Il giorno in cui diventerò una farfalla di Crow17 (/viewuser.php?uid=293193)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno - ARGO ***
Capitolo 2: *** Capitolo due - ATLAS ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre - BLUMEI ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro - BIANOR ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque - NYMPALIDAE ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno - ARGO ***
Capitolo uno - ARGO
Erano le sei. Lo capii dal frastuono delle campane. La neve scendeva copiosa, e il freddo pungente dell’inverno inoltrato penetrava fino alle ossa. Ma non ci feci caso. Arrivava sempre in ritardo a scuola, quindi non era il caso di preoccuparsi per la sua lentezza. Mi decisi ad aspettarlo finché non sarebbe arrivato. Lo amavo, e avrei fatto qualunque cosa per lui.
Guardavo insistentemente il cellulare, in attesa di un suo messaggio o chiamata, che non arrivò. Rivolsi gli occhi al cielo, paziente, e mi persi ad osservare le nuvole bianche che volteggiavano.
“È il colore dei suoi occhi” sussurrai.
Le campane, così fastidiose a ricordarmi il suo ritardo, suonarono ancora. Erano già le otto. Avevamo detto di incontrarci davanti al cinema alle tre del pomeriggio. Me lo chiese due settimane fa, in un giorno nevoso identico a questo. Persone estranee mi sfilavano davanti agli occhi, guardandomi con aria compassionevole. Chissà qual era la mia espressione. Ma quel giorno non mi importava molto saperlo, avevo ben altre idee per la testa. Lui mi aveva chiesto di uscire, tutto il resto era nulla.
Mi ricordo bene la prima volta che lo vidi, quasi un anno fa. Capelli spettinati e con maglietta blu e bermuda grigi, continuava a sorridere a tutta la gente che incontrava per i corridoi della scuola. Io, un anno più piccola, mi ero rannicchiata dietro gli armadietti per poterlo osservare indisturbata. Ai miei occhi era perfetto, e cominciai subito ad amarlo. Conoscevo solo il suo nome: Alec Kayne. Lui non mi conosceva affatto, forse non mi aveva nemmeno mai vista. Nonostante questo, continuai imperterrita a covare il mio amore.
Fino ad oggi.
Undici rintocchi. Intrappolata nei ricordi di quel giorno, non mi ero neppure accorta che fosse così tardi. Lo aspettai ancora, decisa a vederlo. Una vocina nella mia testa mi diceva di rinunciare, di tornare a casa. Avevo preso la mia decisione di attenderlo, e avrei atteso.
Sospirai. Il freddo si era fatto molto intenso, ma non me ne andai. La folla che fuoriusciva dal cinema era sempre minore.
Controllai l’ora nello schermo del mio telefono preistorico: le due e un quarto del mattino. Ai miei genitori avevo raccontato che sarei andata a dormire da un’amica, quindi non si sarebbero preoccupati. Era una mezza verità, non una totale bugia. Dopo l’appuntamento con Alec dovevo andare dalla mia migliore amica e compagna di scuola Christine, che mi avrebbe ospitato per la notte a patto che le avessi raccontato per filo e per segno la mia uscita con Alec.
Chiusi gli occhi. La stanchezza iniziava a farsi sentire, e l’intorpidimento causato dal freddo mi impediva di muovermi normalmente.
Mi accasciai lentamente a terra, sempre ad occhi chiusi, persa nei miei pensieri annebbiati dal sonno. Presi il cellulare dalla tasca del cappotto con una mano infreddolita. Nessun messaggio. Nessun segno di lui.
Prima di cedere al dolce tepore dell’incoscienza, un pensiero mi balenò nella mente.
“E se mi avesse mentito? Se fosse tutto uno scherzo crudele? E se…”
Una lacrima gelata cadde dai miei occhi stanchi, quasi ad indicare la fine.
Morii. |
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Capitolo 2 *** Capitolo due - ATLAS ***
Riaprii
gli occhi. Non c’era nulla, nemmeno io. Eppure sapevo di
esserci, sapevo di esistere ancora.
Non avevo la minima idea di dove mi trovassi ma, come ormai avrete
capito, non
mi interessava. Il mio pensiero era rivolto a lui. Dove si trovava?
Stava bene?
Una fitta al cuore mi distolse dai miei pensieri. Guardai in basso. Non
avevo
nemmeno un cuore, come poteva farmi male?
Tap, tap, tap…
Passi. C’è qualcun altro, oltre a me.
Iniziai a correre verso quel rumore
sempre più flebile. Non avevo gambe per correre, e nemmeno
braccia per darmi lo
slancio. Corsi comunque a perdifiato verso quei passi, come se fossero
la mia
ultima salvezza.
Mi fermai ad ascoltare, ma non sentii più alcun rumore. Come
il nulla che mi
circondava, anche quel silenzio era opprimente.
“Cosa stai guardando?”
Mi voltai di scatto, ma non c’era nessuno. La voce,
però, mi era estremamente
familiare.
La voce cominciò a ridere. “Dovresti vedere la tua
faccia! È veramente
spassosa! Sono davvero in grado di fare questo genere di espressioni?
Io, che
vengo chiamata la ‘Regina di Ghiaccio’?”
Una nuova risata, crudele, proprio dietro di me. Mi voltai di nuovo, e
ciò che
vidi non aveva alcun senso. Di fronte, in piedi, stava una ragazza
identica a
me, e allo stesso tempo totalmente diversa.
“Chi sei tu?” La mia voce tremava,
perché avevo il timore di conoscere la
risposta.
“Come, chi sono io?” La ragazza scoppiò
a ridere. “Dopo quasi diciassette anni
che ti guardi allo specchio non sei ancora in grado di
riconoscerti?” Cominciò
ad applaudire. “Aah! Povera Ophelia! Quel ragazzo ti ha
proprio rovinata, eh?
Come si chiamava? Alex, Adam… George… No, non
è quello…”
“È Alec!” urlai, quasi in lacrime.
“Smettila di dire cose così crudeli! Non ci
capisco più nulla! Chi sei tu? Cos’è
questo posto? Perché sono finita qui?”.
“Visto che insisti, te lo dirò”
ghignò la ragazza, “anche se non penso ti
piacerà affatto ciò che sto per dirti”.
Un’espressione seria, quasi grave, si
dipinse sul suo volto. “Cominciamo dalle presentazioni: io
sono Ophelia Moore,
ho diciassette anni e vivo…”.
“Stai mentendo” la interruppi, urlando.
“Tu non puoi essere me!”.
L’altra me mi lanciò uno sguardo da gelare il
sangue nelle vene.
“Non interrompermi!” sibilò.
“Dicevamo… Ah sì! Abito nella
città di Ipswich,
nella contea del Suffolk, in Inghilterra. Frequento la Ipswich School,
e la mia
migliore amica, nonché vicina di banco, si chiama Christine
Jones. Tutto questo
ti ricorda qualcuno, piccola Ophi?” Sfoderò ancora
quel suo ghigno malizioso,
senza mai distogliere lo sguardo dai miei occhi impauriti. Non sapevo
cosa
rispondere. Il terrore che provai in quel momento è
impossibile da descrivere.
“Ti chiedi dove siamo e perché sei finita qui.
