionale.

Mi basta sapere però che tutto il veleno che mi hai rovesciato addosso, non ti è stato imboccato da nessuno. Non dagli altri serpenti con cui ti accompagnavi. Non dalle circostanze, da una lite banale trascinata oltremisura. Il veleno che mi hai spruzzato addosso, Andrea. Quella era farina del tuo sacco, espressione schietta del tuo modo di vedere le cose. Farina che hai spanto in giro deliberatamente, di tua volontà, perché nessuno ti ha costretto o plagiato; nessuno ha macchinato a tua insaputa.

Sospiro. Impossibile, in pochi minuti, incatenare il suo sguardo, il suo discorso, la sua attenzione, e centrare lo snodo cruciale. E forse, a essere sincero, neppure m’importa, di spiattellargli le mie riflessioni della notte.

Non ti devo spiegazioni.

- Gabri, senti… È difficile.

Lo so che è difficile, Andrea. Quale bugia ci cuciamo addosso, oggi?

- Che cosa?

China lo sguardo. Sembra improvvisamente imbarazzato, sulle spine. Ed è chiaro, sì, a questo punto, che alluda a quella specie di bacio o qualunque altra cosa sia stata. Maledizione.

- Non lo so, Gabriele. Non lo so… cos’ho fatto.

- Non pensarci, allora. Fai finta che non sia successo nulla.

Tentare di liquidare il discorso non serve più. Non se lui ha gli occhi stranamente luccicanti, come se avesse bevuto.

Sicuro di star bene, Andrea?

- Ecco, il punto è questo… Che non è successo nulla: errore. È successo. Non è un caso. Era qualcosa di… sentito, ecco. Almeno da parte mia. Però il problema è che non riesco a dirtelo neanch’io. Non riesco a… spiegarti. Credo di essermi incasinato.

Non so come, ma per un attimo credo di avergli preso il volto fra le mani. Di averlo scrutato in fondo agli occhi scuri fino a farlo arrossire.

- Qual è il problema, Andrea?

- Il problema è che, da perfetto idiota… – si passa le mani fra i capelli, nervosamente.

Segno di limite abbondantemente raggiunto e superato.

- Io no-non so neppure come… chiamarlo, ecco. Il fatto è questo: non lo so. Mi sembra di sentirmi… attratto da te, ma… Non so dire, ecco.

E dovrei saperlo io, scusa?

- Andrea, calmati. Non è successo nulla, d’accordo?

China lo sguardo, il capo incassato nelle spalle, mentre il viso, da un cremisi incandescente, torna ad assestarsi sul bianco-parete: quasi un grazioso tutt’uno col pavimento sottostante.

- Io sono calmissimo, Gabriele, e non credo che non sia successo… nulla. Perché mi è piaciuto, e volevo sapere se la cosa è reciproca.

Non so come, ma anche stavolta sono costretto a sviscerare una sottospecie di risposta.

- Pretendi che a me dica qualcosa, il fatto che ti è piaciuto?

- Sì… Cioè, lo spero. Perché penso di non sentirne solo il bisogno fisico – sussurra, avviluppandomi in un abbraccio a tradimento.

Esitante, palese manifestazione di quanto sia ufficialmente da ricovero, ed io l’unico a essersene accorto.

Prova a vedere se Neri ha ancora bisogno di te, se sei caldo. Potrei dirglielo, in confidenza, ma non è carino.

- Stringimi…

- Che cosa vuoi, Andrea? Non ti devo nulla.

- Io sì, però. Anche se vorrei che non mi guardassi come un appestato.

- Nemmeno tu mi devi nulla: sei dispensato. Oh, senti, io non ho niente contro di te. Puoi chiedermi di dimenticare i nostri… dissapori, di prestarti cinque centesimi per un caffè, ma non di mandar giù al primo colpo ogni cazzata che ti passa per la testa. È più chiaro, adesso?

- Nessuno ti ha chiesto di fidarti, Derossi… – quando passa a chiamarti per cognome, significa che la cosa si sta facendo seria – E non dico cazzate, per la cronaca. Pensi che… che non mi sia costato, venire a raccontarti dei miei contorcimenti con il rischio che mi mandassi affanculo nella migliore delle ipotesi, e che mi prendessi a schiaffi nella peggiore?

- Beh, come vedi mi ci sto impegnando, a non mandarti affanculo. E le mani preferisco tenerle a posto. È solo che non vedo motivo per cui tu ti senta in obbligo di spiattellarmi in faccia tutto questo.

- Perché… perché è successo, dannazione!

- Non sarebbe più semplice archiviarlo come incidente di percorso?

Sarebbe… semplice. Risparmiare un sacco di speranze, di delusioni. Dov’è finito il tuo famoso cervello calcolatore, Nicoletti?

- No, Gabriele, perché non lo è! Chi ha iniziato a baciarmi?

- D’accordo, ho iniziato io, ho fatto una stronzata e ti chiedo scusa, perché non era mia intenzione molestarti.

- Non mi hai molestato, cazzo! È stato… naturale, voluto. Bellissimo.

- Non era comunque mia intenzione toccarti senza preavviso, d’accordo? Se poi tutto questo l’hai trovato bellissimo… Beh, onestamente, penso siano fatti tuoi.

È il momento in cui vorrei disperatamente fuggire. In–questo–preciso–istante. O, quanto meno, mandare all’aria l’intera questione prima che Nicoletti giunga ad enumerarmi per filo e per segno le sensazioni che gli hanno messo il cervello in modalità vibrazione.

Anche perché mi trovo nella sua stessa delicata situazione, e non serve un referto. Sarò schizzato, ma non a questo punto.

- Smettila di fare il moralista senza spina dorsale, Derossi, ché il ruolo non ti si addice molto – stavolta è saltato su e sembra spazientito – Se mi hai baciato, un motivo la tua testa se lo sarà posto. Deve esserci per forza.

- Beh, ora non c’è più – rilancio – Contento?

- Tu hai paura, Gabriele – sorride, sarcastico.

- Non ho paura. Non mi piacciono le persone ambigue e potenziali bugiarde.

- Io non sono un bugiardo – ha atteggiato il viso in un’espressione così candida, adesso, che ci sarebbe seriamente da prenderlo a schiaffi.

- E chi me lo dice?

Scuote la testa. Sembra disorientato.

- Avevi detto che ti saresti fidato…

- Ho detto ci proverò, Andrea. A vedere se ne vale la pena. Questo non vuol dire che sono diventato stupido.

- Ed io non ho nessun problema a mettermi alla prova – sospira, e ai suoi occhi sembra tutto fottutamente ovvio – Vorrei sapere un’altra cosa. Se non ci fosse da parte tua il maledettissimo dubbio che io sia lo stronzo di sempre, con tutto quello che è successo mesi fa, ecco… una possibilità, per me, ci sarebbe mai stata?

- Una possibilità…? – di cosa, Andrea? Di venire a letto con me?

- Di dimostrarti che stavolta è tutto vero.

- Vero cosa? Ce la fai a terminare una frase, o devo prendere le tenaglie per tirartela fuori di bocca?

- Che un po’ mi piaci, maledizione… Cioè, non lo so. È una via di mezzo tra l’attrazione fisica e qualcosa di più complesso. Hai presente? Come… – tentenna di nuovo – Non so dire se mi stia innamorando, ecco, ma è qualcosa di molto simile. Fa ridere, no? Rischiare di innamorarti di uno che ti considera il più coglione del mondo. È… perfetto! – ridacchia, un sorrisetto amaro a increspargli le labbra.

Sembra quasi forzato. Come l’orrenda sensazione di déjà-vu che invischia le pareti di fronte a me. Possibile che le parti si siano invertite?

- Non ti considero il più coglione del mondo, Nicoletti.

Il problema è che vorrei mi stessi alla larga per un po’. È… lapalissiano. Il più alla larga possibile.

- Però mi chiami per cognome.

- Non ti considero un coglione, Andrea.

Già. E chissà qual è la tua considerazione, a questo punto. Chiedertelo è attribuirti un potere che non meriti, anche se sarei curioso di vedere cosa inventeresti.

Chissà se davvero provavi quel disprezzo, quell’indifferenza, o se era una posizione di comodo. Chissà se è vero che mi vedevi come una cosa ostile e indegna d’attenzione.

Non te lo chiedo ora e non mi sarei umiliato a chiedertelo mesi fa, Andrea. Perché la tua risposta sarebbe stata una scrollata di spalle con tanto di alzata di sopracciglio. Labbra appena increspate – neppure la soddisfazione di un sorrisetto di scherno. E quella voce musicale, sempre controllata. Leggermente nasale.

 

Ma io mica ti disprezzo, Derossi. Non ce l’ho con te. Mica mi stai sul cazzo perché ambisci anche tu a quel diavolo di posto. Semplicemente non ti vedo.

Sottinteso, ai miei occhi vali così poco che neppure mi prendo il disturbo di lasciarti stazionare là sopra.

 

Ecco, come rendersi ridicoli in cinque pratiche mosse.

Chissà cosa direbbe ora. Che lui è un uomo nuovo, certo. Che non pensa più le cose che pensava prima. Che si è ravveduto e ora è per la pace nel mondo.

Come fai a scollarti la tua stessa immagine dalla faccia, dannazione? Così… spudorato.

- Da dove saltano fuori queste trovate? È uno scherzo? – lo precedo, stavolta.

- No, non lo è affatto. E anche se cerchi di farmi passare per la merdaccia della situazione, io non sono il vigliacco che ti sei stampato nella testa.

- Tutte balle! Non sai da che parte guardare: è questo? Lo so, come la pensi: non devi fartene una colpa o girarci intorno.

- Questa è bellissima – solleva gli occhi al cielo – Sai anche cosa penso per filo e per segno, adesso?

- Preferirei non averlo mai saputo. Tutte le puttanate che dicevi… No, aspetta un attimo, non fraintendermi, non te ne faccio una colpa, perché è pur sempre un tuo pensiero. Insomma, libero di credere che io sia… tutte quelle cose, naturalmente. Non me ne importa nulla. Però, abbi la dignità di non rimangiarti tutto e giustificarti dicendo che quelle cose non le pensavi minimamente. C’è la tua impronta.

- Meraviglioso! – stringe i denti.

E forse dovrei dire al professor Neri – se e quando rientrerà dalle sue ferie forzate – che con Nicoletti, dopotutto, aveva avuto l’occhio lungo, perché è un attore consumato, un cavallo di razza sopraffina. Che se lo sia scopato o no, non poteva scegliere meglio.

- Quindi – prosegue lui, glaciale – Secondo te dovremmo continuare a odiarci perché un paio di mesi fa qualche sparacazzate ha provato a dipingerci come i Caino e Abele dell’Accademia? Dovremmo dar credito a leggende metropolitane e seguire un copione del cazzo? Perché qualche deficiente ha detto che a Derossi sta sulle palle Nicoletti, che Nicoletti parla male di Derossi e altre amenità?

- Sei stato tu a volerla, questa situazione. Nessuno ti ha messo in bocca certe parole contro la tua volontà – è bene ricordarglielo, ogni tanto.

- Io sapevo a malapena della tua esistenza, Gabriele! Che eri quello con cui condividevo la stanza, a cui scroccare qualche caffè la mattina. Che cosa sono quei due mesi di non-conoscenza? Pretendi che da questo potessi trarne una massima universale?

- Il guaio è che l’hai fatto, e tutti ti hanno creduto. Ti sei ritagliato il posticino al sole spalando a fango su chi era attaccabile – ho voglia di ributtarglielo in faccia, disperatamente.

Tutto il suo stesso veleno.

- Quelle sono seghe mentali, Derossi. Improponibili, assurde seghe mentali. E finché continuerai a prendere sul serio quel che si dice in giro e guardarmi così, non andremo da nessuna parte. Continueremo a fare il gioco di chi vuole manipolarci come burattini.

- Tutto fa pensare che qua dentro il vero burattinaio sia proprio tu, guarda un po’! In ogni caso, ho capito che stavolta è tuo interesse avere degli alleati.

- No, non stavolta – sorride; ingoia il rospo – Il mio interesse principale è che mi baci un’altra volta, naturalmente.

- Non ci penso nemmeno.

Preferisco infilare la testa in un cesto di sanguisughe. Grazie per l’alternativa.

Scuote le spalle, le labbra increspate in un broncio infantile. Lo sguardo indefinibile non accenna a lasciar capire se gioca o fa sul serio.

- Eppure non mi pare ti abbia fatto schifo, poco fa. E neanch’io ti faccio schifo.

- Non mi fai schifo – gli concedo – Diciamo che mi lascia in dubbio cosa c’è dietro quel bel faccino. Per la precisione.

- La segatura, contento? Come la tua testa, del resto.

- Perfetto. Finiamola qui.

Okay, posso riprendere a respirare. Vorrei recuperare il controllo in un mondo irreparabilmente capovolto. Credo di aver persino avvertito il suo battito impazzito, in quella manciata di secondi di agognato silenzio. E lui ha il volto pericolosamente congestionato.

- Avevi detto che… che avresti provato a fidarti di me – squittisce.

- Provato, Nicoletti.

Ho bisogno urgente di distogliere lo sguardo dal suo. Liberarmi del fazzoletto sporco di sangue, usato per arrestare l’emorragia, è un pretesto credibile per staccarmi da lui. Dai suoi occhi sibillini, feriti.

- Che bravo… Anche tu ti sei già rimangiato tutto, Derossi? Ritiro quello che ho detto. Non fare il santerellino – è passato al contrattacco: darmi dell’ipocrita.

- Non mi rimangio un bel niente, Andrea! Vogliamo… tentare di recuperare una parvenza di rapporto? Okay, per me va bene. Ma non chiedermi passi più lunghi della gamba. Lasciami… un po’ di tempo. Ti prego.

- Come vuoi… – china il capo.

Sembra deluso, le lacrime che gli bruciano in fondo alle iridi. Sbatte le ciglia per contenerle sull’orlo della disperazione. Lì, incapace di riprendere a muoversi autonomamente, aggrappato ai miei fianchi come se da questo dipendesse la sua sopravvivenza. Tenterebbe l’ultima carta, ma non ne ha più il coraggio.

- Quindi vuoi dire che…?

- Alt. Intendevo… un normale, ordinario rapporto tra colleghi – meglio puntualizzare con lui.

- V-va bene.

Riuscire a svincolarsi da lui per la seconda volta potrebbe rivelarsi la tredicesima fatica di Ercole.

- Gabri, aspetta.

Sorride, il volto in controluce. O almeno, tenta. Se non ci fosse il bagliore polveroso del tramonto ad affacciarsi dalla finestra in alto, interponendosi fra me e la sua visuale nitida, giurerei che si è appena asciugato una lacrima. Una semplice alzata di spalla.

Porta pazienza, Andrea. Tengo più alla mia salute mentale che alle tue lusinghe. Almeno finché non mi darai uno straccio di certezza.

- Ecco… Mettici del ghiaccio, là dove hai preso la botta. E sta’ tranquillo, non avrai sfregi semipermanenti!

Annuisco senza sapere il perché.

- Dove hai intenzione di andare, adesso? – incalza, imperterrito.

Come a non voler rinunciare a quel momentaneo filo invisibile.

- A riposare.

- Vuoi un passaggio?

Non so come, ma riesco a parargli l’ennesimo sorriso a labbra tirate, troppo sfuggente per non dirsi emblematicamente falso. Di una gentilezza quasi untuosa – mi rendo conto –, perché Andrea, gira che ti gira, non sai mai da quale lato prenderlo.

- Prendo l’autobus.

E poi un lungo abisso di silenzio. L’imbarazzo che ti scalfisce come scaglie di vetro sulla pelle.

- Che hai da ridere, Andrea?

È una risata isterica. Lui, una visione bianca e scarlatta oltre il chiarore diffuso che mi fa bruciare le palpebre, mentre cerco di disegnare i contorni. Gli occhi scintillanti, i riccioli scomposti.

- Nulla. È solo che… sei bello. Tutto qui.

E poi, nulla. Sparito dalla mia testa, oltre il baluginio accecante di quello strano gioco di luci. Sono i miei passi ad avermi condotto lontano da lì, scale e corridoi, fino a guadagnare l’uscita nel minor tempo possibile.

Perché Nicoletti è completamente fuori di testa e io non sono migliore di lui. E, tra tutte, è l’ipotesi più consolatoria.

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Buonasera a tutti!^^

Sembrerebbe un po’ un paradosso, detto da me, ma sono fiera di constatare che, finalmente, il delicato equilibrio ispirazione/tempo intercorrente fra un aggiornamento e l’altro sta trovando un suo assestamento.

Approfitto di questo spazio per ringraziare quanti hanno inserito “Il bacio dell’Aspide” tra le storie seguite, preferite o da ricordare, nonché chi segue ancora nell’ombra.

 

Un “grazie” in particolare a Witch, e passo subito a rispondere al suo commento.^^

Carissima, che dire? Innanzitutto, che apprezzo sempre di più le tue riflessioni/impressioni sui personaggi – e, forse te ne sarai accorta, fosse per me starei a parlarne anche per ore, XD.

Quando ho letto la tua definizione di Gabriele e Andrea come, rispettivamente, Pena e Serpe, inizialmente ho riso. Poi mi è balenato in mente quanto avessi reso l’idea. Penso che tu li abbia ben inquadrati. Il primo sfigatissimo, con una depressione dilagante e non indifferente, ma nonostante questo in buona fede. Un po’ troppo, in effetti. Vittima prima di tutto di se stesso, a ben vedere, prima che di eventuali squali di turno. Chiuso in uno stato di esteriore apatia che, anziché proteggerlo dal male o renderlo meno attaccabile perché più “camuffato”, se vogliamo (o perché indifferente dinnanzi alle provocazioni), lo rende più vulnerabile. Perché in qualche modo il suo dolore, il suo profondo disagio trapela eccome.

Per quanto riguarda il “serpentello”, di lui posso dire che a volte rappresenta anche per me una specie di mistero. Sul serio. È l’enigma. Ora come ora, penso mi troverei in serie difficoltà, se qualcuno mi chiedesse di dare un giudizio positivo o negativo su Andrea. Forse potrei dire positivo tecnicamente, perché in effetti sperimento in questo modo quanto gestirsi un personaggio “inedito” (almeno, in rapporto alle tipologie di pg gestite fino a questo momento), con la sua ironia/sarcasmo e la sua “leggera” schizofrenia, può rivelarsi stimolante. Gestirlo come personaggio con tutto il suo bagaglio alla fine è divertente; trovarsi invece di fronte una persona come lui nella realtà di tutti i giorni – soprattutto se ci si trova dalla parte sbagliata, sotto la casellina degli “antipatici” –, risulterebbe un tantino più complesso e destabilizzante. Forse oscillerei tra una faccia vagamente allibita nel costatare i suoi “sbalzi” con tanto di azioni apparentemente inconciliabili, e la voglia di appioppargli qualche schiaffo, nel caso le sue “stranezze” finissero per arrecar danno.

Sul pensiero di Gabriele a proposito di Elena, per un attimo mi è sorto anche il dubbio di aver esagerato in qualche punto e di aver idealizzato un po’ troppo lei. A dire il vero, non penso neppure che Gabriele dicesse sul serio, col discorso della “fisicità” preso un po’ alla larga. A lui piacciono i ragazzi, penso sia “incorruttibile” da questo punto di vista. Però, ecco, considerando il suo punto di vista al momento un tantino allucinato, forse quel pizzico di idealizzazione della sua collega non ci stava poi così male. In un certo qual modo, credo che lui la stimi per essere riuscita almeno in parte dove lui non è riuscito, ossia rendersi indipendente dai giudizi altrui e dai loro influssi negativi. Lui la vede in qualche modo come figura “amica”, o quanto meno non ostile, di cui poter eventualmente fidarsi. E ha un disperato bisogno di una persona su cui contare. Lei non ha giudicato male lui per “quel che si diceva in giro”, per il suo non essere “al top”, e lui ha fatto altrettanto: hanno provato a guardarsi in viso per ciò che erano, escludendo fuorvianti suggestioni.

 

Sperando che il capitolo qui sopra postato sia di vostro gradimento, do appuntamento al prossimo capitolo, confidando come sempre in qualche commentino, che fa sempre piacere.

Alla prossima!^^

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 - Andrea s'è perso ***



 

Capitolo 8

Andrea s’è perso

 

 

L’atmosfera rosso tagliente del tramonto è una ragnatela invisibile che s’insinua nelle ossa. È un’arma puntata che ti graffia il viso, mentre serri le palpebre e conti i giri di ruota della scatola metallica che ti fagocita e ti risputa a destinazione. Obiettivo, una ritirata strategica nella tua camera all’ultimo piano scolpita fra quattro pareti.

È lo schiaffo che ti rammenta che sei vivo, che non stai sognando e non sei in preda alle allucinazioni. Che ti fa fuggire con lo sguardo e scuotere il capo per liberarti di quel turbine appiccicoso di sensazioni che non vuole mollare la presa. Uno schiaffo sulla faccia quasi insensibile, mentre le labbra bruciano, rivivono ogni istante del suo assalto. Del tuo irragionevole assalto alla sua bocca.

Che stupido, Derossi: gli hai servito l’occasione di sbranarti vivo. Su un piatto d’argento. Sarebbe bastato beccarlo flesso nella declinazione sbagliata e ti si sarebbe rivoltato contro come una belva incitata all’attacco.

Pensa se fosse successo un mese o due fa…

 

Io. E lui, che mi considerava poco più che un soprammobile. Qualcosa che sì, fa arredamento, ma poi alla lunga finisci per dimenticarti persino che forma abbia, almeno finché non arriva il momento in cui inizi a considerarlo una cosa vetusta. Da lì a finire nel cestino dei rifiuti, il passo è breve.

Perché, Andrea, perché di nuovo?

Perché adesso che è tutto perduto, avvelenato? Quando la fantomatica “pietra sopra” è stata messa a rotolare nella sua mole di ottanta tonnellate o poco più?

Hai sbagliato momento, Andrea: è questa la verità. Troppo tardi. Decisamente troppo tardi per tirare indietro le unghie – sempre che l’abbia mai fatto.

Non ci sarai ora. Non ci sei stato quando ti consideravi una sottospecie di amico, con quello stupido sorriso vanesio stampato in faccia. Quando avevo bisogno di te.

Tutto il mondo amava Andrea Nicoletti: lapalissiano. Che anche tu, un giorno, saresti stato pronto al massacro, non sfiorava il tuo cervello sopraffino.

Non ci sei stato quando ero depresso e non riuscivo a schizzare dalla mia armatura di gesso.

Colpa tua, Gabriele.

Quando ero l’ultimo frammento della mia solitudine, e tutto si agitava scomposto davanti ai miei occhi senza che io riuscissi a catturarlo, a viverlo, a sentirlo e sentirmene parte integrante. Quando il tuo amato Neri mi ha preso sotto la sua ala – esattamente come ha fatto con te. Poi mi ha gettato a mare e ha scelto te.

All’Accademia non si parlava d’altro. Andrea sì che ci sa fare. Andrea è bravo, Andrea è bello. Che hai, Derossi, sei invidioso? Perché tu non sei e non sarai nulla di tutto questo?

Balle. Stronzate, veleno gratuito. Ci saresti passato anche tu, nel mirino di chi cerca di dettare legge a proprio uso esclusivo, di parlare a bassa voce e individuare un nemico.

Tu però hai alzato la spalla, hai respinto con indignazione ogni minima richiesta d’aiuto. Ero un polemico del cazzo da lasciare a parlare al muro finché non si stanca.

Qualche eretico, nel frattempo, senza consultarsi con il fottuto Pensiero Dominante che miete morti e feriti con nonchalance, insinuò che fosse un complotto ridicolo. Che Gabriele Derossi non fosse – almeno, non del tutto – la macchietta informe che lanciava accuse dissimulate e gridava a vuoto. Che qualcuno gli avesse scavato la fossa consapevolmente. Diceva che era stata Isa Cortesi a dare inizio allo sport popolare di spalargli fango addosso, e lo facesse con il livore dell’amante respinta.

Isa Cortesi! Che mi squadra impettita con la sua espressione indecifrabile. Dall’alto in basso, a dispetto del suo metro e sessanta scarso. Che per un periodo fece di me la barzelletta vivente, lei e il suo clan di divinità incarnate. Lei che mi considerava poco più di uno sfigato senza spina dorsale, di una cosa per rifarsi le unghie, e non ne faceva mistero. Troppo insignificante, per i suoi calcoli sofisticati, la sua fantasia capricciosa, i suoi slanci imprevedibili. Il puntaspilli ideale.

Lei, che tra una risata, una battuta finto-innocente e un colpo di pugnale intriso di veleno, contribuiva a farmi affondare. Ed io odiavo l’immagine distorta che si delineava nelle loro pupille cariche di sarcasmo, giustificata da un lavorio mentale che supportasse la tesi.

Lo odiavo ancora di più, quel riflesso, quando s’imponeva nei suoi occhi, falsando orribilmente l’immagine originale. Gli occhi di Andrea…

Derossi. Quello che non fa mai capire ciò che pensa. Falso, bugiardo e spione. Il lecchino di Neri o di chissà chi, che non prende posizione e teme per il proprio tornaconto. Quello che con calma e con ignavia spudorata, zitto zitto, tesse la rete. E l’unica cosa che ti ispira, a vederlo lì, immerso nella sua ingannevole staticità, è di prenderlo a schiaffi per vedere se almeno così non si scomponga e lasci filtrare il peggio di sé. Quella parte di “peggio” che ancora non ha mostrato.

Ecco, detestavo questo. Volevo respirare, ma non potevo riemergere da quella pozza di petrolio. Eppure detestavo che quelle ignobili stronzate potessero condizionare fino a tal punto i miei passi. E i miei delicati equilibri con lui.

E che forse, sì: con Derossi non ne vale proprio la pena, di perder tempo a ridurlo in concetti semplici, a delinearne un ritratto.

Avrei voluto imporre la mia, di immagine, quella autentica. Il mio bagaglio d’esistenza, reale e dalla sintesi difficile. Ma tutto mi si frantumava tra le mani, sfuggiva a ogni semplificazione. Non sapevo più chi ero.

Era la rappresentazione incompleta a dettare legge, lo schema distorto tessuto al di fuori di me. La sola formula che i suoi occhi riuscissero a percepire in concreto: che senso avrebbe avuto scollarsi le bende dagli occhi e provare a costruire un’immagine coerente sulla base delle proprie sensazioni?

Invece no: bastavano poche tracce disorganiche su cui fare riferimento. E poi forzare tutto, ingegnarsi a mandare i cinque continenti alla deriva e far di nuovo combaciare i bordi per magia.

Non finisce mai di rivelare spunti interessanti, Andrea, il tuo modo di procedere.

Comunque, alla faccenda di Isa non diedi molto peso: mezzo istituto sapeva della mia omosessualità, e trovo stupido credere che la bellissima dell’Accademia me la volesse far pagare per non essere stato al suo gioco. Al massimo si sarà divertita a scimmiottarmi dimenando le anche durante qualche riunione del cazzeggio esasperato nella stanza dell’uno o dell’altro, a sorseggiare alcool a notte fonda ondeggiando la testa sotto una nube soffusa di musica da camera. A smerciare fiele a buon mercato spacciandolo per vino d’annata.

Fecero più o meno la stessa cosa con Elena Loria: isolarla, neutralizzarla. Solo che di lei non si parlava molto: erano pochi ad essersi resi conto della sua semplice esistenza, tranne che per quattro battute di cattivo gusto. Non era il personaggio di spicco né il più sputtanato: era semplicemente invisibile. La sua stessa presenza che si sforzava di emergere dal fondo, era un tabù sotterraneo, sospeso, tacitamente accettato. Bastava non degnarla di uno sguardo, buongiorno e buonasera, puoi tornare nel regno dei morti.

Con me, il fattore jolly che fece impazzire l’ago della bilancia, fu Nicoletti. Nicoletti che mi accarezzava coi suoi larghi sprazzi di velluto scuro in fondo alle iridi, che ammiccava nella mia direzione. Accennava un sorriso, scavato nella scintilla di un istante, abbassava il tiro e, in un arco di tempo variabile, sfoderava i tentacoli per tornare a procacciarsi il posto d’onore al mercato rionale.

Che qua dentro, disse, testuali parole, oltre a chi davvero si fa il mazzo, lui – il dio – e pochi fortunati eletti, c’erano anche i cani e i maiali. E povera Isa, povera Loria – unico strappo alla regola –, costrette a condividere il corso di Sceneggiatura con certi mostri! Fra i quali spiccava pure il sottoscritto.

Quale dei due, Andrea Nicoletti? Quello che sorride sibillino, una scintilla tentatrice in fondo alle pupille, o quello che all’occorrenza fa della propria bocca una fogna a cielo aperto? Quale dei due, tre, diecimila strappi inconciliabili?

Quello che mi denudava ammiccando con le ciglia ben arcuate. Che intravidi una sera nell’ufficio del professor Neri. Per un attimo mi sembrò pure normale: lui, Andrea, sprofondato nella sua poltroncina blu, padrone di ogni atomo nella stanza, i riccioli scomposti intorno al viso.

Sarebbe parso quasi normale, banalmente normale, quel brusio da chiacchierata innocente, insegnante e alunno diligente che si reca a chieder lumi sulla lezione… Se non avessi captato sulla bocca del professore un Andre.

Andre, come se tra i due ci fosse una gran confidenza.

Se non avessero continuato a darsi del “tu” con disinvoltura, se Neri non avesse allungato una carezza languida su una certa guancia di porcellana. E se le fusa di Andrea non avessero fatto vibrare il pavimento sotto le scarpe, insieme allo schiocco umido, inequivocabile di labbra che si sfiorano.

 

E poi un giorno, dopo che vari tsunami ti sono passati sopra, sfiorandoti senza che tu, spettatore passivo, possa fare niente per impedirlo, succede che Nicoletti comincia a tampinarti da vicino, piazzarsi sistematicamente nel raggio della tua visuale e rovesciarti addosso l’assurdità del secolo nell’arco di pochi istanti, gettarti le braccia al collo e offrire la gola alle tue labbra, affinché qualche bacio o anche un casuale sfioramento lo ridestino dal torpore, incendiandolo di un desiderio che gli è difficile contenere.

Chissà, Andrea. Magari, se non ti avessi bloccato in tempo, avresti miagolato abbastanza da strapparmi qualche promessa. O convincermi a venire a letto con te, assecondando il tuo ennesimo capriccio. Avresti tremato fra le mie mani, saresti stato creta e lava incandescente, e poi saresti sgusciato via nella notte, felice di aver ottenuto ancora una volta ciò che ti fa gola. Di avermi intrappolato per bene. O ti saresti fermato prima: ti saresti accontentato della mia fiducia estorta con l’inganno, di abbindolarmi quanto basta.

Oppure eri sincero, e qualche oscuro rimescolio nella tua testa o sotto la pelle ha girato in tondo fino a esplodere nell’ennesimo gesto senza senso. Non lo so, ed è l’ipotesi più remota fra tutte. E se anche fosse vero, Andrea, se io riuscissi a credere a un decimo di ciò che hai detto o dimostrato con qualche strusciamento, non ti vorrei lo stesso.

Non così, Andrea. Non se il prezzo è questo, ed io l’ho già pagato, strappato con l’inganno e con la forza. Non ti voglio sporco di fango: sfiderei chiunque a volerti in questo stato.

 

Dovresti essere felice, Gabriele! Mesi in cui gli hai sbavato dietro senza dire niente, in cui ti rodevi il fegato a vederlo catturarsi i favori senza fatica, barattare un umido battito di ciglia con le carezze di cui sentiva l’urgenza.

Ora hai ciò che volevi: ti ha chiesto di toccarlo, di baciarlo, di stare con lui. Ti si sarebbe offerto su un vassoio, se gliene avessi dato occasione, ansimandoti sulla pelle la smania rovente che lo sta portando alla follia.

 

E invece no. Troppo tardi. Non va bene così, non va bene adesso. Non ti voglio così, a scoppio ritardato, come se fossi la tua ultima spiaggia, e tu così sporco di fango da essere irriconoscibile. Non ti voglio, se questa era la clausola da rispettare; nemmeno se la tua totale sincerità si rivelasse l’ipotesi esatta: che stavolta non mi stia ingannando e illudendo. Non ti voglio più.

 

Eppure ti crogiolavi nella più bieca autocommiserazione, quando lui, ingordo, si sciroppava carezze e attenzioni dal miglior offerente; e tu non ti saresti azzardato a sfiorarlo, perché osservavi tutto ciò che si muoveva intorno a te dietro uno specchio infrangibile, e non avresti avuto una ragion d’essere, preso così, al di fuori di tutto, declinato nel caso sbagliato. Non aveva senso la tua gelosia, chiusa tra le maglie di una fredda, estenuante apatia.

 

Per quale combinazione Andrea fosse riuscito a raggranellare affetto, popolarità e successi personali, con poca fatica e senza colpo ferire, me lo chiedo spesso.

Perché dire che il suo fascino sia tale da attirare le simpatie come api al miele, è fantascienza: è più una specie di tensione erotica, l’attrazione che genera intorno a sé. Non so se sia il profumo che emana o il linguaggio del corpo o quegli occhi sempre vivi, il volto come una tela dipinta a metà, enigma e sentimento manifesto che divengono figure astratte, spazio bianco offerto alla libera interpretazione. Non so dirlo, non so cosa sia di preciso, e il fatto che, paradossalmente, sia stato il primo a cadere nella sua rete, rende tutto più difficile.

È intelligente, d’accordo, ma non è uno che parla molto: preferisce manovrarti col sorriso sulle labbra, gli occhi da predatore che attende con pazienza le tue mosse prima di muovere all’attacco. E il suo genio malato si manifesta in ondate di sarcasmo.

Insomma, non è uno che va a cercarsele col lanternino, le occasioni per farsi voler bene: è come se lasciasse tutto al caso, attendendo impassibile, e nel frattempo si sbrigasse i fatti suoi. Un introverso con qualche asperità di troppo a darti l’idea che lui, del resto, ci provi con tutte le sue forze, a rendersi mediamente spiacevole.

La seconda ipotesi papabile mi dice che sì, non sarà simpatico, non avrà un carattere d’oro o una spiccata predisposizione a vivere in pace… Però è bello, dannazione. Una bellezza felina, un viso marcatamente femmineo e una cascata di riccioli scuri. Ma… è bello per me, intendo. Qualcosa mi lascia intuire che le ragazze che gli ronzavano intorno fino a poco tempo fa, vedessero in lui una specie di giocattolo, piuttosto che un ragazzo con cui azzardare un approccio adulto. Anche se a volte le effusioni oltrepassavano la linea invisibile che sconfina nell’erotico.

 

Avresti voluto essere al loro posto, Gabriele? E allora corri, cosa aspetti? È la tua occasione. Più lo bacerai, più ti si aggrapperà addosso e ti chiederà di spingerti oltre.

 

Allora era diverso. Ero l’antipatico che se ne stava rigido in un angolo a sorseggiarsi il suo caffettino amaro. Prigioniero, osservatore tutto d’un pezzo e sprezzante, che non osa avvicinarsi ai comuni mortali. Che si ritiene superiore?

Qual è la domanda? Se avessi voluto…? No, decisamente: non avrei voluto essere al loro posto. Che cosa ci avrei fatto, con un vestito da pagliaccio che non mi dona affatto, in mezzo a quella che aveva sempre l’aria di trasformarsi in un’orgia simulata? Andrea al centro del mirino e due invasate che lo palpano a piene mani, scivolando noncuranti verso l’inguine col pretesto di accarezzargli i fianchi. Penso solo che lì Andrea non fu abbastanza cafone da dire chiaro e tondo quale fosse l’effetto prevedibile.

È gay, dite? Quelle due potevano non fargli né freddo e né caldo? Non ne ho la più pallida idea. Di cosa vada giù ad Andrea. Penso gli piaccia essere adorato. Del resto gli importa poco.

Ma non vedo in lui il tipo da attirare certe attenzioni: somiglia più a una statua gelida da ammirare a distanza, dolcezza e strafottenza sinergicamente miscelate nel suo volto, nella piega delle labbra, le linee troppo fragili perché possa accarezzarle così, senza il timore di infrangerle. La sua bocca che può schiudersi tanto in un bacio quanto in un morso a tradimento.

L’unica cosa di cui sono certo, ora, è che non mi avrà, pronto all’uso e accondiscendente ai suoi sbalzi ormonali. Non mi avrà.

 

* * *

 

Dicono che Nicoletti si sia ripresentato in aula quando ormai la lezione volgeva agli sgoccioli, sfidando le occhiate di rimprovero della Balducci. Che abbia raccolto con calma le proprie cose per poi sparire, inghiottito dal corridoio in penombra. Ad attendere la sua amata Loria.

Dicono che siano successe cose strane in quell’intervallo. Nessuna traccia di Derossi, per cominciare.

È maggiorenne, non frequenta l’asilo da un pezzo e fa quel cazzo che vuole, è stata la lapidaria risposta di Andrea, l’ultimo ad averci parlato. E aveva un grumo di tristezza arpionato alla gola a fagocitarsi la sua voce, come reduce dal pianto.

Che avesse pianto, se ne era avveduta in un lampo la sempre presente Loria, con lo spassionato consiglio di rimuovere al più presto le lenti a contatto dalle fessure gonfie e iniettate di sangue che erano i suoi occhi. Che Andrea fosse uno straccio, non c’erano dubbi.

Qualcuno blaterava che Alberti, non contento di averlo umiliato pubblicamente, fosse andato a godersi di persona lo spettacolo del rivale messo al tappeto. Nicoletti raggomitolato in un angolo dell’antibagno, nel bel mezzo di una crisi di pianto incontrollabile.

Come stai, Andrea? Sai, è inutile adesso piangersi addosso. Non è bello che la cosa sia saltata fuori, ma forse hai avuto fortuna. Avresti preferito continuare a essere la puttana di Neri? Ti ha rigirato per bene.

Pare siano volati insulti, ed è strano che nessuno dei due abbia riportato i segni. Nicoletti è un po’ arruffato, ma nulla a che fare con le conseguenze di una rissa.

- Cos’è successo, Andrea? Perché stavi piangendo?

Per lo sputtanamento in diretta? Perché Derossi non ti ha dato una seconda possibilità? Perché non ti crede più nessuno?

- Non piangevo, Isa. È questa cazzo di allergia.

È primavera inoltrata, è risaputo che è un allergico cronico. Un’ottima scusa.

E poi si dilegua nell’ombra senza prendersi il disturbo di salutare, il braccio appeso a quello di Loria per trascinarla con sé alla ricerca di un po’ d’intimità, delle parole adatte a condividere la sua tristezza con l’unica amica che gli resta. Parole che stentano ad affiorare sulle labbra, il cuore un fiume in piena che brama lo sfogo ultimo. In un momento e in un luogo qualsiasi, lontani da sguardi indiscreti.

- Mi puoi dire che succede? Gabriele è scomparso nel nulla, e tu sembri reduce dal tentato suicidio.

- Succede che sono un coglione, Ele. Il coglione per eccellenza.

 

* * *

 

- Smettila di bere, Andrea! Starai male. Se poi t’ispira l’idea di passare la notte a vomitare le budella, affari tuoi! Ma poi non venire a implorarmi di…

- Chi se ne frega!

Scuote il capo, Andrea, l’ennesimo sorso di birra che scorre a colmare il vuoto. E forse non lo sa neanche lui, che cos’è. Che cos’è che lo riduce allo stadio di larva e com’è che riesca a tenersi in corpo quantità d’alcool più che generose. Così, danzando sulla punta dei piedi. Con quel faccino da adolescente.

- Che. Diavolo. È. Successo. Te lo chiedo l’ultima volta, poi me ne torno a casa, e allora saranno davvero cazzi tuoi, perché dovrai cercarti qualcun altro che ti scorti fino al tuo letto.

- Ricattatrice. Questa me la paghi – cinguetta con voce falsamente ispirata – Ma a tempo debito.

- E allora piantala di fare il cretino!

- No. Hai solo toccato il tasto dolente: se tu mi molli qui come uno straccio, l’unica persona a cui potrei chiedere uno strappo, sarebbe Gabriele – ridacchia, la voce più strascicata del normale – Che temo preferirebbe un incontro sadomaso con la Balducci, piuttosto che venirmi a prendere a casa del diavolo, caricarmi in macchina e sopportarmi ubriaco. ‘fanculo!

- Ecco, un motivo in più per finirla di bere e dire stronzate. Posso sapere a cosa dobbiamo le nuove manie di persecuzione?

- Al fatto che sono un coglione – rilancia Andrea – è chiaro il concetto? Gabriele non mi vuole manco gratinato, per il mio essere coglione. È un dettaglio importante, che io mi stia innamorando di lui?

Lei si morde il labbro, in attesa.

Dell’ennesima buffonata del coglione dell’Accademia.

- Cos’hai fatto?

- L’ho baciato – Andrea china lo sguardo, la buona grazia di arrossire.

- E… quindi? – Elena impallidisce.

- E quindi nulla. Mi ha respinto, mi ha fatto capire che non mi manda a fare in culo solo perché voleva essere gentile. Credo che al momento per lui ficcare le dita nella corrente sia un’idea più allettante che trovarsi la mia faccia a meno di un chilometro.

Solleva gli occhi al cielo, Elena, un moto di frustrazione. Mio Dio, mio Dio, mio Dio!

- Perché fai cazzate, Andrea? Perché ti rovini con le tue mani? Che diavolo ti è saltato in mente… Avevate appena tentato di chiarire. Perché forzare le cose e mandare tutto in malora?

- Perché… perché poi è entrato in gioco il coglione numero due.

- Gabriele?

- Chi, se no? – un sorriso sarcastico – Io… credevo fosse il momento di lavare via il dolore che gli ho provocato. Mettere in chiaro un paio di cose. Volevo… ricominciare da capo. Dirgli che lo voglio.

- Sei sicuro di ciò che dici? – spalanca le palpebre, interdetta. Imprevisto a ore undici.

Andrea sospira. Soppesa la risposta sulla punta delle dita, le unghie che sfregano contro il palmo.

- Quando lo vedo… non lo so. È un misto tra il desiderio di fare l’amore con lui, e stringerlo tra le braccia fino ad annullare in qualche modo il male che ho fatto – china lo sguardo, confuso – È colpa mia, Elena. È colpa mia se Gabriele non mi vuole, se è stato male per colpa mia. Ha gli occhi distrutti, mi guarda come se gli dessi fastidio. È come se qualcosa, da un certo momento, gli avesse succhiato via la gioia. Non si fida di nessuno, soprattutto di me. E l’unica cosa giusta che potrei fare, pensa un po’, è levarmi dalle palle e dimenticarmi che esista.

- Però! – Elena si passa una mano tra i capelli, senza riuscire a ricacciare indietro un’espressione scettica – Mi pare un po’ troppo.

- Cosa?

- Pensare che se lui è scazzato, è depresso, ha i cavoli suoi, è solo e unicamente per colpa tua.

- Qui si sta parlando di me – Andrea punta i gomiti sul tavolo – Di me e di lui. Ha fatto delle accuse precise e, mi duole ammettere, le cose sono andate esattamente così. Non ho difese.

- Da quando ti sei arruolato nell’Esercito della Salvezza, Andrea? – Elena quasi gli ride in faccia.

Andrea solleva gli occhi al cielo. Un velo di delusione, e poi scuote il capo: no, non è così: non lei.

- Non mi credi neanche tu? Pensi che sia così stupido da non poter cambiare mai idea, neanche se ci sbatto il muso? In altre parole: tu mi credi? – sussurra, la voce leggermente più stridula del normale.

- Non lo so, Andrea – Elena distoglie lo sguardo – Non ti capisco. Non ti capisce più nessuno.

- Alt. Tu ti sei fidata di me, mi hai dato una possibilità, mi hai guardato come un essere umano, hai provato a conoscermi, a considerarmi un amico. Non mi hai sputato in faccia per quello che si diceva di me, per quello che sono stato.

- E voglio continuare a fidarmi.

 

Perché, Elena?

Perché la singolare accoppiata di due universi destinati, in teoria, a non collidere nemmeno per sbaglio – l’individualista scettica a oltranza e il fighettino da strapazzo che di punto in bianco si sveglia dal letargo e, nel giro di pochi giorni, riesce a litigare anche con lo specchio – era tanto appetibile quanto curiosa, nella sua sperimentazione casuale? Volevi… vedere l’effetto che fa riscrivere una trama capovolta?

 

- Non mi chiedo il perché di ciò che sta succedendo adesso – Elena si fissa le unghie laccate di nero, soprappensiero – Sì: non avrei scommesso un centesimo su di te, avevo un’idea molto negativa. Giustificabile, forse. Ti piaceva sputare sentenze, dire bianco e poi nero in tutta disinvoltura… Ti piaceva confondere le idee, prenderci tutti per il naso. Per quanto non fossi l’unico e non fosse del tutto colpa tua. Mi stavi bellamente sulle scatole, okay? Perché più ti osservavo, meno riuscivo a conciliare… questi occhi qua – punta il dito verso di lui, sul suo volto, a sottintendere l’intrinseca dolcezza di chi no, per nulla al mondo potrebbe fare tanto male sbattendo le ciglia – Con tutto il veleno che riuscivi a vomitare fuori.

- Non lo so, Loria, sul serio – Andrea arrossisce – Forse… conoscevo solo una campana. E ci stavo bene: era la mia campana. Credevo che avessero ragione… che noi avessimo ragione e non ci fosse altra via.

- E poi ti sei messo tutto sotto i tacchi, quando hanno fatto fuori Neri, e tu non eri più il benvoluto di nessuno? – Elena solleva un sopracciglio.

Decisa a rigirarselo come un pedalino, a tirargli fuori entro stasera ciò che forse nemmeno lui ha ben chiaro nella testa. Andrea rabbrividisce.

- Perché mi sono posto il dubbio, Ele. Che qualcosa non andasse. Ho visto loro nascondersi dietro a un dito appena le cose hanno cominciato ad andare storte; ho sentito Alberti sparare cazzate, contraddirsi ogni tre per due e spalare fango su tutti in Aula Magna - ricordi? Stava per prendermi a schiaffi per averlo mandato a quel paese in diretta. E mi sono cadute le palle. Mi hanno fatto schifo. Tutti. Tutto quello che avevo condiviso, che non avevo mai messo in discussione per comodità e perché non sapevo cosa fosse. E poi, a dirla tutta… Non lo so. Mi ero rotto di fare la parte del bastardo, di quello che regge il gioco, dello svampito del cazzo che ignora le conseguenze delle sue azioni. Mi ero rotto di loro che si ritenevano i migliori, che si arrogavano il diritto di tracciare la mappatura dell’istituto, tu passi, tu no, tu sei brutto, tu sei scemo. Di cattiverie e pregiudizi travestiti da opinioni. Tutte balle e paraculismi. Facevo schifo, okay? Anzi, mi stupisce che tu mi abbia rivalutato da un giorno all’altro.

Si sforza di sorridere, Andrea. Mette via gli occhiali che hanno sopperito alle lenti a contatto causa occhi in condizioni improponibili. Li osserva in controluce per poi ripulirli meticolosamente. Fanno una strana impressione su quella faccia da ragazzino, spigolosi su quel capriccioso nasetto all’insù.

- Si chiama salto nel buio, Andrea.

- Si chiama rischiare la fregatura perenne. Cos’avevamo in comune? Nulla. Sapevamo a malapena della reciproca esistenza. Come Gabriele, del resto.

- L’hai trattato da schifo, Andrea. Perché l’hai fatto? – incalza Elena.

- Perché ero un coglione. Non mi ponevo il problema, te l’ho detto. Vedevo con il loro caleidoscopio, neanche con il mio – quasi la interrompe, la lingua che incespica su se stessa – Se per loro Gabriele era stronzo, beh, non significava necessariamente che lo fosse, però sì, tutto sommato, ripensandoci, almeno un po’ stronzo doveva esserlo. Capisci? E poi… ero disposto a tutto pur di non avere rotture di palle.

- Te ne fottevi di chi avresti potuto calpestare: è così? – continua a scavare lei, implacabile.

Ha deciso di cucinarselo a fuoco lento e non si fermerà per un paio di occhi gonfi, per la voce trascinata e lamentosa di chi è quasi cotto dall’alcool.

- Ecco, in un certo senso… sì – le concede – Il quadro è questo. Come mi chiameresti adesso, se la pensassi ancora esattamente in quel modo, senza sbavature?

- Ti chiamerei coglione. Senza dubbio – Elena arriccia le labbra con nonchalance.

- Visto? Stessa conclusione. E in questo momento potrei spostare l’edificio a mani nude e resterei comunque il coglione che starnazza in compagnia, mezzo mondo fatto a pezzi dalla sua linguaccia. Per Gabriele - il mio Gabriele! -, attualmente non sono altro che la lingua molesta dell’organismo tricellulare Alberti-Cortesi-Nicoletti, non sono diverso da loro. Ancora. Ti piace come situazione? Dici che me la sono cercata?

- Te la sei cercata ampiamente – impossibile negarlo, nemmeno per lei che si sforza di fare l’avvocato del diavolo, con qualche punta di accusa.

- E vorrei poter porre rimedio, stavolta. Disperatamente, te lo giuro…

China lo sguardo, Andrea, mentre la voce sfuma. Non la darà vinta a quella lacrima prepotente: non stavolta.

- Vuoi riabilitarti? – lo stuzzica lei.

- Non voglio riabilitare la mia faccia, non voglio un fottuto teatrino e non me ne frega un cazzo di piacere a degli idioti! Voglio essere per Gabriele tutto il contrario di quello che sono stato finora. Voglio prendere le conseguenze orribili dei miei comportamenti e raddrizzarle. Vorrei che né Gabriele né nessun altro sia costretto a sopportare ciò che ha sopportato lui, solo perché in giro ci sono teste di cazzo che si puliscono le scarpe sui sentimenti altrui. E… – si strofina gli occhi che hanno ripreso a lacrimare, lo sguardo vitreo di chi cerca di sfuggire all’impulso del pianto – Se possibile, vorrei che lui, col tempo, riuscisse a volermi bene almeno un po’. Per quello che sono adesso, non per una copia sbiadita che non esiste più. Ele, aiutami. Ti prego…

 

* * *

 

Glielo devi. Saresti un’ingrata, se non ti ponessi il dubbio.

Glielo devi, perché quel musetto felino, quella mente imperfetta, quel consenso per la prima volta sincero ti hanno riportata in vita. Ti hanno restituito i tasselli al loro posto.

Libera di gridare o di parlare a bassa voce, a tuo completo arbitrio e senza catene invisibili.

Lui ti ha afferrato in punta di dita, un’insolita mattina di fine inverno, ha sorriso e ti ha riattivato il cuore. Ti ha detto che sei viva, sbalzata a viva forza da un fondo indefinito.

Glielo devi. Gli devi qualcosa. Anche se non sai da che parte cominciare. Tanto meno, quale parte di lui sia nel giusto e quale tragicamente in errore.

 

- Andre, datti una calmata!

- Eh? – Andrea stacca per una frazione di secondo lo sguardo dalla strada, le mani incollate al volante.

Elena lo osserva e pensa che, per forza di cose, abbia raggiunto lo stato di grazia, come se si fosse fatto una canna e quella calma placida gli venisse naturale. Si sforza di tenere la mente concentrata nella guida, le labbra pronte a incurvarsi in un mezzo sorriso che trasuda ironia.

L’atteggiamento forzatamente normale, troppo perché l’inganno, la bugia che si ostina a propinarsi da solo, non sia studiata a tavolino. Basta scrutarlo in fondo alle pupille per capire che lo sbalzo non è spontaneo né casuale.

E poi guida come un pazzo.

- Guarda avanti, maledizione!

- No, sul serio, Ele – ridacchia – Quando hai detto che mi avresti mollato senza passaggio, credevo non scherzassi.

- E… quindi?

- Mi hai fregato. Pensavo… che te la saresti filata con la mia macchina. In alternativa, che intendessi darmi tu lo strappo, e quindi potessi continuare a bere indisturbato.

- Non ho la patente, Andre – l’ammissione imbarazzata.

- Bellissima. Così bella che stavo per cascarci. Avresti potuto pescarmi ubriaco fradicio, a quest’ora.

- Spero che non lo sia in questo momento – lo interrompe, l’acidità che stempera in un mezzo sorriso.

Socchiude le labbra, Elena, agganciando istintivamente le dita al sostegno. Come prossima a perdere il controllo e a cadere nel vuoto di un burrone con Andrea e la sua macchina.

- No, non lo sono – rilancia – Mi hai incastrato con la minaccia di mollarmi lì come un idiota a mendicare passaggi.

- Non significa che devi darti alla pazza gioia e guidare come uno che si è fatto di crack.

- È tutto sotto controllo. Rilassati e goditi la gita! – sorride, gli occhi lucidi, mentre ingrana la quarta.

- Meglio a piedi, se questo è il prezzo – un sorrisetto sardonico, appena in punta di labbra.

- Dai, sarò negativo al test del palloncino. Mi dici dov’è il problema?

- Il problema non sono… i palloncini, Andrea. Il problema è che, dopo due autovelox bruciati e un’entrata in contromano, permetti che cominci a non sentirmi tranquilla? A proposito… ci arrivi ai pedali? – sogghigna.

Battuta scontata.

- Ha parlato Naomi.

E poi, un attimo.

- Guarda la strada, Andre, maledizione!

Andrea annaspa a vuoto, sgrana gli occhi sul parabrezza rigato di pioggia, la visuale offuscata. Una mezza imprecazione soffocata tra le labbra strette, morse a sangue. E poi un urlo.

Una frazione di secondo mancata, il delirio nei frangenti successivi.

- Lascia a me! – ringhia lei.

E in un attimo gli è addosso e gli strappa il volante dalle mani, assestando una sterzata decisa. Poi, soltanto uno stridio di ruote sull’asfalto, un’inchiodata netta, provvidenziale, e i sensi feriti, ultrasollecitati da un subisso di tensione, di rumori che interferiscono di prepotenza con il battito del cuore.

- Oh, merda!

Andrea ricade pesantemente contro lo schienale del sedile, una mano premuta sulla bocca.

- Sei intero?

Elena sospira. Ha i capelli incollati al viso. Forse non si è fatta nulla.

- Dovrei – biascica Andrea – Mi sono morso il labbro.

- Fa male?

- Non troppo. Sanguina…

- Che cazzo ti è preso? – lo scatto improvviso, un guizzo di lucidità che riprende a pompare il sangue – Perché non hai frenato?

- Ho avuto paura, stavo per investire un gatto. Non voglio gatti sulla coscienza!

- Neanch’io. Per fortuna l’hai evitato in tempo. Hai dei riflessi che fanno schifo. Dovevi guardare avanti, maledizione! E frenare, non andare nel pallone!

- L’avrei fatto – ringhia lui – Se avessi evitato di passarmi addosso come un carro armato e togliermi di mano il volante. Cos’altro succede là fuori?

- Credo che abbiamo… tamponato – Elena china il capo.

- Ecco.

Andrea spinge timidamente lo sguardo al di là del finestrino, una coltrina di sudore freddo che gli imperla la fronte. Sospira, sprofondando nel sedile come a volersi sottrarre a sguardi indiscreti, il viso nascosto tra le mani. E poi un velo di tristezza gli si abbatte sul volto.

- Adesso sono definitivamente un pirla.

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 - Non abbandonarmi ***



 

Capitolo 9

Non abbandonarmi

 

 

L’impronta luminosa nella notte è un lampo serpentino che spezza il fondo scuro in mille ragnatele impazzite. Sbatte le palpebre, Loria. Al suo fianco, Andrea si prende il volto tra le mani, il velo freddo della tensione impigliato alla fronte.

- Ehm… Dovresti scendere e controllare i danni – azzarda lei, accondiscendente, spezzando il silenzio.

- Dici che l’idea di sotterrarmi è da scartare? – Andrea si ravvia i capelli con un gesto nervoso.

- Onestamente, penso abbia fatto danni peggiori. Vai sul sicuro.

- “Danni peggiori”. Tipo mettere sotto qualcuno? – inarca il sopracciglio, spazientito.

Non sente il bisogno che qualcuno gli rinfacci di essere un perfetto disastro: lo sa da sé e non è proprio il caso di rimarcare il concetto.

- Non hai messo sotto nessuno, Andre. Hai solo tamponato. Rilassati!

- Bene – scuote le spalle, Andrea, quasi a non saper che farsene delle braccia penzoloni lungo i fianchi, le mani congiunge all’altezza della vita – Cosa si fa adesso, di solito?

Vorrebbe disperatamente riprendere il controllo, ma il tremito del labbro, lo sguardo smarrito, tradiscono bene che ciò che più desidera è sparire: sprofondare nel suo letto e lasciarsi tutto alle spalle per un po’; occultare il guaio sotto un lenzuolo che non lasci filtrare altre impressioni. Gettare il velo su Gabriele, sulla patetica discussione in birreria, su ogni singolo sbaglio disseminato nell’arco di quell’ultima giornata-settimana-mese-anno-secolo. Ogni occasione calpestata, stuprata. Che al momento non lascia fessure di speranza.

- Una dannatissima constatazione amichevole, Andre.

- Voglio andare a casa… – piagnucola, china il capo finché i capelli non gli calano davanti agli occhi come un sipario – Fallo tu, io non me la sento.

- Non ho la patente e non ero io a guidare. Sarebbero stati cavoli acidi, a quest’ora. Scendo con te, okay?

Andrea annuisce svogliato, come un bambino che non vuole mangiare la minestra. Forse potrebbe strapparle un po’ di tenerezza, strofinandosi gli occhi come un gattino.

Lei lo afferra dolcemente per un braccio, un istante, la mano pronta a scattare verso la maniglia e a catapultarsi fuori da quel sogno allucinato. Lo sguardo sibillino, forse scommette se riuscirà a rubargli un sorriso; e poi scivola verso di lui, alla cieca, posandogli un bacio sulla guancia a bruciapelo. Sull’angolo della bocca. Poi silenzio, la muta intesa di un istante.

Lui distoglie lo sguardo, il volto riscaldato da qualcosa simile a gratitudine, a una dilagante complicità. Gli occhi scuri scintillano sotto le ciglia.

Resta. La implorerebbe. Non lasciarmi solo, stanotte.

È finito il tempo in cui fingevi di stare bene in mezzo ai tuoi simili, Andrea.

E chissà, magari quel qualcuno alla guida della Opel rosso fiammante potrebbe chiedersi cosa ci fa un bambino dalla faccia tracotante al volante di un’utilitaria che ha visto tempi migliori. O magari attaccar briga fino a dargliele di santa ragione.

Sospira. Si schiarisce la voce, nervoso.

Perché ti senti così… piccolo? È forse che, di colpo, vorresti sgusciare via da tutto questo e diventare luce e aria e ammirare la realtà dall’alto, filtrata; e tu al sicuro, immerso nel tuo sonno d’ovatta.

L’autista della Opel color semaforo è quanto di meno confacente all’auto si potesse immaginare. Quanto di meno simile potesse aspettarsi. Andrea scuote le palpebre.

A prima vista sembrerebbe poco più che un ragazzino, con profonde ombre scure che gli bordano gli occhi – Andrea si rende conto solo un istante dopo che si tratta di matita sbavata. È vestito di nero da capo a piedi e sembra fatto di vetro. Come le lunghe dita pallide che sporgono dalle maniche troppo lunghe.

E poi una morsa allo stomaco che lo estrania da tutto il resto, perché desidera solo scappare: è tutto ciò che vuole. Cacciarsi sotto le coperte tirate su fino alle orecchie e piangere il suo pianto solitario. Previa verifica che Gabriele – il suo Gabriele! – sia al sicuro nella sua stanza. Chiedergli come si sente, magari.

Deglutisce, a disagio, cercando di concentrarsi sulle parole del giovane sconosciuto – non riesce a focalizzare di che colore sia la sua voce. E poi la pioggia è fitta, i capelli gli s’incollano alla fronte, tagliando via il mondo tutt’intorno come un pesante strato di nebbia, come spiritelli ingannevoli. Non vede più Loria al suo fianco, muta e bianca come la luna. E questo, sì, è la tragedia annunciata.

Ha le dita che si muovono veloci su quel fogliaccio spiegazzato. Il tizio della Opel. E com’è che descrive la… dinamica dell’incidente? Non se lo ricorda. Lo osserva firmare con uno svolazzo e restituirgli la penna. Com’è che ti chiami, tu? Manuel Alexander Thompson. È tutto quello che riesce a decifrare, impresso a solchi irregolari d’inchiostro.

Forse domani nemmeno si ricorderà di lui. Del pazzo che gli è venuto addosso per evitare un gatto, troppo in preda al panico per prendere l’iniziativa più semplice: inchiodare. Per fortuna nessuno ha fatto storie.

Arrivederci. Ci penseranno quelli dell’assicurazione.

Si avvia di nuovo verso la macchina. Ha il paraurti ammaccato.

Per un attimo vorrebbe che il suo corpo fosse fatto di fango per sciogliersi sotto la pioggia. Oppure scivolare sul sedile e direttamente tra le braccia di lei, e lasciarsi traghettare fino al suo letto.

Se solo Loria fosse in possesso dei requisiti per mettersi alla guida di questo trabiccolo.

Se solo non avessimo già procurato abbastanza danni, con tutti gli altri che verranno.

- Andrea? Cerca di rimetterti in sesto. Vorrei arrivare a casa intera e non a rate.

Lui socchiude le palpebre: ecco, può concedersi il lusso di stare un po’ meglio. Ha di nuovo la sua colonna portante.

- Ci provo…

- E vai piano. Se no, stavolta tiro il freno a mano e buonanotte.

Sorride, Andrea. Per un attimo sarebbe tentato di ribattere con una battuta volgare che gli è serpeggiata nella testa – ma no, non è aria.

E al diavolo il resto.

 

Nulla è come una volta. Sospira, Andrea, chiuso fra le quattro mura della sua camera. Calcia via le All Star viola, sfilandosele con un gesto distratto e dicendosi che sì, davvero non saprebbe come prenderla, quella nuova consapevolezza che scorre sulle ciglia come gelo. Che nulla è come una volta. Che, tutto sommato, potrebbe sentirsi sollevato, come in procinto di implodere su se stesso, separando ciò che gli appartiene davvero da ogni altra molecola nociva che si agiti nell’aria – pronta a infilarsi tra i suoi capelli, e poi sotto la pelle.

Piangere, magari, non sarebbe male. Perché è come disfarsi di una parte ingombrante di sé.

- Ele… Come sta Gabriele? È… è rientrato, voglio dire…?

Non ha avuto il coraggio di presentarsi davanti a lui.

E tu dovresti essere da lui, cara. Sospira. È lui che ha bisogno d’aiuto, adesso.

Dovresti essere da lui, a lavargli il sangue e la polvere di dosso e a rassicurarlo che non gli darò più noia: sparirò dai suoi immediati orizzonti.

Ma conosciamo bene Gabriele, tesoro mio: non vorrà rotture di scatole. Ti avrebbe liquidato con una scusa qualsiasi. Tu, che ti sei sporcata abbastanza della mia presenza.

 

Stupido, Andrea: sai che non terrai fede alla promessa di non girargli più intorno. È una bugia.

 

E tu non dovresti essere qui, Loria, a reggere la candela a chi ha causato più guai di tutti.

 

E a cosa devi ora, Andrea, quel bisogno di scappare appiccicato alle ossa, persino adesso che sei giunto a destinazione? Vorresti andare da lui, è così?

 

Lo vorrei, dannazione.

 

- Ele? Resti da me?

Quasi gli viene da ridere: suona come un ordine, una supplica, non una richiesta. Mi passi il sale?

Paura. Perché domani inizierà il vero incubo. Un incubo che, lui lo sa, ci si è cacciato deliberatamente, con la forza dell’ossessione. Perché ora cambia tutto.

 

Io non sono come loro. Come Isa, come Alessandro Alberti. Non è facile come si pensa, liberarsi di una parte artefatta di sé da un giorno all’altro, schioccare le dita, per quanto il processo fosse in atto da tempo. Ma non me ne ero reso conto.

 

Preferisce raggomitolarsi sulle lenzuola intonse, i vestiti spiegazzati addosso, stretto tra le braccia di Elena. La luce spenta nella stanza vuota, lascia che le sue mani scorrano tra i capelli a sciogliere il dolore, l’incertezza. Preferisce stringersi a lei per non sentire il freddo.

Al buio, le palpebre semiaperte, prova ad accarezzare i suoi contorni. La sua presenza è un parossismo indaco e nero, gli abiti che le ricadono addosso, i capelli che le sfiorano i gomiti. Prova a indovinare i suoi colori basandosi sui ricordi di qualche istante, la sua espressione, il movimento delle ciglia, le dita sottili che indugiano sul suo viso.

- Anch’io una volta mi sono preso un cazzotto in faccia.

- Eh?

- Sì. Dico davvero. Ero al liceo, e la ragazza del rappresentante d’istituto mi teneva gli occhi addosso. Beh… non solo quelli.

- Oh, certo. Dovevi essere un bel tipino già da allora.

Non può vederla in viso, ora, ma è pressoché sicuro che stia sorridendo. Starà pensando a lui nei panni del galletto impenitente con l’ego alle stelle che tutti credevano che fosse.

- Ma era stato un equivoco del cavolo: non me l’ero portata a letto! Al fidanzato la cosa non era piaciuta e aveva pensato di risolvere il problema dandomi del frocio di fronte a qualcosa come quattrocento persone.

- E tu?

- Gli ho riso in faccia e gli ho detto quello che si meritava. Che forse tutti i suoi complessi erano per le sue limitate doti amatorie. E che la provincia avrebbe dovuto stanziare altri fondi per alzare gli architravi delle porte.

Lei scuote il capo, una risata fresca, argentina.

- Non saresti stato più Nicoletti, se non avessi battuto subito dove fa male.

- Un’ottima trovata, davvero. Peccato non avessi previsto la sua reazione, e che avesse una specie di maglio al posto del pugno. Mi ha letteralmente ribaltato. Rimbecillito per mezza giornata.

- Ehm… quindi? – domanda lei.

A che devo la digressione?

Perché è normale, a questo punto, non capire dove voglia andare a parare col suo marasma di aneddoti confusi.

- Niente. Pensavo alla botta che si è preso Gabriele questo pomeriggio… A quanto gli abbia fatto male. Era uno straccio.

- Non è colpa tua.

Raccoglie le ginocchia contro il petto, Andrea, abbandonandosi accanto a lei in posizione fetale – il capo sulla sua spalla.

- È come se lo fosse, Ele.

- Non credo. Quell’arpia cerca di rendergli la vita difficile da ottobre, e Alberti e tutta l’allegra brigata la seguono a ruota. Non sei tu il problema.

- Vedi, il punto è che dell’allegra brigata del cazzo facevo parte anch’io. So tutto quello che si diceva là dentro, tutto quello che passava al vaglio. E non ero migliore: a un certo punto Derossi ha cominciato a starmi sulle palle perché stava sulle palle a loro, perché me lo descrivevano come il peggior viscido sulla faccia della terra e mi avevano messo in testa che fosse invidioso di me e volesse farmi le scarpe. Beh, il resto è storia. Ho dato il mio contributo.

- E allora diglielo, Andrea!

- A chi dovrei dire cosa, scusa?

- A loro! La prossima volta che qualcuno prova a inculcarti in testa qualche idiozia, mandalo affanculo!

- Non ci sarà una “prossima volta”, Loria – socchiude le palpebre: vorrebbe che vedesse la sua espressione, adesso, il sorriso appena accennato – Non ci sarà, perché io con quelli non voglio averci più nulla a che fare. Non sono più miei amici: Alessandro mi ha sputtanato a vita, Isa è falsa come una banconota da tre euro e gli regge il gioco. Non mi rivolgono parola dalla famosa piazzata in Aula Magna, e non c’è motivo perché torni da loro strisciando. Odiano la persona che amo e vorrebbero farne il capro espiatorio per mascherare le loro pecche; adesso hanno scoperto che fuma, e apriti cielo!

- Andre, non è un reato fumare. Non è salutare ma non è proibito dalla legge, voglio dire…

Scuote il capo, Andrea: Elena sta bluffando per precipitarsi al nocciolo del problema. Per tirargli fuori le parole con un paio di pinze.

- Fumare lo schifo che ti fumi tu, forse.

- Okay, ho capito. Sanno che Gabriele si è fatto una canna fuori di qui e vorrebbero trovare un modo per incasinarlo. Fin qui è facile. Volevano mandarlo al Pronto Soccorso per validare le loro ipotesi, farlo passare per un fattone… Figurati!

- Una canna? Gabriele non si è fumato una canna in cameretta un giorno che era depresso. Gabriele si fa regolarmente.

- Marijuana?

- Hashish, credo. Ma non è importante. Voglio dire: è così e non ci piove. Gli hai guardato bene gli occhi? Non lascia dubbi. Sembra che senza quella roba non sappia andare avanti. All’inizio era… un gioco. Quando eravamo ancora amici. No: era molte cose, ma non era un gioco. Lui fuma perché è depresso, è questo il problema.

Stringe le palpebre, Andrea. Si costringe a non guardare fisso dinnanzi a sé – non vedrebbe nulla lo stesso, perché i suoi occhi sono foderati da uno spesso strato di penombra, un lucido estraniamento. La mano stretta tra quelle di lei.

Non mollarmi adesso. È un ordine silenzioso, le labbra che si schiudono a vuoto.

È colpa tua, Andrea: se Gabriele è depresso, se tu domani mattina ti sveglierai in un letto vuoto. Perché anche lei ha visto cos’eri e cosa sei.

Mi ha sopportato abbastanza: si stancherà. Dell’inferno che ho mosso intorno a me.

Si raccoglie su se stesso, la paura che sfugga dalle sue braccia. Anche lei. Che gli scivoli via di dosso come una veste troppo larga appesa alle ossa, come nebbia che si dirada e scappa via.

Ritrovarsi ad afferrare il nulla – è ciò che meriteresti.

In silenzio, lascia scorrere la mano aperta intorno alla sua vita. Sorride: potrebbe circondarla con tutte e due le mani.

E comincia a chiedersi perché sembri così trasparente e scostante, altera e impalpabile, materia inconsistente oltre i vestiti. Potrebbe contarle le costole solo basandosi sul ricordo di quella carezza trattenuta.

Sospira: forse è semplicemente… prematuro.

Forse non siete altro che due facce evanescenti della stessa solitudine. Forse non riuscite a sentirvi abbastanza, a sentire una consistenza fisica tangibile, e vi ostinate a contare ogni molecola. Non correre.

Sorride di nuovo, quando lei gli sfiora la fronte con le labbra e gli sussurra che andrà tutto bene. Entrambi di nuovo a cullarsi in un sogno in sospeso che li faccia sentire meglio. Come una ninnananna articolata da labbra mute.

Non mi abbandonare. Non mi abbandonare.

 

* * *

 

Elena scuote le palpebre nell’oscurità. Il mascara è orribilmente impastato sulle palpebre e su parte delle guance, tanto che per un attimo fa fatica ad aprire gli occhi, a lasciar scorrere la mano sul proprio viso.

Non è come toccare i capelli di Andrea, la consistenza serica che le scorre fra le dita. Per un attimo si chiede se non sia quello il pezzo mancante, complementare.

Le cinque del mattino, e tutto lascia immaginare che siano crollati più o meno un’ora prima, vinti dalla stanchezza e dal fruscio ipnotico delle carezze.

Spalanca le palpebre, Elena, ma il velo della notte senza luce le impedisce di mettere a fuoco il suo viso, i capelli sparsi sul cuscino e su di lei, la linea del profilo intagliata nella nebbia. L’ombra delle ciglia sulle palpebre appena appoggiate, sul filo dell’abbandono.

Ci pensi, Loria? Eri polvere e cenere fino a non molto tempo fa. Prigioniera, incapace di esternare la furia di un’esigenza vitale. E ora – quale strana combinazione! – un angelo dagli occhi d’ossidiana riposa addossato a te, le mani abbandonate intorno ai tuoi fianchi.

Avresti potuto rischiare di innamorartene: sciocca, riesci a rendertene conto? Qualche mese fa. Hai immaginato come sarebbe stato cercare di parlargli e constatare dolorosamente che dalla tua bocca non sarebbe uscito un suono? Non sentire una corrispondenza dall’altra parte. Ficcarsi in testa l’impresa crudele di oltrepassare d’un balzo lo strato di nulla che vi separava ermeticamente, e metterti nel sacco da sola.

Non avevate nulla in comune. Nessuna congiunzione provvidenziale a unirvi, a infilarvi a viva forza nella stessa fortuita comunanza d’intenti. Un progetto, un settore di vita, una scintilla, un dannato settore in comune. Che vi vedesse partecipi e tenesse conto del tempo che corre, che modifica gli assetti come un folle, crudele sceneggiatore. Non voleva l’adrenalina, lui – il tempo, il burattinaio. Voleva la trama ferma, scontata, ripetuta fino all’esasperazione.

Immagini se ti fossi innamorata di lui? Eri un’orchestra costretta preventivamente in una stanza insonorizzata. Lui aveva il suo ambito d’esistenza, aveva qualcosa che valesse la pena condividere: aveva la sua amica Isa che te l’avrebbe strappato via prima ancora di intercettare il frammento di uno sguardo. Isa e Andrea erano legati a doppio filo: erano uno sguardo lasciato vagare nella stanza per giungere in un lampo al destinatario. Sguardi che mai si posavano su di te. Era il loro microcosmo impenetrabile, e Alessandro Alberti a far da vertice del bizzarro triangolo: chi aveva bisogno di un’Elena Loria o di un Gabriele Derossi a rompere l’anima con la propria presenza sgradita?

Perché quello era un universo perfetto nelle sue proporzioni, nelle sue simmetrie. E voi l’avete spezzato con la vostra presenza di depressi rompicazzo, rovinando il gioco con la vostra negatività.

Te l’eri chiesto anche tu, una volta. Derossi: perché lo trattano così? Perché era così… Distante da tutto? Era l’inquietante via di mezzo tra un cucciolo dinoccolato e un modello da copertina, un paio d’occhi nocciola mirabilmente incassati, scavati in un tripudio di ciglia scure e di palpebre affilate.

E loro avevano denudato ogni sua debolezza. L’avevano ridotto a un fantoccio in cattivo stato, gettato via in un angolo con le mani del bimbo tracotante pieno di giocattoli fin sopra la testa che però non si accontenta e vuole quello – sì! – proprio il tuo. Quello che per te è il giocattolo del cuore. Per il gusto di strappartelo con quella voglia strafottente di protagonismo, di supremazia. Per poi gettarlo nella carta straccia e fissarti con occhi di sfida.

E poi, ancora, ti chiedevi cosa fosse successo a Derossi, da un certo momento in poi. Se fosse stato rapito dagli alieni o cos’altro. Con gli zigomi sempre più evidenti sul taglio affilato del viso, e così le ossa delle spalle e del bacino, e gli occhi scuri sempre più simili a due macchie d’inchiostro sulla faccia. Cos’era stato a renderlo un’ombra che respira e parla poco, una caricatura inquietante?

E ora vorresti urlare, Loria, con la consapevolezza che ti esplode nella testa, prosciugandoti ogni stilla di lucidità. Gabriele era fatto fino al midollo, sì. Si faceva per imbrogliare il dolore di un animo devastato; perché amava fino all’agonia quel damerino dagli occhi di ghiaccio che per lui mostrava disprezzo e indifferenza per partito perso.

Però anche tu, Andrea, di tanto in tanto, gli schioccavi uno sguardo ammiccante: così, tanto per ridestarlo momentaneamente dal coma, pronto per la prossima sessione di tortura.

E ora vorresti ridere, Loria, approfittando della potente censura delle tenebre: ridere del fagotto dai riccioli di velluto che se ne sta appollaiato al tuo fianco, beata innocenza.

Pensa che avresti potuto esserci tu, al posto di Gabriele, se avessi intercettato prima di lui un certo paio d’occhi.

E invece lui, proprio lui, Andrea, un giorno inaspettato ti ha sorriso mentre ricominciavi a respirare, scagliandosi insieme a te contro ciò che lui stesso, fino a qualche ora prima, aveva incarnato e condiviso.

Adesso è cambiato: ha molti difetti, ma non è un cretino: non è uno che agisce tanto per fare. C’è un processo in atto, nulla è affidato al caso. C’è qualcosa per lui che all’improvviso vale più di tutti i salamelecchi del mondo, di tutti i posti in prima fila, di tutte le moine e le carezze. Perché le lusinghe sono come gli schiaffi: dopo un po’ diventi insensibile ai loro effetti, la cute così assuefatta da non avvertirne più le conseguenze. C’è qualcos’altro per cui vale la pena di lottare.

Ma tu lo sai, Loria, come vanno a finire le guerre – non le singole battaglie: proprio le guerre. Sai che gli assetti possono cambiare quando meno te lo aspetti: e lui potrebbe tornare all’ovile. Manterrà le sue nuove consapevolezze intatte, la sua linea di lotta, mentale o concreta che sia, però, oh, ma che sorpresa! Sarà lei – Isa, forse? – la sola a capirlo, ad affiancarsi a lui, a farsi interprete del nuovo pensiero vincente.

Perché lei, cara, lo conosce meglio di te: è più forte di te, sa farlo stare bene, sa creare la situazione, mettersi in gioco, palesare la sua presenza. Sa tante cose di lui; e loro, che tu lo voglia o no, hanno un sostrato in comune. Quella cornice comune che a te manca, tesoro caro.

È più forte di te, e non potrai farci nulla: sarà lei – o chiunque altro al suo posto, con quelle caratteristiche – a imporsi come regina che decide le sorti. Fino a strappartelo dalle mani, se necessario – quel poco che tu sia mai riuscita a fare tuo, anche solo un istante –, se con la tua cecità spingerai le cose fino a quel punto. Te lo porterà via, non contenta di essere riuscita a negartelo tempo addietro, a impiantarsi nel suo habitat naturale, tutti insieme in prima fila, a disprezzare quelli come te che non sanno stare al gioco.

C’è sempre stato e sempre ci sarà, Loria, qualcuno più potente che ti respingerà indietro. O che, in alternativa, ti straccerà il cibo di bocca: è la tua natura.

 

Getta via le lenzuola da un lato, Elena: per un attimo è solo il battito del cuore a calamitare la sua attenzione. Andrea che riposa al suo fianco – ed è già un miracolo non averlo svegliato, per quell’unica ora di sonno che ha a disposizione.

Non svegliarlo: poi dovresti inventarti qualcosa, spiegargli perché ti tormenti le dita con una tale ossessione, il respiro spaventosamente accelerato.

L’unica cosa, al momento, è studiare ogni suo movimento nella nebbia del sonno, e sgusciare piano piano da quella presa molle, troppo debole per divenire un abbraccio, troppo annacquata nel suo torpore profondo.

Ricade dolcemente sul ventre, quando riesci finalmente ad abbandonare il suo letto, a scivolare via da sotto il suo corpo. Lo osservi in silenzio, immerso nel dormiveglia, un braccio teso a tastare le lenzuola, a cercare una presenza rassicurante accanto a sé.

Eviti di respirare fino ad assicurarti che sia ripiombato nel sonno, cosicché non si renda conto troppo in fretta del tuo abbandono di campo e non chieda spiegazioni.

Dov’è finita la speranza che le cose sarebbero cambiate, Loria? Che tu eri cambiata, e non c’era più motivo di avere paura?

Preferisci invece sciacquarti la faccia di fretta, ravviarti i capelli e infilare la porta senza fiatare.

E scusa, Andrea, ma nessuno qua dentro ha alcuna voglia di impazzire o di farsi altro male.

 

* * *

 

La molla che anche quella mattina ha catapultato Andrea giù dal letto non è stata la sveglia messa a suonare un’ora prima del previsto.

Se di Loria non c’è più traccia, significa che dev’essersi davvero fatto tardi. Sospira, contrariato, una fitta di smarrimento che lo sprofonda nello sconforto: Elena l’avrebbe svegliato in tempo quanto meno da precipitarsi di volata alla seconda lezione prevista per la mattinata.

Seconda lezione… Neri. No. La Balducci. Una seconda fitta di sconforto lo fa ricadere seduto sul materasso, il capo stretto fra le mani. Per un attimo ha la sensazione di essere sul punto di dare di stomaco. O di svenire sul tappeto della sua camera.

Calma, Andrea. Non impazzire ora. Non è successo nulla.

Però Loria ti ha mollato lì come un deficiente. Ti avrebbe svegliato per quella dannata lezione, a meno che non sospettasse un tuo probabile stato di rigor mortis. Ti avrebbe svegliato, se fosse stato necessario, a suon di cannonate.

Invece ti ha lasciato lì. Che si sia già rotta le palle delle tue stranezze?

E questo è abbastanza a trascinarti fuori dalla tua stanza – il pensiero di Elena, di Gabriele. Ficcarti sotto la doccia e cercare di recuperare un aspetto quantomeno presentabile, malgrado il sentore di nausea ancorato alla bocca dello stomaco.

È abbastanza da chiuderti la porta alle spalle e caracollare alla cieca attraverso i corridoi, verso la stanza di Gabriele. Non sai perché i tuoi passi ti abbiano condotto lì: lo sai, ma forse non vuoi ammetterlo, perché la consapevolezza, al momento, è il peggiore dei veleni.

Sai di avere un aspetto sciatto, con i capelli bagnati incollati alla testa e le tracce di sonno marcate intorno alle orbite: tracce che il getto appena tiepido della doccia, diretto in piena faccia, non ha avuto modo di attenuare. E il segno del cuscino ancora stampato sulla guancia.

Gabriele. Vuoi sapere come sta, dannazione – solo questo? Bugiardo.

Vuoi farti del male, tastando con mano ancora una volta quanto lui trovi insopportabile la tua presenza in questo momento, in questa circostanza. Come una zecca inchiodata in mezzo alle scapole. O un gatto appeso alle palle.

È questo che sei diventato, Andrea? Non ti vuole più nessuno, non ti crede più nessuno.

Elena è riuscita a fuggire in tempo. Chissà cosa diavolo le è saltato in testa… Che eri troppo stanco o troppo carino, per svegliarti scrollandoti per le spalle – sogna, Nicoletti, sogna. È solo un’ipotesi. Che in fondo abbia paura di te?

E lui, Gabriele, di certo prenderà le sue contromisure, perché preferirebbe avere un leone alle proprie costole.

- Andrea?! Che diavolo ci fai qui?

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10 - Cieli stanchi ***



 

Capitolo 10

Cieli stanchi

 

 

Andrea si osserva intorno, il volto rassegnato di chi vorrebbe trovarsi ovunque tranne dove si trova. Pur di non essere costretto ad affrontare lo sguardo rassegnato di Gabriele Derossi.

Che diavolo ci fai qui, Andrea? Che diavolo ci fai?

Niente. Non lo so.

E dov’è Elena? La mia Loria.

Speravo fosse con te: ci ho sperato per un istante. Che avesse avuto la mia stessa idea. Invece, mi avete abbandonato tutti.

- Ho saltato le lezioni, okay? – sussurra.

E adesso, da bravo, evita di guardarlo come se stessi per cadere in deliquio. Sta’ calmo, lo spaventerai di nuovo: penserà che sei completamente tocco e ti manderà a quel paese.

Deve quasi costringersi a incastrargli lo sguardo addosso, sul suo volto, le occhiaie violacee a sottolinearne l’aspetto emaciato. Poi rammenta gli effetti macroscopici della botta in piena faccia, e il tassello torna al suo posto.

- Ho saltato le lezioni. Non mi sentivo tanto bene – soggiunge a bassa voce, un sorriso stentato che quasi gli taglia in due la faccia.

Silenzio. Gabriele non si è ancora degnato di aprire bocca se non per domandargli a bruciapelo che diavolo ci faccia appollaiato davanti alla sua porta – legittimo. Trasalendo come di fronte a qualcosa di incredibilmente ributtante.

Non mordo, Gabriele, vengo in pace. So che non sono esattamente un bel vedere stamattina, che sono combinato male. Ho dovuto rinunciare a farmi bello per te.

Ora urge inventarsi qualcosa. Una scusa plausibile.

- Volevo solo … sapere come stavi. Ed… ecco. Poi tolgo il disturbo.

E allunga una mano in direzione del suo viso, con noncuranza.

Davvero vuoi farti del male gratuito, Andrea?

Il tempo di confermare i tuoi timori e vederlo scostarsi da te come se le tue dita bruciassero.

Serve altra conferma? Non è abbastanza, che ti eviti come la peste?

- Va tutto bene, Andrea – sputa fuori, freddo – E tu faresti meglio a barricarti in camera.

- Eh?

- Se quelli ti beccano, ti fanno il mazzo.

- Quelli chi?

Andrea deglutisce a fatica. Ha come l’impressione di scorgere per la prima volta un guizzo di compiacimento crudele negli occhi di Gabriele.

- I tuoi amici, Andrea.

- Se stai pensando alla stessa… cosa che penso io, ti dico subito che preferirei essere amico di Bin Laden, piuttosto che amico loro. Io non ho amici, qua dentro.

Gabriele solleva gli occhi al cielo, l’espressione di chi sa che sta per buttare il carico pesante.

- Eppure, pare che stanotte qualche buontempone abbia avuto l’idea di fracassare l’auto di Neri… Forse qualcuno ha preso un po’ sul serio la faccenda che il tuo amico Alessandro ha sputtanato in giro.

Andrea serra le labbra. Qualche passo indietro, la testa leggera. Il primo impulso è di ridere – una risatina isterica, grottescamente fuori luogo, che graffia la gola. Riderebbe, se non rischiasse di convalidare il sospetto di essersi bevuto il cervello.

È assurdo questo. È assurdo. Stai vaneggiando.

Poi, un vuoto improvviso all’altezza del petto lo fa stringere spasmodicamente allo stipite della porta, il terrore di collassare da un momento all’altro. Lì, di fronte a lui e con tutto ciò che ne conseguirebbe.

Questa volta è toccato a Neri, da poco sollevato dal suo incarico.

Sempre che le cose siano come dice Gabriele, che i dubbi siano fondati.

E tu non perdere la testa proprio ora, ti prego. Non perdere la testa, non di fronte a lui. Vietato gridare, vietato muovere un muscolo, vietato andare in iperventilazione, dare in escandescenze e farsi venire mezzi infarti.

Ragiona, ecco. Lucido.

- E tu come fai a saperlo? Il prof non è in città. Chi sarebbe il deficiente che ha messo in giro una stronzata simile?

- Stamattina, al bar qua sotto. Non parlavano d’altro, ma non so dirti se la fonte sia attendibile.

Andrea reprime a stento un’imprecazione.

- Ascolta, Gabriele. Se davvero è successo, okay: c’è il dubbio che qualcuno sia passato alle maniere forti. Ma non ti sembra strano che la notizia abbia già fatto il giro? E pensi davvero che ci sia un collegamento tra le due cose, la mia pubblica umiliazione e lo scherzo di dubbio gusto a Neri?

- Non lo so, Andrea, non lo so! Non ho messo in giro io queste cose! Se è andata così, qualcuno si sarà premurato di raggiungerlo a casa sua e fare quello che ha fatto… Non ne so! L’unica cosa che so è che non sono volate belle parole su di te. Tornatene a letto, Andrea, chiuditi in camera, ché temo che a qualcuno non dispiacerebbe gonfiarti di botte.

Andrea sorride: Gabriele Derossi che si preoccupa per lui, quasi potrebbe scavare uno spiraglio di luce nella sua giornata.

- Chi vorrebbe pestarmi? Alberti? Non è contento di avermi massacrato a parole? Oh, non ce lo vedo a sporcarsi le mani. Ci sono modi più raffinati per farmela pagare. Tipo cercare di farmi buttare fuori. E ora, se non ti dispiace… – sospira, Andrea, un nodo di tensione inchiodato in gola: vorrebbe far cadere al più presto la questione.

Tornarci a tempo debito, con calma e per conto proprio, senza grilli per la testa. Senza rischiare l’attacco di panico da un momento all’altro. Non vuole parlare di Neri. Non con Gabriele.

Non impelagarti con loro, Derossi. Una questione per volta: ora non è il tuo turno.

Distoglie lo sguardo, pronto a troncare il discorso con un battito di ciglia e una battuta ben piazzata.

- … ti va di venire a far colazione?

Adesso può distogliere lo sguardo e lasciarlo vagare lungo il disegno delle mattonelle. Crogiolarsi nell’attesa che Gabriele trovi una scusa, come da copione, e lo aiuti a colmare il vuoto con mille frammenti e un altro invito ad andarsene a quel paese. Se è vero che vuole avere a che fare con lui il meno possibile.

Non è un buon segno il fatto che l’abbia squadrato da capo a piedi in un misto fra incredulità e voglia di scrollarselo di dosso senza versare una goccia di sangue. Potrebbe indovinare il guizzo della muscolatura sotto la maglia, nell’atto di irrigidirsi in uno spasmo nervoso, e mo’ come esco da questa situazione, e mo’ sono cazzi, e mo’ come me lo levo dai piedi

- Sono al terzo caffè della mattinata. Non è il caso.

- Oh, ecco spiegato perché sei così nervoso… – ammicca, Andrea, sarcastico.

Troppo. Tanto che per un attimo ha quasi l’impressione di rivedere far capolino il vecchio Andrea e il suo atteggiamento di sufficienza, la voce falsamente carezzevole, strascicata.

- Ma perché non ti fai mai i cazzi tuoi, Nicoletti?

- Scusa…

Una stilettata a tradimento infilata fra capo e collo. Indietreggia, Andrea, prova a riprendere fiato. E prega che lo squittio che gli è uscito dalle labbra passi eccezionalmente inosservato, come il sentore di pianto represso che gli fa tremare la voce. E il rossore che gli incendia le guance.

Atterrato da Gabriele Derossi con un’esplosione d’acido che lo centra in pieno stomaco e lo riduce a un esserino tremante e drammaticamente fuori posto.

 

Fa male stare dall’altra parte, vero? Non sei più tu a dettare le regole del gioco, anche se, a suo tempo, non sei stato molto più tenero con lui. Non t’importava di ferirlo o passare da stronzo: te lo rigiravi agevolmente intorno al dito mignolo quasi senza rendertene conto. E non gliel’hai neanche mai detto chiaro e tondo, di andarsene a quel paese: solo accennato tra una scarica di veleno e l’altra, quando lui era debole e tu credevi di avere il mondo in pugno.

 

- Cioè, io… – tentenna – Ho detto una cazzata.

Gabriele gli sorride con lo stesso fare accondiscendente che avrebbe con un bambino di due anni.

- Vorrei che fosse la prima.

- Okay: sei incazzato, hai i tuoi motivi, riconosco…

- Appunto. Quindi sarebbe il caso che andassi a prenderti quel dannato caffè e seguissi il mio consiglio, a meno che non voglia procurarti altri guai da solo.

Un po’ contorta come teoria, Gabriele: lo dici per sbarazzarti di me.

- Quindi… ci tieni?

- A cosa dovrei tenere?

Un attimo, prima di rispondere. Gabriele ha la fronte corrugata, l’espressione stranita. Solo un istante, prima di riadattare al viso la sua maschera di profonda insofferenza.

 

Calma, Andrea: stai rischiando. Potrebbero girargli le scatole da un momento all’altro, potrebbe decidere di restituirti gli schiaffi che tempo fa ha impedito ad Alberti di affibbiarti.

 

- Al fatto che qualcuno possa attentare alla mia incolumità. Ci tieni a me?

Gabriele solleva gli occhi al cielo.

- Sei un elemento molto decorativo. Ti basta come risposta?

E poi solo il silenzio. Fino alla fine di quel corridoio che li ha costretti a imboccare la stessa direzione.

Drizza le antenne, Andrea: per qualche motivo che lui stesso cerca di ignorare, la sua testa ha deciso di prolungare l’agonia, il contatto, il filo invisibile che forse solo lui riesce a percepire.

- Dove vai, Gabriele? – azzarda.

- Mi sono ricordato che devo comprare i biscotti.

Aromatizzati con qualcosa di vegetale, magari, vorrebbe aggiungere, se non temesse di ritrovarsi scaraventato giù dalle scale.

Invece, si limita a scrollare le spalle.

- Io… cosa faccio, nel frattempo?

- Te ne torni in camera tua e te ne stai buono finché non si calmano un po’ le acque. Qualcuno ha avuto la tua stessa idea: saltare le lezioni.

- Oh, fantastico! Mi tendono gli agguati! È un buon modo di impiegare il proprio tempo, non trovi? Ed io, secondo te, muoio dalla voglia di girarmi i pollici fino a sera per qualche innocente mania di persecuzione?

Gabriele solleva gli occhi al cielo, una patina di esasperazione nelle iridi scure.

Andrea lo osserva e quasi tenterebbe di stuzzicarlo ancora, se lo scopo non fosse guadagnarsi la sua fiducia o almeno evitare di passare da completo imbecille. Per un attimo vorrebbe farsi scudo delle improbabili cazzate che la mente, puntuale, gli suggerisce, e nascondersi dietro una maschera del rompiballe improvvisato. Solo che così non centrerebbe l’obiettivo che gli preme più di ogni altra cosa. Si renderebbe ancora più sgradevole e sgradito.

- Tròvati qualcosa da fare come fanno tutti i comuni mortali, Andrea, dannazione! Stùdiati quel cazzo di copione per quel dannato stage, comincia le pulizie di primavera, parla con i muri, fai quello che ti pare, ma ti prego…

…ti prego, Andrea, ti prego, non venire a rompermi l’anima, gira al largo quando mi vedi, sparisci, smaterializzati, fa’ qualcosa!

È ciò che stavi per dire?

- … stattene al sicuro. Non mi piace quello che ho sentito stamattina.

- Splendido! Devo sigillarmi in camera mia come un ricercato per le boiate di qualche deficiente? Qual è il titolo nobiliare che mi hanno attribuito con più frequenza? Sentiamo un po’… – una risatina agrodolce – Puttana? Ho indovinato? Che fantasia! Prima che mi dimentichi, Gabri, una precisazione: tutto ciò che hai sentito su di me, non devi far conto che sia vero: fai che la realtà sia semplicemente peggiore. Contento, ora?

- Auguri, Nicoletti. Cazzacci tuoi.

- Anche tuoi. Stai attento a Isa Cortesi e ad Alessandro Alberti: credo vogliano la tua testa, la mia non gli basta.

- Dovrei stare attento anche a te, se è per questo.

- Vai al diavolo, Derossi! Sono solo preoccupato per te.

Gabriele tace per un istante. Spiazzato. Ha lo sguardo vacuo; poi un sorriso rassegnato gli increspa le labbra. Quelle labbra delicate che – Andrea sospira – osserva bene soltanto adesso, a qualche ora da quella specie di bacio che non sa più se sia stato solo un parto sconclusionato della sua mente. Labbra che per lui continuano a sapere di miele…

- Ecco, Andrea. Questo mi fa paura più del resto.

 

* * *

 

Non sa dire per quale ragione abbia deciso all’ultimo momento di rendersi presentabile e portare il proprio fondoschiena a quella festicciola improvvisata al barettino sotto casa. Lo stesso dove poco tempo fa si recava a far colazione, e dove quella mattina ha cercato di trascinare Gabriele.

Di solito con lui c’era Isa, a tenerlo vivo e tessergli la strada. Di solito dopo un po’ lo raggiungeva anche Giulia e gli schioccava il bacio del buongiorno. Sulla guancia – troppo tangente alle labbra.

Almeno fino a quando non giunsero a complicargli l’esistenza il suo nuovo compagno di stanza, Gabriele Derossi, e il professor Neri che lo attirava come un magnete. E finì che con Giulia non se ne fece niente.

Se ripensa a quei giorni – pochi mesi o pochi secoli prima –, le impressioni sono sfocate, attutite sotto una coltre rigida e un senso ingannevole di calore, di profonda allucinazione.

Non ci pensava, allora, che le maree avrebbero mutato il corso: andava dritto col naso puntato in aria, senza guardare in faccia nessuno. Preferiva procacciarsi qualche lusinga facile scuotendo le ciglia con aria annoiata, piuttosto che andare a mendicare dietro la porta chiusa di un Gabriele Derossi qualsiasi, pronto a trattarlo con diffidenza. Era certo che non avesse molto senso cercare di limare gli spigoli vivi che spuntavano continuamente fra loro, anche se, all’inizio, la cosa gli bruciava un po’. A Gabriele questo non lo dirà mai.

L’unica cosa che ora vede con chiarezza, è la sua presenza drammaticamente fuori luogo, la cravatta annodata con incuria e il tacco dello stivale incastrato nel poggiapiedi dello sgabello.

Seduto di fronte al bancone a guardare le mosche che volano, inganna la noia chiedendosi cosa c’è quella sera che meriti un festeggiamento: la disfatta del viscido Neri che faceva il drittone e predicava bene e razzolava peggio di tutti. O l’annientamento della puttana profittatrice.

Almeno lui è deciso a giocarlo bene fino in fondo, il ruolo della puttana arrogante e compiaciuta. Della puttana smascherata e umiliata, con la riga di kajal sotto gli occhi a rimarcare il concetto filosofico di frocio di merda che qualcuno gli ha gracchiato alle spalle, dopo avergli fatto scivolare addosso uno sguardo di disprezzo che sa di unto.

 

Capisco. Potrei persino capire, in un certo senso. Capisco la vostra delusione.

Mi credevate diverso. Migliore, peggiore, chissà. Una cosa di poco pregio ma molto più simile a voi, addomesticabile. E finché sono stato dalla vostra parte, da furbo, beh, quasi quasi il mio modo di giostrarmi le situazioni in sprezzo al buonsenso, di annuire alle puttanate più clamorose… Beh, quasi sprizzava simpatia.

Ora che ho storto il naso, di colpo sono diventato il figlio di puttana senza remore. Coerenza, ragazzi: almeno io la sto recitando bene, la parte dello stronzo che ignora di essere stato messo alla berlina. Sono il vostro pagliaccio.

 

In verità – inutile negare –, ha portato i suoi passi fin lì per la tacita speranza che prima o poi a Elena saltasse in mente di farsi viva, in una di quelle occasioni pseudo-mondane che ha sempre evitato come la peste. Se è vero che le linee dell’assurdo non hanno ancora raggiunto il punto di collisione.

Sospira, mentre prova a concentrarsi sul suo bicchiere mezzo pieno – quasi non ricorda più cosa il barman ci abbia rovesciato dentro. Per l’ennesima butta volta lo sguardo sulla schermata del cellulare, che puntuale gli restituisce l’immagine del suo gatto nello sfondo. Il fatto che Loria sia sparita senza degnarsi di rispondere a un dannatissimo messaggio, è ansia sottile che corre nelle vene. E lui non sa scrollarsi di dosso la paura.

Giuro che m’incazzo, Loria. Giuro che stavolta m’incazzo.

Non c’è neanche traccia di Gabriele – doveva immaginarlo. È l’ultima persona, in quel momento, che possa morire dalla voglia di stravaccarsi al fianco del leone ferito e insieme storcere il muso verso la marmaglia crocidante, come due acide comari.

Nessuno si è degnato di rivolgergli parola – neppure con un sorriso di gesso stampato in faccia. Gli piacerebbe definire la propria presenza come “tappezzeria”, se non sapesse qual è l’argomento clou della serata, sussurrato fra sguardi come mine vaganti e bicchieri mezzo pieni strategicamente sollevati a mezz’aria. Quello stronzo di Nicoletti che si fotte il professore, e con lui, metaforicamente, mezza Accademia. E Derossi che annega nell’alcool i suoi dispiaceri, o magari in una bella canna.

Che ci fai lì, Andrea? Non è più il tuo mondo. Non hai più nessuno su cui contare. E se anche ci fosse un modo per sistemare le cose, per far retromarcia affinché tutto torni esattamente come prima, intatto, diventeresti blu solo all’idea. E butteresti tutto a mare per la seconda volta.

Cosa ti è saltato in testa, Andrea? Avevi tutto e non avevi nulla. Ti beavi di ciò che ora ritieni degno di disprezzo, dimenticandoti che la faccia ce l’hai messa anche tu.

Perché non capiscono che… che è una farsa più grande di loro?

 

La mano che cala di colpo sulla sua spalla è un fulmine improvviso che per poco non lo ribalta giù dal suo trespolo. Quasi sobbalza.

- Nicoletti. Ho bisogno di parlarti.

Calma.

- Ed io non ho bisogno di ascoltarti, Alberti – si affretta a soffiargli, con sommo istinto di sopravvivenza, un sorrisetto di plastilina sorretto da tutta la buona volontà di comportarsi da signore e lasciar perdere qualunque forma di aggressività verbale.

- Si può sapere cosa diavolo ti sta succedendo, Andrea?

- Niente che ti riguardi.

Fissa il bicchiere vuoto, per poi risollevarsi in piedi, di scatto, incalzato dalla smania di mettere al più presto la parola “fine” su quell’incontro increscioso.

Ascolta cos’ha da dire a sua discolpa, almeno.

- Senti, Andrea…

Eccolo, Alberti: darà fondo a tutta la sua abilità persuasiva. E chissà: forse, se s’impegna abbastanza, potrebbe anche convincerti.

- Ti sento. Non sono sordo.

- La pianti di darmi risposte acide?

- Dovrai rivoltarmi al contrario, Alessandro, per evitarlo.

La risposta gli arriva nella forma di uno sguardo spazientito. L’Alberti che conosce lui, a quel punto, l’avrebbe mandato a quel paese senza sconti di pena.

- Andrea, basta con la commedia! È… è per quella tua amica, è così? Non sono stato carino con lei, lo ammetto.

- Anche no! – un ringhio trattenuto fra le labbra, sarcasmo tra sillaba e sillaba – Se ti riferisci alla battuta pseudo-razzista, era pessima. Mi hai deluso, credevo fossi più intelligente…

- E quindi? Non mi dai il beneficio del dubbio? Cambi idea da un momento all’altro, perché ho risposto a cazzo alla tua nuova amica?

- La mia nuova amica ha un nome e un cognome.

- E a quanto pare ti ha anche fatto un bel lavaggio del cervello.

- Cazzate, Alberti! Chi è quello che non mi rivolge parola se non per insultarmi, che va a sbandierare i cazzi miei ai quattro venti…? Ho ottimi motivi per evitarti.

- Non volevo far del male a Derossi, se è questo “l’altro motivo”.

Non voleva fargli del male. Andrea si limita ad un’occhiata gelida: lui, almeno, ce la sta mettendo tutta per scoraggiarlo dall’avvicinarsi di un altro passo, dal proseguire su quella scia. Eppure la tattica non sembra riscuotere successo. Alberti non lo ascolta nemmeno: si limita a troncare il discorso su ogni direzione che non gli vada troppo a genio, e a ficcare tutto nello stesso calderone.

- Ne abbiamo già parlato, Alberti – ghiaccio – Sai come la penso, e non credo cambierò idea per qualche tua frasaccia di circostanza.

- Andrea, sei assurdo! Mi dai lo status di infame senza prove e senza starmi neanche a sentire.

- Ho già sentito tutto, e non è stata un’esperienza illuminante. Mi lasci andare, ora?

- No. Non ho finito.

Il silenzio è denso come cemento fresco che cola da ogni crepa sulla parete.

- Sbrigati, allora.

Andrea deglutisce. Alessandro Alberti sembra sulle spine per la prima volta da che lo conosce. La curiosità di sapere in quale altro anfratto si andrà a impelagare la sua mente, pur di lasciargli perorare agilmente la sua causa, è la sola ragione che lo trattiene dal girare sui tacchi seduta stante.

- Mi dispiace di quella tua faccenda con… con Neri.

Strizza gli occhi, Andrea, distoglie lo sguardo, i piedi ancorati al pavimento e l’ansia di andarsene presto che sale. Risucchiato in una spirale d’angoscia che vibra per la stanza.

Questa no, Alberti. Sta’ zitto! Non lo nominare nemmeno!

- Senti… Capisco ci stia male. Posso capire ogni cosa. Eri innamorato di lui, è così? Mi… mi dispiace che le cose siano andate male. Andrea, quello si prendeva gioco di te. È così. E mi dispiace ancora di più, se pensi che siano stati i casini che sono successi dopo a rovinare tutto. Solo, ecco… Non hai fatto una bella cosa, divulgando quelle notizie e sputtanando metà del corpo docente. Sì, so che la cosa è partita da te, perché ti conosco e non sono stupido. Schiumavi di rabbia. Ci sono stato male anch’io, quando hai tirato in ballo mio padre per quell’assurda questione sui finanziamenti.

- Basta così, Alberti… – un sussurro, leggermente spezzato.

E lui che prosegue, implacabile. Infierisce, vuota il sacco, poco propenso a rimuovere il pugnale dalla ferita aperta.

- Cos’altro vuoi che dica, Andrea? Non volevo che le cose andassero così, anche se non siamo più amici. Che mi serbi rancore per qualcosa che non dipende da me. Anche se credo che buona parte te la sia tirata addosso da solo… mi dispiace lo stesso.

Andrea sente per un istante la testa farsi orrendamente leggera. Il cuore è un tumulto improvviso e le gambe vanno per conto proprio. Il solo modo che gli viene in mente, per scongiurare la crisi di nervi, è tornarsi a sedere e far cenno al barman di rabboccargli il bicchiere.

Come fai a sparare tante puttanate in una manciata di secondi, Alberti? Come fai a guardarmi con quella faccia, dopo tutto quello che hai detto e fatto ventiquattro ore fa?

- Ah, e bere non risolve il problema, Andrea.

È troppo. Semplicemente troppo per essere accettato così, senza sforzarsi di trovare un aggettivo. Senza eufemismi.

- Che cazzo ne sai dei miei problemi?

Ha alzato la voce. Troppo.

- Prova a darti una calmata, se ce la fai.

Dopo, è solo un crescendo di collera che gli punge le membra.

- Non provarci nemmeno, Alberti! Non dirmi quello che devo fare! Non dire nulla, per me non sei nulla! Tu devi essere… devi essere completamente fuori, se hai pensato anche solo per un momento che credessi alle tue stronzate. Hai provato a riascoltarti, quando parli? Dici tante di quelle cazzate che… dubito che anche tu ci creda.

- So solo che mi dispiace, Andrea! Vuoi che mi crocifigga? Mi spiace soprattutto che ce l’abbia tanto con me, che non ti ho torto un capello.

Andrea deglutisce a fatica. Sicuro che il parossismo di follia non abbia contagiato soltanto lui. O, in alternativa, che sia un incubo dai contorni sfocati, come la stanza che d’un tratto inizia a mulinargli tutt’intorno, e il pavimento con lui.

- Che faccia di merda… Che irrecuperabile faccia di merda, Alberti! Vuoi sapere cosa mi hai fatto, dato che al momento hai un vuoto di memoria? Chi è andato in giro a spifferare i fatti miei nella sua rilettura personale? Chi mi ha dato della puttana di fronte a mezzo istituto? Chi mi ha fatto terra bruciata intorno per tutto questo tempo? Penserei di essere impazzito, se non ti avessi sentito io stesso.

- Non sono stato io a rovinarti, Andrea. Ti sei scavato la fossa da solo… Che diavolo vuoi, ora? Se proprio ci tieni a cercare un colpevole, beh… Guarda Derossi: non credo ci sia altra persona qua dentro, più di lui, che volesse vederti strisciare. Poveretto, un po’ riesco anche a compatirlo, sai? Gli sottrai le attenzioni del suo adorato Neri, gli rubi il posto allo stage. Ti sei sempre sentito un gradino più in alto, lo umiliavi… Hai mai pensato che ti abbia avvicinato quanto basta per pugnalarti?

- Basta, Alberti! – per un attimo, Andrea non riesce quasi a riconoscere come suo l’urlo che catapulta nella sua direzione gli sguardi di tutti gli avventori – Non provarci nemmeno, a pararti il culo tirando in ballo qualcun altro! E… Derossi, non devi neanche nominarlo, capito?

Alberti si osserva intorno, nervoso. Sembra stanco di discutere: vorrebbe piegarlo, oppure, a esito negativo, sospendere la questione alla vecchia maniera, con un’uscita dignitosa e un po’ di sale sulla ferita dell’avversario.

- E tu smettila di gridare come se ti abbiano appena pestato la coda… Ci stanno guardando tutti.

- Non me ne frega proprio un accidente, se guardano, se ascoltano, se se ne vanno tutti all’inferno. E tu parli come mia zia. Non fare l’ipocrita del cazzo, non convinci nessuno.

E poi, improvvisa quanto inattesa, la risatina isterica che da tempo gli formicolava in gola, sembra annegare la rabbia in una voragine che oscilla davanti ai suoi occhi; una danza sfrenata e senza senso in cui nulla, all’improvviso, sembra meritare il beneficio della sua attenzione. Nulla che valga la pena di restare seri e rispondere punto per punto a ogni singola provocazione.

- Vorrei sapere che diavolo ci fai all’Accademia d’Arte Drammatica, Alberti: sei così poco convincente nella parte del povero afflitto…

- Andrea, da’ retta a me: pensaci un po’, a ciò che ti ho detto.

- Non sono abituato a farmi le seghe mentali sulla base del nulla cosmico e di quattro puttanate. L’unica cosa che non mi è chiara, è come faccia tu a startene lì indifferente mentre mi fai le scarpe. E sulla tua finta compassione, se permetti, ci piscio sopra.

- Andrea, non sei lucido. Non dire cose di cui puoi pentirti.

- L’unica cosa di cui mi pento è di stare ancora qui a dati ascolto.

- Andre, che succede? – una voce cristallina.

Mancava Isa, e ora il quadro può dirsi completo. La tessera numero due del complicato mosaico. L’altra doppiogiochista sopraffina.

- Non sono affari tuoi, Isa – le sibila con freddezza.

Lei si ritira indietro con un soffio istintivo, come una gatta a cui sia stato sottratto il boccone prelibato.

 

Vipera. Falsa. Giuda. Anche tu in combutta con lui, è così? Non fare la finta ingenua, Isa, perché ti conosco bene: sei sempre stata brava a lanciarti in evoluzioni spericolate sullo scacchiere, e non ti va giù che il sottoscritto non sia più il tuo tirapiedi di fiducia. O magari, che preferisca la compagnia di Loria alla tua: sei sempre stata sfacciatamente territoriale.

 

- Ale, cos’è successo?

- Stavo cercando di dare una botta d’ossigeno al suo cervello. Senza risultati.

- Posso dirlo io cosa succede, ragazzi?

La quarta voce ben inserita nel coro. Non ha voglia di spostare lo sguardo alla sua destra, Andrea, per scoprire a chi diavolo appartenga la voce strisciante che sta per sganciare l’ennesimo ordigno – simile ai precedenti. Non ne ha bisogno, perché grazie al cielo non si è rimbecillito al punto da non riconoscere il grugnito dell’ennesimo animale gregario che vuole aggiungersi al simpatico convivio per dire la sua.

- Neri ha detto che non se lo scopa più, e il ragazzo è nervoso. Lascialo cuocere un po’ nel suo brodo, Alessandro. Lasciagli smaltire la sindrome premestruale in santa pace.

Un istante e tutto si tinge di rosso. Alberti e Isa sarebbero bersagli ovvi. Ma quel fottuto Federico Riccardi… o Francesco o come accidenti si chiama. Ci avrà parlato tre volte in croce, quando erano ancora un’allegra combriccola di bravi ragazzi dalla mente spiccia.

Nicoletti di qui, Nicoletti di là. Ora che Nicoletti è caduto nel fango, è tanto figo fare a gara a chi la mette giù più pesante e destreggiarsi fra le macerie del dio caduto, affinando la mira su un bersaglio divenuto facile.

Altrettanto proverbiale l’insulto che vola leggero, disinvolto.

Patetico. È patetico e odiosamente scontato.

Lui, invece, è sorprendentemente calmo. Calmissimo, come una corda che abbia appena smesso di oscillare.

- Ripeti quello che hai detto.

- Che cosa, Nicoletti? Che sei spudoratamente frocio e scopavi con Neri? Perché non posso dirlo? È appurato, l’hanno capito tutti ormai.

Andrea sorride, condiscendente, la voce che emerge flautata da labbra dolcemente distese.

- Già, hai proprio indovinato: io sono frocio, non vedo la novità. Non mi convince il resto, però. Puoi avvicinarti e spiegarmelo meglio, perché, vedi, non ho sentito bene. Oltre che frocio sono anche un po’ sordo, pensa un po’ tu…

Attento, Andrea. Non tradirti. Non lasciar impennare la voce su note così odiosamente isteriche. Calma e sangue freddo.

- Che cazzo…?

Un grugnito frustrato, di chi si aspetta sangue e lacrime davanti all’affondo impietoso.

- Ecco, bravo, Riccardi. Ora la distanza è perfetta.

Non sa dire che cosa sia, per un istante, il fuoco liquido che gli infuria nelle vene, sollevandogli pericolosamente il braccio in direzione di quel dannato Riccardi comediavolosichiama. È una parentesi fulminea ritagliata in un frangente qualsiasi, come la forza ancestrale che gli fa tirare indietro il pugno e sfracellarlo con tutta la sua forza su quella faccia odiosa. Come una corda tenuta tesa troppo a lungo, un’onda anomala che scaraventa il suo aggressore contro il bancone.

- Andate tutti affanculo!

E ora che la lava ha smesso di urlargli nel cervello, è così sereno da potersi regalare il lusso di una ritirata strategica, ignorando il tremolio di ogni muscolo del suo corpo. Persino il sollievo di un pianto liberatorio, se quella dannata stanza non continuasse a oscillargli davanti agli occhi, a confondersi con i suoi passi.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11 - Cambio di prospettiva ***



 

Capitolo 11

Cambio di prospettiva

 

 

Qualcosa l’ha trascinato fuori da quel locale, come una forza cui non ha osato opporre resistenza. Forse un moto della sua stessa volontà annacquato nell’alcool, uno spiraglio tra le mille luminescenze confuse che ottundono i suoi passi. Qualche metro ancora, e poi – forse – sarà al sicuro, fuori da quell’incubo dai contorni strappati e dalle note orribilmente stonate.

Sospira, Andrea. Non ha voglia di tornare di là e rischiare di chiudere la sua serata a suon di botte. L’ultimo dei suoi pensieri, rovinare la delicata composizione dei suoi lineamenti grazie a una scazzottata e senza una ferrea motivazione che regga.

E in fondo, è tutto ciò che gli appartiene davvero: il bel faccino di porcellana. Che tempo addietro aveva irretito Neri. E Gabriele, forse – ma quelli sono capitoli destinati a un finale prematuro e non troppo lieto.

Perché oltre questo c’è solo un guscio vuoto e un paio d’iridi venefiche che, tolto il fallace ricamo d’organza tutt’intorno, non legano nulla a sé.

C’è qualcosa degno di fiducia, di rispetto, Andrea? Piuttosto, attento al modo in cui muovi le anche quando ti agiti tra i tuoi simili. Attento a come fai oscillare i capelli sulle spalle. Perché è tutto ciò che ancora può fare di te qualcosa, imprimere la tua impronta, decretare se qualcuno, di fatto, deciderà di infilarsi nel tuo letto, prendersi tutto e non lasciarti nulla. O di sputarti in faccia.

Solo voci confuse, un’ombra. La superficie fredda della panchina. E perché le stelle continuano a spegnersi davanti ai tuoi occhi?

È come il vibrare di una coltellata. Dritta al cuore. Poi un’altra.

Nicoletti, sei pazzo! Da manicomio. Strano che nessuno ti abbia restituito i pugni che meriti. Oh, ma che importa? Hai sollevato il problema e non puoi che andarne fiero. Se la bottega chiude, potrai sempre vantarti di averci messo le mani quanto basta. Fiutando la sporcizia e vendendola al miglior offerente. Complimenti. Tanto sei nella merda anche tu.

 

Vaffanculo, Alberti. Vaffanculo e restaci. Rimangiati i tuoi insulti, i tuoi falsi consigli, i tentativi di addossarmi le colpe di tutto ciò che di buono abbia mai fatto da quando sono qui – l’unica volta in cui non ho pensato unicamente a me stesso. Non solo all’indignazione che mi dava la nausea.

Rimangiateli, perché io non so che farmene.

 

Una miriade di possibilità, di risposte che gli turbinano nella mente senza trovare la vibrazione di corde vocali in grado di donarle concretezza. Solleva il viso verso il cielo, Andrea, gli occhi socchiusi e il respiro corto. Non vede bene oltre la coltre caliginosa che gli vela le palpebre.

L’ha seguito fino alla piccola piazza antistante, Alberti, tra panche gelide di umidità notturna e macchie scure di vegetazione contro il cielo viola carico. Sopra le loro teste, l’alone delle luci della città che si spande nella nebbia. E loro non ancora paghi di scenate e coltelli sguainati.

A completare il tutto, l’ultima cosa che si sarebbe aspettato di intercettare al di là del proprio naso, mentre ancora il delirio della rabbia oltre i pori della pelle.

Una voce, innanzitutto.

Potrebbe darle un colore. Azzurra, forse. Come un fondale profondo, una luce fredda. Miele, balsamo sulle ferite. Un’allucinazione. L’imprevedibile e l’imprevisto.

Respira, Andrea.

- Alberti, lascialo in pace. Lo stai esasperando.

- Tu non impicciarti, Derossi! Pensa a non ritrovarti un altro occhio nero.

Quest’altra voce, invece, è rossa: rosso collera. Ringhia, prima di stemperarsi in una risata argento, tagliente.

- E stai attento, la prossima volta… – prosegue – Quando in corridoio passano la cera: potresti cadere e farti male…

Andrea apre gli occhi: c’è Gabriele ora è al suo fianco, e tutto sembra andare magicamente a posto. Ogni tassello assume forme concrete, come il formicolio di sollievo in fondo alla gola, tanto che per un attimo vorrebbe persino reinserirsi in un balzo nello scontro in campo aperto. Può solo sussurrare.

- Ecco, Alberti. Ammetti che l’hai colpito di proposito. Che faresti di tutto per dimostrare l’indimostrabile e non hai scrupoli con chi credi ti stia remando contro. O ti piace l’idea di seminare il terrore? – ride.

Un istante per posare lo sguardo su Gabriele. Piantato lì al suo fianco, le braccia incrociate sul petto, il volto scettico. Che diavolo ci fa? Come diavolo ha fatto?

Un istante per osservare Alberti, che solleva gli occhi al cielo con l’aria di chi ha la verità in tasca e tenta di rifilarla a un prezzo stracciato a due completi imbecilli.

- Nicoletti si è fumato il cervello. Insieme alla roba che gli passi tu, Derossi… Ha le pupille dilatate.

- Levati dalle palle, Alberti. Lascialo in pace.

Alberti sorride, mellifluo. Due contro uno sarebbe anche sleale. Non per la legge della giungla.

- Sei il suo avvocato, Gabri? Il suo padre confessore? Io credo che, tutto sommato, questo siparietto ti piaccia: vuoi vedere il sangue. Pugnali Andrea e fingi di stare dalla sua parte per soffiare sulle braci al momento giusto. Fai proprio schifo.

Andrea trattiene il respiro. Conosce bene l’inflessione beffarda incollata sulle labbra di Alberti. Una patina di disprezzo, di repulsione, come se a lui soltanto fosse concesso di dare la sua chiave di lettura.

- Pensa a quello che fai tu, Alberti. Non penso che Andrea abbia tanta voglia di discutere con te, e lo capisco. Vai a snocciolare le tue perle a qualcuno più interessato.

Alberti indietreggia, la lingua affilata che s’inceppa sul più bello. Incassa il colpo senza soccombere, un sorriso che gli stira i muscoli della faccia.

- Andrea… – un sussurro, piano – Sai come la penso. Non mi considero tuo amico, non ci tengo ad esserlo e non condivido ciò che hai fatto. Anzi, lo trovo vomitevole e patetico. Però… Derossi, fossi in te, è l’ultima persona di cui andrei a fidarmi. È felice che tu sia nella merda, forse ha fatto pure la sua parte, chissà, e aspetta la prossima occasione… Sapeva anche lui, di te e Neri, prima di quella pagliacciata per lo stage. Ti sembra una coincidenza?

- Smettila di arrampicarti, Alberti – gli sibila Gabriele, a bruciapelo.

Alessandro ha uno scatto collerico. Tanto che, per un istante, Andrea teme sia sul punto di colpire Gabriele, che se ne sta lì con i suoi occhi gelidi senza muovere un muscolo.

- Sempre tu, Derossi! È come avere un grillo parlante dentro la testa! Perché non sparisci? Il tuo parere conta meno di zero.

- Stavi parlando di me, Alberti.

- Oh, come non detto, allora. Perché di te non c’è mai niente da dire. Hai un curriculum di rispetto, tu. Sei la trasparenza fatta a persona, e mi meraviglio di come non ti abbiano ancora fatto santo. Sarà che sei così viscido, così triste, pateticamente insignificante, che il tuo unico modo per dare un senso alla tua breve permanenza, è beccare le briciole alla prima occasione? Approfittare delle defaillance di qualcun altro come un cancro incollato alle ossa?

Andrea scuote il capo, confuso. Un alienante carosello d’insulti, di accuse, parole biascicate a metà e strali al veleno. È una prova di forza ad armi sbilanciate.

Sospira, alla ricerca di un filo da afferrare con sapienza per srotolare l’intera trama e osservarla senza il filtro di un impianto di menzogne ricamato intorno.

Il primo impulso è mandare affanculo entrambi, con quelle voci di piombo fuso che gli perforano le tempie doloranti, perché tutto ciò che vorrebbe è sprofondare nel suo letto e chiudere gli occhi. Se solo gli fosse utile ad attutire il senso di vertigine che fa roteare ogni cosa intorno a lui.

Poi pensa a Gabriele, umiliato ancora una volta a causa sua, bersaglio prediletto di frecciate al vetriolo. È ciò che pensano di lui, che hanno sempre amato dire per affossare la sua autostima, per dipingere di lui un quadro contraffatto. Un’ipnosi costante e silenziosa per destabilizzarlo, renderlo inoffensivo, modellare la sua presenza in una forma innocua. Perché Gabriele ha sempre avuto l’occhio lungo e la mente troppo sottile, nonostante tutto.

Pensa ad Alessandro Alberti che lo osservava di sottecchi, un ghigno carico di sarcasmo stampato in faccia, e gli appiccicava il francobollo giusto al momento giusto. E a Isa, che di cucirsi la bocca non ha mai voluto saperne.

- Finiscila, Alberti! – sbotta alla fine –Che diavolo ti ha fatto? Perché non la finisci di tormentarlo?

- Uh? Nulla d’importante. È solo che di solito rispondo, quando mi attaccano. E ho il dubbio che il signorino si sia immedesimato a meraviglia in un ruolo fatto apposta per lui: il rompicazzo. Se ne stava zitto, lui: aspettava il momento per colpire. Ma adesso parla davvero troppo.

- No, Alberti – calma piatta, solo l’alcool a bruciargli nelle vene, a montargli fino al cervello – Cosa ti ha fatto prima.

- Non bluffare, Andrea. Capisco che… nello stato pietoso in cui ti trovi, accetteresti l’amicizia di Giuda… Ma una volta la pensavi come me. E che Derossi è uno schifoso intrallazzatore, è cristallino.

- Intrallazzatore. Okay, Alberti, ci siamo capiti – per un attimo, Andrea vuole giocare d’astuzia, portare alla luce tutti i fili scoperti – Capisco il tuo… complesso d’inferiorità. Cosa fa un perdente, quando ha a che fare con qualcuno nettamente superiore a lui? Lo infanga, è chiaro. Ma io ho una cattiva notizia per te: se Gabriele è più bravo di te, più intelligente di te, più… – ammiccamento strategico – più bello di te, beh, tu non puoi farci niente.

Un’occhiataccia di Gabriele, modello “noi due facciamo i conti più tardi”, lo zittisce appena in tempo da non scivolare nel ridicolo.

Andrea si limita a sorridere, sornione.

- Ragazzi… – Alberti soppesa le parole con calma; solleva gli occhi al cielo – Okay, mi arrendo. I tuoi argomenti, Andrea, sono degni di una bambina di prima elementare, e mi pare che voi due vi completiate bene. Sì, proprio una bella squadra: se io sono un raccomandato di merda, lui cosa fa per splendere? Anche lui va a letto con qualcuno? Magari voleva essere al tuo posto, Andrea… Ha sempre avuto un debole per il buon Neri, ricordo bene. Capisco ci sia rimasto male, quando ha scoperto che le sue preferenze erano per te, o sbaglio?

Andrea deglutisce, a fatica: Alberti vorrebbe giocare pesante. Tessere una tela di bugie e vedere se riuscirà a imbrogliare i due insetti che gli svolazzano intorno.

E Gabriele è così pallido che Andrea per un istante teme sia sull’orlo di una sincope: è una statua di sale indecisa se allontanarsi da quel sentiero alla velocità della luce, oppure stringere le dita intorno al collo del suo assalitore. E le parole di Alberti sono gli spilli arroventati con tormentarli.

- Beh… scusatemi tanto se ho toccato un tasto dolente. Volevo solo dire che siete un’accoppiata perfetta. Ora, da bravi, fate pace e tagliatevi le vene insieme.

- Alessandro, basta! – è lui, ancora una volta, a gridargli la sua insofferenza – Ti dispiace per me: è così, stando a ciò che mi dicevi fino a qualche secondo fa. Pensavi che saremmo tornati amici, che avrei creduto alle tue cazzate.

- Non infilare il coltello nella piaga, Andrea. La mia intenzione di far pace è inversamente proporzionale alla tua di ragionare.

- Perfetto. Ora mi provochi. Metti in mezzo Gabriele, che non ti ha fatto nulla di male, e ti lamenti se poi la mia risposta sarà la più prevedibile fra tutte – Andrea sbatte le ciglia, la voce pacata e un sorriso accattivante che un po’ risente della tensione.

- È la verità: non sono venuto con l’intenzione di offenderti, anche perché mi sembra che ci ha già pensato qualcun altro. Ma tu e il tuo nuovo amico mi state dando sui nervi. Qual era la tua risposta?

- Beh, è facile immaginarla. Un bel vaffanculo ti dice qualcosa? Dopo le tue porcherie è il minimo.

- Scherzavo, Andrea.

- Anch’io scherzavo, quando ho finto di volerti ascoltare: ci avrei messo la mano sul fuoco, che avresti cercato di rintronarmi a suon di cazzate e che, a risposta negativa, saresti passato agli insulti e alle frecciatine idiote. In realtà non ho mai avuto alcuna intenzione di crederti. Quindi, mandarti affanculo è la conclusione più azzeccata.

- Come sei acido. E stronzo.

- Beh, il “nuovo Andrea” è anche questo, che ti piaccia o no. Si chiama “prendere o lasciare”.

- Sei sempre stato un fottuto idiota.

- Però ti piacevo, quando c’era da scagliarsi contro altri bersagli. Ti piace fare causa comune e poi disfarti degli altri appena diventano inutili o si rifiutano di fare come dici tu. O forse… ti piacevo io, punto – ridacchia.

- Sei un essere disgustoso.

Andrea per un attimo pensa che piegarsi in avanti come un insetto pungolato sulla pancia non sia una buona idea per contrastare l’accesso di risa isteriche. E forse, in quel momento, Gabriele potrebbe dubitare seriamente del suo stato mentale – se non l’ha ancora fatto.

Fa per asciugarsi le lacrime, e la sensazione di stare in una camera d’ovatta, con l’alcool che gli sale fino al cervello, inizia ad attenuarsi.

- Dio, Alessandro, come sei… noioso. E prevedibile. Hai un senso dell’umorismo da prendere e buttare nella fogna. Non dicevo sul serio, okay? Lo so che non ti piaccio. Davvero un peccato: ti avrei visto bene sotto di me…

Sorride, Alberti. Condiscendente come di fronte alle provocazioni di un bambino.

- Vai a dormire, Andrea. Non sei semplicemente ubriaco: sei fradicio. E dopo queste uscite, non lamentarti se qualcuno poi ti dà della puttana.

- Non c’è nulla da travisare, Alberti: è cristallino, alla portata di tutti. Ti servono prove per incriminarmi? Va’ tranquillo, ché con te non ci avrei mai provato comunque: la pelle squamosa dei serpenti mi dà allergia.

- Il problema è che tu non sei neanche una puttana. Sei semplicemente stupido, ed è peggio.

 

Serra gli occhi, Andrea. Alberti ha appena abbandonato quel campo di battaglia improvvisato, ritagliato sotto il chiarore di una notte da dimenticare.

Sospira. Non ha idea di cosa farà ora né del motivo per cui Gabriele si sia ritrovato là con quel tempismo sovrumano, al suo fianco.

Forse ha assistito a tutta la scena madre, annegato nel marasma generale. E lui non si è accorto della sua presenza di fantasma vigile, nella nebbia di piombo della sua ebbrezza. È un dubbio che gli vortica nella testa.

- È… è vero, Gabri? Ciò che dice Alberti? – un sussurro pallido nella notte.

Impiega un po’ troppo per sciorinare una risposta – o forse è la sua testa a dilatare i tempi. Gabriele si è appena acceso una sigaretta e tira una lenta boccata, meditabondo, il profilo ritagliato contro la luce di un lampione.

- Ad Alberti piace confondere le acque. Sì, lo sapevo, naturalmente. Ricordi?

Sapeva, dannazione. Di Neri. Non fa una piega.

- Credevo… l’avessi sparata sul momento. Per ferirmi. Perché eri incazzato.

Gabriele deglutisce. Sembra a disagio, o forse comincia a irritarlo la sua presenza. Scuote il capo, un’ombra di rassegnazione.

- Cavava gli occhi a un cieco, Andrea. Chiunque avrebbe avuto almeno il dubbio. Solo che tu eri troppo… in vista. Troppo protetto, troppo popolare, perché qualcuno potesse insinuare qualcosa o attaccarti direttamente. E sputtanare un insegnante senza le prove, rischiando che la notizia facesse il giro, non era una buona idea.

- Adesso, in compenso, crocifiggere Nicoletti è diventato il passatempo à la page dei nostri colleghi. Uno schifo. Sono caduto. Ti piace questo?

Gabriele trasale.

- Come puoi pensare che…?

- Che vedere il tuo ex nemico alla berlina, tutto sommato, ti faccia uno strano effetto? Puoi dirlo, eh – Andrea prorompe in un ghigno sarcastico, masochisticamente compiaciuto.

- Sarà che ci sono passato anch’io? Sarà che sono meno stronzo di quanto pensi, Andrea?

- Onestamente, mi sembra eccessivo che da oggi a domani butti a mare tutti i malintesi e ti metta a farmi da angelo custode… Dopo ciò che mi hai detto fino a ieri. Che tutto sommato ti faccio schifo. Solo stamattina mi guardavi come se avessi visto Satana.

Gabriele stira le labbra in un sorriso. Un sogghigno.

- Non si tratta di te, Andrea. È che non ho mai potuto soffrire Alberti e il suo protagonismo. La sua volontà di sistemare le cose con un colpo di spugna e prendersi la ragione a tutti i costi.

- Grazie per la considerazione.

- Ammetto che tirare un pugno a Riccardi è il sogno proibito di molti, che però non hanno il coraggio di ammetterlo. O mandare affanculo Alberti.

- Li odi così tanto, Gabriele?

- Posso rigirarti la domanda, Andrea? Erano amici tuoi, era la tua allegra combriccola. Io ero un semplice conoscente. Un punching-ball personalizzato.

Andrea scrolla le spalle. Sospira, infastidito.

- Si sono comportati come delle merdacce. Perché dovrei sforzarmi di cercare il lato buono di questa storia?

Gabriele si passa una mano fra i capelli, rassegnato.

- È il tuo atteggiamento che non capisco, Andrea. Dio, mi sembra di parlare con due persone diverse!

- Capisco: avevi un’idea precisa di com’ero fatto. Non ti sei mai sforzato di vedermi diverso da un vigliacchetto sbruffone. So come la pensavi, eh, non è un mistero né un reato.

- Vuoi farmi sentire in colpa?

Andrea trasale, stringendosi nella giacca troppo leggera. La voce di Gabriele è leggermente alterata.

- Pensa all’impressione che davi tu, Andrea, con il tuo comportamento – prosegue – E io non sono certo un mago, per leggerti nella testa.

Gli sfiora la tempia con le dita leggere – un istante, o forse è soltanto la sua immaginazione. Ha le mani fredde.

Sta’ calmo, Andrea: non è questo il momento di impazzire: il peggio è già scongiurato.

- Ero solo… confuso – la voce è uno squittio isterico: ci prova, a renderla più ferma, ma né il suo stato né la vicinanza di Gabriele aiutano – Non avevo capito un accidente, Gabri. Di te… di nulla. Brancolavo nel buio.

Si morde il labbro, in attesa. Suona pateticamente affettato, come un carillon mezzo scarico. Eppure è tutto ciò che la mente riesce a partorire a sua discolpa. Per tentare di veicolare ciò che pensa in un suono più o meno articolato.

- Dio, sei terribile! – Gabriele ride.

- Sono solo ubriaco.

- Allora dovevi pensarci prima. Anzi, mo’ che ci penso, forse è meglio così: se fossi stato un po’ più lucido, avresti potuto risparmiarmi Riccardi spedito dall’altra parte della stanza con un diretto d’alta precisione. E credimi, la scena da sola vale il prezzo della vodka che ti sei trangugiato.

- Sei crudele.

- Sono realistico – Gabriele si passa una mano sugli occhi, soffocando la percezione di una risata piena e ben distesa su quel volto sempre tirato, indecifrabile – Mi sono sentito colpito per categoria.

- Già… – sussurra Andrea, per poi cercare di obbligarsi invano al silenzio – Se le cose stanno così, lieto di averti divertito. Perché non mi baci, allora?

- Stai scherzando? – per poco Gabriele non si strozza con il fumo della sigaretta.

Può sembrare una cosa astrusa, ma lui può giurare che gli è successo. La prima volta che ha provato a fumare.

- No, sono serissimo.

- Andrea, non ho mai detto che mi piaci… in tal senso.

- E in che senso, allora?

- Non mi sono mai posto il problema, sinceramente.

Non ti piaccio…?

- Però mi hai baciato. Non ti ho mica costretto a farlo…

Gabriele distoglie lo sguardo. È il tasto dolente.

- Di nuovo con questa storia, Andrea? Se proprio vuoi saperlo… – una scintilla sadica in fondo alle iridi, sibillina – È stato come baciare una donna.

Andrea che per poco non rotola giù dalla panchina.

- E… questo cosa significa, scusa? Voglio sperare che le donne che hai baciato non avessero la barba!

- No, non ce l’avevano. Appunto.

- Mi accusi di poca virilità.

- Okay, stavo scherzando. Voglio dire, però… che stai superando il limite. Dovresti essere furbo e chiedermelo almeno quando non sai di alcool.

- So di alcool?!

- Fa’ un po’ tu…

Andrea china il capo, sospirando.

È che gli manca la presenza di Loria. È questo. Una presenza che in quel momento si riduce al velo umido di tristezza impigliato alle ciglia. Deve aver compreso l’errore di essersi avvicinata a lui, al fuoco che brucia gli sterpi. Pentita di aver corso il rischio di fidarsi di lui.

 

Aveva detto che non le importava del mio passato, di ciò che si diceva in giro. Però c’è sempre una patina di avversione, di sfiducia, mentre mi osserva. Di sospetto. Come se abbia sempre davanti agli occhi l’immagine di un Andrea incapace di camminare senza l’intelletto comune a muovere i fili, tutto impettito e altero nelle sue vesti, tragicamente fuori dalla portata di chi non parla la sua stessa lingua e non gioca a quelle regole.

Fuori dalla portata di una persona che mi ha scosso fino a farmi rimettere tutto in discussione.

 

Barcolla un po’, mentre si avvia verso l’edificio centrale – ed è un miracolo come riesca ad aggrapparsi al braccio di Gabriele prima di rovinare a terra. Qualunque pensiero sciocco, qualunque inganno, pur di eludere il senso di tristezza inchiodato alle tempie.

 

Voglio lei. Che mi rassicuri che non è successo niente, che niente si è spezzato e che il mio posto è con lei e non con loro.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 12 - Il lupo e la faina ***




 

Capitolo 12

Il lupo e la faina

 

 

Se Gabriele fosse un bastardo, penseresti che ci goda almeno un po’, a vederti confuso, i sensi attutiti sotto strati di vapore, ogni spiraglio di lucidità annacquato nel pesante stato d’ebbrezza. Potrebbe approfittarne, se lo volesse. E affondare il coltello.

Forse non hai neanche bevuto così tanto, non abbastanza perché una parte di te possa prendere il sopravvento su tutto il resto, guidandoti in iniziative moleste che solo una mente non proprio lucida potrebbero giustificare – o con conseguenze di cui vergognarti per il resto della vita.

Chissà se in un’altra occasione avrebbe acconsentito di buon grado a traghettarti fino in camera aggrappato al suo braccio come uno strano rampicante. E tu non hai avuto altra scelta che lasciarti trascinare via, in alternativa a una notte all’addiaccio in un giardinetto deserto, raggomitolato su una panchina in attesa dell’alba.

Uno come lui non vorrà sulla coscienza un morto assiderato: se la farebbe sotto per molto meno, commenterebbe un Alessandro Alberti nel pieno delle sue energie, le corde vocali poco connesse con il cervello per una fastidiosa interferenza con il sensore del veleno. È solo un istante, un’eco soffusa che ti rimbomba nella testa come un’ossessione.

Anche tu, Andrea, avresti parlato così?

È troppo tardi per amalgamare ipotesi fantasiose, sia pure con l’unico supporto del pensiero.

 

Perché hanno tessuto intorno a te un’immagine così sbagliata, Gabriele? Perché ti hanno dipinto come un vigliacco, una cosa di poco conto? Perché mi hanno tenuto a religiosa distanza da te, sigillato ermeticamente di fronte ad ogni eterogenea commistione?

Dovevo essere con loro, come loro. Di loro. Che domande!

 

Invece no: Derossi non è un vigliacco. È molte cose, ma non è un vigliacco: ha sempre giocato dalla parte sbagliata e non ha avuto remore a starci. Non mi ha trattato come il principino del cazzo quando ero amato, benvoluto e pieno di amici; non mi sputa fango addosso ora che sono il coglione per eccellenza a cui tutti addossano le colpe. Il “frocio” da canzonare a proprio piacere. Attaccabile, ora che la corazza è venuta meno.

 

Che cosa succede, Andrea? Fa così strano? La tua ipersensibilità cutanea è uscita a pezzi da uno scontro a proiettili verbali acuminati? Non te l’aspettavi: è così. Eri Andrea Nicoletti, dannazione! Il semidio. Bello, affascinante, abituato ad avere la situazione in pugno e a dettare legge. Guardato con benevolenza e rispetto nel tuo clan esclusivo.

Hai dimostrato che anche la divinità può essere intaccata, se tutto l’Olimpo si ammutina.

Gabriele è per te una figura atemporale, di difficile catalogazione – e la variabile impazzita andava tenuta sotto controllo, resa inoffensiva. Lui ci ha fatto il callo, del resto, a parteggiare per lo sconfitto: è sempre stato lì, nascosto, in attesa del momento in cui affrontare la sua battaglia – colpito ogni tanto da qualche proiettile vagante.

E almeno lui non è andato in giro a fare il deficiente, dipingendosi di bianco, di nero e di azzurro a pallini verdi per mimetizzarsi meglio; almeno lui non ha finto di abboccare alle esche di ipotetiche spasimanti, con il solo scopo di mostrarsi all’altezza della situazione, coglione di mondo pluricorteggiato – tranne una volta, ma chissà se può fare testo…

Dillo, Andrea: l’avresti ammesso, allora, che pensavi a Neri o al limite a Derossi, quando un paio di labbra sconosciute calavano giocose su di te, decise a regalarti il pompino più indimenticabile della tua vita?

No: tenere il piede in due scarpe, non rinunciare a nulla, è sempre stata la tua specialità. Che poi, in verità, non sia mai stato attratto da loro – le “amiche” che Isa continuava a presentarti tra occhiatine sapienti e il sorrisetto di chi la sa lunga –, è un semplice dettaglio. Non avresti rinunciato alla tua messinscena per un rigurgito d’amor proprio.

Non ti è mai importato molto, in verità. Nulla di particolarmente sentito, emotivo, trascendente: solo un po’ di alcool nelle vene, quanto basta a sciogliere le inibizioni, e il tuo corpo a reagire naturalmente alle sollecitazioni cui era sottoposto. Punto.

Chissà se Gabriele ha mai saputo delle vostre seratine del cazzo, quando ti lasciavi sedurre dall’amichetta di turno, strizzando le palpebre al momento dell’orgasmo e sognando per un attimo che a tenerti tra le braccia ci fosse qualcuno di cui ancora non avevi imparato a tracciare i contorni. Era un pensiero improvviso che ti balenava nella mente come un lampo, come una scudisciata in un punto particolarmente sensibile fra le scapole, la pelle sottile che quasi si tende a scoprire le ossa.

A quel punto, di solito, ti svegliavi dal tuo sonno agitato, tornavi a raggomitolarti sotto le lenzuola e scivolavi in un torpore senza sogni.

 

Non è la paraculata imbastita sul momento: non fingo più, darei tutto ciò che possiedo per avere con me il mio Derossi che mi scorta fino alla mia residenza estiva. O la Loria, sempre che possa farle ancora piacere dividere qualche piccolo frammento di vita con l’equivalente umano del Caos primordiale.

 

- Andre, cerca di stare dritto, per l’amor del cielo! – solleva gli occhi al cielo, Gabriele, il volto spazientito.

Una tenerezza indicibile, con quel faccino così duramente provato, e in cima i suoi occhi scuri. Deglutisci a fatica, pallido tentativo di amalgamare una risposta.

- Io sto dritto, Gabri. Sei tu che continui a tirarmi… – gli sussurri.

Un attimo prima di mettere il piede in fallo, scivolare sul tallone e ritrovarti con il culo per terra.

- Maledizione…!

L’impatto strappa via la tua attenzione dal curioso formicolio alla bocca dello stomaco. E poi, la mano di Gabriele che si tende nella tua direzione, fragile appiglio per ritirarti su. Scuoti il capo: mai approfittare di un eccesso di generosità.

- Lascia perdere, Gabriele: io sto qui – biascichi.

- Stai scherzando?! Vuoi passarti la notte sul pianerottolo?

- Perché? – spalanchi gli occhi.

E ti chiedi per un istante se mai Gabriele riuscirà ad amare almeno un po’ ciò che vede, le tue ciglia lunghe, un’ombra interrogativa sulle tue guance. E le tue assurde arrampicate sugli specchi.

- Basta scavalcarmi, no? – prosegui.

- Smettila di dire cazzate e seguimi!

- Gabriii… – un cupo piagnucolio che raschia in fondo alla gola, il volto atteggiato in un falso broncetto – Senti, se non ti ho ancora mandato affanculo, è perché da solo non mi reggo in piedi. Vorrei vedere te, fare i salti di gioia all’idea di riprendere la maratona dopo esserti frantumato l’osso sacro su uno scalino di merda…

Lo osservi sorridere con garbata condiscendenza, prima di afferrarti per le braccia e attirarti dolcemente a sé. Un sospiro.

- Andre, non farla tragica. O vuoi il bacino sulla bua? – ridacchia, un guizzo di provvidenziale strafottenza a mascherare ogni debolezza nei tuoi riguardi.

Non dovevi dirlo così, ingenuo.

- Ecco… – almeno la buona grazia di arrossire, Andrea, mentre gli soffi nelle orecchie l’ultima astrusità dettata da quello strano formicolio nel cervello – Considerato il punto che mi fa male, la tua idea non è tanto malvagia…

Imprecheresti per lo spostamento d’aria improvviso che ti regala l’ennesima fitta alla testa, con quello scapaccione affibbiato senza preavviso tra capo e collo – se Gabriele non avesse dannatamente ragione.

- Zitto e cammina!

- Ehi, fai piano! Non mi sento bene, cazzo!

- Fatti tuoi, Andrea. Non te l’ha ordinato nessuno, di ubriacarti come un imbecille.

- Dio, che stress…! – scuoti la testa, rassegnato; e poi, un sorriso vagamente intimidito – Dovresti ringraziarmi per la performance, invece.

- Per aver bevuto?!

- Per aver chiarito alcune cose con delle persone che neanche a te stanno tanto simpatiche…

- Già: una gran furbata, farti venti nemici in blocco.

- Ecco. Poco fa sembravi d’accordo. Siccome ho parlato, cerchi il pelo nell’uovo per contrariarmi da capo. Peccato che quelli erano sassolini che desideravo levarmi dalle scarpe da tempo. E poi… l’ho fatto anche per te. Non sopporto come ti trattano. Quell’aria di superiorità che mi fa incazzare… Consideralo un risarcimento.

- Non voglio un giustiziere che infila una cazzata dietro l’altra, Andrea!

- Secondo te è una cazzata? – gli inchiodi lo sguardo addosso, sfidando il bruciore delle lenti a contatto incollate agli occhi come spine – Non era divertente?

- Beh… Per quello che gli hai sbattuto in faccia, penso che abbia ragione. Se guardo al resto… Ti stai complicando l’esistenza. Hai mandato al diavolo senza pensarci due volte persone a cui eri molto legato.

- Oh, buono a sapersi. Li avrei addosso lo stesso, con o senza piazzate. Li conosco: mi odiano perché secondo loro ho fatto il voltafaccia. Ero al centro del mirino da tempo: cosa cambia? Chiarisco com’è che la penso e arrivederci a tutti, no?

- La pensi molto male, dal modo in cui ti guardavano. Se avessero potuto, ti avrebbero fulminato sul posto. Cosa pensi veramente?

- Che ho fatto un mucchio di cazzate. Quelle che ho fatto prima, insieme a loro, e credo che a rimangiarsi tutto non ci sia niente di male.

- … a parte il rischio di peggiorare le cose. Attento, Andrea.

- Pessimista.

Gabriele si passa una mano tra i capelli, esausto. Quasi crolla sul divano, una volta raggiunta la meta agognata.

- Non sono pessimista – arriccia il naso – È che questa… cosa mi convince sempre meno.

- Io ti convinco sempre meno – scuoti le ciglia, un sorriso candido sulle labbra e un’idea che si fa strada nella mente – Sii sincero, Gabriele: tu in realtà non hai paura delle conseguenze di ciò che ho fatto. Non temi per me. Tu temi… che qualcuno possa ristabilire lo status quo. Che tutto finisca in una bolla di sapone e le cose tornino esattamente com’erano.

- Che cazzo stai dicendo?

- Lasciami finire. Tu hai paura che prima o poi me ne torni all’ovile. È così? Mi sottovaluti. Sei convinto che la forza d’attrazione che mi lega a loro, ad Alessandro, a Isa… a quel deficiente che mi ha dato del frocio, e chissà cos’altro ti dice la testa… Insomma, che il legame sia troppo forte, che ci siano troppi interessi, troppo vissuto, perché non torni a essere il loro pagliaccio – scuoti le spalle – Non ti fidi di me. Pensi che sia matto e che questa sia tutta una farsa. Peccato che stavolta stai prendendo un granchio.

- Ammettiamo che non sia una cosa passeggera – Gabriele ammicca, sibillino – Tutto questo ti rende fiero di te stesso?

- Cosa dovrebbe rendermi fiero?

- Averli mandati al diavolo, Andrea. Aver capovolto la situazione.

Eccolo. Ha gettato l’amo con disinvoltura.

Trasali come se la nube effimera del trionfo avesse appena offuscato ogni tua facoltà. Un senso di calore al petto, come una vertigine improvvisa, un sorriso che si allarga sulle labbra, foriero di gioia evanescente.

- Sì, Gabri. Sono contento di me stesso.

- Bene… – Gabriele fa per allontanarsi, se non fosse per un tuo barcollamento improvviso, in bilico su quei dannati stivali troppo stretti, che ti proietta su di lui – Benissimo, Andrea. Hai risolto la questione fra te e loro. Bravo. Cosa c’entro io?

- Cosa c’entri tu? – ridacchi, acconsentendo finalmente a lasciarti andare al suo fianco, sprofondato fra un cuscino e l’altro – C’entri. Ci hanno reso l’esistenza un inferno. Con la mia complicità, d’accordo, e mi fa più male di tutto il resto. Ci hanno messi l’uno contro l’altro. E io ti amo, Gabriele. Che ti piaccia o no, c’entri eccome.

- Non dire stronzate, Andrea, per favore! – Gabriele solleva gli occhi al cielo, scettico – Non fare passi azzardati!

- Oh, questa è bellissima… – un’ombra cupa sul volto che vorresti scacciare disperatamente – Io dico sempre le stronzate, quando arrivo al punto. Ogni volta che qualcosa ti tocca da vicino, toh, sto dicendo stronzate.

- Andre, che ne diresti di riposare un po’? – ha cambiato registro, un’impronta dolcissima nella voce – Sembri… provato.

- Non ho sonno.

Sospiri. Non sai bene che cos’è: forse l’alcool che pian piano dissolve le inibizioni residue, fino a lasciarti maturare la decisione di azzardare un ultimo tentativo. L’ipotesi di rimediare figuracce allucinanti, inversamente proporzionale alla quantità di vodka ingurgitata.

- Non ho voglia di dormire. Vuoi fare l’amore con me?

- Andre! Sei monotematico. E fottutamente imbarazzante.

- Scherzavo, eh! Speravo solo di risultare più convincente.

- Dopo che ti sei azzuffato come un idiota e sbronzato fino agli occhi?

- Lo sapevo…! – un sogghigno appena soffocato – Sei troppo onesto per farti uno completamente ubriaco.

- Sì, come no. Ci manca solo questo.

- Questo vuol dire che se io fossi sobrio…

Leggera impennata nella voce. Poi, una pausa strategica. Qualcosa ti dice che forse è arrivato il momento di opporre quell’unico, debole alito di ragione alla strana euforia che ti scorre nelle vene, offuscandoti la mente e inibendo ogni scrupolo accessorio.

- Se non fossi ubriaco, cosa…?

- Accetteresti di venire a letto con me.

- Non farti idee del cavolo, Andrea.

Colpito e affondato. Ritentare.

- Eppure noto con piacere che non mi hai chiamato per cognome nemmeno una volta. E poi il mio nome, pronunciato da te… – scrolli le spalle, in cerca delle parole adatte nel groviglio di sensazioni fuligginose che ti punge il petto – Non so… Ha una sfumatura particolare, con la tua voce. Non riesco a spiegare, però… mi mette i brividi.

Gabriele sembra auto costringersi ad annuire, gli occhi indulgenti come se stesse lì a placare i capricci di un bimbo petulante e fingesse di assecondarne le bizzarrie.

Ti darebbe quasi sui nervi, lui e quell’aria finto-accondiscendente che di solito si usa con i matti e gli imbecilli. Se solo le sue iridi non fossero così fonde e grandi nella penombra, le pupille dilatate come quelle dei gatti. L’arco delle ciglia carico di languore.

Se non fosse lui.

- Andre, sei ubriaco…

E il cielo è azzurro e il triangolo ha tre lati, e tu sei bello, dannazione!

Non è l’alcool ad avvilupparti stretto nella tela del ragno – è solo una misera componente. È una specie di droga che segue il ritmo del tuo respiro e rende il sangue fluido, ribollente come lava.

Sventolarsi il viso con la mano, con nonchalance, non è molto utile a ristabilire gli equilibri osmotici caldo-freddo, desiderio-razionalità, né a dissipare certe insolite sensazioni.

È molto più confacente lasciargli scorrere le dita sulla nuca e posare le labbra sulle sue in un bacio a stampo, fulmineo. Poi un altro sulla punta del naso – un’ombra leggermente violacea a fare da muta testimone al vergognoso incidente della porta chiusa che incidente non era.

Contento, adesso? Uno a zero per me.

Lui che scuote il capo, confuso. Che forse si sta ripetendo che sei completamente fuori di testa, che non è necessario assecondarti né, all’opposto, usare le cattive maniere… Che il tutto è aver pazienza. Dev’essere come una specie di mantra che gli impedisce di scaraventarti a terra.

- Tu sei scemo, Andrea. Sta’ giù, ora.

Il fremito di delusione resta sospeso nell’aria come una cappa di vapore. Non è la reazione che desideravi, ma il gesto con cui ti sospinge verso il basso, adagiandoti sul divano con la testa sulle sue gambe, è tutto fuorché spiacevole. Se ne può approfittare, ad esempio, per circondargli la vita con le braccia.

- Buono, Andrea, buono… – un sussurro.

Come se fossi un cagnolino troppo esuberante.

Ma poi pensi che è bello anche così. Che si sta dannatamente bene a fissare il soffitto, sprofondando in una nube di silenzio, una ciocca ondulata sul viso a impicciarti la visuale. E qualcosa che formicola in fondo alla gola, come una risatina fioca, improvvisa.

- Sì, Gabri. Penso che in fondo ti piaccia.

- Come, scusa? – diventa insopportabilmente provocatorio, Gabriele, quando ci si mette d’impegno – Quello che vedrei, se fossimo in piena luce? Te l’ho detto: sei decorativo.

- Stupido. Dovresti vederla come una specie di trionfo. Ti piace tenermi in pugno. Ti piace il mio… cambiamento di stile. Il fatto che stia cercando disperatamente di ricostruire un rapporto con te e che abbia mandato al diavolo certe… discutibili frequentazioni che eri tu il primo a detestare. È così? Mi duole ammetterlo, ma certe persone le avevi inquadrate al volo. Ti piace il nuovo Andrea, il vero Andrea, nonostante tutto. E ti piace essere desiderato. Te ne stai dalle tue perché, sai, metti poi che è una farsa… E grazie per la fiducia. Non lo ammetti neanche con te stesso, ma è ciò che avevi sempre sognato.

Silenzio. È quasi buffo, adesso, osservarlo da quell’insolita prospettiva. Un sottinsù notevole. Una botta d’adrenalina, quando trasale alle tue parole, lo sguardo febbrile, il volto che si colora di un cupo smarrimento.

- Lo sai cosa sei, Andrea? Un folle egocentrico con la mente contorta.

- Almeno io mi ci impegno, a trovare delle spiegazioni. È così: il sogno si è avverato, perché il sottoscritto qui di fronte a te non è né un bugiardo né un completo imbecille… Anche se fa di tutto per sembrarlo.

Secondo colpo a segno. Due a zero. Niente male, davvero niente male, ragazzo.

- Oh, prima che mi dimentichi… – vai spedito, senza dargli il tempo di riprendersi, di replicare, perché il ferro va lavorato quando è abbastanza caldo e duttile – Che ne dici di… tornare a casa? Qua, in stanza con me. Come una volta. Possiamo ricominciare tutto da capo.

- Forse. Adesso però cerca di dormire.

 

* * *

 

Okay, lo so: forse è tutto tragicamente sbagliato, distorto.

Dovrei dirgli che, dannazione, tutto sommato sto bene. Starei bene. Che era una scusa per starmene sdraiato con le sue gambe come cuscino.

Glielo direi pure, ma credetemi, sarebbe fatica sprecata. Non ascolterebbe una sola parola. Lo vedete come fa?

Sarà anche un dettaglio importante che il sottoscritto non abbia ancora parlato, che non sappia nemmeno che ore sono. E perché Gabriele mi tiene su di sé. Mi ha scambiato per il suo gatto, chissà. Temo che la mia lingua non risponderebbe bene ai comandi. La mente non connette come dovrebbe.

Nemmeno tentare di aprire gli occhi, forse, è una buona idea.

C’è il soffitto striato da qualche ombra e qualche fantasma. Ogni tanto.

Gli avvolgibili sono sollevati su una luna grande nel cielo a specchio. Uno spiraglio ben ritagliato.

Non riesco a vedere altro, perché se tengo gli occhi aperti, poi la stanza riprende a girare, riprende la danza folle, e non è piacevole.

Però non è così male fingersi una cosa inerte – non potrei fare diversamente – e ascoltare il brusio della notte.

Gabriele sembra incredibilmente rilassato.

C’è qualcun altro. Un’ombra ai margini del mio campo visivo, così sbilanciata verso il fondo da dover rovesciare leggermente la testa per assicurarmene – l’unico rischio è di svenire o, peggio, di vomitare l’anima sul tappeto.

 

Loria, perché stai lì e non vieni ad abbracciarmi?

Dio, penso di amare davvero la sua voce. Il modo che ha di vibrarmi nel cervello.

 

Lo so: ufficialmente starei dormendo, stroncato da un’ubriacatura da manuale. Non sarebbe comunque prudente, da parte loro, sciorinare qualche allusione di troppo direttamente sulla mia faccia.

 

Cos’è successo, Gabriele, cosa gli hanno fatto, stavolta?

 

Oh, normale amministrazione. Sai quello stupido festino di cui ti avevo parlato?

 

Loria e Derossi hanno parlato? Di me…?

Ma preferisco non pensare, davvero: meglio stare in silenzio e cercare di raggranellare i frammenti di discorso che la penombra e la confusione della mia testa hanno pensato di concedermi a piccoli sorsi.

 

Si è ubriacato e preso a pugni con uno stronzo. Poi c’era Alberti che tentava di farlo ragionare a modo suo, ma l’ha mandato a quel paese. Per sempre, credo.

 

Andre… Andre, come ti senti?

 

Siete convinti che non vi stia ascoltando? Illusi. Ma non siete stupidi, no: se foste sul punto di tramare qualcosa, evitereste di parlarne a tre centimetri da me. Anche se sono nello stato di crisalide.

Perché sono ore che Loria non mi degna di uno sguardo, di una parola… Di una banale risposta sul cellulare? Perché parla di me come se non fossi presente? Ah, già: non sono proprio presente.

Sei ufficialmente in catalessi, scemo.

Poi, qualcosa di fresco e irresistibilmente piacevole sulle labbra. Tanto da strapparmi un mugolio estasiato. Qualche goccia d’acqua che, inevitabilmente, mi dà un senso di refrigerio alla gola. Se sospiro, dite che capiscono?

Uno sfioramento leggero – un altro. Continua così… per sempre. Sulle labbra, poi sulle tempie e sul collo. È fresco, un campanello dal suono celestiale come sveglia. Come essere riaccompagnati con una carezza nel mondo dei vivi. Qualcosa imbevuto d’acqua con cui si cerca di regalarmi un po’ di sollievo, di alleggerirmi dagli effetti devastanti dell’alcool.

 

Povero piccolo, è cotto. Ma che diavolo ha bevuto?

 

Un paio di vodka con ghiaccio.

 

E aveva già una buona dose d’alcool in corpo.

 

Dannazione, la piantate di fare le crocerossine del cavolo?

 

Cosa? Vuoi dire che sono già un paio di giorni che…?

 

Non a questi livelli, Gabriele. Solo che… il miscuglio l’ha steso.

 

Provo a sollevare le palpebre. Un senso di sollievo, un languore così carico, intenso, che sarebbe un peccato sprecare l’occasione assecondando la sonnolenza. E poi… le loro voci che ti si confondono nella testa sono un balsamo dolcissimo, una nenia rasserenante, una carezza lungo la spina dorsale. Una culla cui affidare i propri sogni, i pensieri fugaci di un momento che di rado ti si riaffacciano nella mente, quando il risveglio è ormai avviato, i sensi di nuovo vigili.

 

Si sta svegliando…

 

Sì, mi sveglio per te, Ele. Perché sì, sono molto offeso con te che mi hai mollato come un deficiente per un’intera giornata. Una spiegazione, almeno: non ti fidi di me? Ti sei ricordata all’improvviso che, da contratto, io dovevo starti sulle scatole? Oppure, come Gabriele, non riesci a perdonarmi di essermi comportato da coglione matricolato?

Siamo rinati insieme, e stavolta temo che da soli, ognuno per i fatti suoi, non andremmo proprio da nessuna parte. Siamo gemelli uniti da un filo sottile sulla punta dei capelli. Una trama non prevista, una variabile impazzita che ha preso vita propria. Non abbandonarmi, ti prego.

Silenzio. Non sento più nulla. Il mio universo è il soffitto grigio opaco nella penombra, appena rischiarato da una squallida lucetta artificiale. Ecco, spegnete quel dannato abat-jour, vi supplico…

Poi, una mano sul viso. Non è fresca come il fazzoletto bagnato con cui mi ha tamponato la fronte, ma ha qualcosa di vellutato, dolce, ed è come essere afferrato per le braccia e tirato fuori dall’acqua un attimo prima di annegare, di cadere in deliquio, stordito dal canto di una sirena.

Non so dire come sto, ma penso che vorrei restare così per sempre.

 

- Andre, sei sveglio?

Lei. Finalmente lei. Poi uno scatto fulmineo, stizzito.

- E tu, Gabriele, dannazione, perché l’hai lasciato lì a ridursi uno straccio?

- Ele, col cavolo! Non sono la sua balia!

Sono così deliziosamente comici che quasi non riesco a resistere dall’infilarmi nei loro discorsi, a sorpresa.

- Arràbbiati pure, Gabri, ché diventi ancora più sexy.

La scossa improvvisa da parte del mio “cuscino” improvvisato è un pugno in pieno stomaco.

- Ecco… Mancavi tu. Stavi quasi per diventarmi simpatico, sai…

- Andre, va tutto bene, tesoro? – lei!

Sento che, se non fossi impossibilitato a sollevarmi a sedere senza pagare il fio della bravata con infiniti capogiri, sarei volato più o meno fino al soffitto per la gioia improvvisa.

Provare a concentrarmi sulla domanda è una scelta saggia, no? Prendermi qualche secondo di tempo, lasciare che lei interpreti il mugolio istintivo che mi sfugge dalle labbra come segno di un processo logico in atto.

- Uhm… così. Non lo so. Credo di sì, finché non rido.

- Come ti senti?

- Come uno che è appena uscito dalla lavatrice dopo la centrifuga, e poi si è preso una gragnola di calci sulla nuca. Una favola, insomma.

- Dai, tra un po’ starai meglio… Hai presente la sbronza coi controfiocchi, no? Ecco. Credo che il peggio sia passato.

- Scusa, da cosa lo deduci? Cioè… – sarcasmo abilmente dissimulato in un sorriso candido – Io voglio sperare che il “peggio” sia passato, non per dire…

- Beh, Gabriele mi ha detto che a un certo punto sei collassato. Dormivi come un sasso e ogni tanto piagnucolavi qualcosa d’incomprensibile…

- Qualcosa d’incomprensibile tipo…? – lo sguardo si sposta rapidamente su Gabriele, inquisitorio.

- Ma che ne so, Andrea! Segreti tra te e il tuo confessore…

- Ecco, appunto. Segreti – un’occhiata in tralice, perentoria.

- Peccato, Andrea. Non capisco a cosa ti riferissi, ma a quanto pare c’eravamo tutti, nei tuoi pensieri. Proprio tutti…

Un sorriso cospiratore da parte sua, quasi speculare a quello di Elena. Soprassedere, a questo punto, è una scelta utile, specie quando l’acidità di Gabriele va ricondotta alla notte da incubo appena trascorsa, seduto su un dannato divano senza battere ciglio per non svegliare la zavorra amorevolmente adagiata sulle sue gambe.

- E sentiamo… – tentare la via diplomatica, per una volta, non costerà così tanto – Come mai eravate… tutti nei miei pensieri?

- Non ho capito un accidente, te l’ho detto. Pensieri sconnessi. Però ci siamo passati proprio tutti, ecco. Persino una certa francesina…

Ed eccolo bloccarsi, ammutolire di colpo. Si stringe nelle spalle, a disagio.

Forse abbiamo parlato troppo, Gabriele?

È il momento di pungolarlo fino a srotolare il resto: un’occasione da non lasciarsi sfuggire.

- Scusa, Gabri, che cosa c’entra Blanche?

- Non lo so… L’hai nominata tu. Non è che per caso ci pensi ancora?

Ecco. Se Gabriele fosse intelligente, a questo punto avrebbe la decenza di sentirsi un briciolo in imbarazzo.

- Stai scherzando? Le piacevi tu, fino a prova contraria.

- Ecco – un sospiro teatrale – Ora torniamo a rivangare le origini.

- Le origini di cosa?

- Del fatto che tu, Andrea, non sopportassi che, per una volta, qualcuno ti avesse dato il due di picche. Che la tua potenziale conquista ti preferisse un altro.

- Gabri, che sciocchezze! Innanzitutto sono gay… Così, eh, nel caso ancora non lo sapessi. Tu… anche, o almeno credo. Qual è il problema?

- Il problema è tuo, Andrea! Non dire fesserie. Hai avuto anche storie con delle ragazze, no? Questo spiega tutto.

- Che razza di discorso del cavolo… Va bene, se dobbiamo metterla così, sono bisex, va meglio? Basta, ti prego! Perché adesso devi metterti a sezionare le mie faccende private? Ero… confuso, d’accordo?

- Va bene, va bene, come non detto. Scusa, eh, ma fa uno strano effetto pensare che ogni malinteso sia partito da lì…

- Sì, come no. Mitologico. Secondo la fantasia di qualche simpaticone. Siamo diventati nemici giurati e siamo stati gli ultimi a saperlo… Ti rendi conto?

Gabriele scuote le spalle. Con quel piglio insofferente che non manca di darmi sentitamente sui nervi. Anche se la stanza gira, anche se faccio fatica a masticare le parole, e districare il groviglio diventa un’impresa più ardua ogni secondo che passa.

- Certo, ed io ci credo. Cazzo, l’hai ammesso, Andrea, l’hai detto… Che il fatto che Blanche avesse scelto me, ti rodeva e non poco; che da me non te lo saresti aspettato, e che amico del cavolo ero stato. Per quanto valore potessero avere quei pochi giorni di conoscenza. Il giorno dopo, puntuali, sono piombati nella tua vita Alessandro e Isa, e da lì è cominciato lo show. È abbastanza?

Okay. Calma, Andrea. Proviamo a incassare insieme il colpo.

Lo so che stai per crollare, ma fa’ un ultimo sforzo e cerca di mantenere l’intelletto in funzione. Perché forse è arrivato il momento di sbrogliare la matassa di equivoci e offrirgli qualche scorcio di verità in più. Anche se ciò comporta necessariamente svelarsi, sprofondare nel vicolo cieco dell’imbarazzo.

- D’accordo, Gabri, c’ero rimasto male. Ero geloso di te. Non perché lei avesse scelto te, ma perché tu, tra lei e la mia amicizia, avevi scelto lei. Contento?

Povero Gabriele: sembra sull’orlo dell’esaurimento. Solo che, a differenza di me, non hai un secchio di vodka da smaltire. E l’unico punto a mio svantaggio è che prima o poi dovrò trovare il coraggio di risollevare lo sguardo su di te.

- Dannazione, Andrea! – quando alza la voce, lo so, c’è qualcosa che non promette bene – Io e Blanche non siamo mai stati insieme. Abbiamo chiarito le cose qualche eone fa, se proprio t’interessa: le ho detto la verità e non è morto nessuno. Siamo restati in buoni rapporti. Possibile che con te debba complicarsi tutto? Lei ha accettato la situazione. Sono gay, mi spiace ma non se ne fa nulla, facciamo finta che non sia mai successo niente, stop. Amici come prima. No, tu no! Tu dovevi mettere su una tragedia.

- Non stavate insieme? Possibile che mezzo istituto dicesse il contrario?

- Vuol dire che non avevano capito un accidente. No, cazzo! Non stavamo insieme. Capisco le tue convinzioni: con i due “campioni” che ti portavi appresso, potevo sperare che non ti avessero istruito a dovere?

- Però, finché ne ho saputo qualcosa, tu e lei stavate ufficialmente insieme. Hai mai detto il contrario? No, lo dici solo adesso. E certo, sul momento era meglio far finta di niente; vuoi mettere essere riuscito a fregare quel pallone gonfiato di Nicoletti e fare in modo che si sapesse in giro…?

- Senti, Andrea, vaffanculo.

- Bravo, fa’ altrettanto, allora… Ehi, no, aspetta!

Fa per risollevarsi in piedi, Gabriele: errore. Perché ritrovarmi con la testa scossa via dal guanciale immaginario è come essere catapultati in alto mare nel bel mezzo di una tempesta, su una barchetta di carta. E ricordarsi proprio allora di soffrire il mal di mare.

- Che succede, adesso?

- Sta’ qui, Gabri, ti prego. Ecco… così, bravo. Non muoverti – artigliargli i fianchi è una mossa scorretta, d’accordo, ma se il rischio è star male di nuovo, tanto vale…

Silenzio.

- Anche tu, Loria. Vieni qui. Con te preferisco fare i conti domani mattina, quando sarò lucido. Ah… se gli ultimi discorsi del cavolo non ti sono chiari, prometto che ti spiegherò tutto. Fossi in te, la sua versione la ignorerei in blocco, perché ti ripeterebbe le solite due stronzate che sanno anche i muri.

- ‘fanculo, Andrea! – di nuovo Gabriele, puntuale.

Non ne lascia passare una, accidenti a lui…

- Altrettanto, Gabri. Ele, ti prego, resta qui.

Annuisce, fortunatamente – almeno lei… –, le dita intrecciate alle mie, accoccolata sul bracciolo del divano.

Poi, nulla. Solo il vuoto, e un brusio ipnotico nella testa che pian piano mi fa cadere in una sorta di torpore indotto. Ascolterei volentieri i loro mormorii soffusi, perché sono certo di essere il fulcro di tutte le loro perplessità… Solo che a questo punto, di solito, la mente ricomincia ad andare per conto suo, il sonno a pesarmi sugli occhi, e tutto ciò che riesco a captare sono frammenti sempre più deboli, occasionali, sganciati dal contesto.

 

No, Gabriele.

 

Sei tu, Loria, ti sento ancora: perorerai la mia causa? Continua…

 

Andrea è sincero. Non credo tornerà da loro e non li sopravvaluterei, dopo tutto ciò che gli hanno fatto. Ho solo paura per lui.

 

Paura per lui? Che si rimangi quello che ha detto e torni da loro a fare il sottomarino?

 

Adesso è fragile. È smarrito, non sa da che parte guardare. Ha perso i suoi punti di riferimento e si sente pure uno schifo per aver fatto qualcosa che non voleva davvero. È per questo che ho paura di loro, di ciò che potrebbero fargli: Andrea in questo momento è debole; qualcuno potrebbe approfittarne e manipolare le sue insicurezze.

Dagli un’altra possibilità, ti prego: prova a fidarti di lui, dimostragli che lo consideri amico. Ha sputato in faccia a tutti per te… Si è messo contro mezza Accademia! Cos’altro deve fare per dimostrarti che è dalla tua parte? Cosa ti costa mettere in gioco qualcosa anche tu, se lui ha messo in gioco tutto?

Non lasciarlo solo: se resta solo, sarà la volta che si perde e finisce nella loro rete. E tu non vuoi questo, Gabri… Che torni quello di una volta, lontano, sprezzante, inavvicinabile. Disposto a tutto pur di sopravvivere. E tu lì a morirgli dietro senza poterlo toccare. Non vogliamo che quei due tornino a farne la loro testa d’ariete, no?

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 13 - Confidenze ***


 

Capitolo 13

Confidenze

 

 

È strano osservare Andrea da quell’angolazione inedita, allungato sul letto, le labbra distese nel sonno come a chiedere un bacio.

Sorridi d’istinto, mentre gli scosti una ciocca di capelli dalla guancia – e, quasi per osmosi, ti sembra di avvertire la stessa sensazione di solletico sulle dita. Sensazione che di certo prelude al suo risveglio.

Gabriele ha levato le tende alle cinque del mattino o giù di lì, scaricandoti con nonchalance il compito di ricondurre dolcemente il bell’addormentato nel mondo dei vivi.

- Andrea, piccolo, svegliati…

La prima risposta è una specie di grugnito soffocato che sembra provenire direttamente dall’Ade. Ha la faccia premuta contro il cuscino, il corpo disteso a faccia in giù sopra le lenzuola, come si è lasciato andare poche ore fa, sfinito.

- Ele, non mi sento bene…

Dulcis in fundo, è nel pieno di un post-sbronza da manuale.

- Beh, è anche comprensibile. Vuoi un po’ di caffè?

