Il giorno in cui diventerò una farfalla

di Crow17
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno - ARGO ***
Capitolo 2: *** Capitolo due - ATLAS ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre - BLUMEI ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro - BIANOR ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque - NYMPALIDAE ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno - ARGO ***


Capitolo uno - ARGO

Erano le sei. Lo capii dal frastuono delle campane. La neve scendeva copiosa, e il freddo pungente dell’inverno inoltrato penetrava fino alle ossa. Ma non ci feci caso. Arrivava sempre in ritardo a scuola, quindi non era il caso di preoccuparsi per la sua lentezza. Mi decisi ad aspettarlo finché non sarebbe arrivato. Lo amavo, e avrei fatto qualunque cosa per lui.
Guardavo insistentemente il cellulare, in attesa di un suo messaggio o chiamata, che non arrivò. Rivolsi gli occhi al cielo, paziente, e mi persi ad osservare le nuvole bianche che volteggiavano.
“È il colore dei suoi occhi” sussurrai.
Le campane, così fastidiose a ricordarmi il suo ritardo, suonarono ancora. Erano già le otto. Avevamo detto di incontrarci davanti al cinema alle tre del pomeriggio. Me lo chiese due settimane fa, in un giorno nevoso identico a questo. Persone estranee mi sfilavano davanti agli occhi, guardandomi con aria compassionevole. Chissà qual era la mia espressione. Ma quel giorno non mi importava molto saperlo, avevo ben altre idee per la testa. Lui mi aveva chiesto di uscire, tutto il resto era nulla.
Mi ricordo bene la prima volta che lo vidi, quasi un anno fa. Capelli spettinati  e con maglietta blu e bermuda grigi, continuava a sorridere a tutta la gente che incontrava per i corridoi della scuola. Io, un anno più piccola, mi ero rannicchiata dietro gli armadietti per poterlo osservare indisturbata. Ai miei occhi era perfetto, e cominciai subito ad amarlo. Conoscevo solo il suo nome: Alec Kayne. Lui non mi conosceva affatto, forse non mi aveva nemmeno mai vista. Nonostante questo, continuai imperterrita a covare il mio amore.
Fino ad oggi.
Undici rintocchi. Intrappolata nei ricordi di quel giorno, non mi ero neppure accorta che fosse così tardi. Lo aspettai ancora, decisa a vederlo. Una vocina nella mia testa mi diceva di rinunciare, di tornare a casa. Avevo preso la mia decisione di attenderlo, e avrei atteso.
Sospirai. Il freddo si era fatto molto intenso, ma non me ne andai. La folla che fuoriusciva dal cinema era sempre minore.
Controllai l’ora nello schermo del mio telefono preistorico: le due e un quarto del mattino. Ai miei genitori avevo raccontato che sarei andata a dormire da un’amica, quindi non si sarebbero preoccupati. Era una mezza verità, non una totale bugia. Dopo l’appuntamento con Alec dovevo andare dalla mia migliore amica e compagna di scuola Christine, che mi avrebbe ospitato per la notte a patto che le avessi raccontato per filo e per segno la mia uscita con Alec.
Chiusi gli occhi. La stanchezza iniziava a farsi sentire, e l’intorpidimento causato dal freddo mi impediva di muovermi normalmente.
Mi accasciai lentamente a terra, sempre ad occhi chiusi, persa nei miei pensieri annebbiati dal sonno. Presi il cellulare dalla tasca del cappotto con una mano infreddolita. Nessun messaggio. Nessun segno di lui.
Prima di cedere al dolce tepore dell’incoscienza, un pensiero mi balenò nella mente.
“E se mi avesse mentito? Se fosse tutto uno scherzo crudele? E se…”
Una lacrima gelata cadde dai miei occhi stanchi, quasi ad indicare la fine.
Morii. 

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Capitolo 2
*** Capitolo due - ATLAS ***


Riaprii gli occhi. Non c’era nulla, nemmeno io. Eppure sapevo di esserci, sapevo di esistere ancora.
Non avevo la minima idea di dove mi trovassi ma, come ormai avrete capito, non mi interessava. Il mio pensiero era rivolto a lui. Dove si trovava? Stava bene?
Una fitta al cuore mi distolse dai miei pensieri. Guardai in basso. Non avevo nemmeno un cuore, come poteva farmi male?
Tap, tap, tap…
Passi. C’è qualcun altro, oltre a me. Iniziai a correre verso quel rumore sempre più flebile. Non avevo gambe per correre, e nemmeno braccia per darmi lo slancio. Corsi comunque a perdifiato verso quei passi, come se fossero la mia ultima salvezza.
Mi fermai ad ascoltare, ma non sentii più alcun rumore. Come il nulla che mi circondava, anche quel silenzio era opprimente.
“Cosa stai guardando?”
Mi voltai di scatto, ma non c’era nessuno. La voce, però, mi era estremamente familiare.
La voce cominciò a ridere. “Dovresti vedere la tua faccia! È veramente spassosa! Sono davvero in grado di fare questo genere di espressioni? Io, che vengo chiamata la ‘Regina di Ghiaccio’?”
Una nuova risata, crudele, proprio dietro di me. Mi voltai di nuovo, e ciò che vidi non aveva alcun senso. Di fronte, in piedi, stava una ragazza identica a me, e allo stesso tempo totalmente diversa.
“Chi sei tu?” La mia voce tremava, perché avevo il timore di conoscere la risposta.
“Come, chi sono io?” La ragazza scoppiò a ridere. “Dopo quasi diciassette anni che ti guardi allo specchio non sei ancora in grado di riconoscerti?” Cominciò ad applaudire. “Aah! Povera Ophelia! Quel ragazzo ti ha proprio rovinata, eh? Come si chiamava? Alex, Adam… George… No, non è quello…”
“È Alec!” urlai, quasi in lacrime. “Smettila di dire cose così crudeli! Non ci capisco più nulla! Chi sei tu? Cos’è questo posto? Perché sono finita qui?”.
“Visto che insisti, te lo dirò” ghignò la ragazza, “anche se non penso ti piacerà affatto ciò che sto per dirti”. Un’espressione seria, quasi grave, si dipinse sul suo volto. “Cominciamo dalle presentazioni: io sono Ophelia Moore, ho diciassette anni e vivo…”.
“Stai mentendo” la interruppi, urlando. “Tu non puoi essere me!”.
L’altra me mi lanciò uno sguardo da gelare il sangue nelle vene.
“Non interrompermi!” sibilò. “Dicevamo… Ah sì! Abito nella città di Ipswich, nella contea del Suffolk, in Inghilterra. Frequento la Ipswich School, e la mia migliore amica, nonché vicina di banco, si chiama Christine Jones. Tutto questo ti ricorda qualcuno, piccola Ophi?” Sfoderò ancora quel suo ghigno malizioso, senza mai distogliere lo sguardo dai miei occhi impauriti. Non sapevo cosa rispondere. Il terrore che provai in quel momento è impossibile da descrivere.