Beh, sei qui perché… sei morta.
Hai presente l’appuntamento al quale Alec ti ha dato buca?
Ecco, i medici
dicono…”.
Non la ascoltavo più. Non volevo più sentire una
parola. L’ultima che avevo
sentito mi aveva distrutta. Sono morta.
“Sciocchezze!”pensai, “Non sono morta!
Stavo aspettando Alec fuori dal cinema, faceva freddo
e…”
Raggelai. Sentivo le mie non-gambe molli e instabili, poi caddi. Non
passarono
nemmeno due secondi che scoppiai in lacrime. L’altra me se ne
stava in
silenzio, dopo aver finito il racconto.
Passarono minuti.
Ore. Non so nemmeno
quanto tempo rimasi lì a piangere. Non tanto per essere
morta giovane, quanto
per il fatto che non avrei mai più rivisto lui.
Lui era la cosa più importante della mia vita, non potevo
permettermi di lasciarmela
scappare così tra le dita.
Dopo un tempo che mi sembrò infinito, mi asciugai le
lacrime. Bruciante di
determinazione, sapevo cosa dovevo fare. Ma non avevo idea del come. Mi
guardai
intorno, cercando una via d’uscita. Non c’era
nulla, nemmeno uno spiraglio.
Tutto era uguale ovunque guardassi. La ragazza che si spacciava per me
non
c’era da nessuna parte. “Meglio
così” pensai, sarcastica. “Non mi
avrebbe
aiutato comunque”.
“Mi hai chiamata?”. Spuntò dal nulla,
ghignando, esattamente come era svanita.
“Parli del diavolo…” borbottai. Non le
bastava avermi ucciso mentalmente,
voleva sicuramente rigirare il coltello nella piaga. Decisi di
ignorarla, e
iniziai a camminare. Non sapevo dove portasse la mia strada
immaginaria, ma era
sempre meglio che starsene lì con le mani in mano,
aspettando qualcosa che non
sarebbe mai arrivato.
“Hai intenzione di ignorarmi? Ti conosco come le mie tasche,
non puoi mentirmi”disse,
cominciando a seguirmi. Ancora quel ghigno.
Continuai ad ignorarla. “Non distrarti, Ophelia! Devi cercare
una via d’uscita,
devi andartene da qui!”. Continuavo a ripetere questa frase
fra me e me, incitandomi
a non mollare.
“Ah! Adesso ho capito! Stai cercando di fuggire da qui, non
è vero?”. Mi superò
per potermi sbarrare la strada, facendomi la linguaccia. “Io
so come uscire!
Esco spesso per farmi un giro, sennò sarei già
morta di noia!”.
La guardai con espressione incredula. “Davvero sai come
uscire da qui? E
saresti disposta a dirmelo?”.
“Per chi mi hai preso, scusa? Ti sembro forse la matrigna
cattiva di
cenerentola? Andiamo, è ovvio che voglio dirtelo! Dopotutto,
io sono te e tu
sei me”.
Iniziai a piangere di gioia. “Grazie, grazie,
grazie!” ripetei, abbracciandola
di slancio.
“Che schifo! Staccati subito da me, o rovinerai
l’immagine da dura che mi sono
costruita!”, Mi allontanai di scatto, preoccupata che
cambiasse idea
sull’aiutarmi. “Oh, grazie al cielo. Bene, possiamo
iniziare il viaggio,
allora.”
Si avvicinò a me, quasi per abbracciarmi, con
un’espressione dolce che non le
si addiceva.
Mi avvicinai, fiduciosa, allargando le braccia. Ma non ci fu un
abbraccio ad
accogliermi.
Nascosto nella manica della sua maglia, un paletto di legno era stato
conficcato dove un tempo si trovava il mio stomaco. Avvicinò
la sua bocca al
mio orecchio, sussurrando parole incomprensibili. Poi capii.
Mi disse “Ci vediamo dall’altra parte”.
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Capitolo 3 *** Capitolo tre - BLUMEI ***
“La
mia piccola… Perché… Perché
proprio tu?”. Dei singhiozzi lontani le facevano
tremare la voce.
Mamma? Perché stai piangendo?
“Ophelia, la mia bambina... Non
la…”. Ancora singhiozzi.
Non riesco a sentirti! Dove sei? Mamma!
“Tesoro, smettila. La nostra Ophelia non
c’è più. Lascia che riposi in
pace, non facciamola preoccupare per noi ora che è
felice”. Il tono di mio
padre era grave. Sembrava avesse pianto per ore.
Una sedia si mosse, proprio accanto a me. Se ne stavano andando.
Mamma! Papà! Sono qui! Vi prego, non andate via!
Dovevo fermarli. Cercai di alzarmi, ma sentivo il corpo
bloccato da un
macigno. Ci riprovai, ma nulla. Provai a parlare. Nessun suono. Dopo
vari
tentativi, dalla bocca mi uscì un rantolo. Il
chiacchiericcio che prima era
nella stanza si placò. L’avevano sentito! Con
tutta la determinazione in mio
possesso riprovai a dire qualcosa. Niente. Perché non
riuscivo a parlare? Cercai
di fare un respiro profondo. Non ci riuscii. Ecco cosa non andava:
mancava aria
nei polmoni. E, a quanto pare, non aveva nemmeno intenzione di
entrarci.
Stupida aria! Un altro respiro profondo. Questo, finalmente,
funzionò.
“Mamma? Dove sei?” Avevo la voce molto roca, non
sapevo nemmeno se si capissero
le mie parole. Aprii gli occhi.
“Oh, Dio! Ophelia!”. Mia madre corse ad
abbracciarmi. Era così calda… Sentivo
le sue tiepide lacrime bagnarmi la guancia. Chissà per
quanto aveva pianto per
me, eppure era riuscita a tirare fuori ancora lacrime per esprimere la
sua
gioia.
“Sei proprio tu, Ophi?”. Era il solito, mio padre.
Una persona composta, non si
lasciava mai prendere troppo dalle emozioni. Oggi no. Aveva
un’espressione
incredula, anche lui con le lacrime che solcavano gli zigomi
pronunciati del
suo magro viso.
“Ciao papà”. Non trovai niente di meglio
da dire, né a lui né a mia madre.
Rimanemmo in quella posizione per un po’. Mio padre in piedi,
sullo stipite
della porta, osservava ancora incredulo me e mia madre abbracciate.
Fu mia madre la prima a muoversi. “Tesoro, sei congelata!
Vieni, torniamocene a
casa. Ti preparerò un bel bagno caldo e un po’ di
cibo. Sarai affamata,
immagino”. Mi aiutò ad alzarmi. Non avevo notato
su cosa fossi distesa finché
non fui sollevata da mia madre. Una bara. Cercai di nascondere il mio
orrore.
Ero viva, e stavo tornando a casa. Mio padre, vedendo mia madre in
difficoltà a
spostarmi, decise di intervenire. Uscimmo tutti e tre da
quell’orribile stanza
lentamente, quasi come se i miei volessero riprendersi tutto il tempo
perduto
durante la mia morte “apparente”.
Incontrammo gli addetti delle pompe funebri nel corridoio verso
l’uscita. Nessuno
dei miei genitori si staccò dal nostro goffo abbraccio per
parlare con loro.