Lo osservi mentre si puntella sui gomiti, un sorriso sofferente sulle labbra. Annuisce con poco entusiasmo.

- Sì, anche se non servirà molto ad annullare il concerto heavy-metal che ho nella testa…

Inedita ironia mattutina stemperata in una sorta di sbadiglio trattenuto, i riflessi non abbastanza vigili perché possa esibirsi in un proverbiale risveglio scazzato, contornato da bocconcini di corrosiva acidità. Stavolta qualcosa fa pensare che sia felice di vederti. Almeno per un istante.

L’unica pecca è che, osservandolo meglio, potrebbe essere la perfetta imitazione di uno straccetto per pulire i vetri, due aloni scuri in corrispondenza delle orbite stanche.

Almeno finché l’oggetto della tua attenzione non provvede a schermarsi il volto con le mani, di scatto.

- Ele, non guardarmi, ti prego…

- Dove dovrei guardare, scusa?

- Ovunque tranne verso di me. Non devo essere un bello spettacolo – e c’è una vezzosità piagnucolosa nella sua voce, un’impronta di sconforto – Non serve la conferma, ecco.

- Okay, Andre, facciamo così: io non ti guardo e vado a mettere su la caffettiera, così nel frattempo ti fai bello per me. Siamo intesi?

Modellare l’inflessione della voce in una formula convincente non basta ad annullare l’effetto di due occhioni supplicanti. E di un mugolio rassegnato. È come aver a che fare con un bambino.

- Ele, non ho voglia di alzarmi. Non ho voglia di muovermi. Ho sonno. Ho la testa che mi scoppia. Sto male. Sono morto. Non esisto. Parlo solo in presenza del mio avvocato.

Quasi gli ridi in faccia, mentre atteggia il viso in una specie di broncio e tira su il lenzuolo fino a coprirsi la faccia. Basta un attimo, però, perché un anelito di vanità accessoria abbia la meglio sul mal di testa, sulle membra anchilosate e sulla malinconia dilagante. Un guizzo di lucidità miracolosamente recuperato e la smania impellente di rendersi presentabile.

I capelli arruffati a coprire mezza faccia, eccolo convincersi che forse è meglio arrancare giù dal letto, un sospiro carico di rassegnazione a sancire l’impresa, per poi agguantare un paio di boxer dal cassetto e zoppicare fino al bagno.

- Ehm… Doccia o vasca, Andre? – e per poco neppure riconosci te stessa nell’enfasi ciarliera che costella ogni sillaba.

Che poi, detta tra te e te, ha un retrogusto da presa in giro coi fiocchi.

Solo che ormai il gatto è sveglio: abbastanza sveglio da infilare la testa al di là della porta aperta per metà, un sorriso sardonicamente complice.

- Doccia. La vasca la lascio a quando proverò a sedurti… – miagola, per poi chiudersi la porta alle spalle con una diabolica strizzata d’occhio.

Sorridi: non è una cattiva premessa, dopotutto, tornare a rivivere il vecchio Andrea che ama scherzare, dopo due giorni d’inferno e l’exploit dell’ultimo atto.

Lo sguardo puntato oltre la finestra, per un attimo vorresti che ad imprimersi in te fosse solo il riverbero di luce sulla superficie del vetro.

Forse è soltanto l’impressione di qualcosa di piacevolmente rassicurante nell’aria. O il rimestio della luce paglierina del buongiorno e del verde del giardinetto sottostante, l’impronta fresca di un provvidenziale ritaglio di Eden.

La sensazione che qualcosa sia rifiorito durante la notte, sotto una colata di rugiada che ha lavato via l’angoscia, il fango, il rancore. Un balsamo miracoloso su ogni pensiero, ogni inquietudine residua.

È il sollievo di tagliarsi fuori, almeno un'ora, dal gioco perverso che incalza con le sue regole e vi spinge dentro a forza.

Non è il momento di pensare alle immediate conseguenze, a ciò che è stato e a ciò che sarà. O ad affrontare il dopo. Meglio godersi il sereno dopo la tempesta con la mente sgombra, nell’etere miracoloso del non pensiamo a nulla almeno per un po’, non soppesiamo all’infinito le conseguenze. Non cediamo terreno alla follia.

È girato ancora il vento; un giorno senza veleno né giochi di prestigio che tengano.

 

- Andrea, piano con quel caffè! Hai intenzione di bruciarti la lingua?

Per tutta risposta, Andrea si netta le labbra con noncuranza. Ha i capelli bagnati e quasi scompare nel suo accappatoio scuro. Il chiarore lattiginoso del mattino ha una nota quasi abbagliante sulla sua faccia pallida, un alone violaceo intorno agli occhi a spezzare la monotonia.

- Va un po’ meglio il mal di testa?

- Mica tanto… – debole scrollata di spalle.

E un silenzio carico d’attesa. Lui che schiude le labbra, il turbine di parole che resta in sospeso oltre le ciglia. Si lascia scivolare con nonchalance lungo lo schienale della sedia, espediente non troppo diretto per accorciare la distanza fisica tra voi. Abbassa gli occhi.

Non c’è sentore di pericolo a impicciarvi i passi: il sole ha ripreso a baciarvi in fronte, la notte brava è trascorsa. E non ci sono loro, là fuori, pronti a guardarti come una cosa piccola e inutile o a tormentare Andrea.

- Andre, non avrai la febbre? Sei strano…

E, quasi prima che te ne renda conto, la mano corre fulminea a tastargli la fronte, con l’unico, fuorviante inconveniente di indugiare troppo a lungo in quel contatto prossimo a una carezza.

E Andrea che, con altrettanta destrezza, provvede ad afferrarti la mano un attimo prima che la allontani da lui, trattenendola dolcemente al suo posto. Sulla sua fronte che è piacevolmente fresca. Ancora qualche istante, per poi accompagnarla più giù, lungo la linea delicata della guancia.

- Sai… – sussurra, la voce vellutata – Di solito non amo essere trattato con i guanti di velluto – silenzio, leggera scrollata le spalle, e una pausa che sembra quasi studiata – Però, ecco… Vorrei che mi accarezzassi ancora. Solo… solo se non ti secca – e chiude gli occhi sospirando, lasciando che la tua mano, non più trattenuta e guidata dalla sua, scivoli sui suoi capelli.

Sospiri. Pochi mesi di conoscenza, di parole sospese e sfioramenti appena accennati non sono sufficienti a imparare a decifrare la sua voce quando si fa un po’ strascicata, e le labbra tremano. Le palpebre semichiuse e quello sguardo obliquo, troppo artefatto e troppo normale per dirsi innocente. Lo stesso sguardo che ha fatto impazzire Gabriele; solo che stavolta c’è una nota inedita. Una sfumatura calda.

Il passo successivo è lo sforzo – ancora una volta, se necessario – di non lasciarsi contaminare dalla nube tossica della sfiducia, del sospetto.

Cosa vuoi che faccia ancora? Cosa vuoi che faccia ancora, per dimostrarti che è sincero?

Non pensare a Gabriele. Per lui è… diverso, è sempre stato un discorso a parte, troppo frammentario per prestarsi ad arbitrarie interpretazioni. Impensabile tracciare paragoni. È qualcosa che riguarda Gabriele e Andrea, intimamente, e nessun altro. Una storia compiuta e a sé stante, senza simili o antecedenti. Un meccanismo impenetrabile, come la fuga di Andrea e di E

Gabriele ha sperimentato il caso marcato, la guerra di posizione portata alle estreme conseguenze sotto la guida di generali corrotti.

È la storia di Andrea e di Gabriele, e ha poco senso porsi le domande proprio adesso, cercare punti in comune tra due storie ben distinte, specie quando tutto è stato e non si può tornare indietro con una moviola.

Bugiarda, Loria: la verità è che Andrea ti è sempre piaciuto. In via potenziale. Anche quando lo consideravi un coglione e non avresti scommesso un centesimo su di lui. Anche quando non lo conoscevi se non per sentito dire, e quelle poche volte che l’hai incrociato col suo sorrisetto arrogante, intento ad asfaltare qualche malcapitato o a far la ruota come un pavone, l’unica pulsione fisica nei suoi riguardi è stata quella di prenderlo a schiaffi.

Ma tu hai saputo fare di meglio: saltare a piè pari la questione e fuggire prima che avvenisse l’irreparabile. Prima di provare anche solo per sbaglio a sollevare lo sguardo dalle sue labbra e incontrare i suoi occhi. Hai preferito spegnerlo direttamente, quel tasto. Ti saresti bruciata? Chissà.

Perché c’era l’Andrea reale, immerso nel suo mondo e completamente impermeabile al tuo; non aveva certo bisogno di te. E poi c’era l’altro Andrea, perso nei propri pensieri, che si faceva scorgere così raramente da sembrare un miraggio, un parto della tua mente. L’Andrea che col suo sguardo assorto ti diceva che c’era qualcosa di più, da qualche parte, dietro ciò che normalmente vedevi. Il suo consueto apparire come una frase a metà.

In te invece c’era la voglia di scappare da quella che avrebbe potuto rivelarsi una lotta contro i mulini a vento. Meglio alzare bandiera bianca e fuggire. Ma c’era anche la volontà inconsapevole di scavare in quelle iridi profonde, ritagliate nella pietra dura; di non prestare fede a formule rigide e abusate, e provare a tradurre l’enigma perenne in una forma che non facesse male, a limare le asperità che t’impedivano di intravedere la sua essenza. La favola tenera, priva di parole, che l’arco sereno delle sue sopracciglia e le labbra coralline descrivevano dinanzi a te e soltanto per te.

Era luce dolce e soffusa dietro alla grata di metallo che lui nemmeno vedeva. Il notturno senza le nubi all’orizzonte.

Tu l’avevi vista, quella luce, ma non eri presente, non eri un testimone attendibile. Non eri un tassello significativo della sua vita. E sapevi qual era la considerazione riservata a chi stava fuori dal loro cerchio dorato o non ci si sapeva muovere. Sapevi che c’era un limite entro il quale non si doveva andare. Perché qualcosa aveva sancito e sottinteso che eravate due composti di materie incompatibili fra loro. Sarebbe stato necessario penetrare oltre la sua pelle, per osservarlo davvero, e con lui no, non sarebbe stato possibile. Non valeva la pena di rischiare che là sotto non vi fosse nulla per davvero, se non un idiota dalla lingua troppo tagliente.

E se lui, com’era facile immaginare, ti avesse riservato lo stesso ghignetto strafottente, lo stesso distillato d’insofferenza con cui aveva rimesso al suo posto Gabriele Derossi, beh, sarebbe stata la goccia finale.

Ma tu, astuta, sei scappata prima che radiazioni troppo cocenti potessero ustionarti. Per un certo periodo ti sei quasi persuasa di aver rimosso dalla mente persino il suo volto. Che tutto non fosse stato altro che una visione indistinta, un’immagine su cui la tua fantasia aveva ricamato una favola costruita di sana pianta.

E solo quando è avvenuta la fissione del nucleo, nulla è stato più uguale a prima. Eravate diventati Elena e Andrea privi di aggettivi fuorvianti.

 

È strano, ora, ammettere quanto ne sia valsa la pena. Intrecciare le dita tra i suoi capelli è un risvolto che valeva la pena di riscrivere i confini che il gioco vi aveva imposto. Lo strofinio impercettibile del suo volto sul tuo petto e quei grandi occhi malinconici, liberi da ogni schermo, carichi di gratitudine e fissi su di te.

- Grazie, Ele. Di tutto.

D’un tratto è di nuovo raccolto, la paura di aver osato troppo. Di un contatto un po’ troppo intimo in cui scoprirsi entrambi. Meglio chinare lo sguardo.

- Dov’è Gabriele?

- Credo sia andato a dormire.

- Sai che se non vi avessi visti uno a fianco all’altro, penserei che siate la stessa persona…? Fatte le debite proporzioni. Se tu sei con me, è il suo turno di sparire. Vi date il cambio per meglio sopportarmi, o si è offeso per ieri sera?

- Non saprei, Andre. Pensa alle ultime parole che vi siete scambiati… L’ultima-ultima era un vaffanculo, mi pare.

- Appunto.

- Beh… – piccolo tentativo di sdrammatizzare la questione – Se ci pensi, è nella norma.

- Spiritosa… Hai visto come riesco a rovinare tutto?

- Eri ubriachissimo, Andrea. Completamente su di giri. Per il resto, penso abbiate bisogno di chiarire alcune cose. Tipo un certo casino riguardo a una certa… Blanche, o come diavolo si chiama.

- Ti ricordi di lei? È stata con noi per un mese. Giusto il tempo di farci girare la testa, e sparire in un battito d’ali – un sorrisetto accondiscendente, quasi nostalgico.

- Ricordo, Andre. È solo che non riesco a farmi un’idea su cosa c’entri lei con voi. Ricordo solo che era bionda, carina; era una che si faceva i cavoli suoi, ma Isa la detestava. O almeno, non perdeva occasione di far notare quanto la trovasse insignificante, oca e quant’altro. E per diffondere la tesi.

Attimo di silenzio. Fino a che, sul più bello, una risata piena, liberatoria, frusta l’aria direttamente dalle labbra di Andrea. Interrompendo irrimediabilmente il flusso del discorso.

- Ele, questo era prevedibile: mi sarei meravigliato, se a Isa fosse stata simpatica… Ci mancherebbe! La francesina giocava col fuoco. E tu dovresti saperlo, ormai, com’è fatta Isa: non tollera intromissioni. Quando pensi a lei, devi pensare a una gatta con i cuccioli: guai a chi glieli tocca! Solo che lei non è buona come la tua Cipria: quando i piccoli imparano a camminare, non li lascia andare via. Fa di tutto per distruggerli, per rendere la loro vita un inferno.

- Mi stai dicendo che dovrei aver paura? Che… tu dovresti aver paura?

E lui ride, di nuovo. Con meno convinzione, stavolta.

- No. Isa può strepitare quanto vuole, può piangere in cinese, può mettermi alla gogna e appendermi un cartello al collo con scritto “frocio”, ma non mi riavrà zerbino. Se le va bene, dovrà accettarmi così e non azzardarsi a torcere un capello a Gabriele o a te. Se non le va bene… problemi suoi.

Trattieni il fiato. Qualcosa ti dice che il mosaico si sta ricomponendo. Che pian piano gli altarini nascosti cedono alla luce chiarificatrice. E che forse adesso puoi giocarti tutto: basterà indovinare le domande da fare.

- Cosa c’entra Gabriele? – azzardi.

- Adesso entra in gioco il bel Derossi. Hai presente la gatta che si tiene stretta i cuccioli? Ecco. Uno sono io. Un altro è Gabriele.

- Gabriele e Isa?! Andrea, ti ha dato di volta il cervello? Oh, d’accordo: io non c’entro nulla, figuriamoci: ero troppo estranea ai vostri ménage per vedere certe sottigliezze… E non che m’importasse. Però, voglio dire: io avrò poco spirito d’osservazione, ma i rapporti tra Gabriele e loro erano a malapena cordiali. Prima che cominciassero… che cominciaste a massacrarlo. Non pensavo ci fosse questo… gran rapporto, ecco. Lo dicevi anche tu.

- Dio, Ele, ci sono tante cose che non so da che parte cominciare…! Innanzitutto, che non era proprio come sembrava. Vabbè, tieniti forte: Isa aveva una cotta mostruosa per Gabriele.

Deglutisci, a fatica. Per un attimo pensi pure che si stia divertendo a confonderti le idee. Poi, il panico.

- Andrea, ti rendi conto che stai parlando di fantascienza?

E lui scuote le spalle, rassegnato. Gli occhi levati verso il cielo come di fronte a una terribile ovvietà.

- Lo so, è difficile crederlo. Che anche Isa sia umana. Ma giuro che le cose sono andate esattamente così. Era l’inizio di tutto.

- Cos’è successo… dopo?

- Gabriele l’ha respinta. Ciccia, sono gay, non se ne fa nulla. Da quel momento è diventato Satana. Immagina, in un secondo momento, la bella francesina bionda che lo bacia alla faccia sua. E sotto i miei occhi. Le palle sono girate anche a me, anche se per altri motivi. Immagina come l’ha presa Isa: una sciacquetta spuntata dal nulla, di punto in bianco, non solo fa capitolare il sottoscritto come una pera cotta… Ma, non contenta, esegue pure una radiografia alle tonsille del ragazzo che interessava a lei. Del ragazzo che una settimana prima le aveva detto di essere omosessuale. Nella sua ottica, Blanche era il nemico: le aveva sfilato sotto il naso due gattini al prezzo di uno. Il suo amico e il ragazzo di cui era innamorata. Importava qualcosa, che Gabriele stesse per tatuarsi in fronte la parola “gay” pur di non essere più importunato? No, certo che no: Isa comanda, Isa dà la sua chiave di lettura; il mondo, se vuole, ci si adatta. Capisci, ora?

- È assurdo. Ma tra Gabriele e Blanche non c’è mai stato nulla.

- Oh, certo. E chi lo dice? – Andrea ammicca con fare sagace.

- Gabriele. Penso che in questa storia abbia molta più voce in capitolo di te. Era il diretto interessato.

- D’accordo. Ammettiamo che Gabriele abbia messo in chiaro le cose con Blanche e lei non abbia fatto una piega: restiamo amici, chi se ne importa. A questo punto, Isa può andarsene a quel paese con tutto ciò che la riguarda. Quello che c’è rimasto di merda sono io.

- Perché Blanche piaceva anche a te?

- No. Perché lui lo sapeva. E se l’è baciata sotto i miei occhi! I miei sentimenti, la nostra amicizia valevano meno di zero. Come ho detto a Gabriele, a me non andava giù che lui, tra me e Blanche, avesse scelto lei. qualunque cosa fosse. Ma non ero geloso. Adesso sono geloso, e se ripenso a quella scena mi vengono i capelli bianchi! Ricordi com’era diventato… fisico, il rapporto tra me e lei?

Sorridi, per poi interromperlo di colpo: almeno questa gliela dovevi da tempo.

- Come no: c’è mai stato essere vivente con cui sei stato in confidenza, qua dentro, e su cui non abbia allungato le mani anche per gioco?

- Che ironia del cavolo!

- Stavate sempre stravaccati nella panchina in fondo al cortile, nell’intervallo: o meglio, Blanche sulla panchina, tu sdraiato a pancia all’aria con la testa sulle sue ginocchia. Dev’essere una posizione che ti piace…

Stavolta, almeno la soddisfazione di averlo fatto arrossire un po’.

- Oh, va bene: mi piace il contatto fisico, d’accordo? Però, voglio dire… A Blanche non dispiaceva. E prima che pensi male… No, tra noi non c’era nulla. C’ero io che mi illudevo potesse nascere qualcosa. Ma non c’era nulla: ero solo l’amico scemo che il massimo che puoi fare è allisciarlo come un gatto. Comunque, quel giorno devo essermi appisolato tra le sue braccia. C’era anche Gabriele. Mi sono assopito un attimo, solo un attimo. Quando ho riaperto gli occhi, ho avuto la panoramica della loro pomiciata. Lì, sotto i miei occhi… O sopra, insomma, dipende da come la guardi.

- E dopo?

- Dopo non lo so. Cos’è successo, cosa si sono detti… Sono scappato. Volevo sotterrarmi per la vergogna. Non riesco a ricordare un’altra situazione così fottutamente imbarazzante.

- Nemmeno quando hai recitato in mutande?

- No, nemmeno allora. Ero così brutto da vedere? – piccolo sorrisetto diabolico – Non mi risulta… dalle vostre facce.

- Uhm… Nemmeno quando stavano per beccarti in uno spogliatoio con Giulia… e non nel momento migliore?

- No, nemmeno. Scusa, ma a cosa devo questo sarcasmo da due soldi? Vuoi fare un medley con le mie figure di merda?

- No, no. Scusa. Vai avanti.

- Gabriele non ha avuto il tempo di spiegare. Quando è rientrato, abbiamo scazzato un po’, gli ho detto che non si era comportato da amico… e niente. Poi Isa ha dato la sua versione dei fatti, Gabriele è diventato l’infame della situazione, lui e Blanche coperti di ridicolo e via dicendo. Ho mandato a puttane la mia amicizia con lei e non ho spezzato una lancia a loro favore. Se mi stavano così sulle palle, perché prendere le loro difese? Però… mi dispiace per Blanche: era dolcissima, era gentile con me. Io l’ho trattata da schifo, ho preso parte alle beffe di Isa e Alessandro e non ho mai negato nulla di fronte ai loro sputtanamenti, perché nel frattempo avevo assimilato tutti i discorsi idioti sul loro conto. Perché mi faceva comodo dire che erano due sfigati e archiviare la cosa… E poi mi rodeva che Gabriele avesse baciato lei e non me. Sì, forse è questo. Mi dispiace.

- Ascolta, Andrea: c’è modo di ricontattare Blanche, così magari conferma la versione di Gabriele, e tu ti metti l’anima in pace una volta per sempre?

- Lo spero. E poi… volevo chiederle scusa per essermi comportato di merda. Mi spiace tantissimo, te lo giuro.

- Andre, queste cose però non le devi dire a me – prendi fiato prima di proseguire – Devi dirle a Gabriele.

- Ma Gabriele non mi lascia mai finire di parlare! Non c’è scusa che tenga, con lui: sono stronzo a prescindere.

- E scusa, ma se dubita non gli do tutti i torti. No, davvero… Non ti capisco più. Sei geloso marcio e non lo ammetti manco sotto tortura: è questa la verità. Lo amo, lo odio, e chissà cos’altro ti diceva il cervello. Poi di punto in bianco cominci a ignorarlo e a disprezzarlo dietro le istruzioni di quattro imbecilli… E poi torni al punto di partenza. Cos’è questo casino, Andrea?

Taci. All’improvviso infilare lo sguardo nel suo sembra quasi un gesto meschino, come spingere il coltello in fondo alla ferita. Specie quando lui si raccoglie su se stesso in un istinto primordiale di autodifesa, le ginocchia strette al petto e gli occhi umidi che cercano una via di fuga. Tira su col naso, sforzandosi di ignorare il tremore delle palpebre che prelude alle lacrime.

- Non lo so, Loria, davvero. Vorrei rifare tutto da capo. Solo che non è possibile. Io… non ci capisco più nulla. Ecco: se non ci capisci nulla tu, un motivo c’è, ed è che non mi capisco nemmeno io. So solo che ho sbagliato tutto – la voce vibra, malferma – Non so cosa significhi tutto questo, sul serio. Dovresti chiederlo al senso di calore che ogni tanto mi blocca qui… a quest’altezza – si massaggia il torace, lentamente.

- A cosa ti riferisci?

- Ogni volta che vedo Gabriele… Ultimamente, ecco. Di recente… Ma forse non solo. Non so che diavolo mi prende. Una specie di esaltazione puntualmente frustrata. È buffo pensare che tutto sia cominciato da lì? Da una semplice sensazione, dai miei ormoni impazziti che neanche a quattordici anni… O chissà cos’altro. Non lo so cos’è. Quando lo sento distante, quando litighiamo com’è successo ieri notte, non so che diavolo mi prende. Mi sembra di morire, mi sale il magone. Sento la distanza e mi sento impotente. È grave?

Andrea scuote il capo, tenta di dominare l’istinto di piangere. Cerca un barlume di comprensione sul tuo viso lasciandoti scorrere lo sguardo addosso, a lungo. Tanto che rivolgergli un sorriso rassicurante non sembra più fuori luogo.

- Piccolo, non è niente di assurdo – il sorriso si tramuta ben presto in una carezza sul suo viso, mentre lo attiri dolcemente verso di te alla distanza giusta per posargli un bacio fra i capelli –Tranquillo, Andre. Era dannatamente prevedibile: sei solo innamorato perso.

- Splendido – si scosta appena, non troppo impressionato dalla rivelazione fulminea – Si vede tanto?

- Uhm… direi di sì.

Ennesimo sospiro accorato che vibra nell’aria, insieme alla ciocca capricciosa che gli ricade davanti al volto. È bello restare così, abbracciata a lui, mentre ascolti il suo respiro che torna regolare. I minuti che danzano senza disturbarvi.

E poi – quanti minuti sono passati? – qualcosa ti suggerisce che è meglio riprendere la situazione in mano quanto prima e dare avvio alla terapia d’urto, se necessario. In piedi di fronte a lui, lo sovrasti. Braccia intrecciate sotto il seno.

- D’accordo, Andre, basta così. Ora vèstiti ché dobbiamo andare.

- Andare dove? Ele, è domenica! Sai cosa significa “domenica” in casa mia? Non un semplice giorno della settimana: significa “non fare un cavolo da mattina a sera”.

- Non ho detto “andiamo a prendere lezioni supplementari”. Era un “vèstiti ché usciamo”.

- …anche perché farmi beccare in giro da uno dei gentiluomini di ieri sera, vorrebbe dire rischiare il linciaggio. Ho qualche altra possibilità?

- Andrea, non farti pregare! Uh, a proposito: véstiti sportivo, si va a correre.

- A correre?! Elena, che diavolo ti salta in mente? L’unica fatica che potrei sopportare, in questo momento, è ficcarmi di nuovo a letto e puntare la sveglia per mezzogiorno.

- Fidati, Andre: per i postumi da sbronza è un toccasana. Se ti prometto che dopo sarai come nuovo…?

E lui solleva gli occhi al cielo, ravviandosi i capelli di malagrazia.

- E sia. Ma solo perché non voglio fare brutta figura.

La preparazione si protrae in un turbinio di battute innocenti dal sapore deliziosamente cameratesco, la volontà ignorare quella sensazione di non detto, di frase a metà che rischia di protrarsi all’infinito. E un senso di attesa che cola sulle pareti.

E poi eccolo riemergere dal suo caos esistenziale, i capelli tirati approssimativamente in una coda e la faccia miracolosamente ripulita dai segni di una notte sull’orlo del delirio. O forse è il sorriso inedito che gli si apre da un orecchio all’altro – e, dannazione, era troppo tempo che non sorrideva così.

- Ele… Grazie, sul serio.

- Di cosa? – la curiosità d’indagare oltre il velo non accetta compromessi.

- Del crampo muscolare assicurato. E… di tutto il resto.

Ha gli occhi che luccicano, un senso di aspettativa intorno alle pupille.

 

Dio, Andrea: tutto, ma non guardarmi così! Con quella luce strana. Fa’ qualcosa, parla, perché il rischio è che poi tocchi a me rompere di nuovo il ghiaccio.

 

Non dice nulla; aspetta che tu abbia infilato la chiave nella serratura. Per poi bloccarti la mano, chinare il volto quanto basta e lasciare che le vostre labbra collidano. Nel vuoto dei secondi che cessano di battere e si dilatano a vostro arbitrio.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 14 - Chi ha inventato i sogni? ***


 

Capitolo 14

Chi ha inventato i sogni?

 

 

Gabriele riapre gli occhi lentamente; la mano corre a massaggiare i muscoli del collo. Non ha dormito bene né abbastanza a lungo, un languore serpeggiante lungo la spina dorsale e la sensazione che Andrea fosse ancora accanto a lui, il corpo caldo, la testa adagiata sulle sue ginocchia come in una piccola conca scavata in qualche anfratto della sua coscienza.

Sospira: trova quasi piacevole il chiarore del mattino presto che si allarga nella stanza come una nube, un alone diffuso.

La luce diretta del giorno è una lamina che scava prepotente tra le pieghe del viso – vicino agli occhi, dove si annidano le ombre – e, impietosa, solleva il velo su ogni segreto.

Preferisce la luce tenue dei crepuscoli, che rende tremendamente dolci i tratti del viso di Andrea, sfumandone i contorni. Ieratico sotto il baluginio rossastro dei lampioni, ritto sul suo metro e settanta scarso come un fiore d’acciaio, come la personificazione della collera. Quasi lo invidia per il coraggio di aver rimesso a posto Riccardi.

L’unica volta, forse, che Andrea si schierò in sua difesa – solo perché punto sul vivo. Forse all’epoca la battutaccia omofoba non era troppo benvista da quelle parti, e ha continuato a non esserlo finché il reuccio stava sul trono. Che forse non è mai stato qualcosa di più, agli occhi di chi lo ossequiava, di un “frocio dimmerda”. Neanche Andrea si è salvato dal gioco del francobollo.

Ma quell’Andrea Nicoletti, bello o brutto, allora teneva in pugno tutti per le palle, e quindi andava leccato a dovere, anche quando il sentimento dominante verso di lui era mero disprezzo. Adesso è il monarca caduto da abbattere a sassate, prima che a qualcuno salti in testa di rimescolare ancora le carte.

È troppo tardi per dormire ancora, troppo presto per risolversi a qualunque iniziativa. Sospira, Gabriele, drappeggiandosi il lenzuolo sulle spalle, in cerca di una posizione comoda per schiarire le idee. Per pensare in santa pace.

Non ad Andrea, i grandi occhi accusatori fissi nei suoi come spilli, che gli recrimina di aver baciato Blanche sotto i suoi occhi e di essersi messo la sua amicizia sotto i tacchi. Quando il teatrino doveva ancora avere inizio.

Spiritoso: stavo quasi per prenderti sul serio. Solo che, vedi, io non muovevo un dito, quando sparivi in camera tua con ragazzine che fingevano di adorarti – e quando la chiave per entrare in lizza tra “quelli che contano” era andare a letto col fighetto del mese. Non ho mai detto nulla perché non ne avevo il diritto. Ti saresti fatto delle grasse risate: lo sfigato geloso di te, di te che ti ricordi a malapena della sua esistenza!

Non ho mosso un dito neanche quando correvi come un uccellino tra le braccia di Neri. Cosa m’importava? Non ho mosso un dito fino a un certo punto, fino a un certo limite di sopportazione. Dopo, non ho fatto niente più di quello che avrei dovuto fare molto tempo prima.

Non è stata una genialata, Andrea, citare Blanche adesso. Perché, se non fossi stato ubriaco, se avessi potuto capire un solo frammento del mio discorso, ti avrei fatto mille esempi che non depongono a tuo favore. Esempi di persone che ti hanno sperimentato nel ruolo del puttaniere da strapazzo. E poi ti avrei spiegato con calma perché il mio e il tuo discorso fossero stupidi entrambi.

Come me, Blanche ha conosciuto le due facce: l’Andrea amico, il ragazzo di cui eventualmente innamorarsi, e la sua nemesi dalla lingua biforcuta che non guarda in faccia nessuno. Anche lei è stata sbalzata via dal suo sfondo e ridipinta a tinte slavate per meglio accanirsi su di lei, spogliarla della sua dignità, attribuirle la parte scomoda. Solo che lei era fuori dalle trattative e a fine mese, quando è andata via, si è riappropriata di quanto fosse suo senza lasciare indietro nulla. Perché, a differenza di me, non pendeva dalle tue labbra. Non aveva risentito troppo del tuo ascendente.

Non credo sia mai stata innamorata di te… però eravate amici. Ha risentito degli artigli di Isa conficcati a fondo nella carne viva, sì, ma sfido chiunque a ritrovarsi qualche brano di pelle in meno, corroso da colate di acido, e non accusare gli effetti della ferita inferta.

Eppure, ogni volta che chiudo gli occhi, non riesco a fare a meno, nei secondi che precedono il sonno, di vedere lui. Andrea. Tanti flash confusi, prima di rotolare nei sogni. È sempre lui l’ultima visione che mi abbandona.

Andrea che fa l’amicone con Blanche, che cerca il contatto fisico; Andrea sdraiato su un divano, sprofondato tra i cuscini con tutti i vestiti scomposti, la massa dei capelli biondi di una sconosciuta che gli copre i fianchi. Ha i jeans aperti – posso solo intuirlo –, e l’ombra scura che dall’ombelico si allarga verso l’inguine, sparisce sotto la criniera della ragazza senza volto china su di lui. Capelli biondi sparsi sul suo ventre. Poi il suono inconfondibile del risucchio, un lungo gemito come risposta, le dita che si serrano su un lembo del copridivano. Silenzio.

Andrea che seduce Neri. Andrea che fa il galletto e poi distoglie lo sguardo, le guance accese d’imbarazzo che lasciano trapelare la natura del sentimento improvviso.

Ripenso alla mia rabbia irragionevole, perché Andrea non era per me: peggio, mi odiava.

Lo osservo muoversi disinvolto in quegli spazi a lui familiari, da fiera che misura il proprio dominio nell’atmosfera densa. Seduto sopra la scrivania del professore, a domandare tacitamente un bacio. Ad aprire le gambe, a collidere con lui e lasciare che lo strofinio dei loro corpi vestiti, appena sopportabile tra le cosce, gli strappi un ruggito di piacere e un orgasmo quasi sofferto, fuoco liquido.

E poi, silenzio.

Andrea che mugola, il respiro che si placa lentamente.

A quel punto, di solito, qualcosa nella mia testa mi diceva che era troppo, ciò che accadeva al di là del vetro. Neri che approfittava di un suo allievo, un ragazzo di una ventina d’anni in meno che si era invaghito di lui. Io sapevo, spettava a me fare qualcosa.

A quel punto del sogno, di solito mi dirigo verso lo studio del professore con l’intenzione di dirgliene quattro, le parole che mi rombano nel cervello come un’eco.

Professore, lei fa veramente schifo: tenga giù le zampe da Nicoletti, o non mi lascerà scelta.

Se fosse successo per davvero, avrei dovuto essere completamente ubriaco, privo di freni inibitori, per arrischiarmi tanto.

Poi il sogno si frantuma in una visione confusa del corridoio inghiottito dall’oscurità, l’ufficio vuoto e buio, la porta aperta, e tutto è scuro, informe, percorso da nastri di nebbia.

Da questo momento in poi non riesco mai a ricordare nient’altro, eppure il sogno non è finito, e tutto è buio, angosciante, indefinito. C’è un seguito, da qualche parte, un epilogo. Un finale aperto e color piombo, grigio piatto e uniforme.

Però l’attaccatura a cuore dei capelli di Andrea è deliziosa; la fronte di marmo, le pieghe appena percettibili sulla pelle quando aggrotta le sopracciglia. Potrei descrivere minuziosamente ogni particolare del suo volto, perché lui è sempre qui di fronte a me, scolpito nella mia mente.

Di Neri non rammento quasi nulla, neanche la sua faccia. Capisco che si tratta di lui perché faccio “due più due”, tutto qui. Non lo ricordo e non voglio ricordarlo.

Giù in portineria dicono di aver visto uscire Andrea ed Elena solo poche ore fa. Stavano andando a correre, e la prima cosa che penso è certo, come no: Andrea è uno capace di schiodare il suo grazioso fondoschiena dal divano senza un valido motivo…!

Forse Loria gli ha drogato il caffè.

Lo so, detto da me suona ironico. Ero ironico.

Tanto vale aspettare che rientri e chiedergli come sta dopo lo show di ieri sera: non ho molto da perdere a ritrovarmelo di nuovo a gironzolarmi intorno con quella sua linguaccia affilata. Tanto, verrebbe comunque a stressarmi lui, quindi tanto vale anticiparne le mosse.

 

La stanza di Andrea è immersa nel buio di un pomeriggio sonnolento, tra silenzio febbrile e avvolgibili abbassate. Una penombra densa che ottunde i contorni degli oggetti.

Gabri, era anche la tua stanza. Non sarà un’impresa da poco sgombrare l’altro letto da vestiti e cianfrusaglie, ma mi secca stare in camera da solo. Soprattutto quando non so a chi rompere le scatole.

Sorrisetto tirato.

A chi rompere le scatole? A Loria, magari, l’unica in grado di sopportarti ancora.

Credo di aver declinato il suo invito alla “Torna a casa Lassie” almeno dieci volte.

Però non si stava poi così male. C’è il balcone che dà sul giardino nella strada a fianco, con bambini che giocano nel prato e signore che portano a spasso cagnetti minuscoli.

La grande nota stonata, a suo tempo, fu non sapere esattamente chi avessi di fronte. Non che adesso abbia molte certezze, ma se il ribaltone c’è stato, non può essere stato che in positivo, perché le cose non potrebbero andare peggio di allora.

Sei rientrato, no? Perché ho accettato di tenere la chiave di questa fottuta stanza? Che diavolo ci faccio qui?

Il silenzio è così pulito e rarefatto da risultare insopportabilmente fastidioso. Quasi… brulicante, chiassoso. Un ronzio continuo.

C’è una sua foto poggiata sulla scrivania, in mezzo a libri e oggetti alla rinfusa che ne ingombrano la superficie.

Nella foto sembra felice, senza quell’ombra dietro le iridi. Radioso sarebbe l’aggettivo adatto. Schifosamente fotogenico, le labbra stirate a scoprire un sorriso che definire perfetto è puro eufemismo. Lo sguardo è carico di tenerezza, una luce senza riflessi indecifrabili a guastarla, e poi tiene fra le braccia una bambina con i suoi stessi capelli ricci e il profilo francese. La sorellina. Per un attimo penso che, con tutta probabilità, sia tra i pochi mortali a conoscere l’unico barlume di dolcezza nel carattere di Andrea, l’unico suo lato privo di spigoli.

L’idillio potrebbe divenire perfetto, se il volto da sogno della fotografia non fosse lo stesso che, sollevando lo sguardo, ti ritrovi vivo e ammiccante davanti agli occhi.

Andrea si ritrae di un passo e sorride. Non è come nella foto: è un guizzare malinconico, gravido di sottintesi.

- Scusa, ti ho spaventato. Se la foto ti piace, puoi tenerla.

Altro sorriso appena accennato, prima di ripiombare nel limbo del silenzio-assenso.

Non sembra più lo splendido ragazzo sorridente della foto, gli occhi traboccanti d’affetto per la sorellina piccola. Una vocina sottile nella mia testa mi dice che, Dio, anche Andrea è umano!

Eppure così sembra ancora più bello, con i capelli tirati indietro e il viso disfatto dalla stanchezza, un’ombra scura sotto gli occhi.

Altro trascurabile dettaglio che non quadra per niente, indossa solo l’accappatoio – e qualcosa vuol farti sperare che abbia avuto la decenza di infilarsi un paio di boxer, dato che non si preoccupa tanto che quella dannata cintura gli rimanga ben stretta in vita.

È diverso da guardare il tuo riflesso nello specchio, perché la pelle di Andrea ha un profumo diverso, prepotente, e ti s’incolla addosso. Non è un vetro gelido. Se si rendesse conto di come lo osservi, le sue labbra si modellerebbero in un ghigno compiaciuto, e direbbe qualcosa di estremamente imbarazzante.

Qual è il punto preciso in cui qualcuno, a questo punto, può formalizzarsi?

- Lei è Adele. La mia sorellina – prosegue, un luccichio di tenerezza nello sguardo.

- È una bimba carina...

- Io no? – scuote le ciglia, quasi a tastare il terreno e capire se è il caso di attaccare subito o di partire in sordina.

- Sei un bimbo carino, Andre, e il rosso ti sta da dio – gli sorridi come se gli stessi concedendo qualcosa deliberatamente, e forse la presa in giro soft è la difesa più indicata, quando non si vuole correre il rischio di apparire cafoni o troppo stupidi.

- Non sono un bambino… – Andrea si avvicina, sguardo torbido e voce leggermente roca; e se su di lui c’è una certezza, è che recita divinamente – Posso dimostrartelo.

Sorride a labbra distese e indugia con la mano sul proprio torace scoperto, scendendo con nonchalance a sfiorare la cinta dell’accappatoio. Una risatina a tradimento rovina l’atmosfera sul più bello, squarciando il velo sui suoi intenti.

Ci fosse una volta in cui riesca a stare serio…

- Scusa, Gabri… Non ho resistito.

- No! – imbarazzo – Scusami tu. Non dovevo entrare senza permesso. Ti avrò spaventato… Mi dispiace.

Andrea scrolla le spalle.

- Spavento ampiamente compensato dalla sorpresa di trovarti qui – si schiarisce la voce – Questa è anche camera tua. Hai le chiavi, ecco… Vieni quando vuoi, inizia a portare le tue cose, se vuoi. O trasferisciti del tutto… se vuoi.

Sorridi. È quasi tenero, mentre si dibatte nell’incertezza del cosa dire e cosa fare. Ha un modo involontariamente comico di ripetere un concetto fino allo sfinimento, le rare volte in cui l’emotività prende il sopravvento. Se vuoi, quando vuoi, se vuoi.

- È così importante, Andrea? – cercare di guadagnare tempo è la seconda mossa azzeccata negli ultimi venti secondi.

- Beh… nì. Sì. Tutto è cominciato da un litigio del cavolo, e mandarmi affanculo forse era il minimo – abbassa lo sguardo, e ammetterlo, stavolta, umiliarsi, è come ingoiare cocci di vetro – Me la sono andata a cercare. Però è anche vero che abbiamo fatto pace. Io non ti serbo rancore, tu non ne serbi a me… O almeno spero, e se non è così, farò di tutto perché lo sia – un sorriso carico di speranza – Non ha più senso fare i separati in casa.

Ecco, il momento in cui darci un taglio netto è necessario.

Prendi tempo, Gabriele, prendi tempo.

- Veramente ero venuto per chiederti come stai.

- Stanco. Elena mi ha portato a correre – china lo sguardo, un attimo, le gote piacevolmente arrossate.

Solo un istante, troppo breve per imbastirci sopra un capo d’accusa.

- Beh… È stato divertente. Mi è passato il mal di testa, anche se domani avrò tutti i muscoli in fiamme.

- L’altra cosa che volevo chiederti, Andre, è di lasciar perdere quella vecchia storia con Blanche.

Andrea spalanca le palpebre, interdetto. L’improvviso, disarmante riflusso di franchezza che segue, ha un sapore orridamente inopportuno.

L’argomento sbagliato al momento sbagliato. Primo piede in fallo.

- Gabri, è normale che fossi… leggermente geloso?

- Leggermente? – fulminea alzata di sopracciglio.

Leggermente. Otello gli fa un baffo.

E Dio, affondare la lama quando l’avversario è debole o in una posizione troppo svantaggiosa per parare il colpo, è il miglior espediente per accarezzare il proprio ego e appagare la propria naturale perversione.

O forse è lui a volerti regalare il momento di gloria, l’illusione di averlo sbattuto al tappeto.

- No, non leggermente. Ero geloso marcio, ma più di tutto mi bruciava che la nostra amicizia per te valesse così poco. Perché hai ignorato che ci fossi dentro anch’io. Contento?

- Andre, non è normale. Non è normale essere gelosi… del nulla. Perché tra me e Blanche non c’era nulla, nulla c’è mai stato e mai ci sarà. Eravamo solo amici, ed era anche l’unica persona di cui mi fidassi, quando tu e i tuoi compari avete iniziato a guardarmi storto. Ti dice niente? – un rigurgito di acidità in piena regola.

- Beh, dimostralo, allora, che non è vero che l’hai baciata sotto i miei occhi, sapendo che mi ero preso una sbandata per lei. Dimostra che ho avuto le allucinazioni quando vi ho visti… – una risatina sinistra.

- Sono gay, Andrea!

- Anch’io.

- No, Andre, tu non sei gay. Hai solo gli ormoni in subbuglio e il delirio d’onnipotenza. Pensi di poter schioccare le dita e conquistare chiunque.

- Stai scherzando?

- Okay, sono affari tuoi e non voglio approfondire. Meglio?

Silenzio. Andrea annuisce, scettico. Scandisce i secondi battendo ritmicamente col piede nudo sul pavimento. E poi sospira.

- Non hai ancora dimostrato nulla – un sussurro malefico che vibra nell’aria, fin sotto la pelle – Che tra te e Blanche, nisba.

A questo punto non so davvero cosa mi sia preso, perché l’idea insana e diabolica che mi è balenata nella testa ha compiuto un giro troppo veloce per essere vagliata a dovere. Forse qualcosa mi ha suggerito a bassa voce che era l’unico modo incruento per farlo stare un po’ zitto.

Comunque sia, l’ho afferrato per le braccia mentre stava ancora parlando e credo di averlo coinvolto in qualcosa di troppo simile a un bacio alla francese.

- Ti basta, come dimostrazione?

- Okay, stop. Stavo scherzando… – quasi ansima, Andrea, una volta libero di respirare, le labbra socchiuse e una deliziosa sfumatura rosso acceso che gli esplode fino alla radice dei capelli – E tu, per la seconda volta…

Mi hai baciato? Pausa, risolino imbarazzato, una mano che scherma il viso. Barcolla un po’, vagamente stordito.

- E questa sarà la terza.

Una specie di calamita invisibile d’impulso mi costringe a cercare di nuovo le sue labbra. A provare ad assaporarle, stavolta, a lambirle mentre le sento scorrere lisce e ricettive sotto le mie, evitando di strapazzarle come se il fine ultimo fosse gonfiargliele come palloncini.

Stavolta sono pienamente consapevole del mio suicidio annunciato. Perché, dopo il silenzio soffocato dal bacio, di solito seguono le parole, le domande e le risposte, le spiegazioni più o meno stentate. Cosa pensavo di fare: potrebbe essere un’ottima domanda.

Le possibili spiegazioni non lasciano tante speranze: se ci ho creduto davvero, anche solo per un istante, mentre Andrea si girava la sua ultima chance intorno al dito mignolo, sono il coglione per eccellenza. Se non ci ho creduto e l’ho illuso raccontandogli una favola sbagliata, temo di averla combinata grossa, e non sono migliore di lui. Di ciò che l’ho accusato di essere.

A volte Andrea mi fa paura: si aggrappa alla mia schiena con tutti e dieci gli artigli, come se da un abbraccio ne andasse della sua sopravvivenza futura. Respira con affanno contro il mio viso, e non ho bisogno di lasciare che il suo corpo si allacci al mio, inguine contro inguine in un incastro perfetto, per capire che è furiosamente eccitato. E Andrea eccitato è una mina vagante, un magnete capace di trascinarti con sé in una spirale a senso unico. Ha la pelle caldissima, ogni cellula che urla verso di me. Una specie di torpore che inchioda la mia volontà alle sue labbra, una scintilla epidermica che trascorre da lui a me come una scossa. E il calore della sua cute è una fiamma incredibilmente allettante che mi penetra fin dentro le ossa.

La verità è che nell’attimo in cui sembra perdere il controllo, è sempre lui ad afferrarti per i capelli e trascinarti nella sua irrazionalità furiosa. Non è innocente neanche quando contrae il viso in una smorfia estatica e quasi implora pietà per una carezza che lo manda in visibilio. L’unico aspetto innocente della situazione è il turgore palpitante del suo sesso premuto contro il mio come per capriccio.

Andrea si stacca da me e riprende a sorridere, gli occhi velati. Mi trascina sul suo letto come un automa. Solo qualche passo. Avrei potuto alzare la posta in gioco, demolirlo un tassello dopo l’altro, prolungare la sua agonia senza alcun riguardo per i suoi nervi tesi e i suoi spasmi di piacere.

A volte fa quasi paura, perché sembra in preda al delirio, perché c’è in lui qualcosa di ferocemente volitivo. Accelera il respiro come se fosse lui a ricevere baci, mentre mi blocca sotto il suo peso e si china sul mio petto, uno strofinio di labbra come ali di farfalla.

Andrea, basta. Non stai oltrepassando il limite: li stai oltrepassando tutti.

Non so da quant’è che mi trovo su questo letto con Andrea spalmato su di me, le sue labbra che a tratti si uniscono alle mie, a tratti fuggono il contatto. Il suo volto che affonda sul cuscino, il respiro caldo e vibrante su di me, fra orecchio e collo, nell’incavo ideale in cui ha deciso di posare il suo viso.

E poi l’idillio s’infrange in uno scintillio confusi. Andrea rotola su un fianco, gli occhi febbricitanti e il respiro ridotto a un ansito spezzato, una nenia trattenuta fra le labbra che spezza il magnetismo del nostro contatto. Una rinuncia dell’ultimo secondo.

E tu, Gabriele, che cazzo hai fatto?

Andrea si lascia andare a un sospiro, il corpo scosso da un dolce tremore, le dita che, in un ultimo fremito di coraggio, cercano le mie in un intreccio perfetto. Ha la pelle leggermente umida, lucida nella penombra, lo sguardo velato, assente.

- Visto cosa succede…? – mi soffia a pochi centimetri dalla faccia.

Si volge lentamente, le sue dita che mi sfiorano.

Qual è stato il punto preciso in cui mi ha privato della maglietta?

Non osa indugiare oltre. Si limita solo a osservarmi con la sfrontata irriverenza di un felino allungato sul materasso.

Non sono scemo, Andrea. Lo so cosa succede. Succede che la follia dell’uno è causa e conseguenza della follia dell’altro, senza un nesso causa-effetto ben distinguibile. È difficile risalire.

- Senti, Andre… – deglutisco a fatica: qualunque cosa pur di guadagnare tempo, sperando che una manciata di secondi sia sufficiente per studiare il suo viso – Lascia stare.

- Siamo a quota tre – Andrea ridacchia, il contatto fisico sempre più stretto, quasi a voler ripristinare le condizioni precedenti, quando entrambi avete perso il controllo – Tre volte che lanci il sasso e ti tiri indietro. Tre baci strappati senza dirmi perché e percome. Questo, poi, non vedo con quale fantasia tu lo possa definire “un bacio” – si fa più vicino – Un rapporto sessuale sarebbe molto meno osceno. Prova a negarlo, se ce la fai. No, Andrea, no, lascia stare, dimentica ciò che hai appena visto… Sparito! Tutte balle. Perché non sei sincero almeno una volta?

- Sono sincero.

- E quindi…?

- Senti, Andrea. Perdonami, ma non me la sento.

Non mi sento di fare nulla. Perché dopo c’è il vuoto, il salto nel buio.

 

Cosa non ti senti di fare? Di infilarti in una roba astrusa che somigli a una relazione con Andrea Nicoletti, l’ex pupillo di Neri, l’ex amante di Neri? Di afferrarlo per il colletto e sbattertelo anche sui chiodi? Cos’altro?

 

La prima. La seconda come conseguenza obbligata, prima che Andrea si monti la testa.

 

- D’accordo, Gabri. Io non ho fretta. Hai tutto il tempo che vuoi – reazione oltremodo pacata, l’ultima che ti saresti aspettato da lui.

Specie se mandato tragicamente in bianco, mollato lì sul più bello, come l’ultimo dei deficienti. Quasi agonizzante, a ricacciare indietro i suoi spiriti ardenti.

Anche se, al momento, sembra troppo preso dalla difficile operazione di lisciare le pieghe del lenzuolo. Nessun treno irrimediabilmente perduto, stavolta, sparito oltre una galleria di fumo denso.

Niente domande imbarazzanti. È sufficiente l’imbarazzo del dopo, la mancanza di due parole da spiccicare, tanto che devi estirpartele con forza dalla mente.

D’istinto, la tua mano è su di lui e indugia in una carezza come un blando ringraziamento. Sul ventre pallido, teso, incastonato tra le anche in rilievo, un accenno di muscolatura appena rilevata. E poi le dita indugiano. Qualche millimetro oltre l’elastico dei boxer.

Andrea sorride imbarazzato, il volto cremisi. Il respiro riprende ad accelerare.

- Questa è crudeltà, Gabriele. A casa mia si chiama crudeltà – sibila.

E adesso arriva il risvolto inquietante.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo 15 - Fiele ***


 

Capitolo 15

Fiele

 

 

Si è lasciato andare contro la mia spalla, la fronte imperlata di sudore. I contorni del suo viso sfumano nella penombra e nel ritmo accelerato del respiro.

Per un attimo la mente mi dice che è finita. Che alla fine Andrea non ha avuto quello che desiderava. O almeno che la battaglia per ottenerlo sarà più sfiancante del previsto – battaglia da giocarsi sul filo di un sorriso di troppo.

A volte è capace di inquietarmi. O meglio: sarebbe capace di inquietarmi, se non sapessi che razza di tipo è. Coniugare la follia dell’imprevisto alla trama del suo volto è l’unico punto fermo. E poi c’è in lui un disperato bisogno di fisicità, e forse è l’unico linguaggio che gli permette di essere sincero senza incagliarsi in fuorvianti giri di parole o, peggio, nelle sue solite pantomime.

Un tempo avrei detto il contrario: che non fosse nient’altro che il suo ennesimo capriccio, un desiderio egoistico da appagare. Adesso, più osservo il suo volto disteso più mi rendo conto che è una di quelle rare circostanze in grado di restituirmi un Andrea finalmente vero, senza teatrini dietro cui trincerarsi. La copertura è saltata.

Ha continuato a baciarmi e a strofinare il bacino contro il mio fino a quando non l’ho rimesso diligentemente a posto e lasciato distendere al mio fianco. Forse ha capito di aver oltrepassato il limite e si è risolto al compromesso: io mi metto qui e faccio il bravo, tu giurami che non te ne vai.

E tutto ciò che resta, ora, è una duplice tentazione: abbandonarlo non appena il languore del desiderio mal appagato calerà sulle sue palpebre, oppure cedere alla tentazione che mi ha incastrato in fondo al petto.

Ha lanciato il sasso, di nuovo: ora, portata a termine la missione, può riposare il sonno del giusto, perché ha posto il suo quesito e fatto quanto che era in suo potere. Un braccio allacciato intorno a me all’altezza della vita e il volto premuto contro la mia spalla, le labbra che ogni tanto si dischiudono in un bacio, attende.

In teoria spetterebbe a me il secondo passo, ma è ancora più schizzato di quanto immagini, se crede anche solo fattibile che io possa ricadere nella sua rete.

Pensare che non ci sarebbe pericolo, stavolta. E non sarebbe neanche incoerente come coronamento finale. Ma non ho chiesto io l’esclusiva della seconda mossa, e tutto ciò che mi resta da fare è stare a osservarlo.

Dopo una manciata di minuti infinita – a rincorrere con lo sguardo le gocce di luce pomeridiana che piovono nella stanza dagli avvolgibili semichiusi –, è di nuovo lui a porre la domanda e a darsi anche la risposta. È lui a scuotere le palpebre e vibrare il colpo basso, a risolversi nel gesto più sfacciato che il suo cervello potesse suggerirgli.

Un attimo, e la sua mano che abbandona la presa, sfida silenziosa il fruscio delle lenzuola, e la sua mano sfiora la mia, le dita s’intrecciano alle mie e restano lì.

 

Lo sai, Gabriele, che è la cosa più rischiosa e inopportuna che potesse escogitare; e se avesse cambiato rotta all’ultimo momento, se la sua mano fosse finita dentro i tuoi jeans, non saresti restato altrettanto sconvolto. Forse il cerchio si sarebbe chiuso in un risvolto prevedibile.

 

Ora il lupo può riposare sereno, e poco gli importerebbe se approfittassi del suo torpore per sottrarmi alla sua stretta. Ha posto il suo sigillo.

 

L’ha detto: in quale lingua deve ripetertelo? Ti vuole. Vuole fare l’amore con te. Non ha più barriere dietro cui nascondersi né un motivo per farlo.

 

Ma stringerlo a me segnerebbe il punto di non-ritorno. Preferisco aspettare a domani. Non dirò nulla e osserverò la sua faccia quando, sotto la pensilina all’ingresso del “Goldoni”, sotto gli occhi di chi lo detesta e di chi lo adora, i suoi occhi si poseranno su di me.

Perché non ho mai smesso di chiedermi cosa significhi per lui.

Quale sia il ruolo di Loria per quanto riguarda noi.

Il primo dei troppi nodi non risolti. Primo di una lunga serie.

Cosa si sono detti questa mattina e tutte le altre che l’hanno preceduta. Cos’abbiano in mente. È come sentire fili invisibili che ti tirano le braccia.

Com’è possibile che Andrea Nicoletti abbia deciso di buttare a mare tutto, tutto ciò che era e possedeva, intravedendo le risposte vergate a fuoco sul viso di una persona con pregi e difetti che, solo pochi giorni prima, avrebbe attraversato con lo sguardo senza neppure vedere. Un giorno per caso.

Perché Loria e non me, dopo che su di me aveva banchettato, dopo che su di me aveva testato gli effetti più deleteri della sua inqualificabile abilità nel girare il coltello dentro la ferita, nel trascinare le situazioni fino al punto di rottura. È l’ennesimo mistero destinato, con tutta probabilità, a restare irrisolto.

Un giorno soltanto, di fronte ad altri mille, forse basterà.

 

* * *

 

- Niente di nuovo sotto il sole?

Isabella osserva Federico Riccardi dirigersi verso di loro, verso il suo gruppo di amici. Una pacca amichevole sulla spalla di Alessandro e un cenno quasi riverente verso di lei. Una faccia che è il ritratto dello scazzo, lo sguardo che corre su e giù per il piazzale in cerca di una certa persona su cui riversare la rabbia sotto forma di pratici insulti. Un paio di occhiali scuri messi lì a mascherare gli effetti più macroscopici dell’insospettabile gancio destro del caro Nicoletti.

- Lo sai cosa c’è, Alessa’? C’è che l’Accademia sta diventando il club dei finocchi sovversivi… E noi siamo stati gli ultimi a essercene resi conto – sussurra Riccardi, velenoso.

Isa aspira una lunga boccata di fumo e lo fissa annoiata: non ha voglia di trascorrere la mattinata a sorbirsi i rimbrotti di un idiota a cui non va giù essere stato messo al tappeto dal “finocchio” di cui sopra.

Preferisce puntare lo sguardo altrove, oltre il capannello di anime che ridacchiano lì attorno a qualche battuta scema. Altrove, dritto davanti a sé e a vari metri di distanza. Sulla schiena da nuotatore di Gabriele Derossi che le volge le spalle.

Lascia vagare pigramente lo sguardo sulla sua nuca – sui capelli perennemente alla cazzo. Sulla nuvoletta di fumo che si spande intorno a lui e alla dannatissima Loria che occhieggia superba tutt’intorno come se fosse il capo dei capi. Su Andrea che si affretta verso di loro, più svagato del solito.

È strano, perché oggi per lui non è prevista nessuna entrata trionfale. Eppure ha un sorriso che gli taglia la faccia da un orecchio all’altro, gli occhi lucidi come se una divinità l’avesse degnato della sua presenza. Saluta Loria con un bacio sulla guancia e Derossi con una specie di abbraccio che è un po’ una via di mezzo tra una pacca sulla spalla e una carezza.

Patetici e ridicoli. E falsi da rivoltare lo stomaco, che se non fossero così vigliacchi da cercare la forza nel gruppo e fare fronte comune, probabilmente si strangolerebbero a vicenda.

Distoglie lo sguardo, disgustata. Un attimo è sufficiente a perderli di vista nel viavai di studenti, nel brusio indistinto. Poi eccoli di nuovo, immersi nella loro pozza di anonimato. Anonimato un po’ forzato, perché su Nicoletti ci sarebbe tanto, troppo da dire, se non fosse che, al momento, la sua apparizione è così scioccante e fuori luogo che ogni legittima insinuazione abortisce all’istante, e venti lingue pronte al massacro s’inceppano in sincronia senza produrre un suono. Perché ci sarebbe così tanto da dire, di lui e delle sue schifose messinscene, tanto fango da grattare, che un linciaggio non sarebbe da escludere tra le conseguenze.

Dulcis in fundo, i due sempliciotti che forse non hanno capito di essere poco più che passivi ingranaggi, qualunque gioco stia facendo il giullare che infila una cazzata dietro l’altra lì davanti a loro. Il giullare che punta i piedi e fa i capricci in quel magico quarto d’ora in cui dimostrare che ha un potere tale da potersi permettere di dire tutto e il contrario di tutto nel giro di una sera, senza subire conseguenze né essere tacciato d’incoerenza. O preso direttamente a calci nel sedere. Lui e le sue dannate All Star viola da femmina. Lei gliel’aveva detto, che facevano schifo.

Non capisce cosa ci trovi in una come Elena Loria. Che sì, d’accordo, non è brutta come le aveva fatto comodo etichettarla in qualche lontana sessione di pettegolezzi al femminile, quando il sole picchiava forte di pomeriggio e, a corto di argomenti, si ammazzava la noia passando sotto la lente d’ingrandimento lo sciagurato passante.

E lei sapeva bene dove colpire, quando era Loria a capitarle tra le grinfie: bastava ridimensionare un po’ il suo ego e farle capire quale fosse il suo posto. Cancellare il ghigno saccente che si portava stampato sulla faccia – partendo da qualcosa di apparentemente inoffensivo come l’aspetto fisico o l’accento o il modo di parlare –, non era poi una trovata così malvagia.

Perché se Loria, com’era prevedibile, non fosse riuscita a spiccare per altre qualità, salvo l’essere una superba associale senza spessore, sarebbe bastato spenderci qualche commento velenoso, e di lei non sarebbe restato nient’altro che quello: la barzellettaccia costruita al momento, la freccia che sa come e quando colpire. Ci si poteva fare delle sane risate e, al tempo stesso, si poteva rendere innocua un’aspirante vipera.

- Pensi anche tu quello che penso io, Ale?

- Isa, non ricominciare! – Alessandro solleva gli occhi al cielo, un occhio su di lei e l’altro sul cellulare – Non m’importa cosa pensi di Loria. Cioè, potrebbe importarmene, se avessi sentito altro nelle ultime quarantotto ore. Se vuoi saperlo, ti dico subito che, se non ti guardasse come una che ha ingoiato un limone acerbo, la tua “amica” Loria non sarebbe neppure inscopab…

- Ma che discorso cretino! – lo interrompe Isa, storcendo il naso.

- Ehi, si fa per scherzare! Stamattina avete tutti un muso lungo che non vi si può avvicinare…

Isa non ascolta nemmeno. La osserva bene – la piccola arpia –, cercando di capire dove stia la fregatura. Era l’ultima persona che avrebbe creduto capace di rubarle lo scettro. E invece, non solo le ha portato via il suo miglior amico, ma ora sfila sotto il suo naso impettita come una faraona, troppo altezzosa persino per schiaffarle addosso un’occhiata di trionfo.

Anche Federico Riccardi, impegnato fino a quel momento a ipotizzare torbidi incontri sadomaso tra Nicoletti e il professor Neri, ha centrato il nocciolo della questione.

- Loria, eh? – è l’amica di Nicoletti l’infame, quindi merita anche lei la sua razione di commenti all’arsenico.

Le fa scorrere lo sguardo addosso, sui pantaloni scuri che le coprono i fianchi.

- Per me è un uomo. No, davvero: immagina di farti un manico di scopa. Derossi è molto più femminile.

- Non sapete parlare d’altro che dei cazzi degli altri? – Isa spegne il mozzicone sotto il tacco, con stizza – Quello è uomo. Quella è donna. Quello è frocio. Quello c’ha le corna. Questo se la fa con quello. Sembrate due comari.

Sospira. Almeno Nicoletti diceva idiozie meno scontate. E poi come lo faceva lui, il taglia e cuci, non lo faceva nessuno. Per qualche strana coincidenza, sembrava sempre informato su ciò che accadeva dentro e fuori di lì, e sciorinava le sue news come la barzelletta della mattinata.

- Che palle, Isa! Si fa per ammazzare il tempo…

- Invece stavolta ha ragione… – Alessandro sembra sospeso tra il desiderio di Federico di continuare a spalare fango, e la sua urgenza di fare il punto della situazione senza mettere in mezzo altre parole – Non ha molto senso. Quei tre e il verbo “scopare” nella stessa frase fanno un ossimoro vivente. Se scopassero sarebbero molto meno acidi e romperebbero molto meno le palle.

Isa tenta di mascherare un accesso di risa con un paio di colpi di tosse. Almeno Andrea faceva il fatto suo, prima di amalgamarsi a quei due sfigati. Non aveva nulla da invidiare a nessuno – il cervello, chissà. Aveva tutto e aveva degli amici che lo apprezzavano.

Poi un bel giorno succede che gli parte l’embolo, comincia a fare ragionamenti assurdi e a fraternizzare senza motivo con due strani figuri che lo guardavano storto fino all’altro ieri. E a sputare nel piatto in cui ha mangiato fino a quel momento.

- Nicoletti vuole i riflettori puntati, Isa. Dagli tempo: tra un po’ si stancherà a cambierà tattica. Vuole stupire, è sempre stato una maledetta primadonna: per lui l’importante è che stia sulla bocca di tutti, con le buone o con le cattive – il laconico commento di Alessandro, sussurrato sulla porta dell’aula.

Dopo che uno snervante Riccardi sul piede di guerra ha pensato bene di andare ad ammorbare qualcun altro con la sua opera di crocifissione verbale di Nicoletti.

Ridicolo e patetico: se solo avesse bevuto un po’ meno, l’altra sera, e si fosse distratto un po’ meno a coprire d’insulti Andrea, forse non sarebbe finito gambe all’aria contro il bancone del bar. Che poi, la menata su Andrea che preferisce i ragazzi alle ragazze, non è una novità che meriti la ola.

Sospira, Isa, mentre prende posto in aula e inganna il tempo sistemando i suoi oggetti sul banco. Non è così facile dissipare i propri pensieri perdendosi in questioni futili come allineare il quaderno contro il bordo del banco finché i contorni non risultano paralleli.

L’importante, al momento, è rimandare il discorso con Alessandro, perché non saprebbe cosa rispondergli. Che cosa contrapporre a una sentenza che condanna Andrea senza prove a sua discolpa.

E magari evitare pure, nel frattempo, di fissare in faccia il suo ex amico e raccoglierne in cambio uno sguardo di sufficienza mista a scherno, una maschera d’indifferenza con due occhi che ti guardano e non ti vedono, ti trapassano senza sfiorarti. Fugando così anche gli ultimi dubbi, le ultime speranze che sia tutto un terribile equivoco, e non vederlo com’è ora, diverso e distante, ostile, come se un’altra persona avesse preso il suo posto – una persona che lei non vuole conoscere. La conferma che qualcosa d’indefinibile una notte gliel’ha strappato via dalle mani.

Vorrebbe chiedersi cos’è cambiato. Invece preferisce obbligarsi a fissargli la nuca, seguendo il movimento dei riccioli bruni sulle sue spalle. Può immaginarlo, anche se non lo vede. Il suo volto di cui conosceva ogni sfumatura. La persona, l’amico che credeva di conoscere. Una persona razionale e con la testa attaccata al collo, le idee chiare su quali fossero le cause da sposare, gli amici di cui fidarsi, quelli da cui guardarsi le spalle. E quella vena sarcastica tendente all’acidità e costantemente mal compresa, spacciata per cattiveria a buon mercato.

Lei aveva capito cosa intendeva Andrea quando Derossi, per ripicca, aveva deciso di mettersi la sua amicizia sotto i tacchi, limonarsi la belloccia di turno di fronte a mezzo istituto e vantarsi di averlo fatto fesso – e rendendosi semplicemente ridicolo, perché che un incontro bollente tra lui e la smorfiosa francese sarebbe stata la favoletta dell’anno.

Alberti diceva che non era possibile. Gabriele e Blanche: non era possibile. Lo diceva per spezzare la tensione – quando Andrea non era presente, perché certe battute da caserma, in sua presenza, avrebbero assunto un’impronta polemica. Perché probabilmente uno come Derossi potresti chiuderlo nell’armadio delle scope con tre puttane, e non se ne farebbe nulla.

E tutto finiva lì in un’innocente sghignazzata.

Quanto a Blanche, beh, non era nient’altro che una bambolina con poco cervello e una voce urticante: era stato un bene per Andrea essere clamorosamente surclassato da Derossi, perché una così insipida è da scaricare con grazia al rivale. Blanche e Gabriele facevano una coppia d’idioti ben assortita.

C’era stata, lei. Presente. C’era stata quando Derossi si era preso il benservito che meritava, e da quel momento aveva cominciato a frantumare le palle a mezzo istituto con il festival del vittimismo, l’umore sul depresso andante e la sindrome dell’eterno offeso.

Valeva davvero la pena che Andrea si rovinasse le giornate dietro a uno così, buono soltanto a masticare astio e farti pesare i suoi rancori fino alla prossima glaciazione?

Lei la favola del Gabriele depresso e scazzato perché non mi si fila più nessuno e sono piccolo e nero, non se l’è mai bevuta. In fondo, anche il bravo Derossi è un furbastro che, in mancanza di altre cartucce da sparare, si tenta quella del ricatto emotivo.

Lei li ha sempre capiti al volo, quelli come lui. L’atteggiamento-tipo di chi ha un carattere dalle dimensioni di una nocciolina e, per controbilanciare la sua inettitudine, cerca di manipolare persone e situazioni a proprio vantaggio.

E poi non era giusto che sul palcoscenico, durante le prove, Derossi spaccasse tutto perché cinque minuti prima si era fatto la canna di metà pomeriggio, presentandosi lì schizzato come una molla e senza freni, così da fare la sua porca figura senza paura di sbagliare o rendersi ridicolo. Non era giusto che Derossi facesse tutti i cazzi che voleva e fosse apprezzato e incensato. Per quel poco che può valere. Non ha mai capito come un insegnante con gli attributi come Fabio Neri non si sia mai accorto dei suoi occhi arrossati e della sua faccia sconvolta.

Eppure, la dura realtà è che Andrea le ha preferito un inaffidabile ammasso d’insicurezze, pronto a pugnalarlo alle spalle. Fa quasi pendant con la paranoia numero due che si porta appresso. Elena Loria. Che fino a pochi mesi prima pareva aver scritto in faccia che lei i fighettini spocchiosi modello Nicoletti li passerebbe volentieri sotto la fiamma ossidrica. Lei e il suo dannato complesso d’inferiorità e il fegato che le si rode. L’odio e il terrore di non essere all’altezza.

Come se poi fosse una sua colpa – sua o di Alessandro, o di Andrea quando era ancora Andrea –, avere buone qualità e poca attenzione da dedicare alle rosicate da manuale di qualche stupido che vuole farsi largo a gomitate. Loria invece l’ha urlata, la sua presenza. Stavolta le conseguenze di una sua mossa non passerebbero inosservate.

Sospira, Isa. Non era colpa sua, se Loria rosicava, sempre sola a contemplare dall’esterno i fatti altrui, invidiosa del rapporto speciale tra lei e Andrea. Se le è sempre andate a cercare, perché chiunque fuggirebbe da una così… negativa. Triste e insignificante. Sempre nell’angolino, sempre a masticare acido. Non era colpa sua, se lei aveva Andrea e Loria non aveva nessuno. No, cara, non è colpa mia se sei una debole.

E non era colpa di Andrea, se Gabriele, senza doping, aveva il carisma di un portapenne e la credibilità – sopra il palco e soprattutto fuori, nei rapporti umani – di uno che recita l’Amleto vestito da clown. Non era una colpa di Andrea il suo non sapere che farsene di una simile palla al piede: aveva di meglio. Poteva avere di meglio.

Poi il cataclisma è arrivato un giorno per caso, e Loria e Derossi, contro ogni rosea previsione, si sono rivelati due insospettabili avvoltoi, pronti a lanciarsi sulle carcasse ancora sanguinanti. Hanno stupito tutti.

L’hanno recitata bene, la parte delle acque chete e dei finti sfigati. Hanno deviato ogni attenzione. Piccole formiche che, resistendo all’idea di gustarsi un piatto caldo, hanno tramato e lavorato alacremente, per poi irrompere sulla scena al momento giusto, stravolgere tutto e strapparle lo scettro. Peggio: strapparle il suo miglior amico che, sollecitato dall’idea di ritagliarsi un posticino ancora più comodo, o abbagliato da qualche strano luccichio, ha preferito votarsi alla causa di due sciacalli.

Perdenti, sciacalli e figli di puttana matricolati: deve riconoscerlo. Perché, se la situazione non la toccasse da vicino, nei panni di chi si trova a perdere pezzi per strada, forse la loro abilità di strateghi le strapperebbe una scintilla di ammirazione. A denti stretti.

Isa scuote il capo, assorta, lasciando snebbiare la vista. Tenta di concentrarsi sulle parole del professore che si perdono nell’aria. Gli occhi fissi su un insolito terzetto cui non ha ancora fatto l’abitudine. Elena e Gabriele alla destra e alla sinistra di Andrea come i due ladroni.

Stringe le palpebre, Isa. La rabbia che, per un attimo, le tinge la visuale di sanguigno. E poi, di nuovo, s’impone di attendere e di ragionare. Calma.

Gabriele, ad esempio. Pensare che al primo impatto non sembrava uno sfigato incattivito con tutte le rotelle fuori posto – almeno, non prima che aprisse bocca, ragguagliando il mondo sulla sua assenza di materia grigia. O forse anche quella è stata una farsa: fingersi stupidi e poi fregare tutti sul più bello.

All’inizio – forse la prima settimana o giù di lì – era stato il figurino della situazione su cui qualche sua amica aveva addirittura posato gli occhi. Il ragazzo di cui pure lei si era invaghita – quasi. Che l’aveva respinta dicendo che gli piaceva l’uccello. Da lì era stato il parossismo della follia, la discesa dalle montagne russe.

E quando ormai la sua reputazione era a pezzi, e lui non valeva più nulla – sforzandosi di non essere troppo cattiva –, Isa non può negare che tutto ciò che Derossi ha subito, se l’è meritato fino all’ultima goccia. Quando a un certo punto non ci sono stati più bei faccini, belle spalle e bei fondoschiena che tengano, è diventato feccia.

Pensare che non sembrava male, si ripete. Non era male, prima di distogliere l’attenzione dalla sua faccia ingannevole, da quel grazioso specchietto per le allodole, e vederlo rivelarsi un essere patetico e senza spina dorsale, rosicone e manipolatore.

Chissà se era vero, che aveva una cotta allucinante per Andrea e, di fronte al suo sdegnato – e legittimo – rifiuto, avesse deciso di tentarsela per vie traverse. Plagiarlo, spingerlo a rompere tutte le sue amicizie, per poi lasciarlo solo contro tutti e vendicarsi di tutte le volte che l’aveva umiliato e messo da parte. Umiliazione inevitabile, perché tra Derossi e Nicoletti no, è inutile, non c’è e non può esserci confronto che tenga. Non riesce neppure a tracciare un paragone. Andrea è su un altro pianeta: professionalmente, umanamente. C’è dentro con la testa – o forse c’era. Sa come giocarsela. Inevitabile, per uno come Gabriele, fighetto azzimato e incolore, tanto fumo e poco arrosto, che Andrea se lo mangiasse a colazione.

Ma ecco che il caro Derossi, uomo d’incrollabili principi, messo al tappeto su più fronti, pensa bene di giocare a fare l’amicone, non appena Andrea si trova in difficoltà, e intanto guadagnare tempo. Dannato impostore.

Le dita le si serrano sulla penna in un impeto collerico: ha capito il gioco di Derossi, ma non può fare nulla per mandare all’aria la sua pagliacciata. Non può dimostrarlo.

Poi c’è Loria e, a differenza di Derossi, può ammettere tranquillamente di averci visto giusto fin dal primo momento: gattamorta per antonomasia, sgomitatrice e gufa di prim’ordine.

Il suo unico errore, con lei, forse è stato sottovalutarla, non considerando la possibilità che la signorina potesse risorgere dalle sue ceneri aggrappata alla tenacia del proprio rancore e a una fortuita occasione di rivalsa. L’aveva liquidata troppo in fretta, come una cosetta da poco, inoffensiva, in fin dei conti. Invece Loria è stata più astuta: ha nascosto le sue intenzioni non pacifiche dietro una parvenza apatica e menefreghista, per poi gettarsi ad armi sguainate sulla vittima, non appena è scattata l’ora X. E ci ha banchettato sotto i suoi occhi.

Tutto ciò che resta, è la sua amicizia con Andrea avvelenata, stuprata da assurdi malintesi rigirati ad hoc da una serpentessa di razza che, se non avesse l’ego grande come tutta la stanza, le sbatterebbe in faccia il suo trionfo urlandoglielo con ogni cellula.

 

Ora ci sono io al tuo posto. Hai fatto male a sottovalutarmi, cara. Ero forse io a valere poco, a non sapermi giocare un rapporto come si deve? O lo stupido è chi i propri amici se li fa sfilare da sotto il naso?

 

Maledetta arpia. Si è infilata tra loro come l’erba cattiva; quella testa calda di Andrea ha fatto il resto, e adesso neppure la cerca. Non le parla più, finge che lei non esista.

Andrea le manca – sì, anche se lo odia e lo considera un voltafaccia, un cretino. Manca la sua conversazione, i suoi modi spiazzanti. Il saluto del mattino, i suoi occhi ridenti che ora sono tutti per una certa ineffabile coppia di serpenti.

È anche uno dei pochi con cui riuscisse a portare avanti un discorso intelligente: così… non è divertente prendere il caffè nell’intervallo. Non è più tanto facile sentirsi bene, avere qualcuno con cui confidarsi e capirsi al volo.

C’è Alessandro che sì, è intelligente, ma ha un carattere fottuto: se osasse confidargli anche solo un decimo dei suoi sospetti – di quella che sta rivelandosi una lettura niente male della storia –, riuscirebbe poi a trattenerlo da una reazione impulsiva? Tipo l’altro giorno, quando si è ficcato in testa di spaccare la faccia di Gabriele e farla pulita. Non è il caso di risvegliare gli istinti bellicosi.

Al momento resta scoperta Elena Loria. Lei che deve pagare più di tutti.

 

- È vero che le acque chete rovesciano i ponti…

La strega si è appena voltata nella sua direzione, così lenta che probabilmente non considera che si stia rivolgendo a lei.

Hai ragione, Loria: tu sei infallibile, non sbagli mai. Raramente le conseguenze delle tue azioni arrecano danni ad altri. Ma questo era il tuo intento, a quanto pare: nuocermi. Portarmi via qualcosa cui tenevo.

La osserva bene, Isa. Non è brutta – dannazione a lei. Nemmeno quello.

Non era necessario che lo fosse, un tempo: bastava convincere gli altri, creare la battutaccia, il tormentone, scherzarci un po’ a tempo perso.

A quanto pare, non sarà bellissima ma è una che piace. Ha quel tipo di faccia vagamente spigolosa e dai lineamenti minuti che piace tanto a Neri. E ad Andrea. Nel complesso ha un’aria da fricchettona e uno sguardo odiosamente compiaciuto. Da vipera.

Isa serra le labbra. Per un attimo è tentata di colpirla, di afferrarla per i capelli. Poi, osservandola bene, di colpo le fa paura. Non ha un’aria compiaciuta, Loria. Ha un’aria seccata, come se la compatisse.

L’istinto di prenderla a schiaffi è forte, sale e scende a ondate, ma non porterebbe a nulla di buono: farebbe di lei una bulla come Alberti – che a quanto pare non teme cadute di stile.

E poi Loria comincia a farle paura sul serio – non è solo una sensazione: è minuta, ma la sua faccia è terribile. È un fascio di nervi con dieci artigli laccati.

- Cosa vuoi, Isa? – ha un tono di voce annoiato e sembra che non veda l’ora di tornarsene dai suoi burattini.

Calma, Isa. Prova a conoscere il nemico. A giocarti qualche opportunità.

- Posso parlarti civilmente due minuti, Elena, o devo aspettare il disgelo?

Loria scuote le spalle. Non si spreca neppure a degnarla della sua voce.

Calma, Isa. Ce la puoi fare. Basta pensare ad altro e resistere alla tentazione di insultarla.

- Si tratta di Andrea…

- Oh, allora ho capito tutto – Loria la interrompe, accendendosi una sigaretta con tutta calma – Sinceramente, non so che farci.

- Cosa gli hai detto? – la voce trema in un impeto di collera.

Calma. Di nuovo. Non merita soddisfazione. È un’inutile ragazzina che per puro caso si è trovata con il coltello dalla parte del manico.

- Io? Nulla di particolare e nulla che ti riguardi, Cortesi. Solo che… gli amici a volte giocano brutti scherzi.

- Già… – Isa ammicca, un sorriso largo che le taglia il volto come uno squarcio – Gli amici, Loria. Andrea dovrebbe guardarsene bene. Non è il mio caso: non so se ti sia sfuggito, ma la questione è tra lui, Alessandro e, in parte, Gabriele. Non capisco cosa c’entri io e perché Andrea dovrebbe avercela con me.

- E io non so che diavolo risponderti. Ti sei risposta da sola. Sarà che non hai mosso un dito per difenderlo, quando qualcuno gli ha dato della puttana? Sarà che stai sempre appiccicata ad Alberti a tenergli bordone, a ridere a tutte le sue stronzate? Sarà che Andrea non si fida più di te? Non ha tutti i torti: non è poco quello che gli avete fatto.

- Io non gli ho fatto proprio nulla. Ha iniziato a farsi un mucchio di seghe mentali, ora si sente una merda e vorrebbe scaricare le colpe su di me e su Alessandro per dire che, tutto sommato, non è l’unico che deve sentirsi una merda. Suona già meglio.

- Avrà i suoi motivi, se vi tiene a distanza. L’avete esasperato, avete messo in giro voci orribili sul suo conto. Gli avete fatto il vuoto attorno. Poi, se conosci bene Andrea, saprai che non ama chi cerca di fargli il lavaggio del cervello.

Isa impallidisce. Questo è troppo. Loria scherza con il fuoco. È una sfida annunciata: ha detto la parola chiave, ha acceso la miccia. Se conosci bene Andrea, saprai che.

Mette in dubbio la vostra amicizia e lo fa con cattiveria compiaciuta. Perché ora c’è lei al suo posto: è naturale. Il re e la regina. È il concetto che la vipera vuole rimarcare: stai invadendo il mio seminato, cocca.

E così hai raggiunto il tuo scopo, maledetta: mandare all’aria amicizie consolidate, rovinare i rapporti degli altri perché che non sei in grado di averne di tuoi. Di farti una sottospecie di vita. Perché sei fredda e vuota, non ti lasci neppure avvicinare e vorresti l’impossibile. Ti piace privare gli altri di ciò che tu non puoi avere. Perché non sei capace. Non sei capace di fare nulla, tranne rovinare la vita degli altri per sentirti meno sola. Dannato sciacallo.

- Senti, Loria. Voglio che mi ascolti – ha la voce calma, Isa.

Ma gli occhi di Elena sono fissi nei suoi, cupi e fondi e imperturbabili. La piega del labbro annoiata. Ora mi ascolti.

- Non so che cos’abbia in mente. Non so cos’abbia detto ad Andrea per rivoltarmelo contro.

- Assolutamente nulla. Non so cosa sia successo e non me ne importa, visto che è successo prima che Andrea venisse a cercarmi. Quindi, se permetti, dovresti cercare altrove. Nella tua testa, magari.

- Ora mi ascolti davvero, Loria – un disco incantato, mentre cerca di svincolarsi dalla stretta di quegli occhi beffardi – Sai che noi due non c’entriamo nulla con questa storia. Sai che questa situazione dipende dal fango che Alessandro e Andrea si sono buttati addosso a vicenda. E sai bene che è un semplice stallo. Non sai che cosa sarà dopo.

Elena arriccia le labbra con sufficienza. Distoglie lo sguardo.

- Non ho mai avuto la pretesa di predire il futuro.

Già: le streghe della tua specie preferiscono nuocere in giro e farsi belle dietro alle difficoltà altrui.

- Lo sai che cosa succede dopo? – lo sai che cosa succede, piccola puttana fallita? La tentazione di coprirla d’insulti è ancora forte – Succede che torna tutto come prima. Andrea e Alessandro fanno pace… E poi non vedo cambiamenti all’orizzonte. È chiaro che per Andrea è tutto un gioco di schieramenti… e forse anche per te. Peccato che la situazione che al momento ti fa gongolare, non durerà in eterno. Andrea tornerà da noi, e tu te ne andrai all’inferno.

Isa tace. Spera che qualcosa abbia scalfito quel marmo.

- Ammettiamo che tu abbia ragione. Però c’è qualcosa che non quadra: l’hai detto tu, che io e te non c’entriamo nulla. Ammettiamo pure che, prima o dopo, Alessandro e Andrea tornino amici… E la vedo dura. Che cosa c’entriamo noi, dopo?

- Te lo dico io cos’è, Loria. Che non hai capito un cazzo. Davvero, seriamente, cominci a farmi tenerezza. Credi davvero che Andrea faccia sul serio? Che si sia abbassato a una come te senza un secondo fine? Che ci sia una possibilità che ti consideri lontanamente praticabile? Mio Dio! Pensare che stavo quasi per rivalutarti. Credevo avessi un po’ di giudizio. Dico: Andrea… e te. No, aspetta! Non dirmi che è come penso! Sei innamorata di lui e pensi che ti ricambi? Oh, dimmi che non è così, ti prego!

E ride. Una risata carica, forzata.

- Hai un concetto così basso del tuo amico? – non ride Loria: è serissima.

- Beh… se permetti, lo conosco bene. Non si ricorderebbe neanche che esisti, se non ci fosse un interesse. Tipo farsi vedere in giro con qualcuno che non ci va a genio per fare il Bastian Contrario… In fondo, non si comporta meglio dei mocciosi che pestano i piedi. E non so chi di voi mi faccia più pena: lui che è un bambino di diciannove anni, o voi due che prendete sul serio ogni sciocchezza che vi racconta. Rilassati, Loria: non saresti comunque il suo tipo. Forse Derossi, ma mi sembra un po’ teso per i miei gusti. Anche lui dovrebbe rilassarsi un po’ e rassegnarsi che il mondo non gli gira intorno. Altrimenti, visto ciò che Andrea pensa di lui… potrebbe non prenderla bene, se sapesse che quella del suo nuovo amichetto è tutta una farsa per attirare l’attenzione, sfruttando voi due sfigati. Povero, chissà cosa farà stavolta… Magari proverà a tirare di coca per tirarsi su.

Loria si torce le dita, in silenzio. Non sembra accusare il colpo – non come Isa vorrebbe –, ma ha l’aria di una che si sta facendo una violenza psicologica non indifferente per continuare a tener le mani a posto.

- A me sembri tu quella che tira, Cortesi. E adesso, se permetti, starai tu ad ascoltarmi un po’. Dimmi una cosa: chi è tra noi due quella che ha levato il saluto ad Andrea, da quando ha detto di non pensarla come il branco? Chi sei andata a spalleggiare, quando Andrea e il tuo amico Alberti per poco non si azzuffavano? Alberti, naturalmente. E allora tienitelo stretto e lascia in pace Andrea, che non sa che farsene di una che lo manda al diavolo e sale sul carro del vincitore. E poi, chi è andato a diffamare Andrea in lungo e in largo? Tu, anche se non lo ammetterai mai. Ci hai messo di tuo. L’hai pugnalato alla grande, tu con il tuo compare di merende… Tutto di nascosto, tutto a sua insaputa. Gli avete fatto terra bruciata intorno, l’avete isolato. E ora che l’avete messo al tappeto, ti sei chiesta che senso ha continuare con questa specie di crociata. Nessuno, no? Correggimi se sbaglio. Adesso lo vorresti di nuovo con te, a tua disposizione. Vorresti che si cospargesse il capo di cenere e tornasse da te, perché non sopporti che abbia altri amici, che ritenga altri esseri umani degni della sua compagnia. È questo che non sopporti: che Andrea riesca a sopravvivere dopo che hai tagliato il cordone. Visto che ci tieni, ti informo che Andrea non sente affatto la tua mancanza.

Isa sorride di nuovo. Un sorriso tiratissimo.

Attenta, Loria. Attenta. Sei stata furba. Ma adesso attenta, perché ti farai male. Non farò due volte lo stesso errore, sottovalutandoti. Perché sei un maledetto cancro che si è attaccato ad Andrea e me l’ha strappato via.

- Immagino che adesso preferisca la tua compagnia. Tu che gli sei piombata addosso, che hai fatto il deus ex machina. La cosa che non mi è chiara, a questo punto, è chi, tra voi, stia bluffando più di tutti. Se è Andrea che manovra voi due ingenui facendovi credere pure a Babbo Natale o, al contrario, se siete voi che avete previsto le sue mosse e lo state friggendo a dovere. Dev’essere così, sempre che non vi siate bevuti il cervello. E l’Andrea che conosco io, per la cronaca, preferirebbe l’eremitaggio al mettersi alle calcagna di una sfigata che non sa stare al mondo e si comporta da stronza.

- Continui a contraddirti, Isa – Loria ha di nuovo quel fare accondiscendente che le dà sui nervi – Se per i tuoi standard sono una stronza, dovrei saperlo bene, come si sta al mondo, no?

- Senti, Loria, questa è la prima e l’ultima volta che te lo dico: gira sui tacchi finché sei in tempo, mettiti al riparo. Perché che Andrea tornerà quello di una volta - e non è mai stato diverso da quello che conosco io -, è un dato di fatto; e ti assicuro che fino a quel giorno farò di tutto per renderti la vita un inferno. Non costringermi a strappartelo con le cattive, a farti vedere com’è fatto veramente e a lasciarti cornuta e mazziata… A infrangere il tuo bel sogno. Ti farà male, tesoro. Sentirai tutto che ti crolla addosso e tornerai più triste di prima. E la stessa cosa vale per il tuo amico fattone.

- E tu, Cortesi, segui meno soap-opera da due soldi e stattene coi piedi per terra. È una specie di minaccia la tua, se non sbaglio…

- Prendila come un avvertimento – le soffia Isa, gelida.

Loria affonda le mani nelle tasche. Nessuno straccio di emozione sulla faccia, ma in fondo è pur sempre una studentessa d’Arte Drammatica, un’attrice più che discreta, e il maestro di favoritismi Neri stravedeva per lei. Sa come mimetizzarsi, la stronzetta: si limita ad applicare quegli stessi principi che ha studiato, nulla di più, e stare su un palco o in un universo immaginario o immersa in una circostanza di vita reale, non fa alcuna differenza. Stessa fredda focalizzazione dell’obiettivo, stesse strategie.

La osserva mentre si fissa la punta delle scarpe. Décolleté nere a scivolo. Tutto nero tranne gli occhi, che sono brace. Almeno non ha i gusti strampalati di Andrea. Ma lui deve essere eccentrico per contratto, ci mancherebbe; deve colpire e brillare, nel bene o nel male. Staccarsi dal fondo. Loria, tempo qualche mese, e sarà di nuovo nel limbo. Le scarpe modello funerale sono deliziosamente a tema.

Te lo porterò via e te lo rivolterò contro, solo per vederti strisciare. Ti restituirò tutto con gli interessi.

- Senti, Cortesi, va’ al diavolo!

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo 16 - Cenere negli occhi ***




 

Capitolo 16

Cenere negli occhi

 

 

La pensilina davanti all’ingresso, appena scatta l’intervallo, esplode in un brulichio di anime e di chiacchiericcio.

Non è un’ottima scelta, trattenere il respiro e gettarsi in apnea nell’oceano dei mormorii, quando l’unico desiderio è ritagliarsi qualche istante tranquillo per fare ordine nella propria testa.

E fumarti la tua santissima sigaretta senza l’impellente necessità di stabilire pubbliche relazioni. Più adatta allo scopo, la terrazza dell’ultimo piano, una distesa di cemento spoglio e rovente con il parapetto aggettante che si getta nel vuoto

Il primo impatto non è troppo piacevole: un lampo bruciante che t’investe in un caleidoscopio di lacrime e visuali sfocate, confuse nel respiro ansante per la corsa, con uno scialle di piombo sopra le spalle e nessuno spicchio d’ombra in cui ripararsi.

Tutto ciò che puoi fare, è aspettare che la vista si abitui al chiarore abbacinante, e osservare la città oltre l’orlo del burrone. Un quadro estemporaneo che precipita fino al molo e poi ancora più giù, con il porto immerso nella foschia e la distesa perlacea del mare, all’orizzonte, interrotta dalle sagome dei palazzi svettanti che si frappongono tra te e la tua visuale. Il formicolio soffuso del traffico che punge le orecchie, e ai tuoi piedi la città che respira e freme di vita in sintonia con i minuti che passano.

Si sta quasi meglio, ora, anche se non tira un alito di vento e tutto tace, tutto immoto, come un fotogramma casuale.

Il fatto che un esserino irritante come Isa Cortesi sia venuto a spiccarti in cima alla tua rocca invisibile, col fermo intento di sputarti addosso, è l’eccezione che non intacca la regola.

Forse sarebbe stato meglio essere rimasta in aula. C’era Andrea che sorrideva e si comportava da essere umano, e Gabriele con una faccia meno scura del solito. A sancire la decisione ultima fu la prospettiva allettante di una sigaretta da fumarti in solitudine, qualche secondo per riprenderti dal torpore post-lezione e a decifrare il dramma tragicomico che ti si consuma intorno.

La stoccata improvvisa non è arrivata insieme a Isa e alla sua testa rossa, gli occhi colmi di ruggine. È arrivata dopo. Dopo che lei è andata via – raccogliendo l’invito di andarsene all’inferno con un ghignetto strafottente.

Ha parlato, Isa. Ha versato secchiate di veleno fino a esaurire le scorte. Secchiate di veleno che ti sono scivolate addosso, inconsistenti, perché la mente è troppo fredda per recepire, il cuore scollegato, i nervi tesi nella focalizzazione dell’obiettivo: rendere innocuo il lavorio dell’ape regina.

Non è nulla, dai: solo un ronzio confuso, un concerto di gatti che strillano sul tetto.

Imperativo assoluto: non cedere davanti ai colpi più destabilizzanti.

Non raccogliere la freccia avvelenata.

Vietato dar segni d’incertezza, di sconcerto, di paura.

Vietato oscillare.

Vietato respirare.

Vietato mettere in dubbio che la piccola intrigante si sia inventata tutto di sana pianta, perché seminare zizzania e manipolare le situazioni a proprio vantaggio sono sempre stati i suoi jolly.

Il segreto è usare un po’ di fantasia e anticipare le sue mosse, i suoi tentativi di erodere pezzo dopo pezzo la credibilità di Andrea, di incrinare la vostra reciproca fiducia. Come antidoto, un sorriso accondiscendente che non accenna a scomporsi.

Le ha provate tutte, lei. Sarebbe stata persino convincente. È una psicologa sopraffina che individua con maestria le falle in cui penetrare, i punti deboli, le fessure in cui cominciare a scavare per far cedere l’impalcatura. Solo che stavolta la fortezza era meno fragile del previsto.

La badilata in fronte è arrivata dopo. Quando lei se n’è andata, e ti sei sfilata la tua maschera impermeabile. Quando hai accantonato Isa e le sue previsioni astruse e hai messo a fuoco il viso di Andrea. Andrea, cui hai voluto dare una possibilità. Il velo fragile di una fiducia accordata ma revocabile in qualunque momento.

Isa ha farneticato per un quarto d’ora e corso pure il rischio, tra uno sproloquio e l’altro, di cacciar fuori qualche germe di verità.

Eppure lo sai, che la sua voce non è e non può essere neutrale: il suo burattino ha tagliato i fili, e lei non lo accetterà senza che salti qualche testa. Escludendo a priori che Andrea sia mai stato qualcosa di diverso dal suo gelido compagno di malefatte.

Lei può giocare sui fraintendimenti e rimettere tutto in discussione. Il ruolo di Andrea prima di tutto. Perché l’ha già fatto e lo rifarà finché ne avrà occasione.

Di certo prenderà Andrea e lo sottoporrà a un aut-aut: dimmi da che parte stai, ragazzo. Perché, vedi: Derossi è falso; Loria è brutta e cattiva; Alberti non ragiona più, punta all’eliminazione dell’avversario. Se questo è ciò che passa il convento, ti rimango io, cocco.

E se Elena torna sui suoi passi e manda affanculo Andrea, fa il gioco di Isa. E se qualcosa piove dal cielo e rimette tutto in gioco e la maionese impazzisce di nuovo, Isa avrà la sua ragione.

Ma se Andrea torna sui suoi passi di propria iniziativa perché un bel giorno gli parte il secondo embolo, e decide che Elena e Gabriele – e non Isa – hanno banchettato sulle sue insicurezze, succede che si torna al punto di partenza. Come vuole lei. A quella giusta, agognata conclusione per cui tanto sta brigando.

Fa leva sul ripensamento dell’ultimo secondo, spinge tutti a dubitare di tutti, perché è tutto ciò che può fare, se vuole recuperare un margine d’azione: allentare i legami tra i vertici. Basta che uno solo venga meno, che qualcosa traduca in pratica i più pessimistici sospetti, e la piramide crolla. Basta che Andrea dubiti che Elena o Gabriele stiano dalla sua parte, o che Gabriele continui a vivere devastato dal dubbio, o che Elena faccia un passo indietro, e Isa avrà ragione.

E avrà anche il tempo di decidere da quale fetta cominciare. Distruggere Elena, umiliare Gabriele o reintegrare Andrea nei suoi ranghi?

Una volta, credevi che il pericolo numero uno si chiamasse Alessandro Alberti – che è sempre stato infallibile. Aveva mezzo istituto ai suoi piedi, le sue parole erano Vangelo. Non c’era equivoco, situazione spinosa, passo falso che non sapesse raddrizzare, piegare a suo favore, riassorbire. Ma a un certo punto si è tradito.

Quando si comincia a perdere pezzi, succede che la più raffinata strategia va in fumo. Succede che l’unico punto debole dell’eroe senza macchia viene a galla. Alessandro non è mai stato un campione di autocontrollo: può diventare impopolare, verbalmente aggressivo, provocato nel modo giusto, e dar fondo all’arsenale delle cazzate. Dare della provincialotta alla Loria – insultando gli abitanti di un’intera regione italiana e facendo la figura dello snob e razzista. Oppure attentare all’integrità facciale del suo nemico giurato.

E questo no che non sta bene… Perché perde credibilità, e un Alberti che non si controlla e spara a salve, è strategicamente inutile.

Isa invece è ineffabile, getta il sassolino e provoca la valanga. È il fumo negli occhi che acceca gli avversari finché, impazziti, non cominciano ad azzannarsi fra loro. L’ha fatto e lo rifarà.

Hai capito il suo gioco – a grandi linee. Peccato sia una dannata equazione a troppe incognite.

 

Il sole batte forte e c’è il rischio che qualcuno spranghi la porta dall’interno, chiudendoti là fuori. Nella tua sauna personale.

In capo a un secondo ti sei liberata della felpa troppo pesante e scostata i capelli dalla faccia come un mantello pesante, il volto infastidito e il respiro corto. L’aria è ferma come se il tempo non scorresse più – se non fosse per la sigaretta che ti si consuma tra le dita e ti rammenta che è solo un’allucinazione, la tua lucidità appiattita sotto cumuli d’ovatta, sotto una luce bianca che disperde i contorni.

Socchiudi gli occhi per evitare che la troppa luce ti abbagli, la mente che ripercorre ogni dettaglio all’orizzonte per evitare che la percezione fugga via, che smarrisca i passi. C’è il promontorio con i bordi irregolari e le rocce d’arenaria a picco sul mare che fanno venire voglia di fuggire in volo dalla tua torre d’avorio. Le sagome azzurrine per l’aria troppo densa.

Si vede anche il tuo quartiere e la palazzina con gli alloggi per gli studenti, una vergine di vetro e d’acciaio che sfida il cielo di metallo liquido. Il bar sottostante, dove Andrea si è azzuffato con il bastardo omofobo. E l’incrocio a cinque strade, poco più in là, dove avete tamponato la Opel rossa per evitare di metter sotto il gattino bianco apparso al centro della strada, veloce come una freccia. E tutto conserva il vostro marchio.

Poi, d’un tratto, davanti a te c’è solo Andrea. Che è venuto a cercarti. Un sorrisetto sardonico scolpito in faccia, si dondola spostando il peso del suo corpo da un piede all’altro.

- Ehi… capisco che nell’intervallo evitare certe compagnie è fisiologico, ma anche venire a farsi arrosto qua su…

- Quali compagnie? – sollevi un sopracciglio, confusa.

La domanda si presta bene all’equivoco. A una punta vagamente risentita.

Pensa forse che voglia fuggire da lui?

Invece continua a sorridere. Senza dire nulla, s’impossessa della sigaretta fumata a metà e tira un paio di boccate. Lo fulmini all’istante, perché mettersi il vizio del fumo a diciannove anni, se si è evitato fino adesso, è da cretini.

Il fatto è che, da quando Andrea non tiene più alla sua immagine da perfettino, si sta sporcando un po’ troppo per i tuoi gusti. Troppi eccessi, come prendere a pugni Riccardi, bere troppo la sera e cercare di sedurre Gabriele Derossi sul suo talamo immacolato.

Nel resoconto della sua ultima prodezza, non ha risparmiato sui particolari. Neppure quando gli hai intimato di non tirare troppo la corda con Gabriele. Di non diventare una specie di piattola. Poi avete messo altre parole in mezzo e non ne hai saputo più nulla.

- Spiacevoli compagnie. Quelle che escono a fumare o a far la fila alle macchinette. Quella coi capelli rossi che prima mi ha incrociato e ha fatto finta di non vedermi.

- Buon per te – non riesci a risparmiarti una vena di acidità, e stavolta è voluta – Ti ha risparmiato una sessione di tortura.

- Me ne ha risparmiate parecchie, dato che finge proprio di essersi dimenticata che io esista. O ce l’ha con me, o si sente la coscienza sporca; e comunque mi sta facendo un gran favore.

- Sapessi cosa dice lei di te…

- Che sono un mostro a tre teste?

Sospiri. Frusti l’aria con la mano aperta come a scacciare via qualcosa di fastidioso.

- Più o meno.

- Ha parlato con te, è così? Di me. L’ho incrociata poco fa, e stranamente non era con i suoi portaborse. C’è qualcosa che non va.

C’è molto che non va.

Andrea incrocia le braccia sul petto, uno sguardo indecifrabile.

- Non è stata carina. È così? Ti avrà messo in guardia da me, immagino…

- Perché dai per scontato che ne abbia avute solo per te? – non ci tenevi ad attaccare per prima, ma ormai è tardi per fermare una nota insopportabilmente acuta nella voce.

Comunque vada, lui cadrebbe in piedi.

Hai già cancellato le parole che ti martellava nella testa, quando ero io il destinatario delle sue badilate verbali? Quando la sua abilità nel riempirti le tasche non era stata scalfita così duramente?

- No – sembra calmo – Ne avrà avute per tutti. Ma se mi dici che hai creduto solo a una delle sue cazzate, che hai raccolto solo uno dei suoi tentativi improbabili di metterci uno contro l’altro, giuro che faccio una proposta indecente alla Balducci!

- Mancava che passasse in rassegna le signore delle pulizie, ma per il resto ci siamo.  E per la cronaca, no, non ho creduto a una sola parola.

All’improvviso, vorresti che tacesse o cambiasse discorso. Disperatamente.

- Se non ti secca, sappi che per me non è un disturbo, raggiungerla adesso e dirle di farsi un pacco di cazzi suoi.

- Andrea, ti senti come parli? – stavolta la voce si solleva due ottave sopra il consentito – Era la tua amica… Possibile che ti scivoli addosso tutto? Che non abbia mai provato a parlarci?

Andrea scuote le spalle come di fronte a qualcosa di terribilmente ovvio.

- Perché dovrei? Tra me e lei, non sono io quello che ha problemi.

- Davvero non t’importa niente? Zero, tutto cancellato con uno schiocco di dita, facciamo finta che non ci siamo mai incontrati…?

Andrea si scosta i capelli dalle spalle. Sono fermi com’è ferma l’aria, senza un alito di vento, e il suo sguardo è ugualmente fermo. Non sembra risentire neanche del caldo torrido. Il volto perfettamente pallido, intangibile.

- Senti, Elena, mettiamola su questo piano. Ammettiamo per assurdo che il modo orribile in cui si è comportata con te e con Gabriele non abbia contribuito a farmela scendere dalle palle. Ammettiamolo per assurdo. Ecco… mi ha dato comunque abbastanza motivi per fuggire a gambe levate. Me ne ha fatte così tante che non so da dove cominciare, e senza neanche il beneficio di mandarmi affanculo. No, lei guadagna tempo. Continua a scavarmi la fossa e a dare retta ad Alberti. Mai che sia venuta una volta a dirmi, che so, che il mio comportamento le faceva schifo. Nulla, solo la guerra fredda. Tanto peggio per lei, e se pensa che alla fine alzerò bandiera bianca per sfinimento, ha mancato il bersaglio. Non ce l’ho con lei così, di riflesso, non è solo che tu e Gabriele siete i miei nuovi amichetti e devo difendervi da loro. E già questo mi dà sui nervi… Mi ha sputtanato in grande. Se n’è già dimenticata? Io mi fidavo, le raccontavo i miei cazzi, e lei a quanto pare non si è fatta scrupoli di rivoltarmi contro quello che sapeva e anche di più. Mi ha pugnalato e voltato le spalle e adesso cerca di atteggiarsi a vittima. Cosa ti ha detto, Loria? Dai, voglio farmi quattro risate…

- Che siamo tre poveretti che cercano la forza nel branco.

- Ha descritto praticamente se stessa e la sua cricca.

- Che tu prendi tutti per il culo. Poi si è corretta, e i machiavellici della situazione siamo diventati io e Gabriele. Non lo sa neanche lei. Pensa che la tua sia una farsa per stare al centro dell’attenzione. Che quando la situazione sarà di nuovo limpida, tornerai da loro con la coda tra le gambe ed io me ne andrò all’inferno… E lei provvederà a mandarmici personalmente.

- Dio mio… È disperata, non sa che inventarsi. Pensa che il vecchio meccanismo funzioni sempre: spandere merda fino a che tutti non si odiano a vicenda e, per contro, si affezionano a lei. Ma stavolta temo che il gioco si sia inceppato. È così banale che, se dovessimo diffidare della nostra ombra, saremmo così coglioni da meritarci in pieno il trattamento da pupazzi che ci riserva. In questo momento, farci litigare le farebbe molto comodo, e così se la tenta anche con i mezzi idioti. E tu non le credi, vero?

- Te l’ho detto, non le credo. Ho capito cosa vuole fare… Si gioca l’ultima possibilità. Ma non me ne importa. Vorrei capire perché è così ossessionata da te, questo sì.

- Ossessionata? Ha sempre fatto tutto da sola. Da come ti ha parlato di me, non credo mi tenga in alta considerazione.

- Non proprio. Ti ha dato del moccioso. Poi però ha ritrattato e ha detto che per lei sei troppo figo per abbassarti a noi comuni mortali. Non pensi che per una volta, senza volerlo, fosse sincera? Che sputi tanto veleno perché alla vostra amicizia, a modo suo, ci tiene ancora?

- Mah. Penso molto meno di quanto dice. Le piace tenere la gente sotto controllo, scegliere quando prenderti con sé e quando buttarti nella fogna. Finché eseguivo i suoi ordini, finché i nostri obiettivi erano gli stessi, tutto bene. Appena è andato storto qualcosa, sono Giuda.

- Non è che per caso… le interessavi in un altro senso?

- Io ad Isa?! Ma se non mi ha mai visto come nient’altro che l’amichetto frocio da “redimere”! Pensa, credeva bastasse infilarmi nel letto le sue amiche ninfomani…! Per tenermi a bada. Adesso le secca aver perso la sua posizione strategica. Le secca che non mi sono prostrato ai suoi piedi. Che non pendo dalle sue labbra e sto meglio con voi che con lei: non se l’aspettava. Credeva fossi un bamboccio alle sue dipendenze. Però, in compenso, le piaceva Gabriele. E neanche poco… – ammicca.

- Aiuto…! Se tratta così chi le piace, non voglio pensare a cosa faccia a chi non le piace. Comunque, se volevi illuderla di essere uguale a lei, ci sei riuscito benissimo. Chissà che reazioni, da parte tua, quando buttavate fango su chi non vi andava a genio…!

- Di te non ne parlava, non di fronte a me. Le dava fastidio che ti stimassi come collega e che fossimo entrambi i preferiti di Neri, ma evitava l’argomento. Con Gabriele dava forfait… avvelenatissima. A nessuno interessava dire il contrario, e poi era risaputo che io e Gabriele ci stavamo sul cazzo a vicenda, e la nostra rivalità era tutt’altro che sana: tanto valeva concentrarsi sui bersagli facili. Poi c’è Alessandro, che è capace di far scoppiare un caso diplomatico per mezzo voto in più o in meno…

- Prendersela con Gabriele, esasperarlo e metterlo in condizioni di andarsene, per loro voleva dire un rivale in meno per loro. Ma tu…?

- Io sono entrato nel gruppo quasi per caso. Non potevano mica fare la guerra a tutte le persone potenzialmente “scomode” che incrociavano. Qualcuno dovevano tenerselo buono… farselo amico e ricavarci qualcosa. Se no, avrebbero fatto prima a recitare in camera loro di fronte allo specchio.

Annuisci con un mugugno. Vorresti con tutte le tue forze non apparire scostante – come se per tutto il tempo non avessi fatto altro che rimuginare, pronta a usare contro di lui ogni intonazione di voce sbagliata. È che qualcosa da un certo punto in poi si è spezzato, e l’atmosfera era bella che andata.

Stai facendo il gioco di Isa – te ne rendi conto? Non ha avuto la resa incondizionata su tutti i fronti – tutt’altro –, ma è riuscita a inoculare sottopelle almeno qualche stilla di veleno.

Non serve a nulla mettere sotto torchio Andrea. Non è un maxiprocesso, e lui non è l’imputato. Ci resterebbe male, se gli facessi capire che hai queste riserve nei suoi confronti. Ma lui, anche con le migliori intenzioni del mondo, non è mai stato un campione di trasparenza.

Isa stavolta procederà piano, e la calunnia non sarà l’ingrediente principale. È sufficiente una dose minima di sospetto per incrinare le pareti, per scavare la voragine granello dopo granello. E fa più paura il pensiero di una graduale, impercettibile erosione, un sentore di pericolo che non ha una forma concreta ma è lì di fronte a te, latente, che sibila nell’aria e filtra negli spazi inavvertitamente scoperti. Basta lasciare che quella complicità nata per caso si accartocci su se stessa sotto il peso del silenzio e di domande nemmeno formulate. O di troppe occhiate inquisitrici.

Accasciata sul muretto, come se persino l’aria pesasse troppo, spalle rivolte alla città, in attesa che i minuti passino. Andrea accucciato ai tuoi piedi. La testa sulle tue ginocchia – è un’abitudine troppo ben radicata, come se la sua mente in ebollizione pesasse troppo per tenersi la testa ben salda sulle spalle.

Sembra stanco. Comincia a risentire del calore eccessivo, di quell’aria bollente, appena respirabile che vi fa sentire chiusi in una bolla di sapone. Sospira, si ravvia i capelli all’indietro. Socchiude gli occhi nella tarda mattinata allagata di sole. Non sembra stare più tanto bene: potrebbe avere un calo di pressione da un momento all’altro, eppure resta ancorato lì al tuo fianco, al leggero strofinio della guancia sul tessuto ruvido dei jeans come unico appiglio alla realtà.

Hai mai pensato che ci sia stato male anche lui? A scoprire che persone che considerava amiche, l’avevano tradito e gettato via come uno straccio? Tastare con le sue mani il fango che gli gettavano in faccia?

Hai pensato che l’atmosfera pesante che gli hanno creato intorno, stia cominciando a fiaccare le sue resistenze; che il boicottaggio silenzioso inizi a fare male? Che se crollassi tu, lui crollerebbe con te?

È svanita quella barriera di diffidenza, quel senso di smarrimento che soffiava su di voi fino a qualche istante fa. È venuta meno la barriera razionale: all’Andrea che pondera e argomenta, che reca le prove a sua discolpa e rispedisce indietro le accuse, si è sostituito il silenzio, la componente non razionale. La ricerca quasi esasperata del contatto fisico come ultimo baluardo di certezza. Non che le certezze si siano volatilizzate del tutto; manca la connessione logica, il passo decisivo.

Di colpo, si è alzato in piedi e ti ha preso tra le braccia. Cerca la fisicità, il respiro che gioca tra i capelli, sulla pelle sensibile del collo.

Torni ad osservare il suo viso, ed è quasi una rivelazione.

Quel giorno lontano in Aula Magna – anni luce di distanza.

Quel qualcosa che è scattato in te e ti ha restituito la forza. Il momento in cui è cambiato tutto. Qualcosa che lì per lì ti era parso intrecciato inscindibilmente alla composizione del suo volto.

Solo ora, come un lampo, la consapevolezza.

Non era questo, era qualcosa al di là dei suoi occhi: un punto imprecisato oltre il suo viso da elfo dei boschi, oltre il suo sorriso di zucchero e la sua voce che ti diceva che avevi fatto la cosa giusta. Una molla che è scattata, un’onda anomala che ha travolto e trascinato via entrambi.

Non era Andrea, non erano i suoi occhi, quel qualcosa che di colpo ha preso concretezza. Non era solo questo; è qualcosa di indefinibile, sfugge ad ogni sforzo di catalogazione, ma ha lasciato le sue tracce indelebili. Ha rimesso tutto in forse.

Sembra ancora più strano adesso toccarsi, sentirsi vivi, l’uno nelle braccia dell’altro. Perché ti senti sovrastata, così tanto da tenderti verso di lui per sfiorargli la fronte con le labbra. La guancia che brucia sotto il sole martellante.

- Vieni, torniamo in aula – gli sussurri.

Un braccio allacciato intorno alla vita che non accenna a muoversi.

Dentro. Non è necessario che lui raggiunga lo stato aeriforme perché tu possa scrollarti via le spore corrosive del dubbio.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo 17 - Il cavaliere dell'Apocalisse ***



Capitolo 17

Il cavaliere dell’Apocalisse

 

 

Il rientro in campo è trascorso in uno sfarfallio dorato nel viavai del corridoio, i mormorii dietro i loro passi come ragnatele incollate alle pareti.

Con Andrea che arranca verso il bagno dei professori e si fionda alla disperata sul rubinetto aperto. Dissetato e con la faccia grondante d’acqua, maledice l’assenza di qualcosa con cui asciugarsi e si rituffa a testa bassa nella processione dei suoi simili. Non sente la presa dei suoi occhi azzurro catrame fissi su ogni movimento.

- Che ha Nicoletti, non sta bene? Ha il ciclo? – Riccardi le scocca uno sguardo obliquo.

Isa sente ogni muscolo del corpo tendersi come una molla. Per fortuna Andrea è abbastanza distante da non sentire. Troppo distante e troppo impegnato a riesumare dal fondo della borsa l’inalatore per l’asma e servirsi di una lunga spruzzata.

- È allergico ai pollini e al buonsenso – rilancia Alberti con un ghignetto.

- Con l’onnipresenza di miss Loria dietro il suo culo, propendo per i pollini – Riccardi mima il gesto di iniettarsi qualcosa in vena.

Isa tentenna. Loria si è seduta accanto ad Andrea e gli ha scostato i capelli dalla fronte. Troppo intimi, decisamente troppo.

- Non gli viene mai voglia di tagliarsi le vene? – il ghigno di Alberti si frantuma in un’espressione melodrammatica, gli occhi rivolti verso il cielo.

O verso il soffitto, quell’ostinata ragnatela di crepe sottili.

- A chi dei due? – qualcuno si è intromesso nella sacra conversazione sibilando alle sue spalle, ma Isa non si prende il disturbo di guardarlo in faccia.

Comunque vada, finirà nel solito bailamme di battute e supposizioni inutili.

- Entrambi, ‘sticazzi!

Bonjour, finesse. Non è l’atmosfera giusta, ma l’ordigno deve essere innescato. Isa respira profondamente. Un attimo e via.

- Per me scopano.

Bestemmia. Sancita da ondate di silenzio come martellate.

- Isa, no, ti prego! – Alberti ha assunto un’aria supplice, le sopracciglia corrugate, le mani congiunte – Ho appena mangiato. L’immagine di Nicoletti che tromba, non è il massimo.

Riccardi ride fino alle lacrime e sembra avere un principio di soffocamento. Non sarebbe una cattiva idea – Isa solleva un sopracciglio.

- Buona questa! – Riccardi sogghigna – Secondo te Nicoletti è fisicamente in grado di scoparsi una donna…? Un mucchio di ossa, okay, ma pur sempre una donna.

Isa serra le labbra, il desiderio di sbattere la testa contro il muro. Contro il muro o contro il muso dell’interlocutore. Sospira, stira le labbra in un sorrisetto spazientito.

Nicoletti è gay, maledizione – o bisex o quel cazzo che vuole –, non ha mica problemi di erezione. E lei deve farsi forza e continuare con quel teatrino. Mantenere la calma e inoculare a piccole dosi la sua scoperta dell’acqua calda. Con Riccardi, soprattutto, meglio andarci con i piedi di piombo.

- Le apparenze ingannano, Federico – ingannano sì: Andrea è diventato una specie di marziano – È un animaletto, te lo assicuro. Giulia può confermarlo.

Riccardi storce il naso.

- Non ci tengo, no. Non mi servono dimostrazioni patetiche. Per me, frocio è e frocio resta.

Che cazzo c’entra? Isa si ficca le mani in tasca, il volto corrucciato e un principio d’isteria. Zero a uno per lui. Qualcuno intanto sbircia l’orologio e sentenzia che è ora di andare. Ringraziando il cielo.

- Non è assurdo, no – Alberti si stringe nelle spalle e viene in suo soccorso – Loria gliela dà, Nicoletti prende e ringrazia. E lei lo manovra alla grande. Cosa c’è di strano? O forse Derossi… No, non credo. Derossi è placcato d’oro e incastonato di diamanti. Davanti e dietro.

Isa solleva gli occhi al cielo. Ti pareva non dovesse tirarlo in ballo almeno una volta al giorno. Il dannato Derossi

- Boh, non ne sarei tanto sicura – si osserva distrattamente le unghie – Andrea non è uno che si fa rigirare come niente. Non da una sciacquetta qualunque. Oddio, una volta – sospira: meglio non cantar vittoria, quando si ha a che fare con dei casi disperati.

Di fronte a lei, Giulia si scosta la frangia dagli occhi. Si è sentita tirata in ballo e ha drizzato le antenne.

- Non lo escludo neanch’io – azzarda – Non escludo proprio niente. Anche… che Andrea andasse a letto con Neri, voglio dire: è l’ultima cosa che chiunque sarebbe andato a pensare. Eppure l’ha fatto.

Isa sorride tra sé. Grazie al cielo, Giulia viaggia distante anni luce. Quello era il loro piccolo segreto. Suo e di Andrea. Non che lui fosse del tutto trasparente – neanche con lei –, ma si era sbottonato quanto basta. Una mezza confidenza smozzicata tra il sì e il forse, quella volta che era rientrato alle quattro del mattino e gli serviva uno fidato che gli parasse il culo. Poi i sospetti erano diventati pressanti e, di fronte a domanda diretta, Andrea aveva distolto lo sguardo e sorriso con le gote in fiamme. Questo, più che un silenzio-assenso, è una confessione.

Ma loro erano amici, no? Di lei poteva fidarsi: sarebbe stata una tomba. Persino con Giulia, che gli infilava le mani nei pantaloni un giorno sì e pure l’altro.

Isa osserva l’amica e arriccia le labbra. Una Barbie dal viso squadrato e i fianchi ingombranti pressati dentro jeans troppo stretti, la fissa di rimando. I capelli laccati e lisci come fili a piombo. Vicino a lei, Andrea sembrava sbiadito. E se Giulia sprizzava sesso e cuoricini in alternanza costante, lui tergiversava e si lasciava fare. Senza lode e senza infamia. Eppure le cose andavano mica male. All’epoca. Perché allora c’era lei che faceva quadrare i conti e dispensava i consigli giusti. È sempre stata un supervisore infallibile. E poi Andrea è uno che va guidato, controllato, tenuto per i capelli, se no poi succede che si infogna in qualche pasticcio più grande di lui e non ne esce più. Tipo adesso.

Non si era sbagliata. E allora non era sbagliato nemmeno sacrificare qualche frammento di verità, deformarlo un po’, per evitargli di finire in pasto a certe mantidi religiose – vedi Loria – e tossicomani fuori di testa – vedi Derossi. Gente che non ha niente da perdere a giocare sporco. Ma Andrea, a quanto pare, preferisce buttarsi al cesso da solo.

- Ehi, ti sei incantata?

Isa sbatte le palpebre, qualche istante di confusione. La vista impigliata da qualche parte, sulla faccia di Giulia. Non è galateo fissare le persone, e la visione non è nemmeno un granché. Sorride benevola – se non altro, almeno Giulia somiglia ad un essere umano – e scuote la testa.

- No – pausa strategica, e una domanda che morde sulla punta della lingua – Mi chiedevo solo, ma a te non piaceva ancora… Andrea?

Giulia scrolla le spalle. Sembra punta sul vivo, si morde il labbro, lo sguardo fisso sulla ciocca platinata che si tormenta con le dita.

- No, no. Chissenefotte. Credo preferisca i ragazzi.

Adesso fingi che non ti roda nemmeno un po’?

- Preferisce le puttanelle da due soldi – la voce di Isa è un sibilo soffocato tra i denti.

Di fronte a lei, a una ventina di metri di distanza, Elena e Andrea si dirigono insieme in aula per la lezione successiva. Che, fortunatamente, non li vedrà ficcati tutti insieme in uno spazio cubico a litigarsi le stesse molecole d’ossigeno.

- Ehi, voi due!

Isa si volta di scatto. La voce di Federico Riccardi riesce a risultare canzonatoria persino quando il concetto espresso è neutro. Semplicemente patetico. Specie quando è dalle otto del mattino che la mena con lo stesso guazzabuglio di idiozie cucinato in varie salse.

- La finite di fare la radiografia al pacco di Nicoletti? – incalza – Ha detto che non ve lo dà. Mi spiace per le signore, ma non se ne farà nulla. Piuttosto, guardate là in fondo. Novità.

Giulia si finge interessata alla punta delle proprie décolleté rosa shocking. Isa solleva gli occhi al soffitto.

Che ci sia davvero qualcosa di interessante?

- Oh, una faccia nuova… Serviva un diversivo? Eccotelo servito – sussurra Alessandro, maligno.

Isa ammicca nella sua direzione. Persino lui sembra mal sopportare la piega da cabaret che ha preso la discussione. Magari Riccardi troverà qualcos’altro di cui sparlare, e l’onnipresenza di Andrea smetterà di martellarle nel cervello.

- Una faccia nuova?! – Isa spinge lo sguardo in fondo al corridoio, dove di colpo sembrano essersi concentrate le attenzioni del gruppo.

E la faccia le si contrae in una smorfia.

- Ossantocielo! Dio non esiste. Se esiste, ci vuole male – Riccardi l’ha preceduta e si è coperto il viso con le mani, seguito a ruota da Alberti, sopracciglia corrugate e sguardo orripilato.

- Quindi? – Isa non può mascherare l’inflessione sarcastica nella voce – È caduto un meteorite e solo io non me ne sono accorta?

- Osserva con i tuoi occhi! – Riccardi punta il dito di fronte a sé – E trai le conclusioni.

Isa si stringe nelle spalle. Osserva lo sconosciuto oggetto della disputa.

- E mo’ chi è questo… coso?

- Un cavaliere dell’Apocalisse sotto mentite spoglie. Siamo fottuti.

Isa fa scivolare lo sguardo sullo sconosciuto. Lentamente, stavolta, ai raggi X. La prima deduzione, generosamente offerta dall’andatura oscillante del tizio, è che gli zatteroni stringati non siano tanto adatti a deambulare. E poi… nulla. Cattivo gusto a parte, nessun cataclisma si è abbattuto sulle loro teste. È apparso dal nulla in un tintinnio di ferraglia, ha chiesto un paio di informazioni in giro e si è eclissato verso la segreteria.

Isa si guarda intorno, nervosa. Vorrebbe dire ai due campioni di fronte a lei che infilare un’imprecazione dietro l’altra non li aiuterà a superare lo shock visivo, ma resterebbero parole al vento. E Riccardi somiglia sempre più a un disco rotto. Imbarazzante.

- Cazzo! No, adesso ditemi: avete visto la stessa cosa che ho visto io? La roba che ha sulla faccia… è trucco. Trucco, come i finocchi. Non ha gli occhi neri perché qualcuno l’ha pestato. E se così fosse, sinceramente, capirei benissimo.

Isa vorrebbe gridare. Vorrebbe dire che no, cocco, frena, nessuno ti ha mai concesso l’autorizzazione a insultare, pestare o avallare il pestaggio di qualcuno perché va in giro in cosplay. Anche se nulla toglie che il tipo appena avvistato sia un fenomeno da baraccone fatto e finito, o forse il parto di un incubo collettivo. Nessuno ti dà il diritto di spiaccicarlo sulla parete.

- Se quello non è frocio… – Riccardi sembra aver fatto della provocazione di bassa lega il leitmotiv della giornata.

Al suo fianco, Alessandro mima il gesto di spararsi nelle parti basse. Per poi riemergere dal torpore.

- Federico, hai rotto i coglioni – secco – Cambia discorso, ti prego.

Riccardi ridacchia, divertito. Una bella litigata scaricatensioneineccesso non è un’opzione da sottovalutare.

- Ho detto qualcosa di male, Robin Hood? Almeno io c’ho le palle di dire quello che penso.

Alessandro fissa Isa come per raggranellare consensi. E poi esplode.

- Sono giusto otto ore che ci dici “quello che pensi”, vedi tu! E non hai neanche fantasia. Sembri una vecchietta stitica che ha appena scoperto che due maschi possono zomparsi.

- Oh, siamo di larghe vedute! – Riccardi prorompe in un ghignetto strafottente – Ti dà fastidio se dico che i froci mi fanno schifo? Che uno che lo prende nel culo e non ne fa mistero, fa doppiamente schifo? Che cazzo vogliono? Ma accontentatevi di esistere senza rompere le palle! Come se già non urtaste i nervi… Che c’è, Alessandro, non ti piace ciò che penso di tutto questo casino? Tutto il male possibile! Ma no, non parliamone, non sta bene…! Non fare il buonista, proprio tu! Lo vedi, che da quando è scoppiata la moda del frociume a tutti costi, ha portato solo rotture di palle? Tra un po’ quella sarà la norma. Se non mancassero motivi per incazzarsi, ti faccio due nomi… Fabio Neri e Andrea Nicoletti, guarda, senza andare troppo lontano. Senza loro tra i piedi, forse non saremmo diventati una barzelletta ambulante.

- Mi dici cosa c’entra quel tipo? – gli soffia Alessandro, mellifluo – Non sappiamo neanche se è lui quello del programma di scambio. Magari è uno che ha sbagliato indirizzo. Ti disturba?

- Non dico che mi disturbi – pausa concentrata, alla ricerca di qualche motivazione random – Finché se ne sta alla larga da me, può anche camminare a testa in giù. È solo che la moda del frociume dopo un po’ diventa fastidiosa, e non vorrei sentire lamentele, se l’accoglienza… non sarà calorosa – Riccardi solleva gli occhi al cielo, sottintendendo il resto.

Il tempo di buttarsi la borsa a tracolla e riprendere la predica:

- Uno che se ne va in giro conciato così, scommetto quello che vuoi che è una checca del cazzo. Dopo Nicoletti e Derossi, è la ciliegina sulla torta! Ma che cazzo è, si moltiplicano la notte e complottano? Uno che resta sano, che deve fare, camminare spalle al muro perché ci sono loro? Se almeno le porcate se le tenessero per loro, non sarebbe un problema – Riccardi solleva gli occhi al cielo con l’aria di aver detto qualcosa di oscenamente ovvio – Alessandro, sveglia! Quelli non fanno finta: assecondali, e ti mangiano la pastasciutta in testa. Pensa che, con Nicoletti in mezzo alle palle, non potevi raccontare una cazzo di barzelletta sui froci, che ti doveva spaccare i maroni. Guarda, per me è stato un sollievo cederlo alla fricchettona e al cannato.

Un sollievo ancora più grande, se quel cretino di Andrea te l’avesse fatto pure dall’altra parte, il trucco permanente. Isa soffoca una risatina malefica. Non ha idea di quanto potrà resistere ancora là in mezzo, senza Andrea tra le palle a rivitalizzare la comitiva. Per coglione che sia.

Al momento, Alessandro sembra l’unico che non si sia fritto il cervello, anche se al limite della sopportazione. Potrebbe tornare utile, e pure il resto della brigata, sempre che lei riesca a reggere ancora quel Satyricon.

 

* * *

 

L’aula è rimasta deserta al termine della lezione. Ci sono solo il baluginio dorato del tramonto e l’odore di legno nuovo.

- Cazzo, Andre, smettila di imprecare, ché mi dai fastidio!

Le ultime parole famose.

Gabriele si ravvia i capelli e misura la stanza a passi nervosi, come se qualcosa gli impedisse di stare fermo con il corpo e con le parole. Come quando sei in ritardo e aspetti impaziente un autobus che non arriva. Il sorriso ti muore sulle labbra, quando scruti meglio il suo viso. Gli occhi lucidi dentro le orbite arrossate non lasciano dubbi

Andrea, invece, ha semplicemente bisogno di un po’ di camomilla.

- A me dai fastidio tu che vai avanti e indietro come un imbecille, quindi siamo pari. Sei tu quello che sfascia le macchine altrui e colleziona figure di merda? No, a quanto vedo – rilancia.

In silenzio, ti avvicini e gli accarezzi distrattamente i capelli.

- Andre, non sei sicuro che sia lui. L’hai intravisto.

La risposta è un mesto scuotimento del capo.

- È umanamente impossibile non riconoscerlo, Loria.

- Beh – provi a riflettere – Non portava quegli stivali.

Andrea inarca un sopracciglio come a ribadire l’ovvio.

- Perché stava guidando. Tu guideresti sui trampoli?

- Io non guido – scuoti le ciglia.

- Meno male…! – Andrea sfodera un sorriso sarcastico.

- Piantala!

- Puoi sempre fare affidamento su di me – ridacchia Andrea, una mano tra i capelli a ravviare un’onda anomala.

- Un tamponamento non è la fine del mondo – ribatti, sollevando gli occhi al cielo.

- Ma questa è sfiga, cazzo! – Andrea nasconde il volto tra le mani – Un giorno mi sveglio e mi metto a fare il coglione. Prendo la macchina e vado a fare incidenti in giro, consumo la figuraccia della settimana… E poi succede che il tipo a cui per poco non ho sfasciato la macchina, viene qui a mettere le tende. Dimmi se non è sfiga!

- Coincidenze, Andrea. Fottute coincidenze – sospiri, sperando che la tua voce suoni rassicurante.

Andrea si massaggia le tempie, soprappensiero. Ha sempre la mania di ascoltare solo ciò che vuole sentire.

- Come ho fatto a non notarlo prima da queste parti? Okay che è un puttanaio di gente che va e viene, seguirà altri corsi, però, voglio dire… È uno che salta all’occhio. Un darkettone qua è una mosca bianca.

Fingere di non recepire il messaggio, a questo punto ci sta. Intenta, nell’ordine, ad arricciarti una ciocca di capelli e cercare il modo per sbloccare la situazione.

Okay le coincidenze idiote, ma negli ultimi tempi Andrea ha leggere manie di persecuzione.

- Sarà arrivato da poco – azzardi.

- O magari è qui per il programma di scambio e pippe varie… tipo Blanche – Andrea soffoca a stento una risata.

E poi la frecciatina che spezza la tensione.

- …quella che si è fatto Derossi.

L’occhiata inceneritrice di Gabriele arriva giusto in tempo da raddrizzare il tiro.

- …che non si è fatto Derossi – sorrisetto tirato.

Come faccia a piazzare la battuta idiota su questioni per le quali ha sputato sangue fino a due giorni fa, è un mistero che prima o poi dovrà chiarire.

- Ha un cognome tipicamente inglese, se non ho letto male la firma nella constatazione. Thomas o qualcosa del genere – Andrea si allunga distrattamente sulla panchina, distendendo i muscoli – Che culo, eh! Con questa, l’incidente diplomatico è sicuro.

Un sorriso impercettibile. E l’aria è sempre più gonfia d’attesa, perché in dieci minuti di quasi-conversazione, nessun dubbio si è dissolto, ogni domanda sospesa tra i secondi che scappano. Toccata e fuga, giusto per ridestare l’appetito.

Riprendi fiato. Vorresti capire da dove è meglio cominciare, tra i mille interrogativi che gravano sopra le vostre teste. Andrea e Blanche? Andrea e Gabriele? Andrea e Neri? O Andrea ed Elena. E Isa – quante possibilità può avere, in concreto, di diventare pericolosa.

C’è l’imbarazzo della scelta nell’inventario dei casini vecchi e nuovi che Andrea continua a muovere intorno a sé come sassi gettati al largo a generare onde d’urto sempre più estese.

E poi c’è il rischio di rimanere a corto di parole, il rischio di scoprirsi e farsi male, o ritrovarsi con un poker d’assi senza saperlo.

Il tizio dell’auto rossa sembra il motivo di scazzo X, messo lì per riempire un quarto d’ora e impiegare le energie in qualcosa che non sia scandagliare con la lente d’ingrandimento il proprio caos esistenziale. Ognuno il proprio, e poi tirare le fila del discorso.

Anche Gabriele, che preferisce perdere il suo tempo a sbirciare dalla finestra, giù nel piazzale. O piuttosto, perdersi nel proprio casino personale.

- Tu hai qualcosa da dire? – Andrea si è appena precipitato al suo fianco – Che fai? Rifletti sull’ineluttabilità del fato? – un sorrisetto provocatorio.

- No. Rido – Gabriele assottiglia le palpebre, sibillino.

E riprende a guardare fuori. L’auto rossa parcheggiata accanto al cancello, in un angolo in disparte. Leggermente ammaccata. Ma lui non può saperlo.

- Ridi di me? – Andrea sembra confuso.

- No. Tu non fai ridere – una nota bassa, veleno impercettibile – E nemmeno il resto. Pensavo a come sarà felice Riccardi al… nuovo acquisto. Sai com’è fatto. Sembra una brutta coincidenza, proprio dopo il tuo coming-out.

- Io non ho fatto nessun cazzo di coming-out – Andrea si appoggia con i gomiti sul davanzale, spalle alla finestra, il volto fiero – Non ne ho mai avuto bisogno. Loro lo sapevano. Isa non mi ha mai preso sul serio, ma sapeva. Anche Alessandro: diceva che finché non ci provavo con lui, zero problemi. Non so se abbiano avuto l’illuminazione di recente, che è una malattia contagiosa o chissà che altro. E poi, scusa, Thompson comecazzosichiama è apparso in corridoio cinque secondi in tutto, e l’hanno già guardato sotto la coda?

- Andre, non essere ingenuo… – stavolta non puoi fare a meno di immergerti a capofitto nella questione, carne e sangue – Ha gli occhi truccati. Mettiti dentro la loro testa e trai un paio di conclusioni.

Taci, una scossa lungo la spina dorsale. Di nuovo, prepotente e costante, la sensazione che ci sia qualcosa in più per cui lottare, per cui valga la pena di mandare affanculo la paura; qualcosa non connesso necessariamente alla tua personale sopravvivenza nella giungla, ma capace di sottrarti ore di sonno senza toccarti tanto da bruciarti. Non abbastanza da riportare a galla il dolore, solo un furore attivo.

E Gabriele scuote il capo. No. Negazione.

- Non è così semplice – sussurra – Andava bene per te. Quando regnavi con loro. Tu eri gay

- Bisex – lo corregge Andrea, metallico.

- … io ero frocio. C’è una bella differenza – conclude Gabriele.

- Adesso lo sono anch’io – Andrea scoppia a ridere – Sono così frocio e rammollito che ho fatto prendere il volo a quel coglione di Riccardi per un’intonazione di voce che non mi è piaciuta…

- Bravo! Adesso ce li hai tutti addosso – lo interrompi con voce dura.

Vorresti farlo ragionare e ficcargli in testa che è ora di finirla di rimestare nel fango. Che servirà a poco fanculizzare tre quarti del mondo, tirare insulti come ciliegie, menare gente e promettere castighi apocalittici a chi oserà pronunciare la parola “frociodimmerda” in sua presenza. Perché non sarà che l’ennesimo muro contro muro.

Andrea incrocia le braccia sul petto, risoluto.

- Hanno qualche problema con me? Vorrei che me lo dicessero. Così li mando a farsi fottere e mi levo il pensiero.

Eppure sei tu quello che ne è uscito con i nervi a pezzi. Non sei fatto di plastica come vuoi far credere.

Distogli lo sguardo, esausta. Il nodo principale, di nuovo, è capire quando Andrea stia facendo sul serio e quando stia facendo l’idiota. Poche cose sembrano meritare la sua serietà.  E nessuna di queste gira strettamente intorno a lui.

Deglutisci a fatica. Non hai il coraggio di chiedergli come sia finita tra lui e Gabriele l’altra sera. A parte lui che gli si spalma addosso. E non è aria di riprendere quel discorso, perché è come se aveste abbandonato in un angolo una frase in sospeso, accantonata a data da destinarsi, a un sentore d’attesa insopportabile. Gabriele e Andrea che si studiano di nascosto, in silenzio, e ogni volta sembrano a un passo dal saltarsi alla gola. Come in cerca di una conferma che non arriva, e con la smania di bersi l’agognata risposta nel respiro dell’altro. La prova che assolva da ogni sospetto. E non sono neanche strettamente cazzi tuoi, a dirla tutta.

Gabriele si passa le mani sulla faccia. Continua a starsene addossato al marmo del davanzale come unica garanzia di salvezza; come se, privo di appigli, potesse collassare. Ha le guance arrossate in un tutt’uno con gli occhi e sembra non desiderare altro che barricarsi nella sua stanza e affondare nell’oblio delle lenzuola.

Veloce, viri su Andrea, un angelo dal volto disfatto dopo una giornata massacrante. Le labbra allungate in un sorriso sono un balsamo dolce, i riccioli inanellati sulle spalle quasi sfuggono al tuo tocco, mentre cerchi di catturarli tra le dita per gioco. Lui sente il richiamo, e il suo sguardo è su di te. Ammicca come la prima volta che vi siete guardati in faccia, luce sfuggente oltre le ciglia.

Il desiderio impellente di baciarlo un’altra volta.

Il punto è che non si può – non finché tutto resta senza una direzione.

Se Gabriele è l’eroe ferito, la figura immobile in controluce, Andrea è un gatto con il gomitolo.

Non è più aria per parlare; è tempo di eclissarsi.

Andrea cerca di raggiungerti con un sorriso complice. Si ravvia i capelli all’indietro e si avvicina a Gabriele. Vorrebbe esortarlo a girare sui tacchi prima che vi chiudano dentro, ma poi lo guarda e succede qualcosa. La deviazione dell’ultimo secondo che riduce a zero la percezione iniziale.

Gabriele ha gli occhi velati e sembra accorgersi solo in quel momento di avere Andrea a tre centimetri dalla faccia. Andrea fa per dire qualcosa, ma poi si ferma e lo fissa negli occhi.

Così vicini che potresti percepire il loro respiro sulla pelle, se ti sforzassi di dare forma a ogni sensazione.

Andrea si allunga verso Gabriele e finge di sfiorargli le spalle. Poi, di colpo, un passo indietro e una leggera spinta che lo lascia in bilico. Gabriele indietreggia per ritrovare l’equilibrio, e il caso lo fa ricadere mollemente sulla panca.

Andrea si avvicina. Anche di profilo, puoi sentire la sua delusione, la piega amara delle labbra. Il mutamento fulmineo negli occhi scuri.

Abbastanza vicina da sentire cosa dice, quando si china su Gabriele e gli prende il volto tra le mani.

- Bravo coglione, eh?

 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Capitolo 18 - Scontro frontale ***


 

Capitolo 18

Scontro frontale

 

La fiamma appena innescata si è spenta sotto una raffica di “stanotte ho dormito male”, “non ho fumato, non è come pensi” e “che cazzo dici?”.

È schizzato dritto al punto, gli occhi due fanali arrossati che si muovono da Andrea ad Elena e viceversa.

Quelli di Andrea invece sono spilli. E immobili.

Gabriele elude con una deviazione improvvisa lo sguardo di Elena, una mano che scorre tra i capelli e quell’enfasi nervosa che promette scintille. Si stringe nelle spalle

Lei fa un passo indietro, un sorriso che le stira le guance. Osserva Gabriele, il gatto che si lecca le zampe e simula indifferenza. Solo un istante, perché i suoi occhi sono tizzoni ardenti. E non andrà da lui a sviscerare pezzi insanguinati di verità: non stavolta. Non farà il gioco di Andrea. Se non fosse che l’aria è un cespuglio di rovi, e loro ci sono in mezzo.

- Gabriele, sta’ attento… – un soffio appena percettibile.

Una frazione di secondo e si è già morsa il labbro. Finché non fa male.

- Attento…? Attento a lui, dici? – Gabriele solleva un sopracciglio e accenna ad Andrea.

- No – Elena gli pianta gli occhi in faccia, ed è quasi una forzatura – A come ti muovi. O vuoi che qualcuno provi a tenderti la trappola?

Sospira. Magari la prossima volta proveranno ad avvelenare il cibo della mensa. O a pigiare “casualmente” sull’acceleratore mentre escono dal parcheggio.

- Cazzate… – Gabriele scuote il capo, un sorrisetto che dura il tempo di un secondo.

E suona quasi strano su quelle labbra delicate, quasi infantili. Su quel viso dall’ossatura un po’ troppo pronunciata. E il solco delle occhiaie scure.

- Ho tre ore di sonno in tutto, Loria. Pensavo fosse evidente… – solleva gli occhi al cielo.

Elena si impone di annuire. O almeno di tacere – il compromesso dell’ultimo secondo.

Si osserva intorno, nella stanza che è quasi una serra. Il sole batte forte sulla finestra e le fa bruciare gli occhi.

Il punto cruciale è che nessuno ha introdotto neppure per sbaglio l’argomento “canne”.

Andrea sorride estasiato, e tutto ciò che ottiene è sembrare la pessima imitazione di un pessimo attore. Strano, per lui.

- Beh, ieri era domenica – sospiro carico di incertezza.

Elena solleva gli occhi al cielo, perché quando Andrea fa così, o sta tastando il terreno o sta facendo il cretino.

- Già – Gabriele gli concede un’occhiata spazientita – Avrei potuto dormire, se qualcuno non avesse deciso di scambiarmi per un cuscino mentre si smaltiva la sbronza.

Stavolta non fa una piega. Andrea annuisce e si avvicina, lui e i suoi occhi sottili; senza preavviso, allunga una mano e gli afferra il volto. Le dita piantate nelle guance e una ruga indagatrice in mezzo agli occhi.

- Scusa, eh, se non mi fido… – gli sussurra un istante dopo, a muso duro.

E scrolla le spalle.

- …È che sei così assurdo che non so se dopo una canna migliori o peggiori.

Silenzio, di nuovo. E una sensazione di gelo. Gabriele lo fissa come se fosse un alieno a tre teste; un attimo prima di schiaffarsi via di dosso quella mano impertinente e masticare qualcosa di molto simile a un’imprecazione.

Di scatto, afferra la giacca e se la butta addosso. Voltando le spalle a entrambi. Fine dei discorsi.

- Meglio se andiamo, eh?

Andrea annuisce e gli caracolla dietro trascinando i piedi. Elena fa tintinnare l’accendino tra le dita, l’ombra della rassegnazione. E anche lei segue la piccola processione verso l’uscita.

 

* * *

 

- Perché va tutto… continua ad andare tutto schifosamente storto?

Andrea si lascia cadere a peso morto sul letto. Calcia via le scarpe e si stringe le ginocchia al petto. Sembra un cucciolo rannicchiato su se stesso.

Il viaggio di ritorno è filato liscio e senza nulla di nuovo all’orizzonte. Hanno spiccicato due parole ciascuno, e Andrea ha persino guidato in modo meno balordo del solito, precedenze e limiti di velocità inclusi. Sembrava giù di tono.

Gabriele, con tutta probabilità, continuava a ritenere la città degna di ininterrotto interesse. Palazzi grigi e auto colorate come schizzi d’inchiostro, l’aria al retrogusto di smog. Loro tre dentro la loro capsula infrangibile, muti, a ferire il traffico come una lama.

Unico evento degno di nota, quando Gabriele si è voltato e l’ha fissata a lungo. Ha mosso lo sguardo verso la nuca di Andrea – troppo impegnato a cercar parcheggio per far caso a loro –, per poi riportarlo con nonchalance su di lei, nella muta richiesta di una conferma. O forse un semplice parere. Se puoi fidarti tu, dici che posso fidarmi anch’io?

- L’ho creato io il problema, stavolta – Elena si fissa la punta delle scarpe – Mi dispiace…

Andrea ridacchia; si sfrega le palpebre, meditabondo.

- Tu ne crei praticamente sempre. Finché non ti leverai quelle quattro pippe dalla testa e capirai una volta per sempre che né Isa né nessun altro ha diritto di schioccare le dita e decretare la tua sconfitta. Te lo dico una volta per tutte: non è migliore di te e non è tenuta a portarti via un cazzo di niente.

Elena trasale. Il confine tra battuta sarcastica e riflessione semiseria con lui è sempre molto labile.

E pochi minuti fa le è sembrato che Gabriele volesse parlarle. Poi Andrea li ha raggiunti di sopra e non se n’è fatto niente: Gabriele si è fiondato sotto la doccia e, al termine, è andato a collassarsi sul suo amato divano. Li ha praticamente cacciati via e non è neanche schizzato al lato opposto della stanza, quando Andrea l’ha salutato con un’affettuosa arruffata di capelli. Il dubbio è che fosse fritto quanto basta a ruzzolare tra le braccia di Morfeo senza battere ciglio.

E poi è tornata la nebbia.

- Isa non farà un accidente. Resterà con un pugno di mosche, qualunque cosa faccia – Andrea continua a strofinarsi la faccia come maldestro espediente per schivare il suo sguardo.

- Eppure… – Elena si stringe nelle spalle – Un po’ riesco anche a capirla.

 

Già, perché, Loria? Forse perché una volta eri tu, quella sbagliata.

È questo? Perché hai sempre dovuto farti da parte tu, quando le situazioni erano belle e sputtanate e per te non c’era più spazio. Ci hai fatto il callo. C’è sempre stato qualcuno a sbarrarti il passo successivo, a relegarti ai margini, muta nelle tue catene d’oro. Quelle rare occasioni ritagliate nel limbo del “se” e del “forse”, in cui per un attimo ti è sembrato di intravedere la scintilla del riscatto, della costruzione di qualcosa in cui riversare anima e corpo.

Invece sei sempre stata la seconda scelta, la fata cattiva a cui legare le mani prima che combinasse qualche disastro; il più delle volte, poco più che un mero contorno.

 

- … che?! – Andrea scatta in piedi come se qualcosa gli avesse punto il fondoschiena.

- Anche tu… non sei stato molto sincero – Elena si attorciglia una ciocca di capelli intorno alle dita nervose.

Ciocche che fuggono da tutte le parti, da quella specie di semiraccolto che tenta di tenerli su. Eppure toccarli ha un che di rassicurante.

- Non le hai dato uno straccio di spiegazione. Nemmeno una bella litigata…. Niente. Il silenzio. Un giorno ti sei svegliato e hai deciso di toglierle il saluto perché non ti andava più di giocare alle loro regole. Legittimo, cioè… Non voglio dire che meritasse di più, non sono nella tua testa e non voglio esserci, ma non sei stato furbo.

 

Cosa c’è, Loria, hai la coscienza che ti rode, perché sotto sotto la capitolazione di Isa Cortesi è valsa il prezzo del biglietto? O perché Andrea, con le buone o con le cattive, riesce sempre a piazzarci una mossa da perfetto coglione?

 

- Lo so – Andrea socchiude gli occhi, sibillino – Ma tanto prima o poi saremo costretti a parlare. E alla signorina non piacerà.

- Eravate amici, Andrea – Elena incalza: meglio percorrerla fino in fondo, la strada proibita – A momenti dividevate anche il bagno. Come ti sentiresti, se a un certo punto un tuo amico facesse finta che non esisti? Non reggerà molto, la scusa secondo cui io ti avrei traviato e messo in testa un mucchio di eresie.

Taci. È dura provare a ispirare a qualcun altro un ragionamento che non si ha ben chiaro nemmeno nella propria testa.

Andrea si morde il labbro.

- Se sta cercando qualcuno da prendere a calci, non vedo perché non iniziare da me. Sono io l’amico che si è comportato di merda, no?

- Ti sei comportato di merda – voce ferma – Oggettivamente.

Andrea incrocia le braccia sul petto. Sembra deciso a non cedere.

- Perché allora la signora Cortesi non prova a scavare un po’ e a farsi qualche domanda, tipo chi se n’è andato in giro a sputtanare chi, chi ha fatto il doppio gioco con Alberti, chi ha cercato di imputridire tutto a suo uso e consumo, chi tratta gli altri come se non fossero degni di esistere…?

Elena china lo sguardo. Come se non ci avesse provato, a dirglielo. Peccato che Isa da quell’orecchio non ci senta affatto. Forse perché era lei, Loria, la serpe che le ha rubato Andrea come se fosse uno spillo.

- Lo dico solo perché… non fa piacere a nessuno, Andrea. Non fa mai piacere essere scaricati.

Forse a te non è mai capitato, o non in questi termini. Non sai bene come ci si sente.

- Ma io ci parlerò, posso giurarlo. Non ho fatto un voto di silenzio.

È passato alla fase in cui esaminarsi le doppie punte è atto degno di maggior interesse.

- Ci parlerò, sì… – si ripete a mo’ di mantra – E ne approfitterò per mettere in chiaro delle cose. Innanzitutto, di prendersela con me, se proprio deve.

- Sembra stia parlando della bolletta scaduta.

Andrea la fulmina con lo sguardo.

- E quindi che dovrei fare? Piangere un po’ per solidarietà, perché secondo Isa sono un traditore? Ti giuro, l’unica cosa che voglio è che la smetta di dare le colpe a chi non c’entra niente… Specie quando ha fatto tutto da sola. Io le ho tolto il saluto, lei pure. Mi ha preso e fatto a pezzi con i suoi amici stronzi. E adesso? Facciamo entrambi schifo, ogni riconciliazione è impossibile. Stop.

- Però il tuo silenzio le dà un vantaggio – lo interrompe lei – Adesso rigira la frittata e dice che sei falso. Punta tutto sul fatto che ti sei comportato male con lei, e il resto non conta.

Andrea inarca le sopracciglia nella smaccata imitazione di una faccia scandalizzata. Poi, di colpo, scoppia a ridere.

- Se porterà il discorso in quella direzione, peggio per lei. Ce la vedi una come Isa giocarsi la carta della vittima, prostrarsi ai miei piedi e chiedermi perché l’ho abbandonata? Nah, è troppo orgogliosa. Partirà all’attacco, sì… È più da lei.

- E dopo che ti avrà ben rinfacciato che l’hai cancellata dalla tua vita senza dirle cosa non va? – Elena continua a tormentarsi la stessa ciocca di capelli; la afferra e la intreccia.

Seduta sul bordo del letto, gli occhi fissi su quella figuretta in disordine che si rigira da una parte all’altra e si scherma il viso come a ripararsi da raggi inesistenti.

- Fammi pensare un po’… – ha appena trovato una posizione abbastanza comoda a pancia in su, braccia incrociate dietro la nuca.

E la maglietta che sale a scoprire la pelle alabastrina del fianco.

- Ecco – prosegue – Griderebbe al complotto. Esaurito questo punto interessante, mi direbbe che la sua ghenga mi considera una specie di puttana, ed io non faccio nulla per dimostrare il contrario… E poi passerebbe a Neri.

Un lampo, e qualcosa è cambiato sulla sua faccia, nell’alchimia dell’espressione. La voce ha subito una battuta d’arresto, ha tremato e si è sciolta in un sussulto. Fino al mutismo.

Andrea si tira su a sedere. Adesso è un viso a viso in piena regola. Ha gli occhi lustri e il viso arrossato sulle gote e intorno al naso, il respiro ridotto a un sibilo appena percettibile tra le labbra socchiuse.

Elena corruga le sopracciglia.

- Andrea, sei sicuro di stare bene? – la mano corre a tastargli la fronte.

Sembra vagamente su di giri, ma la pelle della fronte e delle guance è fresca.

- Sì… credo – un sussurro roco.

E poi si solleva sulle ginocchia, si avvicina e la stringe tra le braccia in un intreccio di sguardi veloci, di spalle su cui posare la fronte, capelli biondi e capelli bruni. Chiude gli occhi e ondeggia come in una culla.

Lei gli scosta i capelli dalla faccia e soffia gentile sul suo collo. Il primo pensiero, quanti frammenti di lui ancora non ha colto; ora sono lì a due millimetri dal suo naso, e forse altri mille resteranno ancora lì, ignorati, come ogni singolo poro della sua pelle. Come il minuscolo brillantino incastonato nella cartilagine dell’orecchio, e il casino che ha dentro la testa.

E quella mania che è quasi un tic, la ricerca ossessiva del contatto fisico come un velo che  scacci il dolore, come una carezza; il tentativo di sciogliere i nodi che fanno male allacciandole le braccia intorno al corpo in cambio di un po’ di calore. Trema appena, le labbra che si schiudono in qualche timido bacio tra i capelli. Trema da quando quel nome gli è affiorato sulle labbra.

Solo che nessuno, adesso, ha più il coraggio né la lucidità di accendere il lanternino e operare a cuore aperto.

Ancora un istante, e Andrea si scioglie dal suo abbraccio. Sembra quasi imbarazzato. Abbozza un sorriso sofferente mentre, con una mano, cerca di farsi vento.

- Andre, qualcosa non va? – Elena gli afferra una mano.

Lui si strofina il naso con il dorso della mano e nega.

- Mi passi la borsa?

Andrea quasi gliela strappa dalle mani e inizia a rovistarci con la determinazione di un tossico in astinenza. O di uno che deve prendere la metropolitana, ma un paradosso spazio-temporale ha appena deciso di fagocitarsi il prezioso biglietto.

C’è un che di metodico nel modo in cui rivolta la sua tracolla di tela; insoddisfatto, si appresta a svuotarla un oggetto per volta, block-notes, biglietti per l’autobus, gomme da masticare.

E poi una cappa improvvisa di silenzio, come uno schiocco, infrange quel fruscio rassicurante di mani che frugano alla cieca. La borsa finisce ai piedi del letto come un sacco vuoto. Andrea impallidisce e si porta una mano al petto.

- Andre, mi dici cosa cazzo succede? – stavolta suona come un ordine, perché il modo in cui Andrea inspira ed espira e le pianta gli occhi in faccia ha un che di apocalittico.

E qualche pallido tentativo di andare per ordine. Innanzitutto, infilarsi le scarpe.

- Succede che non trovo più l’inalatore per l’asma… E credo anche di aver capito di chi è la colpa – le fa, sibillino.

- Che cosa dici? – Elena vorrebbe placare in qualche modo l’enfasi che l’ha appena proiettato verso la porta come una furia.

Scrolla le spalle e in un paio di falcate è lì di fronte a lui.

- Hai un’idea migliore? – Andrea ha sollevato la voce e non sembra propenso a scendere a un accordo – Hai visto come mi fissava? No, non l’hai visto. Io invece ho sentito, l’ho sentito qui dietro la nuca, come due fori che bruciano, e non ha fatto che fissarmi con quegli occhi assurdi, come se volesse ammazzarmi lì sul posto. Se non basta, la prossima volta prova a passare vicino a loro, e non sentirai altro che il mio nome e risatine del cazzo.

- Andrea, basta! – anche lei alza la voce – Sembra una persecuzione! Primo, non puoi accusare nessuno di un cavolo di niente, non l’hai visto con i tuoi occhi…

- Se l’avessi visto con i miei occhi, a quest’ora starebbero identificando il cadavere – Andrea ha iniziato la sua discesa inarrestabile giù per le scale, e persino i suoi capelli sembrano risentire della collera; quasi gli frustano le spalle.

- Primo, non l’hai visto… – Elena gli rotola dietro come un sassolino che cerca di fermare l’alluvione – Secondo, adesso prendiamo la macchina e andiamo a controllare di là, magari l’hai dimenticato da qualche parte…

- Non andiamo da nessuna parte – Andrea evita il suo braccio che cerca di trattenerlo.

Ha una camminata implacabile, le spalle tese, e sguscia via come olio a ogni tentativo di afferrarlo.

- Anzi, Ele, fa’ una cosa: torna di sopra, se non ami le scene splatter con frattaglie sparse.

- Piantala di fare lo psicopatico e ragiona! – stavolta è riuscita a fermarlo aggirando la sua corsa e sbarrandogli il passo.

Lo abbranca per le spalle.

- Che cazzo vuoi fare?

- Shh… Aspetta che ce l’abbia a portata di mano – un sospiro; un istante in cui sembra aver davvero accantonato l’istinto e messo insieme un paio di impulsi neuronali, mentre lo sguardo fugge – Dio, è assurdo, Loria, è assurdo! Ti rendi conto di dove sono arrivati? Questa è stronzaggine attiva.

Ha arrestato la sua corsa e ora guadagna tempo, immobile davanti alla porta chiusa di Federico Riccardi. Legno scuro su cui ci si può quasi specchiare, gioco di pieni e vuoti che si ripete ad ogni piano in perfetta simmetria. Solo che lì c’è attaccato un segnale di pericolo quale gentile invito a levarsi dalle palle.

Andrea ansima leggermente ma non desiste. Sta lì, determinato, gambe divaricate. Scuote la testa come se qualcosa di incredibilmente ributtante gli si fosse incollato al cervello. Poi, un colpo secco sulla porta.

- Apri, imbecille!

- Andre, piantala per l’amor del cielo! – Elena lo scuote per le spalle – Vuoi che finisca come l’altra volta?

Andrea solleva un sopracciglio e sembra in vena di abbozzare un sorriso.

- Com’era finita l’altra volta? Con uno strike? – e, veloce, accenna alla porta chiusa.

- Hai avuto vantaggio perché lui era ubriaco… Senti, pensaci bene – Elena solleva gli occhi al cielo: urge qualcosa, qualcosa che Andrea ritenga più importante di un astratto buonsenso ormai volato giù dalla finestra – Vale la pena rischiare materialmente la faccia con un deficiente?

Andrea rotea lo sguardo e sembra quasi scosso. Poi sorride, gli occhi ridotti a fessure.

- No, hai perfettamente ragione. Secondo te ho intenzione di menare le mani? No, io sono una persona civile.

Un cigolio sinistro, la porta che si socchiude quanto basta. L’inquilino del piano di sotto ha appena cacciato fuori il muso. Aggrotta le sopracciglia e li osserva come se a entrambi fossero spuntate un paio di branchie.

- Nicoletti?! Cosa ci fai qui?

- Riccardi, non fare il cazzone e rendimi ciò che mi hai preso. Ti conosco – Andrea solleva un sopracciglio, annoiato – Su, come i mocciosi all’asilo. Obbedisci al maestro.

Elena si stringe nelle spalle. Un insano desiderio di schioccare le dita e teletrasportarsi dall’altra parte della città, tirandosi dietro Andrea. Prima che gli venga una crisi, e i cavoli diventino amari.

Riccardi solleva gli occhi al cielo. Borbotta un “vaffanculo” e fa per rintanarsi dentro, ma Andrea ha il tempismo di precederlo. S’infila tra lui e lo stipite della porta, stranamente calmo.

- No, tesoro, troppo comodo. Non ti lascio in pace finché non salta fuori quella roba. E poi… se qualche tuo amico passa da queste parti e pensa che ami la compagnia dei froci, sono cazzi tuoi.

Andrea spintona via l’ospite e si fa largo nella stanza, disinvolto.

Inutile cercare di riacciuffarlo per un braccio e trascinarlo fuori dalla tana: l’unico è assecondarlo fino a capire dove voglia arrivare.

- Carino, comunque. Anche troppo, per te.

Riccardi sembra abbastanza frastornato che non si oppone neppure alla seconda intrusione nel suo alloggio. Forse spera che sia lì con l’intento di levargli l’impiccio quanto prima. È riuscita a caracollare dietro ad Andrea e ora può attendere serenamente il peggio.

- Nicoletti, vattene prima che ti butti fuori a calci! – Riccardi si morde il labbro.

Sembra indeciso tra violenza fisica e violenza verbale. Schiocca le dita, un sorriso tirato.

- Senti, pervertito – prosegue – Non so che farci, se non trovi più il tuo fallo di gomma. Non l’ho preso io. Per stavolta ti accontenterai di un manico di scopa e non romperai le palle a me. E adesso, fuori.

- No, il manico di scopa preferisco spaccartelo sulla testa, se non mi restituisci lo spray.

- Il che cosa?! – Riccardi avanza verso di lui, le mascelle contratte.

Andrea finge di ignorare le vibrazioni d’odio e passeggia in tondo.

Elena trattiene il respiro. Vicino ad Andrea, Riccardi non sembra temibile. Lo stacca solo di un paio di centimetri, e l’occhio cerchiato di viola gli dà un’aria tutt’altro che sveglia.

- Lo spray per l’asma, ignorante. Io non ho fretta, posso trattenermi quanto voglio – Andrea si accascia contro il tavolino all’ingresso, i gomiti puntati.

Poi, lo schianto di un qualcosa che s’infrange al suolo, e una valanga di frammenti di porcellana dietro di lui.

- Oh, scusa! – Andrea spalanca un paio d’occhi imploranti e si massaggia il gomito – È caduto, non l’avevo visto…

Riccardi serra i pugni in un moto di stizza e fa per afferrarlo, ma Andrea si getta fuori dalla sua portata.

- Senti, checca isterica, non so che fine abbia fatto quel tuo maledetto affare, e se per sbaglio lo sapessi, giuro che ti lascerei soffocare e poi ti sputerei in faccia.

Andrea sorride, giulivo.

- Adorabile come sempre. Se fossi un cavernicolo come te, a quest’ora avrei terminato il “lavoro” sulla tua faccia. Invece, come vedi, sono gentile e ti aspetto.

- Cerchi la rissa? – la bocca di Riccardi si piega in un ghigno – Non ti è bastato sabato? Potrei farti piangere.

- Neghi l’evidenza… A te dovrebbe essere bastato – Andrea si stiracchia, annoiato – Vigliacco. Dipende da quanto ti piace il ruolo masochista in un rapporto.

Riccardi socchiude gli occhi.

- Dipende da quanto testosterone ti è rimasto in corpo – lo radiografa da capo a piedi – Ragazzina.

- Eh? – Andrea sembra un attimo confuso: abbastanza da far guadagnare un paio di punti all’avversario.

- Voglio dire… – Riccardi solleva gli occhi al cielo – Tu contro di me? Tu, che sei più frocio di un intero gay-pride?

- Che palle! – Andrea sbuffa, gli occhi puntati al cielo – Non rispondo nemmeno: i fatti parlano. Senti… mi dispiace.

- Ti dispiace? – la faccia di Riccardi ha assunto nel giro di tre secondi tutte le gradazioni possibili di incredulità.

- Mi dispiace. L’ho capito che ti piaccio e vorresti che ti scopassi, ma proprio non sei il mio tipo. Hai la faccia da imbecille.

- Andrea! – Elena distoglie lo sguardo.

Questa volta non può fare a meno di buttarsi nella mischia. Tra incudine e martello.

- Senti… – gli sussurra, spalle a Riccardi affinché non le legga il labiale – Se vuoi, la farmacia è ancora aperta. Ci andiamo subito…

Andrea solleva un sopracciglio, interessato. Elena si guarda intorno, fiduciosa: forse può azzardare un compromesso.

- …e se proprio ci tieni, puoi tornare a rompergli il culo più tardi.

- E la frociara che cazzo ha da confabulare?

Gli occhi di Riccardi le bruciano sulla schiena. Ha deciso di cambiare bersaglio.

Elena si volta verso di lui, una strana sensazione di déjà-vu ancorata allo stomaco. Un dejà-vu capovolto, perché sembra lontano come un sogno il tempo in cui fuggiva come la peste lo sguardo di Riccardi e combriccola; che metabolizzava in silenzio le risatine e i “raccomandata del cazzo” come scaglie di vetro conficcate nella schiena. Il tempo in cui c’era ancora la paura di ritrovarsi con le spalle al muro e a corto di parole, a tremare e inghiottire fiele.

- Se davvero gli hai preso lo spray, sei una merda più di quello che si dice. Se non gliel’hai preso tu, sei una merda, punto.

- Oh, ma perché non vi levate dalle palle entrambi? – Riccardi fa schioccare le nocche – Avrei giusto da fare, a differenza di voi.

Un istante, ed Elena si chiede se non sia la fine. Perché ha visto il pugno di Riccardi serrarsi e le nocche sbiancare, e Andrea infilarsi in mezzo a loro come una freccia. La cosa però resta incompiuta, bloccata dal clangore di una porta che si apre in fondo alla stanza, e una zaffata che è un mix di profumo femminile da discount e sigaretta fumata a metà. Seguita da una faccia sconosciuta e una risata cavallina.

- Fede!

- Fede! – rilancia Andrea sottovoce, caricando il tono affettato.

Riccardi mima il gesto di sparargli addosso, la faccia un tripudio di gradazioni di bianco.

- Eravamo… pronti. Potevi dirlo, che stavi aspettando gli amici – la ragazza si guarda intorno, confusa.

E di colpo, il volto di Andrea è un ghigno luciferino. Resta giusto da capire quale trovata diabolica stia per tirare fuori.

Riccardi gesticola furiosamente; lo sguardo guizza da Andrea alla sua amichetta.

- Non sono miei a… – non prosegue, perché Andrea gli ha coperto la voce con la sua e si è diretto verso Cosa con un sorriso da un orecchio all’altro.

- Oh, tu devi essere la sorellina, vero? – cinguetta, tendendole la mano – Io sono Andrea, il ragazzo di Federico. Molto piacere.

Elena chiude gli occhi, perché è la cosa che le verrebbe più spontanea, un attimo prima che si scateni l’Apocalisse. Magari riuscirebbe ad evitare qualche radiazione.

Li riapre solo per mettere a fuoco lo scatto con cui la mano di Riccardi si chiude intorno ai capelli di Andrea.

- Brutto schifoso!

Andrea lancia un urlo. Riccardi lo strattona fino alla porta, per poi mollarlo malamente contro il muro. Barcollando, Andrea schiva all’ultimo momento una manata dritta in faccia, ma non le dita che lo abbrancano per la maglietta e cercano di piegarlo verso terra. Ansante, si contorce tra le mani del suo aguzzino, tira indietro la gamba e gli piazza un calcio nell’incavo del ginocchio, spedendolo a gambe all’aria sul tappeto.

- Andrea, basta! – urla Elena, senza riuscire a sovrastare la voce di Andrea.

Che si è appena lanciato su Riccardi, immobilizzandolo sotto il suo peso.

- Senti, mo’ mi hai rotto… Dimmi dove cazzo l’hai messo o non esci di qui!

Elena si avvicina alle belve che lottano, ma tutto ciò che ottiene è uno spintone da parte di Riccardi, che si agita come un indemoniato e non bada a dove colpire. La scaraventa contro il divano.

- Ecco, brava, fuori anche tu, lesbicaccia!

Non aggiunge altro, perché la velocità con cui Andrea gli afferra il braccio incriminato e glielo torce dietro la schiena, è tale da strappargli un gemito.

- Bravo stronzo… Picchiare le ragazze è virile, no?

- E picchiare i froci come te… – Riccardi digrigna i denti come un leone.

Andrea gli ha appena immobilizzato le braccia dietro la schiena e gli si è seduto sopra.

- Senti, idiota… – gli sussurra a un centimetro dalla nuca, chino su di lui, e a quella distanza riesci anche a sentirlo – Facciamo un patto: tu mi restituisci quel maledetto spray, io chiarisco l’equivoco con la tua bella… Mi sembra equo.

Riccardi sputa per terra.

- Figlio di puttana! – sibila.

Elena si solleva in piedi, spazzolandosi distrattamente i pantaloni. Avanzare di qualche passo per aiutare Andrea ha poco senso, e lui non glielo perdonerebbe, al clou dell’addomesticamento della belva omofoba. Sospira, un’idea malsana che le si infila nella mente.

Ciondolando, si dirige verso Cosa, impietrita accanto all’ingresso, la borsa stretta tra le mani e una gran voglia di scappare. Elena si accende una sigaretta e sorride col sorriso più tirato che le riesca.

- Non è un bello spettacolo, vero? – sussurra.

Non sa come le sia venuta, ma è meglio continuare a sorridere e mantenere un’espressione sagace.

- A volte fanno di peggio. Bisticciano come gatti, poi fanno pace… – e agita la mano verso il cielo, a sottintendere cose meravigliose.

Ridacchia. Osserva gli occhi di Cosa squadrare i due litiganti, allacciati in una posizione equivoca, e stirare le labbra in una smorfia inorridita.

- Dio, che schifo!

- Nicoletti, ti ammazzo!

Elena spalanca gli occhi. Riccardi ha ribaltato la situazione a suo favore scrollandosi di dosso Andrea con un colpo di reni. Si tira su in piedi e incombe su di lui. Andrea indietreggia strisciando sul pavimento, si aggrappa al bracciolo della poltrona, un attimo prima che Riccardi lo inchiodi sul posto con una ginocchiata in pieno petto.

Un attimo infinito in cui Elena fatica a capacitarsi se l’urlo che per poco non fa collassare le pareti, giunga da lei o da qualcun altro. Andrea si accascia al suolo contorcendosi come un insetto. Boccheggia.

Si precipita su di lui, le membra sciolte e il respiro mozzato, e spinge Riccardi da parte con una forza che non sospettava di possedere.

Andrea ha il volto di un violaceo diffuso e si artiglia il petto. Gli afferra una mano: vorrebbe aiutarlo ad alzarsi e portarlo via da quell’inferno, prima che la situazione ceda il passo all’omicidio premeditato, ma le dita di Riccardi le si allacciano sul braccio come catene, sigillandola lì sul posto e bloccandole ogni iniziativa.

Riccardi si guarda intorno, indeciso sul da farsi. Elena deglutisce a fatica. Andrea tossisce e si aggrappa alla poltrona.

- Restituisciglielo, cazzo, sta male! – ha poco senso gridare come un’ossessa, ma non le importa.

- Vaffanculo! – Riccardi sputa di nuovo.

Poi, all’ultimo, un fremito d’incertezza lo fa rinunciare al proposito di decapitare Andrea. Si limita solo a utilizzare la mano libera per abbrancarlo per un lembo della maglia e tirarlo su di peso, quindi, trascina entrambi gli intrusi verso la porta e li scaraventa fuori, in un parossismo di insulti. In corridoio, alla mercé di tutti gli sguardi indiscreti del mondo. Le urla che fanno il resto.

Elena serra le palpebre e vorrebbe dirsi che è un incubo. Andrea ricade sulle ginocchia e ansima disperato, il volto madido di sudore. Lei lo raggiunge e gli scosta i capelli dal viso. Ha gli occhi gonfi di lacrime ed è cereo. Si artiglia il petto, all’altezza del diaframma.

- Io… lo disintegro – biascica in un istante di tregua.

Elena gli passa un braccio intorno alle spalle, per poi sollevare gli occhi verso una certa figura che le fa ombra e che non si è presa la briga di identificare. Isa Cortesi, con occhi d’acciaio. La decima piaga d’Egitto.

- Che cosa gli hai fatto? – rumina.

Elena stringe i denti, un lampo rosso di collera che le fa pulsare le tempie. Adesso quasi quasi è colpa sua! Che ha gettato un sortilegio su Andrea, oppure l’ha lasciato entrare nell’antro del mostro.

- Chiedilo a quel bullo del cazzo del tuo amico! – le soffia, e forse se si concentrasse ancora un po’, potrebbe polverizzarla con la forza del pensiero.

Lei e la sua masnada di stronzi ammaestrati.

L’ha presa di nuovo alla sprovvista. Isa indietreggia come colpita da una pugnalata. Un processo logico in atto nella fronte corrugata. Si volta verso Riccardi, impalato sulla porta.

- Federico! – lo apostrofa, categorica, un’alzata di sopracciglia sufficiente a ridestare il pollo dal suo trionfo-non trionfo, se è vero che il vantaggio è stato provvidenziale e illusorio.

Elena immerge lo sguardo su di loro, in attesa. Qualcosa scatta nel suo cervello.

Lei, Isa. La migliore amica di Andrea. Complice di uno scherzo crudele.

Isa accenna alla tasca della felpa di Riccardi con occhi quasi colpevoli.