“Ti chiedi dove siamo e perché sei finita qui. Beh, sei qui perché… sei morta. Hai presente l’appuntamento al quale Alec ti ha dato buca? Ecco, i medici dicono…”.
Non la ascoltavo più. Non volevo più sentire una parola. L’ultima che avevo sentito mi aveva distrutta. Sono morta. “Sciocchezze!”pensai, “Non sono morta! Stavo aspettando Alec fuori dal cinema, faceva freddo e…”
Raggelai. Sentivo le mie non-gambe molli e instabili, poi caddi. Non passarono nemmeno due secondi che scoppiai in lacrime. L’altra me se ne stava in silenzio, dopo aver finito il racconto.
Passarono  minuti. Ore. Non so nemmeno quanto tempo rimasi lì a piangere. Non tanto per essere morta giovane, quanto per il fatto che non avrei mai più rivisto lui. Lui era la cosa più importante della mia vita, non potevo permettermi di lasciarmela scappare così tra le dita.
Dopo un tempo che mi sembrò infinito, mi asciugai le lacrime. Bruciante di determinazione, sapevo cosa dovevo fare. Ma non avevo idea del come. Mi guardai intorno, cercando una via d’uscita. Non c’era nulla, nemmeno uno spiraglio. Tutto era uguale ovunque guardassi. La ragazza che si spacciava per me non c’era da nessuna parte. “Meglio così” pensai, sarcastica. “Non mi avrebbe aiutato comunque”.
“Mi hai chiamata?”. Spuntò dal nulla, ghignando, esattamente come era svanita.
“Parli del diavolo…” borbottai. Non le bastava avermi ucciso mentalmente, voleva sicuramente rigirare il coltello nella piaga. Decisi di ignorarla, e iniziai a camminare. Non sapevo dove portasse la mia strada immaginaria, ma era sempre meglio che starsene lì con le mani in mano, aspettando qualcosa che non sarebbe mai arrivato.
“Hai intenzione di ignorarmi? Ti conosco come le mie tasche, non puoi mentirmi”disse, cominciando a seguirmi. Ancora quel ghigno.
Continuai ad ignorarla. “Non distrarti, Ophelia! Devi cercare una via d’uscita, devi andartene da qui!”. Continuavo a ripetere questa frase fra me e me, incitandomi a non mollare.
“Ah! Adesso ho capito! Stai cercando di fuggire da qui, non è vero?”. Mi superò per potermi sbarrare la strada, facendomi la linguaccia. “Io so come uscire! Esco spesso per farmi un giro, sennò sarei già morta di noia!”.
La guardai con espressione incredula. “Davvero sai come uscire da qui? E saresti disposta a dirmelo?”.
“Per chi mi hai preso, scusa? Ti sembro forse la matrigna cattiva di cenerentola? Andiamo, è ovvio che voglio dirtelo! Dopotutto, io sono te e tu sei me”.
Iniziai a piangere di gioia. “Grazie, grazie, grazie!” ripetei, abbracciandola di slancio.
“Che schifo! Staccati subito da me, o rovinerai l’immagine da dura che mi sono costruita!”, Mi allontanai di scatto, preoccupata che cambiasse idea sull’aiutarmi. “Oh, grazie al cielo. Bene, possiamo iniziare il viaggio, allora.”
Si avvicinò a me, quasi per abbracciarmi, con un’espressione dolce che non le si addiceva.
Mi avvicinai, fiduciosa, allargando le braccia. Ma non ci fu un abbraccio ad accogliermi.
Nascosto nella manica della sua maglia, un paletto di legno era stato conficcato dove un tempo si trovava il mio stomaco. Avvicinò la sua bocca al mio orecchio, sussurrando parole incomprensibili. Poi capii.
Mi disse “Ci vediamo dall’altra parte”.

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Capitolo 3
*** Capitolo tre - BLUMEI ***


“La mia piccola… Perché… Perché proprio tu?”. Dei singhiozzi lontani le facevano tremare la voce.
Mamma? Perché stai piangendo?
“Ophelia, la mia bambina... Non la…”. Ancora singhiozzi.
Non riesco a sentirti! Dove sei? Mamma!
“Tesoro, smettila. La nostra Ophelia non c’è più. Lascia che riposi in pace, non facciamola preoccupare per noi ora che è felice”. Il tono di mio padre era grave. Sembrava avesse pianto per ore.
Una sedia si mosse, proprio accanto a me. Se ne stavano andando.
Mamma! Papà! Sono qui! Vi prego, non andate via!
Dovevo fermarli. Cercai di alzarmi, ma sentivo il corpo bloccato da un macigno. Ci riprovai, ma nulla. Provai a parlare. Nessun suono. Dopo vari tentativi, dalla bocca mi uscì un rantolo. Il chiacchiericcio che prima era nella stanza si placò. L’avevano sentito! Con tutta la determinazione in mio possesso riprovai a dire qualcosa. Niente. Perché non riuscivo a parlare? Cercai di fare un respiro profondo. Non ci riuscii. Ecco cosa non andava: mancava aria nei polmoni. E, a quanto pare, non aveva nemmeno intenzione di entrarci. Stupida aria! Un altro respiro profondo. Questo, finalmente, funzionò.
“Mamma? Dove sei?” Avevo la voce molto roca, non sapevo nemmeno se si capissero le mie parole. Aprii gli occhi.
“Oh, Dio! Ophelia!”. Mia madre corse ad abbracciarmi. Era così calda… Sentivo le sue tiepide lacrime bagnarmi la guancia. Chissà per quanto aveva pianto per me, eppure era riuscita a tirare fuori ancora lacrime per esprimere la sua gioia.
“Sei proprio tu, Ophi?”. Era il solito, mio padre. Una persona composta, non si lasciava mai prendere troppo dalle emozioni. Oggi no. Aveva un’espressione incredula, anche lui con le lacrime che solcavano gli zigomi pronunciati del suo magro viso.
“Ciao papà”. Non trovai niente di meglio da dire, né a lui né a mia madre. Rimanemmo in quella posizione per un po’. Mio padre in piedi, sullo stipite della porta, osservava ancora incredulo me e mia madre abbracciate.
Fu mia madre la prima a muoversi. “Tesoro, sei congelata! Vieni, torniamocene a casa. Ti preparerò un bel bagno caldo e un po’ di cibo. Sarai affamata, immagino”. Mi aiutò ad alzarmi. Non avevo notato su cosa fossi distesa finché non fui sollevata da mia madre. Una bara. Cercai di nascondere il mio orrore. Ero viva, e stavo tornando a casa. Mio padre, vedendo mia madre in difficoltà a spostarmi, decise di intervenire. Uscimmo tutti e tre da quell’orribile stanza lentamente, quasi come se i miei volessero riprendersi tutto il tempo perduto durante la mia morte “apparente”.