“Non c’è più bisogno dei
vostri servigi, signori”. Iniziò mio padre la
conversazione. “Come vedete, mia figlia è viva, e
sta bene. Quindi noi ce ne
andiamo. Arrivederci”. Non aspettammo nemmeno la loro
riposta.
Usciti dall’edificio mia madre mi aiutò a salire
nei posti posteriori
dell’auto, per poi sedersi accanto a me. Non avevo ancora
ripreso il totale
controllo del mio corpo, perciò necessitavo del suo aiuto.
Non avevo mai
passato così tanto tempo insieme a loro, erano sempre
occupati con il lavoro.
Mio padre lavorava come direttore in un’azienda di cosmetici,
mentre mia madre
faceva la pittrice. Ogni giorno, quando mi svegliavo, loro erano
già usciti per
andare al lavoro. Li rivedevo solo la sera a cena.
Ero felice che loro fossero lì con me.
Il tragitto verso casa non mi era mai sembrato così breve, e
prima che me ne
accorgessi eravamo già dentro il cancello. Mi aiutarono a
scendere dall’auto e
mi portarono dentro.
“Vado a preparare il bagno, tesoro”. Mia madre
sparì di corsa su per le scale.
Mio padre mi adagiò sul divano, distesa,e andò in
cucina a prepararmi un tè
caldo e qualcosa da mangiare. Guardai fuori dalla finestra, in attesa.
L’inverno imperversava ancora per le strade, e il freddo non
permetteva ai
bambini di uscire a giocare.
Un fiocco di neve cadde sul davanzale, e poco dopo iniziò a
nevicare. Rimasi
incantata da quello spettacolo, quasi fosse la mia prima volta. Non
potei fare
a meno di pensare a quanto fosse bello, e allo stesso tempo triste,
essere un
piccolo e fragile fiocco di neve.
Cosa starà facendo Alec, ora? Che
si sia
dimenticato di me?
Non potei
fare a meno di pensarlo.
Ero ancora innamorata di lui, dopotutto.
“Il bagno è pronto, cara. Vieni, ti
aiuto.” Mia madre mi aiutò ad alzarmi, e mi
accompagnò di sopra in bagno. Mi tolse i vestiti e mi
aiutò ad immergermi
dentro la vasca. L’acqua era piacevolmente calda, e il
profumo del mio
bagnoschiuma preferito, all’essenza di rosa, era estremamente
rilassante.
“Abbassati un po’, tesoro. Ti va se ti lavo
io?”. Era leggermente riluttante.
Forse aveva paura di un no come risposta. Non le risposi subito. Ero
commossa.
L’ultima volta che fece questa domanda frequentavo
la seconda elementare. Mi ero
ammalata di morbillo ed ero stata ricoverata in ospedale.
“Grazie, mamma. Di tutto.” Pensavo fosse una
risposta troppo vaga, così
riflettei su cos’altro aggiungere e guardai la guardai in
faccia. Aveva le
lacrime, ma sorrideva. L’avevo resa felice solo con quelle
parole. Le sorrisi
di rimando, e cercai di abbracciarla. Ero ancora molto goffa, ma lei
capì al
volo le mie intenzioni. Mi strinse forte contro il suo petto,
accarezzandomi
dolcemente la testa.
Si staccò da me con delicatezza, e cominciò a
lavarmi i capelli. Poi passò al
corpo. Stava molto attenta quando mi toccava, come se fossi stata una
piccola e
fragile bambola di porcellana.
Dopo aver finito, mi accompagnò in cucina. Riuscivo a
camminare da sola, ma mia
madre insistette a volermi seguire. Mi accomodai a tavola assieme a mio
padre.
Come promesso, una tazza di tè ai frutti rossi fumante
attendeva, accompagnato
da un piccolo sandwich vegetariano.
Nonostante erano i miei cibi preferiti, in quel momento non mi
allettarono
affatto. Non avevo fame, ma cercai comunque di buttar giù
qualche sorso di tè
per non far preoccupare i miei genitori, che in quel momento mi
fissavano. Mi
sentivo un po’ a disagio con i loro sguardi addosso, ma
preferii non farlo
notare.
Guardai l’orologio della cucina, cercando di distrarmi un
po’. Le tre del
pomeriggio.
Ebbi un tuffo al cuore. Cominciai ad agitarmi, fino a cadere dalla
sedia.
Distesa sul pavimento, cominciai ad urlare. Urlai con tutta la forza
che avevo.
Non poteva essere una coincidenza. Era l’orario
dell’appuntamento con Alec, il
giorno che finì tutto.
“Cosa ti succede, Ophelia? James, fermala!” Mio
padre si buttò ad abbracciarmi,
per poter fermare la mia pazzia.
“Ophelia! Ophelia, calmati. C’è
papà con te, non devi avere paura. Calmati,
tesoro.”
La sua voce calma e rassicurante mi convinse a smettere di urlare e
dimenarmi,
ma il mio respiro affannoso non accennava a rallentare.
“Brava, così.” Mio padre strinse
l’abbraccio, rassicurandomi ancora. Mia madre
aveva immerso un fazzoletto in acqua fredda, e lo posò sulla
mia fronte. Quel
tocco gelato mi fece tornare la lucidità e il controllo su
me stessa. Rallentai
il respiro, fino quasi ad estinguerlo, e mi lasciai andare totalmente
tra le
braccia di mio padre.
“Ho tanta sonno…
Papà…” biascicai, guardando mio padre
dritto negli occhi.
“Ho capito, piccola. Ti porto subito in camera tua.”
Mi portò di peso fino in camera mia, al secondo piano.
Lì, mi depose sul letto,
coprendomi con il mio trapuntone invernale.
“Se hai bisogno di qualunque cosa, non esitare a chiamarci.
Noi siamo di sotto,
in cucina.”
Allungai una mano, aggrappandomi alla sua camicia. “Non..
andate via… Rimanete
qui... Io non voglio… da sola…”
I miei genitori si guardarono, poi mio padre disse:
“D’accordo. Staremo qui con
te, non ti preoccupare. Non ce ne andremo, quindi dormi tranquilla,
tesoro.”
Allentai la presa, e li guardai con occhi stanchi.
“Grazie…”
Grazie di tutto. Vi voglio bene.
Caddi subito dopo in un sonno profondo, senza avere il tempo
di finire la
frase.
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Capitolo 4 *** Capitolo quattro - BIANOR ***
Capitolo quattro – BIANOR
Ancora questo posto. Ancora il nulla.
“Bentornata!”. L'altra me mi fissava, con il solito
ghigno stampato in faccia.
“Perché sono ancora qui?” chiesi,
confusa.
“Questo è il tuo inconscio, Ophelia. Capiterai qui
ogni volta che ti
addormenterai, quindi mettiti l'anima in pace.” Continuava a
fissarmi, come se
si aspettasse qualcosa da me.
“Cos'hai da guardare?” dissi, scocciata. Non mi
piaceva che le persone mi
squadrassero da capo a piedi, lei meno di tutti.