- Su – ha la voce fredda, come a impartire un ordine di guerra – Avevi detto che non sarebbe durata a lungo…

Riccardi la guarda con odio. Stesso sguardo d’odio su di lei, perché essere messi nel sacco da due donne furiose e un ragazzo a cui piacciono altri ragazzi, non è smacco da poco per uno come Federico Riccardi. Che si strappa via di tasca la maledetta confezione azzurrina e la scaglia verso Andrea.

- Toh, affogati!

 

* * *

 

Qualcosa le suggerisce che parlare di “quiete dopo la tempesta” sia un ossimoro.

Riccardi si è barricato in cameretta sua per scongiurare il rischio di linciaggio, e la sua pupa ha approfittato della bolgia per filare via. Andrea è quasi svenuto, e Isa continua a passeggiare avanti e indietro, senza il coraggio di oltrepassare la linea immaginaria oltre la quale scatterebbe l’azzannamento obbligato. Lei invece si è chinata su Andrea e gli ha sfiorato una guancia.

- Ehi… Va tutto bene.

Lascia che Andrea le posi il capo sulla spalla, entrambi accosciati per terra come in attesa dell’oscuro benefattore. Si chiede se Gabriele quella sera non si sia sfondato di roba da due soldi, abbastanza da non farsi tirar giù dal sarcofago dal casino lì in basso.

Sospira: a denti stretti è un bene, se è vero che una mattina Gabriele Derossi si è sollevato contro Alberti e gli ha quasi stritolato un polso per molto meno. Si chiede che senso abbia, per Gabriele, pararsi in faccia ogni santo giorno una maschera che pesa due quintali, e trasfigurare Andrea nel principe del Male. Lei invece è la fata Morgana.

E quella che continua a vagare avanti e indietro per il corridoio con lo sguardo, a torcersi le mani a trenta centimetri da lei… è Isa Cortesi, e tanto basta. Si schiarisce la voce un paio di volte e muove qualche passo incerto.

Tranquilla, non mordo. L’avrei già fatto.

Ragiona. Magari ha qualcosa da dire a sua discolpa – concedile il beneficio del dubbio. Magari il verme Riccardi ha tratto in inganno anche lei. O forse lei e i suoi amici si meritano a vicenda.

- Andrea… – la voce è poco più di un sussurro, come una scintilla in fondo al petto.

Elena china lo sguardo a terra. Non la aiuterà a uscire dal vicolo cieco. Non le offrirà l’appiglio, neppure con un’occhiataccia.

- Andrea, possiamo chiarire un paio di cose… di noi?

Elena trasale. Non sa cosa le abbia impedito di finire faccia a terra, schiacciata al suolo da un masso di cento e passa chili schiantato tra capo e collo.

Così: diretta, spiazzante. Zero ripensamenti. Ad accantonare l’ultima di una lunga serie di schifezze e andare dritta al punto: rivangare il passato. Adesso che Andrea è debole e non la ascolterà.

- Con tua nonna! – non sa come le sia venuto quel sibilo isterico, ma è fatta.

È un intero pomeriggio che la sua lingua va per conto proprio, che la razionalità si inceppa: una volta in più non farà la differenza. E poi di Isa non le importa proprio un cazzo.

Andrea si rialza a fatica. Una mano va avanti e indietro all’altezza dello sterno, l’altra scorre tra i capelli. In silenzio. Il volto puntato su Isa e uno sguardo che è la summa di ogni delusione sedimentata negli ultimi mesi. Come un blocco di cemento in fondo alla gola che non sale e non scende, ma raddensa il veleno in fondo alle iridi. Le labbra rigide, amarezza e rassegnazione come pugnali.

Scuote il capo e non la guarda più. Fa solo cenno di tornare di sopra.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Capitolo 19 - Cattivi ragazzi ***


 

 

Capitolo 19

Cattivi ragazzi

 

 

Si è ritratta bruscamente da lui, dalla sua risata piena, perforante. In piedi, braccia intrecciate sotto il seno, l’ombra del disappunto disegnata sulla fronte. L’aria così leggera che è un’impresa respirare. E lui che ride. Fino alle lacrime.

- Ah, quindi adesso fa ridere. Fa ridere! Federico Riccardi tenta di ucciderti, e l’unica cosa che sai fare è ridere – le ultime parole le sputa via con una punta di disprezzo.

- No… non è questo – Andrea riprende fiato, il volto congestionato – Senti un po’: Riccardi voleva sollazzarsi con la sua damigella, e sul più bello saltò fuori che era fidanzato… con un uomo! – altro scoppio di risa. Incontrollato.

Elena socchiude le palpebre, scettica.

- Con un uomo… – si lascia ricadere seduta al suo fianco, mentre gli afferra il mento tra le dita – Un uomo… molto bello.

Andrea socchiude gli occhi, vanesio, un sorrisetto sornione che affiora sulle labbra.

- …con gli occhi scuri e un viso delicatissimo, come quello di una ragazza.

Elena lo soppesa ancora un po’ con lo sguardo, uno scorrere di dita leggere su labbra di pesca. Poi, una mezza risatina che graffia in fondo alla gola. Lo spinge via e scuoti il capo.

- No – la sentenza – Decisamente no. Non fa ridere.

- Neghi l’evidenza – Andrea si lascia sopraffare solo per una manciata di secondi: qualche istante, e le si è già riappiccicato al fianco.

- Che sotto sotto pure Riccardi è gay? – Elena solleva gli occhi al cielo, le labbra che si increspano in una piega sarcastica – E io sono cinese… dai!

- No – la interrompe lui – Non cercare di confondermi. Riccardi è una semplice testa di cazzo. E tu non fare la finta buona: sei più malefica di quel che vuoi sembrare…

Elena solleva lo sguardo. Andrea e i suoi giochi di equilibrismo.

- Dillo, su! – incalza, beffardo – Riccardi è caduto, pare si sia fatto male, e tu, come me, ci godi spudoratamente: sei felice, è un’idea che ti piace. Perché è uno stronzo, ti ha insultato, ha dato il tormento a tutti, ed è giusto che per una volta se lo prenda in quel posto.

Elena scuote la testa, un sorriso d’assenso impigliato in qualche recesso della mente. Dargliela vinta, non è il caso. Unirsi in associazione a delinquere, coltivare la propria sindrome da vendicatore mascherato in allegra compagnia, ancor meno.

- Sei come quello che attende sulla riva del fiume il cadavere del nemico, Ele – Andrea allunga una mano fin sotto il letto e, a sorpresa, tira fuori una lattina – …e intanto si beve una birra per festeggiare. La vendetta è appetitosa, no? Il tuo regno per la testa di Federico Riccardi, omofobo figlio di puttana.

- Altro che birra, tu ti sei bevuto il cervello – Elena gli strappa la lattina aperta dalle mani, con foga, e per poco il laghetto di schiuma non tracima fino alle lenzuola immacolate.

Di scatto, si porta la lattina alla bocca in un gesto maldestro per contenere l’esplosione.

- Streghetta… – Andrea sussurra fra sé, le braccia intrecciate dietro la nuca – Sei bastardamente soddisfatta.

- No! – rilancia lei – Non se far collezionare figure barbine a Riccardi significa rischiare la morte per soffocamento!

- Oh… – Andrea solleva lo sguardo con fare indifferente – Quello è stato un imprevisto, ma ti assicuro che tutto era perfettamente sotto controllo.

- Prima che Riccardi ti mettesse le mani addosso. No, neanche: era una brutta improvvisazione.

- Povero Riccardi, povero Riccardi! – Andrea non finge più di ascoltarla; si volta a pancia in giù e la osserva di sottecchi dietro il proprio braccio – È inutile che il signorino provi a giocarsela con me, non c’è storia: più si avvicina, più trova guai. Oggi la sua amichetta, domani chissà…

- No, non penso se la sia bevuta… la ragazzina. Conoscerà il suo pollo.

- Già, è più facile che abbia pensato di trovarsi in un manicomio – Andrea le ruba un sorso di birra, con nonchalance – Però adesso grava il dubbio. Magari racconterà quello che ha visto. Qualcuno aggiungerà di suo, e da uno schizzo casuale verrà fuori una bella macchia di unto. Capisci cosa intendo? Che qualcuno dica che Riccardi forse-può darsi-eventualmente… che potrebbe avere qualche storiaccia, per lui è veleno. È fango sulla sua reputazione.

- Sì, ma… – Elena solleva gli occhi al cielo – Con te! Poteva essere passabile, ma così è una barzelletta. Vi siete dichiarati odio eterno, ti detesta solo per la tua faccia…

- Detesta il mio fascino – Andrea si arrotola un ricciolo intorno all’indice – Se non sopporta che io acchiappi di più, posso consigliargli un giretto allo “Chat Noir” il sabato sera: potrebbe rimorchiare qualcosa anche lui… Donna, uomo, possibilmente mooolto ubriaco e abbastanza coraggioso da calzarselo – conclude con una smorfia.

Elena gli assesta un buffetto sulla spalla.

- Stai divagando…

- Hai ragione, cara – la mano sollevata in segno d’assenso, attende: touché – Il punto è un altro: Federico Riccardi se le merita tutte, le figure di merda di questo pomeriggio, e sono quelle che più gli assomigliano. Pure Dante sarebbe fiero di questa pena del contrappasso. E pure tu, anche se fai la riottosa… Non vedi l’ora di affondare il coltello?

- Cos’è, Andre, cerchi compagnia? – Elena inarca un sopracciglio – Sei soddisfatto perché hai regolato i conti, ti senti un po’ incarognito e vuoi che lo sia anch’io? Vuoi tirarmi dentro?

- Non ho bisogno di volerlo – Andrea sorride, ferino, una chiostra di denti candidi e ben allineati che spuntano dalle labbra assottigliate – Perché lo sei. Vuoi vederli strisciare non meno di quanto lo voglia io. Solo che, a differenza di me, vuoi fare la brava bambina assennata. E sei pessima nel ruolo.

- Qual è il tuo ruolo, invece? – Elena ha sollevato gli occhi su di lui; lo misura lentamente con lo sguardo – Quello che ti affibbiano sempre…?

Sorride, un guizzare cristallino tra le labbra socchiuse, il viso che punta in alto. Ha capito che il duello è alle armi corte.

Andrea si ravvia i capelli, disinvolto.

- Quale sarebbe? – sogghigna – Di solito sono due: il puttaniere infame o quello che crepa male.

Veloce, Andrea salta su come una molla; con un movimento rapido del braccio, mima il gesto di infilarsi un pugnale tra le costole. Lo sguardo vitreo schizza verso il cielo, oltre le orbite spalancate, una mano premuta sul petto. Barcolla qualche istante, per poi ruzzolare sul letto a peso morto e restarsene lì.

Silenzio.

- Andre, dai, quel giochino l’hai fatto così tante volte che non imbrogli nessuno…

Elena si concede un mezzo sorriso, mentre gli pungola dolcemente la punta del piede con il proprio. Andrea resiste immobile ancora qualche secondo, tutto il corpo abbandonato, per poi sollevarsi a sedere con un colpo di reni e scoppiare a ridere.

- Bravo scemo… – Elena scuote il capo – È così vecchia che non ci casca più nessuno.

Andrea arriccia le labbra, un’ombra di delusione.

- Eppure credevo di essere bravo… Lo dicono tutti.

- Non alla milionesima volta che ci propini la panzana del finto svenimento – scuote il capo – È un trucchetto da quinta elementare.

- Sarà… – Andrea punta gli occhi al soffitto, soprappensiero, una risatina traditrice che si lascia contenere a fatica – Ma la parte del sedicente ragazzo di Federico Riccardi è andata a meraviglia!

Elena accavalla le gambe, il volto sarcastico. Stavolta non gli cederà una briciola. A costo di disfare e rifare l’ordito decine di volte, guadagnando tempo per decidere come parare gli affondi.

- Colorito verde-nausea a parte – cinguetta.

- Verde nausea? – Andrea solleva un sopracciglio, stranito; aggrotta la fronte come a voler chiudere fuori il brusio del corridoio e concentrarsi sulle sue parole.

Scuote le spalle.

- Santo Iddio, lo credo bene! Immagina… uno come Riccardi! Uscire con lui! Sedersi al tavolino di un bar a guardarsi negli occhi! Andare a letto con Riccardi! No, basta, così mi passa la fame.

Elena tenta di mascherare la risatina che le è salita in gola dietro un’innocente lattina sollevata. È un bluff destinato a non durare a lungo.

- Perché? – deve farsi forza per non scoppiare a ridere, e contemporaneamente evitare il soffocamento – Non è neanche così brutto…

Andrea ricade all’indietro con un tonfo.

- Stai scherzando?!

Ha gli occhi lucidi – per il continuo ridacchiare o per l’assurdità di quel che gli ribolle nella testa.

- Loria, tesoruccio, ricominciamo da zero, okay? Innanzitutto, fidati del mio parere di uomo non eterosessuale. Riccardi e quelli come lui sono convinti, uno, di essere irresistibili; due, che per il solo fatto che ad Andrea piacciono i ragazzi, Andrea salti addosso ad ogni paio di pantaloni che vede…

- Andre, scusa! – lo interrompi, una curiosa vampata di calore che schizza fino alle tempie – Non era quello che volevo dire.

Immagini macchiettistiche,  pregiudizi di vecchia data.

Ma Andrea mette le mani avanti.

- Ho capito cosa vuoi dire. Un attimo e ci arriviamo. Se la scelta per me fosse andare con Riccardi o una martellata sulle palle… La seconda, senza pensarci.

Elena ammicca. Non con la spontaneità che vorrebbe.

- Dai… – si schiarisce la voce per guadagnare tempo: è talmente inconcepibile che quasi non le escono le parole; deve strapparle via, cavarsele fuori con le unghie, per tenere in piedi il gioco – Visto da lontano sembrava anche peggio.

Andrea esala un lungo sospiro.

- Dato che lo trovi meno peggio, perché non torni di sotto e gli proponi un invito a cena io e te, te ed io? Come risarcimento per la ritirata di Cosa sui tacchi a spillo.

- Stai scherzando? – Elena arriccia il naso: la commedia ha tenuto sin troppo – Ma manco morta! Appena apre bocca, vorresti solo cadere in un coma profondo.

- Visto che siamo d’accordo? – Andrea intreccia le braccia sul petto, un sorriso trionfante – Oddio, forse non è neanche indispensabile che parli e riveli la sua trogloditaggine. L’hai visto bene? Ti pare figo almeno la metà di quello che vuol sembrare, quando fa il galletto tra le sue galline? A me no. Sembra il Grinch, ma col naso che gli piscia in bocca.

- Nah! – Elena scuote la mano davanti a sé, le labbra che si tendono in un sorriso rassegnato – Vorrei che fosse solo la bellezza il problema…

- Negativo, su tutta la linea – Andrea si risolleva in piedi; passeggia avanti e indietro davanti a lei con aria saccente – Dalla punta dei capelli a quella degli alluci, passando per il cervello da procariote e l’intolleranza galoppante. Ecco, non so quale sia la parte più smosciante. Si crederà figo perché si seppellisce in palestra quattro volte a settimana a pomparsi i muscoli…

Scrolla le spalle, scettico. Poi, con nonchalance, si sfila la maglietta e la ripone distrattamente sulla sedia. Occhieggia verso lo specchio a figura intera.

- No, non mi cambierei con lui per niente al mondo. Anche se non sono tutto gonfio come un dirigibile.

 

Hai chinato lo sguardo, assentendo distratta. Un attimo, e tutte le tue attenzioni sono su di lui, sull’alone viola-ematoma che gli si allarga all’altezza del diaframma. Dove il ginocchio di Riccardi è andato a colpire.

Vorresti raggiungerlo in punta di dita. Scorrere sui margini della ferita, sanarla con uno sfioramento casuale e sentire il battito sottopelle, il sangue che corre veloce lungo i suoi binari.

Una voce come una sirena dentro la testa – taci, maledizione!

Come un elettrocardiogramma piatto. Ma è il cervello, stavolta, che minaccia di chiudere i battenti e portarsi un po’ a spasso in fondo a quella strada laggiù.

Un sospiro.

La cosa più indecente fra tutte è l’aria che scivola in mezzo a voi, in quel metro scarso di distanza che vi divide come capi opposti di una via. Che separa le tue mani – la pelle che brucia sotto la stoffa sottile della maglia – dal suo petto che palpita di sangue e di vita sotto la barriera dell’epidermide, e respira.

È il fatto che i suoi capezzoli suggeriscano l’idea di essere tremendamente vulnerabili al tocco, sotto quell’atmosfera impertinente che s’interpone tra voi come una piuma.

Non è Riccardi, che teme che se gli cala un po’ il bicipite, qualcuno possa trovarlo effeminato. Non è Alberti col suo ciuffo perfettamente ingellato, che da quello sembra dipendere la sopravvivenza delle specie. Non è il tizio senza nome – quello che, i tuoi primi giorni di salto nel buio, ti fissava come se ti fossi presentata in accademia vestita da Jessica Rabbit –, seppellito dentro la maglia del suo gruppo rock prediletto, come una sezione staccata del suo stesso corpo.

Lui ha il corpo sdutto e liscio di un ballerino, la pelle come un film che lo espone verso di te anziché proteggerlo da ciò che sta fuori.

- Ti ha fatto male? – un istante, un sussurro appena percepibile che non tenti di intrappolare sotto le labbra.

Come le dita che, quasi senza un impulso consapevole a giustificarne il movimento, sono su di lui. Dove Riccardi l’ha colpito, tentando di cancellarlo dai suoi incubi peggiori.

Andrea scuote il capo, i capelli ondulati che gli solleticano le spalle nude. Non fa male, finché c’è lei a farlo sentire un po’ anche suo. Magari, se la sua mano si infilasse tra i suoi capelli, e poi anche l’altra, tutto andrebbe a posto.

Sorridi, perché la cosa meno sconcertante tra tutte è che non c’è stato l’impulso logico a guidare le tue parole, le tue dita. Nessun “perché” nella tua mente, a spezzare i pilastri del vostro mondo e sconvolgerne la precaria impalcatura, precipitarla nel limbo del non-detto, del vorrei-ma-non-posso, della volontà di darsi una motivazione che non arriva, prima di risolversi a fissare il vuoto.

Poi Andrea ha sorriso, si è infilato una maglietta pulita pescata a caso sulla sedia e ti ha trascinata di nuovo a sedere accanto a lui. Ha posato la testa sulle tue gambe – i riccioli sparsi sul tuo grembo come una singolare aureola scura – e ha chiuso gli occhi, in attesa che a rompere il breve idillio fossero il sonno o la fame.

 

* * *

 

Le otto e mezza. Gabriele spalanca le palpebre e fissa il soffitto incrostato di ombre. L’ultima di una lunga serie: svegliarsi ad orari insoliti e con un principio di depressione galoppante. La bocca impastata e il collo tutto incriccato come singolare déjà-vu.

Dev’essere crollato di colpo: non ha sentito Andrea ed Elena che lasciavano la sua stanza.

Un respiro profondo, mentre si districa dalla morsa dell’accappatoio che gli si è incollato addosso. Soltanto quello e un paio di boxer neri a separarlo dalla nudità. Il sospiro che gli è salito alle labbra si frantuma in un sorriso appena accennato: per aver avuto, con Andrea, una precaria convivenza di un mese o poco più, è strano che ne abbia assorbito qualche usanza peculiare. Tipo appisolarsi in luoghi insoliti e girare per casa in accappatoio e mutande.

Distratto, si porta le dita alle tempie in un massaggio circolare. Tanto vale riesumare il thermos di caffè forte o tentare di dare una forma umana ai propri capelli. E recuperare qualcosa di decente da mettersi addosso.

Tre ore – solo perché l’orologio a muro gliel’ha rivelato con il suo ticchettio perforante –, tre ore, da quando Andrea l’ha artigliato con dita simili a tenaglie e gli ha soffiato in faccia parole sibilline che fa fatica a riassumere. Come la mezza imprecazione smozzicata, quando per poco il caffè non gli ha ustionato la lingua.

Qualcosa di strano che, per qualche ragione imperscrutabile, non vale la pena di spremersi le meningi e recuperare dal cassetto della memoria. Non vale la pena di frugare nei meandri incasinati della sua mente fino a sputare fuori il file giusto.

Ancora silenzio – solo una pressione continua alla nuca, perché il silenzio è gravido di sussurri, di ticchettii, di voci lontane. Le lancette che segnano le otto e trentacinque e proseguono la loro marcia.

Non ha voglia di cenare né di accartocciarsi sotto le lenzuola e sperare di ripiombare al più presto nella nebbia del sonno.

Qualcuno scorrazza fuori in corridoio con la grazia di un vitello al pascolo. Risatine e qualche parola ovattata che, da dentro, non riesce ad estrapolare dalla nebbia.

Elena e Andrea, al piano di sotto, che urtano contro qualche mobile e cantano a squarciagola “Somebody to love”. Scuote il capo: o hanno appena sbancato il Superenalotto, oppure Andrea ha rilasciato la prima dichiarazione sensata di tutta la sua vita. Un sorriso carico di amarezza.

Sospira, Gabriele. Forse sarebbe il caso di scendere di sotto e vedere che diavolo sta succedendo. Di far cadere le difese almeno per un poco, prendere un bel respiro e provare a ricominciare a vivere; a fare come Andrea, che si fa scivolare tutto dietro le spalle come un bimbo maleducato che butta le cartacce per terra. O come Elena, che con ogni probabilità ha fatto dello sputtanamento degli altarini del “Goldoni” la sua nuova linfa e ragione di vita, e gioisce e osserva con occhi sornioni e indifferenti i vari Alberti, Cortesi, Riccardi, Balducci, Longoni, Neri – Nicoletti? – e compagnia cantante che serrano le chiappe e si arrabattano come schegge impazzite nella corsa all’occultamento del cadavere.

Forse festeggiare un po’,  buttare al cesso la maschera dello scazzato asociale, non è una cattiva idea – ci sono i requisiti minimi.

Se non fosse che la maschera gli si è incollata così bene da aver modellato e reso irriconoscibili i suoi lineamenti, divenendo una camicia di forza intorno al cuore. Insieme a una voce che gli sussurra che quella non è roba per lui. Che da festeggiare non c’è proprio un beato cazzo.

 

* * *

 

- Tu che avresti fatto, al mio posto? Sentiamo la voce della saggezza…– Riccardi soffia via le ultime parole come un leone infastidito.

Come il supertestimone costretto a ripetere la stessa solfa per l’ottantesima volta o giù di lì.

Isa lo osserva, e un fiotto di disgusto le sale fino in gola, come un laccio. È dura giocare il doppio ruolo di avvocato dell’accusa e persona informata sui fatti. Lo sa e non ne va fiera, perché quel nodo d’angoscia è sempre lì, costante, stretto alla bocca dello stomaco. Perché Andrea l’ha inchiodata al suolo con quegli occhi affilati, imperscrutabili, e con lui c’era Loria col kalashnikov puntato.

- Di certo non l’avrei preso a calci! – storce il naso, la sensazione di poter vomitare da un momento all’altro – E se proprio mi fosse preso lo schizzo di ficcargli le mani in borsa e portargli via la roba sua, l’avrei rimessa al suo posto. È asmatico, maledizione! Poteva stare male sul serio.

Riccardi stringe i denti e le rivolge un cenno infastidito, come a scacciare via una mosca.

- Cosa vuoi che me ne freghi? Piantala, ché i buonismi del cazzo non fanno per te! Tu sapevi. Hai capito che ha combinato il tuo amico Nicoletti mentre non c’eri, o devo farti un disegno?

- Lo sapevo – gli concede Isa – Ti ho visto quando gli hai preso la borsa; ti ho detto di piantarla, ma non mi hai dato ascolto. Non ti credevo stronzo da portare avanti la pagliacciata oltre i limiti.

Riccardi solleva gli occhi al cielo.

- Che bella faccia di bronzo, tu che vieni a farmi la morale! Il bello è che era tuo amico.

Isa incrocia le braccia sul petto. A muso duro.

- Anche tuo, quando ti faceva comodo.

Il volto di Riccardi di accartoccia in una smorfia. Come se qualcuno gli avesse proposto un tuffo inaugurale nel letame.

- Stai scherzando? Io amico di quel frocio? Ma che schifo!

- Non ti faceva schifo, lo sai – lo interrompe.

- Avremmo scambiato quattro parole in due mesi… Mi sembrava un tipo a posto.

Con due occhi, due braccia, due gambe e tanti capelli sulla testa?

- Cazzate, Federico! – seconda interruzione.

Non può lasciarsi trascinare di peso al festival dell’assurdo; non senza opporre un argine.

- Non ha mai nascosto le sue… preferenze – prosegue – Non hai fatto nessuna grande scoperta.

Riccardi sbuffa.

- Pensavo che scoparsi la francesina gli avesse fatto dimenticare i suoi viziacci. Che fosse normale.

Isa non vorrebbe, ma una scarica d’indignazione la fa schizzare in piedi come una molla incollata dietro la schiena. Con un brivido giù lungo la spina dorsale.

- Ma quale… francesina! – e sputa via l’ultima parola come una bestemmia – Non si è scopato nessuna francesina.

Perché ammetterlo farebbe troppo male.

E Riccardi abbozza una risata che somiglia più a un grugnito.

- Vedi che ho ragione? Non è mica in grado di scoparsi una ragazza! – pausa compiaciuta – E poi, chi si scoperebbe uno che ha una faccia da donna? Forse Loria, che è un po’ lesbica.

Isa distoglie lo sguardo. Andrea e Blanche. Andrea e Loria. Altro colpo basso. A fatica riesce a muovere le labbra e ruminare qualche parola.

- Non è lesbica. È una puttanella.

E maestra nel soffiare sulle braci.

- Bene. Buon per lui – Riccardi si accende una sigaretta e fa per troncare la questione.

- Non cambiare discorso – la voce di Isa è il sibilo di una miccia prossima all’esplosione.

Riccardi sbuffa via il fumo come una liberazione. Sembra esasperato.

- Che cazzo vuoi che ti dica, Cortesi? – ha alzato la voce, segno che l’imbarazzante arrampicata sugli specchi è appena cominciata – Ti rendi conto delle stronzate che stai blaterando da mezz’ora? Senti un po’ qua: Nicoletti piomba in camera mia, inizia a comportarsi da psicopatico e rovina la mia serata con Angelica… L’avresti insultato? No, ma che brutte maniere! Perché è finocchio, poverino, è specie protetta, e se me la prendo con lui, sono un omofobo. Spiegami se ha un senso! Nicoletti fa quel cazzo che vuole, ma se ti girano le palle e gli dici ciò che si merita, diventi un nazista.

- Non hai capito un cazzo! – Isa si lascia andare schiena contro il muro, un soffio infastidito.

- Ma lui ti piace così tanto? – Riccardi ridacchia – Te lo vuoi fare?

No, no, no! Isa vorrebbe urlare.

- Fattelo e non rompere le palle a me! Se non è così frocio da fargli schifo l’idea, o se non bomba con la Loria. E poi non lamentarti se alla prossima che mi fa, ne uscirà conciato male.

- La prossima piazzata? – Isa vorrebbe disperatamente domare quella nota acuta nella voce –Se fossi stata io al suo posto, altro che venire qui e provare a convincerti con le buone! Ti avrei fatto fare il giro dell’isolato a calci nel culo! Se avessi lasciato il dannato inalatore al suo posto, nessuno ti avrebbe cercato.

- Col cazzo! – Riccardi lascia cadere una colonnina di cenere sul pavimento, lo sguardo stizzito – Non me ne frega un accidente, per me può crepare soffocato. E comunque, quello ha problemi seri… Hai visto che casino ha piantato? No, non l’hai visto.

Isa china lo sguardo, si fissa le mani che fremono. Per un attimo rimpiange di essere una cosetta di un metro e sessanta scarso, ben carrozzata sul davanti ma con poco altro di davvero imponente.

- Ignoralo! Non cercarlo, non stuzzicarlo, dimenticati il suo nome! Fai conto che non esista proprio!

- È una parola… – Riccardi solleva gli occhi al cielo, ispirato, mentre la sigaretta gli si consuma tra le dita – Sta sempre tra le palle, è impossibile dimenticarsi che esiste. Dio, vorrei strozzarlo!

- Cosa ti ha fatto? – Isa si osserva la punta delle scarpe.

- Tutto! Che domanda stronza… – Riccardi sembra essere passato di colpo all’isterismo controllato – Esiste. Pure la sua vista mi urta. Ha quasi mandato a puttane l’Accademia al gran completo per i suoi cazzi personali. Stava per fotterci tutti fottendosi l’insegnante. È un leccaculo infame. Mi ha dato un pugno perché era incazzato col mondo, perché Neri l’aveva appena sfanculato, e lui giustamente doveva prendersela con qualcuno. Che devo fare, porgergli l’altra guancia?

- L’avevi appena insultato davanti a una trentina di persone. Dimentichi sempre qualche dettaglio – puntualizza Isa – E comunque te la sei andata a cercare.

Riccardi serra le mascelle.

- Se quello che è successo stasera, esce fuori da questa stanza, io pianto un casino – ringhia.

- Se tu l’avessi lasciato in pace, non sarebbe successo niente – Isa provvede a schiacciare nel posacenere il mozzicone che Riccardi ha lasciato acceso.

C’è odore di filtro bruciato, e l’ondata di nausea che le sale alla gola fa un mix quasi esplosivo con la collera a fior di pelle. Il desiderio impronunciabile di completare l’opera d’arte di Andrea sul suo viso.

- Lasciarlo in pace…

Isa solleva gli occhi al cielo: quando Riccardi è alterato, ha la mania insopportabile di ripetere le ultime parole dell’interlocutore come un mantra.

- Lasciarlo in pace. Lo difendi! Perché dovrei lasciarlo in pace, scusa, se lui per primo provvede sempre al suicidio generale dei coglioni? Dovrei accettarlo perché è frocio? Perché, se lo tocco, divento un omofobo infame? È così. Ti rendi conto di che stronzate stai dicendo? È la nuova religione dell’assurdo, e Nicoletti l’intoccabile.

Isa indietreggia di qualche passo, un istinto claustrofobico che le ribolle nello stomaco. Sa che se resta ancora tre secondi in quella stanza, imploderebbe su se stessa. O farebbe qualcosa di terribilmente avventato. Tutto sta nel guadagnare l’uscita prima possibile, quando si resta a corto di parole, e ricominciare dall’ABC della convivenza civile vorrebbe dire cozzare ripetutamente contro un muro. Con rassegnazione.

- Riccardi, senti, vaffanculo!

- Fa’ altrettanto!

Un mugugno infastidito che la insegue come un fantasma, attutito dietro la porta chiusa, mentre si getta in corridoio come in un incubo. E le pareti chiare sono battenti che le si richiudono sopra la testa.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Capitolo 20 - Peccati veniali ***


 

 

Capitolo 20

Peccati veniali

 

 

Lo schermo azzurrino del note-book stride con la penombra della stanza.

Scuoti le ciglia, le palpebre che bruciano di fronte a quell’unica lanterna accesa, un leggero chiarore che bagna la stanza. C’è la portafinestra aperta sul terrazzo, e la luce spenta non attirerà creature della notte di passaggio.

Una cena a lume di candela sarebbe stata il massimo, di fronte a una pizza e a un vassoio di patate fritte rimediati in tutta fretta al self-service di sotto. Troppe luci e troppo caos, per indugiare tra gli avventori abituali – gli stessi che solo tre sere fa hanno assistito in diretta alla sfuriata di Andrea.

Lui si è appena adagiato contro lo schienale del divano, gli occhi chiusi mentre l’aroma del caffè si spande nell’aria.

- Resti, allora? – le domanda, a bruciapelo.

- Guarda che con quello non dormi… – hai aggirato l’ostacolo, accennando alla moka sul fornello.

Per tutta risposta, Andrea intreccia le braccia dietro la nuca, a suo agio.

- Nah. Ci sono cose più interessanti da fare, anziché dormire…

- Tipo? – sollevi lo sguardo, un occhio sul portatile con il browser aperto sulla casella di posta.

L’altro su di lui, che si stiracchia come un gatto.

- Tipo parlare.

Sorridi. In fondo l’hai sempre adorata, l’inflessione bassa nella sua voce quando sta per dire qualcosa di ovvio. È una di quelle cose che terrai gelosamente per te. Come la busta da lettere stilizzata che lampeggia in cima alla casella di posta in arrivo.

- Oh, cazzo!

Un attimo, e la stanza all’improvviso è troppo stretta, perché no, non te l’aspettavi.

Andrea solleva un sopracciglio, interrogativo.

- E mo’ che succede?

È subito al tuo fianco, come un lampo. Il portatile richiuso all’ultimo momento con uno scatto, prima che l’impulso logico giunga a destinazione, e che lui provi a sbirciare oltre la tua spalla. Pericolo.

- Nulla, il solito spam – è la prima scusa banale che ti affiora sulle labbra insieme a un sorriso tirato.

Lui annuisce e torna a impossessarsi del divano.

Troppo facile, così. Davvero troppo facile.

- Quindi resti? – incalza.

Scrolli le spalle.

- Non so…

Tenti di mascherare il panico, la tensione che sale, perché non è facile fornire delle certezze, quando da scopri un momento all’altro che il contenuto delle ore seguenti potrebbe modellarsi sul resoconto di quella mail all’ultimo minuto. La mail che attendevi da mesi, prima che lui si volatilizzasse.

Tre mesi sono scivolati via. Galileus sembrava quasi morto, come l’antivirus alla data di scadenza.

Era cominciata così: ti eri servita di lui per una cosa vile come una vendetta ponderata, una vendetta di cui non sei mai andata fiera. Lui si era servito di te perché rendessi operative le sue scoperte.

Sorridi, quando ci ripensi: non era stato difficile, alla riunione del Direttivo, sostituire all’innocuo filmato sulle regole da seguire in caso di incendio, il video della cena incriminata tra il direttore del “Goldoni”, la Balducci, Alberti senior e Alberti junior.

Da lì era stato il delirio. Qualcuno ti disse che, mentre immagini e parole si accavallavano sulla lavagna luminosa con la loro disarmante evidenza, Alberti junior, presente in veste di rappresentante, sbiancò come se qualcuno volesse scannarlo. La Balducci strillò come un’aquila e gridò al complotto, sovrastando solo in parte il volume del filmato.

Una mezza dozzina di fotocopie degli assegni con e senza prestanome destinati all’Accademia dal padre di Alberti, lasciate “casualmente” incustodite in Aula Magna la sera prima della riunione degli studenti, fece il resto. Senza tener conto dell’intero dossier su Neri e sui suoi scheletri nell’armadio, che già da un pezzo circolava sottobanco.

Galileus ti aveva assicurato che quelli erano i “peccatucci veniali”. Dio sa come sia riuscito a procurarsi quella roba – con tanto di prove dettagliate di ogni passaggio sospetto.

In fondo alla sua ultima e-mail c’erano un paio link che lui – o lei – ti aveva raccomandato di aprire quando ti avesse dato conferma o, se proprio non avessi retto alla curiosità, di evitare almeno di divulgarli. La resistenza era durata una settimana dopo il cataclisma in Aula Magna.

E la curiosità aveva vinto la partita col il “facciamo le cose per bene o qui ci scappa il morto”. Una sera, la luce dell’abat-jour unica spettatrice, ti eri piazzata il note-book sulle ginocchia e avevi aperto il primo link. Tentato di aprire.

La vera doccia fredda, un’emoticon sorridente e un “inserire password” vergato a caratteri rosa shocking. Da lì era cominciato il bombardamento di richieste – prima gentili, poi minatorie – all’indirizzo di Galileus, che mai si era sognato di rispondere.

Qualcosa ti aveva suggerito che il fantomatico hacker fosse sparito per un motivo preciso. Forse aveva ottenuto ciò che voleva e non riteneva più utile né il resto del materiale né te come braccio destro. A malincuore, avevi archiviato la questione.

E adesso, con nonchalance, Galileus era tornato. Come un fulmine a ciel sereno.

In silenzio, accenni distrattamente al caffè che sfrigola sul fuoco. Ad Andrea che continua ad arricciarsi la stessa ciocca di capelli tra indice e medio, flemmatico.

Sorridi.

- È pronto.

- Vai tu – Andrea socchiude le palpebre.

- Ho il computer sulle ginocchia e mi scoccia metterlo giù – stavolta la scusa non fa una piega – E poi tu sei più vicino.

Andrea solleva gli occhi al cielo: un secondo, prima di dirigersi trascinando i piedi verso il famigerato fornello.

Appena in tempo da voltargli le spalle e sbirciare il messaggio di Galileus senza correre rischi.

Che voglia chiudere definitivamente la questione. O che ne abbia in mente una peggiore.

 

Seleziona tutto. La password per aprire il primo link sta in fondo alla pagina.

No, non adesso. Non è prudente.

Appuntamento per domani mattina alle 7 al bar della stazione centrale.

Scusa l’orario, ma non possiamo correre rischi. Buone notizie.

 

Eccolo là.

Serri le palpebre, in attesa. Il primo impulso è stringere i pugni finché le nocche non sbiancano, afferrare il computer e scaraventarlo da qualche parte. Il secondo, maledire chiunque si celi dietro quel dannato pseudonimo – ma non con Andrea a pochi metri di distanza, che si chiede quanto zucchero ci vada nel tuo caffè. Uno in meno di quanti ne mette lui, per amor di cronaca.

La priorità suprema, ora, è che Andrea si metta tranquillo, perché guai se cominciasse a covare qualche sospetto. Meglio che crolli nel mondo dei sogni quanto prima, risparmiandoti l’imbarazzo di giustificargli i tuoi movimenti, perché sapevi che lui si sarebbe rifatto vivo quando meno te lo saresti aspettata. È sempre stato schifosamente di parola.

Il singulto di rabbia scivola via senza troppi danni. Solo un sollievo generico, perché per tre mesi Galileus si era dato per disperso.

Un primo vis-à-vis l’aveva richiesto tempo addietro – ben prima della catastrofe e della sua morte clinica. Poi si erano messe di mezzo altre questioni, e l’incontro era stato rimandato a data da definirsi.

Era ricomparso come la gramigna, quando ancora credevi che l’unico problema fosse Neri – che stava sulle palle a troppa gente, e i suoi colleghi non attendevano che un suo passo falso.

Poi era esploso il caso Alberti, e ti chiedevi che senso avesse, per un hacker esperto come lui, affidare la missione più delicata a una studentessa qualunque. Te lo chiedi ancora, se davvero fosse necessario l’intervento di qualcuno insospettabile, ma al tempo stesso abbastanza furioso da prestarsi al gioco sporco.

Qualunque insegnante avrebbe potuto smistare con facilità filmati e fogli volanti in modo da essere rinvenuti nel posto sbagliato e al momento sbagliato. Quindi, il tuo uomo non stava tra i professori.

Restavano gli studenti. Qualcuno che potesse dirsi sicuro della tua dedizione: sicuro che, messa di fronte ai fatti, avresti fatto di tutto per adoperarli nel modo più nocivo possibile, secondo le sue direttive. E così era stato.

Era qualcuno vicino a te, qualcuno che ti conosceva.

Andrea? Era cosa degna di lui. Ma all’epoca non vi conoscevate che di nome. Poi, lui avrebbe parlato. E non ha mai avuto interesse a far sbattere fuori Neri – stravedeva per lui, e non ha mai inghiottito il rospo.

Andrea che, dopo la cacciata di Neri, dopo che la diffamazione era proseguita su vie più sottili, aveva sputtanato tutto lo sputtanabile e dipinto Alberti padre e figlio come l’impero del male.

 

Chi altri, allora?

 

Chiudi gli occhi. Bisogno ancestrale di fare un po’ d’ordine.

Nove ore o poco più, e il nodo si sarebbe sciolto. Galileus non è uno stupido e non correrebbe tanti rischi per tirarti un bidone.

Le sette in punto alla stazione, significa fuori di casa almeno quindici minuti prima. La linea 25 passa sotto casa, e a quell’ora è tutto un viavai di gente. Non c’è pericolo, ti ripeti: la città è sveglia da un pezzo, il cielo oltre le cime dei palazzi è una lama scintillante. Se Galileus ha scelto un luogo affollato e di gran movimento, di certo ha preventivato tutto.

Il timore astratto è che dietro tutto questo ci sia stato da sempre l’intento di coinvolgere te e soltanto te.

Il timore concreto, non riuscire a sgattaiolare via senza svegliare Andrea. Potresti rientrare a casa con una scusa, ma sarebbero giri inutili.

In silenzio, osservi Andrea nell’atto di porgerti il caffè. Un’occhiata di sottecchi mentre ripone la caffettiera accanto al fornello.

Sospiri. Tutta l’alchimia, il delirio erotico-sentimentale di una mezz’oretta fa sembrano essersi diradati sotto la sferza gelida della mail di Galileus – al quale devi, in parte, la risalita dal limbo; la dimostrazione pratica che anche gli stronzi di vecchio rodaggio possono avere i minuti contati, quando un pirata dal cervello sopraffino decide di dar loro la caccia.

Eppure l’equazione continua a non tornare. Perché Galileus avrebbe potuto tenere la roba per sé e usarla per ricattare Alberti, eppure non l’ha fatto. Ha contattato te e ti ha chiesto a quale prezzo avresti comprato la loro testa.

Immobile con i tuoi pensieri, decidi che la cosa migliore è temporeggiare e perderti nella vista di Andrea, i muscoli dello stomaco appena visibili sotto la maglietta. Lo osservi mentre si volta a raccattare da terra il cartone vuoto della pizza.

Il volto bello dell’Accademia – e Gabriele con lui.

Ogni tanto ti chiedi perché mai Isa abbia deciso di odiare Gabriele nel momento esatto in cui l’ha conosciuto – o in cui l’ha scoperto gay. Non aveva senso: non sarebbe stato suo né di nessun’altra, se ciò che conta per lei è mandare a gambe all’aria la concorrenza. Vincere come donna.

Scuoti il capo. Più logico credere che, consapevole o meno, Isa giochi al gioco di qualcun altro. Che fosse necessario neutralizzare proprio lui, che a furia di stare a stretto contatto con Andrea, conosceva troppe cose e aveva pure una testa pensante. Farlo passare da drogato e da pazzo era il minimo. O farlo impazzire direttamente.

 

Criminali.

 

Ti stringi nelle spalle, rabbrividendo. La rabbia che scivola via come un nastro.

Andrea ha gli occhi velati di sonno, l’ovale pallido del viso illuminato solo dal riflesso della luna – e dalle note azzurrine del monitor.

- Che fai, allora, resti? – la sua voce sembra lontana, leggermente impastata, eppure così rassicurante…

La musichetta di chiusura di Windows deve averlo ridestato di soprassalto – solo una coltrina di capelli a ripararlo da quell’unico chiarore.

Il suo viso ha sempre quel nonsoché di morbido che calamita il tuo sguardo come una carezza. Qualcosa nella piega delle labbra, nel complicato disegno dei riccioli scuri sul fondo bianco.

Credo di sì. Un cenno con la testa. Sì, resto. Anche stanotte.

Non dormiresti, e non lo farei neanch’io.

Non c’è caffè che tenga. Andrea punta i gomiti sulle ginocchia e si sforza di tenere le palpebre sollevate.

- Perché non resti… in pianta stabile? – domanda.

- Avrei un appartamento in affitto.

Andrea si stringe nelle spalle.

- Pensavo stessi con i tuoi.

Ha lo sguardo poco convinto e la voce strascicata di chi si sforza di tenere vivo il discorso, nonostante la mente voglia chiudere i battenti.

- Andre – sorridi, condiscendente: la birra e lo spavento per l’attacco d’asma, per stasera l’hanno fritto – I miei stanno dall’altra parte del Tirreno.

- Oh, già, è vero.

Un istante in cui cullarsi stancamente sul divano, le braccia tese ad abbracciarsi alle ginocchia.

- Anch’io… – aggiunge. Ma preferisce lasciare che le parole sfumino.

- Anche tu cosa? – ridacchi appena – Anche tu stai in affitto?

Andrea scuote la testa, dissimulando una risata.

- No, non questo – incrocia le gambe – Che non mi dispiacerebbe andarmene anch’io per un po’. Oltre il mare… – e punta gli occhi verso il cielo, trasognato.

E non è da lui, maledizione. Non è da lui.

- Posso chiederti come mai?

- Staccare la spina – risponde lui, candidamente – Mia madre l’ha fatto. Dice che starà in Sardegna per un po’. Il tempo di rimettere a posto un paio di casini con la famiglia, e tornerà come nuova.

La voce si è spenta in un sussurro, un ammiccamento leggero.

Stavolta non puoi fare a meno di domandare. Perché parlare sibillino e svelare verità con il contagocce, è la sua specialità.

- Se n’è andata?

- No, no – un sorriso sembra di nuovo baluginare sulle sue labbra, tra una sillaba e quella successiva – Roba da mettere a puntino prima che inizino le trafile per la separazione.

Sospiri. Ti stringi nelle spalle. Perché l’unica risposta che riesci ad abbozzare è un veloce inarcamento delle sopracciglia. Il volto di Andrea è inespressivo, un sipario chiuso.

- Scusa, forse non te ne ho mai parlato – scrolla le spalle: sembra aver abbandonato ogni velleità di raggiungere il letto al più presto: il sonno si è diradato quasi del tutto, gli occhi sono svegli e lustri come specchi.

La voce metallicamente calma.

- I miei si stanno separando.

E tu non puoi far altro che annuire, perché il baratro hai appena iniziato a sondarlo. Perché è difficile pensare ad Andrea come a qualcosa che non respiri di pari passo con ogni riassestamento sismico di quella cittadina in miniatura che è l’Accademia.

La verità è che il suo spazio d’esistenza non si esaurisce nel gesto distratto ed elegante con cui Gabriele si gira la sua sigaretta artigianale o negli occhi di Riccardi che grondano disprezzo o nel sorriso agrodolce di Isa. Neppure nell’insolito sodalizio Nicoletti-Loria o nella tresca con Neri.

- Capirai… – prosegue, indifferente, un monologo ben scandito – Con mio padre che non fa che cercare la lite, sfido chiunque a resistere – sbuffa, accigliato – Un po’ posso capire anche lui: non dev’essere il massimo ritrovarsi da oggi a domani una puttana come figlio e tua moglie che lo difende a spada tratta – si osserva intorno, come se qualcosa sia rimasto in sospeso, impigliato al soffitto, in un discorso che non torna – Da quando mi ha beccato con Neri, apriti cielo!

La coltellata è arrivata senza preavviso, infilata in qualche parola banale. E il tempo riprende a scorrere.

Andrea accarezza distrattamente il copri divano, seguendo il disegno a fiori stampati; china il capo, colpevole. Le guance accaldate.

Aprire bocca per dire qualcosa è difficile, perché i suoi occhi sono di nuovo lì, fissi dentro i tuoi; le parole rimandate, inghiottite nelle sue. Ha riportato lo sguardo su di te come a freddare ogni slancio. O dargli degna conclusione.

C’è un’impronta strana, qualcosa che non avevi mai visto in lui – come la rassegnazione. Il viso più chiaro che mai, gli occhi più grandi.

- Io ho le ossa fatte, me ne farò una ragione – ha messo le mani avanti, come a frenare ogni nota di compatimento – Mi dispiace solo per Adele, che ha cinque anni e non capirà. Non capirà che suo padre se n’è andato perché sua madre prende sempre le parti del figlio maggiore, che fa solo cazzate.

- Andre…

Sul suo volto è comparso un sorriso serafico, carico di amarezza.

- A questo punto, capirai bene che una fogna umana come Federico Riccardi pretendo si sciacqui la bocca cento volte, prima di chiamarmi “frocio di merda” e buttare fango su storie che non conosce – sentenzia, un nodo d’acciaio che gli esplode in fondo alla gola, fino agli occhi d’inchiostro liquido – Lo dovrò andare a spiegare io a Adele, fra qualche anno, non lui. Che suo padre e sua madre non vanno d’accordo perché suo fratello è una testa di cazzo.

Un sorriso a labbra socchiuse che è quasi la confessione di un folle.

- Andre, non è colpa tua, davvero.

Lui scuote la testa, risoluto, come a volersi liberare di un chiodo molesto.

- Ah, dici? Potevo evitare di farmi beccare a casa con il mio insegnante, e non sarebbe successo nulla.

- Tuo padre sapeva…? – azzardi.

- No, non ha mai saputo nulla. Non sapeva nemmeno che fossi bisex, che andassi a letto con gli uomini!

- Non è mica colpa tua, se tuo padre non ti accetta – riprendi – E se tua madre non è di quel parere.

- Ecco, ci hai visto chiaro e cristallino – Andrea schiocca le dita.

Ti ha di nuovo piantato in faccia quegli occhi terribili.

- Che vuoi che gli importi, alla fine? – prosegue, implacabile – Di suo figlio che si è fatto infilare le mani nei pantaloni per fare carriera. No, il problema è che mi ha beccato con un uomo. Preferirei che mia madre fingesse di dargli retta, davvero. Me ne sarei andato di casa, e tutto si sarebbe risolto. Senza che ci rimettesse Adele. Tanto la cosa sarebbe andata a puttane comunque.

- Che soluzione orrenda… – deglutisci, a fatica – Io invece sono d’accordo con tua madre.

E la tua mano si posa senza volerlo sulla sua spalla, massaggiandola in circolo. Mano che lui non respinge. Si piega verso di te.

- Forse hai ragione – esala un respiro, il primo totalmente rilassato dopo una sequenza di minuti tesi – Non è da lei, sbattermi fuori perché amo un altro uomo. A lei non importava nulla. Le importava che mi stessi scavando la fossa.

Sorride, una ventata di calore. Si solleva in piedi di scatto. Fruga tentoni nella giacca abbandonata sulla sedia, fino a trovare quel che gli occorre.

- Vieni. Ho voglia di fare un giro in macchina – esordisce, sventolando in aria le chiavi.

- A quest’ora?

Andrea annuisce e contrae il volto in una leggera maschera di disgusto.

- Meno vedo queste stanze, meglio va per i miei nervi – sputa fuori, acido – Da questi corridoi color piscio che pullulano di gente che non sa un cazzo di me, ma pontifica su quanto resisterò. Gente che mi sorride e poi mi tira dietro di tutto. Riccardi voleva che morissi soffocato perché se vado anche con gli uomini, per lui è una specie di offesa! – la voce gli s’impenna in un parossismo di rabbia.

Di scatto, raccatta la borsa e ci ficca dentro di tutto. Patente, astuccio delle lenti. Il benedetto spray per l’asma.

- Andiamo.

Fuori, l’umidità penetra oltre le maglie dei vestiti, e da lì fino alle ossa. Il bar è semideserto e sembra di sentire l’eco della voce beffarda di Riccardi. Ma le stelle sono fessure aperte, squarci di paradiso nella volta di piombo. Quasi non si vedono più, tra la foschia che sale,  il chiarore smorto dei lampioni e l’inquinamento luminoso.

- Ecco… – Andrea si lascia quasi andare a un sospiro di piacere, mentre sprofonda nel sedile dell’auto – Va già meglio.

- Che cosa vuoi fare? – domanda legittima, perché ti ha trascinato fuori tenendoti per mano – giusto il tempo di afferrare la borsa e buttarsi un giubbetto sulle spalle.

Andrea ammicca verso lo specchietto e ingrana la prima.

- Voglio conoscere Cipria.

 

* * *

 

Le sei. Hai provato a dormire, ma la testa ha deciso di non collaborare, e non c’è più stato verso.

Andrea ha insistito per sistemarsi sul divano-letto con Cipria accucciata al suo fianco in una sinfonia di fusa. Si sono presi e non si sono più lasciati.

È stato di parola: per tutto il tempo che è rimasto sveglio, è stato più interessato alla gatta che a tutto il resto. Non ha fatto domande. Si è limitato ad impossessarsi del divano-letto in soggiorno, decretando che no, non esiste che una signora dorma scomoda, mentre l’ospite ronfa nel suo letto.

Cipria l’ha osservato con i suoi occhi d’ambra e ha deciso che poteva concedergli il privilegio di allungarle una carezza. Gli ha sfregato il muso contro i jeans e si è sdraiata sui suoi piedi. A quel punto era fatta.

 

Se la gatta si fida del bizzarro ospite, non c’è dubbio che possa farlo anche tu. Potresti cominciare a rinsaldare la reciproca fiducia proprio raccontandogli come sono andate le cose –omettendo qualche piccolo particolare su Galielus.

Perché ora dipende tutto dall’esito di quell’incontro. Dalla figura che ti ritroverai davanti agli occhi, appollaiata al bancone del bar.

Una seconda mail di risposta, spedita alle tre del mattino, ha aggiunto ulteriori coordinate su come riconoscerlo. Avrebbe fatto tutto lui… lei. La cosa. Zero problemi.

Potresti iniziare a fare qualcosa per meritarti la fiducia di Andrea – fiducia che gli hai sempre concesso con prudenza –, magari raccontandogli com’è che un giorno per caso qualche rimescolio occulto e un paio di notiziacce uscite casualmente allo scoperto hanno messo in subbuglio il “Goldoni”. Ridimensionato la reputazione dei “belli e famosi” e messo in discussione intere reti di alleanze. E se Neri è stato spazzato via, Andrea non ha mai trattenuto un sorriso amaro, al pensiero che neanche Balducci e la sua ghenga navighino in buone acque. E così Alberti.

Il problema principale è sempre lo stesso: sgattaiolare via senza che Andrea si svegli – ma Cipria veglia su di lui e sulla stanza in penombra affinché tutto vada bene, la testa abbandonata sul braccio dell’ospite ruffiano.

Uno sguardo vigile controlla che tutto sia davvero a posto. Acqua e croccantini per la gatta sono al loro posto nella ciotola. Il viso di Andrea, abbandonato nella carezza del sonno, è una poesia di labbra rosee dischiuse. Un braccio allungato sopra la testa. Il pericolo è che potrebbe destarsi di colpo e chiederti dov’è che stai andando, così presto, e cosa ci fai pronta di tutto punto di buon mattino, quando l’unica cosa intelligente da fare è raggomitolarsi su se stessi e godersi l’ultima mezz’ora di sonno fingendo che il sole non sia ancora sorto.

La tentazione è di indugiare ancora, seguire il ritmo molle del suo respiro, allungare una mano e posarla sulla sua. Provare a vedere se anche lui sa fare le fusa. Solo che il tempo ha ripreso la sua folle corsa, e non è il caso di perdere istanti preziosi. È sufficiente l’accortezza di richiudersi la porta alle spalle limitando al minimo il cigolio della serratura.

Andrea si è voltato su un fianco, e il respiro regolare si è sciolto in un sospiro appena percettibile – l’aveva detto, che a volte parla nel sonno.

Cipria ha aguzzato le antenne. Si è voltata nella tua direzione, inclinando il capo con fare interrogativo. Ha socchiuso le palpebre, complice, e ha ripreso a leccarsi pigramente la zampa, curandosi di non svegliare il bell’addormentato.

È tutto pronto.

Uscita varcata senza far danni.

Cipria riprende a fare le fusa accanto ad Andrea che ha usurpato il suo giaciglio, e la porta si è richiusa alle tue spalle senza svegliare mezzo quartiere.

Fuori, la città vive e l’autobus non manca la fermata. Casino di studenti alle ultime settimane di lezione. Il cielo azzurro pallido tra un palazzo e l’altro, e un vago sentore di speranza. La mente sgombra. Sarà solo qualche giro di ruota in più.

Il breve tragitto a piedi fino alla stazione centrale è scivolato via come un nastro che guida i tuoi passi. L’unico rischio, ormai, è che si tratti di un bidone in piena regola, e pazienza. L’ultima delle stranezze di Galileus – sempre che esista e non sia un miraggio, un genio maligno che per tutto il tempo si è divertito a mescolare le carte, a muovere tutti come marionette in un pessimo spettacolo.

Procedi lentamente verso il bar – secondo locale a destra, dentro la stazione. In cima all’ingresso campeggia un grosso orologio rotondo. Meno cinque minuti alle sette.

Un viavai pieno di frenesia, tra un treno annunciato e un caffè da consumarsi in solitudine, tra l’ansia per un esame che forse andrà in porto e la fretta di raggiungere il luogo di lavoro o di timbrare il biglietto. Ti ha accolto come una ventata d’aria viziata.

Tanto vale cacciare di tasca una consunta moneta da un euro e servirsi del secondo caffè di una giornata appena cominciata nel segno del non-detto. Un secchio pieno, grazie.

Scuoti il capo. Il tempo che la vista si abitui al trapasso brusco dalla luminosa dinamicità di fuori al grigio sonnolento di dentro. L’ingresso ad arco, a separare il bar dall’edicola-tabacchino di fronte, è lì al suo posto, e l’idea è di un film in bianco e nero.

Poi, improvvisa e cruciale, la prova del nove. Puoi scorgerne il profilo, come un flash improvviso, un gomito appoggiato al bancone. L’altra mano che giocherella con la bustina dello zucchero. Ti ha visto e ti ha puntato da lontano – prima ancora che riuscissi a distinguere i suoi contorni nella nebbia, perché tutto è una profusione di fumo. Il suo sguardo ti scorre addosso come inchiostro viscido.

Ti ha lanciato un sorriso che si è propagato tutt’intorno come un grido, e in quel momento ogni singolo frammento della stanza è collassato nei suoi occhi che ti fissano.

Solo un ansito sottile, strozzato, riesce ad oltrepassare la barriera delle labbra, di colpo asciutte.

- Tu…?

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Capitolo 21 - L'aspide ***


 

Capitolo 21

L’aspide

 

 

Un’altra notte che ha dormito male. Andrea si sfrega le palpebre, un senso di fastidio inchiodato alla nuca. Come il retrogusto amaro che gli rimesta in bocca; retrogusto che risponde al nome di “rabbia”.

Una collera sotterranea montata su durante la notte, come vapore che risale in superficie. L’elettricità sotto l’epidermide.

Una sensazione che gli scivola sulla pelle e gli invischia la mente; alliscia le pieghe dell’incertezza e scava le voragini. Neppure il ritmo soffuso delle fusa di Cipria è riuscito a scacciare via la rabbia, a calmare quei nervi a fior di pelle.

Si tira su di scatto. Il tremore alle dita è un sentore oscuro che, a scadenze, ritorna.

Forse sono stati i discorsi con Loria, forse la piazzata da Riccardi, forse prima ancora. C’è una nota stonata, qualcosa fastidiosamente simile ad una puntura di spillo. E un principio di emicrania. Un mezzo sorriso appena abbozzato, quando la gatta gli si struscia sui piedi nudi, reclamando attenzione.

Forse è stato quando il nome di Adele gli è affiorato tra le labbra – il pensiero di lei.

La foto finita per caso in mano a Gabriele, il suo sorriso disincantato. Unico istante in cui, ai suoi occhi, sia apparso come qualcosa di più vicino a un essere umano.

Forse è stato quando il pensiero di Riccardi e compagnia e i loro sorrisetti di scherno l’hanno colpito come tante scudisciate in mezzo alle scapole, e da lì il veleno è salito a ondate sempre più ostinate, concentriche, lungo la spina dorsale.

 

Frocio di merda.

Schifoso.

La principessina!

Che c’è, Nicoletti? Neri non te lo dà più, è per questo che sei così acido?

Uno… uno come te!

Hai ragione, non è virile picchiare le ragazze, ma picchiare i froci come te…!

 

Scuote il capo, Andrea, con violenza. Il volto stretto tra le mani. Voci dentro la testa, echi, ricordi, come pece bollente incollata alle ossa – non va via. Ribolle in fondo al petto.

Poi lo rivede. Suo padre che fa per appioppargli uno schiaffo; la percossa giunge smorzata, poco più di un rapido spostamento d’aria. E un paio d’occhi carichi di veleno.

Veleno…

Cacciarsi gli occhiali sopra il naso e provare a rendersi fottutamente guardabile, sono le trovate più geniali che gli siano balenate nella testa da che ha aperto gli occhi. Come la disinvoltura con cui, la sera prima, si è creato dal nulla l’occasione di infamare Riccardi di fronte alla sua nuova ragazzina. Ha fatto tutto da solo, e quelle sono doti di pura improvvisazione. Gli ha rivoltato contro la sua stessa merda, l’ha colpito nel suo punto debole e non se n’è dispiaciuto neanche un po’.

Godersi poi la sua faccia da stoccafisso è stata come la decima parte di un orgasmo.

Chissà, magari Fabio Neri avrebbe annuito col capo, lo sguardo benevolo, e gli avrebbe sorriso. Al suo pupillo, al suo delizioso animaletto da palcoscenico. O magari Gabriele… Gabriele avrebbe storto le labbra con sufficienza; magari gli avrebbe dato del cretino, ma sotto sotto avrebbe gioito della sua performance devastatrice.

La prima cosa che riesce a mettere a fuoco, senza quella nebbia fastidiosa che gli invischia il cervello, sono le sue mani. Gli piacciono: hanno un’impronta decisa, le articolazioni ben evidenti sotto la pelle tesa, l’ovale delle unghie regolare. Sospira e si chiede se con quelle mani sarebbe in grado di distruggere qualcuno e infierire.

E in fondo lo sapevi, Andrea. Che sarebbe andata così. Perché, se mai è valsa la pena di mettere a repentaglio tutto – te stesso –, di mandare all’aria una condizione d’esistenza consolidata, sapevi che non ci sarebbe stato nessun tornaconto. Avresti imbracciato la bandiera del ribelle e chinato il capo nel giro di quarantott’ore, cozzando dritto contro un muro di cemento. Inadatto a lanciare il nuovo pensiero vincente, perché l’influenza di cui potevi contare una volta, nel frattempo si era sciolta come neve. E tanto valeva, a quel punto, passare la palla a qualcuno in grado di giocare. Qualcuno con gli attributi adatti.

Andrea Nicoletti è bruciato in partenza: non può gridare al complotto, perché nel complotto c’era dentro fino al collo. Non può dichiararsi folgorato sulla via di Damasco e ribadire punto per punto l’antitesi di tutto ciò che è stato, perché nessuno vuole ascoltarlo, perché sulle sue labbra le parole più belle sono i deliri di un pazzo, sono false e spregevoli perché è la sua bocca ad articolarle, la sua mente a suggerirle. Qualunque cosa dirà o farà, sarà rigirata a suo sfavore.

E alla fine è rimasto solo. La faccia troppo sporca per poter fare da aprifila.

L’ha capito Loria, che ha ancora troppo fango addosso, gli aloni scuri a oscurarne la superficie. Lei e la sua fiducia a singhiozzo. È bastata una Isa sul piede di guerra a innescare strani rimescolii.

L’ha capito Gabriele, che guadagna tempo e mantiene intatte le distanze. Poteva averlo anche solo per una notte, invece se l’è scrollato di dosso.

Lui, che per Gabriele ed Elena ha rimesso tutto in forse. Si è tolto la maschera e si è preso in faccia tutti gli sputi che gli spettavano. Ma era troppo tardi: era diventato il diavolo, la serpe da cui guardarsi le spalle, e nulla gli avrebbe negato quel ruolo, nel bene o nel male.

Le mani, adesso preferisce adoperarle per allungare una carezza a Cipria, perché è inutile torcerle con insistenza l’una contro l’altra e tenersi stretti i propri pensieri. Le unghie sarebbero belle, peccato i bordi smangiucchiati per un accesso di nervosismo. Il brivido caldo nel farsi un po’ di male, sentire il sapore leggermente salato del sangue, per gioco o per una mania inconsapevole.

L’ennesimo getto d’acqua fredda in piena faccia a scacciare gli incubi; dopo, forse, anche le idee diverranno un po’ più chiare. Si guarda di nuovo le mani e si dice che no, non sono mani per fare del male, quelle. Troppo belle per sporcarle: esistono parti meno nobili che si adatteranno bene allo scopo. Come la bocca. Un morso netto, perforante, i denti intrisi nel veleno. O l’intelletto, fucina di cattive intenzioni.

Quando torna a fissare la propria immagine nello specchio, ha preso la sua decisione. Lo ha compreso Cipria, un miagolio lungo e lamentoso come una minaccia – eppure era sicuro di aver controllato che la ciotola fosse piena.

Osserva il suo viso riflesso, tenta di sorridersi. Ha la faccia è di uno che, nonostante tutto, ha riposato da dio. Ed è spaventosamente calmo, di quella calma che gronda ruggine e produce le stragi più efferate. Gli occhi di un malinconico beffardo, i riccioli deliziosamente attorcigliati intorno al viso e sulle spalle tese.

L’unica certezza padrona è che, entro il tramonto, Federico Riccardi rimpiangerà di essere inciampato sulla sua strada. E allora verrà il turno di qualcun altro.

 

* * *

 

Seduta sotto un pino nella piazza antistante la stazione, le gambe raccolte contro il petto, Elena tenta disperatamente di riordinare le idee.

La stanza ha cominciato a pulsare di luminescenze sinistre, il brusio è cresciuto fino a soffocare ogni aspirazione alla chiarezza, quando nel grigiore ammorbante ha distinto quegli occhi lucidi, profondamente incassati. Il naso leggermente storto. Il volto impassibile, come al rientro da una passeggiata.

Ha sorriso, e a quel punto la maschera è caduta.

Ora ti chiedi com’è che l’abbia notato solo in quel momento, quel canino che punta in avanti. Forse perché sorride così raramente…

Poi, come uno schianto dentro la testa, è tornata la luce. La stanza troppo piccola, troppo fumosa, troppo affollata. Urgeva una valvola di sfogo, un luogo più adatto, lontano dalla moltitudine.

Una corsa nei meandri della stazione affollata, come un sogno, non è mai stata così liberatoria. Fino alla piazzetta semideserta. Gli hai biascicato un “Vieni” e l’hai trascinato fino a un posto più tranquillo, dove poter dare sfogo al nervosismo in maniera pratica e veloce.

A quel punto, reggere ancora sarebbe stato inutile. Gli sei praticamente volata addosso, inchiodandolo a terra – per quanta libertà di movimento potessero concederti i jeans aderenti incollati addosso.

- Tu sei completamente fuori di testa!

Gabriele ridacchia di nuovo. Una risata piena, stavolta, mentre cerca di liberarsi delle tue mani che lo bloccano a terra. Il giro degli occhi in fiamme ti suggerisce immediatamente che è fattissimo. Più fatto di quanto l’abbia mai visto.

- Vuoi picchiarmi, Loria? – sogghigna.

Un lampo – il tempo di smettere di ridere come un coglione e recuperare un po’ il controllo –, e ti ha già disarcionato, ribaltando le posizioni.

- Spiegami che senso ha! – a questo punto puoi prenderti il lusso di urlargli addosso l’ansia di mesi.

Gabriele tergiversa.

- Hai ottenuto quello che volevi? Ho ottenuto quello che volevo? Forse. Bene, pace a tutti.

- Mio Dio, Gabriele! – solo il tempo di razionalizzare la scoperta.

Di respirare un po’, di tirarsi fuori dall’assurdo. Di chiedersi dove stia l’impianto logico. Le parole come un fiume in piena.

- Volevi rovinare Andrea, è così?

Gabriele si passa una mano tra i capelli. Incrocia le braccia sul petto, enigmatico.

- Può darsi.

- Ma non l’hai fatto – deduzione logica.

Gabriele stira le labbra. Un sorrisetto obliquo, spazientito.

- Devo essere sincero?

- È il minimo – gli soffi, gli occhi puntati dentro i suoi, perentori.

- Sarò sincero, come vuoi. Ero partito con quest’idea… Perché negare? Non immagini quanto volessi vedere quel sorriso strafottente sparire dalla sua faccia. Poi… ho pensato che c’erano cose più appetitose per cui valeva la pena di non essere l’unico a farsi due risate.

- Come hai avuto quella roba? Dio, che diavolo hai fatto?

- Questo è un segreto – Gabriele distoglie lo sguardo, soprappensiero.

Ha le mani che gli tremano.

- Dico solo – prosegue – che è bastato frugare un po’ nei posti giusti.

- Cos’avevi in mente? Perché hai cercato me? – incalzi.

- È davvero importante? Pensa al risultato finale. Hai ottenuto quello che volevi, no? Alberti e company sono scesi giù dal trespolo. I professori venduti hanno stretto le chiappe: hanno capito che i favoritismi li possono solo portare, quando gli va bene, allo sputtanamento pubblico. Nicoletti ha aperto gli occhi. Bene. Cosa c’è ancora che non va?

- Io… – sollevi gli occhi al cielo – Tutto, Gabriele! C’è tutto che non va! Tu e Galileus siete la stessa persona…

Gabriele si stringe nelle spalle.

- Esattamente. E avrai capito che non è finita. C’è ancora una cosa…

- Non cambiare discorso! – gli soffi in faccia.

- È la parte più importante – Gabriele ha lo sguardo duro, adesso, e sembra disposto a tutto fuorché a glissare – Secondo te, perché ti ho chiesto di vederci di persona?

- Non lo so, dannazione, non lo so! Non so cosa ti dice il cervello! Non so cosa ti è frullato nella testa tutto questo tempo… Dio, è da psicopatici! Potevi continuare a essere Galileus, magari evitare di tirarmi dentro. Potevi mettere in chiaro tutto e subito, ieri sera, un mese fa, quando volevi. Invece hai imbastito questa pagliacciata.

La sua risposta si limita ad un’alzata di spalle contornata da un’espressione sagace.

- Se permetti, dovevo continuare ad essere Galileus ancora per un po’. Era divertente.

- Tu sei completamente fuori di testa!

- Ricordi il famoso dossier su Neri? – incalza lui, troncando bruscamente la questione.

Con tanti punti interrogativi.

- Come dimenticarlo…! – sollevi gli occhi al cielo.

- Quello era niente, Loria – un sorriso carico di sarcasmo che gli taglia in due il volto – Se esplode questa bomba, stavolta lo butto in merda per i prossimi cinquant’anni.

- Mi dici perché adesso ce l’hai tanto con lui? Pensavo fosse uno dei pochi che si salva…

- Pensavi molto male – ha interrotto le tue parole, il volto duro come ferro, gli occhi nubi cariche di lampi – Pensi che mi fermerò solo perché Andrea ha parlato… ha miagolato in sua difesa?

- Credevo… credevo che quella cosa con Andrea fosse bella e chiarita – il mondo ha ripreso a girare, a navigare in una nebbia sottile; la confusione è tornata, come una fitta che ti trafigge da una tempia all’altra – Non capisco.

- Stavolta Andrea non ha fatto nulla, non gli darò altri pugni nello stomaco. Sai perché ho evitato di sputtanare Neri fino adesso? Perché ci sarebbe andato di mezzo Andrea. Ma se il nome di Andrea non salterà mai fuori, di Neri posso fare quello che voglio.

- Perché questo rancore, Gabriele?

- Non c’entra niente il maledetto stage – le iridi di Gabriele sono lacci invisibili che ti incatenano lo sguardo fisso sul suo viso: ha preferito mettere le mani avanti.

- E allora facciamola finita una volta per tutte! Il fatto che sia innamorato di Andrea, non mi pare un buon motivo per mettere Neri alla corda. Lascia stare.

- Non hai capito – di colpo, il suo viso è un ghigno luciferino.

Un ghigno che non hai mai visto neppure su Andrea, mentre trama per ottenere la testa di Riccardi. E ha gli occhi così febbrili che fa paura.

- Non hai capito, Elena. Io non lascio stare un bel niente – le labbra tremano appena, solo un istante, le iridi come larghe distese di inchiostro – Finché le cose dipendono solo da me, quel pedofilo di merda patirà le pene dell’inferno.

 

* * *

 

Il martedì è un giorno fottuto. Ha rischiato di fare tardi alla lezione delle nove con la Balducci, il che sarebbe equivalso a un marchio d’infamia. Come se già quella donna non lo detestasse a priori: di certo ha chiesto in giro, ha curiosato tra gli appunti di Neri, l’ha catalogato come odioso perfettino primo della classe e ha deciso che avrebbe ribaltato la classifica. Che l’avrebbe odiato a pelle per la sola colpa di andare a genio a Neri e di sostenere con occhi indolenti il suo sguardo e i suoi deliri.

Il martedì è un giorno fottuto: senza Loria e senza Derossi fino a metà pomeriggio, è un suicidio annunciato. È una martellata in mezzo alle gambe.

Ricambiare le varie occhiate di sufficienzadisprezzocuriosità con sorrisi tirati, non è divertente come farlo in compagnia. Non è divertente non palesare a nessuno l’intenzione di incidersi i polsi la prossima volta che Alessandro Alberti interverrà a sproposito con quell’aria da maestrino.

L’unico che in tutta la mattina ha finto di accorgersi della sua presenza, è stato il tizio del paraurti ammaccato – Alex, gli pare si chiami.

Quando l’ha visto, gli è preso un colpo. Forse i capelli: non sono nero corvo come sembravano sotto la luce artificiale. Sono nero violino sbiadito. E poi giocava con un portachiavi a forma di bara. Gli ha scoccato un mezzo sorriso quando l’ha incrociato sulla porta, ha preso posto in fondo all’aula e poi non se ne è più saputo niente. Lui e quell’aspetto sul nordico-slavato che bistro sugli occhi e plastica nera caratterizzano con grazia.

Sospira. Proprio il soggetto giusto da piacere eccezionalmente sia a Neri sia a una riluttante Balducci – sembra fuori quanto basta. Il soggetto che con tutta probabilità non piacerebbe ad Alberti, a Riccardi-mio-Dio-un-frocio, e neppure ad Isa, ma solo perché si trucca meglio.

Il resto della mattinata è scivolato via in solitudine, tra mezze occhiate sarcastiche e appunti scritti di malavoglia – il polso dolorante già alla seconda riga; eppure no, non ci sono scuse, e resistere stoicamente e trascinarsi fino alla fine della giornata, è l’imperativo categorico. Salvo appetibili novità all’orizzonte o la possibilità di mettere a punto un piano d’attacco.

La vera novità – o forse nemmeno, forse solo uno spunto fra altri mille – è arrivata poco prima dell’ora di pranzo. È arrivata nelle vesti consuete di un Federico Riccardi intento a lavarsi le mani nel bagno al primo piano.

Occasione ghiotta quanto basta per provare a ricamarci qualcosa – male che vada, sarà uno scambio di pareri poco lusinghieri.

Respira lentamente, Andrea; si fissa le mani. Per un istante, il senso di calma che lo invade è come una stilettata gelida, uno stand-by momentaneo. Con quel gelo liquido dentro le ossa, potrebbe pure uccidere.

Socchiude gli occhi, e in capo a qualche secondo tutto comincia ad andare meglio. Perché anche stavolta farà felice il buon Neri e giocherà di improvvisazione.

- Ehi, ciao!

Respira, lentamente. Adesso non si torna più indietro: ha buttato il sasso, e l’onda d’urto potrebbe buttar giù le pareti.

Riccardi si volta di scatto come se l’avesse appena morsicato.

Andrea stira le labbra: è come giocare al gatto col topo. Lì, in tre metri quadrati scarsi, Riccardi e la manifestazione vivente dei suoi incubi. Come qualcosa che striscia e gli si incolla addosso.

- Che cazzo vuoi?

Andrea sorride: come inizio non c’è male. C’è quella punta di isteria che promette scintille.

- Da te nulla, ovvio – gli risponde a muso duro – Anzi, una cosa. Chiederti se poi hai fatto pace con… – schiocca le dita come se non ricordasse il suo nome, perché nessuno, in effetti, gliel’ha detto – La tua bella… Lei, sì.

Riccardi lo fulmina come se avesse detto una bestemmia; socchiude le labbra come a dare una risposta; poi ci ripensa e si limita a gettare via il fazzoletto che ha usato per asciugarsi. E a scuotere la testa, rassegnato.

- Che gioco è, Nicoletti? Vuoi provocare per primo?

- Provocare? Ero preoccupato di non averti procurato qualche guaio con la tua bella, visto che stavo solo scherzando – non riesce ad impedire ad un certo sorriso malefico di allargarsi sulle labbra – Che magari, scherza che ti scherza, non abbia rivelato qualche verità… scomoda.

- Senti, levati un po’ dalle palle! – Riccardi sbotta: è un fascio di nervi.

Come se avesse il morto già davanti agli occhi.

Andrea socchiude gli occhi, ferino: può quasi avvertirlo sotto la pelle, come una vibrazione sottile. Ma continua a ronzargli intorno: gira su se stesso e gli sbarra il passo.

- Oh, scusa! – sogghigna – Ho toccato un brutto tasto.

Riccardi solleva gli occhi al cielo.

- Tre secondi netti per volatilizzarti, Nicoletti. Poi sarò io a toccarti, e non ti piacerà.

- Sottovaluti le tue qualità – Andrea strizza l’occhio, sornione – Ma tranquillo: lei non saprà niente.

- Cosa non dovrebbe sapere?

Ha ceduto. La curiosità di scoprire quale nuova cazzata abbia in serbo.

- Scusa, devo saperlo io? – Andrea si stringe nelle spalle – Cioè… in teoria lo so. Posso immaginarlo. Ma il diretto interessato sei tu, quindi, se permetti, mi faccio gli affari miei.

- Hai detto l’unica cosa intelligente da quando sei nato. Peccato che non manterrai la promessa.

- Sì che la manterrò. Con me sei in una botte di ferro – annuisce, ferino.

E avvicina pericolosamente il viso a quello di Riccardi.

- Tra noi non ci sono patti – Riccardi arriccia il naso – Perché non vai a suicidarti, da bravo?

- Eppure, io so – prosegue Andrea – Potrei usare questa cosa contro di te, invece non lo farò. Sei già preso male di tuo, e io non sparo mai sulla Croce Rossa.

Riccardi gli volge le spalle, esasperato.

Andrea freme nell’attesa. Forse lo sta trascinando nella rete. Distoglie lo sguardo: la pausa pranzo è ufficialmente iniziata, e il corridoio inizia a brulicare di vita. Perfetto.

- Okay, hai vinto: spara la cazzata del giorno, poi fammi il favore di dissolverti per i prossimi mille anni.

- Ma… che io ti piaccio, naturalmente! – ridacchia, giulivo – Non puoi fare a meno di me. Peccato per le insormontabili distanze che ci dividono, mon ami – Andrea solleva gli occhi al cielo, melodrammatico – Primo, sei un fottuto omofobo e non lo ammetteresti manco sotto tortura; secondo, sei mortalmente idiota; terzo, ammettendo che non esistessero le altre due condizioni, piuttosto che limonare con te, mi farei frate.

Per un attimo, Andrea può giurare di aver visto le mascelle di Riccardi contrarsi in uno scatto spasmodico.

Chiunque, in possesso di un grammo di materia grigia, a questo punto si concederebbe una regale sghignazzata. Perché la situazione è così grottesca da rasentare il surreale. Quattro battute da caserma e non ci pensi più. Peccato che lui sia Andrea Nicoletti, il diavolo, e non c’è scherzo che tenga, e che Riccardi sia… Riccardi.

- Ma vaffanculo!

Riccardi fa per imboccare l’uscita. Verso il corridoio che è tutto un viavai sussultante.

Ora o mai più.

- Peccato per il tuo cervellino inesistente, sai? Perché, visto da vicino, non sei neanche così male…

Andrea ridacchia. Si osserva intorno per assicurarsi della totale mancanza di testimoni e, a tradimento, gli affibbia una manata sul fondoschiena.

- Maledetto! – è l’urlo di guerra, l’apocalisse annunciata, prevedibile come rubare le caramelle ad un bambino.

Andrea si osserva intorno. Ha scatenato la madre di tutte le sue fobie, e tutto ciò che può fare affrontare la belva nel suo elemento. Oltrepassa la porta e mette le mani avanti.

Riccardi stringe il pugno e fa per scaraventarglielo in viso, disegnando un arco perfetto.

Andrea indietreggia di un passo, evitandolo d’un soffio. Ha sentito lo spostamento chiaro come una nerbata inferta all’aria – forse l’ha appena sfiorato.

Una specie di “ouch!” ben modulato è sufficiente a calamitare venti paia di sguardi su di lui. Ma non quanto gettarsi a terra a peso morto, gemendo.

- Bastardo schifoso! – Riccardi indietreggia di scatto – Io non l’ho toccato! Si è buttato da solo, non l’ho manco sfiorato!

Andrea sussulta. Per fortuna ci sono le sue belle mani curate da premersi sulla faccia per evitare il proliferare di un ghigno perfidamente fuori luogo.

Troppo tardi, Riccardi. Davvero troppo tardi.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Capitolo 22 - Nessuno mi può giudicare ***



 

Capitolo 22

Nessuno mi può giudicare

 

 

La calamita dei miei pensieri virava da tutt’altra parte, prima che voltassi l’angolo. Qualcosa come una brezza leggera sulla pelle, un senso di liberazione, dall’istante in cui gli occhi di Loria mi si sono posati addosso, sbalzandomi fuori dalla penombra della sua visuale.

So che presto o tardi ci sarà solo la consapevolezza che da qualche ora si aggira nella mia mente senza trovare sbocco.

Che nell’istante in cui l’altro di me ha concepito l’ardita connessione Galileus – Gabriele Derossi, Galileus ha cominciato ufficialmente a esistere, e con lui ogni singola azione.

Che tutto ciò che ho intessuto in questi mesi, tutto ciò che ho fatto, è stato un prodotto della mia volontà dall’inizio alla fine.

La verità prende corpo all’istante. Il fatto che sia sono io: ho fatto tutto io. Escogitato, pianificato, messo in moto tutto. Ho infangato l’infangabile e non me ne sono pentito nemmeno per un istante; ho agito da vigliacco e affondato il coltello senza mostrare mai la faccia, ripagando tutti della stessa moneta.

Tutto questo, ieri non c’era. Era un pensiero fuori di me. Ha cominciato a esistere quando lei mi ha guardato in faccia e ha fatto quel piccolo, fondamentale collegamento, e ora pesa come una responsabilità sulle mie spalle, un fardello di cui terrò conto da qui in avanti.

La mia mente stava da un’altra parte, non seguiva il filo delle sue parole, e il pavimento sotto i nostri piedi era un tappeto di nuvole. Il discorso si era incartato su qualche piega poco interessante – su come la mia intenzione, fino a ieri pomeriggio, fosse lasciar perdere la pagliacciata della mail “vediamoci qui e ora, e mi vedrai in faccia” con agnizione finale… L’idea era spedire Nicoletti a nanna e, una volta soli tra persone adulte, gettare la maschera e parlarle viso a viso. Solo che alla fine non ho resistito alla tentazione di farlo vivere ancora un po’, Galileus, come qualcosa al di fuori da me. Ed è stato il punto di non-ritorno.

L’occasione di tornare con i piedi per terra – nel grigio parete della realtà, di una giornata come le altre, da raschiarti via con la punta di un coltello, non appena poggi la testa nel cuscino – l’ha offerta quasi per caso la sagoma scura di Andrea a qualche metro da me in linea d’aria, e tutt’intorno un viavai di curiosi, come succede quando stai per assistere alla rissa del secolo.

Tutto ciò che ho fatto in tempo a vedere, prima l’accesso di urla e voci sovrapposte che mi sopraffacesse – con le unghie di Elena conficcate nel braccio – è stato il gesto di Andrea, fulmineo, di parare le braccia davanti a sé. E il guizzare del braccio di Federico Riccardi e della chioma riccia di Andrea come una bandiera sotto uno scossone improvviso.

È rotolato ai miei piedi come un mucchietto d’ossa, indietreggiando e schivando un calcio, e si è portato le mani al viso mugolando qualcosa di incomprensibile. Elena si è slanciata in avanti, e poi è stato l’inferno.

 

* * *

 

Cosa vuole da me adesso, quest’altro frocio?

Fra tutte le persone che potevano passare di qui, proprio Gabriele Derossi…!

Lo detesto, quasi quanto detesto Nicoletti. E poi dicono sia un pazzo tossicomane, e da uno così non sai cosa aspettarti.

So già come andrà a finire: Andrea ne approfitterà per fare un po’ di scena e il suo compare di malefatte gli farà da avvocato difensore. Magari si erano pure messi d’accordo sul reggersi il gioco a vicenda, i bastardi, e così sono bello e fottuto.

C’è anche l’amica acida, simpatica come un morso di vipera. Perché le disgrazie, mai che arrivino sole.

Che voglia assurda di prenderlo a schiaffi, Derossi…! Si china sull’amichetto caduto e mi guarda con quella faccia finto-scandalizzata, occhi sbarrati-fronte corrugata, e mi chiede anche perché cazzo l’avrei colpito e fregnacce simili. Se l’ho colpito è perché se l’è meritato, che domande idiote!

Dio, come detesto quell’aria da martire che si porta stampata addosso, da prete che predica, quel fottuto buonismo da “abbasso la violenza”. Come se si reputasse migliore di me da potermi giudicare.

Sì, Derossi: mancava il frocio numero due, e siamo messi proprio bene!

E dire che visto così, manco lo sembra… Frocio. Appartiene alla categoria degli “insospettabili” – cosa che me lo fa odiare ancora di più: lì per lì ti fidi, te lo tieni buono, e poi ti ritrovi la sorpresa! Non è Nicoletti, ecco. Nicoletti ha un viso da donna, forse è una donna mancata… Da qualcosa lo capisci, che gli piace l’uccello, da come si muove. Derossi… voglio dire: c’ha un filo di barba. Tu lo guardi e vedi un uomo, ecco, non una checca isterica.

Uomo fino a un certo punto. Da vicino si vede benissimo che ha le sopracciglia ritoccate, e quella collanina di legno è la cosa più frocia che abbiano mai piazzato sul mercato!

Comunque, tutto ciò che vorrei adesso è affibbiargli gli schiaffi destinati a Nicoletti – e che almeno fosse a terra a lamentarsi con motivo, lo stronzo!

Solo che poi devo mettere in conto l’ampiezza delle sue spalle. E il suo dannato metro e ottanta. Decisamente, aspetto da palo della luce o no, non promette bene. Ha l’aria di uno che fa il finto buono, ma quando scatta, scatta, e c’è poco da fare. Se poi è vero che non c’è molto con la testa, a questo gli parte l’embolo e mi salta alla gola. Meglio tenersi a distanza… Sembra fumato.

Quindi eccoli qui, i fetenti. Devo inchinarmi alla loro somma intelligenza?

Non fosse mai che non facessero comunella: tra serpenti, sono ben amalgamati.

Pace, fratello: mo’ che ci siamo scoperti entrambi finocchi, mettiamo da parte i vecchi rancori e facciamo fronte comune. Imbastiamo un’allegra commediola per supportare le cazzate con i fatti.

I bastardi. Diranno che ho picchiato Nicoletti perché odio i gay e lo sanno tutti – non perché mi ha appioppato una mano sul culo e frantumato le palle in tutti i modi che conosce, e che volete, l’istinto è questo. Nulla di personale, chiariamo: sono soltanto per la vecchia scuola del fatti chi ti pare, ma quando sei nei miei paraggi, se permetti me ne sto con le spalle rivolte al muro.

Chi dirà come sono andate davvero le cose? Nessuno, è chiaro: nessuno l’ha visto fare l’idiota. Ma hanno visto me che allungavo la mano e lui che si buttava a terra. È stato furbo.

Il bello, poi, è che lui e Derossi si stavano sulle palle – lo diceva Isa, e Isa è sempre meglio prenderla con le pinze, perché non ci azzecca quasi mai. Anche adesso è strana: dice di odiare Nicoletti, ma poi non perde occasione di difenderlo.

 

* * *

 

Troppa luce per capire come siano andate le cose.

Riccardi è saltato su come se avessero cercato di infilzarlo allo spiedo, berciando qualcosa a proposito di una certa mano che Andrea gli avrebbe schiaffato sul culo.

Follia. Andrea che ci prova con Federico Riccardi! Poteva giocare più di fantasia. O forse pensa che tutti gli crederanno sulla parola per l’assioma secondo cui un ragazzo gay, in quanto tale, dovrebbe necessariamente saltare addosso al primo di pantaloni che vede. Dio, almeno spremersi le meningi e cacciar fuori una balla un po’ più verosimile…

Andrea ha continuato a massaggiarsi la faccia per tutto il tempo, sollevando la testa solo per ribadire ciò che tutti avevano capito, ovvero che lui uno come Riccardi non lo sfiorerebbe nemmeno con la punta di uno stuzzicadenti.

Non contento, lo stronzo ha proseguito con la solfa secondo la quale lui mica l’avrebbe colpito, Andrea. Era una messinscena! L’ha ripetuto con un’ossessione tale che le sue parole mi sono rimbalzate addosso senza che quasi le sentissi, come versacci messi uno di seguito all’altro; perché, dopo la milionesima volta o giù di lì che qualcuno ti martella in faccia la stessa trafila, finisci per non sentirne più la forza. Perde di significato.

Andrea ha tirato su col naso e si è sollevato a sedere. Non ha spiegato che diavolo è successo, non ha dato una sua versione. Sembrava depresso. Mi ha afferrato la mano, ma non ha tentato di rialzarsi. Sembrava stanco. Di tutto.

- Andre, cerca di non svenire, ti prego…

E lui ha scosso la testa come un cane infastidito dal caldo.

- Non è questo – un sussurro appena percettibile.

Prendere mentalmente nota: la terza cosa che ad Andrea riesce bene, oltre a calarsi nel personaggio e a far girare le scatole, è prendere una situazione già compromessa a puntino e intorbidirla ulteriormente.

- E allora cos’è, scusa? – a questo punto, urgeva una strategia d’attacco – Posso vedere cosa ti ha fatto?

Lui ha annuito e ha smesso di torturarsi la faccia. Ha il naso e gli occhi arrossati, ma forse dipende dal modo in cui si sfregava la faccia.

- Non mi ha fatto troppo male – ha squittito, un filo di voce.

La mano stavolta è corsa a massaggiarsi la nuca. Ha strizzato gli occhi.

- Devo aver sbattuto…

All’improvviso la vista del soffitto mi è parsa molto più pertinente.

Non credo finga come dice Riccardi. Che stia colorando la verità può starci. Perché io ho visto il braccio di Riccardi sollevarsi e colpirlo.

- Ce la fai? Ti accompagno in infermeria?

Lui scuote il capo. Un no secco, il viso sigillato ermeticamente a ogni straccio di emozione, a ogni tentativo di leggergli in faccia le risposte.

Ha ripreso a fissare il pavimento. Non si è mosso di un millimetro da che Riccardi l’ha scaraventato a terra, lì in mezzo al corridoio, la testa china, una gamba stretta contro il petto. Si è pure fatto spuntare due lacrime, o forse è solo un leggero luccicore.

E se questa è davvero farina del suo sacco, se per assurdo Riccardi avesse ragione, faccio bene a credere che dopotutto Neri o la Balducci o chi per loro non abbiano più nulla da insegnargli, e che possa tranquillamente gettarsi dietro le spalle questa sua turbolenta parentesi al “Goldoni”.

Di colpo, si è risollevato in piedi senza far forza sulle braccia. È schizzato dritto verso la sua Loria come uno scricciolo sotto le ali della madre, con gli occhi di chi è stato ingiustamente maltrattato. Immobile, lo osservo mentre tira su col naso e spazza via in punta di dita qualche lacrima impigliata alle ciglia.

A questo punto, mi domando se c’entrino davvero la lite con Riccardi e gli insulti, se tutto faccia parte di una farsa ben congegnata, o se sia semplice smania di farsi coccolare un po’. Se davvero la sua breve permanenza dalla parte debole della barricata non stia seriamente fiaccando la sua resistenza.

Fa male, vero, Andrea? Neppure tu: non sei così tosto, non sei fatto di plastica. Non ti è bastato puntare i piedi e fare i capricci, per abbracciare la causa più scomoda e caricartela sulle spalle fino alla fine. Non sei un trascinatore di folle in preda al delirio e neanche un santo, e l’unica cosa che è cambiata davvero è che non hai più nessun potere.

Loria non ha spiccicato parola: è sempre così dannatamente indecifrabile. Si è limitata a godersi il mediocre spettacolo e a studiare la sua creatura, il volto pensoso e le sopracciglia sollevate. Mi ha fatto un cenno con la mano, una specie di “dopo facciamo i conti”, e se l’è trascinato via.

 

* * *

 

- E bravo il nostro prestigiatore! – lo squadri con occhi sarcastici.

Perché tu no, non te la sei bevuta: lo conosci. Forse Gabriele… sempre che non sia abbastanza prevenuto da ritenerlo capace di architettare una trappola simile.

- Altro che Accademie d’Arte Drammatica e compagnie! Hai provato a Hogwarts? Ti accoglierebbero a braccia aperte! – rincari la dose, le labbra arricciate in una piega scettica sotto il viola carico del rossetto – Si può sapere che cosa stai cercando? – e punti il piede davanti a te, decisa.

A capire quanto prima cosa gli sia frullato in testa e dove stiate andando.

- Solo un mattone di ghiaccio, cara… – replica Andrea, le mani congiunte e due occhi da santarellino che non convincono nemmeno lui – Vanno bene pure quelli che si ficcano nella borsa termica. Poi, giuro che non ti stresso più.

Sospiri. Talvolta un sorriso troppo dolce o troppo sfacciato può mutare gli eventi. O provocare la valanga. Sollevi un sopracciglio.

- No, scusa. Che te ne fai? L’ho capito, che non ti ha dato un pugno – lo precedi.

E poi gli afferri il viso e lo stringi tra le dita, soppesandolo. Ha il volto perfettamente intatto e ammicca con naturalezza.

- Non hai nulla. Assolutamente nulla, nemmeno un graffio. Per me non ti ha neanche sfiorato.

- È proprio questo il punto. Niente segni – ti ha preceduto, l’espressione sagace – Non mi ha colpito, ma ne aveva tutta l’intenzione. Per me basta questo, capisci?

- Cosa te ne fai del ghiaccio?

Domanda ovvia, dato che Andrea continua a saltare di palo in frasca.

- È proprio perché non è riuscito a picchiarmi, ed io devo simulare che l’abbia fatto. A meno che tu non sappia truccarmi in modo credibile…

Sorridi, beffarda. Le nocche che si serrano in uno schiocco sinistro. E la risposta è quasi scontata.

- No, il trucco al massimo posso fartelo permanente… Per un risultato più realistico.

- Ehi, frena! Non sono masochista – ridacchia Andrea; e adesso, l’aria che scorre tra voi è addirittura quieta – Mi basta provare che Riccardi mi abbia messo le mani addosso. E fatto abbastanza male da lasciarmi il segno. Il resto verrà da sé… – conclude, luciferino.

Lo fissi. Per un attimo è come vedere il tuo volto riflesso in uno specchio, nelle sue iridi terse. Il sorriso che si scioglie in una tacita resa.

- Okay, mi arrendo. Dimmi che diavolo vuoi fare, perché dopo l’altra sera, non so cos’altro aspettarmi.

Le braccia intrecciate sul petto, ti chiedi se non sia preferibile guadagnare un po’ tempo.

- Voglio dare una lezione a Riccardi, niente di più – meno male che ci ha pensato lui a fugare il dubbio, candidamente – Solo fargli stringere le chiappe.

- D’accordo, è uno stronzo pieno di pregiudizi fino al midollo, non merita gentilezze – questa devi concedergliela, perché cava gli occhi a un cieco – Fin qui ci siamo. Non capisco perché tu te le vada a cercare tutte, perché ti stia accanendo. Stai sfiorando l’ossessione.

La prima risposta è un mezzo ghignetto che si allarga fino a tagliargli il volto e accendere nei suoi occhi un luccichio incendiario.

- Perché ho capito che giocando bene le mie carte, i figli di puttana possono avere le ore contate quando lo desidero. Voglio fargli rimangiare ogni loro singola puttanata e credo non dormirò sonni tranquilli finché non gli avrò rivoltato contro le sue stesse armi. È abbastanza?

Distogli lo sguardo, in fondo al vicolo cieco. Non gli è bastato l’exploit dell’altra sera. E dell’altra ancora.

Sei pienamente consapevole di avere un’aria combattuta, quando riapri bocca – l’imperativo assoluto era non dar segni di debolezza; ora invece hai la faccia di chi più si addentra nella questione, più brancola nel buio.

E sì che, dopo la rivelazione di Gabriele, hai creduto che ormai non ci sarebbe più stato nulla in grado di destabilizzarti tanto, perché da qualunque parte ti giri, non vedi che vicoli ciechi di vendette e rancori a lunga scadenza, e coltelli sguainati, lame che sibilano nel vuoto fino a centrare il bersaglio. Piccoli ragni che tessono la loro tela, sconfitti che non vogliono restare tali e affilano le unghie.

- Non sai quanto, Andrea… Vorrei che fossi l’unico!

E di colpo ti mordi la lingua, perché qualcosa ti suggerisce che, se Andrea non fosse così assorto nelle proprie questioni, questo da parte tua sarebbe un piede in fallo. Anche se il nome di Gabriele non uscirà mai dalle tue labbra – lo giureresti su ciò che hai più caro. Anche se entrambi, Gabriele e Andrea, l’uno all’insaputa dell’altro, stanno inseguendo lo stesso gioco al massacro.

- Chi sarebbero gli altri? – incalza lui, giulivo – Qualcun altro che ne abbia abbastanza le palle piene da giocare duro? Arrivano i nostri?

No. Non arriva proprio nessuno. Nessun Galileus che si muove nell’ombra e fa quadrare i conti; nessun Gabriele che all’ultimo momento trattiene la mano che sta per vibrarti il colpo.

- Ci sono io, Andrea, e ne ho le palle piene! Di loro. Di te che ti sei messo un chiodo fisso. Spiegami in concreto che cosa vuoi fare, o stavolta non alzo un dito.

Gli occhi di Andrea si illuminano.

- Parlare con il direttore.

- E…?

- Far passare un brutto quarto d’ora al signor Riccardi. Pensa se lo sbattessero fuori: sarebbe la volta buona che ce lo togliamo di torno. E fuori uno – spalanca gli occhi, e la volontà indefessa che gli muove le labbra somiglia a un rigurgito di follia, le iridi che vibrano come lanterne – Metti che in un secondo momento salti fuori il problema, che se ne parli sul serio. Omofobia. Mobbing. Raccomandati. Gente che pensa che tutto le è dovuto, insieme al diritto di distruggere chi capita sulla sua strada… Per me ce n’è abbastanza. Ricordi cos’hanno fatto a Gabriele? Si sono messi qualche scrupolo, quando il loro unico obiettivo era metterlo fuori uso? No. Bene, non me ne porrò neanch’io. Me lo ricordo bene, perché l’ho vissuto in prima persona e dall’altra parte, e sì, sembra strano, ma ogni tanto mi chiedevo come sarebbe stato trovarmi nei suoi panni, e tremavo solo all’idea. E se ci ripenso adesso, mi vengono i capelli bianchi.

Lo fissi. Terribilmente seria, di quella serietà placida e fumosa che, in un’altra situazione, potrebbe addirittura intimidirlo, o comunque metterlo in allarme, come una cattiva notizia nell’aria. Lui fa abbastanza paura, con un sorrisetto a labbra chiuse, sardonico, che non promette nulla di particolare tranne l’ignoto; e quegli occhi aperti e lustri sotto la luce feroce del primo pomeriggio.

- Lo sai cosa stai per mettere in moto, vero?

- Sì, lo so – Andrea strizza le palpebre, sornione – E non vedo l’ora di innescare una bella reazione a catena. Un buco nero che li risucchi nel loro stesso fango.

- Cosa vuoi ottenere, alla fine? – è la domanda che ti brucia in punta di labbra da un po’ di tempo a questa parte.

Cosa vuoi cavar fuori da tutto questo? Cosa credi di guadagnarci? Posso prevedere cosa farai tra dieci minuti, ma non conosco il disegno completo.

E mi arrendo, in questo preciso istante: è tutto nelle tue mani. Non dirò una parola, perché non sono migliore di te, perché anch’io ho agito da vigliacca pur di applicare la mia concezione personale di giustizia, e non c’era pallida ragione, in quel momento, che me ne riconoscesse il diritto.

- Per il momento – Andrea fa scorrere le dita sui bordi della felpa, come la scia di un serpente – Mi accontenterò della testa di Riccardi su un vassoio d’argento.

Ti stringi nelle spalle, ma il brivido che corre giù per la schiena, stavolta non c’è modo di ignorarlo. Poi, quasi senza pensarci, allunghi la mano verso l’armadietto del Pronto Soccorso alle tue spalle, in quel bugigattolo pieno di luce e di polvere, e gli consegni il dannatissimo mattone che non ha fatto che reclamare.

- Ecco ‘sto maledetto… coso – gli soffi, a mezza voce.

Dargliela vinta è fuori questione. Perché, quando la trovata del momento sfiora la paranoia, allora interviene quella vocina fastidiosa dentro la testa che ti fa vestire dei panni della Bastian Contraria. E sostituirti alla tua e alla sua coscienza, senza riuscire ad esserlo per nessuno dei due. Anche se poi – questo non lo ammetteresti mai, piuttosto negheresti l’evidenza – sei sempre lì in prima linea, tutt’al più nelle retrovie, a buttare il carico da novanta.

E forse, alla fine, sederti sulla riva del fiume ad aspettare qualche cadavere sarà come un nodo intrecciato in fondo allo stomaco, un retrogusto amaro in gola e nessuna esigenza di sporcarti le mani. Sarà l’ennesima corsa a tamponare i suoi disastri, l’attesa snervante del momento in cui riterrà di essersi martoriato abbastanza.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Capitolo 23 - A lame sguainate ***


 

Capitolo 23

A lame sguainate

 

 

Avrebbe giurato fino a cinque minuti fa che dentro l’istituto fumare è vietato – sta scritto ovunque e a chiare lettere. Eppure l’aroma che da qualche minuto gli pizzica il naso, sa di sigaro acceso di fresco.

In quegli istanti d’attesa così duri da mandar giù, si chiede se non sia proprio il direttore a trasgredire per primo a regolette basilari che stanno lì come monumenti, a sancire la civile convivenza, senza impedire tuttavia ai membri della piccola comunità di azzannarsi l’un l’altro.

Sospira, Andrea. Quell’uomo non gli è mai piaciuto granché: ha una specie di sorrisetto scettico perennemente scolpito in faccia e le sopracciglia che si sollevano sopra la montatura nera degli occhiali con un piglio inquisitore; o forse è solo lui, Andrea Nicoletti lecchino del professor Neri, a non ispirargli fiducia e a rendergli necessaria qualche barriera precauzionale. Tipo trattarlo con sufficienza e lasciarlo aspettare.

Andrea si sistema meglio sulla sedia di fronte alla scrivania. Attende che il direttore si decida a dedicargli la sua attenzione, e prova a far mente locale.

Che lui ricordi, tra Neri e il direttore non è mai corso buon sangue. Forse l’epopea infinita contro raccomandati e raccomandazioni, ha semplicemente permesso al direttore di levarsi di mezzo un uomo scomodo senza troppe giravolte. Forse, se incappasse nella scappatoia giusta, non gli dispiacerebbe neppure sbattere fuori in un colpo solo lui e gli avvoltoi che gli si sono avventati contro, come una secchiata d’acqua fredda per sedare una zuffa di gatti nel quartiere. Lo sa, glielo legge in faccia, che ai suoi occhi ormai è diventato il piantagrane per antonomasia.

Eppure qualcosa gli suggerisce che stavolta il signor direttore non indirà alcuna caccia alle streghe: del resto, si è già esposto quanto basta per parare il culo al suo cocchino Alberti e smentire le voci che ce lo volevano dentro fino al collo. Stavolta non alzerà un dito nemmeno volendo. Non per Riccardi, che nemmeno figura nella rosa ufficiale: troppo stupido. A meno che non abbia parenti intrallazzati…

Pensa, Andrea, pensa.

Se fosse lui il direttore, a questo punto la sua assoluta priorità sarebbe lucidare le superfici e ridare a se stesso e alla sua Accademia un’immagine immacolata non c’è trucco e non c’è inganno. Proteggerne il fottuto buon nome e mandare al diavolo tutto il resto.

Sorride, ferino. Riccardi è talmente vigliacco che non si è neppure presentato a fare ammenda.

- Sentiamo, signor Nicoletti, cosa devo fare io con lei? – Andrea trasale: il Maestro ha parlato.

Si è aggiustato gli occhiali sopra il naso e l’ha squadrato come il milionesimo trituramento di palle della mattinata.

- Faccia un po’ come preferisce – azzarda Andrea, sornione, il gomito puntato contro il tavolo – La disciplina è un optional? Anche picchiare la gente che le sta antipatica…

- Sa cosa penso di lei? Posso essere sincero? – il direttore si è sporto verso di lui e ha socchiuso gli occhi come per studiarlo – Lei è un cagacazzi di proporzioni storiche.

- Prego? – Andrea corruga la fronte, distratto.

Come una coltre di fumo fra sé e il resto del mondo.

- Ha capito bene – prosegue il direttore, scorrendo con lo sguardo l’intera stanza – Vorrei che le malelingue tacessero una volta per sempre.

- Pensi un po’ quanto lo vorrei io… – rilancia Andrea.

Vagamente acido.

- E allora faccia qualcosa, dannazione! Diventi trasparente, e nessuno la cercherà più.

- Direttore… – la voce sfuma in un miagolio basso, sinistro – Lei vuole dire che è colpa mia, se un mio collega mi molla un pugno e infierisce? Pensi che, secondo Riccardi, picchiare le ragazze non fa molto figo, ma in compenso i froci come me… Veda un po’ lei.

Andrea spalanca gli occhi. Il direttore si è alzato di scatto. Visto da vicino, sembra un grosso gufo in doppiopetto grigio piombo. L’aroma di tabacco, adesso, è una certezza più che una sensazione. Velato, soffuso, come una coltre umidiccia che ti si impiglia addosso. O forse fuma da tanto tempo che l’odore gli si è incollato sulla pelle.

Un’ultima occhiata di ricognizione, in cerca di cimici nascoste o chissà cos’altro, prima di posare entrambe le mani sulla scrivania e fissarlo dritto negli occhi.

- Vuole dire…?

Andrea ha preso a tormentarsi una ciocca di capelli, beffardo, lo sguardo che vaga per la stanza. Il vecchio gufo che perde il suo aplomb, di certo è uno spettacolo che vale il costo del biglietto.

- Che io sono gay? Lo scoprirà solo vivendo… – sussurra, meditabondo, la voce che scende su note più roche.

- No, maledizione! Sa che me ne importa, del suo privato…! Io voglio sapere cosa lei si aspetta che faccia. Pretende che mi esponga, che ci metta la faccia per difenderla. È così?

- No – Andrea incrocia le braccia davanti a sé e lo fissa dritto negli occhi, serio – Non per difendere me. Per dare il buon esempio e risollevare la reputazione del suo istituto? – sussurra a mezza voce – Ci pensa? Sarebbe già un salto di qualità, che in giro si parlasse dell’Accademia non per i soliti giri di bustarelle, ma per la sua battaglia contro i pregiudizi cretini? Un passo in avanti niente male. Il direttore del “Goldoni” condanna un atto violento, a chiare tinte omofobiche, di un suo studente. Suona meglio?

- Lei legge troppa cronaca. Questa sarebbe la cosa corretta da fare – il direttore distoglie lo sguardo – Se fossimo in un liceo di provincia, magari. Mi spiace, ma non lo farò. È fuori questione.

Andrea sorride, ferino.

- Ha paura che i bigotti pensino male?

Il direttore solleva gli occhi al cielo. Se non si trovasse dall’altra parte di quella dannata scrivania manageriale, faccia a faccia con un allievo, forse lo maledirebbe in giapponese antico.

- Non posso prendere posizioni estreme e ritrovarmi di nuovo con i riflettori puntati addosso.

- Posizioni estreme? – Andrea solleva un sopracciglio, e tutto ciò di cui si rende conto, mentre parla, è che quello è l’ultimo argine prima di un’esplosione di collera – Condannare gesti razzisti sarebbe estremismo?

- Senta, Nicoletti, forse ha semplicemente sbagliato a chi rivolgersi – il direttore intreccia le dita davanti a sé, un sorrisetto sagace dipinto in faccia; scuote il capo, come a liquidare la questione, la voce che non ha cambiato tono da che ha iniziato a parlare: si è tenuta ferma su quella piatta vibrazione d’indifferenza, le parole che scivolano veloci, arrotate le une sulle altre – Non sono un educatore e non siamo all’asilo. Non sono neanche un prete, pensi un po’, non posso predicare e mettere le mani sulla coscienza degli altri, pure se quel tuo amico là pensasse i gay meritino di bruciare in eterno. E voi siete tutti maggiorenni, nessuno deve venire a tirarvi le orecchie.

- Non le dispiace neanche un po’ che tutto questo succeda in casa sua? – Andrea arriccia le labbra, sarcastico – Ma certo, Riccardi è libero di dire, fare, pensare tutto quello che vuole. Anche se il suo libero pensiero, nella pratica, limita la mia, di libertà, visto che ama prendere a cazzotti chi non considera degno di rispetto. Ha un bel concetto di libertà!

- Ma la faccia finita, una buona volta! – adesso il gufo ha alzato la voce, l’ha zittito con un’occhiata al vetriolo, e forse il giocattolo si è davvero rotto – Lo sappiamo tutti e due che nessuno le ha tirato un pugno. La smetta di recitare.

- Recitare? – Andrea sente le proprie sopracciglia schizzare verso l’altro fino a contrargli la fronte, ma riesce ad imporsi la calma per giocarsi l’ultima carta – Mi ha guardato bene in faccia, o devo mettermi di fronte alla luce?

- Basta, Nicoletti – il direttore tende le mani avanti, segno di limite raggiunto, e nell’espressione del volto c’è qualcosa di fastidiosamente paternalistico – Anch’io, se metto la faccia dentro il congelatore…

Andrea solleva gli occhi al cielo. Ha avuto la buona grazia di arrossire almeno un po’. Perché tenersi un mattone di ghiaccio premuto sul naso e sulle labbra fino ad assumere quell’aspetto lucido e vagamente tumefatto – e perdere sensibilità cutanea – non è stato un trucco troppo sofisticato.

- Quindi pensa che stia fingendo? – incalza, la voce che si impenna senza preavviso – Come se non avessi fior di testimoni! L’hanno visto tutti, che mi ha buttato a terra. Non le basta? Allora gliene racconto un’altra: ieri sera il caro Riccardi, sempre lui, sa cos’ha fatto? Si è intascato il mio inalatore: sa, io soffro d’asma. Me l’ha restituito un paio di secondi prima che mi strozzassi!

Andrea si morde il labbro – troppo tardi –, perché questo forse è troppo. Troppo carico. Perché, se il gufo adesso penserà che ha serie manie di persecuzione o che stia bluffando, non avrà tutti i torti. Come se non fosse abbastanza l’occhiata di sufficienza che gli scocca nel registrare l’ennesima informazione.

Calma, Andrea. Non serve gridare; serve cervello.

- Visto che la nostra reputazione le sta a cuore, sa quale sarebbe la vera mossa intelligente? Metterci una bella pietra. Dopo tutto quello che è successo, secondo lei posso permettere che dilaghino notizie assurde, e tutto perché lei e quell’altro Riccardi avete i cavoli vostri?

- Già – gli sibila Andrea, mellifluo – Preferisce che qualcuno dica che accadono simpatici episodi di violenza omofobica, e ai piani alti tutti stanno a guardare…?

Chiude gli occhi, misurando l’attesa finalmente da padrone. Adesso è sicuro di aver giocato l’asso, perché il direttore è trasalito. Perché le parole che gli ha appena gettato in faccia suonano come una dichiarazione di guerra.

- Lei, Nicoletti – voce ferma – terrà la bocca chiusa ed eviterà insinuazioni e allarmismi… Com’è capace di fare.

- Può stare certo che non terrò la bocca chiusa… Fossi matto! – rilancia Andrea – Sarà la prima cosa che farò appena esco di qui.

Silenzio tra un rintocco e l’altro. Campane a martello, ma non per lui. Per il direttore, che gli ha appena voltato le spalle col pretesto di allineare alcuni libri sulla mensola. Andrea chiude gli occhi, in attesa. È quasi certo di averlo sentito biascicare una bestemmia sottovoce.

- Non ha capito la mia posizione, Nicoletti. Cosa farebbe lei al mio posto, lei che si atteggia a duro e puro? Sentiamo…

Andrea si stringe nelle spalle. Fino adesso non ha considerato il margine d’azione su cui fare affidamento. Se saltare i convenevoli e passare direttamente a domandare la testa di Riccardi sia saggio.

- Mica devo suggerirglielo io. Che so, denunciare il fatto? Ascoltare qualche testimone? Allontanare il colpevole? Fargli una lavata di capo? Prendere una posizione e condannare pubblicamente il gesto? – sorride – C’è l’imbarazzo della scelta. Io però, al suo posto, applicherei il semplice regolamento interno e me ne starei molto tranquillo.

- Se no, sporgerà denuncia? – il direttore gli ha appena rivolto quel sorrisetto beffardo che gli fa saltare nervi.

Per resistere, l’unica soluzione è fissarsi la punta delle scarpe e centellinare l’attesa. Perché il volto del direttore ha assunto qualche gradazione bianca di troppo.

- Forse… – Andrea passa ad osservarsi le unghie, la voce strascicata – Non so ancora. Ma c’è una bella differenza tra denunciare un singolo fatto con il suo benestare, e denunciare direttamente l’Accademia perché manco al direttore importa qualcosa se sotto il suo tetto tutti si scannano in allegria.

E avverte un risolino isterico risalire lungo le pareti della gola – tanto da dover trattenersi per non ridergli in faccia.

Una risata liberatoria ci starebbe – finché durerà l’ebbrezza del trionfo annunciato, e non subentrerà il senso di colpa. Indugiare qualche istante davanti alla porta aperta, in tempo per udire distintamente un figlio di puttana! smozzicato alle sue spalle del vecchio gufo.

E un trionfo schifosamente a metà.

 

* * *

 

- Bravo, Nicoletti! – una voce melliflua alle sue spalle, qualche istante prima di guadagnarsi il suo ingresso in sala mensa.

Bravo, bravo, bravo.

Come un’eco dentro la testa a ricordargli che l’odissea quotidiana non è finita.

Federico Riccardi, un braccio allungato verso il muro per sbarrargli l’accesso. E se non ci fosse un viavai continuo, potrebbe dargliele di santa ragione senza problemi.

- Hai parlato col direttore? Hai fatto bene la vittima? – gli soffia.

Andrea vorrebbe proseguire spedito, fiondarsi dentro per scoprire cosa passa oggi il convento – anche se il suo stomaco è attorcigliato come una molla. Peccato introdursi in sala mensa significhi sfilare a due millimetri da Riccardi, con quel guizzo di repulsione che lo fa ritrarre d’istinto.

È la consapevolezza, in fondo, che Riccardi non imparerà nulla da questa storia: è lui quello che sta per subire gli effetti dell’ingiustizia, della menzogna; è lui che adesso se ne andrà a ingrossare le fila degli intolleranti incazzati col mondo. È lui ad essere nel giusto, solo contro il serpente a sonagli.

Di colpo prova quasi pena – per lui e per chi avrà la sfortuna di ritrovarselo sulla propria strada senza essere fatto della sua stessa pasta. Pena mista al desiderio di vomitare.

- Va’ e parlaci tu, magari vuole sentire anche la tua favola – gli sussurra.

- Certo, come no! – Riccardi sghignazza.

Non ha perso quel sorrisetto storto né la tracotanza che cola tra una parola e l’altra.

- Dopo che ci hai pensato tu a convincerlo… con le tue arti migliori – prosegue – Non mi riferisco solo a quelle teatrali, che sono comunque notevoli. È stato come con Neri, no? Ti sei fatto sbattere anche dal direttore?

Andrea socchiude gli occhi. Non sa cos’è, forse l’istinto di scappare, quel qualcosa di incandescente che risale da qualche parte dentro di lui e gli esplode in faccia, come una fiammata gelida che paralizza ogni scatto impulsivo.

- No, stavolta sei fortunato – biascica, e l’unico obiettivo a questo punto è sconvolgerlo e bersi il suo odio fino all’ultima goccia – Ma posso giurarti che se mi avesse promesso di liberarmi per sempre dalla tua presenza, non ci avrei pensato due volte… Sarebbe stato un affare.

- Strano… – Riccardi lo perfora con lo sguardo, con due occhi che irradiano disprezzo e il desiderio estremo di fargli del male – Ti facevo più costosa, come puttana.

- Da te è un complimento – rilancia Andrea, gelido.

Riccardi sogghigna. E arriccia il naso.

- Mio Dio, fai schifo, Andrea… Non ti importa nulla. Se non hai rispetto di te stesso, non hai almeno compassione per i tuoi genitori, che già devono sciropparsi un figlio frocio? Avrebbero fatto meglio a buttarti nel cassonetto da piccolo. Mi fanno pena da parte tua. Che delusione… Che roba patetica.

Andrea incassa il colpo. Lo sente scorrere dentro come veleno, come un acido corrosivo che gli contrae i muscoli. Di nuovo quel gelo in fondo al petto, che ribolle e sale fino alle tempie in una vibrazione sinistra. E poi, caldo torrido.

- Lascia stare i miei – gli soffia, ed è di nuovo un riflusso di calma apparente, un turbinio infernale a intermittenza caldo-freddo – Comunque vada, nella merda ci sei tu, non io. Non vedo perché starmene qui a discutere.

- Come vuoi, Andre – si è preso una tale familiarità che lo chiama pure per nome, senza quel tocco asettico – Io domani mi piglio quello che merito… e anche qualcosa in più. Pazienza, eh. Me ne farò una ragione, perché forse me la sono andata a cercare, e lo sapevo, in fondo, che sei un bastardo disposto a tutto. Mi prenderò quel che mi spetta, passerà. Ma tu sei e rimani un frocio di merda, un fottuto psicopatico, e mi basta.

- ‘fanculo.

Non si è voltato indietro, Andrea. Ha spinto le porta scorrevoli della sala mensa e si è lanciato a occhi chiusi in quel parossismo di chiacchiere, di colori, di esalazioni calde che gli danno la nausea. Un vortice a senso unico, da lì fino in fondo alla stanza, le pareti di un ocra pallido, sgradevole. Fino ai tavoli laggiù in fondo.

Forse Elena e Gabriele lo stanno cercando da qualche parte; forse si chiedono se sia caduto al fronte o solo ferito. Magari lo guarderanno col biasimo che si dedica a chi oltrepassa il limite sulla pelle degli altri.

Dove sono finiti? Non li vede, e non sono soltanto le lenti a contatto che gli graffiano gli occhi come sabbia, o il trapasso brusco dalla fredda penombra del corridoio alla sala allagata di luce.

Hai vinto, Andrea.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Capitolo 24 - Lacrime e fumo ***


 

Capitolo 24

Lacrime e fumo

 

 

Ricordo la prima volta che ho visto Andrea piangere. Che ho visto incrinarsi quel ghignetto sfrontato compreso nel pacchetto base.

Neri era appena stato sollevato dall’incarico, le nubi cominciavano a addensarsi. E tutte le strade portavano ufficialmente a lui: era iniziata la parabola discendente. Sintomo inequivocabile, la gragnola di critiche al vetriolo che, durante le prove di quel pomeriggio, gli era piovuta addosso per bocca della Longoni.

Era piombato in aula trafelato e fuori tempo massimo, più simile che mai a uno straccio – credo che lui e il professore si fossero appena mollati, giorno più giorno meno.

Da quel momento per Andrea era stato un continuo incartarsi su stupidaggini, dimenticare le battute, sbagliare gli accenti; l’arpia aveva fiutato il fatto che fosse nel pallone e l’aveva letteralmente demolito. Era finita a urla belluine da un capo all’altro della sala, con canonica uscita di scena a porte sbattute da parte di lui. Le rispostine per le rime e il furioso abbandono di campo presto avevano ceduto il passo al gelo dell’autocommiserazione.

Non c’ero stato per lui, quella volta. C’era stata Isa, ad asciugargli le lacrime, a sussurrargli all’orecchio: ho ancora un ricordo abbastanza netto dei commenti a caldo sibilati alle mie spalle, nell’attimo in cui gli sono passato a fianco – percorso obbligato –, degnandoli di un’occhiata di sguincio e allontanandomi più in fretta che potevo. Perché ci voleva un capro espiatorio.

Guardalo, è felice… Che bastardo! Ride perché sei in difficoltà, è tutto ciò che vuole. Si starà dicendo, ma è questa la merdina che mi ha fottuto il posto?

E tu non dargli soddisfazione, Andre!

Non era vero, ma il mostro dalle cento bocche aveva parlato, e quella era la versione ufficiale. Che senso avrebbe avuto andare da lui più tardi, quando avesse sbollito, e puntualizzare che non gongolavo affatto per le sue sfighe – in verità non m’importava proprio nulla –, che non era stato per nulla divertente; e che marciare sul cadavere ancora caldo, da parte della Longoni, era un comportamento putrido a prescindere…? Che d’altronde l’avevano capito pure i sassi: la Longoni aveva piantato un casino e ferito lui per colpire Neri, dargli dell’incompetente e distruggere la sua creatura.

Era una manovra da scartare a priori, perché alla prima sillaba, Andrea mi sarebbe saltato alla gola snudando gli artigli. Mi avrebbe urlato addosso. Che della mia pietà, delle mie parole, da me, che – secondo lui e secondo Isa e secondo il mondo intero – avevo tutto l’interesse di questo mondo a volerlo nella merda, non sapeva che farsene.

Contento, rosicone?

La verità è che le lacrime di Andrea e i suoi occhi gonfi non mi avevano fatto né freddo né caldo. Non avrei fatto una piega neppure se si fosse buttato ai miei piedi, dichiarandomi amore eterno: lui non ci aveva mai pensato due volte, a guardarmi dall’alto in basso e a infierire, e il fatto che non mi avesse mai visto piangere o dare in escandescenze sotto la sferza delle loro maldicenze, sotto il suo sguardo indolente, non significava che non ci fossi stato male. Che i suoi occhietti sprezzanti su di me non fossero coltellate.

Era piuttosto ristabilire un equilibrio: perché sai, carino, avete dato il tormento a tutti, tu e la tua spocchia schifosa; adesso che ti sei impippato nei tuoi stessi casini e ci sei caduto in mezzo, zitto e sopporta come fanno tutti.

E poi Neri doveva pagare. A prescindere, con o senza Nicoletti tra i piedi.

Del desiderio di stare al posto di Isa e stringermelo al petto, se avevo potuto farne a meno fino ad allora, ne avrei fatto a meno anche in futuro. Mandare a puttane Neri e i bei progetti per il suo favorito era stata una conquista troppo amara, tutt’altro che gratificante, e del resto non si può avere tutto dalla vita. Nemmeno quelle lacrime: avrei continuato a tenermi le mie, con buona pace di tutti.

 

È strano osservarlo adesso, bersi in silenzio quel singhiozzare continuo nel buio. Perché che crollasse di nuovo, stavolta era quasi una certezza – qualunque cosa sia successa dopo, dopo che si è eclissato con la Loria a tessere qualche losco intrigo. Peggio del previsto.

È strano e destabilizzante, come una colata di gelo dentro le ossa. Soprattutto quando, per la seconda volta, ti sei introdotto in camera sua senza preavviso e con una scusa che non vale la candela. Vorresti toglierti d’impiccio, ma nel contempo friggi nel desiderio inespresso di scoprire quale altro ingegnoso sistema abbia architettato stavolta per farsi del male.

- Andre, scusa, non volevo spaventarti. Ho dimenticato l’orologio, l’altra sera…

Quando c’è mancato poco che finissimo a letto.

Cioè, tecnicamente ci siamo finiti. Solo che non abbiamo proseguito oltre.

Andrea non risponde. Sprofonda con la faccia sul cuscino, quasi volesse collassare sotto il peso del suo corpo inerme.

- Andre, cos’è successo?

La domanda giusta: cos’altro è successo? Perché sedermi sul bordo del letto e sfiorargli la schiena, è la vera prova del fuoco. Potrebbe tagliar corto intimandomi di farmi i cazzi miei.

Invece, a sorpresa, eccolo sorgere come la luna dal groviglio delle lenzuola, il cuscino ridotto in condizioni pietose stretto tra le mani. Tirarsi su con l’entusiasmo di uno zombie e strisciare verso di me fino a fare della mia spalla il suo muro del pianto.

- Gabriiii… – esala, la voce di chi riemerge dalla tomba.

Calma, Gabriele. Scrollartelo subito via, non è la mossa giusta. Neppure abbracciarlo, perché potrebbe spezzarsi.

Mi chiedo se in un’altra occasione mi avrebbe mandato affanculo senza farmi passare dal via. Se mi avrebbe fissato con un sorriso da folle e gli occhi grondanti di collera, e chiesto se finalmente ero soddisfatto.

Stavolta è bandiera bianca, niente di più. Lo capisco dal fatto che non oppone resistenza, quando lo allontano quel tanto che basta per osservarlo.

La luce rovente del tramonto disegna strane ombre sul suo viso; per un attimo potrei riconoscerlo solo dal tumulto dei suoi capelli, il volto disfatto, gli occhi iniettati di sangue. Come una foto sfocata in cui a stento riesci a riconoscerti in una macchia sbiadita.

- Tieni, asciugati un po’ – riesco a mormorargli, tra un suo singhiozzo e l’altro e i miei tentativi di non farmi inzuppare la maglietta.

La fortuna insospettata di ritrovarsi un pacchetto di salviettine umidificate dentro la borsa, improvvisato kit di pronto soccorso per crisi isteriche assortite.

In silenzio, solleva la bottiglietta dell’acqua per servirsi di una lunga sorsata, e gli ultimi singulti di pianto svaniscono in un sospiro profondo, il braccio tremante e il respiro ridotto a un rantolo.

È a questo punto, di solito, che urge la terapia d’urto.

- Si può sapere che diavolo fai? – è la sua prima frase di senso compiuto, la voce roca di pianto, in dieci minuti abbondanti di non-conversazione.

- Non si vede? – sollevo gli occhi su di lui, mentre lecco sulla cartina per chiudere la sigaretta artigianale girata a tempo di record.

Il fumo mi brucia leggermente la gola, quando tiro per accendere, ma la miscela è quasi perfetta. Aspiro una seconda boccata e poi una terza, prima di piazzargli senza preavviso il minuscolo involucro fra le labbra.

- Ehi, sei matto?! – Andrea si ritrae di scatto; afferra la sigaretta tra indice e medio, curandosi di tenerla a distanza di sicurezza, e la esamina con occhio critico – Vorrei sapere cosa ci hai messo dentro. Anzi, no, lo pretendo proprio.

Sollevo gli occhi al cielo. E lui, di rimando, sgrana gli occhi come a ribadire l’ovvio.

- La camomilla. Su, da bravo. Aspira.

Mi fissa con diffidenza. Almeno sembra convinto. Si porta la sigaretta alla bocca e arriccia il naso.

- Ma è Maria…

Sorrido, sforzandomi di modellare la frase in una composizione che non suoni sarcastica.

- Certo che lo è. Così ti rilassi per bene, e poi magari possiamo parlare.

- No, per carità! – ridacchia.

Tira un altro paio di boccate, prima di alzarsi di scatto e andarla a spegnere nel lavandino.

- No, davvero, questo è-fuori-questione! – sbatte le palpebre, isterico, e se non altro i suoi occhi sembrano migliorati, visto che riesce a tenerli aperti – Ti ringrazio dell’aiuto, eh, ma non ho intenzione di passare alle canne.

Devo sforzarmi di non ridergli in faccia. Perché a volte è così candido che non sai dire se davvero ci sia o ci faccia. Ti dà l’idea di uno ancora pulito, poi sul più bello sa sconvolgerti con la furbata del secolo.

- Lascia stare, Andre. Normalmente non ti avrei mai fatto certo una proposta simile. Vedila come un’emergenza, un’ultima spiaggia. Eri sconvolto.

Posso pure scommetterci, che se tante volte ha fatto effetto su di me, su di lui e sulla depressione di una sera può fare miracoli.

- Sarà… – Andrea fissa il pavimento – Che genere di proposta mi avresti fatto, normalmente?

Eccolo là.

- Qualcosa… come questo? – riattacca, e credo di essere proprio io quello che ha sottovalutato l’intera questione, perché in capo a un secondo lui è qui, cavalcioni su di me, le sue labbra aperte sulle mie. Che sfregano dolcemente, e bruciano.

La bella notizia è che stavolta non dovrò tentarmi giravolte spaziali per uscire dal vicolo cieco secondo cui io avrei manifestato l’intenzione di baciarlo – o tradotto direttamente nella pratica –, perché ha fatto tutto da solo.

- Dio, Gabri…

- Allora – gli sussurro, appena riesco a staccarmi da lui e dallo schiocco umido delle sue labbra – Mi spieghi un po’ cos’è successo?

Dal settimo cielo direttamente a terra, o all’anticamera dell’inferno.

Andrea non risponde subito. China lo sguardo, a disagio, e d’un tratto mi sembra quasi minuscolo nella felpa troppo grande che gli disegna le spalle, al centro di una stanza troppo vuota e troppo ampia. La sua voce un biascicare veloce e appena percettibile.

- Non è vero nulla – butta fuori, come il fumo che tra un po’ gli salirà alla testa - se gli effetti non sono già in corso d’opera.

La sua dannata mania di snocciolare i concetti per frasi ermetiche.

- Cosa non è vero, Andre? – a volte si fa davvero una fatica terribile, a estrapolargli le parole di bocca e beccarsi solo risposte sibilline; ma forse stavolta cerca di guadagnare tempo.

- Quello che hai visto stamattina – risponde, e ho l’impressione che tra poco la sua faccia toccherà il pavimento, visto che ce la mette tutta per schivare sguardi indiscreti.

Anche se è solo il mio, e lui ancora non sa che sono l’ultima persona al mondo a poter fargli la morale.

Si stringe nelle spalle, utopico tentativo di mimetizzarsi con l’arredamento – ma le guance in fiamme lo tradiscono. È come se un nodo dalle dimensioni di questa stanza gli impedisse di strapparsi di dosso il resto della storia.

Respira. Deglutisce, tira su col naso, qualche lacrima imprigionata tra le ciglia.

- Riccardi non mi ha picchiato – sussulta – Cioè… Lui voleva darmi un pugno, figurati: se potesse mi sparerebbe in fronte. Però mi ha mancato… Ed io ho finto che il colpo fosse andato a segno – solleva gli occhi al cielo; si guarda intorno, come in un accesso claustrofobico, come in attesa di un motivo che lo invogli a proseguire – Era quello che volevo. Avevo previsto tutto. E quando Riccardi dice che gli ho toccato il culo, probabilmente dice l’unica cosa vera in tutta la sua vita. Volevo provocarlo finché non facesse qualche cazzata… – sospira, mentre intreccia nervosamente le dita – Tutto qui.

Spalanca gli occhi, in attesa. Spera che gli dia dello stronzo e gli ripulisca la coscienza al posto suo.

 

Cosa vuoi che ti dica, Andrea? Esiste qualcosa che potrebbe farti sentire meno sporco? Te lo sei tenuto dentro tutte queste ore, come un masso sul cuore. Ci hai messo tutti i tuoi residui di coscienza, e forse non hai neanche ottenuto ciò che volevi. Forse il male che ti sei fatto non valeva il prezzo dell’intero gioco. La pelle che ti sei strappato di dosso con la forza delle unghie. Il rispetto di te stesso. Ci hai guadagnato l’ennesimo sputo in faccia e il gusto sadico di una vendetta senza sbocco. È questo?

E adesso preferiresti che ti guardassi in faccia e storcessi il naso. O che ti perdonassi al posto tuo, ti allisciassi la testa. La verità è che non posso fare nessuna delle due cose, e se ti perdono o ti condanno, sarei poi costretto a perdonare o condannare me. Perché ci ho speso troppo di mio, anche se non lo dirò mai, e il peggio è che c’è ancora una cosa che devo fare.

Una parte di me vorrebbe davvero guardarti negli occhi e gridarti che-cazzo-hai-fatto. Se davvero tutto meriti di inquinarsi così, di tingersi di odio, e che tu ci perda la testa.

L’altra parte di me è cristallizzata in una morsa che mi lascia appena respirare. So di dover trovare al più presto una risposta, una giustificazione. Giustificare te per giustificare me. Se ho accettato di fare quel che ho fatto, in silenzio – resta solo l’atto finale –, il primo passo sarà discolpare te. Anche se nulla mi dà il diritto di decidere, di rimangiarmi ogni discorso ragionevole e offrirti una rassicurazione che vale meno di zero.

Hai sbagliato indirizzo, Andrea: non sono migliore di te. E nel momento in cui mi sono calato a testa bassa nel mio inferno, sono costretto a chiudere un occhio – o chiuderli direttamente tutti e due – per tutto ciò che verrà dopo.

Pensi di aver fatto male, Andrea? Sei tenero. Io ho fatto peggio e non sento il bisogno di rimettermi alla clemenza di nessuno.

Guardami, Andrea: sono molto peggio di te. Mi sono arrogato il diritto di fare giustizia, di stabilire cosa è giusto e cosa è sbagliato, ed io sono nel giusto. Cosa puoi fartene dell’assoluzione di chi sta per affondare il coltello?

 

Tutto ciò che posso fare è sfuggire il suo sguardo come se la risposta fosse scontata.

- Credi che non me ne sia accorto che fingevi? – sorrido – Ti hanno mai detto che sei bravo, ma un tantino melodrammatico?

Andrea si osserva intorno. Sembra sotto shock.

- Dopo questa, sinceramente pensavo ti avrei fatto più schifo di prima – tira su col naso.

Qualcosa mi dice che la sua voglia di piangere non è svanita del tutto.

- Vorrei solo capire cosa ci trovi in tutto questo, Andre. Se davvero volessi startene al centro dell’attenzione e dire a tutti che Riccardi è brutto e cattivo.

Andrea scuote il capo. No, negazione.

- Ho parlato col direttore – solleva gli occhi al cielo – Naturalmente non mi ha creduto e mi ha dato del piantagrane. Sai qual è la novità? Che le parole “violenza omofobica” dicono meno di zero: per quel che gliene importa, possiamo anche ammazzarci, basta che lui non veda e non senta. Non sia mai dovesse metterci la faccia! Capisci perché tutto questo mi manda fuori di testa? Mi sono comportato come una merda per guadagnarmi la sua indifferenza! È già tanto che non abbia sbroccato, quando gli ho fatto capire che mi piacciono gli uomini. Per un attimo ho temuto che mi cacciasse solo per questo.

- Andre, scusa, ma esageri – sospiro: forse servirà a chiarirmi le idee, perché il concetto di “esagerazione” sembrava incluso nel prezzo – Elena non ha tutti i torti, quando dice che ne fai una malattia. Vedi razzismi e pregiudizi ovunque.

Andrea si torce le dita, nervoso.

- Ti dico solo due parole: Federico Riccardi. Il concetto di omofobia è incluso nel pacco-base. È chiaro? – rilancia.

- E tu fai conto che un insulto suo vale zero.

Andrea incrocia le braccia sul petto, spazientito.

- Ma chi se l’è mai filato? È venuto lui, a dirmi che i froci come me gli fanno schifo. Sottinteso, che questo gli dà diritto di tormentarmi come e quando vuole, e si sente anche figo.

Silenzio. La verità è che vorrei fosse tutta una sua dannata ossessione. Lo vorrei disperatamente.

- E lui che fine ha fatto?

- Boh! – Andrea si stringe nelle spalle – Non lo so e non voglio saperlo. Per costringere il direttore a scendere dal pero, ho dovuto minacciarlo che avrei denunciato e sputtanato tutto, compresa la sua ignavia – per un attimo i suoi occhi sono tutto un luccichio soddisfatto, vagamente diabolico; o forse è solo quel paio di boccate di sigaretta “diversamente corretta” che inizia a fare il suo effetto – Comunque, se tutto va bene, Riccardi se ne andrà affanculo. Sai che succede domani? – sorride – Il direttore lo chiamerà nel suo studio, gli farà il predicozzo e gli alliscerà la testa. Magari lo spedisce a casa per qualche giorno. Poi, al prossimo Direttivo, stenderà un punticino microscopico all’ordine del giorno come “spiacevoli episodi di ordinaria omofobia”. Farà il finto drittone e si piglierà anche qualche merito.

E sbuffa, come se qualcosa nella composizione dell’aria o nell’arredo lo infastidisse profondamente.

- Vorresti prendertelo tu, il merito?

Pungolarlo per scucirgli qualche rivelazione, non è sempre una cattiva idea; lo è quando si rischia di uscire dai margini.

- Merito di cosa? – quasi trasale, Andrea – Te l’ho detto: mi sento una merda. Non… – tentenna – Non credevo si stesse così da schifo.

Non sai quanto, Andrea; non sai quanto.

- Non dirmi che mo’ ti senti in colpa per Riccardi…? – tiepido tentativo di sguazzare ancora nel torbido.

- Per Riccardi? – Andrea arriccia il naso – Facciamo finta che non esista? Chiamiamolo “X”. Secondo te, è giusto incastrare qualcuno forzando una situazione, chiunque sia…? È giusto che paghi per l’unica cosa che non ha fatto?

- Senti, Andrea, l’ho visto anch’io, l’hanno visto tutti: che non ti abbia colpito è un caso, è che ti sei scansato in tempo. Ti avrebbe rotto la faccia.

Di questo ne vado certo, perché è accaduto sotto i miei occhi. Ricordo pure lo schiocco di quelle dita che lo frustavano appena.

- Cosa cambia, Andre? – proseguo – Diciamo che hai solo … omesso il particolare di aver avuto ottimi riflessi.

Andrea scuote la testa.

- Ma l’ho provocato: gli ho dato una manata sul culo, volevo che mi picchiasse. Se poi mi sono evitato un cazzotto in faccia, meglio per me – e prorompe in una risatina amara, come se ci fosse un risvolto divertente – Non è difficile fargli perdere il controllo: sono il suo incubo.

Sollevo gli occhi al cielo. È così carino che ad associarlo a un incubo ci vuole davvero una fantasia malata. Tranne quando si rivela il bastardo masochista che è.

- Questa è già un po’ più grave… Soprattutto perché le potevi buscare.

- Pensi anche tu che Riccardi meriti il dispetto per il fatto di essere uno stronzo?

Pensi anche tu di poterti ergere a giustiziere del cazzo, Andrea?

- Penso che la tua, in un certo senso, sia legittima difesa – e il semplice deglutire, stavolta, mi sembra più complicato del previsto.

- E ancora non hai sentito il pezzo clou… – ammicca.

- Che sarebbe?

- Oltre ai suoi insulti veteronazisti, di cui avrai esperienza… L’altra sera ha cercato di rubarmi lo spray per l’asma. Ecco, l’ho detto. Tanto, se morivo strozzato, a lui non sarebbe fregato nulla, mi pare logico! Tanto valeva allungare le zampe… – conclude, un mugolio risentito.

- Figlio di puttana…

Segue una pausa imbarazzata che nessuno si preoccupa di riempire. Andrea scuote le spalle, interrogativo. Ammicca a tre centimetri dalla mia faccia, come in attesa di una sentenza definitiva.

- Beh, è tutto qua ciò che sai dire, Gabri?

- Che ti aspettavi, la fustigazione?

Ed è il suo turno, adesso, di fuggire lo sguardo e perdere un po’ di tempo.

- Non capisco. Dimmi almeno che sono il solito coglione, che non mi sopporti più. Dai, me lo devi – spalanca le palpebre, confuso; poi mi agita la mano davanti agli occhi come per accertarsi che non sia morto o del tutto rimbecillito – Mi aspettavo una reazione più consistente, ecco. O qualche idea carina sul da farsi.

- Sei fuori strada – gli sorrido, e devo quasi farmi violenza per costringere i muscoli della mia faccia a comporsi nell’espressione voluta – Non voglio farti la morale. Penso… che qualche ragione ce l’abbia. Minima, ma ce l’hai.

- Di far giustizia? Di dimostrare a tutti che sono io la parte lesa di tutta questa storia?

- Di tutelarti da chi ti vorrebbe morto – taglio corto – Anche se i tuoi metodi fanno schifo.

- Guarda che il pensiero di immerdare quell’idiota non mi dispiace affatto… – scuote le ciglia, satanico.

Adesso, sono sicuro che stia cercando di tastare le mie reazioni. Vuole mettermi alla prova e capire quanto lo ritenga becero da uno a dieci.

- Senti, Andrea  Io ci metterei la mano sul fuoco, che se Riccardi non fosse mai venuto da te a tentare di rovinarti l’esistenza, tu non ti saresti manco accorto che esiste.

Spero che i miei occhi puntati al soffitto gli abbiano suggerito che il discorso dopo un po’ diventa pesante.

- Pensi che lo stia facendo per me stesso? – Andrea socchiude le palpebre, meditabondo – Mi sottovaluti. Non ho mai sopportato i bulli del cazzo che pensano di guadagnare punti quanti più musi spaccano. Che amano rendere la vita difficile a chi gli sta sullo stomaco, come se fosse un loro diritto. Dopo gli omofobi, il secondo posto d’onore è tutto per loro. Immagina di vedere… te, poniamo te, che sei lì che ti fai i cavoli tuoi, e a un certo punto salta fuori mister X e decide di tormentarti, perché nel suo cervellino inutile avresti qualcosa nel tuo DNA che non va, che automaticamente gli dà il diritto di trattarti come uno straccio. Oggi sono io… e le conseguenze non sono state così gravi. Domani, chi sarà…?

È lapalissiano, ora. Perché l’aveva detto lui, che si sarebbe dannato l’anima pur di raddrizzare un po’ del male che aveva fatto, direttamente o no, quando per un caso fortuito si era trovato incluso a pieno titolo nella casta e sottoposto alle sue dure leggi.

È adesso che il contenuto di quella frase declamata per sbaglio in un’aula vuota, dopo che Alberti mi aveva quasi rotto il naso, emerge in tutta la sua tragica verità, come una nota inquietante. Non era mettere una pezza provvisoria sui suoi disastri.

Il problema è che stavolta Andrea è serio. Oscenamente serio. E come tutte le volte che è serio, ti incunea addosso un’angoscia difficilmente quantificabile.

- Possiamo parlarne in un altro momento? – liquidare un discorso non è mai stato tanto difficile e liberatorio al tempo stesso.

Specie quando ti rendi conto che avresti ancora la possibilità di propinargli un discorsetto e stornare la catastrofe.

Prima che cominci a temere seriamente per te e per tutto ciò che ti dice il cervello, nell’esaltazione della vittoria sudata a spintoni.

- Finalmente una bella idea! – squittisce, sprofondando nel letto a peso morto, un braccio teso davanti al viso come per ripararsi da raggi invisibili – Cazzo, mi gira la testa…

La spiegazione plausibile è che questa è la prima canna della sua vita, all’alba dei suoi vent’anni.

- Sicuro di star bene?

La risposta è una specie di mugugno poco articolato, con la bocca impastata e un gusto vagamente languido – che forse sono l’unico a sentire.

Come se il peso di quella giornata da suicidio e di quei discorsi farraginosi gli sia ricaduto sulle spalle solo in quel momento, lasciandolo lì senza la forza di riconnettere il cervello.

- Vieni qui… – mi sussurra con un cenno perentorio.

Non avevo mai fatto caso alle sue mani. Le dita lunghe, sinuose, i movimenti spicci. L’anellino al pollice destro come una trafittura gelida sulla pelle, quando le sue dita mi arpionano un lembo della maglietta e mi attirano verso di lui, con un sonoro lamento delle molle del letto. E di nuovo, quel basso mugolio di sottofondo, come le fusa di un gatto. Le dita che indugiano sull’orlo della maglia, per poi scorrermi sulla cute, risalire fino alla nuca e assestarsi lì, frementi. Le labbra, le mie e le sue, fameliche le une sulle altre – appena il tempo di riempirsi d’ossigeno i polmoni, prima di riprendere a esplorarsi.

Il silenzio è come un manto di tenebra sulle spalle, come il guizzare dei suoi movimenti – solo qualche schiocco improvviso, la tensione impigliata addosso.

E poi, non so cos’è – forse quel paio di boccate traditrici di cui mi sono servito anch’io, quando gli ho mostrato com’è che doveva fare. Non so cos’è, ma all’improvviso quantificare la realtà diventa difficile, incastrarsi in un intervallo di tempo qualsiasi. Separare quel silenzio terribilmente vivo e palpitante dallo scorrere delle sue labbra su di me, dal respiro veloce che gli si mozza in gola e trema.

So soltanto che da un certo momento in poi c’erano solo le sue labbra avvitate alle mie, il fruscio dei suoi capelli tra le mie dita, la penombra nebbiosa della stanza, la sua pelle rovente – così vicini che per qualche istante non c’è più stata la singola percezione, ma solo un’unica scintilla, una specie di contatto vivo. Lo scatto felino con cui si è sollevato su di me, sfidando il leggero capogiro che per un attimo ha minacciato di farlo rotolare a terra, e il suo attacco – stavolta più in basso, dritto alla gola – come un formicolio intenso sottopelle.

E lo schiocco gentile delle sue labbra che si dischiudono a scoprire i denti.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Capitolo 25 - Dopo la tempesta ***


 

Capitolo 25

Dopo la tempesta

 

 

Ricordo la prima volta che ho visto Andrea nudo – seminudo, di preciso. Fu la manciata di interminabili secondi in cui calcò la scena vestito di soli boxer aderenti. Una specie di nudo metaforico in verità, nulla di più, immerso in un alone di luce carica che ne rendeva indistinti i contorni. Ma tanto bastò.

Starmene nell’ombra, quella volta, fu il vero colpo di fortuna. Specie se hai la fottuta abitudine di arrossire nei momenti sbagliati.

Era stato il mormorio soffuso di Blanche, accoccolata al mio fianco, a riscuotermi da quella visione che mi bruciava in fondo alle pupille.

- C’est ton ami? André Nicoletti?

- Mon ami…?!

Amici, io e Andrea? Non lo si poteva manco sentire.

Il gesto casuale che le rivolsi fu eloquente quanto un sonoro ‘sticazzi, perché sfido chiunque, al mio posto, a fornire volentieri certe coordinate di vitale importanza, quando la preoccupazione numero uno è impedire allo sguardo di vagare oltre.

Adesso, fissagli il pacco e sei fottuto.

Meglio glissare e passare oltre, a quel paio di gambe diritte e ben cesellate, le movenze in perfetta sincronia espressiva con il resto del corpo. Perfetto come sempre, Andrea. Con mio sommo rammarico.

Parlare della prima volta in cui lo (intra)vidi nudo, o quasi, è un po’ come parlare del sesso degli angeli. A rendere la lista superflua, la sua maledetta abitudine di andarsene in giro in accappatoio e mutande – almeno, entro il perimetro della stanza che condividevamo, e sempre, puntuale, dopo la doccia rilassante di fine giornata.

Di ancora più osceno c’era il suo trascorrere la parte restante del suo tempo a starnazzare con Isa e il suo clan di arpie, fermarsi ogni tanto per scagliarmi qualche frecciata velenosa, e proseguire. Poi magari, girato l’angolo, ricominciare tutto da capo e scoccarmi quegli sguardi indecifrabili per farsi desiderare ancora, e di nuovo attirarmi nella tela.

O forse era la mia semplice, snervante ossessione.

 

La verità, Gabriele, è che avresti voluto averla, una possibilità con lui. Avresti voluto non arrivare mai al punto di rottura in cui tutto è perduto; al punto di desiderarlo di nascosto e ogni volta uccidere l’impulso sotto un’ondata di gelo, sotto la spinta di quegli occhi taglienti. Al punto di detestarlo e progettare con calma la sua rovina. In fondo, sarebbe bastato chiudere gli occhi e riscrivere tutto da capo.

Il punto è che non avresti voluto essere per lui ciò che gli altri dicevano – giudizi tutt’altro che lusinghieri. Né vederlo varcare come un ladro l’ufficio di Neri per non uscirne più.

La prima volta che l’hai visto eccitato o qualcosa di simile, stava appoggiato con tutto il suo peso contro la scrivania del coglione, le mani aperte a vagare sulla sua schiena, in quella tristemente celebre scopata vestiti che li rese tristemente celebri – almeno, agli occhi di quella cimice piazzata in cima allo spigolo della libreria.

Una spia nell’armadio per svelarne gli scheletri – e sì che era venuto fuori di tutto, discorsi a tu per tu, accordi presi sottobanco, baci strappati a tradimento.

Tanto che ti rigiri ancora quelle dannate registrazioni tra le mani come se scottassero, perché renderle pubbliche sarebbe la madre di tutti gli sputtanamenti.

Eccoli là: Andrea che piagnucola per una cazzata qualunque a proposito di immedesimazione e pippe, e il coglione che raccoglie quel paio di lacrime.

Incastrare Neri non aveva richiesto chissà quale studio, alla fine, perché è raro che quelli come lui, sicuri di essere nel giusto, prendano le dovute contromisure.

 

Scusi, professore, ho perso la scorsa lezione. Non è che ha consegnato i copioni quando io non c’ero?

Professore, il cazzo.

Il cuore mi martellava nel petto, l’ultima volta che varcai quella porta, e non solo perché i miei istinti più bassi mi suggerivano di tirargli il collo. L’ultima volta prima del disastro.

Lui non aveva staccato gli occhi nemmeno per un attimo dal suo notebook, dai suoi affari di importanza cruciale. Mi aveva liquidato con un cenno secco della mano, come avrebbe scacciato un moscerino.

Ultimo piano della libreria, Derossi.

Chi se ne fotte…

Solo che così la fa troppo facile, professore. Davvero: lei vuole negarmi la soddisfazione di una vittoria sudata. Troppo facile, piazzare una maledetta spia dentro lo studio. E poi incrociare le braccia e attendere paziente.

 

La seconda volta che l’ho visto eccitato, Andrea, fu la volta della tipa X e dei suoi capelli biondi stesi su di lui a celargli l’inguine nudo. Il movimento ovvio della testa, l’atmosfera tutt’intorno impregnata solo dal leggero schioccare della bocca di lei, non lasciavano nulla all’immaginazione. E lui disteso e beato sul divano, un continuo frusciare di stoffe e di labbra bagnate. Si divertiva.

 

Ora, con qualche cataclisma di distanza, non credevo fosse… così.

Cosa ti aspettavi, Gabriele, i cori angelici? Un’esplosione dall’eco lunga quanto la somma dei tuoi attimi da qui in avanti?

Se te l’avessero chiesto allora, se avessi potuto cambiare le carte schioccando le dita, una miscela inebriante ti avrebbe investito fin dentro le ossa. Uno sprofondare in acque tiepide, ogni secondo scandito dal suo e dal tuo respiro, dall’infuriare del sangue sotto la sua pelle.

Non credevi sarebbe stato così… Completo, e di tutto. Carico di tutta la delusione e il veleno e la non-aspettativa di mesi.

Se fosse accaduto soltanto… un mese fa, sarebbe stato diverso, inaspettato. Un balsamo sulle ferite e una vena guizzante di euforia.

E ora invece non è niente di tutto ciò. Nessuna esplosione maturata nel tempo, nessuno scioglimento finale. È la differenza che corre tra il dolore sordo che attendevi a denti stretti, e tante fitte intermittenti là dove i corpi si sfiorano – e scorrono l’uno contro l’altro.

Non toccarmi, Andrea – non provarci neppure. Non parlare. Non dire più nulla, perché è tra un rancore e l’altro che abbiamo trovato qualcosa che ci accomuna.

Ribaltarti sotto è la soluzione migliore per disinnescarti. E no, non muoio dalla voglia di scoprire cosa sei capace di fare, sciolto da tutte le catene. Preferisco continuare a immaginarlo.

La soluzione migliore è scoprirti quanto basta e lasciarti lì a gemere. Ignorare le tue pretese, quando catturi il lenzuolo sottostante nella stretta spasmodica delle dita. Sono le mie labbra a scorrere imperterrite sul tuo corpo proteso, a seguire la muscolatura contratta del ventre; scivolano su di te senza peso e senza scopo, senza scioglierti da quella morsa di languore.

Fa male, Nicoletti, vero?

Quasi quanto lasciarmi rapire dall’ossatura delle tue anche. E indugiarci senza regalarti nulla. Non mi hai soggiogato abbastanza da ingannarmi, da trascinarmi nel tuo baratro di irrazionalità.

Per un attimo credo di essermi perso davvero, perché ogni tuo movimento è un fruscio di spire che mi attira verso il centro… Il disegno sottile della muscolatura, il morbido roteare dei fianchi, privo di scatti, fluido come i movimenti di un gatto – persino ora, che sei eccitato da fare pietà.

Dillo adesso, raccontalo ai tuoi amici, Andrea. Che mi ritieni nient’altro che un ronzio fastidioso. Di certo non all’altezza di stare al tuo livello o di meritarmi le tue provocazioni. Che il gioco non vale la candela.

È una risata, quella che ti esplode tra le labbra?

I pensieri ad alta voce non sono una grande invenzione, come le parole pronunciate da ubriachi o strascicate nel sonno, perché possono contenere molecole di verità. Se escludi che, tecnicamente, saremmo entrambi fatti come ciminiere – e quindi il nonsense può starci. Il punto è stabilire quanto; quanto e chi tra noi due tenga le redini.

- Perché ridi? – suona un po’ stupido, ma devo cavargli fuori qualcosa.

Ora o mai più.

- Che cosa stavi dicendo, scusa? – sgrana gli occhi, Andrea – Che avrei parlato con loro… loro chi? Di te? E quando mai? Di quanto sei bravo… a letto? – altra risata argentina, perforante – Senza esperienza diretta. Siamo mai stati insieme, noi? O su quanto saresti bravo a farmi un p…

- Zitto!

Una parola in più, e rovineresti tutto – come al solito. È sempre stato il tuo asso nella manica.

E poi resta solo la sua voce che si scioglie in un sospiro, i suoi vestiti e le sue resistenze che scivolano a terra. La sua erezione che mi pulsa addosso, con urgenza.

È quasi crudele, ignorare il suo urlo silenzioso e ogni fibra del suo corpo che vibra per essere accarezzata, per trovare il nodo focale di tutta la tensione accumulata. La cute coperta di brividi e lucida di sudore, e quel suo modo ipnotico di oscillare, di chiedermi, per favore, metti fine a questo stillicidio; portalo alle estreme conseguenze.

Strusciare il viso contro le sue cosce spalancate non è una risposta soddisfacente; a rivelarmelo, il cupo miagolio che gli strappo via in capo a un istante, come a un gatto allontanato dalla sua ciotola. Potrei indugiare ancora, il mio respiro contro la sua pelle rovente, le mie labbra che si schiudono su di lui con parsimonia; potrei ignorare la sua eccitazione e dedicarmi all’estatica contemplazione dell’attaccatura della coscia o dell’anca in rilievo o della linea scura che precipita verso il basso, fino ai riccioli del pube. Lasciarlo agonizzante. Assaporare ancora – con sadico piacere – il raschiare dei suoi denti contro il labbro, e gli ansiti che crescono.

È strano. Strano tutto, in lui. Il suo modo di muovere i fianchi, di godere – darebbe l’idea che qualcuno voglia fargli del male, se non fosse per la piega delle labbra e la punta delle orecchie che va a fuoco. Azzarderei a dire “femminile”, il suo modo di dirti che è sull’orlo dell’orgasmo. Se la prova schiacciante della sua mascolinità non stesse fisicamente davanti ai miei occhi.

Non farò nulla: non tirerò per le lunghe, per il sapore perverso di tenerlo metaforicamente in pugno per la prima volta in vita mia – a che servirebbe?

Penso che una parte di me lo vorrebbe davvero: compiere il salto nel buio, perdermi in lui senza proiettarmi sul domani, sulle conseguenze, sul ghiaccio della razionalità e del dopo. Sfuggire alle normali relazioni di causa-effetto e mettermi nelle sue mani.

Vorrei stringerlo, disperatamente, e dirgli che andrà tutto bene, che sono con lui… Ma non posso: non spetta a me – non ancora. Non sa cosa sono. Lo sa Elena, ma sarà una tomba.

Credo che scriverò adesso l’epilogo del nostro tragico incontro – riscrivere su una pagina già sporca?

Il fatto è che ho conosciuto il sapore cristallino della tua bocca, Andrea; della menzogna, dei baci elargiti senza sconto. Resta da abbattere l’ultima barriera, svelare l’ultima piega di cui sono all’oscuro, e poi resteranno solo Gabriele e Andrea.

 

* * *

 

- Andre, mi fai preoccupare.

Ha la pelle caldissima, gli occhi così lustri che qualche linea di febbre potrebbe averla per davvero. Quasi brucia sotto il tuo tocco, mentre le labbra si distendono in un sorriso stanco. Vagamente ebete.

- Senti, Gabriele me l’ha detto, che eri un po’ giù di tono – pausa strategica, in attesa di una risposta che non sia enigmatica o strutturata come un mosaico da ricomporre – Solo che… non credevo tanto.

La fatica di aprire un occhio è un istante eterno. Ogni singola movenza sembra costargli un’immane fatica. È lì, disteso sul suo letto come se qualcuno ce l’avesse buttato per caso, scomposto, e con quello sguardo perso.

Per poco non ti prende un colpo, quando quel vago inarcamento di sopracciglio non culmina in una risata di petto.

- Dio, Loria, questa è bella! Secondo lui sarei giù di tono? – cincischia – Su di tono, se proprio… – e ammicca, sibillino.

Accennando con lo sguardo, non troppo velatamente, verso la cintura.

- Idiota…!

- Il tuo amico Gabriele ha una gran faccia tosta… – prosegue con voce querula, gli occhi che roteano verso il cielo – O non ci vede bene. Dice che sono giù di morale… quando è stato lui a riportarmi su.

Scuoti il capo. Il fatto che l’ultima volta che l’hai visto, avesse come unico chiodo fisso la sua faida personale con Federico Riccardi, e subito dopo sia crollato sotto il peso di una vittoria risicata e qualche responsabilità di troppo, fa pensare. Come ora, con quell’ennesima, inaspettata metamorfosi, la faccia deboluccia e beata con annessa palpebra calante di chi è appena uscito da una sauna o da una scopata stellare.

Deglutisci a fatica: Gabriele non l’avrebbe gridato ai quattro venti, di aver appena avuto un incontro ravvicinato con la propria negazione vivente. E poi Andrea ha gli occhi decisamente strani.

- Ma vi siete fatti? – gli domandi, a bruciapelo.

Lui solleva il capo sul cuscino con indolenza. Uno sbadiglio soffocato nel luccicore umido delle ciglia. E socchiude le labbra in quel sorriso che scioglie le pietre.

- Dipende da cosa intendi con la parola “fatti”, carissima – e strizza le palpebre, sarcastico.

No, ferma, un secondo.

Mi sono persa qualcosa. Troppo veloce, neppure il tempo per metabolizzare tutto.

Gabriele è Galileus. Gabriele voleva distruggere Andrea – ma si accontenterà solo dello scalpo di Neri. Andrea si è appena fottuto nei suoi deliri di vendetta-onnipotenza e ha avuto un crollo psicologico non da poco – non l’ultimo, ti temi. Gabriele e Andrea sono finiti a letto insieme, in qualche passaggio che al momento sfugge. E Andrea è lì a dieci centimetri da te che sorride con aria beota e sembra fremere dalla voglia di sciorinarti i dettagli. È come se abbia stampato in faccia a caratteri cubitali che è reduce dall’orgasmo più devastante dei suoi diciannove anni.

Il resoconto di Andrea e Gabriele che si fanno i cavoli loro, no – pietà! È l’ultima cosa a cui potresti reggere. Anche se l’idea di loro due insieme – del trionfo di Gabriele, che tutti davano per bruciato – per un attimo ti fa gongolare come se dall’altra parte, insieme ad Andrea, ci fossi stata tu. È un’idea che, per qualche motivo strampalato, ti ha sempre fatto gola. Forse perché, in pratica, sarebbe il prodotto ultimo di ciò che hai sospinto e tessuto con certosina ostinazione.

- Comunque, Loria, la risposta alla domanda è: entrambi – e fugge con lo sguardo, a sottintendere cose meravigliose.

- Vi siete fumati una canna? – maledizione

Andrea annuisce come di fronte a qualcosa di poco importante.

- Solo qualche tiro… E comunque è tutta colpa di Gabriele. Ero a un passo da una crisi di nervi, poi è arrivato lui, è spuntato fuori dal nulla – e la voce sfuma.

Per un attimo un brivido di gelo ti incunea addosso il dubbio che Gabriele sia meno innocente di ciò che vuole sembrare. Che i suoi disegni machiavellici non finiscano dove dice lui; che non fosse sincero, quando ha giurato che l’unica persona che brama di spedire nella merda, si chiama Fabio Neri – a che pro, continua a ripetersi un certo campanello d’allarme nella tua testa. Che forse il pesce grosso – o l’ingranaggio principale di tutto il meccanismo – sia proprio Andrea, e Gabriele abbia perso il senso della realtà, ciò che compete a Gabriele e ciò che compete a Galileus. E questo è decisamente troppo.

- E insomma… – pausa imbarazzata – L’avete fatto, no?

La voce plana insolitamente dolce. Perché non vorresti essere nei suoi panni, se ciò che ha in serbo Gabriele dovesse rivelarsi peggiore dei peggiori pronostici. Compreso il lento lavorio su Andrea.

- Macché! – risposta secca, seguita da un automatico arricciamento di labbra – Non si è fatto manco sfiorare… Povero lui!

Ti prego, ti supplico, non i dettagli! Morirei di imbarazzo. E sì, lo so che vorresti ragguagliarmi sui tuoi ultimi numeri da circo, perché ti fidi di me e vorresti parlare di tutto… Ma la descrizione della vostra scopata – o qualunque altra cosa sia stata – è troppo anche per me.

- Diciamo che… – almeno il pudore di arrossire – Non l’abbiamo fatto ma ci siamo andati molto vicini. Ti basti sapere che è un manipolatore sadico, e che le sue cazzo di dannatissime, fottutissime, meravigliose labbra, me le sognerò stanotte… su di me, dappertutto – sussulta, mentre le sue dita si arrestano in direzione del ventre, spinte da qualche forza superiore.

Okay, Andre, ho capito: ho una fervida immaginazione, non serve il disegnino. Ora, ti scongiuro, torna alla realtà ed evita di venirtene qui davanti a me. Grazie.

E cosa si dice di solito a questo punto? Auguri? Congratulazioni?

Una neutrale arruffata di capelli. Può andare.

Andrea chiude gli occhi; sospira, e c’è un nonsoché di felino in quello strusciamento impercettibile – o forse è solo il suo respiro.

- Ti amo, Elena – sussurra, a bruciapelo, e la conferma che sia completamente fatto, stavolta è precisa e diretta; non si limita a un semplice alone arrossato dentro le orbite o alla voce strascicata – Voglio che ci sia.

Sospiri. Quando l’hai intravisto giù al bar, Gabriele aveva due occhi che quasi schizzavano fuori. Ha chiesto solo un bicchiere d’acqua e sembrava un po’ svanito. Qualche tavolo più avanti, Isa gli ha lanciato un’occhiata nera e ha mormorato qualcosa all’amica.

Se Gabriele era così elettrico, è verosimile che Andrea sia allo stato di plasma, dato che non è abituato – a quanto ne sai – a sfondarsi in quel modo.

- È… – azzarda, di nuovo – è tutto ciò che volevo. Pensavo fosse… diverso. Invece era tutto qui, a portata di mano. Mi viene da piangere…

- Cosa succede, Andre?

- È come… non lo so – china lo sguardo, e la sua voce è leggermente più ferma – Mi ha lasciato un senso di vuoto. Sembrava che volesse tenermi a bada.

E posso capirlo, dopo i tuoi ultimi exploit.

Strategico sollevamento degli occhi verso il cielo.

- È stato meraviglioso… assurdo! – ridacchia: forse cerca di mascherare quella punta naturale d’imbarazzo – Ma pian piano se ne va.

- Cosa se ne va, Andrea? – stavolta le dita indugiano lente tra i suoi capelli.

- Tutto. La gioia… – distoglie il viso, raccogliendo i pensieri – La gioia di quel momento. Come un bel sogno. Tu ti svegli, pensi che tutto sommato ti abbia lasciato addosso qualcosa di bello. Poi ti svegli del tutto e vedi la tua realtà che fa pena. Stop, tutto svanito in una bolla di sapone. Eppure sei stato bene. Lui se ne è andato. Era qui, credevi di morire felice, di dimenticare tutto lo schifo che hai lasciato là fuori. Adesso il brivido sta già svanendo, e sarò di nuovo lo sfigato voltabandiera a cui pure il più coglione dell’istituto può dire che era meglio che sua mamma l’avesse buttato nel cassonetto da piccolo.

- Okay, basta! Così non ci capisco più niente…

- Ecco. Nemmeno io – puntualizza Andrea – Era solo per dire che tra un po’ sarà tutto di nuovo schifosamente normale, e allora cosa rimane?

Perfetto. È ancora mezzo anestetizzato dal torpore erotico-sentimentale al retrogusto di spinello, e già teme il momento in cui la negatività tornerà a galla. Compresa l’impossibilità di un seguito tra lui e Gabriele. Tabula rasa, cancella quel che è successo dalle cinque alle sei e mezza di stasera, ho un alibi di ferro. Il tutto starà a racimolare qualche altro granello di lucidità.

- D’accordo, facciamo un po’ d’ordine: chi è il genio che ha tirato in ballo tua madre, e a che proposito? – incalzi.

Andrea si solleva sui gomiti e si sforza di cavarsi fuori un sorriso sarcastico.

- Uno solo. Indovina…?

- Lo stronzo, l’avevo capito – però gliel’hai chiesto, giusto per perdere tempo.

Silenzio.

- Okay, so cosa stai per dirmi – l’ha preceduta, stavolta – Dovrei impiparmi su ciò che dice, ciò che pensa lo stronzo? No, fin qui ci siamo, e ti prego, non farmi la paternale, ci ha già pensato Gabriele. Ma se lo stronzo che tu dici, prende tanto sul serio le proprie perle di saggezza, tanto da rivendicare, in nome delle sue cazzate, il diritto di picchiarmi, portarmi via oggetti personali e desiderare la mia morte, e così con tutti quelli che lui ritiene feccia, se permetti un po’ me ne frega – solleva gli occhi al cielo, ispirato, e per un attimo sembra quasi troppo lucido – Quello adesso farà peggio…

- Posso sapere allora che bisogno c’era di buttarti a terra, fingere che ti avesse picchiato, mettere su quella farsa ridicola…? – adesso, alzare la voce è quasi d’obbligo.

Andrea scuote il capo, gli occhi tristi.

- Pensi che ne vada fiero? Pensi che non tornerei indietro? – e tace, ma solo il tempo di tirare su col naso e ravviarsi i capelli – Probabilmente no. Per le conseguenze, mica per lui… Figurati se il direttore gli torcerà un capello…! Al massimo si consulterà con compare Alberti. Ma ti giuro che stamattina impazzivo dal nervoso. Dovevo fare qualcosa. Ho sbagliato, adesso me lo prenderò di là come tutti gli altri, e buonanotte… Ma dovevo fare qualcosa.

- Non te l’ha ordinato il medico di provocare un imbecille per farlo diventare ancora più imbecille! – il sospiro di rassegnazione è breve ma perfettamente udibile – Lo sai che non ne caverai niente di buono. Non ti è bastata la piazzata di ieri sera? Quello è così cretino che solo all’idea che la sua ragazzina creda a un decimo delle tue cazzate, si fa il fegato così!

- Stava per mandarmi all’ospedale – sgrana gli occhi, Andrea, i bordi arrossati ben visibili; e adesso sembra decisamente alterato – Ma io ci manderei lui… in un bel manicomio! E non hai sentito quello che mi ha detto a ora di pranzo. La sua faccia mi è già indigesta così, più del cibo della mensa…!

- Ah, è venuto pure a raccogliere le briciole – sorridi, indecisa su quale sia la parte più grottesca dell’intera storia.

- Mi ha detto cose assurde… Non gliene frega niente, se lo sbattono fuori. L’unica cosa che gli interessa è prendermi a insulti e ribadire le sue posizioni pseudonaziste.

- Perfetto, Andrea – scuoti il capo, e provi a crederci almeno un istante, che un sorriso imperturbabile possa restituirgli un attimo di calma – Ti importa qualcosa delle sue idiozie? Cosa ti aspettavi, che ti recitasse l’Iliade? Vuoi stare al suo gioco e scendere al suo livello? Accòmodati.

- Io vorrei che lui e tutti i bulli del cazzo come lui la smettessero di rompere l’anima a chi nemmeno se li fila! Vorrei che la finissero… tutti. Sono una puttana? Sono andato a letto col professore? Mi piacciono i ragazzi? Bene, cazzacci miei. La cosa li tocca? No. E allora basta, stop, fine delle trattative – adesso sta quasi urlando; se non urla, ha quel tono esasperato che fa vibrare le pareti.

- Andre, mi dispiace…

Andrea intreccia le braccia sul petto, ricacciando indietro qualcosa di troppo simile a una lacrima.

- A me no – ribatte, acido – In fondo, sto raccogliendo quello che ho seminato. Lo so cosa succede in questi casi: c’ero dentro anch’io. Secondo te, cosa facevo quando è toccato a Gabriele? Nulla. Non avevo niente da guadagnarci, però appena qualcuno diceva una cazzata, io dovevo aggiungerne una peggiore. Mi ero fatto una mia teoria personale. Appena mi ha torto un capello, apriti cielo. Ricordi la questione dello stage? Io sì, purtroppo… Come dimenticarla? Sono saltato su e gliene ho detto di tutti i colori, e per poco non ci siamo accapigliati. Perché? Perché tutta la banda era d’accordo. Stavolta c’è un effetto boomerang, e forse me la sono davvero andata a cercare. Ma sai cosa mi dispiace davvero? Che il problema non sia solo il mio. Che ci sarà sempre un maledetto capro espiatorio.

E qualcosa che suona come un’autopunizione sembra fare capolino tra un delirio e l’altro, per nulla rassicurante. Il gusto amaro della colpevolezza nelle parole.

- Possiamo tornare alla questione di Gabriele?

La voce è venuta fuori piccola piccola, come se da un momento all’altro temessi una sua esplosione di collera. O una crisi di pianto. Invece, contro ogni aspettativa, sorride come se qualcuno abbia pronunciato la parola magica. La panacea che calma tutti i mali.

- È stato assurdo, che devo dire? – si stringe nelle spalle, le parole attutite dal fruscio del lenzuolo – Credevo di morirne – socchiude gli occhi, adagiandosi meglio al tuo fianco, la testa china sul tuo braccio come se aspettasse una carezza che scioglie tutti i nodi.

E poi si stira come un gatto. Un respiro profondo.

- Era… era qui. Poi, un istante dopo era tutto svanito. Mi ha abbracciato qui, attorno alla vita, mi ha stretto a sé e ha poggiato la testa qui, sul mio grembo – s’interrompe; e ti si stringe addosso, accoccolandosi come un cucciolo.

È come se ricordare i dettagli, elencarli a bassa voce, potesse renderglieli in qualche modo vivi, tangibili.

È successo, Andrea, tranquillo: se me lo racconti così, ti credo. Non è stata una tua allucinazione.

- Non lo so quanto è durato – stavolta è un mormorio appena velato di tristezza – So che a un certo punto ho riaperto gli occhi, e i soli residui erano i postumi di quei due tiri di canna. E poi domani è un altro giorno. Di merda.

Almeno ci si sguazza. Ci sono stati giorni peggiori, Andrea. Decisamente peggiori. Come quando vivevi nell’ignoranza.

 

* * *

 

Volevo dirtelo, Elena, ma poi ho pensato che sarei sceso sempre di più nel terreno minato.

La verità è che non lo so. Cosa voglio. Rimescolare queste carte all’infinito. Affondare nel petto di lei e dimenticare tutto. Cancellare la parola “domani” e rifugiarmi in una dimensione che sia solo nostra. Oppure tornare da Gabriele e chiedergli spiegazioni con qualche scaglia di razionalità in più: affrontare l’ignoto.

Perché l’hai fatto, Gabriele? È stato meraviglioso. Fottutamente imbarazzate, verso l’inizio, quando non sapevo dove mettere le mani e tu mi impedivi di muovermi.