Incontrammo gli addetti delle pompe funebri nel corridoio verso l’uscita. Nessuno dei miei genitori si staccò dal nostro goffo abbraccio per parlare con loro.
“Non c’è più bisogno dei vostri servigi, signori”. Iniziò mio padre la conversazione. “Come vedete, mia figlia è viva, e sta bene. Quindi noi ce ne andiamo. Arrivederci”. Non aspettammo nemmeno la loro riposta.
Usciti dall’edificio mia madre mi aiutò a salire nei posti posteriori dell’auto, per poi sedersi accanto a me. Non avevo ancora ripreso il totale controllo del mio corpo, perciò necessitavo del suo aiuto. Non avevo mai passato così tanto tempo insieme a loro, erano sempre occupati con il lavoro. Mio padre lavorava come direttore in un’azienda di cosmetici, mentre mia madre faceva la pittrice. Ogni giorno, quando mi svegliavo, loro erano già usciti per andare al lavoro. Li rivedevo solo la sera a cena.
Ero felice che loro fossero lì con me.
Il tragitto verso casa non mi era mai sembrato così breve, e prima che me ne accorgessi eravamo già dentro il cancello. Mi aiutarono a scendere dall’auto e mi portarono dentro.
“Vado a preparare il bagno, tesoro”. Mia madre sparì di corsa su per le scale.
Mio padre mi adagiò sul divano, distesa,e andò in cucina a prepararmi un tè caldo e qualcosa da mangiare. Guardai fuori dalla finestra, in attesa. L’inverno imperversava ancora per le strade, e il freddo non permetteva ai bambini di uscire a giocare.
Un fiocco di neve cadde sul davanzale, e poco dopo iniziò a nevicare. Rimasi incantata da quello spettacolo, quasi fosse la mia prima volta. Non potei fare a meno di pensare a quanto fosse bello, e allo stesso tempo triste, essere un piccolo e fragile fiocco di neve.
Cosa starà facendo Alec, ora? Che si sia dimenticato di me?
 Non potei fare a meno di pensarlo. Ero ancora innamorata di lui, dopotutto.
“Il bagno è pronto, cara. Vieni, ti aiuto.” Mia madre mi aiutò ad alzarmi, e mi accompagnò di sopra in bagno. Mi tolse i vestiti e mi aiutò ad immergermi dentro la vasca. L’acqua era piacevolmente calda, e il profumo del mio bagnoschiuma preferito, all’essenza di rosa, era estremamente rilassante.
“Abbassati un po’, tesoro. Ti va se ti lavo io?”. Era leggermente riluttante. Forse aveva paura di un no come risposta. Non le risposi subito. Ero commossa. L’ultima volta che fece questa domanda  frequentavo la seconda elementare. Mi ero ammalata di morbillo ed ero stata ricoverata in ospedale.
“Grazie, mamma. Di tutto.” Pensavo fosse una risposta troppo vaga, così riflettei su cos’altro aggiungere e guardai la guardai in faccia. Aveva le lacrime, ma sorrideva. L’avevo resa felice solo con quelle parole. Le sorrisi di rimando, e cercai di abbracciarla. Ero ancora molto goffa, ma lei capì al volo le mie intenzioni. Mi strinse forte contro il suo petto, accarezzandomi dolcemente la testa.
Si staccò da me con delicatezza, e cominciò a lavarmi i capelli. Poi passò al corpo. Stava molto attenta quando mi toccava, come se fossi stata una piccola e fragile bambola di porcellana.
Dopo aver finito, mi accompagnò in cucina. Riuscivo a camminare da sola, ma mia madre insistette a volermi seguire. Mi accomodai a tavola assieme a mio padre. Come promesso, una tazza di tè ai frutti rossi fumante attendeva, accompagnato da un piccolo sandwich vegetariano.
Nonostante erano i miei cibi preferiti, in quel momento non mi allettarono affatto. Non avevo fame, ma cercai comunque di buttar giù qualche sorso di tè per non far preoccupare i miei genitori, che in quel momento mi fissavano. Mi sentivo un po’ a disagio con i loro sguardi addosso, ma preferii non farlo notare.
Guardai l’orologio della cucina, cercando di distrarmi un po’. Le tre del pomeriggio.
Ebbi un tuffo al cuore. Cominciai ad agitarmi, fino a cadere dalla sedia. Distesa sul pavimento, cominciai ad urlare. Urlai con tutta la forza che avevo. Non poteva essere una coincidenza. Era l’orario dell’appuntamento con Alec, il giorno che finì tutto.
“Cosa ti succede, Ophelia? James, fermala!” Mio padre si buttò ad abbracciarmi, per poter fermare la mia pazzia.
“Ophelia! Ophelia, calmati. C’è papà con te, non devi avere paura. Calmati, tesoro.”
La sua voce calma e rassicurante mi convinse a smettere di urlare e dimenarmi, ma il mio respiro affannoso non accennava a rallentare.
“Brava, così.” Mio padre strinse l’abbraccio, rassicurandomi ancora. Mia madre aveva immerso un fazzoletto in acqua fredda, e lo posò sulla mia fronte. Quel tocco gelato mi fece tornare la lucidità e il controllo su me stessa. Rallentai il respiro, fino quasi ad estinguerlo, e mi lasciai andare totalmente tra le braccia di mio padre.
“Ho tanta sonno… Papà…” biascicai, guardando mio padre dritto negli occhi.
“Ho capito, piccola. Ti porto subito in camera tua.”
Mi portò di peso fino in camera mia, al secondo piano. Lì, mi depose sul letto, coprendomi con il mio trapuntone invernale.
“Se hai bisogno di qualunque cosa, non esitare a chiamarci. Noi siamo di sotto, in cucina.”
Allungai una mano, aggrappandomi alla sua camicia. “Non.. andate via… Rimanete qui... Io non voglio… da sola…”
I miei genitori si guardarono, poi mio padre disse: “D’accordo. Staremo qui con te, non ti preoccupare. Non ce ne andremo, quindi dormi tranquilla, tesoro.”
Allentai la presa, e li guardai con occhi stanchi.
“Grazie…”
Grazie di tutto. Vi voglio bene.
Caddi subito dopo in un sonno profondo, senza avere il tempo di finire la frase.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro - BIANOR ***


Capitolo quattro – BIANOR

Ancora questo posto. Ancora il nulla.
“Bentornata!”. L'altra me mi fissava, con il solito ghigno stampato in faccia.
“Perché sono ancora qui?” chiesi, confusa.
“Questo è il tuo inconscio, Ophelia. Capiterai qui ogni volta che ti addormenterai, quindi mettiti l'anima in pace.” Continuava a fissarmi, come se si aspettasse qualcosa da me.
“Cos'hai da guardare?” dissi, scocciata. Non mi piaceva che le persone mi squadrassero da capo a piedi, lei meno di tutti.