“Nulla di particolare” rispose, “mi
chiedevo solo quando ti accorgerai dell'errore
che hai commesso, tornando indietro, al tuo mondo...”. Il suo
sguardo era
inquisitorio, con un piccolo accenno di compassione.
“Errore?”. Ero sempre più confusa.
“Non c'è stato nessun errore. E' già
capitato di gente che sembrava morta, ma che è tornata 'in
vita' qualche giorno
dopo.” Avevo letto parecchi articoli di giornale al riguardo,
quindi ero
preparatissima sull'argomento.
“A quanto pare non hai nemmeno capito in che situazione ti
trovi. Non comincio
nemmeno a spiegartela, tanto non mi daresti
ascolto.” Mi lanciò un ultimo sguardo
gelido, prima di darmi le spalle.
A passo lento, si avviò all'interno del nulla.
Alzò la mano, in segno di
saluto, congedandosi.
“Prima o poi capirai da sola. Ah, quasi
dimenticavo!” Si girò a guardarmi con
uno sguardo serio. “Stai solo attenta a non uscire troppo
sotto il sole, anche
se è inverno. Ed evita i luoghi sacri. Lo dico per il tuo
bene.”
Mi sorrise.
“Ci vedremo presto, Ophelia.” Un inchino, poi
sparì.
Non avevo capito cosa voleva dirmi, così non diedi molto
peso alle sue parole.
Cosa significava 'stai lontano dai luoghi sacri'? La religione non
aveva mai
ucciso nessuno negli ultimi tempi, sicuramente stava scherzando.
Chiusi gli occhi, imponendomi di svegliarmi.
Li riaprii, trovandomi nella mia stanza. Afferrai la sveglia: le due
del
mattino. Avevo davvero dormito così poco?
Guardai la data sul display. Era
il 2
gennaio.
Balzai giù dal letto, gettando a terra le coperte. Goffa e
addormentata, caddi
a terra, sbattendo i gomiti. Avevo dormito per quattro giorni interi.
Mi alzai dal pavimento e mi avviai verso il bagno. Decisi di farmi un
bagno
caldo e, finito quello, mi sarei dedicata a ceretta, capelli e viso. A
fare
tutto quanto ci misi meno del previsto, perché quando diedi
un'occhiata
all'orologio era passata solo mezz'ora. Tornata in camera e iniziai a
vestirmi.
Scelsi abiti che normalmente non avrei mai indossato, se non per delle
feste in
maschera. Tirai fuori dall'armadio gonne di pizzo e satin, corpetti e
camicie,
il tutto rigorosamente nero. Non sapevo nemmeno di avere tutta quella
roba
strana, ma non ci feci tanto caso. Erano abiti adatti al mio umore,
quindi
andavano benissimo.
Mi vestii e, senza fare rumore per evitare di svegliare i miei
genitori, mi
misi il cappotto e uscii.
L'aria del mattino, sicuramente fredda, non mi provocò
nessun brivido. Anzi, la
trovai quasi piacevole.
La mia città era ancora avvolta nelle tenebre e nella neve.
Camminai per ore,
girando per il paese, senza una meta precisa. Senza accorgermene ero
finita nel
quartiere più vecchio della città, dove vivevano
solamente quattro antichi
casati, fondatori di Ipswich: Danvers, Parry, Garwin e Simms.
Nonostante le
abitazioni fossero solo quattro, erano talmente grandi che occupavano
un quinto
del territorio cittadino. Mi fermai ad ammirare una di quelle
meravigliose
ville. Le luci all'interno erano ancora accese. Un desiderio
irrefrenabile
s'impossessò di me. Volevo entrare in quella casa, volevo
conoscerli. I figli
delle quattro famiglie erano della mia stessa scuola, e stavano sempre
assieme.
Non parlavano mai con nessuno, tranne per rispondere a qualche domanda
occasionale. Stavo per suonare il campanello, ma mi fermai. Sarebbe
stato
scortese disturbarli alle quattro del mattino. Cominciai a correre,
allontanandomi da quelle case. Strani pensieri mi turbinavano nella
mente, e lo
stare lì non mi avrebbe affatto aiutata. Mi fermai solo
quando ero sicura di
essere abbastanza distante da quel luogo. Respirai profondamente,
cercando di
calmarmi.
Cosa ti è preso? Calmati, stupida!
Mi accorsi di essere finita in un piccolo parco, pieno di
giostre per bambini.
L'alba stava iniziando a colorare il cielo di un rosa chiaro, segno che
sarei
dovuta tornare a casa quanto prima, o i miei genitori si sarebbero
preoccupati.
Mi accomodai su una panchina per poter ammirare quel miracolo.
Dopo pochi minuti spuntò il sole.
Il senso di benessere che provavo prima svanì in un istante.
Un senso di nausea
e smarrimento si impossessò di me, costringendomi a chiudere
gli occhi. Più il
tempo passava, e più quella sensazione terrificante
aumentava di intensità.
Mi alzai. Le gambe mi tremavano, ma cercai comunque di correre. Dovevo
andare
via di lì, dovevo nascondermi. Non avevo abbastanza tempo
per tornare a casa,
sarei morta prima di allora. Passai di nuovo davanti alle ville. Mi
circondavano come sbarre.
Uno dei cancelli era aperto, e all'interno una casetta di legno mi
chiamava,
offrendomi pace e buio. Non ci pensai due volte, ed entrai. Attraversai
di
corsa il cortile, infilandomi di slancio dentro lo sgabuzzino. Chiusi
velocemente la porta, poi fu buio.
Cercai di regolarizzare il respiro. Il senso di nausea era svanito, ma
la paura
era ancora forte. Sperai che nessuno mi avesse visto.
Andiamo, pensai, chi vuoi che sia sveglio
alle sei del mattino?
Errore.
Quel giorno iniziava la scuola. Di lì a poco Matt Garwin
sarebbe uscito per
andarci.
Sicuramente non mi ha visto, si starà ancora
preparando.
Altro errore.
Bloccai il mio respiro. Dei passi si avvicinavano.
Chiusi gli occhi, sperando che non si avvicinasse. Strisciai sotto un
telo che
puzzava di muffa, non volevo essere scoperta.
Se mi vedono, passerò dei brutti guai. E mi
butteranno fuori, sotto il sole.
Mi feci piccola piccola in quello spazio angusto, e aspettai.
Ancora passi, sempre più vicini. Un rumore di porta che si
apriva. Vicinissimo.
E' qui!
La porta si richiuse.
Buttai fuori dai polmoni l'aria trattenuta fino a quel momento,
sollevata. Non
mi avevano scoperta, quindi potevo
uscire dal telo e mettermi comoda. Mi alzai e iniziai a sbattere via la
polvere
dalla gonna.
Finalmente pulita, alzai lo sguardo, respirando profondamente.
Per poco non andai a sbattere contro il suo torace.
Matt Garwin era lì che mi fissava. Uno sguardo cupo e severo
allo stesso tempo
mi trafisse in pieno petto.
Tutti gli sforzi fatti per regolarizzare il respiro fallirono in meno
di un
secondo. Iniziai ad ansimare.
Caddi a terra. Ero in piena crisi di panico, ma dovevo dirgli qualcosa.