Con lei sarebbe stato diverso. Non sarebbe stata una frustata improvvisa, trovarmi senza difese, completamente esposto, le sue labbra a rompere ogni indugio. A soffermarsi tra le mie gambe. Lui che mi guarda con diffidenza fino a cinque secondi prima, che mi soppesa e cerca di sviscerare ogni mio pensiero – quel “chi sei, Andrea?” come una nenia oscura tra le pieghe della fronte, come una barriera tra noi. La macchia sbiadita di quel che era stato. Di quel che eravamo stati l’uno nei confronti dell’altro.

A un certo punto c’è stato solo il sapore delle sue labbra. E poi il contatto più intimo. La conoscenza che ha riscritto i confini – solo un attimo. La deriva totale, il fuoco e la luce sotto le palpebre serrate. La sua bocca che faceva quasi male, mentre toccava le corde scoperte, la carne viva. Una scossa lungo la spina dorsale e il suo profumo scolpito addosso. E un calore insopportabile inchiodato intorno ai fianchi.

E tu non ti sei lasciato scalfire nemmeno per un istante – non posso saperlo: so solo che mi volevi così, come cera da plasmare, o almeno l’illusione.

Mi fa quasi sorridere, la tua strana predilezione per quel punto che va dall’ombelico fino all’anca. Ti ci sei soffermato tanto a lungo da farmi impazzire, da coprirmi la pelle di brividi. Mi hai leccato come un gatto. E il mio grembo sarebbe stato il tuo giaciglio, il tuo cuscino, per questa sera, se solo io non fossi venuto meno e non avessi riaperto gli occhi su una stanza vuota – la parete in ombra, la brezza sulla pelle nuda e uno spiraglio socchiuso verso l’esterno. Avrei voluto cullarti così. Come tu mi hai scosso all’infinito, fino a rendere la vibrazione insopportabile.

Vorrei solo che l’aroma del fumo nella stanza e la tua impronta calda non svanissero mai più – trascendessero i secondi.

Vorrei dirlo a lei. Metterlo nero su bianco per renderlo meno assurdo. Scrollarmi di dosso la sensazione di lei che mi legge tra le righe, e svelarmi da solo.

Essere con lui e contemporaneamente con lei, a colmare lo stesso istante.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Capitolo 26 - Voci di corridoio ***




 

Capitolo 26

Voci di corridoio

 

 

Andrea ha preferito per un giorno tenere la macchina a riposo. Rinunciare all’ingresso trionfale con parcheggio di fortuna e tintinnio di chiavi appese alle dita. I capelli scompigliati dal vento quasi gli intralciano la visuale. Ansando per la corsa, intercetta la linea numero 8. Che, spaccando il minuto, arriva come una promessa nell’aria. Preferisce confidare nella buona sorte di incontrare Elena o Gabriele e condividere la breve boccata d’ossigeno fino a destinazione. È un pensiero che gli vibra forte nelle vene. E di colpo, nella sua testa, il ronzio leggero del motore sotto i suoi piedi è una nenia rilassante. Sospira, Andrea. C’è qualcosa di impercettibilmente diverso – da qualche giorno. Forse perché ha sempre associato il tragitto in autobus a qualcosa di epidermicamente piacevole; forse è il momento ideale per lasciar vagare i pensieri senza i freni della razionalità, fino a destinazione. Ricorda i suoi primi giorni nel labirinto della città, l’attenzione tesa a memorizzare ogni itinerario, ogni dettaglio. Camminare là dentro è come camminare sulla luna, in equilibrio precario, qualche sprazzo azzurro pallido tra il profilo squadrato del finestrino e gli spiragli luminosi tra un edificio e l’altro. E oggi c’è un sentore di primavera dal fascino lunare, gravido di indefinite aspettative, come quei sogni fumosi in cui la quotidianità ha un sapore particolare.

Sorride tra sé, Andrea, aggrappato al sostegno di metallo; cerca una posizione che gli consenta di mantenere l’equilibrio, appena in tempo da non trovarsi sbalzato contro il passeggero seduto a fianco grazie ad una svolta brusca. Stretto tra il proprio braccio e il fianco destro, al sicuro dagli scossoni, il suo carico eccezionale: un parallelepipedo di plastica chiuso sul davanti da una rete di metallo.

Il vento è cambiato, da quando Gabriele è venuto a raccogliere le sue lacrime dopo il fattaccio con Riccardi. Da quando ha pensato di condividere con lui un paio di istanti di intimità, una manciata simbolica – e avrebbero potuto fare l’amore, e non sarebbe stata la stessa cosa.

Andrea rabbrividisce mentre si lascia andare contro un supporto di fortuna – lo schienale del sedile di fronte. Ripensa all’intenso formicolio alla spina dorsale, quando le labbra di Gabriele si sono strette intorno al suo sesso, a quel calore insopportabile al basso ventre, al semplice fatto di essere lì, scoperto e del tutto indifeso di fronte all’uomo che ama disperatamente, e potrebbe cadere in deliquio seduta stante. Avere un sussulto improvviso.

Da qualche giorno gli sembra persino di non sentire le consuete pugnalate verbali, le occhiate di traverso e il gelo dell’indifferenza. Solo piccoli sbuffi d’aria intorno a lui, protetto dal suo cono di luce.

Ha persino avuto fortuna, perché quelle spalle tese, quella schiena addossata al sedile a pochi passi da lui, quei capelli neri e arruffati, sono deliziosamente familiari.

Il tentativo di guadagnare i metri che lo separano da lui è una lotta contro l’ennesima manovra spericolata del conducente.

E finalmente è lì – a pochi passi da lui che gli volge le spalle. La borsa ferma e salda contro il petto e il finestrino aperto che gli scompiglia i capelli, con quei fottuti pollini vaganti che gli solleticano il naso, a fatica riesce a ritagliarsi un varco privilegiato, addossato al vetro.

- Ehi… – gli sibila a pochi centimetri dall’orecchio, sovrastando il rombo del motore e il brusio della città.

Suona un po’ sfacciato – ma ormai la frittata è servita, e può solo proseguire in quella direzione. Suona sfacciato come il gesto di piegarsi su di lui, circondargli le spalle e imprimersi sulle labbra la consistenza leggermente ruvida della sua mascella.

Gabriele si volta di scatto, distolto da ciò che sembra un sogno ad occhi aperti, e l’immersione totale nell’apatia del viaggio si spezza.

- Andrea…! Potevi essere solo tu.

Una vena leggermente acida nella voce, quel retrogusto amaro che ha sempre adorato – e rientra a pieno titolo nell’elenco di quelle cose che non gli dirà mai.

- Che ci fai qui? – incalza Gabriele, gettandogli un’occhiata distratta dietro gli occhiali da sole.

Andrea ridacchia e gli sfiora la nuca – forse sta osando troppo, forse qualche impiccione di passaggio è lì che lo osserva di soppiatto e registra ogni movimento, così che entro poche ore vi sia nuova linfa al Pettegolezzo della giornata. Ma dopo che le labbra di Gabriele si sono stampate su di lui, sarebbe ipocrita classificare il gesto sotto la voce “mediamente imbarazzante” – e il solo pensiero basta a incendiargli le gote.

- Viaggio, no? Cerco di arrivare puntuale a lezione – Andrea solleva un sopracciglio – Esattamente come te.

Gabriele si stringe nelle spalle. Chissà come prenderà l’idea di trascinarselo attaccato alle costole fino al capolinea…

- Non sapevo che avessi lezione di pomeriggio.

Se no avrei evitato di prendere questo dannato autobus. È così?

Le palpebre di Gabriele si assottigliano in una piega indagatrice.

- Non ora – sussurra Andrea, vago – Scendo un attimo alla Casa dello studente. Devo mettere questo carico al sicuro. Se vuoi, però, dopo posso farti compagnia… – ammicca.

Gabriele annuisce, non troppo entusiasta all’idea di tirarselo dietro fino a sera, incollato addosso a mo’ un francobollo. Ma neanche dispiaciuto. E la luce che gli vibra in fondo alle pupille crea un contrasto delizioso con la piega scettica delle labbra.

Andrea distoglie lo sguardo appena in tempo da non risultare ossessivo. Gabriele non lo ammetterà mai, eppure lui ci metterebbe la mano sul fuoco, che in fondo questo è tutto ciò che desidera – o che desiderava un tempo. Essere corteggiato da vicino.

L’altra nota positiva è che non sembra fumato: ha gli occhi perfettamente lucidi e se ne sta sulla difensiva, perché non ha altre barriere da opporre se non mostrarsi scostante. Mediamente acido.

- Non mi chiedi nemmeno… – azzarda Andrea, sollevando davanti a sé il trasportino color lavanda appeso al polso a mo’ di sporta.

Evita per miracolo un paio di scossoni, mantenendo un impeccabile equilibrio dentro il mostro metallico dall’andatura instabile.

- Andre, mi leggi nel pensiero…? – Gabriele sorride appena, fissandolo dritto negli occhi.

E si alza in piedi.

- Vieni, siediti al mio posto. Non ho paura per te, quanto per quel povero gatto… Che hai combinato, stavolta?

- Ho seguito il consiglio di Elena – Andrea scuote le ciglia, enigmatico.

È la mia musa, l’artefice del mio destino: come posso dirle di no, quando mi apre gli occhi?

Andrea si lascia andare contro il sedile, la gabbietta stretta contro il cuore in un inconscio istinto di protezione.

- Volevi fargli prendere un po’ d’aria? – Gabriele solleva un sopracciglio.

- Non è mio… Cioè, veramente lo è. Da oggi – Andrea tenta di modellare le labbra nel sorriso il più attraente che gli riesca – Dicevo… Elena. Il suo consiglio, in pratica, è di convogliare la mia “energia in eccesso” in qualcosa di buono, di costruttivo, anziché starmene lì col coltello tra i denti a meditare vendetta… Testuali parole. Quindi, eccoci qui. Lui si chiama Oscar – socchiude le palpebre sotto un raggio di sole improvviso, e a partire da quell’istante ogni attenzione è per la macchietta bianca che si agita e protende le zampine, ingaggiando una singolare lotta contro la rete metallica.

Forse il micio è così carino che riuscirà nel miracolo di addolcire il signor Sarcasmo da quattro soldi.

- L’hai trovato vicino a casa? – Gabriele corruga la fronte, aggrappato al sostegno del bus.

- Non proprio… Oh, è una lunga storia. Non molto simpatica – forse sarebbe il momento di tacere, ma la vocina dentro la sua testa diventa sempre più debole – Hai presente la scorsa settimana, quando mi sono ubriacato?

Brutta storia. Andrea sente le guance andare a fuoco, ma ormai la lingua ha fatto la sua parte, ficcandolo nel solito vicolo cieco. E ripresentandogli davanti agli occhi la moviola di un’immane figura di merda.

- Come dimenticarlo…! – Gabriele scuote le spalle.

Per poco non si piega in due nel soffocare una cavolo di risata idiota. E se la situazione non fosse così ad alto coefficiente d’imbarazzo, ci sarebbe da rifilargli una gomitata tra le costole.

- Ecco… La sera prima. Quella cazzo di Opel rossa, l’ho tamponata perché questo briccone qua si è tuffato in mezzo alla strada – prosegue Andrea, accennando con gli occhi al piccolo imbucato che sembra aver trovato nelle dita di Gabriele l’appendice ideale su cui rifarsi zanne e artigli.

- Tu sei completamente scemo! – Gabriele scuote la testa – Non per aver preso un gattino… Per tutto il resto.

- Avevo bevuto un po’. Sì, anche quella sera, contento? – Andrea vorrebbe improvvisamente diventare piccolo - più piccolo di Oscar che anela la libertà.

Si stringe il trasportino contro il petto come uno scudo, tentativo disperato di spostare il baricentro del discorso sull’urgenza di allontanare il cucciolo di tigre dal suo pasto a base di dita umane.

- Ah, ecco…! – Gabriele annuisce, sarcastico.

Non aggiunge altro, perché l’ha capito anche lui, che a furia di punzecchiarsi a vicenda, finirebbero solo per incartarsi in discorsi privi di sbocco. Ragazzo intelligente.

A lui, per quanto lo riguarda, è bastata l’infelice prospettiva di tirare Oscar sotto le ruote, per abbandonare da qui in avanti ogni velleità di mettersi al volante dopo un certo numero di birre. E meno male che c’era Elena con lui …

- Senti, l’ho portato adesso dal veterinario – prosegue Andrea – Scendo alla prossima. Lo sistemo provvisorio in camera mia e per un po’ cerco di tenere alla larga i rompipalle. Vieni con me? – scuote le ciglia.

Gabriele annuisce senza entusiasmo. Preferisce perdersi nell’estatica contemplazione del micino che si lecca le zampe, piuttosto che nei suoi occhi supplicanti.

Il peggio è che non riesce a dargli torto…

- Okay, quindi scendiamo alla prossima… – conclude Andrea al suo posto, allacciandosi i bottoni della giacca, con quella vocina impertinente nella testa a ripetergli che, di nuovo, lo sta tirando in una delle sue trovate da folle.

Poi, tutto accade troppo in fretta per rendersene conto.

Ha distolto lo sguardo, il tempo di seppellire la faccia in un fazzoletto di carta e starnutire con sentimento – mentre Gabriele prenotava la fermata e barcollava verso l’uscita. Poi è stato tutto uno stridio di freni e un tonfo di borse rotolate a terra e membra attorcigliate, con qualche distinto “ouch!” di sottofondo.

Il piccolo Oscar ha colto il momento per protestare con un miagolio acuto.

Andrea scuote le palpebre, stordito. Si strofina distrattamente la punta del naso e maledice l’inchiodata del conducente. La prima referenza del disastro in corso è un’istantanea del fondoschiena perfetto di Gabriele, con il suo illustre proprietario che tenta di rimettersi in piedi spazzolandosi i jeans. E una sagoma vagamente umana spalmata sotto di lui.

- Oddio, scusami, scusami, scusami! – è tutto ciò che riesce a biascicare l’incidentato alla cosa appena investita sulla sua traiettoria, la quale al momento giace spalmata a terra.

Andrea si sistema il trasportino sotto il braccio e si solleva in punta di piedi. Le porte del mostro di metallo si spalancano sotto i suoi occhi con un cigolio sinistro. Gabriele gli artiglia un braccio e si risolleva in piedi.

- Si può sapere cosa diavolo hai fatto?

- Giocavo a prenotarti la fermata – gli sibila Gabriele con un’occhiataccia, l’altra mano impegnata a massaggiarsi la fronte – Poi ho avuto una visione mistica e ho pensato di trovarmi ai campionati di salto in lungo…

Andrea spalanca gli occhi.

- Oh, cazzo…! – è tutto ciò che le sue labbra riescono a mettere insieme.

È bastata un’occhiata sommaria oltre le spalle di Gabriele. Sulla cosa che si rialza come se fosse senza peso, con un tintinnio di ferraglia. Un nodo allo stomaco e il sangue che, di colpo, prende a rombargli fastidiosamente nelle tempie.

Tranquillo, Andrea: è il solito karma malefico.

 

* * *

 

- Cosa si mangia a cena, stasera? – Federico Riccardi occhieggia beffardo verso di lei.

Poi ci ripensa e si affretta a rivolgere altrove il suo sorrisetto storto, speculare a quello di Alberti. I due si fissano per qualche secondo e scoppiano a ridere come imbecilli.

Isa solleva gli occhi al cielo, le gambe distese lungo la balaustra di marmo all’ingresso. Solleva la sigaretta e aspira una voluttuosa boccata. L’alternativa è tutta lì. Forse c’è anche l’opzione “tagliarsi le vene”.

Pensare che Andrea l’aveva quasi convinta a smettere di fumare – cosa che, del resto, non sembra essergli riuscita nemmeno con Loria.

- Oggi insalata di finocchi. Interi campi di finocchi – Alberti annuisce, la faccia atteggiata in un sorriso stiracchiato come una concessione al nipotino di quattro anni la mattina di Natale.

Isa serra le labbra intorno alla sigaretta accesa e incrocia le braccia sul petto. Da Riccardi si aspetta questo e ben altri saggi di fine ironia, ma non da Alessandro, che è e rimane un ragazzo munito di cervello. Si chiede che senso abbia, da parte sua, ribadire la sua leadership prestandosi a ogni genere di pagliacciata. Sospira. Forse è il suo modo di radunare intorno a sé il gregge: parlare il suo linguaggio.

- Oh, ma tu non hai sentito la novità… – le sibila Riccardi.

Isa arriccia il naso, un senso di repulsione che le serpeggia in fondo alla gola. Perché, quando sogghigna in quel modo, Riccardi le fa pensare a un imprenditore in crisi di mezza età che assiste a uno spettacolino erotico.

E poi fa una cosa che – Isa si osserva intorno orripilata, come a cercar testimoni – resterà negli annali delle cose da dimenticare o da ricordare come blanda attenuante a un omicidio: allunga una mano e gliela posa sul ginocchio.

Isa dirige il suo sorriso verso Alberti – un sorriso che odora disgustosamente di plastilina, ma non può fare altro. Perché no, c’è troppa gente in giro, e piantargli il tacco nell’occhio non sarebbe elegante.

Non la so, la novità. Illuminami, signor Babbeo. O tu che te ne stai lì a guardare.

- Sono due – Alberti giunge in suo soccorso, flemmatico, appena in tempo da stornare il cataclisma – Due grandi notizie.

- Cominciate da quella buona – cincischia Isa, annoiata, sottraendosi agli artigli di Riccardi con uno strattone e un’occhiata inceneritrice.

- Non ce n’è una buona. Sono orribili tutte e due – precisa Riccardi.

- Iniziate dalla peggiore – Isa china lo sguardo, mentre si riannoda il foulard intorno al collo.

Non c’è motivo per doversi fingere interessata all’ennesima puttanata.

- D’accordo. Fuori la peggiore – Riccardi distoglie lo sguardo come a misurare l’attesa – Tutto iniziò questo pomeriggio, dopo pranzo. Però, scusate, io proprio non ce la faccio, mi fa troppo schifo… Scusami, Alessandro – e sorride, mieloso, ricordandosi di colpo della sua presenza – A te. Ti cedo la patata bollente. Anche se di patate non c’è l’ombra.

- Eh? – Alessandro finge di cadere dalle nuvole – Oddio, quale delle due? Qual è la peggiore?

Isa trasale. Costretta a rimangiarsi una risatina isterica e a chiedersi se Alessandro finga di essere stupido o cerchi di creare aspettative. Non dev’essere facile camuffare la noia.

- Oh, quella! – aguzza le antenne – La scoperta dell’acqua calda!

Attende. Qualche secondo denso d’attesa, come prima di un annuncio di vitale importanza. Le iridi ruotano verso il cielo come ad abbracciare l’intero spazio intorno a loro. Evita il suo sguardo e dischiude le labbra.

Alle sue spalle, Riccardi finge di cacciarsi due dita in gola.

- Derossi e Nicoletti si sono baciati sull’autobus – sentenzia.

Prima mazzata, precisa e impietosa come quella manciata di parole veloci che si accavallano le une sulle altre, scandite con voce indifferente.

- Secondo Giulia e Federico, quei due stanno insieme…

Isa sente la saliva azzerarsi. La morsa di gelo allo stomaco di chi preferirebbe trovarsi da qualunque altra parte tranne nel luogo in cui ha deciso di parcheggiarsi. Non vede la sigaretta fumata a metà rotolarle giù dalle dita in seguito a uno scatto. Non sente la tensione che sale. Tutto ciò che le riesce è maciullare sotto la scarpa quel che resta del cilindretto fumante e calciarlo via.

Respira. Vorrebbe che ci fosse il tempo di razionalizzare la scoperta – almeno vedere quanto vi sia di vero. Ma sa anche che di lì a poco Riccardi sparerà inevitabilmente le sue conclusioni. Rischiando la soppressione a sangue freddo.

Nicoletti e Derossi. Il fighetto-popolare-sotuttoio-primo della classe e il tossicomane arrivista, il belloccio finto tonto che tonto non è.

Il suo miglior amico e il serpente a sonagli, la persona che più di tutte gli abbia mai fatto cadere le palle a terra – testuali parole, biascicate da Andrea una lontana sera al bar, di fronte ad un aperitivo: non lo reggo più, è come un calcio nei denti, lui e i suoi vittimismi, le frasi a metà, le rispostine acide. È sempre scazzato… E Dio sa a che diavolo alludesse. E Derossi che non faceva nulla per nascondere che lo odiava a morte.

Riccardi sa sempre scegliere con maestria il momento in cui versare sale sulla ferita – trattenuto appena da Alberti che, poveretto, ce la mette tutta per evitare incidenti diplomatici.

- Buono, Federico… E dai, ho detto qualcosa di male? Qualcosa che già non sapevate? – Alessandro si gratta il pizzetto, soprappensiero – Stanno a casa loro, eh. Non mordono, non pungono, non sono contagiosi.

- Tranquilli, il cazzo! Ringrazino che non c’ero io, dentro quel benedetto autobus, o sarebbero volati fuori a calci nel culo! – Riccardi solleva gli occhi al cielo, e ogni volta Isa stenta a capire se reciti un pessimo copione o se davvero la viva come una minaccia personale, perché anche stavolta sembra così vicino all’esplosione da non poter trattenere qualche colata di acido.

Il punto è che a Riccardi la cosa non lo tocca di striscio – tranne per la sua bizzarra ossessione secondo cui l’esistenza di un solo ragazzo gay sulla faccia della terra rappresenterebbe una concreta minaccia per le sue chiappe, o chissà cos’altro. Lui e Andrea non sono mai stati amici, non hanno mai avuto nulla in comune.

Tocca a lei, stavolta, agguantare il ferro per il manico rovente. Perché Nicoletti era il suo miglior amico, e ora le sue azioni, dalla prima all’ultima, sembrano uno snervante ribadire punto per punto, una rassegna completa di tutto ciò che una volta non avrebbe fatto manco sotto tortura. Come se ogni suo respiro fosse studiato ad arte per sembrare un dispetto compiaciuto a chi una volta riteneva amico: una farsa crudele con il capovolgimento totale e irreversibile del vecchio Andrea. E questa, in fondo, era anche prevedibile.

- E… quindi? – Isa si osserva le unghie, ma il tamburellare nervoso del piede contro lo scalino tradisce il suo nervosismo.

- E quindi niente, a parte che fanno schifo ai sorci. Stop, fine del discorso.

Ha detto la sua, Riccardi: un muro di fronte ad ogni obiezione. E se non sapesse che è un pirla, Isa penserebbe che veder scorrere il sangue lo diverta – Pensavo che ci tenessi a saperlo.

- Secondo te può fregarmene qualcosa di chi si porta a letto Andrea? – è la risposta, glaciale – Se Andrea pensa di farmi un dispetto o si sente figo a limonare con gente che una volta gli stava sulle palle, è un problema suo. Banalità per attirare l’attenzione – conclude, lapidaria.

- Già, come andare a letto con gli uomini e vantarsene in giro… Patetico! – Riccardi sogghigna, malizioso.

E sposta i suoi occhietti beffardi su Alberti.

- Nicoletti e Derossi! Insalata di finocchi, caro mio – ridacchia – Secondo te, dei due, chi è quello che fotte?

- Per favore, non farmici pensare…! – Alberti storce il naso – Dai, chi se ne frega, alla fine? Saranno anche cazzi loro.

Un taglio netto. Isa tenterebbe di pestargli un piede, se non apprezzasse quel tentativo disperato di insabbiare la questione, di uccidere ogni spunto per sommare fango al fango.

- Scommetto quello che vuoi che la femmina la fa Nicoletti – gli sibila Riccardi, velenoso.

- Perché ha i capelli lunghi e sembra una ragazzina? Nah, troppo scontato… – gli fa eco Alberti.

- Forse non hai tutti i torti… – gli occhi di Riccardi si illuminano – Non saprei. Nicoletti è una checca isterica, ma anche Derossi, voglio dire, mi sembra troppo moscio per prendere l’iniziativa. Secondo me ha una gran voglia di cetriolini sott’olio… – sussurra, concludendo il monologo con un gesto osceno.

Isa deglutisce a fatica – momento cruciale in cui tutto ciò che desidera è vomitare sui jeans buoni di Riccardi.

- Va bene, va bene! – Riccardi mette le mani avanti – Vi lascio il vostro dubbio amletico e, con permesso, me ne vado a lezione – biascica, un secondo prima di volatilizzarsi oltre la porta a vetri.

Resta solo Alberti. L’indecifrabile.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Capitolo 27 - Ineffabile ***


 

Capitolo 27

Ineffabile

 

 

Il dileguamento tempestivo di Riccardi è stata una ventata di sollievo in pieno viso. Il vento canta tra le fronde degli alberi e sembra quasi scacciare il malumore. Se non fosse per Alberti che fa il finto tonto, trovando di incredibilmente interessante la propria immagine riflessa sulla porta a vetri.

- Posso sapere che vi è frullato in testa, stavolta? – Isa gli afferra un braccio, la voce improvvisamente acuta – Che razza di cretinate avete messo in giro?

È troppo tardi per tornare indietro, perché gli ha appena piantato le unghie nella maglia. Non vorrebbe sembrare apprensiva, ma è più forte di lei, perché una notizia dalla dubbia attendibilità è bastata a scalfirla più del necessario. E c’è qualcosa che continua a sfuggirle di mano con ostinazione.

- Ho detto qualcos’altro, che non va? – Alessandro sorride, il sorriso tirato di chi, quando trama qualcosa, ti fa l’onore di renderti partecipe.

- No, tranquillo, non hai detto niente! – Isa si morde il labbro con stizza – Niente di grave! Riccardi continua a fare lo stronzo e tu continui a dargli spago. Gli darai la tua benedizione?

- Oh, sta’ zitta! – Alberti sembra di nuovo serio, lo sguardo fermo dietro i Ray-Ban.

Non si scompone nemmeno per un istante, come un giudice super-partes. Mani ficcate nelle tasche.

- Gli ho solo dato il contentino come si fa coi deficienti.

Come volevasi dimostrare…

– Lo sai, Isa, quanto ho penato per convincerlo che non era il caso di strangolare Nicoletti? – soggiunge – Sai quanto ho penato per convincere il direttore a trovare una soluzione pacifica… che li faccia fessi e contenti? No, non lo sai. A me basta che Riccardi s’illuda di aver vinto e non rompa più i coglioni.

- Bravo, così farà semplicemente peggio – Isa si osserva intorno, disgustata – Si sentirà legittimato a fare lo stronzo, a sparare cattiverie inutili, a stuzzicare Andrea…

Solleva gli occhi al cielo. Ci vorrebbe una soluzione d’emergenza: contare fino a dieci, la prossima volta, prima di andare a includere nel proprio pacchetto di alleanze gente incontrollabile e fuori di testa.

- Preferisci illuderlo di aver umiliato l’avversario, di aver fatto la propria parte, al massimo rischiandoti qualche battutina razzista all’ora di pranzo, o vuoi lasciarlo a piede libero a far danni? – Alberti inarca un sopracciglio.

Isa si morde il labbro, stizzita.

- Secondo me, uno così, prima lo scarichiamo meglio è. Non lo so, questa storia non mi piace per niente – chiude gli occhi: qualche istante per riordinare i pensieri – Per il momento è una palla al piede, più in là può diventare pericoloso. Sembra che abbia come unico scopo cancellare Andrea dalla faccia della terra. Da quella sera maledetta al pub, ciò che fa Andrea sotto le lenzuola è diventato un affare di Stato. Io non lo reggo più, Giulia e gli altri poco – Isa riprende fiato; ignora la vampata rovente che corre ad incendiarle le guance, perché non saprebbe che nome darle, rabbia o imbarazzo – Ti fa così schifo l’idea di levarcelo di torno? – soggiunge, acida – Basta non appoggiare più le sue puttanate, e si troverà qualche altro compare.

- Non è così semplice – Alberti distoglie il viso – Tocca tenercelo buono, controllarlo perché non faccia cazzate – punta lo sguardo verso il cancello aperto, oltre l’ingresso e la strada antistante, le palpebre socchiuse in solenne meditazione – Penso sia un bene per quei due – prosegue – Nicoletti e Riccardi, che si illudano ognuno di aver vinto la propria battaglia, e la piantino definitivamente.

Isa fa per accendere la seconda sigaretta; quella di prima, fumata di malavoglia, non ha fatto nulla per calmarle i nervi. Non potrebbe fare di meglio una stecca intera. Alessandro invece è calmo, ha la faccia distesa di chi sa di avere la soluzione in tasca. Uno stratega di razza, con nervi d’acciaio – a prescindere dai margini di successo.

- Qual era la seconda brutta notizia? – sussurra Isa, a pochi millimetri dalla sua bocca.

Peggio di questo, dubito possa esserci altro.

- Oh, una cazzatina, in confronto. Hai presente il tizio nuovo? Capelli viola, occhi truccati, dark, emo o quello che è…? Pare che lui, Nicoletti e Derossi abbiano attaccato bottone in autobus. Un’allegra combriccola di sfigati sessualmente ambigui – e sorride, Alberti, le mani che indugiano sulle sue spalle.

Gli occhi luciferini.

- Un’associazione a delinquere, vorrai dire – lo precede Isa – Con Loria al vertice.

Il rigurgito di collera non può fare a meno di tramutarsi in veleno tra le parole. È più forte di lei, proprio non riesce a sopportarlo: un’inutile gattamorta a capo della fazione ribelle.

- Ma dai, stavo scherzando! – Alessandro si stringe nelle spalle – Cosa vuoi che me ne importi in che rapporti stanno quei tre, se si conoscono o altro…? Dai, siamo seri! – riprende, passandosi una mano tra i capelli – Si saranno scambiati due parole, ed è finita lì. Il resto è aria fritta e tutte le cazzate che ci hanno ricamato intorno.

Che ci avete ricamato intorno. Tu e il tuo dannatissimo asso nella manica.

Isa solleva gli occhi al cielo. Può immaginare la scena madre: tre perdenti che fraternizzano e un idiota qualunque che si fa i suoi film mentali. Riccardi avrebbe usato metafore più colorate. Tipo le icone del frociume riunite.

Forse Riccardi se ne tornerà dalla sua Angelica “the body”, le giurerà che lui non è assolutamente frocio, che toccherebbe Andrea al massimo per menargli. Forse avrà già qualcun’altra a scaldargli il letto, e abbandonerà una volta per sempre la sua crociata ridicola. Male che vada, se la cosa andrà avanti, otterrà solo di ritrovarsi tagliato fuori con un calcio nel sedere: lo può fare e non esiterà – per Alberti sarebbe un giochino da principianti.

Osserva Alessandro. Il suo carisma non è uscito troppo ridimensionato dalla polveriera inesplosa che fu lo sputtanamento di Neri e soci e la rivoluzione di Andrea, insulso cappone che ha rivoltato l’Accademia a testa in giù per niente.

- Mi piaci – sussurra, sfregando le labbra l’una contro l’altra.

- Eh? – Alberti solleva un sopracciglio.

Imprevisto a ore nove - puntare - fuoco!

- Mi piace come ragioni – Isa sorride, le labbra distese – Mi piace come li muovi, tipo burattini, e loro lì, prevedibili.

Alessandro scrolla le spalle.

- Non ci vuole un genio: basta fargli credere che hanno ottenuto quello che vogliono. Che ognuno di loro ha la sua sacrosanta ragione – sogghigna – Con Riccardi funziona sempre. È… scontato, vuole tutto e subito, il mondo gira intorno a lui e poche storie. Ha un’unica idea bacata nella testa e quella porta avanti: è bianco o nero, senza sfumature. Vuole la testa del nemico? Benissimo: facciamogli credere che Andrea sia capitolato e sconfitto, che abbia scomodato tutti i santi per restare a bocca asciutta. Non so se la cosa potrà funzionare con Andrea… – Alessandro dischiude le labbra, e adesso quel generico sorriso è una risata trattenuta – Ma possiamo lavorarci.

Isa sospira. Andrea basterà prenderlo dal lato giusto, il lato del bambino che pesta ai piedi e dà di matto. Non sarà difficile inquadrarlo: è uno che ha perso per strada il suo neurone funzionante e si diverte a sposare ogni patetica battaglia persa. Forse è sempre stato così, forse ha solo levato la maschera sullo sfigato attaccabrighe in cerca d’attenzioni che è sempre stato, e il gioco gli è tragicamente sfuggito di mano.

Fatto sta che, dal primo momento in cui ha messo piede al “Goldoni”, il suo miglior talento è stato rompere il cazzo a tutti e su tutti i fronti.

E Alberti non si accontenta delle briciole: li controlla a distanza di sicurezza. Tutti. Persino Andrea che si crede un dio e porta a spasso il suo ego ipertrofico su e giù per l’Accademia, il naso puntato in aria e Loria che gli soffia nelle orecchie la verità suprema.

- Te l’ho detto: mi piace – ripete Isa.

E lo fissa dritto in faccia, interrogativa. È meglio concentrarsi su di lui, ora. Su Alessandro che socchiude gli occhi sotto un raggio di sole impertinente.

- È un modo velato per chiedermi di uscire con te?

Isa annuisce. Un mezzo sorriso che le affiora sulle labbra senza che nemmeno se ne accorga. Osserva Alessandro, la pelle dorata sotto la luce viva.

È carino. Non è bello come Derossi o particolare come Andrea, ma lo sguardo buca come una lama: dà l’idea di uno che non si lascia sconvolgere da nulla, sempre con quella piega indolente sulle labbra. È convinto di sedere dalla parte della ragione, di poter carpire il nocciolo della questione sempre una frazione di secondo prima degli altri. Come se reputasse il resto del mondo indegno di lui, ineffabile maestro di inganni. Non tradisce incertezze neppure quando lei si solleva in punta di piedi e gli stampa un bacio sulle labbra. E sorride, vittoriosa.

 

* * *

 

Se Andrea dovesse elencare “le cose che ti hanno colpito di Alexander Thompson”, in quel mordi-e-fuggi dentro e fuori dall’autobus, direbbe l’ironia del cazzo. Prima dei gusti discutibili in fatto di look. Non che non gli doni, ma se uno ha come proprio obiettivo quello di uscire sano da una tana di belve, non è un buon biglietto da visita.

Si è mostrato gentile, per la seconda volta. Sin troppo – sempre che non faccia tutto parte di un machiavellico piano per introdursi pian piano nella sua cerchia e poi soffocarlo nel sonno.

Ha cavato fuori un paio di frasi di circostanza con voce strascicata, accennando alla loro comune fobia per i mezzi di trasporto. Fobia sua e di Gabriele. Ha tentato di sdrammatizzare con qualche battuta scema, ed è raro trovarti sorridente e bendisposto al dialogo, dopo che un affare di un metro e ottanta con borsone a tracolla ha appena tentato di ridurti allo status di sottiletta.

Andrea cerca di sorridere: se lui guida come un pirata con qualche cassa di rum in corpo, Gabriele è instabile pure sulle sue gambe. Accoppiata grandiosa.

L’impressione non è del tutto nera, eppure no, non riesce a separare il volto di Alex da quella prima sensazione di neutralità impersonale, da quella formalità fastidiosamente politically-correct decisamente artefatta. Niente da fare: forse non è giornata.

- Senti, per la macchina non c’è problema – gli sussurra Alex, spezzando il filo dei suoi pensieri.

Si è ravviato i capelli scuri che gli ricadevano sulla faccia e ha parlato.

Andrea scuote il capo, sorprendendosi a fissare con inedita curiosità la mano ossuta che scorre tra i capelli. Artigli laccati in verde petrolio e capelli palesemente troppo viola.

Se Riccardi, dopo la blanda lavata di capo del direttore, avrà ancora voglia di imperversare con le sue menate omofobiche, troverà il materiale che più si addice al suo palato.

Tutto ciò che puoi fare, quando sei a corto di parole, è annuire. Dall’altra parte c’è solo Gabriele che non fa una piega, e di certo stasera si farà grasse risate per quella momentanea defaillance.

- Devi scusarci, davvero – sussurra Andrea, più a se stesso che al resto della ciurma.

Sono appena sbarcati di fronte alla Casa dello Studente, sul marciapiede di cemento incendiato dal sole – e bianco come un miraggio.

Andrea socchiude gli occhi, evitando di respirare a pieni polmoni lungo il vialetto alberato che lo separa dall’ingresso. Tutto, adesso, ma non un attacco d’asma improvviso.

Si volta indietro. A un paio di passi da lui, c’è solo Gabriele che si accende una sigaretta. E Alex che continua a scostarsi i capelli dalla faccia.

C’è qualcosa di fastidiosamente sospeso che continua a rimestargli nella testa, a tenerlo in un costante stato d’allarme. Ignorando disperatamente il bruciore agli occhi, Andrea si concentra su Alex che procede ciondolando al suo fianco. Lo scruta di sottecchi. No, è inutile: è bastato il primo incontro a dirgli che la cosa non avrebbe preso una buona piega. Il tamponamento e qualche birra di troppo a ficcarlo nei guai, e ora Gabriele che gli piomba addosso e per poco non lo riduce in poltiglia.

Due incontri ravvicinati in circostanze sfigate non sono abbastanza per poter inserire il nuovo acquisto dentro la casella dei simpatici o degli antipatici. È stato gentile persino dopo l’ennesimo disguido, di una gentilezza ruvida, di circostanza.

Ma. È tutto dire: per quanto provi a imporsi di non affibbiare etichette sulla base del nulla, non riesce a trovarci nulla che non sia poco più che incolore: è come uno che ce la mette tutta a non lasciar capire ciò che pensa, neanche dopo due incontri-scontri su due.

Visto da lontano gli era sembrato piuttosto bello: ora che lo osserva bene, tolta la bardatura, non resta molto. La linea squadrata della mascella fa vagamente a pugni con le ciocche ribelli che gli spiovono sulla faccia, sugli zigomi appuntiti che gli conferiscono un’aria emaciata. La bocca, carnosa e vagamente larga, sembra sempre incurvata in un mezzo sorriso.

- Senti… – azzarda, dopo un intermezzo di silenzio imbarazzato - non che Gabriele, il traditore, abbia dato un gran contributo a trarlo d’impiccio – Ma sei proprio tu l’Andrea Nicoletti di cui parlano tutti?

Terra chiama Andrea. Puoi essere solo tu. Il tipo con i capelli lunghi e il viso da ragazza, la mimica facciale di chi ha appena ingoiato un limone acerbo.

Possibile che lo sputtanamento sia arrivato pure alle orecchie dell’ultima recluta?

Andrea scuote il capo, infastidito. E annuisce.

Era questo il problema?

- Non importa – si affretta a correggersi Alex, agitando la mano a vuoto – Puoi… prenderti tutto il tempo che ti serve. Per la macchina, dico – e riprende a osservarsi la punta delle scarpe.

Comuni anfibi neri – grazie al cielo…

- Eh?

- No, dicevo. C’è qualche graffio sulla carrozzeria e il paraurti un po’ ammaccato – sorride, Alex comecavolofadicognome, con l’anellino d’argento al labbro che luccica a ogni movimento – Pensavo peggio.

- Uhm… per me non c’è problema, allora – Andrea si sforza di ricambiare il sorriso, ma le sue parole somigliano a un’eco svogliata, come se tornare cento volte sullo stesso rassicurante concetto riuscisse a farlo sentire meglio – Cioè… ho fatto una cazzata. Poteva andarci di mezzo qualcuno…

E adesso, ti prego, non dirgli che eri mezzo ubriaco. Non dirglielo per amor del cielo. Almeno per i prossimi trecento anni.

Alex annuisce, lo sguardo calamitato dal cucciolo addormentato nel trasportino. Poi vira verso la porta a vetri che scorre al suo passaggio – Andrea scommetterebbe su ciò che ha di più caro che stia cercando di controllare se ha la matita sbavata. O di trovare un pretesto qualsiasi e darsi alla fuga.

- Okay. Restiamo d’accordo così…? – Alex ammicca.

Andrea annuisce di rimando, un mugugno appena comprensibile.

- Tanto ci vediamo più tardi – Andrea scrolla le spalle.

E ne riparliamo con calma. E ci mettiamo una bella pietra sopra, sopra questa storia assurda.

- Già… – Alex sposta lo sguardo verso l’angolo bar – Hai fatto domanda anche tu per lo stage?

Avevo. Andrea si stringe nelle spalle, una fitta remota in fondo al petto. Qualcosa che pizzica ancora, che stira la pelle come una vecchia cicatrice. Stringe i denti: è saltata fuori senza preavviso, ma non la farà riemergere adesso. Perché se non gli fosse mai importato nulla, dello stage e di tutto ciò che l’isteria collettiva ha mosso intorno a lui, concluderebbe con un “vacci tu, tesoro, se proprio ci tieni”.

Fatto sta che in cinque minuti scarsi di conversazione Alex ha avuto come un sesto senso, sfiorando tutti i punti dolenti.

- In realtà non mi sono neanche iscritto – Andrea ridacchia, e deve obbligarsi a mantenere fermo lo sguardo.

 

Bugiardo. Lo sai che stai mentendo – hai provato a tirarti indietro in quattro e quattr’otto, mentre stampavano il nuovo bando di selezione. Dopo che Neri ha ceduto lo scettro e dopo che hai rinunciato a qualcosa che avrebbe dovuto spettarti di diritto.

 

E allora rifate le cose come si deve, stavolta, pulite, senza di me, e non c’è trucco e non c’è inganno – nella misura in cui la presenza di Eleonora Balducci in commissione possa dirsi una garanzia.

 

Il suo nome è ancora lì tra quelli papabili, inserito nell’elenco come una beffa. Nicoletti Andrea classe 1989, nato a Cagliari un giorno qualunque di cui non importa niente a nessuno; professione, rompicazzo.

- Io mi sono iscritto all’ultimo momento – Alex si gratta la testa, pensoso – È stata la Balducci a darmi la dritta. Ma non ci spero molto. Voglio vedere che succede…

 

E allora, bravo o meno bravo, caro novellino, è il tuo rito d’iniziazione: pronto a farti fare marameo da un Alberti qualunque o da una Isa Cortesi che sgomita come un’invasata.

A meno che non sia proprio tu il raccomandato d’oro di Sua Maestà, anche se non ne hai la faccia.

 

Andrea solleva gli occhi al cielo. Così teso che il sopraggiungere di Gabriele, annunciato da una mano posata sulla spalla, è sufficiente a farlo trasalire.

- Sarà il caso di rientrare, che dici? – gli sussurra, abbrancandolo per un braccio.

Andrea annuisce, stordito. Ha gli occhi che ormai vanno a fuoco, e l’immagine di Gabriele ondeggia sfocata oltre il velo di lacrime che gli impiccia la visuale. La brezza rovente gli penetra fin nelle ossa – quel caldo prosciugante, feroce, che ignora le barriere dei vestiti. Come il braccio che Gabriele gli ha allacciato intorno alle spalle, spingendolo dentro al sicuro. Rovente contro la sua schiena.

E una volta dentro, col soffitto color ghiaccio sopra la testa, quattro pareti rassicuranti e l’aria condizionata sparata in faccia, di colpo sembra di nuovo tutto normale. Compreso Alex, che biascica qualcosa sullo stage, lui e la sua faccia da cucciolo smarrito che non sa come congedarsi, fa “ciao” e caracolla verso il bar.

Resta Gabriele e i suoi occhi indecifrabili. Non ha assistito all’ultima parte del discorso: è troppo calmo e troppo a suo agio. Accendersi una sigaretta e fumarsela senza guardare in faccia a nessuno, gli occhiali neri calati sul viso, è stato il suo modo migliore per dire che non aveva nessuna voglia di fare da comitato d’accoglienza e spiegare al nuovo arrivato da chi debba guardarsi le spalle – per quello ci sarà tempo. Si è giusto ricordato di ruminare una specie di saluto a scoppio ritardato, per poi dedicarsi completamente a lui e al suo hobby preferito: cuocerlo a fuoco lento.

- Preferisci un colpo di sole o una crisi allergica? È una tua scelta… – arriccia il naso, altezzoso.

Un carro armato avrebbe maggior delicatezza.

- ‘fanculo, Gabri! – sbotta Andrea, raddrizzandosi gli occhiali – Non mi diverto a riempirmi di antistaminico e dormire mentre la Balducci fa lezione. Quasi quanto mi diverto di più a sorbirmi Alberti che fa il leccaculo…

Gabriele prorompe in una risatina discreta, di chi vuol godersi il suo disagio.

- Okay, okay. Giornata storta.

Andrea si ficca le mani in tasca, di scatto, il trasportino con Oscar abbandonato nello spazio libero tra i suoi piedi e la parete alle sue spalle. Forse riuscirà a passare inosservato. Lo sguardo puntato sulla parete di fronte – dove, malauguratamente, non c’è nulla di abbastanza insolito da meritare attenzione –, ostenta indifferenza.

- Storta? Non proprio. Finché non è arrivato quello lì… a ricordarmi che sono in debito con lui. E che sono un coglione e che poteva finire male. Ah, e il colpo di grazia dello stage che, non si sa come, ogni tanto torna a galla…

- Sull’incidente, in un certo senso ha ragione – Gabriele solleva gli occhi al cielo, pensoso – È stato anche troppo buono

Si osserva intorno con nonchalance, in attesa del “via libera”, per poi sollevare il trasportino e fargli strada su per le scale.

- E il micio, quanto pensi di poterlo tenere?

Eccolo, l’interrogativo di importanza immediata.

- Finché non trovo una sistemazione decente. Meno che posso – un improvviso brivido di orrore gli serpeggia lungo la schiena, un istante, ma subito cerca di scacciarlo via – Non ricordo se il regolamento preveda di potersi portare il proprio gatto, e non vorrei diventasse il pretesto per venirmi a rompere le scatole.

- Basta così, Andre! – Gabriele nasconde il trasportino dietro le spalle; si osserva intorno, circospetto, lo sguardo teso sotto le ciglia scure – Mi fai ridere.

- Ti faccio… ridere?

Speravo di suscitarti qualche sensazione più soddisfacente per la mia autostima, vorrebbe aggiungere. Ma preferisce morsicarsi la lingua a dovere.

- Ma sì, è come se fossi sempre lì sul chi va là. Come se stessi facendo qualcosa di male ogni volta che ti muovi…

Tante grazie, ma sai, qualcuno me l’aveva già detto. Tipo quando avevo tre anni. Sarà mica allora che ho cominciato a fare “qualcosa di male”?

Gabriele continua a sorridere – Andrea si domanda perché non se ne sia accorto prima. Ha un paio d’occhi d’ambra così ben incassati nelle palpebre sottili, così luminosi quando sorride, che pure quel canino vagamente vampiresco prende una luce tutta sua.

C’è un’intera costellazione di motivi per cui, sì, dovrebbe sorridere più spesso.

Non si limita a sorridere, Gabriele. Indugia sulle sue labbra in punta di dita, per poi sporgersi in avanti – una frazione di secondo – e sfiorargli la punta del naso. E scendere fino alla sua bocca e posarci la sua. Un singolo istante di vertigine, lontani da sguardi indiscreti. Un tripudio di brividi lungo la gola e la nuda parete come appiglio. Sospira, e ogni centimetro della sua pelle vibra in una carezza infinita, dalle sue labbra protese fino alla punta delle ciglia.

Si è lasciato andare, immerso nel suo sonno d’ovatta. La mano che trema sull’intonaco polveroso. E adesso potrebbe morire felice, con le labbra di Gabriele aperte e brucianti sulle sue, le palpebre socchiuse in quel sogno e qualche granello di luce impigliato alle ciglia.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Capitolo 28 - Odi et amo ***


 

Capitolo 28

Odi et amo

 

 

Penso di odiarlo profondamente, Nicoletti. O forse è una cosa a pelle, non proprio odio, ma una specie di avversione fisica.

La cosa che non sopporto di lui è che non si vergogna nemmeno. Di essere com’è. Se ne va in giro felice e fiero di essere sputtanato, senza rispetto per se stesso.

Cosa ci fa di nuovo qui? Vuole soffiare sul fuoco? Sedersi sul cumulo di immondizia che lui stesso ha creato, e vedere di nascosto l’effetto che fa?

Mi sfugge, mi sfugge davvero con che coraggio si sia presentato. Anche oggi. Onnipresente. Vuole il tappeto rosso o si accontenterà della lapidazione?

È assurdo… Ha mosso mari e monti per essere depennato dalla lista dei candidati per il suo benamato stage, quando le trattative erano già in corso; ha scalpitato come un dannato quando qualcuno gli ha rinfacciato che l’altra volta avevano preso lui per il solo merito di aver usato la lingua con Neri – in tutti i sensi…

E adesso? Si tira fuori dai giochi quando ormai le porcate sono uscite allo scoperto! E se pure nessuno ha fatto il suo nome, chi può essere così cretino da non sospettare di lui almeno per un istante?

Siamo qui almeno da mezz’ora, un’anticamera di tre metri per due con un misero divanetto per lato e un corridoio per passeggiare. Vicino all’Aula Magna, in attesa dell’anima pia che verrà ad appendere in bacheca la benedetta graduatoria; e giurerei che la cosa non faccia tanta gola come una volta, dopo tutto il letame che ci hanno buttato sopra. Piccoli e grandi scandali trascinati così a lungo da annacquare il discorso, da perdere di vista l’obiettivo; da renderti l’intera faccenda indigesta. Nessuno vuole l’eredità scomoda di Nicoletti.

Ci sono proprio tutti, appollaiati tutt’intorno come avvoltoi. Tutte le teppe. Aspettano la tromba del giudizio. Sbuffano, vanno avanti e indietro per il corridoio; ogni tanto posano le chiappe sul divano, sparano due cazzate e riannodano i fili del discorso. Sorridono e ogni tanto vola pure qualche badilata verbale – è inutile, Isa, che cerchi di attutirla sotto il guanto di velluto.

Seduta di fronte a me, finge di non vedermi e si mordicchia gli artigli dipinti di rosso con l’aria del gran predatore. Al suo fianco, Alberti. Non so che abbia da agitarsi tanto, ma sembra che gli abbiano messo puntine da disegno sotto il culo. Si siede, si rialza, passeggia in tondo, origlia qua e là. Punta le mani sui fianchi e si guarda intorno con la faccia di chi aspetta il giudizio universale. Nei panni dell’avvocato dell’accusa.

Poi c’è Loria che ogni tanto sparisce e riappare come un temporale a Ferragosto. Giuro che se non si conciasse come la moglie di Dracula, sarebbe anche praticabile. E se non ti guardasse come se volesse incenerirti sul posto. Malattia piuttosto diffusa.

Su, vai, cara, da brava: perdi anche tu un po’ di tempo a misurare il corridoio. Esci a prenderti un caffè oppure fatti una doccia fredda, ché temo che oggi il tuo amichetto Andrea penda più da quell’altra sponda e abbia una gran voglia di ripassarsi Derossi in mondo visione.

Giulia ha appena optato per la stessa soluzione: levarsi dalle palle. Si fissa la punta delle scarpe e accenna a Isa. Che sceglie proprio quel momento per voltarle le spalle e accucciarsi contro la spalla di Alberti. Tempismo perfetto. Giulia si alza in piedi. Fissa la parete, poi punta lo sguardo su di me. E ci capiamo al volo. È ufficialmente cominciato il festival dei mugugni.

- Era frocio, capito? – sai la novità! – Isa voleva mandarmi a letto con un dannato frocio!

Ingenua: come se uno con quella faccia potesse essere etero…! Eppure ci aveva preso per i fondelli con tutta la storia di Blanche, che sinceramente mi fa un po’ pena, visto che, tra tanti, la sua scelta era caduta proprio su Derossi e Nicoletti. Della serie, di due non ne vien fuori uno.

L’unico pesce fuor d’acqua sembra il nostro nuovo acquisto. Che, a quanto ho capito, non ha molto a che vedere con il programma di scambio, e non ho capito bene da dove sbuchi. Si è iscritto in quattro e quattr’otto alla selezione, si è fatto il suo bravo esame in gran segreto, e adesso è qua ad attendere il responso. Povero pulcino, non ha capito con chi ha a che fare, o non si spiega perché continui ad andarsene in giro in divisa da emo e a passeggiare in campo minato, incurante delle beffe e del ridicolo.

Oddio, la tenuta da emo posso anche capirla, perché anche a me verrebbe voglia di tagliarmi le vene, se dovessi sciropparmi i gemelli Lastella che tengono il loro banchetto quotidiano a base di cazzi altrui sulla mia pellaccia. Sono gli unici, col loro dannato gazzettino, ad averci guadagnato qualcosa con questa storia. Mo’ aspettano il colpo di scena finale e, se dovesse finire in rissa, sono certo che se la farebbero sotto dalle risate. In attesa dell’apocalisse, preferiscono radiografare Dracula, informarsi sul suo piatto preferito a colazione e sulla frequenza con cui si cambia le mutande.

Penso che Nicoletti dovrebbe baciare la terra dove camminano, visto che dopotutto è grazie a quei due avvoltoi e alla loro carta straccia, se è entrato nella leggenda e lo scandalo delle raccomandazioni ha fatto il giro della città.

E poi, dulcis in fundo, lui. Il dannato Nicoletti. Seduto in riva al fiume, il fiume d’acqua sporca che lui stesso ha voluto.

È qui per lo stesso motivo di tutti gli altri: godersi un finale da gran cinema. Anche se della sua presenza si potrebbe fare serenamente a meno.

L’ho capito, che ti piace che si sparli di te… Purché se ne parli. Purché non ci si dimentichi in fretta della tua esistenza. Ti fingi annoiato – quando in realtà gongoli del casino che hai imbastito tutto da solo. Sbadigli, ti allunghi sul divano e poggi la testa sulle gambe di Derossi. Disgustoso pure quando respiri. L’abbiamo capito che sei frocio fino al midollo, cocco, non servono pubbliche dimostrazioni.

Ecco, non capisco com’è che le donne gli vadano dietro – un po’ meno, forse, da quando ha ufficializzato che gli piace la pannocchia. Passi Giulia. Passi l’oca bionda d’oltralpe. Loria che ha il gusto dell’orrido, e vabbé. E Isa, che pure se non lo ammetterà mai, l’hanno capito anche i sassi che rosica perché voleva farsi un giro in giostra e non ha avuto l’occasione.

Vorrei sapere dove lo trovano bello. Da vicino è terribile, con quell’odioso nasetto all’insù da checca e la fronte a cuore: una via di mezzo tra tua zia e un personaggio de “Il signore degli anelli”. E poi fa paura. Come si muove. Striscia nell’ombra, ti fissa con quegli occhi assurdi e se ne vien fuori con la pirlata del secolo. O ti sputa addosso il suo veleno.

Sì. Penso seriamente di detestarlo. È come qualcosa di viscido che ti s’incolla addosso, che ti obbliga a guardarlo. È proprio la sua faccia a farmi ribrezzo. I suoi capelli, quei dannati riccioli da femmina, come una malattia, come un prurito, una lebbra.

Comunque vada, le ha avute vinte, il bastardo. Può godersele tutte.

Tu schiocca le dita, e presto o tardi il mondo si piega: bella lezione di vita!

Cosa c’è, caro? Non sopporti che il sottoscritto ti definisca coi termini che ti si addicono? Frocio di merda, non è il minimo? Dovrai farci l’abitudine.

Ma insultare il divo dell’Accademia equivale a ostracismo sociale per delitto di lesa maestà.

E intanto lui è ancora qui. Che si stiracchia sul divano come una lucertola sotto il sole. Schifoso.

Sposta le chiappe, amico, ché ti stai sbafando due posti a sedere, e ho seriamente paura che tra un po’ cominci a limonarti il tuo amichetto in diretta su Sky.

E basta, lo odio. Ma non posso fare nulla, finché ha Derossi come nume tutelare. Non che abbia paura: la sua parola vale come il due di picche. È che sembra abbastanza incattivito da scattare da un momento all’altro. Si capisce da come ti fissa, dietro quei dannati occhiali fumé che non si toglie neanche quando va al bagno. Gli servono a nascondere le occhiaie da tossico o forse per non far capire dove guarda… Vigliacco fino alla punta dei capelli, fino alle cazzate più insignificanti. Non so se sia la roba che si fuma o altro, ma ha sempre l’aria di uno che può distruggerti e godere della tua rovina. Gabriele “ti spiezzo in due” Derossi! Con due occhi assurdi e la rabbia che se lo mangia. Peccato sia troppo codardo per spezzarti in due sul serio: lui è quello che ama giocarsela sottobanco e dispensare cattivi consigli.

 

* * *

 

- Riassegnazione chirurgica del sesso. Hai letto, Nicoletti? Roba per te. Così magari ti metti l’anima in pace.

Una sferzata improvvisa ti riafferra dal baratro dell’apatia dove ti crogiolavi con gioia, riportandoti duramente alla realtà. Una voce nella testa ti dice no, Andrea, non è il momento di tornare da capo sul tuo Calvario quotidiano. Riaprire quella maledetta porta e fare – metaforicamente – a botte con un ossessivo Riccardi. Non oggi che le acque sembravano abbastanza calme da poter sonnecchiare in pace.

Ti facevi i cavoli tuoi fino a un attimo fa. Volevi porre fine quanto prima alla sessione di tortura di mille occhi puntati addosso. Convincere Derossi a venire con te e reggerti il gioco ti era parso un compromesso accettabile. Perché, sì, vuoi vederlo con i tuoi occhi, come andrà a finire una certa faccenda. Vuoi vederci calare la proverbiale pietra sopra.

Poi Riccardi ha deciso di dimostrare a tutti che anche lui ha imparato a leggere: ha aperto un giornale a casaccio, ha letto due righe e ci ha ricamato sopra l’allusione a cazzo.

Forse è la nebbia del torpore pomeridiano, ma ti sfugge il senso – se mai ce l’abbia. Un senso. Va bene anche uno perverso. E poi basta, perché la curiosità è più forte del desiderio di pace.

- Che ci azzecca, scusa? Stai imparando nuove parole?

La regola numero uno – non dar corda ai deficienti – è appena finita giù dalla finestra: basta un’occhiataccia di Gabriele a ricordartelo. Con un’alzata di sopracciglia e una ritirata strategica verso la macchina del caffè.

- Ma sì, magari è la volta buona che raggiungi la pace interiore e la smetti di vantarti di quanto sei frocio – una colata di veleno con tutti i crismi del caso, accompagnata da una risata maligna.

L’insana passione nel provocare fino a far guizzare le fiamme.

- Riccardi, questa te la sei sognata stanotte? No, spiegami. Perché non vedo un senso.

- Ti senti femmina? – Riccardi sogghigna; così tanto che, d’istinto, ti fa serrare i pugni – È per questo che corri dietro agli uomini? Ti piace prendertelo in quel posto?

- Io non corro dietro a nessuno! Fatti i cazzi tuoi!

- Non fai nulla per nasconderlo.

Riccardi si è appena avvicinato. Ha messo giù quello stupido giornale – una sagoma stropicciata e informe ai suoi piedi – e ha schiodato il culo dal divano. È così vicino da farti ritrarre d’istinto. Gabriele sembra orripilato.

- Perché dovrei? La cosa ti offende?

- La tua vista è un’offesa, Nicoletti. Hai cercato di farmi sbattere fuori perché ti ho gentilmente ricordato chi sei.

Sorride, Riccardi. Il sorriso di chi sta sparando le ultime cartucce. La sua è pazzia senza metodo: va a braccio, lancia sul tavolo ciò che ritiene in grado di irritarti abbastanza, e attende la tua prossima reazione. Non si è accontentato del nulla di fatto, del direttore che ha preferito glissare e seppellire la questione sotto uno strato di indifferenza.

- E cosa sarei? – sospiri: non hai voglia di discutere, di affrontare schermaglie verbali, di mandarlo affanculo.

Preferiresti che la terra sotto i suoi piedi facesse per te il lavoro sporco e se lo inghiottisse in questo preciso istante.

- Uno schifoso effeminato.

- Ti disturba? Ti senti minacciato? – appena lo sforzo di aprire un occhio e sollevare un sopracciglio nella sua direzione.

- Tu disturbi. Pretendi che il mondo si modelli sui tuoi capricci. Che tutti la pensino come piace a te – sentenzia – Peccato che sia in fottuta minoranza.

- Questo è assurdo! – ti sollevi a sedere, stavolta, una risatina improvvisa che raschia in fondo alla gola, perché la barriera dell’assurdo è un lontano ricordo – Ti ho cercato? No. Puoi pure andare a suicidarti.

- Sempre simpatico! – Riccardi ricambia nervosamente quel riso di scherno – Ti sei dimenticato dei casini che hai combinato? Risse, scherzi idioti, messinscene, sospensioni…?

- Si chiama legittima difesa, Riccardi – distogli lo sguardo, desideroso di troncare la questione al più presto, perché è chiaro come il sole che qualcuno vuole la lite – O preferisci un edificante dibattito “ho cominciato io, no, hai cominciato tu”?

- Ti lamenti se qualcuno ti attacca? – Riccardi arriccia il naso – Ma se è più o meno dal giorno che hai messo piede qua dentro che rompi il cazzo a tutti… Pretendi che a qualcuno, dopo un po’, non girino le scatole?

- Per esempio? – lo interrompi – Quand’è che ti avrei rotto il cazzo? Quando respiro la tua stessa aria? Scusa, eh, ma per quello non posso farci niente, anche se confesso che mi fa un po’ schifo.

- Non fare l’innocentino! Siccome sei frocio e ti senti discriminato, vorresti che tutti fossero come te o ti appoggiassero. Non accetti pareri contrari.

Spalanchi gli occhi. Questo è troppo.

- E tu dovresti accettare una visita da un bravo psichiatra. Io vorrei che gli altri diventassero gay? Che tu diventassi gay?! In che universo?

- Vorresti che i tuoi… viziacci – azzarda – fossero normali.

Stavolta ti limiti a sollevare gli occhi al cielo. La pazienza è agli sgoccioli: la senti scivolare via come una maschera di cera.

- È normale pure che tu non capisca un cazzo, eppure mica ti uccido! Senti, se proprio ti piace farti di crack, va’ a rompere da un’altra parte.

- Lo vedi? Hanno tutti torto! Tranne te. Tutti sono cattivi, drogati, pazzi e stronzi. Quando si tratta di te.

- Ma ti sei sentito? – non vorresti, ma ce n’è abbastanza per alzare la voce – Spari cazzate. Ti fai i tuoi castelli in aria. Non hai la minima idea di cosa parli, però sputi sentenze a cavolo e pretendi che gli altri ti diano retta. Pensi che sia tutta una congiura contro di te, quando per me, e non solo, potresti andartene all’inferno e non farebbe alcuna differenza. Dovresti poi citarmi l’ora, il minuto e il secondo in cui sarei venuto da te a romperti l’anima, a importi di fare qualcosa o inculcarti un mio pensiero.

- Adesso, per esempio – Riccardi sogghigna – Tutte le volte che salti su come se ti avessero infilato un palo nel fondoschiena, appena dico che non piacciono i froci.

- Ma guarda, per me può piacerti anche tua nonna! – annuisci, annoiato – Finché la tua schifosa omofobia si limita a te da solo, davanti allo specchio, che ripeti cento volte “che schifo i froci”, per me puoi crepare.

- Bisogna rispettarti e dartele vinte perché sei tu, naturalmente… – Riccardi si avvicina ancora, la voce falsamente zuccherosa.

Adesso è a una ventina di centimetri. Distogli lo sguardo, d’istinto, perché tutto ciò che vorresti è svegliarti dall’incubo. O che fosse tutto uno scherzo idiota. Che Riccardi non sia davvero così, tragicamente stupido. Ossessionato e ossessivo. Che stia bluffando per far scorrere il sangue.

- O forse perché, se a te piacciano le ragazze e a me anche i ragazzi, non dovrebbe fregartene un accidente.

- Però rompi… È così per tutto. Sempre – Riccardi solleva gli occhi al cielo, e per un istante sembra quasi crederci davvero.

Almeno a un terzo dei suoi sproloqui.

- Ho mai provato a rendere obbligatorio per legge che tu almeno una volta in vita tua vada con un uomo? No? Perfetto. Sei sempre in tempo per suicidarti: rinnovo l’invito – gli soffi – Insomma… evapora, volatilizzati, fa’ qualcosa.

- Tu vuoi che il mondo si pieghi a te. Anche se la maggior parte della gente non è come te. E per fortuna! Vorresti che le tue… stranezze diventassero legge. Che tutti ti assecondassero in tutto, come si fa coi bambini – Riccardi arriccia le labbra, uno sguardo indecifrabile, o forse si è davvero fritto il cervello.

Sospiri. Vorresti restare indifferente, scivolare via e lasciarlo parlare al muro, ma il guizzo improvviso che ti contrae i muscoli della faccia è più forte di te. Le labbra arricciate in un lampo di incredulità. Perché Riccardi continua a non far capire dove voglia andare a parare. Vorrà farti impazzire dietro ai suoi rimescolii senza senso. A un nesso logico che non esiste. Sta bluffando, bluffando. È tutto ciò che speri. Che continui a ripeterti.

- No, scusa. Forse parliamo lingue diverse o non so. Capisco che sia innamorato di me e mi idolatri da lontano, che non possa fare a meno di me e memorizzi dettagli insignificanti, ma davvero, non capisco… – sospiri.

Riccardi continua a sorridere. Un ghignetto compiaciuto che gli taglia in due il volto.

E tu lì che vorresti trattenerti, trovare un pretesto per troncare la questione col solito bilaterale, liberatorio “vaffanculo”, ma i muscoli della faccia fremono a un punto tale che non puoi che scioglierti in una fragorosa risata. Vagamente isterica.

Riccardi sorride compiaciuto.

- È così per tutto.

- Senti un po’ – sospiri: magari puoi provare a recuperare un brandello di dignità sotto mille paia d’occhi che ti spiano di nascosto – Proviamo a uscire da questo vicolo cieco. Ti dà fastidio che a me piacciano gli uomini? La cosa pregiudica in qualche modo la tua libertà? Ti ho obbligato a fare qualcosa? Le tue chiappe sono al sicuro? Il tuo pasto quotidiano a base di yogurt scaduto, anche? Direi di sì, visto che sei acido come una vecchia zitella. Bene, allora ti dico che il problema si risolve con una padellata di cazzi tuoi.

- Dimentichi che io sono quello che, insieme a tutti gli altri, deve sopportarsi i tuoi capricci, le tue battaglie cretine, il tuo essere sempre in mostra.

- Mi spiace tanto per te, ma non ho nessuna intenzione di diventare trasparente – arricci il naso.

Riccardi chiude gli occhi: forse una parte di lui si è resa conto di quanto stia scivolando nel patetico, ma non può rinunciare alla scazzottata verbale.

- Sei assurdo. Snervante. Irragionevole. Capacità di adattamento zero.

- Tutti complimenti – sorrisetto di circostanza – E grazie al cielo, se sono “irragionevole”.

Sbatti le palpebre, il tempo che basta a far inceppare la sua linguaccia e darti modo di defilarti. O fingere che dopo un po’ scompaia per magia.

Gabriele sembra scazzato, ma non è una novità. Ha le labbra strette in una piega indecifrabile.

- Devi proprio dargli corda? – sibila – È completamente fuori…

- Ma l’hai sentito? – sollevi gli occhi al cielo, la voce qualche decibel più alta – Mi provoca! Mi stressa di proposito, come se farmi incazzare fosse la sua missione. Mi dà del dittatore perché non gradisco i suoi insulti. Io la prossima volta medito seriamente di avvelenargli il pranzo.

- Ecco, appunto – adesso sembra più interessato a cambiare la suoneria del cellulare.

È di nuovo di scazzo perché vorrebbe strangolare Riccardi quanto lo vorresti tu, ma il buonsenso e il luogo pubblico glielo impediscono. E certo non andrà a dirlo a te.

Riccardi è riuscito a cavarti qualche parola di bocca: ha fatto il necessario.

È la proverbiale “giornata di merda” che ogni sera preghi di lasciar fuori dalla tua porta con il suo carico di negatività. Gli occhi di Gabriele, le sue mani come una fonte ristoratrice, come un miraggio. E il baratro dell’assurdo, là fuori, la ballata del battibecco gratuito che ogni volta minaccia di fagocitarti al suo interno in qualità di interprete compiacente di una commedia pessima.

- A volte mi fai paura – Gabriele finge di concentrarsi sul secondo caffè del pomeriggio – Davvero, mi preoccupo per te. Fai il duro, gliene dici di tutti i colori, poi ci stai male e te la prendi come se dipendesse da te. Non l’hai capito? Vuole sfinirti, esasperarti.

- Come se io non ci abbia provato, a farlo cuocere nel suo brodo!

Stavolta ci hai provato davvero. I primi dieci secondi. Poi ha preso il sopravvento il desiderio di scoprire dietro a quale dito si sarebbe nascosto. Un crescendo di stoccate verbali e masochistici tentativi di ragionare. Con Riccardi. Contraddizione in termini.

- Come se delle sue cazzate ti importasse qualcosa, come se la sua parola fosse la parola di tutti! È un fottuto psicopatico.

- Oh, non lo sai! È come avere un gatto appeso alle palle. Un brusio fastidioso nella testa… Mi viene da vomitare – chini lo sguardo, ti osservi le dita – Deve ricordarmi ogni santo giorno che mi odia perché mi piacciono gli uomini… Che se vuole prendermi a schiaffi, perché si è svegliato col piede sbagliato, ne ha tutto il diritto. Lo eviti, fai finta che non esista? Perfetto. Viene a cercarti lui. Tipo adesso…

- Nicoletti, prima che mi dimentichi – la voce di Riccardi ti fa quasi trasalire.

Di nuovo all’attacco. Il calabrone che ti ronza nelle orecchie prima di pungerti a tradimento. Tormento il suo secondo nome… E non gli è bastato. Ti ha seguito come una maledizione non appena gli hai voltato le spalle.

È il passaggio obbligato per raggiungere il piazzale e andarsi a fumare la sua dannata sigaretta. Tanto vale finire di vuotare la sua sacca di veleno.

- Ti stai consultando col tuo avvocato? – borbotta, mentre si rigira il pacchetto di carta tra le dita.

Osservi Gabriele. Obbediente, fingi di trovare interessante la superficie del vetro davanti a te. La vista oltre la finestra, l’esterno dell’istituto visto da un’altra prospettiva, lato cantiere. L’auto rossa di Thompson posteggiata a cavolo vicino al cancello sul retro.

Poi intercetti lo sguardo di fuoco di Gabriele. Le dita che si serrano attorno al bicchiere di plastica.

- Avvocato che, per la cronaca, è una signorina come te e saprà darti buoni consigli – cinguetta Riccardi con voce flautata.

Gabriele socchiude le palpebre, annoiato – quando in realtà vorrebbe ribaltarlo giù dalla finestra.

Si sente colpito ed evita lo sguardo: se non fosse così calmo, gli lancerebbe il caffè in faccia.

- Riccardi? Mentre pensi a come renderti ridicolo, pensa anche a questo – gli sussurra, il dito medio sollevato a due centimetri dalla sua faccia.

Riccardi fa un salto indietro, incassando il colpo con un sorrisetto strafottente.

Adesso puoi sentirti sollevato, perché ha girato sui tacchi.

Gabriele è tornato dentro, nell’anticamera di tre metri per due a riposare i nervi, e tutto ciò che riesci a fare è lasciarti andare contro la parete e aspettare la fine delle trattative. Osservarti intorno e incrociare le dita che Riccardi non torni all’attacco. Non adesso, che intorno alla macchina del caffè si è creato un capannello, e sei troppo stufo di stare sotto i riflettori.

Tutti stanchi di aspettare, di stare in gabbia. Ci sono i Lastella che cercano di sondare il terreno con Thompson e capire se potrà rivelarsi un acquisto fruttuoso, che promette faville e fa parlare di sé.

- Ehi, Andrea! – Alex sorride, accenna un saluto con un gesto fiacco della mano.

Si avvicina, astuto, sottraendosi al terzo grado dei gemelli.

Ricambiare il sorriso stavolta è d’obbligo, soprattutto dopo esserti fatto sorprendere a fissarlo per una buona manciata di secondi.

- Hai conosciuto i redattori del gazzettino, vedo… Che fortuna! – esordisci, beffardo.

- Già… Tu sai distinguerli? – ridacchia Alex.

A volte riesce anche a essere simpatico. Quando schizza dalla modalità “pulcino sperduto nella tana delle volpi” a “pubbliche relazioni random”. Non che t’importi molto, ma ogni tanto un alleato può tornare utile.

- Puoi scommetterci! Patrizio è il rockettaro, Luca è quello che sembra Che Guevara.

Trattieni una risata: la vera differenza è che uno è gay e l’altro etero, e se Riccardi arriverà a scoprirlo, forse si farà esplodere in sala mensa.

- Andre, posso? – ecco, quando parli del diavolo

Patrizio Lastella ammicca dall’alto del suo metro e ottanta di jeans strappati e spalle ossute.

- Stellina! – lo motteggi: hai voglia di sfottere bonariamente qualcuno, di fingere che tutto va bene – Stavamo sparlando di te.

Patrizio aguzza lo sguardo.

- Ma davvero? E che gli hai detto, se posso? – sussurra con voce querula, passandoti un braccio intorno alle spalle e sorridendo complice in direzione di Alex.

- Che suoni da far pena – gli fai eco, guadagnandoti un’arruffata di capelli.

- Bene! – Patrizio scuote le spalle: quando ti piomba addosso all’improvviso, ha qualcosa in serbo per te – Se per voi non c’è problema – continua, rivolto ad Alex e a Gabriele che neppure stava ad ascoltarli – Ve lo rubo per una decina di minuti.

- Ehm… Stella, è successo qualcosa che non so? – cincischi, mentre provi a sottrarti alla sua stretta.

- C’è una cosa che vorrei spiegarti in privato.

Annuisci. Patrizio cammina così spedito che quasi fatichi a stare al passo. Specie se trascinato appeso al suo braccio fino a un luogo adeguato.

- Dai. Che avete combinato, stavolta? – ti osservi intorno: aula vuota, nessuna microspia.

- Nulla – Patrizio distoglie lo sguardo, sibillino, mentre si siede in cattedra e punta i gomiti – Non abbiamo pestato i calli a nessuno… Per ora. Ma ho saputo cos’è successo tra te e l’uomo dei pacchi.

- Spiegati meglio.

Patrizio ha la strana abitudine di riferirsi a persone e situazioni come una spia in missione segreta, intrecciando allusioni su allusioni. Cosa che in altre occasioni è divertente, ma non ora, che potrebbero appiccicare la famosa graduatoria in bacheca da un momento all’altro, e rischi di perderti lo spettacolo della fine del mondo.

- Federico Riccardi.

- Ci mancherebbe…! – scuoti il capo – Immagino sarà l’argomento clou per i prossimi cent’anni. E tutto questo grazie a te.

- Ho saputo com’è finita la storia – Patrizio ammicca: sembra serio.

- Non è finita. Riccardi continua a frantumarmi le palle.

- Me ne sono accorto. Fammi capire… – Patrizio si scosta un ciuffo ingellato dalla faccia, lo sguardo grave, troppo per un giullare come lui – Quello rivendica il suo diritto di insultare i gay e chiunque gli pare, il direttore gli alliscia la testa, domani è tutto come prima… E riprende anche a provocarti? È accettabile?

Ti stringi nelle spalle – all’improvviso fa quasi freddo, perché Patrizio ha captato solo delle voci e ti ha appena tolto le parole di bocca.

- A quanto pare, sì. Ma è snervante.

- Bello schifo! – adesso Patrizio è sul piede di guerra – E l’importante è che non se ne parli troppo, vero? E tutti vissero felici e contenti: il direttore che salva le apparenze, Riccardi che la fa franca e i fottuti omofobi perbenisti. Invece possono scommetterci che stavolta se ne parlerà.

- Cosa vuoi fare? – incalzi, perché messa su questi termini fa paura.

- Ne parlavo l’altro giorno con Fratello. E ho buttato giù la mia idea: un bell’articolo sul gazzettino con tanto di intervista.

- Vorresti intervistare me? – spalanchi gli occhi: sistema fantasioso per trascinare la questione all’infinito; efficace, anche se mai quanto la tecnica dello schiacciasassi by Riccardi.

- Esattamente… – Patrizio ridacchia – Il ferro è ancora caldo, no? Se la cosa finisce in una bolla di sapone, facciamo il gioco di Riccardi che si illude di essere nel giusto, e del direttore che se lo coccola.

- Non è che se lo coccoli… – lo interrompi – Non ha dato peso alla cosa, non credere che abbia chissà quali simpatie per quel coglione.

- Balle! – interruzione doverosa – Lo appoggia sì, se rimane neutrale e preferisce tenersi il fottuto “quieto vivere” senza venirne a capo. Vuole il silenzio stampa? Noi invece parleremo.

- Non penso che qualcuno non sappia ancora cos’è successo. È la soap-opera dell’anno e lo resterà per un po’. Non credo ci siano gli estremi per montare polemiche: non mi ha fatto nulla, lo vedi? La mia faccia è tutta intera. Doveva farmi buttare almeno un po’ di sangue, per avere almeno un buffetto sulla guancia.

- Questa è una polemica in piena regola – Patrizio scuote le palpebre, annuendo placidamente; per un attimo sembra aver messo giù la maschera dell’investigatore intransigente – La muoviamo noi. Quanto dev’essere grave la cosa? Un idiota qualunque va in giro a distribuire sganassoni perché gli sta sul cazzo questo e quest’altro, si sente autorizzato a insultare e discriminare… E non sarebbe abbastanza?

Patrizio sembra sicuro di sé. Troppo. Lo capisci dal suo modo di parlare, a mitraglietta. Tu invece preferisci fissare il pavimento.

- Ho paura che più ne parli, più la gente si anestetizza la coscienza e ti manda al diavolo. E che du’ palle, Nicoletti, bullismi e raccomandati… Di nuovo?! Dio, per carità! Ecco, secondo me la reazione-tipo è questa.

- Dipende da come ne parli.

- Grande, eh! – un sorriso sarcastico: questo glielo concedi – I discorsi da politicante lasciali a tuo fratello. Ha una faccia che si presta meglio.

- La stessa, visto che è uguale a me. A lui ho lasciato ben altre grane – annuisce, una luce cospiratrice in fondo alle iridi cerulee – Siccome amiamo la par condicio e le cose fatte a regola d’arte, pensiamo sia giusto sentire tutte e due le campane e lasciare a chi legge il beneficio del dubbio…

- Giornalismo da quattro soldi. Sinceramente non capisco cosa ci facciate qui a seguire corsi di sceneggiatura – incalzi, sardonico – Cosa volete fare?

- In soldoni, caso volle che a me sia toccato farmi due chiacchiere con il mio vecchio amico Andrea, mentre a Luca ho lasciato il lavoro sporco: parlare con Riccardi. Basta che gli faccia le domande giuste e registri tutto: Riccardi darà fondo all’arsenale delle cazzate, che saranno puntualmente riportate nero su bianco, e si sputtanerà con le sue mani, presentandosi come l’imbecille che è.

- Non ne sono convinto…

- Vabbè… Se ti chiedessi quattro chiacchiere da amico? – sorrisetto tirato – In via informale che più informale non si può. Se qualcosa va storto, se la cosa non ti convince, fermiamo tutto. Raccontami cos’è successo e vediamo che si può fare.

È lì di fronte a te con l’aria da psicologo navigato o di chi tirerebbe fuori i diavoli dall’inferno.

- Io non ne sono convinto – rilanci, sottraendoti a una certa mano che viaggiava in direzione delle tue spalle – Non mi piace. Mi sembra una gigantesca boiata.

- Ça signifique…?

- Significa che se dopo l’“intervista” il mio è ancora un “no”, rimane un “no” e voi non fate nulla. Bloccate tutto.

- Ma questa non è un’intervista – Patrizio spalanca gli occhi.

Fanali cobalto sulla faccia leggermente spigolosa. Le labbra serrate in quel sorrisetto perennemente asimmetrico. Labbra carnose quanto basta, estremamente mobili mentre parla, incorniciate dal pizzetto scolpito ad arte e trafitte da un anellino d’argento. Se al liceo gli morivi dietro, qualche motivo c’è.

Distogli lo sguardo. Vorresti convincertene, disperatamente. Che puoi fidarti. Che non sarà la solita impresa fallimentare. Ma solo perché vi conoscete da secoli e si tratta di un paio di confidenze tra amici. Chissà se Elena e Gabriele sarebbero d’accordo. E se questa è la chiave giusta per colpire restando pulito.

- Non scappo mica, eh! Cosa posso dirti che ancora non sai? – azzardi, il solito ricciolo sulla tempia artisticamente attorcigliato intorno all’indice.

È il tuo modo di imporre il controllo. Perché lui si distrae a seguire le dita che si rigirano la ciocca di capelli, e intanto le parole gli si scolpiscono nella testa.

- Com’è iniziata? – Patrizio si sistema al tuo fianco da bravo padre confessore.

- Mi ha fottuto lo spray per l’asma e ci siamo azzuffati in camera sua.

Patrizio annuisce con uno scatto improvviso.

- Interessante… – sussurra – Se l’avesse fatto con me, a quest’ora mangerebbe con una cannuccia.

- Non mi piace la violenza fisica. Psicologica, se proprio devo.

- Sono d’accordo – Patrizio ammicca di nuovo – È per questo che siamo qui.

- Vuoi dargli una lezione perché ti senti toccato sul personale? – affondi il coltello, con nonchalance.

- No. Voglio solo vedere fino a che punto arriva.

Sospiri, rassegnato. Potresti soprassedere e continuare a raccontargli ciò che già conosce, partendo da Adamo ed Eva o giù di lì. Ma ormai la domanda ce l’hai sulla punta della lingua e non puoi fare a meno di interrompere.

- Prima di continuare, posso chiederti io una cosa? – lo incalzi, a tradimento.

- Quello che vuoi – Patrizio annuisce.

Sorriso smagliante. H capito che se vuole ammorbidire le tue posizioni, deve assecondarti.

- Hai risolto la questione con… quelli del tuo gruppo?

- Eh? – non glielo dici, ma l’imitazione di uno che cade dalle nuvole è da misero dilettante.

- Glielo hai detto? – prosegui.

- Cosa dovrei dire? – Patrizio ha la stessa espressione che avrebbe se l’avessi invitato a sniffare un po’ di colla.

- Ehm… mi chiedevo se alla fine avessi fatto coming-out con loro.

- Che brutta parola, Andrea! – storce il naso. Poco credibile anche qui.

- Scusa, eh, ma tu come lo chiami? Non sarà un problema per loro, spero. Se sei bravo, voglio dire, che differenza fa?

- Ci sto lavorando – mugugna Patrizio.

Il muro, e poi punto e a capo.

Non stavolta.

- Oh, ecco, saltano fuori gli altarini! – lo pungoli – Un leone quando si tratta di difendere gli altri, ma tentenni quando si tratta di te…

- Non è quello il problema – Patrizio sembra ipnotizzato dalla superficie lucida della cattedra – Non è che tema i giudizi o mi vergogni e palle varie… Di cosa, poi? – ridacchia, e per un istante sembra ti faccia il verso – Il fatto è che… i fatti miei personali non sono proprio in cima ai nostri discorsi.

- Ma siete amici, no?

Ti stringi nelle spalle. Patrizio è appena ripiombato nel tuo casino esistenziale portandosi dietro il suo personale casino.

- Ci si vede solo la sera per suonare. Si scherza da bravi idioti, e tutto finisce lì. Che dovrei fare? Tenere una conferenza sulla mia vita sentimentale?

- Non li conosco, ma se vuoi un mio parere, non mi fanno un’ottima impressione – almeno questo devi dirglielo.

- Li conosci, scusa?

- Nah. Piani e Basile li conosco di vista, ma seguono altri corsi e boh, non ce li ho proprio presenti. Stanno sempre per i fatti loro con gente che non conosco, un po’ così, persi nel loro mondo. Non fanno parlare molto di sé – gli sussurri.

E sembrano aver eletto l’angolo a destra sotto la pensilina a loro rifugio privato, vietato avvicinarsi, e sembrano stare per tutto il tempo sulla loro torre d’avorio, perché, accidenti, loro sono al terzo anno, loro lavorano, loro sono Artisti a trecentosessanta gradi, perché arrotondano suonando nei locali il fine settimana. Ma non glielo dici. Perché hai ben altri galli cui pensare.

- Non hanno nulla a che vedere con Riccardi, se proprio vuoi saperlo – Patrizio solleva gli occhi al cielo – Uno così lo sputerebbero in faccia senza tanti complimenti. No, al massimo importa che musica ti piace. Se sei uno che se ne intende, allora bene: sarete amici per la pelle.

- Altra cosa che non mi convince – storci il naso – A quello non piaci a seconda di chi ti porti a letto; quell’altro ti guarda male perché non gli piace musica che ascolti… Dio, c’è qualcuno che sia rimasto immune da questi schemi cretini, è tutta una mia impressione, o dobbiamo provare a vedere su Marte?

- Non fare il melodrammatico, scemo! – Patrizio annuisce, una mano che vola a scompigliarti i capelli, perché è sempre stata la sua fissazione numero uno – Il tuo è tutto un gioco di supposizioni. Anzi, facciamo così: stasera ci vediamo al pub, trovo un pretesto qualunque e provo a dare qualche indizio… Probabilmente non fregherà a nessuno, ma almeno mi levo il dente e il dolore.

- Perché dovrebbe essere un dolore? – qualcosa, come un leggero spasmo, ti fa inarcare un sopracciglio.

- Perché non mi piace parlare dei fatti miei. Tutto qui. Preferisco quelli degli altri. E non siamo così in confidenza da scambiarci la gomma da masticare, te l’ho detto! Ci frequentiamo da un mesetto e suoniamo insieme. Cercavano un chitarrista, mi hanno provinato, hanno detto che gli andavo bene, ed eccomi qua.

- Allora, boh, non dovrebbe importagliene molto se ti piacciono gli uomini o le donne.

La deduzione logica. Che forse è più o meno ciò che cerca di spiegarti da una decina di minuti.

- Ormai sono in ballo, però, e non vorrei la rivelazione dell’ultimo momento. Se a qualcuno la cosa non va bene, del resto il problema è suo.

- Oh, eccolo… – annuisci, sibillino – Adesso mi piaci di più.

Il viso di Patrizio è tutto un ghignetto diabolico.

- Invece tu mi piaci sempre – sussurra, un attimo prima di sporgersi verso di te e sfiorarti la bocca.

La mascella, a dire il vero, perché il movimento improvviso con cui ti sottrai al contatto, per poco non ti rovescia giù dalla sedia. Deglutisci, a disagio. Tornate a fissarvi negli occhi. E tutto ciò che resta non è che un’esplosione di risa e di scuse in sincrono.

- Dai, non dirmi che stai con qualcuno e non ne sapevo nulla… – Patrizio si fa ancora più vicino. Senza intenti bellicosi, stavolta.

Ti stringi nelle spalle.

- È colpa mia, se ogni tanto sparisci, ti fai un po’ i fatti tuoi, e puntualmente ci perdiamo di vista?

- Okay, okay… Scusa – di nuovo – Non dirmi che il fortunato è Derossi, perché mi deprimo!

Ti fissi la punta delle scarpe. Lui non può sapere, ma la sensazione di un coltello rigirato in fondo alla ferita è bella fresca. Ruoti lo sguardo fino a staccarlo del tutto dal suo. Indugi.

- Non esattamente. Ci sto lavorando – sospiri.

- Cioè… No! – Patrizio nasconde il viso tra le mani – Non ci credo! Vi siete guardati in cagnesco per mesi, sopportati a malapena… Non perdevi occasione di lamentarti di Derossi, che ti guarda male, ti punzecchia, ti dà del raccomandato… E ora?

- È una storia lunga – tagli corto.

Un’altra volta, magari, ma non adesso, che tutto ciò che desideri è sbrigare la faccenda nel più breve tempo.

- Guarda, se mi dici che è bello, hai tutte le ragioni di questo mondo. Se mi dici che è simpatico… Parliamone.

- Ha solo la lingua un po’ affilata. E okay, è abbastanza acido – gli concedi.

- Abbastanza? – Patrizio inarca un sopracciglio, sarcastico – Beh… anche tu, alla fine. Quindi siete a posto.

- Ah, se lo dici tu…

- Sei innamorato? – Patrizio è di nuovo modalità inquisitore.

- Puoi scommetterci quello che vuoi.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Capitolo 29 - Il primo della lista ***


 

Capitolo 29

Il primo della lista

 

 

Non ha aspettato che le nuvole si diradassero all’orizzonte, che qualcuno suonasse il falso allarme e che Andrea smettesse di fare il cretino. Ha capito l’antifona e ha attuato il piano B d’emergenza, tra tutti il più sicuro e collaudato: la ritirata casuale.

Respira, Elena. Ha disperatamente bisogno, nell’ordine, di caffè e sigaretta. Sul primo non ci siamo, perché il nervosismo è già ai massimi storici, e un pieno di caffeina manderebbe il sistema in corto circuito. La seconda è semplicemente peggiore, perché Andrea – bontà sua – l’ha tanto ossessionata da essere quasi riuscito a farla smettere. Quasi. E se occhio-non-vede-e-cuore-non-duole, due tirate innocenti possono starci… Lontano da occhi indiscreti.

Fuori soffia una brezza leggera ma ostinata. Elena rabbrividisce davanti all’ingresso, il marmo freddo della ringhiera conficcato nella schiena, il vento che le schiaffeggia i capelli in faccia e si insinua sotto la camicia. Poche boccate di fumo sono bastate a dimezzare la piccola sigaretta artigianale girata di fretta – e molto male. Le dita che tremano e lo smalto scheggiato sposano bene la situazione sul grottesco-deprimente.

A farla ritirare di volata, schizzare giù per le scale fino all’agognata boccata d’aria fresca sotto la pensilina, è bastato che un certo volto del passato le si affacciasse nella mente e davanti agli occhi, scompaginando ogni parvenza di equilibrio. Da lì è stato il delirio.

Codarda. È bastato questo, il rischio collaudato di mandare alla deriva frammenti incoerenti e non compatibili di una stessa esistenza, fino allo scontro frontale.

Ha sempre vissuto per fasi, per blocchi contrapposti di sé. Vietato rimescolare le carte.

La vecchia Loria è molta e sepolta, demolita e ricreata da zero: puoi evitarti di ritrovartela lì, la parte ripudiata di te che credevi perduta. Ritrovartela scolpita nelle iridi cobalto di chi ti ha conosciuto ieri, quando eri altra cosa da te. In un paio di occhi che conservano l’immagine sbiadita che non ti appartiene più.

Meglio allontanarsi con nonchalance e una scusa banale. Scappare: è semplice. Guadagnare tempo e quantificare il pericolo effettivo, piuttosto che affrontare di nuovo, da sola e a scatola chiusa, i fantasmi di ieri, il rischio calcolato di vedere di nuovo in te la Loria fragile, concentrata solo su se stessa, desiderosa di vivere ma incapace di reagire, di farsi ascoltare: la persona che Isa e la sua corte dei miracoli si divertivano a prendere in giro e ridurre all’impotenza. Non vuole ritrovarla dentro di sé, ora, e neppure ritagliata negli occhi di lui. Vietato rivangare brani di passato a scorrimento casuale.

Sospira. È patetico e assurdo, un brutto paradosso spazio-temporale.

Potrebbe razionalizzare il problema e decidere che non ne vale la pena; schiacciare il mozzicone nel contenitore apposito, farsi coraggio e tornare di sopra da persona adulta. Solo che poi, puntuale, torna il dilemma che da un po’ le rimesta dentro, come una voce sottile nella testa. Il dubbio che la accompagna ogni sera prima di dormire, senza lasciarsi afferrare la mattina dopo. È esploso come un fulmine e adesso è lì di fronte a lei.

Il punto è se davvero hai sciolto le catene nell’istante in cui Andrea si è girato e ti ha sorriso come un amico, e se davvero saresti la stessa cosa senza di lui. Se vivresti comunque in questa gradazione, camminando sulle tue gambe. Quale colore avrebbe il cielo sopra di te, in questo momento, se per qualunque motivo quel filo invisibile si spezzasse.

Riprenderai in mano la tua vita o continuerai a lottare contro i mulini a vento?

 

* * *

 

Andrea sbuffa, annoiato. Controlla l’ora sul cellulare e distende i muscoli delle braccia. Si era detto: le quattro e mezzo e tutto è concluso. Sono quasi le cinque.

Sospira. Si è infilato di soppiatto tra Patrizio e Alex Thompson, spalle contro la parete, per ammazzare il tempo intrecciando un po’ di pubbliche relazioni. Gabriele è la quintessenza dello scazzo e non ha dato grandi soddisfazioni – non ha fatto che trangugiare caffè e guardarsi in cagnesco con Alberti.

Potrebbe raggiungerlo in zona macchinette, ma spartirsi l’infame stanzino affogato di luce con Riccardi e altri campioni di simpatia, no grazie.

Sarebbe bello se la chiacchiera prendesse il sopravvento sulla noia, ma pare non ce ne sia più per nessuno. Con Patrizio ha rischiato l’incidente diplomatico: il peggio è rendersene contro a scoppio ritardato e solo dopo averci rimuginato a freddo. Perché dire quello che pensa non è mai stato un suo problema: il problema è che dice troppo, più di ciò che pensa davvero. Sborda fuori tema.

Con Alex non ha fatto altri danni – forse è questione di tempo. Lo fissa. Non è poi così male. Il modo in cui fa guizzare lo sguardo su di lui, le iridi di un verde che va verso il giallo, verde-gatto. Un bel verde rugginoso contro il nero fumo della roba che si spalma intorno agli occhi. Di propriamente bello c’è poco altro, però ha qualcosa che cattura lo sguardo. La pelle alabastrina, forse, quel nonsoché di lunare. Forse è un vampiro mescolato ai comuni mortali. Oppure sbrilluccica.

Caruccio ma non troppo: si lascia guardare con piacere. E se lui non fosse del tutto partito per Derossi, quasi quasi ci proverebbe un po’, almeno per trascorrere la serata.

- Anche tu nella rosa dei papabili? – ha buttato lì, con noncuranza.

- Pare – Alex ha incrociato le mani davanti a sé, la sinistra carica di anelli.

E poi ha sorriso, una vena allusiva che non gli è piaciuta molto.

- Ci speri un po’? – torna alla carica.

- Non troppo – Alex scuote il capo – Non credo che passerò. Praticamente non mi conoscono. Ho dato due esami con la Balducci, non ci sono gli estremi. È poco.

- La Balducci? Non è poco. È una vera cagna.

Alex annuisce, condiscendente. Un mezzo sorriso storto, gli occhi che fuggono. Forse non vuole ammettere che ha avuto un culo pazzesco, a passare così al primo colpo, o che è un fuoriclasse.

Eppure ha una vena inquietante. Per come continua a sottintendere le cose, ad alludervi con la forza dello sguardo; e magari non è niente, ma così dà l’idea di uno che ha in tasca un segreto che scotta. Sembra rilassato ai limiti dell’apatia e quasi collassa, schiena al muro e gambe raccolte contro il petto. Tutto il contrario di Alberti che continua a torcersi le dita, e di Ivan Basile che cammina avanti e indietro come se stesse piantonando l’istituto.

Lui invece è ghiaccio. E se allo stage ci tieni almeno un po’, a questo punto diventa pure lecito un velo di apprensione.

Andrea si osserva intorno, una girandola di facce già viste che credeva relegate in chissà quale astuccio della memoria. Nessuno sembra a proprio agio, nemmeno Gabriele.

Al suo fianco, Patrizio si tortura l’unghia del pollice.

- Sei nervoso?

- Un po’.

- Senti… Scusami per prima. Ho messo le mani avanti, okay, mi sono fatto i cazzi tuoi. Ho sparato a salve su persone che conosco solo di nome… Mi dispiace.

Patrizio socchiude gli occhi. Agita una mano come per dire “lascia stare” e gli passa un braccio intorno alle spalle in segno di pace fatta.

- Ne parliamo dopo?

Andrea annuisce in un mugolio. Alex continua a studiarsi le doppie punte sui capelli, placido e sornione come un gatto persiano. Ed Elena non torna più. Almeno Gabriele ogni tanto si affaccia per assicurarsi che siano tutti ancora vivi.

Un pomeriggio così lungo e palloso da metterci radici, in quel benedetto corridoio. Se gli importasse davvero qualcosa, potrebbe quasi farsene una ragione.

- Cosa fai se salta fuori il tuo nome? – stavolta è il turno di Alex di stuzzicarlo.

Andrea allunga le braccia davanti a sé, dita intrecciate. Stira i muscoli.

- Ringrazio il dottore, rifiuto l’offerta e vado avanti – sussurra, beffardo.

Silenzio. Alex sgrana gli occhi. Patrizio lo fissa come se avesse bestemmiato.

- Andre – gli afferra il braccio, perentorio – Queste uscite, ti prego, evitale in pubblico. Un conto è quando siamo noi, a tu per tu… Devo ricordarti che qua c’è gente che ucciderebbe pur di stare al tuo posto, e tu ci sputi sopra?

- Patrizio – non voleva alzare la voce, Andrea, ma l’indignazione che gli fiammeggia addosso ha incappato il punto di non-ritorno – Lo sai cosa mi è costata questa storia, o devo farti il riassunto? No, lo sai. Non voglio più sentire una parola. Non hanno voluto Andrea perché è lecchino, raccomandato e forse tromba con Neri? E Andrea rifiuta e li lascia a scannarsi tra loro… Più semplice di così! Hanno voluto rifare tutto da capo perché così non gli andava… Bene, allora: hanno ottenuto quello che volevano. E allora spero non si faccia mai più il mio nome, perché sarebbe tempo perso: rifiuterei comunque. Gliel’ho detto chiaro e tondo, mi sono tirato fuori. Per quel che mi riguarda, negli States ci possono anche mandare le loro nonne, che la mia faccia resterà uguale a come la vedi adesso.

- Okay, okay! – Patrizio annuisce, le mani alzate in segno di resa – Ma, ti prego, non farti linciare per direttissima!

- Guarda… – Andrea gli sorride, in tralice – Se sono venuto qui a godermi lo spettacolo e non mi è ancora successo nulla, posso correre qualunque rischio.

Alex non ha spiccicato parola. Ha assentito con aria distratta, registrando informazioni random, ed tornato allo stato di catalessi mistica. Però gli ha fatto cenno con la testa, come a dire che ha capito la situazione. Che forse anche lui farebbe la stessa cosa. Qualcuno si sarà preoccupato di aggiornarlo sullo Scandalo con la S maiuscola, e ha capito l’antifona.

Gabriele è appena giunto in suo soccorso e si è accosciato di fronte a lui, un’ombra in fondo alle iridi che non l’ha abbandonato del tutto.

- Come siamo messi di là?

- Male… – Gabriele solleva gli occhi al cielo, rassegnato – Qualcuno sta iniziando a scaldarsi, e il fatto che la maledetta graduatoria non arrivi, non migliora le cose. Dal “che palle, quanto ci mettono” sono passati a “tutta colpa di Nicoletti”.

- Perfetto! – Andrea stira le labbra fino a che i muscoli non cominciano a far male – Tutto secondo le più rosee previsioni. Se ti provocano, digli che pure ai tempi della prima guerra punica, un po’ è stata colpa di Nicoletti.

- Andrea, sono stanco! – Gabriele si passa una mano tra i capelli, tirandoseli indietro con un gesto veloce: segno che la pazienza è agli sgoccioli – Non ne posso più di tamponare i tuoi casini, e se sono ancora qui è perché ho paura che finisca male.

Andrea distoglie lo sguardo, il sangue che gli schizza fino alla faccia e si assesta all’altezza delle tempie in un fastidioso ribollio.

Cosa si dice, in queste situazioni? Grazie è da cretini. Grazie al cazzo, se sono qui per te a rompermi le palle! Sbuffare e cambiare discorso invece è da cafoni. Una via di mezzo…

- Perché Loria non torna? – la domanda lecita.

- Non era con te? – Gabriele scuote le ciglia, stranito.

- No. Ci siamo incrociati, poi sono andato a salutare Patrizio, e boh. È sparita. Non ho capito se si è rotta le scatole di aspettare questa minestra riscaldata o cosa… Mi avrebbe avvisato.

- Sarà uscita a fumare – Gabriele solleva gli occhi al cielo – Scendiamo?

- No, non fuma più. Mi pare abbia smesso del tutto. Al contrario di te – e la voce si scioglie in un miagolio polemico.

Lo sguardo scivola sul pacchetto di tabacco che fa capolino nella borsa di Gabriele.

- Sei una bella forza! – Gabriele si avvicina, un sorrisetto storto sulle labbra – Stressi gli altri per farli smettere e poi cominci tu…

- Non ho mai cominciato.

Bugia. È vero che riesci a farti durare un pacchetto un mese o giù di lì, ma il segnale non è da sottovalutare. Visto che un terzo le scrocchi a Elena e a Gabriele…

- Okay, Andre. Basta che usciamo un po’, per me una scusa vale l’altra.

- Guarda che se esco non rientro più! Questa faccenda mi sta dando sui nervi. Mi sto imparanoiando io al posto loro…! Se almeno fossi ancora nella lista, me ne farei una ragione, ma…

Gabriele solleva un sopracciglio.

- Hai insistito tu per venire qui a gufare.

Vero. Logica inappuntabile.

Sospira, Andrea. Lo sguardo fugge rapidamente verso il basso, a disagio.

- Non credevo mi facesse quest’effetto… Un déjà-vu brutto e deprimente. Con la differenza che, stavolta, qualcuno pagherebbe per farmi il culo a strisce.

E non sa cos’è, Andrea. Forse che stanno per lasciarsi alle spalle il viale dei sospiri, dello stringi-chiappe dell’ultimo secondo e dei commentini masticati tra i denti. Ma tutto quel brulichio gli ha attaccato l’ansia come un riflesso, come un brivido lungo la schiena – forse perché c’è passato già una volta, e pure male.

Alberti e le sue congetture, circondato dal suo harem. Ha ammorbato la stanza con i suoi se e i suoi ma. E l’amico di Patrizio, Ivan qualchecosa, che sta diventando radioattivo. Manco dovessero ammazzarlo sul posto, quell’altro…

Gabriele gli circonda le spalle, quasi a costringerlo a scollare la schiena dal muro.

- Anch’io avrei pagato per farti nero, quel giorno – sussurra.

Eccolo, puntuale, a staffilarti con la proverbiale acidità… E questa temi te la rinfaccerà in eterno, per gioco o sul serio o per il solo gusto di farti incazzare. Arriva sempre così, diretto e corrosivo quando meno te l’aspetti. E adesso l’atmosfera si è completamente rovinata.

- Voi venite?

Ecco. Magari, con Patrizio e Alex quali variabili dell’ultimo secondo, i nervi si distenderanno e tutto andrà liscio – e Gabriele ti degnerà di attenzioni neutre. Mezz’ora di attesa e silenzio sepolcrale, rituali antisfiga e paranoia collettiva, ed ecco che un’innocente boccata d’aria pura diventa Euro Disneyland.

- Tu fumi? – ha di nuovo puntato su Alex, l’unico tranquillo. Perso in fondo al suo Paese dei Balocchi.

Chissà che diavolo si muove in quella testolina color vino nero. Se fosse un po’ più reattivo, meno disteso – ai limiti dell’overdose da Prozac –, potrebbe facilitargli un po’ le cose.

- Posso rubartene una?

Le ultime parole famose. Gabriele solleva gli occhi al cielo e si concede una risatina rassegnata.

Del resto la vera festa, il colpo di scena, è lontano dal corridoio. Sul pianerottolo della scala doppia, per amor di precisione.

 

* * *

 

Alla fine ha preso il coraggio a quattro mani e ha imboccato le scale.

Si osserva intorno, Loria. Male che vada, non sarà più di un sorriso e un “ciao, come stai” e qualche vuoto di troppo: se la caverà. Ha già messo in conto il tremore alle gambe e le guance in autocombustione spontanea, quella vampa improvvisa e dispettosa che neanche tre chili di cipria potrebbero occultare. Vorrebbe avere una maschera con sé, ma l’unica davvero utile è una di quelle da mettere sul cuore – peccato non esistano…

E poi, via il dente e via il dolore. Razionalizzare la cosa dovrebbe farti vedere il tuo demone un po’ meno brutto.

Il suo demone personale si riduce a una situazione ad alto coefficiente d’imbarazzo. Al tuffo al cuore annunciato. Non è solo questo: è qualcosa che non riesce a definire, per quanto si sforzi. Non è la persona, l’incontro in sé: è tutto fuorché un demone. È persino bello. È il suo amore adolescenziale di ragazzina immatura dal cervello in ebollizione e qualche sovrastruttura recettiva di troppo. Che male può fare – in concreto?

Fu l’inizio della sfortunata epopea; e lei, del resto, ci ha fatto il callo.

Ci sono ferite difficili da portare con disinvoltura. Osservi quasi con piacere le cicatrici, le senti scorrere sotto le dita, irregolari; ripassi mentalmente le tappe, i saliscendi, il costruire-demolire-rifare tutto da capo che ti ha portato ad essere ciò che sei – nel bene e nel male – ma, al dunque, è come precipitare indietro di un paio d’anni e rifare il salto nel buio. Tutto da capo, tutto da rifare. Il rischio di ritrovarsi come allora – come poco tempo fa –, priva di difese.

Lui è cambiato. Ha gli stessi occhi azzurri e un filo di barba ben curato, ma per il resto sembra un altro.

Perdersi nella propria meditazione solitaria non è sempre una buona idea, soprattutto se hai il vizio di procedere su per le scale con lo sguardo basso sui gradini, e se un uragano di passi strascicati e urla riecheggianti è lì per travolgerti nella sua corsa folle.

Non hai fatto in tempo a vederlo arrivare al galoppo. Hai visto solo una cosa, una freccia con l’eskimo verde militare penzoloni sulle spalle, e la cosa ti è letteralmente inciampata addosso. Per poi trascinarti con sé e precipitare in tandem in un parossismo di ansiti, grida soffocate e gomiti che cozzano in modo poco simpatico contro gli spigoli dei gradini. E finire entrambi spiaccicati al suolo, dritti contro il pianerottolo sottostante che ha frenato la discesa libera.

Sospiri, il cuore in tumulto e qualche anno di vita in meno. Se davvero sei tu quella che ha urlato, è comprensibile. Ora l’istinto numero uno è scrollarsi di dosso la cosa senza far complimenti e intimarle dove cazzo è che credeva di andare a sbattere. A sfoltire la concorrenza con un bell’omicidio premeditato.

La cosa che ha lunghi capelli arruffati e un’espressione spaventosamente familiare, gli occhiali dalla montatura spessa messi per traverso sulla faccia. Il viso deliziosamente a punta a due centimetri dal tuo, le mani puntate a terra. Adesso è proprio come lo ricordavi: non è cambiato per nulla.

- Luca Lastella?!

- Elena Loria.

E non c’è spazio per vampate alla faccia e gambe che fanno giacomo-giacomo: quando qualcuno ti si spalma addosso e per poco non ti frantuma le ossa, paranoie galoppanti e linguaggio oxfordiano si prendono il braccetto e vanno a farsi friggere.

- Scusa scusa scusa! Non ho tempo per spiegare… – lui quasi boccheggia, concitato e senza fiato in gola.

Si è tirato su di scatto, il volto arrossato e guardingo come se un mostro lo inseguisse. Si è raddrizzato gli occhiali.

Ha allungato la mano e l’ha letteralmente tirata su di peso.

- Beh, tutto a posto?

- Certo che… no – con un assassinio in corso d’opera, le paturnie in astratto cedono direttamente il passo all’acidità.

- C’è lui che m’insegue… Secondo te che intenzioni ha?

Il lui in questione dovrebbe rispondere al nome di Federico Riccardi, a giudicare dal secondo tornado che si precipita giù per le scale a passo di carica, accompagnato da una sinfonia di insulti smozzicati all’indirizzo di Lastella.

- Ma che gli hai fatto per aizzartelo contro?

- Guarda, ti spiego in un secondo momento! Anzi, sai che faccio…? – con una mossa repentina e una specie d’illuminazione, Luca tira fuori di tasca un affarino che somiglia ad un mp3 e glielo schiaffa in mano – Ti prego, tienitelo tu e acqua in bocca. Dallo a Nicoletti e ti spiegherà tutto lui…

- Nicoletti?! Ma…?

Neanche il tempo di spiegare, ed è sparito oltre l’angolo incespicando sui suoi passi e tirandosi dietro contro la sua volontà un Riccardi in assetto di guerra.

Elena solleva lo sguardo. Una rampa più su, quasi l’avesse evocato, Andrea se la ride sotto i baffi – nel momento sbagliato. Gabriele sbatte le ciglia con espressione stralunata, tanto speculare alla sua, e due figuri in nero non meglio identificati occhieggiano con il volto scettico.

- Si può sapere che diavolo sta succedendo?

Un Bianconiglio che fugge di fretta, un’Alice piuttosto grossa e incazzosa che lo segue a ruota. E Andrea che compare oltre la ringhiera e sorride come lo Stregatto.

- Il buon Riccardi non vorrà che la sua intervista e le sue boiate spaziali facciano il giro dell’istituto – l’ha raggiunta per accertarsi sulle sue condizioni, ma il sorriso satanico che ha stampato in faccia promette guai.

- Di cosa stai blaterando? Vi siete fumati tutti? Che intervista? Che cos’è… questa roba?

Come da accordo, l’mp3 rotola dritto in mano ad Andrea: che ne faccia ciò che preferisce.

- Oh, una sciocchezza! Patrizio e Luca volevano divertirsi un po’ – le sussurra.

In cima alle scale, un ragazzo con i capelli corvini e la stessa faccia di Luca Lastella annuisce col capo, il buonsenso di chi si vergogna almeno un po’ di aver tramutato un pianerottolo lindo e innocente nella succursale del manicomio cittadino.

Un ragazzo che non è simile a Lastella: è semplicemente la sua copia sputata. È Lastella, versione vagamente rocker. Lastella che non è il Lastella che ha conosciuto lei, la cui visione improvvisa l’ha letteralmente costretta all’abbandono di campo per ridefinire il da farsi e mandare il cervello a prostituirsi. Roba da matti.

- Ma quindi…?

Elena posa lo sguardo su Andrea. Lo fissa. Poi su, verso Patrizio o come ha detto che si chiama. Infine accenna al luogo in cui – in teoria – dovrebbe trovarsi il Lastella original, se Riccardi non gli fosse piombato addosso minacciando castighi apocalittici.

- Sono gemelli. Lui è Patrizio. Quello che ti è andato addosso è Luca, il tipo del gazzettino… – Andrea scuote il capo, eloquente.

- Okay, che sono gemelli c’ero arrivata anch’io, grazie tante! Ma che aveva di nuovo Riccardi? Cosa gli hai combinato?

- Io nulla, stavolta! – Andrea si affretta a mettere le mani avanti – Lo giuro.

- Tu, nulla? – Elena sogghigna, sarcastica – Tu c’entri sempre. Si vede.

- Beh, in realtà qui il coglione è mio fratello – è il turno di Patrizio, di irrompere sulla scena e dare la sua versione.

Con uno scintillio di piercing al labbro e capelli ingellati all’insù, le tende la mano indirizzandole un sorriso accattivante.

Se non li guardassi bene in faccia, faticheresti a distinguerli. Stessa voce bassa e stesso modo nervoso di gesticolare, con movimenti ampi.

E grazie: che tuo fratello è un po’ coglione, c’ero arrivata un paio d’anni fa.

Il tizio che si ostina a stare impalato lassù sembra a disagio – e lo saresti anche tu, infilata in un covo di pazzi da ricovero. Se già non fossi membro onorario della brigata.

Forse ci sarà l’agnizione dell’ultimo secondo; qualcuno si toglierà la maschera e farà chiarezza, oppure rivelerà che era tutta una candid-camera di cattivo gusto. Ci spera, Elena, mentre Andrea si schiarisce la voce.

- Hanno avuto una trovata del cazzo che, per fortuna, è rimasta nel limbo delle trovate del cazzo – con uno scatto felino, si affretta a infilarsi il minuscolo mp3 in tasca ai jeans, prima che Patrizio allunghi le grinfie – L’idea era un’intervista stile Le Iene, a me e al premio Nobel Riccardi, sul tema “omofobia e dintorni”. Se la cosa fosse andata in porto, se fosse uscita una cosa carina, i due disgraziati avrebbero tirato su un trafiletto microscopico. Purtroppo o per fortuna, niente è andato come doveva andare; Riccardi ha mangiato la foglia, e al momento questa roba è buona per quattro risate fra noi – lo sguardo di Andrea guizza su Patrizio, perentorio a ribadire l’ovvio.

- A dire il vero doveva essere un’indagine sociologica coi controcazzi! – Patrizio ha l’aria di chi difende l’indifendibile, e il modo in cui lo fa è quasi tenero.

Perché, sì, l’intento poteva essere nobile, ma una boiata mal orchestrata è e rimane una boiata mal orchestrata. Specie se il piatto forte si chiama Riccardi.

Elena distoglie lo sguardo. Assioma fondamentale, da che conosce Andrea, che lui e le cazzate vanno spesso in coppia. Talvolta queste si accontentano di sfiorarlo almeno per sbaglio.

- Oh… – riprende Andrea, dopo lo straniamento generale da rivelazione improvvisa – Un paio di presentazioni prima di tornare di sopra. Elena, lui è Patrizio. Siamo amici dal liceo. Patrizio, lei è Elena, la mia migliore amica. E lui è Alexander – accenna con lo sguardo al darkettone appollaiato vicino alla ringhiera – Credo vi conosciate già…

- L’incidente – si affretta a precisare l’interessato, stringendole la mano.

Il freddo degli anelli di metallo che gli fasciano le dita è una scossa che Elena sente guizzare fino al cervello. La sua pelle che brucia un po’, caldo e freddo. È durata solo un po’ più del previsto, e così il suo sguardo su di lei, lo sguardo di chi si beve i dettagli anziché scorrerci velocemente.

Calma, Elena: dopo il coming-out di Galileus, sembra addirittura normale.

Il problema è che avresti bisogno di un po’ di tempo per assimilare le scoperte dell’ultima settimana e metabolizzarle: non c’è stato il tempo di ragionare, e Andrea e Gabriele si sono davvero impegnati, a sballottarti da un riassestamento sismico all’altro.

 

* * *

 

Sono bastati pochi secondi di ricreazione con cabaret improvvisato, e tutto è accaduto in una manciata di secondi. È semplicemente finita.

Andrea sbatte le palpebre, soprappensiero. Il tempo di prendere un po’ d’ossigeno, e la festa era conclusa. Ma il silenzio è ghiaccio, e il bianco scintillante del pavimento, la superficie intera della stanza, hanno un che di irreale, come il carico di mormorii sotto la superficie. L’aria è carica di elettricità, la tensione cola giù dalle pareti come vernice in eccesso: potrebbe sfiorarla. È come un cataclisma annunciato, previo esodo di massa dal posto. Più in là, di fronte alla bacheca, qualcuno gesticola e sussurra.

Isa Cortesi si osserva intorno come una volpe smarrita, e per la prima volta sembra non avere da dire la sua: nessun assalto improvviso, nessuna previsione da Cassandra.

La faccia tirata di Alessandro Alberti è il ritratto della delusione: strano che nemmeno stavolta, con mamma Balducci a piede libero, la palma si sia aggiudicata a lui. Ora tutta la sua attenzione è concentrata sul foglio timbrato e pinzato che campeggia in bacheca: lo studia e lo soppesa come uno strano reperto, scorre l’elenco e, non contento, ricomincia a mandarlo giù a memoria, le palpebre strizzate dietro le lenti sottili. Forse vuole autoconvincersi che sia il prodotto di un’allucinazione collettiva, e farlo evanescere. Ma quello niente, resta lì, nero su bianco nella sua verità disarmante.

È stato un imprevisto.

Andrea si passa una mano tra i capelli: la cosa sarebbe divertente, senza quel nodo d’angoscia attorcigliato allo stomaco.

Ivan Basile, già isterico prima di sbattere il muso contro il cemento del verdetto ultimo, si è già lasciato alle spalle l’aristocratica incredulità di Alberti e si osserva intorno come in gabbia, in cerca di un colpevole. Affila gli artigli verso quel foglio come se volesse stritolarlo, cancellarlo dalla sua vista. Poi invece si risolve a lisciarsi la barba scura. Un secondo di riflessione.

- Qualcuno mi dice chi diavolo è ‘sto Alessandro Thompson?

- Alexander – lo corregge Alberti, pronto a soffiare sulle braci accese.

- ‘fanculo, è uguale! – sputa fuori Basile, ormai una bomba a orologeria – Dai, voglio saperlo, chi è il campione sconosciuto. O questo non esiste, e ci hanno tenuti qui mezz’ora ad aspettare i comodi loro per l’ennesima presa in giro?

La mazzata in fronte arriva a scoppio ritardato. Andrea si osserva la punta delle scarpe. Quasi gli gira la testa.

La Balducci. Alex Thompson che gira lo sguardo e finge di dormire. Il relax totale, ai limiti del letargo. Una scintilla tra l’imbarazzo, l’astuto e il non-detto, che a stento è riuscito a dissimulare in quattro risposte a monosillabi. La quiete prima della tempesta.

E adesso è lì: braccia incrociate sul petto e un sorrisetto storto che gli corruga la guancia, solleva gli occhi al cielo e poi cerca il suo sguardo, una punta di irriverenza non voluta. Si passa una mano tra i capelli come a sancire la vittoria.

Capelli che sono più viola che mai – non sono nero sbiadito: sono color melanzana e vagamente stopposi. Andrea sbatte le palpebre, disorientato.

Serpente…!

Al suo fianco, Patrizio si ficca le mani in tasca e scrolla le spalle come per dire “E quindi?”. Rapido gioco di sguardi tra Elena e Gabriele, con le peggiori facce da “me’ cojoni” che abbiano mai avuto in vita loro. Per un pelo non scoppiano a ridere, ma più per un accesso di nervosismo.

Alex Thompson e il suo ingresso col botto.

L’unico con un minimo d’iniziativa, in quell’encefalogramma piatto generale, è Gabriele. Ha passato un braccio intorno alle spalle di Thompson, riscuotendolo dalla sua apoteosi ammiccante, e l’ha sottratto a pericolose rappresaglie tirandoselo dietro verso le scale, direzione studio della Balducci. Per evitare il massacro finale.

C’è un pezzo che non torna…

E poi, di nuovo via alle danze. Basile che si aggira per il corridoio come un rapace, pronto a snudare le zanne ma senza un obiettivo concreto; Alberti che si concentra e annusa il profumo di sangue nell’aria.

E l’exploit finale.

- O mio Dio! – Alberti si porta le mani alla faccia come folgorato da un lampo di genio improvviso – Ecco chi è! Il tizio nuovo, il darkettone! Ed era qui fino a poco fa…

Ecco, mo’ l’hai detta, Alberti.

Basile è saltato su come se qualcuno gli avesse infilato una tarantola nei jeans, il volto sbiancato di un paio di gradazioni.

Se non altro la cosa potrebbe farsi divertente…

- Cioè, no! Fammi capire… – un attimo e piomba su Alberti, a due centimetri da lui – Stiamo parlando della stessa persona? Il vampiro di Twilight… Thompson?! Quella specie di emo, brutto come la fame?

Ecco. Ora vanno a briglia sciolta.

- Tsè! Sei bello tu…!

Okay, non è astuto aggiungere lo strappo che di solito porta al punto di rottura, ma non ne ha potuto fare a meno.

- No, fatemi capire! – Basile lo ignora e solleva le mani al cielo, melodrammatico come neppure nella sua performance più riuscita – Mandano quel coso oltre oceano a sputtanarci in blocco?

- Scusa, l’hai mai visto alle prove? Come fai a…

Andrea ha mosso un passo avanti. Va bene la delusione, va bene non essere d’accordo sul verdetto, chiedere spiegazioni, fare ricorso e tutto il resto, ma questo è troppo. Non che Thompson meriti la sua difesa d’ufficio, ma il rischio è la rappresaglia incontrollata. La seconda.

- Nicoletti, cazzo, per favore… – Basile taglia corto con un gesto stizzito, come ad allontanare un moscone – Non essere ingenuo! L’hai visto bene?

- No, non l’ho visto. Non mi sembra di aver detto “buono” o “cattivo”. Non l’ho mai visto recitare e non giudico.

- Io l’ho visto e vorrei non averlo mai fatto! – conclude Basile con un grugnito.

- Aspe’, aspe’… fatemi capire un po’! – ecco Isa, pronta a buttare nel calderone la sua verità, e a quanto pare no, non le si era inceppata la lingua – State dicendo che… quello è il famoso raccomandato della Balducci?

Come nelle migliori tradizioni.

Sospira, Andrea. Sarebbe proprio tentato di sporcarsi i vestitini per non sfigurare dinnanzi a tanta noblesse e scendere nella mischia a pieno titolo. Peccato non ci sia Gabriele a parargli il culo dal fuoco avversario: ha sottratto Thompson dall’esecuzione sommaria un attimo prima che cominciasse il lancio di oggetti e parole contundenti.

- Raccomandato della Balducci! – Andrea ammicca, luciferino – Alberti, non senti un campanello d’allarme nella testa?

- Zitto, Nicoletti! – l’interessato rispose. Con un ruggito in piena regola – Proprio tu! Devi solo tacere. Zitto, muto. Non c’è altro.

- Ma scusate, mo’ cosa c’entra?

Una voce sottile alle sue spalle, come un’ancora precaria, tesa verso la salvezza. Elena.

E il quadro è tragicamente al completo.

- Ecco, appunto, Avvocato. Diglielo anche tu – rumina Alberti, un sussurro appena smozzicato.

- Loria, non essere ridicola! – di nuovo Isa, il veleno che tracima dalle labbra imbellettate.

Elena si limita a un’occhiata di sufficienza.

- Ivan, cerchiamo di darci una calmata! Tutti.

L’intervento provvidenziale di Patrizio sembra rimettere le cose in ordine per qualche frangente. Si è avvicinato al suo compare di bevute e gli ha sussurrato qualcosa, una pacca sull’avambraccio come per rassicurarlo.

- È tutto a posto, okay? Quando tornano, puoi chiedere tutte le spiegazioni che vuoi.

- Cosa gli dovrei chiedere? A quello? – Basile digrigna i denti – Di espatriare? Io con i clown ridicoli non ci parlo!

Simpatico come le ragadi nel bel mezzo della Parigi-Drakkar.

- Andre? – l’ha sentita.

Loria.

Ha sentito soprattutto le sue dita artigliargli il braccio fino quasi a stritolarlo, le unghie conficcate nella carne.

- Andiamocene. Ora – gli soffia.

- Direi che è il caso.

Il tempo di recuperare Gabriele – che quando esplodono certe granate, ha sempre di meglio da fare – e uscire di scena con una parvenza di dignità.

 

È finito tutto molto velocemente, più di quanto immaginasse. Quasi non ha visto il corridoio, le scale doppie fino all’ufficio della Balducci e la corsa contro il tempo. La professoressa ha messo il muso fuori dal suo covo e gli ha schiaffato un’occhiata irriverente. Che lui, saggiamente, ha finto di ignorare.

Dannata strega. Forse Thompson è il pretesto – e tanto valeva la pena di scagliarlo da solo nella tana delle belve. Il pretesto per scavalcare le decisioni di Neri e imporre il suo pupillo, scelto così senza pensarci troppo. È la sua vittoria risicata.

Gabriele ed Elena sono entrambi scuri in volto, grondanti di apprensione.

- Scendiamo dalle scale lato segreteria – è il geniale suggerimento della sua arruffatissima migliore amica – Di là si sta scatenando l’inferno, sono tutti contro tutti.

O “tutti contro Thompson”. Se Loria non l’ha detto, l’ha almeno pensato.

- Niente fermate di autobus – soggiunge Andrea, uno sguardo di comune intesa – Vi do uno strappo io fino alla Casa dello Studente e non voglio sentire più mezza parola.

- Ehm, troppo tardi… – Gabriele si batte una mano sulla fronte, con stizzita rassegnazione.

E da lì, l’inizio di un epilogo di sangue e fiele.

Sono tutti schierati lungo il piazzale. Alberti e compagnia in disparte, a snocciolare con calma le loro prospettive e attendere la sparatoria.

Basile e i suoi fanno capannello sul limitare della porta come comari sul sagrato prima della messa funebre. Un funerale come la faccia di Patrizio, che è livido, lo sguardo di chi ci ha provato con le buone e con le cattive, a contenere la valanga, ma senza risultati.

Basile giochicchia nervosamente con l’orecchino, gambe larghe e mano sul fianco. Si è acceso una sigaretta.

- Beh, quindi com’è andata? – ghiaccio sottile, come il sorriso tiratissimo che gli contrae la faccia.

Si è avvicinato ad Alex e l’ha soppesato come una razza inferiore di lumaca. Un po’ troppo da vicino.

E visto così, Basile fa leggermente paura, i lineamenti sigillati nel ferro e la barba semi-incolta. I capelli sono sfuggiti dalla coda e frustano l’aria. Ma il dettaglio preoccupante è che sovrasta Thompson nel senso più terribile della parola.

È un aut-aut.

Alex scuote le spalle, il volto una maschera di indolenza.

- Ehi, parlo con te! – Basile sorride, sarcastico – Cosa le hai risposto?

- Che dovevo risponderle? – Alex si è deciso a far sentire finalmente la sua voce.

Che è anche troppo ferma. Piatta su un’unica nota.

- Mah… fa’ un po’ te. La cosa migliore che puoi fare è declinare l’invito e passare la palla al secondo nome nella lista. Il teatrino è durato pure troppo.

Alex arriccia il naso.

- Ma non ci penso neanche! Perché dovrei?

- Perché dovresti? – Ivan sgrana gli occhi e si guarda intorno come a cercare il favore della sua sparuta platea – Ti sei visto allo specchio? Secondo te il “Goldoni” è così alla frutta da imbucare di là, come biglietto da visita, un fenomeno da baraccone che recita come un bambino di cinque anni?

Ha mosso un altro passo, centrando Alex con una spallata.

Brutto affare. Bruttissimo.

- Senti, Basile, questo lascialo decidere a qualcun altro. Ho diritto quanto te.

Andrea stringe i denti, uno spiacevole formicolio che gli solletica lo stomaco. Se Alex uscirà ma vivo da questa storia, gli farà una statua d’oro – di fianco a quella che un giorno ha promesso a Loria, l’Imperatrice. Prova quasi stima per lui, per il coraggio con cui tiene testa a Ivan Basile. Armato solo delle sue parole e di qualche faccetta ironica.

- Diritto, hai detto? – Basile assottiglia le palpebre, lo sguardo fisso.

Si volta verso i suoi compari e scoppia in una risata roca, chiedendo per la seconda volta la provocatio ad populum.

- Avete sentito anche voi?

Dietro di lui, Patrizio arruffa il pelo, irritato. L’altro suo compare accenna a un ghignetto più agro che dolce verso Alex.

- Ascoltami bene, emo-boy delle palle – riprende Basile, diretto come una freccia – Tu adesso sali di nuovo dalla Balducci e le dici che rinunci. Ci siamo capiti? Immaginati la figura di merda epocale per l’Accademia intera, a mandarci te! E qui c’è gente mille volte migliore che deve rinunciare per i soliti raccomandati del cazzo.

- Non è emo – lo interrompe Patrizio, pallido tentativo di perdere tempo.

- Hai ragione. È solo un figlio di puttana.

- Non è nemmeno un raccomandato – soggiunge Patrizio, poco convinto.

Alex si stringe nelle spalle. Non fa una grinza.

- Ho già firmato… – gli sussurra, petulante, scandendo bene le sillabe.

- Tu cosa?! – Basile si avvicina ancora, tanto da schiacciarlo contro la balaustra.

- Ho. Firmato.

- Quanto ci scommetti che entro cinque minuti avrai rinunciato di tua spontanea volontà?

- Non ci scommetto proprio niente. E mi dispiace per te, ma devo andare.

- Tu non vai da nessuna parte finché qui non si mettono le cose in chiaro! – Basile ormai gli urla in faccia.

Ha una voce potente, la cadenza cupa di una marcia funebre.

Thompson coglie il momento per aggirare l’ostacolo – il pilastro – e sgusciare via dalla sua portata. Aria.

- Manuel Alexander Thompson… – gli soffia Basile, alle spalle, come un soffio d’aria gelida.

No. La rissa no, vi scongiuro!

Andrea si scherma il volto tra le mani. Perché così non vale, la lotta è impari. Forse se si mettessero in mezzo lui, Gabriele e Patrizio, riuscirebbero anche a contenere la furia, ma non a garantire Alex dell’integrità facciale.

- Mi senti, Thompson? O hai problemi di udito, oltre che di testa? – grida Basile.

In un attimo gli è addosso, lo afferra per un lembo della giacca e lo scuote, scaraventandolo contro la panchina. Avrebbe fatto di peggio, su quella scia, se Patrizio non l’avesse trattenuto abbrancandolo per la vita.

- Adesso basta, falla finita!

Silenzio. Alex si scuote la polvere di dosso e prosegue indisturbato nella sua marcia folle.

- Thompson. Oltrepassa quel cazzo di cancello e sei fottuto! Hai capito? Fa’ un altro passo, e giuro che ti farò pentire di aver messo piede qua dentro. Ti renderò la vita impossibile e ti giuro che posso farlo e lo farò.

- È una minaccia? – Alex non si è neanche voltato, ma Andrea giurerebbe che sulla sua faccia pallida campeggia un sorrisetto da schiaffi niente male.

Gli ha rivolto un saluto affettato con la mano e ha infilato il beneamato cancello. È guerra.

- È una promessa, caro Thompson.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Capitolo 30 - Coming-out ***


Capitolo 30

Coming-out

 

C’è una nota stonata che ti rimbomba nella testa, qualcosa che nemmeno le ultime scosse telluriche sono riuscite a mettere in stand-by.

Forse le malelingue avranno visto nel tuo abbandono di campo la battuta in ritirata di fronte alla prova schiacciante. Isa ha visto e registrato: non ti spieghi altrimenti il sorrisetto trionfante che non ha smesso di buttarti in faccia neanche per un istante, incurante del resto.

Ti sembra di sentirla, ammantata dell’aura di colei-che-tutto-sa. Tenterà di aprire altre faglie, di mettervi l’uno contro l’altro colpendo le giuste corde – l’ha detto: farà di tutto per rovinarti, per distruggere il tuo rapporto con Andrea. Un’ammissione: cosa puoi volere di più? Dirà che hai girato sui tacchi in direzione macchinetta del caffè, e poi di lì fuori nel piazzale per smaltire i fumi della gelosia, e che la vista di Andrea stretto più che mai a Gabriele, la testa adagiata sulle sue gambe in estasi sonnolenta, è stato troppo per te. Abbastanza da farti sentire esclusa, inopportuna.

Non sa, non immagina, ma forse le piace crederlo.

La verità è che non potresti volere di più – è un sorriso di trionfo quello che ti si apre sulla faccia? La lotta non sarà facile o priva di asperità: l’avevi calcolato, ma non ti importa più.

Quello che conta davvero è la chimica tra Andrea e Gabriele, il prodotto più genuino tra tutto ciò che hai tessuto: poco importa se le dita che scorrono tra i suoi riccioli, non siano le tue. Ciò che conta è che li hai presi e gettati l’uno tra le braccia dell’altro, e che lì ci sia tu o Gabriele Derossi, non fa una gran differenza. È il frutto di una stessa follia, un tenero complotto di cui non resta che rivendicare la paternità. Sei sempre stata dalla loro parte ed è l’ultima cosa che lei riuscirebbe a immaginare.

Potrà insinuare quello che vuole, potrà rovinarsi l’esistenza, mettersi cento volte nei tuoi panni e dire che al posto tuo li scaraventerebbe giù da un burrone, che non ti muoverebbe di una virgola. È la sua illusione, la sua favola mentale; questa è la tua, e tanto fa.

Il fatto è che quel pomeriggio eri stanca e non ti importava nulla del nome che sarebbe saltato fuori. Andrea o non Andrea.

È o non è lo stesso ragazzo che ogni sera si faceva infilare la lingua in bocca dall’ormonosa di turno, mentre in segreto si scioglieva dietro il professor Pigmalione? È lo stesso, ambiguo concentrato di vorrei-ma-non-posso?

Il problema è che nulla sembra voler convergere verso un punto fisso, una risposta che sciolga da ogni dubbio e, per la prima volta, nessuno sente il bisogno di trovarlo. Di ritagliarsi una parte ben definita, fosse pure quella del perdente.

In fondo per te è sempre stato così: nessun continuum, nessun compromesso tra prima e dopo. Un colpo di spugna e si riparte da zero. È sempre stato un vivere storie diverse, tante Elene, un distruggere e ricreare da capo, avendo cura di tenere tutti i blocchi di passato ben separati e chiusi dentro altrettanti cassetti come fasi compiute.

Il motivo per cui ti sei defilata dalla tensione e dal brusio incessante, è che c’erano troppe facce familiari, Lastella in testa: è bastato il suo profilo in controluce dietro la porta a vetri, il suo modo inconfondibile di ciondolare qua e là. Un tuffo al cuore. Era suo fratello, ma poco importa.

Non era il caso di riportare in vita per qualche attimo la Elena del liceo e quella dell’Accademia dei primi mesi, abbattuta, sconfitta e da riprogrammare da capo. Non era il caso di rivivere frammenti di vita che hanno avuto un inizio e una fine o che sono rimasti incompiuti. Non eri pronta a riassemblare la connessione tra un prima e un dopo, tra il presente e un passato più o meno lontano, tramite una faccia conosciuta e un sentimento che cova sotto le ceneri. È un punto e a capo senza gradazioni intermedie. E tu sei questa qui.

Le uniche motivazioni ad averti spinto di nuovo là dentro, il vento che iniziava a pungere e la poca utilità di rigirarsi tra le mani un bicchiere vuoto. E ormai volevi vedere se in bacheca avessero affisso i maledetti risultati, se fosse saltata qualche testa.

A sferzarti la pelle non è stata la corrente capricciosa, ma la quasi-certezza che nulla sarebbe andato a posto. Che l’imprevisto sarebbe venuto a stravolgere una giornata troppo piatta per dirsi conclusa. C’era elettricità nell’aria – la stessa che ti eri lasciata alle spalle: non è mai andata via. Le sorprese non sarebbero finite con l’agognato nome in cima alla lista, lo sapevi tu e lo sapeva Andrea.

E poi, cos’altro è stato? Solo uno scalpitare furioso in cima alle scale, l’eco di urla confuse da una parete all’altra. Una cosa spigolosa che vola giù dalle scale, che impatta, ti investe con la sua mole e fa strike.

Ciliegina sulla torta, c’è anche lui, l’homo novus, il darkettone amico di Lastella, che proprio non la conta giusta. Che sfarfalla in giro e, senza muovere un dito, dà l’impennata verso l’anarchia totale.

 

* * *

 

Patrizio sembra quasi soddisfatto del tuo resoconto al microscopio, al sicuro tra le pareti della sua stanza e senza ascoltatori impiccioni. Adesso trova più rilassante planare alle tue spalle, accomodarsi sulla scrivania e giocare a scompigliarti i capelli, le dita che scorrono sulla cute. Non gli importa che potresti addormentarti e mettere troppo presto la parola “fine” a una serata dimmerda coi controfiocchi.

- Vuoi sapere altri dettagli appetitosi sulla mia “love-story” con Riccardi o va bene così? – ammicchi – Oddio… anche no!

Sarcasmo distillato.

Patrizio ha qualcosa di strano: una serata intera all’insegna del tenere i propri pareri per sé e limitarsi a domande a risposta aperta. Non è da lui.

- Ah, ecco…! Quasi dimenticavo – sorridi: stemperare la tensione non è un’utopia, non con le mani di Patrizio che fanno miracoli sul tuo collo incriccato – Al momento del misfatto, ne sono certo, portavo dei boxer neri. Porto solo boxer neri… dai, non è difficile. Di Riccardi, mi spiace ma non so dirti – arricci le labbra, fingendo grande concentrazione – E nemmeno ci tengo. Ma ipotizzo un tanga leopardato.

- Ti prego, evitami certe immagini…! – Patrizio finge di infilarsi due dita in gola.

- Scendiamo al bar? – azzardi.

- Aspetta ancora un po’: forse si sono dati tutti una calmata, forse no. Non senti urla, bestemmie, kalashnikov, odore di polvere da sparo…?

- E io che mi immaginavo il botto… – socchiudi gli occhi, estasiato.

- Volevi il sangue? – Patrizio sbatte le palpebre.

Lo specchio dell’armadio a muro ti rimanda la sua faccia perplessa e vagamente sconvolta, il sopracciglio sollevato e una strana smorfia che gli contrae gli zigomi. Ma poi riprende a dedicarsi al tuo collo.

Sospiri. Forse è stata una pressione particolarmente intensa alla base della nuca a meritarsi un ansito di approvazione. Dita sottili che scorrono lungo l’attaccatura dei capelli fino alla nuca come piume. Da brivido. Dannazione

- Se vuoi sapere come la penso – azzardi, riprendendo il controllo – Qualunque nome sarebbe saltato fuori, qualcuno avrebbe avuto da ridire. Che si mettano l’anima in pace: non era Nicoletti e non è Thompson, il problema. Tuo fratello che diavolo ha fatto?

- Ha provato a far grugnire Riccardi. Con scarsi risultati. Riccardi non ha ceduto, quindi niente zuccherino – Patrizio sorride a mezza bocca.

- Ecco – sollevi gli occhi al cielo, come un’illuminazione improvvisa – Credo che l’apocalisse sia iniziata lì. Abbiamo il secondo epicentro. Mo’ dobbiamo solo aspettare il bollettino di guerra.

- Non so perché… – Patrizio si stringe nelle spalle – Non ho ancora sentito la registrazione, ma credo che non abbia cavato nulla di buono. Finirà con un nulla di fatto.

- Perché sei pessimista?

- Perché Riccardi conosce i suoi polli. È già tanto che si sia lasciato fregare da un fricchettone affamato dei cazzi suoi. Ha capito da che parte stiamo.

- Ha capito che è nel torto marcio – tagli corto – Ha fatto una cazzata e non vuole che se ne parli. Non sa come giustificarsi. Nel dubbio, siamo noi quelli sporchi e cattivi.

Patrizio distoglie lo sguardo; soprappensiero, stira i muscoli delle braccia.

- Sinceramente, la cosa inizia a farmi un po’ strano: Luca non torna più, e di là è successo il pandemonio. Dov’è Thompson?

- Al sicuro. L’ho scarrozzato fin qui e praticamente costretto a barricarsi in camera. Non è serata…

- Ci sei rimasto male? – Patrizio si sporge verso di lui, occhieggiando con fare sagace.

- Perché avrei dovuto?

- Perché hanno scelto lui.

Quasi gli sbuffi in faccia.

- Te l’ho detto, Patrizio: me ne importa meno di zero. Potevano giocarsela a poker, che continuerebbe a non fregarmene nulla. Non ne faccio una questione personale! Oh, a proposito: complimenti al tuo amico: ha dato uno spettacolo pietoso.

- Ivan? È fatto così, si infiamma facilmente – Patrizio si stringe nelle spalle, a disagio – Da una parte forse è normale, eh: ci teneva molto, era sotto stress e alla fine ha sbroccato.

- Era normale – lo corregge Andrea, metallico – Finché non ha cercato di eliminare fisicamente Thompson. Un perfetto nevrotico.

Sospira, Andrea: non sa cos’è, forse la scenata nel piazzale, gli insulti, le minacce, tutto quel risentimento, ma non gli piace. Loro gli piacciono sempre meno: è una questione di epidermide, non può farci molto.

- E di Thompson che ne pensi? – Patrizio gli scocca uno sguardo indagatore.

Andrea si stringe nelle spalle.

- Devo pensarne qualcosa? È… è okay. Cioè, boh. Non lo so. Non riesco a seguire il ragionamento della commissione. Anzi, no, della Balducci lo so quasi per certo: è felice di essere riuscita a imporre il suo cocchino in faccia di tutti, si è presa la sua rivincita e l’ha messo in quel posto a Neri. Pace. Gli altri, non so… Forse volevano l’uomo nuovo – pausa di riflessione ispirata – O forse Thompson non sembra ma è un figo, straccia tutti, non c’è paragone con nessuno, e allora il tuo amico dovrà farsene una ragione. Io non l’ho mai visto, ma qualcosa vorrà dire.

- Mbah! – Patrizio solleva gli occhi al cielo, sibillino – Thompson mi è simpatico, ma come attore, non aspettarti nulla di stratosferico. Non fuggi schifato, ma nemmeno ti stracci le vesti.

- Cosa vuoi dire? – Andrea si volta, quasi perfora Patrizio con lo sguardo: quando la tensione si impenna, il contatto visivo che può garantire uno specchio, semplicemente non regge.

Patrizio si passa una mano sul mento, meditabondo, per poi raddrizzarsi il piercing sul labbro in un gesto quasi scaramantico.

- Okay, non voglio fare polemiche… No, dai. Non è così male, ma non è nulla di speciale: guarda, potrei vederlo adesso recitare una parte a caso ed elencarti ad uno ad uno i difetti. Hai presente uno studente al primo anno, rigidino, con il panico in tasca e la pronuncia imperfetta? Ecco: poca roba, per salire agli onori.

- Io sono al mio primo anno – incalza Andrea – Ma tu forse sei un po’ più scafato e lo capisci a colpo d’occhio, se uno ne vale la pena… Insomma, per meritarti uno stage cucito addosso, non servono le mezze misure: o spacchi tutto, o sei uno schifo.

- Tu sei fuori questione, Andre’ – Patrizio gli sorride, complice – Tu stai una spanna sopra e non si discute. Sei il migliore, l’hanno capito anche i sassi. Alex… è senza infamia e senza lode. Un cavolo di novellino qualunque. Scolastico, ingessato. E poi ha un cazzo di accento…

- È bilingue? È questo il problema? – Andrea solleva un sopracciglio, scettico – Tra un po’ fa fagotto e parte per gli States, non avrà problemi con la lingua!

Sospiri: volevi buttarla vagamente sul ridere. L’hai fatto nel modo sbagliato.

- Non puoi sorvolare su questo. L’accento è sporchissimo. L’hai sentito, quando parla? Non sono dettagli: la Longoni prima o poi lo cazzia. Mi chiedo cosa volessero ottenere stasera… – Patrizio ha preso a camminare in circolo per la stanza, nervoso – Sia chiaro: non ce l’ho con Alex, gli voglio bene e spero che Ivan colleghi il cervello e tenga le mani in tasca. Il punto è che non capisco che parametri usino in commissione per dare punteggi e stilare graduatorie: volevano truccare i risultati? Okay, ‘fanculo, non posso dimostrarlo, ma almeno la facciano pulita! Ci sono cinquanta candidati: ora, vuoi fare il coglione? Bene, ne peschi uno semidecente, che non ti faccia sfigurare troppo, e non se ne parli più. No, loro devono complicare le cose: polemiche, gente che si incazza, ricorsi a non finire… Che ha Thompson di speciale? Ne trovi mille come lui: prendi uno che almeno abbia una dizione accettabile. Serviva uno del primo anno? Prendi Alberti, almeno sa il fatto suo e c’ha pure paparino che sgancia. O Derossi: è bravissimo. C’era Cortesi, c’era la tua amica, Loria… Lei mi piace. Ma Thompson, scusami un po’, da dove sbuca? È qui due giorni, oggi e domani, quasi non lo conoscono. Che cavolo di idea si sono fatti? Te lo dico io cosa succede adesso: quello si è fatto cinque anni a Londra, adesso vola verso ameni lidi; quando torna qua, ha l’accento più sporco di prima, e lo massacrano. Glielo faranno pesare in eterno.

- Mi stai dicendo che hanno blaterato per giorni, quello non va bene, quello nemmeno perché è il tuo pupillo e mi sta sui coglioni… E poi hanno preso un granchio? Volevano accontentare tutti e non hanno accontentato nessuno? – il laconico responso.

Saresti quasi d’accordo con lui, se avessi visto Alex all’opera. Ma così si può solo scrollare le spalle e basarsi su vaghe ipotesi.

- Sai cos’è che mi preoccupa più di tutto? – Patrizio incrocia le braccia sul petto, contrariato – Che Thompson non ha colpa ed è capitato nel posto giusto al momento giusto… o al momento sbagliato. Adesso passerà lui per infame. Hai sentito cosa dicono di là? Non dicono “Gli stronzi della commissione fumano pesante”; dicono “Se becco quello schifoso raccomandato, gli cambio i connotati”. I docenti fanno le loro puttanate, ma adesso è Alex che ce li ha tutti addosso.

Andrea raccoglie le gambe contro il petto, un lieve malessere che per un attimo gli stringe la gola.

- Mi viene da piangere, se penso che ci sono anch’io, in mezzo a quelli che hanno mosso guerra ai raccomandati… Adesso c’è la psicosi generale: arriva uno che non ti va a genio, ottiene qualcosa in più di te, e automaticamente diventa un raccomandato.

- Certo che avete scatenato un bel casino, tu e i tuoi amici…

Ma nello sguardo di Patrizio non c’è l’accusa che immaginava: è una piatta constatazione.

- È la nuova parola-chiave – prosegue Patrizio, un ghignetto amaro che gli contrae i lineamenti – Raccomandato, raccomandato, raccomandato. Se vuoi infangare qualcuno, tira fuori la parola magica, e tutti ti daranno ragione, perché è l’unico discorso che metta d’accordo tutti. Peccato ci vada di mezzo anche chi non c’entra.

Andrea sorride: ha raccolto la sfida.

- Non c’entra… Thompson? Vacci piano! A me non sembra innocente. Vorrei sbagliarmi, ma per me sapeva già qualcosa: troppo rilassato, troppo sicuro di sé, come se lo desse per scontato. Gli ho fatto qualche domanda, prima, ma non si è sbottonato. Forse la sua mentore gli ha fatto capire che non ci sarebbero stati problemi, quindi poteva andarci liscio. Oddio, questo non toglie che Basile l’abbia trattato da schifo. Minacce, spintoni, accuse ridicole…

- Se la Balducci o altri hanno brigato per lui, ti dico che Alex non ne sapeva nulla – Patrizio è ormai balzato sulla difensiva, le parole che quasi si accavallano l’una nell’altra – Era sereno e rassegnato perché non ci avrebbe scommesso un centesimo che sarebbe toccato a lui. Non era tra i papabili. Poi… è successo tutto d’un botto. Secondo me è rimasto tipo scioccato.

- Ma dai! Fa il finto tonto, ma ha la faccia di uno che la sa lunga. Per me rideva sotto i baffi – Andrea assottiglia le palpebre, fissa Patrizio: non vorrebbe gettare altro fango, ma è una questione di principio.

Patrizio ridacchia, buttando la testa all’indietro, e si ravvia i capelli.

- Stai prendendo una cantonata. Mi sarei accorto di qualcosa… Gli sono stato praticamente alle costole.

- Oh, basta! – Andrea scoppia a ridere a sua volta, una punta di esasperazione – Perché lo difendi così? Non voglio dire che sia un bastardo. Magari è solo rimasto impelagato nei tramacci di mamma Balducci, e quando l’ha capito era troppo tardi per tirarsi fuori, e ha preferito tacere per non peggiorare la situazione, farla passare come una casualità e raccoglierne i frutti: mettersi a far storie, quando tutti lavorano per te, è imbarazzante – poi aguzza lo sguardo, un’illuminazione improvvisa – Ma scusa, per caso ti piace? Da come ne parli…

Patrizio fugge con lo sguardo – il che vale più di un’ammissione. Se poi incomincia a ridere o scuote il capo, sta firmando la sua condanna.

- Un po’… Ha un suo perché. Peccato abbia solo diciotto anni…

- Ah, è piccino.

- Perché, scusa, tu quanti anni…? – lo incalza Patrizio.

- Quasi venti – lo interrompe Andrea.

- Ecco – Patrizio scuote la testa – Siete in due. Pivelli.

- Ma nessuno dei due è un’anima candida, a quanto pare – Andrea ammicca, malizioso – Secondo te Alex è gay?

- Non penso – Patrizio lascia vagare lo sguardo in giro per la stanza, soprappensiero – Non dà molti segnali che ti facciano dire “sì, è etero” o “sì, è gay”. Quindi, per la legge dei grandi numeri, è più probabile che sia etero. Qualunque cosa ne dica il tuo amico Riccardi.

- Oh, certo! – Andrea gli fa cenno con la mano: qualunque cosa, ma potrebbe almeno evitare di dargli il voltastomaco riportandoglielo alla mente – Riccardi è notoriamente un esperto in materia. Per lui è gay perché si mette la matita negli occhi.

- Molto scientifico! – Patrizio si tira indietro i capelli – Se uno si trucca perché è dark o che cavolo ne so, cosa c’entra? Anch’io mi trucco quando vado a cantare; anche gli attori si truccano, anche lui quando comincerà a far qualcosa di serio, sempre che ce lo vogliano… Siamo tutti gay? A me piacciono i ragazzi, ma non penso di avercelo scritto in fronte. Magari Alex fuori di qui ha pure una ragazza, e noi ci facciamo le seghe mentali.

- Ecco, appunto. Cosa ne parliamo a fare? Ci sono cose più importanti – taglia corto Andrea.

- Esatto – Patrizio annuisce – Tipo provare a scongiurare il disastro.

- Pensavo a questo – Andrea si stira come un gatto, il germe di un’idea che gli ronza nella testa – Pensavo a te.

- Io? Che c’entro? – Patrizio aggrotta le sopracciglia, interdetto.

- C’entri eccome – Andrea sorride, luciferino – Basile è amico tuo. Prova a parlarci, fallo ragionare: ci salveresti da una marea di seccature. Salveresti Alex. Non ti sta a cuore il suo bel faccino?

- Senti – Patrizio arriccia il naso: sembra essere tornato serio – È meglio se io e Basile evitiamo di incrociarci oggi, perché si farebbe la lavata di capo del secolo. L’avrà cazziato Moro, e il mio turno slitta a domani.

- Moro chi? – Andrea corruga la fronte, confuso – Scusa, mi sono perso a metà strada.

- La seconda chitarra.

- Ah, siete tutti qui. In soldoni?

- Il tipo che ci ha raggiunto nel piazzale. Alto, faccia mezza addormentata…

- Forse ho capito – Andrea si stringe le mani in grembo, non troppo convinto – Almeno lui è tranquillo?

- Più di Basile, non ci piove.

- Puoi provare a parlarci? – lo incalza Andrea – A farlo desistere?

- Se la cosa deve esplodere stasera, forse stiamo perdendo tempo prezioso – Patrizio raccatta la giacca appesa alla sedia, fulmineo, un attimo prima di scartare verso l’uscita – Ma tu vieni con me.

- Io? – Andrea quasi trasalisce: credeva fosse il momento di levare le tende e volare da Gabriele.

- Proprio tu – Patrizio sorride, diabolico – È da un po’ che volevo presentarti ai miei amici…

Andrea annuisce. Un campanello d’allarme gli suggerisce che potrebbe farne a meno, di incartarsi nell’ennesima situazione ad alta infiammabilità, e dormire sonni sereni. Ma c’è sempre quel filo di scazzo residuo a giocare da amplificatore, un cattivo presentimento ancorato al cervello che non smette di fargli il solletico.

- Non mi sembra una buona idea – azzarda.

- Come mai? – Patrizio non si preoccupa di frenare la sua marcia: si limita a buttargli un’occhiata in tralice e prosegue.

- Come mai?! Cosa c’entro io? Tra l’altro, non credo ci sarà questo bel clima da salotto.

- Consìderati fortunato – Patrizio ridacchia – Per una volta non sei l’argomento clou.

Dritto al bersaglio: puntare e fuoco.

- Grazie del complimento! – Andrea gli scocca un’occhiata spazientita – Comunque, se non ti dispiace, io vorrei riprendere un altro discorso…

- Vuoi toglierti il dubbio che Alex mi interessi o meno? – lo pungola Patrizio.

- Niente di tutto questo – Andrea si scosta una ciocca di capelli dalla faccia, sorridendo: meglio cancellare quella patina seriosa – È solo che… come ti stavo dicendo prima, a proposito dei tuoi amici, di coming-out, annessi e connessi: ho esagerato con la paternale, ecco, e mi dispiace.

- Okay, scuse accettate. Tranquillo.

Patrizio ha fermato la sua corsa. Ha scosso il capo, lo sguardo colmo di tenerezza, e l’ha circondato con le braccia. Un manto di calore sulle spalle.

- Va tutto bene.

- È che… mi sono fatto i cazzi tuoi, ho messo bocca dove non dovevo… In fondo non li conosco – Andrea china la testa, sperando di celare il rossore intenso che gli è esploso sulle guance – Ho sputato sentenze. Okay, non ho avuto una buona impressione, soprattutto di Basile e soprattutto stasera, ma… come tutte le “prime impressioni”, non dice granché.

- Ho capito, Andre – la voce di Patrizio gli cola addosso insolitamente dolce, le dita scorrono tra i suoi capelli e disegnano piccoli circoli sulla nuca – È un eccesso di prudenza?

- Poi c’è la storia del coming-out – riprende Andrea, stavolta piantandogli gli occhi in faccia – Ho detto una cazzata: nessuno si presenta e dice “Piacere, sono gay”… O mentre stai incidendo una demo col gruppo, “Ragazzi, volete sapere una cosa? Sono gay!”. Cioè… “chissenefrega!”. Ero solo un po’ preoccupato…

- Per me la stai facendo un po’ tragica. Di nuovo.

Le mani di Patrizio adesso indugiano sulle sue spalle, cercando di distendergli i muscoli.

- Lo so che non è dovere di cronaca, però, boh, è che ci ho sbattuto il muso in prima persona. E non vorrei che un eccesso di… riservatezza? Da parte tua, poi ti ficcasse in qualche situazione imbarazzante.

- Scusa, cosa intendi? – Patrizio aggrotta le sopracciglia, stranito.

Andrea si osserva intorno. Sospira. Fortuna che non c’è nessuno in giro per i corridoi: sono tutti in camera o in giro a farsi i cavoli loro o giù al bar a farsi l’aperitivo e indire consiglio di guerra. Se così non fosse, tempo domattina all’alba, sarebbe pronto il nuovo scoop – e stavolta non ci sarebbero fratelli Lastella che tengano. Dopo Derossi, Nicoletti the body punta sul Lastella in nero e se lo spupazza in corridoio.

Fa uno strano effetto, lì, in mezzo al corridoio deserto, con un silenzio che gli martella addosso e gli echi della congiura giù in basso. E Patrizio che lo stringe a sé.

- Ho paura che la reticenza diventi abitudine. Tu sei lì, ti chiudi nel tuo guscio, diventi geloso della tua intimità. Poi un bel giorno ti ritrovi messo alle strette e casca l’asino. Non vorrei che, per non sbandierare i fatti propri, la soluzione fosse nascondersi per paura del giudizio o, peggio, fingere di essere qualcosa che non si è pur di essere lasciati in pace. Rinunciare a una parte della propria libertà – Andrea solleva gli occhi al cielo – Scusa, forse non mi sono ben spiegato… Mettiamo che loro si convincano in automatico che tu sia etero: è la versione ufficiale, tutti ci si fanno il callo. È il Patrizio che conoscono, un normalissimo etero, poche storie. Mettiamo che tu non ti ponga il problema di mettere le cose in chiaro o semplicemente non ti vada, non sono fatti loro. Un bel giorno decidono di presentarti qualcuna a cui interessi, oppure salta fuori qualche discorso sul personale. Che fai? Due possibilità: o continui la recita e fai finta di nulla, rinunci alla tua identità e ti infogni sempre di più, oppure fai esplodere la bomba, sperando di trovarti dall’altra parte degli amici che non lo siano solo di nome. Anche se magari, avendoti conosciuto in un modo… gli farà strano. Ecco, io avrei paura di complicare le cose: ritrovarmi in una recita che nemmeno io ho scelto di portare avanti; semplicemente, ci sono finito dentro per caso. Sono preoccupato per te, tutto qui.

- Andre! – Patrizio lo stringe di nuovo a sé, contro il cotone della maglia nera che sa di sapone da bucato e di lui.

Le mani aperte scivolano lungo la schiena.

E scoppia a ridere.

- Sei tenero, ti preoccupi per me…! Però no, dai, non è il mio caso.

- Non voglio dire che tu debba parlare per forza… Infatti ho detto una cazzata. Però almeno noi… dovremmo vederla un po’ come – Andrea tentenna, quasi inciampando nelle parole – Come avere gli occhi azzurri anziché verdi o castani.

- Tranquillo! Io penso che Basile e gli altri abbiano avuto qualche avvisaglia, non sono ciechi, non sarà un fulmine a ciel sereno, nessuno si scandalizzerà, non c’è nulla di strano. C’è maturità, apertura mentale, siamo persone adulte: si parla e ci si confronta. Non siamo dei Riccardi col cervello in panne.

- Hai ragione – Andrea si lascia andare contro la parete, cercando di ristabilire un minimo di distacco – Questo non è il tuo caso. È il mio, e mi è successo due volte: prima con mio padre, poi con i miei amici.

- Con i tuoi amici? – Patrizio si allontana il tanto che basta da avere una visuale nitida sul suo viso.

E lo osserva, accigliato.

- Mio padre mi metteva in crisi, ricordi? Avevo paura della sua reazione e ho iniziato a tergiversare, a nascondermi. Rimandavo, rimandavo, e nel mentre fingevo che tutto fosse come credeva lui. Sai come l’ha scoperto? Mi ha beccato con un uomo. Dentro casa – Andrea distoglie lo sguardo: ha evitato con cura di fare il nome di Neri, almeno questo – Quindi, oltre alla reazione che temevo, si è aggiunta l’accusa di avergli nascosto come stavano le cose, come se me ne vergognassi. Quindi, era come se avesse ragione lui: è qualcosa di cui vergognarsi, io avevo qualcosa di cui mi vergognavo e secondo lui facevo anche bene a vergognarmene. Non so se sarebbe cambiato granché, se fossi stato trasparente dall’inizio. È successo con Isa e Alessandro, ma lì non è stata del tutto colpa mia. Io l’ho detto, loro non mi hanno creduto o hanno fatto finta. Erano le mie seghe mentali. Isa diceva “Con me non ci sono problemi, figurati!”, però poi faceva dell’ironia pesante e cercava di buttarmi tra le braccia di amiche varie per risolvere a modo suo il “problema” e cancellare ciò che non le piaceva di me. Che io fossi “al cinquanta e cinquanta”.

- Ovvero? – Patrizio inarca le sopracciglia, stranito.

- Bisex. Ma non preoccuparti, usano metafore anche peggiori. Comunque, alla fine mi sono arreso. Continuate a pensare a me come a uno completamente etero? Bene, vi lascio la vostra convinzione. E ho fatto male. Malissimo. Perché continuavo a tenere il piede in due scarpe pur di non dover riprendere ogni cinque secondi discorsi fatti mille volte, o sorbirmi critiche assurde. E me ne sono pentito. Con te ho esagerato, scusami. La tua situazione non c’entra nulla. Probabilmente non ti è mai passato per l’anticamera del cervello di fare le mie stesse cazzate.

- Tranquillo… – Patrizio sembra ormai un disco rotto, con quel sorriso intenerito che gli incurva le labbra.

Si è chinato a posargli un bacio sulla fronte come una piuma.

- Capisci perché mi sei sempre piaciuto? – gli soffia.

Andrea sorride: se fosse un altro, direbbe che ci sta provando con lui e si affretterebbe a ricomporre le distanze. Che lo voglia o no, è il pensiero di Gabriele a non farlo dormire la notte. Lui e nessun altro. Per la prima volta c’è un punto fisso, una certezza.

Patrizio non fa una piega. Gli sfiora una guancia col pretesto di sistemargli una ciocca dietro l’orecchio e gli fa cenno di seguirlo giù per le scale fino al bar. All’epicentro del terremoto.

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Capitolo 31 - Io non ci sto più ***


Capitolo 31

Io non ci sto più

 

- Gabri?

Quasi non ha chiesto il permesso di entrare, Elena. Si è infilata di soppiatto nella fessura tra la porta aperta e la spalla di Gabriele un attimo prima che il fuggitivo prendesse asilo politico in camera sua.

Andrea è perduto nei suoi deliri da salvatore della patria: potrà fare a meno della sua presenza. È il suo turno, ora, di stornare la catastrofe.

- Elena… – Gabriele annuisce senza entusiasmo, gli occhi socchiusi – Carissima. A cosa devo…?

- Non fare il finto tonto – sogghigna lei, risoluta. Braccia incrociate sotto il seno.

Ora o mai più.

- Sai già qual è l’argomento.

Gabriele si stringe nelle spalle. Non fa una piega.

- Ha poco senso parlare, se Cesare ha già passato il Rubicone.

- La smetti di fare associazioni di idee a cavolo? Ascoltami. Siamo ancora in tempo per bloccare tutto. Ti è bastato l’assaggio di stasera? Ti rendi conto di cosa stiamo mettendo in moto?

- Tendi a sopravvalutare un po’ il nostro contributo, Anna.

L’ha fatto di nuovo e sa che lei lo detesta: essere chiamata con il suo secondo nome, come nelle mail incriminate…

- Qualcosa non va? Quante Anne vuoi che ci siano in tutta l’Accademia? – Gabriele tergiversa, l’ombra di una risatina isterica, e il peggio è che stavolta è perfettamente lucido – Potevo benissimo non sapere che dietro quell’indirizzo ci fossi proprio tu – prosegue, implacabile.

Elena si sforza di sostenere lo sguardo. Gabriele vuole confondere le acque, incastrare argomenti l’uno nell’altro fino a smarrire il filo.

- Balle! Hai cercato me di proposito: sapevi che c’era in ballo qualcosa, che ero così furiosa che avrei fatto carte false pur di mandare all’aria certi assetti del cazzo. Ti rendi conto, Gabriele? Sei al limite dello stalking.

- Tranquilla… – Gabriele ride, finalmente – Non ci avrei provato con te!

- Su questo non avrei dubbi – gli fa eco Elena, acida.

- Che sono un fottuto frocio?

Lo fulmina con lo sguardo: sembra mettercela tutta, Gabriele, pur di rendersi irritante.

Almeno non è come quando è con Andrea, con quella tensione che si affetta a strisce sottili, come stoffa sfilacciata. Ora la tensione ha una grana diversa, meno epidermica, non meno letale. E Gabriele fa paura, con quelle occhiaie fino alle ginocchia – frutto di notti insonni davanti al pc a sviscerare i segreti del nemico – e quel sorriso vampiresco.

- Tu mi fai paura.

Ecco: gliel’ha detto.

- Non ho fumato – la anticipa lui – Sarò razionale fino alla fine.

- Attento – lo redarguisci – Potresti pentirtene. Hai visto il casino che è successo stasera? Era un “dagli al raccomandato”, una monomania collettiva! E, guarda caso, stava per farne le spese uno che non c’entra nulla.

- Beh, per questo dobbiamo ringraziare Andrea: il suo impuntarsi e mandare affanculo lo stage ha dato i suoi frutti. E aver rifatto tutto da capo… Ma figurati! Qualcuno avrebbe avuto da ridire, chiunque fosse il fortunato. La polemica era nell’aria – ha un’inflessione amara nella voce, Gabriele, quando una nota più roca cade sul nome Andrea.

Che scivola così nobile, sulle sue labbra. Ma sa di fiele.

- Il problema è che la situazione ci è sfuggita da un pezzo – lo interrompe Elena – Sono tutte schegge impazzite: ognuno cerca di vedere il marcio dove più gli fa comodo. Sai perché quel tizio, Basile, ha dato di matto? Perché voleva prendere il posto di Thompson. Siccome non gli va a genio che lui gli abbia soffiato il posto, allora tira fuori la menata delle raccomandazioni. E forse ci crede pure…

- Non so che farci, se quel coglione di Basile ha guardato in faccia Thompson e ha deciso di odiarlo a tempo perso – Gabriele sorride, cinico.

- Vuoi che scorra sangue?

- È il prezzo da pagare – annuisce, enigmatico.

- Sta’ attento, Gabriele: non ho paura di perdere il controllo. L’abbiamo perso da secoli. Adesso si tratta di limitare i danni. Pensaci: un altro colpo di testa e potresti scatenare reazioni da cui difficilmente si torna indietro. Sarebbe come lottare contro i mulini a vento.

- Come don Chisciotte e Sancho Panza. Ecco, tu saresti perfetta nel ruolo – Gabriele continua a sorriderle, labbra stiratissime.

E sì che bello, è bello. Come una lama puntata alla gola, lucida e terribile.

Poi, è più forte di lei. Una risatina che le serpeggia lungo la gola, nervosa.

- Mi spieghi perché andiamo sulle citazioni e non vogliamo arrivare al punto?

- Questo devi dirmelo tu, Anna – le iridi di Gabriele sono immobili sotto le ciglia chilometriche, immobili come inchiostro scuro, come un pozzo che non lascia passare la luce.

- Allora te lo dico chiaro e tondo: hai ancora le maledette registrazioni che dovrebbero inchiodare Neri? Quelle che non ho mai visto grazie allo scherzone del falso link… che manco ci tengo ad aprire.

- Ce le ho con me, al sicuro, ed è vero tanto è vero che Neri è un figlio di puttana.

- Ecco, bravo. Adesso le prendi e le cestini. Facci quello che vuoi. Bruciale. Distruggile. Archiviale… Tutto, ma falle sparire per sempre!

- La fai facile, Loria – Gabriele inarca il sopracciglio, sarcastico – Non basta buttare tutto dentro il cestino. Vuoi eliminare il file X? No, non funziona così: rimane la traccia. Potrei distruggere il note-book, la scheda di memoria, ma qualcosa rimarrà. Una traccia che può finire nelle mani sbagliate. Di qualcuno peggiore di me…

- Gabriele, ti supplico: evitiamoci l’atto finale. Di ritirare fuori tutta la questione. Il suicidio annunciato. Siamo già alla canna del gas… – Elena si lascia andare sul divano, le gambe malferme e il panico che le attorciglia lo stomaco.

Gabriele ha deciso di riaprire il vaso di Pandora senza sapere neanche lui cosa ne verrebbe fuori, e sembra che stavolta non ci sarà scampo per nessuno.

- Davvero vuoi rovinarmi la parte migliore? – Gabriele schiocca la lingua.

Ha smesso di osservarla e le ha voltato di spalle come se la conversazione avesse perso di attrattiva. In piedi di fronte allo specchio, si esamina la faccia a due centimetri di distanza.

Tranquillo: continui a non temere rivali. Sei sempre bello, anche con la faccia di chi da settimane non si fa una dormita come si deve. La fighissima Isa Cortesi avrebbe ceduto un rene per metterti le mani addosso, e Nicoletti, quando ci sei tu, si scioglie come un ghiacciolo. Non temi confronti.

- Finiscila qui. È tutto troppo… infiammabile. E poi – okay: tanto vale giocarsele tutte fino all’ultima – Hai ottenuto quello che volevi, no? La disfatta di Neri. L’hanno buttato fuori a calci, che senso ha ricominciare a sputtanarlo?

- Neri non ha preso nessun benservito: è quello che ci hanno lasciato credere per calmare le acque. Al massimo se ne sarà andato in congedo – Gabriele le scocca uno sguardo d’intesa attraverso lo specchio – Secondo te il direttore accetterà che un suo sottoposto venga cacciato perché ha un rapporto tutto fuorché professionale con degli allievi? No: quell’uomo è un vigliacco, l’abbiamo visto quando Andrea gli ha parlato del bullismo di Riccardi. Senza saperlo, Andrea è andato in avanscoperta per noi. Il direttore vuole salvare la facciata ed evitare fughe di notizie. Ha consigliato a Neri di levarsi dalle palle per un po’ per evitarsi il momento peggiore. Lo so, sembra un’ammissione di colpevolezza, ma è giusto per lasciarci sfogare a vuoto. Sputtanato è sputtanato, ma adesso nasconderanno lo schifo e diranno che erano voci infondate, che non era niente. Si rimangeranno tutto. Neri tornerà al suo posto, forse il prossimo anno, forse ancora prima. Ed io lo aspetterò al varco e gli darò la giusta accoglienza.

- Cos’hai in mente? – Elena si pianta le mani sui fianchi, lo sguardo carico di ostinazione: Gabriele è ufficialmente perso nel suo delirio di vendetta – Vuoi organizzare un evento e proiettare un documentario sulle schifezze di Neri?

Adesso la voce plana sul sarcasmo.

- A dire la verità, ci avevo pensato – Gabriele ridacchia, mellifluo: sta al gioco, ma gli occhi sono lontani anni luce – Ho scartato l’idea solo perché poi il meeting durerebbe giorni. Giorni, per documentare una a una le calde notti di zio Fabio.

- Spiegami almeno perché lo fai.

Lo sguardo stranito di Gabriele le suggerisce che ha imboccato la strada giusta, che è lì che deve battere.

- Spiegami perché ogni volta che salta fuori il suo nome, quasi smetti di respirare. Hai i nervi a fior di pelle, sembra un’ossessione. Perché ce l’hai tanto con lui, perché gli dai la caccia in questo modo?

Qualcosa si è spezzato – forse ha toccato il nervo scoperto. Perché Gabriele non sorride più, la schiena rigida.

È caduta la maschera, la complessa impalcatura di ironia balorda, allusioni e risposte evasive. Le sue dita si tendono ad artiglio come se volesse afferrare le mattonelle di fronte a lui e dilaniarle a brandelli. E invece si risolve ad afflosciarsi contro la parete, come svuotato.

- Non lo so cos’è… – un sussurro appena percettibile.

È crollato.

- È come… un chiodo fisso. Devo farlo, basta!

- Non sei obbligato a fare niente, sta a te decidere – Elena si sforza di imprimere una sfumatura dolce nelle parole – Puoi scegliere di far sparire quei maledetti filmati e mettere fine per sempre a una storia che ti ha fatto solo stare male. Cos’è successo? Non è per Andrea…

Gabriele sospira; arranca fino al divano, per poi lasciarsi cadere a peso morto, le giunture così malferme da non sostenerlo più. Rovescia la testa all’indietro, contro la spalliera, il volto cereo sotto la luce sbiadita dell’abat-jour e del crepuscolo che avanza. Così pallido che le orbite emergono in tutta la loro evidenza, livide intorno alle palpebre stanche. Non ha smesso di tremare nemmeno quando si è strofinato la faccia e tirato indietro i capelli, cercando di darsi una parvenza di controllo.

- Gabriele, sei sicuro di stare bene?

Veloce, Elena scarta in avanti e si porta al suo fianco su quel divano troppo grande per non sprofondare. Gabriele ha la faccia di chi potrebbe svenire da un momento all’altro o sprofondare nel panico.

- No, non sto bene – le soffia, come se trovare le parole gli costasse un’immane fatica.

- Me ne sono accorta – Elena annuisce.

- Non riesco a darmi pace… Non ne avrò finché non avrò messo la parola fine a questa storia. E l’unica fine che desidero, è la verità. È metterlo di fronte alle sue responsabilità. Non lo so, Elena, non lo so. Non deve finire così… in sospeso. Devo avere un punto fermo, una risposta. Leggerla sulla sua faccia.

Gabriele ha richiuso le palpebre, la tensione galoppante, mentre si estrae con le pinze la volontà di andare avanti e tradurre in parole una ragione contorta. Dare forma alla sua ossessione strisciante.

- Cosa ti ha fatto? Non c’entra Andrea…

- È anche per Andrea. Ma non del tutto – Gabriele si porta una mano alla fronte, coprendosi gli occhi: forse adesso sarà meno difficile, senza spade puntate addosso – Neri ha cercato di sedurmi. Ci ha provato mentre stava ancora con Andrea… per convincermi a tenere la bocca chiusa.

Si è alzato in piedi di scatto, Gabriele, spiazzato dalla sua stessa confessione, da qualcosa che con ogni probabilità si è tenuto ancorato dentro la testa fino a quel momento, e ammetterlo ad alta voce è come far esplodere una mina.