“Nulla di particolare” rispose, “mi chiedevo solo quando ti accorgerai dell'errore che hai commesso, tornando indietro, al tuo mondo...”. Il suo sguardo era inquisitorio, con un piccolo accenno di compassione.
“Errore?”. Ero sempre più confusa. “Non c'è stato nessun errore. E' già capitato di gente che sembrava morta, ma che è tornata 'in vita' qualche giorno dopo.” Avevo letto parecchi articoli di giornale al riguardo, quindi ero preparatissima sull'argomento.
“A quanto pare non hai nemmeno capito in che situazione ti trovi. Non comincio nemmeno a spiegartela, tanto non mi daresti  ascolto.” Mi lanciò un ultimo sguardo gelido, prima di darmi le spalle. A passo lento, si avviò all'interno del nulla. Alzò la mano, in segno di saluto, congedandosi.
“Prima o poi capirai da sola. Ah, quasi dimenticavo!” Si girò a guardarmi con uno sguardo serio. “Stai solo attenta a non uscire troppo sotto il sole, anche se è inverno. Ed evita i luoghi sacri. Lo dico per il tuo bene.”
Mi sorrise.
“Ci vedremo presto, Ophelia.” Un inchino, poi sparì.
Non avevo capito cosa voleva dirmi, così non diedi molto peso alle sue parole. Cosa significava 'stai lontano dai luoghi sacri'? La religione non aveva mai ucciso nessuno negli ultimi tempi, sicuramente stava scherzando.
Chiusi gli occhi, imponendomi di svegliarmi.
Li riaprii, trovandomi nella mia stanza. Afferrai la sveglia: le due del mattino. Avevo davvero dormito così poco?
Guardai la data sul display.  Era il 2 gennaio.
Balzai giù dal letto, gettando a terra le coperte. Goffa e addormentata, caddi a terra, sbattendo i gomiti. Avevo dormito per quattro giorni interi.
Mi alzai dal pavimento e mi avviai verso il bagno. Decisi di farmi un bagno caldo e, finito quello, mi sarei dedicata a ceretta, capelli e viso. A fare tutto quanto ci misi meno del previsto, perché quando diedi un'occhiata all'orologio era passata solo mezz'ora. Tornata in camera e iniziai a vestirmi. Scelsi abiti che normalmente non avrei mai indossato, se non per delle feste in maschera. Tirai fuori dall'armadio gonne di pizzo e satin, corpetti e camicie, il tutto rigorosamente nero. Non sapevo nemmeno di avere tutta quella roba strana, ma non ci feci tanto caso. Erano abiti adatti al mio umore, quindi andavano benissimo.
Mi vestii e, senza fare rumore per evitare di svegliare i miei genitori, mi misi il cappotto e uscii.
L'aria del mattino, sicuramente fredda, non mi provocò nessun brivido. Anzi, la trovai quasi piacevole.
La mia città era ancora avvolta nelle tenebre e nella neve. Camminai per ore, girando per il paese, senza una meta precisa. Senza accorgermene ero finita nel quartiere più vecchio della città, dove vivevano solamente quattro antichi casati, fondatori di Ipswich: Danvers, Parry, Garwin e Simms. Nonostante le abitazioni fossero solo quattro, erano talmente grandi che occupavano un quinto del territorio cittadino. Mi fermai ad ammirare una di quelle meravigliose ville. Le luci all'interno erano ancora accese. Un desiderio irrefrenabile s'impossessò di me. Volevo entrare in quella casa, volevo conoscerli. I figli delle quattro famiglie erano della mia stessa scuola, e stavano sempre assieme. Non parlavano mai con nessuno, tranne per rispondere a qualche domanda occasionale. Stavo per suonare il campanello, ma mi fermai. Sarebbe stato scortese disturbarli alle quattro del mattino. Cominciai a correre, allontanandomi da quelle case. Strani pensieri mi turbinavano nella mente, e lo stare lì non mi avrebbe affatto aiutata. Mi fermai solo quando ero sicura di essere abbastanza distante da quel luogo. Respirai profondamente, cercando di calmarmi.
Cosa ti è preso? Calmati, stupida!
Mi accorsi di essere finita in un piccolo parco, pieno di giostre per bambini.
L'alba stava iniziando a colorare il cielo di un rosa chiaro, segno che sarei dovuta tornare a casa quanto prima, o i miei genitori si sarebbero preoccupati.
Mi accomodai su una panchina per poter ammirare quel miracolo.
Dopo pochi minuti spuntò il sole.
Il senso di benessere che provavo prima svanì in un istante. Un senso di nausea e smarrimento si impossessò di me, costringendomi a chiudere gli occhi. Più il tempo passava, e più quella sensazione terrificante aumentava di intensità.
Mi alzai. Le gambe mi tremavano, ma cercai comunque di correre. Dovevo andare via di lì, dovevo nascondermi. Non avevo abbastanza tempo per tornare a casa, sarei morta prima di allora. Passai di nuovo davanti alle ville. Mi circondavano come sbarre.
Uno dei cancelli era aperto, e all'interno una casetta di legno mi chiamava, offrendomi pace e buio. Non ci pensai due volte, ed entrai. Attraversai di corsa il cortile, infilandomi di slancio dentro lo sgabuzzino. Chiusi velocemente la porta, poi fu buio.
Cercai di regolarizzare il respiro. Il senso di nausea era svanito, ma la paura era ancora forte. Sperai che nessuno mi avesse visto.
Andiamo, pensai, chi vuoi che sia sveglio alle sei del mattino?
Errore.
Quel giorno iniziava la scuola. Di lì a poco Matt Garwin sarebbe uscito per andarci.
Sicuramente non mi ha visto, si starà ancora preparando.
Altro errore.
Bloccai il mio respiro. Dei passi si avvicinavano.
Chiusi gli occhi, sperando che non si avvicinasse. Strisciai sotto un telo che puzzava di muffa, non volevo essere scoperta.
Se mi vedono, passerò dei brutti guai. E mi butteranno fuori, sotto il sole.
Mi feci piccola piccola in quello spazio angusto, e aspettai.
Ancora passi, sempre più vicini. Un rumore di porta che si apriva. Vicinissimo.
E' qui!
La porta si richiuse.
Buttai fuori dai polmoni l'aria trattenuta fino a quel momento, sollevata. Non mi avevano scoperta, quindi  potevo uscire dal telo e mettermi comoda. Mi alzai e iniziai a sbattere via la polvere dalla gonna.
Finalmente pulita, alzai lo sguardo, respirando profondamente.
Per poco non andai a sbattere contro il suo torace.
Matt Garwin era lì che mi fissava. Uno sguardo cupo e severo allo stesso tempo mi trafisse in pieno petto.
Tutti gli sforzi fatti per regolarizzare il respiro fallirono in meno di un secondo. Iniziai ad ansimare.
Caddi a terra. Ero in piena crisi di panico, ma dovevo dirgli qualcosa.