“S...Scu.. Scusa..mi. I-io non volevo..
en..trare..ma..” Mi bloccai. L'aria si
rifiutava di entrare nei polmoni.
Probabilmente lui capì al volo che non sarei riuscita a dire
di più.
Si avvicinò a me, lentamente, con le mani alzate.
“Non voglio farti del male. Stai tranquilla.”
Si avvicinò ancora, addolcendo un po' lo sguardo. Io ero
ancora nel panico,
nonostante lui cercasse di tranquillizzarmi.
Matt Garwin allungò una mano, sempre lentamente, e la
posò sulla mia fronte.
Era un gesto innocente. Eppure dentro di me scattò qualcosa.
Istinto di
sopravvivenza?
Iniziai a ringhiare, ritirandomi dal suo tocco.
Lui allontanò di poco la mano, ma non si ritrasse. Rimase
lì, a meno di mezzo
metro da me. Il suo volto era tranquillo, come se il mio comportamento
non
fosse nuovo per lui.
Avevo i sensi a mille. Fu allora che mi arrivò il suo
profumo. Menta piperita e
biscotti al burro.
Socchiusi gli occhi. Quel profumo sapeva di casa.
“Va meglio?”. Il suo tono di voce era troppo calmo.
Non aveva vacillato,
neanche per un secondo. Era rimasto lì,
con una pazza, come se fosse la cosa più
naturale del mondo.
Alzai lentamente il mio sguardo verso di lui. Provai a parlare.
“Pe... Penso di sì...”.
Mi aiutò ad alzarmi. Avevo le gambe molli, ma lui
continuò a sorreggermi. Aveva
i modi un po' rudi, ma gli ero grata per l'aiuto che mi stava dando.
“Cosa ci facevi nel mio giardino?” Il suo sguardo
non era cambiato. Era ancora
serio, ma con una punta di dolcezza.
“Ecco.. Veramente...”. Cercai di riorganizzare i
miei pensieri, in modo da
formare una frase comprensibile.
“Stavo facendo una passeggiata... Una panchina nel parco..
Poi è apparso il
sole... Sono caduta.. Il sandwich...”
Non andava bene. Scossi la testa per schiarirmi le idee.
“Cosa c'entra il sandwich?”
“Nulla” ammisi.
“Comincia dall'inizio. Con calma.”
Annuii. “Ero uscita per fare una passeggiata, e mi sono
ritrovata nel parchetto
qui vicino. Mi sono seduta a guardare l'alba.. Poi si è
alzato il sole.. Mi
sono sentita male e sono entrata in panico.. Ho visto questo deposito,
dentro
era buio, e così...”
Mi vergognai. Era una storia assurda. Nessuno si sente male per essere
stato un
secondo al sole.
Un'espressione curiosa si dipinse sul suo viso. Mi osservava
attentamente,
dalla testa ai piedi. Sembrava si fosse perso nei suoi pensieri. Si
avvicinò un
poco, sfiorandomi la fronte. Non so cosa successe, ma una tristezza
infinita
apparve nel suo sguardo.
“Che c'è?”. Ero preoccupata.
I suoi occhi si posarono sui miei. Nei suoi vi lessi solo rabbia e
disperazione.
Durò un attimo, poi tornò calmo e affabile come
prima.
Fu lui il primo a parlare dopo quella breve pausa.
“Come ti chiami?”
“Ophelia Moore” risposi. Mi sentii una stupida a
non essermi presentata prima.
“Io sono Matt Garwin”. Mi tese la mano. La afferrai
subito, non volevo che si
offendesse. Era fredda e stranamente rigida.
“Lo so chi sei. Siamo nella stessa scuola, ti vedo spesso in
giro. E poi tutta
la città ti conosce, sei il discendente di una delle quattro
famiglie
fondatrici.”
“Ah, giusto.”
Mi guardò dritto negli occhi. Dentro quel mare di ghiaccio e
cenere ritrovai
quello sguardo cupo e triste.
Continuammo a guardarci così per qualche minuto, poi lui si
scosse, come
risvegliatosi da un sogno.
“Forse è meglio che tu vada, o arriverai tardi a
scuola.”
Si allontanò da me e si avviò verso l'uscita.
“Ah, sì. Mettiti questo addosso.”. Mi
lanciò un fagotto nero, prima appoggiato
accanto alla porta. “Ti sarà utile. Non ti
preoccupare, puoi tenerlo quanto
vuoi. Ci vediamo a scuola.”
Alzò la mano per salutare, poi uscì.
Aprii il fagotto in tutta fretta. Era un mantello nero col cappuccio,
abbastanza lungo da toccare terra.
Lo indossai subito e uscii sotto il freddo cielo invernale.
Con mia grande sorpresa, stavo bene. Della nausea non v'era traccia.
Guardai l'orologio: le sette. Di lì a poco sarebbero
iniziate le lezioni.
Iniziai a correre, e non mi fermai finché non mi trovai
davanti al cancello di
casa mia.
Le luci erano ancora spente, segno che i miei genitori stavano ancora
dormendo.
Ringraziai il cielo che non si fossero accorti della mia piccola fuga.
Scrissi un biglietto ai miei dicendo che sarei andata a scuola, lo
appesi al
frigo e andai a cambiarmi. Mi misi di nuovo il mantello che Matt Garwin
mi
aveva prestato.
Pochi minuti dopo ero davanti alla fermata dell'autobus, in attesa. Il
pullman
arrivò in orario, come sempre.
Dopo essermi sistemata sui sedili scomodissimi della vettura, chiusi
gli occhi.
Avevo così tanti pensieri per la testa. Cercai di restare
tranquilla, e fu in
quel momento che un pensiero si fece strada attraverso
gli altri.
Tra poco rivedrò Alec.
Una gioia immensa mi riempì il cuore. Non avevo
più pensato a lui dal mio
'risveglio'.
Arrivata a scuola iniziai a cercarlo con lo sguardo. Non lo trovai, e
mi avviai
sconsolata nell'aula di scienze, situata nella parte ovest
dell'edificio. Io
ero nell'ala est, dovevo sbrigarmi.
Arrivata, in ritardo, davanti alla classe, sospirai.
Chissà dov'è...
Aprii lentamente la porta, ed ad aspettarmi c'erano solo
facce impaurite e
sconcertate. L'insegnante, Mrs Gabb, era terrorizzata. Aveva ancora il
gesso in
mano appoggiato alla lavagna.
Non capii. Posai lo sguardo su tutti i miei compagni, uno alla volta,
fino alla
mia migliore amica.
Me la ricordavo diversa. Era troppo magra, troppo sciupata per essere
la
Christine che conoscevo. I lunghi capelli neri, puntualmente raccolti
in uno
chignon, ora erano sciolti e spettinati, e gli occhi, un tempo grandi e
azzurri, erano rossi e gonfi per il pianto.
“Buongiorno!” dissi, sperando di spezzare quel
silenzio.
Christine si alzò di scatto, attraversò l'aula e
corse ad abbracciarmi.
“Ophelia... Sei tu... Sei viva... Io... Mi
dispiace...”. Cercava di parlare tra
i singhiozzi che la scuotevano senza tregua. Io la abbracciai di
rimando.
“Sono qui, Chris. Smettila di piangere.”