Nel silenzio sepolcrale della stanza, si è girato in quattro e quattr’otto una sigaretta e ha acceso, aspirando a pieni polmoni. L’aroma stavolta è inconfondibile. Un paio di boccate, prima di riprendere a parlare, di dissipare la nebbia della sua visuale con un altro tipo di velo.

- Ero furioso. L’avevo visto con i miei occhi. Aveva promesso ad Andrea che l’avrebbe aiutato per lo stage, e se l’era scopato contro la scrivania. Era ancora calda, quando sono entrato, calda di loro. Ero fuori di me. Gli ho detto che sapevo tutto e potevo dimostrarlo. Poi… non ricordo bene. Non ricordo come siamo finiti a parlare di me – Gabriele ha preso a misurare la stanza a passi veloci, il nervosismo dipinto in faccia insieme al resto della storia.

- Voleva corromperti? – azzardi.

Non hai la forza di formulare altre domande, di guardarlo ancora in faccia, perché ti è appena crollato un mito, una statua di gesso che ora giace sbriciolata ai tuoi piedi. Ai piedi di Gabriele, che scava nei meandri della sua mente per riafferrare il bandolo. Qualche secondo di silenzio.

- Ero fattissimo, fumato fino al midollo, ma avrei potuto strozzarlo. Sragionavo. Lui cercava di confondermi blaterandomi addosso, e peggiorava la situazione. Diceva cose che non c’entravano nulla, giri assurdi, parlava di amore, di colpi di fulmine, di eventi inaspettati, dell’uomo Fabio e di Neri professore, di carne e di sangue… Non so se fosse messo peggio di me, o solo i postumi dell’euforia di essersi calzato come un guanto il ragazzo più bello dell’Accademia. Sapeva che mi ero preso una sbandata per lui, lo sapevano anche le pietre, e lì ha fatto leva. Si è giocato tutto il giocabile per arrivare a un accordo, per patteggiare. E ci ha provato. Ha fatto per baciarmi, lo ricordo bene. Diceva che dovevo stare tranquillo, che sarebbe andato tutto bene, che la cosa non intaccava la sua professionalità. Sarebbe rimasto freddo e imparziale. Ma io non avevo voglia di starlo a sentire: mi faceva vomitare, lui e tutta la sua storia, la sua parola che per me valeva meno di zero. Mi ha dato un passaggio fin qui. Non ricordo molto altro, ho buchi di memoria perché ero strafatto. Sono stato malissimo, mi sentivo uno straccio, mi era caduto il mondo addosso. Ero rimasto lì ad ascoltare le sue pippe, a dargli spago, a sorbirmi le sue sviolinate, e lui voleva farmi crollare.

- Ma adesso Neri non c’è più – Elena gli va incontro, gli prende le mani tra le sue.

Cerca il suo sguardo, una corda scoperta da accarezzare per rassicurarlo, per riportare la calma.

- Quello che dicono di Neri, è vero – prosegue – Nessuno è così stupido, Gabriele. È così sputtanato che qua dentro non ci passerà più. Non capisco che senso abbia riportare a galla la questione adesso.

- Non adesso – la interrompe Gabriele, e gli occhi sono di nuovo di metallo, gelati in superficie – Quando e se verrà il momento. Quando vedrai rispuntare il capino di Neri, saprai che è scattata l’ora X.

- Che cosa vuoi ottenere? – domanda obbligatoria.

- Ho un dubbio che mi rode il cervello – Gabriele distoglie lo sguardo, e quasi sembra non vederti più, né te né il resto della stanza, come un sospetto che aleggia nell’aria – È l’unico modo per fare chiarezza. Neri dovrà fare chiarezza, quando lo metterò di fronte a quel filmato… Potrei leggergli in faccia la risposta. Ma lui non sarà l’unico a godersi lo spettacolo. Quella registrazione, con tutte le altre, farà il giro dell’Accademia. Le risposte di cui ho bisogno, però, può darmele solo lui.

- Continui a non dare molte spiegazioni – Elena si stringe nelle spalle.

Gabriele è una girandola di frasi a metà e nuovi dubbi indotti.

- Non ce la faccio… – Gabriele si preme le mani sulla faccia.

È il momento della resa, del crollo definitivo sul divano, a testa bassa.

- Lo sai, vero, che non ti aiuterò? Non muoverò un dito, non sarò complice di questo disastro – gli sussurra con voce morbida.

È quasi una coltellata.

- Ci avrei scommesso – Gabriele solleva appena lo sguardo verso di lei, a denti stretti.

- Non ti aiuterò a distruggerti da solo, a farti ancora più male di quanto ti sia fatto fino adesso. Lascia stare, brucia quel maledetto filmato. Te lo leggo in faccia: ti costerà, pagherai il prezzo più alto.

Gabriele annuisce, lo sguardo dritto davanti a sé, sulla parete. Gli occhi ridotti a fessure.

- No… non posso. Devo vederlo inchiodato alle sue responsabilità, quel bastardo! – le sibila, masticando le parole.

- È la vendetta, vero? Ti piace? – Elena sgrana gli occhi, interdetta – Capisco. Ha un sapore dolce, un profumo accattivante: ti attrae… È una droga. Una volta che inizi a gustartela, calda o fredda, è difficile che non ti tenti di nuovo. Ma è come una piovra: devi saperlo tu, quando sei al limite. E il limite, perdonami, l’abbiamo superato entrambi. Pensaci, Gabriele. Ne uscirai a pezzi. Pensa ad Andrea… Vuoi rovinare tutto? Cosa gli dirai? Lo ami?

- Lo amo – Gabriele chiude gli occhi, la fronte corrugata in una maschera di dolore, ed è più una confessione che una risposta – Lo amo come la prima volta che l’ho visto, come la prima volta che mi sono detto “Sì, è vero, sono innamorato, sono un coglione”. Ma adesso è diverso. Non posso stare tranquillo. A volte guardo Andrea e vedo lui. Che si fa beffe di noi. C’è quest’ombra viscida, ed io voglio capire cos’è che non mi fa stare bene con lui, anche se l’ho perdonato per le sue cazzate.

- Gabriele, ragiona – Elena si è accucciata al suo fianco, sulla moquette: arriva a supplicarlo – Non farlo. Lascia perdere Neri e parla con Andrea. Risolvetela voi due.

- Non è questo. Cosa posso dirgli? Ti voglio, ma stammi lontano, prendimi a piccole dosi, perché sei stato con lui e la cosa mi dà allergia? – Gabriele scuote il capo, infastidito: vorrebbe disperatamente chiudere il discorso – Ma tu ormai ti sei tirata fuori da ogni responsabilità. Dico bene? T’importa qualcosa dell’uso che farò di quei file?

- Me ne importa – lo interrompe Elena – Me ne importa, perché anch’io ho contribuito a mettere in piedi tutto questo. È anche un mio prodotto. Ho collaborato, ho spinto, ti ho dato i miei pessimi consigli, ho agito per conto nostro, ti ho aiutato. Ho desiderato la rovina di chi, credendomi debole, mi trattava come uno straccio. Di chi ci faceva del male. Potevo rifiutare il tuo invito, rispedire le mail al mittente, invece non l’ho fatto. Gongolavo dietro lo schermo, mentre qualcun altro si sentiva braccato.

- Brava… – Gabriele sorride, ma è un sorriso tirato, una vena di scherno – Cosa farai, adesso? Racconterai tutto ad Andrea e cercherai di fermarmi?

- Non farò nulla. Andrea non saprà niente se non da te – si affretta a ribattere Elena – Ho detto che non sono d’accordo, non vedo nulla di buono. E non farò più nulla per te. Non sarò tua complice, di te che ti rovini da solo, che ti leghi un cappio al collo. Perché ti vedo, stai male, e questa sarà l’aggravante, non la soluzione. È riaprire le ferite e buttarci aceto.

Scuote le palpebre, Elena, un bruciore familiare che d’un tratto le offusca la vista. Le ciglia sono bagnate e le mani non hanno più una presa salda. Lo fissa negli occhi, cerca disperatamente di metterlo a fuoco, di stabilire un collegamento, di scacciare le lacrime.

Gabriele annuisce, il volto stanco, la durezza dello sguardo che si stempera a contatto con il suo.

Sospiri. Non è come con Andrea. Non c’è quella tensione superficiale, quando le dita arrivano a sfiorarsi. Non c’è il rischio di sprizzare scintille, quando allunghi la mano verso di lui e segui il profilo regolare della mascella.

È sbagliato.

È diverso. Non c’è fisicità. È amarlo come si amerebbe un amico, un compagno, un fratello in difficoltà. Nessuna attrazione chimica, nessun formicolio insopportabile che richiami il sesso. C’è solo un calore diffuso, rassicurante. Un leggero estraniamento, un formicolio ancorato alla nuca.

Unica certezza, che di te potrà fidarsi.

Non farlo, ti supplico. Non farlo.

Si è alzata in piedi, non ha atteso un segnale. Gli ha scostato i capelli scuri dal viso e, senza chiedere spiegazioni, ha strofinato le labbra sulle sue fino a imprimersi addosso il suo profumo, la consistenza di pesca di una bocca su cui varrebbe la pena di indugiare, per gioco o per un rigurgito di follia. È così caldo…

Anche lui si è mosso. Ha sbarrato gli occhi e si è irrigidito, interdetto, ma le iridi non si sono colorate di malizia. Ha solo dischiuso le labbra, lasciandotene assaporare la morbidezza.

E poi è tempo di sgattaiolare via, senza tradire i propri passi. Prima di guardarsi ancora negli occhi.

Puoi andare, Elena. Non sta bene. Vuole stare da solo.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** Capitolo 32 - Consiglio di guerra ***


Capitolo 32

Consiglio di guerra

 

Andrea si osserva intorno, i muscoli contratti dalla tensione. Quasi non si riconosce, da tanto che non si sentiva così, ma per fortuna c’è Patrizio che gli fa strada tra le due file di tavoli.

I pensieri s’incagliano nel ricordo della sua ultima serata trascorsa al bar, la ferita ancora sgocciolante e tanti occhi puntati addosso, mormorio in sottofondo e qualche pugnalata verbale non attutita. Litigata storica con Alberti e Riccardi, fine serata coronato da sbronza epocale. Da dimenticare.

Si osserva intorno, occhiate scrupolose, meccaniche, il terrore di inciampare da qualche parte e calamitare l’attenzione su di sé. Quasi fatica a muoversi, ma lo sguardo guizza sui dettagli.

E infine, respira: può gridare allo scampato pericolo. Aveva ragione Patrizio: non è lui l’argomento-clou della serata. Nessuno si è accorto del suo arrivo, nessuno l’ha degnato di occhiate o commenti velenosi. Perfetto. Quasi, se non fosse per quel sentore di attesa che sa più di funerale che di serata da trascorrersi in relax, belli spaparanzati dopo una giornata densa. Lo sente intorno a sé come una ragnatela che pende dalle pareti, come una nota troppo acuta nell’aria, una manata gelida sulla schiena. Una parte di lui confida nel falso allarme, l’altra sa che stavolta niente passerà inosservato: è tregua apparente.

Preferirebbe non pensarci ora, scollegare i neuroni e continuare a seguire Patrizio nel suo folle volo. Non ha rivolto parola a nessuno né ha cercato di catturare frammenti di discorso qua e là, perché le occhiate furtive che schizzano come proiettili da un capo all’altro della sala, l'elettricità nell'aria, sono biglietti da visita eloquenti: è la tensione che promette temporale.

Andrea riposa pigramente lo sguardo su Patrizio che lo trascina in fondo al locale, un angolo tranquillo di cui aveva quasi rimosso l’esistenza. Oltrepassa la porta ad arco e si lascia accogliere dalla saletta appartata: un grumo di luce soffusa, profumo di liquore nell’aria e panche di legno addossate alle pareti. Neanche un po’ di musica per illudersi che sia tutto normale.

Si sforza di sorridere e ostentare l’aria di uno che si trova lì per caso, speranza malriposta che ogni presentimento resti tale almeno fino a domattina, quando il cervello sarà meno in panne.

Serata storta.

- Ehi…! – biascica Patrizio, sbracciandosi come vedesse i suoi amici da secoli.

Li raggiunge al tavolo con due falcate e agguanta la mano tesa di Basile – lui che l’ha puntato da lontano – in un saluto all’americana contornato da battute smozzicate che Andrea non riesce ad afferrare.

- Che si dice? – Basile solleva il boccale con un sorriso sfacciato.

Andrea si stringe nelle spalle e attende che sia Patrizio a toglierlo d’impiccio. Ormai si sono accorti di lui, presenza estranea incollata alle costole dell’amico, ma nessuno ancora storce il naso o si chiede cosa ci faccia, ospite speciale della tavola rotonda. Solo uno scambio di sguardi tra Patrizio e Basile come un “okay, è dei nostri”, prima di fissarsi e concedersi una sghignazzata dalle ragioni umanamente ignote.

Okay, è un vizio.

Andrea aguzza lo sguardo: capire perché continuano a ridere e alludere a qualcosa, sarebbe già un passo avanti. Potrebbe scioglierlo lui il ghiaccio – magari con un semplice “ciao” –, ma la morsa che gli attanaglia la gola non accenna ad andarsene. C’è solo Patrizio a fargli da garante. Si schiarisce la voce.

- Ecco, sì. Forse Andrea lo conoscete già – almeno l’accortezza di fingere che la sua presenza sia casuale, perché, dopo il brevissimo contatto verbale con Basile quel pomeriggio, non può dirsi in campo neutro – Siamo amici dalle superiori – precisa.

Anche qualcosa più che “amici”.

- Andrea Nicoletti! – Basile gli schiaffa addosso uno sguardo ai limiti dell’entusiasmo – Non sapevo che…

- C’eravamo un po’ persi di vista… – accenna Patrizio.

Andrea si sforza di annuire, evitando nel contempo che la mascella gli caschi fino alle ginocchia. O di scoppiare a ridere come un dannato. Perché, okay, questo è troppo, decisamente troppo, l’ultima cosa che si sarebbe aspettato: Basile che accantona manovre belliche e complottismo delle sette in punto e lo accoglie nella cosca a braccia aperte, pacioso e ridente, gli occhi che s’illuminano.

Vorrebbe che ciò avesse un senso. Perché quello non è il gemello buono, è Ivan Basile, la persona che poche ore prima ha dato di matto e minacciato ritorsioni sanguinose per un’occasione sfuggita di mano. Lo stesso che ora sorride all’ultimo arrivato come se niente fosse e fa gli onori di casa, salottiero. Troppo distante dalla furia scatenata di quel pomeriggio, nel piazzale arroventato dai fumi dell’odio, quando per poco non ha fatto di Thompson la propria cena. Andrea sospira. Delle due l’una: o ha la faccia da culo più stratosferica del pianeta o è sdoppiato.

Lo osserva di sottecchi mentre riprende posto di fronte a lui e si tira su le maniche sulle braccia tatuate, i lineamenti asciutti induriti dalla penombra senza più traccia della rabbia e del veleno di cui ha fatto sfoggio. È come voltar pagina o cambiarsi d’abito con disinvoltura. Andrea annuisce, a disagio, e sposta lo sguardo sul tizio seduto a fianco a Basile.

- Ettore, piacere.

Lui ce l’ha ben presente: Ettore Moro, quello che, insieme a Patrizio, ha impedito a Basile di sporcarsi la fedina penale. Il tizio quasi-biondo che biondo non è, sotto la luce arancio sporco di quello scorcio appartato, il viso lentigginoso dagli occhi pungenti ravvivato da una lanugine dorata sulle guance e sul mento. Non ha lo sguardo cattivo, ora che lo osserva meglio: sembra un pesce fuor d’acqua quasi quanto lui.

- Francesco… – il terzo degli illustri congiurati gli rifila una fiacca stretta di mano e lo squadra con sospetto, la faccia da “questo che cazzo ci fa qui?”.

Che è più o meno ciò che lui si sta chiedendo da parecchi minuti.

- Bene, bene – Basile congiunge le mani davanti a sé in una posa da conferenziere consumato – E bravo Lastella. Hai fatto bene a portarlo, sai?

Patrizio ricambia lo sguardo, un cipiglio scettico.

- Che vuoi dire?

- Che abbiamo un testimone super-partes, e qualunque cosa dirai potrà essere usata contro di te – Basile sogghigna e si liscia la barba – Che ci siamo tutti e possiamo cominciare. Nulla di più.

A fare...?

- Sì, ma niente melodrammi – Patrizio salta su – Cosa sono questi finti complotti del cazzo?

- Secondo te io sono qui per complottare? – Basile sorride, svagato: espressione che non si accorda con i suoi occhi così acuti – Solo fare il punto della situazione, capire come stanno le cose: se ci hanno preso in giro per l’ennesima volta, e se è così, vedere un po’ come muoverci – sussurra, untuoso – Tutto qui.

Andrea distoglie lo sguardo per non ridere. Di nuovo. Forse Basile si è fatto un’overdose di camomilla, forse ha un controllo invidiabile sulla rabbia. A scoppio ritardato. L’ha visto quel pomeriggio, non mentiva: erano scintille vere, non il furbo oratore improvvisato che ora gli parla addosso.

Andrea si sfila la giacca e prende posto. E bravo Patrizio: ha capito che c’era maretta e l’ha costretto a seguirlo per tenergli bordone al Gran Consiglio di Guerra. O forse conta su di lui come elemento-sorpresa.

- Andrea, Andrea – Basile solleva gli occhi neri su di lui – Scusa per la risposta poco carina di prima, eh. Ma avrai capito la situazione… – e annuisce con fare complice.

Andrea per poco non si ribalta dalla sedia. Vorrebbe dirgli che come arrampicatore verbale è quasi più sveglio di Alberti, che non è con lui che deve scusarsi, ma si morde la lingua giusto in tempo.

- Uhm… credo di aver capito – sussurra, evitando ogni sfumatura sarcastica nella voce.

Ho capito, sì. Che dovevo rimanermene di sopra.

- Che faccia tosta, Ivan! – gli sibila Patrizio – Avrai capito la situazione. Ma ti senti quando parli?

- E dai, Lastella! Devi proprio rovinare tutto? – Basile solleva gli occhi al cielo, sornione –Stai sereno, ché poi ti innervosisci e non riesci a dormire! Bevi un po’ di birra, toh, magari ti rilassi e non sembra che ti abbiano ficcato un palo della luce nel fondoschiena. Vuoi rinfacciarmelo in eterno? Okay, ho sbagliato, ho fatto la figura del cazzone eccetera eccetera… Te l’avrò ripetuto un centinaio di volte nel giro di mezz’ora, Moro può confermare.

Dal suo cantuccio accanto a Patrizio, Andrea sospira. All’inizio sembrava un’idea stuzzicante esaminare le frange estremiste dall’interno, sentire gli umori del popolo, ma non con una bomba a orologeria tra le mani.

- Ecco – Patrizio gesticola, nervoso, puntando il dito contro Basile – Non cambiare discorso, non hai detto niente. Io vorrei sapere due cose. Primo: cosa ti ha fatto quel disgraziato per trattarlo così. Secondo: perché te la prendi come se ti avessero offeso personalmente.

- Chi è il disgraziato che avrebbe osato farmi qualcosa? – Basile scuote la testa, infastidito, facendo mulinare i capelli bruni sulle spalle.

Patrizio deglutisce, a disagio. Andrea lo fissa, implorandolo di non cedere.

Ringrazia l’illuminazione scadente, con quelle chiazze rosse che ti salgono alle guance appena ti agiti. O se sei in imbarazzo.

- Alexander Thompson, naturalmente – sputa fuori.

Basile sbarra gli occhi. Finge di strozzarsi con la birra.

- Hai sentito? – si volta verso Moro come a carpirne il consenso, il volto sigillato in un’espressione indecifrabile.

Si osservano con facce stranite. Un attimo dopo scoppiano a ridere, una serie di pacche reciproche sulle spalle a coronare il tutto.

Andrea china lo sguardo verso la superficie del tavolo.

Zitto, Andrea, zitto: ogni commento è superfluo. Cerca una scusa e svignatela il prima possibile!

- Cazzo, Ivan! – Patrizio solleva gli occhi al cielo, esasperato – Non sto ridendo. Sono serissimo. Lo so, sembra strano, ma per una volta sono serio.

- Okay, dai… – farfuglia Basile, fingendo di asciugarsi una lacrima immaginaria – Scusa! Non rido per te. È solo che mi immaginavo una scena… Bingo.

- Che scena? – Patrizio provvede a rabboccare il proprio bicchiere, il volto tetro.

- Emo-boy che viene da te a lamentarsi dei cattivi compagni che lo trattano male. Si taglierà i polsi per protesta, se qualcuno farà casino e non lo manderanno più in America a farsi bello?

- No, mi dispiace per te – lo interrompe Patrizio, gli occhi ridotti a due pozze d’acqua gelida – Non ci ho parlato. Ho visto e sentito abbastanza nel piazzale, e le tue reazioni sono quelle di uno che ha bisogno dello psichiatra.

- D’accordo, ho un po’ esagerato, mi sono lasciato trascinare. Ho parlato troppo – Basile rotea gli occhi verso il cielo.

Non ha smesso di sorridere nemmeno per un istante, un ghigno che gli taglia in due la faccia e scava altre ombre.

- Un po’ esagerato?! – Patrizio alza la voce – Il passo successivo era fucilarlo!

- Oh, ragazzi! – Basile si osserva intorno: si rivolge a Moro e Piani con fare beffardo, per poi riportare gli occhi rapaci su Patrizio – Ma cos'ha fumato Lastella? Ti rendi conto di che stronzate dici? Ti leghi al dito le quisquilie e tralasci l’indispensabile. Per esempio, che il tuo nuovo amico magari è un furbastro e stasera ci ha preso per il naso. È poco? Questo sbuca dal nulla e in quattro e quattr’otto batte banco. È tanto difficile entrare in quest’ottica? Capirei che parlassi così se Emo-boy ti avesse preso in contropiede con del sano vittimismo e fosse stato convincente, ma così… non me lo spiego.

- Così, è solo che hai superato il limite. Ho visto un lato che non mi piace per nulla, e vorrei che non si andasse oltre. Lascialo in pace, non ti ha fatto nulla: ignorava la tua esistenza fino a un paio d’ore fa. Te la vuoi prendere con qualcuno? Prenditela con la Balducci e i suoi intrallazzi, con i commissari. Prova a fare ricorso – Patrizio si tira i capelli all’indietro, nervoso – E vedi dietro a quale dito si nasconderanno. Ma non rendere la vita un inferno a nessuno, intesi? Ti conosco: non l’hai mai fatto e forse non lo faresti, ma ne saresti perfettamente capace. Lascia stare!

- Perché t’infiammi? Per quattro parolacce dette in un momento di rabbia? – Basile socchiude gli occhi, calma piatta – Ma ti ha pagato per difenderlo? Ti sei innamorato?

È esploso così, senza preavviso. Andrea distoglie lo sguardo. Forse è il momento di dedicare la propria attenzione alla birra e fingere che la linea sia disturbata. Perché Basile non sa, va tentoni, ma stavolta l’ha imbroccata giusta. E ha fottutamente ragione. La faccia di Patrizio sembra reduce da qualche girata sulla piastra: cotta al punto giusto.

Sei innamorato?

- Questa storia non mi piace – prosegue Patrizio, sforzandosi di modulare la voce sul distaccato andante – Sento odore di bullismo da due soldi.

- Sì, bravo. E io, secondo te, spreco il mio tempo a… bullarmi di uno così? Che si bulla già da solo – Basile ridacchia, sprezzante, seguito a ruota da Moro come da un'eco.

Andrea aguzza le antenne: non ha capito se Riccioli d’Oro gli tenga bordone perché è un leccaculo o perché vorrebbe infilarsi nel discorso e troncarlo prima della deriva. Non l’ha ancora inquadrato, ma sembra teso, tra l'incudine e il martello.

- Uno come quello, manco lo sfioro – prosegue Basile – Ma proprio zero! Devo degnarlo del mio odio? Se lo guardo, lo umilio. Capisco che una cosa così ispiri violenza, che la caccia all’emo sia aperta tutto l’anno, ma ti do la mia parola: non te lo tocco. Puoi andare a rassicurarlo e a fargli i grattini dietro le orecchie.

- Non è emo e tutte quelle cazzate lì – Patrizio incrocia le braccia sul petto, la faccia più scura che mai – Questa da dove te la sei tirata fuori? Soliti tormentoni del cazzo per etichettare la gente.

- Ma l’hai visto bene? – Basile solleva un sopracciglio, interrogativo.

- E se fosse? – Patrizio sorride: ha adottato la linea provocatoria.

- Se fosse?! – le sopracciglia di Basile schizzano verso l’alto, la faccia tra l’allibito e lo scandalizzato, come se l’avessero insultato a morte – No, scusa, eh! Hai ragione tu… – borbotta, e il sarcasmo cola fino al pavimento.

Patrizio gli scocca uno sguardo duro, da ultimatum.

- E sia. Perché non mi hai mai visto incazzato…

- E che palle, finitela! – stavolta è Moro a prendere la parola, piegandosi sul tavolo fino a incrociare lo sguardo di Patrizio – Lastella, anche tu… Datti una regolata! Dobbiamo attaccare con i violini? Di’ che ti ha pagato e stop.

Il terzo uomo, Francesco, continua a smanettare con il suo Nokia decennale. E a pungolarlo con occhiatine diffidenti da caccia all’intruso.

Che ci faccio qui? Me lo chiedo da un pezzo.

- Possiamo fare un discorso intelligente? – riprende Basile.

- Tipo? – Patrizio punta i gomiti sul tavolo: non si è preso neppure la briga di buttare lo sguardo su un interlocutore a caso. È nero.

- Nicoletti. Stavo dicendo… Hai fatto bene a portarlo qui.

Sono un pacco postale?

Andrea trasalisce. Parlare di lui in terza persona, con lui presente, gli fracassa le palle. È il minimo. Perché vorrebbe urlare. Anzi, premersi due dita contro la giugulare e stramazzare privo di sensi, solo per risvegliarsi magicamente in camera sua. Perché ha capito quale sarà la prossima portata.

L’incognita Basile. Rompicazzo dal notevole peso specifico che negli intrighi di corte ci sguazza come un’anguilla. È come se lo rivedesse, lì in prima fila, all’epoca del fattaccio di Neri – e della Balducci, di Alberti e compagnia cantante. Braccia conserte e gambe divaricate nel tentativo inconscio di occupare quanto più spazio a disposizione, l’angolo destro della pensilina eletto a quartier generale, circondato dal suo nutrito gruppo di amici all’assemblea, pronto ad attizzare la fiamma e a istigare all’occupazione come ai tempi delle superiori. Poi, a rivoluzione congelata a data da definirsi, ultimo ad abbandonare il campo.

L’occasione di riprendere ad abbaiare, stavolta, è capitata a fagiolo.

- Perché io? – abbozza.

- Andrea, Andrea… veniamo al dunque – Basile lo fissa con una bonomia che poco si addice al look da guerriero della notte – Ti prenderei amichevolmente a schiaffi. Te lo meriteresti, qui e ora.

- Sai quanti lo pensano? – Andrea socchiude gli occhi, felino: meglio affilare i coltelli – Eppure nessuno ha ancora osato. Posso stare tranquillo.

Basile sorride a mezza bocca. Da come lo guarda, sembra lo trovi persino simpatico.

- Perché hai rinunciato allo stage a giochi fatti? – gli sussurra, lo sguardo che schizza al soffitto in un moto di rassegnazione – Perché ti sei tirato indietro all’ultimo? Se avessi lasciato le cose come stavano, borsa di studio e stage sarebbero almeno andati a uno che merita. Ci avresti evitato l’epopea Thompson e tutti i casini. Sì: ti prenderei a schiaffi.

Andrea sente le mascelle contrarsi in un ghigno poco rassicurante.

 

Mi chiedi perché ho buttato tutto a mare, come se la verità non fosse sotto i tuoi occhi. E tu non sei certo piovuto dalla luna. Vuoi farmi credere che alle orecchie non ti sia mai arrivato nulla. No, vuoi sentirlo dalla mia bocca per estrapolare più dettagli possibili. Ce ne sarebbero per riempire interi quarti d’ora tra una lezione e l’altra, intervalli, ore buche, pause pranzo e cicaleggio delle sette e mezza al bar.

 

- Perché tu e i tuoi colleghi non fate pace col cervello? – sbotta Andrea – Nicoletti non va bene. Thompson non va bene. La prossima volta fate così: scavalcate la commissione e decidete voi, a bigliettini, per alzata di mano, come volete. Scegliete il vostro campione, uno che vi metta d’accordo tutti, e la fate finita.

- Ehi! – Basile ha perso la sua baldanza – Io non ho mai avuto nulla da ridire su di te. Un conto è essere battuti da uno bravo… te ne fai una ragione, voglio dire; un conto è che venga un’incompetente come Eleonora Balducci a dirmi che sono una merdina, che valgo meno di una mezza sega come Thompson.

- Hai parlato con la Balducci? – Andrea si scosta un ricciolo dalla faccia, annoiato – Ti ha detto lei queste cose?

Capacissima.

- No. Ma il messaggio è forte e chiaro. Ci ha giocato tutti. Perché ti sei ritirato, Andrea? Ne saremmo usciti puliti.

Voi, forse.

- Stai dicendo sul serio? – Andrea solleva un sopracciglio, sarcastico – Devo ricordarti il casino che è scoppiato, dopo che è saltato fuori il mio nome? Più o meno lo stesso di oggi, solo che, al posto di “incapace raccomandato”, mi hanno detto di peggio.

- Quindi – Basile lo inchioda con lo sguardo, prepotente – Mi vuoi far credere che la cosa ti ha turbato tanto da farti ritirare? Per gli insulti di quattro rosiconi e la faccia di cazzo di Derossi che grida al complotto perché non sa incassare una sconfitta da persona matura e non accetta di sembrare un chewing-gum masticato vicino a te?

Andrea sente il sangue schizzargli alle gote.

Gabriele no. Ti supplico, tienilo fuori. Non nominarlo nemmeno. Non sai niente.

Per l’ennesima volta è tentato di levare le tende o rovesciare la birra in faccia a Basile, ma le dimensioni poderose delle sue braccia lo fanno desistere all’ultimo momento.

- Io e Gabriele ci saremmo chiariti da secoli – si affretta a precisare, dosando l’acidità.

E se vuoi parlare ancora di lui in questi termini e in mia presenza, metti pure in conto di ritrovarti il tuo amato basso infilato dove non batte il sole.

- Sono amici – rincara la dose Patrizio, più scazzato che mai.

Basile incassa la gaffe in tutta naturalezza.

- Okay, scusa. Però è un peccato che uno bravo come te si tiri indietro perché dei cretini sputano veleno.

Perché cerchi di ungermi? Non ci conosciamo, non mi hai mai calcolato, non ti ho mai visto spellarti le mani per me.

- Non è come dici tu. È andata molto peggio, e non mi va di parlarne – taglia corto Andrea.

- Ivan – interviene Patrizio – Se Andrea ha deciso così, ha dei buoni motivi e non deve renderne conto a te.

Ecco, finalmente un po’ di soddisfazione.

- Non lo metto in dubbio – Basile si scosta i capelli con un gesto esasperato – Ma adesso con quello come la mettiamo? Dobbiamo sciropparcelo per forza e accettare decisioni idiote senza fiatare?

- Prova a farti esplodere in corridoio all'ora di punta – gli soffia Patrizio, un miagolio crudele – Magari non ottieni granché, ma sarà scenografico.

- Lastella, ti ho mai detto che sei un’estrazione dentaria senza anestesia? – gli fa eco Basile.

- Ti adoro quando mi fai i complimenti – cinguetta Patrizio, mellifluo.

- Okay, facciamola breve… – Moro ha rialzato la testa, titubante: forse aspettava che Basile gli desse il la – Il problema adesso è questo. Quella specie di morto che cammina. Come ce lo leviamo dai piedi?

- Ma perché devo stare qui a discutere su come levarmi dai piedi qualcuno? – la voce di Patrizio impenna di troppi decibel: brutto segno – Che devo fare? Pagare un sicario?

- Lastella, non difenderlo – Moro sbatte le ciglia, eloquente – Ivan ha ragione: il tuo amichetto è una mina vagante, mangia dal tuo piatto e non sputa manco le ossa. Te lo spiego io, come stanno le cose: quello è una vecchia conoscenza della Balducci ed è venuto qui a raspare quanto gli deve, poi piscerà sul tuo cadavere e tanti saluti. Capisco che, visto così, sembri inoffensivo: tu vedi un frocetto conciato da deficiente, da emo del cazzo, cosa pensi? Questo è uno preso male, è già tanto se ne esce vivo! Un bel giorno invece scopri che fotte alla grande, si finge tuo amico, fa l’acqua cheta. Poi, anche se come attore fa piangere, te lo ritrovi che sistematicamente ha sempre un voto in più di te; si parla di uno stage, e il candidato di punta è lui; un tirocinio in una compagnia prestigiosa, e casualmente qualcuno suggerisce il suo nome… Lo difendi ancora?

Andrea spalanca gli occhi: non sa se è la sua impressione o se tutto stia virando sul processo di piazza. Moro, che sembrava la faccia più fredda e sbiadita di Basile, ha gli occhi che grondano fiele. E il copione scritto in tasca. Ha appena portato a casa il compitino e gli sembra quasi di vederlo fare la ruota e dare di gomito all’amico.

- Ma avete prove per fare certe affermazioni?

Attende risposta: forse qualcuno ha alzato il gomito e straparla, strane supposizioni sibilano nell’aria ed entro mezzogiorno di domani saranno assurte a dogmi.

- Thompson e la Balducci si conoscono – Moro quasi lo precede – Cava gli occhi a un cieco! E dai, Nicoletti, e anche tu, Lastella, fate uno sforzo di immaginazione! Sapete cosa faceva la Balducci, prima che diventasse la nostra docente? Curava l’organizzazione di tirocini e stage; fino a pochi anni fa aveva in mano un progetto di gemellaggio con una scuola d’Arte Drammatica di Londra. Tu guarda un po’! Da dove spunta Thompson? Da Londra… che strano! Pare fosse lei a dargli lezioni, e ora che fa? Se lo riprende sotto l’ala? Per vie un po’ traverse… ma il sospetto c’è tutto.

- Non prova molto. È la vostra parola – Andrea si morde il labbro, scettico – Sa di voce di corridoio e di voler far quadrare i conti a tutti i costi. Ma con me non attacca.

- È così. E se non ti basta – Basile incrocia le braccia sul petto, ostinato – sono pronto a spulciare gli archivi. Il passato di mister Tirapacchi? Te lo rivolto come un calzino.

- Lasciate perdere! Dovreste darvi da fare a dimostrare che oggi qualcuno ha fatto pressioni in commissione. Oggi.

- Ed è quello che farò – Basile lo fissa, trionfante – Ma avrebbe dovuto fare così anche il genio che accusava te: dimostrare con i fatti che il professor Neri avesse corrotto tutti per amor tuo, non farvi terra bruciata intorno con voci infamanti. E tu dovevi tenere duro e mandarli tutti a farsi fottere.

Colpito.

- Ora – prosegue Basile, il volto impassibile – Thompson è un ripiego, no? Volevano un pollo che si prestasse alla farsa, uno corruttibile… E hanno trovato lui, il principe della fuffa. Insulso ma gestibile. Se tu ti riproponessi, ti rimettessi in lizza, la sua vittoria di Pirro non avrebbe più senso. Rimetteresti tutto in discussione. Chi se lo piglierebbe più, potendo avere te?

- E se io non ne avessi nessuna intenzione, di andare da zia Eleonora e dirle “Mi scusi, ho cambiato di nuovo idea”, come uno schizofrenico…?

- Pensaci, Andre. Farebbero i salti di gioia per un candidato in grazia di Dio al posto di un soggetto simile. Appena lo vedranno in azione, si metteranno le mani nei capelli. Rischiano una figuraccia epocale. Non c’è storia, tra te e lui. Per te si cospargeranno il capo di cenere.

- Non credo proprio – Andrea storce il naso come se qualcosa di incredibilmente disgustoso gli arpionasse la faccia – Puoi scordartelo, che vada a farmi umiliare un'altra volta! Se volevano un candidato decente, nessuno gli ha puntato una pistola, o Thompson o la vita! Avrebbero dovuto pensarci prima. Potevano prendersi Alberti, il loro cocchino, e tutti ne saremmo stati felici.

Specie di levarci dalle palle Alberti. Sarebbe già qualcosa: fuori uno.

Basile aggrotta le sopracciglia in uno sforzo di concentrazione. Lo fissa a lungo, come se volesse trapassarlo da una parte all’altra.

- Quindi…? In conclusione?

- Quindi, sempre che i commissari non siano masochisti, se hanno scelto Thompson, qualcosa di buono ci hanno visto. Punto. Altrimenti si pigliavano Alberti o un altro qualsiasi e non scassavano.

- Però! – s’intromette Moro – È strano che i docenti vogliano tanto bene a Thompson da sputtanarsi pur di coccolarlo. Chi diavolo è?

- Uno che, se non sta attento, tra non molto potrà risparmiarsi il trucco negli occhi – Basile sogghigna.

- Uh? – Andrea aggrotta le sopracciglia, stranito.

- Si ritroverà il trucco semi-permanente viola ematoma e per un po’ non ne avrà bisogno.

- Ivan! – Patrizio balza in piedi, accompagnando il ruggito con una manata sul tavolo che esplode come una vibrazione nefasta.

Andrea trasalisce; si osserva intorno, stordito. L’urlo improvviso ha ridestato l’attenzione di quanti, assonnati, si apprestavano a ritirarsi nelle loro stanze o si rilassavano di fronte a due chiacchiere e un sorbetto al limone.

- Non si era detto che le mani te le saresti tenute belle strette in tasca? – aggiunge Patrizio, a due centimetri dalla faccia di Basile – Niente ripicche idiote! Non. Osare. Toccarlo!

- Mamma, quanto sei acido! – Basile ridacchia, buttando la criniera indietro come un leone annoiato – Impossibile divertirsi con te. Non si può scherzare! Ti ricordo che la caccia è aperta, e tu non puoi farci niente…

Andrea per poco non gli sputa in faccia la birra. Alle sue spalle, la risata in sordina di Moro accompagna le parole di Basile come a sancire la vittoria. Dalla parte opposta del tavolo, Francesco Piani continua a non degnarli di uno sguardo, chiuso in una smorfia strafottente. Forse non vuole esporsi davanti a lui, l’intruso, perché non tollera la sua presenza e non fa nulla per mascherarlo. Ha solo sollevato gli occhi dal cellulare, gli ha scoccato un sorrisetto sardonico, per poi tuffarsi in una nuova, entusiasmante partita a Snake.

- Ivan, a volte mi fai paura – Patrizio stringe i pugni, ansante, la collera a fior di pelle.

- Lastella, rilassati! Non si può dire nulla ché subito pensi male, caschi sempre lì… Non ti fidi di me? Non mi conosci? – Basile gli rivolge un ghignetto divertito, a occhi socchiusi.

Andrea avverte un brivido corrergli su e giù per la schiena.

Giuda, cazzo! Ha la faccia da Giuda.

- Sai essere anche troppo convincente – biascica Patrizio.

- Lo prendo come un complimento: vuol dire che sono un bravo attore – conclude Basile, schioccandogli un occhiolino divertito.

Patrizio lo fulmina con un’occhiata gelida, il volto serio.

- L’importante, per me, è che non metta in pratica un decimo delle cazzate che dici. Per il resto, fa’ come vuoi.

- E io te lo ripeto: non ho la minima intenzione di compromettermi o farmi il sangue amaro per quel pagliaccio. So come muovermi e mi muoverò: su questo non mi farai cambiare idea. Farò ricorso, ma sta’ tranquillo: la faccia da tossico del tuo compagno di merende è al sicuro… fisicamente.

- Me lo auguro – gli sibila Patrizio, masticando le parole – Per te.

- Mi sa che è il caso di andare… – Andrea osserva Patrizio, implorandolo in silenzio – Si sta facendo un po' tardi – abbozza, un sorriso tirato.

- Non abbiamo concluso niente – borbotta Basile, tra i denti – Grazie a Lastella che è mestruato e non capisce quando si scherza o si fa sul serio. Bah! Nicoletti, è stato un piacere – soggiunge.

E gli tende la mano con un sorriso da un orecchio all’altro. Più tirato che mai.

Andrea ricambia la stretta, riluttante. Da parte di Patrizio solo un dito medio alzato, più o meno all’altezza di “mestruato”. E un sorriso a labbra strette a mo’ di saluto.

Il tempo di pagare il conto e battere in ritirata.

Più tardi. I conti li facciamo più tardi.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** Capitolo 33 - In bianco e in nero ***


Capitolo 33

In bianco e in nero

 

- Come… ti è sembrato? – Patrizio trema, una ruga d’espressione tra le sopracciglia scure.

Andrea la conosce bene, quella ruga: Patrizio è nervoso. Di più: è sull’orlo di una crisi di nervi.

- Sincero? – Andrea sgrana gli occhi e cerca di stargli al passo lungo il corridoio – È stato terribile. Basile è strano. Boh – si stringe nelle spalle – Potrei anche essere d’accordo con lui… in parte, molto in parte. Che la Balducci ci abbia presi in giro per l’ennesima volta, okay, ci sta: è da lei. Un po’ meno che uno parta in quarta in cerca di qualcuno da scannare. Anzi, no: uno l'ha già trovato.

Patrizio si passa una mano tra i capelli e scuote il capo, un velo d’angoscia impigliato alla fronte.

- Esatto. Mi ha lasciato così, con gli stessi dubbi di prima. Non me la conta giusta. Vuole mettere in croce Alex per colpe che non ha. Spero che stia bluffando – sospira – Se la cosa rimane campata in aria, non si azzarderà a torcergli un capello, in mia presenza, almeno. Ma non è questo, è che mo’ si è fatto una sua cazzo di idea e deve essere così per forza: Alex c’ha i santi in cielo, è un bastardo, un impostore, la commissione l’ha scelto per chissà quale motivo… Farà i salti mortali per dimostrarlo, per svelare il mistero, niente lo smuoverà da lì. Non c’è colpevole e innocente, non c’è “sono innocente fino a prova contraria”: è come dice lui. Lo conosco: se ti getta odio, è finita.

- E tu lascia che ci sbatta le corna – Andrea solleva gli occhi al cielo – Sempre che le sue restino stronzate dette in un momento di rabbia. O pensi che il problema sia che prima o poi lo acchiappa da solo e gliele dà di santa ragione?

- Quale sarebbe l’altro problema? – Patrizio si volta di scatto, trasalendo.

Le chiavi che stava per infilare nella toppa rotolano sul pavimento.

- Ha detto che gli renderà la vita difficile – Andrea intreccia le braccia sul petto, soprappensiero – Non ha specificato come. Non è che deve necessariamente spaccargli la faccia: ci sono anche modi più sottili per distruggere qualcuno. Ne so qualcosa. Per me ci ha preso solo in un punto: qua ci trattano da coglioni, la gente inizia a farsi due conti, e ho paura che finisca male. Non so fino a che punto c’entri Thompson, se è sopravvalutato come dicono, se è d'accordo con la Balducci, non so cosa pensare.

- Ivan sta esagerando. Credeva di avere buone chance e adesso gli rode che uno più giovane e meno bravo di lui gliel’abbia fatta in barba. O forse voleva solo farmi incazzare… – Patrizio ridacchia, cercando di ristabilire una parvenza di normalità.

- Non siete amici? – incalza Andrea, mentre raccoglie la chiave al suo posto e la fa girare nella serratura – Non vorrei essere lì, quando non scherzate!

Se non altro è riuscito a strappargli una breve risata.

- Nah, tu non l’hai mai visto, questo è niente: sa fare di peggio. Stasera non lo riconoscevo, per me stava nascondendo qualcosa. Almeno tu, però, sembra che gli stia simpatico.

- Non mi dire! – Andrea sghignazza, appoggiandosi al divano – Ha un modo strano di dimostrarlo. È il Socrate de noialtri: ti punta e cerca di farti partorire la sua verità. Forse cerca alleati.

- Andre, se gli stai simpatico è un buon segno: non dovrai temere colpi bassi. Dio, che stress!

Andrea si stringe nelle spalle.

- Non so, davvero. Mi sembra assurdo. Sembrate amici, ma poi ci parli e non ne cavi nulla. Io posso solo darti la buonanotte e dirti di non farti il sangue amaro.

Andrea si solleva in piedi, riassettandosi la giacca. Un po’ gli spiace andarsene così, ma ora ha voglia solo di una cena veloce, delle sue quattro pareti bianche, di una stanza così familiare da muovercisi a occhi chiusi. Del letto caldo e del micino Oscar accoccolato sulle ginocchia, e di vedere Gabriele.

Il resto può aspettare.

- Buonanotte – gli fa eco Patrizio, assorto – Comunque con Alex devo farci due chiacchiere.

 

* * *

 

Non ha sgarrato di un secondo: il tempo che Andrea voltasse l’angolo, un saluto smozzicato tra la fretta e l’apprensione. Si è lasciato la propria stanza alle spalle ed è schizzato nella direzione opposta, una rampa di scale dopo l’altra e un peso sul cuore.

Non è troppo tardi per fermarsi a parlare. Forse Thompson è ancora sveglio, anche se in arresto preventivo. Non sa che abitudini abbia, se vada a letto con le galline o meno, ma forse può tentarsela.

La porta della sua stanza è chiusa soltanto con la maniglia – errore. Patrizio entra di soppiatto e muove qualche passo incerto. Sbatte le palpebre, cercando di snebbiare la visuale: il trapasso netto luce-ombra lo costringe a muoversi tentoni. Ad Alex prenderà un colpo, quando se lo ritroverà davanti all’improvviso, a due centimetri dal proprio naso, il rompicazzo con i capelli sparati e la ferraglia sul labbro. Crederà di avere a che fare con un perfetto psicopatico, e lui sprofonderà al piano di sotto per l’imbarazzo.

Patrizio trattiene il respiro. Prova a deglutire, ma la salivazione è azzerata. È tentato di togliere il disturbo, chiudere la porta e dileguarsi come se niente fosse, un nodo di calore e soggezione che vibra in fondo al petto come una vertigine. Eppure no, c’è qualcosa che lo trattiene lì, un eccesso di prudenza che vale la pena di rimediarci una figura da schizzato.

- Ale, ci sei? – esala.

Il primo impatto deve essere graduale: non lo butterà giù dal letto con un principio di infarto.

Poi lo intravede: di fronte a lui, una macchia scura confusa nel grigio piombo della stanza buia. Disteso sul divano, il respiro leggero e una gamba penzoloni sullo schienale.

Patrizio deglutisce a fatica. In silenzio, accarezza con lo sguardo la curva del suo profilo. I capelli buttati in faccia e gli auricolari tenuti su e un brusio in lontananza. Un ronzio attutito sotto uno strato d’ovatta, che identifica come la musica dell’mp3.

Indietreggia, una stoccata a tradimento in mezzo allo stomaco, quando una mano bianca si solleva e, alla cieca, lo artiglia per la manica.

Ora lo vede distintamente. Alex scatta a sedere, un gemito soffocato. Si strappa gli auricolari dalle orecchie – il rullare di batteria in sottofondo cessa di colpo. Per poco non stramazza dal divano, mentre allunga la mano e annaspa fino a beccare l’interruttore. La luce gli esplode in faccia.

Una manciata di secondi per fissarsi nelle palle degli occhi e mettere a fuoco la situazione.

- Lastella?! Mi hai fatto prendere un colpo!

- Oddio, scusami! – Patrizio solleva le mani davanti a sé in segno di resa – Hai lasciato la porta aperta…

Alex si massaggia la fronte, smarrito. E crolla a sedere.

- Cazzo! Devo essermi dimenticato. E addormentato.

- Me ne sono accorto – il volto di Patrizio si distende in un sorriso, ora che la tensione pare essersi diradata e il respiro di Alex è tornato quasi regolare.

Sospira. Non ha mai visto uno che piomba in catalessi con la sua musica preferita che gli romba nelle orecchie. Meriterebbe il cazzettone del secolo per essersi dimenticato di sigillare la porta, mentre qualcuno là fuori briga per fargli lo scalpo; ma poi lo osserva bene e le parole gli si strozzano in gola. Perché sembra ancora più bello, con gli occhi struccati, la faccia mezza addormentata e indosso nient’altro che una semplice maglietta e pantaloni a zampa. Tutto nero come un getto d’inchiostro sul candore immacolato del divano. Può quasi avvertire il battito impazzito sotto il filtro sottile della pelle, la tensione cutanea.

- A… a cosa devo, Lastella?

Se non altro, almeno lui è riuscito a spiccicare parola, a rompere il voto di silenzio. Una venatura ironica nella voce.

- Uh… niente di importante – Patrizio china lo sguardo, nervoso, giocherellando con la catena appesa alla cintura.

Pensa a una scusa, veloce! Una spendibile.

- Volevo sapere come stavi.

Alex scuote le spalle, gli occhi verdi spalancati di fronte a un completo imbecille.

Come dargli torto?

- Ero un po’ preoccupato – si affretta a precisare Patrizio – Non è stato un bel comitato d’accoglienza…

- Lascia stare, va’! – Alex distoglie lo sguardo e si fissa le unghie laccate di verde petrolio – A farmi la predica ci ha già pensato il tuo amico Nicoletti. Ha detto che non era serata ed era meglio che me ne stessi confinato qui come un ladro. Due palle che non t’immagini.

- Avresti preferito incappare in Basile…? – Patrizio sorride, divertito.

- Per me può andare a farsi fottere – gli soffia Alex con voce piatta, tornando a spaparanzarsi sul divano.

Piccolo ma battagliero.

- Fossi in te, mica lo sottovaluterei – Patrizio si siede in punta al divano, accanto a lui e ai suoi fianchi ossuti.

Alex si prende la testa tra le mani, sospirando. Forse la maschera d’indifferenza ha ceduto allo stress.

- Mi dici cosa gli ho fatto, a quello? È davvero tuo amico? Non si direbbe. Conosco tagliagole di professione più rassicuranti. Tu sei diverso. Che vuole da me?

- È un po’ difficile: dovrei essere nella sua testa – Patrizio solleva gli occhi al cielo, un accesso di rassegnazione – Ci ho parlato poco fa e gli ho fatto promettere di tenersi le mani in tasca.

Distoglie lo sguardo. Fissarsi la punta degli stivali è tutto ciò che riesce a fare.

Come te lo spiego, in due parole due, che non c’è una spiegazione logica e comprensibile che non scivoli nell’offesa? Dovrei prima riportarti ai suoi schemi.

Come faccio a dirti che ti ha guardato in faccia e ha deciso di detestarti per il solo fatto che esisti e gli sei inciampato addosso?

Come te lo spiego, che quelli come loro pensano che dare la caccia a quelli come te sia normale amministrazione, che sei una possibile vittima sacrificale e che il confine tra la battuta-tormentone da caserma e l’azione effettiva, è troppo debole per acciuffarlo?

- Che allegria! – Alex solleva gli occhi al cielo, spazientito – Mo’ ce li ho tutti addosso, tutti lì che aspettano un passo falso per farmela pagare con gli interessi… Non c’è male!

- Ecco, è di questo che volevo parlarti. Ti consiglio di non tirare la corda.

- Io avrei tirato la corda?! – Alex si solleva di scatto, un accenno di rossore sulle guance – Ma chi se lo fila, quello?

- Dico, in futuro – lo interrompe Patrizio – Non provocarlo. Non sfidarlo. Fai conto che non esista. Non dargli mai spunti.

Alex scoppia a ridere, leggermente stridulo.

- È quello che facevo fino a questo pomeriggio, finché non me lo sono trovato di fronte. All’inizio non riuscivo a capire cosa volesse. Mi ha dato dello stronzo, e bon, digli che accetto il suo parere e ricambio.

- Non prenderlo sottogamba – Patrizio lo fissa, le palpebre strette a fessura – Non sei nella posizione. Qua non sei nessuno. Nessuno alzerà un dito per te. Basile può schioccare le dita e renderti l’esistenza un inferno senza che tu manco te ne accorga.

- Che persona carina! È molto ricco, per caso? Ha frequentazioni mafiose? – Alex ridacchia, scettico – Bell’ambientino, comunque.

- Tu dammi ascolto. Basile ha abbastanza le mani in pasta da metterti contro tutta l’Accademia in un batter d’occhio. Specie se tutti gridano al complotto e dagli al raccomandato, e lui sa sfruttare i malumori.

- La pensi come loro, vero? – adesso è serio, Alex, terribilmente serio, gli occhi due spilli arroventati – Non preoccuparti, dai, non sei obbligato a credermi sulla parola, anche se giuro che io non c’entro nulla con la Balducci, le raccomandazioni e tutti i cazzi. Mi chiedo solo cosa ci faccia qui.

- Ale, io ti credo, ma non ha molta importanza. Ho paura di ciò che potrebbe farti Basile, se si impegna. Ho fatto di tutto per dissuaderlo, dalle preghiere alle minacce. Lui ha detto sì, no, forse, ci ha girato intorno… Non lo so, non me la conta giusta. Cos’altro posso fare? Dirti di tenere gli occhi aperti, sì. Di non dargli nessuna occasione.

- Oh! – Alex scuote il capo, di nuovo: c’è qualche aggancio che non torna – Perché la faccenda dovrebbe farti paura? A te?

Sospira, Patrizio. Tanto vale metterla giù nuda e cruda. Edulcorata quanto basta.

- Per un sacco di motivi. Che forse ti trovo simpatico, e mi dispiacerebbe un botto se Basile te ne combinasse una delle sue…?

- Ah, ecco – Alex cerca di dissimulare l’imbarazzo improvviso in un sorriso sfuggente, lo sguardo che cerca una via di fuga tra le pieghe della moquette – Chiaro. Adesso torna.

Patrizio scrolla le spalle, ma lo sguardo non vuole saperne di sciogliersi da quello strano incantesimo. E lui è tremendamente carino. Fa ridere perché scherza a fare il duro. Gli piace giocare col fuoco.

Sospira, Patrizio. Un guizzo di tenerezza dritto al cuore, bruciante, lo quasi fa trasalire. Vorrebbe scrollarsi di dosso la sensazione che gli arpiona la nuca. Vorrebbe restare lì a guardarlo, a perdersi in quei contrasti, in quella foto in bianco e nero spezzata dallo strappo improvviso di due occhi felini. Continuare a seguire quei movimenti casuali.

E prima che una connessione neuronale a caso lo riporti al mondo reale, è il profumo dei suoi capelli a imporsi su ogni sua facoltà. Quando, alla cieca, si piega su Alex e lo stringe in un abbraccio fraterno – ed è meglio che resti così, per ora, leggero come la carezza che gli allunga sulla schiena.

Alex ricambia la stretta e gli massaggia l’avambraccio scoperto come per rassicurarlo, la testa china sulla sua spalla. Tranquillo, non faccio cazzate.

È così dolce che vorrebbe tenerselo stretto, impresso addosso tutta la notte, senza smettere di affondargli le dita tra i capelli in un’arruffata amichevole – quegli assurdi capelli color melanzana. Di assaporare il suo calore, il frusciare sottile dei vestiti.

- Dai, scendiamo a bere qualcosa. Mi sto annoiando. L’uomo nero se ne sarà già andato, no?

 

* * *

 

Gabriele ha un’aria strana. Andrea l’ha trovato disteso sul letto, mezzo assopito. Si è sdraiato accanto a lui e gli ha allacciato un braccio intorno alla vita, accoccolandosi al suo fianco. Silenzio. Poi Gabriele si è massaggiato le tempie e gli ha rivolto uno sguardo esausto. Frena, non è giornata. Ha intrecciato le dita alle sue e ha chiuso gli occhi. Si è avvicinato, piano, e ha lasciato che le labbra scivolassero socchiuse sulle sue in una specie di inseguimento al rallentatore. Un bacio e poi altri a seguire, fino a perdere il conto e a smarrire il filo della realtà, la smania di due assetati. Come un premio di consolazione, senza azzardare oltre.

Lo lascia sistemare al suo fianco, ma mantiene le distanze. Le distanze concesse dai vestiti ancora appesi addosso e dai centimetri vuoti tra i loro corpi, tra le loro dita che si cercano.

Da quanto tempo non si sente bene quando siete soli, è stanco, è scazzato, non ha tempo, ha il mal di vivere?

Basta che le parole si arenino in un anfratto doloroso, in uno sguardo obliquo, che le mani indugino intorno ai suoi fianchi intagliati nel marmo – e da lì verso la cintura –, e si rialzano le barriere.

C’è Oscar che giochicchia sul tappeto e ignora tutto il resto, perso dietro una pallina di stagnola che spinge sotto il comò con le zampine.

Gabriele non ha spiccicato parola. Un attimo dopo eravate tra le braccia di Morfeo – e l’uno in quelle dell’altro –, tra lenzuola fresche di bucato e domande sigillate tra le labbra, la paura di formularle a voce alta.

Anche adesso, con i primi raggi del mattino che ti solleticano le palpebre, non è cambiato granché. C’è una luce bianca e slavata e il cielo offuscato, una nota di tristezza da primo giorno di scuola.

Gabriele ti ha dato il buongiorno e si è rinchiuso nel suo mutismo assente, lo sguardo perso in un punto impreciso sul soffitto. Si è alzato di scatto ed è corso ad asserragliarsi nel box doccia come in un bunker improvvisato, a ritrovare il bandolo di infinite matasse di dubbi smarrito quella notte. A perdere un po’ di tempo.

E adesso ti osserva attraverso lo specchio, mentre è intento a ingellarsi i capelli. Addosso, il vapore di una doccia bollente e uno strano profumo d’incenso e cannella.

Lo fissi di rimando, e la scintilla che ti esplode nella mente è la consapevolezza di adorare ogni fibra del suo corpo. È una stoccata dritta al cuore, un languore infinito che ti brucia addosso.

Lui. I movimenti nervosi e distratti delle mani. La fronte spaziosa, l’attaccatura dei capelli. Le iridi che, sotto il bagliore slavato del mattino, sono gialle come quelle dei gatti.

Ma lui fa come se non esistessi – i movimenti un filo più legati, quando i vostri sguardi si incrociano attraverso lo specchio e guizzano, per poi fuggire l’uno dall’altro. Siete perfettamente svegli e non c’è scusa che tenga.

- Andre, scusami. Sono molto in ritardo – ti sussurra sul limitare della porta, un sorriso poco sentito, giubbotto in mano e borsa in spalla, quando fai per seguirlo.

Ti lascia lì, arbitro del suo destino e della sua camera e della sua vita in subbuglio, con un nodo che ti serra la gola – così intenso che potrebbe sciogliersi in lacrime da un momento all’altro. Lui fugge, semplicemente. Evita quel contatto azzardato da cui non si torna indietro. Non pone domande e non chiede spiegazioni: si nega e ti sigilla nel limbo.

Forse il desiderio è forte, da parte sua, ma niente che esuli dalla mera fisicità. Forse ti rispetta troppo per lasciarsi andare, approfittare della tua volontà che va in frantumi a ogni suo battito di ciglia, del tuo corpo che si scioglie e grida che lo vuole. Troppo, per prendersi il piacere di assecondare le sue stelle e scopare con te per una notte, e la mattina dopo cancellare le impronte.

Ti lascia lì, con l’occasione sfumata tra le dita e una tensione sotterranea che domanda di più, che non si accontenta di un bacio strappato come blanda rassicurazione. Perché ormai ci hai fatto il callo e lo senti sempre di più, il peso di una situazione giunta al punto di stallo.

Era bello avvicinarti a lui a piccoli passi, contare i gradini, sentire l’euforia sulla pelle al suo contatto, nutrirti di quella speranza direttamente dai suoi occhi. E il bacio sulle scale, quel pomeriggio. La corsa sull’autobus. Le sue dita ad asciugarti le lacrime, quando sei crollato dopo la litigata con Riccardi. Lo spinello piazzato tra le labbra e il suo sorriso carico di buone promesse.

Resta solo un nodo di malinconia attorcigliato allo stomaco, la paura che l’illusione svanisca in regressione rapida. Ragnatele invisibili che s’infittiscono. Voglia di piangere, a lungo.

 

Non basta più. Sfiorare l’apice del sogno, intravederlo all’orizzonte e poi, di colpo, scivolare in basso.

Stava – quasi – andando tutto a posto, fino a ieri. Perché non va più? Dove ho sbagliato stavolta? Dov’è che il filo si è spezzato?

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** Capitolo 34 - Di alcool e (mezze) verità ***


Capitolo 34

Di alcool e (mezze) verità

 

Imbrogliare l’incubo che vedevi nel passato, non l’avresti mai detto, potrebbe rivelarsi più divertente del previsto.

Elena mette giù il bicchiere, l’ultimo sorso di vodka che cuoce piacevolmente la gola. La vista appena annebbiata e il cervello in fermento, fantasia e lucidità che possono stringersi la mano.

Il passato…! In fondo basta osservarlo alla luce del presente e del senno di poi, e ogni fremito d’angoscia si dissolve in una nuvola di languore.

Perché è da quella dolorosa chiusura, da quella frana improvvisa sotto i piedi, che è scaturita la nuova scintilla. La fase nuova della luna. Basta leggerla come un percorso a tappe, lasciare che la mente vada per conto proprio e trovi da sola le sue connessioni, che l’autocompiacimento appanni ogni altra percezione.

Sospiri. È da quel male, da quella morte apparente, che sei rinata. Un percorso in crescendo ti ha portato qui, e all’inizio sembrava impossibile, lontano, un vano rigirarti su te stessa. È stato il momento in cui il tuo presente e il tuo futuro, quell’ansia serpeggiante sul cuore, hanno iniziato ad assumere contorni netti – è forse il viso di Andrea, che prende forma davanti ai tuoi occhi?

Tutto poteva andare peggio. O semplicemente non andare. Restare in sospeso con una nuova delusione. Il brivido che t’infiamma il petto – si chiama gioia, forse? La consapevolezza che ce l’hai quasi fatta, contro ogni aspettativa, quando non vedevi altra via d’uscita se non annullarti sullo sfondo. E tutto si tingeva di nero.

È bastato cambiare angolo visuale, indipendentemente dalla tua volontà. Non sarà una lezione per il futuro, non si ripeterà, ma ti basta sapere che è andata così, e il resto non ha importanza.

E l’occasione ti tenta di nuovo. Potresti recuperare una stilla di coraggio e mettere in atto l’idea che da un po’ di ronza nella testa – il trucco è aspettare. Che l’alcool che ti scorre in corpo non ti annebbi troppo la vista, ma la renda più nitida, un attimo prima di precipitare nell’ebbrezza vera e propria. L’azione immediata che non ascolta il filtro ingannevole dell’ennesima sega mentale nociva, ma procede dritta verso lo scopo.

Ti ha cercata, Andrea. Centosessanta caratteri di sms, troppo pochi per riassumere le fiammeggianti novità di questa sera. A quanto sembra, il giovane new-entry con gli occhi da panda ha fatto il botto. Si prospettano tuoni e fulmini.

A te non resta che rimboccarti le maniche e far luce sull’incognita Derossi, e forse allora tutto tornerà a posto: potrai riprendere a oscillare tra l’agire e il pensare ancora un po’.

Alla fine hai preso coraggio e hai rispolverato la vecchia rubrica del cellulare. Sotto il nome Luca Lastella.

 

Scusa se ti disturbo. È tutto a posto? Non vorrei preoccuparmi. Riccardi può diventare violento.

(Sono Elena).

 

È stato necessario qualche giro di pensieri e qualche bicchiere di troppo, ma la dedizione nell’auto-convincerti che potevi farcela, è stata premiata. Il fatto che non lo augureresti nemmeno a lui, di finire tra le grinfie di Riccardi, è un puro pretesto, sufficiente a motivare il messaggio nel cuore della notte.

Magari ha altro per la testa: avrà già archiviato da qualche parte la tua faccia e gli avvenimenti dell’intera giornata, perso tra le braccia della sua donna – e per te non ci sarà posto. Però i suoi occhi valgono la pena di tentare. Di riallacciare legami che credevi rotti in passato, e stavolta senza progetti o aspettative a inquinare la purezza dell’intenzione. Basta schiacciare Invio, buttare il cellulare nella borsa e non pensarci più.

Chiudi gli occhi, la testa tra le mani. Nessun velo di timore o di imbarazzo. Forse è giunto il momento di spezzare quelle dannate barriere e parlargli senza filtri, senza paura. Riappropriarti a trecentosessanta gradi del tuo raggio d’azione, di un rapporto vero, e scoprire la parte più vera, più intima di te; e poi chiudere gli occhi e attendere il verdetto sull’unica base della versione di te più autentica fra tutte. Senza reticenze. Darti senza chiedere nulla in cambio.

Non mi hai conosciuto davvero: non ero quella, io sono questa qua.

Dopo, potresti sprofondare all’inferno felice.

Non è una serata da sprecarsi crogiolandosi nella depressione latente, non quando il cervello è un vulcano in piena attività, il corpo un involucro insufficiente. Ti basta concentrarti su pensieri che si susseguono frenetici, che s’infrangono sulla superficie del bancone del bar, e sentire quella strana frenesia che guizza fino alla punta delle dita. Vorresti che durasse in eterno: una di quelle rare occasioni in cui la mente è un oceano di colori in ebollizione.

Potresti esplodere. Voglia di fare e di scappare via e cambiare il mondo. Di parlare di te e con libera lingua.

È ciò che ti ha condotto da lui – l’inferno e la depressione, il suicidio annunciato della volontà. La contropartita è tale che quasi potresti ringraziarlo, quell’inferno. Quasi. Ringraziarlo per averti restituito questo – la nuova Elena che spiega le ali. Per essersi manifestato e averti permesso, con dolore, di fare piazza pulita del tuo male, di un fardello di prospettive errate. È valsa la pena di morire e rinascere. Di scavarti nel cuore e, in mancanza d’altro, direttamente nelle carni. Forse si chiama crescere, ma non sapresti dirlo con certezza. Forse è una ferita che cicatrizza. È un’energia che ha poco di fisico, che fa schizzare le percezioni alle stelle, l’elettricità sotto l’epidermide. L’inganno dei sensi che si riversa nel tuo corpo: senza, a quest’ora alzeresti bandiera bianca e ti ritireresti con passo malfermo.

Stringi le palpebre, sforzandoti di far mente locale, perché d’un tratto fatichi a ricordare l’ultima volta che hai messo qualcosa nello stomaco – probabilmente, non nell’arco di questa giornata. E quella strana vitalità ha poco a che fare con la mera fisicità, perché così, potresti volare e spostare le montagne.

Forse è stato lo shock della discussione di Gabriele. Serviva qualcosa che ti ritirasse su, che circoscrivesse l’angoscia in una forma sopportabile. E adesso tutto sembra meno grigio.

- Ehi, Loria? Tutto bene?

Non attendevi quella voce serpentina. L’hai sentita arrivare con qualche secondo d’anticipo, hai sperato di riuscire a ignorarla. Isa, capelli rossi e occhi penetranti. Sempre al momento sbagliato.

Distogli lo sguardo. Mancava lei, dopo Derossi e i suoi deliri di vendetta. E tu lì, appollaiata in cima allo sgabello, un gomito puntato sul bancone e le pupille dilatate dopo il fatidico bicchiere di troppo. Meglio non offrire spunti, non inciampare e ponderare bene le parole, o entro domani mattina tutti ti daranno per alcolizzata.

- Sei felice, stasera? – Isa solleva un sopracciglio, sarcastica.

Calma, Elena. Anche se ufficialmente non la vedi e non la senti, potresti perdere il controllo e dire qualcosa di azzardato.

Vuole provocare. È venuta qui a provocare. Spera di trovarti sguarnita, attaccabile. Pronta da plasmare.

Sollevi un sopracciglio.

- Fammi pensare… Due che non conosco si sono quasi azzuffati per motivi cretini. Perché dovrei essere contenta?

Isa sorride, melliflua.

- Touché! So che tu coi litigi degli altri ci vai a nozze. Specie se c’è lo spazio di infilarci le unghie. Chiedevo.

Stavolta, per poco non le ridi in faccia.

- Dio, Cortesi… sul serio! Che paranoia! Tutto questo per dirmi che anche stavolta è stata colpa mia? Se hanno litigato due che manco conosco, e io ero lì per caso…?

- Tu non sei mai lì per caso. Poi si parlava di raccomandati – Isa ha occupato lo sgabello accanto al tuo, senza attendere un invito – Basile dice che il darkettone è un pacco colossale. Chi ha iniziato la caccia alle streghe? Toh, spunti fuori sempre tu. Molto dietro le quinte, ma ci sei dentro quanto basta.

Non sai quanto.

Ti stringi nelle spalle, lo sguardo chino sul bicchiere vuoto.

Calma. È più importante arrivare viva in fondo alla serata che dare peso alle sue chiacchiere.

- Mi spiace, ma stai toppando anche stavolta. Non conosco nessuno dei due e non ho la più pallida idea di cosa sia successo.

- Di’ la verità… – Isa sorride finché le labbra imbrattate di rossetto rosso fuoco non somigliano a un enorme taglio sanguinolento sulla faccia – È da quel giorno in Aula Magna… Quello che hai seminato comincia a dare frutti. Mi ricordo di te, quel giorno: volevi fare l’eroina maledetta per metterti in buona luce con Andrea. L’hai visto solo, spaesato, lui ti ha dato corda, e ti sei montata la testa. Mi dispiace deluderti, ma Andrea sta con Derossi. Peccato che non ti abbiano informato… Proprio tu che hai brigato tanto per mettere pace tra loro, non ne sapevi niente? O è tutta scena: tu vuoi Andrea.

- È un’ossessione! – agiti la mano davanti a te, come a scacciare qualcosa di insopportabilmente fastidioso – La tua! È sempre la stessa storia! Se le cose tra Andrea e Gabriele si metteranno così, ti giuro che sarai la prima a essere informata. E se davvero sarò stata io, senza volerlo, a spingere a questa conclusione, ne sarò doppiamente fiera – sorridi, con una punta di sadismo – Vuoi scommettere?

Isa tende la mano, sibillina.

- Su cosa devo scommettere? Che non ti vedrò felice, finché non sarai riuscita a portartelo a letto? Su questo, scommetto eccome. E scommetto pure che non ti tirerai indietro: si vede da lontano che gli muori dietro. Forse nemmeno lui è insensibile al tuo… – breve occhiata densa di disgusto, una piega storta all’angolo della bocca – fascino. Non piangere, però, se ti degnerà al massimo di una scopata. È l’unica cosa che puoi offrirgli per legarlo a te: il tuo corpo. E le bugie. Perché lui quelle complessate e paranoiche come te, le ha sempre schifate. Sarà un atto di pietà.

- Ti stai facendo un film allucinante – scuoti il capo, esasperata – È la tua sega mentale preferita, e finché resta così, per me va bene. Però scommetto che, quando le voci su Andrea e Gabriele saranno autentiche, non le cazzate di Alberti, sarai verde di rabbia. Anzi, pensandoci bene, la cosa migliore per te sarebbe un bel pacco di cazzi tuoi. Cosa ci trovi, nel tormentare le persone e piegarle alle tue favole? Forse la tua vita non ti diverte abbastanza, e allora ti racconti quelle degli altri.

- Non dire cazzate! – Isa ha ritirato la mano, punta sul vivo – L’hanno capito tutti, che sbavi dietro ad Andrea, e Derossi è un tuo strumento… O forse il contrario. Vi state prendendo in giro da soli. E comunque dovresti arrenderti all’evidenza: Andrea vuole Derossi, non te, e pace.

- Pace? Mi sembri tu, quella che fa la guerra perché non sopporta che Andrea voglia Gabriele – una bella sghignazzata, adesso puoi concedertela – Hai fatto di tutto per scongiurare l’eventualità, per metterli uno contro l’altro. Sono mesi che cerchi di manipolare tutti con le tue balle, e ci saremmo leggermente rotti. Non mi sembra che Andrea sia corso a chiarirti di persona il miliardo di cose che non hai capito, a cercare il dialogo con te. Non si ricorda manco che esisti, e tu sei qui che continui a fare congetture su di lui. Curioso che sia sempre al centro dei tuoi pensieri! Un bel comportamento da sfigata che si rode il fegato, proprio tu che ce l’hai con gli “sfigati rosiconi”! Ti brucia così tanto, che Andrea sia innamorato di un ragazzo e non cerchi i tuoi consigli, la tua approvazione… E, tra parentesi, lo capisco benissimo, dopo tutte le volte che l’hai preso in giro, spinto ad andare con ragazzine varie di cui non gli importava nulla, fatto il lavaggio del cervello, “ti prego, tu non sei gay, vero che non sei gay?”… Non è che sei tu, quella che vuole farselo? O sei omofoba? Magari non volevi perdere l’amico fighetto, però non lo volevi gay… Lo volevi su misura, cucito apposta per te. Simpatico: ci sarebbe da scriverci trattati. Di psichiatria.

- Come ti permetti? – la voce di Isa è un sibilo minaccioso.

Ha ignorato persino il cameriere che accennava a lei per prendere l’ordinazione.

Cianuro, grazie. Un secchio pieno.

- Oh, scusa, Cortesi – la interrompi, lo sguardo angelico – Sono discorsi a vuoto, processi alle intenzioni: almeno io me ne rendo conto. Volevo farti vedere come ci si sente con una specie di grillo parlante appollaiato sulla spalla a farsi i fatti tuoi e trarre conclusioni a cazzo. Però in una cosa ci ho preso: sei gelosa marcia e vorresti dividerti con me la tua invidia. Appiopparmi i tuoi difetti. Non sopporti che Andrea sia mio amico e che ami Gabriele. Fattene una ragione: gli piace un ragazzo, e non sarai tu a cambiarlo. Specie adesso che non conti niente.

Isa ridacchia: per un attimo sembra davvero aver ritrovato la baldanza iniziale con annessi occhi socchiusi, inquisitori.

- Ti stai giustificando: se Andrea non si butta ai tuoi piedi, con te che gliela sbatti in faccia, è perché senz’altro è gay. Chiarissimo! Non perché tu gli fai schifo. Te lo sei mai chiesta? Eppure qualcun’altra c’è salita sul suo letto, molto prima di Derossi. Quindi, anche tu in teoria avresti le carte in regola per andare con lui. Di fatto, non sei all’altezza. E ti rode che qualcun’altra ce l’abbia fatta.

- Qualcuna tipo…? – la incalzi, annoiata, mentre giochi a fare una barchetta con la ricevuta fiscale – Guarda che non sono stupida: lo so che Andrea ha avuto anche storie con ragazze. Restano comunque cazzi suoi. Perché siamo qui a parlarne? Se hai qualche dubbio, vai e chiedilo a lui!

- Prendi Giulia. Almeno lei l’ha fatto divertire un po’ – Isa solleva gli occhi al cielo – Tu neanche quello. Sei patetica: continui a sognare che Andrea si accorga di te come qualcosa di più di un’amichetta sfigata, di un passatempo. Che poi, siamo sicuri che almeno Derossi gli interessi davvero? Lo eccita, punto. Vuole scoparselo. E poi?

- Ah, certo, Giulia! Come dimenticare? – scoppi a ridere: non puoi farne a meno – Giulia! Il vaso senza fondo! L’unico con cui non è andata, temo sia Derossi. Per ovvi motivi. Toglimi una curiosità: secondo te che sei così informata, di chi è innamorato Andrea? Di te, per caso, e tutti gli altri son contorno di patate? È qui che vuoi arrivare? “Giù le mani, stronzi, Andrea è mio”?

- Assolutamente no! – Isa scuote il capo, flemmatica: ha previsto la provocazione – Vedi che sei maliziosa? Corri sempre lì, hai un chiodo fisso: il sesso. Non riesci a concepire altro. Tra me e Andrea c’era un’amicizia sincera, meravigliosa, c’era complicità, c’era capirsi al volo, interessi in comune, prima che qualcuno allungasse gli artigli… Amicizia, complicità. Genuini rapporti umani. Hai presente? Quello che con te non ci sarà mai, perché ti ostini a metterci di mezzo il cuore, o meglio, l’amore per te stessa. La tua fottuta mania di gridare al mondo che anche tu sei all’altezza. Puoi usare il sesso. Non potresti semplicemente scopare di più? Perché non cambi obiettivo? Vola basso: Andrea non è al tuo livello, né come amico né come… altro. Imprevedibile, schizzato, intellettualmente vivace - anche se ultimamente fa solo cazzate. Tu sei una mummia gelida. Tu vuoi uno scontato, manovrabile, da andarci sul sicuro. Qualcuno che accarezzi il tuo ego. Andrea ha i suoi difetti, ma non è una marionetta. C’è il tizio nuovo, se vuoi. Lui forse è alla tua portata: fareste gli emo-scazzati in due.

- Che rottura di palle! – sbuffi; fai per alzarti – Hai il cervello fuso. Hai fatto tutto da sola, botta e risposta… Per me puoi tenerti le tue paranoie e continuare a raccontartela da sola. Se pensi ci sia qualcuno che crede a questa gigantesca boiata, cadi male. Fai pena.

Sospiri: in teoria saresti tu quella che ha alzato il gomito – unici strascichi, la lingua più svelta del solito, il cervello che va come una scheggia e la prontezza con cui le hai rispedito indietro la paccottiglia di supposizioni e incubi a occhi aperti. Non hai subito l’affondo.

Forse è il segno che quell’ultimo bicchiere era il punto di equilibrio. Dopo sarebbe arrivata la sbronza vera e propria.

Prima la mazzata di Gabriele, poi Isa che cerca di far saltare i punti di sutura – facendo leva nei posti sbagliati e mancando del tutto il bersaglio. È troppo. Ci ha provato di nuovo, a insinuarti il dubbio, qualche seme che attecchisca nel deserto delle cazzate più sterili. Non ha il coraggio di cercare Andrea, e allora prova a fiaccare le tue resistenze.

- Attenta, Loria. Te lo ripeto: devi stare molto attenta… – ti soffia alle spalle, un attimo prima di scendere dal trespolo e abbandonare il campo.

E lo senti, come una trafittura di spillo in mezzo alla schiena, lo sguardo arroventato dal rancore, la consapevolezza malata di aver capito tutto di te. Di Andrea, di ciò che vi gira intorno. La tensione di far quadrare i conti a qualunque costo.

È furente, incapace di starsene a guardare mentre la sua scenografia le si sgretola tra le mani, la consapevolezza di poter stravincere lavorando sulle vostre debolezze.

Ma cadrà male, stavolta. Molto male.

Lascia che ci sbatta la faccia da sola, poi riderai tu.

Te lo ripeti, mentre abbandoni il bar per una rassicurante ritirata verso la fermata dell’autobus, pronta per l’ultima corsa verso casa. Sorridi tra te e affretti il passo, l’aria pungente della sera che ti schiaffeggia le guance accaldate e l’asfalto umido che scorre sotto le scarpe, il respiro che accelera e scandisce la breve corsa. E per un attimo ti chiedi come sarebbe tutto più facile, se il tuo unico problema si chiamasse Isa Cortesi.

Hai sentito il cellulare che vibrava dentro la borsa, ma l’hai ignorato. Forse è Andrea che chiede la favola della buonanotte. Forse è Lastella che ti annuncia di essere ancora vivo.

Non ci hai fatto caso: hai preferito arrancare fino alla fermata – cercando di controllare l’andatura sul barcollante –, le parole di Isa scolpite nella testa come fastidiose punture d’insetto.

Lei dice che, senza Andrea da tampinare da vicino, la tua vita sarebbe finita. L’ha detto e ribadito col fuoco dell’ossessione, quasi a voler convincere prima di tutto se stessa. Si è raccontata da capo la sua verità. Ciò che non sa è che questa situazione non l’hai nemmeno cercata tu – non ne avresti avuto il fegato. È successo e basta, e iniziare a voler bene ad Andrea è la conseguenza obbligata. E ogni giorno più bella.

Il nodo fondamentale – tra te e te medesima – è sapere se riusciresti, rotto ogni indugio, a imprimere una svolta ripartendo da questo frangente, sola con le tue nuove certezze. Con o senza Andrea. Potrebbe rivelarsi una sfida divertente.

 

Ciao Ele! Non preoccuparti, sono vivo ;)) Non è uscito fuori nulla di buono, ma almeno non mi sono annoiato XDD Ci vediamo domani, buonanotte, un bacio.

 

Sorridi. È il solito cazzone: non è cambiato.

Squillino della buonanotte e un formicolio improvviso vicino del cuore. Formicolio su cui preferisci non farti domande.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 35
*** Capitolo 35 - La notte porta consiglio ***


Capitolo 35

La notte porta consiglio

 

L’ha intravisto nel buio come un bagliore che gli squarcia la visuale.

La figura sfocata di Thompson emerge in controluce davanti a lui come una calamita che lo attira verso il centro, verso il suo torace pallido e la sua vita mirabilmente sottile.

È buffo, pensa Patrizio, che nessuno tra i due si chieda il perché della situazione insolita o cerchi di stabilire un nesso. Com’è che siamo finiti qui a fissarsi e ammiccare a vuoto?

Forse hanno bevuto, forse è un sogno a occhi aperti, e se fosse così, meglio approfittare di quegli istanti rubati alla notte, scollegare la mente e bearsi della visione.

Non dice nulla, Patrizio. Si limita ad inghiottire l’accesso di languore, sfiorare le mani di Alex e trascinarlo sul suo letto intonso. Non riesce a vederlo bene in viso, qualche ombra nella sua coscienza glielo impedisce, ma sa che sta sorridendo.

Cucciolo, tranquillo. Sei con me.

China lo sguardo, Patrizio, un tremore febbrile che gli increspa le labbra, quando un raggio di luna chiarificatore proietta il suo cono di luce candida sulla sagoma cristallina semisdraiata al suo fianco.

Finalmente.

La visione nitida di lui gli strappa un sospiro carico di piacere – adesso non deve più limitarsi ad accarezzarlo in punta di ciglia e indovinarne i contorni. Si umetta le labbra, la salivazione ridotta, quando il luccichio della barretta metallica che gli trafigge il capezzolo destro, emerge nella penombra, tentatore.

Questo lo ricorda bene. Come ogni dettaglio del suo corpo. Da quella volta che l’ha visto a torso nudo nello spogliatoio, una frazione di secondo, prima che tornasse a seppellirsi nella sua felpa a righe e nella sua migliore maschera di scazzo da ragazzetto dark che gioca a fare l’uomo adulto. Tutto ciò che ricorda è l’infarto scongiurato per miracolo e un’occhiata di sguincio, sufficiente a radiografarselo tutto nel dettaglio.

Bravo scemo. Lo fai apposta per farmi impazzire. È così. Vuoi dire che ci sei e che sei disponibile. Il piercing, le movenze, quel faccino mezzo addormentato e tutto il resto…

Ora è lì di fronte a lui e lo fissa sotto il velo del sogno, la pelle alabastrina che buca la penombra e sa di pesca. L’ossatura spigolosa sotto la linea squadrata delle spalle, la luce che guizza ad ogni respiro, l’intera figura sospesa nel limbo ideale tra l’adolescente e l’uomo.

Con quel minuscolo triskell nero tatuato sul basso ventre, vicino all’anca.

Il piercing al capezzolo come una rivelazione gridata – o una conferma. Chissà se è vero, poi, che diventa più sensibile…

Grazie di avermi suggerito l’idea…

Sorridendo, Patrizio si piega su di lui e gli posa le labbra socchiuse sulla gola di porcellana. Accelera il respiro, mentre sussulta e inarca la schiena sotto di lui e si espone all’assalto: ridacchia e lo lascia fare in silenzio, beandosi del suo tocco, del solletico della barba di qualche giorno sulla pelle.

Patrizio gli accarezza le spalle, sale a scompigliargli i capelli come a rassicurarlo, prima di lanciarsi sul secondo obiettivo. Non sa bene cosa sia, forse i segnali inconsci che strisciano sottopelle, l’attrazione fisica o qualcosa di più intimo, l’istinto di baciarlo e stringerlo a sé. L’unico impulso che prende forma, è adagiare il capo sul suo petto, catturargli il capezzolo destro tra le labbra e tracciare circoli di concentrata ostinazione in punta di lingua, il contrasto tra il freddo del gioiello di metallo e il calore della cute rovente, come un grido improvviso, un retrogusto dolce. L’ultimo residuo di lucidità che si disperde in scintille.

Alex si tende verso di lui e soffoca un urlo.

Allora è vero… Sei una corda decisamente tesa.

Patrizio sorride tra sé e lo sugge con delicatezza, lo sfiora con i denti, e il sangue che infuria sotto l’epidermide è una risposta scontata. Socchiude le labbra su di lui e preme, sadico preludio di ciò che conta di fargli dove è ben più vulnerabile.

In verità, il proposito che l’ha spinto ad arrivare fin qui, era staccare la spina della razionalità senza pensare al prima e al dopo, l’istinto a dettare i passi e una vertigine che ti impiccia la vista e guida la mano lungo il suo torace.

Non pensa più a nulla. Allunga le dita e gli strofina dolcemente il capezzolo sinistro. Forse se l’aspettava, perché gli infila una mano tra i capelli, le dita sottili ad artigliare la nuca, e se lo preme contro il petto e di lì verso il basso, a tastare alla cieca la muscolatura contratta del ventre. Sospira.

Patrizio sorride: in certi frangenti gli ricorda un po’ Andrea, che quasi se ne veniva da solo, quando lo sfiorava all’altezza dell’ombelico, inabissandosi lungo una linea proibita senza soddisfarlo appieno. Andrea si inarcava come una molla e si premeva le mani sulla faccia– lo ricorda come se fosse ieri, come se fosse qui e ora, nudo e ansante sulle lenzuola stropicciate. Andrea a quel punto gli gettava un’occhiata torbida, appena visibile sotto le palpebre socchiuse, con la tacita richiesta di scopare.

Il gemito strozzato di Alex muore tra le sue labbra serrate in un mugolio gutturale e continuo. Sbuffa di frustrazione, le unghie nerosmaltate che artigliano le lenzuola.

Un po’ di pazienza, piccino.

Alex si riscuote per un attimo dal delirio, lo sguardo annebbiato, e si protende verso di lui. La mano scorre incerta sulla sua nuca, per poi indugiare lungo la schiena e assecondare i suoi movimenti.

 

Non sembri un tipo esperto, sei nervoso e si sente: forse temi di sfigurare. Non sai bene dove mettere le mani, oscilli come se volessi chiedere di più, un contatto più pressante; mi stringi tra le braccia, quasi non sapessi che farne e ti sentissi in dovere di ricambiare. Fai quasi tenerezza.

 

È eccitato. Lo sente dai movimenti sinuosi del bacino contro il suo, dal battito che impenna, la pelle che brucia sotto le sue carezze. Si chiede se può osare ancora. Catturargli le labbra tra le sue e inghiottirsi ogni sospiro; inchiodarlo sotto il suo peso, attento a non spezzarlo, sistemarsi tra le sue gambe aperte, fianchi contro fianchi. Muoversi su di lui, lento e letale, con enfasi un po’ meno che sadica, contro il turgore del suo sesso, costretto in pantaloni aderenti come una seconda pelle. Entrambi nudi a partire dal cuore o giù di lì, il cotone ruvido dei jeans come unica barriera fra loro. Lo strofinio esasperante dei vestiti.

Alex dischiude le labbra e fa per staccarsi da lui, riprendere fiato senza perdersi del tutto; un solo attimo d’indecisione, prima di prendergli il volto tra le mani e lasciargli assaporare la sua bocca, indugiare sulle labbra aperte come a cercare il consenso, superare quell’ultima barriera e spingersi in lui con tutta la tensione dipinta addosso.

Un’esplosione estatica che li scaraventa dall’incoscienza alla deriva totale.

Non sa cos’è successo dopo, Patrizio. Ha visto tutto tingersi di rosso, poi solo il verde rintronante dei suoi occhi spalancati. Gli ha infilato una mano nei pantaloni – qualche istante infinito speso a lottare con dita febbrili contro la sua dannata cintura borchiata –, e per un attimo è sicuro di aver percepito sotto il palmo il leggero madore della sua pelle, la peluria soffice che scorre sotto il suo tocco come raso, e poi il suo sesso proteso, il sangue che ribolle sotto la superficie.

Un lampo e tutto è svanito, il sogno infranto.

 

Sbatte le palpebre. È di nuovo solo, vagamente stordito, cacciato fuori a viva forza dal suo mondo d’ovatta: le lenzuola attorcigliate intorno alle gambe nude e il dolore di una craniata da manuale contro le mattonelle, unica, crudele connessione con la realtà.

- Patrizio, va tutto bene?

La sveglia decisiva è arrivata con la sagoma familiare di suo fratello Luca che torreggia su di lui con un sopracciglio inarcato. Peccato che il mondo sia tutto capovolto, e il grigio pallido del soffitto emerge di prepotenza davanti ai suoi occhi, spezzando l’idillio in un migliaio di frammenti.

- Eh…?

Patrizio cerca di tirarsi su a sedere, confuso. C’è qualcosa che non va. Le gambe impicciate dalle lenzuola, la schiena dolorante contro il pavimento e tutta la visuale rovesciata. Fondamentale, per recuperare un barlume di dignità, arrampicarsi di nuovo sul letto ed esaminare l’entità del danno. Il dolore che guizza alla base della nuca.

- Oh… ‘fanculo! – rumina tra sé, massaggiandosi la testa – Cos’è stato, adesso?

- Ehm… dovrei chiedertelo io. Stavi tenendo una conferenza – Luca scrolla le spalle e trattiene a stento una risata – E poi, boh. Sei caduto dal letto, come quella volta da piccolo…

- Grazie della precisazione, Lu’, ma c’ero arrivato da solo. È la prima parte, quella che non va. Dimmi subito se stavolta c’è materiale da ricatto – gli soffia, agrodolce – Se no, sono fottuto.

- Sì, figurati adesso se mi metto a decifrare i tuoi vaneggi nel sonno! Le solite robe senza senso – Luca si sistema ai piedi del letto, gambe incrociate: è in vena di chiacchiere al chiaro di luna e rivelazioni di vitale importanza.

Peccato che la radiosveglia sul comodino segni le cinque. Un’ora preziosa di sonno persa nel nulla.

- Però, a quel che ho capito, non doveva essere un incubo… tutt’altro – Luca gli rivolge un sorrisetto equivoco come a sottintendere cose meravigliose.

Poi lo sguardo precipita verso il basso e si assesta all’altezza della cintura. Scivola come inchiostro, il tempo di un ammiccamento, per poi riassestarsi in direzione soffitto.

- Idiota! – Patrizio si affretta a girarsi di lato e a tirarsi le lenzuola sui fianchi per occultare gli esiti prevedibili delle immagini oniriche appena evaporate.

Luca continua a sogghignare, un sopracciglio inarcato verso di lui.

- Questa è ironia da prima media, ti informo. Non ne hai mai visto uno dritto? Spero per te che l’abbia visto, almeno uno. Il tuo – conclude, serafico.

Luca incassa la risposta, sagace, e si schiarisce la voce.

- In realtà mi chiedevo chi fosse il protagonista del tuo sogno. Chi è al centro dei tuoi pensieri. Spero non Nicoletti, o mi sparo!

- Indovina, se sei bravo – miagola Patrizio, di rimando, raccogliendo la sfida.

- Vediamo: non è Nicoletti, o mi avresti già fatto una testa tanta. Fammi pensare con chi ti stai vedendo quest’ultimo periodo, chi ti sta particolarmente addosso… – pausa ricca di suspence – Basile? Uhm, un po’ scontata…

Patrizio per poco non si strozza in un accesso di risa.

- Ma va’ là! Piuttosto mi faccio frate! È mio amico, dai, è etero e non è nemmeno il mio tipo. Usa la logica!

Luca finge di pensarci su, lo sguardo ispirato.

- Il nostro amico Riccardi? – sghignazza – Eh, sta’ a vedere che tutta la menata del machismo omofobo alla fine è una copertura…

Patrizio arriccia il naso.

- Riccardi?! Scusa, ti risulta che soffra di incubi o abbia voglia di farmi del male?

- Okay, scherzavo. Non è molto difficile, se ci vai per esclusione. Chi hai puntato di recente? Alexander Thompson! Sì, dai, per me è lui. È anche carino. Cioè, non è proprio bello, non me ne intendo, ma è sul tuo genere. A vedere come gli stavi appiccicato ieri…

- Bravo, hai indovinato. Meriti un premio – Patrizio si tira i capelli all’indietro, rassegnato.

L’impulso è di centrarlo con una cuscinata da record, ma una morsa di nervosismo lo coglie di sorpresa, spiazzandolo come un pugno dritto nello stomaco. Una stretta che non è riuscito a esorcizzare neppure scherzando con suo fratello, che ha occhi troppo seri e speculari ai suoi.

- Okay. Io, Patrizio Lastella, mi sono appena fatto un sogno erotico su Alex Thompson, e non è stato spiacevole. Che significa?

- Mah, qualcosa tipo che lo vuoi? Che te lo ribalteresti adesso su questo letto, senza pensarci due volte? – Luca si piega su di lui, inquisitore.

Patrizio distoglie lo sguardo. A volte riesce a stupirsi di come suo fratello catturi dettagli di fondamentale importanza un quarto d’ora prima di lui. Il fatto che i dettagli in questione siano strettamente personali o, peggio, ancora in fase di gestazione, è un particolare trascurabile e pure un po’ inquietante.

- Potrei esserne attratto… in via eccezionale – sospira – Ti ricordi cosa si fa di solito in questi casi?

- Devo spiegartelo io? – Luca ammicca, malizioso – Dio, che imbarazzo! Patrizio Lastella, il gemello figo, tombeur des hommes, sex-symbol indiscusso, chiede lumi al fratello etero! Cosa si fa in questi casi? Una doccia fredda? Lo inviti a uscire con te, così, senza impegno. Trovi una scusa, una cosa buttata lì, tipo un aperitivo. O magari ti inventi qualcosa e lo porti in centro. Provi a saggiare il terreno, fare lo splendido e tutte quelle cazzate che scrivono nelle riviste… Lo corteggi, ecco. Se poi ti sembra il caso, fai un tentativo. Lo baci, gli dici che ti piace, e boh, vedi come butta.

- Ma tu guarda! – Patrizio si batte una mano sulla fronte, teatrale – Non ci avrei mai pensato…! Non è diverso da quando tu esci con una ragazza, sai?

- È lì che voglio arrivare. Qual è il problema? – Luca spalanca gli occhi: sembra ancora più serio.

- I problemi sono due. Il primo è che non so manco se è gay… Non ce l’ha scritto in faccia.

- Vabbè, questo è compreso nel pacchetto, più o meno su “se ti sembra il caso”. L’altro problema?

Patrizio si fissa la punta delle dita, un nodo grosso quanto l’Accademia che gli attorciglia le parole in gola. La consapevolezza improvvisa gli divampa nella mente come una cattiva notizia, affrancandosi dalla nebbia del sogno. È quasi più doloroso ammetterlo così, a voce alta, a se stesso e al mondo, evocarlo con tutto il potere sibillino delle parole. Ammetterlo di fronte ad un’entità che non sia la sua testa. Anche se è suo fratello gemello.

- Il problema è che forse… non lo so, Luca! È che penso ancora ad Andrea. L’ho rivisto, ci ho parlato, e bum. Non lo so cos’è, ma torno sempre lì, come dalla mamma. Mi piace lui. Thompson mi fa tenerezza, mi piace fisicamente, ma lo conosco poco. Sì, dai, volendo potrei andarci a letto, se si levasse un po’ quell’aria da gattino sperduto. Andrea… è Andrea, stop.

- Ecco… – lo sguardo di Luca crolla fino al pavimento, il volto pallido – Se posso dirti la mia, questi sono cazzi acidi. Lo sai, vero?

Patrizio si stringe nelle spalle.

- Cosa fa uno, quando è nella merda?

- Prova a nuotare…?

Sospira, Patrizio, premendo il volto sul cuscino.

È finita. Eppure sembrava perfetto… in sogno. Poche paranoie. Finché non si è frantumato tutto nella solita, incasinata, deludente realtà. Con la mente che fa il cavolo che le pare.

 

* * *

 

Andrea misura il corridoio della Casa dello Studente a passi furiosi. Osserva le pareti immerse nella rassicurante luce biancastra, le mattonelle a scacchi che scorrono sotto i suoi piedi come nastri. Osserva senza vedere.

Si è svegliato male, e tanto vale serrare i pugni e affrontarla a muso duro, l’ennesima giornata da suicidio. Portare avanti fino in fondo il copione del giorno, a prescindere da Gabriele e da tutto il resto.

C’era un aggancio che non tornava, quella mattina. Gabriele che lo schiva come una malattia, infilandogli di nuovo il dubbio nella testa, corrosivo come acido. Il tassello mancante gli è esploso nella mente in capo a due ore di rimescolii e lacrime solitarie versate al vento. Lui e il suo piede in due scarpe, la sua posizione ambigua.

Via il dente, via il dolore: potrebbe diventare il leitmotiv della giornata.

Se Gabriele esita senza la forza di buttargli in faccia ciò che pensa di lui, se schizza via come un’anguilla quando gli intrecci si fanno pericolosi, non gli resta che suffragare le sue posizioni con nuove conferme. Sciogliere i nodi ad uno ad uno senza lasciare nulla di intentato. Riprendere da principio, se necessario.

Ha provato ad accennare qualcosa a Loria in quei cinque minuti che sono riusciti a biascicarsi qualcosa davanti a una tazzina di caffè, perché in fondo ha sempre avuto un effetto illuminante su di lui. Gliel’ha letto negli occhi.

Chiarisci una volta per sempre. Non lasciare zone d’ombra. È questo il problema. Che tutti equivocano tutto.

Peccato non si riferisse a Gabriele.

Peccato che non sia la stanza di Gabriele, il luogo dove lo stanno trascinando i suoi piedi.

Perché c’è un’altra cosa che deve fare, prima di dedicarsi completamente a lui. Una faccenda che assume toni da burletta e s’intride di patetico ogni giorno che passa. Una smania che gli brucia in fondo al petto e scalpita per trovare uno sbocco. E tanto vale staccarlo via del tutto, il dannato cerotto appiccicato alla ferita, e tenersi la cicatrice.

Andrea sospira; controlla l’ora sul cellulare: troppo tardi perché qualcuno lo accusi di buttare giù dal letto la gente, troppo presto perché tutti si siano già precipitati a lezione o al bar per una colazione volante. Ma lui conosce le sue abitudini, almeno quelle.

Due colpi secchi rimbombano contro la porta chiusa che incombe davanti a lui. Gli mette quasi soggezione, perché quella mattina tutto sembra troppo alto e troppo austero. La luce troppo densa che gli scava addosso la stanchezza, ogni piega di incertezza esposta a un bagliore indiscreto.

Andrea deglutisce, il freddo di una volontà d’acciaio che offusca le sue percezioni e gli si scioglie addosso come ghiaccio. Strizza le palpebre. Les jeux sont faits.

Ha lasciato correre, rimandato all’infinito, finto che il problema non esistesse. Non è servito a nulla. Metterci una bella parola “fine” è un’esigenza vitale: un aut-aut che non lasci larghi spazi d’intervento, o la pagliacciata non avrà fine. E ne pagherà le spese Elena, ne pagherà le spese Gabriele, del suo silenzio, di quel suo continuo oscillare, lasciare questioni irrisolte a imputridire sul fondo con la tiepida speranza che si riassorbano da sole. Con tutto il veleno speso invano…

La porta si spalanca di colpo e spezza il flusso dei suoi pensieri.

- Alessandro, già qui? Avevamo detto le otto e mezza… Andrea?!

Isa è comparsa davanti a lui con i capelli di fiamma tutti arruffati, un occhio truccato e uno no, lo spazzolino del mascara teso davanti a sé come un’arma. La faccia che sbianca di un paio di toni, non appena i suoi occhi lo mettono a fuoco.

- Ciao, Isabella – sussurra, beffardo, il volto impenetrabile – Sono qui, come volevi. Possiamo parlare?

 

Ritorna all'indice


Capitolo 36
*** Capitolo 36 - Scacco alla regina ***


Capitolo 36

Scacco alla regina

 

La tensione è una ragnatela che ti s’impiglia alle dita, che cerchi di spazzare via mentre guadagni terreno verso di lei. Il gelo nel cuore.

Lei. La sua migliore amica…!

L’ha tradito e umiliato.

Lo fissa come un intruso, come un nemico. Chiusa in un silenzio colpevole, le braccia intrecciate sul petto come uno scudo. In bilico tra l’orgoglio ostinato di tacere, il torrente di parole che vorrebbe vomitargli addosso, e il livore di mesi. Alla fine ha scelto di tacere.

Prevedibile. Non se l’aspettava.

- Non mi fai neanche entrare? Restiamo qui sulla porta? – Andrea inarca un sopracciglio, sarcastico: meglio approfittare del leggero vantaggio da effetto-sorpresa e vibrare la prima stoccata; e soprattutto, via ogni riguardo – O forse qua dentro raccomandati e froci non sono graditi, dico bene? – infierisce – Pensa se ci vede il tuo amico Riccardi…!

- Andrea, non dire stronzate! – Isa scatta indietro, un lampo d’ira nelle iridi cerulee, scostandosi e dandogli via libera.

- Credo che noi due abbiamo un po’ di cose da chiarire – Andrea si lascia andare sul divano-letto, disinvolto.

Soppesa quasi con cattiveria la sua faccia sconvolta. Le labbra atteggiate a broncio e quel continuo guardarlo in cagnesco.

- Hai l’imbarazzo della scelta – gli sussurra Isa, glaciale – Due mesi, Andrea! Due mesi che non ti sei fatto vivo. Mi ignori come se non esistessi! Hai tratto da solo le tue conclusioni e non mi hai chiesto nulla.

Andrea si stringe nelle spalle. Non fa una grinza.

- Potrei dire la stessa cosa, cara.

- Adesso sarei io a dovermi scusare? A darti spiegazioni? – incalza Isa, decisa a ribaltare i ruoli di accusa e accusato.

- Beh, hai confidato i tuoi “dubbi” a tutti tranne me, che sono il diretto interessato. Potevi mandarmi affanculo, non dico cospargerti il capo di cenere, invece hai preferito seguire i pettegolezzi idioti, aggiungerne altri, affidarti al tuo istinto infallibile e alle cazzate di Alberti e Riccardi. Adesso ti sei anche messa a dare il tormento a Elena. Vuoi carpire pezzi di verità ma senza esporti, è così?  Per evitare il faccia a faccia con me. Hai paura?

- Ah, lo chiami così! Dare il tormento… – Isa si scherma le labbra con la mano, mascherando una risatina maligna – La vipera ha fatto la spia, è venuta a lagnarsi da te, il suo cavalier servente. L’ha recitata bene, la parte della povera vittima?

Andrea si prende il volto tra le mani, esasperato.

- No. Isa, ti spiace se evitiamo questi giri? Il fatto qua è che io mi sono rotto il cazzo – sbotta – Mi sono ampiamente rotto il cazzo. Di tutto. Di situazioni che si trascinano da mesi. Di te, di voi che pontificate sulla mia vita, che cercate pretesti per infangarmi…

- Pensavo te lo fossi rotto tempo addietro – Isa è passata all’invettiva – Bastava dirlo: ti stavo stretta. Potevamo parlarne. Invece hai fatto tutto da solo: dovevi attribuirmi la parte scomoda. E farmela pagare alleandoti con una smorfiosetta che detesto, e uno che ti voleva morto fino a ieri. Patetico.

- Non hai capito – Andrea solleva lo sguardo, flemmatico, la collera tenuta sotto controllo da una rete di nervi d’acciaio: forse per una volta ha lo spirito giusto – Non hai capito nulla. Sei così concentrata su te stessa che non ti sfiora manco per sbaglio che io possa rapportarmi con altri esseri umani e che non lo faccia per fare un dispetto a te o dimostrarti chissà che cosa. Io ed Elena siamo amici, che ti piaccia o meno; delle tue cattiverie non so che farmene. Ti senti in competizione con lei, ma è un tuo problema. Io e Gabriele abbiamo fatto pace da secoli, ci siamo confrontati da persone adulte. Se vuoi farti due risate, ti confido che stavolta le notizie erano vere: sono innamorato di lui. Contenta? Hai la conferma ufficiale. Adesso puoi piantarla di chiedere in giro. Faccio prima a spiegarti io: Gabriele mi piace, mi piace da starci male, e non mi vorrà mai. Il vostro giochino di mettere zizzania ha dato buoni frutti. Missione compiuta: avete mandato tutto a puttane come nei patti. Altre domande?

- Sei assurdo! – Isa si lascia andare sulla sedia accanto al letto, torcendosi le dita – Non puoi incolparmi delle tue cazzate! Tu vorresti fartelo, rosichi perché lui non ci sta, e cerchi dei colpevoli. Io non so che farci, non te l’ho ordinato io di trattarlo di merda fino a farti odiare. Hai buttato alle ortiche quello straccio di rapporto che avevate, l’hai perso e mo’ lo rivuoi indietro… fai quasi tenerezza. Io però a uno come lui ci starei ben attenta…

- Basta! – Andrea solleva un sopracciglio, la faccia che si sforza di restare neutra: forse si sta scoprendo troppo, e Isa è capace di metabolizzare ogni battito di ciglia e rigirarglielo contro al momento opportuno – Non sei tu quella che l’ha fatto a pezzi? Che quando litigavamo, raddoppiava la dose? Ti sei goduta lo spettacolo. Negalo, se sei brava, di’ che non ti è mai stato sulle scatole, non abbastanza da rendergli la vita difficile appena potevi. Chissà, mi sarò sognato tutto…

- Ero in buona compagnia – Isa serra le mascelle, un ringhio appena percettibile – La tua. Senti chi parla, Andrea: eri il primo a spalargli fango addosso, prenderlo in giro, sentirti superiore. Ora vorresti incolpare me, raccontarti che è stato qualcun altro a imboccarti certe carinerie. Tutto perché un bel giorno il gingillo che hai tra le gambe ti ha suggerito che di farsi Derossi ne valeva la pena. Il resto è arrivato da sé. Chi è causa del suo male, pianga se stesso – soggiunge, una punta di perfidia sottolineata dal sorrisetto sghembo che le spunta sulle labbra.

- Va bene – Andrea solleva gli occhi al cielo, incassando la mezza sconfitta – Diciamo che è stato un concorso di colpa. Però non mi hai ancora detto di cosa volevi parlarmi tutto questo tempo – cinguetta – Tutto il tempo che hai passato a chiedere di me.

- Di cosa dovrei parlarti? – Isa spalanca le palpebre, interdetta.

Maldestra trovata dell’ultimo secondo per guadagnare tempo e, se possibile, sviare. Andrea sorride, spazientito.

- Non sei tu che parli sempre di me, che ti interessi a tutto ciò che faccio…? Tranquilla, non ti mangio! Ora sono qui. Non aspetto altro che mi sottoponga i tuoi dubbi.

Isa si fissa la punta delle scarpe, soprappensiero.

- Sei cambiato. Sei un’altra persona. Ti comporti come se non esistessi e non dai spiegazioni.

- Te l’ho già detto – Andrea si ravvia i capelli all’indietro – È esattamente la stessa cosa che hai fatto tu, e posso spiegarmi tranquillamente il perché. Non devi fartene una colpa: hai fatto una scelta, hai preferito stare dalla parte di Alberti anziché dalla mia. Quando hai visto che per me marcava male, hai scelto il carro del vincitore e ci hai messo pure di tuo, sputtanandomi in gran stile. È tutto molto chiaro: io ero debole, Alberti era forte. Hai scelto lui. Ti sei riservata di riacciuffarmi per i capelli in un secondo momento, ma alla fine, tutto sommato, che bisogno hai di me?

- Andrea, mi dispiace.

- Troppo comodo! – Andrea distoglie lo sguardo, un accesso di nervosismo che gli fa tremare le palpebre.

Isa si sporge verso di lui, il volto acceso di chi vuole giocarsela tutta.

- È stata lei, vero? Cosa ti ha detto?

- Lei chi? – Andrea gesticola, nervoso.

Sa già la risposta, ma preferisce sentirlo dalla sua bocca.

- Loria! Chi, se no? – Isa sputa quel nome come un limone acerbo – Sbuca fuori dal nulla, cominciate a frequentarvi, da quel momento cambi faccia e inizi a farti un sacco di paranoie. Oppure lo fai apposta: quale modo migliore per darmi fastidio, se non scegliere proprio lei?

Andrea stira le mani davanti a sé, sornione.

- Allora lo ammetti: sei gelosa di lei, hai paura che qualcuno ti rubi i giocattoli. Mi spiace per il tuo complesso d’inferiorità…

- Inferiorità?! – Isa ha alzato la voce, zittendolo di colpo – Io inferiore a quella? È solo che non capisco cosa ci trovi. Che è una dei pochi che ancora ti sopporta, coi tuoi sbalzi da schizofrenico e le tue battaglie stupide? È questo il problema, Andrea? Volevi la tua guerra personale, la tua causa persa da sposare. Volevi sentirti qualcuno, dimostrare a te stesso di avere un carisma così forte da permetterti di prendere le parti dei più sfigati, sputare veleno su tutto e uscirne vincente. È la tua nuova scommessa, hai preso una strada e vuoi andare fino in fondo. Sembri quasi credibile, come giustiziere da strapazzo. Stai attento, però: hai preso una strada pericolosa e ti stai facendo un mucchio di nemici.

Andrea la fissa negli occhi. Per un attimo sarebbe tentato di annuire compiaciuto e lasciare tutto in forse, ma qualcosa lo tiene inchiodato a quel divano. Qualcosa di fastidiosamente simile a una risata nervosa.

- No, ti prego, Isa! – sussulta – Elena non c’entra nulla. Prenditela con me, se devi. In una cosa, però, ha ragione lei: ti fai dei film allucinanti in cui ogni cosa esiste in rapporto a te e deve essere come dici tu. È l’unica versione: Loria è una strega, Gabriele un rosicone, Blanche un’ochetta, Neri un venduto… La cosa che mi chiedo, è come ho fatto a non capirlo prima. Quando ti davo pure ascolto, quando metà dei tuoi discorsi erano supposizioni spacciate per verità e giochetti di comodo.

- Mi stai rinnegando? – Isa lo fissa negli occhi, seria, lo sguardo indecifrabile e le sopracciglia aggrottate di chi no, non può crederci.

- Ti sei fottuta con le tue mani – replica Andrea, gelido – Non sono io quello che ha buttato a mare la nostra amicizia. Fatti un esame di coscienza e, una volta tanto, fai che non ci siano Lorie e Nicoletti che tengano. Ti do un indizio: sai cosa penso dell’ultimo periodo che sono stato al gioco? Che è stato un inferno. Manipolavi le mie incertezze, quello è brutto, quell’altro è cattivo, Derossi ti odia, è invidioso di te perché lui è una pippa… Mi hai trattato come un moccioso. E io mi fidavo!

- Non stai dicendo sul serio… – Isa sorride, inquieta, un velo di sarcasmo a frenare la consapevolezza che le rimorde la lingua – Confondi me con ciò che hai fatto tu di tua iniziativa, ma quelle cose le pensavi anche tu. Non ti ho mai costretto a fare nulla. Capisco voglia darti una ripulita, fingere di essere una persona diversa. E questo potrebbe anche starmi bene…

- Ho solo cambiato idea su certe cose – Andrea annuisce, freddo – Ho capito che stavo toppando: convinzioni, persone sbagliate, tutto sbagliato. È un delitto?

- No, ti sei fritto il cervello!

- Mi dispiace che proprio tu non voglia capirmi, sai? – Andrea china lo sguardo, le parole che si accartocciano in fondo alla gola: con Isa può andar bene tutto, tranne quando non le dici ciò che vuole sentirsi dire – Era… perfetto. Sarebbe stato perfetto, quando eravamo ancora amici, ci capivamo al volo, ed io mi fidavo. Avremmo potuto chiarire in tutta tranquillità, e tu avresti potuto fare lo sforzo di prendermi sul serio, per una volta. Non chiedevo tanto. Bastava guardarmi per capire che non stavo bene. Invece hai ignorato tutti i segnali: hai intuito che la cosa non ti avrebbe fatto comodo e non mi hai dato neanche il tempo di spiegare. Ti sei negata l’eventualità che fossi diverso da ciò che credevi, l’hai rifiutata… ridevi di me. Hai finto che andasse bene così, hai continuato a forzare le cose nella direzione che volevi. È più o meno da quando hai capito che mi piacciono i ragazzi che hai cambiato faccia. Semplice coincidenza? Non intendo fare la vittima né giustificarmi con qualcuno, la vivo serenamente… La vivevo serenamente, finché non mi sono scontrato con il vostro muro. Ci sono stato malissimo, e tu mi hai deluso più di tutti. Perché sapevi.

- Io penso sia tu a non voler viverla bene – Isa solleva un sopracciglio, calcolatrice – È come se ti sentissi sempre giudicato, attaccato, messo alla prova. Come se dovessi dimostrare qualcosa – scuote il capo – È l’esatto contrario.

- Io non devo dimostrare niente. Ma il tuo comportamento è cambiato da un certo momento in poi. Tutto ciò che mi riguardava era diventato tabù, come se ti desse fastidio, come se io dovessi nascondermi o fare pubblica ammenda. È stato più o meno da quando mi hai combinato l’uscita con Giulia, ricordi? Sembrava la prova del nove, la prova di cui tu avevi bisogno. Pensi che sia una cosa così brutta, da dare scandalo? Gabriele è gay dichiarato, e non mi pare che la cosa abbia fatto scalpore, prima che voi cominciaste a massacrarlo… Addirittura ti piaceva! Patrizio Lastella, gay anche lui. Eppure nessuno, che io sappia, si permette di discriminarlo o prenderlo in giro. Temo che il tuo problema sia proprio io.

- L’ho fatto per te! – Isa ormai gli urla addosso – Avevo paura per te… se la notizia avesse fatto il giro. Paura di come l’avrebbero presa gli altri. Ti avrebbero fatto il vuoto attorno, lo sai come la pensano. Volevo tutelarti, farti capire che su certe cose è meglio essere discreti. Tu sei impulsivo, non sei astuto, non ti piacciono le mezze misure, non sai essere prudente. L’avresti sbandierato alle persone sbagliate, oppure te ne saresti fregato del tutto, e un bel giorno, dal nulla, ti saresti fatto beccare a limonare con un ragazzo. Io volevo iniettarla a piccole dosi, evitare che saltasse fuori nel modo sbagliato, che tutti iniziassero a farsi i cavoli tuoi. E poi c’era la faccenda di Neri. Quanto ci avrebbero messo a fare due più due?

- Si fa ma non si dice. Volevi proteggermi dai pettegolezzi, certo! Inventandone di tuoi, magari – incalza Andrea, tagliente – Hai una strana idea di discrezione. Spifferare tutto quello che sapevi ad Alberti, che io e Neri stavamo insieme, e tutta una sfilza di puttanate che non mi va neanche di ripetere, rientrava per caso nel progetto?

Isa stringe il pugno, furente.

- Che cosa c’entra? Devo ricordarti che è stato il tuo amato Derossi a urlare di fronte a cinquanta persone che avevi barattato una scopata per un posto allo stage…? Il resto è pura deduzione logica. Ma io non c’entro, e non c’entra Alessandro.

- Alessandro, proprio lui! Ha tutto l’interesse del mondo a cacciarmi non nella merda, ma peggio. Me l’ha detto in faccia: più chiaro di così…! E tu l’hai seguito a ruota. Non raccontarmi balle, e pensa alle serpi che frequenti! Federico Riccardi, dico! Davvero, Isa, non capisco. Cos’avete in comune? I pregiudizi? Il neurone solitario? Spero proprio di no! Quel che non riesco a capire è come faccia una come te, per quieto vivere, a regolare la propria esistenza sulla base di come potrebbe reagire gente come Riccardi. Secondo questo ragionamento, uno come me dovrebbe nascondere la testa sotto la sabbia per non urtare la sensibilità di qualche omofobo del cazzo? Rinunciare alla sua libertà, perché poi gli stronzi pensano male?

- Perché viviamo in questo cazzo di posto, in questa cazzo di città, e con questa cazzo di realtà dobbiamo fare i conti, trovare un equilibrio, che ti piaccia o no… Non l’ho deciso io! Neanche tu, Andrea, non vivi su una nuvoletta! Hai voluto i riflettori puntati addosso, hai mostrato i molari fino all’ultimo, ti sei messo contro tutti: ora non lamentarti e prenditi le tue responsabilità, anche quando le cose non vanno come vorresti! Dovevi pensarci prima, che da uno come Riccardi non potevi aspettarti niente di più dello scherzone della settimana scorsa.

- Ah, quindi lo giustifichi? – urla Andrea, i lineamenti contorti dalla rabbia – Rubarmi l’inalatore e cercare di ammazzarmi? Ringrazi che non l’ho denunciato, quell’altro coglione!

Andrea china lo sguardo. Ha gridato più del dovuto.

- È assurdo… – prosegue, la voce spezzata e quel nodo in fondo alla gola che minaccia di degenerare in una crisi di pianto – Sono io il problema, adesso. Ho sbagliato a espormi: se così non fosse, Riccardi non mi avrebbe preso di mira. Isa, ti rendi conto di quello che dici? No, per me può bastare. Ti sei risposta da sola. E lo sai cosa penso? Che non abbiamo più niente da dirci. Non sono io quello che è cambiato e in peggio. Vuoi giocare alle loro regole? Preferisci tenerti buoni Alberti e Riccardi, scendere a compromessi per il fottutissimo “quieto vivere”? Allora chiamalo col suo nome: “startene coi coglioni in pace”, “spalleggiare il più forte”, “essere amica di quelli che contano”. Accetta e giustifica quello che vuoi, anche quello che non ti va giù. Stai con loro: vi meritate a vicenda. Del resto ti sono sempre piaciute le gerarchie, far parte della créme, avere le spalle coperte e accanirti sui deboli. Chiudi un occhio, chiudili pure tutti e due. Ma a me non cercarmi più, non chiedermi niente: non puoi avere tutto.

- Perché rendi tutto difficile? – Isa ha ufficialmente iniziato la sua corsa contro il tempo, le parole che si accavallano le une sulle altre, come se volesse trattenerlo più che può – Non ti ho chiesto di accettare nessun compromesso: bastava che ti guardassi le spalle e che fossi sincero almeno con me che ero tua amica. Invece ho dovuto fare i salti mortali per pararti il culo, e questo è il ringraziamento.

- Anche Alberti era mio amico – la interrompe Andrea – E guarda cosa mi ha combinato!

- Tu sei un fottuto idealista, Andrea – incalza Isa – Pensi che tutti siano tenuti ad accettarti come sei, che nessuno possa avere da ridire finché non gli pesti i piedi. Pensi che la trasparenza paghi sempre. Dev’essere come dici tu. Sarebbe bello, forse, ma non è così… Purtroppo, per fortuna, non lo so! Avevi una personalità forte, una volta, eri rispettato, ma sapevi che bastava un passo falso perché qualcuno se ne approfittasse e ti buttasse giù dal piedistallo. Ti avrebbero dato del frocio un giorno sì e l’altro pure. È quello che è successo.

- È successo perché voi avete voluto che succedesse! – urla Andrea, sovrastandola – Voi non siete quelli che si adattano agli eventi e non possono fare diversamente. Voi siete gli artefici, gli alfieri. Voi volete che le cose stiano così, volete lo status quo perché avete paura di perdere lo scettro. Non volete essere smentiti nel vostro falso pessimismo, ma solo perché vi fa troppo comodo.

- Non volevo questo! – Isa lo fissa, implorante – Non volevo che andasse così. Non volevo che ti attaccassero, che passassi dalla parte dei perdenti per subire lo stesso trattamento. Hai visto come li trattano, quelli che non stanno al gioco? Qualcuno se l’è andata a cercare, ma tu non lo meritavi. Eppure hai voluto prenderti la parte peggiore.

- Sai cos’è che non sopporto, Isa? Questo tuo dividere il mondo tra buoni e cattivi, tipi giusti e tipi sbagliati. Persone che vale la pena frequentare, che sanno starci dentro, e sfigati su cui rifarsi le unghie. Chi sarebbe che “va a cercarsela”?

- I tuoi nuovi amici: Loria e Derossi. Perché vuoi rischiare, accollarti battaglie cretine che neanche ti riguardano? Lasciali nel loro brodo! Chi diavolo sono, cos’avevano in comune con te? Derossi, una specie di disadattato che ce l’ha col mondo. Bello quanto vuoi, simpatico come una cambiale protestata. Loria, un’arrivista complessata, zero nei rapporti umani, una che ti si attacca addosso perché non le pare vero di essere amica di uno che conta. E vorrei sfatare il mito che dichiararsi gay qua dentro sia una pacchia. Toh, faccio i tuoi stessi esempi. Derossi ha iniziato a sputtanarsi da quando è saltata fuori questa storia. Secondo me deve ringraziare il suo carattere di merda, se gli hanno fatto il vuoto attorno, ma tutto è partito da lì, non è un mio parere. È stato un ottimo pretesto. Chi era l’altro? Lastella, che manco lo dice chiaro e tondo. Che sia anche lui per il “si fa ma non si dice”? Ce li hai presenti i tizi della sua band? Guardali bene: secondo te sarebbero contenti loro, tutti rockettari e cazzuti, di un finocchio come front-man? Conta una certa immagine, in un certo ambiente. fa parte del gioco. E lui cosa fa? Ci scherza, tergiversa, ma non scopre le carte. Ogni tanto gli viene lo schizzo e se ne viene a lezione con gli occhi truccati, ma il suo è un gioco: lasciarti nel dubbio senza prove concrete. È furbo, al contrario di te. Tu non sei così: o sei bianco o sei nero.

- Scusami – Andrea solleva gli occhi al cielo – Ma ti contraddici da sola. Pensi che uno debba strillarlo ai quattro venti, con chi è che va a letto? Che allegria! Tu ti presenteresti come “Isabella Cortesi, eterosessuale”? No, è chiaro. Lo stesso vale per lui: se salta fuori, bene, ma non deve mascherarsi né mettere i puntini sulle “i” come se fosse una malattia rara. Comunque – Andrea fissa lo sguardo verso il pavimento: è troppo, decisamente troppo – Noi due non abbiamo molto in comune. Ero venuto per chiederti di lasciare in pace Elena e Gabriele. Non stressarli, dimenticati che esistono. Se ti rode che noi due non siamo più amici, fatti un paio di domande, perché è ciò che hai voluto tu. Se proprio devi, prenditela con me, che come vedi ci metto poco ad arrangiare le cose, ma non azzardarti più a tirare in ballo Elena: non è colpa sua, se la nostra amicizia è andata a puttane, non è lei che esclude te. Ha capito che ero in difficoltà e mi è stata vicina, al contrario di te che intrallazzavi con Alberti. Lei c’era, tu no.

- Ti ha rigirato per bene! – Isa stringe i pugni sulle ginocchia, il volto contratto in un sorriso folle – Quell’arpia. Per due carezze quando eri triste, ora sembra che le debba la vita. Ti ha tirato dentro i suoi giochetti, quando eri esposto alle intemperie.

- No, Isa. È quello che tu hai prodotto e voluto.

- Era necessario farti coinvolgere nei loro deliri da vendicatori del cazzo che vogliono cambiare i rapporti di forza? Pensassero a cambiare le loro teste. E ad essere meno dei falliti, magari.

- Non sono cose che ti riguardano – la blocca Andrea, perentorio, prima che attacchi con la solita invettiva – Che loro siano falliti o vincenti, e non me ne importa nulla che tu li ritenga degni di legarti le scarpe o no.

E da lì, finalmente, silenzio. Sospira, Andrea, lo sguardo fisso al soffitto.

Isa tace, sulle spine: nessun nodo sciolto, tutto da rimettere in gioco. Per lei, forse, non per lui.

Andrea si prende il volto tra le mani: è finita. Non credeva si sarebbe sentito così: anestetizzato, svuotato di tutto, e l’aria intorno a lui che trema – fatica ad afferrarla –, scossa dagli ultimi echi. Reduce dalla tempesta. La tensione che finalmente si scioglie, come una vertigine infinita.

Non azzardarti a piangere di fronte a lei, deficiente. Non qui e non ora.

- Andre, mi dispiace. Mi dispiace che sia finita – Isa si è precipitata al suo fianco, una mano che gli si posa timidamente sul polso.

Vuoi vedere il sangue, è così? L’hai capito dalla mia voce. Dagli occhi che mi vanno a fuoco.

- Non toccarmi! – le sibila, gelido – Non cercarmi più. Hai fatto la tua scelta, hai scelto Alberti che batte banco. Cerca almeno di portarla avanti con dignità.

- Non ho mai voluto questo!

- Non cambia molto – Andrea china la testa, cercando di farsi scudo con i capelli che gli ricadono in faccia.

Lo sente, il torrente di lacrime che ha ricacciato indietro fino a quel momento. Brucia sulle guance come acido, ed è troppo tardi per fermarlo, per fuggire.

- Non cambia nulla – prosegue, con voce flebile – Se in questo preciso istante accettassi le tue scuse e decidessi di ricominciare da capo, sarebbe tutto esattamente come prima. Con te che cerchi di nascondermi sotto una campana di vetro per paura del giudizio degli altri, di modellarmi nella forma che ti piace. Ti illuderesti pure di fare la cosa giusta.

Andrea si alza di scatto, la vista offuscata dai raggi che penetrano dalla finestra e lo colpiscono dritto in faccia. I confini della realtà cedono il passo al fiotto di veleno che gli sale alle labbra. Non immaginava potesse fare così male.

Isa si guarda intorno, interrogativa. Forse vorrebbe aggiungere qualcosa, ma sarebbe superfluo, drammaticamente superfluo. Si limita a seguire i suoi movimenti.

- Aspetta, Andre…

- Devo andare – ribatte lui, con freddezza – Alberti sarà qui a breve, no? Non ho nessuna voglia di incontrarlo.

- Mica ti mangia! Se vuoi aspettiamo, gli dico che non sono pronta…

- Non vedo motivi per continuare – Andrea si sistema la giacca, le dita che vagano alla cieca su asole e bottoni – E poi il problema non è lui, sono io. Non so cosa potrei fargli, se me lo trovassi davanti.

- Andre, ti prego, aspetta!

Andrea vorrebbe allungare la mano e calarla sulla maniglia, ma qualcosa frena la sua corsa. È l’ultima cosa che si sarebbe aspettato da lei. La sente, a pochi passi da lui. Passi che diventano millimetri, aria che scorre fra loro, atomi e molecole impazziti, e poi le sue mani che gli si allacciano intorno alla vita, sorprendendolo alle spalle in un abbraccio disperato. Un gemito soffocato, il viso premuto contro la sua spalla

- Non andartene… – esala.

Andrea sussulta, un brivido lungo la schiena, quando le labbra di Isa si schiudono in un timido bacio sulla sua nuca.

- Non andare, Andrea…

Ultimo tentativo di trattenerlo a sé. Di diluire all’infinito il momento del distacco.

In un’altra situazione, forse avrebbe ceduto. Avrebbe ricambiato l’abbraccio e pianto tutte le sue lacrime. Forse l’avrebbe perdonata con qualche riserva. Pronto a ridiscendere all’inferno.

Ma non è più aria, non può farcela e non ne ha alcuna intenzione. Perché ricomincerebbe il lento suicidio della sua volontà, del suo esistere in relazione a un’impalcatura invisibile, e sarebbe un inferno. Isa – o chi per lei – riprenderebbe a cucirgli addosso l’abito su misura.

- Ti prego…

 

Non pregare: lo so, cosa pensi. Me l’hai detto con voce chiara: pensi che il nostro fosse il migliore dei mondi possibili, che i miei sono i capricci di un bambino viziato. Sarei di nuovo un fantoccio nelle vostre mani che segue la sua presunta natura. L’imbecille da tenere a bada.

Cosa pensi? Che Elena e Gabriele, e chissà chi altri, non meritino rispetto per la sola colpa di esistere ed essere altro da te. Di aver incrociato la tua strada. Di non far parte del tuo sistema binario, dentro o fuori.

Non cambieresti una virgola, non ti metteresti in discussione: tenteresti l’impossibile per farmi rientrare a calci in culo nei vostri complicati standard.

Io non sono il tipo giusto, il tipo che piace, non sono carino e brillante. Non sono la vostra marionetta. Sono Andrea Nicoletti e non voglio essere nient’altro. Non m’interessa andare a riempire la casella vuota.

 

La sente, una figuretta vana che si dibatte e cerca di trattenerlo. Lo stringe a sé e gli massaggia il petto, le dita come spilli.

Vorrebbe riuscire ad apprezzare quel calore, Andrea, lo sforzo da parte di Isa di tradurgli in pillole il suo affetto, il dolore di perdere una persona cui, a tuo modo, ti sei affezionato.

Ma tutto ciò che avverte è una vampata di freddo, ostinata, che gli torce lo stomaco.

Isa se lo preme addosso con la forza dell’ossessione, una forza che non si sarebbe aspettato da un esserino minuto e delicato, lui che la stacca di una quindicina di centimetri e potrebbe scrollarsela di dosso senza troppa gentilezza.

La sente, la mano dalle unghie dipinte che cerca spasmodicamente la sua per allacciarsi a lui, il seno prepotente premuto contro la schiena.

 

È troppo. Basta, Isabella. Non sei altro da ciò che dici di essere, dagli schemi in cui vorresti ricondurmi.

 

- Isa, ascolta – le sussurra, dopo una manciata di minuti poco meno che eterna – Io non ho paura di loro, di ciò che possono farmi. Sembra strano, lo so. Per quanto ti riguarda, non ti disprezzo, nonostante tutto. Sai perché? Perché non ero diverso. Ero come te: avevo bisogno di uno specchio al negativo per rassicurarmi, per dire “grazie al cielo non sto da quella parte”. Per dire a me stesso di esistere e sentirmi al di sopra di qualcosa. Vedevo una specie di mondo semplificato, con vincenti da adulare e sfigati da snobbare. Non è così, Isa, non è così! Guardalo: c’è un mondo, un mondo intero là fuori, che esiste a prescindere da te, e di certo non aspetta che arrivi tu a inquadrarlo! Nessuno ti chiede il lasciapassare. E non ho paura di te, Isa: ho paura della Isa che è in me, solo questo. E mi fa male.

Isa l’ha sciolto dal suo abbraccio, il sapore della sconfitta come un veleno tra loro. Andrea la osserva con la coda dell’occhio: ha lo sguardo basso e sta immobile al centro della stanza, a torcersi le dita.

L’unico è raccogliere un po’ della propria dignità colata sul pavimento e infilare la porta senza voltarsi, la testa così leggera che potrebbe svenire da un momento all’altro.

Non ha visto Alberti che marciava verso di lui – troppe lacrime a sfaccettare la sua visuale, troppi luccichii ad allontanarlo dalla realtà.

L’urto improvviso del braccio lo riporta bruscamente alla realtà. Alberti e il suo passo spedito, da uomo che non deve chiedere mai, lo sguardo fisso su di lui come se gli fosse spuntata una seconda testa.

- Andrea?! Che diavolo ci fai qui?

Non lui. Non adesso.

- Fatti gli affari tuoi! – gli soffia, prima di scomparire oltre l’angolo.

Almeno questa può evitarsela.

 

* * *

 

Isa si osserva in giro, la mente vuota.

Qualcosa è cambiato nella stanza, nella composizione dell’aria, da quando Andrea è andato via – la porta sbattuta dietro di sé. Il tintinnio alienante delle parole che continua a vibrare sulle pareti. È il punto di non ritorno, il confronto che temeva e rifuggiva da settimane.

Non credeva sarebbe stato così… immediato. Semplice nella sua crudeltà. Come un dolore sordo, senza fitte intermittenti. Come il senso di vuoto che le paralizza le lacrime dietro le ciglia appiccicate di mascara. Vorrebbe piangere, sciogliere quel nodo, ma il senso di angoscia in fondo al petto è un morbo che paralizza ogni sua reazione.

Poi lo sguardo scivola sulla foto sopra lo scrittoio, infilata nella sua cornice azzurra. Lei e Andrea, abbracciati. Meno male che era nascosta e che Andrea non ci ha buttato lo sguardo. Sarebbe stato… patetico. Patetico e umiliante. I suoi occhi neri, immortalati sulla carta lucida, che le sorridono ogni sera prima di addormentarsi.

Non hai voltato pagina, Isa.

La osserva, e per un attimo è colta dall’impulso di scappare via, di sfilarsi di dosso una camicia troppo stretta, incollata alla pelle. Ma poi non saprebbe dove andare. Forse da Loria – la meschina soddisfazione di appiopparle una bella cinquina su quella faccia da arpia. Da Derossi, a dirgli che non reggerà a lungo la sua farsa per tenersi stretto Andrea, illudendolo con promesse da marinaio. Da Riccardi, a chiedergli di sparire dalla sua vita: non sa che farsene, di uno che ha come massima ambizione rovinare l’esistenza di chi gli urta la vista. Ha ottenuto ciò che voleva: distruggere la reputazione di Andrea e mandare a puttane la loro amicizia.

Nessuna speranza, nessun equivoco: questo è il nuovo Andrea, e dovrà imparare a farci i conti.

Le fotografie hanno quel potere maledetto di catturare istanti, atmosfere, risate, bagliori di vita perduti, emozioni che graffiano il cuore, e imprigionarli nella carta. Può sentirlo come quella volta, il vento sulla pelle, la brezza notturna e la gioia di una serata trascorsa con il suo migliore amico. La sera dell’inaugurazione dello “Chat noir”. Un piacevole tremolio in fondo al petto.

Il sorriso di Andrea brilla di luce propria, i capelli luminosi gli danzano sulle spalle. È bellissimo, bello da strappare l’anima. Al suo fianco c’è lei che gli cinge il braccio e sorride verso l’obiettivo. I capelli rossi lunghissimi, raccolti in una coda alta che le danza sulla schiena. Andrea che le offre la birra, poi invita lei e Sara a ballare…

Che cosa fa, ora, con quei due morti che parlano? Come passa le sue serate? A guardarsi in cagnesco con tre quarti dell’umanità e il tempo che resta, tutti e tre a fissarsi nelle palle degli occhi al chiuso delle loro camerette, a tagliarsi le vene per provare qualche emozione diversa dal solito scazzo incolore?

È mostruoso. Non vuole pensarci, non è un suo diritto.

Alessandro bussa alla sua porta, puntuale. È lui: riconoscerebbe i suoi passi in corridoio tra mille.

È il momento di far sparire quella foto dalla sua vista. Non pensa a nulla, Isa, mentre serra le dita sul portaritratti. E lo scaraventa contro il pavimento con tutta la forza che possiede. Forse è l’unico modo per annullarne per sempre l’incantesimo. Poi, forse, riuscirà anche a far piovere qualche lacrima come blando sollievo.

- Isa, che succede? Ho visto Nicoletti, sembrava furioso. Cos’altro ha combinato?

Alessandro le allaccia una mano intorno alla vita. Forse vorrebbe capire perché ha l’aria di chi vuole spaccare il mondo. Ma lui non è Andrea, lui non capirebbe, e lei non troverebbe le parole.

- Niente… lui.

A parte impazzire.

Cosa dovrei fare? Chiederti di raggiungerlo in corridoio e menargli? Da chi cominciare?

- Senti, se vuoi annulliamo tutto. Chiamo Giulia, Riccardi e gli altri, e dico che non se ne fa niente. Possono andare anche senza di noi.

Riccardi

- Hai detto… Riccardi? – Isa vorrebbe uccidere sul nascere il ghigno satanico che le spunta sulle labbra, ma ha poco senso, quando la decisione è presa.

Da chi vogliamo cominciare?

- Mandalo al diavolo. Non voglio vederlo mai più. Fuori dalla mia vita! O esce lui dal nostro gruppo, o esco io.

- Ehi! – Alessandro spalanca le palpebre, interdetto – Che ti ha fatto? Okay, ultimamente è più insopportabile del solito, ma non pensavo che… Voglio dire, tu lascialo fare a terra, prima o poi lo capisce, che la sta facendo fuori dal vaso, e la pianta da solo.

Non è questo.

- Non voglio avere più nulla a che fare con picchiatori, omofobi e bulli del cazzo! Non ho niente in comune con lui. Questa è l’ultima: dopo… non so, fa’ come preferisci. Parla con gli altri, invèntati qualcosa, ma lo voglio fuori. Scaricato.

Alessandro si stringe nelle spalle. Si liscia il pizzetto con un sorriso calcolatore. Granitico come sempre, zero emozioni, zero problemi, nessun dubbio. Messaggio ricevuto.

- In effetti, è un cagacazzo allucinante. Non sei l’unica che lo regge poco.

- Ecco. Vorrei si fosse tolto dalle palle ieri, per non doverlo sopportare un giorno di più.

- Però mi spieghi che ti ha fatto? – Alessandro la fissa, interdetto – È per Nicoletti?

Non è colpa di Riccardi, se Andrea non vuole più avere a che fare con me. Ma lui ha fatto di tutto per rendere la situazione insostenibile, per esasperare Andrea. E poi odio l’idea di trovarmelo di fronte con quel ghignetto idiota da “vedi che avevo ragione io?”.

- Uno così, dove va, fa danni. Andrea non è un santo, ma io non sono complice di chi tormenta qualcuno per nutrire il proprio ego. Non ho nulla a che fare con intolleranti e veteronazisti! Andrea pensa che siamo come lui, che ci piaccia prendercela con chi è più debole.

- Nicoletti sarebbe un debole?! – Alessandro inarca un sopracciglio – Nicoletti ha rotto il cazzo quasi quanto Riccardi.

- Non me ne importa. Non voglio che nessuno mi associ a un cretino che pensa che non c’è niente di male a picchiare i froci. Parole sue – Isa stringe le palpebre, i confini della visuale che si stemperano in una collera allucinata – Lo voglio fuori entro domani.

Alessandro si lascia andare sul divano, al suo fianco. Sospira rassegnato.

- Vuoi farla pagare a qualcuno. È così? – le sussurra.

Quella dannata capacità di capirla al volo, di ridurla in pillole con uno sguardo di troppo. Non è come con Andrea, ma ha ugualmente un nonsoché di inquietante.

- Ci puoi scommettere, che gliela faccio pagare…

- E chi sarà il prossimo? – Alessandro si osserva le unghie, distratto.

Forse scherza, forse dice sul serio. Isa si stringe nelle spalle.

Calma, Alessandro. Divertiti con Riccardi come il gatto col topo, ché al prossimo giro chiederò un pesce più grosso.

Una Loria, magari, che ha più colpe di tutti.

Inciamperà anche lei.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 37
*** Capitolo 37 - Tanto lui è peggio di me ***


 

Capitolo 37

Tanto lui è peggio di me

 

 

Se avesse avuto coraggio, quella mattina, sigillata Isa fuori dal suo mondo, sarebbe corso da lei. Conosce la strada, in auto o con l’autobus. Avrebbe indugiato sulla sua porta, ma giusto un po’, il tempo di scrollarsi via la nebbia dagli occhi, e si sarebbe gettato tra le sue braccia con quel senso di liberazione che gli serpeggia lungo la schiena e gli si avvita allo sterno, sciogliendo il nodo in un languore insopportabile. Ci avrebbe fatto l’amore. Libero. Dal suo fantasma, dalla parte rinnegata di sé, dal dubbio impronunciabile che la sua faccia insinua negli altri. E dopo, forse, avrebbe pianto. A lungo. Se non fosse caduto in deliquio seduta stante, con quel sollievo insopportabile che gli cola dalle ciglia.

Ma lui non è coraggioso. Non lo è mai stato. È paura del rifiuto, del suo ritratto distorto scolpito negli occhi di chi guarda. Dopotutto, lui ed Elena sono dannatamente simili nel chiudere ermeticamente fuori dalla loro vita intere schegge di sé. Sezionare la loro identità in frammenti separati e inconciliabili.

Raggiungere di nuovo la sua stanza, scuotersi di dosso la polvere e l’amarezza, reduce dallo scontro fisico, l’unico proposito che riesca a ruminare nella mente, mentre si lascia andare contro il muro. E per un attimo la sua visuale è un turbinio di macchie scure in campo bianco.

Sorride, Andrea. Ripassa mentalmente il tragitto fino a casa di Elena, morbido e rassicurante come una melodia già scritta. Mettersi alla guida adesso, proprio no. Non con la mente che vacilla, la nausea che sale; non se potrebbe svenire in corridoio da un momento all’altro e restare lì, spalmato tra il pavimento e la parete con l’intonaco giallo piscio, come una cosa squallida e dimenticata.

Il modo peggiore per catapultare l’attenzione su di sé.

Non ora, Andrea, non ora. Con calma: adesso te ne torni un attimo in camera, te ne stai tranquillo, e tutto andrà bene.

Sforzarsi di stare bene e trascinarsi a far colazione è un’ipotesi trascurabile, quando sei reduce dall’amputazione a sangue freddo di un lembo del tuo vissuto.

Barcolla, la sensazione di morire dissanguato con la pelle strappata via a brandelli. O lobotomizzato da un ingegnoso sistema a risucchio. La faccia di Isa scolpita nella mente, la voce accusatrice, i capelli come fiamme che urlano per fagocitarlo nelle loro spire: solo un attimo, poi il sollievo di respirare. Non gli darà più fastidio, ora: è semplicemente scomparsa dalla sua esistenza come una cosa vetusta, come una brezza fastidiosa che non lo toccherà più, cancellata dai suoi orizzonti e dalla faccia della terra. Potrebbe dormire sonni tranquilli, da ora in avanti, persino guardare Gabriele negli occhi senza che una smorfia ostinata gli incurvi le labbra. Il resto non è che un turbinio di luminescenze confuse davanti agli occhi.

 

Andre? Andre?! Santo Iddio, che succede? Andava tutto bene…

 

Zitto, Patrizio, zitto. Sei tu? Grazie al cielo, perché io non ce le ho proprio, le palle di affrontare Gabriele o Elena, dopo Isa.

Vorrei assicurarmi che lei non sia ancora nei paraggi. Lei e i suoi occhi azzurri impastati di mascara che ti mangiano vivo…

Va tutto bene. Forse. Dopo che me ne sono andato, con lei che cercava di incatenarmi a sé... Quando ho riabbassato le dita sulla maniglia, di colpo tutto ha ripreso a girare.

Respira, Andrea. Va tutto bene.

Fottutamente bene.

 

Andre?! Vuoi che chiami qualcuno?

 

Zitto! Non chiamare nessuno. E meno male che sei tu. Perché non sarebbe facile spiegare. Allontanare da me questa patina d’inchiostro…

 

La maglia nera di Patrizio, simile a una seconda pelle, è il primo aggancio con la realtà che lo rigetta nel mondo dei vivi. Stringe la stoffa tra le dita, possessivo, come un’ancora di salvezza. Come se mollare fisicamente comportasse poi il non poter risalire più in superficie.

Meno male che c’è lui. Che lo conosce ma non abbastanza. Nella sua gradazione buona di ragazzino liceale che gli moriva dietro. Non ha conosciuto la sua metà oscura, il suo limbo delle cattive intenzioni, la sua deriva. Il piede in fallo.

Cadrebbe a terra e resterebbe lì, se non ci fosse lui a mantenerlo vigile, a schiaffeggiargli le guance. A premerselo addosso in un abbraccio infinito, sorreggendolo dalla pesantezza del distacco che lo attrae verso il suolo.

- Andre, allora? Mi spieghi cosa succede?

La sua voce di velluto lo riscuote in via definitiva. È come una scrollata decisa, una carezza alla base della nuca.

Niente. Non è successo niente…

- Uhm… cos’è? – borbotta, confuso.

- Questo devi dirmelo tu, Andre – Patrizio se lo rigira tra le braccia come una bambola rotta: lo scuote per le spalle, gli afferra il volto tra le mani e cerca il suo sguardo, divorando lo spazio che li separa – Stavi per svenire qui in mezzo al corridoio.

Andrea sbatte le palpebre. Si osserva intorno: è quasi miracolo che si sia retto sulle sue gambe per tutto il tempo. Afflosciato contro Patrizio, okay, ma è l’ennesimo dettaglio di poca importanza.

 

L’ho appena mandata al diavolo.

Isa: ricordi? No, non puoi ricordare. Tu sparisci e ricompari quando vuoi, quando può esserci bisogno di te: sai evitarti il peggio e scegliere di me le parti che preferisci per aggiungerle al tuo collage.

Fortuna o calcolo sapiente? Non mi importa. Non saresti fiero di me.

 

- Pulizie di primavera – Andrea cincischia nervosamente con le chiavi della macchina che sprofondano sempre più in fondo alla tasca: troppo tardi, davvero troppo tardi, per passare a prenderla e mostrarle la sua faccia nuda e ripulita – Mi sono solo sbarazzato di cose vecchie e inutili. Roba pericolosa.

Lo sente, il sorriso crudele che gli stira le labbra fino a far male. Ridacchia. Per lei sarebbe un colpo al cuore sentirlo parlare così. È un’idea malsana che quasi lo fa sentire meglio.

La parte più preoccupante è che, dal momento in cui Isa è piombata nel suo campo visivo, le labbra arricciate come se avesse inghiottito un limone, è stato il volto di Loria a vibrargli nella testa, vergato a fuoco sulla sua pelle. Lei che non l’ha abbandonato.

Lei, che avrebbe voluto avere accanto, che vorrebbe in questo preciso istante. Ma non è più tempo, perché i minuti sono tiranni e lui è un vigliacco. Perché lo sa, di fronte a lei non ci sono maschere che tengano. La lingua gli si scioglierebbe, e si confesserebbe tutto.

C’è solo Patrizio che lo culla tra le braccia, Patrizio che è capitato da quelle parti, tirato dentro per caso nelle sue paturnie della giornata, e che di lui serba uno strano ricordo.

Si è appena liberato della sua parte scomoda, Andrea, e l’urgenza di un pianto liberatorio se n’è andata via come sabbia tra le dita. La sua unica paura è che il passo non sia definitivo come vorrebbe. Che per Isa non sia e non sarà mai una resa condizionata.

Qualcosa dovrebbe essere cambiato intorno a lui – pensava che avrebbe sentito le campane e i cori angelici, o almeno di camminare sotto una luce diversa. Eppure è tutto squallidamente come prima, grigio e instabile davanti ai suoi occhi.

C’è Gabriele che continua a fuggire da lui, che non sopporta di averlo vicino e si nega: finge di aver dimenticato il passato, lo stringe a sé per poi mollarlo sul più bello, lasciandogli addosso un languore insopportabile; c’è Isa che diceva di amarlo, ma ha amato solo la sua maschera, la riduzione in scala delle sue emozioni; c’è Riccardi che uno di questi giorni si prenderà la sua testa, con buona pace di tutti, e il quadro è completo.

La verità è che nessuno l’ha mai preso per ciò che è, con tutta la fuliggine della sua ambiguità. Ma lei è sempre stata la sua prima scelta. Lei che sospira condiscendente alle sue uscite da perfetto nevrotico, lei e il biondo sporco dei suoi capelli che le accarezzano la vita. Il punto fermo quando tutto sembra andarsene alla deriva.

- Va meglio adesso? – le dita leggermente ruvide di Patrizio scorrono sulla sua guancia come farfalle.

Ha ignorato i suoi deliri, il suo sguardo che scivola sul pavimento; ha preferito alzare un muro e pensare alla realtà concreta piuttosto che alle sue parole criptiche. Alla sua faccia pallida e al suo continuo barcollargli addosso come sull’orlo del collasso.

- Una meraviglia – Andrea china il capo, lasciando che i riccioli scomposti calino a schermargli il viso. Il ricamo di un madore gelido inchiodato alla fronte.

- Ci ho parlato – quasi si costringe a sputare le parole – Abbiamo parlato. È stato imbarazzante.

Patrizio corruga la fronte, stranito.

La verità è che lui non è mai stato un libro aperto, neanche con Patrizio, che pensa di conoscerlo come le sue tasche. Lui non parla chiaro: allude, si limita a sfiorare la realtà con dita di fata.

Non sono un Alex Thompson qualunque, che pensi di poter plasmare come creta.

- Isa. L’ho mandata al diavolo – sussurra, oscillando in avanti fino a sfiorargli la spalla con la propria fronte.

- Isa? – Patrizio sembra smarrito.

Smarrito nella nebbia e nella vertigine di un mattino dai toni grigiastri. I contorni troppo decisi che spiccano in quel biancore surreale.

Oh, non preoccuparti. Ti sei perso qualche dettaglio fondamentale. Per fortuna. E non hai perso nulla. Lo sporco, le menzogne.

- Andiamo, dai.

Niente di nuovo. Tranne lei che brucia da qualche parte dentro di me, vicino al cuore.

- No, non andiamo da nessuna parte – Patrizio lo afferra per le spalle, perentorio.

E dagli coi deliri da amico più grande, con la macchina nuova e la testa attaccata al collo…

Gli straccia di mano le chiavi della sua stanza con facilità disarmante e le fa girare nella toppa al suo posto.

- Adesso ti siedi un attimo e cerchi di riprenderti – conclude, scostandogli i capelli dalla fronte sudata – Hai fatto colazione? – adesso la sua faccia è a tre centimetri esatti dalla sua.

Così vicino da poter apprezzare la grana della sua pelle, la linea nera sottilissima sulla rima inferiore dell’occhio, che fa del suo sguardo di cobalto un abisso senza fondo. E il brillantino alla narice sinistra a impreziosire quella sua aura rassicurante da pizzo di Sangallo.

- Certo che no, mamma – Andrea sorride, corrosivo, rimarcando bene ogni sillaba.

- Bravo idiota! – Patrizio gli passa una mano tra i capelli, arruffandoglieli di gusto.

- No, grazie – Andrea si stropiccia gli occhi, la testa leggera – Avrei vomitato sul serio.

 

* * *

 

Non è la giornata giusta per trascinarsi in Accademia e pretendere di tenere il proprio caos esistenziale fuori dalla porta, e concentrarsi solo sul quaderno degli appunti e sulle parole della Longoni – lezione delle nove in punto, il minuto spaccato in due.

Non è la giornata giusta per pretendere da sé stessi un cervello perfettamente carburato e al pieno delle sue funzioni. Perché succede che lo sguardo fugge via e l’attenzione va per conto suo, persa nei meandri della semincoscienza.

E poi c’è il pensiero di lei che continua a urlargli nella testa come una sirena continua. A farlo sorridere tra sé come un idiota.

La prima volta che l’ha vista nell’aula a gradoni, accoccolata al suo posto qualche fila più in basso. Mitologia della sua gloriosa parentesi goldoniana.

Seduta al suo fianco, Isa aveva scelto quel momento per insinuare un’ipotetica somiglianza tra Loria e una delle tre mogli di Dracula. La risatina sprezzante che era seguita, gli era rimbombata fino al cervello in un tintinnio di cristalli, ma qualche arcano istinto di sopravvivenza gli aveva fatto rimuovere all’istante l’accaduto. Isa e Alessandro avevano continuato a blaterargli nelle orecchie, ma il suo sguardo era calato su quello di lei di caffè forte.

Solo che non era aria. Non era il momento giusto.

Nell’intervallo, Isa l’aveva raggiunto tutta pimpante per inoculargli a piccole dosi l’idea di un appuntamento al buio ma non troppo – come dimenticare? La scelta era ricaduta su una sua amica, la bionda ossigenata che gli faceva l’occhio gattamortesco durante la pausa-caffè. Giorgia? Giulia? Juliet? Com’è che si chiamava…?

- Potresti chiederglielo tu, di uscire – Isa gli aveva dato di gomito, e per poco non gli aveva rovesciato sulla maglietta il the delle macchinette.

Niente caffè, quel giorno: lo ricorda come fosse ieri, il sentirsi sull’orlo di una crisi di nervi. Non è mai riuscito a spiegarsi il perché. Punti interrogativi rimasti tali, sopravvissuti tra una scossa di riassestamento e l’altra.

- Non so – si era stretto nelle spalle, sperando che la sua reticenza convincesse Isa a mollare la presa.

Cambiare argomento: imperativo categorico. Pure il colore fuori moda della carta da parati o la tinta color menopausa della Balducci avrebbero fatto al caso suo.

- Secondo me, un po’ le interessi – Isa aveva assottigliato le palpebre, felina – Ti guarda sempre!

- Non è il mio tipo. Troppo appariscente… sembra aggressiva.

L’avrebbe sperimentato a sue spese. Ma Isa sembrava decisa a parcheggiargli Barbie Formato Famiglia tra stomaco e pancreas.

- E chi sarebbe… il tuo tipo? Sentiamo! – Isa aveva tamburellato col piede sul pavimento come Shirley Temple, squadrandolo con occhi da squalo.

- Mah, qualcuno tipo… – Andrea si era osservato intorno alla disperata: un diversivo, ora – Tipo… lei.

E aveva posato lo sguardo su Loria.

L’errore fatale.

Loria.

- Oh, Cristo santo! – Isa si era battuta una mano sulla fronte, rassegnata.

Aveva biascicato qualcosa a labbra socchiuse, scaglie di vetro tagliente schizzate via per caso tra un insignificante, un mi sta antipatica e un ma chi diavolo è; poi gli aveva preso il braccio e l’aveva trascinato in aula.

Ma dai, bella quella lì?! È una ragazzina. Fa la dark lady asociale per darsi un tono, ma non c’è, non ha personalità, il numero non regge…

 

A me pare che di personalità ne abbia eccome, se preferisce soprassedere pur di non entrare nel giro e accettare passivamente un gioco al massacro. A meno che con “personalità” non si intenda gridare più forte…

 

Avrebbe voluto obiettare, capovolgere la sua visione, insinuarle almeno il dubbio, dar voce ai pensieri confusi che gli urlavano nella testa, ma qualcosa gli calcificava le parole in punta di lingua. Isa aveva archiviato l’intoppo sotto la voce “incidente di percorso”, gli aveva allacciato un braccio intorno alla vita e se l’era portato via.

Meriti di meglio.

Se lo chiede ancora, Andrea. Cosa fosse quella strana frenesia, da parte della sua amica, di vederlo accoppiato a breve con un partito da lei suggerito con amore. Paura che se ne andasse via come il pane, che qualcuno mettesse in discussione il suo posto privilegiato nella sua vita, o chissà che altro. La smania destabilizzante, il miraggio di essere per lui il faro, l’alfa e l’omega, il telaio che tesse per lui la strada.

Non ricorda se se lo fosse chiesto prima di allora, ma la verità spicciola era che nessuno gli interessava. Uomo o donna. C’era lei con i capelli che le sfioravano i fianchi, il volto impermeabile, e poi boh, chissà. Isa diceva no: non valeva la pena di perdere tempo con una come quella. Prevedibile e scontata. Superba e musona a guardare in cagnesco il mondo, come se lasciarla cuocere nel suo brodo fosse una colpa capitale. Una così ti inacidisce il sangue.

Balle, insinuazioni a misura di cretino.

Isa accennava ad un possibile incontro da combinarsi tra lui e Barbie, ma i suoi occhi indugiavano di nuovo in quella direzione. Sulla ragazza seduta due file dopo la sua. I bei lineamenti, i capelli tirati su in un semiraccolto casuale, l’aspetto tutto sommato ordinario rianimato da un look coraggioso.

Non aveva mai provato ad attaccar bottone: poteva essere tutto e la sua negazione. E poi il suo gruppo lo marcava stretto, e sembrava ci fosse un fastidioso strato di nebbia a dividerli, così spesso da renderlo a malapena consapevole, da far naufragare ogni suo proposito nel limbo delle intenzioni non mature. Non che gli facesse battere il cuore, ma scambiarci qualche parola non gli sarebbe dispiaciuto. Aveva una faccia tutt’altro che banale e un modo di osservarlo che lo incuriosiva.

Quando il gioco di sguardi si faceva troppo serrato, di solito mollava la presa e fuggiva altrove. Quella volta, però, la vista gli si era incagliata sulle labbra del professore di Tecnica Drammaturgica che si muovevano in sincrono con il fluire del discorso, sul gesticolare ipnotico delle mani, sui capelli bruni che rilucevano di riflessi rossastri sotto il bagliore rovente di mezzogiorno.

Aveva deglutito, imbarazzato, quando le iridi del professore avevano virato su Loria e poi su di lui, penetranti, e da lì non c’era stato più per nessuno.

Sospira, Andrea. Si fissa la punta delle scarpe. Guarda come va ora. Tutto deliziosamente alla rovescia, tutto deliziosamente a scatafascio.

 

Patrizio l’ha accompagnato sulla porta dell’aula continuando a fissarlo di sottecchi.

Curioso.

Lui, del resto, ha fatto del suo meglio per fugare ogni dubbio.

Va tutto bene, dannazione. Non ora, ma tra poco: te lo giuro. Non appena mi sintonizzerò sulla lunghezza d’onda del fatto che un dannato capitolo è chiuso. Chiuso per sempre.

Ha provato a cambiare argomento, a spostare il discorso su qualcosa che esulasse dai fatti suoi personali; persino a pronunciare la parola magica: Alex Thompson.

Pensa, Patrizio: avresti potuto invitarlo a bere qualcosa e sondare il terreno, invece che supplire il ruolo scomodo di Gabriele come guardia del corpo dell’amico paranoico. Non è da te.

- Cos’è successo poi, di grazia? Dopo che sei andato da lui.

- Niente. Un buco nell’acqua. Niente che già non sappia. Che ti credevi, numeri da circo?

- Almeno ci hai provato? – incalza Andrea.

- Non dire stronzate!

Quell’altro non si è fatto vivo. Il caso umano numero due. Che le fantasie apocalittiche di Patrizio l’abbiano terrorizzato al punto da fargli scartare l’idea di mettere il naso fuori dalla sua stanza per le prossime quarantotto ore…?

Poi lo vede, un’apparizione improvvisa accasciata contro la colonna all’ingresso, con la sigaretta in bilico tra le labbra. Forse ha capito l’antifona, lui e il suo musetto sottile da volpe. Jeans neri ficcati dentro anfibi consunti dal retrogusto punk, kajal appena accennato e capelli lisciati all’ingiù – irrimediabilmente color melanzana. Meno pompato del previsto. Forse si è dato una calmata: vietato attirar troppo l’attenzione, esporsi in prima linea, quando una spada di Damocle da venti quintali pende sopra il tuo capo.

Sorridi, Andrea: c’è chi è preso peggio di te.

 

* * *

 

- E mo’ che succede?

Andrea mette giù la borsa di scatto, la tracolla incastrata tra il collo e la spalla. Giornata dimmerda quanto basta da renderlo elettrico.

L’unico simpatico è Patrizio, che se non altro ha inghiottito il rospo e se l’è sciroppato per mezza giornata, parandogli il fondoschiena da rappresaglie assortite con la sola presenza.

Pensare che, per invogliarlo a schiodare le chiappe dal divano su cui era sprofondato quella mattina, gli ha giurato e spergiurato che ci sarebbe stato.

Va’ tranquillo: ci sono io.

Impareggiabile Patrizio.

Che poi lui non gli ha chiesto nulla: è arrivato così, provvidenziale come un temporale estivo che squarcia il cielo rovente. Non è come con Gabriele, che ha il potere magico di farlo sentire una merda per ogni sfumatura di voce che non va. Non è e non sarà mai la stessa cosa, capace di regalargli quel brivido imprevisto lungo la schiena.

- Mi fa girare le palle – via, secco: dritto al punto.

Forse ha imboccato la via del non ritorno: ha pregato di spostare quanto prima il baricentro del discorso su Alex e la piazzata del giorno prima; ora quasi rimpiange di aver innescato l’ordigno, perché non c’è argomento vicino a loro che possa chiamarsi neutro o quantomeno inoffensivo.

- Di’ quello che vuoi, Patrizio. Com’è bello, com’è bravo lui… Sai una cosa? Io già non lo digerisco. Non posso farci niente, è più forte di me.

Acido, sì. Decisamente acido.

- Mica ti ho chiesto di sposartelo! Mi dici cosa c’è che non va?

Non va proprio niente. Il bello è proprio che non sa spiegarsi. Non in termini umanamente razionali, causa-effetto-complicazioni.

La ricetta è impazzita durante la pausa pranzo. Pensare che la situazione pareva quasi sotto controllo: Isa e Alberti a distanza di sicurezza; Basile e relativo codazzo fuori a fumarsi la loro brava sigaretta; Thompson seduto in disparte, intento a sbirciare qua e là con la coda dell’occhio, mettere più anni luce possibili tra sé e il resto dell’umanità ed esaminarsi le doppie punte sui capelli. Riccardi al cesso. Gabriele non pervenuto. Grande quadro neorealistico.

Poi lei ha fatto la sua comparsa, e il mondo ha smesso di girare.

Che diavolo le è saltato in mente?

Ha marciato fino al suo tavolo e gli si è parata di fronte, gli occhi di brace ben sgranati sotto il consueto strato di bistro a presa rapida. Le cosce sottili inguainate nei leggins spuntavano dalla minigonna nera a brandelli come fusi d’oro. In realtà è bianco-perla di luna, e lui lo sa. Deve essersi lasciato andare a un sospiro traditore, ma nessuno se n’è accorto – non Patrizio, impegnato a masturbare Thompson con la forza dello sguardo.

Un calore incandescente all’inguine gli ha soffocato le parole in gola. Eppure, ancora una volta, non è come con Gabriele. È stato più uno sfioramento impalpabile, il vibrare delle corde di un’arpa.

Certo che, per essere un giunco trasparente, Loria ha delle gambe notevoli. Dove si era nascosta tutto questo tempo?

Alessandro Alberti avrebbe detto di peggio, forte della sua posizione di maschio dominante. Andrea Nicoletti si limita a umettarsi le labbra secche e a cancellarsi dal volto quell’espressione imbambolata.

Se fossi Alberti, terrei il cuore in due scarpe e chi si è visto si è visto. Tanti saluti.

Deve esserci qualche strano virus nell’aria. Tutto è cominciato quando il volto di Patrizio si è illuminato al semplice proferire di due parole. Alexander Thompson.

Se fosse arrivato Gabriele e si fosse pure mostrato gentile con lui, la misura sarebbe stata colma.

Non contenta di averlo distolto dai suoi sogni nebbiosi, Elena ha sollevato un sopracciglio nella sua direzione.

- Andre, mi spieghi cos’è successo stavolta?

Frena, tesoro. Capisco le tue premure, e devo dire che un po’ mi lusingano, ma chi ha detto che ogni piccolo o grande stravolgimento sull’orbe terracqueo sia la conseguenza diretta di come Nicoletti si scuote la polvere di dosso?

- Nulla. Ti giuro che io non c’entro niente.

Come girano le notizie: non ha parlato con Loria, ma la novità che bolle in pentola ha fatto il giro e le è giunta sotto forma di pettegolezzo sussurrato. Non c’è altra spiegazione.

- Proprio nulla? – Elena l’ha fissato dritto negli occhi, sarcastica, e ha preso posto di fronte a lui, abbastanza vicina da prendersi il lusso di una conversazione a quattr’occhi.

- Non che io sappia – le ha sussurrato a mezza bocca.

Elena si è osservata intorno come ad assicurarsi che nessuno fosse lì appositamente per origliare i loro discorsi o leggere il labiale.

- Cortesi ha avuto una mezza crisi isterica. Alberti l’ha accompagnata fuori dall’aula – gli ha sussurrato, una punta sadica che proprio no, non ha imparato a dissimulare.

Siete dannatamente simili: vendicativi e bastardi, ma non abbastanza da saper giocare d’astuzia. L’antico adagio sul sedersi in riva al fiume e tante belle cose…

- Poi – ha proseguito, ravviandosi i capelli per guadagnare tempo – Non è finita. Alberti e Riccardi, è solo per miracolo che non hanno fatto a botte.

- Ah, allora è tutto nella norma – l’ha interrotta, offrendole un bicchiere di acqua minerale in segno di pace.

Che lei ha rifiutato aggrottando la fronte, in attesa di una risposta.

- Okay, Loria: hai vinto tu. C’entro. Isa l’ho appena mandata al diavolo – ha sputato via, impietoso – Cioè… Non esattamente. L’ho solo informata che se tra noi le cose sono andate male, non le resta che farsi un esame di coscienza, oltre che tenere gli occhi aperti su certi elementi del suo giro; per finire, le ho chiesto gentilmente di tenere fuori da questa storia chi non le ha fatto nulla. Più diplomatico di così…! E poi l’hai detto anche tu, no? Dovevo parlarle, non potevo continuare a giocare a nascondermi. Chiarire da persona adulta. E così ho fatto. Per Alberti e Riccardi non so che dirti. Spero solo che se le siano date a lungo, per quel che mi importa.

- Oh, cielo! – Loria si è portata le mani al volto, orripilata. Una punta di stima verso di lui, ma solo per un attimo.

Patrizio ha sbattuto le palpebre come alla prima lezione di turco avanzato, ma ha preferito tacere.

- Come? Non sei contenta? – Andrea ha infierito su di lei, sul suo combattimento interiore tra sconcerto e soddisfazione strisciante – Sei stata tu a ispirarmi l’idea. Preferivi che la cosa si trascinasse così per sempre? Ovvio che no. Vai, Andre, parlaci. Senti cos’ha da dirti. E poi dille la tua. Spiegati. Ed è ciò che ho fatto, niente di più. Se poi a loro non è piaciuto… era da mettere in conto.

- Non è questo. È che conosco la tua idea di diplomazia – Loria ha arricciato le labbra – Mi faresti un riassunto?

- Beh… l’ho lasciata dare sfogo alle sue idee contorte. Ho provato a metterle in dubbio. Quando ho visto che non c’era trippa per gatti, le ho detto Addio, cocca, è stato bello, ma non abbiamo più molto da dirci.

- Tu sei matto! – Loria si è schermata il viso dietro la mano, trattenendo una risata nervosa – Scommetto che la colpa sarà di una certa strega profittatrice…

- No, è la mia. Nessuno ha ordinato a Isa di esasperarmi. Nessuno ha ordinato a me di mandarla affanculo.

- Temo che adesso ce l’avrai addosso: ti sembra una che accetta il divorzio consensuale?

- Se non lo accetta, è un suo problema. Io ho già dato. Anche se preferirei parlarne più tardi, con calma… e in privato. Ti spiace? – l’ha incalzata, alludendo a Basile che occhieggiava verso Patrizio. E verso di loro.

- Uhm… – Loria ha finto di mettere il broncio, tornando a concentrarsi sul suo vassoio e sul suo riso scondito.

Tutto è accaduto in un battito di ciglia.

Basile è planato su Patrizio e gli ha fatto un cenno tipo “ci vediamo più tardi”.

Elena ha terminato il suo esiguo pasto e ha preso a osservarsi le unghie con aria annoiata, persa nel suo mondo e nei suoi ghirigori esistenziali. Impermeabile alla tragedia impronunciabile che stava per svolgersi lì davanti ai suoi occhi, protagonista inconsapevole.

Perché Thompson ha scelto proprio quel momento per tornare nel mondo dei vivi, e lui l’ha sentito bene. È sicuro di averlo sentito, sicuro come è sicuro di chiamarsi Andrea Nicoletti.

Lo sguardo di Alex che taglia l’intera stanza in linea retta. Per poi collidere con lei. La sua Loria. L’ha sentito come uno stridio di vetri.

Elena ha sbattuto le ciglia. L’ha visto – impossibile che quegli occhi di metallo non l’abbiano punta come una lama. A una decina di metri in linea d’aria, col suo sguardo immobile e perforante e quell’aura sul nero-violaceo così archetipicamente emo.

Uno stridio di unghie sui vetri a far da sottofondo, e poi è tornato il sereno. Quasi.

Ma non per Alex, che sembrava fulminato. Le labbra pallide e immobili come una fessura di concentrica ostinazione. L’ha squadrata da capo a piedi come un’oasi lussureggiante in pieno deserto, ed è ripiombato nel suo sarcofago di apatia.

Lui invece era tutto un guizzare di nervi, i muscoli contratti in uno spasmo di irritazione, un crampo familiare dietro il ginocchio, lungo il polpaccio e poi giù fino al tallone, come una bolla di tensione che gli tira ogni fibra nervosa; un crampo destinato a starsene lì in agguato e farlo zoppicare per giorni. Gli succede sempre, quando è nervoso. E una scossa destabilizzante all’altezza del diaframma, la collera che lo scuote come una frustata.

Ha abbandonato la sala mensa con la sensazione che qualcuno l’avesse violato in un qualcosa che gli appartiene. Stuprato con la forza di un paio d’occhi di ruggine rosso vivo.

 

Respira profondamente, Andrea. Si è incartato nel solito vicolo cieco: non può dire a Patrizio che Alex ha cominciato a stazionargli sopra le gonadi nel momento esatto in cui ha messo gli occhi su Elena. Poteva essere un’impressione, ma i suoi occhi erano quelli di un ghepardo che si studia la preda. Le sopracciglia distese e un gemito a sfuggirgli dalle labbra – è come se l’avesse sentito con le sue orecchie.

Non può dirgli chiaro e tondo che farebbe i salti di gioia, in questo preciso istante, se Alex decidesse di levare le tende e se ne ripartisse in quel di Londra o dovunque voglia, col peccato capitale di avergli scippato per una manciata di secondi infinita uno sguardo di lei.

Lei. Il suo nominativo nella sua rubrica del cellulare, che luccica sullo schermo del display con la foto del gatto come sfondo, quando lo chiama. In realtà il suo numero l’aveva memorizzato eoni fa, scippato a tradimento dalla rubrica di Blanche. Non sa dirsi perché l’avesse fatto, ma forse era da ricovero già da allora. Forse Isa non ha tutti i torti. Giusto qualcuno.

- Cioè… – azzarda, la fronte corrugata nello sforzo mentale di elaborare un ragionamento plausibile – Non è che mi stia sul cazzo lui. Mi sta sul cazzo come lo tratti tu. E temo che anche lui ci marci un po’. È come se fosse un povero folletto indifeso… Eppure mi sembra che ce l’abbia, una bella lingua affilata. È restato in faccia a Basile. A Basile, dico…!

- Bravo, l’hai detto: è rimasto in faccia a Basile. È questo che mi preoccupa – Patrizio si scosta i capelli corvini dalla fronte, annoiato – È rimasto in faccia a Basile e gli ha pure fatto rimediare la figura da pirla.

- Non è solo questo… – Andrea scuote il capo, spazientito – È che tutti ormai gli avete cucito addosso il mito della vittima sacrificale, del cucciolo in pericolo, da proteggere e santificare. Non penso che tutto questo gli faccia bene, ecco. Le unghie ce le ha, voglio dire… Non sembra uno stupido.

- Thompson protetto e santificato?! – Patrizio aggrotta la fronte e lo fissa, frastornato – Secondo te stanno tutti facendo la fila per salvare le sue chiappe? A me sembra che metà Accademia voglia fargli il culo per la menata delle raccomandazioni, mentre l’altra metà gli ride dietro o lo ignora totalmente. L’hai visto bene? Stava lì come uno straccio sporco…

- Secondo me, non gli rendi un gran servizio – Andrea incrocia le braccia sul petto: tanto vale giocarsela fino in fondo – Facendogli da angelo protettore, voglio dire. Non lo rendi molto simpatico a chi ti ascolta: sembra che stai lì a maneggiare un cristallo. Anche questa mi sembra una forma di pregiudizio, più strisciante, ma dannosa comunque. Come se implicitamente lo ritenessi un inetto che non sa farsi rispettare. Dai di lui l’idea dello sfigatello che si piange addosso e non si sa difendere.

- Allora anche tu, a questo punto – Patrizio solleva il capo verso di lui, stranamente calmo – È tutta la mattina che ti sto dietro, se è per questo. Cosa penseranno?

- Ora non si può neanche trascorrere l’intervallo e la pausa pranzo con un vecchio amico? Dai, è diverso: siamo adulti e vaccinati.

- Sono fatto così – Patrizio lo fissa, provocatorio – Non puoi farci molto.

- Un Robin Hood del cazzo, sì – Andrea scuote le ciglia, simulando uno sguardo innocente, per poi tornare serio di colpo – Stai attento: rischi l’effetto contrario.