“S...Scu.. Scusa..mi. I-io non volevo.. en..trare..ma..” Mi bloccai. L'aria si rifiutava di entrare nei polmoni.
Probabilmente lui capì al volo che non sarei riuscita a dire di più.
Si avvicinò a me, lentamente, con le mani alzate.
“Non voglio farti del male. Stai tranquilla.”
Si avvicinò ancora, addolcendo un po' lo sguardo. Io ero ancora nel panico, nonostante lui cercasse di tranquillizzarmi.
Matt Garwin allungò una mano, sempre lentamente, e la posò sulla mia fronte.
Era un gesto innocente. Eppure dentro di me scattò qualcosa. Istinto di sopravvivenza?
Iniziai a ringhiare, ritirandomi dal suo tocco.
Lui allontanò di poco la mano, ma non si ritrasse. Rimase lì, a meno di mezzo metro da me. Il suo volto era tranquillo, come se il mio comportamento non fosse nuovo per lui.
Avevo i sensi a mille. Fu allora che mi arrivò il suo profumo. Menta piperita e biscotti al burro. 
Socchiusi gli occhi. Quel profumo sapeva di casa.
“Va meglio?”. Il suo tono di voce era troppo calmo. Non aveva vacillato, neanche per un secondo. Era rimasto lì,  con una pazza, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Alzai lentamente il mio sguardo verso di lui. Provai a parlare.
“Pe... Penso di sì...”.
Mi aiutò ad alzarmi. Avevo le gambe molli, ma lui continuò a sorreggermi. Aveva i modi un po' rudi, ma gli ero grata per l'aiuto che mi stava dando.
“Cosa ci facevi nel mio giardino?” Il suo sguardo non era cambiato. Era ancora serio, ma con una punta di dolcezza.
“Ecco.. Veramente...”. Cercai di riorganizzare i miei pensieri, in modo da formare una frase comprensibile.
“Stavo facendo una passeggiata... Una panchina nel parco.. Poi è apparso il sole... Sono caduta.. Il sandwich...”
Non andava bene. Scossi la testa per schiarirmi le idee.
“Cosa c'entra il sandwich?”
“Nulla” ammisi.
“Comincia dall'inizio. Con calma.”
Annuii. “Ero uscita per fare una passeggiata, e mi sono ritrovata nel parchetto qui vicino. Mi sono seduta a guardare l'alba.. Poi si è alzato il sole.. Mi sono sentita male e sono entrata in panico.. Ho visto questo deposito, dentro era buio, e così...”
Mi vergognai. Era una storia assurda. Nessuno si sente male per essere stato un secondo al sole.
Un'espressione curiosa si dipinse sul suo viso. Mi osservava attentamente, dalla testa ai piedi. Sembrava si fosse perso nei suoi pensieri. Si avvicinò un poco, sfiorandomi la fronte. Non so cosa successe, ma una tristezza infinita apparve nel suo sguardo.
“Che c'è?”. Ero preoccupata.
I suoi occhi si posarono sui miei. Nei suoi vi lessi solo rabbia e disperazione.
Durò un attimo, poi tornò calmo e affabile come prima.
Fu lui il primo a parlare dopo quella breve pausa.
“Come ti chiami?”
“Ophelia Moore” risposi. Mi sentii una stupida a non essermi presentata prima.
“Io sono Matt Garwin”. Mi tese la mano. La afferrai subito, non volevo che si offendesse. Era fredda e stranamente rigida.
“Lo so chi sei. Siamo nella stessa scuola, ti vedo spesso in giro. E poi tutta la città ti conosce, sei il discendente di una delle quattro famiglie fondatrici.”
“Ah, giusto.”
Mi guardò dritto negli occhi. Dentro quel mare di ghiaccio e cenere ritrovai quello sguardo cupo e triste.
Continuammo a guardarci così per qualche minuto, poi lui si scosse, come risvegliatosi da un sogno.
“Forse è meglio che tu vada, o arriverai tardi a scuola.”
Si allontanò da me e si avviò verso l'uscita.
“Ah, sì. Mettiti questo addosso.”. Mi lanciò un fagotto nero, prima appoggiato accanto alla porta. “Ti sarà utile. Non ti preoccupare, puoi tenerlo quanto vuoi. Ci vediamo a scuola.”
Alzò la mano per salutare, poi uscì.
Aprii il fagotto in tutta fretta. Era un mantello nero col cappuccio, abbastanza lungo da toccare terra.
Lo indossai subito e uscii sotto il freddo cielo invernale.
Con mia grande sorpresa, stavo bene. Della nausea non v'era traccia.
Guardai l'orologio: le sette. Di lì a poco sarebbero iniziate le lezioni. Iniziai a correre, e non mi fermai finché non mi trovai davanti al cancello di casa mia.
Le luci erano ancora spente, segno che i miei genitori stavano ancora dormendo. Ringraziai il cielo che non si fossero accorti della mia piccola fuga.
Scrissi un biglietto ai miei dicendo che sarei andata a scuola, lo appesi al frigo e andai a cambiarmi. Mi misi di nuovo il mantello che Matt Garwin mi aveva prestato.
Pochi minuti dopo ero davanti alla fermata dell'autobus, in attesa. Il pullman arrivò in orario, come sempre.
Dopo essermi sistemata sui sedili scomodissimi della vettura, chiusi gli occhi. Avevo così tanti pensieri per la testa. Cercai di restare tranquilla, e fu in quel momento che un pensiero si fece strada attraverso  gli altri.
Tra poco rivedrò Alec.
Una gioia immensa mi riempì il cuore. Non avevo più pensato a lui dal mio 'risveglio'.
Arrivata a scuola iniziai a cercarlo con lo sguardo. Non lo trovai, e mi avviai sconsolata nell'aula di scienze, situata nella parte ovest dell'edificio. Io ero nell'ala est, dovevo sbrigarmi.
Arrivata, in ritardo, davanti alla classe, sospirai.
Chissà dov'è...
Aprii lentamente la porta, ed ad aspettarmi c'erano solo facce impaurite e sconcertate. L'insegnante, Mrs Gabb, era terrorizzata. Aveva ancora il gesso in mano appoggiato alla lavagna.
Non capii. Posai lo sguardo su tutti i miei compagni, uno alla volta, fino alla mia migliore amica.
Me la ricordavo diversa. Era troppo magra, troppo sciupata per essere la Christine che conoscevo. I lunghi capelli neri, puntualmente raccolti in uno chignon, ora erano sciolti e spettinati, e gli occhi, un tempo grandi e azzurri, erano rossi e gonfi per il pianto.
“Buongiorno!” dissi, sperando di spezzare quel silenzio.
Christine si alzò di scatto, attraversò l'aula e corse ad abbracciarmi.
“Ophelia... Sei tu... Sei viva... Io... Mi dispiace...”. Cercava di parlare tra i singhiozzi che la scuotevano senza tregua. Io la abbracciai di rimando.
“Sono qui, Chris. Smettila di piangere.”