Rimanemmo in quella posizione per parecchi minuti, poi sciolsi
l'abbraccio. In
quel momento vennero tutti a parlarmi, stingermi la mano ed augurarmi
il
'bentornata'.
Andò in questo modo per tutte le lezioni della giornata, con
Christine sempre
al mio fianco che mi stringeva la mano. Sembrava come se non volesse
lasciarmi
andare mai più.
All'ora di pranzo non avevo ancora visto Alec.
Chris era sempre al mio fianco a raccontarmi tutto ciò che
io mi ero persa
durante la mia assenza. Non le prestavo ascolto, ciò che mi
interessava era
altro. Mentre mi guardavo intorno, il mio occhio cadde sul tavolo
più nascosto
della mensa. Matt Garwin e i suoi tre amici stavano pranzando da soli,
come al
solito. Ma ciò che mi aveva colpito era che a turni, uno
alla volta, mi
guardavano e parlavano in modo concitato, forse a bassa voce. Li
lasciai
perdere, anche se la cosa mi dava molto fastidio, e continuai la mia
esplorazione.
Stavo per perdere di nuovo la speranza, quando vidi Alec vicino alla
macchinetta del caffè, con la sua solita combriccola.
Mi alzai e mi avviai verso di lui, piena di felicità.
Mi fermai a pochi metri da lui. Il ricordo dell'appuntamento mi
piombò addosso,
costringendomi ad appoggiarmi al muro.
Mi feci forza e cercai di allontanarmi da quell'incubo. Non avendo
abbastanza
energie, mi accasciai a terra. Delle braccia mi sostennero prima che
potessi
toccare il pavimento.
Alzai lo sguardo, solo per trovarmi avvinghiata a Matt. Subito dietro
di lui
c'erano Blake Danvers, Alan Parry e Chase Simms. Tutti e quattro mi
osservavano, in attesa di qualcosa. Li guardai uno ad uno, confusa.
“G-grazie...” dissi con un filo di voce,
arrossendo. Mi staccai subito da lui,
sperando che nessuno ci avesse visto.
“Stai bene?”. Fu Blake a parlare.
“Forse dovremmo portarla in infermeria. E' un po' pallida,
non credete?” Chase,
per qualche strano motivo, iniziò a ridere sotto i baffi.
“Oh, sto bene, non c'è bisogno dell'infermeria.
Anzi, penso che ora me ne andrò
in classe. Dovreste farlo anche voi, tra poco ricominciano le
lezioni.”
Mi congedai e mi diressi verso l'aula di inglese. Matt, senza dire una
sola
parola, mi seguì.
Il nostro insegnante, il simpatico Mr Simmons, quel giorno decise di
affidarci
una ricerca di gruppo. Il mio era composto da me, Christine e altri due
nostri
compagni di classe.
Finita la divisione, sbuffai. Odiavo questo genere di ricerche,
figuriamoci quelle
fatte in gruppo.
Iniziata la spiegazione del lavoro, Matt e Alan, frequentanti il mio
stesso
corso, alzarono la mano.
Tutta la classe si zittì subito. Non si erano mai espressi
durante le lezioni,
erano sempre distaccati e nel loro mondo.
Mr Simmons cercò di celare la sorpresa dietro un tono calmo
e un sorriso
affabile.
“Sì, ragazzi?”
Fu Matt a parlare per primo.
“Possiamo essere spostati nel gruppo di
Ophelia Moore?”
Lo guardai stupita. Che razza di richiesta era? Nessuno si era mai
proposto a
stare in gruppo con me.
Questa volta l'insegnante non riuscì a rimanere composto, e
un espressione di
puro stupore apparve sul suo volto.
“Ce-certamente! Elric e Chains, andate voi nel gruppo di
Katerine.”
Iniziai a fissare i due ragazzi che mi venivano incontro. Appena si
accomodarono, Mr Simmons iniziò la spiegazione del progetto.
“Cosa hai intenzione di fare?” sibilai,
rivolgendomi a Matt. Lui mi fissò per
un attimo, ma non disse nulla.
I due ragazzi continuarono a fissarmi intensamente per tutta la
lezione. Cercai
di ignorarli, anche se la cosa mi dava molto fastidio.
Suonata la campanella di fine ora mi alzai e me ne andai subito
dall'aula,
verso l'uscita della scuola. Non volevo che Matt e Alan mi seguissero.
Finalmente fuori dall'edificio rallentai il passo, più
rilassata. Salii
sull'autobus e indossai le cuffiette per la musica.
A ruota arrivò Christine, che si sedette nel posto accanto
al mio. Le offrii
una cuffietta per ascoltare le canzoni in compagnia. Io e lei avevamo
gli
stessi gusti, quindi era normale quel tipo di condivisione.
Ascoltammo per tutto il tempo 'Lost in
Paradise', senza dire una parola per l'intero tragitto.
Arrivati alla mia fermata, la abbracciai e le promisi che ci saremmo
incontrate
un pomeriggio per andare a fare shopping. Scesa dal pullman, la salutai
con la
mano finché non sparì dietro ad una casa.
Abbassai il braccio, rimanendo in piedi nel vialetto. Feci un respiro
profondo
e mi avviai verso la porta di casa. Mi fermai dopo due passi. Un
oggetto bianco
era caduto davanti a me. Lo osservai da più vicino: neve.
Guardai incuriosita il cielo. La neve iniziò a scendere
copiosa, con fiocchi
sempre più grandi ogni minuto che passava. Rimasi
lì a guardare quello
spettacolo meraviglioso finché non si fece buio. Quando il
sole tramontò decisi
di rientrare. I miei genitori erano ancora al lavoro, quindi iniziai a
preparare la cena.
Mi accorsi, però, che più maneggiavo il cibo,
più mi sentivo disgustata da
esso. Pensai che fosse solo una cosa di passaggio e che, al momento di
cenare,
sarebbe apparso l'appetito.
All'improvviso sentii un rumore di chiavi.
Corsi subito alla porta. Mia madre entrò in casa ricoperta
di neve. Alzò lo
sguardo e, vedendomi davanti a lei, mi sorrise dolcemente.
“Bentornata, mamma!” Le sorrisi di rimando,
avvicinandomi ad abbracciarla.
Rimanemmo lì abbracciate per parecchi minuti,
finché non arrivò anche mio
padre. Andai ad abbracciare anche lui, ero felice di vederlo.
“La cena è pronta, madame e messeri!”
dissi, inchinandomi e indicando la tavola
con un sorriso.
Li feci accomodare. Era la prima volta dopo tanto tempo che cenavamo
tutti
assieme.
Andai in cucina a prendere le teglie. Afferrai quella delle lasagne e
mi
voltai. Vedere i miei genitori così felici mi riempiva di
orgoglio.
Mi sedetti assieme a loro e iniziammo a mangiare.
Dopo il primo boccone mi venne la nausea. Lo nascosi ai miei e andai in
bagno,
dove rigettai quel poco che avevo ingerito.
Rimasi lì per qualche minuto, poi tornai in cucina. Avevano
finito di cenare,
quindi iniziai a sparecchiare.
“Lascia, cara, faccio io.” Mia madre mi tolse
lentamente i
piatti dalle mani.