- Allora, se la prossima volta Riccardi attenterà alla tua vita, mi farò delle sane risate e non alzerò un dito – lo incalza Patrizio, stando al gioco – Così, magari, il povero Nicoletti indifeso strapperà più compassione rispetto a un Nicoletti superprotetto.

- Una guardia del corpo può farti anche comodo, sai. Peccato che non siamo in una spy-story.

Andrea cerca di ricordare l’ultima volta che qualcuno si è lasciato tirare in ballo per lui, ma è inutile, perché tutte le strade portano là.

A Gabriele che si infila tra lui e Alberti un attimo prima che gli saltasse addosso in Aula Magna.

Gabriele che si prende la porta in faccia al suo posto.

Gabriele che se lo accolla fino in camera, ubriaco fradicio. Che in silenzio tampona i suoi disastri e le sue paturnie – a modo suo. E che fugge sul più bello, come se tutto questo lo repellesse, scavandogli nottetempo voragini su voragini in fondo al cuore.

In fondo, Patrizio è una storia superata. Ha sempre avuto la mania di farsi i cavoli suoi e difenderlo a spada tratta quando ha potuto: è il suo marchio di fabbrica, e non fa nulla per non renderlo manifesto. Adesso anche con Thompson.

- … però, ecco, se ti fa piacere saperlo, con te mi sento tranquillo – Andrea sorride, rincuorato.

Più tranquillo, perché c’è qualcuno su cui contare. Non perché tema la rappresaglia: è solo il sollievo di poter scambiare due parole senza maschere scomode di mezzo, senza essere pesato e giudicato. Di riscoprire in lui un amico.

Una volta era rispettato e nessuno si sarebbe sognato di torcergli un capello, ora chissà. È bello e popolare – giusto qualche residuo della sua vecchia vita –, ma è anche un metro e settanta scarso per sessanta chili scarsi, con preoccupante tendenza al calo di pressione.

Patrizio ha giocato orrendamente d’anticipo. E forse lui ed emo!Thompson non sono così diversi.

Entrambi che scherzano col fuoco.

Entrambi turbati da Loria, che forse neanche si cura di loro – non in quei termini.

Entrambi stretti tra l’esigenza di scomparire e quella di gridare al mondo la loro presenza – l’uno mascherandosi come l’eroe di un manga, l’altro affermando e negando alternativamente se stesso e il suo esatto contrario.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 38
*** Capitolo 38 - Bullismo, coincidenze e rivelazioni ***



Capitolo 38

Bullismo, coincidenze e rivelazioni

 

Ti sei svegliata troppo tardi, l’umore sullo scazzo andante – e il brutto è quando non riesci a focalizzare il motivo. Con Cipria raggomitolata tra le braccia, una nuvola di perla che scivola via con nonchalance dal raso nero del pigiama e reclama la pappa con un miagolio acuto. Una musata decisa contro la guancia per dichiararti il suo eterno amore e, in un lampo, ridestarti dai tuoi sogni. Per fortuna.

Sospiri. Troppo tardi per la lezione delle nove. La voglia di rischiarsi il cazziatone per l’ennesimo ritardo, al momento è pari a zero. Tanto vale pensare alla gatta e prendersela con calma.

E in fondo l’hai sempre saputo, che è l’attesa, l’aspettativa a rovinare tutto. La speranza nociva che cerchi di scacciare. Di aver messo l’ultima parola con Isa una volta per sempre, ieri sera davanti al bancone del bar – se poi la fatidica parola è un vaffanculo, niente da ridire. Ma non sarà così: aspetterà qualche giorno, qualche ora, qualche minuto: il tempo di rifarsi la bocca, e poi tornerà puntuale a tormentarti l’esistenza.

C’è la speranza che la faccia semiaddormentata di Luca Lastella si affretti ad uscirsene dai tuoi pensieri tanto in fretta quanto ci si è infilata. È un campanello d’allarme da non sottovalutare, perché dopo non ce ne sarà per nessuno. Si salvi chi può.

È un’idea che mulina a senso unico nella tua testa, mentre ti rigiri tra le lenzuola in quei cinque minuti di pace. Una parte di te – lo sai, lo sai perché ti conosci, perché fondamentalmente sei sempre stata di un ottimismo fastidioso, ai limiti della fantasticheria – e in fondo ci speri, in quel seguito ideale intessuto con certosina precisione nei tuoi sogni.

Che Luca in fondo non sia rientrato nella tua vita senza un motivo preciso: destino, che prima o poi vi ritrovaste faccia a faccia a fissarvi come ebeti, a divorare lo spazio che vi divide, una molecola dopo l’altra. Che non tutto succeda così, un tanto al chilo.

È quella fede incrollabile nelle coincidenze che non sono coincidenza, quella tendenza sotterranea alla sega mentale che innalza aspettative, che non ammetteresti mai ad alta voce, troppo nascosta per formularla in concreto, ma è ciò che ti ha sempre fregato.

Luca Lastella è in città. Con lui, la sua fotocopia in bianco e nero.

E mentre raddrizzi il cuscino, con l’unico proposito di ficcarci sotto un braccio e accoccolartici intorno, il sogno rassicurante che ti fa fare le fusa come Cipria è soltanto uno: che Luca richiami. O mandi un messaggio. Una scusa qualsiasi, pure cretina, tipo bruciare sotto la luna piena la registrazione che immortala le cazzate di Federico Riccardi per esorcizzarne l’effetto friggi-neuroni. Qualunque pretesto: andrebbe bene tutto.

Perché tu non ne avrai il coraggio: spererai tacitamente nel miracolo, te ne andrai in giro con un sorriso idiota da un orecchio all’altro, un bel film rassicurante scolpito nella mente a solleticare la fantasia, e la parte irrazionale di te si dileguerà non appena sentirai i suoi passi. C’è sempre stata una natura duplice, sfuggente, un autolesionismo di fondo, in tutto quello che fai. L’ossimoro insanabile tra gettarsi nella bocca dello squalo e fuggire.

Il punto è che vivere di riflesso non basta più. Illuderti di vivere attraverso Andrea, di sentire attraverso il suo caos esistenziale. Il placebo che non ti ha mai convinto. È che lui aveva bisogno di te, è che cercarvi così vi fa stare troppo bene.

È quando arriva il momento di giocarsela in prima persona, che l’ansia sale: si cristallizza intorno alla gola come un morso, e persino quisquilie come giustificarsi con la Longoni diventano scuse appetitose per negarsi al mondo.

La mezz’ora di preparativi con trucco e parrucco annessi non ha sciacquato via la paura strisciante. La pappa per Cipria, umido e croccantini, una ciotola d’acqua pulita. Il pelo morbido che scorre tra le dita e il bacio del buongiorno. È l’unica simpatica, alla fine, l’unica che ha capito tutto.

Ci sono tanti motivi per gridarti sveglia, tesoro carissimo: è il momento di mettersi all’opera senza rifugiarsi all’ombra di Andrea, nel limbo della trama nascosta, del cattivo consiglio piazzato al momento giusto. Ma preferisci non pensarci.

Spolverarsi con cura la faccia di cipria color chiaro di luna, non è mai stato tanto rilassante. Metodico, quasi. Polvere nera intorno agli occhi e labbra color sangue: vietato giocarsela a basso profilo, oggi. Perché una parola o un’azione noncurante potrebbero fare la differenza, spingere l’ago della bilancia in modo irreversibile. Tanto vale splendere come un lampione. E tanto vale giocarsela senza maschere. Perché un Lastella a piede libero vale la pena di osare con la grazia maliziosa di una minigonna sfilacciata e un paio di leggings stretti sulla pelle. E i soliti anfibi. Vietato nascondersi dietro a un dito, negarsi le manifestazioni più macroscopiche di un gioco a carte scoperte.

I capelli, l’unico è tirarli indietro in un semiraccolto e dimenticarsi che esistono, perché stamattina si arricciano e sparano da tutte le parti. Il relax assoluto di perdersi in occupazioni che, dopotutto, non cambieranno di una virgola una giornata già scritta.

C’è un Gabriele sul piede di guerra con cui trattare – e chissà, forse sei ancora in tempo per schioccare le dita e fermare tutto. C’è la paura di soccombere sotto il fuoco nemico. Eppure preferisci guadagnare tempo perdendoti dietro lo spazzolino del mascara.

Okay. Pronta. Respira. Non morirà nessuno, se non spaccherai il secondo. Arriverete tutti e tre vivi e vegeti a fine giornata, e magari ne riderete insieme.

Giornata campale.

 

* * *

 

Vi siete evitati con religioso distacco. Gabriele ha trascorso parte dell’intervallo a farsi una canna sul retro nell’ombra densa della solitudine, e parte della successiva lezione a dissertare con la Balducci sulla presunta omosessualità di William Shakespeare, sì no forse boh. Sembrava svagato e in vena di perder tempo.

Credevi di intercettarlo prima di pranzo, perché dopo sarebbe un casino, ma ti è letteralmente sgusciato dalle dita, dritto verso la fermata più vicina. Da lì si è volatilizzato e nessuno l’ha più visto.

È a lui che pensi nella pausa caffè, mentre per poco non ti ustioni la lingua: Gabriele non sta fuggendo da te: vi siete pure sorrisi a lezione, uno sguardo intercettato per caso. È Andrea, stavolta, il vero problema.

E la mattinata è scivolata via.

 

Le quattro del pomeriggio, le mattonelle a losanghe che ti si srotolano sotto i piedi e il corridoio immerso nel silenzio della penombra. Non hai spiccicato parola con nessuno, nella decina di metri che ti separano dall’uscita, ognuno troppo perso nel proprio purgatorio quotidiano per badare alla svampita in calzamaglia che per tutto il giorno non ha fatto che svolazzare qua e là da una lezione all’altra, da un limbo esistenziale all’altro, assorta nei suoi pensieri.

Lei, invece, sembra averti al centro della sua attenzione, perché sbuca fuori all’improvviso come un tornado, e schiuma di rabbia. Con un inutile Alberti che prova a trattenerla blaterandole intorno.

- Isa, Cristo santo, non adesso!

- Non me ne frega un cazzo!

È stata veloce.

Se non sapessi che tipo è, penseresti che sia sotto effetto di stupefacenti. Roba pesante e tagliata male, visto che una canna fatta come si deve è capace di rendere un angioletto persino un Gabriele Derossi.

Ma il dovere chiama, perché Isa ti si para di fronte a braccia conserte, decisa a tagliarti ogni ponte verso la salvezza. Si avvicina e ti applaude sotto il naso con enfasi esagitata. Fuori di sé quanto basta per perdere il controllo e ridacchiare isterica.

- Sei contenta, adesso? – gracchia.

Datemi una purga. Adesso. Anzi, no. Una tazza di cicuta, e poniamo fine al lento suicidio delle gonadi.

Ma Isa è veloce, ancora una volta.

- Puttana! – biascica tra i denti, e un’occhiata più attenta alla porzione di corridoio che riesci ad abbracciare, ti rivela con orrore come metà del pubblico in sala abbia ormai gli occhi puntati su di voi, sulla vostra pozza di fiele, sul vostro orrido dilettevole, in un crescendo irreversibile di attenzione.

- Prova a darti una calmata!

Che cazzo è successo? Cos’è cambiato rispetto a ieri?

- Perché dovrei? – Isa ti ride in faccia, di nuovo, irriconoscibile, il disprezzo che le rotola giù dalle guance insieme ai residui di rimmel – Perché, se no, ti offendi?

Soltanto ieri sembrava calma e sicura di sé, una maschera di ghiaccio consapevole di poterti ridurre a un mucchietto agonizzante schioccando le dita, e ridere di te. Ora sembra esasperata quanto basta per saltarti alla gola seduta stante.

E invece fa una cosa che, temi con orrore, resterà nella hall of shame. In un attimo ce l’hai addosso, ma non cerca di picchiarti. Afferra un lembo della gonna e strappa con tutte le sue forze.

- Che cazzo fai? Tieni giù le mani!

La stoffa smagliata ricade molle lungo il fianco.

- Non preoccuparti, Loria. Tanto l’hanno già vista tutti – ti bercia in faccia, squadrando volgarmente verso il basso, per poi fissare in faccia tutti i presenti – Inutili zoccole represse che escono allo scoperto e si procacciano attenzioni… così.

Ti osservi intorno, sbigottita. La gonna è ancora al suo posto, ancorata ai fianchi e alla microfibra nera dei leggings, anche se retrocessa allo stadio di straccio per i vetri.

Venticinque paia d’occhi puntati addosso non fanno piacere. Non quando la tua peggior nemica sembra intenzionata a ingaggiare rissa e ucciderti di botte in mondo visione. O a fare qualcosa di peggio.

- Oh, mi correggo! – lo sguardo di Isa indugia in un punto imprecisato oltre le tue spalle – Forse Thompson non l’ha vista. Non ancora.

Venticinque paia d’occhi virano rapidamente sull’ultimo arrivato, bianco da fondersi contro la parete e impietrito accanto alla porta dell’aula.

Il mormorio del corridoio sale come un ronzio rintronante nella testa. Nessuno che faccia qualcosa per scongiurare la tragedia. L’ennesima pagliacciata. Solo Alberti riesce a cogliere il momento per agguantare Isa per le spalle e trattenere la sua furia.

- Adesso basta!

Ma Isa è troppo veloce. Di nuovo. Si divincola come una furia e allunga il braccio, cinque dita chiare che ti esplodono sulla guancia come un marchio. Lo spostamento d’aria ti fa sobbalzare all’indietro ed evitare l’assalto successivo – un graffio ben assestato con unghie da vampira, da lasciare il segno vergato a fuoco.

Le restituiresti il colpo, l’istinto del cucciolo di tigre che teme per la propria vita, se Thompson non fosse uscito dal letargo come una rivelazione improvvisa, tagliandoti la strada e schizzando in prima linea ad afferrare il braccio di Isa e deviarne il colpo.

È la variabile impazzita dell’ultimo secondo. Lui che sembra evaporare sotto quel pallore spettrale e quei capelli buttati in faccia, lui e la sua faccia da cucciolo maltrattato. Ora invece lo senti ansimare di fronte a te, frapporsi tra te e Isa come un muro di vetro. E Alberti sospira di sollievo.

- Visto? Anche stavolta la puttanaggine ha fatto colpo! Hai un nuovo cavalier servente – continua a latrare Isa: ha capito che, marcata stretta da Alberti e da Thompson, può fare poco.

Con le mani, almeno. La bocca può continuare a menare fendenti.

- Thompson, dai, approfittane! La signora sembra compiacente – prosegue, incurante del ridicolo, scoppiando in una risata folle – Dimostra a tutti che non sei un finocchio!

Alberti sembra sul punto di sprofondare sotto il pavimento, con Isa allacciata tra le braccia in un’insolita camicia di forza. Thompson arrossisce fino alle orecchie e tace, lo sguardo premuto a terra.

Povero piccolo, in che posto sei finito… Ci avresti creduto?

- Mollami, cretino! – Isa si rivolta contro Alberti, mirando pericolosamente verso il basso, e guizza di nuovo verso di te, lo sguardo di chi uccide per molto meno – È colpa sua, se Andrea ci odia! Era la mia vita. Tu non avevi niente e ti sei presa ciò che era mio. Lo sai, vero? Lo sanno tutti. Che sei una troia fallita. Che non hai cartucce da sparare, tranne aprire le gambe e mettere in giro voci orrende sulle persone. Fare in modo che tutti si detestino uno con l’altro e così si affezionino a te, la salvatrice della patria! Usi il sesso, le bugie, usi qualunque cosa, non hai limiti… Sei una stronza! Attenta, Loria. Attenta, ti renderò la vita impossibile.

Sospiri. Non sai bene cosa stia succedendo, ma il gelo che ti si infila nelle ossa, all’improvviso, è abbastanza da gettarti in una dimensione in cui tutto si muove al rallentatore – e lasciarti il tempo di riflettere, di ponderare le parole senza farti trascinare dal panico o dalla rabbia. Gli occhi socchiusi, lo sguardo fisso contro la parete, contro la schiena ossuta di Thompson-avvocato del diavolo e di Alberti tra incudine e martello.

- Non mi pare abbia fatto diversamente, fino adesso – le spiattelli con voce atona, distante anni luce da quella dimensione, da quel corridoio, da quel brandello sfilacciato di esistenza – Sei la specialista, nel cercare di distruggere chi non ti va a genio. Con le tue amiche oche. Non hai fatto altro che farmi terra bruciata intorno, dalla prima volta che mi hai vista, perché mi hai guardata in faccia, e la tua testa ha deciso che dovevo essere il tuo capro espiatorio. Eppure io non ti ho mai cercato. È che ti faceva comodo avere qualcuno da odiare. Quindi, dato che Andrea ti ha mandata affanculo come ti meriti, adesso ti racconti la favola che è tutta colpa di Loria. Vuoi lavarti la coscienza.

- Sei una sfigata – Isa sembra irriconoscibile: digrigna i denti e mena alla cieca, e non c’è più nulla sulla sua faccia rossa, impastata di trucco colato e steso male, nulla che possa ricondurla alla diabolica stratega che hai conosciuto – Approfitti delle disgrazie altrui per raccogliere qualche briciola. Zoccola fallita. Non vali neanche come zoccola. Tu devi rovinare tutto quello che tocchi, per ritagliarti un posto tuo. Perché tu un posto qua dentro non ce l’hai e non ce l’avrai mai! Non piaci a nessuno, nessuno ti cerca, nessuno ti ci ha mai voluto… Prima che iniziassi a diffondere certe stronzate. Non mi meraviglierei, sai, se dietro allo scandalo di Neri prima e del padre di Alessandro dopo, ci fossi proprio tu. Che muovi le pedine a tuo favore. Sei una vipera! Dovevi distogliere l’attenzione da quanto fai schifo e sentirti l’eroina della situazione. Mi fai schifo, mi fanno schifo le sanguisughe che approfittano delle difficoltà degli altri, e se avessi potuto schiacciarti prima che mettessi in piedi tutto questo, credimi, l’avrei fatto godendoci! – conclude, mimando con enfasi il gesto di schiacciare un mozzicone di sigaretta sotto la scarpa – E tu levami quelle manacce di dosso, brutto emo di merda! – strepita verso Thompson che la afferra per il polso, stroncando sul nascere l’ennesimo assalto manesco.

- Ti sei descritta da sola – le sibili senza espressione, lo sguardo fisso sui suoi occhi azzurri iniettati di veleno – Sei tu quella che ha bisogno di un nemico, di splendere massacrando chi si trova sulla sua strada. Di dividere il mondo a cazzo, chi c’è e chi non c’è. Vuoi che ti odi per questo? Sì. Mi fai schifo, perché sono quelle come te che rendono questo posto un merdaio, che fanno soffrire gli altri per puro divertimento. Mi fanno schifo le carogne. Le principesse viziate che credono di poter pestare i piedi a chiunque senza mai affrontare le conseguenze. Che pretendono di decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato sulla base del nulla, di dispensare giustizia a modo loro: siccome tu mi stai sul cazzo, allora sono autorizzata a rovinarti l’esistenza, trattarti come merda, umiliarti quando voglio. Vuoi sapere un’altra cosa? – ormai sei partita per la tangente, e a poco serve lo spauracchio di venticinque paia d’occhi puntati addosso, e Alberti e Thompson che in silenzio ti implorano di tacere, di non versare altra benzina – Voglio molto bene ad Andrea, sì, quello che tu hai trattato come una pezza da piedi, come se fosse tanto degnarlo del tuo favore. Gli voglio bene. Ma il pensiero che la nostra amicizia escluda la tua presenza, che ti faccia rodere e crepare fino a questo punto, che Andrea abbia capito come sei fatta e ti tratti di conseguenza, mi fa godere – soggiungi con un sadismo che non credevi di possedere, sorridendo e oscillando di fronte a lei fino ad occupare la sua intera visuale, a scolpirle in faccia il tuo trionfo – Perché è ciò che meriti, di rimanere sola: quello che tu volevi per me. Perché ripagarti con la stessa moneta, rovinarti la piazza, mandare a puttane le tue gerarchie del cazzo, vederti rosicare, è stato un immenso piacere. Quanta gente abbiamo risparmiato, eh…?

- Maledetta stronza! – Isa parla tra i denti, le mascelle sigillate in un travaso di bile in piena regola – Non ti andava giù apparire come la nullità che sei, e che le persone normali, di una come te, ne facessero polpette senza guardarsi indietro… Perché è così che stanno le cose. Non è colpa mia, se eri una debole. Non meriti rispetto e non puoi accampare nessun diritto. Sei una fottuta psicopatica, e maledico il giorno in cui sei finita proprio qua, a rovinare i rapporti degli altri e pretendere cose che non le spettano. Non meriti nulla, non sei nulla. Impara a prenderle e a darle, poi ne riparleremo. La differenza tra noi due è che io mi prendo ciò che voglio e mi spetta; tu lo rubi di nascosto.

Silenzio, con il delirio di una pazza in sottofondo. I fumi tossici dell’odio.

Fai per andartene, ma una voce alle tue spalle ti inchioda lì sul posto.

- Elena, mi dispiace!

L’amica di Isa, Sara, quella con la risata idiota perenne e la capacità di trasformare un’ingessata lezione di Storia del Teatro in un cabaret casinista. Quella che, dopo cinque secondi in sua presenza, ridi. Al sesto, rifletti sull’eventualità di tagliarti le vene.

- E tu che vuoi? – le sibili, mantenendo le distanze.

- Leccaculo… – Isa non si è ancora eclissata dal tuo raggio uditivo.

La ignori.

Sara ti raggiunge, gli occhi verde palude sgranati sulla faccia da bambola lentigginosa, rosa di fard.

Continui a ignorarla, lei e il suo improvviso interessamento. Forse ha capito dove tira il vento e cerca nuove garanzie di sopravvivenza. Hai paura che qualcuno ti metta di fronte alle tue responsabilità?

È troppo.

- Andate al diavolo. Mi fate schifo. Tutti! – urli, stavolta non puoi trattenerti, perché di colpo fatichi a riconoscere la tua voce, gli occhi che schizzano come scaglie di metallo su Isa, su Alberti che finge di cascare tra le nuvole, io non c’entro-non vedo-non sento-non parlo-forse dormivo, su Sara che salta su a discolparsi: è sempre stata una fottuta idiota, una che pensa che il mondo sia il festival della presa per il culo, che non si preoccupa di chi può restare ferito dai suoi strali – Mi fa schifo il vostro bullismo da quattro soldi! Il vostro giustificarvi a vicenda e fare comunella per affossare chi vi sta sulle scatole. Siete dei bulli del cazzo, e mi dispiace per voi, ma dovete accettarlo, che qualcuno prima o poi si stanchi e ve le restituisca una per una. Crepate all’inferno!

- Elena, ascoltami… Mi dispiace! – Sara sembra un disco rotto.

Voltagabbana del cazzo. In questo, per la prima volta tu e Isa siete d’accordo.

Ha sentito la parola “bullismo” e si è sentita chiamata in causa. Ha capito che marcava male, che la sua guru stava facendo una figura patetica e disgustando l’intera platea, e cerca di salvarsi le chiappe. Io non c’entro, scherzavo, quella era la mia gemella malvagia.

Decerebrata totale.

- Mi dispiace, se ti sei offesa per… per quelle cose. Erano cazzate, scherzavo, te lo giuro. Lo faccio con tutti – bugia: lo fai con chi non ha il culo abbastanza coperto, con chi è troppo solo ed esposto, perché più ci sta di merda, più ci godete – Chiedi ad Alberti, che lo prendo sempre in giro…

Che gli accarezzi il pacco “per scherzo”. Quanto Isa non è nei paraggi, o potresti ritrovarti mutilata.

- Non… non pensavo fosse sul serio – continua, le parole che si accavallano le une sulle altre.

Tu non pensavi a nulla. Non pensi mai a nulla. Ma Isa ci pensava troppo.

Continui a marciare, imperterrita lungo il corridoio, le pareti che dondolano e minacciano di chiudersi su di voi in un parossismo di macerie e imprecazioni.

- Elena, scusa! Non credevo che… che qualcuno potesse prendersela a male.

Cielo…!

- Tu che c’entri, scusa? – le soffi squadrandola da capo a piedi, e per un attimo pensi che potresti incenerirla – Non parlavo con te.

Tu eri il jolly.

Sospiri. Forse non ha colpa. Forse è solo tremendamente stupida. La pedina ideale di Isa, per portare avanti con tutta calma la sua guerra di posizione.

- Io… c’ero anch’io con loro. Ammetto che ti ho presa in giro… qualche volta. Però non dicevo sul serio.

Bulleggiare chi non ti va a genio, innalzare sulla sua pelle uno sberleffo perenne che cancelli la sua dignità, finché del malcapitato non resti altro che lo sfottò, la barzelletta, la voce di corridoio, finché nessuno lo prenda più sul serio, nessuno lo consideri più una persona ma un tirassegno vivente, lo chiami scherzare? Quando l’avete visto con la lingua per terra.

Chi ti ha detto che avessi voglia di sorbirmi le tue prese per il culo “per scherzo”? Lo chiami scherzare, pescare dal mucchio uno sfigato qualunque perso dietro ai cazzi suoi, insistere per una mattinata intera sul fatto che il tizio in questione porti sfiga, lanci il malocchio, e quindi sia meglio non rivolgergli parola, tenerlo a distanza, e farlo sul serio? Dalla stronzata casuale al mobbing di massa. Perché qualcuno faceva sul serio, e qualcun altro ci ha creduto davvero.

Lo chiami scherzare, trascinare la farsa oltre i limiti dell’umana sopportazione, giorni, settimane, mesi, e reiterarlo, oltre i limiti che separano la persona dalle cazzate sibilate a mezza voce mentre ci si annoiava?

- Ehi, aspetta! – Sara fatica a tenere il passo.

Sogghigni tra te: devi sperare che l’incantesimo duri a lungo, meglio di un tiro di canna scroccato a Gabriele. È il gelo dell’indifferenza verso chi per tanto tempo ha goduto a farti male, a ridurti a un pupazzetto inerte.

Fino a non molto tempo fa ti si sarebbe bloccato il cuore in gola con un sospetto attacco di panico. La tua volontà sarebbe rimasta lì, inchiodata al pavimento, ad inghiottire l’ennesimo fiotto di bile fino a soffocarti. Lei, soprattutto, ti ha sempre fatto orrore. Non hai mai saputo tenerle testa, andare oltre il suo cumulo di cazzate come cenere lanciata negli occhi, perché entrare nella testa dell’idiota richiedeva un’energia che non avevi. Che non hai. Solo che adesso vederla agitarsi davanti ai tuoi occhi, le parole attutite sotto strati di nebbia e di ovatta, è come osservare una macchia sul muro.

E poi fa quello che non doveva fare: ti afferra per un braccio e ti fissa con quegli stupidi occhi color marciume finto-innocenti. Introduttivi al vuoto cranico. Quella voce fastidiosa da bambina che gioca a fare la grande, il dolore altrui come unico coefficiente di ironia.

- Sparisci! – la incalzi.

Un urlo liberatorio, direttamente dal cuore.

Fuori dalle palle. Tutti. Avete cercato di rovinarmi la vita perché mi avete guardato in faccia e avete deciso che toccava a me. Perché non ero dei vostri. E l’avete fatto con Gabriele e chissà con chi altri ancora…

Le tue mani cozzano contro le sue spalle e la rilasciano con forza, spingendola lontano. Sara barcolla, frenando la sua corsa contro la parete, come se il peso del seno imponente la sbilanciasse all’indietro.

Io sì che sono figa, perché ho i fianchi stretti, sono alta e porto la quinta di reggiseno.

Loria che cazzo si imbottisce a fare? Tanto è comunque arrapante come un apriscatole.

Sara sembra terrorizzata. Dalla furia che ti ha visto negli occhi. Da quel disgusto totale.

Stronza. Non dicevi così, quando ridevi di me a cazzo, o del fatto che non ti avessi mai attaccata al muro.

- Va’ al diavolo anche tu! Tornatene da loro, trovatevi un’altra vittima sacrificale e mettete in conto che qualcuna sia anche libera di spaccarvi il culo.

Nessuna sensazione. Nessun eufemismo.

Sara ti fissa come se ti fossero spuntate due teste. Forse non è neanche stupida come appare. Magari non ha mai superato la fase asilo infantile. Isa, invece, continua a imprecare contro Alberti e sprizzare odio contro l’universo. Thompson sembra una figuretta sbiadita, gli occhi sgranati, troppo grandi sul viso quasi cianotico, intagliato a spigoli vivi. O forse è il trucco intorno agli occhi a dargli quell’aria di stupore perenne.

 

Non mi cedere adesso, tesoro. Non svenire. Lo so che hai visto più di quel che avresti creduto possibile.

Saranno tutti santi, dalle tue parti? Vienitene via, prima che sia troppo tardi.

 

Il fatto è che mi fate schifo tutti. Tutto e tutti. Schifo, pena, nausea, biasimo. Ipocriti, fottuti ipocriti. Fottuti fighetti vestiti da coglioni.

Tranne lui, lui che splende come un diamante incontaminato.

 

- Thompson.

Sembri diverso…

Lo sguardo cala distratto su di lui, sulla sua figura nerovestita.

- Vieni via.

Prima che ti intossichino con il loro veleno o decidano di fare di te il punching-ball di riserva su cui sfogare la rabbia, le frustrazioni, l’odio e la voglia di spaccare il mondo nelle sue manifestazioni più fragili. Come marmocchi crudeli in pieno delirio di onnipotenza. Impuniti.

Vieni via, anima candida, prima che ti disgustino troppo.

Thompson sembra tramortito, immobile contro il pilastro alle sue spalle, circondato dalle vibrazioni d’odio di Isa. Lei non la riconosci più, ed è sempre peggio, ogni minuto che passa: sembra una belva in cattività, l’immagine capovolta della lucida, ineffabile manipolatrice emotiva che credevi di conoscere. Ha perso ogni controllo: forse ha davvero bevuto-fumato-inalato qualche cocktail astruso che, mixato alla rabbia e al veleno, è esploso in una miscela tossica con deriva totale dei neuroni.

Invece Thompson sembra un fotogramma ricavato col fermo immagine. Quegli occhi troppo fermi e troppo pallidi, verde bosco, rame scuro che sfuma verso i bordi, fissano un punto casuale tra la tua fronte e l’attaccatura dei capelli. Le labbra socchiuse per dire qualcosa, qualunque cosa possa rivelarsi utile a rendere tutto meno squallido. O magari deve starnutire e si è trattenuto all’infinito – ipotesi non irreale, perché Isa e Alberti, a lungo andare, danno allergia e assuefazione.

Alla fine è riuscito a staccarsi dalla sua nicchia di ombre. Da loro che lo fissano come un chewing-gum spiaccicato sull’asfalto, come l’intruso delle quattro e mezza.

Vieni via. Prima che ti trascinino nel loro alienante tiro al bersaglio. Non sembri capace di reggere certi ritmi: hai la pelle troppo delicata. Soccomberesti.

Vieni via, Thompson. È tutto una merda, un ammasso di schifo. Crema inacidita.

Thompson ammicca verso di te come di fronte alla rivelazione. Scrolla le spalle.

A dieci centimetri in linea d’aria, sembra più alto di come lo immaginavi. Più di Andrea, ma forse è il gioco di prospettiva, la vicinanza estrema, le ossa che gli sporgono dai fianchi, o quei capelli assurdi. La catena che porta appesa alla cintura tintinna sinistra ad ogni passo.

E ora che lo osservi meglio, ti rendi conto all’improvviso che palpita di vita, dalle dita dei piedi alle punte sbiadite dei capelli – e che è immune da loro, dal loro sistema dentro-fuori; e che nonostante tutto è ancora vivo, non un fotogramma pescato a casaccio, un ennesimo cliché del cazzo tagliato con l’accetta a misura di cretino, pronto a finire in pasto al prepotente di turno. Non è l’ennesimo pregiudizio ambulante. Le vene azzurrine dei polsi continuano a pompare energia sotto l’epidermide.

- Bene – i tuoi capelli guizzano veloci dietro le spalle, morbidi tra le dita che provvedono a rimetterli al loro posto – Adesso dimentica tutto quello che hai visto.

 

* * *

 

- Perché non mi hai detto niente? – Andrea punta le mani sul tavolo, bloccandoti ogni via di fuga e imponendosi sulla tua visuale.

Sa essere quasi comico.

- Perché è successo dopo – gli sussurri, aleggiando su di lui con occhi distratti – Perché non ho il dono della preveggenza. È successo di pomeriggio, dopo che tu sei andato via. Posso chiederti la stessa cosa: cos’è successo tra te e Isa? Era irriconoscibile, completamente partita.

- A suo tempo – Andrea scrolla le spalle – Non potevo mica sbilanciarmi in mensa.

- Neanch’io – rilanci – E poi c’era Lastella, e un sacco di gente a origliare i discorsi.

- Cos’hai contro Lastella? – Andrea si strofina il mento, interrogativo – Lo dici con la stessa faccia con cui diresti “malattia allo stadio terminale”.

- Contro il tuo amico, proprio niente. Ma scusa, permettimi di tenere per me i fatti miei, visto che non ci conosciamo – lo interrompi, ribaltando le posizioni.

Ora è il suo turno di chinare lo sguardo verso terra.

- Voi invece vi conoscete? – lo incalzi.

- Più di quanto immagini – Andrea sorride, candidamente, prima di sganciare la rivelazione della serata – È stato il mio primo ragazzo.

Questa, poi.

La madre di tutte le coincidenze.

Vorresti non scoppiare a ridere, tra l’isterico e il liberatorio, ma la tensione accumulata tra il diaframma e il bottone della camicia, è decisamente troppa.

Mio Dio…

- Perché ridi?

- Scusami – ti asciughi le lacrime, con noncuranza.

Andrea e Patrizio Lastella. Lastella!

- Mica vi conoscevate alle superiori? – indaghi: tanto vale giocarsela, quando Andrea è un fiume in piena.

Cincischia con una mano ficcata in tasca, l’altra agganciata alla testiera del letto. La camera spoglia ed eccezionalmente in ordine.

Finalmente un posto dove riposare tranquilli, lisciarsi il pelo come i gatti.

- Liceo “Da Vinci”, no? – Andrea scuote le spalle – Non dirmi che…? Siamo stati compagni di scuola senza saperlo?!

- No, frena l’entusiasmo! – scuoti la mano, ridendo – Non ho fatto il linguistico.

- E allora com’è che conosci Lastella? – Andrea sgrana gli occhi, stranito – Se ho capito bene, anche voi vi conoscete… in qualche modo. O che ne so!

- No, non lui. Luca – sollevi gli occhi al cielo, e per un attimo svelare un frammento di passato diventa quasi un bisogno vitale, il sollievo di raccontarsi, tracciare un profilo, un vissuto – Siamo stati insieme… più o meno.

- No…! – Andrea spalanca le palpebre, dimenticando di colpo quel che stava facendo.

Conversare tranquillamente, forse. O carpire informazioni ad andamento sparso, senza un disegno.

- No! – esala, un attimo prima di crollare in una risata liberatoria – È assurdo.

Elena e Luca. Andrea e Patrizio. La coincidenza e la rivelazione.

Pensare che siete stati così vicini da potervi sfiorare, che ignoravi la sua esistenza finché non l’hai visto calcare il suolo dell’Accademia.

Che entrambi avete amato Lastella. Il filo che continua ad avvitarsi su se stesso.

- Sapevo a malapena che avesse un gemello – mormori fra te mentre, con una fuga strategica, concentri tutta l’attenzione sul radunarti i capelli dietro la nuca, arrotolarli e fermarli con una matita.

Che avesse un gemello. E che lui sia diventato così bello.

Una volta non era così. Magro allampanato, con i capelli scuri e arruffati che svolazzavano da tutte le parti, e gli occhiali da miope, non avresti scommesso un centesimo che fosse capace di scatenare una vera e propria strage di cuori. Era troppe cose, tranne il figo da copertina.

Ma la sua voce sprizzava sesso e intelligenza ad alternanza continua e costante, specie quando calava di pochi decibel e raschiava in gola. Note vibranti come tocchi sapienti su un nervo scoperto, a rammentarti per magia il profumo della cioccolata dopo un’uscita sotto l’acquazzone, o il concerto del tuo cantante preferito dopo ore d’attesa.

Chi ha detto che le cose che arrivano dritte al cuore, debbano essere le più belle, tecnicamente impeccabili?

In fondo, l’alchimia del contatto non pretende spiegazioni. Quando vi siete fissati, e i suoi occhi sottilissimi ti hanno fulminato, i secondi hanno smesso di scappare.

Peccato che nessuno ti abbia creduta, che ti abbiano riservato il solito, trito distillato di indifferenza – a suo tempo. C’era una scintilla da qualche parte, un barlume di consapevolezza, ma tutto il resto era tenebra, vibrazioni non traducibili.

E tu eri giovane, infantile e piccola di sentimenti; procedevi tentoni con l’egoismo tracotante dell’adolescenza e puntavi i piedi. Puerile e terribilmente stupida. L’ho visto prima io.

In un’altra maglia qualsiasi del tessuto spazio-tempo, l’altro Lastella, quello più figo, si smaltava le unghie di nero e insegnava ad Andrea com’è che si fa l’amore.

E intanto tutto scorreva, e continuavi ad appassire, a morire e a rinascere.

- Davvero stavate insieme? – Andrea ha il vizio di distoglierti dai tuoi pensieri quando ti sembra di pervenire all’illuminazione.

Eppure è delizioso. Delizioso mentre frigge di curiosità e si tormenta una ciocca di capelli.

- No… non esattamente.

E avanti, dillo.

Scopamicizia? Fuoco di paglia? Amore non corrisposto? Delirium tremens? Suicidio indotto dei coglioni? Come si chiama? Basta affibbiarle un nome, per sancire che colore abbia.

Andrea ridacchia, cristallino.

- E così si scopre che abbiamo più cose in comune di quanto crediamo – miagola – Interessante.

Gli stessi maestri di vita, per esempio.

Questa città è un buco. Un buco nero che risucchia tutto e non ti risputa indietro niente. Solo l’impressione di potervi perdere quando desiderate, di tranciare i legami che fanno male, ma poi alla fine siete tutti qui, a litigarvi una boccata d’ossigeno, a lavorare gomito a gomito alla catena di montaggio. Ma è sempre tutto tra voi.

 

* * *

 

‘fanculo! ‘fanculo tutto.

Gabriele impreca mentalmente contro le porte del mezzo che tardano a spalancarsi sotto il suo naso. Ha prenotato la fermata all’ultimo momento, nello sferragliare annoiato del vecchio bus elettrico.

Tutto ciò che ha fatto di buono nel corso della giornata è stato fuggire inseguito dai demoni, nell’ansia inconsapevole di sottrarsi al contatto diretto, alla collisione accidentale con Andrea, entrambi chiusi nel vicolo cieco di una spiegazione pretesa.

Perché sei fuggito? Perché è tutto il giorno che non fai che fuggire, dribblare, negarti, parlare a bassa voce?

Sospira. È come una voce strisciante dentro la testa che ripete non ora, non è il momento; aspetta, guadagna tempo, guardati intorno. Prima di maturare la resa decisiva.

C’è qualcosa che non lo fa stare tranquillo, che lo tiene sulla corda. Tutto grigio, sfumato, istintuale.

È andata così con Andrea. Prendersi una vacanza dai suoi occhi cospiratori, dalla frenesia che gli inocula sottopelle, credeva sarebbe stato un compromesso accettabile, stretto tra l’esigenza di rimandare all’infinito, cullato nel suo sogno dai contorni sfocati, e l’esigenza di stringerlo a sé.

Succede, quando ti ritrovi con la tua stessa coscienza che urla compressa sotto lo sterno.

Non sa neanche se parlarne con Elena, perché poi riattaccherebbero con il vecchio disco. Occasione sprecata.

Non ha perso un secondo, esaurite le sue lezioni. Si è letteralmente defilato. Ha trascorso il primo pomeriggio collassato sul divano a tende spalancate, un braccio teso davanti a sé a schermarsi gli occhi dai raggi più cocenti, e un principio di colpo di calore.

Si è destato di soprassalto con la folgorazione estemporanea del testo da mandare giù entro domani mattina, pena atroci ritorsioni, lasciato sotto il banco nella fretta, la mente già proiettata allo scoccare dell’ora X, all’urgenza di mettere più chilometri possibili tra sé e quelle facce che oggi gli davano la nausea più del solito.

Forse ce la faccio. A tornare là, recuperarmi le mie cose e levare le tende fino a domani. A evitare di mandare a prostituirsi il lavoro di settimane.

 

Strano a dirsi, nessuno ha avuto l’idea malsana di intascarsi il suo copione, il suo prezioso plico di fogli malamente pinzati. Ed è persino riuscito a passare inosservato.

Il sollievo gli fa quasi girare la testa – da quando sei così suscettibile?

Poteva andare molto peggio.

Dov’è che hai la testa?

Ancora tra le gambe di Andrea.

Può solo lasciarsi andare su una panchina nel piazzale, godersi l’inaspettata botta di fortuna e il tramonto incipiente. Shakespeare può attendere, con buona pace sua e di Eleonora Balducci.

Sospira. Vista da questa prospettiva, senza veleni a ribollire in superficie e convivenze forzate con gente che non vorresti nemmeno al tuo funerale, l’Accademia sembra quasi il Grand Hotel, bianca e viva contro il cielo dorato del tramonto e i baluginii rosso vivo tra le fronde degli alberi.

E poi, di colpo, uno schiaffo improvviso che lo riporta alla realtà. Qualcosa cambia, le prospettive si rovesciano. Niente più tramonti, niente silenzi così pastosi da rasentare lo stato onirico.

C’è qualcosa che non va. Non va per niente.

Dalla sua posizione sopraelevata, può socchiudere gli occhi e vedere non visto, regalarsi l’anteprima assoluta.

Accasciato contro la balaustra, fino a qualche secondo fa c’era solo Alex Thompson che fumava.

Non è più solo. Li osserva, e si sente mancare. Il gelo nelle ossa.

Calma.

Uno lo riconosce, è il tizio col codino e la faccia da pirata incazzoso che ieri ha dato in escandescenze. Non può vederlo in faccia, dalla sua posizione, ma, se si concentra bene, può sentire. Ed è quasi sicuro che stia ridendo insieme ai suoi due sgherri. Uno se ne sta in disparte come una garanzia – forse è quello che fa da palo – e sembra non sappia che farsene della borsa che tiene per la tracolla; l’altro gli sta inchiodato alle costole.

Basile, ecco com’è che si chiama. Il boss.

Un nodo d’angoscia gli taglia in due lo stomaco come una pugnalata, quando si rende conto con orrore che no, non ce la farebbe mai a intervenire in tempo. I postumi della canna di quella mattina – e di quelle che l’hanno preceduta –, le poche ore di sonno gli annebbiano la vista.

Fa’ qualcosa, Gabriele. Urla, attira l’attenzione, fa’ da esca. Interrompi l’allegro ménage, distraili con una scusa qualsiasi.

Scusate, sapete dov’è il bagno?

Voglia di vomitare l’anima e un assurdo presentimento incollato alle pareti dell’esofago.

Basile è troppo veloce per lui, per i suoi sensi intorpiditi dal calore asfissiante che gli batte sopra la testa.

Stupido, non dovevi sbracarti al sole! Sei una lucertola?

Troppi metri da coprire tra sé e il fulcro della tragedia. L’andatura troppo instabile. Basile, se vuole, ha tutto il tempo di ridurre Thompson in formato spalmabile e poi occuparsi di lui con tutta calma.

Tre contro uno non è leale.

- Oi, Thompson – Basile muove mezzo passo – Non sapevo che fumassi.

Pronti, puntare, fuoco!

Sono le sette e là sotto sta per consumarsi la strage dell’innocente.

Thompson continua a guardare fisso davanti a sé come sotto incantesimo, il volto pallido perfettamente immobile. Per un attimo, Gabriele si ritrova quasi ad ammirarlo.

- Lo sai che i bravi bambini non fumano di nascosto? – Basile ridacchia e gli strappa di mano la sigaretta fumata a metà – Non dovresti essere di là a far le valigie?

Thompson socchiude le palpebre e non lo degna di un’occhiata.

- Uhm… No. Direi proprio di no – scandisce con voce metallica.

L’apprendista suicida.

- Invece ti conviene fare il bravo, sai? – il compagno coraggioso, quello che sta sempre attaccato al culo di Basile, incalza verso Thompson, portandosi alle sue spalle come a bloccargli la via di fuga.

È il tipo coi capelli semilunghi e vagamente unti, un sorriso sbilenco perennemente stampato in faccia.

- Lo sai cosa succede, poi, ai bambini che non ubbidiscono?

Tutto si svolge troppo velocemente, come se qualcuno abbia azionato il turbo.

Tre contro uno è facile. Troppo facile. Non è leale, è la legge della giungla. Dov’è Lastella, quando serve?

Dov’è Derossi?

Forse faresti in tempo… Se non ti girasse tanto la testa e se una mano invisibile non ti trattenesse lì, pesante come piombo ad assaporare il gusto della tragedia sulla punta della lingua.

Basile si porta la sigaretta alle labbra, servendosi di una lunga boccata.

- Comunque, vedo che non sei ancora pronto. Vuoi perdere l’ultimo volo tratta Parigi-Londra-Fanculo?

- Per Fanculo non c’è mai l’ultimo volo. Ne partono di continuo – Thompson sorride e sembra trattenere una risata sull’orlo dell’isteria – Ma questo dovrebbe essere il tuo – sibila.

- Stronzetto, sei anche spiritoso – Basile brucia quegli ultimi centimetri di sicurezza che li separano – Fammi vedere se hai preso tutto. Cosa ti serve in viaggio? – ridacchia, e allunga la mano per stracciargli la borsa. Col cellulare e cazzi vari.

Le dita di Thompson si serrano sulla tracolla come tenaglie.

Non provarci.

- Tieni. Giù. Le. Mani.

Dio. Non è il momento di aggrapparsi unghie e denti alla propria dignità. È il momento di correre.

Basile gli afferra un polso e quasi glielo stritola. Fa male, a giudicare dalla faccia di Thompson, l’avambraccio scoperto dalla manica arrotolata che inizia a diventare viola. Cerca di strattonarlo via, invano.

L’altro stronzo alle sue spalle lo abbranca per i capelli e quasi gli torce il collo all’indietro.

Fine dello show.

Ripetilo adesso, Thompson.

Basile solleva la sigaretta ormai consumata dalla brace rossastra e gliela preme contro il braccio.

Un urlo stupefatto e una torsione inaspettata alla base della nuca.

Basile si avvicina ancora, quasi a togliergli il respiro, ad annullarlo con la sua presenza, e per un attimo sembra volergli sputare in faccia.

Due contro uno. Ma quell’uno è disarmato. Più un terzo uomo che fa il palo, che continua a oscillare da un piede all’altro come se non vedesse l’ora di gettarsi alle spalle tutto lo schifo.

Thompson si agita per liberarsi dalla presa duplice, lo sguardo che guizza da una parte all’altra come una slot impazzita, come un uccello in gabbia. Mugugna qualcosa di incomprensibile.

- No, brutto frocio di merda, non te ne vai così – gli alita Basile, annuendo al suo posto con fare allusivo – Non sei un idiota: hai capito – conclude, pasticciando con il mozzicone avanti e indietro sulla pelle martoriata finché le scintille non si esauriscono del tutto, per poi lasciarlo andare con uno strattone che lo inchioda al muro – Hai capito tutto, perfettamente. Patti chiari, amicizia lunga.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 39
*** Capitolo 39 - Relax ***


Capitolo 39

Relax

 

 

Lo senti, Derossi? Graffia in fondo alla gola come sabbia, come scaglie di vetro.

Lo sapevi che sarebbe finita così. Con un epilogo a caso, tanto amaro in bocca e la voglia di vomitare allacciata alla gola. Non è cambiato nulla, solo attori e comparse, personaggi e interpreti.

Una volta c’eri tu al suo posto. C’era Loria. L’ha sperimentato anche Andrea. Lo stesso, sadico gioco di quattro figli di puttana che fanno comunella e ti tormentano fino a ridurti l’esistenza a un inferno.

Niente ragazzi pseudo-dark sessualmente ambigui, quella volta, niente stage che scottano e sigarette spente sul braccio. Solo staffilate verbali, pugnalate alle spalle e il gelo di un’indifferenza nauseante.

Ma è come sentirle chiare sulla tua pelle.

Tre bruciature nette, avanti e indietro a scavare nella coscienza, una dopo l’altra come un rito iniziatico, e il cielo sopra la testa che smette di riverberare il rosso del tramonto e inizia a girare, a girare.

 

È come riemergere da un incubo a tinte scure. Gabriele boccheggia e si accascia contro la panchina. Respira

La canna di metà pomeriggio di solito rilassa, al massimo gli scava un buco nello stomaco da bisogno di zuccheri: non è quello. È tutto il resto che non va, che gira al contrario. Tipo il suolo che oscilla sotto i piedi, i sensi che mettono a fuoco una frazione di secondo in ritardo.

Dannazione.

Vomitare bile piegati in due contro il cestino dell’indifferenziato non doveva essere l’epilogo; non lasciarsi andare accosciato sul granito intriso di polvere, le tempie che pulsano contro le dita e un bisogno viscerale di sciacquarsi la faccia, a lungo, di sentire il freddo sulle palpebre bollenti lavare via l’angoscia, l’impatto tossico contro la rappresentazione del suo incubo.

Solleva lo sguardo, Gabriele, socchiude gli occhi mentre ritaglia uno spiraglio tra le lacrime che gli impicciano la visuale. Cerca il varco privilegiato che ha fatto da cornice alla tragedia. Ma ormai il sipario è calato.

Thompson è scomparso. Per un attimo è sicuro di averlo visto accartocciarsi su sé stesso sull’ultimo scalino, la testa incassata tra i gomiti.

Non piangere, mascherina. Goditi il benvenuto in esclusiva, scritto apposta per te.

Un attimo dopo non c’era più – avrebbe potuto andare da lui, dirgli Ehi, ho visto tutto, ma non ho fatto niente perché ero troppo rincoglionito e troppo impegnato a vomitare l’anima.

Così Basile e i suoi armigeri: evaporati come il fumo della sigaretta, come un miraggio nella sua testa. Erano loro?

Si rialza senza chiedersi quanto sia trascorso – ma che importanza ha, quando tutto ha perso un ordine standard?

Perché non doveva andare così. Non ora, dannazione.

Si scuote di dosso la polvere e il luridume del piazzale, pronto a zoppicare fino alla fermata più vicina – vietato sollevare lo sguardo dal lastricato sotto i piedi e lasciare che la mente vaghi per i fatti suoi.

Unico proposito per non impazzire, parlarne con qualcuno. Andrea, magari. O Patrizio Lastella. Con tutti gli scrupoli possibili, tra il dubbio che forse è così fatto da non districare realtà e immaginazione, e la speranza di essersi sognato tutto.

 

* * *

 

Relax.

Cosa desiderare di più? Forse è l’effetto della birra sul suo umore, forse il senso di pace da zero problemi, domani non c’è scuola. Una punta di sonnolenza lo fa sprofondare nel divanetto imbottito, le gambe distese sotto il tavolo.

Patrizio soffoca uno sbadiglio, le palpebre gli formicolano. Le note hanno frenato la loro corsa contro i suoi timpani, e un silenzio brulicante gli esplode nella testa. Una mano invisibile lo afferra e lo fa ripiombare lì come per caso, seduto a un tavolino del bar, a riallacciarsi al filo del discorso. Meglio spegnere l’mp3, mettere giù gli auricolari e tornare padroni della situazione.

Nessuno sembra tanto sveglio da intavolare da un momento all’altro una discussione all’arma bianca. C’è la stanchezza che fa calare il sipario e indugia con dita incerte verso l’interruttore.

- Lastella, che te ne pare del nostro repertorio? – Ivan si è infilato nel posto libero tra lui ed Ettore e gli ha allacciato un braccio intorno alle spalle.

Sempre la fissa di sbucare fuori dal nulla.

Patrizio sorride e solleva il sopracciglio, un’occhiata beffarda.

- Prima mi spieghi che te ne fai del cencio in testa.

Ivan gli tira una pacca sulla spalla e si sistema la bandana nera intorno alla fronte.

- Avevo i capelli fottuti, ma non te ne frega un cazzo. Dimmi di ‘sta scaletta, poi non ti stresso più. Sì o no, rouge ou noir, aggiudicato.

- Non dovevamo decidere questo pomeriggio? Senza mettermi davanti al fatto compiuto, prendere o lasciare. Insieme, magari…

Insieme si fa per dire, dato che Francesco sembra vittima di un legamento d’amore a lungo corso col suo cazzo di Nokia indistruttibile ripescato dalle fogne, ed Ettore fissa immusonito la superficie del tavolo. Se si concentra abbastanza, potrebbe persino teletrasportarsi altrove.

- Magari provare con calma in saletta – prosegue Patrizio.

- Un giorno di prove ce lo recuperiamo schioccando le dita – Ivan sposta la sua attenzione sul proprio bicchiere mezzo pieno – Tu devi solo dirmi come vuoi partire.

Patrizio solleva gli occhi al soffitto. Quanto basta perché Ivan scivoli con gli artigli sul suo povero mp3, abbandonato incoscientemente sul tavolo, e lo riaccenda a scorrimento casuale.

- Somebody to love?!

Patrizio annuisce, modellando la faccia in un’espressione convincente. Ivan esplode in una risata e gli scaglia addosso gli auricolari ridotti ad una matassa di filo arrotolato

- Serio, Lastella! Ti piacerebbe. A quelle note tu non ci arrivi manco se muori, rinasci, ti fai un trapianto di corde vocali e riprendi a cantare.

Patrizio si scherma il volto con un braccio, come se la luce fosse troppo intensa. Fissa la parete di fronte a sé e scuote il capo.

- Ce la faccio – ribatte, freddo – Dammi tempo, due o tre sere, e vedi se mi sciolgo o no.

- È soltanto sabato prossimo, ti ricordo – Ivan incrocia le braccia sul petto, un sorriso tirato – Lo Chat Noir, hai presente?

- Sabato prossimo. La mia voce starà da dio. Mettici due ore di dizione con la Longoni il martedì, due il giovedì, e la doppia badilata sulle palle sarà tale che andrò come un treno.

Sorride, Patrizio: sdrammatizzare è la nuova carta vincente, perché i discorsi a base di musica, quotidianità, prove e scalette sono gli unici produttivi. Uscire dal seminato, al momento, vorrebbe dire incappare in certi schemi: Accademia, stage, raccomandazioni, teorie del complotto e cazzi vari. E il doloroso capitolo Thompson. Meglio non cadere nella trappola – fosse pure girandoci intorno.

E poi Basile è sempre stato un osso duro: il suo sarcasmo da sfida all’ultimo sangue ha un che di stimolante sui suoi nervi.

La prospettiva di una serata allo Chat Noir, primo incarico ufficiale, è bastato ad accantonare sospetti, discussioni e musi lunghi e a far schizzare l’adrenalina. Basile sembra carico, positivo. Cagacazzo come sempre, un modo tutto sommato costruttivo di essere cagacazzo.

- Lascia carta bianca a Lastella e non se ne parli più! – Ettore ha tirato su lo sguardo, gli occhi verdi tagliati all’insù fissi nei suoi.

Forse l’ha buttata così per levarsi il pensiero. Ci pensa Lastella: male che vada si rimedia una figura di merda, e chi rompe paga. O forse sta venendo in suo soccorso.

- Permesso accordato? – Ivan gli sorride in tralice.

- Solo una cosa – Francesco Piani solleva gli occhi dal cellulare: al contrario di Ettore, sembra non essersi perso una stoccata, un solo lampeggiare di sguardi.

Patrizio sospira, in attesa del democratico verdetto. Piani è il candidato ideale per quello che arriva dopo la battaglia e finisce i feriti a calci nello stomaco.

- Vèstiti da essere umano – gli sussurra a pochi centimetri dalla faccia, un sorrisetto sbilenco appeso alle labbra – Ti prego. Jeans, maglietta, quelcazzochevuoi, ma evita le stronzate. Niente anche scoperte, pacchi in bella vista e occhi pasticciati. Almeno quando suoni con noi. Non sei un membro dei Kiss, sei uno sbarbino qualunque. E, in tutta sincerità, quelle robe su di te non fanno figo, fanno una via di mezzo tra un poser e un puttanone.

- L’avete sentito? Ho sentito bene? – Patrizio sgrana gli occhi, il cervello che va in tilt mentre processa l’informazione.

Tuttavia incassa il colpo e allunga un amichevole, cameratesco pugno sulla spalla di Piani.

- Senti. Primo, addosso mi metto quel cazzo che mi pare, e se per assurdo dovessi spezzare la maledizione dell’anonimato, scusa tanto! Secondo, non vedo il problema, se uno è figo e sfoggia mezzo addominale.

- Addominale un cazzo! – Ivan gli scosta una ciocca di capelli dall’occhio – Ti si vede tutto con quei cazzo di pantaloni di latex. “Guardate come sono figo, urlano tutte per me”! Er… no. Non ci siamo. Toglitelo dalla testa, di trasformare la nostra serata nella tua baracconata: non mi serve il cantante fiiiigo col movimento pelvico… A me interessa la nostra musica – Ivan giocherella nervoso col cinturino dell’orologio – Non le piazzate da buffoni, le sciacquette con gli ormoni a palla, “Lastella io me lo fareiiiiii”. Il mio pubblico ideale è fatto di gente che se ne intende e ci apprezza, “guarda, questi spaccano i culi”. Del resto non me ne frega un cazzo. Perciò, quando sei con noi, fa’ il tuo dovere, pensa più alla musica e meno al tuo pacco. Claro?

Patrizio sgrana gli occhi.

- Cioè, io… boh. Stiamo discutendo del mio cazzo e del pubblico ideale, renditi conto. Immagino che sabato ci sarà fior di intenditori e tutti non vedano l’ora di farti una proposta a cui non puoi rinunciare. Aspettano solo noi, vedi te che culo! Io non sono un fottuto manichino, sono realista. Capisco che pubblico ho di fronte e me la gioco di conseguenza. Colpisco con tutti e cinque i sensi.

- Il tuo pubblico di merda – borbotta Basile.

- Puoi sempre cantare nella tua cameretta, se tutto ciò che non è come dici tu è merda. Dato che fai il puro, mi spieghi perché da un po’ facciamo solo cover? Sarà che, finché non ti danno incarichi un po’ più… corposi e non hai un nome, segui quella cazzo di traccia e puoi avere un repertorio che spacca i culi, che ti mandano a stendere dopo tre secondi, te e la tua sensibilità poetica…? Io cerco di capire dov’è che mi trovo, chi è che ho di fronte e su cosa puntare per non farmi dimenticare.

- Infatti – Ivan si passa la lingua sulle labbra come per affilare la spada – cover o non cover, avrai notato che, da quando ti lasciamo fare la primadonna, coliamo a picco sul nazional-popolare del cazzo.

- Quindi una cover dei Queen fatta come Cristo comanda, è nazional-popolare del cazzo? – Patrizio sente i muscoli facciali contrarsi in una smorfia, la voce che trema contro il bicchiere mezzo vuoto – Spero di aver sentito male. Quindi tutto ciò che passa per le radio, è merda in automatico. Se dessimo retta a te, proporresti roba di nicchia da suonare in locali di nicchia. Però, al tempo stesso, vuoi puntare in alto. Deciditi. E non lamentarti, se il cerchio si stringe e a fine serata la paga è una birra e una margherita da portar via!

- Hai capito, dai – Ivan ruota le iridi verso il cielo, ispirato – Vuoi giocartela finché sei nel giro, vuoi stupire. Anche se il rischio è ritrovarci attaccato al culo a vita il marchio di band di serie Z per liceali in calore. Ragazzette isteriche col vuoto pneumatico in testa che schiamazzano e fanno a gara per toccarti il culo a fine serata. Sai che me ne faccio! Quello che faccio, lo faccio seriamente e non voglio trasformare tutto in una pagliacciata. Voglio una cazzo di band con i controcazzi che fa musica coi controcazzi!

- Chi ti dice che non lo siamo? – Patrizio sorride, spazientito – Se a qualcuno poi interessa toccarmi il culo a fine serata… Beh, è il mio culo, non il tuo.

- Uhm – Ivan rumina qualcosa di incomprensibile tra i denti e scuote la testa con l’aria di chi no, non sarebbe soddisfatto nemmeno se le olive nel piatto degli stuzzichini ballassero il tip-tap al suo comando.

- E va bene, ho una soluzione – gli occhi di Ettore si illuminano, dopo aver vagato senza soluzione di continuità da lui a Basile e viceversa, a scommettere sul vincitore.

Grazie, fratello. Patrizio sorride tra sé, fiducioso. Moro sembra quello timidino, per i cazzi suoi, il tirapiedi di Ivan che vuole disperatamente mostrarsi all’altezza, ma ora potrebbe calare in picchiata con la trovata dell’ultimo secondo che ti toglie una sfilza di seccature.

- Facciamo così: quando e se mai morderemo la polpa del successo, a noi la gloria – sussurra – A Lastella le groupie assatanate.

- A malincuore – Francesco gli posa una mano sulla spalla – Che poi Ivan s’incazza. Quando rientriamo nel backstage, Lastella si prende una ventina di ragazze, ci si chiude nello stanzino delle scope, si gode il suo quarto d’ora di celebrità… E non se ne parla più.

Patrizio sgrana gli occhi. Osserva Francesco che sogghigna, compiaciuto dalla sua stessa trovata; Moro che sorride a mezza bocca in una doverosa imitazione, e Basile che gli rovescia addosso un’occhiata di puro scherno – forse lo scazzo gli è passato: va e viene come una scheggia impazzita. È uno stress stare dietro ai suoi sbalzi d’umore.

La tensione è evaporata in una sana sghignazzata, eppure c’è qualcosa che non va. Vorrebbe capire quale sia, stavolta, l’errore di procedura, ma la botta di una risata devastante lo centra come un pugno allo sterno, si arrampica lungo la gola e gli mozza il respiro.

È troppo.

Vorrebbe trattenersi, ma è troppo. Tutto. Se non gli rido in faccia, soffoco.

Venti ragazze per me!

E si ritrova accasciato sul divano a lottare per recuperare il respiro, prima ancora di rendersi conto del proprio crollo. È riuscito per miracolo a non ribaltarsi gambe all’aria oltre lo schienale.

- Lastella, ti sei strozzato con la birra, sei in crisi, posso fare qualcosa per te? – Francesco lo fissa da sopra con gli occhi strabuzzati – Cerca di respirare ogni tanto!

Patrizio si tira su a sedere, boccheggiando: è dura, con quel formicolio incessante che gli pizzica il diaframma, accartocciandogli le parole tra i denti e minacciando una nuova crisi.

Il momento della verità arriva danzando sul filo della boiata casuale che spezza la tensione.

- Era divertente? – Ettore solleva un sopracciglio.

- No, non è questo… – esala Patrizio, ansimando, il volto congestionato.

Credo non ti prenderanno manco a Zelig.

- È che di venti groupie in uno stanzino schifoso, non saprei che farmene – prosegue, sibillino.

- Non sapresti che fartene?! – Ivan aggrotta le sopracciglia come se parlasse aramaico – Vuoi che ti faccia un disegno? Sei timido? Hai paura che poi ti emozioni e ti si ritira l’uccello?

Più o meno.

Patrizio si asciuga una lacrima sulla guancia. Sarà l’effetto estraniante della fatidica birra di troppo, ma sente la testa leggera, la mente sgombra, il cuore che riprende a pompare sangue con regolarità. E poi c’è quel senso di pace e di controllo, che potrebbe spostare il palazzo a mani nude.

- No – sussurra, lanciandogli uno sguardo obliquo – Sono gay.

 

* * *

 

Andrea ammicca verso lo specchio del bagno. Calma. Imperativo assoluto, ritrovare la calma. Ma la mascella trema, il respiro condensa contro il vetro.

Il getto d’acqua fredda sui polsi lo strappa via d’incanto dal rimescolio delirante del locale, dal brusio che gli romba nelle orecchie. Un brivido lungo la schiena che lo ricaccia a forza nel mondo reale.

Ha solo bisogno di una valvola di sfogo e qualche secondo di pace per riacciuffare in tutta tranquillità il bandolo della matassa. Per vederla meno grigia.

Patrizio è di nuovo culo e camicia con Basile e l’allegra brigata, e stasera non se ne farà niente. Potrebbe tornare di sopra, da lei, e sciorinarle punto e a capo tutta la storia con tutti i retroscena, ma non è dell’umore per scucire da capo le ferite e poi, insieme, riannodare i punti.

Gabriele, se ha voglia si farà sentire lui, e poche chiacchiere. È fatta.

Trema, Andrea, la testa tra le mani – il contatto delle dita fredde contro le tempie come un’interferenza improvvisa con il flusso dei pensieri, un debole aggancio al presente. La sua nuova porzione di realtà avvolta nel cellophane. Il suo vaso di Pandora.

Una valvola di sfogo, solo questo: non chiede molto. Poi, lentamente, potrà riossigenare i neuroni.

Sei a un passo dall’esaurimento nervoso, amico.

Andrea sorride alla sua immagine riflessa, i riccioli umidi stropicciati ad arte sulle spalle e intorno all’ovale del viso. Le occhiaie scure a definire i contorni dell’angoscia.

Sospira. Sperava che prima o poi sarebbe passato, lo scazzo imperiale. Poi l’ha rivisto e si è ricordato perché, che lo voglia o no, se lo ritrova inspiegabilmente a ballonzolargli sui testicoli. Alex Thompson – chi, se no? –, che la parte del cucciolo buono e gentile a cui tutti vogliono male, la sta imparando bene. Patrizio pende dalle sue labbra. Lui no, non può farci nulla: lo indispone a prescindere. Quel modo finto-casuale di scivolare intorno alle vite degli altri, attento a non sfiorarli nemmeno per errore; quell’esserci e non esserci. C’è, eccome se c’è.

Il modo in cui si è squadrato Elena da capo a piedi. Alla fine è lì, è tutto lì il fulcro del suo malumore. Che non depone a favore del signor Thompson né glielo rende più digeribile.

Brutta faccenda. Perché, all’atto pratico, non ha niente contro di lui, non riesce nemmeno a trovarlo antipatico. È solo che non può fermarlo e dirgli Scusa, bello, puoi evitare la prossima volta di consumare Loria con quegli occhi da schizzato, perché poi mi girano le palle tutta la sera?

La fitta di collera è durata finché l’ha incrociato sulle scale che marciava spedito verso camera sua, e aveva la faccia di uno che ha avuto un rendez-vous col diavolo in persona. Si è infilato nel passaggio angusto tra la ringhiera e il suo corpo e l’ha quasi travolto. L’ha fissato una frazione di secondo – gli occhi cerchiati di rosso come fanali, il colorito in pendant con la parete –, l’ha guardato senza vederlo, forse domandandosi se dirgli ciao, buongiorno o buonanotte, se davvero valesse la pena di articolare una sillaba. Si è risolto al silenzio ed è guizzato di sopra.

Che gli è preso?

L’attenzione di Andrea torna a focalizzarsi sul suo volto riflesso. E sul vociare alle sue spalle come un’esplosione improvvisa.

- E dai, Ivan, che sarà mai?

Ettore Moro. Ha riconosciuto la voce. Vagamente impastata, l’intonazione inesistente come se scorresse la lista della spesa, parole smangiucchiate a caso per poter negare tutto all’occorrenza.

Un mugugno a labbra strette in risposta.

No. Basile no. Non adesso, non ho la forza di affrontarlo, di inventarmi giri di parole per evitare di prender parte alla congiura contro il leccapiedi Thompson o la fatina dei denti.

Quando dal tempismo della mossa seguente può andarci di mezzo l’intera serata, poco ti importa se ci sia il tempo di asciugarsi la faccia. Non quando ogni secondo diventa prezioso, un battito di ciglia in cui decidere se prendersi il bello e il cattivo tempo, oppure rintanarsi da qualche parte e attendere il via libera.

Andrea non ci pensa due volte. Raccatta la borsa e fila in uno dei bagni. Spranga la porta dall’interno. Il tempo che i tre dell’Ave Maria tolgano il disturbo, e potrà andarsene per i cavoli suoi evitando dibattiti storcibudella e birre del discount.

Così, col respiro trattenuto per negare la sua presenza e il timore di muovere un muscolo, tanto vale aguzzare le antenne.

- Non c’è niente di male, non sono mica un omofobo! Se tiene giù le zampe da me, non c’è problema – di nuovo Moro, quello con la personalità di un pacco postale senza intestazione: se non l’avesse visto ciondolare qua e là dietro il culo di Basile, la sua presenza all’Accademia gli sarebbe scivolata di dosso.

Si è appena esibito nel discorso di senso compiuto più lungo che gli abbia mai sentito pronunciare.

- A te cosa ti cambia? Guarda che è da prima che facesse outing o coming-out o come cazzo si dice. Ha quel modo di fare, così… teatrale. Qualcosa, boh, si capiva. E questi giorni era strano. Basta che non ci provi con me, sa la risposta – segue un grugnito sullo schifato di circostanza.

- Se lo fa con me, un cazzotto nei denti – Piani aziona il rubinetto a tutta forza e ridacchia; lo scrosciare dell’acqua nel lavandino disperde le ultime parole in un chiocciare indistinto – Non volevi il cantante troppo figo, Ivan? Mo’ ti becchi il cantante frocio! Quanto sei contento, da uno a dieci?

- Non è una bella cosa – il dio ha parlato, dissipando mille dubbi – In teoria non cambia nulla: se continua a cantare come ha fatto finora, il posto non glielo tocca nessuno. Mi piace Lastella. È un cagacazzo, una primadonna, mette bocca su tutto, quello che volete, ma è bravo, sa il fatto suo e non ci piove. Lastella spacca, è nato per stare davanti a un pubblico. Non diteglielo, però, o si finisce di montare! Però vorrei che questa cosa non si sapesse in giro. Che è frocio. Non voglio gossip del cazzo o che diventiamo “il gruppo col cantante frocio”. È un fatto di immagine, se volete chiamarlo così. Il cantante hard-rock… gay! Vi immaginate? Pare un controsenso, una barzelletta, un paradosso! Noi arriviamo là, saliamo sul palco con due coglioni così, arriva Lastella, figo… oh, ma è gay!

- Cosa c’entra? Continuo a non capire – Moro bela a vuoto – Dove sta scritto che uno suona solo se è etero? Dov’è il… conflitto?

- In via ufficiale, da nessuna parte – taglia corto Basile – In via ufficiosa, c’è, è una cosa a pelle. A me personalmente, la notizia entra da un orecchio ed esce dall’altro: Lastella porta a casa il compitino? Bene, il resto chi se ne fotte. Ma il popolino delle comari ama le chiacchiere da bar, vuole prenderti e rivoltarti come un calzino, sviscerare i cazzacci tuoi. Si ricordano di te per i pettegolezzi idioti. Non si ricorderanno se sei bravo, che musica fai, com’è che sono arrivati a te, ma per le puttanate hanno tutti una memoria di ferro. Se esplode questa bomba e la cosa si sa in giro, preparatevi a sentirne parlare a lungo.

- Non mi sembra una scoperta capitale, che a uno piace l’uccello – incalza Moro – Grazie dell’informazione, ciao. Vabbé, le ragazzette innamorate di lui, poi chi le sente! Ma se fino a poco fa non ti andava giù che facesse il piacione… Insomma, prima è troppo puttaniere, poi non lo è abbastanza. Fai un po’ pace col cervello. Io fossi in te sarei contento, così non avrei più il problema che “ci seguono solo le invasate perché c’è il vocalist che è gnocco”.

- Di questo passo – lo interrompe Piani, e Andrea può figurarsi il suo ghignetto compiaciuto senza vederlo in faccia – Dopo Derossi, Nicoletti, e forse Emo-boy che, poverino, è una causa persa… La vera bomba sarà: è rimasto qualcuno fedele alla patata?

- Sì. Tua sorella – borbotta Moro.

- Basta, Anastasia e Genoveffa! – Basile schiocca la lingua in una secca negazione – Non è un evento, okay. Ma in quest’ambiente, se permettete, non è un bel biglietto da visita. Per il momento, se Lastella continua a giocarsela a basso profilo, pace. Chiunque si scopi, cazzi suoi.

- Cerchi forse un pretesto per dargli il benservito? – continua Moro, a denti stretti.

- Stai scherzando? – Basile alza la voce – A una settimana dal debutto?! Dove lo troviamo un altro, bravo almeno quanto lui? Sentite, io Lastella l’ho inquadrato: è frocio, ma non sa come gestirla. Ha paura di perdere punti. Allora fa il figo, si veste da mignottone tutto strizzato sul pacco, per dire vedi? Le donne ti ammirano, sei ancora il maschio alfa. È un cazzo di insicuro che ha bisogno di conferme, di farsi adorare. Eppure sembra che la cosa gli vada stretta. Prima o poi qualche cazzata la fa, perché è fuori come un missile. Al momento non abbiamo di meglio, e non nego che, potendo, un calcio in culo glielo darei.

- Almeno siete sicuri che non ci sentano… qua dentro? – sussurra Piani – Nomi e cognomi come se piovesse.

Cazzo! Andrea si stringe nelle spalle quasi a diventare più piccolo, il respiro ridotto al minimo nel suo rifugio di fortuna – un cesso di un metro per due con un lucernario sopra la testa e un caldo da serra.

Abbassa lo sguardo. Per fortuna la porta non è di quelle che ti si vedono i piedi, perché le Converse viola sono un tantino riconoscibili.

- Va’, che non c’è nessuno! – taglia corto Basile – Sono tutti là a sfondarsi di birra. Facciamo in fretta, o Lastella penserà che stiamo decidendo di che morte farlo morire.

- Pensi quello che penso io? – lo pungola Piani – Di Lastella che ronza intorno a Thompson, ricollegando tutto…

- Uhm… nì – non può vederlo in faccia, Andrea, ma riesce a figurarsi i lineamenti duri di Basile contratti dal disgusto – Non me ne intendo di dinamiche frocie, ma “Thompson” e “sesso” sembrano due ossimori. Credo che Lastella punti su Nicoletti.

- Ma Nicoletti non inzigava con la biondina?

- Se tutto va bene – lo interrompe Basile, spazientito – tra un po’ l’emo del cazzo sbaracca dai coglioni come vuole o come non vuole, Lastella fa il bravo e il problema non si pone – lo liquida, e infila la porta.

Andrea si lascia andare schiena contro il muro. Restano il vuoto della stanza impigliato alle dita e il nervoso che sale, intossicante – e il tanto agognato silenzio, scolpito nelle mattonelle ammaccate e nell’aria che vibra, nel senso di vertigine avvitato allo stomaco.

Voi siete “del cazzo”, ragazzi. Begli amici del cazzo…

Caro Patrizio, ti sei fatto degli amici del cazzo.

Ha ripreso a respirare. Circospetto, apre la porta giusto uno spiraglio e mette fuori il naso. Si osserva intorno. Via libera.

 

* * *

 

Ha approfittato della loro sosta rituale alla toilette per farsi dare la ricevuta ed evitare la figura del taccagno. Quattro spine, Tony, segna sul mio conto.

Patrizio sbircia l’orologio e si chiede cosa ci sia di divertente in una santa pisciata in compagnia. Il coming-out è passato in cavalleria insieme al conto da pagare, alla carta da parati démodé e alla musica putrida che trasmettono là dentro.

Un sorriso gli taglia il volto da un orecchio all’altro, i muscoli che tirano, le labbra distese nel trionfo. È stato come bere un bicchier d’acqua. Forse li ha sottovalutati, forse l’abitudine di infilare humor di dubbio gusto in tutto ciò che fanno, si è rivelata innocua. Basile ha alzato un sopracciglio e l’ha guardato di sguincio. Ah, ti piacciono i cetriolini sott’olio? Auguri. Fammelo aggiungere alla lista di cose di cui non me ne frega un cazzo.

Sospira, Patrizio: è così che deve andare, senza tante paranoie, amici come prima. In fondo, Andrea ha avuto solo la sfiga di incontrare Miss “Si fa come dico io” e la portinaia Alberti.

È tutto sotto controllo. Perfettamente sotto controllo.

Basile è tornato al tavolo e guarda l’ora, annoiato. Patrizio raccatta in silenzio il giubbotto e si incammina verso l’uscita. Una boccata d’aria è quel che ci vuole per lavarsi di dosso la tensione residua e la mezza euforia da serata finita bene.

Poi lo vede. A pochi passi da lui, il volto serio.

Derossi? Sarà venuto a recuperarsi Andrea.

Invece ha visto giusto: punta nella loro direzione. L’ha capito dal verso gutturale con cui Piani ha soffocato una risatina random.

Derossi si schiarisce la voce e gli posa gli occhi addosso – da quel che riesce a intravedere dietro le sue dannate lenti fumé.

- Lastella, posso rubarti cinque minuti?

Patrizio annuisce. Novantanove possibilità su cento, il tema sarà Andrea.

Al suo fianco, Ivan ha aguzzato la vista e incrociato le braccia sul petto. Francesco ha parato una faccia finto-accondiscendente ed Ettore è tornato nella sua pozzanghera di scazzo.

- In privato – precisa Derossi.

 

- Dimmi tutto. Va bene qui? – Patrizio si chiude alle spalle la porta di camera sua cercando di non sbatterla.

Già che c’è, potrebbe assicurarsi che non ci siano cimici nascoste o telecamere che schizzano fuori dalla tazza del water, ma meglio non sembrare troppo paranoici. Derossi sembra teso: ha perso tutta la freddezza del primo impatto e ora si torce le dita e fissa il vuoto.

- In realtà non sapevo con chi parlarne – esordisce.

- Oh, che onore, sono la tua ultima spiaggia! – Patrizio ridacchia: forse può alleggerire la tensione.

Derossi solleva gli occhi al cielo, ispirato, il profilo affilato che spicca nitido in controluce. Sul fatto che Andrea abbia un gusto estetico sopraffino, nulla da dire.

- Non è per Andrea – lo precede Derossi.

Patrizio sgrana gli occhi. Cambio di programma. Quell’un per cento che sballa ogni innocente previsione.

- Peccato, mi ero preparato il discorsetto, ma se vuoi sapere cosa ne penso, te lo dico in due parole e ti dico la stessa cosa che direi a lui: vi state ballando intorno come due idioti, vi state logorando i nervi da soli, e avreste anche rotto le palle.

- Interessante – Derossi sorride stirando le labbra – Grazie del parere, ma non voglio parlarne.

- E allora cos’altro è successo? – Patrizio si lascia andare sul divano al fianco di Derossi, la spalla che quasi sfiora la sua.

Se provo a scuoterlo, magari vuota il sacco.

- È una cosa un po’ delicata. Non vorrei muovere accuse a cazzo, quindi non reagire d’impulso e stammi a sentire – Derossi lo fissa dritto in faccia: forse si è pentito di aver cercato proprio lui e non sa come uscirne – Ti sei mai fatto?

Eccola. La domanda da un milione di dollari.

- Che è, un’intervista? Di solito sono io quello che fa le domande qua dentro… Ti hanno beccato?

- Rispondimi: ti sei mai fatto?

- Sì, è capitato – Patrizio solleva un sopracciglio – Se vuoi saperlo, non ho niente in contrario, eh. Penso che la cannabis sia sottovalutata.

- Non è questo – Derossi sorride per la seconda volta da che lo conosce, forse per ingannare l’ansia – Ti è mai capitato, dopo, di dimenticarti cose… di sentirti come se galleggiassi nel vuoto, di vedere cose che magari non esistono?

- Eh? – Patrizio aggrotta le sopracciglia, incredulo: Derossi sa rendersi inquietante, e lui vorrebbe tanto capire dov’è che vuole andare a parare – E che ti sei fumato, le ciabatte di tua nonna? Perché lo chiedi a me? Credevo fossi tu l’esperto.

Derossi si massaggia le tempie come a maturare una decisione su due piedi. Se parlare o tenersi il dilemma o tergiversare a cazzo.

- Il fatto è che ho visto una cosa, ma non sono sicuro di averla vista davvero. O che sia andata così.

- Va’ tranquillo – Patrizio incrocia le braccia sul petto, spazientito – Se una cosa l’hai vista, l’hai vista, c’è poco da dire. A meno che non ti sia bollito il cervello, e quello è un altro paio di maniche. Ammettiamo che io mi fidi.

Derossi si fissa la punta delle scarpe, a disagio. Si tira su gli occhiali di scatto, li infila tra i capelli e sospira.

Patrizio lo scruta in viso. Capisce solo ora il motivo di quegli occhiali scuri sopra il naso: ha gli occhi pesti e le orbite arrossate di chi dorme poco e male. Nel complesso, non capisce cos’è, ma in lui c’è una scintilla che lo mette in allarme. È piuttosto bello, ma una bellezza fredda che, più che attrarlo, gli trasmette un moto di avversione, di inquietudine.

- Se dico… Thompson?

- Alex Thompson?! – Patrizio salta su, il cuore in gola. Quanti altri ce ne sono?

Di nuovo lui. Come un cattivo presentimento strisciante.

- Esatto – Gabriele solleva gli occhi, quegli occhi scuri incassatissimi dove si addensa l’ombra – Non sta passando… un bel momento.

- Gli è successo qualcosa? È da un po’ che non lo vedo – Patrizio si lascia andare contro lo schienale perché, di colpo, gli manca l’aria.

Non è una domanda: è una constatazione.

Il gelo che gli preme sulle tempie gli dice che deve essere sbiancato di vari toni. Derossi capisce l’antifona e tace, fissandosi le unghie. Poi riprende fiato e parla di getto.

- Sì, Patrizio. Non ti piacerà.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 40
*** Capitolo 40 - Mezze verità ***


Capitolo 40

Mezze verità

 

 

Non ha ancora imparato i rudimenti del mestiere, non ha tenuto conto che a ogni mossa corrisponde una reazione uguale e contraria. Persino quando, a suffragio di un j’accuse in piena regola, non c’è che qualche fotogramma a caso, tanta confusione e la parola di un perfetto schizzato. Non ha tenuto conto dell’esplosione di rabbia in fondo al labirinto dell’assurdo. Il fuoco liquido in fondo alle iridi di Patrizio, le labbra strette in un silenzio autoindotto.

Forse ha cannato in pieno. Gli ha detto zitto, parlo io, e gli ha spiattellato tutto. Ogni dettaglio che la sua mente si sia degnata di immagazzinare in qualche recesso distorto. Ora può solo inghiottire a vuoto e sperare che la tempesta in agguato non semini troppi danni. Osserva Patrizio e sospira: è pur sempre amico di Andrea.

- Okay. Lo ammazzo.

Eccolo. Voce piatta, una vibrazione impercettibile all’angolo della bocca. Dita nervose che artigliano i capelli alla base della fronte.

- Stavolta gli faccio un culo come una barca!

Un pugno contro la parete carico di frustrazione. Passeggia per la stanza quasi non sapesse che fare di quegli istinti omicidi in esubero.

- Patrizio, non fare cazzate! – gli sibila Gabriele – Adesso ti siedi e ragioni.

Come si blocca una valanga a mani nude?

- Vaffanculo, Derossi! Tanto ti piace – Patrizio digrigna i denti, un sibilo serpentino.

Gabriele fissa gli acari sulla moquette.

- Te l’ho detto, cazzo! – grugnisce – Sono abbastanza sicuro di quello che ho visto, non al cento per cento. Quella scena… è come se ce l’avessi qui, davanti agli occhi. Ma non posso giurarti che fossero loro. È successo tutto… troppo in fretta.

Patrizio si lascia andare sul divano con un tonfo. È in iperventilazione. Sbuffa come una locomotiva che potrebbe schiantarsi fuori dalla porta da un momento all’altro, dritta a spaccare tutto.

Il tempo di riprendere a respirare quasi normalmente e riacquistare una parvenza di controllo. Il mento incastrato tra pollice e indice, lo fissa.

- Non sai riconoscerli da una ventina di metri? – miagola, una calma gelida che si insinua tra loro come ghiaccio, peggio di un grido di battaglia – Chi altri potrebbero essere? Descrivimeli, com’erano vestiti… e vediamo se corrispondono. Ma io non avrei tanti dubbi.

- Li ho visti di spalle. Il tizio che… gli ha spento la sigaretta sul braccio – Gabriele mima istintivamente il gesto, la nausea incollata allo stomaco – aveva i capelli lunghi, con la coda. E una giacca di pelle. L’altro era più basso… ha riso tutto il tempo: quando Thompson ha cercato di andarsene, l’ha bloccato per le spalle. Il terzo era biondino, aveva una specie di eskimo, ma stava in disparte.

- Ettore Moro – Patrizio ridacchia, annuendo tra sé con enfasi – Solito cagasotto…

Silenzio. Patrizio tira su col naso, gli occhi lucidi. Forse sta per esplodere dal nervoso.

- Capisci che puttanaio mi ritrovo? – sbotta, un sorrisetto folle – Fanno i bravi bambini, loro. Poi mi fottono alla grande. Seguimi, Derossi: avevamo prenotato la saletta per le prove. Curiosamente, l’appuntamento salta all’ultimo momento. Curiosamente, provo a chiamare Basile per sapere che fine hanno fatto, se mi hanno fatto un bidone, ma ha il cellulare spento. Quando questioni urgenti chiamano, non c’è appuntamento che tenga! Ci siamo rivisti più tardi, al bar, loro felici come Pasque, felici di aver fatto il loro dovere, la coscienza a posto. Ridevano con me, facevano battute. Mi prendevano per il culo. Tranquillo, niente di nuovo sotto il sole! Abbiamo solo reso giustizia a modo nostro, pestato qualche emo dimmerda, rimesso al suo posto qualche sfigato… Cose così, per ammazzare la noia, chessaràmai? – Patrizio si tira i capelli all’indietro quasi a strapparseli dal cranio – Pensa che a un certo punto mi sono detto Dai, leviamoci lo scrupolo, siamo amici. Sono gay, mi piace la pannocchia. E loro nulla, nessun muso storto. Dovevano coccolarmi, illudermi che loro sono bravi bambini! Non cambia niente, va’ tranquillo. Tu sei gay, Thompson è frocio. No – conclude, scuotendo la testa – non ci credo, Derossi. Mi rifiuto! – il volto di Patrizio si contrae in un sorriso artefatto, la voce si spezza – Ti sei inventato tutto? Un bastardissimo scherzo del cazzo. Ti ha mandato Andrea? Manda te perché non c’hai scritto in faccia “sono un cazzone”, e posso cascarci con tutte e due le gambe. Volete la prova che mi piace Alex e che sono fuori come un missile? Eccola qua. Adesso però vi faccio correre…

Gabriele china lo sguardo a terra.

- Non mi ricordo che ore erano. Tardo pomeriggio. Sono tornato in Accademia, mi sono fermato un attimo fuori e ho visto questo.

- Lascia perdere, ti credo – Patrizio si scosta i capelli dalla faccia – I tempi tornano. Chi vuoi che fosse, se non loro? Trovami altri tre tipi vestiti come loro e che ce l’abbiano con Alex. La descrizione corrisponde, l’orario pure; il movente c’è, l’alibi no… Elementare, Watson! Basile l’ha detto, che gliel’avrebbe fatta pagare, l’avrebbe messo in condizioni di fare le valigie. Le prove saltate, io lì che aspetto come un imbecille. Avevano da fare, dovevano spaccare il culo ad Alex. A Lastella diamo lo zuccherino, così non rompe i coglioni.

- Cazzo, sono tuoi amici!

 

Siamo tutti uguali, ciechi e cagasotto: non sappiamo mai niente, non sospettiamo mai di nulla. Caschiamo dalle nuvole, eppure è tutto sotto il nostro naso.

 

- Non me lo ricordare! – Patrizio si stringe nelle braccia, rabbrividendo – Dammi una sigaretta, va’. Aromatizzata – gli sussurra.

- Secondo te me ne vado in giro con un pacchetto di marijuana nelle mutande? Ricordi il casino che è successo?

- Già, scusa. Falla normale, allora, mettici tabacco, camomilla, quello che vuoi, perché io sto per avere un collasso…

- Cosa vuoi fare? – Gabriele lo fissa negli occhi, il sospetto come acido corrosivo.

Meglio approfittarne ora che è debole.

Patrizio gli straccia la sigaretta dalle mani e fa per accendere – guadagna tempo, tra una bestemmia incomprensibile e l’altra e l’accendino che sfrega dolorosamente contro il pollice, rifiutandosi di sputare una fiamma decente. Poi, finalmente, tira. Tossisce.

- Niente – gli soffia con voce roca – Ma se è vero che Basile ha fatto un decimo delle carognate che mi hai detto, questa gliela spengo sui coglioni.

- Non dire cazzate! Non ti ho detto che quelli che ho visto, a una certa distanza, con un mezzo colpo di sole, sono loro al cento per cento.

- Non fare l’idiota! – Patrizio lascia cadere la cenere sul tappeto – Quante conferme servono ancora? So farli due conti, non sono pirla! E non lo sei neanche tu, anche se le tue scuse sono a livello di asilo. Andiamo, Gabri: sei un fattone, ma un fattone onesto, e non soffri di allucinazioni. Io adesso torno di sotto e lo gonfio, tanto è vero che mi chiamo Patrizio Lastella, e tu non farai un cazzo per impedirmelo.

Gabriele spalanca gli occhi. Ora o mai più.

Scatta in piedi, ma Patrizio lo precede e sguscia fuori dalla sua portata. Spalanca la porta e si fionda in corridoio.

- Dove cazzo vai?

Patrizio frena la sua corsa e si lascia andare contro il muro. Una manciata di secondi, il tanto che basta per farsi raggiungere in quattro passi. Sorride, sfidandolo.

- Patrizio, ti prego, non fare colpi di testa – Gabriele lo afferra per la maglietta.

- So quello che faccio – sembra calmo, quella calma a intermittenza che promette stragi.

Più temibile così di quanto tira giù l’Olimpo.

- Dove vai?

- Da Alex, contento? Lo chiedo direttamente a lui, così sei contento, e siamo tutti più contenti, e ci rendiamo conto con cosa abbiamo a che fare. Io me ne sono reso conto dieci minuti fa, e credimi, avrei preferito un calcio nelle palle.

Ormai sono lì. Gabriele si stringe contro la parete. Vorrebbe restare lucido, padrone della situazione, ma Patrizio è un vulcano in piena attività e non fa che scivolargli dalle dita e trascinarlo per i capelli nel suo vicolo cieco. Bussa alla porta e attende, dondolandosi da un piede all’altro in attesa febbrile.

- Apri, Alex! Sono io – urla.

- Adesso pensa che ti sei fritto il cervello.

- Giusto. Facciamo finta di niente – gli ingiunge a denti stretti.

Il momento della verità. I cardini stridono, e Alex Thompson emerge dal buio con la grazia di uno zombie sgusciato dal sepolcro.

- Patrizio?! Che succede?

Gabriele solleva lo sguardo oltre le spalle tese di Patrizio. Il primo impulso è archiviare ciò che vede come un parto malato della sua mente, una suggestione bastarda; trascinare via il dannatissimo Patrizio Lastella – con la forza, se necessario – e costringerlo a ragionare. Lo desidera con la forza dell’ossessione.

Ma la verità è lì di fronte a lui, due occhi iniettati di sangue che spiccano sul volto cereo, residui di matita impiastricciata che gli rigano le guance. La faccia di un uomo distrutto o di uno che ha pianto fino a corrodersi le palpebre.

- Ale… – Patrizio allunga una mano verso di lui, scostandogli i capelli arruffati dal viso – Stai bene?

Thompson si stringe nelle spalle. Si è accorto della sua presenza e lo fissa, interrogativo, gli occhi verde bosco troppo grandi sulla sua faccia.

Sei in buone mani.

- Senti, scusa se ti rompo ancora, ma devo sapere una cosa.

- Eh…?

Non ha il tempo di opporsi. Patrizio lo attira a sé e lo costringe a porgergli il braccio.

- Quindi? – Thompson solleva gli occhi al cielo, sarcastico – Vuoi sapere se mi buco? Se è vero che mi taglio?

Sorpresa, Gabriele: ti sei sognato tutto! Adesso puoi tornartene di sopra, da bravo, e prenotarti la visita dallo specialista.

Patrizio stringe il polso di Thompson e lo esamina come uno strano reperto. Poi, a tradimento, gli tira su la manica fino al gomito.

- Ahi! Sei impazzito?! – Thompson salta su come un grillo; prova a sottrarsi a quella stretta imbarazzante divincolandosi, ma Patrizio gli ha ormai allacciato le dita intorno al polso e gli volta il palmo verso l’alto, la pelle nuda sotto il suo sguardo inquisitore. Gli occhi sgranati in un miscuglio di orrore e trionfo, annuisce verso di lui.

- Cosa ti sembra questo, Derossi? Riesci a credere ai tuoi occhi o vuoi dirmi che ti sei… che ci siamo sognati anche questo? Sembrano ustioni. Bruciature di sigaretta. Un’altra coincidenza?

- Vi siete bevuti il cervello?! – Thompson si libera con uno strattone.

- Alex – Patrizio sembra sforzarsi di mantenere la calma – Mi dici cos’è successo o facciamo notte?

Thompson distoglie lo sguardo, imbarazzato.

Brutto segno.

- È così importante? – rumina a denti stretti.

Gabriele si prende il volto tra le mani.

‘fanculo… Che ho fatto? Lui non aiuta, non collabora. È sulle spine. Nega l’evidenza e sembra terrorizzato.

Thompson sospira, spazientito. Solleva il braccio incriminato, un sorriso di plastilina dipinto in faccia.

- Lo vuoi proprio sapere, Lastella? Mi sono bruciato con la piastra. La piastra, hai presente? – ridacchia: una risata forzata con un suono di campane a morto – Non sono così checca come pensano tutti, non sono pratico di cose da ragazzina… Ecco il risultato. E, per la cronaca, non sono pazzo né autolesionista!

Patrizio solleva gli occhi al cielo, scettico. Osserva Thompson – lo sguardo fisso a terra – come a voler strappare il resoconto completo dalla superficie dei suoi occhi. Alla fine scuote il capo e si lascia andare a una risata liberatoria.

- Sì, come no! E io devo crederci! Perché non provate a fare amicizia, voi due? – gracchia, guizzando con lo sguardo su di lui e poi di nuovo su Thompson, che ha ripreso a tormentarsi le dita – Due coglioni patentati! Alex, ti voglio bene, davvero, ma sei un fottuto masochista. Non risolvi niente, sai, se fingi che il problema non esista. La stai affrontando nel modo più idiota.

- Menare pugni e fare supposizioni a cazzo non mi pare meglio – azzarda Thompson, un filo sarcastico.

- Via! – Patrizio scuote le spalle come se la stanza fosse troppo piccola per potersi muovere – Pensi che sia così stupido da credere alla favoletta che ti sei inventato in tre secondi? Ho capito gli andazzi, e la cosa, se permetti, ora riguarda me e loro.

Si passa una mano tra i capelli, nervoso. E schizza verso la porta.

- Lastella, cosa vuoi fare? – Gabriele scatta.

- Niente più di… questo.

Patrizio getta il mozzicone spento in mezzo al corridoio e lo maciulla sotto la scarpa.

- Fai conto che questo sia Basile… e avrai un’idea di quello che sto per fare.

Ha detto la parola magica: Basile. Il volto di Thompson sbianca di un paio di toni.

- Patrizio, no, ti prego! – urla, lanciandosi fuori dalla porta.

Gabriele trasalisce. È la prima volta che lo sente gridare in tutta la sua estensione di voce, deciso almeno quanto lui a troncare sul nascere una reazione a catena.

- Patrizio, non fare stronzate! Vieni qua, ti prego – la voce si spezza in un mugolio implorante – Tu mi vuoi nella merda. Mi vuoi nella merda totale! Lo sai cosa stai facendo? – biascica – No!

In un lampo lo raggiunge e lo arpiona intorno alla vita con le mani malferme.

- Ascoltami! – prosegue, ansimando – Basile non c’entra, non ha fatto un beneamato cazzo… non ancora. Se tu adesso vai lì e gli rinfacci cose assurde e ficchi in mezzo anche me, gli darai un valido motivo per massacrarmi. Chi ha tirato fuori questa storia, di chi è la colpa? Di Thompson, naturalmente! Sarà la volta che farà sul serio.

Patrizio scuote il capo, esibendosi in un ghigno diabolico.

- Ha già fatto tutto ciò che poteva. Con questo – sbotta, alludendo con lo sguardo alle bruciature sul braccio – Non è abbastanza? Cos’altro vuoi che faccia? Che ti mandi all’ospedale? Ti ha minacciato? Tu fai la spia, e la prossima volta prendi una doppia razione…? Invece non farà nulla, te lo giuro, dopo che ci avrò scambiato un paio di convenevoli. Il problema sei tu. Non capisco dove voglia arrivare, se sei codardo o solo imbecille. Devo decidere.

- ‘fanculo! Non ti muovere, Patrizio! Non è successo niente… L’hai visto con i tuoi occhi? No!

- Senti, tornatene di là e non rompere! – Patrizio lo strattona via come qualcosa di appiccicoso – La verità, dannato ragazzino, è che non hai rispetto di te stesso: non muovi un dito per difenderti, aspetti che si stanchino da soli. Potrebbe non essere più un mio problema, a questo punto. Ma Ivan è mio amico, mi ha promesso che non ti avrebbe sfiorato. Adesso la cosa è tra me e lui. Statene fuori tutti e due!

Patrizio si divincola, proseguendo nella sua marcia folle. Thompson si lascia andare ai piedi delle scale, artigliando il vuoto.

- Patrizio…

- Tranquillo, darling – Patrizio strizza l’occhio, beffardo, distante della sua portata.

Fuori controllo, prossimo alla sfuriata più colossale della sua vita. Perché Lastella sarà tanto caro, ma nessuno l’ha mai visto incazzato come si deve.

Thompson si infila le mani tra i capelli, il volto contratto dall’angoscia.

- Dio, sto male…

 

Silenzio. I passi furiosi di Patrizio che risuonano nella tromba delle scale, il respiro che fa tremare le pareti. La collera come energia elettrostatica fra loro. Thompson ciondola avanti e indietro come se stesse per perdere i sensi, le ginocchia inchiodate a terra.

Gabriele si china su di lui, una morsa ormai familiare che gli stritola lo stomaco.

Adesso siamo in due.

In silenzio, allunga una mano e lo tira su di peso, un mucchietto informe e tremolante.

- Sei stato tu. È così? – Thompson lo osserva di sguincio, ringhiando – Dovevi andare proprio da lui?

Gabriele serra le palpebre. Sto per perdere il controllo.

- Alex, tornatene in camera, se vuoi renderti utile. Peggiori le cose.

Thompson allarga le braccia, esasperato.

- Mi spieghi da quand’è che i cazzi miei sono diventati cazzi di tutti? Da quand’è che avete più diritto di me di ficcarci il naso?

Gabriele solleva gli occhi al cielo.

Dove ce l’ha l’interruttore? Un click e via. Un esagitato in meno. Lastella sta andando a suicidarsi e questo vuole seguirlo.

- Posso ancora fermarlo?

- Temo di no. Sei andato almeno a farti medicare? – gli sussurra a bruciapelo.

- No.

- Bravo…! Adesso torni in camera e ti passi un po’ d’acqua ossigenata.

Gabriele si osserva intorno, alla ricerca degli argomenti giusti.

- Se Basile ti vede insieme a Lastella – prosegue – Si fa due conti. Quindi adesso mi fai il santo favore di sparire. Se scendo io, per te non cambia nulla. Anzi, è meglio.

- Non eviterai la mia morte – Thompson si porta una mano al volto, stropicciandosi gli occhi.

E si lascia andare a terra, schiena contro il muro.

- Va bene se resto qui? – sussurra, provocatorio.

Gabriele incrocia le braccia sul petto.

- Siete monotematici – Thompson riprende a fissarlo con quegli occhi assurdi – Tu, Nicoletti… e Lastella. Thompson, tornatene in camera, ché poi ti fanno il culo! È assurdo. Sono qui da pochi giorni e mi sembra di stare agli arresti domiciliari, e tutto perché in giro c’è uno che dice di volermi morto!

- Preferisci che Basile dia di matto perché, nella sua ottica, gli avresti aizzato addosso il suo amico?

- No – Thompson si prende il capo tra le mani – Preferirei che ve ne andaste affanculo. Tutti.

 

Troppo tardi. È sempre troppo tardi, quando le pareti da una parte e il corrimano dall’altra sembrano chiudersi in una morsa. Quando il mondo riprende a girare, e la nausea è lì in agguato. Quando i gradini, e poi il pavimento sotto i piedi, sono come sabbie mobili, come un nastro che scorre all’indietro e impiccia i tuoi passi.

Forse, se gli vomito addosso, posso fermare tutto.

Respira. Respira. Non perdere la testa.

C’è qualcuno combinato peggio di te: l’avresti pensato?

Patrizio è un turbine di collera che ti fa mangiare la polvere. Alla fine è riuscito a guadagnarsi il ring. Ha raggiunto Basile dove l’aveva lasciato, nel parchetto dietro il pub a tessere intrighi al chiaro di luna con uno dei suoi compagni di bisboccia, tra una panchina e una bottiglia di birra dimenticata ai suoi piedi.

Troppo tardi, come sempre. Quando arrivi, Patrizio gli si è già arrampicato addosso. L’ha afferrato per il colletto, dimentico dei suoi ottanta chili di muscoli e pancia da birra, e l’ha inchiodato al muro, i bracciali che gli penzolano dai polsi come disgrazie annunciate.

- Che cazzo gli hai fatto?! – abbaia.

- Lastella! Ti dà di volta il cervello? Che cazzo vuoi?

Gabriele cerca tentoni il contatto rassicurante con il palo della luce per non rovinare a terra, perché di colpo la vista si è oscurata. È tutto così… nonsense.

Stavolta no. Stavolta non te ne stai lì impalato a lottare contro il suolo che ti balla sotto i piedi, la visuale che si appanna. Stavolta intervieni, a costo di sedare la rissa vomitando sui suoi preziosi stivali di merda.

C’è solo Moro cagasotto a guardare le spalle a Basile, Moro e la sua aria di scazzo perenne da perché capitano sempre a me? Ha afferrato Patrizio per un braccio in un tentativo disperato di smorzare la sua vena omicida, ma una gomitata di chirurgica precisione allo sterno l’ha rimesso al suo posto senza complimenti.

- Stanne fuori, tu! – Patrizio gli latra a due centimetri dalla faccia – Con te mi arrangio dopo.

- Lastella, allora? A che devo tanto ardore? – Basile non ha perso il suo sorriso strafottente, la sua ironia da guarda con che razza di scemi ho a che fare, neppure con le dita di Patrizio allacciate intorno al colletto, così vicine alla gola – Dobbiamo chiamare la Neurodeliri, o pensi di farcela da solo? – ridacchia.

Pazzesco.

- Rispondi alla mia domanda! – Patrizio sibila tra i denti, le mascelle contratte.

- Che sarebbe…? – Basile tenta di scrollarselo di dosso, guadagnandosi una ginocchiata su un fianco.

Non sembra spaventato. Continua a fissarlo a occhi socchiusi, con quella calma sorniona che ostenterebbe con un bambino capriccioso.

- Cosa. Gli. Hai. Fatto – Patrizio quasi gli sputa in faccia.

- Soggetto, verbo, complemento – scandisce Basile, a labbra strette – Su’, ritenta, forse ce la fai.

- Cos’è successo stasera con Thompson? Ero stato chiaro su questo punto?

- Thompson! – Basile solleva gli occhi al cielo simulando un principio di convulsione – Ma è un’ossessione! Thompson, Thompson, Thompson! Possibile che non si parli d’altro, da quando quel deficiente è qui? Cosa vi ha fatto, vi ha stregato tutti? Non lamentarti se poi mi sta sul cazzo, eh! Torni sempre lì. Thompson! Non si può parlare d’altro.

- Cosa gli hai fatto? Cosa ti avevo detto? Di lasciarlo in pace…

- E così ho fatto – gli sibila Basile, che forse comincia ad essere a corto d’aria – Per me può crepare. Ti pare che abbia perso tempo a discuterci?

- No – Patrizio stringe fino a farsi sbiancare le nocche – Una sigaretta spenta sul braccio non va sotto la voce “discutere”.

- Oh, santo cielo! – Basile solleva una mano e tenta di divellergli le dita da sé, senza risultati – Che cazzata è questa? Io neanche fumo.

- Balle! Devo ribadire l’ovvio?

- No, davvero! Questa chi te l’ha messa in testa? – Basile solleva le sopracciglia, un lampo d’odio che guizza nelle iridi color pece – Lui, certo! È venuto a lagnarsi, a raccontarti le sue paranoie? A fare il povero agnellino incompreso, perché gli ho detto che è un merda e si è offeso, e vuole farmela pagare?

- Non ha importanza – Patrizio tiene duro. E continua a stringere.

- Lastella, adesso ti calmi, mi togli le zampe di dosso e mi racconti tutta la storia – Basile cerca di strattonarlo via, di nuovo – E mi dici chi ti ha raccontato queste stronzate.

- Fottiti! Quelle ustioni le ho viste con i miei occhi.

- Ah, certo! – Basile sghignazza, e riderebbe di più, se Patrizio non continuasse a stringere e a scuotere, sempre più vicino alla gola – Lo sai che fanno quelli come lui? Si feriscono da soli per attirare l’attenzione. Magari ci godono pure, a farsi male, e poi vanno in giro a dire che tu li hai picchiati… Quello è tutto schizzato, da’ retta a me!

- Se proprio vuoi saperlo, Thompson non ha detto nulla.

Gabriele si torce le dita, in disparte. Almeno questa è la verità. Thompson non ha confermato una virgola del suo delirio in solitaria.

Coglione.

- Chi è, allora, il mitomane che mette in giro queste cazzate?

Gabriele serra le palpebre. Un unico respiro profondo, l’aria fresca della notte che gli riempie i polmoni. Un grillo canta da qualche parte e se ne frega delle loro sindromi premestruali.

Un passo e poi l’altro, fino a rivelare la sua presenza: sembra quasi facile, così.

- Sono io il mitomane – sussurra, una punta di sarcasmo involontaria, e nel giro di un secondo ogni sguardo è per lui.

Patrizio assottiglia gli occhi, diabolico. Arrivano i nostri.

Basile lo fissa. Osserva Patrizio che lo incalza da vicino, poi di nuovo lui. E scoppia a ridere – nell’esiguo margine di movimento che può concedergli il corpo di Patrizio spalmato addosso.

- Oh, mio Dio! Derossi! In quale trip? In quale trip avresti visto tutto questo? Fammi un po’ capire, Lastella. A suffragio delle tue accuse del cazzo, tu avresti le ferite che si procura quello coi suoi amichetti emo, e la parola di un aspirapolvere umano?

- E già sono troppe coincidenze – Patrizio scopre le zanne come un leone pronto all’attacco.

Gabriele si schiarisce la gola. Ora o mai più.

- Possiamo darci una calmata… tutti? – gracchia, facendo cenno a Patrizio.

Lascialo. Possiamo fare il punto senza spargimenti di sangue.

Patrizio sbuffa, e tutto il suo corpo sembra vibrare di una sorda frustrazione. Molla la presa come se bruciasse.

Basile ricade inerme contro il muro. Boccheggia qualche istante, poi, a tradimento, afferra Patrizio per la manica scagliandolo lontano da sé, e punta su di lui a testa bassa.

- Che cazzo gli hai messo in testa, brutto tossicomane? – gli ringhia addosso.

Gabriele indietreggia.

- Non fare il finto tonto. Ho visto tutto. Ho visto e sentito – gli sussurra – Fine della commedia.

Basile soffia come un gatto e torna a concentrarsi su Patrizio.

- Lastella, non capisco! – scuote il capo – Non credi a me che sono tuo amico, che ho giurato che non avrei torto un capello al tuo emo del cazzo, per quanti pugni possa ispirarmi, ma credi alle minchiate di Derossi.

- Quindi le bruciature sul braccio di Thompson me le sono sognate? – Patrizio solleva un sopracciglio, sarcastico.

- Che faccia da culo, Basile! – lo interrompe Gabriele: ha rotto ogni freno – Primo, non tiro di coca. Secondo, ho occhi e orecchie. Terzo, non racconto balle. Speravi che la vostra bravata restasse un segreto tra voi?

- ‘fanculo! – lo interrompe Patrizio, furente – Vaffanculo, Ivan! Avevi promesso che l’avresti lasciato in pace, e io mi sono fidato! – urla, calciando una lattina vuota a pochi passi da lui – Mi hai preso per i fondelli.

- Oh, ma che avete tutti? – Basile tende le mani davanti a sé come a proteggersi da una manica di pazzi – Siete sordi, se dico che io non ho toccato nessuno?

- Balle! – Gabriele incrocia le braccia sul petto – Vi ho visto. L’avete accerchiato e minacciato. La logica del branco del cazzo. Dillo, qual è il tuo problema? Non cercare scuse.

- Volete la verità? – Basile li osserva alternativamente – Okay. Abbiamo litigato di nuovo, io e… quello là. Contenti? Se non ti ho detto nulla, Patrizio, è perché immaginavo una reazione simile: appena si parla di lui, non capisci più nulla e spari a zero. Ti piace? Ti sei innamorato?

- No – Lastella fissa il vuoto, le guance in fiamme – Mi fanno schifo i bullismi del cazzo. E mi fa male pensare che i miei amici vadano in giro a picchiare e minacciare gente.

Basile si fissa gli stivali, combattuto. Di colpo, i suoi occhi si illuminano.

- Ho un’idea: dato che non riusciamo a metterci d’accordo, perché non chiediamo direttamente a lui?

- Ad Alex? – Patrizio aggrotta le sopracciglia, circospetto.

- Ma sì. Magari, se ha un briciolo di dignità, ti dirà la stessa cosa che ti ho detto io. Che non sarà stata una discussione pacifica, ma nessuno gli ha spento addosso una fottuta sigaretta. Si rimangerà le sue cazzate. Così magari la pianti di giocare al piccolo inquisitore – conclude Basile, ghignando.

- Come se non ci abbia provato, a parlarci – Patrizio si osserva la punta delle scarpe – Ma forse qualcuno gli ha promesso che, se apre bocca, la prossima volta prende il resto.

- Non direi – incalza Basile – Con te come santo patrono, chi sarebbe così stupido?

Thompson, appunto.

- Ivan, dimmi cos’è successo questo pomeriggio o non mi muovo di qui – Patrizio lo abbranca per un braccio, perentorio.

Scruta negli occhi entrambi, come a cercare il confronto.

- Abbiamo mezzo litigato dopo l’ultima lezione, te l’ho detto. Cazzate, nulla di particolare, un banale scambio di insulti. Ha anche una lingua affilata, il tuo moccioso. Ma ti giuro che non l’ho toccato… Ci mancherebbe! – Basile ghigna, caustico – Quello è più frocio di te e Derossi messi insieme, non vorrei che si facesse qualche strana idea.

- Andiamo, dai. Accetto la sfida – Patrizio distoglie lo sguardo, arricciando il naso.

- Mi dovrai delle scuse – prosegue Basile, sibillino – Non è carino dubitare degli amici per qualche voce infondata.

- Se non fossi mio amico, se non ti dessi il beneficio del dubbio – Patrizio si tira su le maniche, nervoso – A quest’ora non parleresti. Ti contorceresti a terra.

Basile solleva gli occhi al cielo, sbuffando.

- Derossi, che cazzate gli hai messo in testa?

- Non mi sono inventato proprio niente – Gabriele quasi urla, una goccia di sudore che scorre gelida lungo la nuca: sta andando tutto a puttane, come da prassi, finirà in un nulla di fatto, e lui passerà per visionario – Ti ho visto. Stracciare la sigaretta di mano a Thompson e spegnergliela sul braccio. Ha senso chiedere conferma a lui, con te presente? L’hai talmente terrorizzato che negherebbe pure di chiamarsi… Manuel Alexander comecazzosichiama. Se in cambio gli lasciaste i coglioni in pace.

- Io dico che ci vogliono prove, per fare certe affermazioni – Basile corruga la fronte, determinato – Magari la parola del diretto interessato. Derossi, scusa, ma di te non mi fido.

- E sia – Lastella annuisce in automatico, l’angoscia che gronda e si incastra tra le ciglia.

Aggrotta le sopracciglia, scettico.

- Ci sono persone che erano con me, comunque, e ti direbbero la stessa cosa che ti ho detto io – Basile schiocca le dita – Tipo Moro: eravamo insieme.

L’interpellato solleva la testa, rigido, sul punto di svignarsela. Di confondersi nell’oscurità, tra i cespugli di rose alle sue spalle, e dileguarsi nell’ombra.

- Su, da bravo – Basile annuisce, a suo agio, allungando un braccio verso l’amico – Dato che la mia parola non gli basta, diglielo anche tu cos’è successo in quei dannatissimi cinque minuti.

Moro si ridesta dal suo torpore. Ha assistito all’assalto di Patrizio come appiattito sul fondo, la sua presenza schiacciata da urla concitate, da avvenimenti troppo veloci. Sembra sulle spine quanto basta a sprofondare, pur di non doversi prestare a manovre azzardate.

Non c’ero, ragazzi. Se c’ero, dormivo.

Uomo senza palle.

- Nulla di ciò che pensi, Lastella – sussurra senza staccare gli occhi da terra, masticando le parole – Si sono provocati a vicenda, è volata qualche parola un po’ così… Ma nessuno ha alzato le mani, te lo assicuro.

Fottuto vigliacco! Gabriele stringe i pugni per l’accesso di frustrazione, le dita che formicolano. Per un attimo vorrebbe riservare a Moro la stessa gentilezza che Lastella ha riservato a Basile, e scuoterlo fino a fargli sputare la verità sulla mezza tragedia che si è consumata a pochi passi da lui. Che faceva da palo, con quell’aria sempre in bilico tra un calo di pressione e un aristocratico distacco.

- Hai visto? – Basile spalanca gli occhi, trionfante – Uno a zero per me, amico.

- Ma grazie al cazzo! – Lastella si passa una mano tra i capelli, isterico – Ci manca solo che non vi reggiate il gioco!

- Che aspetti, allora? – Basile sghignazza – Dato che sei paranoico e non basta la nostra parola… Fatti vedere da uno bravo.

Gabriele deglutisce a fatica.

Troppo, troppo sicuro di sé, come chi ha già truccato le carte.

- Andiamo a chiedere di lui. Certo che ti sei preso una sbandata…! Salti su appena qualcuno lo nomina, oddio, mo’ lo mangiano!

- Non sono cazzi tuoi! – Lastella salta su.

- E dai, guarda che a me puoi dirlo! – Basile continua a ronzargli intorno – Non sono mica un omofobo. L’hai detto tu, che ti piace il cazzo. Avrei qualche riserva sull’oggetto dei tuoi desideri, potevi scegliertelo meglio, non capisco cosa ci trovi. Ma del resto, sono fatti tuoi.

- Ecco. Appunto – Lastella gli scocca un’occhiata inceneritrice, il volto scuro – Andiamo, prima che cambi idea e ti attacchi al muro!

- Andiamo dopo che ti sarai dato una calmata! – Basile sprofonda le mani nelle tasche, gli occhi fissi avanti a sé – Nessuno ti ha confermato niente, e per te siamo già tutti colpevoli. Ti ricordo che è la mia parola contro quella di Derossi.

- Mi spieghi, allora – Patrizio si fissa le unghie, la fronte corrugata in uno sforzo di concentrazione – Per quale motivo, stando alla tua storia, Derossi si sarebbe inventato tutto di sana pianta?

Gabriele trasalisce, una punta di fastidio a pizzicargli la spina dorsale. Parlano di lui come se non fosse lì, perfettamente in grado di intendere e di volere e pure di spaccare qualche muso. Come se del suo parere non importasse un accidente a nessuno.

- Perché sta fuori come un balcone! – uno strappo deciso, dritto al punto.

Gabriele sobbalza all’indietro, aguzza le antenne. Le mani che prudono, prudono da impazzire.

Non una parola di più.

- Prova a ripeterlo…

Trema. Quella voce che quasi fatica a riconoscere come sua, il petto che si alza e si abbassa ritmicamente, il respiro accelerato. Un tuono che promette temporale.

- Se no che fai? – lo incalza Basile, un sopracciglio inarcato.

Ti stacco i coglioni. Ecco che faccio.

Calma, Gabriele. Calma, ti supplico. Non cominciare tu, adesso. Non dopo Lastella e il suo exploit da dimenticare.

Tempo un quarto d’ora, e tutto sarà compiuto. Thompson negherà ciò che è sotto gli occhi di tutti, e tu ti mangerai le mani: hai scatenato il quarantotto per niente.

Chi può fidarsi di Derossi?

Derossi il fattone. Derossi l’antipatico. Derossi il mitomane, il visionario. Il contaballe.

Basile si avvicina, un passo dietro l’altro, spalle tese, muscoli gonfi di tensione. Gabriele solleva lo sguardo: così vicino, Basile lo supera di tutta la fronte e gli fa ombra, il torace il triplo del suo. Ma lui non ha paura. Non ha paura che gli urli addosso, che lo scaraventi a terra, che lo sfregi con una sigaretta accesa.

- Guardami in faccia – gli soffia – Guardami in faccia e negalo! A me non mi inganni. Potrei contarti i capelli in testa solo basandomi sul mio ricordo.

- Chissà cos’hai visto, tu! – Basile si affretta a sganciarsi dalla presa dei suoi occhi – Eri fumato, vero?

Gabriele serra le mascelle, lo sguardo vitreo. Ammaccare la sua corazza di boria con un pugno ben assestato sarebbe una scarica di adrenalina in piena regola. Non metterebbe a posto niente, ma i nervi ringrazierebbero.

A interrompere il suo rimescolio, Patrizio si avvicina e gli posa una mano sulla spalla, accennando un leggero strofinio.

- Gabriele, ti prego. Va tutto bene.

Detto da te, suona strano. Tu chiedi autocontrollo a me? Tu che l’avresti affettato fino a tre secondi fa. Che l’hai attaccato al muro ed eri pronto all’esplosione.

Gabriele soffoca una risata. Patrizio continua a strofinargli la spalla, la pressione che sfuma in una carezza.

- Saliamo, dai.

Basile sguscia via dal suo campo visivo e si lancia a testa bassa verso la porta sul retro. Moro sospira sconsolato, ma alla fine è sempre lì che annusa in sangue nell’aria, deciso a godersi l’epilogo col botto.

Vi saltate addosso per un niente, vi cavereste gli occhi a vicenda, ma alla fine siete tutti lì ad assicurarvi un posto in prima fila.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 41
*** Capitolo 41 - La mia parola contro la tua ***


Capitolo 41

La mia parola contro la tua

 

 

Serata morta.

Hai bighellonato tra il corridoio e il bancone del pub senza una meta, la celebre gonna stracciata appesa ai fianchi come un vezzo singolare. Un’aura di intangibilità che ti circonda, mentre ti fai strada verso la cassa.

Che diavolo avevo preso? Una media. Che ho lasciato lì a riscaldarsi nel boccale, finché la sola vista non ha iniziato a darmi la nausea.

Sembrava la serata giusta per cambiare il mondo – magari cominciando da un’innocente minigonna nera ridotta a straccio per la polvere –, ma si è sputtanata troppo in fretta.

Loria ha fatto il botto. Di nuovo. Ha ridotto Isa all’impotenza. Isa Cortesi che spadroneggiava. Ha alzato la voce contro i bulli del cazzo, zittendoli con due occhi da gorgone.

Nessuna mossa è passata inosservata, da quando Loria ha alzato lo sguardo su di loro e li ha visti e classificati per quello che sono: un’accozzaglia di poveracci che si fanno forza dandosi di gomito, additando gli altri e ridendo delle loro presunte sfighe.

Sembrava la serata perfetta: Isa è tornata sotto coperta, i suoi compari di merende al seguito.

Ha cominciato a girare male quando hai incrociato Andrea sulle scale, il volto pallido e gli occhi gonfi.

 

Va tutto bene, Andre?

 

Ne parliamo domani. Scusami, davvero.

 

Ti ha lasciato così, con un campanello d’allarme nella testa. La depressione post-due di picche sta assumendo toni inquietanti. A meno che Gabriele non faccia al più presto uno sforzo e accenda il cervello.

Di Lastella gemello etero, manco l’ombra – eppure eri partita carica, ed è da stamattina che aspetti l’incontro casuale che ti sistemi la giornata, che ti regali il brivido dell’imprevisto, qualcosa che valga la pena. Invece ha fatto l’uccel di bosco per l’intera giornata. E ora di certo sarà lontano da lì, con la sua donna, in altre faccende affaccendato. Hai dovuto accontentarti di Miss Cortesi-Otello-mi-fa-una-pippa e il suo orgoglio ferito.

Perfetto. Però attenta, perché più cerchi il fuoco, più desideri scaldarti, più rischi di finire bruciata, e un’innocente aspirazione diventa acido.

Le ipotesi praticabili per concludere la giornata con dignità sono due: tagliarsi le vene o andare a dormire. Ci hai pensato su mentre mandavi giù di malavoglia le ultime tre dita di birra, fingendo che non fosse completamente andata.

Vada per la seconda. Perché la solitudine è un abito cui dopo un po’ ci si fa il callo. Vent’anni per farci l’abitudine non sono da sottovalutare, perché poi inizia a non vestire più così stretto: il segreto è prendere le misure, fingere che non tiri troppo sui fianchi e, una volta dentro, ancheggiarci a dovere mantenendo l’equilibrio. Succede che dopo un po’ ti affezioni e non riesci a stare bene con nient’altro. Può andare, finché non si hanno altre chance e il fardello non pesa troppo.

 

Il corridoio del secondo piano al buio è un terno al lotto, quando la vista si impiccia nei pensieri più ingarbugliati, e i piedi vanno per conto loro. Succede che quasi gli inciampa addosso.

Ma porc…

Lo vede all’ultimo momento, immerso nella sua pozzanghera d’ombra. Troppo tardi. Tenta di recuperare l’equilibrio allargando le braccia, ma ormai si è sbilanciata e barcolla su passi malfermi. Finché la sua mano non la afferra per il polso, impedendole di rovinare a terra ed evitandole così una collisione dolorosa per entrambi.

Allora salvarmi in corner è diventato un vizio, Thompson.

È lì, raggomitolato in corridoio a pochi passi da quella che dev’essere la sua stanza, schiena contro il muro e gambe incrociate. Sembra lì per lei, perché stasera niente Andrea, niente Lastella; Gabriele, figurarsi: intavolare un discorso con lui, dopo quello che è successo, è l’ultimo pensiero che le sfiora la mente. Perché ci girerebbero intorno e tornerebbero lì.

- Scusa…!

Quei momenti di estemporaneo imbarazzo in cui le parole incespicano tra i denti e le voci si sovrappongono.

Okay. Calma. Non è successo niente. Il minimo sindacale. Giusto il battito un po’ accelerato.

- E tu che ci fai qui? Ti hanno sfrattato?

- No – Alex scuote il capo e sorride – Aspetto il giudizio universale.

Elena tace, lo sguardo che scivola fino alla punta delle scarpe e si incastra negli interstizi tra le mattonelle. Guadagna tempo deglutendo nervosismo in eccesso e attende il momento in cui la lingua inizia ad andare per conto proprio.

Piacere, sono quella di prima, la pazza della scenata di metà pomeriggio. Isa e quanto segue, gli insulti alla cazzo… Ricordi? Se non ricordi, credimi, non perdi niente.

Stavolta forse basterà ignorare il problema ed evitare il discorso, perché non è mai una buona idea rimestare nel fango e, per rimediare alla figuraccia, continuare a girarci intorno. Eppure c’è qualcosa che spinge per riallacciarsi al filo proibito.

Alex sospira, le mani intrecciate l’una nell’altra. Elena fatica quasi a indovinarne i contorni. Si schiarisce la voce. Perché è meglio togliere ogni riguardo e chiarirglielo subito, che è finito in una gabbia di matti. Non creare illusioni. Perché questa non è l’eccezione: è la regola.

- Ti sei ripreso dalla brutta scoperta? Sai, non siamo sempre così – mette le mani avanti, una risatina inconsapevole che le affiora tra le labbra – Siamo semplicemente peggio.

E lui, a sorpresa, ride.

- Perfetto – sussurra con voce morbida – Quindi mi stai dicendo che quella… Isa non è il peggio che si può incontrare?

Beh, trovare si trova. Il peggio. Riccardi che rivendica il suo diritto di tormentare Andrea in nome del proprio odio verso chi non è eterosessuale, per dirne una. O Basile Cavallopazzo che si atteggia a padrino. Questo è decisamente peggio. Basta scavare.

- Siamo così tremendi? – incalza lei.

Masochista.

- No, niente affatto – risponde Alex, lo sguardo stranamente dolce – C’è Lastella che non è male. E anche Elena.

E lei sorride d’istinto – ringrazia la sua nicchia di provvidenziale oscurità.

Non sa cos’è, è tipo un guizzo improvviso lungo la schiena, ma la sua voce è una carezza lenta che sa di miele. È… piacevole. È il modo in cui plana sul suo nome e se lo rigira in punta di lingua, sorvolando sulla seconda e, vocale indistinta appena percettibile.

E come ogni cosa bella se ne vola via.

Il primo errore che dissipa quell’atmosfera vagamente onirica, è la luce biancastra che balena all’improvviso sopra le loro teste, illuminando a giorno il corridoio e scaraventandoli faccia a faccia, occhi verdi e occhi neri a guardarsi dentro e qualche pennellata di rosso superflua sulle guance.

Il secondo errore è lo sfortunato tempismo con cui Alex solleva la mano e si scosta i capelli dal viso. La manica curiosamente arrotolata sul gomito a scoprire ettari di pelle alabastrina.

- Alex?

- Uh…?

- Che hai fatto al braccio?

E lui, semplicemente, ammutolisce. Lo sguardo fisso dinnanzi a sé come se sperasse almeno per un attimo di leggere la risposta sul giallo colera della parete.

Elena spalanca gli occhi. Non si è resa conto fino a quel momento dell’impronta angosciata dietro il sorriso in superficie. Forse non l’aveva visto bene in faccia, forse è la sua voce, così bella e musicale mentre squarcia la penombra, che trae in inganno.

Il terzo errore di quella serata che muore, lo scalpiccio di passi che inghiotte il corridoio.

Fine del gioco, ragazzi.

L’oscura delegazione che avanza. Una schiera di fantasmi le suonerebbe più rassicurante. Marciano impettiti su per le scale e poi lungo il corridoio, verso di loro, trascinandosi dietro una nube di silenzio, una cappa soverchiante foriera di disastri.

Da quando il silenzio fa tanto rumore?

Il primo che riesce a distinguere, in testa alla spedizione, è Ivan Basile. Vecchia conoscenza di Thompson, pazienza sua. Punta verso di loro come uno sparviero e adocchia la sua preda succulenta.

Elena deglutisce a fatica. Impossibile non riconoscerlo. Lo sguardo sicuro ai limiti della strafottenza, il modo di camminare, il tentativo assurdo di occupare tutto lo spazio, di calamitare ogni sguardo con la sua presenza, fateve largo. Io esisto, voi non so. Non lo sa. Non lo sa, ma non le piace. C’è qualcosa di imprevedibile, di troppo volitivo in quel sorriso impenetrabile, e in quel modo di avanzare solenne, misurato, come a maturare lo scatto imminente. Visto da vicino ricorda il ritratto stilizzato del demonio, barba a punta e capelli tirati indietro a scoprire l’attaccatura a M. Se Alex non le avesse contagiato l’ansia, rigido come un palo al suo fianco, l’inedita associazione di idee le solleticherebbe una risata liberatoria. Ma non è saggio mostrare il fianco.

Dietro Basile, Patrizio Lastella incrocia le braccia sul petto e strizza le palpebre, un lampo di collera che non ha mai visto sul volto di suo fratello. Patrizio Lastella ti scocca sguardi omicidi: Luca Lastella si farebbe in quattro per fare da paciere. Gabriele lo agguanta per l’avambraccio, costringendolo a rallentare. Si scambiano uno sguardo complice e scuotono la testa con rassegnazione.

Gabriele?! Cosa fa con loro? In quale casino si è infognato stavolta?

Non è tempo per domande sciocche, perché Thompson si lascia andare contro la parete, il volto coperto da un madore freddo.

- Oh, merda! – esala, un attimo prima di afferrarle il polso e stringere come se ne andasse della sua vita.

Forse cerca un appiglio, le dita che le segano la carne, e stavolta non ci sono anelli di metallo che tengano: è tutto un ghiaccio uniforme.

- Alex, mi fai male…!

Lui allenta la presa di qualche millimetro e concentra la sua attenzione di fronte a sé. Basile incalza verso di lui, gli stivali che, per uno strano gioco di percezioni, risuonano contro il pavimento come martelli.

- Uh, mister Thompson! – tuba, ghignando – Capitiamo a proposito. C’è il nostro amico Patrizio che ha bisogno di schiarirsi le idee.

Elena trasalisce. Non è una domanda retorica, è un ordine mascherato. Lui non è uno che si accontenta del tono perenne da presa per il culo, come se il mondo fosse un’eterna casa delle beffe, e lei ha conosciuto una sola persona con lo stesso sprezzo noncurante di ciò che la circonda: Sara Vallone.

Uno come lui deve allungare le mani e lasciare l’impronta, toccarle, muoverle, le sue marionette. Ma Thompson è troppo veloce; si scosta di scatto, il volto orripilato, eludendo all’ultimo il tentativo di Basile di arruffargli i capelli.

- Che cosa vuoi ancora? – gli sibila.

- Oh, scuuuuusa! – Basile ridacchia – Non pensavo di interrompere qualcosa di importante. Vedo che sei in dolce compagnia. Beh, pazienza!

Indugia ancora un po’ su di lui, assaporando la sua angoscia, e poi passa a lei. E la radiografa con lo sguardo. Elena indietreggia, arricciando le labbra. La sensazione immediata di quelle iridi puntate addosso è di due olive immerse nell’olio, un’impronta viscida che le cola sulla pelle.

Basile termina il suo esame e schiocca la lingua.

- Bene, ti sei trovato un’amichetta… Loria, giusto? Forse è alla tua portata. Prima però dovresti spiegare tu al tuo amico Patrizio come sono andate le cose questo pomeriggio, dato che a me non mi crede. Cos’hai fatto al braccio? Diglielo tu, e facciamola finita.

Alex avvampa, passando dal bianco cereo al fucsia intenso in un batter di ciglia. E finalmente molla la presa, consentendole di staccare la schiena dal muro e muovere qualche passo incerto. Il primo impulso è prendere le distanze. Il secondo è urlare. Interrompere quegli strani ménage.

Ma nessuno sembra interessato a lei. È solo il terzo incomodo, la variabile impazzita, il pubblico che nessuno aveva messo in conto.

- Alex – Lastella si fa avanti, il volto tirato come se qualcuno sia sul punto di confessare il delitto impronunciabile – Di’ la verità. Cos’hai fatto al braccio?

Thompson distoglie lo sguardo. Barcolla, tanto che Lastella è costretto a lanciarsi su di lui e afferrarlo per le spalle.

- Ehi, va tutto bene – gli sussurra a due millimetri dall’orecchio, non abbastanza sottovoce perché lei possa sentirlo – Ti prego

- Allora? – Basile tamburella nervosamente col piede – Cos’hai fatto al braccio? Diglielo anche tu, da bravo.

- Mi sono bruciato con la piastra – Thompson sputa le parole controvoglia – Adesso dormirai tranquillo? – soggiunge, le labbra incurvate in un sorriso tirato.

Ma lei lo vede. Lo sguardo che guizza, che si arrampica sulle crepe dell’intonaco, le lacrime che tremano sulle ciglia, le mascelle contratte. È furioso, è sulle spine.

- Vedi? – Basile allunga una pacca sulla spalla di Lastella, pungolandolo con voce flautata – Pas de problémes. Certo che ve ne fate di paranoie, tu e Derossi…!

- Che è successo stasera, Alex? – Lastella insiste; lascia scivolare le braccia lungo i fianchi, i pugni contratti dalla tensione – Ti prego, parla.

- È un terzo grado, per caso? – Thompson scuote il capo, infastidito, e cerca scampo verso camera sua a passi spediti – Io ho un alibi di ferro. Ditemi chi è morto, e facciamola finita.

Tu, forse?

- È successo che sono volate parole poco simpatiche, ecco cos’è successo – risponde Basile al suo posto, macinando nel giro di pochi secondi i tre metri scarsi che li separano – Qualcuno ha pensato male, ma poi ci siamo chiariti. Vero, Thompson?

E allunga la mano, calandogliela sulla spalla e voltandolo verso di sé come un fantoccio.

- Guardami in faccia, però. Te lo ha mai detto nessuno che sei anche simpatico… quando ti impegni?

- Tieni giù le mani! – Patrizio afferra Basile per un braccio, la mano ferma – Non toccarlo, lascialo parlare!

- Che maniere, Lastella! – esclama Basile, modellando il volto in un’espressione finto-scandalizzata – Mica te lo sciupo! Non ho i tuoi stessi gusti… per fortuna! – conclude, mollando Thompson al suo destino.

- Io non ho un cazzo da dire – Thompson si morde il labbro, guardandoli di sguincio – Siete uno stress con le braccia e le gambe!

Peccato per le palpebre in fiamme. Peccato per il tremore che lo rende malfermo, per la sua cera che peggiora ogni secondo che passa.

Peccato per il suo sesto senso, impietoso nel suggerirle che anche Thompson gioca al gioco di qualcun altro. E nemmeno a proprio vantaggio.

Alex, che succede? Vorrei saperlo, dove sta la verità. Da spettatrice scema che continua a non capire un cazzo. Così, per gradire. Per vedere se posso fare qualcosa, a parte stare qui e guardarti mentre barcolli sull’orlo della crisi di panico.

Invece no. Osserva di sguincio Basile e Lastella, masticando un impercettibile vaffanculo, e si chiude la porta alle spalle.

Gabriele si osserva intorno, stordito. Ogni sguardo è su di lui, sul tassello mancante. Lastella si caccia le mani in tasca in un moto di frustrazione; osserva Gabriele e sospira. Basile fissa negli occhi entrambi, un sorriso di trionfo da un orecchio all’altro.

- Visto, Derossi? Falso allarme – lo motteggia – Hai fomentato gli istinti viuuulenti di Lastella e mosso un casino per niente. Non sarai un po’ mitomane? Meno male che mister Thompson è un ragazzino saggio e ci scioglie dal dubbio.

Gabriele digrigna i denti, il nervoso che sale a ondate. Quasi avesse realizzato solo in quel momento che les jeux sont faits ed è meglio levare le tende.

Cos’è successo, Gabriele? Cosa c’entri in questa storia?

- Sono d’accordo con lui, sai – Gabriele osserva Basile dritto negli occhi, ammiccando – Su una cosa: che dovete andarvene affanculo – ringhia, prima di girare sui tacchi.

- E chi ti si fila? Una rottura in meno – Basile schiocca le dita e porta l’attenzione su di lei.

Si profonde in un inchino ridicolo, squadrandola da capo a piedi.

- Bene. Signora, è stato un piacere. Addio, ragazzi, alla prossima.

Non ci contare.

Lastella continua a contare i secondi, la fronte aggrottata. Segue l’uscita teatrale di Basile con occhi assenti, poi, all’ultimo, si rammenta della sua esistenza. Se lo trova lì di fronte che si guarda intorno e ogni tanto cerca il suo sguardo e si schiarisce la voce, mentre rumina qualche idea. E lei lì, schiacciata contro la parete dal suo sguardo interrogativo, può solo attendere e fargli cenno di parlare.

Cos’altro c’è, adesso?

Niente di meno traumatico di ciò che è successo questo pomeriggio e quelli che l’hanno preceduto. È sempre lo stesso serpente che si morde la coda e torna al punto di partenza.

Patrizio le tende la mano.

Cos’hai in mente?

- Vieni, andiamo da lui. È distrutto. Prova a parlarci tu: magari a te dà ascolto.

- Scusa, ma… – lo interrompi: ora o mai più – Di cosa dovremmo parlare, se non ho la più pallida idea di cosa sia successo?

Patrizio si passa una mano sulla faccia, un sorriso rassegnato.

- Di tutto, Elena, è successo di tutto. Ti prego, entra tu. Magari con te si ammorbidisce.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 42
*** Capitolo 42 - Leccarsi le ferite ***


Capitolo 42

Leccarsi le ferite

 

 

Dentro. La stanza che la accoglie è un incubo asettico in bianco e nero, qualche macchia di disordine in una bolla d’aria poco più che impersonale.

Non hai ancora disfatto le valigie, Thompson? Curioso. Una valigia già pronta può tornare utile.

Come ci sono finita qua? A tamponare i casini di Lastella. Com’è che mi sono lasciata tirare dentro? Semplicemente, sono qui. A cercare di capirne di più. Di sciogliere qualche nodo.

Libri aperti e plichi di fogli rilegati occhieggiano dalla scrivania ridotta a un campo di battaglia, e una matita per occhi mezza consumata, impiastricciata sulla punta, rotola a terra, spinta da chissà quale forza primordiale. Ancora qualche passo. Le pieghe sul divano scolpiscono quello che forse è il luogo più usurato, più vibrante di vita, frutto di notti insonni o di chiacchiere al chiaro di luna. Muoversi là, immersa nella penombra, è come camminare su cumuli d’ovatta – dov’è l’inganno, stavolta?

Un passo di troppo, e la punta della scarpa urta la sagoma scura di un portapenne vuoto finito sul pavimento. Il clangore che segue è il filo diretto che la riconnette alla realtà. Elena sbatte le palpebre, acquistando familiarità.

E no, tranquilla, le pareti non ti si richiuderanno addosso per un respiro di troppo.

Il trucco sta nel piegarsi sulle ginocchia – ricordando solo all’ultimo di come quella mattina abbia deciso di vestirsi da donna – e raccattare il dannato portapenne, prima che qualcuno ci si giochi l’osso del collo. Ammicca di nuovo, la vista che lentamente si assuefà alla penombra.

- Ehi…

Alex respira a pochi passi da lei, una sagoma in controluce. Scuote la testa come a liberarsi di qualche pensiero troppo ingombrante, lasciando che i capelli tornino al loro posto – davanti alla faccia, a sfumare su ogni traccia di emozione. Si sfrega le palpebre come per cancellare le pieghe dell’angoscia.

- Dimentica quello che hai appena visto – sussurra, facendole il verso.

E per un attimo riesce persino a sorridere, un sorriso agrodolce che contrasta con gli occhi pesti di stanchezza.

- Bene, Alexander Thompson. Siamo in due – ad avere qualcosa da nascondere? – È già qualcosa per iniziare a fidarsi, no? – sussurra.

Non sa cosa le è passato per la testa, cos’ha mosso la sua volontà ad andargli vicino: la sua faccia da cucciolo sperduto, forse, il bisogno di qualcuno su cui contare, di una faccia che non sia ostile. O un’ancestrale, reciproca esigenza. Senza pensarci, gli tende la mano, sfidando l’impatto metallico delle sue dita coperte di anelli.

Nessuna tensione superficiale, stavolta. Solo i suoi occhi che luccicano nella penombra, le iridi scurissime contro il bianco.

- Non so…

Alex si strofina il naso con il dorso della mano, gli occhi sospettosi – ma il sorriso è intatto e luccica di una strana ironia.

- Okay – annuisce Elena – Allora comincio io. La tizia con la testa color ruggine è Isabella Cortesi.

- Bel tipo.

Elena distende le braccia davanti a sé, una pausa calcolata. In fondo non servono altro che poche dritte, per una serena sopravvivenza là dentro, nulla di più. Le dritte che tutti si sono rifiutati di dargli prima che ci cascasse con tutte e due le gambe, nel limbo dell’imprevisto.

- Se vuoi vivere tranquillo – Elena assottiglia le palpebre: bastasse questo, quando uno come Ivan Basile ti ha segnato nel suo libro nero – Non credere a una sola parola di quello che lei dice. A meno che… non sia io ad averti dato una cattiva impressione, ma a prescindere da lei.

- Niente affatto. Ma com’è che ce l’ha tanto con te? – Alex spalanca gli occhi, interrogativo.

- È una lunga storia – Elena sospira – Pensa che abbia rovinato il rapporto tra lei e il suo migliore amico. Che gliel’abbia rigirato contro o qualcosa del genere.

- Andrea Nicoletti?

- Bravo. Ma non ha importanza. Tutto quello che c’è da sapere, è che non devi crederle mai sulla parola. Tutto può essere migliore o peggiore di come lei dice, ma difficilmente sarà proprio così.

E io non sono una troia, tantomeno una troia fallita. Ma ormai della reputazione, della fama, del mostro dalle cento bocche che parla al vento, non me ne importa nulla: non quando è Isa a decidere se tu debba stare dentro o fuori dal cerchio.

- Allora è facile – Alex si passa una mano sulla faccia, pensieroso.

Elena si lascia andare sul divano e lo fissa. Accavalla le gambe.

- Secondo me ha solo preso una sbandata allucinante per Andrea e mi odia perché è convinta che abbia una storia segreta con lui – scuote il capo – Ecco. Semplificando molto.

- Ma non è così, vero? – incalza lui, aguzzando le antenne.

- No, io non ho nessuna storia – si affretta a precisare Elena, storcendo impercettibilmente il naso – Con nessuno.

Ci mancherebbe altro.

Il viso di Alex si illumina, un moto del tutto involontario.

- Mo’ tocca a te – Elena gli fa cenno con il capo – Cos’è successo con Basile?

Una verità per un’altra verità: è il prezzo da pagare.

- Oh, Basile! – Alex si lascia andare al suo fianco, una risata forzata; fissa dritto davanti a sé e scuote il capo – Ti spiego subito: Lastella si è messo in testa che Basile mi abbia picchiato, che mi abbia spento la sigaretta sul braccio. In realtà mi sono bruciato con la piastra – si passa una mano tra i capelli come a ribadire il concetto – Ma lui non ha voluto sentire ragioni ed è andato dritto a leggergli la vita. Capisci che casino? Ora, tieni conto che io con Basile ci ho parlato tre volte in tutto, e per tre volte me ne ha tirate dietro di tutti i colori; fai due più due. Patrizio non mi crede, per lui è facile: deve fare l’eroe, salvarmi dall’orco cattivo.

- Buon sangue non mente – gli soffia lei, a bruciapelo.

Il vecchio vizio di famiglia. Almeno Luca era diplomatico. Ed evitava di mettere in mezzo gli altri.

- Cosa?

- Nulla! – Elena ridacchia, scuotendo la testa – Però ci sono troppe coincidenze, ti pare? – azzarda.

- Già – Alex solleva gli occhi al cielo – Adesso glielo spieghi tu, a Lastella, che Basile avrà buoni motivi per farmi nero… e grazie a lui.

- È solo preoccupato per te, Alex. Si sta mettendo contro i suoi amici, i membri della sua band, perché ha sentito odore di bullismo e non vuole che la cosa degeneri. E non è solo una sua sensazione – incalza Elena.

- Basile è uno stronzo e mi ha rotto abbastanza – la interrompe lui, la voce che trema nell’ansia di raffazzonare in breve tempo quante più motivazioni possibili – Non dico il contrario. È uno stronzo che si comporta peggio degli stronzi. Ma non è un buon motivo per incolparlo dell’unica cosa che non ha fatto. Senti, a me di Basile non me ne frega niente, nemmeno se Patrizio lo strozzasse in questo preciso istante: il problema sarà la reazione di Basile dopo… questo! Si convincerà che ho raccontato balle per farlo litigare col suo amico. Adesso sei convinta?

No. Continui a glissare, a mentire, a mettere altre parole in mezzo. Capisco che non abbia intenzione di spiattellare i cavoli tuoi a una perfetta sconosciuta, ma dovresti imparare almeno a non raccontarle a te stesso, le balle. A prendere le contromisure.

- Non dovresti respingerlo così – gli sussurra con voce dolce – Vuole aiutarti. I suoi amici non gliela contano giusta, ha capito che ti stai mettendo nei guai.

Alex sospira, angosciato. Solleva il braccio e agita le dita come ad attirare la sua attenzione.

- Vedi queste? – solleva un sopracciglio, alludendo alle ustioni che spiccano lucide come pennellate di inchiostro, un palpitante disegno nonsense – Ti sembrano anche lontanamente bruciature di sigaretta?

- Ma che ne so! Dovresti saperlo tu, cosa ci hai fatto. Lo sa la tua testa. Fa’ vedere… se posso fare qualcosa.

- N-non è il caso – prova a obiettare con voce fioca, ma lei non lo ascolta.

Preferisce tacere, mentre gli esamina il braccio ferito. Solleva lo sguardo, chiedendogli il consenso.

Alex spalanca gli occhi, disorientato, quando le sue dita volano verso l’interruttore, illuminando a giorno la stanza e ridefinendo i contorni. Così è tutto più nitido, le distanze si accorciano, l’aria diventa tiepida e vibra tra loro. Il sangue affiora sulle gote di Alex come una marea improvvisa. Gli occhi bassi. Così sembra meno bello, con quella luce giallo ocra sparata in faccia che gratta impietosa sulla leggera irregolarità dei lineamenti, sugli occhi cerchiati, appesantiti dall’alone di trucco sbavato e dalle pieghe della stanchezza. Elena china di nuovo lo sguardo, attirato verso il basso come da una calamita. Le bruciature sul braccio spiccano chiare come una condanna.

- Lascia fare a me. Queste vanno medicate, altroché – e si alza in piedi, risoluta.

Il bagno in fondo alla stanza la accoglie con il suo corollario di impronte casuali, quando vi si addentra per riesumare dall’armadietto dei medicinali garze, cotone e acqua ossigenata. Poche tracce e confuse, un flacone di deodorante lasciato aperto e ditate sullo specchio. Si è infilata nella sua stanza e nella sua vita come una ladra o un’impicciona, solo adesso se ne rende conto, ma è tutto uno strusciare involontario, una molla che oscilla fino a trovare il suo punto di equilibrio.

- Fa male? – gli sussurra, fissando lo sguardo nel suo, sulle sopracciglia che si contraggono in una piega appena percettibile, mentre indugia incerta sulla pelle del braccio variamente segnata e scorticata.

- Non preoccuparti – risponde lui, una mano che corre a strofinare gli occhi – Va tutto bene.

Forse.

- Aspetta, te lo fascio… così. Almeno per stanotte, così eviti di sfregarlo contro i vestiti.

- Grazie, Elena – di nuovo quelle note di imbarazzo che salgono – Posso offrirti qualcosa da bere?

Una grappa, grazie. Per affrontare serenamente questa notte e dormire come un sasso, senza pensieri.

- Non è necessario.

- Dai…

- Uhm… Un bicchiere d’acqua andrà bene.

Così ci schiariamo le idee.

Lui accenna al solito mezzo sorriso e si dirige verso il minuscolo frigo da camera.

E i minuti che vi restano, semplicemente trascorrono.

 

* * *

 

Vuoi che resti? Dimmi di sì, ti prego. Sembri sconvolto. Lasciami entrare.

Patrizio si osserva intorno, nervoso. Neppure Loria è riuscita a cavare fuori qualcosa in più dal labirinto del suo cervello. Eppure ci metterebbe la mano sul fuoco, che Thompson abbia un debole per lei. Sospira: la osserva mentre, alla cieca, si riannoda i capelli biondi in un semiraccolto approssimativo.

Elena Loria, l’amica di Andrea. La Elena Loria per cui suo fratello, ai tempi, si prese una sbandata ai limiti del patologico. Non è una che ti scordi facilmente: ha qualcosa che lascia la cicatrice, che ti si incastra sottopelle, qualcosa di corrosivo: forse quegli occhi enormi tagliati a gatto, il nero della pupilla appena visibile dentro le iridi; forse il suo caracollare qua e là, ficcare il naso ovunque, distratta, senza farsi contaminare e nemmeno sfiorare.

Pazzesco.

A quanto pare, neppure lei è riuscita a strappargli la confessione.

- Vai già via? – le sussurra, osservandola dall’alto.

Sembra piccina, da una particolare prospettiva. E lui non è un intenditore di bellezza femminile, non ne ha mai subito il fascino, ma Loria è tutto sommato ordinaria – tranne per quegli occhi e per un certo nonsoché nel suo scivolare sinuoso passo dopo passo. Si lascia guardare, okay. Carina, volendo, ma non la bellezza per cui ti butteresti dall’Empire State Building.

Cosa ci vedeva Luca? Tanto da essergli passato per l’anticamera del cervello, almeno un istante in vita sua, di mandare tutto all’aria per lei. È come Andrea: ti entra nel cuore come un tarlo, fino a ridurti a un fantasma.

Elena annuisce, appuntandosi i capelli dietro l’orecchio.

Patrizio sorride. Allunga una mano verso di lei, afferra una ciocca tra le dita e ne inspira il profumo – shampoo all’aloe o qualcosa di simile, e una specie di retrogusto speziato.

- Però… – le sussurra – Forse ho capito perché mio fratello era tanto preso da te.

- Piantala! – Elena scatta sulla difensiva, sfuggendogli via come un fluido.

L’impronta acidula della voce starebbe a dire che forse se l’è presa. Il sorriso sardonico che le increspa le labbra un secondo dopo, gli lascia presagire il meglio. Ride di lui.

Non è troppo diverso dall’avere a che fare con Andrea: è sempre un affermare e negare, asserire e ritrattare, giocare da illusionista e lasciar sfumare le percezioni. Sorride mentre vibra il colpo letale. E lui non ci aveva mai fatto caso.

- Quindi… resti? – gli domanda a bruciapelo, la mano che cala sulla maniglia.

Indugia sul limitare della porta.

- Sì, io resto – risponde Patrizio, roteando lo sguardo e alludendo ad Alex – Lo vedo male.

- Strano. Sembrava tranquillo fino a poco fa.

- Perché c’eri tu – demonietto – Non vorrei dire una cazzata, ma per me non lo lasci indifferente.

Questo è un bel colpo. Se solo lei non seguitasse a farsi scivolare tutto addosso, impermeabile.

- Macché! Mi ha dato la sua versione, quella ufficiosa da portare avanti fino a farsi venire i capelli bianchi. Non so, ma non me la sono bevuta – Elena scrolla le spalle – Comunque è meglio che rimani con lui. Prova a parlarci, fallo ragionare. Conquista la sua fiducia.

È una parola!

- Io comunque vado, eh. Fate da bravi.

- Buonanotte.

Patrizio torna dentro. Curvo sul tavolinetto del soggiorno, Alex armeggia con un bicchiere d’acqua e un contagocce.

- Adesso che fai?

Lui attende una manciata di secondi, concentrato sul suo lavoro.

- Non lo vedi? – spalanca gli occhi, una punta di sarcasmo, mettendogli in mano una boccetta che pare a tutti gli effetti sonnifero – Una banalissima tisana per dormire – incalza, precedendolo – Tintura madre. E tranquillo, non mi drogo: ho la faccia di uno che si droga?

- Che te ne fai – Patrizio aggrotta la fronte, stranito, rigirandosi la boccetta tra le dita – di questa roba?

- Insonnia – Alex si lascia andare sul divano e scuote le spalle – Mi aiuta.

- Qui dice “venti gocce”.

- Esattamente. E grazie a te, per poco non ho perso il conto.

- Mi sa che ce ne hai buttate un po’ più di venti – azzarda Patrizio.

- Già.

Alex annuisce in una specie di mugolio. Sbadiglia e si raggomitola sul divano, un bracciolo a fargli da cuscino.

- Senti, fa’ un po’ come ti pare – gli sussurra con la voce impastata, gli occhi chiusi – Puoi restare, se vuoi. C’è il letto, c’è la poltrona, fai tu. Buonanotte.

- Ehi! – Patrizio lo scuote dolcemente per le spalle, ridacchiando: andato prima del previsto – Non dovremmo parlare, noi due?

- Domani – gli soffia Alex, assente, tirandosi su a sedere quasi per accontentarlo – Ne parliamo domani, parliamo di tutto quello che vuoi. Promesso. Cazzo, mi gira la testa…

- Non ne avrai preso un po’ troppo? – Patrizio gli prende il volto tra le mani, dirigendolo verso di sé.

Gli occhi socchiusi, le orbite solcate di sonno, la testa che ciondola, distoglie lo sguardo.

- No – si sforza di raddrizzarsi sulle spalle, la coscienza che viene meno – Fa sempre… così. È normale, c’è scritto anche sulla confezione. Controlla, se vuoi. Scusa, ma non ce la faccio più – mugugna, e la voce si scioglie in uno sbadiglio trattenuto – a stare… sveglio.

Ondeggia ancora un po’, prima di lasciarsi ricadere contro la sua spalla e respirargli addosso, le labbra a pochi millimetri dalla sua pelle.

Patrizio scorre con le dita tra i suoi capelli, misurando l’attesa.

- Vieni, dai, ti accompagno a letto. Almeno ti stendi.

- Grazie, eh – sussurra Alex, trasognato; soffoca l’ennesimo sbadiglio, gli occhi lucidi – Davvero. Grazie. Tranne per Basile e per la figura di merda.

- Eh?!

- Con lei – ormai parla quasi tra sé, un mormorio appena udibile – La figura del perfetto pirla.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 43
*** Capitolo 43 - Da quando te ne sei andato via ***



Capitolo 43

Da quando te ne sei andato via

 

 

Quanti morti vuoi fare ancora, prima che la rabbia sia sazia, prima che il verme del lutto smetta di agitarsi nello stomaco? È lì e non se ne va più via.

Quante teste devono rotolare ancora, quante persone vuoi prendere e gettare di peso fuori dalla tua vita cercando di fare più male possibile, per l’unica colpa di essersi infilate tra te e lui? Quanti, prima che decida che è abbastanza?

È stato così, da quando lui è andato via. Nessuna sfumatura, nessun cedimento.

 

Isa sospira. Vorrebbe leggere la risposta dentro la sua tazzina di caffè. La superficie scura che si infrange di colpo, quando immerge il cucchiaino. Lo fissa senza entusiasmo e distoglie lo sguardo.

Riccardi ha avuto il fatto suo: quando Alessandro Alberti emette il verdetto, non ce n’è per nessuno. E stavolta il verdetto recitava, testualmente, “fuori dalle palle”.

Ne abbiamo abbastanza di te, cocco. Delle tue paranoie, dei tuoi rigurgiti omofobico-deliranti. Non siamo i fottuti bulletti che ti saltellano intorno.

Unico sintomo della singolar tenzone dell’altra sera, il graffio che spicca nitido sullo zigomo destro di Alessandro. Riccardi e i suoi anelli da tamarro. Hanno battuto duro. Solo che ad Alberti non la si fa: due parole dette come si deve e qualche sorriso al vetriolo sono peggio di una colata di cemento. L’ha ridotto a una cimice e non se n’è pentito per un istante. Tutto per lei, tutto grazie a lui.

E uno. Chi è il prossimo?

Sorride Isa, un ghignetto satanico che le contrae la guancia sinistra. Soltanto un secondo. Perché, da quando Andrea se n’è andato via, da quando si è liberato di lei, nulla è stato più tale da meritarsi un sorriso degno di questo nome. Solo risatine di circostanza, veleno e frasi spezzate. E il desiderio alienante di strapparsi di dosso una pelle che le va stretta – è forse così che si sentiva lui, prima della muta? Costretto a ballare una musica che neppure aveva scelto, circondato su quattro lati da gente putrida e un chiacchiericcio assordante che gli dava la nausea?

- Riccardi è fuori dai coglioni – Alessandro le scocca un sorriso smagliante – Non ne sentirò la mancanza.

- Puoi dirlo…! – di fronte a lei, Giulia si gira e rigira il suo cappuccino con doppia panna.

Bugiarda. Ti andava bene pure il troglodita, purché tenesse bordone alle tue cazzate, purché scherzasse con te a inventare la perifrasi più contorta per dire “frocio”.

Non ti è mai andata giù, che Andrea ti abbia scartato senza farti passare dal via.

Patetica.

Isa si osserva intorno, il bar semideserto. Domenica mattina, chi è il masochista che ha voglia di alzare le terga di buon’ora e parcheggiarsi al bar là sotto a masticare acido residuo? Chi, tra i pochi che sono rimasti appesi lassù a fare la muffa?

Con un sospiro seccato, Isa si sistema sulla poltroncina, le gambe allungate davanti a sé e i gomiti puntati sui braccioli. Sorride a chi la guarda male, a chi la trafigge con occhiate allibite. Isa Cortesi, l’ape regina: brillante, ineffabile, temuta e rispettata, stuoli di maschi che le muoiono dietro. Poi succede che perde il controllo, cerca di pestare Loria in corridoio, la copre di insulti e le strappa quello straccetto da sgualdrina. Anche lei ha il suo lato trash: ebbene sì. Anche lei è umana.

Allora è vero: c’è di mezzo un ragazzo.

Giulia ha colto al volo il nuovo passatempo à la page della mattinata e la fulmina con uno sguardo tra il biasimo e il rimprovero. Mancava giusto lei, dopo Alessandro e le sue paternali. Peccato che ciò che è disposta ad accettare dal suo fidanzato, seppure con qualche rimbrotto e qualche “fanculo” accessorio, non lo accetta da una sciacquetta qualunque. Dalla cretina che ha avuto la possibilità di allungare mani e piedi su Andrea e l’ha fatto fuggire come una lepre.

- Isa, proprio tu! Cosa ti sei pippata l’altro giorno? – non si prende manco la briga di sollevare lo sguardo dal concentrato di colesterolo che le trabocca dalla tazza – Affrontare Loria così, davanti a tutti! Non l’avevi capito, che quella la sa lunga? È ciò che voleva: la gioia di averti fregato. E tu ti sei sputtanata di fronte a tutti.

Isa assottiglia le palpebre, nervosa. Giulia inarca le sopracciglia, compiaciuta, e si passa le dita in mezzo alla frangia nella pallida imitazione di una vamp. Un tic assurdo, lei e la sua frangetta insopportabile. Sta’ un po’ zitta, mascellona!

E poi, vista così, di primo mattino, coi capelli tirati su e tutti i postumi di una notte da sballo, non è esattamente una bellezza. Ha tette e culo notevoli, ma di faccia è proprio bruttina, eh! Con quei capelli giallini e plasticosi che fanno a pugni con l’incarnato, e quell’odioso sorrisetto saccente che le indurisce i lineamenti.

- Ho già fatto ammenda per i miei peccati, sai? Avevo bevuto, ero furiosa con quella vipera – replica, ondate e ondate di acido che corrono tra le sillabe – Ha preso Andrea e l’ha rincoglionito… Non so te, al mio posto! A volte vorrei farle male. Ne sono volate di tutti i colori, okay, ma da ambo le parti. Serve altro?

- No. Ti sei solo bevuta il cervello. E sai, comincio a capire perché Andrea non ne potesse più di te, di averti lì incollata addosso – prima stoccata, cruda e diretta.

Isa reprime a fatica l’istinto di lanciarle il caffè in faccia. Si leverebbe almeno lo sfizio di far sparire dalla sua faccia quello stupido ghigno, le labbra arricciate in una smorfia come se avesse la puzza sotto il naso perenne.

Bandiera gialla. Andava bene fingerti amica, ungere e dire sempre “sì”, quando ero il ponte più immediato tra te e una scopata con lui

- Ma tu di che ti impicci?

- Oh, scusa se mi permetto! – Giulia ridacchia, girando pigramente il suo cappuccino, l’altra mano sollevata a schermarsi le labbra – Ma in questa storia penso di avercela, un po’ di voce in capitolo, perché io ci sono stata, con Andrea… al contrario di te. Lo conosco. E credimi, non potevi aspettarti nulla di meglio da un ragazzino infantile e viziato. Il suo nuovo capriccio si chiama Loria. Dopo di lei, chi lo sa…

- Dal momento che ti sei scopata Andrea – la corregge Isa con voce metallica, implacabile – Ti sei infilata nei suoi pantaloni, niente di più. Non avete avuto nessuna storia. Cerca di chiamare le cose con il loro nome, magari riusciamo a capirci. Tu non lo conosci.

- Almeno io ci sono stata insieme, non ho fatto l’amichetta appiccicosa – lo rimarca scandendo le parole, prima di sorbirsi quel che resta della sua colazione e fissarla in tralice, più interessata allo stato della coda di cavallo e al suo riflesso sulla porta a vetro – Tu manco quello. Eppure l’hai sempre avuto a portata di mano. Piaceva anche a te, è così? Nicoletti è figo, Nicoletti se lo soppesa e lo dà via con parsimonia, manco ce l’avesse d’oro. Forse è per questo che sei così… avvelenata.

Isa salta su come una molla. D’istinto, agguanta il braccio di Alessandro, accomodato al suo fianco con la faccia di chi preferirebbe spararsi a una tempia piuttosto che stare lì a sorbirsi, in qualità di spettatore semirimbambito dalla levataccia, la seconda cat-fight della sua giovane esistenza.

- Sarà che almeno io un fidanzato riesco a tenermelo? Che almeno io, con un ragazzo, riesco a instaurarci un rapporto che si basi anche su altri presupposti oltre al sesso? Che non me ne importa di provarci con tutto ciò che respira, e non sono un’insicura cronica che ha bisogno di scoparsi il primo che passa per dimostrare quanto vale…? Che non la vivo come un affronto personale, quando le cose non vanno come vorrei? – le sibila, parole come spigoli acuminati.

Niente da fare: ti ho descritta. Uno a zero per me, idiota.

Giulia spalanca le palpebre, a corto di parole. La lingua inceppata e quell’espressione detestabile da ragazzina saggia che sfuma in un bel verde collera. Allunga le braccia e la artiglia per le spalle, scuotendola.

- Che razza di stronza! Devi proprio asfaltare tutti, appena non strisciano ai tuoi piedi. Eppure ti faceva comodo infilarmi nel letto di Andrea, quando ti cagavi che fosse gay!

- Non è gay – stavolta è Alessandro a raccogliere la provocazione, rassegnato, la voce piatta come se recitasse un mantra – È bisex.

Ci mancava la precisazione…

- Ecco! – Giulia sorride, trionfante – Fatti un po’ qualche domanda, se eri così ossessionata da lui… e sei l’unica che è rimasta a bocca asciutta! Si è fatto pure Derossi, per dire! Ma non te.

- Che ne sai tu? – Isa tenta di scrollarsi le sue mani di dosso con uno strattone – Io forse riesco ad apprezzare la compagnia di qualcuno senza portarmelo a letto. Forse riesco a stabilire un normalissimo rapporto d’amicizia senza metterci in mezzo il sesso. Sarà che riesco anche a parlarci, con un ragazzo? E comunque, piano con le parole: tu e Andrea non siete mai stati insieme. L’hai quasi costretto a venire con te, stressandolo e appiccicandoti a lui come una zecca. E a giudicare da come è scappato di volata, devi avergli pure fatto schifo.

 

Quanti morti vuoi fare ancora, Isa? Quanti ancora vuoi allontanare da te, rispedire a casa con le ossa rotte, rei di non aver soddisfatto le tue aspettative e di aver precipitato la situazione nel baratro, tasselli inconsapevoli di un mosaico orrendamente deturpato?

Forse Andrea aveva ragione – e pure Loria. Sono dei poveretti.

 

- Sei una vipera! Bell’amica! Sei brava solo a rinfacciare le cose, a dare le colpe agli altri – Giulia si avvicina, le narici che fumano – Prima mi sfrutti per tenerti buono l’amichetto finocchio, per accoppiarlo con qualcuno che non rompa troppo le palle, e poi mi dai della puttana?

- Io ti avrei sfruttato?! – Isa solleva un sopracciglio – Ma ti senti? Chi avrebbe sfruttato chi? Parliamone: mi hai rotto l’anima per settimane, mi hai implorato di presentarti Andrea. Perché volevi il giocattolo, e io ero il giusto tramite. La mia amicizia ti interessava nella misura in cui poteva avvicinarti a lui. E poi ti andava bene splendere di luce riflessa: da sola non vali molto. Sei una sciacquetta gasata con la personalità di una medusa.

- Una vera fortuna, incontrare te! – le sibila in faccia Giulia, le mascelle serrate – Te l’ha mai detto nessuno che hai la mania insopportabile di manipolare le persone, di giocare con le loro aspettative? La verità è che non te ne importa un cazzo di nessuno: siamo tutti burattini utili ai tuoi scopi. Quando non rispondiamo più ai comandi, di colpo ti ricordi di quanto siamo stronzi.

- Ma senti chi parla! – Isa ridacchia.

Poi, la svolta provvidenziale che impedisce la degenerazione. Giulia molla la presa di colpo e scarta all’indietro come se la sua vicinanza le bruciasse addosso. Arriccia il naso e starnutisce con la delicatezza di un bisonte, con tanto di gridolino isterico finale.

- Vaffanculo, Isa! – strilla – Vaffanculo, tu e il tuo profumo del cazzo! Sembra benzina.

Isa si stringe nelle spalle, ignorando la sua scenata.

- Non so che farci, se hai il cervello di una termite, e il ruolo di burattina, dopotutto, ti è congeniale.

- Ehi, volete darvi una calmata? – Alessandro armeggia distrattamente con l’accendino.

Da come continua ad agitarsi e a sbuffare, deve avere una voglia matta di una boccata d’aria fresca. Possibilmente lontano da loro due che si beccano come le sorellastre di Cenerentola.

Lei e quell’oca totale. Senza offesa per i pennuti.

Come biasimarlo…

Gli occhi dei pochi avventori mattinieri sono tutti per loro – più o meno da quando Giulia ha cominciato a sbraitarle addosso con quella vocetta acuta e querula.

- Comunque – le sussurra Isa, calando il pugnale – Non sta scritto da nessuna parte che, se non riesci a farti uno, devi massacrarlo di insulti fino al giorno del giudizio. Non riesci proprio ad accettare che qualcuno non ti trovi… irresistibile? Rilassati: nessuno pende dalle tue labbra. Anche se allunghi le mani in basso e sbatti il culo in faccia a tutti, e i tuoi vestiti sono il minimo sindacale per non essere arrestata, non sono tutti tenuti a correrti dietro. Se Andrea non aveva tanta voglia di inciuciare con te, credi davvero che sia perché ha problemi di cervello, è depresso o è gay? No! Prova a ridimensionare il tuo ego. Ti sei mai vista, quanto sei brutta…?

Questo è cianuro. Conosce Giulia. E tanto fa per mandarla in tilt.

- Brutta cretina!

Giulia si alza di scatto e fa per afferrarla di nuovo. Stavolta con ferme intenzioni. Isa si stringe contro lo schienale della sedia. La osserva: ha una mole non indifferente, una Barbie formato famiglia – dannazione a lei. Ha un seno possente e due braccia enormi. La faccia rassicurante di un mastino di cattivo umore. Non è un mucchio di ossa in nero modello Loria. C’è chi uccide di lingua e chi uccide di spada.

Non ce la fa a raggiungerla, stavolta. Lo scatto di rabbia abortisce a mezz’aria, e lei resta lì, rigida, lo sguardo assente e il respiro ridotto a un soffio inarticolato. Deve starnutire di nuovo.

Stavolta non si lascia sfuggire l’occasione, Isa, un’idea malsana che le rimesta nella mente. Stavolta il tempismo non la inganna. Brandisce il cellulare davanti a sé come un’arma impropria, scorre fino alla funzione fotocamera e scatta in un baluginio di flash, una frazione di secondo prima dell’esplosione. Tre scatti, in crescendo.

Salute, sfigata.

Un primo piano di Barbie un secondo prima di starnutire con sentimento, il viso struccato, una melanzana al posto del naso e una faccia ridicola, lo vale eccome, il prezzo di una carognata in piena regola e di un cellulare sputacchiato.

Accavalla le gambe, flemmatica. Non le dà il tempo di riprendersi: le piazza la foto davanti agli occhi e sogghigna.

- Sì, hai capito cosa voglio dire. Vedi come sei arrapante? Non fare la voce grossa con me: stattene calmina e non rompere l’anima. O questa foto farà un bel giro.

Conosco i miei polli: ci metto un secondo a trasformarti da zoccola di lusso dell’Accademia a barzelletta ambulante. Basta una brutta foto e qualche battuta piazzata al momento giusto. Quindi zitta, muta. Zompa addosso a chi ti pare, ma sculetta lontano da me.

Giulia si sfrega il naso, uccidendola con lo sguardo. Stringe le labbra e annuisce, furente. Agguanta la borsa con uno strattone, una manciata di monete che rotola sul tavolo con un clangore secco. Il prezzo di un cappuccino ipercalorico in sgradita compagnia.

- Che stronza! Che irrecuperabile stronza! – ringhia, un attimo prima di abbandonare il campo in un ticchettio di tacchi a spillo alle nove di mattina – Va’ all’inferno!

Due a zero per me. Sfigata in borghese.

 

* * *

 

- Mi dici che ti ha fatto? – Alessandro cammina al suo fianco lungo il vialetto in fondo al piazzale, braccia incrociate sul petto – Almeno lei…

Devi proprio cacciare tutti, scaricarli come immondizia?

Non è mai abbastanza. Cominciare a sfilarsi uno ad uno i sassolini dalla scarpa, gli anelli stretti intorno alle dita, anelli di cui non ha mai perso il conto. Non c’è fretta: solo la smania di voltare pagina senza fare sconti di pena.

Perché, da quando Andrea se n’è andato via, da quando le ha sputato in faccia che loro non hanno più niente da dirsi, nulla è stato più degno di un sorriso, di una parola che non fosse intrisa di veleno. E allora tanto vale sfruttarle tutte, le sue chance. Tanto vale impugnare il coltello e immergerlo fino in fondo, menare alla cieca.

Che non sia l’unica a pagare un prezzo salato. Trascinare tutti in fondo al baratro e poi mollarli al loro destino, perché senza di lei e Alberti, nessuno sa brillare da solo. Sanno solo svolazzare intorno ai cadaveri come avvoltoi. Pagliacci. È un prezzo ragionevole.

Eppure eri tu che decidevi contro chi affilare i pugnali: eri la grande dea bianca, la mente ispiratrice. Il capo dei pagliacci.

Chi se ne frega. Chi se ne frega, se qualcuno ne uscirà ammaccato, ridimensionato: sono solo i tristi inizi. E lei non ha nessuna intenzione di mollare la presa, non prima di dissanguarne qualcuno.

- Io non ti capisco più.

Alessandro si ferma di botto, le mani ficcate in tasca. La durezza di una sentenza. Ma il volto è rassegnato, impenetrabile.

- Non capisco. Che bisogno c’era di sfanculare anche lei? Non bastava Riccardi? Riccardi okay, posso capire: ha rotto le palle in tutti i modi possibili, levarselo di torno è legittima difesa. Ma Giulia… pensavo foste amiche.

- È una poveraccia – lo liquida Isa, mentre pesca una sigaretta dal pacchetto.

Lo era anche Loria. Prima che si infilasse nella tua vita passando da dietro le quinte, e te la riducesse a uno scolapasta. Che te lo mettesse in quel posto alla grande.

- Possibile che non riesca a pensare a un altro individuo femminile se non come un nemico o un attrezzo per rifarti le unghie? Hai scatenato il quarantotto, quando la francese ronzava intorno ad Andrea, l’hai massacrata; poi è arrivato il turno di Loria, adesso Giulia… dove vuoi arrivare?

Ti stai sbagliando.

Isa si fissa la punta delle scarpe. Oneste scarpe da ginnastica: la mattina, niente eccentricità, niente plateau, tacchi a spillo e scollature iperboliche.

Il vero problema si chiama Andrea. Sempre lui. Ha sempre avuto un successo sfacciato con l’altro sesso: forse è quell’aria da pesce fuor d’acqua, forse chissà… Chimica. Gli correvano letteralmente dietro – pure qualche ragazzo. Interi stormi di allodole tutti per lui. Ma lui fingeva di non accorgersene.