Rimanemmo in quella posizione per parecchi minuti, poi sciolsi l'abbraccio. In quel momento vennero tutti a parlarmi, stingermi la mano ed augurarmi il 'bentornata'.
Andò in questo modo per tutte le lezioni della giornata, con Christine sempre al mio fianco che mi stringeva la mano. Sembrava come se non volesse lasciarmi andare mai più.
All'ora di pranzo non avevo ancora visto Alec.
Chris era sempre al mio fianco a raccontarmi tutto ciò che io mi ero persa durante la mia assenza. Non le prestavo ascolto, ciò che mi interessava era altro. Mentre mi guardavo intorno, il mio occhio cadde sul tavolo più nascosto della mensa. Matt Garwin e i suoi tre amici stavano pranzando da soli, come al solito. Ma ciò che mi aveva colpito era che a turni, uno alla volta, mi guardavano e parlavano in modo concitato, forse a bassa voce. Li lasciai perdere, anche se la cosa mi dava molto fastidio, e continuai la mia esplorazione.
Stavo per perdere di nuovo la speranza, quando vidi Alec vicino alla macchinetta del caffè, con la sua solita combriccola.
Mi alzai e mi avviai verso di lui, piena di felicità.
Mi fermai a pochi metri da lui. Il ricordo dell'appuntamento mi piombò addosso, costringendomi ad appoggiarmi al muro.
Mi feci forza e cercai di allontanarmi da quell'incubo. Non avendo abbastanza energie, mi accasciai a terra. Delle braccia mi sostennero prima che potessi toccare il pavimento.
Alzai lo sguardo, solo per trovarmi avvinghiata a Matt. Subito dietro di lui c'erano Blake Danvers, Alan Parry e Chase Simms. Tutti e quattro mi osservavano, in attesa di qualcosa. Li guardai uno ad uno, confusa.
“G-grazie...” dissi con un filo di voce, arrossendo. Mi staccai subito da lui, sperando che nessuno ci avesse visto.
“Stai bene?”. Fu Blake a parlare.
“Forse dovremmo portarla in infermeria. E' un po' pallida, non credete?” Chase, per qualche strano motivo, iniziò a ridere sotto i baffi.
“Oh, sto bene, non c'è bisogno dell'infermeria. Anzi, penso che ora me ne andrò in classe. Dovreste farlo anche voi, tra poco ricominciano le lezioni.”
Mi congedai e mi diressi verso l'aula di inglese. Matt, senza dire una sola parola, mi seguì.
Il nostro insegnante, il simpatico Mr Simmons, quel giorno decise di affidarci una ricerca di gruppo. Il mio era composto da me, Christine e altri due nostri compagni di classe.
Finita la divisione, sbuffai. Odiavo questo genere di ricerche, figuriamoci quelle fatte in gruppo.
Iniziata la spiegazione del lavoro, Matt e Alan, frequentanti il mio stesso corso, alzarono la mano.
Tutta la classe si zittì subito. Non si erano mai espressi durante le lezioni, erano sempre distaccati e nel loro mondo.
Mr Simmons cercò di celare la sorpresa dietro un tono calmo e un sorriso affabile.
“Sì, ragazzi?”
Fu Matt a parlare per primo.
“Possiamo essere spostati nel gruppo di  Ophelia Moore?”
Lo guardai stupita. Che razza di richiesta era? Nessuno si era mai proposto a stare in gruppo con me.
Questa volta l'insegnante non riuscì a rimanere composto, e un espressione di puro stupore apparve sul suo volto.
“Ce-certamente! Elric e Chains, andate voi nel gruppo di Katerine.”
Iniziai a fissare i due ragazzi che mi venivano incontro. Appena si accomodarono, Mr Simmons iniziò la spiegazione del progetto.
“Cosa hai intenzione di fare?” sibilai, rivolgendomi a Matt. Lui mi fissò per un attimo, ma non disse nulla.
I due ragazzi continuarono a fissarmi intensamente per tutta la lezione. Cercai di ignorarli, anche se la cosa mi dava molto fastidio.
Suonata la campanella di fine ora mi alzai e me ne andai subito dall'aula, verso l'uscita della scuola. Non volevo che Matt e Alan mi seguissero.
Finalmente fuori dall'edificio rallentai il passo, più rilassata. Salii sull'autobus e indossai le cuffiette per la musica.
A ruota arrivò Christine, che si sedette nel posto accanto al mio. Le offrii una cuffietta per ascoltare le canzoni in compagnia. Io e lei avevamo gli stessi gusti, quindi era normale quel tipo di condivisione.
Ascoltammo per tutto il tempo 'Lost in Paradise', senza dire una parola per l'intero tragitto.
Arrivati alla mia fermata, la abbracciai e le promisi che ci saremmo incontrate un pomeriggio per andare a fare shopping. Scesa dal pullman, la salutai con la mano finché non sparì dietro ad una casa.
Abbassai il braccio, rimanendo in piedi nel vialetto. Feci un respiro profondo e mi avviai verso la porta di casa. Mi fermai dopo due passi. Un oggetto bianco era caduto davanti a me. Lo osservai da più vicino: neve.
Guardai incuriosita il cielo. La neve iniziò a scendere copiosa, con fiocchi sempre più grandi ogni minuto che passava. Rimasi lì a guardare quello spettacolo meraviglioso finché non si fece buio. Quando il sole tramontò decisi di rientrare. I miei genitori erano ancora al lavoro, quindi iniziai a preparare la cena.
Mi accorsi, però, che più maneggiavo il cibo, più mi sentivo disgustata da esso. Pensai che fosse solo una cosa di passaggio e che, al momento di cenare, sarebbe apparso l'appetito.
All'improvviso sentii un rumore di chiavi.
Corsi subito alla porta. Mia madre entrò in casa ricoperta di neve. Alzò lo sguardo e, vedendomi davanti a lei, mi sorrise dolcemente.
“Bentornata, mamma!” Le sorrisi di rimando, avvicinandomi ad abbracciarla.
Rimanemmo lì abbracciate per parecchi minuti, finché non arrivò anche mio padre. Andai ad abbracciare anche lui, ero felice di vederlo.
“La cena è pronta, madame e messeri!” dissi, inchinandomi e indicando la tavola con un sorriso.
Li feci accomodare. Era la prima volta dopo tanto tempo che cenavamo tutti assieme.
Andai in cucina a prendere le teglie. Afferrai quella delle lasagne e mi voltai. Vedere i miei genitori così felici mi riempiva di orgoglio.
Mi sedetti assieme a loro e iniziammo a mangiare.
Dopo il primo boccone mi venne la nausea. Lo nascosi ai miei e andai in bagno, dove rigettai quel poco che avevo ingerito.
Rimasi lì per qualche minuto, poi tornai in cucina. Avevano finito di cenare, quindi iniziai a sparecchiare.
“Lascia, cara, faccio io.” Mia madre mi tolse lentamente i piatti dalle mani.