“Grazie, mamma.” Le diedi un bacio sulla guancia e
salii in camera mia. Mi
distesi sul letto, mi sentivo molto stanca. Afferrai il computer
portatile dal
mio comodino, ma lo riposi subito. Non era di quello che avevo voglia.
Mi misi a pancia in su per guardare il soffitto. Quando ero piccola
avevo
costretto mia madre a dipingerlo in modo da sembrare un minuscolo
universo
tutto per me. Passavo le serate ad osservare le mie stelle e ad
immaginarmi
avventure nello spazio con i miei amici.
Sorrisi. Quei pensieri erano sempre divertenti. Mi sistemai seduta sul
letto,
poi mi alzai. Andai a guardare il panorama dalla finestra. La mia casa
era
stata costruita sul limitare di un bosco, ed ogni notte i versi di gufi
e
civette raggiungevano la mia stanza, formando una melodia unica. Quella
notte,
però, solo una civetta cantava per me. Il resto era silenzio.
Guardai in basso. La neve continuava a cadere, ricoprendo ogni cosa.
Quanto vorrei poter andare a passeggiare per i boschi di
notte...
Sospirai. Era tardi, ora di andare a letto. Tornai a
distendermi e chiusi
gli occhi. Dopo dieci minuti, iniziai ad essere nervosa. Continuavo a
girarmi e
rigirarmi, ma non riuscivo a dormire. Più il tempo passava e
più io diventavo
irrequieta. Verso mezzanotte decisi di alzarmi. I miei genitori
dormivano,
dunque io ero libera.
Mi vestii in tutta fretta e, furtivamente, uscii. L'aria fredda della
notte mi
scivolò addosso, senza però colpirmi.
Camminando spedita mi diressi verso il bosco, inoltrandomi in
profondità.
Era come se ci fossi già stata milioni di volte, eppure non
mi ero mai
avvicinata a quel piccolo mondo.
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Capitolo 5 *** Capitolo cinque - NYMPALIDAE ***
Mi
svegliai di buonumore quella mattina. Era domenica, il mio giorno
preferito. La passeggiata nel bosco della sera prima mi aveva
tranquillizzata
abbastanza da poter finalmente dormire. Scesi di corsa a fare
colazione. Mamma
era già sveglia da un pezzo, aveva un quadro da finire che
la ossessionava da
un po’. Papà era probabilmente già
uscito per andare a vedere una partita di
basket con gli amici. Preparai il mio spuntino, un bicchiere di succo
di
arancia e un muffin, e corsi di nuovo in camera mia.
Avevo ancora un paio d’ore prima che Matt, Alan e Christine
venissero a casa
mia per il progetto di inglese. C’era stata una lotta
incredibile per decidere
il luogo d’incontro, durante le lezioni, e alla fine venne
deciso che fosse
casa mia. Mia madre sarebbe uscita, quindi non ci sarebbe stato nessuno
a
disturbarci.
Mi vestii con una felpa grigia e pantaloni della tuta, e tornai in
cucina per
preparare il pranzo.
“Tesoro! Non ti dispiace se esco un po’ prima,
vero?”
“Certo che no, mamma!”. Ero stupita da quella
domanda. “Perché, dovrebbe
dispiacermi?”
“Era solo per chiedere.” Mi rivolse un caldo
sorriso, prima di ritornare a
dipingere.
“Tra quanto te ne vai?”
Ci pensò su, prima di rispondermi. “Tra circa un
quarto d’ora, forse venti
minuti.”
“Quindi non pranzi con me..”. Cercai di nasconderle
il mio sguardo deluso. Non volevo
che evitasse di uscire per colpa mia. “Divertiti!”.
Mi preparai un pasto misero. Mi era passata la fame, quando avevo
aperto il
frigo.
“Allora io vado, tesoro. Buona fortuna con la vostra
ricerca!”.
Non aspettò nemmeno la mia risposta. Stava tornando tutto
come prima che
accadesse il mio incidente.
Uno schifo.
Mentre mi crogiolavo nei miei tristi pensieri, suonò il
telefono.
“Ciao dolcezza!”. Era Christine.
“Ciao Chris! A che ora vieni, oggi pomeriggio?”.
Avevo un sospetto sul perché
avesse chiamato.
“Ecco… È proprio di questo che volevo
parlarti. Vedi… I miei mi hanno costretta
ad andare a casa di mia nonna, a Seattle, per un paio di giorni.
Quindi… Ehm…
Oggi non posso venire!”.
I miei sospetti erano fondati, dunque. Sospirai mentalmente.
“Oh… Beh non preoccuparti, faremo noi la ricerca e
poi ti daremo gli appunti.”
“Grazie! Sei proprio un amore!”.
Passò così I restanti minuti della telefonata, a
ringraziarmi di continuo e
dirmi che mi doveva un favore.
Riattaccai. Questa volta sospirai rumorosamente. Odiavo quando mi dava
buca
così. Cercai di non pensarci e mi distesi sul divano a
guardare il televisore,
in attesa. Due ore dopo qualcuno suonò il campanello. Erano
Matt e Alan.
“Benvenuti! Prego, accomodatevi!”. Li portai in
soggiorno.
Matt fu il primo a parlare. Avevano entrambi delle facce strane.
Incuriosite?
Sospettose?
“Ho portato una torta, pensavo ti avrebbe fatto
piacere.”
Lo ringraziai e portai la torta in cucina.
Sarà un lungo, lunghissimo
pomeriggio.
Dopo aver offerto loro la torta e qualcosa da bere iniziammo a lavorare.
La ricerca era da fare su un autore inglese di poesie o racconti brevi.
Vita,
opere… Insomma, il solito. A noi era stato assegnato William
Shakespeare.
Scontato, ma era stato ad estrazione, quindi non avevamo scelta.
Per due ore scrivemmo senza sosta, aiutati da internet e vari libri di
scuola.
Eravamo tutti di poche parole, quindi nessuno parlò per un
po’.
Finito il tutto mi accasciai sulla sedia. Non sopportavo le ricerche,
ai miei
occhi erano inutili. Matt e Alan fecero lo stesso.
“Vi va qualcos’altro da bere, ragazzi?”.
Matt mi rivolse uno sguardo
riconoscente, e Alan annuì, in silenzio.
Quel ragazzo proprio non riuscivo a capirlo.
Mi diressi in cucina, e preparai del succo e dei panini. Sicuramente
avevano
fame. Quando tornai in soggiorno stavano parlottando tra di loro in
modo
concitato e a bassa voce, ma appena entrai nella stanza si bloccarono
subito.
“Ho fatto qualche panino, immagino abbiate
fame…”. Mi sentivo a disagio.
L’atmosfera era cambiata.
“Grazie, ero proprio affamato!”. Mi rivolse un
sorriso, cercando di mitigare il
clima di tensione che si era creato.
Presero il cibo in silenzio. Le loro espressioni non mi convincevano.
Sembravano preoccupati e, allo stesso tempo, pronti a combattere.
Molto strano.
Diedi un morso al mio panino, cercando di evitare i loro sguardi.
L’aria era sempre più pesante, e la nausea che
provavo per il cibo nelle mie
mani sempre più forte.