Sembra quasi una beffa, adesso, che la persona che vuole veramente è l’unica che continua a scivolargli dalle dita.

Ma tanto c’è Loria: arriverà quando meno se l’aspetta, farà leva qua e là e rimetterà tutto a posto. Tra lui e Derossi, l’equivalente al maschile di una figa di legno: chi ha coniato l’espressione, doveva averlo ben presente nel suo concentrato di sarcasmo e asocialità. Oppure andrà a scaldargli il letto.

Sarà è l’ago della bilancia: parlerà con Derossi, metterà pace e si guadagnerà gratitudine a vita. Dannata ficcanaso.

Non vuole pensarci.

Lei. La gattamorta per eccellenza, arbitro della sua vita ad interim.

Finché non inciamperà.

Possibile che da un po’ di tempo le cadano tutti ai piedi? Possibile che sia diventata indispensabile?

- Levami una curiosità – Isa si lecca le labbra dolciastre di burrocacao alla vaniglia, un pensiero improvviso nella testa – Che ci faceva Thompson… l’altro giorno?

Il giorno della figura di merda in la minore.

Alessandro si aggiusta gli occhiali sopra il naso.

- Che domande! La stessa cosa che cercavo di fare io: impedire che vi azzuffaste lì come due cretine. Per Nicoletti, poi… roba da pazzi! L’amante di Neri, di Derossi e del ragionier Fantozzi!

- Guarda che a me di Andrea non me ne frega niente! – sbotta Isa – Perché starei con te… scusa? A me importava solo della nostra amicizia, ma Loria ha pensato bene di metterselo sotto la gonna.

- Uhm… – Alessandro annuisce, poco convinto.

- Però – Isa decide che è il momento di riannodare i fili, evitando sentieri accidentati – Il modo in cui si è messo in mezzo, a me non me la racconta giusta…

- Cosa volevi che facesse? – Alessandro si lascia andare su una panchina, spazientito – Che scommettesse sul vincitore?

- Non lo so – Isa si siede al suo fianco e accavalla le gambe, una calma ancestrale che le pervade la vista: da qualche parte andrà a parare, prima o poi, l’idea bizzarra che continua a vorticarle nella mente; persino un’intuizione di Alessandro potrebbe risultare determinante e ricucire insieme i pezzi – Mi è sembrato un po’ fuori luogo. Calcolato… non so. In fondo, scusa, cosa gliene viene in tasca? Poteva prendersi i pop-corn e godersi lo spettacolo. Invece è intervenuto. Si è buttato in mezzo. Solo lui. Cretini che accorrevano da tutte le parti, che si piantavano là tipo stoccafissi, e solo lui si fa avanti. Non voleva che toccassi Loria. Seguimi…

- Non ti seguo. Non capisco dov’è che ti fa strano.

- Sembrava che… boh, volesse fare lo splendido. Mettersi in mostra. Farsi bello agli occhi di qualcuno. E forse qualcuno ha pure abboccato.

- Loria? – Alessandro inarca un sopracciglio, scettico – Dici che se la intendono…?

- Non so, vado per tentativi – Isa abbassa il tiro – Ma secondo me, a Thompson piace Loria: sembrava cotto, la guardava come una dea. E non è la prima volta che se la mangia con gli occhi.

E gli scocca un’occhiata di traverso, sibillina.

- Mah! – Alessandro getta via il mozzicone e lo spegne con cura sotto la scarpa – Non so che pensare. Per me era gay fino all’altro giorno…!

- Ti dico di no – incalza Isa – Non era casuale. Per me la gattamorta ha fatto colpo. E stavolta il fortunato è lui – Isa sogghigna, maliziosa – Ci pensi? Con una così, va sul sicuro.

- Oh, grande! – Alessandro sorride, salottiero: è ufficialmente passato alla modalità vecchia comare – Sarebbe la genialata del secolo, sai, se suonasse un po’ meno ridicola. Scusa, l’hai visto bene Thompson? Secondo te, cosa ci fa Loria con un goticone effeminato, tutto bianco come un morto e con chiari problemi di pressione bassa? Scoparci no, è chiaro, perché quello collassa in tre secondi. Giocarci a Risico? Vabbé che, tra sfigati…

Isa si stringe nelle spalle.

La verità è che Loria non è una sfigata. È una stronza a livelli stratosferici, una troia intrigante, ma è non una sfigata. Non è la perdente che pensava – che sperava. Il grande errore.

Loria ha spaccato tutto e ora la osserva dall’alto.

Forse dovrebbe rivalutarla, smetterla di dipingerla del colore che più le fa comodo – e imparare a guardarsi le spalle da quelle come lei. Le acque chete che rovesciano i ponti. Smetterla di circondarsi di smorfiose insignificanti che pendono dalle sue labbra, e di prendersela con le ultime ruote del carro, dove le vittorie schioccano facili e prevedibili.

Dovrebbe puntare su qualcuno che ne vale la pena, sul pezzo da novanta. E Loria sì, sarebbe una sfida appetitosa. Degna di guadagnarsi il suo odio fino all’ultima briciola. Non è una Blanche qualunque, una patata bollita tutta sorrisi e moine che si lascia fare a pezzi senza colpo ferire; non è Giulia, opportunismo e pecoraggine in alternanza costante e la personalità di un portapenne, stronza con i deboli e leccaculo con i forti, che basta negarle l’appiglio per mandarla in tilt. Loria è dura. E pensare che non era nessuno, non aveva uno straccio di amico, prima che arrivassero Andrea e Gabriele. Si è ritagliata tutto da sola.

C’è Thompson, però, e lui al momento è sguarnito.

- Dio, no, aspetta! Cosa vuoi fare, adesso? Cos’è quest’idea balorda? – Alessandro salta su come un grillo: le afferra le mani e la fissa dritto negli occhi, lui e la sua dannata capacità di decifrare ogni mutamento d’espressione – Per caso vuoi vendicarti su Thompson…?

- No – Isa si alza e giochicchia con la sua borsa sportiva: la passeggiata mattutina rinfresca-neuroni l’ha stufata, tra panchine deserte e foschia che evapora all’orizzonte; e l’ha stufata Alessandro con le sue fisime e i suoi eccessi di prudenza: una volta era più reattivo, ora si limita a parlare dietro le spalle, quando nessuno lo sente, ed è di uno slavato imbarazzante – Non farò assolutamente nulla, non devo vendicarmi di nessuno: lascio che quegli idioti si infognino da soli. Ma lei, se permetti, la tengo d’occhio.

Puttanella. Perché un tallone d’Achille devi avercelo, nascosto da qualche parte: non sei d’acciaio. Stavolta sei stata furba: nessuno sbaglio, nessuna sbavatura, ogni impronta perfettamente ripulita. Ma prima o poi lo farai anche tu, il passo che ti sarà fatale.

 

* * *

 

Tre notti che ha dormito male.

La quarta, di solito, è quella in cui dai in escandescenze o ci rinunci, ti infili addosso quel che capita, cellulare e sigarette in tasca, e ti accasci su una panchina al parco a sbollire il nervoso con la luna a farti compagnia, a spiarti tra le fronde in controluce. Pace e brezza sulla pelle. Oppure ti affacci al balcone e provi a contare le stelle – sempre che se ne vedano ancora, con la notte in fase calante, la foschia e l’alone di inquinamento luminoso a macchia d’olio intorno alla città. Qualche clacson in lontananza, attutito dal brusio di una stasi soffocante, e la frenesia della città che si risveglia.

Patrizio sbuffa via l’accesso di angoscia e si passa una mano tra i capelli – scomposti e vagamente unti –, arruffandoli all’indietro. Le sette in punto e lui è già lì, i gomiti puntati contro il tavolino del bar, e Tony il cameriere che avvia la macchina del caffè e lo fissa allibito. Non è un tipo mattiniero, lui.

Il cigolio della porta che si spalanca alle sue spalle, lo strappa d’incanto dalla sua pozza nera di sconforto. Seguito dal rollio inconfondibile di ruote di metallo sul pavimento liscio. Poi lo vede.

Andrea che si osserva intorno come un uccellino, trascinandosi dietro il trolley e sbadigliando con discrezione. Ecco che si avvicina: l’ha visto, non c’è nessun altro. Punta verso di lui e si lascia andare sulla sedia libera lì di fronte, le mani impegnate a stringersi l’elastico intorno al codino. Andrea e le sue occhiaie da fantasma assassino. Un altro che ha dormito di merda.

- Ehi! – Andrea sorride e si sporge verso di lui, schioccandogli un bacio sulla tempia, casuale – Come va?

- Uhm… di cazzo – farfuglia in risposta.

Lo sai che non riesco a nasconderti nulla. A costo di sembrare scorbutico.

- Hai una faccia da funerale… Senti, – Andrea incrocia le braccia davanti a sé, risoluto – ho capito che è da un po’ che va avanti questa storia. E io, così, proprio non ti posso vedere. Si tratta di lui? – spalanca gli occhi, teatrale – Lo sai cosa si fa, in questi casi? Lo chiami e gli dici quello che gli devi dire: male che vada, quello declina l’invito, ma a quel punto tu ti metti il cuore in pace e la pianti di sbavargli dietro… E poi boh, chi si è visto si è visto. Se vuoi te lo chiamo io: la risolviamo in tre secondi.

Non dire cazzate. Vuoi farla facile, tu che ti trascini la questione Derossi dai tempi in cui Berta filava.

- Sei fuori strada – Patrizio scuote il capo e gli concede un sorrisetto tirato, condiscendente – Punto uno: se stai parlando di Thompson, non è manco qui. Punto due: ci sono ben altre persone che mi fanno rimpiangere di non essermi reincarnato in un posacenere. Credimi.

Andrea aggrotta le sopracciglia.

- Thompson non è qui?! E dove sarebbe? Non dirmi che ci ha ripensato, se l’è fatta sotto all’idea che Basile gli faccia la festa, e se l’è squagliata proprio adesso che le cose si facevano interessanti? Magari avevo ragione, sai, e non è onesto come vuole far credere. Magari un po’ di rogna ce l’ha anche lui, e mo’ che hanno fatto ricorso, per lui e la Balducci marca male. Non immagini quanto godrei…!

Andrea allunga le braccia in avanti, distendendo i muscoli. Non può farci niente: è del tutto incapace di mascherarlo, il suo lato stronzo.

- Saresti contento se Thompson fosse nei guai?! Mi spieghi che ti ha fatto quel poveretto?

- Non è per lui… anzi, per lui mi dispiacerebbe: si capisce lontano un miglio che c’è finito in mezzo senza poter fare molto. Ma per la Balducci… Lei se lo merita tutto.

- Mi spiace per te, ma non è neanche così – sbotta Patrizio, scostandosi i capelli dal viso – L’hanno praticamente sfrattato.

- Sfrattato?!

La voce di Andrea impenna qualche decibel di troppo, gli occhi scuri sgranati. Patrizio annuisce: non gliel’ha mai detto, ma adora la sfumatura calda della sua voce di buon mattino, leggermente roca. Un tempo gli avrebbe fatto schizzare gli ormoni alle stelle con molto meno, adesso non è più il caso.

- Proprio così. Piani voleva la stanza di fianco a quella di Moro per esercitarsi insieme domenica sera, quando la Casa dello Studente si svuota, e così non rompono a nessuno. Guarda caso, è proprio la stanza in cui Alex ha trovato una sistemazione provvisoria. Magari ha capito l’antifona e si è levato di torno prima che qualcuno lo convincesse con le buone

- E tu non hai fatto niente?

- L’ho saputo solo stamattina, quando il danno era fatto.

Non si è nemmeno preso la briga di avvisarmi. Coglione al cubo.

Quanto andrà ancora avanti questa storia? Quanto ha intenzione di continuare a farsi prendere a calci nelle palle senza battere ciglio?

Patrizio ringrazia il cameriere con un cenno del capo e lascia arenare lo sguardo sulla superficie intonsa del suo caffè bollente.

Depressione, portami via…

- Senti, Andre, sai per caso qualcosa che non so?

- Ma figurati! Sono arrivato adesso – Andrea si porta le braccia dietro la nuca nella bassa imitazione di un cuscino, dondolandosi contro lo schienale – Ero a prendere mia madre all’aeroporto, sono rientrato poco fa. Ne so meno di te, davvero.

- Salutami Veronica, allora. Comunque vada – Patrizio si concentra sulla bustina dello zucchero che gli scivola dalle dita e per poco non fa strike – Hanno trovato il pretesto per farlo sbattere fuori. Almeno da qui. Hanno detto che si è portato un gatto di nascosto, e sai che non è permesso… E niente, boh. Hanno sentito miagolare, ma il gatto non si trova… Andre?!

Non gli lascia il tempo di terminare la frase. Scatta in piedi, un tonfo sordo dell’anca contro il piano del tavolo – quasi di certo un livido. Tanto che solo per miracolo riesce a salvare il suo caffè afferrando la tazzina al volo.

Lo osserva. Il cellulare stretto in mano, Andrea smanetta come un pazzo, le dita che incespicano sui tasti e qualche imprecazione che raschia tra i denti.

- Andre, che succede? Andre, perché sei diventato pallido?

Cielo. Non di nuovo… Cos’è, stavolta?

Andrea caccia il cellulare in tasca, incastra le dita sul manico del trolley e schizza verso l’ascensore.

- Oh, merda! Oscar…!

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 44
*** Capitolo 44 - Oscar ***


 

Capitolo 44

Oscar

 

 

Eri proprio sicuro che i nodi non sarebbero mai arrivati al pettine?

Illuso. Ti sei sempre illuso di poterla fare in barba a tutti con quel faccino d’angelo e un po’ di savoir-faire all’improvvisata.

Ma tu credevi che l’ennesima bugia sarebbe durata. Che avresti potuto trascinare la commedia all’infinito, ingegnandoti a tamponare i tuoi disastri. Tornare lassù ogni sera e sonnecchiare sul divano con un batuffolo di pelo bianco che ti fa le fusa sulla pancia e impasta con le zampine, era una prospettiva troppo appetibile. L’unica capace di risollevarti, di farti sorridere di nuovo.

Da un certo momento, non hai più smesso di collezionare colpi di testa. Di leggerti il regolamento e buttarlo giù dalla finestra alla prima occasione. Di saltare lezioni, “tanto poi recupero, che ci volete fare, io sono un fuoriclasse”. Di rientrare tardi la sera per esserti trattenuto troppo a lungo a graffiare solchi immaginari sul piano della scrivania, mentre Neri ti lavorava in basso.

Imprevisto e trasgressione a cazzo: potrebbero diventare i dogmi che modellano la tua esistenza. Tutto alla rinfusa, tutto da buttare sul tavolo e lasciare in balia della sorte.

In gergo tecnico, è quello che si dice un comportamento da perfetti cazzoni.

Quando poi inciampi all’ultimo momento per quell’istinto masochista che ti spinge a cercartele da solo, allora non puoi cadere dalle nuvole e dire “Oh, cazzo, ma dove ho sbagliato, stavolta? Cos’ho fatto di male?”.

Puoi solo deglutire e accettare l’ennesimo cazzotto nei denti.

Avresti potuto evitartela, questa, rigare dritto e fare le cose per bene. E già la situazione era appesa a un filo.

Avresti dovuto ficcare Oscar nel trasportino e trovargli una sistemazione che non fosse la Casa dello Studente. Un minimo di senso pratico – quello che non hai mai avuto. Evitare di trascinare i problemi all’infinito, di sputtanare tutto. Troppi nemici a spiarti dal buco della serratura, ad attendere il passo falso.

Grande, Andrea!

C’era Elena. L’avrebbe preso volentieri con sé – Cipria permettendo. Potevi impacchettarlo oggi stesso e consegnarlo a tua madre.

Potevi, ma non l’hai fatto. Hai preferito cincischiare sul limitare della porta, perderti in discorsi sconclusionati, sperare nell’illuminazione dell’ultimo secondo e chiedere a Loria di restare con te. Farci l’amore: il tuo chiodo fisso. In barba a Isa, a Thompson, ad Alberti, a Fabio Neri e all’accampamento al completo.

In fondo, non si sarebbe trattato che di pochi giorni. Pochi giorni e nessuno se ne sarebbe accorto: è un micio tranquillissimo. Dorme venti ore a giornata, mangia da solo e sa usare la lettiera. Il resto sono coccole e qualche giochino. Si è innamorato dei tuoi capelli.

Ma tu a questo non hai pensato. Che un miagolio di troppo, nel cuore della notte, vi avrebbe traditi. Che qualcuno potesse usare la scoperta contro di te per farti passare un brutto quarto d’ora. E farti stringere le chiappe. Un miagolio che giunge alle orecchie sbagliate e una porta lasciata aperta inavvertitamente. O di proposito.

 

Una corsa contro il tempo, priva di una meta ben definita. L’ascensore che ondeggia, vibra e sembra impiegarci un’eternità a macinare tre piani. Primo. Secondo. Le spie che scandiscono l’angoscia in pratici volumi, il vuoto in fondo allo stomaco. Il silenzio che scivola come ghiaccio sulla schiena e qualche ansito di troppo.

Patrizio è sgattaiolato dentro l’ascensore subito dopo di lui – per poco non si è fatto chiudere in mezzo. Gli ha stracciato la valigia e ficcato in mano il suo prezioso spray per l’asma, riesumato per miracolo dai meandri della sua borsa.

- Andre… tranquillo. Non mi andrai in iperventilazione proprio adesso!

Andrea inspira profondamente e mette via la sua panacea. Si osserva intorno come un uccello in gabbia, un senso di claustrofobia incastrato tra il cuore e lo stomaco. La luce sparata in faccia gli fa girare la testa, il suo riflesso sulla parete a specchio gli fa girare le palle. Non è un bel vedere: il colorito vira sul verde-nausea, ma forse è solo un’illusione ottica.

- Ho fatto una cazzata – il verdetto.

- Ma va’? – Patrizio ridacchia, scostandogli i capelli dal viso – Fosse la prima!

- Sta’ zitto, per l’amor del cielo! Tu…! – Andrea storce il naso – Zitto! In questo momento non sei nessuno per parlare delle cazzate degli altri, sai? Tu sei il re delle teste calde!

Tu che hai quasi mandato a puttane un’amicizia sulla base di qualche sospetto. Almeno io mi rischio il culo, raccolgo un gattino dalla strada e mi faccio gli affari miei. Tu che fai? Giri ventiquattro ore su ventiquattro in cerca di lite. Degno compare di Gabriele, che prima viene a lezione fumato, facendosi sgamare in tre secondi, e poi mi dà dell’imprudente. A me!

- Regolamento del cazzo! Chi è il genio a cui può dare fastidio un gatto che sta nel cavo della mano?

- Andre, lo sapevi che non puoi portarti dietro il gatto!

Portare un gatto è sgradito, dà fastidio a Sua Maestà. Tra le tante cose che danno fastidio, allora, che ci fa Riccardi ancora qui? O Thompson e il suo sguardo da cernia che scivola sulle gambe di lei…?

- Senti, mi spieghi un po’ tutta la storia?

- Non c’è granché da spiegare – risponde Andrea, secco, tirando un sospiro di sollievo, quando la porta si spalanca davanti ai suoi occhi. Sospira.

Libertà.

- Il gatto è tuo, fin qui c’ero arrivato. Ma qualcuno ha fatto la spia e ha dato le colpe ad Alex.

- Senti, è ancora presto – lo interrompe Andrea, ignorando ogni informazione accessoria – Forse facciamo ancora in tempo. Entro in camera, prendo Oscar e me lo porto via.

- Eh, sarà una parola…! – Patrizio agguanta il trolley e lo raggiunge in un cigolio costante – Trovarlo.

- Che vuoi dire?!

- È tutta la mattina che lo cercano… Forse prima ancora. Fa’ un po’ te!

- Oh, merda! Patrizio, dov’è il mio gatto?! Cosa gli hanno fatto?

- Ecco, è qui che ti voglio… – Patrizio si fissa la punta degli stivali come se gli dispiacesse portargli una cattiva notizia – È da ore che lo cercano, ma nessuno l’ha più visto o sentito.

Andrea si prende il capo tra le mani. Questa no: è la seconda tegolata in fronte nel giro di pochi minuti. Per un attimo si sente mancare, la superficie ruvida della parete alle sue spalle e il suo impatto polveroso sulle dita, unici appigli che gli impediscano di stramazzare a terra, mentre la realtà riprende a pulsare e accelerare fino a non farsi più vedere. Boccheggia.

- Andre, stai calmo! Magari qualcuno l’ha preso e messo al sicuro… Hai controllato il cellulare? Hai provato a chiamare qualcuno? Chi sapeva di questa storia?

- Solo Elena e Gabriele.

Eppure l’avevano detto, di evitarmi queste cazzate… Di non tenerlo con me dentro un nido di serpi.

Irrecuperabile testa di cazzo! Rimanda il problema, pure quando hai la soluzione in tasca.

Dovevi trascinare la questione fino al punto di rottura. Smaniare dietro un bacio di Gabriele, corteggiarti Elena con discrezione e dimenticare tutto il resto. Tutto rimandato a data da definirsi.

Andrea gira la chiave nella serratura con dita malferme e spalanca la porta. Il tanto che basta per spingere lo sguardo dentro la stanza. La porta chiusa a tripla mandata, e tutto il resto così come l’ha lasciato un paio d’ore fa. Si osserva intorno. Sotto i mobili, sulle sedie, dentro il letto. Il giro della morte. La nausea aggrappata allo stomaco e la visuale che sfuma.

Niente Oscar. La ciotola intonsa sotto il letto.

Si lascia cadere contro lo stipite della porta, esausto.

- Possibile che sia successo tutto mentre ero via?

- Non lo so, Andre. Sono sceso prima delle sette e ho sentito che stavano cercando un gatto. E Alex, l’hanno quasi sbattuto fuori.

- Dov’è adesso quell’altro impiastro? Che c’entra lui? – Andrea quasi urla – Non puoi chiamarlo, chiedergli che cazzo di fine ha fatto?

- È da un’ora che ci sto provando, dà sempre occupato…

- Uhm… mo’ sento Elena e Gabriele.

- Ehi, guarda lì! – Patrizio gli dà di gomito.

In fondo al corridoio, Francesco Piani sottosopra, la testa infilata sotto l’armadio delle scope, ginocchia per terra e sedere per aria. Patrizio lo raggiunge, un ghigno sottile che gli taglia la faccia; allunga la gamba e lo sfiora con la punta del piede.

- Che diavolo fai là sotto? Aspetti che arrivi qualcuno come me e ti faccia vedere le stelle? – sghignazza, squadrandogli il fondoschiena ossuto con occhi beffardi.

Andrea invia l’ennesimo messaggio con un secco “click” e ficca il cellulare in tasca. Solleva gli occhi al cielo, indeciso se obbligarsi a mantenere la calma per capirne di più, o dileguarsi di volata. Indeciso se Patrizio e i suoi amici siano più terribili quando scherzano da perfetti imbecilli o quando si sputtanano con passione. Se pensa ai discorsi intercettati in bagno l’altro giorno, ancora gli sale la nausea: tre amici che complottano su come fare le scarpe al quarto. Prima o poi dovrà fargli un discorsetto.

Piani si rialza in piedi e si scuote la polvere dai jeans con assoluta noncuranza.

- Non lo vedi? Sto cercando quel maledetto.

Patrizio incrocia le braccia sul petto e si lascia andare contro il muro.

- Dubito che si sia infilato là sotto: non è così piccolo.

Andrea aggrotta la fronte: Oscar sa infilarsi in spazi ben più angusti.

Le sue sinapsi colgono l’allusione con qualche secondo di ritardo. A fatica resiste all’impulso di pestare un piede a Patrizio.

- Miagola e rompe i coglioni, ma non è il tuo amato Thompson che cerco: tranquillo! Solo un gatto di merda – gli soffia Piani, acido.

- Ehi, guarda che non ti mangia! – Andrea inarca un sopracciglio, infastidito.

È al limite. La prossima reazione lucida sarà una testata sul muso. Magari lo rimette a posto.

- Ma io non ce lo voglio ad attaccarmi la rogna e a pisciarmi sul letto!

Andrea trasale, qualcosa che gli impedisce di mandarlo al diavolo su due piedi. Qualcosa o qualcuno che si schiarisce la voce alle loro spalle e lo fa sobbalzare come qualcosa che tira un nervo troppo scoperto.

- Parlate di questo gatto?

Andrea avverte i muscoli contrarsi in uno spasmo. Conosce quella voce strascicata dall’accento indefinibile: deve solo prendere coraggio, voltarsi e affrontare la sua nemesi vivente.

Siamo tutti qui. Troppo veloce. Dannatamente troppo veloce. Almeno il tempo di metabolizzare ogni scossone… Sto per perdermi.

Lo vede. Thompson marcia verso di lui come il salvatore della patria, riflettori puntati addosso e calzoni neri incollati sul culo. Secondo Patrizio, ha un alto coefficiente scopabile. Secondo lui, ha solo un alto coefficiente ridicolo: un bambino che gioca a fare l’uomo adulto rubando i vestiti del fratello maggiore.

Thompson si ferma a due centimetri da lui e lo fissa, enigmatico, il cotone nero della felpa costellato di minuscoli, sospetti peli bianchi. Sorride, nell’attimo in cui Oscar gli si arrampica sulla maglietta e sporge il musino dall’apertura della felpa, gli occhietti lucidi, prorompendo in un acuto miagolio di gatto neonato, sottile come un fischio.

Ora posso morire felice. Pazienza se Gabriele non mi fila, se Elena mi tratta come suo fratello minore, se Patrizio è impazzito e se mezza Accademia pensa che io sia un completo idiota. Oscar è qui, è vivo, non è finito sotto una macchina, nessuno l’ha buttato per strada o se l’è messo dentro il panino per colazione.

- Oh, ecco! – Piani si frappone tra lui e Sua Darkosità, un sorrisetto storto che gli increspa la faccia, e fissa Thompson – Allora avevano ragione: era tuo il gatto! Stupido ragazzino…

- Non esattamente… – Thompson impallidisce, lo sguardo che guizza da lui a Piani a Patrizio come in balia di tre matti: dal modo in cui cede il passo e distoglie in fretta lo sguardo, sembra nutrire una sorta di religioso timore di Piani. L’amico di Basile.

Che incalza verso di lui con un ghigno diabolico.

Andrea coglie il momento per afferrare Oscar sotto la pancia e stringerselo al petto.

- No, aspetta… è tuo, Nicoletti? – Piani sbatte le palpebre, disorientato – Su, decidetevi! Chi è il burlone?

Patrizio lo afferra per un braccio, perentorio, e scuote il capo come a dirgli No, frena, niente piazzate, stavolta. Andrea respira profondamente; attende che Oscar si adagi comodo tra le sue braccia conserte, il vibrare delle fusa come un massaggio rassicurante, e si concentra su Thompson.

- Ti sei bevuto il cervello? Che scherzo idiota è questo? Cosa ci facevi con il mio gatto?!

- Perché non vi date una calmata? – Thompson indietreggia fino a trovarsi con le spalle al muro.

Andrea prova una fitta di dispiacere: non voleva urlargli addosso, farlo sentire attaccato, ma ormai la frittata è fatta. Pure con lui, che nella mischia è forse l’unico che si salva.

- Non lo so cos’è successo – prosegue Thompson, le parole che si accavallano le une sulle altre e una faccia esasperata – Se hai lasciato la porta aperta ed è scappato, se qualcuno voleva farti uno scherzo del cazzo… Non lo so! So solo che l’ho trovato io… e meno male! Non sapevo cosa fare, davvero! A un certo punto si è sparsa la voce che c’era un gatto in corridoio, e tutti si sono messi a cercarlo. Avevo paura che lo trovassero e lo buttassero in strada. Alla fine l’ho preso e l’ho portato in macchina.

Andrea china il capo, il sangue che gli romba nelle tempie e le gambe molli. Una parte di lui che sogna di sprofondare sotto le piastrelle. Di risvegliarsi dall’incubo e non minacciare ogni tre secondi di venire meno con Oscar accoccolato accanto al cuore.

Patrizio lo fissa come se avesse bestemmiato. Thompson si osserva la punta delle scarpe, mortificato, come se solo adesso si fosse reso conto di aver sfiorato l’incidente diplomatico. Piani sembra deluso dalla mancata occasione di bulleggiare Thompson. Lui, invece, non può che concentrarsi su sé stesso per regolarizzare il respiro e scacciare l’impulso al pianto.

Da quand’è che è diventato suscettibile al minimo soffio di vento, con i nervi a fior di pelle e la lacrima facile?

L’ennesima figura. Perché l’unica cosa che mi riesce bene, è collezionare figure da paranoico?

- Scusami – biascica, allungandogli una mano sulla spalla e attirandolo a sé in un abbraccio maldestro – Grazie per Oscar, io…

- Andrea, non preoccuparti, davvero. Adesso lo prendi tu, lo porti al sicuro e facciamo finta che non sia successo niente, okay?

Andrea socchiude gli occhi, lasciandosi andare contro la sua spalla. Sa di balsamo alla menta con retrogusto di nicotina. Leggero. Sospira: magari è la persona più buona e gentile del mondo, e lui si sta facendo i film per niente. Per un sospetto ridicolo.

Potremmo diventare amici, sai? Potrei iniziare a volerti bene. Se tieni giù le grinfie da Loria, ti prometto che andremo d’accordissimo. Non sei neanche stupido.

Si tira su. Il tempo di raddrizzarsi sulle proprie gambe e guadagnarsi uno scampolo di dignità.

- Non potevi chiamare, prima che succedesse il casino… farti vivo? No?

- Mica ce l’ho, il tuo numero. Non sapevo manco che il gatto fosse tuo. Ho provato a cercare Elena, ma non mi ha risposto.

Andrea avverte una scintilla di frustrazione scorrergli lungo la spina dorsale e assestarsi all’altezza del diaframma.

La goccia finale.

Elena. Di nuovo.

Vorrebbe evitare di chiedersi cos’è, ma l’irritazione gli esplode addosso come una manata gelida. L’impulso di saltargli addosso. Di assalirlo a parole e leggere oltre la patina lucida di quegli occhi spalancati.

Amico…! È buono e caro, ma se non stai attento si infila nella tua vita e ti riscrive tutto da capo. Quegli equilibri faticosamente tracciati. Ti fotte tutto.

Ti supplico. Sta’ zitto!

- E tu come cazzo l’hai avuto il suo numero…?

Thompson apre bocca per dire qualcosa, ma una risata sguaiata alle loro spalle congela ogni moto di gelosia.

Andrea trasale, quando una mano gli cala sulle spalle come un maglio e ridesta la sua attenzione.

Non c’è due senza tre: tutti qui, a caccia di colpe e di colpevoli.

- Bene bene… Nicoletti! Succede una cazzata, e spunti fuori tu… Curioso!

Federico Riccardi gli soffia in faccia il suo alito alla Marlboro rossa che fa tanto bullo di periferia, e lo attira a sé. Andrea fa un salto indietro, un accesso di nausea inchiodato alle pareti dello stomaco.

- E chi, se no? – Riccardi ridacchia.

Mancava lui, e la brigata è al completo.

Andrea cerca di ignorare il brivido gelido che gli rotola giù per la spina dorsale: la verità è che Riccardi non ha mai smesso di spiarlo di nascosto, di sperare che si tradisse. L’ossessione strisciante. Trema.

Persino Alberti si è dichiarato ufficialmente fuori dalle sue faide idiote, ma lui niente. Persevera, il fuoco dell’ossessione scolpito dentro le pupille, il veleno mascherato in un sorriso di scherno pesante. Deciso quanto mai a non estinguere la fiamma del rancore, a perseguitarlo e remargli contro finché l’avrà a portata di mano.

- Oh, che sorpresa! – Andrea costringe il proprio volto a modellarsi in un sorrisetto spazientito – Fede! Sei ancora vivo… Peccato! Non ti avevano sbattuto fuori?

- No, di certo non grazie a te. E tu proprio non riesci a vivere senza rompere i coglioni? – Riccardi incombe su di lui, un ghignetto subdolo che promette guai.

D’istinto, Andrea si stringe Oscar tra le braccia.

- Che fastidio ti ho dato, stavolta? Sentiamo…

- Interpreti le regole a modo tuo – Riccardi storce il naso e attacca con la filippica – Valgono per tutti… ma non per te. Per te è tutto in deroga. Tu stai un gradino sopra: che domande! Fai tutti i cazzi che vuoi, ci mancherebbe. E guai a dirti mezza parola. Perché sei Nicoletti, mica cazzi: sei gay, sei specie protetta, e guai a chi ti tocca! Porti dentro quel sacco di pulci e speri che nessuno se ne accorga. Dove l’hai trovato, negli immondezzai che frequenti di solito? Come minimo ci attaccherà qualche malattia… Grazie a te! Ma che dolce, Nicoletti che salva i gattini dalla strada… tenero! Dammi qua, fai vedere…! – e allunga la mano.

Andrea scarta indietro. Il battito accelerato e una stretta sin troppo familiare al torace, indietreggia fino a ritrovarsi addosso a Thompson. L’angoscia che gli serra la gola e un formicolio insopportabile.

- Tieni giù le mani! – ringhia, la voce strozzata in un accesso di terrore.

Barcolla. E i secondi riprendono a scorrere fottutamente veloci, troppo veloci, troppo per afferrarli e dettare lui le sue regole. Il panico che offusca ogni altra percezione. E tutto riprende a mescolarsi in una danza folle.

Patrizio si infila tra lui e Riccardi come a voler stornare la catastrofe. Ma le sue parole gli giungono ovattate, smorzate.

- Riccardi, dov’è il problema? Abbiamo trovato il gatto. Adesso lo portiamo fuori di qui, e torna tutto a posto.

- Scordatelo!

Riccardi lo spinge via e incalza verso di lui, un sorriso sadico. Lo strattona per un braccio e allunga l’altra mano verso Oscar.

Andrea urla qualche minaccia casuale, troppo istintiva per scandagliarla con la mente. Gli urla addosso e basta. Sta andando a fuoco, sta andando tutto a fuoco. Tutto nel caos.

Oscar si ridesta di soprassalto, infastidito dalle grida, si divincola dalla sua presa e scivola verso il pavimento, malamente trattenuto dalla stoffa dei suoi vestiti. E caracolla tra le gambe di Riccardi, in cerca di fuga.

Riccardi si china e lo solleva davanti a sé per la collottola, come un trofeo.

- Eccolo qua, il nostro mostriciattolo! – ride, trionfante.

- Mollalo, fottuto idiota…! – Andrea si scaglia su di lui, un grido che gli raschia le pareti della gola.

- Ah, allora lo ammetti che il gatto è tuo, e questo casino opera tua! Pensa che siamo stati svegli ore intere per acciuffarlo… Ore e ore di appostamenti, e alla fine ce l’avevi tu! – Riccardi lo fronteggia con i lineamenti contratti dall’odio, l’odio di chi userebbe qualunque pretesto pur di farti più male possibile, e non esiterebbe un istante, chiunque ci vada di mezzo. Non ha più importanza. È tutto funzionale a perseguitarti finché avrà respiro.

- Lascialo! – piagnucola, una nenia ininterrotta.

Andrea stringe il pugno e fa per colpirlo, sfidando le braccia di Patrizio che lo avviluppano in una morsa. Disperato tentativo di contenere la sua furia.

- Vogliamo calmarci un momento? – grida, sovrastandolo – Riccardi, dammi quel gatto e non rompere i coglioni!

- Non ci penso neanche! – Riccardi cincischia con Oscar stretto tra le dita.

Lo agita davanti ai suoi occhi e continua a ghignare.

- Lo sai che non devi azzardarti a implorarmi, Nicoletti? Dico solo che, se ti vedessi mezzo morto sull’asfalto, scenderei dalla macchina e ti prenderei a calci. Tu riesci a creare problemi anche dopo che ti hanno scaricato tutti, e uno pensa pure di essersi liberato di te. I tuoi amici, Alessandro e Isa, ti difendono nonostante tutto, non vogliono sentire ragioni. Non ci sei più… ufficialmente. Eppure sei sempre lì, presente, un gufo appollaiato sulle palle! Non si parla che di te, non si può dire mezza parola che salti fuori tu… Tutti fanno finta di avercela con te, ma che nessuno ti tocchi! E tu qui che continui a fare il cazzo che ti pare, e guai a contestarti: tutti lì a proteggerti, a leccarti. Sai la novità? Alberti mi ha scaricato per una parola di troppo, perché non riesco a fingere di non odiarti. Per averti descritto con le parole che ti calzano meglio. Sono fuori dal giro, contento? Tutto questo grazie a te. Che esisti! – Riccardi gli urla addosso, il volto contorto in una smorfia e una rabbia folle che gli contrae i muscoli.

Niente sbocchi, stavolta, niente compromessi. La sua testa che rotola nella polvere, forse.

- Non è colpa mia, se anche uno come Alberti, alla fine, ha capito che sei uno stronzo – gli sibila, furente.

- Okay, Riccardi, okay – Patrizio ancora si illude di poter mediare, lui e quel poco che può consentirgli un rigido controllo dei nervi – I tuoi odiosi amichetti ti hanno mandato affanculo perché neanche loro ti sopportano più, sono stanchi di stare dietro alle tue cazzate, e tu cerchi un colpevole… Ma cosa c’entra il gatto? Dallo a me e piantala!

- C’entra eccome – Riccardi digrigna i denti – Nicoletti ha rotto i coglioni a tutti. È riuscito a mettermi contro i miei amici. Non ti pare giusto che adesso soffra un po’ anche lui? – e scuote Oscar come uno straccio.

- Ti è mai passato per l’anticamera del cervello che forse te la sei andata a cercare? Che nessuno ha più voglia di star dietro alle tue manie da psicopatico?

- Dammelo o ti faccio nero! – Andrea si slancia in avanti con un ruggito disperato, barcollando e menando fendenti alla cieca. Si divincola tra le braccia di Patrizio, che vorrebbe evitarsi almeno il bagno di sangue.

Riccardi perde l’equilibrio, raggiunto a tradimento da un calcio nello stinco.

- Lo sai che ne farei di questo bel micino, se fosse per me? Te lo affogherei, guarda, e solo per il gusto di vedere la tua faccia!

- Nooo!

- Ma sì: magari è la volta buona che ti viene un accidente e ci liberi dalla tua presenza.

Andrea urla, urla fino a spaccare i vetri, urla fino a ridurre le pareti a una nube di polvere, fino a vedere Riccardi sprofondare dentro una voragine, triturato dalle macerie e dalla furia degli elementi. Urla finché la voce non si infrange in un sussulto imbarazzante, finché le corde vocali non cedono.

Lascialo. Lascialo. Lascialo. Ora.

Che cosa ti ha fatto?

Lascialo stare!

Urla finché un drappo rosso sangue non gli cala davanti agli occhi, finché la visuale non esplode in un bagliore confuso, finché non gli manca l’aria.

Il passaggio troppo veloce, troppo. Tutto troppo veloce per riagganciare i frammenti al volo e cucirli insieme, e magari, lentamente, riprendere possesso della propria lucidità. Solo fotogrammi casuali che scorrono davanti a lui in una moviola impazzita, mentre la coscienza lo abbandona.

E tutto va in frantumi.

Riccardi molla la presa su Oscar.

Oscar precipita al suolo e atterra sulle quattro zampe, maldestro. Il suo lamento soffocato lo strappa per qualche istante dall’incoscienza.

Approfittando della confusione e delle urla ininterrotte, Thompson si inginocchia tra loro, agguanta Oscar e se lo infila sotto la felpa come blanda protezione.

- Oh, ma sta sempre in mezzo alle balle, quest’altro frocio? Ma c’è un convegno? – Riccardi abbranca Thompson per una spalla, spintonandolo fuori dal suo campo visivo.

- Riccardi, sparisci! – Patrizio avanza, le mascelle serrate.

La calma glaciale che precede lo scatto imprevedibile.

- Perché, se no che fai?

- Ti spacco il muso. Di persona.

- Sta’ calmo, Lastella! Calmino, eh… – Riccardi abbassa il tiro, intimidito dalle vibrazioni d’odio e da quel tono piatto, autoritario – Di’, non ti bastava il tuo gazzettino di pettegolezzi idioti e interviste da voltastomaco? Non dico mica sul serio… – solleva gli occhi al soffitto – Cielo, come siete prevenuti e suscettibili! Vi si potrebbe convincere di tutto, che ci cadreste come pere mature. Dai, Lastella, figurati se io, per quel pirla di Nicoletti, posso prendermela con un gatto! Per Nicoletti…! – Riccardi lo fissa come un sacco della spazzatura – Perché non vi date una regolata? Vi vedo nervosetti… È divertente scherzare con i vostri nervi tesi. Continuate così, e potrei prenderci gusto. Nicoletti non ne parliamo: è così coglione che crede pure alla Befana, e ci manca solo che gli prenda un infarto…!

- Riccardi, vattene. Disintegrati. Sparisci – Patrizio si avvicina, il viso torvo e le braccia rigide per vibrare il colpo – Sparisci prima che mi incazzi.

Lo afferra per una manica e lo fissa dritto negli occhi, cereo.

- Ti basti sapere – prosegue – che, se avessi fatto a me un terzo di ciò che hai fatto ad Andrea, o se solo l’avessi saputo prima, adesso mangeresti con la cannuccia. Mi spiace scendere al tuo livello, ma è l’unico linguaggio che capisci. Porta via le chiappe, prima che cambi idea.

Andrea avverte i passi di Riccardi che si allontana, brontolando con voce fioca. Uno scalpiccio confuso nella sua mente. Poi non sente nient’altro. Perché di colpo l’udito viene meno, e tutto diventa un brulichio inestricabile di suoni e di luminescenze che gli preme contro le tempie, i sensi in subbuglio. Le pareti che si infrangono contro il soffitto, il tentativo maldestro di Thompson di sorreggerlo, uno sfioramento impercettibile sui gomiti. La voce che si spegne e una sinfonia di lamenti e sospiri.

Lascialo. Lascialo. Lascialo. Che cosa ti ha fatto?

Oscar! Non lui…Prenditela con me che ho tirato troppo la corda. Insultami, uccidimi. Ma non toccare chi amo. Lascia stare il mio gatto, i miei amici, il mio mondo. Stanne fuori!

- Oh, cazzo! Andre! – Patrizio trasale; schizza verso di lui, ma nessuno se ne cura. Lui non se ne cura di certo.

Perché tutto ha perso consistenza sulla sua pelle, davanti ai suoi occhi. Ogni debole appiglio con la realtà svanisce sulla punta delle dita.

Non respiro più…

Rammenta solo il tonfo secco contro la parete alle sue spalle, la realtà che turbina intorno a lui come una danza infernale. Patrizio che grida qualcosa di incomprensibile – forse solo nella sua testa –, Riccardi che grida di rimando.

Poi un velo scuro gli cala davanti agli occhi e fagocita tutto il resto, scavandogli in fondo al petto e risucchiandolo in basso. Un sussulto, il gusto familiare delle lacrime sulle labbra che azzera ogni altra percezione.

Oscar…!

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 45
*** Capitolo 45 - Cronaca di una morte annunciata ***



Capitolo 45

Cronaca di una morte annunciata

 

Nient’altro. Solo il panico a soffocare le percezioni residue. Due mani fredde sulla faccia che vorrebbero riscuoterlo dal suo delirio, ma non fanno che infastidirlo.

Patrizio e Riccardi che continuano a blaterare, borbottare e punzecchiarsi – ma forse è solo frutto della sua immaginazione. Voci distanti, ovattate. Parole che vorticano nella mente in una danza sconnessa. Ha perso la cognizione del tempo, del prima e del dopo, non può reinserirsi così in un intervallo qualunque, riemergere dal torpore.

 

Sei contento, adesso? Lo stai esasperando!

 

Facile, eh? Se vuoi fare l’avvocato del cazzo, guarda anche ciò che ha fatto lui! Ha rotto i coglioni in lungo e in largo. Ha rovinato cose a cui tenevo.

Per me può crepare, lui e il suo maledetto gatto!

 

Alex, tienilo…

 

Che succede? Cristo…

 

Andre, cazzo, respira!

 

Riemergere dall’incubo è come riprendere a respirare dopo una lunga apnea. I polmoni si riempiono d’aria, ed è come uno strappo secco tra le costole, un pugno che ti coglie senza preavviso.

Schiude gli occhi, la luce prepotente del mattino come un calcio in mezzo agli occhi. Le tempie pulsano di dolore, strette in una morsa d’acciaio. Il respiro affiora a fatica dalle labbra socchiuse, sibilante.

 

È una crisi di asma?

 

Un attacco di panico, credo. Un fottutissimo attacco di panico.

 

Questo è Thompson, lo riconosce: la voce così musicale, le parole che strisciano. Riconoscibile tra mille.

 

Voglio andare via…

Game over.

 

Andrea socchiude le labbra, cercando di incamerare più aria possibile. Il volto fradicio e il sapore delle lacrime in gola, le mucose gonfie come reduce da un pianto dirotto. Forse stava piangendo, non ricorda.

- Ehi… va tutto bene – Thompson gli accarezza la fronte con il dorso della mano.

Sono le sue braccia a tenerlo su, le ginocchia puntate a terra. Non lo vede, ma può sentirne il calore, le unghie laccate di nero che gli sfilano davanti agli occhi. Emana uno strano profumo, ma non è male. Non è affatto male.

Riccardi si è volatilizzato, ma non gli importa. Al suo posto è apparso Gabriele, le dita intrecciate alle sue, ma forse è solo un’allucinazione, un fotogramma a caso. Patrizio gli piazza un bicchiere di plastica in mano e lo costringe a farsi scivolare un sorso d’acqua gelida dritto in gola.

Voglia di andare via. Di lasciarsi trascinare in basso dagli eventi e gettare tutto a mare.

Ma c’è lui. Lui che corruga le sopracciglia e prova a dare forma alla sua paura.

- Cazzo, non può continuare così! Mo’ Alberti gli dà il benservito, e quello riprende da capo – gli ha preso la mano e se l’è stretta sul petto in un rudimentale istinto di protezione.

- Allora dimmelo tu… cosa avrei dovuto fare – lo rimbecca Patrizio.

Male. Malissimo.

- Magari stare zitto. Come adesso. Devi solo tacere. Con tutta la gente di cazzo che ti tiri dietro tu…! – Gabriele solleva un sopracciglio e allude con lo sguardo a Piani, immobile accanto la parete in mancanza di una scusa per congedarsi, e con una faccia da scazzo che è tutto un programma.

- Derossi, maledizione! Cosa c’entra?

- Dicevo per dire. Mi pare sia tu l’esperto dei bulli. Con tutti quelli che frequenti, ormai ci avrai fatto l’abitudine.

Volete stare zitti? Tutti e due. Maledizione.

Andrea tira su col naso, le lacrime impigliate alle ciglia. Il tremore gli impiccia il respiro e gli intrappola le parole in gola, tra un sussulto e l’altro.

Gabriele osserva Thompson e gli fa un cenno con la mano. Fammi spazio.

Andrea chiude gli occhi, assaporando l’attesa. Sprofondare nel petto di Gabriele con tutti e cinque i sensi è la sua panacea e la sua boccata d’aria pulita. Più di mille richiami e di mille schiaffi sulla faccia. Respira forte contro la sua maglia, una carezza costante su e giù per la schiena, le labbra che cercano le sue. Con discrezione.

- Perché ti sei tenuto quel gatto? Lo sapevi che non era al sicuro – gli sussurra a denti stretti, ma nella voce non c’è traccia di rimprovero: qualcosa di stranamente carezzevole, scontato – Senti, non vorrei farti stare peggio, ma non puoi lasciarlo qui. Riccardi ci mette molto poco a fare l’ennesimo colpo di testa. Se Alberti non lo tiene al guinzaglio, è fuori controllo: ne affogherebbe cento, di gatti, pur di arrivare a te. Fa’ come preferisci, ma liberatene. Dallo a Elena… o al fratello di Patrizio, l’ha sentito poco fa. Ha detto che la sua ragazza può tenerlo.

Andrea solleva lo sguardo, e una fitta ostinata gli trafigge le tempie. Assurdo cercare di inghiottire come acqua l’ennesimo singulto di pianto, l’ennesima verità palese sparata in faccia con la delicatezza di una granata, quando sei debole e non puoi rimbalzare il colpo.

- Oscar?! – esala.

- È con me – Patrizio sorride, un velo di dolcezza che gli offusca le iridi, mentre si piega su di lui con il fagotto tra le mani e glielo posa in grembo.

Andrea sospira, la consistenza della testina rotonda sotto le dita, la morbidezza del ventre, i gommini rosa, le unghiette sottili che cercano di ghermirgli la mano.

Tira su col naso, le lacrime che gli grondano giù dalle ciglia.

Sono morto. Sono morto e non me ne sono reso conto.

- Andrea, mi dispiace – Thompson si torce le dita, chino al suo fianco, lo sguardo calamitato dalle mattonelle – Mi dispiace un casino. Non… volevo che finisse così.

È finita anche troppo bene.

Andrea agita il braccio come a dire “lascia perdere” e allunga la mano fino a sfiorare la sua, interrompendo il suo gesticolare a vuoto.

Ecco. Magari eviti di graffiarti intorno alle unghie fino a sanguinare.

Non ha voglia di parlare, di cercare altre scuse e incassare le sue. C’è solo la stanchezza, la voglia di scappare. Sparire e cercare la propria sanità mentale tra la ghiaia del piazzale. Cedere a una forza che viene meno, alla razionalità che se ne evapora via.

- Io me ne vado – sussurra, sforzandosi di mantenere ferma la voce, perché il vento pare essersi calmato, e lui si sente stanco, troppo stanco per restare lì e troppo stanco per muovere un passo o imprimere una logica nelle parole – Arrivederci, è stato bello, io non ce la faccio più… Mi sono rotto. Di tutto. Odio l’Accademia, odio questo posto, questa città, odio il mondo.

Gabriele inarca un sopracciglio.

- Forse è meglio se vai a riposare.

- Guarda che dico sul serio – Andrea annuisce candidamente, la vista annebbiata, ricacciando in gola un singulto di pianto – Mi stanno rovinando l’esistenza. Ho i nervi a pezzi, non ce la faccio più.

- Un motivo in meno per prendere decisioni coi piedi – Patrizio gli tende una mano, invitandolo ad alzarsi. A riprendere in pugno la sua giornata.

Thompson invece lo fissa scettico tra le ciocche lisce che gli ricadono davanti agli occhi. E, senza freni, scoppia a ridere.

- Perfetto! – voce piena, priva di inciampi o incertezze, e un sarcasmo asciutto che vira sul crudele – Scappi di volata! Appena qualcosa va storto, non ce n’è per nessuno. A te non può succedere, non deve succedere: Nicoletti non può fallire. Scappi perché un imbecille ti lancia provocazioni idiote, ma tutti gli altri ti adorano e farebbero carte false per essere tuoi amici…?

Serra le labbra, Thompson, una nota di biasimo, un veleno che Andrea non pensava potesse appartenere a lui, sposarsi alle sue labbra pallide e ai suoi occhi troppo grandi da passerotto caduto dal nido.

Forse anche lui, dopotutto, è umano. Ed è geloso marcio. Di Patrizio, di Elena che ha occhi solo per lui e per Gabriele, della sua vita o di chissà cos’altro. È verde.

- Ti prego! – prosegue – Dimmi che scherzi! Dimmi che è una frase a effetto, perché sei giù e vuoi essere rassicurato. Guardati attorno: hai amici che ti vogliono un bene dell’anima, che si preoccupano per te, che si taglierebbero un braccio per aiutarti… Ma tu no: devi buttarla nel melodramma, farti compatire.

- Che cazzo ne sai? – Andrea salta su: non può farci niente, ma Thompson che gli fa le pulci e pretende di rivoltarlo come un calzino, è la goccia finale – Che cazzo ne sai? Ci sei due giorni, oggi e domani… E pensi di aver capito come vanno le cose qua dentro? Lo sai cosa vuol dire avere uno come Riccardi che ti perseguita fino allo sfinimento, altri gufi del cazzo che cercano di metterti nei casini, che non si fanno scrupoli a tirare in mezzo chiunque, pur di farti del male? I tuoi amici… il tuo gatto. Tutto, l’importante è farti più male possibile.

- Lo so fin troppo bene –lo interrompe Thompson con voce gelida, sepolcrale, gli occhi folli e due chiazze rosse di collera sulle guance – Cosa vuol dire avere un attacco di panico, perché degli stronzi ti hanno circondato, e tu vorresti reagire ma non ce la fai. Rimani bloccato lì, inchiodato al pavimento da una forza strana, assisti dall’alto alla tua disfatta. Lo sai cosa vuol dire essere qua due giorni contati e aver capito come stanno le cose, ma solo perché ci hai sbattuto il muso…? Perché lo capisci sempre troppo in fretta. Cosa succede quando diventi il capro espiatorio, e qualcuno inizia a insultarti, minacciarti, diffamarti, farti odiare l’idea di alzarti dal letto la mattina, e lo fa perché ti ha visto, ha schioccato le dita e ha deciso che lo urtava la tua esistenza. Lo sai cosa vuol dire non avere uno straccio di nessuno che spenda una buona parola per te…? No, non lo sai! Tu sei Nicoletti, tutti ti adorano ancora prima di sapere che faccia abbia. Se tu vuoi mandare tutto all’aria, affogare nella tua valle di lacrime per un coglione che si diverte a farti saltare i nervi, io cosa dovrei fare? Spararmi?

Alex indietreggia e per un istante sembra impressionato dalla furia delle sue stesse parole. Che non smettono di vibrare contro le pareti del corridoio e di riecheggiarti nella mente, proiettili che rimbombano dentro la scatola cranica senza soluzione di continuità.

Andrea scuote il capo, stordito. Il primo impulso è staccare il sedere da terra e saltargli addosso. Serrare le mani intorno a quel collo tenero da colomba. Ma non è il caso. Non è il caso di peggiorare le cose, di cominciare a odiarlo.

Silenzio di tomba.

Alex deglutisce con tutta la dignità di cui è capace, gira sui tacchi e imbocca il corridoio. Patrizio solleva gli occhi al cielo con rassegnazione e, tempo una manciata di secondi, è di nuovo sui suoi passi. A sorbirsi la sua sindrome premestruale e le sue seghe mentali da disadattato.

E lui resta lì, inchiodato tra la parete e il pavimento gelido con l’amarezza che gli ribolle sulle labbra, e Gabriele che gli accarezza la spalla.

Game over.

 

* * *

 

- Andre… stai bene?

Un istante. Il tempo di chiudersi la porta alle spalle. Un altro istante, e le sue mani sono su di lui, una carezza rovente che gli vibra fino al cervello. Il viso stretto tra le sue mani che sanno di zucchero, di lavanda e di sigaretta rollata di fretta, lo scruta con gli occhi di chi non può nascondersi. Gabriele sorride e gli tasta le fronte con le labbra, un tocco delicato che lo fa vacillare, che gli vibra addosso e gli incide la pelle.

Piano, Gabriele. Calmo. Potrei diventare di cera e sciogliermi tra le tue braccia. Potremmo diventare una cosa sola. Potrei illudermi di averti per me.

- Mi spieghi cosa devo fare con te? – Gabriele scuote il capo.

Ma continua a sorridere, a scivolare con il pollice lungo la linea dello zigomo. Sorride nonostante gli occhi velati di apprensione, la fronte corrugata. Lo afferra per un polso e lo trascina come un pacco, fino a lasciarlo andare seduto sul letto. Non ha smesso di stringerlo, come se da un momento all’altro potesse sgusciare fuori dalla sua portata e tornare indietro a far danni.

- Va… va tutto bene. Adesso – si sforza di soffiargli, la voce come un parto, come un ago che gli trapassa le corde vocali.

- Cosa devo fare con te? – Gabriele si lascia scivolare una ciocca dei suoi capelli tra le dita, rassegnato – Ti lascio solo un attimo, e ti ritrovo… così!

Definitivamente impazzito.

 

Dove vuoi arrivare? Alla mia verità? A dove eravamo rimasti?

Vuoi sapere che il mio problema, per quanto strano, non si chiama Riccardi e non si chiama Thompson. Non si tratta nemmeno di Patrizio, che a difendere il suo migliore amico preferisce tamponare i disastri di un dannato ragazzino. Non è lui che voglio con me.

Il problema si chiama Gabriele Derossi. Il problema ha la forma di un sorriso incomprensibile e di un canino che butta leggermente in fuori. Di un anello sul pollice che sfrega contro la guancia. Di lui che sparisce per i cazzi suoi, ti abbandona a te stesso e ricompare in un momento tragicamente sbagliato. O quando c’è bisogno di lui, quando sei alla canna del gas e potresti uccidere per un suo respiro sulla pelle.

 

Ha trovato la forza di sciogliersi dalla morsa del suo sguardo, spezzare quei lacci invisibili. Da qualunque parte se la rigiri, Gabriele ha sempre il fottuto potere di soffiargli la terra da sotto i piedi, di scavargli le voragini nel cervello e attirarlo a sé. Nel bene o nel male, tornano sempre al punto di partenza. Le sue resistenze che si ammorbidiscono fino a cedere, quasi, e dopo non sai cosa attenderti.

Il trucco è cercare un diversivo. Uno qualunque. Inghiottire le lacrime che iniziano a prudere sulla punta delle ciglia, e incanalare la tensione in una valvola provvisoria. Focalizzarsi su qualcosa di innocuo come la rabbia.

- Ma l’hai sentito… quello? – ringhia.

La sua immagine gli esplode nella mente. Lui e i suoi occhi saccenti bordati di nero. Lui che gioca a fare il ragazzino assennato che la sa lunga. La sua posa da filosofo del cazzo, da “che vuoi? Se io sto male, tu puoi stare anche peggio, mi pare logico”. Non può farne a meno, ma la rabbia lo tira come una molla e frigge contro le pareti dello stomaco.

- Non ha tutti i torti – Gabriele si stringe nelle spalle – Su una cosa ha ragione: hai detto una cazzata. Non puoi dire che vuoi mollare tutto, deprimerti, scomparire, perché un coglione ti marca stretto, e aspettarti che nessuno ti dica che è una cazzata. Anche lui sta passando un brutto momento. Non infierire.

- Ma mettici anche ‘sticazzi! – Andrea sente gli occhi bruciare: non può farne a meno, perché Gabriele che si erge in difesa del poveroThompson e dei suoi motivatissimi rigurgiti di acido, è l’ultima cosa che può sopportare – Se a me non me ne importasse un accidente, dei suoi “brutti momenti”? È colpa mia, se la Balducci l’ha santificato, ma i colleghi lo considerano una pippa? Questa storia inizia a urtarmi. Sempre al centro dell’attenzione, piccolo genio incompreso, sempre sopra le righe, in mezzo alle palle, sopra e sotto, sempre lì a fare la vittima… Sai che c’è di nuovo? Non volermene, ma comincio un po’ a capire perché Basile ce l’ha sul gozzo. Perché è un palo piantato tra le chiappe! Una lingua biforcuta del cazzo! Se uno perde le staffe, beh, da qualcosa è partito. Poi c’è Patrizio che difende, qualunque puttanata combini, ed è la cosa più assurda! – Andrea scuote il capo: il tempo di scostarsi i capelli dalla faccia e riprendere fiato dopo la lunga tirata, le labbra che tremano di collera – Io posso capire tutto, davvero. Che sia… carino, che gli piaccia, che lo veda sotto tutt’altra luce… E allora che se lo sbatta e la pianti! – sogghigna – Risolviamo due problemi: lui si toglie lo sfizio, Thompson si diverte un po’ e magari la pianta di girare depresso o incazzato come una biscia, nessuno mi si fila, tutti mi odiano perché sono piccolo e nero.

Gabriele solleva un sopracciglio, interdetto.

- Hai finito? Sembri Alberti.

- No. Non sembro Alberti e non ho finito – ribatte, le labbra strette – Hai sentito cos’ha detto? La cazzata del secolo! Che siccome per lui è normale farsi prendere a calci nelle gengive senza dire “a”, da bravo masochista, io dovrei accettare che un sociopatico come Riccardi mi tratti come merda, mi rubi lo spray per l’asma, insulti i miei amici e voglia uccidere il mio gatto? Ma è cretino?

Gabriele si scosta i capelli dalla fronte, spazientito.

- Andre, non è così – Gabriele solleva gli occhi al cielo, ispirato – È semplicemente peggio. E scusami, ma se Thompson si è legato al dito quella frase, non ha tutti i torti. Confronto a Basile e i suoi compari, Riccardi è un agnellino. Riccardi fa il gradasso solo perché c’è Alberti che gli para il culo, ma da solo, gli fai “buh” e torna a cuccia.

- È un reato, se io nelle beghe tra Thompson e Basile non voglio entrarci né uscirci? Per me può fare le valigie in questo preciso istante, se la cosa gli garba. Non ne sentirò la mancanza – sbuffa – Non sono stato io a mettergli contro il terzetto dei miracoli, e quello cosa fa? Alla prima occasione mi salta addosso e cerca di leggermi la vita, e cosa gli dice il cervello non lo so e non voglio neanche saperlo. Se è uno che, quando sbrocca, chi si è visto s’è visto, se ha l’invidia fin sopra i capelli, quei capelli inguardabili che si ritrova… se vuole trascinarmi nei suoi casini. Oppure è un idiota complessato in cerca di attenzione. Che gli ho fatto io?

- Adesso se la sarebbe presa perché è geloso di te, così, a cazzo? Magari, senza volerlo, si è sentito colpito.

- Non so – Andrea si stringe nelle spalle, valutando se sia giusto abbassare il tiro oppure no – Mi guardava tipo con odio. Come a dire, io mi venderei l’anima, per essere al tuo posto, e tu ci sputi. Non lo so, mi dà una pessima impressione – Andrea china lo sguardo e rabbrividisce.

Gabriele continua a tormentarsi le dita, in attesa di un argomento più corposo su cui affondare i denti. Quel dannato canino vampiresco che continua a trafiggergli lo sguardo. Andrea si schiarisce la voce. Silenzio, tensione che scorre in punta di dita, che volteggia tra i loro corpi come pulviscolo nell’aria. Qualche sporadico raggio di sole a fare chiarezza. Si lascia andare contro il materasso, le mani intrecciate dietro la nuca. Il cuore non ha smesso di martellargli nel petto, uno strano malessere che gli graffia la gola come un pianto represso. Il panico non ha smesso di mordergli lo stomaco. Perché l’immagine ancorata a fondo nella testa è un’eco sbiadita, ma continua a solleticargli i nervi. Thompson e il suo sguardo di scherno, il suo veleno distillato. Oscar in pericolo e Riccardi che lo fissa con occhi da folle.

‘fanculo.

- Non hai idea di cosa gli stiano combinando quelli là. Non hai idea – Gabriele solleva gli occhi al cielo, un guizzo di terrore che per un istante lo distoglie da lui, da quella stanza troppo allagata di sole, dal letto sfatto e da quel riverbero di nervosismo incollato alle ossa – Prima o poi gli fanno la festa.

- E questo al momento è all’ultimo posto tra le cose di cui non me ne frega un accidente – taglia corto Andrea, rotolando sul letto fino a volgergli le spalle – Se vuole qualcosa, sa dove trovarci. Se Basile e quegli altri imbecilli decidono di fargli lo scalpo sulla pubblica piazza, potrei anche alzare un dito. Ma se lui evita di starsene a meno di un chilometro da me… potrei volergli bene.

- Però ti ha salvato il culo – piatta constatazione.

Gabriele allunga una mano sulla scrivania e afferra Oscar sotto la pancia, un attimo prima che decida di rendere il proprio tiragraffi personale un’innocente pila di dispense.

- Per lui, dici? – Andrea scrolla le spalle, scettico.

Solleva Oscar dalle mani di Gabriele e se lo posa in grembo, il pelo bianco che scorre tra le dita. È bellissimo, mentre chiude gli occhi sotto le sue carezze e si struscia contro il polso.

- Era il minimo.

- Avrebbe potuto anche fregarsene – Gabriele intreccia le mani sul petto con l’aria di chi sa di avere la ragione dalla sua e se la tiene stretta – se fosse stato davvero stronzo. Poteva chiamare qualcun altro e lasciar perdere.

Andrea sbuffa, annoiato.

Una mattina rovinata.

- Non deve mica andarci di mezzo il mio gatto, se mi ritiene uno stupido. Ha fatto la sua buona azione quotidiana, gliene saremo grati in eterno, stop: non può ricattarmi in eterno! Il problema è che non riesco a inquadrarlo: sembra buono e tenero, poi ti spara addosso la pirlata del giorno, e ti viene voglia solo di mollargli una testata… Cioè, ripigliati, cazzo! E non mettere bocca su cose che non sai!

Senza nulla tra le mani, Gabriele riprende a osservarsi le dita. Sembra sulle spine, come se un nodo più grande di lui gli invadesse la gola. Andrea aguzza le antenne.

- C’è qualcosa che non so? – azzarda – Se sei a posto, vorrei passare ad altro. Riccardi mi ha mandato di traverso la colazione, e non voglio che il pranzo faccia la stessa fine. E discutere degli sproloqui di Thompson è la cosa più smosciante del mondo.

Gabriele sospira: sembra sollevato. Socchiude gli occhi, in attesa. Almeno si è deciso a ridurre le distanze. Si è seduto al suo fianco e l’ha incatenato ai suoi occhi indagatori.

- Come ti senti, adesso? – gli sussurra, sfiorandogli una spalla.

Adagio, come se potesse rifilargli una scossa elettrica. Le molecole impazzite tra loro che schizzano nell’aria, cedendo al tepore rovente di una carezza.

- Uhm… – Andrea si sfrega gli occhi con il dorso della mano, guadagnando tempo – Sottosopra. Come se mi sia passato un autobus addosso. Più o meno.

- Non credevo che… potesse a esasperarti fino a questo punto – Gabriele corruga la fronte, a disagio.

- Non me ne parlare – Andrea tira su col naso, in attesa – Ho avuto paura. Sarà contento: è riuscito a farmi andare nel pallone. Bravo: uno a zero. Vuole un premio?

- Solo? – Gabriele spalanca gli occhi – Solo mandarti nel pallone?! Andre, hai avuto una crisi nervosa. Eri in iperventilazione.

- Già – Andrea si fissa le unghie e annuisce – Hai presente un attacco di panico? Io l’ho conosciuto poco fa e potevo continuare a vivere senza sapere cosa si prova con il respiro bloccato nei polmoni… mentre ti saltano le coronarie per aria, muori, e arriva la fine del mondo con i Maya e tutto il resto. Più o meno ciò che ci ha gentilmente spiegato mister Thompson: forse anche lui ha i nervi fragili.

- Idiota – Gabriele è passato all’arruffamento casuale dei capelli – L’infarto credo di essermelo preso io.

- Per la fine del mondo e il 21 dicembre 2012? – Andrea gli pianta gli occhi in faccia, sarcastico – Guarda che è lontano: c’è un mucchio di cose belle che si possono fare, nel frattempo…

Come fare l’amore con te. Tutto il tempo che vuoi.

- Parlavo di te – Gabriele ridacchia – Mi preoccupi. Se arrivi a starci male fisicamente, la cosa mi inquieta un po’.

- A me inquieta di più l’esistenza di uno psicopatico che vive per distruggermi l’esistenza. Mi inquieta Patrizio che non si accorge di essere tra incudine e martello. E mi inquieta Thompson che è sempre nel posto giusto come un deus ex machina. Mi inquieta un casino di cose, eppure sto qui.

E mi inquieta lui che sospira su Elena, e mi inquieti tu e il tuo cazzo di mordi e fuggi e il tuo modo di rigirarmi intorno al mignolo. Di cuocermi a fuoco lento.

Fa strano… vero, Andrea? Eri tu, una volta, quello che sollevava e faceva calare le maree, rivoltava l’Accademia intera per ballarci sopra e teneva in scacco gli umori del popolo. Ti rendevi indispensabile e poi ti negavi.

- Ho bisogno di una vacanza – Andrea chiude gli occhi, cullandosi nel suo stesso respiro.

E in quello di Gabriele che gli sfiora la punta delle dita, e le labbra che si schiudono in un bacio.

- Senti, finiamola qui.

Possibile che non ci sia niente di più interessante da fare, di stare qui a rimestare nel fango, di rigirare quegli spilli infilati nella carne?

Andrea si tira su di scatto. Ma la mano resta lì al suo posto, le dita intrecciate a quelle di Gabriele.

Basta parlare, tergiversare, farsi venire la paranoia a furia di cercare l’oro in un vaso d’acqua sporca.

Attende, i secondi che gli martellano contro lo sterno. Le labbra di Gabriele premute sul dorso della mano come una scarica di adrenalina.

Ho paura di sollevarmi su di te, di sfiorarti e farti male. Riprendere dov’eravamo rimasti e baciarti fino a farmi dolere i muscoli della faccia. Ho paura che possa sfuggirmi di nuovo. Non c’è più quella reticenza di piombo, o forse è solo una mia sensazione.

C’è solo la leggera morsa di un capogiro che gli artiglia la nuca, prima che ne prenda coscienza, e le labbra gli si schiudono su quelle di Gabriele e le imprigionano sotto le sue, e il suo corpo che esplode in un parossismo di brividi lungo la spina dorsale, il languore che sale a ondate e gli formicola in fondo alla gola, avanti e indietro sul filo di una lama.

È sempre diverso: c’è sempre quella percentuale di imprevisto che fluttua su e giù, il rischio potenziale di avvicinarti alle braci, il tassello che non torna mai a posto. L’esplosione arriva sempre nel punto che non avevi calcolato, quando chiudi gli occhi e vedi nero, e non esiste più la tua stanza, la noia mortale, la sfumatura tra l’oggi e il domani.

Sì, Derossi: questo è decisamente più interessante. E stavolta non te ne volerai via.

Sospira, le mani che vagano lungo i fianchi, in attesa di tutto e in attesa di niente. Niente di speciale, stavolta.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 46
*** Capitolo 46 - Crema inacidita ***



Capitolo 46

Crema inacidita

 

 

Patrizio si rigira le chiavi dentro la tasca. Il primo impulso è stato cercarlo giù al bar, ad annegare i fumi del rancore in una tazza di caffè bollente. Tipo l’altro giorno, con Tony che lo guardava storto e uno sciame di uomini-massa che ridacchiava dietro le sue spalle, una ventina di sguardi appesi alla catena sui fianchi e alle zeppe che lo staccavano quattro dita dal suolo. Brutto essere diverso, quando non hai la pelle, la faccia giusta per sbatterlo addosso a chiunque.

La cosa che riesce meglio ad Alex è seminarti, lasciarti morire inghiottito dai suoi passi. Dote che può tornargli utile ora, con una taglia sulla testa e Basile a caccia di streghe.

Ora è lì accanto alla sua stanza e attende l’Apocalisse, gambe incrociate e schiena rigida contro il muro. Non si limita ad appoggiarsi: ci sprofonda con tutto il peso, i capelli viola che fanno a pugni col giallo piscio dell’intonaco. Niente di meglio da fare che strapparsi le pellicine intorno alle unghie fino a sanguinare, un modo per ammazzare il tempo e l’angoscia.

Patrizio deglutisce, in attesa. Lo fissa e attende il via. Che si accorga di lui. Che sollevi lo sguardo dal suo casino. Tana, Mr. Thompson.

- Sei impazzito? È mezz’ora che ti cerco. Che ci fai qui? – scrolla le spalle, sollevato.

- Non sapevo dove cazzo andare… – il verdetto, scandito da labbra nervose.

Le dita che si torcono l’una contro l’altra, impazienti. L’impulso ancestrale alla fuga.

- Dove sei stato? – Patrizio si lascia cadere al suo fianco, il pavimento gelido come una morsa sotto le natiche.

- Secondo te? – Alex solleva gli occhi al cielo, una scintilla di sarcasmo.

- Stanotte, dico.

- In macchina – distoglie lo sguardo – Con il gatto di Nicoletti.

Patrizio lo squadra da testa a piedi, le narici che fremono nella smania di capirci qualcosa in più. Non sembra troppo reduce da una notte all’addiaccio: i capelli puliti gli ricadono composti sulla faccia – al solito posto. La faccia non troppo disfatta, i vestiti non troppo spiegazzati.

Che ci fai qui da me? È l’unico punto fisso del tuo ciondolare qua e là?

- Non ho altro posto dove andare – sussurra, rassegnato.

- Puoi venire a stare da me – Patrizio si stringe nelle spalle.

E si morde la lingua, perché una frazione di secondo in più gli soffia in faccia che è troppo tardi, troppo per tornare indietro, ragionarci a bocce ferme e decidere se è il caso di scoprirsi così, passando per uno stalker o uno che non sa farsi un pacco di cavoli suoi.

- Ho una doppia – prosegue – E uno dei letti è libero: mio fratello è fuori con la ragazza… e ne avrà per un bel po’. Puoi venire a stare da me, finché non ti rimetti in regola. Se… non ti scoccia.

- Io sono in regola – lo interrompe Alex – E avevo pure la mia singola. Poi è arrivato Piani e mi ha praticamente costretto ad andarmene… con la scusa del gatto, che manco era mio, che non avevo la più pallida idea di cosa stesse succedendo. Ma capisci anche lui – Alex storce le labbra, una voce sul finto-svenevole – Voleva stare vicino al suo amichetto del cuore per esercitarsi la domenica, e io stavo in mezzo alle palle. E, comunque, non ho nessuna intenzione di starmene vicino a due che possono soffocarmi nel sonno se gli gira male.

- E allora vieni da me – Patrizio deglutisce a fatica – Almeno te ne stai tranquillo.

Piano. Non scoprire le carte. Fa’ finta che sia casuale, stile buonsamaritano. Una pezza provvidenziale sopra il disastro.

Ignora il formicolio al basso ventre: Alex Thompson come compagno di stanza. La prima faccia che vedrebbe appena sveglio, con il sapore dell’alcool sulle labbra e gli occhi impiastricciati di kajal struccato a cazzo la sera prima. La voce leggermente roca di primo mattino a raschiare contro i timpani. Il box doccia in comune. La barretta di metallo infilata nel capezzolo sinistro.

Profittatore. Ti piace così tanto?

Deglutisce a vuoto, la salivazione azzerata e un formicolio fastidioso che morde alla base della nuca. Forse è solo questione di tempo.

- Ne sei sicuro? – Alex solleva un sopracciglio, distratto, le iridi di giada incastrate tra un micio trovatello, uno sguardo al vetriolo da parte di Andrea e le paturnie di metà mattina.

Patrizio si stringe nelle spalle.

Piano. Non farlo scappare di nuovo. È sempre la solita corda tesa. Tra lui e Andrea. Tra te e Basile. Tra la prudenza estrema, l’imbarazzo, la paura di scottarsi le dita, e la volontà di scoprire tutte le carte per sciogliere le ambiguità.

Annuisce.

- Già. Così Basile si farà i suoi bei film – Alex ridacchia – Se li farà a ragione: dirà che ti ho plagiato, messo in testa cose assurde, rivoltato contro di loro. E mi metterà in croce.

- Che stronzate! – Patrizio si ravvia i capelli con un colpo secco – Io non devo rendere conto a nessuno di ciò che faccio… o con chi voglio dividere la stanza, a chi rivolgo parola. Non sono libero di fare il cazzo che mi pare?

- Se permetti – Alex si schiarisce la voce, un’espressione sagace a contrargli gli zigomi verso l’alto, quasi un sorriso – Mi sarei fatto un’idea.

- Spara! – Patrizio raccoglie le gambe contro il petto, il mento sulle ginocchia.

Fa’ che non sia ciò che penso io.

- Ci ho pensato a lungo – Alex si osserva distrattamente le unghie, smalto nero opaco sbeccato in più punti e peli di gatto intorno al polsino – Detta così, potrei anche non avere motivi per stare sul cazzo a loro. Basile pensa che gli abbia rubato il posto e che sia un fottuto raccomandato, okay. E poi? Ha fatto ricorso, la Balducci rischia guai… Fatto: problema risolto – schiocca le dita – Cosa vuole ancora da me? Niente, è chiaro.

- Alex, non è così semplice – Patrizio si stringe nelle spalle.

- Pensa che sia emo, che sia gay o chissà cos’altro, che la cosa lo autorizzi a prendermi a calci nello stomaco? No. Mi sa di cazzata. È troppo poco.

Io vorrei che fosse una cazzata.

Patrizio vorrebbe raccogliersi su sé stesso, farsi piccolo fino a scomparire. Sono tuoi amici, cocco.

- Forse ti stai confondendo con Riccardi – biascica, ma il dubbio gli martella il cervello e guizza fino alla punta delle dita.

- Non lo conosco, Basile, ma non sembra così idiota – Alex scuote il capo, spazientito – È stronzo, non è coglione. Penso ce l’abbia proprio con me. È Alex il problema.

- Uhm… – Patrizio lo osserva di sguincio – Sei gay?

L’ha buttata lì. E ha distolto lo sguardo, l’imbarazzo che schizza a ondate fino alle tempie. Non voleva schiaffargli la domanda così, a sproposito, ma ormai il danno è fatto.

Alex sbatte le palpebre e si limita a un gesto generico con il braccio. Che suona come “lascia perdere”.

- Non è importante. Non cambia molto.

Per Basile, forse, per chi si reputa in diritto di renderti la vita uno schifo, che tu sia bianco o nero. Per me, cambierebbe eccome.

Una fitta di desiderio gli serpeggia addosso, si assesta alla bocca dello stomaco e da lì si dipana verso il basso, incendiandolo. È così egoista e inopportuna. Perché tutto sommato non sarebbe male, se avesse un marchio stampato in fronte per disambiguare. Non si capisce, cazzo. Chi o che cosa gli piace, se davvero gli piaccia qualcuno, uomo o donna. Non lascia trapelare niente. Non sembra innamorato, solo un po’ svagato. Sembra che Loria non lo lasci indifferente, ma sembra anche un’idea buttata sul tavolo e abbandonata a sé stessa insieme ad altre mille.

Riccardi si vantava di averlo capito subito, che Derossi era un finocchio. Ciglia lunghe. Sopracciglia scolpite. Qualcosa nel modo di gesticolare, di camminare. La cazzata storica.

Lui invece sembra una stella asessuata. Lui e i suoi occhi pseudo-truccati e il suo muso storto e imbronciato da ragazzino punk.

- Se può consolarti, il mio coming-out risale a pochi giorni fa – Patrizio si fissa le unghie.

Quando ero ancora convinto di sapere con chi avevo a che fare. Prima che la mia impalcatura di certezze crollasse e non lasciasse dietro nulla. Solo cenere, amarezza, veleno.

- E… beh, è stato tranquillo. Niente facce brutte, niente battute idiote. Non cambia nulla.

Credevo di conoscerli. Credevo di specchiarmi su una superficie piana, di andare sul sicuro. Che lui non fosse ciò che è. Ipocriti doppiogiochisti, poliedri con troppe facce.

- Non ci contare troppo! – Alex arriccia il naso – Non è “gay o etero”, il problema. Sono io, te l’ho detto.

- Tu?

- Non ci credi? – Alex solleva le sopracciglia, un sorriso acidulo – Pensaci bene: cos’è che gli fa prudere tanto le mani, al tuo amico Basile stronzofottuto? Da quand’è che è iniziata questa storia?

- Da quando gli hai soffiato il posto… secondo lui – lo interrompe, metallico, un fondo di esasperazione: perché ripercorrere tutto a ritroso? Perché così e ora? – Da quando l’hai sfidato in mezzo al piazzale e sfanculato di brutto.

- Da quando tu ti sei avvicinato a me. È questo che non sopporta: che tu prenda le mie parti e non le sue. Tu che sei anche suo amico.

- Un po’ complicato, difendere l’indifendibile! – Patrizio sbotta, il volto in fiamme – Anche se è tuo amico. Che avrei dovuto fare? Stringergli la mano? “Complimenti, ciccio, potresti usare insulti più fantasiosi… Oppure, bando ai sentimentalismi: la prossima volta picchia duro!”.

- Pensaci, Patrizio! – Alex spalanca gli occhi, e così fa un po’ di paura, perché le iridi sono tutto un ribollire sotto la superficie – Sei il front-man figo della sua fottuta band fottutamente figa, il suo gioiellino… Uno duro, quadrato, con le palle. Il suo sogno incarnato.

Le labbra si piegano in un sorrisetto perfido.

Come Nicoletti. È quello che stavi per dire?

- Sei l’uomo che fa per loro, quello che cercavano. Canti da dio. Saresti perfetto – Alex ridacchia – Ma sei gay. Okay, questa passi: nessuno è perfetto. Basta che non lo dia a vedere, che non cominci a sculettare, vestirti di rosa o mostrare di avere un qualche sentimento. Ma tu no! Tu cosa fai? Ti mostri tollerante con me! L’esempio negativo. Raccomandato. Emo. Sputtanatissimo. Non solo non sei d’accordo con loro, ma addirittura mi rivolgi parola, cerchi di fare amicizia. Gli vai contro e mi difendi spudoratamente. Gli metti le mani addosso per un cavolo di sospetto.

- Io non lo so cos’è successo – Patrizio si prende il capo tra le mani – Non lo so cos’ha visto, cosa crede di aver visto Derossi quel pomeriggio, cosa gli dice il cervello, se era strafatto di crack o della solita erba per signorine, ma voglio darti il beneficio del dubbio. Non riesco capire chi ho di fronte: se Basile scherza o fa sul serio, se mi ha preso per il culo tutto il tempo… e che diavolo ha in mente. Non so dove girarmi.

- È questo il problema – Alex distende le gambe, lo sguardo fisso sulla punta delle Converse nere di quarta mano – Sei tu. Tu che mi stai addosso, che l’hai cazziato per qualcosa che ha a che fare con me… E cava gli occhi a un cieco, dai: Basile ha capito. Ha capito che sei cambiato, che gli vai contro per partito preso. Per uno che lui odia a morte, e chissà cosa ti ho detto, chissà quanto ti ho riempito le tasche! Perché l’hai fatto, Patrizio? Rovinerai tutto.

- Grazie della considerazione! – Patrizio trasalisce, ma si obbliga a mantenere lo sguardo fermo nel suo che fugge e gira in tondo nel nirvana della sega mentale – E quindi tu sei quello che non avrebbe “uno straccio di nessuno disposto a spendere mezza parola per lui”? Quindi io sarei “uno straccio di nessuno”? Fai pace col cervello!

- Tu sei un discorso a parte – Alex scuote la testa, esasperato – Sei l’amico di Basile. E sei in una brutta posizione. Pensavi di fare la cosa giusta e hai agito d’impulso, hai detto “mo’ vado lì e gli spacco il culo”.

Patrizio avverte i pugni contrarsi per la tensione.

Dannatissimo, ingrato, stupido ragazzino.

Comincerà a chiedere. A farsi domande. Perché sono piombato nella sua vita, aggiungendo il mio al suo casino. Perché mi sono preso tanto a cuore la sua faccenda.

Dannatissimo.

- Non ti fidi di me? – Patrizio deglutisce a fatica, un nodo in gola dalle dimensioni di una valanga – Pensi che faccia il doppio gioco?

- Penso che ci stia prendendo gusto – Alex schiocca la lingua, il solito sorriso indecifrabile che gli pende dalle labbra come una malattia, come un mantra fastidioso – A metterti contro di loro, a fare il Robin Hood degli sfigati.

Si lascia andare contro la parete, un sospiro che gli vibra addosso, che inghiotte i pochi atomi d’ossigeno residui e li rende taglienti. Non si limita ad appoggiarsi al muro: ci affonda a peso morto, si lascia risucchiare.

- Ho i miei motivi – Patrizio gli afferra il polso, perentorio: magari riesce pure a evitare che si corroda la pelle intorno alle unghie fino a farsi cascare le dita – Non vedo perché dovrei mettermi un paraocchi e fingere che Basile abbia ragione, che non stia facendo niente di male, quando la sta facendo fuori dal vaso e si è fissato con questa storia.

- Patrizio, Patrizio…! – Alex ciondola la testa come una bambola rotta, gli occhi chiusi: sembra rassegnato – Perché lo fai? – riesce a sputargli, alla fine, la voce che si spezza – Mi vuoi morto? Quello è convinto che io ti stia rovinando: per questo mi odia e mi vuole fuori di qui.

- È assurdo! – Patrizio arriccia il naso – Lo faccio perché voglio vederci chiaro, perché lui non me la racconta giusta. Perché fino a questo momento credevo di aver a che fare con un certo tipo di persona, ma a quanto pare non l’ho ancora conosciuto bene. E sarà una doccia fredda, una martellata sui coglioni.

- Bene – Alex solleva lo sguardo verso il soffitto – Ottimo. Se poi, mentre chiarite l’equivoco da bravi amiconi, evitate di tirarmi in mezzo, di giocarvi la mia pelle, ve ne sarò grato. Non è normale, Patrizio – Alex ammicca.

E gli punta addosso quegli occhi assurdi, appena velati di stanchezza. Ma bruciano come spilli roventi ficcati addosso.

- Perché lo fai? Non è questo, c’è dell’altro.

- Forse perché, casualmente, sei tu quello che c’è finito in mezzo – Patrizio si passa una mano tra i capelli; tergiversa – Non pensar male, eh! Non gliel’ho mica suggerito io, che doveva detestarti per il fatto di esistere, darling.

Perché hai la pelle troppo delicata. Perché hai osato sfidarlo in campo nemico, mettere piede nel suo mondo dorato. David contro Golia e privo di una fionda, stretto tra l’impulso alla resa e il massacro annunciato. Perché ai loro occhi sei un cazzo di moccioso mezzo emo che farebbe meglio a chiudersi nel cesso a tagliuzzarsi, senza menarla troppo, senza offendere il loro gusto estetico con la sua presenza, senza rubare ciò che è loro. Che sia uno stage o un amico o una pedina sullo scacchiere.

Perché uno così, caro Basile, è quel tipo di persona che ti esalta umiliare, perseguitare fino a vedere il sangue e le lacrime sbocciargli sulla faccia.

Perché forse Thompson ha fottutamente ragione. Forse ha visto qualcosa di più.

Perché lo fai, Patrizio?

- Uhm… – Alex riprende a guardarsi intorno, scettico.

Lo sguardo saetta verso il basso e si assesta sul pavimento. Fugge via, scivola come olio, come schiuma sulla pelle, non si lascia afferrare.

- Tu cosa ci guadagni in questa storia, Patrizio? – ammicca, cinico.

Stai bluffando. Ce l’hai scritto in faccia, su quel sorriso di plastilina. Non sei in vena di scherzi: vorresti piangere, dichiarare bancarotta, ma continui a girarci intorno.

Un respiro profondo, l’ora della verità.

- Infatti, non è tutto. C’è un altro motivo… – calma – C’è.

Silenzio. Occhiata di ricognizione verso i piedi, tanto per assicurarsi che stiano ancora al loro posto. Lo sguardo che vira verso il corridoio e da lì fino all’imboccatura delle scale: nessuno in vista. Il delitto quasi perfetto.

- Questo – esala.

A due centimetri dalla sua bocca socchiusa.

E poi ci sono solo quei centimetri che diventano millimetri che diventano uno schiocco infinito, un pugno di attimi smarriti in qualche via di fuga tra le labbra che si toccano. Che si cercano e sfregano l’una contro l’altra e riscrivono i contorni di un’angoscia che non smette di bruciare sulla pelle, di sfrigolare come una colata d’acido.

C’è l’ansia di non farsi cogliere in flagrante e non scoprire troppe carte. Di fronte a lui che ha l’occhio lungo, lo sguardo vigile. La paura di mandare all’aria un intero castello di buoni propositi. Di rovinare tutto con un gesto, di farselo sfilare dalle dita.

Le sue labbra. Che non lo respingono e non lo accolgono: restano lì immobili, a decantare la sua paura, gustarla, rigirarsela in punta di lingua e poi riprendere da capo. Lo sguardo che vaga da qualche parte sul suo viso, sotto le palpebre socchiuse. Respira più forte, trema, ma non si scosta, non scappa. Non cede alla volontà di ricambiare le carezze intorno ai fianchi o all’impulso di mollargli una ginocchiata in basso. Un gemito stupefatto, appena percettibile in uno spazio ritagliato a caso, quando molla la presa e indugia verso la sua mascella contratta.

- Ecco… – sussurra, mentre tutto va a fuoco, i contorni si sbriciolano e una mano provvidenziale si affretta a riscriverli, e tutto va in frantumi e gli vortica intorno – È questo. Sono con te. Mi piaci… non so.

Non nel senso che mi stai simpatico o mi piace il colore dei tuoi capelli. Mi metti le farfalle nello stomaco, e per me la cosa è grave.

Alex spalanca le palpebre. Le guance arrossate, che nel suo caso virano sul fucsia intenso, e una piega impercettibile all’angolo della bocca. L’enigma racchiuso nella composizione spigolosa del suo viso, mentre scuote le ciglia e cerca di riprendersi. Forse è il disgusto, il rifiuto imminente, ad arricciargli le labbra. Forse è semplicemente sconvolto o sull’orlo del collasso. Forse tra un po’ vomita.

Non sei un libro aperto, cazzo. Sei la mappa della caccia al tesoro. Sei tremendo.

- Ehi… – Patrizio stira le labbra e gli posa le mani sulle spalle come un pallido sedativo – Va tutto bene, eh. Libero di mandarmi a quel paese.

E le labbra di Alex si incurvano, gli occhi lustri.

 

* * *

 

Non pensavi che facesse così male, il sapore acre della vittoria afferrata per il rotto della cuffia. Della battaglia che non ha mai avuto luogo se non nella vostra testa, nel delirio tra una birra e l’altra, tra colpi di piastra sui capelli biondi, luci slavate e guizzi di ombre sulla parete a farti compagnia.

La favola che piace tanto ad Andrea, sul sedersi in riva al fiume con la vanga in mano e il cadavere da seppellire, e giù menate varie, è la tipica favola a misura di ingenuo.

Balle: non è così che ci si sente. Dopo si sta male, di merda e senza un perché.

Fa male vedere l’altra faccia del mondo, odiata e idealizzata una sega mentale dietro l’altra, crollare e infrangersi al suolo, cessare di essere punto di equilibrio e di rottura. Non era disprezzo, in fondo, quello che ti colava dalle ciglia mentre affilavi la lama e apparecchiavi la loro disfatta con il note-book sulle ginocchia e il cuore pesante.

La vendetta a sangue freddo non è un gioco per cuori teneri, idealisti della domenica e ragazzi incazzati col mondo. Frigge come calce viva.

È strano vederlo così. Ciò che per lungo tempo, ai tuoi occhi, è stato il tassello mancante, la nemesi, l’immagine patinata che rifiutava il tuo ingresso nel suo mondo. Una volta c’erano loro, c’erano sguardi che si intrecciavano, mani che si agitavano nell’aria, gioie da condividere, segreti sussurrati, veglie al chiaro di luna e risate che sapevano di miele. Loro che si cercavano e stavano insieme, irradiavano vita e calore e pisciavano in faccia al mondo la loro individualità tagliata con la squadra. L’equazione sconnessa per cui loro erano l’esistenza, e tu la negazione, il rancore e l’apatia. Il frammento da rigettare indietro.

Non li hai mai guardati per quello che sono; una parte di te voleva stare con loro, assaporare com’è che ci si sente a far parte di qualcosa, immersi fino al collo nella soluzione alcalina della realtà, capaci di lasciare il segno dietro i propri passi.

Ora il giocattolo si è rotto, e non pensavi fosse… così, come liberarsi di una parte di sé. Con il vuoto nello stomaco e l’ingresso laterale del bar che ti accoglie con uno sbatacchiare di tende in faccia e lo scacciapensieri che oscilla appeso alla maniglia.

Lezioni terminate, tre ore di libertà per adoperarsi in qualcosa di costruttivo, e tutto ciò che riesci a fare è caracollare qua e là senza meta. Misurare il campo di battaglia dopo la battaglia, in cerca di feriti.

Il quadro ti rimbalza addosso, ma sembra incompleto, il chiacchiericcio non ti tange. Non eri tu, quella che in mezzo al caos esistenziale, si trascorreva l’intera mattinata senza spiccicare parola, appiattita al suolo?

Isa appiccicata ad Andrea. La pagliaccia Sara che ti faceva il verso pasticciandosi gli occhi di nero, e tutti che scoppiavano a ridere.

Scusa, Loria, non è nulla… Ho detto qualcosa? Non ho detto niente. E di nuovo risate e giochi pirotecnici per confondere l’avversario.

L’amica ossigenata con la faccia da maschio in cerca del malcapitato su cui allungare le grinfie – e della presunta rivale da impallinare. E poi Alberti, boss incontrastato, che si cagava tutte meno che te – una specie ben strana di donna. E Riccardi a caccia di streghe.

Era crema dall’aspetto allettante, ora è panna acida. Ma misurarti con loro, in qualche modo, ti aveva reso viva. Tra una vena depressiva e l’altra. Pensavi a loro, il trucco steso male che ti colava sulle guance sotto l’impulso delle lacrime, mentre Galileus solleticava la tua indole stronza con il sogno di distruggere Alberti – all’inizio non ci credevi: uno schizzato in più a piede libero che forse si prendeva gioco di tutti.

È venuto il turno di Alberti: caduto senza speranza di ripresa, uno strike perfetto. E poi Neri, ma quella non è stata un’idea tua, perché era l’unico che ti si filava. L’unico che vedesse oltre il velo che mettevi tra te e gli altri, qualcosa in più di un grigio uniforme. Poi anche lui si è rivelato una merda. Si è fottuto Andrea, e Gabriele ha dato di matto.

Però erano bastati un suo elogio di troppo e i complimenti di Andrea dopo un’esibizione discreta, a scatenare la fantasia omicida di Isa.

Adesso non c’è più. Dicono che Isa abbia sgabbiato di nuovo, e a farne le spese è stata l’ossigenata ninfomane. La pagliaccia resiste ancora, forse perché a Sua Maestà serve ancora una che le tenga la porta mentre va al cesso. Di Riccardi se n’è occupato Alberti, con nonchalance e un calcio stampato sul fondoschiena. Ineffabili come sempre, a distribuire o negare il pass per il paradiso.

Isa si avvicina. Schioda le chiappe dal suo trespolo, lo sgabello incollato al bancone da cui si osserva intorno come un rottweiler che ha fiutato il ladro. Ti fissa. Quasi hai paura, perché se una Isa razionale e calcolatrice è pericolosa di per sé, una Isa isterica è fuori controllo.

Peccato non possa più nuocere, non a lungo e con segni visibili.

- Avevi capito tutto… Brava.

Sospiri, perché è il primo impatto, quello che scioglie il ghiaccio.

- Cosa vuoi ancora? – le ringhi.

Mostrarsi scorbutici è d’obbligo, è il si-ne-qua-non per stabilire un contatto. Sia pure distruttivo. Lei non è qui per giustificarsi: odora di rabbia e di fiele da un chilometro di distanza. Scusarsi per una piazzata infelice e una minigonna strappata non è nel suo stile: lei ha sempre ragione, e se anche ha agito male, dirà che ha avuto i suoi sacrosanti motivi.

- Avevi ragione su una cosa: erano dei poveracci.

- Oh, se lo dici tu…! – sorridi, evitando allusioni e sollevando il bicchiere mezzo pieno.

Caffè e ammazzacaffè, e poi di nuovo in giro a far danni.

- Potrei ringraziarti, se non mi stessi sulle palle – Isa schiocca la lingua – Brava! Sei la rivelazione dell’anno. Sei scandalosamente figa: non te ne rendi conto, ma questa è una rivoluzione in piena regola. L’epifania del marcio. Dell’imbecillità che c’è in giro.

Sollevi gli occhi al cielo: te l’aspettavi, il momento topico. Attacco, botta e risposta. Adesso perderà il filo e attaccherà con il solito pippone delirante su Andrea e su di te bruttacattiva, e finirà con il solito vaffanculo bilaterale. Eppure non ti schiodi da lì. E non si schioda lei: continua a fissarti, le palpebre socchiuse sugli zigomi contratti.

- Tu mi fai paura, Loria – sentenzia – Sei partita da zero e hai messo a soqquadro tutto. Avevi capito chi erano, forse ti fingevi cretina per non farti sgamare. Dopo questa, puoi fare quello che vuoi, ricostruirti una vita, buttare tutto all’aria… Sei sprecata per fare da balia ad Andrea e combattere le sue battaglie inutili al posto delle tue. Scommettiamo che, come sei stata capace di mandare a puttane la mia vita, portarmi via Andrea, distruggere chi ti stava sul cazzo, rivelarmi a suon di schiaffi con che razza di cretini avessi a che fare, adesso riesci pure a farti una vita?

- Non sono affari tuoi – le soffi in faccia, acidità di stomaco in eccesso.

Ma forse ci crede davvero: forse, per un attimo, la scintilla che le guizza in fondo alle iridi è qualcosa simile all’ammirazione: saresti una preda ben più succulenta, più dell’ossigenata senza cervello e del teppistello da asilo Mariuccia.

- Non ti piacerebbe, che ne so… Avere un fidanzato?

- Già – scrolli le spalle, trattenendo una risata: se fosse una tattica studiata per convincerti a prenderti un pollo qualunque e lasciare in pace Andrea, sarebbe la più stupida mai partorita, completamente fuori dal suo stile – Lo diceva anche la nonna Pina. Che sono in età da marito.

- Vediamo – sussurra, salottiera, e si avvicina come una belva – Hai presente… Thompson? Secondo me gli interessi. Anche se, boh – pausa di ricognizione, studiato roteamento di iridi sotto le luci al neon – Non so… non mi convince molto. Non sembra così “uomo”, comprendi? Però c’è Moro, se vuoi: lui è carino.

‘fanculo. Chi è Moro? Uno dei tirapiedi di Basile, quello meno schizzato che preferisce farsi gli affari suoi?

- Senti, facciamola finita – vuoi tagliar corto: almeno tentare – Se hai paura che allunghi le mani su Andrea, va’ tranquilla.

Tecnicamente è pure la verità: lui ama Gabriele, e niente ti scalzerà l’idea dalla mente.

- E poi c’è Lastella – prosegue Isa, incurante delle obiezioni, della tua faccia annoiata, dell’eventualità di ritrovarsi da un momento all’altro nell’ameno paese di Fanculo.

- Ehm, Lastella è gay – la constatazione arriva in automatico.

Per negare fino all’ultimo.

- Luca Lastella, tesoro – Isa sorride, diabolica – Il direttore del gazzettino… quello tutto inzecchito. Cominciano a girare voci. Felicemente fidanzato, ma io mica ci credo a questa storia. Eri o non eri il suo trastullo?

Trasalisci. L’unica immagine che ti folgora la mente è una mattonata da dieci chili che ti mozza il respiro, il cuore che scivola all’altezza delle suole. Se non fosse così, la guarderesti in faccia e diresti che le ridono anche le chiappe, il rossetto scarlatto come una ferita inquietante. Trattieni il fiato, e la ruota riprende a girare fino a non vedere più i raggi. Il famoso pedone impazzito che irrompe in mezzo alla scacchiera e rimette tutto in gioco.

- Che puttanella! – Isa scoppia a ridere – Non hai mai perso il vizio di rubare ciò che non è tuo… Scommettiamo che sai rifartela, una vita che sia tua, con o senza Lastella? – incalza, beffarda.

- Non ho bisogno di scommesse idiote e non devo dimostrarti nulla – la geli, voce piatta e controllo alle stelle

- Però adesso puoi dimostrare quello che vuoi: era il tuo sogno, no? Avere i riflettori puntati. Ormai aspettano tutti la tua prossima mossa: vuoi deluderli?

- E allora scommettiamo quello che vuoi. Che almeno io non ho bisogno di giochetti del cazzo.

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 47
*** Capitolo 47 - Killing me softly ***


Capitolo 47

Killing me softly

 

 

È paura, forse, ciò che ti riverbera addosso; è terra che frana sotto i piedi, grumi di tensione tra la mossa e l’iniziativa, tra uno sfregamento casuale dell’anca e un bacio sul collo. Un nodo di tensione che ti serra la gola, perché sai che stavolta non ci sono veli, non ci sono aspettative che ti spingono: l’ha detto anche lui. Te l’ha detto con gli occhi velati da un’eccitazione crescente, il respiro corto, il movimento sinuoso della schiena mentre gli sfilavi la maglietta e non ti chiedevi più il perché.

Non muove un passo, Andrea: si limita ad annuire, ad assecondare ogni sfioramento con un guizzo impercettibile del bacino, il battito che accelera e si impenna: paura di spaventarti, di rompere i cristalli e far fuggire il gatto.

Te l’ha detto con un sorriso impercettibile e le palpebre socchiuse: Derossi, il caso è tuo. Paura di rovinare tutto, più che astuzia studiata per poca voglia di collaborare, allungarsi sul letto e lasciarsi fare, cederti l’iniziativa, massimo tornaconto col minimo impegno.

Affondi il viso nei suoi riccioli di miele sparsi sul lenzuolo, in attesa che la vocina fastidiosa nella tua testa, che vorrebbe guidarti, si risolva a tacere: in fondo non c’è nulla di complicato, di inedito. Un ragazzo come te, che reagisce come reagiresti tu, stimolato in quel modo sadico e folle, la pelle tesa che scorre tra le dita; stessi impulsi epidermici, stesse risposte: tutto sta nel fingere che al suo posto ci sia tu, e goderti ogni respiro da dentro e da fuori fino al punto di fusione.

Distratto, giochi con i suoi capelli e con il bottone dei suoi jeans, perché non sai dove mettere le mani e lui non dà segnali: fissa un punto misterioso oltre i tuoi occhi e attende all’infinito. Un passo avanti, uno solo: non chiedi tanto, stavolta. Ma c’è ancora la paura che cristallizza i movimenti in uno stillicidio, la mano che indugia su di lui intorno alla cintura. E poi viene la notte.

Uno scatto improvviso da parte sua, un colpo di reni che ribalta le posizioni e ti lascia lì con il cuore in gola.

- Basta, Derossi – sussurra, lo sguardo che si perde e poi di colpo è di nuovo lì, lucido e sconvolto su di te a scavare tra le ombre sul tuo viso – Basta così.

Torreggia su di te, accosciato in corrispondenza dei tuoi fianchi, le gambe divaricate, il torace liscio che riluce appena sotto il chiarore dorato della tapparella semiabbassata. Il guizzo impercettibile di un sorriso sullo zigomo contratto: ora ti faccio vedere.

- Basta negarti a me! – sospira – Basta farmi morire così…

È la soluzione che aspettavi, che temevi, che hai rimandato all’infinito. Fa male, fa male lui, un ago conficcato sotto la pelle, perché è l’unico momento in cui è veramente sincero, veramente lui, in cui il sipario cala e si porta dietro la sua razionalità. Perché Andrea mente sempre, mente anche quando vuole dirti la verità, e quando mente ride, e gli occhi lo tradiscono. Ma la sua pelle che va a fuoco, gli occhi lustri, il turgore del suo sesso dentro quei jeans troppo stretti, il respiro che grida e freme sulle tue labbra, quello è reale e inequivocabile. È il suo linguaggio più sottile e autentico.

- Andre…

Forse il controllo ti ha abbandonato quando è andato via il sole e avete smesso di fissarvi negli occhi, una sinfonia di ombre tra un gemito e l’altro e le sue labbra avvitate alle tue. Un vero bacio, i denti che grattano impietosi contro le labbra aperte, spingono la tensione al limite, scavano voragini in fondo al petto. Questo è quello che sono in grado di fare, Derossi. E poi riprende a sorridere – il tocco delle sue labbra testimone, i muscoli del viso che si tendono.

Ti intrappola tra le sue gambe, le anche incollate alle tue, e oscilla strappandoti un sospiro.

La celebre scopata da vestiti che lo rese tristemente famoso. Vorresti scoppiare a ridere, e in fondo non ci sarebbe nulla di male, perché le labbra continuano a cercarsi, a inghiottire frazioni di respiro, a giocarsi ogni singola boccata d’aria.

L’hai sempre voluto: il desiderio così disperato da scolpirsi a fuoco nella carne, da inciderti la pelle a morsi. L’hai voluto quando sembrava un miraggio, una situazione destinata a beffarti al girone d’andata, a sputtanarsi all’infinito, a scivolare sempre più verso il punto di non-ritorno. Ma non glielo dirai mai, che l’ultima volta te la sei cavata così, intrappolandolo sotto di te e prendendoglielo in bocca fino a fargli perdere i sensi, solo per la paura che fosse lui a toccarti, a farti vibrare, a scartarti dal tuo guscio di autocontrollo. Era bello non sporcarsi le mani, non affrontare l’incognita – la paura di farvi male, la paura di vivere.

Quella che chiunque può descrivere come la sensazione più assurda e devastante dell’universo, è solo lo strappo della coscienza che va alla deriva, che cede al languore, i sensi che si appannano e si confondono. È il fatto che racchiuda in sé un frammento di dolore, la malinconia del distacco.

Lui invece è nel suo elemento, le mani che vagano su di te, sui bottoni della camicia che per poco non cedono alla sua furia, al suo desiderio irrazionale di esplorare. Il suo tocco di velluto che si inabissa, segue strani percorsi, disegni astrusi sulla pelle, sulla muscolatura contratta.

Non credevi sarebbe stato così: uno strattone dopo l’altro, un brandello di lucidità come fumo negli occhi, le lenzuola stropicciate strette tra le dita. Andrea che si scosta i capelli dal viso e si china su di te, sempre più in basso, sempre più in là oltre la barriera sottile dei boxer attillati.

- Derossi… sei mio – mugugna, e deglutisce a vuoto – Lascia fare a me.

Il tuo regno, Andrea. Il tuo regno per rendermi parte del tuo personale delirio.

Perché sarei schizzato via, se non fossi stato tu. La tensione sarebbe diventata panico, il panico un incubo da cui affrancarsi, e da lì guadagnare la via d’uscita col respiro bloccato in gola e mettere più chilometri possibili tra noi. Lontano dallo strofinio insopportabile di due epidermidi di diversa temperatura, da fitte di dolore che covano sotto la cenere.

Invece non c’è altro. Nient’altro che il tocco umido della tua bocca, un soffio insopportabile dove potresti farmi cadere il deliquio, implodere su me stesso, tenermi in sospeso tra la veglia e l’incoscienza e un languore così intenso da intossicarmi.

Andrea continua a sorridere, una risata silenziosa inframmezzata da inspirazioni profonde. Si morde il labbro, gli occhi socchiusi, una fitta di piacere improvvisa come una frustata.

Ma questo è il tuo mondo, Nicoletti: dovresti trovarti a tuo agio.

Forse vorrebbe persino cercare sollievo, ma non sarebbe carino. Preferisce concentrarsi su di te, scorrere lungo il ventre e l’interno coscia, indugiare verso l’inguine con dita di piombo, torturare con i denti l’elastico dei boxer. Accostarsi e assaltare senza preavviso.

- Andrea…! – solo il suo nome sulla punta della lingua, che riecheggia nella tua mente svuotata, i denti che si serrano sulle labbra per trattenere un grido, perché la porta è chiusa a chiave, ma le pareti sono di polistirolo e non si può mai sapere chi passerà lì per caso.

Ci sono solo le sue labbra che scorrono senza soluzione di continuità, la lingua che guizza, uno schiocco improvviso sul tuo corpo indifeso.

Non l’avresti detto. Che non avrebbe fatto male. Che non avresti più avuto davanti agli occhi il suo sguardo che si posa ovunque tranne che su di te, l’indifferenza distillata; il tradimento insopportabile di qualcosa che per un attimo ti aveva riportato in vita, ma che, tempo due giorni, ti si era già negato, trasformando la speranza in veleno crepitante dentro le ossa, lividi sotto la pelle e delusione da smaltire. Andrea che ti sputtana con gli amici, Andrea che si fa sollazzare da Neri, e poi tu che raggiungi Neri e gli sputi in faccia ciò che pensi di quelli come lui, e lui che prova a comprare il tuo silenzio, e da lì in poi il buio e le lacrime. Svanite in un battito di ciglia, in una risata protratta a lungo, in un’attesa sfiancante, nel contatto febbrile delle sue labbra che si chiudono sul tuo sesso.

Non l’avresti detto che sarebbe stato oggi, incastrati in un intervallo di tempo qualunque – proprio adesso, e non mesi fa, quando la ferita era fresca e superficiale, quando ancora non ti eri sporcato, quando riuscivi ancora a guardarlo in faccia, a desiderarlo e a morire per un luccichio in più dentro i suoi occhi – che lui finalmente fosse per te.

Non l’avresti detto, che avresti perso il controllo, che saresti collassato con lui, che lo sfioramento decisivo sarebbe stato un grido dall’eco infinita, un guizzare di scintille, e avrebbe lavato via tutta l’angoscia, l’amarezza, il rancore.

Non l’avresti detto, che il contatto più intimo sarebbe stato persino sopportabile, lontano dall’imbarazzo, dall’impulso alla fuga. Invece i tasselli, contro ogni aspettativa, continuano a incastrarsi. Vorresti piangere e al tempo stesso perderti, sparire nel suo lavorio instancabile di mani e di labbra che frugano nella coscienza, che si rigirano a piacimento ogni respiro, ogni palpito improvviso.

Mi stai massacrando. E resuscitando. Trattenendo per un lembo di stoffa sottile.

Le ombre danzano sulla parete, mentre lui si stacca da te e ti afferra per i fianchi – ma forse è solo la tua sensazione. Pronto a trascinarti nel suo abisso di irrazionalità, ogni cellula che urla di volerti.

Perché adesso, Nicoletti? Perché adesso che tutto è perduto? Non c’è continuità, non c’è una sessione comune in cui riconciliarsi: perché se stai mentendo, se questo è solo il tuo ennesimo capriccio, il tuo giochetto da trascinare al limite, non meriti più un secondo del mio tempo, della mia vita; se sei stato sincero fino a questo momento, allora sono io che faccio schifo, perché non sono quello che sono, quello che pensi, che vedi davanti a te. Ti ho mentito e non esiterò a calare il colpo mortale, se lui avrà il coraggio di ripresentarsi qua dentro con la sua faccia da puttaniere bastardo.

Forse sono le menzogne che ci rendono simili: un intero castello di bugie.

 

* * *

 

- Alex? Tutto bene?

Patrizio indietreggia verso la porta, un peso sul cuore che sprofonda fino alla suola degli stivali. Forse è il caso di chiedere scusa e scavarsi con calma la sua fossa di imbarazzo.

Alex continua a fissarlo con quella strana smorfia. Poi, inaspettata, una risata piena che esplode senza preavviso e sconvolge ogni previsione, rimbalza lungo le pareti del corridoio e giù per le scale, sciogliendo la tensione impigliata nell’aria. È così bello quando ride…

- Scusami, Patrizio… davvero. Scusa – biascica, le lacrime agli occhi e la voce infranta da una selva di sussulti.

Patrizio si stringe nelle spalle: l’unico è attendere che la crisi passi. In un’altra situazione saprebbe cosa fare, come uscirne vivo, come chiarire la questione in un battito di ciglia. In un’altra occasione gli direbbe che la sua risata ha un che di trascinante: irradia una strana luce che parte dagli occhi socchiusi e investe le labbra tese, la bocca troppo larga su quel viso da folletto e un sorriso che ti rapisce lo sguardo.

- Fa ridere…?

Alex strizza le palpebre in un tentativo maldestro di recuperare il controllo; solleva la mano con indice e medio alzati, mentre boccheggia per riprendere fiato.

- Due cose… – esala, la voce spezzata.

- Eh? – Patrizio lo afferra per le spalle un attimo prima che, barcollando, perda l’equilibrio.

Strana creatura.

- La prima… Entrambi saremmo interessati a un’altra persona, se non sbaglio – sussurra, sbattendo le ciglia – Eppure ci siamo appena baciati. Tu muori per Nicoletti: negalo, se sei capace – ridacchia.

- Ma…

- Shh… – Alex soffia a due centimetri dalla sua faccia, gli occhi umidi impiastricciati di kajal – L’hanno capito le pietre!

- E tu? – incalza Patrizio – Chi è la fortunata… o il fortunato?

- Non la conosci. O forse sì… – Alex china lo sguardo, e tutta la sfrontatezza di un attimo fa si dissolve in un’indecisione bruciante.

- Loria? – azzarda – Così si dice.

- Già – Alex annuisce – Ma… non farti strane idee: non ho grandi chance. Non c’è niente in gioco.

Patrizio distoglie lo sguardo: è il suo turno di scoppiare a ridere, di cuore, stavolta. Ridono entrambi, come matti, cercando reciproco appiglio in un tocco casuale sulle spalle.

- Qual è la seconda cosa… che ti fa sganasciare?

- Se mi fai entrare te la spiego – gli sibila, diabolico.

Silenzio. La porta chiusa alle sue spalle con un colpo di mano e gli occhi verdi di Alex che si muovono su di lui, indecifrabili.

- Questo – prosegue – Ti sembra anche lontanamente un bacio?

- Abbi pazienza – lo interrompe Patrizio, le mani sui fianchi – Che pretendevi? Che ti sbattessi al muro, in attesa di una ginocchiata dove non batte il sole?

- Il rischio dà più sapore.

Alex scuote il capo con la faccia dell’uomo vissuto – e magari lo è, alla fine: magari, dietro quel musetto da pulcino bagnato, è una macchinetta. Sempre con quel sorriso tirato che gli taglia la faccia.

Dannato ragazzino.

Silenzio, altro battito di ciglia che corre sul filo. Le labbra di Alex che sanno di nicotina e di burrocacao gusto zero, si schiudono sulle sue in uno schiocco umido, percettibile il tanto che basta a inchiodarlo al muro, animare di nuova vita le farfalle che gli solleticano lo stomaco, rubargli il respiro con uno sfioramento casuale della lingua, un formicolio insopportabile lungo la schiena. Dalla punta delle labbra fino ai fianchi rigidi che cozzano contro il muro e contro il suo corpo premuto addosso. Le sue anche ossute e la cintura borchiata dall’apertura impossibile.

Aspetta e spera, Thompson. Continua a respirarmi addosso, le labbra spalancate sulle mie, partecipi di ogni respiro, pronte a scavarmi voragini sul cuore, plasmarmi contro la parete con il semplice attrito. Fammi male.

Patrizio sussulta, quando la lingua di Alex guizza sfiorando una corda troppo scoperta, il tintinnio del piercing al labbro come un brivido gelido. Bravo ragazzo: se siamo fortunati, riusciamo pure a non finire incastrati.

Lui continua a oscillare tra incoscienza e controllo: qualcosa, nel movimento frenetico della sua bocca, gli suggerisce che si sta divertendo, i muscoli della faccia che trattengono un sorriso di trionfo. Alex lo intrappola tra la parete e il suo corpo teso e riscrive per lui i confini di quella stanza, di quei secondi, di quell’ora di lezione ormai persa tra il solito disastro giornaliero, la fuga e il colpo di genio che ti ripulisce da ogni dubbio. Le mani di Alex che cercano le sue, guidandogliele intorno alla vita in una presa morbida.

Okay, sei contento: mi hai preso e reimpastato da zero, appianando ogni punta di lucidità in un guazzabuglio di vertigini e delirio; mi hai ridotto a un ammasso di cera liquida, una sagoma informe nelle tue mani; hai preso il ragazzo più grande e ci hai limonato duro fino a fargli girare la testa, fino a farlo spasimare per te. Bravo, dieci e lode. Se ti spingi fino all’orgasmo simultaneo, c’è il bacio accademico. Senza lingua.

Patrizio socchiude gli occhi. Lascia vagare lo sguardo sul suo viso, una visione sfocata di un bianco abbagliante che si increspa verso i bordi. Ha gli occhi chiusi immersi nella nebbia, il respiro affannoso che gli vibra addosso, e quasi rantola. Patrizio si scosta da lui il tanto che basta ad allentare la presa, scorrere con i denti lungo il labbro inferiore, mentre la mano indugia verso il ventre.

Andrea impazziva, quando facevi così. Quando lo sfioravi senza esplorarlo davvero, lasciandolo sospirare per un contatto più intimo che gli facevi sudare e implorare.

Lui invece per poco non ti frana addosso, incespicando nei propri piedi in un roteamento di fianchi azzardato. Un sospiro profondo, e finalmente riprendete a fissarvi negli occhi.

- Più o meno così… – sussurra, le guance scarlatte e gli occhi languidi, lasciando morire il suo bacio da manuale in un mugolio con annesso strusciamento a caso sulla mascella, le labbra che schioccano – Qualcosa del genere, intendevo. Con “un bacio”.

Ironia del cazzo che si sposa assurdamente bene con i suoi occhi scintillanti, le labbra lucide appena un po’ provate e il viso da adolescente navigato.

- Sei stato cristallino…

Silenzio. Quegli attimi di encefalogramma piatto che seguono l’esplosione dell’istinto. A dividersi da buoni amici qualche grammo d’ossigeno e le quattro mattonelle che vi fanno da supporto, eccitati da fare pietà, il respiro che graffia contro i polmoni. Il gelo della razionalità che fluttua tra voi come un fantasma, ma evita di prendere il via.

Patrizio si schiarisce la voce, le gambe molli che azzardano qualche passo avanti: se riesce a non stramazzare adesso, può fare qualunque cosa, tipo sollevare l’edificio a mani nude o dissuadere Basile dal rovinare quel bel volticino pallido.

- Vieni – gli ingiunge, atterrando sul divano e tirandoselo dietro.

Il silenzio si raggruma contro i vetri, ma non sa di imbarazzo, di non-detto. L’assurdo sta nel fatto che Alex l’ha preceduto per una frazione di secondo e ha sciolto per lui la questione.

La verità è che dove qualcuno vede la variabile impazzita da rigettare e disprezzare, il capro espiatorio su cui rifarsi le unghie, l’emo dimmerda da spalmare contro il muro un giorno sì e l’altro pure, lui vede un cerbiatto che un bel giorno ha deciso di smarrirsi nella tana del lupo senza sapere a cosa stava andando incontro – dannate gerarchie del cazzo. Il ragazzo dai capelli viola che gioca a fare il figo, cerca attenzione sgranando gli occhi a due centimetri dal tuo naso e ti divora fino a mandarti in iperventilazione.

Alex calcia via le scarpe e si sdraia al suo fianco, una gamba penzoloni sullo schienale e la testa adagiata sul suo grembo – principino viziato fino all’ultimo.

- Posso, vero?

Patrizio scuote il capo e gli scosta i capelli arruffati dalla fronte.

- In realtà volevo ringraziarti – sussurra Alex, cercando la sua mano e portandosela sul petto – Per tutto. Per la stanza, per avermi… salvato la faccia. In tutti i sensi. Per volermi con te.

- Allora cerca di farti sbattere fuori più spesso – Patrizio ridacchia.

Se poi questa è la ricompensa.

È bellissimo stare così, senza nulla di speciale da dirsi. Il suo respiro che torna regolare, ignorando il turgore in basso, i lineamenti distesi, le dita che si intrecciano alle sue e non smettono di cercare l’appiglio fisico. Potrebbe cullarlo con il suo respiro e osservare all’infinito le sue palpebre che cedono e si fanno di piombo.

- Stai firmando la tua condanna, Lastella – sussurra con voce cantilenante.

- Falla finita!

- Sei sicuro?

- Quanto lo sono di chiamarmi Patrizio.

Sogghigna. Non aspettava altro segnale per spingersi con la mano oltre il bordo della maglia che si solleva a scoprire il fianco, il minuscolo tatuaggio nero su bianco. La sua pelle scorre sotto le dita, un fremito impercettibile. Si agita senza troppa convinzione, ma non cerca di impedirgli l’accesso. Ridacchia.

- Così mi fai il solletico e basta, eh…

Ancora qualche secondo.

La mano si inabissa in alto fino al petto e lo accarezza come un gatto. Il contatto freddo e improvviso con il celebre piercing al capezzolo che ha intravisto una volta per sbaglio e tanto è bastato a far precipitare verso il basso il suo ultimo neurone sano, esplode come una scossa sotto le dita.

- Ahi… – Alex si divincola.

- Che c’è?

- Niente… è che questo l’ho fatto da poco.

E si solleva la maglia sul torace glabro. Senza intenti equivoci, perché stavolta sembra chiaro come il sole, persino a lui, che ti tiene in pugno e non ha bisogno di fare le capriole per sedurti: gli basta scuotere le palpebre, respirare, esistere. La barretta di metallo luccica sotto la luce di metà mattina.

- Mi piace.

Come tutto il resto. Basta soltanto sforzarmi di mandare avanti una sottospecie di discorso per non sembrare un completo imbecille.

Alex socchiude gli occhi, allungandosi sul divano. Rilassato ai limiti del colpo di sonno.

- Mi stai fissando – gli soffia, a bruciapelo.

- Sarà che ci sei solo tu in questa stanza – Patrizio gli sfiora la guancia con il dorso delle dita, soprappensiero – E che… sei anche bello.

 

* * *

 

Alla fine ce l’ha fatta. A chiudere il giro della morte.

È stato bello perché, se morivi tu, moriva anche lui: sareste morti insieme, stretti in un abbraccio letale.

Alla fine ce l’ha fatta, a chiudere gli occhi e spegnere il cervello, assecondare i suoi movimenti e avvolgerlo con tutto il corpo. Andrea si è sdraiato su un fianco, gli ha preso la mano tra le dita serpentine e se l’è stretta all’altezza dello stomaco, la schiena inarcata fino a sfiorarlo.

Alla fine ce l’ha fatta, Gabriele, a spingersi dentro di lui alla cieca, in cerca di qualche nervo abbastanza superficiale da incendiarlo tutto e farlo gemere, propagare fitte di piacere a ogni fibra del suo corpo.

Forse il momento in cui avete smesso di respirare, è stato quando gli hai piazzato una mano tra le cosce per centellinare con calma il suo delirio. C’erano un sacco di cose carine che si potevano fare.

- Gabriele…

- Va tutto bene?

Sì, no, forse.

- Scusa… – ha esalato Andrea, afferrandolo per la nuca e spingendolo verso il suo collo nella muta richiesta di un bacio, come un cucciolo a cui insegnare a mangiare dal piatto – È che… Dio, è da tanto che non lo facevo.

Ecco. Il suo modo personale di rovinare tutto. Fotogrammi confusi di lui che si scopa Neri o una delle sue amichette.

Zitto, per amor del cielo.

- Che… volevo fossi tu.

Idiota al cubo.

Poi, per fortuna, ha smesso di dire idiozie e ha cominciato a ondeggiare, a risentire della sensazione che tu fossi dappertutto. Dello sfioramento superficiale che annega in un piacere sordo.

La cosa più tremenda del sesso è che rovescia tutte le prospettive, intrecciando sensazioni di diversa natura. Il fatto di poterlo rivoltare sotto di sé in cerca del contatto che inneschi dentro di lui l’escalation da cui non si torna indietro, e contemporaneamente perdersi in lui, sentirselo collassare addosso e stringerlo in una morsa.

Poi è venuto il buio, il buio venato di esplosioni a tinte forti, e non è più stato in grado di decifrare nulla.

 

Andrea si volta verso di lui come se gli costasse un’immane fatica e lo circonda braccia e gambe, sorridendo con gli occhi socchiusi. Se lo stringe addosso come se non sopportasse la presenza dell’epidermide a far da barriera tra loro. Sospira. È quasi svenuto dopo l’orgasmo, ma adesso il sole ha ripreso a riverberargli negli occhi. Lui e il suo modo estremo di vivere qualunque cosa, di tuffarcisi a scatola chiusa: non c’è mai la sfumatura.

Cos’è stato a capovolgere tutto? Forse l’istante in cui ha deciso di farti impazzire artigliandoti i fianchi e immergendoti in lui in un perfetto avvitamento. Forse sono le lacrime sulle tue guance, un secondo di follia prima di venire: potevi solo dosare l’attesa, il brivido gelido tra le costole che segna il “dopo”. Aveva ragione: qualcosa avrebbe fatto male.

- Shhh… – Andrea si solleva sul gomito con quel poco di forza residua e gli prende il viso tra le mani.

Il tepore delle sue dita che lo fa trasalire.

- È tutto finito.

- Ho paura di rovinare tutto, Andrea – gli sussurra.

Non può trattenersi, tergiversare, le spalle scosse da sussulti e le mani di Andrea che viaggiano tra i suoi capelli, che se lo stringono al petto.

- Che succede?

Quella visione indistinta prima di addormentarsi, prima di crollare esausto tra le sue braccia, sognando di osservarlo ancora un po’ mentre cede alla stanchezza di un incontro infinito. Ma poi, per qualche ragione che non riesce a spiegarsi, l’incubo ha ricominciato a rimbalzargli nel cervello senza soluzione di continuità, una scheggia incastrata nelle carni. Si è svegliato con le lacrime che gli pungevano gli occhi e il desiderio di piangere, e un motivo che non vuole confessarsi.

Ritorna all'indice


Capitolo 48
*** Capitolo 48 - Rovinerei tutto ***


Capitolo 48

Rovinerei tutto

 

 

Sapevi che alla fine il momento della verità, il tête-à-tête sarebbe arrivato: inutile strisciare contro la parete e fingere di non vedervi, la mattina sull’autobus, sotto una pioggerella primaverile che mulina monotona contro i vetri. Forse un eccesso di prudenza, una morsa allo stomaco che gela l’intenzione sul nascere, le gambe che iniziano a tremare, vorrei-ma-non-posso, vorrei-ma-non-ne-ho-il-coraggio, non servirà a intrecciare male frammenti di passato e di presente che non vogliono combaciare. Eri sempre lì, lo sguardo vagante in un percorso casuale oltre il vetro, a evitare il contatto, il sangue che ti incendiava le guance e la paura di arrossire, di rivelarti. Non hai mai perso il vizio di indugiare all’infinito.

Elena… aspetta!

Tu avresti temporeggiato in eterno, se lui non fosse venuto di persona a vibrarti addosso la sua presenza, cuore braccia gambe jeans strappati e capelli mossi al vento, a scuoterti dal sonno e soffiare contro i tuoi capelli – abitudine fastidiosa che non ha perduto. La voce roca, la lingua che gratta tra i denti, e a quel punto cedi – lo sapevi che avresti ceduto. Un mix di sollievo e voglia di scappare che ti centra a tradimento in mezzo alle scapole e ti spezza il respiro.

Non c’è tempo di razionalizzare il salto nel vuoto, lasciar defluire quell’accesso di calore al viso, quando incontrare i suoi occhi diventa un obbligo. E dopo non ci siete che voi, una piega improvvisa all’angolo della bocca, una curva anomala in una mattina meno disastrata delle altre.

- Ehi… – la sua voce plana su una nota allegra, una risata che raschia contro la gola e non raggiunge le labbra.

È da un po’ che non lo si becca in giro: pochi giorni fa divideva la camera con il fratello, da un certo momento in poi ha cominciato a latitare.

Visto da vicino – a meno di dieci centimetri in linea d’aria e venti abbondanti in altezza – è solo la versione casereccia del gemello: un Patrizio Lastella meno sofisticato, senza piercing, capelli ingellati, pallore vampiresco ed effetti speciali. Lastella senza Photoshop. Il contrasto dei colori non esplode in un tripudio di spigoli tagliati con la scure: c’è un residuo di abbronzatura soffuso sulle guance, l’azzurro intenso di due iridi sfacciatamente made in Lastella, i capelli aggrovigliati che si ributta dietro il collo, un baluginio di rame sotto la luce impertinente. È cambiato. È diventato più bello.

Anche tu sei cambiata, diceva Isa. Non sei più trasparente.

Sei cambiata da quando hai allungato le dita sulla crema del dessert che troneggiava al centro della tavola, te le sei portate alla bocca e ne hai rivelato il sapore insulso; da quando qualcuno ha assaggiato la polvere e qualcun altro ha cercato di salvarsi splendendo di luce riflessa. Da quando Isa e Sara hanno smesso di demolirti e schiacciarti con la loro presenza, con le loro risate attutite.

- Ciao… – sussurri.

Vietato mostrarsi formali, ritrosi, ingessati, parlare come libri stampati per camuffare l’imbarazzo e il vuoto destabilizzante dentro la testa, perché il cuore si riempie e la mente inaridisce, smarrisce il senso delle parole. Vietato perdere il filo e fingersi perfetti sconosciuti, ripartire da zero.

Luca sorride disinvolto e si sistema la borsa sulla spalla. Ogni fibra del suo corpo che sa di sole, di risate e di strimpellate di chitarra attorno a un falò sulla spiaggia di tre anni fa.

- L’ho ascoltato – esordisci, una scusa qualunque, un’inezia pescata a caso dal mazzo, e gli rimetti in mano il suo prezioso mp3 – Avrei potuto farne a meno – risata appena accennata – Dici che è meglio bruciarla per andare sul sicuro, o possiamo solo fingere che non sia mai successo nulla?

- Cielo, non ricordarmelo! Mi ha messo una tristezza… – si passa una mano tra i capelli – Tutta questa rabbia, quest’ossessione… No, davvero. Questo è infierire. Come faccia Nicoletti a sopportarlo, è un mistero.

Sospiri. L’hai sentita, quella roba, non ci tieni a fare il bis; l’ha sentita anche Andrea e ha concluso l’ascolto con un gesto scaramantico che non puoi ripetere.

Una manciata di minuti concentrata di Riccardi che sproloquia a ruota libera su Nicoletti causa di tutti i mali, su quanto gli facciano schifo i froci compiaciuti, e quanto si senta limitato nella sua libertà di limitare te. Una tirata che schiuma veleno, inframmezzata qua e là dal brusio di una registrazione non ottimale. Silenzio, voci indistinte; Riccardi che inveisce contro Luca urlandogli frocio – di nuovo –, zecca del cazzo, lui che ride e la butta in caciara e quello niente, altri rumori di sottofondo, quando Riccardi cerca di stracciargli di mano l’mp3, e poi passi concitati giù per le scale. Fine dello spettacolo.

Luca sembra quasi sentirsi in colpa per aver assecondato gli scherzi idioti di suo fratello. A te Riccardi non fa pena: ti fa prudere le mani, ma eviti di buttarglielo in faccia. Luca in fondo è sempre stato un puro, uno che, se non riesce a vedere del buono in te, cerca di vedere il meno-peggio.

- Vorrei un modo per venirne a capo. Per Andrea… qualcosa che obbligasse Riccardi a lasciarlo in pace.

- No, davvero. Ha perso di vista la realtà. Sai cos’ha combinato stamattina? – Luca si appoggia contro la ringhiera della pensilina, i jeans a zampa che ballano intorno alle gambe troppo magre.

Non è cambiato: spalle larghe e quell’impercettibile, adolescenziale sproporzione tra gambe e busto. Come il fratello figo, ma senza catene di metallo e pantaloni inguinali.

- Ha minacciato Nicoletti che gli avrebbe affogato il gatto… pur di vederlo piangere. Cioè – piega il capo, e tutta l’indignazione si concentra sull’ennesimo, nervoso rimaneggiamento di chioma – Siamo tipo al delitto d’onore. Nicoletti era sconvolto.

- Cazzo… – tutto ciò che riesci a esalare.

Le parole sono già abbastanza da farti franare la terra sotto i piedi. Nicoletti sconvolto. Qualcuno da qualche parte pronto a uccidere pur di fargli piangere lacrime salate. Qualcuno disposto a incanalare la propria voglia di fare del male su chiunque, pure su un povero gatto. Qualcuno che lo odia sul serio, non come Gabriele, che una volta voleva davvero rovinarlo, ma alla fine si consumava per lui. C’è qualcuno che vuole vedere il sangue. Qualcuno che ti muoverebbe istinti violenti, risveglierebbe il Mr. Hyde che è in te, pronto a schiacciarlo sotto il tacco.

- Patrizio non sapeva cosa fare – prosegue Luca, la voce bassa che in qualche modo si sforza di ingentilire la notizia – Mi ha chiamato poco fa. Un casino assurdo… Nicoletti si è sentito male. Si è messo in mezzo pure quell’altro, Thompson… una roba allucinante.

- Me lo dici adesso?! – trasalisci.

E certo. Renderti irreperibile è la tua specialità. Quattro chiamate perse, memoria piena e traffico a zero.

Luca si stringe nelle spalle con rassegnazione.

- L’unico è prendere il gatto e portarlo via dal manicomio – azzardi.

- Bravissima: ci andiamo subito. Puoi tenerlo tu? Almeno per un po’…

- Non preoccuparti… Tutto il tempo che serve.

Cipria permettendo. Meglio precisare.

- Sarebbe perfetto. Devo salire da Patrizio a prendere un paio di cose… Vieni?

Scuoti le palpebre, tristezza distillata in una manciata di parole. Ma c’è il suo sguardo che grida, che luccica e freme dietro gli occhiali dalle lenti sottili. La cosa più triste è che non c’è giro di parole che possa spiegarti quel senso di claustrofobia, né antidoto efficace.

Vai via anche tu? Fai i bagagli?

Una volta la consapevolezza ti sarebbe bruciata addosso, ti avrebbe sputtanato il week-end.

Va via dalla sua dolce metà, cocca, non è roba per te, non puoi farci niente. Fine dei giochi, game over.

Lei che continua a figurare come la ragazza ufficiale, a dormire con lui la notte, a stare dietro ai suoi deliri, e poi boh, chissà. Non sai come stanno le cose in questo momento e non ti preme saperlo.

Lei che non ha mai saputo di voi. Che sai a malapena che faccia abbia.

Se fa male la certezza che qualcuno resterà fregato, cosa sarà mai la certezza che lo sarete in tre… Fottuti con le vostre mani. Due su tre, e poi strike.

Che sia troppo tardi per reimpostare la vita da zero?

 

* * *

 

Cos’è successo, Gabriele? Dove pensavi di arrivare, fino a quando credevi fosse lecito proseguire nel tuo gioco al massacro?

Hai ottenuto ciò che volevi: il trionfo è così inebriante, così estremo che già senti sulle labbra l’amaro del fallimento, della resa incondizionata.

Una parte di te, in fondo, lo sapeva che sarebbe finita così. Che saresti crollato quando meno te lo aspetti.

Cosa pensavi di fare al “Goldoni”? Fuoco e faville? Volevi fare l’attore – bello, vero? – per diventare quello che non sei, per vestirti di fiamme. Volevi un sogno. La dimostrazione che recitare sul palco ti riesce bene, non abbastanza da spaccare il cuore di chi ti guarda, non abbastanza da meritarti il plauso e la spintarella giusta; ma in quello che riesci a fare della tua vita reale, non hai rivali.

Cosa pensavi di ottenere, stupido, tra una canna e l’altra per fare a pezzi l’angoscia e schizzare fuori da te stesso? Ti sei presentato qui con il canovaccio già pronto, già spiegazzato in tasca, vergato sulla fronte: piacere, sono Gabriele Derossi e sono gay, sentito bene? Ti sei ingannato da solo. Come se ti servisse un dannato lasciapassare, un francobollo stampato in faccia, un permesso scritto per esistere, per poter amare un accidenti di qualcuno in santa pace. Scusate, mettiamo i puntini sulle “i”. Tradimento. Oltraggio a pubblico ufficiale.

Poi è venuto l’autunno con i suoi disastri. Andrea che scivolava sempre più lontano, fuori dalla tua portata. E tu lì a ingegnarti a risalire, alla ricerca di un modo per toccare realtà che non volevano appartenerti, a fissare il soffitto color piombo e caracollare per i corridoi vuoti, le ombre viscide della sera come spettri incollati alle pareti. A sentirti sempre di troppo, troppo solo, inadeguato, trasparente, tagliato fuori dalle trame del gioco, ignorato, incompiuto, svuotato, incatenato a te stesso, eterno innamorato non corrisposto. Il bello che non balla – sei bello: lo pensa anche Isa, lei che ha sempre ragione; lo dice Andrea, che ti vuole per sé.

C’eri tu e la tua voglia di vivere perennemente frustrata, tu e il tuo vivere di riflesso, per sommi capi – non come Loria, che almeno sapeva sguazzarci bene, nel suo fango –, un mondo intero che ti sbatteva la porta sul muso, sigillandosi ermeticamente al tuo passaggio.

Poi è arrivato Neri ed è stato il delirio – faceva buio presto, quella sera, e lui rideva e diceva cazzate – diceva sempre un mucchio di cazzate –, respingeva le accuse e ti allungava una mano su per le cosce, sui jeans sdruciti.

Quando poi la voglia di far saltare qualche testa ha cominciato ad ammorbarti il sangue, non sei stato migliore di loro: appena sei riuscito a mettere le mani sulla loro immondizia, sui loro segreti, appena hai avuto in mano quei fili da muovere, e tutto dipendeva solo da te, sei stato un caterpillar. Puntuale e spietato. Hai distrutto Alberti, hai distrutto Neri – ci hai provato –, per poi puntare su Nicoletti.

Hai coinvolto persino lei, lei che si buscava gli stessi calci nello stomaco, perché ti serviva un complice, un infiltrato, qualcuno con cui dividerti il piacere di rimescolare il sangue e di sentirti una merda, quando il fardello era troppo pesante sulle tue sole spalle. Vorresti chiamarla adesso, dirle “parliamone”, dirle “Houston, abbiamo un problema”. Un grosso problema. Perché questo non era nei patti, cazzo. Non era nei patti. Lei non farà niente per fermarti né per aiutarti, perché stavolta il veleno devi bertelo tutto da solo – brava stronza. E tu stasera non ne avrai il coraggio.

Forse l’ha capito, che sei un bluff elevato alla potenza ennesima. L’ha capito quando hai dato di matto, quando ti ha sfiorato le labbra, e tu non hai opposto resistenza nemmeno per un istante.

Amami, ti prego. Non lasciarmi solo.

L’ha capito anche Andrea, che c’è un tassello che non va a posto. Che qualcosa è cambiato nella frequenza con cui gli atomi d’ossigeno nell’aria gli sfiorano la pelle.

L’ha capito quando l’hai rimesso al suo posto – lui che ha osato far crollare le tue resistenze – e ti sei chinato su di lui, ancora una volta, le labbra strette sulla sua erezione; l’ha capito quando hai deciso di ridurlo a un mucchietto tremolante, infilargli fuoco liquido nelle vene, un brivido che palpita di vita propria e l’oceano intero a rimestargli nel cervello; quando, quasi ridendo, hai fatto saettare la lingua sul suo sesso premendo sulla punta e simulando una penetrazione con un guizzo di troppo. È stata una coltellata, una scarica di elettricità – avresti sorriso, sadico, se ti fosse stato possibile. Lui ha perso un battito, l’hai visto nei suoi occhi scuri spalancati sul nulla, l’hai sentito nel suo sospiro smorzato, nel ruotare spasmodico delle anche, nel tremito delle dita agganciate da qualche parte. Perché lui è estremo e drastico in tutto ciò che fa: vive di testa e di pancia, vuole mordere tutto ciò che incontra, viverlo fino al midollo; non si accontenta di fare sesso con te, lui deve morire con te, ridursi a un fascio di nervi scoperti, a una corda tesa che vibra, prenderti per mano e trascinarti nel suo baratro di lucciole. Non c’è la mezza misura, il tentennamento sulla soglia: lui fa l’amore con te anche quando ti fissa negli occhi, ed è quanto di più rischioso possa fare.

Scommetto che lui non ti ha mai fatto morire così di gusto…

Scommetto che non ti ha mai amato così.

Scommetto che non ti ha amato.

L’ha capito quando l’hai toccato dove Neri l’ha toccato prima di te, scardinandogli urla smorzate direttamente dalla gola; quando ti sei spinto in lui alla cieca, l’istinto in punta di dita, alla ricerca inconsapevole di quel punto focale ben imboscato dentro di lui, un contatto capace di far schizzare le scintille, di mescolare le singole percezioni, di rendere il sangue incandescente nei polsi, inchiodarvi l’anima a un sospiro di troppo sulle labbra dell’altro, a un “ti amo” a caso smozzicato tra i denti, i muscoli tesi delle sue gambe, la paura di spezzare qualcosa tra voi.

L’ha capito quando i tuoi occhi si sono velati e la consapevolezza è venuta a galla, una frustata improvvisa, le ombre addensate davanti agli occhi e l’incubo che si riaffaccia. Non ora, ti prego, non ora

Perché piangi adesso? Dovresti non avere la forza di respirare: guardalo, è troppo stravolto per smettere di ansimare, troppo stanco pure per accendersi una sigaretta e pensare.

Appena il tempo di riprendere conoscenza, e il gelo ti ha morso le gambe per poi risalire fino al cuore e insediarsi lì, un palpito di terrore, una sensazione dolorosa di déjà-vu incastrata tra le pieghe allentate della coscienza. Fino a spremerti quelle due lacrime traditrici.

È stato bello, Andrea. Cosa dicono i bravi amanti nei film, a questo punto? Non è stato bello. È stato. Eravamo noi.

Il film a lieto fine è tutto nelle nostre teste, è tutto negli spazi lasciati vuoti dal tuo sguardo che mi fruga addosso.

- Gabri, che succede?

È stato troppo. Non lo so e non voglio scoprirlo. Non voglio addormentarmi, cedere ai miei occhi che bruciano, vedere tutto chiaro davanti a me.

Andrea sorride. È troppo cotto per muovere un solo passo e per imporre al proprio respiro un andamento costante, troppo per mantenere ferma la voce, ma riesce ad allungarti una carezza, le dita che indugiano sulle palpebre senza cercare un vero contatto.

Questo è peggio di un orgasmo, Andrea.

Cosa ci facciamo qui, chiusi in questa stanza uguale a tutte le altre, minuscole celle una dietro l’altra – giusto il tuo tocco personale di oggetti scombinati –, a consumarci in un anfratto di tempo qualsiasi, mentre dovremmo essere pronti per la prossima lezione? Cosa facciamo? Rovineremmo tutto.

- Va tutto bene – sussurra, e i suoi capelli ti solleticano la spalla.

Va tutto bene perché ci sei tu. È finita. Sei con me.

- Scusa un secondo – borbotta, lottando per sciogliersi dal groviglio delle lenzuola e della tua pelle.

Ha il volto accaldato e sospira, scuote le palpebre nella penombra, le tapparelle semichiuse perché temeva che non lo trovassi abbastanza bello – non è soltanto bello, è un dio dei boschi che per sbaglio si è ritrovato qui a fissare le nuvole –, o che il semplice respirarsi addosso facesse troppo rumore, e magari la penombra avrebbe imbrogliato i sensi.

Litiga con il lenzuolo attorcigliato addosso, tastando alla cieca, alla ricerca dei boxer da indossare. Il cellulare che vibra sulla scrivania e la sua andatura instabile, le gambe anchilosate, le maglie della coscienza che tremano.

- Cos’è stato?

- Era Patrizio – ammicca – Suo fratello passa più tardi a prendere Oscar. Abbiamo tutto il tempo.

Lastella. L’icona della rottura di palle. L’uomo che, se fosse un giorno della settimana, sarebbe il mercoledì.

- Che fai?

- Torno a letto – biascica, soffocando uno sbadiglio – Non ho voglia di prepararmi. Possono aspettare.

Loro, tutti gli altri imbecilli che ti girano intorno. Le lezioni possono attendere, Lastella può attendere, tutto può attendere, quando il cielo ti si chiude sopra la testa e le sue braccia reclamano il tuo possesso.

 

* * *

 

C’è qualcosa di incredibilmente sospeso, di non-detto. L’hai visto scolpito a fuoco sulla faccia di Luca mentre prendeva Oscar dalle mani di un esagitato Andrea e lo infilava nel trasportino. Andrea che se non altro sembrava un po’ più bellino e ha colto il vostro arrivo come una liberazione. Luca gli ha stretto la mano e gli ha chiesto come stava; ha preso te e Oscar in un unico blocco e ha trascinato via tutti prima che facesse notte.

C’è la voglia di sfiorarsi, nel tragitto in macchina verso casa, nelle sue dita strette intorno al volante, le nocche che sbiancano, le dita che tamburellano a caso; c’è la sua volontà di trattenerti con sé fino a trovare il coraggio di parlare, di non lasciare un’occasione intentata – perché domani magari fuggiresti di nuovo, e allora chi ti acchiappa più.

Hai evitato il contatto diretto a costo di far passare la semplice casualità per un rifiuto. Hai continuato a esorcizzare il silenzio con le sue implicazioni, il momento in cui passare la palla all’altro, a temere ciò che quella parte nascosta di te ha sempre sperato, senza il coraggio di ammetterlo, di formularlo in modo leggibile.

Cos’hai visto in me? Non la ragazzina scema che smaniava per te, che viveva a singhiozzo, tragicamente incompiuta…

L’ingresso in casa ha visto l’apertura prudente del trasportino, le dita che esitano sul passante di metallo, Cipria che annusa l’aria in cerca dell’intruso. Ha annusato il cucciolo barcollante e non l’ha trovare degno d’interesse, preferendo strusciarsi sulle tue gambe e zomparti in grembo.

La tensione si taglia con il rasoio, mentre Oscar annusa tutt’intorno e zampetta timidamente verso la ciotola piena. Cipria è saltata giù per un giro di ricognizione, ha raggiunto il cucciolo, e in capo a qualche minuto si leccavano le orecchie a vicenda, dividendo con buona pace il tepore di una cuccia di stoffa e vecchie coperte. Non ha visto un intruso, lei: qualcuno di cui prendersi cura, piuttosto.

Dovresti provare a carpire il messaggio.

- È una gatta dolcissima – sussurri, piatta constatazione.

Dovreste prendere esempio da loro.

Luca continua a spostare il proprio peso da un piede all’altro sul limitare della porta, a contare i secondi e portarsi dietro le spalle la coda di capelli ricci ormai sfatta, un rimaneggiamento dopo l’altro. Capelli che tra le sue dita danno un’idea di setoso. L’ideale per affondarci a piene mani e mandare al diavolo tutto il resto.

È tutto? No, non è tutto.

Perché in fondo speravi che il momento arrivasse. L’avevi sigillato nella forma di un bel film impacchettato su sé stesso e a misura di cretini, da svolgere e riavvolgere a tuo piacimento quando la sua figura sembrava lontana, smarrita, il suo ricordo innocuo. Al liceo era quello che si occupava del laboratorio di teatro. Poi vi siete trovati qui faccia a faccia, senza scegliervi e senza prendervi, quando già iniziavi a dubitare della sua esistenza, e allora il desiderio ha assunto contorni tangibili. Con lui che continua a giocherellare con l’elastico e ad allungare il brodo. Ma il suo profumo è palpabile e sa come insinuarsi nel cervello. Il calore della sua pelle asciutta sotto la maglia di cotone, con il sole che vi riverbera addosso, mentre lo afferri e lo stringi all’improvviso, senza pensare più a nulla.

Quand’è che hai cominciato a camminare sull’ovatta? Quand’è che i confini della realtà sono diventati morbidi, plasmabili, fino a ridursi ai suoi occhi che fremono?

Non è diverso da una scarica di adrenalina, dalla sensazione precaria dopo una serata in cui l’alcool scorre a fiumi e le gambe iniziano a incespicare su sé stesse. Qualcosa che avviluppa realtà e sogno in una morsa inestricabile, intrecciandoli in un nodo gonfio d’attesa.

Cosa si dice adesso? A che punto è la notte?

Pensare che è cominciato tutto con una fottuta sigaretta…

- Dove vai? – sussurra.

Fuggo dalle responsabilità: ho sempre rovinato tutto, è ciò che mi riesce meglio. Sputtanare quanto possa esserci di buono. Viverla così male da trasformare in angoscia quello che una volta ci faceva stare bene. Assaporare il gusto acido del tradimento sulla punta della lingua. Tradimento di aspettative a senso unico, che però per un attimo mi sono sembrate vive, reali.

Ma io le tue incertezze non le pago più.

Le sue mani smettono di vagare a vuoto, di accompagnare qualche considerazione a caso. Su quanto sia difficile trovare parcheggio all’ora di punta, in centro, soprattutto quando la patente l’hai presa a culo e vai nel panico se qualcuno ti taglia la strada.

È dietro di te. Afferra la treccina sottile che ti oscilla sulla schiena, se la rigira tra le dita e la abbandona a sé stessa, il tepore della sua mano che indugia arrampicandosi verso la nuca. Il danno di portare i capelli troppo lunghi, bande confuse che si intrecciano oltre le scapole, offrendosi come appiglio invitante. Come il suo respiro sulla guancia.

Vuoi scappare? Un eterno affermare e ritrattare con la forza dello sguardo.

Le sue labbra che chiedono il permesso e si affrettano a imprimere il marchio. Sulla gola, lungo la linea delle sopracciglia, sulle labbra contratte.

La prima volta che sognavi. La vostra vera prima volta non è stata un granché, tra i sedili appiccicosi dell’auto di suo padre, l’afrore dell’Arbre Magique ad annacquare le sensazioni e una sigaretta da rollarsi in due tra un morso alla gola e l’altro.

Nessuno è mai riuscito a farsi desiderare come lui. Due mesi per trovare il coraggio di piombare nella sua vita con un pretesto qualsiasi, di incrociare il suo cammino, di verificare quell’affinità inconsapevole, quella calamita che continuava a farvi inciampare l’uno sull’altro. È stato come barcollare sul filo di una lama. Il sesto senso che ti diceva che era come te lo eri immaginata: l’incastro complementare intrappolato in un sospiro di troppo, in un guizzo di calore al petto quando gli sguardi entravano in collisione.

- Elena…

Cos’eri? Cosa eravamo? Perché ora, ora che non abbiamo niente da perdere, ora che tutto si è sbiadito, che mi ero rassegnata?

Quella speranza che non è altro che veleno. Pochi giorni, ed era già acido. Mesi di saliscendi sulle montagne russe, speranza malriposta e puntuale delusione. La speranza in qualcosa di più che ormai aveva preso il via. Richiesta inoltrata. Quando osservarlo dietro una porta a vetri, sognare attraverso i raggi che gli riverberavano tra i capelli, non bastava più. Quando non ti senti più sazia e chiedi di più: vorresti un crescendo, vorresti ricamarti addosso un sogno che non sia fine a sé stesso, ma tutto svanisce quando ne hai più bisogno, quando non puoi tornare indietro, perché il cuore è schizzato avanti anni luce. Come un tossico in astinenza che si vede negato anche il metadone.

Le sue dita incespicano sulle calze smagliate, le labbra vagano a vuoto, si cercano e fuggono. Il respiro accelera tra un ticchettio di orologio e l’altro, le fusa di Cipria in sottofondo, il rumore del traffico e di qualche clacson sotto i vostri piedi, di un autobus che effettua l’ultima fermata.

Il letto a ridosso della parete, dove il soffitto si inclina a sfiorare il cielo, le lenzuola sotto la pelle una percezione remota che inanella brividi giù nello stomaco, perché ormai siete solo voi, senza difese, le mani che riprendono a cercarsi, ignorano la resistenza degli indumenti di cotone, e tutto scivola nel labirinto dell’assurdo e dell’imprevisto, dello scatto improvviso.

È come lo ricordavi: il torace d’ambra scura, i muscoli tesi del ventre, ogni cellula del suo corpo che urla di volerti, che urla quello che volevi sentirti urlare. Le tue gambe che sfregano contro i suoi fianchi, le dita che gli circondano la nuca e il senso di sazietà che si fa attendere. Le calze sfilate da mani spasmodiche e un formicolio insopportabile intorno alla gola. Che sale sulle labbra, graffia contro la lingua e culmina in un bacio sofferto.

Volevo solo te.

Ma cosa sai di me, a parte che schizziamo l’uno verso l’altro come calamite impazzite? Che non siamo nemmeno capaci di dar voce all’unica cosa che ci fa sentire vivi, se non con i vestiti che scivolano a terra uno dopo l’altro, e rotolandoci sulla prima superficie comoda?

È il cerchio che non si chiude.

C’è un’enfasi sofferta, un’escalation di terrore e appartenenza, quando un morso a tradimento alla base del collo accelera l’orgasmo, e tutto il suo corpo collassa in una vibrazione infinita che ti riverbera addosso, un urlo smorzato su labbra che si sfiorano. E vi abbattete come corpi disossati sulle lenzuola che sanno di bucato, di sudore fresco e di respiri mozzati.

L’ultima volta era stato in macchina, sotto la luce sbiadita della luna e con una sigaretta alla menta da dividere in due, gingillandovela tra una boccata di fumo e una risata. La prima e l’ultima: potresti misurare la durata di uno dei suoi baci solo basandoti sul ricordo.

Il suo respiro è ancora irregolare, quando si tira su e recupera il possesso sulla stanza, sull’aria da respirare. Il tanto che basta per guardarvi negli occhi e riprendere consistenza. Nudi uno a fianco all’altro, membra umide che si intrecciano e cercano il contatto, la carezza consolatoria, i capelli incollati alla fronte e la tensione che si arrampica su per la schiena: è sempre così, dopo, con la malinconia che sale e la paura che sia l’ultima volta.

Il lenzuolo tirato a coprire il seno, attendi che qualcuno tiri le fila e metta la parola “fine”. Ha poco senso, quando vi siete appena scambiati la pelle di fronte al nodo da sciogliere, in mancanza di un’estremità del laccio da tirare.

Sospiri, la mano che tasta alla cieca la superficie del comodino, fino ad acchiappare il pacchetto giallo pallido con il tabacco. Una sigaretta, ora. Esigenza vitale. Domani smetto per davvero, lo giuro.

Perché tutto è cominciato con una sigaretta, una stupida, dannata, cancerogena sigaretta, una capsula di schifezza concentrata. Con una sigaretta deve finire: l’ultimo giro che congela ogni trattativa sospesa, il mozzicone schiacciato sulla ceramica del posacenere che dice fine. Fine dei giochi.

Luca si allunga verso di te, la fronte contro la tua spalla e il contatto salato delle lacrime che ti desta dal torpore post-sesso. Tira su col naso e ti stringe nella sua morsa, incapace di mollare, di riaprire gli occhi, di guardare dritto davanti a sé.

- Mi dispiace.

Prova a dirlo di nuovo…

- Ho fatto un casino.

Non rispondi. La luce del tardo pomeriggio disegna ombre inquietanti sul soffitto. La sua mano prova ad afferrarti ancora, ad allungare all’infinito il momento del distacco, ma la presa è debole. Una voluta densa di fumo mulina sopra la tua testa, sigillando tutto nel limbo.

Un’altra boccata, un cerchio perfetto che sale fino al cielo.

- Ho fatto una cazzata – china la testa a schermare le lacrime, i capelli arruffati come un sipario davanti al viso – Elena… lei.

Lei cosa?

- Credo sia incinta.

Puntuale, è arrivata. La granata scagliata in pieno petto, il dolore pulsante che attendevi da una vita, e il vuoto che segue. La goccia finale. Il mozzicone che prende fuoco e non lascia che un alone giallo di bruciato sul posacenere e sull’unghia del medio.

Con una sigaretta è iniziato. Un pretesto futile e l’imbarazzo in punta di dita. La mano che tremava nell’agguantare l’accendino direttamente dalle tue mani.

- È… era l’ultima – ha il labbro che gli trema, la fronte contratta – Ma… non voglio. Non volevo!

- Luca, ho capito. Non devi scusarti: adesso torni da lei. Basta.

Cosa volevi da me?

Me ne andrò io. Adesso.

Non è troppo difficile ripescare i vestiti disseminati sul tappeto. Gli anfibi indossati di fretta, ma solo perché basta tirare su la lampo, sentirli stringere intorno al polpaccio, e il gioco è fatto: fanno a pugni con il resto, con le calze smagliate dalla troppa furia, con la tua faccia, con il resto del mondo. È stato più difficile sgusciare via dalla sua stretta, abbandonare il tepore della sua pelle, lasciarlo lì ad afferrare il nulla, le braccia che si stringono a vuoto.

- Volevo mollare tutto. Non stavo bene – singhiozza – Dirle la verità, rimettere le cose a posto. Non voglio lei. Ma poi l’altro giorno… qualcosa è andato storto.

È successo. La notizia che ti cambia la vita e te la sconvolge, riavvolge indietro il nastro e rimette tutto in forse. Oppure no: è il cappio che ti si stringe attorno al collo e ti trascina verso quel bivio e quello soltanto. La soluzione che ti sei ritrovato tra le mani senza averla chiesta.

Non ne avrai il coraggio. Non hai mai avuto il coraggio delle tue scelte. Non hai scelto, ti sei lasciato trascinare alla deriva: quando ci hai provato, è sempre stato troppo tardi.

- Lascia stare… Io non c’entro più. Ho già creato troppi problemi – gli soffi.

Sono io il problema?

- Non posso dirle…

Che non hai più scuse: puoi dire la verità o fuggire in eterno, ma io non ti chiedo niente.

Che vorresti scappare da me, evitare ogni responsabilità, ma la verità è che non sai più chi sei, con chi vuoi stare, qual è la soluzione, le parole giuste da mettere in fila. Non ne hai il fisico, di decidere se andare o restare: lasceresti tutto in sospeso per sempre. E l’errore è esserti spaccato il cuore tra due persone, una delle quali non è ciò che pensavi, e l’altra non esiste più. La ragazzina di cui ti eri innamorato, sì no forse non lo so non posso farci niente: chissà se è mai esistita, se non nelle tue percezioni.

Cos’hai visto in me?

- Rovinerei tutto… È già successo, non voglio che si ripeta. Non per colpa mia.

Perché ti è sempre riuscito troppo bene: ficcarti dentro situazioni già compromesse e rovesciarci il doppio carico. Illuderti, sperare in qualcosa e trasformare tutto in un baratro, in un si-ne-qua-non per ricominciare a vivere: è tutto ciò che ti aveva sottratto all’indifferenza, aiutato a uscire dallo stato di precarietà emotiva: sputare il sangue su qualcosa che ne valga la pena, che ti divori l’anima, che diventi la molla verso l’ossessione.

Stavolta non andrà così.

Il minuscolo ospite dal pelo bianco ronfa e vibra accoccolato contro Cipria che veglia su di lui. Un fotogramma a caso mentre sfili verso la porta e te la chiudi alle spalle. Hanno capito, anche loro.

Luca resta lì, scolpito a fuoco in un angolo della tua mente, rannicchiato tra le lenzuola a stringersi nelle proprie braccia e piangere come non ha mai pianto in vita sua, quando le cose avevano ancora un senso, quando la strada sembrava liscia e sgombra, e c’era qualcosa in cui sperare. Quando poteva scegliere.

Me ne vado. Fuori da questa stanza troppo impregnata di noi, dell’angoscia, del non detto, di un vortice di follia senza scioglimento.

E te ne vai anche tu, stavolta. Torni da lei, che almeno è una strada agibile, esiste nella tua testa e nella tua quotidianità, e ha bisogno di te. Non me, non di nuovo.

Ritorna all'indice


Capitolo 49
*** Capitolo 49 - L'alieno ***



Capitolo 49

L’alieno

 

 

Visto da vicino è un po’ meno peggio di come lo ricordava. Eccentricità a parte. Isa schiocca la lingua e occhieggia verso il pazzo dalla testa color vino seduto al tavolo accanto.

Ciò che pensa mezza Accademia da un po’ di tempo a questa parte, da quando l’alieno si aggira tra loro in forma umanoide: non è male, non è brutto, non sembra pericoloso, ma è strano. È una macchia d’inchiostro che non viene via.

Thompson manda giù la birra bevendo direttamente dalla bottiglia e scuote il capo.

Sara dice che è un fottuto emo asociale e gli fa il verso tirandosi i capelli davanti agli occhi, la riga all’altezza dell’orecchio, scimmiottandolo con andatura ciondolante e voce sommessa. Barbie dice che è scopabile, a denti stretti e in tempi di magra. Se solo non desse l’idea di cascare al suolo da un momento all’altro. Se non le facesse pena. Forse è ciò che pensa anche Loria, la strafiga in calzamaglia e minigonna sdrucita che ha appena scoperto la propria Eldorado: come fottersi tutti in un colpo solo e nel frattempo prepararsi un caffè.

Ora che lo osserva meglio, può dirselo da sola: non è male. Ma è troppo strambo, troppo fricchettone del cazzo: con un po’ di carne in più sopra le ossa, forse, un colore e un taglio di capelli normale, vestito come Cristo comanda – da uomo eterosessuale mentalmente equilibrato –, sarebbe quasi passabile.

Invece c’è solo lui con i suoi occhi bordati di nero, l’aria sfatta da calo di pressione imminente, le occhiaie da tossico che gli ballano fino alle ginocchia e il polsino di stoffa con cui nascondere, forse, la conseguenza dell’ultima volta che si è tagliuzzato con i suoi amichetti effeminati. Da voltastomaco.

Quando però lo si becca con un po’ di alcool in corpo, può succedere che abbassi la guardia e canti un po’ per te e si lasci estorcere simpatiche rivelazioni.

Isa si avvicina ancheggiando sui tacchi ed evitando per un soffio di urtare la sedia con un colpo di fianco. Forse lui la teme un po’, da quando ha minacciato feroci ritorsioni contro la sua adorata Loria – e non ha tutti i torti.

Ma lei non vuole niente, non ne ha bisogno: solo qualche chiacchiera innocente, allacciare un rapporto civile e tastare il terreno.

- Ciao, Alex – gli tuba alle spalle.

Alex o come cazzo ti chiami. Almeno il nome l’ho azzeccato?

Lui sobbalza sulla sedia. Per poco non si fa andare di traverso l’ultimo sorso di brodaglia alcolica.

- Isa Cortesi?! – sgrana gli occhi.

Grandi e ben visibili entrambi, a dispetto delle imitazioni raffazzonate della Vallone-pagliaccia. Un verde autunnale venato di ruggine verso i bordi, ora che li osserva da vicino. L’unica cosa davvero bella: impossibile non notarli, impossibile che non ti restino impressi addosso.

- Scusa, ti ho spaventato? – sussurra, ricomponendosi in una risatina di circostanza.

Una sfarfallata di ciglia sarebbe più che sufficiente, a questo punto: l’attimo di smarrimento rituale, e il broccolo di turno casca ai tuoi piedi, felice di farsi degnare dei tuoi ordini. Tranne quando una certa arpia di tua conoscenza ci mette lo zampino.

- No – Thompson la soppesa con gli occhi diffidenti e l’aria di voler mandare a monte ogni onesta trattativa prima che lei gli abbia rivolto parola.

Isa serra le labbra. La fase seguente prevede di inanellare banalità di rito e, con nonchalance, infilargli il tarlo nella testa.

- Senti – sussurra, accomodandosi di fronte a lui e puntando i gomiti sul tavolino – Non volevo prendermela con te, l’altro giorno… Non c’entravi nulla. Non ce l’ho con te perché hai difeso Loria.

Mossa cretina, perché la risposta arriva con un sorriso accondiscendente venato di noia: è più o meno da quando è scoppiato il casino dello stage apriticielo, che chiunque non fa che ripetergli scusa, Thompson, mi spiace di averti dato della merdaccia.

- Era una cosa tra noi, tra me ed Elena, l’avrai capito.

Magari, se non ti fossi buttato in mezzo, ti saresti risparmiato qualche proiettile vagante. Ma io sono generosa.

Sospira. Di solito, a questo punto, il gonzo di turno scodinzola. Thompson no: si limita a sollevare le sopracciglia in un che cazzo vuoi piuttosto eloquente. Forse è finocchio come dicono e non subisce il suo fascino, forse la strega ha già provveduto a microchipparlo come sua proprietà.

Ti ha mangiato anche la lingua?

- Abbiamo fatto pace, comunque… Cose tra donne – ridacchia – Volevo scusarmi per averti messo in mezzo, tutto qui. Ero un po’ fuori di me. Ti sarai fatto una brutta opinione…

Ammicca di nuovo. Thompson scuote la testa e distoglie lo sguardo.

- Non credo di averci capito molto. E neanche mi interessa… onestamente.

Isa spalanca gli occhi, giocherellando con il manico della borsa.

- Alex, non è solo questo. È che… mi dispiace per tutto quello che sta succedendo. Ultimamente. Ce l’hanno con te dalla faccenda dello stage, e okay, lo capisco… Cioè, non lo capisco, ma credo di aver afferrato il perché: sono gelosi che ti sia preso una soddisfazione al posto loro, è questo. E… capisco come ti possa sentire. Se per te cambia qualcosa, ecco, io non la penso come loro. Sono dei poveracci, hanno bisogno di prendersela con qualcuno.

Silenzio. Thompson annuisce, una risposta che non è una risposta: resta sospesa nell’aria senza farsi decifrare. E in questo lui è terribile – è peggio di Andrea, quando non aveva il coraggio di vomitarle in faccia Sì, cazzo, mi piace l’uccello.

Thompson scrolla le spalle e la fissa come se si fosse denudata di fronte a lui. Sempre quell’aria svanita come se fosse appena piovuto dalla luna.

- Non vedo perché debba scusarti. Tu – riesce a masticare – Con me.

Isa aggrotta le sopracciglia: è come parlare due lingue diverse. Non sembra il depresso alienato che dicono: sembra uno che si è strafatto fino a non capire più un cazzo, chi è, dov’è che è piazzato, come si risponde a una domanda banale senza stupide frasi elusive. Sospira: vicino a lui, Derossi sembra quasi sano. Ed è tutto dire.

Un po’ di pazienza, qualche altro muro da abbattere, qualche altra stronzata, e te lo rigirerai come un pedalino.

- Forse io posso aiutarti.

- A convincere Basile e soci che il mio scalpo sta a posto lì dov’è? – Thompson ammicca.

- Parlavo di Loria.

Loria. Sveglia, idiota totale!

La parola magica che lo strappa allo stato catatonico.

- Eh?!

- La conosco, Elena – Isa ridacchia – Mi pare che non ti sia indifferente. E forse nemmeno tu a lei.

- Ehi…! – un’alzata veloce di sopracciglia, un cerchio perfetto pronto a incassare la coltellata che lo coglie alla sprovvista – È fuori questione.

Thompson posa la bottiglia sul tavolo: qualcosa è cambiato nei suoi occhi che luccicano nella penombra fumosa del locale. Qualcuno è entrato con la sigaretta accesa e si è premurato di schiacciare il mozzicone sotto la scarpa – odore di filtro bruciacchiato che le rimorde nello stomaco. Il viso di Thompson si assesta sul fucsia uniforme: così, un po’ meno zombie del solito, sembra quasi carino.

- Ti piace, vero? È tremenda… con quegli occhi che ti divorano vivo – sussurra, la voce zuccherina – Certo, peccato per Nicoletti sempre in mezzo.

- Non stanno insieme, però. Che io sappia.

- Magra consolazione.

- Stai facendo tutto da sola, eh! – Thompson si strofina una macchia immaginaria all’altezza del ginocchio, un sorriso fuori luogo sulla faccia sconvolta – Non so proprio che dirti, se Loria e Nicoletti, beh…

Se il problema, alla fine, è più mio che tuo. Ma potresti tornare utile. Potresti guadagnarci qualcosa in cambio, se sapessi giocare un po’ d’astuzia e fossi uno che le cose le capisce al volo.

- Sei il tipo di ragazzo che può piacere a lei.

Perché ha un debole per la componente horror della vita. Per i mocciosetti con la faccia da topo che non cercano altro che una mamma chioccia che li aiuti a soffiarsi il naso dopo il piagnisteo rituale. È la tipica persona che smania per prendersi sotto l’ala il pulcino della situazione e provare a tirarne fuori un uomo: l’ha già fatto e le è andata da dio, si è sentita importante.

- Non sopravvalutare Andrea. Se fossi al posto di Elena, preferirei un uomo al mio fianco, non un nipotino che pesta i piedi.

Uomo. Alexander Thompson. C’è qualcosa che non va in quelle parole accostate l’una all’altra, soggetto-verbo-complemento. Isa serra le labbra, trattenendo a stento una risatina che sale gorgogliando: forse avrebbe fatto meglio a tirare in ballo il Lastella etero o un altro a caso, con i capelli del suo colore naturale e una dotazione standard di testosterone e materia grigia.

Ma se Loria non si fa scrupoli a scorrazzare dietro a uno già fidanzato, sventolandogli sotto il naso il suo faccino da puttanella compiaciuta fino a tirarselo sotto la gonna, in barba a tutto, allora anche un preso male come Thompson può fare al caso suo, attivare i suoi ricettori da finto-idealista paladina degli sfigati, e tenerla buona almeno un po’ – e lontana da Andrea.

- In conclusione…? – Thompson sembra quasi divertito, una piega scettica onnipresente sulle labbra.

Se non altro, non sembra trovarla antipatica: sorride, si ravvia i capelli, mentre finge di flirtare con una vera donna.

Ma l’ha capito anche lui. Che stai bluffando orrendamente.

- Nulla… Dicevo così per dire – Isa si stringe nelle spalle, la voce un sussulto impercettibile; l’unico, adesso, è tergiversare e mantenere la tensione a livelli sopportabili – Se fossi in te, non mollerei al primo colpo. Non lascerei la cosa intentata, se mi interessasse davvero.

Sorride, ferina, lo sguardo che saetta in giro per la stanza; qualche attimo di ricognizione, e poi allunga la mano. La zampata improvvisa: rimuovere un granello di polvere immaginario dalla sua maglietta nero acrilico. Petrolio denso e uniforme.

Thompson distoglie lo sguardo, stordito: sembra uno che si imbarazza facilmente, glielo legge nel respiro profondo che gli dilata le narici e nell’ondata di calore che va e viene sulle guance altrimenti esangui.

L’appiglio giusto per spezzare una maschera di diffidenza. Di uno che si finge scemo per non alimentare sospetti.

- Sai… dicono tante cose sul tuo conto – a parte quelle che non posso dirti in faccia per non farti piangere – Alle mie amiche piaci. Dicono che… sei molto carino.

Lo dice Barbie, ma che valore ha, se anche il direttore, per lei, rientra fra i chiavabili…?

Thompson spalanca gli occhi e si affretta a sottrarre la mano al suo tocco avviluppante – contatto mancato per un secondo. Sembra sul punto di andare a fuoco, a corto di parole, di vie di fuga.

Sei in trappola, ragazzino: non puoi scappare, schermare la verità, liberarti con una scusa, perché i neuroni sono andati a far compagnia al sangue che pulsa in superficie. Lo spuntone di metallo conficcato nel lobo sinistro potrebbe diventare incandescente da un momento all’altro: la tua unica arma di difesa, l’unico spigolo vivo, perché in tutto il resto sei un tenero agnellino. O sei troppo finocchio, e frequentare Lastella ti ha dato il colpo di grazia, o sei un’anima candida convinta di aver trovato un’oasi di pace in cui il rispetto ti è dovuto, e la caduta imminente inizia a bruciare sotto le chiappe.

- I-io… non credo – boccheggia, fuori controllo, l’accento sporchissimo made in England, la faccia in autocombustione spontanea.

Vorresti negare, ritrattare, ma ti impelagheresti nel vicolo cieco de “la mia parola contro la tua”: lo sai. Potresti far finta di darmi ragione per sputtanare il discorso e tirartene fuori senza colpo ferire, ma saresti ridicolo anche solo fingendo di annuire a tante balle: a credere che io creda che tu sia un tombeur de femmes… con quella faccia lì! Perché hai l’autostima di un cuscino o troppa coscienza di te stesso. Di valere come il due di bastoni quando comandano le coppe.

Il momento di infierire. Isa allunga la mano e gli scosta i capelli dalla fronte – una delle poche difese che gli sono rimaste, insieme a quel tratto di matita scuro che indurisce lo sguardo e rende evanescente l’espressione del viso.

- Carini. Come mai questo colore… insolito? – cinguetta.

Thompson si scosta di scatto, quasi gli avesse rifilato una scarica elettrica. Boccheggia e si stringe nella maglia.

- Ho sbagliato tinta – sussurra.

- Non hai sbagliato. Mi piace – prese per il culo a parte.

Isa socchiude le palpebre. Le dita affusolate che calano su di lui e si assestano sul dorso della sua mano in uno sfregamento rassicurante. E lui alla fine cede, si lascia toccare. Respira di nuovo. E tanto basta.