“Grazie, mamma.” Le diedi un bacio sulla guancia e salii in camera mia. Mi distesi sul letto, mi sentivo molto stanca. Afferrai il computer portatile dal mio comodino, ma lo riposi subito. Non era di quello che avevo voglia.
Mi misi a pancia in su per guardare il soffitto. Quando ero piccola avevo costretto mia madre a dipingerlo in modo da sembrare un minuscolo universo tutto per me. Passavo le serate ad osservare le mie stelle e ad immaginarmi avventure nello spazio con i miei amici.
Sorrisi. Quei pensieri erano sempre divertenti. Mi sistemai seduta sul letto, poi mi alzai. Andai a guardare il panorama dalla finestra. La mia casa era stata costruita sul limitare di un bosco, ed ogni notte i versi di gufi e civette raggiungevano la mia stanza, formando una melodia unica. Quella notte, però, solo una civetta cantava per me. Il resto era silenzio.
Guardai in basso. La neve continuava a cadere, ricoprendo ogni cosa.
Quanto vorrei poter andare a passeggiare per i boschi di notte...
Sospirai. Era tardi, ora di andare a letto. Tornai a distendermi e chiusi gli occhi. Dopo dieci minuti, iniziai ad essere nervosa. Continuavo a girarmi e rigirarmi, ma non riuscivo a dormire. Più il tempo passava e più io diventavo irrequieta. Verso mezzanotte decisi di alzarmi. I miei genitori dormivano, dunque io ero libera.
Mi vestii in tutta fretta e, furtivamente, uscii. L'aria fredda della notte mi scivolò addosso, senza però colpirmi.
Camminando spedita mi diressi verso il bosco, inoltrandomi in profondità.
Era come se ci fossi già stata milioni di volte, eppure non mi ero mai avvicinata a quel piccolo mondo.

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque - NYMPALIDAE ***


Mi svegliai di buonumore quella mattina. Era domenica, il mio giorno preferito. La passeggiata nel bosco della sera prima mi aveva tranquillizzata abbastanza da poter finalmente dormire. Scesi di corsa a fare colazione. Mamma era già sveglia da un pezzo, aveva un quadro da finire che la ossessionava da un po’. Papà era probabilmente già uscito per andare a vedere una partita di basket con gli amici. Preparai il mio spuntino, un bicchiere di succo di arancia e un muffin, e corsi di nuovo in camera mia.
Avevo ancora un paio d’ore prima che Matt, Alan e Christine venissero a casa mia per il progetto di inglese. C’era stata una lotta incredibile per decidere il luogo d’incontro, durante le lezioni, e alla fine venne deciso che fosse casa mia. Mia madre sarebbe uscita, quindi non ci sarebbe stato nessuno a disturbarci.
Mi vestii con una felpa grigia e pantaloni della tuta, e tornai in cucina per preparare il pranzo.
“Tesoro! Non ti dispiace se esco un po’ prima, vero?”
“Certo che no, mamma!”. Ero stupita da quella domanda. “Perché, dovrebbe dispiacermi?”
“Era solo per chiedere.” Mi rivolse un caldo sorriso, prima di ritornare a dipingere.
“Tra quanto te ne vai?”
Ci pensò su, prima di rispondermi. “Tra circa un quarto d’ora, forse venti minuti.”
“Quindi non pranzi con me..”. Cercai di nasconderle il mio sguardo deluso. Non volevo che evitasse di uscire per colpa mia. “Divertiti!”.
Mi preparai un pasto misero. Mi era passata la fame, quando avevo aperto il frigo.
“Allora io vado, tesoro. Buona fortuna con la vostra ricerca!”.
Non aspettò nemmeno la mia risposta. Stava tornando tutto come prima che accadesse il mio incidente.
Uno schifo.
Mentre mi crogiolavo nei miei tristi pensieri, suonò il telefono.
“Ciao dolcezza!”. Era Christine.
“Ciao Chris! A che ora vieni, oggi pomeriggio?”. Avevo un sospetto sul perché avesse chiamato.
“Ecco… È proprio di questo che volevo parlarti. Vedi… I miei mi hanno costretta ad andare a casa di mia nonna, a Seattle, per un paio di giorni. Quindi… Ehm… Oggi non posso venire!”.
I miei sospetti erano fondati, dunque. Sospirai mentalmente.
“Oh… Beh non preoccuparti, faremo noi la ricerca e poi ti daremo gli appunti.”
“Grazie! Sei proprio un amore!”.
Passò così I restanti minuti della telefonata, a ringraziarmi di continuo e dirmi che mi doveva un favore.
Riattaccai. Questa volta sospirai rumorosamente. Odiavo quando mi dava buca così. Cercai di non pensarci e mi distesi sul divano a guardare il televisore, in attesa. Due ore dopo qualcuno suonò il campanello. Erano Matt e Alan.
“Benvenuti! Prego, accomodatevi!”. Li portai in soggiorno.
Matt fu il primo a parlare. Avevano entrambi delle facce strane. Incuriosite? Sospettose?
“Ho portato una torta, pensavo ti avrebbe fatto piacere.”
Lo ringraziai e portai la torta in cucina.
Sarà un lungo, lunghissimo pomeriggio.
Dopo aver offerto loro la torta e qualcosa da bere iniziammo a lavorare.
La ricerca era da fare su un autore inglese di poesie o racconti brevi. Vita, opere… Insomma, il solito. A noi era stato assegnato William Shakespeare. Scontato, ma era stato ad estrazione, quindi non avevamo scelta.
Per due ore scrivemmo senza sosta, aiutati da internet e vari libri di scuola.
Eravamo tutti di poche parole, quindi nessuno parlò per un po’.
Finito il tutto mi accasciai sulla sedia. Non sopportavo le ricerche, ai miei occhi erano inutili. Matt e Alan fecero lo stesso.
“Vi va qualcos’altro da bere, ragazzi?”. Matt mi rivolse uno sguardo riconoscente, e Alan annuì, in silenzio.
Quel ragazzo proprio non riuscivo a capirlo.
Mi diressi in cucina, e preparai del succo e dei panini. Sicuramente avevano fame. Quando tornai in soggiorno stavano parlottando tra di loro in modo concitato e a bassa voce, ma appena entrai nella stanza si bloccarono subito.
“Ho fatto qualche panino, immagino abbiate fame…”. Mi sentivo a disagio. L’atmosfera era cambiata.
“Grazie, ero proprio affamato!”. Mi rivolse un sorriso, cercando di mitigare il clima di tensione che si era creato.
Presero il cibo in silenzio. Le loro espressioni non mi convincevano. Sembravano preoccupati e, allo stesso tempo, pronti a combattere.
Molto strano.
Diedi un morso al mio panino, cercando di evitare i loro sguardi.
L’aria era sempre più pesante, e la nausea che provavo per il cibo nelle mie mani sempre più forte.