Appoggiai il panino e bevvi un sorso di coca.
Matt e Alan mi guardavano di sottecchi, pensando che io
non me ne fossi
accorta.
Ero sempre più tesa. Avevo i nervi a fior di pelle per chi
sa quale motivo.
Eppure ero lì, con le gambe e le braccia rigide come marmo,
aspettando
qualcosa.
Cercai di distrarmi guardando in giro per la cucina. Ciò che
attirò la mia
attenzione fu un piccolo foglio di carta quadrato, proprio al centro
del
tavolo. Non lo avevo notato prima, durante la ricerca.
Rimasi incantata a
fissarlo. Non era
vuoto, c’era un disegno al suo interno che non avevo mai
visto.
Quasi non mi accorsi che i ragazzi mi stavano osservando apertamente,
senza
nasconderlo. Ero troppo presa da quei simboli sul foglio. Allungai il
braccio,
senza pensarci. Era come se ilo mio corpo si muovesse da solo. Lo presi
in
mano, molto delicatamente, come se potesse sparire da un momento
all’altro.
Matt e Alan erano rimasti in silenzio, fino a quel momento. Matt mi
chiamò, più
e più volte, ma io non risposi.
Improvvisamente il foglietto prese fuoco. Gridai per lo spavento,
alzandomi
dalla sedia di colpo.
I due ragazzi non sembravano sorpresi dell’accaduto. Mi
guardavano con una
strana espressione sul volto, la loro preoccupazione era evidente.
Mi guardai le dita bruciate. Il contatto col fuoco non era stato molto
lungo,
eppure sembrava che avessi messo le mani sul fornello. Enormi chiazze
rosse
erano comparse non solo sulle dita, ma anche sui polsi e sui palmi. Non
capivo
cosa stesse succedendo, il dolore era così intenso da
annebbiarmi la mente.
Matt si alzò per primo, seguito a ruota da Alan. Presero la
loro roba e si
avviarono verso la porta.
Prima di uscire, Matt mi salutò.
“Noi ce ne andiamo, Ophelia. Fai attenzione.”
“Andate… Sì…” Ero
ancora troppo scossa per formulare una frase coerente. Stavo
ancora fissano le bruciature.
Cos’è successo?
Andai lentamente a sedermi sul divano della cucina, senza mai
distogliere lo
sguardo dalle mie mani.
I segni stavano già scomparendo, eppure il dolore era ancora
fortemente
presente.
Rimasi lì per un paio d’ore, con lo sguardo perso,
fino al ritorno di mia madre.
Quando mi vide i quello stato venne ad abbracciarmi di corsa,
preoccupata.
“Tesoro, che è successo? Stai bene?” Era
talmente agitata che tremava.
“Bene… Sto bene…” Cercai di
rassicurarla, ma non fu sufficiente.
“Puoi dirmi che è successo? Quei ragazzi ti hanno
fatto male? Se scopro…”
Mi tappai le orecchie, urlando. Mi alzai di scatto, facendole perdere
l’equilibrio.
“Troppo rumorosa.” Esplosi. Tutta la calma che
avevo era svanita in un battito.
C’era solo rabbia dentro di me. Rabbia omicida. Mi avviai
verso l’uscita, quell’odio
che non si estingueva. Mia madre cercò di fermarmi, ma era
troppo sconvolta per
provarci davvero. Non mi ero mai comportata così con lei.
Uscii di corsa, senza una meta. Era buio, la luna era nascosta tra le
nuvole.
Corsi a perdifiato, senza mai fermarmi. Solo quando fui fuori dalla
città, mi
bloccai.
Qualcuno mi stava seguendo. Erano almeno in quattro.
“Chi siete?” La voce mi tremava.
Uscirono lentamente dall’ombra. Mi accerchiarono,
escludendomi ogni via di
fuga.
Sono solo in sei.
“Cosa volete da me? Lasciatemi stare!” Il
sangue mi ribolliva nelle vene.
La donna che era davanti a me fu la prima a parlare. Aveva uno strano
accento.
“Non ti muovere. Se vuoi salva la vita, devi venire con
noi.” Fece una pausa
per osservarmi. “Non accetteremo un no come
risposta.”
Lentamente iniziarono a stringere il cerchio attorno a me. Uno di loro
tirò
fuori una pistola, e me la puntò addosso.
La mia rabbia, a questo punto, era mista alla paura.
Cosa vogliono da me, queste persone? Devo
andare via da qui!
Feci un passo indietro, preparandomi per scappare.
Uno. Due. Tre spari.
Caddi a terra, gridando per il dolore. Tutti e tre i proiettili erano
penetrati
in vari punti della schiena.
Il dolore era insopportabile. Urlai ancora e ancora, ma quelle persone
non
batterono ciglio.
La mia testa stava scoppiando. Pensai di morire. Di nuovo.
Il tepore dell’incoscienza stava iniziando a prendere il
sopravvento.
No, non di nuovo. Ti prego, non voglio
morire ancora!
Chiusi gli occhi, annegando nella paura e nella disperazione.
“Oh, cielo! Ti hanno proprio conciata per le feste,
eh?” Una risata.
Riaprii gli occhi, sorpresa. Il dolore era sparito, così
come la paura.
Lei era lì, in mezzo a quelle persone, eppure nessuno
sembrò accorgersi di lei.
Camminava verso di me, con il suo solito ghigno stampato in faccia.
“Cosa ci fai tu, qui?” L’altra me si era
fermata di fronte a me.
“Non essere cattiva! E chiamami Jedis, non
‘l’altra me’. Solo perché sono
identica a te non significa che sono altrettanto stupida.”
Un’altra risata.
“ Cooooomunque… Sono qui per aiutarti, zuccherino!
Tieni!” Mi diede una piccola
fiala di vetro.
Non riuscii a riconoscere il liquido al suo interno. Aprii bocca per
domandarglielo, ma mi fece segno di tacere.
“Bevi, tesoro. Starai subito meglio e potrai uscire da questa
brutta
situazione!” Il suo sorriso non mi convinceva molto, ma
decisi di ascoltarla. L’alternativa
era la morte per mano di quegli individui.
Svuotai la boccetta in un solo sorso. Non avevo tempo di pensare alle
conseguenze.
Sul momento non accadde nulla. Quando alzai lo sguardo, Jedis era
sparita.
Tornai alla realtà, il dolore al fianco ancora forte. Ma
qualcosa era diverso.
Iniziai a tremare. Un calore immenso si diffuse su tutto il mio corpo,
mutandolo.
Tutto ciò che provavo in quel momento era calore. Le ferite
si richiusero in
pochi secondi.
Avevo la vista sfocata, ma cercai di guardarmi attorno. Le persone che
prima mi
circondavano correvano in modo disordinato. Qualcuno urlava, ma non
riuscivo a
sentire bene.
Mi alzai in piedi, traballante.
Sono più alta? Mi sento
così strana…
Davanti a me la donna che mi aveva parlato tirò
fuori una pistola.
Non capii ciò che successe dopo. Avevo perso il controllo
del corpo, riuscivo
solo a vedere quello che facevo.
Mi lanciai contro la donna, lanciando un urlo acuto.
Poi fu buio.
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