Continuerebbe ancora un po’, stoccata dopo stoccata, una parata sempre più debole dall’altra parte; continuerebbe fino a demolire quelle barriere di cartongesso, se non cominciasse a farle pena, un mucchietto informe viola di imbarazzo che fa pendant con i capelli color chewing-gum masticato. L’ipotesi aleggiante che non sia – non del tutto – il ragazzetto cagasotto che ha paura che la figa abbia i denti: forse è solo furbo o ha qualcosa da nascondere – qualcosa che fa rima con baldoria.

Continuerebbe ancora un po’ a sondare quel faccino, se qualcuno alle sue spalle non reclamasse la sua attenzione schiarendosi la voce e distogliendola dal gioco del gatto col topo.

Uno a zero, sfigato.

 

* * *

 

- Isa Cortesi…! – Patrizio le rivolge un sorriso casuale, i muscoli della faccia tesi fino allo spasimo.

Come una fresca iniezione di botox, complice un chirurgo a cui è scappata la mano.

Isa lo fissa come un predatore distolto dalla caccia all’uomo, una ladra colta sul fatto, gli occhi di chi potrebbe schizzare da un momento all’altro e azzannargli il polso con i denti intrisi di veleno. Un sibilo di vipere che mulina in quell’aria viziata.

Calma, Patrizio. Il fatto che miss Cortesi ti abbia quasi scippato Andrea a pochi giorni dalla tua partenza, resettando il sistema e riprogrammando tutto da zero, e che adesso si diverta a torturare Alex, non è una valida ragione per andare a rispolverare dalla punta dei capelli fino alle dita dei piedi il cliché del gay che non sopporta le donne.

Il problema è lei. Perché è tremenda, tremenda quando parla a bassa voce, quando sfodera il suo sorriso più gentile e stringe il pugnale dietro la schiena.

- Vedo che vi siete conosciuti – le sussurra. Voce neutra.

I sensi che vagano, incerti, sull’atmosfera fumosa e delirante, il ritmo rallentato, e assaporano la cappa tossica che grava sulla sala e impastoia i neuroni. La sensazione di fili che tirano. Isa sorride, letale.

Forse è il suo profumo impertinente che penetra nel cervello, annebbia la mente e sprofonda tutto nel labirinto del vago, i contorni che si sfilacciano e la visione rivelatrice che arriva sempre un attimo dopo. Alyssa Ashley o qualcosa del genere: è schifosamente alcolico, il genere di profumo che potrebbe piacere a sua nonna col soprabito color ciclamino così impregnato che l’idea immediata è che ci si sia fatta il bagno, in quel liquido maledetto. È lì, si infila sotto i pori della pelle, si incastra tra le fibre dei vestiti, stratifica spruzzata dopo spruzzata e ti sale alla testa come alcool; ti pizzica le tempie e ti brucia nel naso, moderno surrogato del canto della sirena. Alex sembra assuefatto, una statua di sale.

- Sei caduta in una vasca di profumo? – Patrizio abbozza un sorriso, una smorfia a zanne scoperte – Somiglia a quello che usa mia nonna. Delizioso…

Isa stringe le labbra. Alex sembra destarsi dal sogno solo in quel momento. Li fissa con occhi vacui – lui e Isa, indeciso su dove accomodarsi –, spezzando l’incantesimo con un battito di ciglia, si volta di scatto e starnutisce con discrezione. Tra un po’ gli verrà mal di testa, magari vomiterà, ma poi starà meglio.

Isa distoglie lo sguardo, scorrendo in punta di dita sul collo della bottiglia semivuota. Se lo sguardo potesse uccidere, se non fosse una signorina per bene, potrebbe impugnare la bottiglia come arma impropria e sfracellargliela contro la nuca. Ma è una che ama uccidere di lingua e non di spada.

- Carissimo! – riprende Patrizio, scivolando alle spalle di Alex e stringendolo a sé, la mano aperta che preme sul torace – Ti sei dato alle grandi conquiste…

Alex solleva il capo e lo fulmina con uno sguardo obliquo, ignorando la carezza con cui gli scosta i capelli, mentre l’altra mano si inabissa di qualche millimetro oltre lo scollo a V della maglia.

Troppo intimi. Isa arriccia il naso. Patrizio respira a pieni polmoni il suo disagio e la investe con lo sguardo, senza pietà.

- Vedo che l’attività procede a gonfie vele, Cortesi – le soffia, velenoso.

- Quale attività?

- Quella di sensale di matrimoni. Sei la migliore in zona.

Isa inghiotte il rospo e prova a sciogliere la tensione con una risatina forzata. Inopportuna come le sue grinfie rossosmaltate che giocherellano sul polsino di Alex.

Patrizio la ignora e affonda il naso nei capelli di Alex. Le dita guadagnano qualche altro millimetro dentro la maglia, seguono la linea affilata della clavicola; il tempo di sfiorargli il lobo dell’orecchio in punta di labbra, e si ritrae di colpo. Tenterebbe il colpo di grazia, se fosse abbastanza spudorato, se fosse fuori di testa o schifosamente fatto, se il buonsenso facesse “ciao” con la manina – e se Alex, per tutta risposta, non minacciasse di troncargli le dita con un morso. Però a quel punto la faccia di Isa diventerebbe blu sotto la luce aranciata delle applique, e varrebbe quasi la pena di rischiare. Sarebbe come bruciare il traguardo e rifarsi le unghie sul nemico: baciare Alex sotto i suoi occhi, piantargli addosso due mani avide, bypassare la barriera della cintura con la placca di metallo che si apre con la combinazione, dei pantaloni neri strizzati sui fianchi, e accarezzarlo fino a ridurlo a un fascio di nervi scoperti, lì di fronte a lei; scippargli un orgasmo sofferto, delirante, taciuto, sotto il tavolo e sotto i suoi occhi. Sconvolgerla abbastanza da dissolvere dalla sua faccia incipriata il sorriso impreziosito dalla strafottenza di chi pensa di stravincere. Omofoba di merda.

Isa simula un conato di vomito e si alza in piedi, mollando la presa sulla spalla di Alex e lasciandolo libero di mettersi comodo, libero dalla loro lotta estenuante a braccio di ferro.

- Bene… io andrei – Isa ammicca – Alex, mi raccomando: pensaci, a quello che ti ho detto – gli soffia, strizzando l’occhio.

Non è abbastanza. Si china su di lui e gli stampa un bacio sulla guancia, prima di tornarsi a mimetizzare tra i suoi amici fighi.

Non sai perdere, bella signora.

- Finalmente… – Alex si lascia andare a un lungo sospiro, rilassandosi contro lo schienale e asciugandosi la fronte con il dorso della mano.

Sembra esausto e vagamente febbricitante, una macchia di rossetto sulla faccia che si affretta a strofinare via.

- Com’è stato?

- Imbarazzante – si strofina la punta del naso arrossata, soprappensiero.

Immagino: ti prende e ti rivolta a testa in giù in tre secondi: è una fuoriclasse. È ipnotica. Dovrebbero impiegarla negli interrogatori di massima sicurezza.

- Potevi evitarti la buffonata di fingere che noi stiamo insieme – soggiunge, un ringhio appena percettibile – E di trattarmi come un cazzo di fantoccio.

- Psicologia spicciola, Darling – Patrizio ridacchia – Quella per lei è kriptonite. Oddio, un gay!

- È anche una cosa che non la riguarda. Se questa storiaccia arriva alle orecchie sbagliate, tipo ai tuoi amici, sei fottuto. Siamo fottuti. E lei non mi sembra una che tiene la bocca chiusa.

- Ale, rilassati. Non ha nessun interesse ad andare da Basile e spifferargli i cazzi tuoi. Stava bluffando, dai: bugie per scoprire qualche verità. Come noi, del resto. Cosa voleva?

- Non lo so. Prendermi in giro. All’inizio sembrava gentile. Forse illudermi che, secondo i suoi calcoli astrali, adesso avrei pure una mezza chance con Elena.

- Già – rilancia Patrizio, sarcastico – Sembra gentile... i primi dieci secondi. Poi ti soffoca di domande idiote.

- Tipo se esci con qualcuno, se qualcuno ti interessa…

- Sì, è un classico. Se le avessi confezionato una balla a prova di ficcanaso, sarebbe finita lì.

- Secondo te ne ho avuto il tempo? Quella ha capito che io e Nicoletti ci stiamo sulle palle, e cerca alleati… Vorrebbe tipo che mi mettessi in mezzo tra lui ed Elena. Non lo so che intrallazzi abbiano, ma non voglio entrarci né uscirci. Mi basti tu e mi bastano i tuoi amici – stoccata diretta, acidità che cola tra un battito di ciglia e l’altro – a complicarmi l’esistenza.

E gli scocca uno dei suoi sorrisi asimmetrici, le dita che riprendono a giocherellare sul collo della bottiglia per sfaccettare la sua attenzione in un gesto casuale ripetuto fino alla nausea. Cortesi docet.

Patrizio deglutisce. Guardarlo troppo a lungo vuol dire perdersi nel disegno delle palpebre così sottili da sembrare trasparenti, nella pelle diafana che lo fa sembrare truccato anche quando non lo è, tra l’ombra scura da notte agitata intorno alle palpebre e un alone di kajal che stratifica stuccaggio dopo stuccaggio, e tutto il resto è una perla perfettamente liscia, come i suoi occhi scrutati a fondo e perforati dallo sguardo di Isa Cortesi.

Trasparente per tutti tranne che per me. Un libro aperto. Scritto in ideogrammi giapponesi.

Patrizio ricambia il sorriso e gli sfila la bottiglia dalle mani, servendosi dell’ultimo sorso dimenticato sul fondo; si passa la lingua sulle labbra – l’imboccatura della bottiglia ancora calda delle sue.

Demonietto.

Lo osserva, il viso dall’ossatura sottile, gli zigomi appuntiti, una bellezza-che-non-è-esattamente-bellezza costruita sulla lieve asimmetria.

- Forse ti trova affascinante – azzarda – Vuole portarti a letto e sta cercando di capire se sei… impegnato.

Frena, tesoro. L’ho visto prima io.

Alex arriccia il naso.

- Sì… Isabella Cortesi! Piuttosto si impicca.

- Magari voleva capire se sei gay – incalza Patrizio – Almeno questo: è da un po’ che ce lo chiediamo.

- Perché forse non avete un cazzo da fare – Alex si inarca verso il tavolino ed esplode in una risata vibrante, inattesa, a gola scoperta, e gli allunga una pacca sulla spalla in un misto di scherno e condiscendenza, le dita fredde fasciate da anelli a serpentina – Chi vivrà vedrà, Darling.

Nicoletti dixit. Le ultime parole famose.

 

* * *

 

- Ne avevamo parlato. Sì, non fare la gnorri: ricordi bene. Non ti avevo tipo… dato un consiglio spassionato? Di non fare cose… avventate – Alessandro Alberti giochicchia con nonchalance con la cintura diligentemente ficcata nei passanti, un attimo prima di stravaccarsi al suo fianco sul divanetto in fondo alla sala.

Un bacio che sa di vodka gusto mou e dopobarba di una marca vomitevolmente figa, e via alla paternale del giorno, tutti pronti a sciropparsi il vecchio disco.

Alberti, che noia. Potrebbe essere il suo nuovo motto. Isa solleva lo sguardo, seguendo qualche immaginario gioco di luci sul soffitto. Da quando prudenza è diventata la sua parola d’ordine, da quando Loria l’ha rimesso in riga con due parole dette al momento giusto, da quando il suo posto di raccomandatone di punta, di boss amato e temuto, sembra essere a rischio, è tutto un ripiegarsi sulle chiacchiere a bassa voce nell’ufficio del direttore, sul tentativo patetico di salvare le chiappe di Riccardi per coprire le proprie, e sulla redditizia attività di sommozzatore di cazzi altrui. Un sottomarino rimasto senza carburante in attesa dei soccorsi.

- Cos’ho fatto stavolta che non va? Dove avrei infranto gli ordini? – Isa ammicca, angelica.

Occhi da cerbiatta che fanno a pugni con il sorriso forzato: sa che la bugia non reggerà a lungo, ma non si scompone.

- Ti avevo detto di lasciarlo tranquillo. Almeno lui. Non ti ha fatto niente, non c’entra con questa storia ridicola… Con te, con Nicoletti, con Loria. Non arrivi da nessuna parte – Alessandro fa scivolare lo sguardo su Thompson fermo impalato a fare la coda alla cassa per pagarsi la sua mezza Heineken da poppante; storce il naso – Che acquisto, eh! Emo, faccia da checca, movenze da zombie…

Così anche tu sembri un po’ una checca pettegola, sai? Sembri tua zia che attende dal parrucchiere con una mistura di inchiostro e calce viva schiaffata in testa.

Isa accavalla le gambe.

- Sei geloso se parlo con lui?

- Che stronzata! – Alessandro si sbatte una mano sulla fronte, teatrale – Perché, secondo te, può rappresentare un pericolo?

- Non perché ti fidi di me? – Isa gli pianta in faccia uno sguardo di lava incandescente.

Ma continua a sorridere a labbra tese. Così tirate che tra un po’ il rossetto se ne va a puttane addensandosi nelle pieghe.

- Dipende. Adesso, per esempio, hai qualcosa di strano: te lo leggo in faccia. E non è casuale che sia andata a parlare proprio con lui. Perché proprio lui? È innocuo. Così innocuo che ancora un po’ e sprofonda sotto terra.

- Oh, via! Per due chiacchiere…

- L’hai traumatizzato. Volevi scoprire se gli piace Loria? Se è tanto masochista?

- Che perspicacia! – Isa si osserva le unghie – Hai tirato a indovinare?

- Cos’altro potevi avere da chiedergli?

Nulla che ti riguardi.

- Un sacco di cose. Tipo chi gli ha insegnato a truccarsi così male. Da quand’è che i maschi si truccano. Però, ammetti che con Loria non starebbe male… dai! Non ti pare un castigo adeguato scaricarle sulla groppa il cugino sfigato di Edward di “Twilight”?

Al prezzo di un Nicoletti, magari.

- Riderei – Alessandro continua a occhieggiare sospettoso – Se non fosse un’idea tanto… fantasiosa.

- Ridi pure… Io intanto mi sono sorbita Lastella incazzato!

- Che aveva?

- Paura che sciupassi il suo giocattolino. Per poco non ci ha limonato duro davanti a tutti per marcare il territorio! Aveva gli occhi da arrapato.

- Allora non è stato un buco nell’acqua – la bocca di Alessandro si incurva in un ghigno – Abbiamo scoperto che Thompson e Lastella se la intendono.

- Non farmici pensare, va’! – Isa aggrotta le sopracciglia in una piega sarcastica.

Non ha nulla di concretamente figo, è introverso ai limiti del patologico, che alla centesima risposta a cavolo ti viene voglia di mandarlo affanculo; non è un Adone, eppure qualche cuoricino l’ha spezzato. A modo suo.

Thompson sfila a un passo da lei con andatura un po’ basculante da troppo alcool in corpo – troppo per un moccioso tutto secco come lui –, il conto pagato coi soldi di paparino e Lastella che lo attende per fargli le feste. O la festa.

- Però, ammetterai che è tutto fuorché brutto – sussurra, voltandosi al suo passaggio e squadrandolo da capo a piedi – Ha un fondoschiena interessante. Almeno quello, dai.

- Se ce l’avesse. Una parvenza, dico… Ma che discorsi mi fai fare?!

- Sei geloso – Isa annuisce, trionfante – Sei geloso perché penso che Emo-boy abbia un bel culo. Perché ci ho attaccato bottone. Secondo te ci sarebbe qualcosa di male, se volessi, che so… fare conoscenza?

Ringrazia che non ho commentato il pacco. Barbie l’avrebbe fatto. Con il suo ragazzo presente e con buona pace di tutti.

Alessandro si stringe nelle spalle.

- Con lui vado sul sicuro. Non è il tuo tipo. Non sarebbe molto… normale.

Isa finge di ravviarsi i capelli e sbircia alla sua destra. Lastella che ridacchia a qualche cazzata del suo amico per la vita e si avvicina con la sedia, sussurrandogli qualcosa all’orecchio e schioccandogli un bacio sulla tempia. Horror.

- Pensa se lo sapesse Basile, che Thompson si lavora la sua creatura!

- Ecco, questo è un problema – Alessandro fissa la superficie del tavolo, soprappensiero – Un grosso problema, perché non stava scherzando, quando ha promesso vendetta e tuoni e fulmini. Se gli parte l’embolo, quello lo massacra, altro che cazzi; se poi scopre che è in corso una mezza tresca col suo amicone, ciao Thompson! Addio, condoglianze, è stato bello. Anzi… no. Non è stato bello.

- È nella merda fin qua sopra, poveraccio, soprattutto adesso che faranno il culo alla Balducci per colpa sua. Vorrei fare qualcosa.

- Sì, certo, e Derossi è etero. Raccontalo a qualcun altro! – gli occhi di Alessandro si illuminano – Tu non fai mai niente per niente, non senza qualcosa in cambio. Perché dovresti aiutarlo?

- Mah… per guadagnarmi la sua fiducia coi fatti, forse. E provare a capire cos’ha dentro la testa.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 50
*** Capitolo 50 - Ultimatum ***



Capitolo 50

Ultimatum

 

 

La folgorazione è arrivata nel preludio apparentemente innocuo di un pomeriggio pieno di prove e lezioni da scoppiare. Sospira, Andrea, la luce abbacinante che gli solletica le palpebre; si stringe a Gabriele, le dita che giocano a intrecciarsi alle sue. Chiude gli occhi, quando lui gli scosta una ciocca ribelle dalla faccia e gli sfiora le labbra in punta di dita.

Ecco. Adesso posso anche morire, perché sei tu, e non vedo nient’altro.

Dividersi il dopo-pranzo e una panchina arroventata dal sole con una versione inedita di Gabriele – non sul piede di guerra, non scazzato e sospettoso, non pronto a staffilarlo a suon di risposte acide –, è una di quelle cose che valgono la pena di emergere dalle lenzuola ogni fottuta mattina senza salutare il mondo con imprecazioni di rito. Gabriele che continua a sorridergli, a centellinare le parole e circondarlo con le braccia.

La mattinata è scivolata via tra il vuoto di parole, l’euforia galoppante e lo stomaco in gola. Tra apatia e voglia di scoppiare a ridere senza motivo, lo stomaco che urla pietà per carenza di zuccheri dopo una notte di sesso da incorniciare. Ma la nausea gli sigilla le labbra solo al pensiero di mandar giù una briciola – l’odore dolciastro della sala mensa per poco non l’ha fatto sboccare. Avrebbe vomitato l’anima nel primo angolo lungo la sua corsa forsennata fuori da quella stanza caotica e affogata di luce, e avrebbe ripreso a ridere come un invasato, il cervello sprofondato sotto le suole delle Converse e mille luccichii astrusi davanti agli occhi.

Dottore, un tranquillante. Per cavalli. Adesso.

Non era pronto all’impatto tossico con ciò che sta fuori, a ripiombare nel suo incubo di carta velina con Gabriele che gli allaccia una mano intorno alla vita e garantisce per lui; ma quando il mondo chiama, non si cura che tu sia sull’orlo della follia, e c’è poco da dire e da procrastinare. L’Accademia chiedeva la sua presenza di allievo modello, divisa tra chi lo vede ancora come un dio e chi lo farebbe secco senza pensarci troppo.

Nicoletti Andrea, presente. Cos’è cambiato rispetto a ieri? C’è Gabriele che ti prende e ti scuote e si prende cura della tua follia. Porti qualche semplice domanda sarebbe stato impensabile fino a stamattina, perché la mente si incarta su sé stessa, incespica nelle parole e manda in corto circuito il sistema. Fino a mezz’ora fa non saresti stato in grado di sillabare il tuo nome.

La spalla di Gabriele a un soffio dalla sua è l’unico appiglio, il lasciapassare tra la realtà e il sogno che imperversa davanti a lui, fotogrammi casuali di quella notte che gli si affastellano nella mente: vietato scostarsi di un millimetro, poco importa che l’incubatrice del tuo delirio sia a due millimetri da te.

Gabriele…

- Allora… resti? – glielo chiede come un’implorazione.

Ammicca, una lacrima che gli riga la guancia, a furia di fissare la distesa di granito arroventata davanti a sé. Voglia di piangere, di ridere senza fermarsi a respirare, di correre fino a stramazzare al suolo. Tutto contemporaneamente. Lo stomaco che continua a pungere, come la scheggia acuminata che un giorno Gabriele ha deciso di conficcargli tra le costole. E brucia.

- Andre, sono qui. Non scappo – Gabriele lo osserva da dietro gli occhiali scuri: sembra un po’ meno sconvolto, ma le sue mani continuano a indugiare, le parole a disperdersi nell’aria.

Non scappi più, adesso. Perché non ne avresti nessun motivo. A cosa serve tergiversare?

- Dicevo… in camera. Con me – la fatica ad articolare frasi di senso compiuto è tanta da mandargli in fumo il cervello: deve concentrarsi sulle labbra che si muovono, sulla lingua che modella i suoni.

Uno scoppio di risa. Leggero, volatile.

- Ci tieni proprio…

- Sì – Andrea sbatte le palpebre, dissipando la nebbia residua fino a mettere a fuoco tutte le gradazioni di realtà – È lì che sono cominciati i guai. Ti avevo quasi cacciato…

- Non mi avevi cacciato – Gabriele si avvicina, il braccio buttato a caso intorno alle sue spalle – Me ne ero andato io. Dopo… quella discussione.

Se mi rinfacci di nuovo che sono andato a letto con Neri, che ti ho insultato in pubblico e pure in privato, giuro che ti raddrizzo il naso con un pugno. Non adesso. Non adesso, idiota.

Gabriele gli scosta un ricciolo dalla faccia con una naturalezza che non ricorda di avergli mai visto. Smette di intrecciare le dita alle sue e gli sfiora la guancia accaldata. La vera prova del nove, paradossalmente, è lui che gli prende il volto tra le mani e incastra le labbra alle sue – una frazione di secondo, nessun permesso scritto, nessuna protesta annacquata a diluire lo slancio. Un attimo e la tensione sale, diventa insopportabile sulla pelle ed evapora in un sussulto liberatorio. È ufficioso e ufficiale, carico di tutte le sue paturnie, della leggerezza con cui Gabriele gli fa scivolare una mano dietro la nuca.

Non andare in iperventilazione adesso. Cazzo, Andrea: ci siete solo voi.

Se svieni, attiri l’attenzione, e l’idillio si spezza, inquinato dai perché e dai percome, dalla gente che si ficca in mezzo e scalpita per dare un’interpretazione alla rinfusa. Se schiudi le labbra e lo folgori con un bacio da manuale, l’atmosfera diventa torrida. Se smetti di respirare, soffochi.

Qual è stato il momento preciso in cui hai imparato a dosare l’ansia, palleggiartela da una mano all’altra fino a renderla evanescente; quand’è che hai imparato a baciare un ragazzo e a gestirtene il carico emotivo, a fare l’amore, a ricondurre i sentimenti a un’equazione semplificabile?

Professor Lastella, dove cazzo sei, quando servi? Sei tu che mi hai insegnato tutto. Ad andarci giù di lingua senza rendere il tutto l’anticamera di un porno. A comprimere le emozioni sotto lo sterno e godermi una pomiciata da film come la cosa più naturale del mondo, anche quando qualcuno ci guarda.

Non lo è e non lo sarà mai, finché ci sei tu. Le tue labbra che guizzano sulle sue e fremono per accoglierlo. E il respiro viene meno, le labbra si tendono e trema tutto, tra un sussulto infinito e una risata soffocata. Ridete entrambi, perché non resta che godervi un po’ di sano relax e fottervene di tutto, di loro che occhieggiano, che origliano e mormorano, le labbra schermate tra le dita.

Non sarà sempre così. Domani vi sveglierete e scoprirete che è la stessa merda cucinata in altra salsa. Vi sveglierete e farete i conti con la vostra boccia di vetro che va in frantumi e vi catapulta di nuovo tra i vostri simili.

Siete due ragazzi – non sarà mai normale, non per loro, non per la soluzione acida in cui siete immersi fino agli occhi, con cui dovete fare i conti: non evapora via, se fingete che non esista. Siete Andrea Nicoletti e Gabriele Derossi, il feuilleton ambulante. C’è lui, alto, bello e sputtanatissimo; ci sei tu, il voltagabbana effeminato riccioli d’oro dalle movenze da ubriaco.

Non sarete mai i teneri fidanzatini che si scambiano frasi prevedibili da romanzo d’appendice. Non sarete mai il copione già scritto, le cui varianti si contano sulle dita di una mano, e allora diventa un gioco indovinare le combinazioni, le possibilità, e farvi stampare in fronte il francobollo che più vi si addice.

Non è l’amore a scoppio ritardato che manda a gambe all’aria il tuo mondo e dà un valore a tutte le incognite. È rimirare il sangue che ci avete sputato e riviverlo ogni giorno, rimettere tutto in gioco ogni minuto che passa.

 

Sei strano, Gabriele. Non mi hai ancora dato dell’imbecille, non hai detto nulla di fraintendibile; hai preso l’iniziativa e non ti sei schifato per un bacio plateale. Continui a giocare da funambolo, qualunque cosa pensino loro: siamo io e te, niente di speciale, niente che possa immobilizzare l’allegro uditorio. Una variabile impazzita tra mille possibili.

 

Non siete soli. Una decina di metri in linea d’aria, la panchina addossata al muro di cinta, un cono d’ombra strategico tra l’edera aggrappata al muro e il cestino dei rifiuti. Alberti distoglie lo sguardo e scuote il capo, “che ti dicevo?”; Barbie siliconata salta su come se qualcuno le avesse pizzicato il sedere, e aguzza le antenne; Isa riprende a fissarvi con occhi di metallo, indecifrabili come una condanna da maturarsi nel tempo, “cazzo, allora avevi ragione, Alessandro; è la conferma”.

Stanno insieme. Nicoletti è finocchio. Derossi ride e si gode i suoi novantadue minuti di applausi, perché si è scopato il più bello e può urlarlo in faccia a tutti: ha vinto dove voi avete fallito.

Andrea si scosta i capelli dalle spalle, la consapevolezza come una doccia fredda dopo una giornata di tepore liquefatto nelle ossa; la folgorazione dell’ultimo minuto vergata a fuoco negli occhi gelidi di lei. Perché il problema di Isa è che non ha mai capito un cazzo: c’è sempre andata a naso, schifosamente sicura di sé, così fiera dei propri colpi di genio da convincerne chiunque. Gli altri, prima che lei stessa. Come succede quando non si è capito un cazzo e si ignora il nocciolo duro della questione, e si sposa fino in fondo un ragionamento campato in aria che prima o poi, per miracolo, a furia di distorcere la realtà, diventa l’unica verità. Per qualcuno, ma non per lui: può continuare a giocarsela attimo dopo attimo e a vedere che effetto farà su di loro.

Isa stritola la lattina vuota tra le dita rossosmaltate – una forza insospettabile per una ragazza graziosa e minuta come lei – e centra il cestino di metallo con un tiro d’alta precisione, un clangore improvviso che fende l’aria. Forse voleva attirare l’attenzione dalla sua parte.

Andrea stringe la mano intorno a quella di Gabriele nello spazio ridotto tra la panchina e la propria gamba piegata, un intreccio segreto che gli strappa via un battito e minaccia di scollargli di dosso la sua camicia di forzata neutralità.

Quando imparerò a fare i conti con la tregua apparente?

Si aspettava un segnale da lei, un cedimento. Un girare sui tacchi con il disgusto che le tracima dalle labbra, una smorfia impercettibile, una piega all’angolo della bocca; una minima variazione di colore sulle guance, perché quello mica lo controlli.

Invece no: Isa lo osserva con una faccia indecifrabile, quella che lui ha imparato a temere, i lineamenti distesi di una bambina che gioca. Abbozza un sorriso compiaciuto, “vedi che avevo ragione?”, lo sguardo che indugia qua e là e abbraccia tutto senza afferrare niente e senza farsi incastrare. Niente di speciale, nessuna resa dei conti-bis, nessun terremoto annunciato.

Forse perché di Elena non c’è traccia, e di solito è lei, la sua presenza maliziosa, a farle saltare i nervi. Elena che ricuce lo strappo, che riesce dove lei ha fallito, che aleggia tra loro come una strana presenza e sbroglia le trame: non le è mai andato giù. Che Loria gli abbia tirato fuori ciò che una volta sarebbe stato compito suo.

Occhiata rapida al cellulare.

Elena, dai, cazzo: rispondi! Perché so cosa dice di te, so che non parla d’altro, e non credo a una sola parola.

Rispondi, dammi un cenno di vita; vieni qui e dimmi come la vivresti al mio posto, come te ne tireresti fuori.

 

* * *

 

Serata appena un gradino sopra il livello di inutilità-standard, atmosfera di scazzo un po’ sopra la media inglese con doppio strato di tensione spalmato alle pareti tipo stucco a presa rapida. Unica soluzione, quando l’adrenalina sale, inghiottire il rospo e masticare accordi su accordi, la chitarra come scudo protettivo; prendere l’angoscia con le pinze e farla cantare, farla ruzzolare fuori fino a trattative concluse. La rabbia vera, quella densa che gratta contro lo sterno, meglio impacchettarla provvisoriamente fuori dalla saletta, perché la concentrazione è un puro fatto di respirazione e meccanica.

Patrizio riprende fiato, si scosta i capelli e si deterge la fronte, le corde vocali provate dopo una mattinata da incubo con la Longoni e un pomeriggio da limbo in sala prove a dieci euro all’ora. Da pazzi. La tinta per capelli dalla modica durata di otto lavaggi scarica che è una meraviglia – una mano di colore prima di sabato, e un Lastella tirato a lucido fino alle unghie dei piedi diventa l’ingranaggio tecnicamente perfetto.

Non ha scollato gli occhi da terra da quando l’ultima nota ha frustato l’aria e ha posato la chitarra: preferisce guadagnare tempo rovistando nelle viscere della borsa malandata tra un lavaggio e l’altro, spillette tintinnanti infilzate qua e là e macchie scrostate di bianchetto e Uniposca che un tempo erano scritte, simboli, dediche, frammenti di passato, dichiarazioni d’amore e di eterna amicizia dei tempi delle superiori.

Un cuore circoscritto a un pentacolo vergato sul fondo della borsa con rapidograph e certosina precisione nei tempi che furono, in ricordo della sua prima volta con Andrea e delle altre che hanno seguito, un’ombra appena visibile, uno strappo vivo che brucia come acido versato in gola. È sempre lì nascosto, latente, uno spillo conficcato nelle carni che vibra a intervalli irregolari, che ti estorce un sospiro, quando pensi che te la porti ancora lì, tatuata addosso, la cicatrice pulsante che ti parla di lui, di Andrea che sorride dietro la cortina di capelli bagnati e ti allunga il flacone del bagnoschiuma, il getto bollente della doccia che gli ruscella sulle spalle, la piega languida della bocca, le palpebre che si socchiudono, quando le tue mani scorrono lungo il disegno candido delle scapole. E il ricordo, lo scarto temporale riprende a bruciare addosso, a friggere come calce viva.

Patrizio ravana nel taschino posteriore della borsa fino a cavarne fuori, con le guance accaldate e una soddisfazione volatile, mezzo pacchetto di chewing-gum gusto dentifricio, aspartame e altre schifezze, per tamponare la botta di malinconia ruminando in tutta calma dubbi e risatine del cazzo nel corso della prossima mezz’ora. È tutto ciò che offre la ditta.

I sussurri alle sue spalle gli mordono la nuca come pensieri sconnessi, l’impronta allusiva scivola nella stanza e accarezza le pareti arancio fluo sotto la luce soffusa di qualche faretto stitico, poster di gruppi più o meno rock più o meno emergenti che occhieggiano qua e là, appesi alle pareti in qualche tempo remoto: qualcuno avrà immerso gli artigli in un contratto stellare, la maggior parte sarà caduta nel dimenticatoio nel giro di quattro serate mal pagate. Vita di merda.

- Epicenter… Epicenter. Suona mica male – Basile schiocca la lingua, rigirandosi le sillabe tra i denti all’ennesimo cambio di nome e rimpasto random della dannata scaletta per sabato.

Schizzato come una molla: il suo benedetto basso l’ha fatto andare da dio, stasera, e ha sudato sette camicie per stare al tempo con le sue evoluzioni. Il prezzo di un’esibizione senza intoppi, con Basile, si traduce in voglia di attaccar briga o crisi d’astinenza da prese per il culo. Oggi è la seconda opzione, domani chissà.

- Ma pare il nome di un farmaco. Dalla A allo zinco – conclude.

- Quello era Multicentrum, ignorante – Piani gli affibbia un coppino sulla nuca come una pacca fraterna.

Forse Ettore Moro, che un giorno ringrazieranno per la trovata, ha previsto anche la prossima scossa sismica a ore dodici.

Patrizio azzarda una risatina di circostanza: riempire con spirito di improvvisazione il vuoto di parole che turbina nell’aria, amico, lo stai facendo bene. Perché ci sarebbe tanto da dire e da scavare, ma nessuno pare intenzionato a staccare la lingua dal palato e dalle cazzate di circostanza.

Ma se qualcuno ha innescato la bomba, e l’esplosione è imminente, non resta che contare i secondi che mancano o, se si è abbastanza scafati, improvvisarsi artificieri.

La perla della serata è la dedizione maniacale con cui ognuno si è morso la lingua e ha fatto il suo dovere, senza che gli argomenti-tabù – Thompson, Balducci e camere fottute alla Casa dello Studente – rimbalzassero nella stanza anche per sbaglio: sarebbe stata la fine, e addio prove e addio pace armata.

Patrizio mastica la gomma e finge di smanettare con il cellulare, i gomiti contro le ginocchia e il bordo della sedia che gli taglia in due le chiappe. Hanno finito mezz’ora prima: cinque euro dei dieci pattuiti nuotano in fondo alla tazza del cesso.

Ettore ignora di essere stato appena tirato in ballo, sprofondato in un mutismo assorto. Non si è mai detto fosse un tipo loquace, ma stasera sembra giù di tono: bersaglio perfetto per frecciatine e domande impertinenti, con il peccato mortale di non tenere bordone agli altri due con sane sghignazzate a comando. Pronti, puntare, fuoco.

- Però… bella squadra! – Basile salta giù dallo sgabello, pimpante e ben intenzionato a sfottere a casaccio e far sprizzare la scintilla che movimenti una serata agonizzante – Il club dei depressi al completo: un comico prestato alla musica che fa battute da seminario, un vocalist finocchio con un mazzo di spinaci al posto dei capelli, uno che si chiama Moro ma è biondo…

- E uno che brontola e caga il cazzo dall’alba al tramonto e oltre – lo incalza Piani, il celebre sorrisetto storto tornato in auge sul muso sbarbato di fresco.

- Ragazzi, sul serio! Dovremmo festeggiare e stappare lo champagne. E invece no: le due belle addormentate sembrano a un passo del taglio delle vene. Dico a voi: parlate ora o tacete per sempre – Basile incrocia le braccia sul petto, il peso di tutto il corpo che grava sulla balaustra di metallo.

Allunga un piede, svogliato, sfiorando prima lui e poi Ettore. Se fosse una lumaca, Patrizio si ritirerebbe dentro il guscio, e buonanotte mondo. Anche Ettore si gaserebbe all’idea, se potesse leggergli nel pensiero. Purtroppo per lui, è tanto se legge la data di scadenza dei fagioli in scatola.

Perché non ci lasci in pace?

- Di cosa dovrei… parlare o tacere per sempre? È andata da dio e siamo un branco di strafighi fottuti – Patrizio gli pianta in faccia un sorriso forzato – Le mie corde vocali rinsecchite vanno come un treno, non assomiglio a un citofono strozzato negli acuti, le prove sono belle e finite… Andiamo in pace.

- E tu, amico sfigato? Problemi con la fidanzata? – Basile sogghigna, ignorandolo: la sua vena acidula è tutta per Ettore che tenta di scomparire senza successo, capo chino e capelli biondi che gli spiovono sulla faccia.

- Perché “sfigato”, scusa? – impossibile trattenersi: Patrizio si morde le labbra, serra i pugni contro i fianchi, ma la lingua lo precede con qualche secondo in vantaggio – Che ha fatto di male?

Se la bomba deve esplodere, che lo faccia ora, senza menarla per le lunghe.

Moro continua a tacere nei suoi cinque minuti di vergogna, gli occhi puntati a terra: serata no. Se anche tu mi diventi emo, amico, sei fottuto.

- Vedi un po’ te: è un morto che cammina e suona la chitarra. E poi muore. Non si è mai visto con una ragazza, manco per sbaglio! Davvero, comincio a pensar male… – Basile scoppia a ridere.

Patrizio serra le mascelle quasi con dolore: non è cattivo come vuole dipingersi, forse sta punzecchiando per rompere il mortorio, e non è stronzo come si dipinge. Anche se si comporta come una merda e stasera ce l’ha con Moro, che è comunque un essere umano, ha anche lui diritto alle sue oneste vene depressive, ed è pure abbastanza carino da non scaricarle dove capita.

Sogna, Patrizio.

- Pensate un po’: Moro e Piani che dividono la stanza da bravi fratellini – ammicca verso Francesco – Se volete approfittare, non so, fate vobis! Tutto grazie a Lastella aggiusta-tutto che si accolla il fardello – gli soffia, affinando i suoi strali – Volete fare la fine dell’amico Lastella?

- La fine di Lastella!… Lo dici come se fosse una brutta cosa – Patrizio sgrana gli occhi: se riesce a comprimere il tutto nella modalità scherzo-da-frate, forse c’è ancora speranza di uscirne con le palle indenni.

- Oh, taci tu… per carità! – Basile lo guarda storto – Con te che ti trombi l’intrombabile e Moro allergico alla patata, tra un po’ sarò l’unico maschio alfa e rappresentante etero di una band di smidollati. Vedi un po’ te.

Patrizio trasalisce, incassando il colpo: Moro e la sua singletudine indefessa sono pretesti, contorti pretesti per prenderla larga, intrecciare metafore e allusioni e, quando meno te l’aspetti, quando ti ha stordito di chiacchiere, scagliarsi con la grazia di un caterpillar sull’argomento che gli prude sulla lingua da ore.

- Non mi sto trombando nessuno, se vuoi saperlo. Tu hai mai diviso la stanza con un collega munito di pisello senza pensare di saltargli addosso? Io sì: non è difficile, rappresentante etero.

- Ecco – Basile lo squadra da capo a piedi, gli occhi che scivolano con nonchalance da lui a Moro come strani esemplari nel regno dei virus – Siete in due. Moro non ci prova mai con nessuna, e nessuna se lo caga di striscio; tu ti becchi un due di picche persino da Emo- boy… Ragazzi, non so: io inizierei a preoccuparmi.

Patrizio incrocia le braccia sul petto, le labbra strette a raccogliere la sfida: se Basile voleva metterla giù così, spietato, non poteva scegliere un frangente migliore.

- Senti, ti dà fastidio che stia in camera con Alex, vuoi farmelo pesare a suon di prese per l culo?

- No – la faccia di Basile si ricompone in un cipiglio serio – Mi dà fastidio che quello ti rigiri intorno al mignolo, e tu ti ci rincoglionisca dietro.

- Quello ha un nome. E non me lo devo certo sposare.

- Grazie al cielo, qua ‘sta merda non è legale. Per carità! – Basile storce il naso con tutto il disgusto che riesce a comprimere in una manciata di secondi – È strano, però: appena il tuo cucciolo fa qualche cazzata e si mette nei guai, zac, arriva il cavalier Lastella a punire noi malvagi.

- Spero che non sia mai necessario – Patrizio sibila tra i denti, il panico che sale a ondate e gli martella nelle tempie.

 

Ha capito anche lui, accidenti a lui, se ha capito. È così evidente…

Thompson ti piace: negalo, se ce la fai. I fianchi ossuti ai limiti dello scandalo, le scintille improvvise quando si passa la lingua sulle labbra e ammicca al tuo passaggio; le natiche piccole e sode da adolescente e la sua fottuta cintura borchiata a prova di arrapato, stretta pochi millimetri sopra l’inguine; la barretta di metallo infilata nel capezzolo che non aspetta altro che i tuoi denti.

Fa male, cazzo, perché non siete questo, un guazzabuglio di ormoni impazziti e immagini scollegate.

Forse vuoi solo evitare di metterti in gioco, di tuffarti dentro in prima persona, e Basile fa al caso tuo, con la sua lingua assassina che ti riduce a un ammasso decerebrato di testosterone con occhi, braccia e sensi sfasati, a un ragazzino alla prima poppata che smania dietro il succhiatore di lecca-lecca.

E poi pensi ad Andrea che cade in piedi, atterra sui cuscinetti e ha le ossa d’acciaio, perché è riuscito ad andare avanti, lui, è riuscito dove tu continui ad arrancare, a perdere tempo, e allora tutto va a rotoli. Diventa il delirio a senso unico di un pazzo che cammina sulle sabbie mobili e cerca di aggrapparsi a qualcosa.

 

La paura di non controllare il prossimo scatto, l’impulso a sciogliere la morsa di gelo che gli strizza lo stomaco, e urlargli addosso, non si sono esauriti. Non con due scuse raffazzonate, la strafottenza di chi crede di avere la verità cucita in tasca, e un bambino terrorizzato che, di fronte al suo aguzzino, negherebbe pure di chiamarsi Alex. Ha finto di mandar giù la loro versione edulcorata, ma non aveva considerato il veleno del sospetto che rimescola il sangue nei giorni a venire.

- Non devi fargli da guardia del corpo, Stellina – Piani si è intromesso nel discorso con il tempismo del falco sulla preda; la faccia pseudo-rassicurante stride con il tono di voce di chi non tollera obiezioni e soprattutto non vede l’ora di mandare il discorso a puttane, congelare la questione prima che gli esploda tra le dita – Thompson sa difendersi benissimo da solo. Ci va mica leggero con le parole: ti provoca, ti ronza intorno, aspetta la tua reazione, e poi va a frignare da mamma Lastella. È orrendo.

È braccato da tutte le parti, ne ha fin sopra i capelli di voi che gli muovete accuse ridicole e lo trattate come merda, e le sue uniche cartucce in canna restano punzecchiare e rispondervi alla cazzo di cane.

- Non ha da temere – Basile cerca di riprendere le redini della situazione con un’occhiata complice a Piani e una manata pseudo-amichevole, la faccia di chi la sa lunga, di chi ha ragione per decreto divino: ha fottutamente ragione, come sempre, vietato stimare l’errore relativo e quello assoluto – Il tuo ragazzino. Tra un po’ si leva dalle palle… Balducci permettendo, e ciao Lastella – ridacchia – Magari è la volta buona che rinsavisci.

- Non è il mio ragazzino – Patrizio serra le dita sul corrimano, la frenesia di rituffarsi nel discorso e riprenderne il controllo; i denti scricchiolano sotto la morsa delle mascelle contratte – Non credo che si leverà dalle palle solo perché a te non va a genio. Ti dà proprio fastidio?

- Diciamo che è una questione di spazio vitale. I posti qua dentro sono contati: o sai il fatto tuo o sei nella merda. Se Thompson non fosse all’altezza - e non lo è - e sbaraccasse fuori dai coglioni, sai che vorrebbe dire? Un elemento inutile in meno, un posto bloccato da un inetto che si libera per magia. Mors tua vita mea, amico. Non me lo sto inventando, è così che funziona, anche se fate gli schizzinosi. E prima lo capirà, il tuo amichetto, meglio andrà il suo soggiorno. Sei un debole? Ti offendi se ti dicono le parolacce? Caz-zi-tuoi. E, per la cronaca, il caro Thompson avrebbe anche frantumato i coglioni con il suo vittimismo. Non è una vittima: ha voluto la guerra? Adesso tira fuori le palle e affronta le conseguenze.

- Vittimismo?! Ma se neanche fiata! Con me, almeno. Fingerò di non aver sentito l’ultima parte, davvero – Patrizio sbuffa e si sistema la chitarra sulle spalle con uno strattone, le dita malferme.

Il peso improvviso dietro la schiena lo scuote dall’escalation di nervosismo come uno schiaffo: se la risposta tarda un decimo di secondo, è fottuto. Basile ha ottenuto la resa incondizionata e il discorso completamente deviato, e lui è lì che prova a reggersi in piedi.

- Ecco, bravo ragazzo. Non pensare troppo, ché ti fa male alla salute. Tanto, vuoi saperlo? Non cambi proprio un cazzo. Pensa piuttosto a sabato, ad azzeccare due note su tre e rimediarmi una performance decente, perché la posta in gioco è bella alta – cinguetta, acido – Lo “Chat Noir”: non era anche il tuo sogno?

Molleggia sulla suola sfondata degli stivali: chiudere con doppio giro di chiave la sfortunata parentesi è l’imperativo categorico, poi via a fingere che tutto vada bene, che non ci siano santi che tengano e ragazzini mitomani con gli occhi truccati, pronti a rovinare la piazza – glielo legge in faccia, nel grumo d’ansia traditore che gli si incunea tra le sopracciglia. C’è l’ansia di deviare l’attenzione. Concentrandosi su Ettore, magari.

- Moro, ci sei? – tuba a pochi centimetri dalla sua faccia, sventolandogli una mano davanti agli occhi per assicurarsi che sia ancora nel mondo dei vivi – Pronto? Vuoi aggiungere anche tu la tua pillola di buonismo quotidiana, o possiamo passare alle cose serie?

Ettore scuote le palpebre, a disagio – Patrizio comincia a provare pena per lui che se ne sta lì con il morto davanti, lo scazzo in tasca, l’unico desiderio di essere lasciato in pace, e uno che gli punge le chiappe con uno spillo.

- Eh? – attimo di straniamento – Per me ha ragione Lastella: state esagerando, ne state facendo un’odissea.

- Prego? – Basile scoppia in una risata stridula, seguito a ruota da Piani – Cosa intendi con “esagerare”? – avanza verso di lui, le palpebre ridotte a fessure e il suo ghignetto onnipresente.

Ettore deglutisce a fatica – Patrizio riesce a scorgergli il pomo d’Adamo che va su e giù sotto il guscio della pelle lattiginosa, lo sguardo che vorrebbe schizzare altrove per non lasciarsi sfuggire troppo, ma resta ancorato lì.

Se Moro cede e gli vomita in faccia ciò che pensa, è ammutinamento in piena regola.

Capitano, mio capitano, non sei più il nostro capitano.

- Con Thompson… – sputa fuori – La state facendo fuori dal vaso.

Stringe le labbra, perché Basile ha alzato un sopracciglio e l’ha inchiodato al muro senza alzare un dito.

- Ma che stronzate! Potrai dire che esagero, quando lo vedrai vomitarti qualche litro di sangue sulle scarpe e inciampare sulle proprie budella. Allora sì: avrei esagerato. Ma non mi sembra il caso: gli ho solo fatto notare in maniera giocosa che mi fa cagare ed è meglio che stia alla larga, e che i raccomandati incapaci mi ispirano schiaffi volanti. Problemi?

- Ho capito – Ettore gli posa una mano sulla spalla – Ci vuoi carichi e soprattutto incazzati. Ce la stai mettendo tutta.

Compromesso dell’ultimo secondo, prima che la maionese impazzisca.

- Eccolo. Moro è un bambino saggio. E ora – occhiata strategica verso l’orologio – con permesso, avrei una ragazza che mi aspetta, al contrario dello sfigato e di Stellina, quindi ci vediamo domani. Fate i bravi mentre non ci sono, non accettate caramelle dagli sconosciuti; Lastella, lavati i capelli, ché fai schifo. Buona serata.

Acidità rituale tornata ai livelli standard come per magia. Patrizio tira un sospiro di sollievo, la presa sulla tracolla che stringe fino a segargli le dita, il peso sbilanciato a sinistra che per poco non rotola giù dalla ringhiera. Fruga nella tasca striminzita dei jeans, alla ricerca del suo spiegazzatissimo biglietto dell’autobus.

- Mi dici che ti ha fatto? – si avvicina a Basile, allungando il passo.

- Uh?

- Moro: è tutta la sera che lo tratti da schifo. Non è di compagnia, ma non vedo il motivo…

- Qualcuno gli avrà fregato i Tampax – Basile scuote il capo con l’aria di aver a che fare con sciami di imbecilli – Da’ retta a me: c’è di mezzo qualche ragazzina, e Moro non vuole dirci nulla perché è timido e si vergogna, come i bambini. Lo conosco, gli piace fare l’uomo del mistero.

- Mah… – Patrizio si stringe nelle spalle e lascia cadere il discorso.

Ho bisogno d’aria. Di schiarire le idee.

Accenna un saluto a labbra strette e imbocca l’uscita respirando a pieni polmoni la città intrisa di smog e di bagliori familiari, di luci tremolanti che gli bruciano in fondo alle pupille e insegne al neon in puro stile decadente.

Aria. Frizza sulla pelle il tanto che basta a dissipare lo stress appiccicato addosso come sudore secco.

L’autobus arriva sferragliando, sfila davanti ai suoi occhi come un vascello fantasma: se si sbriga, forse riesce a prenderlo al volo e a rinchiudere i propri casini dietro la porta scorrevole, zoppicare fino ai posti in fondo e cullarsi nella sua pallida illusione fino a destinazione. Anche stavolta.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 51
*** Capitolo 51 - Viaggio a vuoto ***


Capitolo 51

Viaggio a vuoto

 

 

La prima sensazione è stata il vuoto in fondo al petto, una nausea profonda, mentre l’autobus procedeva zigzagando in un percorso inedito in mezzo alla nebbia, percorso che non ti sei presa la briga di seguire – presto o tardi, ti scaricherà a destinazione.

Le cinque del mattino, il primo bus di linea e il chiarore azzurro slavato dell’alba che tenta di farsi largo nella città sonnolenta, tra palazzi troppo alti e troppo grigi, rumori attutiti, insegne tremolanti, smog che odora di pioggia, impiegati dagli occhi stanchi e dalla cravatta storta che arrancano a lavoro.

Zero ore di sonno e la stanchezza che ti palpita nelle tempie, aguzzi lo sguardo fuori dal finestrino per scongiurare un conato di vomito. La Heineken da 33, raccattata alla disperata a un distributore automatico giù in centro, non ha fatto il suo dovere, non ha colmato il vuoto, sciolto la morsa sul cuore; non ti ha regalato quel dilettevole stordimento che speravi. Fermenta in fondo allo stomaco e accresce il senso di nausea e precarietà, il ribollire di un cervello in pappa. La bottiglia quasi vuota oscilla nella borsa con un clangore sinistro, di ubriaco che cerca di ricordare la via di casa o di una puttana che smonta dal turno. Forse su questo Isa aveva ragione: è l’ora delle puttane fallite che non sanno dove andare, che non hanno una bussola, che vivono di riflesso, che girano a vuoto, orfane di una vita che appartenga loro davvero, di una vita che non sono in grado di costruire. Solo di demolire, accartocciarne i pezzi alla rinfusa e gettarseli dietro le spalle.

La seconda sensazione, mentre gli effetti dell’anestesia sul cuore evaporano via, è un inaspettato senso di libertà, di terra che frana sotto i piedi, perché non c’è più quella speranza a tenerti in piedi, lo sguardo puntato verso una direzione e una soltanto; non c’è la costante con cui fare i conti, il risvolto ideale da inseguire come il Sacro Graal: è tutto perduto, i conti col passato saldati, Luca ufficialmente fuori dalla tua vita. Non c’è più il bandolo della matassa da riafferrare a ogni costo, la questione irrisolta su cui ricamare all’infinito, perché tutto è andato come doveva andare, e la parola “fine” lampeggia come un mantra nella tua testa.

È finita, semplicemente. È finita, e non ti importa come né quali saranno le implicazioni. Sai che vi rivedrete, almeno una volta, il tempo che lui ti restituisca le chiavi di casa e che tu possa sussurrargli buona fortuna, i miei migliori auguri, perché da ora in avanti i cazzi sono soltanto tuoi.

È stato relativamente veloce, il cerotto cicatrizzato insieme alla ferita, il dolore dello strappo troppo veloce ed evanescente per rendertene conto, per urlare. Nessun sermone costruito, maturato in lunghe sedute di paranoia individuale, nessun addio strappalacrime, nessun fondo di amarezza sedimentato nel tempo, un rimescolio dopo l’altro; nessun commiato da romanzo d’appendice. La decisione afferrata in quel preciso istante, l’uscita di scena al momento giusto, quando il protagonista esaurisce il suo ruolo e muore e non fa rumore quando si accascia al suolo.

Resta solo la libertà di non dover più misurarti con la questione irrisolta della tua vita, la speranza malriposta, il logorio di un paio d’anni accatastati l’uno sull’altro, mesi di seghe mentali tossiche. Sei pronta a ricominciare tutto da capo, sola con le tue zero ore di sonno, le lenti a contatto appiccicate agli occhi che gridano pietà e le tempie prossime all’esplosione, la birra che nuota dentro lo stomaco, la voglia di vomitare e nessun posto dove andare a sbattere la testa.

A casa no, perché Luca potrebbe essere ancora lì ad aspettarti e a implorare, pronto a rimettere tutto in forse, a ucciderti con le sue chiacchiere – il suo autolesionismo potrebbe spingersi abbastanza in là da farglielo sperare davvero. Che abbia voglia di ascoltarlo.

La casa dello studente no, perché non ti è mai spettata di diritto, perché anche lì non c’è posto, perché a quest’ora Andrea dorme ancora, e l’ultima cosa che vuoi è infilare i deliri di una pazza tra lui e Gabriele.

Non resta che lasciarti andare a peso morto su una panchina, le stecche di metallo che ti trafiggono le cosce, attendere che il bar sotto la casa dello studente sollevi le saracinesche e infilartici alla chetichella, attenta agli occhi e alle orecchie dell’Accademia. Che se ti vedessero ora, il viso disfatto da notte insonne, vestita a cazzo, i capelli annodati e crespi per l’umidità, la matita sbavata intorno agli occhi come tanti strati di fuliggine – Thompson, in confronto, ti sembra appena uscito dal camerino di Chanel –, troverebbero gli appellativi giusti da incollarti alla schiena.

Sfigata, troia fallita, alcolizzata con disturbi alimentari che si ficca due dita in gola nel primo cesso di passaggio per trasformare il suo casino esistenziale in un dramma strappalacrime, per gridare ehi, guardate che esisto, e intanto divertirsi a ricamare sulle vite degli altri e mandarle a rotoli, in mancanza di un sostrato di sua appartenenza da vivere davvero.

È il ritratto che Isa ti ha cucito addosso, la maledizione che inizia a far sentire i suoi effetti, perché ti ha fissato dritto negli occhi e te l’ha augurato col cuore. Che possa rovinarti con le tue mani.

Non essere timida: dimostrami che, come sei stata brava a trasformare Andrea in un uomo nuovo, tu e lo scoppiatissimo Derossi uniti in associazione a delinquere, sei altrettanto brava a deporre l’ascia di guerra e provare a farti una vita. Non è molto, non è difficile, hai fatto di peggio, hai compiuto il miracolo. Hai pilotato le vite degli altri, altro che la tua, hai fatto quadrare il cerchio e cavato il sangue dalle rape, hai dimostrato che la tua visione dei fatti era la migliore tra tutte quelle possibili: cosa vuoi che sia, ora, trovarti un fidanzatino che ti scopi a lume di candela, che ti scarrozzi in giro come un trofeo e ti regali l’anello col brillante? E, tra parentesi, ti prenda di peso e ti tolga finalmente dai coglioni?

 

Scommettiamo, Isa?

 

Sorridi tra te e ingolli l’ennesima sorsata di birra tiepida e ormai sgasata, mentre un raggio di sole ti brucia in fondo alle iridi e ti scava in fondo alle occhiaie livide.

Alcolizzata di merda, fuori come un missile, pronta a trascinare chiunque nel suo baratro. Pronta a trasformare in fango tutto ciò che tocca, uno strano re Mida in gonnella con gli occhi bistrati.

È ciò che pensa lei. Perché, senza premeditare niente, l’hai afferrata per la collottola e le hai aperto gli occhi, l’hai messa di fronte, volente o meno, alla merda che lei chiamava oro, ai bulletti e ai bimbiminchia senza cervello che componevano la sua corte, e non te lo può perdonare. Di aver distrutto il suo mondo dorato, strappato il velo della sua vita perfetta, del suo film da Oscar.

- Elena? Sei Elena Loria, vero?

Sobbalzi e per poco non cacci un urlo, una frustata che vibra tra le costole. Non ricordi granché dell’ultima mezz’ora: forse ti sei appisolata sulla panchina, forse sei più schizzata di quanto credi.

Fa’ che non sia nulla di compromettente, ti prego: faccio troppo schifo per presentarmi così.

Ammicchi fingendo noncuranza; abbozzi un sorriso isterico. La prima cosa che incroci sul tuo raggio visivo, un paio d’occhi nocciola che buttano sul verde quando il sole è in fase d’ascesa, e l’aria è pulita e taglia come vetro. La seconda, una massa di capelli non-propriamente-biondi-ma-quasi, tenuti a bada da un elastico per non somigliare troppo a un barbone. Aggrotta le sopracciglia.

- Sei sicura di star bene?

Annuisci, la tentazione di consigliargli una sana full-immersion di cazzi suoi che abortisce sul nascere, perché non è il caso: ha gli occhi buoni e le labbra incurvate nell’imitazione di un sorriso, una spruzzata di lentiggini sul naso che ispira quasi dolcezza.

Lo sai che ci faccio qui? Bella domanda.

- Mai stata meglio – sorriso tirato, la voce che si spezza in una risatina random.

Le labbra secche tirano, quasi sanguinano sotto l’impulso di un’espressione forzata al limite.

- Credevo che…

Credevi male. Qualunque cosa sia, credevi male.

- Oh… – sollevi gli occhi al cielo – Mi sono alzata molto presto, e… beh, intanto che aspetto il mio amico, resto qui…

Così, forse, suona credibile.

- Ah.

Forse è decisamente peggio.

- Gay – ridacchi.

Tanto per chiarire che non ci sono tresche, non stavolta. Niente poste, sotterfugi e intrighi da soap-opera scadente. Luca tra pochi giorni parte, e addio Babilonia. Il fortunato è Gabriele. O Andrea. O Lastella!rock, o chiunque almeno una volta, là dentro, si sia sentito rincorrere dall’epiteto caustico di frocio.

- Devo rigirarti la domanda, Moro – gli sussurri.

- Uh? – spalanca gli occhi, scuote il capo, cadendo visibilmente dalle nuvole.

Lo sguardo calamitato dal collo della bottiglia che spunta dalla borsa lasciata aperta.

- Ne vuoi un po’? – ammicchi.

Prende tempo, incerto. Un attimo dopo annuisce, ringrazia in una specie di mormorio incomprensibile e ingolla di gusto.

- Posso chiederti… come mai qui?

- Oh – si netta le labbra con il dorso della mano, con noncuranza – Una lunga storia. Non riuscivo a dormire.

Ha litigato con i tuoi amichetti? Ti hanno dato buca?

- Piaga diffusa – lo incalzi, recuperando con una mossa felina la bottiglia quasi vuota.

Lui ti fissa, aguzzando lo sguardo. Fino a poco tempo fa sapevi a malapena della sua esistenza, ti passava inosservato. Ora che lo osservi meglio, diresti che in effetti sì, ha qualcosa che attira il tuo sguardo, qualcosa di familiare, ma non capisci cosa sia. Qualcosa come i suoi occhi fissi nei tuoi, screziati d’oro verso i bordi, l’espressione distratta.

- Quindi – distoglie lo sguardo, e per un attimo sembra quasi imbarazzato – Se è tutto okay, io vado. Ci si vede in giro?

- Ci si vede in giro – gli fai eco.

Lui scuote il capo, incerto sul da farsi. Sembra a disagio, indeciso su come togliere il disturbo. Maldestro tentativo di attaccar bottone abortito sul nascere.

Onestamente, fa tenerezza: non saresti migliore di lui, nella sua situazione, se solo un orgoglio malato non ti spingesse a chiuderti a riccio, a non attaccare mai discorso per prima, a non chiedere mai niente salvo questioni di vita o di morte, a non degnare l’osservatore casuale della tua attenzione gratuita.

Lo osservi mentre caracolla via con un saluto smozzicato, un sorriso rassicurante appena abbozzato sulle labbra pallide. Ha qualcosa di Luca Lastella, ma non riesci a spiegarti cosa: forse l’aria svanita da scusate, sono appena piovuto dalla luna; forse i capelli mossi e arruffati tenuti a bada per miracolo, oppure la giacca a vento verde militare buttata a caso sulle spalle, il modo dinoccolato di camminare. Ha qualcosa, un’impronta ancestrale, al di là di quel naso all’insù vagamente lentigginoso e vagamente infantile, decisamente poco Lastella.

Ammicchi con le ciglia impiastricciate di mascara, mentre segui con lo sguardo la sua andatura scoordinata, i jeans consunti che ricadono come Cristo comanda sul suo fondoschiena magro. Sorridi tra te e ti sollevi a sedere, scuotendoti la polvere di dosso, gli stivali neri che cozzano contro il selciato.

Scommettiamo, miss Cortesi?

 

* * *

 

Eccola lì. Curioso: la puttanella in erba che si esercita a flirtare col pollo di turno, a misurare la forza del suo ascendente. Non ha imparato bene l’arte, non come crede: è grottesca, artefatta, teatrale come ogni suo gesto. Sfigata senza speranza che cerca di elevarsi al rango di sgualdrina compiaciuta.

Isa si scosta dalla finestra della sua camera, un attimo prima di offrirsi alla sua vista.

Definirla puttana le fa strano: non lo è, in fondo, raramente l’ha percepita come tale. È semplicemente peggio: ci prova, adesso che ha recuperato abbastanza autostima da buttarsi a pesce su una nuova sfida. Offre un sorso di birra al malcapitato di turno, flirta con occhi da strega, ma per lei resta patetica. Una patetica ragazzina gasata da vittorie troppo facili. Eppure ci ha visto giusto, Loria, sin dal primo istante, e ha sfruttato il tutto a proprio favore: l’ha guardata e l’ha capita al volo. Lei invece l’ha sottovalutata e continua a scivolare nello stesso errore.

Eppure no, non riesce proprio a vederglielo addosso, tatuato sulla fronte, l’epiteto di puttana gaudente. È semplicemente troppo, anche se è l’associazione di idee più immediata che le viene in mente, quella che sul momento sembra che le si addica: lei ci prova, getta il sasso. Prima Andrea – ma quello era solo un capriccio, una sfida perversa, un gioco da burattinaia. E le è andata da dio. Ora Moro, il biondino sociofobico amico di Ivan Basile, che forse è abbastanza freak per una come lei: è il suo turno. Manca Thompson all’appello, ma quella forse non era una sfida abbastanza appetitosa: dà l’idea di uno facile, uno che con due moine te lo tiri sotto le lenzuola.

No, non ce la vede, per quanto la cara Loria si sforzi di sembrarlo. Troppo complessata, troppo contorta, sfuggente. Forse è un mero espediente per non farsi dimenticare con facilità, per restare scolpita nel mirino delle attenzioni. Non è la bambolina francese, non è così bella da seminare scie di cuori infranti: ha una faccia leggermente spiritata e fianchi troppo larghi – nonostante la magrezza ai limiti dell’anoressia – che maschera sotto pantaloni tagliati a palazzo o minigonne dritte.

Forse le puttanelle a cui si ispira, che cerca disperatamente di imitare, sono le stesse che le hanno rotto il culo in passato, che l’hanno rimessa al suo posto, che le hanno sputato in faccia quanto fosse inutile e non desiderata: riesce quasi a immaginarla, vittima sacrificale del bastardo di turno, la faccia da bambina e qualche anno in meno sulle palpebre prive di quel trucco pesante, i capelli tagliati più corti di un color topo che fa a cazzotti con l’incarnato cadaverico, gli occhi grandi come fanali, magari qualche chilo in più sopra le ossa, e l’ape regina di turno che ne fa la sua personale palla antistress, che mina la sua autostima e le rovina l’esistenza fino a renderla folle.

Ma forse è la natura di quelle come lei, che se le vanno a cercare col lanternino: riescono a risultare fastidiose e fuori luogo qualunque cosa facciano, solo respirando, come se ogni gesto fosse una provocazione, una ripicca esplicita contro il mondo intero. La classica tipa che ti ispira insulti e schiaffoni, che vederla messa all’angolo, ridotta all’impotenza, vederla farsi piccola come una cimice, le lacrime dipinte sulle guance esangui, quasi ti esalta, ti muove i peggiori istinti sadici.

Se poi ti ha anche rotto i coglioni di sua volontà, allora volere la sua testa è il minimo. Non sarà difficile: sembra la cattiva della Disney che, a un passo dal trionfo, preferisce perdersi in chiacchiere, autocelebrarsi, tirare la corda fino a spezzarla, finché il suo strafare non le risulta letale. Prevedibile, in un certo senso. Una stronza prevedibile che non ha mai assaggiato la cioccolata, e allora è inevitabile che, prima o dopo, finisca per abusarne.

Colpiscila dove è vulnerabile, dove scopre il fianco.

Ma lei non farà nulla, come nei patti, non adesso: si limiterà a osservarla da lontano, ad attendere il momento in cui inciamperà, in cui farà la cazzata che le costerà tutto il suo regno.

È troppo sicura di sé, ora, convinta di aver imbrogliato ogni problema schioccando le dita, di poter irretire chiunque con quattro ammiccamenti del cazzo e un paio di gambe accavallate.

Siediti e aspettala: è tutta questione di tempo. Prima o poi si manderà tutto a puttane da sola, le sue stesse armi le si rivolteranno contro per inesperienza.

Lei deve solo seguire il suo esempio: sedersi in riva al fiume e attendere il cadavere, il cadavere di una ragazzina che crede di aver capovolto in mondo con la sola forza dell’ostinazione, di aver trovato la chiave per farsi largo tra i suoi simili. Almeno Andrea una cosa giusta in vita sua l’aveva prevista.

Ti aspetto al varco, sfigata ribelle, e intanto mi godo la tua epopea tragicomica. La ruota girerà di nuovo.

 

* * *

 

La finestra aperta sulla stanza a risucchiare via gli ultimi bagliori del pomeriggio, l’ha accolto come uno schiaffo. E lui è dove l’ha lasciato, la testa viola carico china su una dispensa da mandar giù entro domani.

La consapevolezza gli strappa un sospiro di sollievo: è sempre stato lì, scolpito sul divano e nelle sue iridi, una gamba penzoloni sopra lo schienale in posizione casuale e deliziosamente nonsense. Lo saluta con un grugnito appena percettibile, stirandosi come un gatto e mettendosi seduto.

- Com’è andata?

- Uhm… il solito – Patrizio si libera del suo fardello con un sospiro, borsa e giubbotto che ricadono diligentemente ai suoi piedi, la chitarra appoggiata alla parete – No, scherzo: è andata di merda.

Zoppica fino al frigorifero.

‘fanculo al mondo. Tranne al tizio che ha inventato la birra.

Una lunga sorsata di nettare che scioglie l’amarezza raggrumata dalle parti dell’esofago. Almeno lei ci prova.

- Niente scaletta…? – domanda di circostanza.

Perché proprio a lui, in fondo, non è mai importata una beata mazza di scale e pinelle e tressette; gli importa solo di strisciare accanto a lui con gli occhi di giada che dardeggiano a due centimetri dai suoi, la faccia di chi ha capito tutto, ma passeggia intorno alla soluzione fino a ottenere la prova lampante, strappargliela dalla punta della lingua.

Quando la smetterai di fare come e peggio di Andrea?

- Okay, è andata bene… finché Basile non ha deciso che se non mi faceva girare i coglioni, la serata non sarebbe stata perfetta. Missione compiuta.

- Scusa se mi faccio gli affari tuoi, eh – Alex si passa una mano tra i capelli: guadagna tempo per riordinare le idee e cavarne una frase di senso compiuto – Ma se… se ogni volta che vi vedete, lui ti usa per limarsi le unghie, e tu torni sempre incazzato… Non so, ha ancora senso fare gli amichetti del cuore?

- Ha senso fino a sabato. Se devo stare lì ancora per molto a incassare schiaffi, posso dirglielo oggi stesso, di cercarsi un’altra bella statuina per vocalist, seconda chitarra e sacco da boxe. Etero, magari un po’ misogino, puttaniere ma non troppo. Così si mette l’anima in pace – sospira, il respiro accelerato; armeggia invano per accendersi una sigaretta, in barba alle regole e ai cartelli “no smoking” affissi pure sulle porte dei cessi, in barba alle tende bianco sporco che puzzeranno di tabacco fino al giorno del Giudizio – Hai idea di quanto lo volessi mandare affanculo, stasera? Poi, non lo so… va sempre così. Mi mordo la lingua, mi dico no, che sarà mai, e ricomincia tutto da capo – lascia ricadere l’accendino scarico sul tavolino, un’imprecazione soffocata tra i denti e una sigaretta spenta e deprimente tra indice e medio, che proprio non sa dove infilarsi – È come se le parole ce le abbia qui, incastrate in gola. Mi dico che no, è solo un’impressione: la merda non sarà così brutta. E poi me ne pento. Sempre.

Alex sgrana gli occhi, un fremito di terrore.

- Vuoi mandare tutto all’aria per quattro menate?

- Quattro menate?! – Patrizio si morde il labbro finché non fa male, finché non sa di metallo: va bene incazzarsi, va bene tutto, ma se scaricare la rabbia vuol dire urlare in faccia ad Alex, meglio il classico muro su cui cozzare con il lobo frontale – Vorrei vedere te! Ogni giorno una guerra fredda che ti martella le palle. La sai una cosa? Quello di Basile non è l’ultimo gruppettino sulla faccia della terra con un posto di vocalist vacante. Se suonare con loro vuol dire far qualcosa che mi piace e rientrarmene felice la sera, scaricare di tutto lo stress, sono la persona più felice del mondo. Ma se vuol dire trovare nuovi motivi per incazzarmi e fare la figura dell’imbecille… non è più un hobby. È un trituramento di palle al quadrato.

- Curioso… – le labbra di Alex si piegano in un sorrisetto agrodolce – Adesso il Padrino se la prende con te perché non è ancora riuscito a prendermi e spezzarmi in due?

- Non sei tu il problema. Non stavolta – Patrizio si ravvia i capelli dietro la nuca, esasperato – Cristo, quante volte devo spiegartelo? Sei qui e ti fai i cazzi tuoi come tutti, hai diritto quanto lui di poggiare il culo su quel divano. Il problema è lui. Non lo so che aveva oggi. Deliri di onnipotenza, troppa coca nel naso… Non voglio saperlo, non sono il suo cazzo di psicologo. C’è andato di mezzo anche Moro… per dire! Ce l’hai presente?

- Sin troppo – lo sguardo di Alex rotola fino alla moquette, la voce piatta su un’inflessione amara.

- Ecco. Lui pende dalle sue labbra ventiquattro ore su ventiquattro, gli sta dietro, lo asseconda, si sciroppa le sue tirate… È la persona meno rompicazzo che conosca. Quando non gli fa da tirapiedi. Non so, Basile dovrebbe erigergli un monumento… e invece no. Oggi ce n’era anche per lui.

Alex scuote le palpebre, stordito, le labbra arricciate in una piega incredula – quella piega che lui adora. Sospira, Patrizio. Distoglie lo sguardo.

- Era per dirti che non sei tu il problema. Non so cosa gli sia girato: è sempre stato uno sfrangiamaroni, “si fa come dico io o ve ne andate tutti affanculo”, ma stasera, boh… Vuole fare il capoccia, ha paura che qualcuno gli strappi lo scettro. Qualcuno tipo Lastella che è brutto e cattivo e fuori come un balcone, si veste da marchettaro alcolizzato, parla con chi non dovrebbe, va in giro a fare coming-out a sorpresa per farsi notare, schifo orrore vade retro…? Peccato, perché se Lastella frocio e primadonna è tanto d’intralcio alla sua corsa a monarca assoluto, Lastella sa girare sui tacchi e lasciarlo lì a suonarsela da solo. Poi sono cazzacci suoi.

- Non fare cavolate – Alex serra le labbra, cercando di fermarne il tremito – La band è anche tua: non può buttarti fuori perché gli gira. Se molli adesso, gli fai un favore: potrà gridare ai quattro venti che sei un voltafaccia e che sei cambiato per colpa mia, perché ti ho rincoglionito a suon di chiacchiere. E avrebbe un ottimo pretesto per odiarmi. Ti supplico, dormici su e non prendere decisioni da incazzato.

Troppo tardi, Darling.

- Non è un mio problema – Patrizio serra le mascelle, la voce ridotta a un sibilo – Se io infilo la porta e me ne vado, ci perde solo lui. Visto pure che ha gusti difficili, che per lui tutto è merda fritta, dubito lo troverà domani, un cantante che gli vada a genio – sbuffa, spazientito; si lascia sprofondare sul divano, il volto schermato tra le mani – È… perfetto, non trovi?

Ridacchia, una scintilla di isteria che gli graffia la gola. E poi tutto si incarta su sé stesso.

C’è un punto di rottura – arriva, che lo voglia o no –, un punto in cui il controllo viene meno, i muscoli facciali tenuti a stento, la rabbia che ribolle sotto la superficie e il logorio di settimane. Settimane trascorse a saltare su al minimo muso storto e incassare calci nei denti.

Lo strappo lo coglie come una frustata, un pugno sul setto nasale che spreme fuori le lacrime, e tutto diventa nero, le ombre guizzano contro il soffitto. L’ultimo bagliore di lucidità, quando punta il viso verso il cielo nel tentativo estremo di contenere l’esplosione e impedire a quei fiotti roventi di tracimare oltre le palpebre, fiumi di nervoso che fremono e straripano e spingono per rotolare giù. È sempre troppo tardi per riavvolgere indietro il nastro.

- Patrizio? …

Silenzio, qualche sussulto soffocato contro le nocche premute sulla faccia. Punge fino a far male, l’anello di metallo gli incide le labbra. Le lacrime bruciano sulla ferita, e la sensazione è che lavino via tutto, straccino di dosso ciò che ti fa male legandosi a ogni molecola di collera, di delusione, di amarezza, e trascinandola via.

E poi resta solo un oceano in cui andare alla deriva finché la nausea non strizza lo stomaco, la mano di Alex posata sul ginocchio che diventa un abbraccio, un manto tiepido drappeggiato sulle spalle, la faccia incassata nell’incavo del suo collo per attutire i singulti di pianto, nel suo piccolo saggio “come perdere di propria iniziativa il controllo, il senso del tempo, la dignità”, e naufragare tra le pieghe della sua maglia fresca di bucato e il bianco perlaceo della sua pelle, tra le sue braccia che lo cullano.

Adesso di’ ancora che è colpa tua, e giuro che ti mollo un cazzotto, così piangiamo in due. Giuro che lo faccio…

- Ale… – Patrizio tira su col naso, la vista annebbiata, le ciglia che pesano sulle palpebre.

Le mani strette intorno a quel corpo che potrebbe spezzarsi con una manovra azzardata. Sospira: troppo tardi per nascondersi.

- Non ce la faccio più – la voce affiora più acuta di quanto dovrebbe, un lamento uggiolante di cui, in un altro frangente, si vergognerebbe a morte – Credevo che fossimo amici, che se ne potesse parlare. Invece non ho capito un cazzo: è saltato fuori per caso, sei arrivato tu, ed è successo il casino. Adesso cosa fa? Prova a darmi lo zuccherino, non sia mai che me ne stia zitto; se rompo troppo i coglioni, fa la voce grossa. Mi sono rotto di stare lì a guardarmi le spalle, a dubitare di tutti, nessun bastardo fottuto che dica chiaro e tondo come stanno le cose… Non ne posso più, ce li ho doppi e tripli – un singulto sfuggito per sbaglio divora qualche sillaba, ma non è mai stato così liberatorio, dolce come le dita di Alex che vagano tra i suoi capelli, le labbra premute sulla sua fronte come una toppa cucita a caso per contenere l’alluvione – Prima non era così. Ci credevo, cazzo, ci credevo. Ai suoi… deliri da salvatore della patria, da rivoluzionario di ‘stocazzo. Era l’amico di cui mi fidavo… il metallaro rude ma simpatico. Stavo bene. Poi non lo so: è andato tutto a puttane. Tutti ipocriti del cazzo. Mi sa che ha ragione Derossi: ci ha visto giusto.

Alex trasale, le braccia rigide intorno a lui, una carezza che si inceppa.

Hai dato la tua versione a metà, passerotto: ora puoi tornare indietro, puoi ritrattare.

- Posso fare qualcosa?

Le parole strusciano tra le labbra socchiuse, il respiro che gli palpita addosso, la millesima parte di un orgasmo.

Puoi fare qualcosa… cercare di rimanere vivo.

- Forse è meglio che chieda un’altra singola – la stretta perde consistenza – Avevo ragione, Patrizio: ho complicato tutto.

- No!

- Basile mi vuole fuori dai giochi: chiediglielo, avrai la sua conferma. Ma tu glielo impedisci. E allora se la prende con te. Chi è amico del suo nemico, è suo nemico. Cos’altro vuoi che sia?

- Non lo so! – Patrizio si strofina gli occhi, tentativo disperato di non ridurre la maglia di Alex a uno straccio per lavare le scale – Che ce l’ha con la minima situazione che non lo metta all’esatto centro dell’attenzione. Credo.

- Io posso fare qualcosa.

Alex si stringe nelle spalle: si è staccato da lui con il gelo impigliato alle ciglia, lo sguardo piantato contro il muro.

Le sente, le dita leggermente ruvide per l’insano vizio di strapparsi la pelle intorno alle unghie quando è nervoso, le sente sfiorargli le guance e attirarlo da qualche parte. Poi ci sono solo le labbra che circondano le sue, le sfiorano e girano in tondo. Con naturalezza. Lui e la sua impronta calda, il suo dannato gioco di lingua.

Sussulta, sbalzato a viva forza contro lo schienale con un formicolio alla bocca dello stomaco, gli occhi socchiusi, aggrappato alle sue spalle per un leggero capogiro. Sorride, e sorride anche Alex, tende le labbra sulle sue e si lascia lambire con uno schiocco.

Rido per scongiurare una seconda crisi di nervi, giuro, per non ribaltarti su questo divano sfondato. Rido fino a mandare a prostituirsi una sana pomiciata tra reduci del fronte che si tamponano le ferite.

Perché mi fai questo, perché questo è il tuo linguaggio decriptato?

- Ma allora… – Patrizio si sfrega la faccia con il dorso della mano per asciugare le lacrime e recuperare qualche stilla di dignità – Baci così tutti i tuoi amici?

- Solo alcuni – Alex continua a sorridere a mezza bocca, l’espressione candida che stampata su un’altra faccia griderebbe “ehi, sono una puttana sessualmente confusa”.

Un mago nel glissare le domande dirette.

- Balle. Ti ho visto, l’altro giorno, in birreria con quel tuo amico…

- Danil? Ma figurati! Siamo tipo fratelli di sangue.

- È carino.

- È etero.

E tu? Non voglio l’etichetta standard, il sistema binario “barra la casella giusta”; vorrei un indizio. Su cosa fare con te.

- Okay. Te lo dico subito – Patrizio gli posa una mano sulla spalla, perentorio – Io questo cazzo di sabato sera allo “Chat Noir” me lo smazzo dall’inizio alla fine: ho preso l’impegno, ci ho sudato sopra: non farò il voltafaccia senza scrupoli che manda all’aria tutto e all’ultimo momento. Ma dopo questa se ne vanno affanculo, e non voglio sentire scuse. Se a Moro sta bene farsi prendere a cazzotti nello stomaco un giorno sì e uno no, se a Piani piacciono le associazioni a delinquere, cazzi loro. Io mi tiro fuori prima che sia troppo tardi, e non voglio sentire una parola.

Deglutisce, la gola secca; un respiro profondo, i capelli che gli ondeggiano sulla fronte, l’aria scossa dal colpo andato a segno. Alex si fissa le unghie e sospira, le labbra arricciate.

C’è sempre quella componente imprevista, quel tassello nascosto che rovina tutto: la noncuranza con cui si solleva le maniche sui gomiti e incrocia le braccia sul petto. Si era imposto di non pensarci, di ricacciare il dettaglio in qualche anfratto della memoria, ma ora la vede, lì davanti ai suoi occhi, la cicatrice rossastra sul braccio nudo che si arrampica fino all’incavo del gomito e gli urla in faccia. Non fa più male, ma nella sua mente continua a tirare, a bruciare, a friggere come uno squarcio sulla carne viva.

‘fanculo.

Il tempo di scostargli una ciocca di capelli viola dalla fronte, una carezza che muore seguendo il profilo dello zigomo. I suoi occhi hanno una piega quasi dura, le sopracciglia corrugate.

Solo il tempo di serrargli le dita intorno al polso per sentire se è ancora vivo, di attaccarsi alla sua bocca fino a farsi dolere i muscoli della faccia, finché il suo anellino d’argento appeso al labbro non invoca pietà.

Perché sarai anche libero di baciartelo come si deve, come uno sfogo rabbioso; libero di scoprire se sa ancora di vodka all’amarena, e quanti secondi rotolano via da quando l’hai appena sfiorato a quando i jeans iniziano a premere sull’inguine; libero di regalargli ciò che ti riesce meglio, quando il discorso si è arenato e le parole stagnano sul fondo, incastrate tra due neuroni scollegati.

Alex spalanca gli occhi, scosso da un fremito; le sue dita gli artigliano la nuca.

Appena in tempo da allungargli una carezza, perché poi la bolla di vetro va in frantumi, collassa su sé stessa sotto l’impulso di un cardine che scricchiola, di una maniglia abbassata e una porta che si spalanca con un cigolio maligno. La luce del corridoio li investe come un’accusa, due passi casuali, il palpito vitale di qualcuno che indugia sul limitare della porta.

Alex arrossisce fino alla punta dei capelli e smette di respirare, i muscoli irrigiditi dalla scossa improvvisa. Tossisce e rotola lontano da lui, come se la sua presenza fisica gli bruciasse addosso.

- Oh, merda…

- Patrizio?!

Ritorna all'indice


Capitolo 52
*** Capitolo 52 - Andrea può aspettare ***


Capitolo 52

Andrea può aspettare

 

 

Un passo e poi un altro. La punta dello scarpone chiodato impigliata su una piega del tappeto verde-livido che frena la sua marcia. Occhi blu sbarrati da scoperta improvvisa, ammiccamento di circostanza e il gelo del silenzio che incrosta le pareti.

Patrizio vorrebbe farsi piccolo, stretto al bracciolo del divano come a smentire la vicinanza poco neutra tra sé e Alex. L’ebbrezza rintronante di essere colto con le mani nel sacco, arriva a scoppio ritardato, un pugnale infilato tra le costole.

Giusto il tempo di constatare la presenza di spirito con cui Alex si riappropria delle sue adorate Converse riesumandole da sotto il divano con l’aria di uno che vuole evaporare via, scusate, vado di fretta ché si scuoce la pasta.

- Dai, tranquilli! – una risatina saputa dall’altra parte della stanza, e il tempo che riprende di colpo a scorrere – Fingerò di non aver visto niente – la voce scivola sulle ultime sillabe fino a renderle uno sbuffo d’aria.

La liberazione arriva come una la scossa. Patrizio vacilla: la prima sensazione è che potrebbe svenire da un momento all’altro. La tensione impigliata allo stomaco schizza fino alle tempie in onde concentriche che gli appannano la vista, mentre si sforza di mettere a fuoco.

- Luca… maledizione! – sbotta – Mi hai fatto venire un infarto!

- Touché! – lo sguardo azzurro carico investe l’intera stanza, grottescamente speculare al suo; aleggia fino al soffitto, all’angolo diedro sopra l’armadio dove si addensa l’ombra, il menefreghismo iniettato in vena, scolpito dalla piega sarcastica delle labbra – Scusa, fratello, ma eri l’ultimo dei miei pensieri.

- Di solito si dice “mi dispiace di averti spaventato” – Patrizio sorride, la stretta allo stomaco che si allenta – Si dà il caso che in questa stanza ci abiti anch’io.

- Si dà il caso che una volta fosse anche la mia stanza. Che c’è, non posso venirti a trovare? Devo anche prendere delle cose – Luca fa scorrere una mano nella massa arruffata dei suoi capelli, gli occhi che vagano tutt’intorno in cerca della componente anomala – Oh, ciao Alex. Non preoccuparti, eh, stai quanto vuoi…

Alex abbozza una specie di saluto, lo sguardo fisso davanti a sé e le guance di una deliziosa sfumatura fucsia. Patrizio avverte una risatina isterica da scampato pericolo pizzicargli la gola – può pure concedersela: non c’è più l’apocalisse dietro l’angolo. Dovrebbe scattargli una foto, adesso, perché il contrasto tra la faccia color ciclamino e i capelli viola ha un che di surrealistico.

- Sono dispiaciuto per te – Luca scuote il capo, un sorriso tirato e un’occhiata sarcastica che inchioda Alex al divano – Che ti sia toccato quel casinista di mio fratello. Ma non provare a spezzargli il cuore. Non pensarci nemmeno – aggiunge, teatrale.

Credibile come un giullare in giacca e cravatta.

- Luca! – Patrizio salta su.

- Era per mettere le cose in chiaro.

- Non stiamo insieme – lo interrompe Alex.

Patrizio si morde il labbro: hanno parlato quasi in contemporanea.

Il silenzio cola come inchiostro, una manciata di secondi densa come cemento per dare il tempo di fissarsi nelle palle degli occhi e indovinare la mossa successiva. Poi ogni grumo di ansia residua deflagra in un’esplosione simultanea di risate, l’elettricità che fino a qualche attimo prima scorreva tra loro, smorzata da frecciatine a caso.

- Sì, sì – Luca agita la mano, asciugandosi le lacrime – Dicono tutti così. Ma voi continuate tranquilli – sussurra, liberandosi della borsa di tela a tracolla e filando verso il bagno con passi veloci e cambio sottomano – Vado a farmi una doccia e vi lascio soli. Fratello, vorrei parlarti. Più tardi, però – scandisce, la voce attutita dietro la porta chiusa.

- Ma non ti eri già trasferito da…? – Patrizio serra le labbra, gli occhi sbarrati e il resto della frase sedimentato da qualche parte nella coscienza – Cioè, cazzo, mi chiude la porta in faccia!

- Fa nulla. Tanto stavo andando via – Alex si alza di scatto.

Oscilla, spostando il peso da un piede all’altro, e gli scocca un sorriso asimmetrico – Patrizio scuote il capo, di rimando. Non è un sorriso vero e proprio: è una maschera, un interludio accidentale per palleggiarsi la tensione da un nervo all’altro e non dare di che pensare.

Forse non l’ha mai visto sorridere davvero, da che lo conosce – tranne quando gli ha proposto di salvarlo in calcio d’angolo tirandoselo in camera sua e candidandosi a guardia del corpo full-time, o in quei momenti senza prima e senza dopo in cui l’impulso a una sana e piena risata sale gorgogliando lungo le pareti della gola in un provvisorio insabbiamento della questione.

Ci sono momenti in cui sembra quasi felice, ma solo per lui, solo perché è con lui, e le sue labbra possono distendersi senza malintesi, i muscoli della faccia modellarsi in qualcosa che sembri un sorriso. Perché non può nasconderlo, che con lui sta bene, si sente libero, apprezza la sua compagnia, la sua mano sempre tesa, le parole che si incollano alla lingua e quei baci con punto interrogativo in cui nessuno si scervella a trovare un senso, in bilico tra scherzo, seduzione, carezza innocente e bromance raffazzonata da serie tv.

Ride anche troppo spesso, alla faccia di chi lo vuole cupo, depresso e asociale, relegato in un angolo e mal tollerato dai più, solo con le sue stranezze a riempire la caricatura che qualcun altro gli ha ricamato intorno.

Vorrei dirtelo. Che ti ho visto per caso e ti sei scolpito su di me. Due parole, e mi sembrava di conoscerti, di poter imboccare tranquillo la via del non-ritorno. E adesso, qualcuno da una parte mi chiede di mandarti affanculo perché non gli vai a genio; dall’altra tu mi chiedi di mantenere le distanze di sicurezza, perché potrei rovinare tutto.

Scegli, Patrizio: o lui o noi. Un aut-aut.

E Alex continua a tergiversare e a sorridere, persino quando lui segue il contorno delle sue labbra, quando i nodi si allentano e il suo respiro gli lambisce la pelle candida del collo; quando l’amarezza cola via, ed entrambi si illudono che qualche carica vagante possa incappare nella direzione giusta. Un palliativo, perché le maglie fitte dell’angoscia lo imbrogliano sempre nel momento sbagliato, e il suo sguardo fugge, si impiglia in qualche angolo nascosto, un’angoscia sotterranea che non sale in superficie e l’ambiguità serpentina di chi non ha scoperto tutte le carte, e allora glissa. E resta una tomba per tutto il tempo che segue, accucciato da qualche parte a masturbarsi cerebralmente senza renderlo parte in causa.

- Dove devi andare? – Patrizio si riscuote; lo scatto della serratura lo scaraventa mente e corpo nell’equazione impazzita di quella stanza minuscola e soffocante. Troppa gente, troppi discorsi accennati e accartocciati alla rinfusa.

Alex si butta una felpa sulle spalle e gli agita una sigaretta sotto il naso.

- Giù a fumare, Darling. Se vuoi venire anche tu, bene; se no, tranquillo: non cerco risse, non accetto passaggi dagli sconosciuti e non ficco le dita nella corrente appena ti distrai.

- Idiota…

Patrizio annuisce e allunga le gambe, sgranchendo i muscoli. Suo fratello si è sepolto vivo sotto lo scroscio bollente e ipnotico della doccia e, conoscendolo, ne avrà ancora per un po’, quindi tanto vale recuperarsi da sotto il cuscino lo sgorbietto stropicciato rollato in tutta fretta, accettare l’invito e godersi l’ora d’aria e il mezzo sorriso di Alex come irrinunciabile placebo.

 

* * *

 

Li sente ancora, tatuati a fuoco sulla pelle, sui polpastrelli che vanno a fuoco al ricordo. I riccioli setosi di Andrea che scorrono tra le sue dita, che tornano sempre a posto come un elastico teso. Le iridi nere incise nella sua mente, le palpebre dalla curva malinconica che ammiccano verso di lui e cedono al suo tocco, le sopracciglia scolpite come una certezza – l’unica certezza, i suoi occhi d’asfalto liquido che ripongono tutta la fiducia in lui, nelle sue mani che lo toccano come se fosse sempre la prima volta.

Cosa sai di me, Andrea? Tu osservi e non giudichi, non fai domande, non cerchi di sviscerare il mio segreto, di indovinare lo snodo cruciale dietro le lacrime.

Lui ti guarda e non ti vede – o forse vede più di quanto non abbia il coraggio di buttarti in faccia. Non ti chiede il perché di quelle lacrime traditrici, di quell’implodere su te stesso, di quella botta estemporanea di angoscia, la prima volta che avete fatto l’amore; non prova a estorcerti il perché di quelle ombre, di quella reticenza improvvisa, perché non ti lasci sfiorare più del necessario, più di quanto non possa tenere sotto la cappa del tuo controllo. Si limita a sentirti, più che a guardarti con occhio lucido. A sentire le tue mani che vagano su di lui in un disegno tracciato dal vostro respiro, ad allacciare le gambe intorno a te, quando l’eccitazione si spinge al limite, e a lasciarsi fare – è sempre stata la sua specialità.

È così da ieri notte, una giornata scivolata via come un sogno, la mente scollegata e i neuroni partiti per le Seychelles. Un’intera giornata in cui non avete fatto altro che intrappolarvi con lo sguardo e cercare le risposte sulla superficie dei vostri volti, quelle parole che non vi direte mai – non ce ne sarà bisogno, non adesso. L’unica risposta concreta, aspettare la fine della giornata e perdervi tra le lenzuola che sanno di voi. Non ti ha chiesto nient’altro che di fare l’amore con lui, di nuovo, come e quando lo volete – se è una delle poche cose che vi riescono bene –, di lasciarlo annegare nella sua euforia da lieto fine e sfanculare il resto, ogni paturnia tenuta in sospeso fuori dalla porta.

E tu non hai perso il vizio: rompere le promesse, quelle stupide, biascicate sul filo dell’orgasmo, quando la mente viaggia in una dimensione a sé stante; abbandonarlo al suo torpore post-sesso, al suo sonno delicato, cullato dalle tue braccia inermi fino a qualche minuto fa, e sgattaiolare via con la borsa e due soldi in mano. È il minimo.

Fuori a ossigenare il cervello, a tornare in te e respirare qualcosa che non sappia di lui – che è troppo bello per essere vero, per essere davvero tuo. A farti l’ammazzacaffè al bar di sotto, la scusa raffazzonata all’ultimo secondo, mentre ti riabbottonavi i pantaloni e gli voltavi le spalle. È sempre stato troppo per te. L’incantesimo che tesse scuotendo le ciglia: troppo bello per respirarlo a lungo senza restarne drogato, senza dimenticare come riprendere contatto con la realtà.

Il brusio che ti accoglie nella sala ancora allestita a festa, è la doccia fredda che aspettavi, il giusto contrappeso. Non festeggiano per voi, ma le luci ti danzano sopra la testa.

Ecco Derossi. Il finocchio gaudente. Lo stronzo…

Sapeste quanto!

Pensavi che il mondo smettesse di girare al tuo passaggio, che tutti ti fissassero. Invece c’è solo la sedia di metallo che ti perfora la schiena e il cameriere che mesce da bere con l’espressione fissa di chi ha un manico di scopa infilato tra le chiappe; la ghenga di Alberti impegnata nel taglia e cuci di fine giornata, non sia mai che qualche dettaglio di vitale importanza vada perduto. Una corte mutilata, vista da quell’angolo discreto ritagliato tra il pilastro portante e la colonna d’ombra che ti rovescia addosso. Il fatto è che niente sembra più come una volta, quando loro sembravano tenere in mano le sorti del mondo e Andrea faceva da garante.

C’è Riccardi che occhieggia verso Isa dal lato opposto della sala, gli occhi iniettati di sangue e i jeans allacciati ad altezza ginocchia che spazzano il pavimento. Non fa nulla, si dirige alla cassa per pagare il suo secchio di alcool puro e andare a nanna con le galline.

È dura, ragazzo, lo so: succede quando si tira la corda e si rompono i coglioni senza il senso della misura. Ringrazia di non aver incontrato me

Giulia comecazzosichiama, Barbie per gli amici, frigge per mancanza di qualcuno con cui provarci.

Isa batte banco come sempre; si tira all’indietro i capelli color ruggine, sciogliendosi in una risata argentina, e riprende a parlottare fitto con Alberti.

Giuro: se sento di nuovo queste parole infilate nella stessa frase, Loria-alcolizzata, Loria-puttanella-da-due-soldi, vado fuori di testa. Giuro che mi intrometto nel discorso, anche se nessuno mi ha cercato, e sbrocco.

C’è anche Thompson, una macchia scura arrampicata sullo sgabello di fronte al bancone. Anche lui finge di non vederlo, come se mordesse. Congeda Lastella con uno strusciamento di dita azzardato, la mano incastrata alla sua che fatica a sciogliere la presa; scuote il capo e attende che il cameriere del palo infilato là sotto lo degni di un’occhiata, di un prego, ‘cazzo vuoi, così da aggiudicarsi la sua mistura semi-alcolica e togliere in fretta il disturbo.

C’è Basile con i due fedeli portaborse al seguito. Lastella si è defilato alla volta delle scale con tempismo perfetto, giusto perché non sembri che lui e Thompson siano tipo sposati – magari sono volati a Las Vegas nottetempo, e non lo sa nessuno tranne loro.

Dopo il fattaccio dell’altro giorno, in Accademia per poco non si scommette su chi tra i quattro re di picche darà forfait per primo, chi cederà nel lungo braccio di ferro: forse Lastella, voce e chitarra, gazzettista spaccamaroni e attore drammatico da cardiopalma, reduce da quattro crisi di nervi; forse Basile, bassista e capo dei capi, che con Patriziuccio caro piazzato tra fegato e pancreas non può svolgere in santa pace i propri mestieri – tipo ripulire l’Accademia da raccomandati del cazzo, emo e froci in vacanza –; forse il biondino con la faccia da suicidio annunciato e la chitarra sempre in spalla, ma lui l’aria di scazzo da lavori forzati ce l’ha anche quando va al cesso; forse Piani, batterista, tastierista o non ricorda cosa, lui e il suo ghigno onnipresente, che magari ha già trovato un nuovo boss degno dei suoi servigi da giullare. Sorride: lui e la Sara Vallone-pagliaccia formerebbero una coppia discretamente assortita. Se lei non fosse tremendamente tamarra, e lui riuscisse a buttare lo sguardo su qualcuno senza i paraocchi.

- Ehi, Tony, come butta? – Basile si avvicina al cameriere e gli batte il cinque, il sorriso come un taglio da un orecchio all’altro.

- Butta bene, bestiacce. Non fosse per certe cattive frequentazioni all’ora di chiusura – Tony ammicca verso Thompson e ridacchia.

Tony che, quando è di turno, non ha mai fatto nulla per nascondere il fastidio che gli provoca la vista dell’alieno appena atterrato con la sua astronave. Gli pianta in faccia un sorriso che puzza di plastica bruciata, lo passa sotto i raggi X dalle punte dei capelli fino alle All Star sgualcite, fino a metterlo a disagio; gli serve da bere come un favore, come se la sua presenza gli desse le convulsioni. Proprio Thompson che se ne sta tutto il tempo per i cazzi propri, al massimo smanetta con il cellulare, apre la chiamata e mormora qualcosa in inglese fluente e voce cristallina per uscire dal tunnel dello sguardo imbarazzato e del “che cazzo ci faccio qui?”.

- Cristo, ma l’hai visto? Se questo è un uomo! – Piani storce il naso.

- E abbassa la voce, cazzo, ché ti sente! – Tony prova ad aggiustare il tiro in un inedito afflato umanitario.

- È frocio, non sordo – sussurra Basile, alzando la posta in gioco, con Piani che annuisce compiaciuto.

 

Non siete omofobi, no. Voi siete liberal, metrosexual and very cool, mica provincialotti del cazzo allergici alle insegne al neon e all’happy hour. Certo che no, signori miei. Supposizioni, perfide supposizioni.

Ma se chiedessi a Riccardi perché vorrebbe Andrea appeso a un lampione, candidamente risponderebbe “perché è frocio e deve morire”.

Se chiedessi a voi perché ce l’avete con Thompson, probabilmente direste “perché è un emo di merda/frocio di merda/raccomandato di merda/varie ed eventuali, e deve morire”.

Ma a Riccardi manca l’allure pseudo-intellettuale, la credibilità e la faccia da impunito.

 

Gabriele si avvicina con nonchalance, tanto per captare il resto del discorso e farsi quattro risate – o indursi il vomito.

- Ma cazzo, è normale? – Piani arriccia il volto in una strana smorfia.

Ecco, bravo ragazzo. Come se fosse facile, per te, sembrare ancora più brutto…

- Non guardarlo troppo a lungo o ti becchi una malattia. O ti lancia il malocchio: sembra lo iettatore del villaggio – Tony strofina una macchia immaginaria sul banco e aziona la lavastoviglie con un gesto nervoso – Un quarto d’ora e stacco – biascica.

- Perfetto. Serata pallosa? – Basile sogghigna e si lascia andare contro il bancone con i gomiti puntati. Giocherella con una cannuccia.

Si campa, cocco. Gabriele aguzza le antenne.

- Quanto basta – Tony si asciuga la fronte, meditabondo.

- Bene – Basile si sfrega le mani, come a pregustarsi una serata coi fiocchi – Allora, stasera ci sarà da divertirsi.

Ecco, bravi. Infilatevi in qualche bettola di vostro gusto, non aperta ai profani, e non rompete l’anima con i vostri rigurgiti di disturbo paranoide.

E meno male che sono abbastanza razzista da aver già perso la voglia di ascoltarvi, anche solo per caso: non vogliatemene.

Gabriele riprende posto, il bicchiere stretto tra le dita come un trofeo. Inarca la schiena, mentre sorbisce fino all’ultima goccia il liquore che sa di ciliegie andate a male annegate in alcool puro – manda giù a stento, l’esofago stretto in una morsa. Fa pendant con il caffè annacquato delle macchinette preso giù in Accademia, con Andrea che insisteva per offrire lui.

Si osserva intorno, gli occhi umidi, ma non c’è nulla che valga la pena di mettere a fuoco, che possa trattenerlo un attimo in più nella sua ora buca che sa di zolfo. C’è, ma non è lì, non è tra loro, la X che meriti il disturbo di restare e sopportare, di trattenere una risata al veleno o un plateale “andate a farvi fottere”.

Forse riuscirà ad accantonare l’incubo che la notte, puntuale, gli riverbera nella coscienza senza svelare il volto. È sempre così, risvegliarsi con una ventata d’aria gelida e un groppo d’angoscia stretto al petto, le spalle scosse da sussulti e un urlo soffocato tra i denti, il terrore che gli esplode dentro e lo sforzo sovrumano di ricacciare indietro le lacrime per non svegliare Andrea e l’intero palazzo, per non portare a galla nuovi interrogativi.

Ci sei o ci fai, Gabriele, o ti sei bevuto il cervello? L’adrenalina della vittoria facile ti ha fottuto il neurone superstite? Sei folle, completamente andato: prima ne prenderai coscienza, meglio sarà per tutti.

L’unico è trattenere una sghignazzata isterica e fingere che la propria presenza, il proprio corpo accomodato all’ultimo tavolo in ombra, siano del tutto casuali.

 

Che ha da guardarsi intorno con quella faccia che ispira cazzotti? Cos’è quello sguardo compiaciuto?

 

Sospira. Sedimentata da qualche parte nella sua testa, Barbie si lascia andare a una lunga risata gallinesca insieme a un tizio col crestino abbordato cinque secondi fa, uno che non ha mai visto da quelle parti. C’era una volta Barbie che voleva Andrea, perché era tanto figo con i capelli lunghi e ondulati da artista bohémien; ma poi, all’ennesimo due di picche, imparò a volare basso.

Qualche rampa di scale più su, Andrea lo aspetta: forse si è svegliato, si è ripreso dall’estasi post-sesso e non gli risparmierà una frecciatina di tutto cuore, quando la sua faccia tirata riemergerà nella nebbia caotica della sua stanza e della sua vita, passi felpati per fingere che non sia mai andato via. C’è Andrea che aspetta, e poche chiacchiere.

Se il signor Tony del manico infilato là sotto si decidesse a portargli il conto, forse sarebbe già di sopra, e buonanotte a tutti. Ma Tony sembra aver trovato il senso della propria esistenza nel cicaleggio con i suoi clienti del cuore e nell’asciugare quante più tazzine possibili in un lasso di tempo ridotto, ignorando tutto il resto.

Persino Thompson sembra infastidito da tanta solerzia, lui e il suo aplomb mezzo emo e mezzo inglese. Si schiarisce la voce e spezza l’incantesimo.

- Che c’è, ragazzo?

Lavori in un bar, idiota! Che ci sarà mai? Gabriele assottiglia le palpebre, deciso a godersi lo spettacolo.

- Una birra alla spina. Grazie.

Non può vederlo in faccia, ma è quasi sicuro che stia sorridendo a labbra strette, la pazienza agli sgoccioli.

- Ce li hai diciotto anni?

- La carta d’identità l’hai già vista ieri – Thompson sembra esasperato, la voce bassa incrinata da una mimica facciale forzata.

Tony lo fissa con un sorrisetto storto e annuisce.

Gabriele segue i suoi movimenti e aguzza lo sguardo. Il cuore che, di colpo, perde un battito.

Questo no, cazzo, non di nuovo: non era nei patti.

Era sceso per un diversivo, per auto-ingannarsi, perché ad assaporare sulla lingua un qualcosa che assomigli a felicità nuda e cruda, senza prima e senza dopo, senza troppi problemi a intasare le sinapsi, non ci ha mai fatto l’abitudine. Doveva correggere il tiro con una full-immersion nella sua realtà di veleno distillato, intercettare qualche cattiveria volante che facesse da contrappeso, che lo riportasse con i piedi per terra in una soluzione agrodolce, smorzando la botta destabilizzante, la sensazione di suolo mobile sotto le scarpe, di una vita che, per una volta, sembra virare per il verso giusto.

La verità è che non ci ha mai fatto il callo: non basta ottenere in un giro inaspettato ciò che hai sempre voluto, razionalizzare che in fondo non hai mai voluto niente di più, e non basta una badilata allo sterno per strapparti dal tuo idillio.

Un attimo che basta a far montare l’angoscia e mozzare il respiro.

Tony spilla la birra di malagrazia. Ha qualcosa in mano – lo vede, forse lo vede solo lui, ma tanto basta –, il movimento rapido del polso che riesce a cogliere appena in tempo – un secondo. O forse no. E quel qualcosa scivola dritto nel bicchiere di Thompson.

L’ha visto con i suoi occhi, potrebbe giurarlo, ha sentito l’impatto sulla superficie. Potrebbe giurarlo e persino dimostrarlo, ma non gli crederebbe nessuno.

- Alex! – il primo impulso è gridare, attirare l’attenzione o cercare di mandare il bicchiere in frantumi a forza di urla.

La voce arriva debole, roca, affogata nel brusio che gli romba nel cervello, uno spostamento d’aria che non muove una foglia. Boccheggia.

- Derossi, che succede? Perché ti agiti tanto? – una voce beffarda alle sue spalle, uno strusciamento di mano non voluto alla base della nuca.

Ha le dita fredde che gli si impigliano tra i capelli, ma non ha potuto evitarle. Non l’ha visto planare alle sue spalle, osservarlo di sottecchi e arruffargli i capelli come un idiota. Alberti che lo fissa con il sopracciglio sollevato e l’aria di aver appena messo piede nella succursale del manicomio cittadino.

Ora siamo al completo: dove infilarti quella mano, te lo dirò più tardi.

Il giro della morte può cominciare.

- L’hai visto anche tu?!

Alberti segue il suo sguardo fino all’altro capo della stanza – dove Tony riprende a lavare piattini, asciugare scodelle, chiamare Cesira, andare al campo e farsi fottere da un’intera squadra di basket. Thompson manda giù d’un fiato la sua birra, sordo a ogni richiamo.

- Oh, merda, no!

- Derossi, calmati! Hai le allucinazioni? Va tutto bene – Alberti aggrotta la fronte – Non dirmi che, dopo la marijuana, sei passato all’LSD!

- Piantala! – Gabriele avverte un ringhio carico di frustrazione vibrargli contro lo sterno – Non hai visto? Non hai visto che gli hanno buttato qualcosa nel bicchiere?

- La birra, forse?

Coglione. Irrecuperabile coglione.

- È stato un attimo – squittisce, la voce più acuta di quanto non vorrebbe, ma è il prezzo da pagare per infilare una parola dietro l’altra senza strozzarsi in una selva di imprecazioni – Aveva qualcosa in mano. Una pasticca di ecstasy, non so…

- Derossi, sul serio, questo è troppo! Adesso ti calmi e ti fai una bella dormita: ne hai un gran bisogno. E cerca di non sbattere contro le porte – Alberti sghignazza, brillante come un buco nero, e si sfiora il dorso del naso, alludendo alla famigerata porta in faccia.

Alla cicatrice che gli percorre il setto nasale. Andrea dice di trovarla bella, ma lui è ufficialmente partito e fuso, e non fa testo: gliel’ha detto anche poco fa a un soffio dalle sue labbra, mentre scherzavano a mendicare baci l’uno dalla bocca dell’altro, a indovinare i tratti del viso profilati nella penombra.

Sto perdendo la testa…

- Alberti, vai al diavolo! – Gabriele si divincola dalla morsa di due occhi pieni di sarcasmo e sguscia via, aggirando il tavolo.

- Ehi, siamo suscettibili!

Ho cose più urgenti da fare. Tipo scongiurare catastrofi già avvenute.

Chiunque capirebbe l’antifona, se equipaggiato di un cervello che non viaggi a senso unico, ma Alberti no: lui continua a tampinarlo, lo afferra per la manica e lo attira a sé, tanto che per poco non gli sfila la felpa di dosso.

Gabriele solleva gli occhi al cielo, il cuore che quasi schizza fuori dalla gabbia toracica.

- Vuoi lasciarmi andare? – ruggisce.

Non ora, Alberti. Non sfidare la fortuna.

- Sta’ calmo! – gli urla in faccia Alberti – Volevo chiarire un paio di cose. Tipo che non c’è motivo per continuare a detestarci. Che non ce l’ho con te perché sei gay o altre cazzate. Cioè, voglio dire – tentenna – Potevi immaginare come sarebbe andata a finire, sapevi come sono fatti tutti. Hai fatto outing o come cazzo si dice, hai mostrato i molari e avrai anche messo in conto il rischio. Te ne sei preso la responsabilità. Di come la cosa avrebbe impattato là fuori… Lo sapeva anche Nicoletti, e ha fatto di testa sua.

Taci!

Vorrebbe gridare. Prendersi la testa fra le mani e gridare fino a non avere più aria nei polmoni, fino a dissipare il fumo tossico che Alberti gli soffia in faccia.

Fottuto idiota. Ti stava bene, quando ti godevi la dolce vita con i tuoi pigiama-party a base di musica da camera e banconote arrotolate. Ma quello è il tuo diritto sacrosanto, pagato con il conto di papà e benedetto dal Signore. Con te funziona così: si fa ma non si dice. Lo dicono tutti, e quel che a te si perdona, cene, mazzette, mobbing e righe di coca, per un altro, vero o falso, è il suo biglietto per l’inferno.

O forse il problema è che non ti caga più nessuno?

Glielo urleresti in faccia, se non ci fosse Andrea che aspetta là sopra. Che aspetta e si rigira tra le lenzuola, troppo pigro per rivestirsi e venire a riacciuffarti per i capelli.

Basile e Piani hanno smesso di guardare male Thompson e ridacchiano per i cazzi loro su qualcosa che a nessuno importa, una luce soddisfatta negli occhi. Maledetti.

Thompson si è accorto di loro, dei loro sguardi all’acido muriatico che gli perforavano la nuca fino a tre secondi fa, ma non ha ancora battuto in ritirata: c’è troppa gente, troppa confusione, troppo struscio. Lui gioca in campo neutro, loro non saranno mai così coglioni da aggredirlo di fronte a testimoni.

Eppure l’hanno fatto. Con la complicità disinteressata di un cameriere stronzo. Maledetti.

Andrea può aspettare: sono mesi che lo aspetti tu; un quarto d’ora non farà la differenza.

- Non me ne faccio un cazzo – sibila verso Alberti, un’occhiata perentoria, le palpebre ridotte a fessure.

Della tua pietà non me ne faccio un cazzo. Dei tuoi discorsi da prete di campagna. Parlavi di me come di un cancro, l’hai fatto fino a ieri. Vuoi fingere che tutto va bene, fare il ragazzino assennato, rifarti una verginità ai loro occhi?

Ultima possibilità: sbaracca giù dalle palle dove ti sei accampato, o finirà peggio di quanto tu creda.

- Derossi, làsciatelo dire: sei tutto matto – Alberti scuote il capo e si allontana con il volto della rassegnazione.

Aria.

Gabriele aguzza i sensi, il respiro alterato. Thompson raccoglie l’ultima goccia dal fondo del boccale, accartoccia lo scontrino in tasca e schiaffa un gruzzolo di monete sul marmo del bancone. Mastica qualcosa che potrebbe essere un ciao come un vaffanculo, e fila via leggero come una piuma.

Lui resta lì, piantato su due gambe poco stabili, a ruminare tra sé il prologo di una tragedia annunciata – forse sfiorata, forse partorita per l’occasione dalla sua mente in subbuglio –, a scervellarsi sulla prossima mossa vincente.

Spaccare la faccia al cameriere che impila i bicchieri nello scaffale come soldatini schierati, un sorriso evanescente che lo tradisce.

Spaccare la faccia a Basile e Piani, due al prezzo di uno – Moro non pervenuto, ma lui è fatto così, c’è poco da dire: preferisce accampare scuse o andare a pisciare, quando il gioco prende una brutta piega.

Potrebbe seguire Thompson, assicurarsi che stia bene e convincerlo della salubrità di cacciarsi due dita in gola e vomitare sul pianerottolo la merda appena trangugiata, in diretta dalle mani del suo aguzzino.

Nessuna opzione attuabile nell’immediato. E i minuti rotolano via.

Si avvicina. Tony canticchia un motivetto indefinibile che gli raschia contro i timpani. Si china e ripone con cura le bottiglie nella cesta dei vuoti a perdere. Lui va tutto intero nell’indifferenziato, con gli altri stronzi suoi pari.

Il boccale usato troneggia desolante al centro del bancone, dimenticato, come se il bastardo giocasse a seminare indizi. Gabriele si osserva intorno, accarezza il bicchiere con dita malferme e se lo fa scivolare in borsa. Senza pensare.

Non so che farmene, ma può tornare utile come sacro Graal.

Basile e compare hanno abbandonato il campo, ma non c’è fretta: ha tutta la notte per togliersi i sassolini dalla scarpa. Lo sente lì in agguato, il sorriso involontario gli stira le labbra screpolate, e quelle ferite minuscole che sanno di metallo.

Questo no. Perché voi mi volete cattivo. Non volete il Gabriele che sorride, che ragiona, che sale di sopra e fa l’amore con Andrea, si fa i cavoli propri e alza la spalla davanti agli insulti: voi volete il giustiziere del cazzo che vi tiene il fiato sul collo, vi dà la caccia e vi prende a calci in culo da qui fino a casa.

Lo volete voi, non lo voglio io. Io avrei anche qualcosa di meglio a cui pensare: ho Andrea. Ma Thompson non se lo merita.

Qualcuno prima o poi deve farlo, il lavoro sporco. Io o un altro, che differenza fa?

Tutto ciò che può fare, è seguire con occhi finto-disinteressati l’uscita trionfale dei due superuomini. Ha tutto il tempo che vuole, carta bianca da decidere come riempire – se lo ripete come un mantra, le mascelle contratte in un accesso di collera, la pelle che brucia. Le ombre che tornano di fronte a lui, puntuali, velano la sua visuale e gli fanno ribollire il sangue nelle tempie.

Andrea può aspettare, e se può farlo lui, potete farlo anche voi, cari figli di puttana.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 53
*** Capitolo 53 - The day after tomorrow ***


Capitolo 53

The day after tomorrow

 

 

Buonasera, stronzi.

Vi aspettavo, sapevo che non avreste tardato – mai quanto io farò tardi con Andrea, e per colpa vostra: due chiacchiere al chiaro di luna e si digerisce meglio.

E sì, lo so: vi farà strano ritrovarvi a un palmo di naso Derossi lo schizzato, quello che si è fritto il cervello e va in cerca del lume perduto. Quasi quanto a me il pensiero di pararmi di fronte a voi, un attimo prima che mi sbattiate la porta in faccia, a me e alla mia peggiore faccia da psicopatico. Sorriso asimmetrico, occhi socchiusi, sopracciglia distese, nervi tesi fino allo spasmo.

 

- Derossi, che cazzo vuoi? – Basile si tira i capelli all’indietro sbuffandogli in faccia la sua noia di semidio annoiato, costretto a calcare il suolo come un mortale qualunque.

Gabriele lo squadra da capo a piedi. Ivan Basile in tutta la sua maestà di capelli color inchiostro che colano sulle spalle, occhi infossati da rapace e scarponi dalla punta rinforzata.

Parola-chiave, improvvisare – Andrea insegna, bontà sua.

Perché, se ti sei messo nel sacco Neri e, per poco, l’Accademia intera, che sarà mai un deficiente gasato col delirio d’onnipotenza facile e i bicipiti pasticciati da un tatuatore alcolizzato?

- Un compromesso, caro – il sorriso si allarga.

Facciamo un gioco?

- Evapora da un’altra parte! – Basile inghiotte lo spazio che li divide avanzando con passo marziale, le spalle rigide, la faccia una maschera d’acciaio: forse cerca di intimorirlo con la minaccia subliminale di un democratico pestaggio due contro uno, ma con lui il meccanismo non attacca – Non ti è bastato rincoglionire Lastella con le tue cazzate? Non si fida più nemmeno del suo culo e sclera per niente. Grazie a te.

- Oh, poverini, accusati ingiustamente! Molto rumore per nulla – Gabriele arriccia le labbra in un broncetto infantile – Cosa vuoi che siano… insulti, minacce, bullismo, deliri da “cosa nostra”, sigarette spente sul braccio, e a uno che ha il solo torto di starti sul cazzo? Quisquilie. O forse ti rode che il tuo amico stia iniziando a svegliarsi e a capire che merda sei?

- Derossi, vattene!

- Se no, che fai? – Gabriele lo scimmiotta scuotendo le spalle e sgranando gli occhi.

Andrea, la tua miniera d’oro è che provochi e fai il cretino e sembri cercare botte: ti ho osservato bene, ora non mi resta che riprodurre il modello. Superare il maestro.

- Mi picchi? – prosegue – Ti fai aiutare da qualche leccaculo di fiducia per imboscarmi una pasticca nel bicchiere?

Calmo, Gabriele. Calmo. Osserva le sue reazioni e rilancia di conseguenza. Non attaccare per primo.

Basile distoglie lo sguardo; cerca l’appoggio di Piani, ma lui preferisce pigiare sui tasti del telefonino con un accanimento ai limiti dell’isteria, terminare la partitina a Snake o qualcosa di simile e passarsi una mano tra i quattro peli unti che gli coprono il cranio. Movenze effeminate da presa per il culo.

Sospiri: proprio il tipo che, piuttosto che infilargli le dita dentro i pantaloni, le infileresti più volentieri nella presa della corrente. Agghiacciante.

Tra un po’ rido io.

Moro non si è fatto più vedere: forse si vergogna della propria omertà, forse ha avuto un attacco di dissenteria o ha fatto da cavia per l’intruglio da propinare a Thompson – conoscendoli anche per sommi capi, si aspetta questo e altro.

- Succedono robe strane, là sotto – incalza, luciferino – Ho un dubbio che mi rode il cervello.

- Hai preso una botta in testa? – Basile cerca di sorridergli di rimando, di buttarla nel ridicolo, ma le labbra si storcono in una strana smorfia.

- Nah. Ho visto una cosa… e non ti farà felice.

- Un’altra visione psichedelica?

- Quasi – Gabriele si ravvia i capelli arruffati, il movimento speculare a quello di Piani che continua a fargli il verso – Qualcuno ha buttato una pasticca nel drink di Alex Thompson.

Scuote le ciglia, ispirato. Parola d’ordine, improvvisare. Qualunque cosa ne verrà fuori.

Caro Neri, sei una schifezza d’uomo, ma come insegnante sapevi il fatto tuo: ci mancherai.

- … che, in questo momento, sta vomitando l’anima aggrappato alla tazza del cesso. L’ho visto coi miei occhi.

Bugia: non hai visto niente, ma fa atmosfera.

- Di cosa ti sei fatto, stavolta? – Basile allunga le mani e lo scuote per le spalle – Roba tagliata male, vedo. La stessa che hai passato a Thompson?

- Il cameriere, Tony, è un vostro amico? – gli sussurra Gabriele, ignorando ogni deviazione sul tema “droga” – Oltre che stronzo di proporzioni cosmiche.

- Va bene, ho capito – Basile annuisce col capo – Hai prove per dimostrarlo? Qualche testimone? Denuncialo. Sempre che ne abbia le palle. Peccato che nessuno ci crederà… al primo fattone fuori di testa che si presenta in questura con storie assurde cagate sul momento. Ma tu fai come vuoi: basta che non mi rompa troppo i coglioni.

- Ecco, arrivi dritto al punto – Gabriele quasi grida, lo sguardo che schizza fino al soffitto simulando l’illuminazione dell’ultimo secondo, la parola magica che scioglie dal dubbio; gli punta un dito contro il petto – Pensare che sembri idiota, eh! Le prove, i testimoni: dici niente! Dove sono?

- È questo il tuo problema? – Basile sorride, beffardo – Intanto che aspetti il miracolo, puoi fare l’unica cosa utile: chiamare il 118 per il tuo amichetto strafatto e lavarti la coscienza da bravo cittadino. A me non me frega un cazzo: non è mio amico, non lo conosco, non sono il paladino degli sfigati. Può anche strozzarsi, dentro quel cesso.

- Voi tre – Gabriele gli fa scivolare gli occhi addosso, poi passa a Piani, che solleva di colpo lo sguardo, quasi interessato alla piega del discorso – Eravate lì davanti al bancone, no? Quindi avrete visto per forza. Inutile che cerchiate di difendere il vostro barman di fiducia.

Basile scoppia a ridere, l’isteria palpabile come energia elettrostatica – forzatissimo, e meno male che studia per diventare attore…

- Tu sei fuori, Derossi, se pensi che verrò a testimoniare per te contro un mio amico e sulla sola base delle tue stronzate! Thompson frequenta gente di cazzo: a quanto ne sappiamo, la roba può avergliela passata chiunque. Magari si è imbottito di psicofarmaci, oppure ha mangiato qualche schifezza e ha sboccato.

- Thompson non si è mai mosso da qui.

- Può essere stato chiunque… se è vera la tua storia della roba somministrata di nascosto. C’era troppo casino: un attimo di distrazione, e il resto lo sai tu.

- C’eravate solo voi – Gabriele incalza – Devo pensar male?

- Derossi, piantala con questa storia!

- Allora è peggio – Gabriele annuisce, le labbra tirate – C’era il cameriere e c’eravate voi, il trio delle meraviglie. Curioso: se non è stato Tony, è stato uno di voi. E adesso vi coprite a vicenda.

- E brava Jessica Fletcher! – Piani si è risolto a far sentire la sua voce, una faccetta sprezzante tragicamente fuori luogo – Cosa vuoi fare? Denunciare? Nessuno ha visto nulla, tranne te che non capisci una mazza.

- Ma tutti hanno visto voi tre appollaiati di fronte al bancone. E Thompson pochi metri più in là.

- Cosa vuoi fare? Rispondi alla mia domanda! – Basile è passato a un ringhio basso e sordo, la fronte imperlata di sudore.

È caduto nel sacco.

- Innanzitutto, parlarne con qualcuno che può aiutarmi. Tipo… Patrizio. Sì: conosce certi andazzi. Conosce voi – cinguetta.

Ed è la goccia che rompe gli argini.

Perché l’eventualità di una reazione violenta messa sul piatto della bilancia è un conto, un’ipotesi nebulosa; la mano di Basile che ti cala addosso come un maglio, ti afferra per il colletto e ti sballotta avanti e indietro fino a schiacciarti contro la parete, ha qualcosa di tanto suggestivo da mozzarti il respiro, le sue nocche premute sotto la gola come un pugnale e le scapole pressate contro il muro. I muscoli delle spalle che urlano per la posa forzata.

- Mi stai soffocando…

- Prova a lasciarti sfuggire con Patrizio un decimo delle tue stronzate, e io ti spacco il culo nel modo che non ti piace – abbaia a due centimetri dalla sua faccia, l’alito che sa di birra e alcool, il respiro accelerato che frusta l’aria.

- Come sei volgare…! – squittisce Gabriele.

Prova a scartare a sinistra, ad allentare la presa, ma Basile lo marca stretto contro il muro; la mano scende sul torace, pressandolo nello spazio di una mattonella.

- Zitto, Derossi. Patrizio è capace di dare i numeri e mollare la baracca per molto meno. Prima di sabato. Non vorrai che la nostra serata allo Chat Noir se ne vada a puttane per colpa tua…

- Oh, adesso lo dici! – Gabriele ridacchia, tanto per ricacciarsi in gola la paura di un diretto in mezzo agli occhi – Hai paura che Patrizio scopra le tue puttanate e ti molli su due piedi! Che ti rovini la festa. Tu e la tua band. Che ci sarà di speciale allo Chat Noir? Un agente discografico di fama mondiale che aspetta solo voi? La tua mamma?

- Poche palle, Derossi! Una parola, e ti faccio piangere.

- Dovrai ammazzarmi – Gabriele gli serra le dita intorno al polso, intimandogli la resa, mentre la paura sale lungo la spina dorsale – Per ottenere il mio silenzio, amico. Ma posso sempre patteggiare.

- Non sono tuo amico e non patteggio con nessuno, tanto meno con un tossicomane del cazzo! – Basile indietreggia.

Lo afferra per un lembo della felpa e lo attira verso di sé, prendendo lo slancio, per poi scaraventarlo contro il muro come se la sua vista, il suo sorriso obliquo, gli occhi che gli scavano tra le pieghe del viso, gli corrodessero la faccia come acido.

Le dita riposte al sicuro nei passanti della cintura, lontano da lui che respira ansimando, attende sui carboni ardenti. Piani fissa il pavimento. Fanno di tutto per mascherarlo, ma la paura si affetta che è uno spasso. E odora quasi di miele, con lui che sta lì e centellina la loro angoscia come nettare e ambrosia.

- Ipotesi numero uno – Gabriele tossisce, libero dalla sua morsa soffocante – Vi denuncio tutti e quattro. Thompson lo convinco io. Patrizio non sarà felice. Il resto, pazienza: non posso dimostrare che siete complici, ma qualcuno potrà casualmente ricordare di avervi visti appiccicati al bancone a parlottare. Come le carogne schifose che siete.

- Maledetto… – Basile stringe i denti: forse sta per capitolare.

Se sarà fortunato, troverà un compromesso conveniente. In caso contrario, si ipotecherà il culo, sicuro com’è vero che ora sta sudando freddo. Che la maschera dell’uomo che non deve chiedere mai non regge più e gli penzola giù dalla faccia come uno straccio inutile, come cemento che si sgretola.

- Ipotesi numero due: io non dico niente a Patrizio, lo tengo nella sua beata ignoranza almeno fino a sabato, ma voi domani venite con me e confermate tutto quello che dirò. Che avete visto Tony buttare una pasticca nella birra che stava per servire. A voi la scelta.

- Fatti curare, Derossi: sei da manicomio. Vedi cose che non esistono.

- Grazie del consiglio – Gabriele si scuote la polvere di dosso, ghignando – Avete tutta la notte per pensarci. Domani mattina passo a riscuotere.

- Passa prima a riscuotere le marchette dell’altro giorno, brutto frocio di merda! – Basile gli sputa addosso gli ultimi filamenti di veleno, ma lui ormai non li sente più, e quegli insulti schiumanti di rabbia scompaiono alla sua svolta d’effetto, dietro l’angolo in penombra che lo accoglie come un sentiero conosciuto, mentre l’orologio a pendolo batte le undici e gli vibra fin dentro le viscere – Tanto lo sappiamo tutti, che Neri lo sbatteva in culo anche a te. Che sei un fallito.

E tu lì che stringi le palpebre e allunghi il passo, una stretta allo stomaco. Incasserai anche questa: una in più o una in meno, non ti cambierà la vita. Perché tra non molto riderai tu.

 

* * *

 

- Alex, che hai?

Si è lasciato andare sul divano – è crollato di peso, la testa che ciondola sulle spalle, gli occhi socchiusi fissi in un punto a caso, a metà strada tra le sue sopracciglia e l’attaccatura dei capelli, o forse oltre. Boccheggia, un basso mugolio gutturale.

- Mi sento strano – la voce impasta i suoni in un borbottio cantilenante e discontinuo – Troppa luce… c’è troppa luce – si strofina gli occhi, li riapre di scatto e scuote le ciglia, come se mettere a fuoco gli oggetti gli costasse troppe energie.

- Alex, ascoltami! – Patrizio gli afferra il volto tra le mani – Che hai fatto? Cos’hai preso?

Che cazzo ti è successo, maledetto ragazzino?

- Niente. Sei tu che abbagli. Mi fai venire il mal di testa – Alex scuote il capo; lo sguardo oscilla qua e là per la stanza come se un rollio immaginario sotto le scarpe ostacolasse l’impresa di mantenere l’equilibrio, di mettere a fuoco un’immagine per il verso giusto – Non riesco a seguirti… è tutto pieno di farfalle. Di scintille. Sei tu – ridacchia – Sei troppo bello… per me. Smettila di accecarmi.

C’è un grumo di lucidità che riverbera in fondo alle pupille, ma il suo sguardo resta aggrappato altrove, dietro di lui, sul filo di un’allucinazione. Le palpebre si accartocciano sotto una lama di luce immaginaria.

- Alex, guarda che riconosco, uno che è strafatto. Guardami un attimo. Dritto negli occhi – parlargli a due centimetri dalla faccia e scandire i suoni è l’unica soluzione, prima che si perda – Hai due fondi di bottiglia al posto delle pupille.

- Sono stanco – Alex lo spinge via e raccoglie le ginocchia contro il petto, il respiro accelerato; si sfrega le palpebre e deglutisce a fatica, ma continua a tenere le distanze – Domani sono come nuovo… te lo giuro, eh, te lo giuro.

- Hai preso qualcosa? – Patrizio gli afferra le mani e intreccia le dita alle sue: priorità assoluta, mantenerlo vigile il tanto che basta a fargli sputare cos’è che ha combinato là sotto.

- No, davvero. Te lo giuro – ripete, sciogliendosi dalla sua presa, i piedi di nuovo saldi a terra – Te lo giuro. Cos’ho preso?

- Dovresti saperlo tu.

Alex si drizza in piedi, mosso da una forza ancestrale, le gambe molli e la testa che gli ricade in avanti. Barcolla sul posto e si preme le mani sulla bocca, deglutendo a ripetizione.

- Dove diavolo vai, adesso?

- Scusami un secondo… – biascica.

Non lo vede: scivola via sotto i suoi occhi come un pugno di sabbia tra le dita, come un liquido viscoso. Incespica sui propri piedi, sfuggente come l’imprecazione che soffoca tra i denti, un mugugno confuso nel poco spazio che gli concedono le mani pressate in faccia. Un urto secco con l’anca contro lo stipite della porta del bagno, le misure prese male e le percezioni che se ne vanno per i cazzi loro. Annaspa in avanti, le braccia tese.

Il tempismo di aggirare l’ostacolo, socchiudere la porta con un calcio e chinarsi davanti alla tazza a vomitare l’anima – questa era facile.

Patrizio indietreggia verso il divano, una goccia di sudore freddo che gli ghiaccia la nuca.

È successo tutto nel misero, dannato quarto d’ora in cui l’ha lasciato di sotto a farsi la birretta della buonanotte. Mezz’ora al massimo. Mezz’ora ed è successo il finimondo. Nessuno che si sia curato di avvisarlo.

Il cellulare che squilla a vuoto, in bilico sul comò, lo fa sobbalzare.

Messaggio. Luca. Che, al novanta per cento, si scuserà per essere sparito così: l’ha aspettato per niente, ha lasciato Alex di sotto a sfasciarsi per lui che preferisce dileguarsi nell’ombra e seguire il disegno del momento, l’impegno improrogabile, il canto della sirena che lo chiama. Signorsì, signora.

Non ora, cazzo.

- Alex, tutto bene? – grida.

- Quasi…

Silenzio. Il ticchettio dell’orologio da parete gli martella addosso come uno spillone infilato nelle tempie. Le undici e mezza. Lo scroscio della doccia aperta al massimo esplode come una sveglia improvvisa. Un sospiro. Patrizio infila lo sguardo oltre la fessura della porta chiusa a metà – spiare non sta bene, ma la priorità assoluta è assicurarsi che sia ancora vivo, che non stramazzi al suolo. Il riflesso frastagliato sulle mattonelle gli rimanda una figura esausta seduta a gambe incrociate sul piatto della doccia, con l’acqua che le tamburella addosso e scivola giù per la nuca. Sbuffa, piega la testa all’indietro e si lava la faccia: forse lo shock dell’acqua fredda schiaffata addosso l’ha sbalestrato di nuovo nel mondo dei vivi. Lo sente quasi sulla sua pelle, Patrizio, mentre se ne sta incollato alla parete e attende uno schiaffo in piena faccia.

Questo non era previsto, cazzo. Non Alex, non Luca che schizza da una parte all’altra come una girandola impazzita, lasciando pezzi in giro. Che dà di matto e rinsavisce a suo uso e consumo.

- Ma ti sei ubriacato?

Non è tipo da superalcolici, Alex, non è tipo da sbronza facile, da “bevo per dimenticare perché sono depresso, e questa è l’unica cosa figa che so fare, oltre a forarmi le labbra e infilarci minuscoli cerchietti di metallo vile”. Non è tipo che assume stupefacenti random per tastarne l’effetto, che pesca pillole a casaccio nell’armadietto dei medicinali, che imprime la giusta scossa al suo apprendistato da suicida per caso perché il trio Miracoli gli tiene il fiato sul collo e Loria non lo caga. Lui è tipo da tisanuccia per dormire.

- Non lo so! – urla Alex, la voce che sovrasta per miracolo il martellare costante della doccia sparata addosso.

Si rialza con le ginocchia pesanti, una mano premuta contro il boxe e il telefono della doccia come supporto. Si sfila la maglia inzuppata.

Patrizio distoglie lo sguardo: assicurarsi che non si schianti a terra da un momento all’altro, è uno scopo nobile – cadrebbe di faccia. Spiarlo con due occhi così, mentre si strappa i vestiti di dosso, seminudo e poco presente a sé stesso, sarebbe patetico e malato.

- Come non lo sai?! Che cazzo hai bevuto?

- Il solito – un barlume momentaneo di razionalità che gli consente di calciare i vestiti fradici fuori dal boxe e ruminare risposte che suonino coerenti.

- Sicuro di non aver preso altro?

- Non mi ricordo, Patrizio, non lo so! C’era un casino. Ho un casino in testa.

Puoi anche dirlo, che ti sei fumato o hai alzato troppo il gomito o hai fatto qualche strano mix: non sono tua madre, non ti metto in punizione. Ma non sei il tipo che si stona in mezz’ora.

Vita di merda.

Patrizio si lascia andare contro il comò, il freddo delle mattonelle sotto il sedere come una presenza rassicurante. Forse il peggio è passato.

Il cellulare stretto tra le dita, un occhio sullo schermo e l’altro sulla porta del bagno, attende. Se Alex ha intenzione di collassare, di finire la sua serata disteso a tappetino sul pavimento del bagno, potrà sempre avvisarlo in tempo.

 

Scusa me se sono andato. Sono da Manuela. Ci vediamo domani. Luca.

 

Signorsì signora, comandi. E vaffanculo.

 

Patrizio scuote il capo: almeno con Elena non correva da una parte all’altra come un flipper impazzito, macinandosi cinquanta chilometri al giorno appena il sergente chiama.

Con Elena sarebbe semplicemente peggio, se fosse una cosa alla pari, con un piede in due scarpe e due storie contemporanee e parallele, perché a obbedire a un padrone, dopo un po’ puoi farci il callo; dividersi tra due padroni sfrecciando da un capo all’altro della galassia, mina alle tue facoltà psichiche. Specie quando non sai nemmeno deciderti tra il brodo di dadi e il cioccolato fondente. Specie se il senso di colpa sedimentato in fondo allo stomaco ti trasforma in un ibrido tra il bravo fidanzatino che fa felici mamma e papà, e lo zerbino su cui grattarsi il fango sotto le scarpe.

Sorride, Patrizio: lui non ha mai dato grane in tal senso. Non a casa, non altrove. Il tutto fu digerire la barzelletta del gemello etero e il gemello gay con buona pace del parentado, e poi via a preparare le frittelle per il pranzo della domenica – a volte basterebbe poco. Invece Luca continua a fottersi con le sue mani, a martoriarsi le cicatrici con un’ostinazione tale da riaprire le ferite.

Nessuno batterebbe ciglio, se domani si presentasse a casa con una valigia di lenzuola da lavare e la mano avviluppata a quella di Alex – o di Andrea, che ha sempre avuto un’immensa faccia di bronzo. Chissà cosa succederebbe, se domani Luca si presentasse a casa con la notizia del secolo…

Ma lui è sempre stato uno che ci tiene, a complicarsi la vita fino a trasformarla in un cumulo di stracci sporchi. E Manuela è un tipo impegnativo. Con lui che diventa l’ombra di sé stesso e lei che ciancia di un futuro tagliato con la squadra e chioschi di bibite sulla spiaggia per mettere insieme uno stipendio, e convivenze raffazzonate e appartamenti in città.

Non era lui il fratello problematico, lui e il suo piercing al labbro e le spille da balia per tenere insieme gli strappi sui jeans, i capelli per aria, la chitarra sottomano e i ragazzi da portarsi su in camera: ha sempre saputo cosa voleva. Luca è ancora lì che sfoglia la carta del menù e inciampa nella trappola della scelta obbligata.

Non era lui l’adolescente complicato che si fora il naso e le cartilagini dell’orecchio con chincaglierie assortite – come dice sua nonna –, che si tinge i capelli di colori assurdi e suona musica punk in garage. Non quando c’è uno che preferisce rovinarsi la salute mentale con una che vuole l’uomo perfetto, e poi sforzarsi di far quadrare i conti infognandosi dentro storie ai confini del masochismo appassionato.

- Alex, stai bene? – Patrizio si alza di scatto: per poco non spedisce il cellulare a fottersi dall’altra parte della stanza.

Alex riemerge dal vapore del bagno con i capelli mezzo umidi incollati alla nuca e il pigiama indossato a cazzo sulla pelle nuda, la camicia aperta fino all’ombelico e i pantaloni appesi all’altezza delle anche. Odora di collutorio alla menta che lo sentiresti nel raggio di un chilometro – si sarà sciacquato la bocca quindici volte o giù di lì, da perfettino rupofobico qual è –, più qualcosa di delicato e persistente che ti si incolla al palato. Forse disinfettante.

Solleva la mano, Alex, un cenno svogliato che suona come un “non preoccuparti”. Striscia fino al letto e si lascia andare a faccia in giù, le palpebre strizzate sotto l’impulso di un capogiro, immobile per scongiurare il rischio di rimettere la colazione dell’altro giorno – forse funziona così, con un principio di trip da acidi, se di solito vai liscio. Sospira e sprofonda con la faccia nel cuscino, troppo devastato per alzare un dito.

- Va meglio? – Patrizio si avvicina e gli scosta una ciocca di capelli dal viso con dita tremanti – Sei pallido.

Il conte Dracula ti spiccia casa.

- Va dimmerda, Patrizio – un miagolio soffocato, mentre rotola sul fianco destro con un braccio incastrato sotto il cuscino e tutta la circospezione necessaria a non riprendere a vomitare stile “L’Esorcista” – Dimmerda, come sempre.

Patrizio gli allunga una carezza sulla schiena e gli drappeggia addosso una coperta di pile – vietato provare a spostarlo –, srotolandogliela fino ai piedi. Le unghie del piede sinistro smaltate di nero non le aveva mai notate, ma forse sono prove tecniche.

Sarebbe delizioso, se non fosse un magnete vivente per le sfighe più improbabili. Se non fosse a un passo dal rigor mortis.

Pensa, Patrizio, pensa: non è normale. C’è qualcosa che si incastra male.

Alex, bar di sotto, sfiga, alcool, casino, gente che lo vuole morto, trip indefinibile, droghe, strane visioni… Dove ero rimasto?

Mezzanotte in punto e nessun gallo canta. Solo luci artificiali desolate dalla strada, il parchetto ben curato qualche metro più in basso oltre la finestra, e il filo che si attorciglia su sé stesso.

Ritorna all'indice


Capitolo 54
*** Capitolo 54 - Galileus ***


Capitolo 54

Galileus

 

 

Un bussare impertinente interrompe il delirio dei neuroni, la convergenza verso il punto di fuga, l’intuizione vincente che per poco non gli folgora la mente – resta sospesa, come una ragnatela tessuta a metà. Patrizio salta su, ritto sulle gambe malferme. Trattiene il fiato.

Dimmi che non sono stati loro… Dimmelo. Che non c’entrano, neanche stavolta. Che non sono arrivati a tanto, che non gli passerebbe per l’anticamera del cervello, per quanto ce l'abbiano a morte, per quanto la sua faccia e la sua storia possano solleticare i loro istinti sociopatici. Che ci sia un’altra spiegazione: pure l’autolesionismo di Alex. Può andare.

- Patrizio, sono Gabriele…

Al diavolo.

Spalanca la porta, il viso modellato in un sorriso di circostanza

- Derossi! Il tuo tempismo mi commuove!

- Come sta Thompson? – gli domanda Gabriele, ansimando.

Sembra nervoso, la voce resa instabile dal respiro accelerato, reduce da una corsa o da un rendez-vous con il diavolo in carne ed ossa.

Patrizio si chiude la porta alle spalle con uno scatto. Troppo: un guizzo di collera gli azzera il respiro.

- Scusa – quattro passi veloci ed è lì di fronte a lui, il sangue che scalcia nelle tempie; il tempo di abbrancarlo per un braccio e bloccarlo contro la spalliera del divano – Tu come lo sai?

Gabriele solleva gli occhi al cielo, incastrato in una parola di troppo. Solo lui. Lui e quell’aria fatalista, come se la sua sola presenza fosse latrice di cattive notizie. Di parole sfuggenti e sguardi indecifrabili, rivelazioni folli da strappargli con le pinze, e il sorriso saputo che gli sfodera a mezza bocca.

- Possiamo parlarne più tardi? – biascica.

Patrizio serra le labbra, la rabbia che vibra in punta di dita: è troppo. Gabriele e i suoi fottuti misteri, la goccia finale.

- Più tardi, un cazzo! – lo sovrasta – Hai cinque secondi. Cinque, prima che ti sbatta fuori. Perché, a quanto pare, stavolta ci sei in mezzo anche tu.

- Non vedo come potrei – Gabriele abbozza una risatina, lo sguardo che fugge per i fatti suoi.

Con uno strattone si scioglie dalla sua presa e ribalta le posizioni.

- Sei venuto qui sparato… Vuoi vedere Alex? Come sta? Forse lo sai meglio di me. È strafatto, e non dovrebbe essere un mistero per te che sei l’intenditore. Tre secondi – gracchia – Tre secondi per dirmi se c’entri o non c’entri, se avete fatto qualche cazzata insieme, se gli hai passato tu la roba oppure no. E cosa gli hai dato… Perché lo sanno tutti, com’è che sali sul palco, come ti porti a casa gli esami. Com’è che ti sei sfondato di ogni merda possibile e immaginabile. Lo sai cosa si dice in giro, no? Che hai trascorso le due ore dopo il colloquio dalla Balducci con due dita infilate in gola per non andare in coma etilico. Bacco o Tabacco, dimmi tu – Patrizio ridacchia, isterico: l’effetto di affondare il pugnale nelle carni martoriate è la quattrocentesima parte di un orgasmo – Qualcuno ti ha mai visto sobrio?

Gabriele schiude le labbra per dire qualcosa, ma si rimangia tutto. Non ride più. Strizza le palpebre, gli occhi umidi. Sembra ferito, colpito e affondato.

- Stronzo – sibila.

Perdonami, amico. Ma dovevo scalfirti in qualche modo: consideralo un anticipo.

- Cerca di essere convincente, Gabri – incalza Patrizio – Se scopro che sei tu l’autore dello scherzone, io ti scuoio.

- Ti spiego in tre secondi – Gabriele lo spintona verso il comò, spazientito – Primo: non c’entro nulla, non gli ho dato nulla, e le stronzate che mi hai detto puoi rimandarle al mittente e dirgli di ficcarsele dove non batte il sole. Io non mi faccio più, okay? Secondo, e qua viene il bello, il vostro amico Tony gli ha buttato una pasticca nella birra: l’ho visto con i miei occhi, a meno che non mi sia rincoglionito. Forse LSD, non so. E adesso Thompson sta male: tutto torna.

- Ti aspetti che ti creda?!

- Allora vaffanculo!

Altra spinta, stavolta in pieno petto. Patrizio barcolla verso il divano in equilibrio precario. Il tempo necessario a permettere a Derossi di scivolare nel brandello di spazio che li separa e fiondarsi a capofitto al capezzale del moribondo.

- Alex, come ti senti? – sussurra, sedendosi sul letto e prendendogli il volto tra le mani.

Lo dirige verso di sé e lo scruta come Amleto con il teschio.

- Fa’ come se fossi a casa tua, dottore! – Patrizio si lascia andare sulla sedia girevole della scrivania, i gomiti puntati sulle ginocchia – Il caso è tuo. Sei tu l’esperto… Queste cose si insegnano a Oxford, no? Ah, dimenticavo! Qualunque sostanza si sia sparato, non sarà niente di diverso da ciò che tu hai provato lo scorso fine settimana.

- Vuoi piantarla? – Gabriele gli scocca un’occhiata fulminante e riprende a manipolare Alex, gli scruta le pupille dilatate e gli tasta la fronte – Sto cercando di capire più o meno ciò che vorresti capire tu.

- Derossi, basta. Sto dimmerda – mugugna Alex a mo’ di disco rotto.

- Che hai?

- Ho sonno – voce impastata, sognante – Mi gira la testa. Non capisco dove sono…

- Sei in camera tua, ci siamo noi e va tutto bene – Gabriele gli allunga un buffetto sulla spalla.

- Allora, questa diagnosi, dottor Frankenstein? – Patrizio si avvicina, un sorriso esasperato: forse ha parlato troppo presto. Forse Gabriele Derossi è un uomo migliore di quanto pensi.

Gabriele sospira. Guadagna tempo torcendosi le dita, come se fosse sulle spine o volesse tenerci lui, puntellarsi sulle sue incertezze e ridurlo all’impotenza. Se non fosse il ragazzo di Andrea – o qualcosa del genere –, gli stringerebbe il collo. Lo scuoterebbe fino a scrollarsi via dalla mente quella faccetta sibillina e fargli sputare il verdetto. Quello che sa, ma non dice. Tentenna.

Gabriele afferra la mano di Alex e gliela stringe; risale verso il polso, tastandolo tra pollice e indice. Lo lascia andare di colpo, teatrale.

E dagli…

- Mi sembra LSD – sentenzia – È allucinato. Lascialo riposare: domani sarà un po’ lesso, ma starà meglio.

- E tu come lo sai? Segui dei corsi per corrispondenza?

- No. L'ho provata. Tempo fa, lontano da qui – sussurra, mentre si dirige verso il divano e ricade a peso morto, le gambe distese.

Come se fossi a casa tua, cocco.

- E come hai risolto…? – Patrizio lo osserva di sguincio e segue i suoi movimenti, le dita nervose con cui si ravvia i capelli: forse può gridare allo scampato pericolo, e Derossi non è così male, dopotutto.

È l’esasperazione vivente, ha uno sguardo inquietante ed è fuori come un terrazzo, ma non è pericoloso. Non sembra un figlio di puttana compiaciuto.

- Come l’ho risolta? – Gabriele si tormenta una ciocca di capelli sulla fronte come un surrogato delle peggiori seghe mentali – Vomitando l’anima e dormendoci su.

- Che è ciò che ha fatto Alex. Vedi che ho ragione? Sei il grande esperto. Il gran sacerdote della legalizzazione e del trip consapevole. E, per qualche motivo che non riesco a spiegarmi, stai sempre nel posto giusto al momento giusto. Sei gli occhi e le orecchie dell’Accademia. Cosa mi nascondi? Cosa mi sai dire del caro Tony?

Gabriele schiocca la lingua. Sembra indeciso sulla risposta – esasperante fino all’ultimo.

- L’ho visto servirgli la birra e, quasi casualmente, lasciar cadere la pillolina magica dentro il bicchiere.

- Così, tranquillo, di fronte a tutti? – Patrizio sgrana gli occhi, il cuore che salta un battito: non ha razionalizzato l’eventualità che, su questo punto, Gabriele fosse attendibile – Pensavo che vi foste calati qualche strano cocktail insieme, che Alex si fosse sentito male per colpa tua, e glissassi per questo. C’erano gli estremi per scuoiarti in amicizia.

- Sono un po’ meno stronzo di quello che pensi – Gabriele assottiglia le palpebre, piccato – Da quando io e Thompson saremmo così intimi da andare a calarci un po’ di acidi in allegria? Piantala, Lastella, cazzo! Ti ho mai raccontato balle? Ti ho fatto qualcosa di male?

- Forse – Patrizio si dondola sulla sedia, le ginocchia strette al petto in posizione precaria – Ma lasciami almeno il dubbio. Cosa facciamo con Alex? Chiamo la guardia medica, il prete, mago Merlino?

- Se noti qualcosa di strano. Se dovesse stare peggio. Ma adesso sta bene, è solo un po’ intontito.

- Sei una miniera d’oro – Patrizio occhieggia verso Alex: sembra scivolato in un sonno leggero, accartocciato in una strana posa, le labbra semichiuse e un alone rosato soffuso sulle guance pallide.

- E tu così sospettoso che mi dai sui nervi– Gabriele lo osserva di sottecchi, il volto ostile.

- Gabriele, Gabriele… – Patrizio si avvicina con passo felpato e voce suadente e si stravacca al suo fianco. Sul bracciolo che cede sotto il suo peso.

È strano osservarlo da quell’angolazione, raccolto su sé stesso mentre sfugge il suo sguardo e preferisce concentrarsi sulle proprie unghie, i lineamenti scolpiti composti in un’espressione annoiata. La maglia che, in quella posizione, copre a malapena i fianchi; il cerchietto d’argento che gli trafigge il lobo dell’orecchio e luccica sotto il chiarore malaticcio dell’abat-jour, ogni volta che piega la testa. Le ciglia lunghe, l’ammiccamento casuale, le palpebre socchiuse. Forse non è poi così male. Quando tiene la bocca chiusa e finge che tu non esista. Quando non fa il misterioso del cazzo e si decide a parlar chiaro.

Patrizio sorride. Allunga la mano, giocoso, e gli sfiora la schiena – tra le scapole, dove salgono i brividi. Gli conta le vertebre. Scorre verso l’alto con le dita tiepide, verso i suoi capelli scuri, l’attaccatura a punta sulla nuca che gioca una strana forza d’attrazione. Dove la pelle è calda e vulnerabile.

- Finiscila…! – Gabriele si ritrae. Neanche troppo deciso. In bilico tra insofferenza e apatia. Qualche millimetro più in là, la testa incassata nelle spalle.

Non fai che esporti di più.

- Sei carino.

Patrizio gli sfiora l’orecchio e, sfidando la sorte, gli posa un bacio al centro della nuca. Gabriele si scosta: guizza come un serpente. Inarca il sopracciglio e lo fissa da sopra la spalla.

- Perché ti sto sul cazzo, Derossi? – Patrizio inghiotte a forza la risatina random che gli solletica la gola – È perché sono stato con Andrea?

- Credevo di essere io a starti sul cazzo – Gabriele solleva gli occhi al cielo – Pensi che ti racconti balle per il gusto di farti impazzire… Non so.

- Perdonami, eh, ma la tua storia è poco credibile. Conosco Tony, così, per sommi capi: non è un pazzo né un delinquente. Se per assurdo lo fosse, non agirebbe così… così poco anti-sgamo, ecco.

- Magari pensava che qualcuno lo coprisse – Gabriele si umetta le labbra – Qualcuno

- Qualcuno tipo? – Patrizio incalza.

- Non ne ho la più pallida idea – Gabriele mette le mani avanti, rassegnato – Te l’ho detto, è stato un secondo: ho visto che ha buttato qualcosa nella birra di Thompson e ha ripreso a lavorare come se niente fosse. Speravo di essermi sbagliato, te lo giuro: ci ho sperato fino all’ultimo. Poi vengo qui, vedo te con una faccia da morto riesumato dalla bara, Thompson semisvenuto e cotto a puntino… E allora dico, cazzo, non me lo sono sognato.

- Tienimi – Patrizio gli afferra la mano, le dita strette a tenaglia – Tienimi o faccio una strage. Tony…! Perché dovrebbe avercela con Alex? Perché gli avrebbe tirato questo scherzo orrendo? Perché è coglione? Ne hai parlato con qualcuno?

- Con nessuno a parte te – lo sguardo di Gabriele scioglie la sua presa – Volevo accertarmi che Alex, insomma… fosse davvero strafatto.

- Sei sicuro di quello che hai visto?

- Sicurissimo. Troppe coincidenze. Sono troppe.

- Io lo sbudello.

- Tu tieni le mani a posto e lasci fare a me! – Gabriele lo inchioda al divano, gli occhi fissi nei suoi con la stessa consistenza di due punte di spillo – Adesso aspettiamo che Alex stia un po’ meglio, tipo domani mattina. Poi andiamo a parlare col gestore del bar.

- E poi? – Patrizio aggrotta le sopracciglia, confuso.

- E poi scatta la denuncia. Nel caso – Gabriele si china a frugare dentro la borsa dimenticata ai piedi del divano come qualcosa di scarsa importanza – ho qui il… corpo del reato. Il Sacro Graal: chiamalo come preferisci – ammicca, sarcastico.

Patrizio gli straccia di mano il boccale usato; d’istinto, ci infila il naso. Il leggero retrogusto acre della birra, nulla di più.

- È inodore – Gabriele allunga la mano, il palmo verso l’altro come a reclamare lo scettro del potere – Se no, mica l’avrebbe fregato così. Ah, poi abbiamo anche Alberti…

- Ha visto anche lui? – Patrizio quasi grida.

- No, non ha visto nulla. Così dice. Ma ha visto me dare in escandescenze. Ricorderà, casualmente, che a un certo punto è successo qualcosa.

- Non vedo come potrebbe tornarci utile.

Gabriele gli scocca un sorriso a labbra tirate, un luccichio malevolo in fondo alle iridi.

- Alberti? Me lo rigiro in due secondi.

- Sei tremendo – Patrizio scuote il capo, rassegnato – Posso chiederti una cosa?

- Uh?

- Come va con Andrea? – l’ha detto: ora può attendere con calma la sua Caporetto. O la soluzione pacifica del conflitto.

- Come dovrebbe andare? – Gabriele si stringe nelle spalle: ha colto nel segno.

Distoglie lo sguardo, un mezzo sorriso imbarazzato.

- Va tutto bene – conclude Patrizio al suo posto, ghignando – Avete fatto l’amore?

Gabriele annuisce: sta al gioco.

- Se ti rispondessi ?

- Gliel’hai fatto quel giochino con la lingua… lì sopra, sulla punta dell’uccello? – sussurra, la mimica troppo eloquente per giocare sulla semplice allusione – Ne uscirà pazzo.

Gabriele scoppia a ridere, un’esplosione di un cremisi acceso che sale fino alla radice dei capelli. Non se l’aspettava: l’ha colto di sorpresa, è riuscito a giocare sull’imbarazzo per spuntargli qualche freccia.

- Tu non stai bene, Lastella…

- Sei stato bravo – Patrizio si piega su di lui, il clima di avversione e sospetto di qualche istante prima che deflagra in un abbraccio fraterno, col naso premuto contro il suo collo e un nodo che inspiegabilmente si scioglie, e il laccio scivola al suolo. Ha le braccia rigide lungo i fianchi, Gabriele, ma non sfugge al contatto.

- Piantala!

- Gabriele?

- Sì?

-. Nulla… – Patrizio si scioglie da quell’abbraccio azzardato e vagamente legnoso, ma solo per guardarlo in faccia – Grazie. Per Alex. Scusa se ho dubitato, ma… è tutto assurdo. Ne parlerò con lui.

- Con Tony?! – Gabriele arriccia il naso.

- Con Alex.

Gabriele scuote la testa.

Lascia stare, cazzo, lascia stare. Non importa.

Solleva lo sguardo, veleno iniettato al centro delle iridi d’ambra bruciata come quelle di un gatto. Brucia.

- Posso dirti io una cosa? Noi stiamo qui a sparare cazzate, ma lui se l’è vista brutta – accenna ad Alex collassato sul letto con la testa sotto l’ala, piegato e sconfitto – Stai attento ai tuoi… amici, Patrizio.

- Ah, quindi pensi sia stata un’idea loro?!

Ha alzato la voce. Più acuta del previsto, come la conseguenza di un calcio all’inguine sferrato di sorpresa. Una pugnalata vibrata a tradimento tra le scapole, così a fondo da forare il cuore. E il battito che riprende a martellare, a scavare tra le costole; accelera e impazzisce, un’ondata di gelo che gli fa tremare i polsi.

Il colpo che ti temevi e ti aspettavi, perché i tasselli che vanno al posto giusto sono troppi. L’angoscia che ti sei sforzato di ricacciare giù nello stomaco per negarti ciò che temevi, la tessera mancante che non vuoi vedere per conservare un barlume di speranza, la paura di impantanarti nell’equivoco del secolo. Non è un equivoco: è un fottuto, legittimo sospetto. È ciò che non vorresti, non vorresti razionalizzare, le fondamenta che tremano e rivelano il terreno acquitrinoso, l’impalcatura che deflagra al suolo e ti seppellisce tra le macerie.

Non è troppo tardi. Per scavare nel fango e occultare il cadavere.

Zitto, Derossi, per amor del cielo. Tu mi inquieti, mi fai paura: hai questa sincerità maledetta che ti spinge a cavare fuori il peggio da chiunque, a scoperchiare gli altarini. Con te non c’è eufemismo che tenga: sei puntuale come una freccia. E hai la dannata capacità di strappare il velo di Maya e farlo a pezzi, trasformare gli incubi in realtà. Non ti ringrazierò e non ti maledirò mai abbastanza.

Gabriele sospira.

- Non dico questo. Dico che… sono amici di Tony: faranno di tutto per coprirgli le spalle. Forse. E odiano Alex. Gli hanno spento una sigaretta sul braccio per qualche parola di troppo, ricordi?

- Non ti credo – Patrizio scuote la testa in un gesto infantile – È stato un incidente. Finché Alex non conferma la tua storia, per me è la tua parola contro la loro.

- Sei sicuro di conoscerli bene? – Gabriele inarca un sopracciglio – Così bene da non poter dubitare della loro buona fede?

No.

Patrizio annuisce.

- Li conosco.

- Da quanto tempo?

- Qualche mese – Patrizio distoglie lo sguardo e si morde l’unghia del pollice; stringe finché non fa male – Da quando abbiamo iniziato a suonare.

- E ti piace? – Gabriele liscia una piega immaginaria nei jeans, le labbra piegate in una smorfia incomprensibile – Suonare con loro…

- Se non mi andasse a genio, cosa ci andrei a fare?

- No, dicevo – Gabriele rotea lo sguardo verso il soffitto – Vi frequentate anche fuori dalla band?

- Sarebbe un po’ difficile non farlo, visto che ci incontriamo per forza a lezione e qui e… in giro.

- Bene – Gabriele annuisce: sembra quasi convinto – Se li conosci così a fondo, saprai perché ce l’hanno tanto con Alex.

Patrizio si stringe nelle spalle. Sussulta, l’impulso di piangere.

Non dargli questa soddisfazione: forse ci ha visto giusto sin dal primo momento e ride della tua beata ingenuità. Ma odia Basile. E si è preso Andrea. È schifosamente sicuro di sé, è un serpente, e ogni sua virgola sembra oro colato dispensato per il tuo bene.

- Tanti motivi. È l’ultimo arrivato, gli insegnanti pendono dalle sue labbra, pur non essendo questo gran talento. La Balducci stravede per lui, Basile sente odore di raccomandazione. Ha ottenuto lo stage al suo posto, lo stage per cui lui sputava sangue da tre anni. E Alex l’ha sfidato davanti a tutti. Va in giro vestito come un cazzo di emo. Probabilmente è gay. Secondo me no, secondo loro sì. È mio amico, l’ho difeso davanti a loro, e pensano che mi abbia plagiato.

- Non è emo. Forse non è neanche gay – rilancia Gabriele, in automatico.

- Lo so. Ma per loro non conta. Basile vede il mondo a tinte nette.

- E, dulcis in fundo, siete diventati amici. Per Basile è alto tradimento.

- Che devo fare? Spiegami! Dire sì, d’accordo, è come dici tu, quando spara cazzate? Chiudere tutti e due gli occhi per quieto vivere? – Patrizio sbuffa, l’isteria ai massimi storici.

Non dirmi che ho ragione. Di’ che scherzi, che giochi a fare l’avvocato del diavolo, che sono un idiota: qualunque cosa.

- Ti sei risposto da solo – gli soffia Gabriele.

- Quello che dici è vero. Ma ascoltami: non arriverebbero a tanto, con la complicità di Tony, poi… Tony! Perché dovrebbe giocarsi la fedina penale e il posto di lavoro per uno che conosce a malapena? Che gli rappresenta Alex di tanto negativo?

- Gay, raccomandato, darkettone. Freak fino alla punta dei piedi. Lingua affilata. Che musica ascolta? Gothic metal? Rock per casalinghe? – Gabriele è passato al mantra delle cazzate.

- Io li conosco: hanno i loro difetti, ma non sono dei teppisti. Basile ha questa corazza dell’uomo che non deve chiedere mai, ma sa anche ragionare. È un cagacazzo, okay, vuole l’ultima parola anche se crepi, ma non è un Riccardi, ecco. Piani è un giullare, a volte è un po’ pesante, ma non cattivo. Moro è tranquillo, un po’ così, succube di Basile, ma non farebbe male a una mosca. Tony, che motivi ha per odiare Alex? Può essere scorbutico quanto vuoi, ma…

- Sai una cosa, Patrizio Lastella? – Gabriele lo fissa negli occhi, gelido – Capisco che non voglia partire in quarta e accusare i tuoi amici. Ma spero che Alex abbia sentito la tua arringa difensiva per l’indifendibile. Che domani se ne ricordi e ti dia tanti calci in culo.

 

* * *

 

L’alba di un nuovo giorno, le lancette dell’orologio che marciano in tondo e gocce di luce cristallina che piovono dalle fessure tra le tapparelle. L’hai fatto di nuovo: il gioco del vendicatore improvvisato, il numero che ti riesce meglio, meglio di quello del depresso o dell’innamorato. Perché Derossi è tutte queste cose: difficile immaginarti diverso dalla sintesi delle sfaccettature che fatichi a conciliare, che non hai ancora imparato a gestire.

Quando c’è da sporcarsi le mani, però, sai farlo a regola d’arte, e Andrea non l’ha capito bene, perché è ancora ubriaco e reduce da un po’ di sesso fatto a regola d’arte e dal brusco cambio di rotta. Solo che prima o poi si sveglierà, passerà la sbronza, ti guarderà in faccia. E poi non ci sarete che voi, liberi di prendervi o strapparvi i capelli.

- Andre… scusa – Gabriele si chiude la porta alle spalle e ripone la chiave nel cestino accanto all’ingresso, un tintinnio che riecheggia nel silenzio.

Si strofina un occhio, un filo di mal di testa che galoppa lungo la fronte e si incunea in mezzo agli occhi.

Andrea emerge dal groviglio delle lenzuola in tutto il suo corredo di spalle nude, mugolii incomprensibili, occhi pesti di sonno e occhiaie da rockstar – non si può dire che abbia dormito: si è trascinato per l’intera giornata come uno zombie dall’aria sognante e gli occhi lucenti, in piedi per miracolo.

- È successo qualcosa? – borbotta, la voce impastata e uno sbadiglio trattenuto a fatica.

Gabriele lascia andare la borsa ai piedi dell’attaccapanni e arranca verso la poltrona incastrata nell’angolo e sommersa di vestiti. Si afferra il capo tra le mani, le dita che per poco non sprofondano nel cranio.

- Scusa se ti ho fatto aspettare. È successo un casino…

Il Casino.

Andrea aggrotta le sopracciglia e si passa una mano tra i capelli arruffati, uno scuotimento rapido di ciglia per snebbiare la vista e mettere a fuoco. La stanza in penombra e qualche cinguettio fuori dalla finestra.

Gabriele si torce le dita, il desiderio sotterraneo di un cicchetto da mandar giù per dominare l’ansia. Una sigaretta diversamente corretta, magari, ma non di fronte a lui: quella solo in casi di emergenza.

- Ero preoccupato – Andrea butta via le lenzuola e caracolla verso di lui, una vecchia maglietta gettata sulle spalle, tanto per presentarsi con qualcos’altro addosso oltre ai boxer.

Gabriele chiude gli occhi e sospira. Riprende a fissare il soffitto, a seguire il gioco di luci della strada. Sbuffa.

- Thompson si è sentito male – sputa via.

Gli occhi di Andrea guizzano, una scintilla di irritazione. Distoglie lo sguardo.

- E dagli, però! – gli soffia – Stavolta che ha fatto? Ha provato a tagliarsi ed è svenuto alla prima goccia di sangue? Ha bevuto senza accorgersi che era al limite?

- Andre, non fa ridere. Non c’è un cazzo da ridere! – Gabriele si tira i capelli all’indietro, il nervosismo che gli scava addosso voragini – Gli hanno buttato una pasticca nella birra. A tradimento. ‘fanculo, mi sembri Basile, quando parli così.

- Ehi! – Andrea scatta in piedi, punto sul vivo – Spero di essere almeno un po’ più bello – cinguetta – E d’accordo, scusa. Cercavo di alleggerire un po’, non dico che non me ne frega.

Non hai torto a volerla vedere meno drastica, perché così fa schifo. Fa tutto di nuovo schifo, e analizzarlo sotto la lente dello schifo non ti aiuta a digerire il boccone amaro – a deprimerti, magari. Sic et semper. Il solito, vecchio nido di arpie e serpi allo sbaraglio.

- Almeno tu hai un cervello, Andrea. Un cervello operante. E un briciolo di cuore.

- Oh! – Andrea spalanca gli occhi, due pozzi lucidi che succhiano via le ombre – Andrea, tu hai un cervello! È il miglior complimento che mi abbiano mai fatto… non me l’aveva mai detto nessuno – ridacchia.

Ma ora è tutto diverso: non sei un Alberti qualunque.

- Come sta Alex? – il suo volto torna serio, una piega allarmata che gli contrae la fronte.

Che mister “Non ho peli sulla lingua” gli stia cordialmente sulle scatole, ci sta: non tanto da gioire se qualcuno lo avvelena per scherzo. In fondo, anche Andrea è umano e lo sta dimostrando. La sua mente è un sostrato interessante.

- Come vuoi che stia… – Gabriele solleva gli occhi al cielo, un nodo avviluppato intorno alla gola – Come il motore quando fonde. Adesso dorme.

- E Patrizio? – Andrea si morde le labbra.

- Incazzato nero.

Fino a che punto scoprire le carte?

- Si sa chi è il genio? – Andrea si arrotola una ciocca di capelli intorno all’indice, soprappensiero.

- Puoi scommetterci – non vorrebbe, Gabriele, ma le labbra si stirano in un sorriso fuori luogo – L’ho visto con i miei occhi.

Andrea salta su come morso da uno scorpione.

- Non saranno arrivati a tanto…!

Gabriele si massaggia le tempie, ignorando l’allusione all’incognita-trio delle meraviglie: meglio lasciarli a bagnomaria. Per ora.

- Hai presente il cameriere, Tony? Quello che ti serve da bere e sembra lo faccia per la gloria? Quello che ti guarda come una vecchia stitica, se per caso indossi un piercing o una riga di kajal? Che ti sorride e subito dopo ti sputtana? Lui.

- Che testa di cazzo! – Andrea si stacca da lui e prende a passeggiare in tondo, i capelli arruffati che oscillano sopra delle scapole come una bandiera – Cosa vuoi fare?

- Secondo te? – Gabriele incrocia le braccia sul petto, un sorriso sempre più marcato che gli contrae lo zigomo – Quattro chiacchiere con il suo datore, così che gli faccia un culo quadrato. Per cominciare. Se poi Thompson vuole sporgere denuncia, io sono qui e di certo non mi tiro indietro.

Vietato fare il nome di Basile, mente ispiratrice di solenni carognate e strimpellacazzi a tempo perso. Almeno, fino a domani mattina, fino a che la trappola non scatta.

- Uhm… – Andrea annuisce, non troppo convinto – Tu sei peggio di me: non sai tenere la bocca chiusa, sempre lì a rimestare nel fango. Prova a dirmi un’altra volta “oh, ma tu Riccardi devi lasciarlo perdere, non vale la pena” … E mi ricorderò di riderti in faccia. Vuoi fare l’eroe, stavolta?

Non sai quanto, dopo che mi sono nascosto per mesi.

- È un po’ diverso, Andre: qualcuno ha oltrepassato il limite, e di tanto. Come l’ha oltrepassato Riccardi con la questione dello spray per l’asma e del gatto.

Andrea stira le braccia davanti a sé, le dita intrecciate.

- Questa è storia – miagola, un ghignetto saputo – Riccardi mi vuole morto perché gli rispondo per le rime e lo ritengo un coglione, perché sono bisessuale e devo bruciare all’inferno. Logico, no? Tony non sopporta il goticone Thompson, quindi... – Andrea si batte una mano sulla fronte, teatrale e vagamente nevrotico – Come ho fatto a non pensarci prima? Ma sì, quasi quasi gli verso un po’ di droga nel bicchiere, sai poi le risate?

- Il principio è questo, più o meno – Gabriele assottiglia le palpebre, concentrandosi su un punto casuale sulla parete bianca – No – conclude, il disgusto che tracima oltre le labbra – Non lo so e non voglio saperlo. Cos’hanno nella testa, se sono dei sadici, se sono annoiati, se non capiscono dov’è che il gioco non è più un gioco, se lo fanno perché sanno di poterlo fare, se devono smaltirsi i traumi infantili della mamma che se la fa col postino. Ho paura, sì, quanto basta. Mi fanno paura – scuote il capo – E questa è legittima difesa, se permetti.

Gabriele sospira. La cosa più indecente fra tutte è il piacere fulminante, quando Galileus si stamperà nella mente la faccia di Ivan Basile che cede alle sue condizioni – lui, così altezzoso da non toccare terra quando cammina. Lui che li disprezza tutti.

La faccia di Neri, di Riccardi, di Alberti, di Andrea nei tempi che furono – l’equazione è la stessa, non importa: la variabile infinitesimale che fa sì che il reuccio sadico di turno si infogni con le sue mani, e allora non resta che dare una spinta al karma. Galileus in fondo si limita ad accelerare processi in atto, strumento di circostanze che lo vogliono presente al momento giusto, testimone scomodo. Galileus porta alla luce ciò che esiste già, la rovina che Fabio Neri, Federico Riccardi, Alessandro Alberti, Andrea Nicoletti o Ivan Basile o chi per loro, si sono già costruiti da soli.

Perché una volta c’eri tu nei panni del perdente, di quello che doveva stare zitto e costretto in un angolo a incassare i pugni nello stomaco: brandire di nuovo, senza pretese, il fottuto coltello dalla parte giusta, è ciò che ti condanna e ti attrae come un magnete. Il piacere di raddrizzare il torto e accanirti sul carnefice trasformato in vittima, di decidere tu se è il caso di colpire di nascosto o di mostrare la faccia. Il potere di far schizzare l’ago della bilancia dove desideri.

Eppure lo sapevi, lei te l’aveva detto: il liquore dolce della vendetta, attento a non abusarne, perché è una droga, un vortice infinito. Ti senti giudice e boia e burattinaio che tira i fili fino a romperli, fino a spezzare il circolo vizioso. Ti senti onnipotente mentre applichi il tuo personale concetto di giustizia, perché puoi farlo e lo farai – non diversamente da Neri che seduce Andrea con il fascino del professore quarantenne intrallazzato, da Basile che ritiene fattibile crocifiggere Alex ogni santo giorno, perché ha attentato alla sua maestà e deve pagarla per il resto dei suoi giorni. Alla fine il cerchio si chiude.

Ma startene con le mani in mano, aspettare che un Tony qualsiasi ripulisca da solo la propria merda, quando non lo farà mai, perché in fondo scherzare sulla pelle di Alex è divertente e lo fa sentire un dio, sarebbe la morte.

E Tony non deve pagare per il piacere perverso di Galileus o di Gabriele, per uccidere simbolicamente il tuo male. Deve solo sparire dai tuoi orizzonti immediati.

- Andre, andiamo a dormire.

Le cinque del mattino e nessuno ha più chiuso occhio. Il tempo di cacciar fuori il cellulare dalla tasca, battere velocemente sui tasti, cercare Anna in rubrica, e poi sei solo per lui. Che sospira e ti chiede di tacere, per una volta.

 

Avevi ragione, Anna. È miele.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=324339