Appoggiai il panino e bevvi un sorso di coca.  Matt e Alan mi guardavano di sottecchi, pensando che io non me ne fossi accorta.
Ero sempre più tesa. Avevo i nervi a fior di pelle per chi sa quale motivo. Eppure ero lì, con le gambe e le braccia rigide come marmo, aspettando qualcosa.
Cercai di distrarmi guardando in giro per la cucina. Ciò che attirò la mia attenzione fu un piccolo foglio di carta quadrato, proprio al centro del tavolo. Non lo avevo notato prima, durante la ricerca.
 Rimasi incantata a fissarlo. Non era vuoto, c’era un disegno al suo interno che non avevo mai visto.
Quasi non mi accorsi che i ragazzi mi stavano osservando apertamente, senza nasconderlo. Ero troppo presa da quei simboli sul foglio. Allungai il braccio, senza pensarci. Era come se ilo mio corpo si muovesse da solo. Lo presi in mano, molto delicatamente, come se potesse sparire da un momento all’altro.
Matt e Alan erano rimasti in silenzio, fino a quel momento. Matt mi chiamò, più e più volte, ma io non risposi.
Improvvisamente il foglietto prese fuoco. Gridai per lo spavento, alzandomi dalla sedia di colpo.
I due ragazzi non sembravano sorpresi dell’accaduto. Mi guardavano con una strana espressione sul volto, la loro preoccupazione era evidente.
Mi guardai le dita bruciate. Il contatto col fuoco non era stato molto lungo, eppure sembrava che avessi messo le mani sul fornello. Enormi chiazze rosse erano comparse non solo sulle dita, ma anche sui polsi e sui palmi. Non capivo cosa stesse succedendo, il dolore era così intenso da annebbiarmi la mente.
Matt si alzò per primo, seguito a ruota da Alan. Presero la loro roba e si avviarono verso la porta.
Prima di uscire, Matt mi salutò.
“Noi ce ne andiamo, Ophelia. Fai attenzione.”
“Andate… Sì…” Ero ancora troppo scossa per formulare una frase coerente. Stavo ancora fissano le bruciature.
Cos’è successo?  
Andai lentamente a sedermi sul divano della cucina, senza mai distogliere lo sguardo dalle mie mani.
I segni stavano già scomparendo, eppure il dolore era ancora fortemente presente.
Rimasi lì per un paio d’ore, con lo sguardo perso, fino al ritorno di mia madre. Quando mi vide i quello stato venne ad abbracciarmi di corsa, preoccupata.
“Tesoro, che è successo? Stai bene?” Era talmente agitata che tremava.
“Bene… Sto bene…” Cercai di rassicurarla, ma non fu sufficiente.
“Puoi dirmi che è successo? Quei ragazzi ti hanno fatto male? Se scopro…”
Mi tappai le orecchie, urlando. Mi alzai di scatto, facendole perdere l’equilibrio.
“Troppo rumorosa.” Esplosi. Tutta la calma che avevo era svanita in un battito. C’era solo rabbia dentro di me. Rabbia omicida. Mi avviai verso l’uscita, quell’odio che non si estingueva. Mia madre cercò di fermarmi, ma era troppo sconvolta per provarci davvero. Non mi ero mai comportata così con lei.
Uscii di corsa, senza una meta. Era buio, la luna era nascosta tra le nuvole. Corsi a perdifiato, senza mai fermarmi. Solo quando fui fuori dalla città, mi bloccai.
Qualcuno mi stava seguendo. Erano almeno in quattro.
“Chi siete?” La voce mi tremava.
Uscirono lentamente dall’ombra. Mi accerchiarono, escludendomi ogni via di fuga.
Sono solo in sei.
“Cosa volete da me? Lasciatemi stare!” Il sangue mi ribolliva nelle vene.
La donna che era davanti a me fu la prima a parlare. Aveva uno strano accento.
“Non ti muovere. Se vuoi salva la vita, devi venire con noi.” Fece una pausa per osservarmi. “Non accetteremo un no come risposta.”
Lentamente iniziarono a stringere il cerchio attorno a me. Uno di loro tirò fuori una pistola, e me la puntò addosso.
La mia rabbia, a questo punto, era mista alla paura.
Cosa vogliono da me, queste persone? Devo andare via da qui!
Feci un passo indietro, preparandomi per scappare.
Uno. Due. Tre spari.
Caddi a terra, gridando per il dolore. Tutti e tre i proiettili erano penetrati in vari punti della schiena.
Il dolore era insopportabile. Urlai ancora e ancora, ma quelle persone non batterono ciglio.
La mia testa stava scoppiando. Pensai di morire. Di nuovo.
Il tepore dell’incoscienza stava iniziando a prendere il sopravvento.
No, non di nuovo. Ti prego, non voglio morire ancora!
Chiusi gli occhi, annegando nella paura e nella disperazione.
“Oh, cielo! Ti hanno proprio conciata per le feste, eh?” Una risata.
Riaprii gli occhi, sorpresa. Il dolore era sparito, così come la paura.
Lei era lì, in mezzo a quelle persone, eppure nessuno sembrò accorgersi di lei. Camminava verso di me, con il suo solito ghigno stampato in faccia.
“Cosa ci fai tu, qui?” L’altra me  si era fermata di fronte a me.
“Non essere cattiva! E chiamami Jedis, non ‘l’altra me’. Solo perché sono identica a te non significa che sono altrettanto stupida.” Un’altra risata.
“ Cooooomunque… Sono qui per aiutarti, zuccherino! Tieni!” Mi diede una piccola fiala di vetro.
Non riuscii a riconoscere il liquido al suo interno. Aprii bocca per domandarglielo, ma mi fece segno di tacere.
“Bevi, tesoro. Starai subito meglio e potrai uscire da questa brutta situazione!” Il suo sorriso non mi convinceva molto, ma decisi di ascoltarla. L’alternativa era la morte per mano di quegli individui.
Svuotai la boccetta in un solo sorso. Non avevo tempo di pensare alle conseguenze.
Sul momento non accadde nulla. Quando alzai lo sguardo, Jedis era sparita.
Tornai alla realtà, il dolore al fianco ancora forte. Ma qualcosa era diverso.
Iniziai a tremare. Un calore immenso si diffuse su tutto il mio corpo, mutandolo.
Tutto ciò che provavo in quel momento era calore. Le ferite si richiusero in pochi secondi.
Avevo la vista sfocata, ma cercai di guardarmi attorno. Le persone che prima mi circondavano correvano in modo disordinato. Qualcuno urlava, ma non riuscivo a sentire bene.
Mi alzai in piedi, traballante.
Sono più alta? Mi sento così strana…
Davanti a me la donna che mi aveva parlato tirò fuori una pistola.
Non capii ciò che successe dopo. Avevo perso il controllo del corpo, riuscivo solo a vedere quello che facevo.
Mi lanciai contro la donna, lanciando un urlo acuto.
Poi fu buio.

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